Le biografie d'impresa nel Veneto - Centro Studi Ettore Luccini
Le biografie d'impresa nel Veneto - Centro Studi Ettore Luccini
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Storia Economica<br />
a.a. 2003-04<br />
Giorgio Roverato<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
testo comparso in “Protagonisti”, n. 83/2002<br />
e riprodotto ad esclusivi fini didattici
Ricerche e proposte di studio<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
Giorgio Roverato<br />
Uno sguardo d’insieme<br />
La “storia d’impresa” costituisce una branca specialistica della storia economica,<br />
ed indaga i meccanismi di crescita e di successo (ed a volte anche<br />
di insuccesso) di una tra le fondamentali strutture organizzative in cui si<br />
articola la vita associata: l’impresa, appunto. Impresa che è ad un tempo<br />
soggetto economico ma anche “comunità” di individui, almeno <strong>nel</strong>la misura<br />
in cui i lavoratori in essa occupati condividono un tratto più o meno lungo<br />
del percorso individuale di un determinato imprenditore, come essi<br />
partecipano di un senso di comune appartenenza e di identità <strong>nel</strong> rapporto<br />
con il datore di lavoro.<br />
Se praticata “a tappeto”, anche se tale indirizzo di studio è ancora agli inizi,<br />
la storia d’impresa consente di ricostruire i meccanismi di sviluppo di un<br />
territorio dato. Generalmente la storia economica ricostruisce il profilo<br />
economico di un’area, una regione, uno stato, attraverso i grandi aggregati<br />
statistici della contabilità pubblica, <strong>nel</strong> cui contesto le grandi imprese, che<br />
costituiscono l’asse portante dello sviluppo del territorio, vengono necessariamente<br />
privilegiate.<br />
La mia opinione è che per questa via la storia economica non sempre<br />
riesca a cogliere la “qualità” dello sviluppo, che invece può essere meglio
6<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
interpretata attraverso lo studio delle singole imprese.<br />
In quanto settore della storia economica che si occupa della nascita e dello<br />
sviluppo delle imprese, la storia d’impresa trae origine da un interesse<br />
specifico: quello per l’imprenditore in quanto tale. Di conseguenza essa è<br />
portata a chiedersi: quali sono le molle che spingono un uomo a intraprendere?<br />
Quali le risorse che quell’uomo, o quel gruppo di uomini associati<br />
tra loro, riescono a mettere in moto?<br />
Un difetto che può essere individuato in questo tipo di studi consiste <strong>nel</strong><br />
fatto che lo storico tende a privilegiare le imprese di successo, quelle che<br />
hanno costituito, e che magari ancora oggi costituiscono, un punto di<br />
riferimento di un determinato settore. In effetti, le imprese di successo,<br />
contrariamente a quelle che sono fallite o cessate, sono ancora viventi e<br />
quindi conservano al loro interno il materiale archivistico che consente di<br />
studiarne l’evoluzione, mentre le imprese che non hanno avuto successo<br />
sono sparite. Se si vuole capire il motivo per cui sono fallite, fatto non<br />
indifferente <strong>nel</strong>lo studio dell’evoluzione di un territorio o di un settore, è<br />
necessario tuttavia includere anche queste <strong>nel</strong> campo d’interesse dello<br />
storico.<br />
In Italia questo tipo di studi non si è ancora affermato, se non in qualche<br />
caso sporadico, mentre ci sono paesi in cui gruppi di studiosi si sono<br />
dedicati specificatamente a questo settore. Mi riferisco in particolare alla<br />
Germania, dove sono state analizzate molte serie di fallimenti <strong>nel</strong> tentativo<br />
di capire perché, <strong>nel</strong> momento dell’industrializzazione, molte imprese<br />
fallirono, ed in definitiva quali furono le cause che portarono al fallimento.<br />
Il risultato più interessante di questi studi è che ci si è accorti che in realtà<br />
quasi mai le imprese fallivano per incapacità tecnica dell’imprenditore. In<br />
genere l’imprenditore si dimostrava bravo <strong>nel</strong>lo sviluppare il prodotto, ma<br />
non sapeva tenere la contabilità oppure si accorgeva troppo tardi che stava<br />
lavorando in perdita o, ancora, non aveva le competenze per crearsi una rete<br />
commerciale e distributiva.<br />
La storia d’impresa si è sviluppata particolarmente nei grandi paesi<br />
industriali, a partire dall’Inghilterra, dove tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento<br />
iniziarono i primi studi, per passare poi alla Francia, alla Germania e<br />
soprattutto agli Stati Uniti. Qui, <strong>nel</strong> secondo dopoguerra, è fiorita una serie<br />
interessantissima di studi, che praticamente ha permesso di ricostruire<br />
l’intero tessuto delle grandi imprese americane.<br />
In Italia la storia d’impresa è invece iniziata più tardi, all’incirca a metà<br />
degli anni ’70 del Novecento. Il motivo è evidente: l’Italia è un paese a sviluppo<br />
ritardato, e quindi anche la storiografia ne ha risentito nei suoi pro-
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> 7<br />
gressi. Ha pesato anche una certa diffidenza della cultura accademica nostrana<br />
verso questo tipo di storiografia. In sostanza, si è obiettato da parte di<br />
taluni, la storia d’impresa non è altro che una microstoria rispetto ai grandi<br />
aggregati statistici normalmente oggetto delle ricostruzioni d’insieme della<br />
storia economica. Che cosa ci può essa permettere di conoscere in più rispetto<br />
a quanto non ci consentano le serie statistiche?<br />
Non è difficile dimostrare che ciò non è vero. Se andiamo a studiare una<br />
grande impresa leader <strong>nel</strong> suo settore, ci accorgiamo, ad esempio, che <strong>nel</strong>le<br />
carte e <strong>nel</strong>l’evoluzione dell’andamento di questa impresa si condensa la<br />
conoscenza dell’intero settore, perché la grande impresa intrattiene rapporti<br />
con tutti, dalle imprese minori alla pubblica amministrazione, allo Stato. Di<br />
conseguenza, entrare <strong>nel</strong> suo archivio significa accedere alla conoscenza<br />
dell’intero settore. Pensiamo solo al caso della Fiat, i cui archivi sono stati<br />
gradatamente organizzati e messi a disposizione degli studiosi <strong>nel</strong>la bellissima<br />
sede della ex Lancia a Torino.<br />
Con ciò arriviamo a quello che può essere considerato quasi il prodromo<br />
della storia d’impresa in Italia, cioè allo studio di Franco Bo<strong>nel</strong>li sulla Terni<br />
uscito <strong>nel</strong> 1975 e intitolato Lo sviluppo di una grande impresa in Italia: la<br />
Terni dal 1884 al 1962, pubblicato per i tipi della Einaudi Per capire questo<br />
libro occorre soffermarsi brevemente sulle politiche industriali che vengono<br />
sviluppate in periodo fascista, quando con il crollo della banca mista il governo<br />
fu costretto (1933) a dar vita all’Istituto di Ricostruzione Industriale<br />
(IRI), che prese in carico tutte le imprese partecipate dalle banche miste.<br />
La storia dell’IRI è conosciuta: doveva essere un ente temporaneo, doveva<br />
cioè risanare le imprese e riportarle sul mercato, ma la grande crisi mondiale<br />
– i cui effetti pesarono seppur in ritardo anche <strong>nel</strong> nostro paese, a<br />
dimostrazione che la globalizzazione dei mercati era già in atto ed è<br />
tutt’altro che cosa recente – non consentì questo esito. Così <strong>nel</strong> 1937 l’IRI<br />
fu trasformato in ente permanente al quale in sostanza lo Stato delegò<br />
l’esecuzione di una parte della politica economica dato che al suo interno si<br />
trovò riunita la più vasta concentrazione di settori produttivi: dalla siderurgia<br />
alla cantieristica, dalla meccanica alla produzione di elettricità, senza<br />
contare le concessionarie telefoniche interregionali e l’intera gamma delle<br />
linee di navigazione transoceaniche, nonché le ex banche miste (Comit,<br />
Credit e Banco di Roma), convenientemente ridenominate “banche di interesse<br />
nazionale” dato il loro capillare irradiamento <strong>nel</strong> territorio.<br />
È in questo contesto che la Terni pervenne allo Stato. Nel 1933, quando ciò<br />
avvenne, essa non rappresentava soltanto l’impresa di punta della siderurgia<br />
italiana, ma le origini stesse della siderurgia italiana, essendo nata <strong>nel</strong> 1884.
8<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
Per Bo<strong>nel</strong>li, studiare la Terni significava, pertanto, studiare l’intero settore<br />
siderurgico italiano, conoscerne i meccanismi e le difficoltà di crescita, dato<br />
che il settore siderurgico è sempre stato, fino a pochi decenni fa, un settore<br />
di estrema difficoltà <strong>nel</strong>la sua conduzione, se non altro per la povertà di<br />
materie prime esistente in Italia e quindi per la necessità (ed i costi) dell’approvvigionamento<br />
all’estero dei minerali e materiali ferrosi occorrenti.<br />
Fu questa in sostanza la prima storia d’impresa scritta in Italia, alla quale<br />
seguì, come sempre succede quando si parte in ritardo, un grande recupero.<br />
Come c’era da attendersi, questo primo studio fu in parte ignorato dagli<br />
studiosi accademici, e di conseguenza molti si tennero lontani da tale campo<br />
d’indagine fino a quando, all’inizio degli anni ’80, alcuni giovani ricercatori,<br />
che non erano ancora completamente inseriti <strong>nel</strong> mondo universitario,<br />
ebbero il coraggio di cominciare la propria carriera seguendo proprio la<br />
strada aperta da Bo<strong>nel</strong>li. Attraverso un’associazione non accademica –<br />
l’ASSI-Associazione di <strong>Studi</strong> di Storia sull’Impresa di Milano – ebbe inizio<br />
così un lavoro di scavo negli archivi delle imprese, da cui si sarebbe<br />
originata un’ampia messe di studi che ci ha consentito, <strong>nel</strong> giro di vent’anni,<br />
di conoscere quasi tutte le grandi imprese e le problematiche dei settori<br />
produttivi più importanti.<br />
Accedere agli archivi, però, all’inizio non fu facile. <strong>Le</strong> imprese negavano<br />
l’esistenza dei propri archivi, con l’esclusione di quegli spezzoni di carte<br />
detenuti per obblighi fiscali o legati a specifici contenziosi con i fornitori e i<br />
clienti. In realtà, in molti casi l’inesistenza di archivi era reale, anche perché<br />
per un’impresa votata al profitto, l’archivio, una volta cessata la sua funzione<br />
di supporto all’attività amministrativa, non aveva alcun valore e<br />
quindi veniva distrutto. Naturalmente, non sempre questo era vero; piuttosto<br />
<strong>nel</strong>le imprese poteva succedere quello che succede in molte famiglie, per<br />
cui, assolte alle varie incombenze che la gestione degli affari familiari<br />
comporta, si giunge per inerzia a una sorta di stratificazione di carte abbandonate<br />
in un cassetto (<strong>nel</strong> caso delle famiglie, le bollette del telefono, dell’acqua<br />
ecc., le ricevute dell’affitto, gli estratti conti bancari...) di cui spesso<br />
non ci si sovviene più. Di fronte a questa incapacità di sapere ciò che si era<br />
<strong>nel</strong> tempo accumulato, era naturale la diffidenza dell’impresa che negava<br />
l’esistenza stessa di un archivio a rilevanza storica. Una diffidenza che spesso<br />
è più che motivata: l’archivio di un’impresa familiare può conservare,<br />
infatti, non solo le carte contabili, ma anche carte personali dell’imprenditore<br />
e della sua famiglia. Col tempo, questa diffidenza è stata superata grazie<br />
alla percezione di molti imprenditori, che hanno capito di poter sfruttare la<br />
propria storia per arricchire l’immagine dell’azienda.
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> 9<br />
Ovviamente ci sono molti modi di fare storia d’impresa: da un lato c’è la<br />
storia d’impresa classica, quella che tende a ricostruire dalle origini il<br />
percorso dell’azienda e dei suoi aggregati produttivi (costi, innovazioni tecnologiche,<br />
prodotto), dall’altro c’è la storia che immerge l’impresa <strong>nel</strong> contesto<br />
sociale del suo tempo.<br />
Pensiamo, ad esempio, ad un imprenditore che sviluppa, <strong>nel</strong> corso dell’Ottocento<br />
e del primo Novecento, pratiche paternalistiche che danno vita a<br />
un sistema di relazioni con le maestranze fondato sui benefici erogati a<br />
seconda della “fedeltà” del dipendente. In questo caso la storia d’impresa<br />
facilmente deborda <strong>nel</strong>l’ambito della storia operaia e sociale, in cui il profilo<br />
dell’azienda sfuma <strong>nel</strong> rapporto di “dominio” – ma anche di mutua dipendenza<br />
– creatosi <strong>nel</strong> tempo tra imprenditore e lavoratori.<br />
Per converso, può darsi il caso di un semplice profilo biografico, in cui<br />
l’obiettivo dello studioso si concentra non sullo studio dell’impresa, ma<br />
sulla persona dell’imprenditore, che di conseguenza viene narrato a partire<br />
dagli elementi che ne hanno determinato il successo, senza però addentrarsi<br />
più di tanto <strong>nel</strong>la vita tecnico-produttiva, e quindi economica, dell’impresa.<br />
Questo taglio è tipico di lavori brevi, come quelli che troviamo <strong>nel</strong> Dizionario<br />
biografico degli italiani. Si tratta di profili che danno la dimensione<br />
dell’importanza del personaggio e del modo in cui esso si è mosso <strong>nel</strong><br />
mercato, ma non riescono a farci capire fino in fondo come l’impresa funzionava<br />
e, a maggior ragione, come funzionava il settore cui l’impresa<br />
apparteneva.<br />
Accanto a questo tipo di storia d’impresa, praticato dagli studiosi, abbiamo<br />
anche produzioni che non nascono per essere affidate per la loro divulgazione<br />
a case editrici, ma che vengono invece assemblate dagli uffici di<br />
relazioni esterne delle imprese e degli enti pubblici economici per rispondere<br />
ad esigenze di comunicazione. In questa letteratura prodotta dalle<br />
imprese, un tempo (almeno tra gli anni ’60 e ’70) si riscontravano soprattutto<br />
degli intenti giubilari. Poiché il libro veniva pubblicato in occasione<br />
di un certo traguardo raggiunto dall’impresa, come possono essere i<br />
50 o i 100 anni dalla fondazione, gli autori si soffermavano non tanto sulle<br />
problematiche che ne avevano contraddistinto lo sviluppo, ma indulgevano<br />
<strong>nel</strong>la celebrazione dei successi raggiunti. Si tratta in genere di libri fotografici<br />
bellissimi, confezionati con immagini corredate da didascalie o da<br />
brevi introduzioni che descrivono alcuni passaggi, sempre di successo,<br />
dell’impresa, ma che poco ci dicono riguardo alle strategie produttive da<br />
essa <strong>nel</strong> tempo sviluppate.
10<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
Questo materiale, se non è storia d’impresa, costituisce comunque una fonte<br />
utilissima per lo storico, soprattutto <strong>nel</strong> caso degli archivi scomparsi: l’archivio<br />
non esiste più, però abbiamo riproduzioni fotografiche, magari di<br />
imprese che hanno celebrato i cinquant’anni negli anni ’30, che ci consentono,<br />
ad esempio, di vedere la razionalità o meno degli spazi produttivi,<br />
il tipo di macchinari che c’erano dentro, e quindi di capire il livello<br />
tecnologico raggiunto dall’impresa. Queste fonti, assieme a quelle che si<br />
trovano negli archivi delle Camere di Commercio e di altri enti pubblici,<br />
possono consentirci di ricostruire il profilo di un’impresa il cui archivio è<br />
andato distrutto, o di un’impresa pure al suo tempo importante ma ormai<br />
cessata.<br />
Sempre all’interno di questo filone, si collocano altri materiali prodotti dagli<br />
stessi imprenditori, come le auto<strong>biografie</strong>, i diari, gli scritti, gli epistolari.<br />
Un esempio bellissimo di epistolario è quello di Adriano Olivetti, che, dagli<br />
Stati Uniti, scrive in patria, ad Ivrea, dove ha sede la sua ditta, e trasmette<br />
informazioni che mettono in risalto la sua visione della modernità americana<br />
raffrontata con l’arretratezza italiana, percezione che spiega poi molte delle<br />
innovazioni introdotte al suo ritorno, pur mediate con la particolarità del<br />
nostro tessuto produttivo. Anche gli epistolari, quindi, costituiscono, da questo<br />
punto di vista, un elemento interessantissimo a margine della storia<br />
d’impresa.<br />
L’interesse del caso <strong>Veneto</strong><br />
In questo quadro, la situazione del <strong>Veneto</strong> si presenta per molti versi interessante<br />
e originale. Il <strong>Veneto</strong> è stato a lungo descritto, soprattutto <strong>nel</strong>la<br />
vulgata giornalistica, come una regione arretrata – non solo periferica – che<br />
arriverebbe alla modernità e all’industrializzazione solo in tempi molto<br />
recenti, negli ultimi venti, trent’anni. Prima non ci sarebbe stato nulla, salvo<br />
qualche caso sporadico di industrializzazione. Per indicare questa crescita<br />
repentina, o presunta tale, si arrivò a coniare l’espressione “modello veneto<br />
di sviluppo”, dapprima ad opera di esponenti del partito politico all’epoca di<br />
maggioranza assoluta in regione (la Democrazia Cristiana), poi di qualche<br />
sciagurato economista, che si adoperò a dare “copertura” o dignità scientifica<br />
a questa tesi. La diversità di questo modello di sviluppo rispetto al resto<br />
del paese, sarebbe basato sulla presenza della piccola impresa, o meglio<br />
sulla rapida espansione della piccola impresa che, proprio a partire dagli
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> 11<br />
anni ’70, si manifestò in tutta la regione, andando a investire anche quelle<br />
aree marginali rappresentate dal Rodigino e dal Bellunese.<br />
In realtà un modello veneto di sviluppo “altro” non è mai esistito, dato che<br />
l’espansione di piccola impresa che l’avrebbe caratterizzato, quella poi che<br />
diede origine ai distretti industriali o che fece rispuntare dal passato i<br />
distretti industriali di antica manifattura, stava in realtà avvenendo in quegli<br />
stessi anni non solo in <strong>Veneto</strong> ma anche in altre parti d’Italia, ad esempio in<br />
Emilia Romagna, <strong>nel</strong>le Marche, in Toscana e in parte in Friuli, tanto da<br />
indurre alcuni sociologi a parlare di una “terza Italia”, per indicare una Italia<br />
del <strong>Centro</strong>-Nordest distinta da quella del Nordovest, incentrata sulla<br />
presenza della grande impresa ad alta intensità di capitale, e dal Sud<br />
sottosviluppato. Secondo tale ed ancor oggi condivisibile impostazione, l’economia<br />
italiana aveva ormai resa obsoleta la categoria dello storico dualismo<br />
Nord-Sud, mettendo in luce – grazie alla manifattura leggera cresciuta<br />
<strong>nel</strong>le aree prima menzionate, sempre più vivaci ed in parte proiettate, pur<br />
<strong>nel</strong>le piccole dimensioni delle loro imprese, sui mercati internazionali – una<br />
realtà più complessa ed articolata.<br />
Tornando alla vulgata giornalistica di cui parlavo prima, la tesi del<br />
“modello” risulta inconsistente anche per un altro motivo. Un “modello” è<br />
qualcosa che viene progettato, applicato, monitorato per vederne gli effetti,<br />
e quindi corretto se questi risultano diversi da quelli progettati. Un modello<br />
non è una intuizione: è una progettazione dello sviluppo, ed il governo dello<br />
stesso. Ebbene, al supposto “modello veneto” è mancato proprio il “governo”.<br />
Si pensi al sistema di mobilità presente <strong>nel</strong>la nostra regione, intasato e<br />
confliggente con le esigenze di rapidi spostamenti di persone e cose di<br />
un’area in accelerata crescita: e la tangenziale di Mestre è solo una delle<br />
tante, troppe ed antieconomiche emergenze ormai denunciate da tutti. Ma si<br />
rifletta anche sulla politiche a sostegno all’artigianato, e cioè alle piccole<br />
imprese che del <strong>Veneto</strong> costituiscono l’ossatura portante, praticate dall’ente<br />
Regione: dove svariati lustri di contributi a pioggia (il più delle volte poco<br />
più che simbolici) hanno significato la rinuncia totale a qualsiasi politica<br />
dell’innovazione.<br />
L’idea della rapida crescita che sarebbe avvenuta solo negli ultimi venti,<br />
trent’anni, e che costituisce il presupposto della teoria del “modello”, è poi<br />
in realtà smentita da fenomeni industrializzanti che in regione partono<br />
invece molto prima, e che si collocano in un’epoca contemporanea a quella<br />
della prima industrializzazione del continente europeo. La provincia di<br />
Vicenza, l’alto vicentino in particolare, ha gli stessi ritmi di sviluppo delle<br />
altre aree del continente europeo, che <strong>nel</strong>la prima metà dell’Ottocento si
12<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
stavano avviando verso la modernizzazione produttiva. Certo non basterebbe<br />
solo l’emergere dell’impresa laniera (seppure di straordinaria grandezza,<br />
basti pensare alle imprese dei Rossi e dei Marzotto) a determinare un’industrializzazione;<br />
vi sono però altri fermenti che portano a ritenere che il<br />
<strong>Veneto</strong> sia stato a pieno titolo uno degli attori della prima industrializzazione<br />
italiana. Tralasciando la crescita dell’apparato produttivo locale,<br />
pensiamo al ruolo che alcuni imprenditori locali hanno svolto <strong>nel</strong> contesto i-<br />
taliano. Innanzitutto Alessandro Rossi, titolare dell’impresa laniera di Schio,<br />
che costituì, almeno fino agli anni ’80 dell’Ottocento, la più grande impresa<br />
laniera italiana. Questo imprenditore, oltre a fare i suoi concreti (e legittimi)<br />
interessi di capo d’azienda, svolse un ruolo di leadership <strong>nel</strong>l’ambito del<br />
suo settore, fino a diventare il rappresentante degli interessi industriali – o<br />
meglio industrialisti, come si diceva allora – di tutto il paese. Alessandro<br />
Rossi fu dapprima deputato del Regno e quindi Senatore. Egli usò il suo<br />
scranno di parlamentare per fare azione di lobbing, riuscendo, alla fine, a<br />
strappare al Parlamento – un Parlamento allora dominato dalla proprietà<br />
fondiaria e dai rappresentanti delle professioni liberali – vari provvedimenti<br />
a favore dell’industrializzazione del Paese. Provvedimenti che non erano<br />
aiuti economici, ma misure ben precise orientate allo sviluppo delle imprese,<br />
come <strong>nel</strong> caso della legislazione sulle società per azioni, il cui obiettivo fu<br />
quello di permettere alle industrie di intercettare, attraverso più s<strong>nel</strong>le (e<br />
certe) procedure <strong>nel</strong>la costituzione di una società azionaria, danaro fresco<br />
per il capitale di rischio.<br />
In merito vorrei ricordare che all’epoca, e non solo in Italia, le società per<br />
azioni erano sottoposte a un rigido controllo di tipo amministrativo che<br />
spesso si rivelava arbitrario, oltre a richiedere tempi molto lunghi per il<br />
completamento dell’iter di autorizzazione ministeriale ad operare sul<br />
mercato. In sostanza, per costituire una società per azioni bisognava – dopo<br />
il rogito notarile – sottoporre gli atti per la loro approvazione al Ministero di<br />
Agricoltura Industria e Commercio. Il quale ne chiedeva il vaglio al Consiglio<br />
di Stato, che <strong>nel</strong>la maggior parte dei casi imponeva modifiche o correzioni<br />
agli articoli statutari. Rispedite le prescrizioni ai promotori della<br />
società azionaria in attesa di autorizzazione, questi dovevano recepirle mediante<br />
un altro atto notarile di modifica della statuto, poi nuovamente inoltrato<br />
al Ministero: il quale, vagliate le intervenute modifiche, approvava poi<br />
in via definitiva lo statuto societario ed autorizzava finalmente la società ad<br />
operare, e quindi a raccogliere le sottoscrizioni azionarie.<br />
Un iter di questo tipo richiedeva almeno due anni per essere completato. Un<br />
tempo assolutamente eccessivo, anche all’epoca, per poter rispondere effica-
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> 13<br />
cemente ai tempi rapidi tipici delle decisioni economiche: tanto che, piuttosto<br />
di affrontarlo, gli imprenditori preferivano conservare la natura di ditta<br />
individuale alla loro impresa, rinunciando perciò ai propri progetti espansivi,<br />
oppure scegliere la via della formazione di una società di persone, che<br />
tuttavia era inidonea a raccogliere i flussi di risparmio privato che la forma<br />
azionaria avrebbe consentito.<br />
La battaglia di Alessandro Rossi per la liberalizzazione delle società anonime<br />
portò alla fine – in sede di revisione del Codice di Commercio, varato<br />
<strong>nel</strong> 1882 e noto come Codice Mancini dal nome del ministro proponente –<br />
alla tipizzazione delle norme obbligatorie da inserire negli statuti societari, e<br />
quindi ad una drastica velocizzazione <strong>nel</strong>la costituzione delle società azionarie.<br />
Esse non furono più soggette alla autorizzazione governativa, ma solo<br />
alla omologa dei Tribunali di Commercio, chiamati a verificare la rispondenza<br />
degli statuti alle prescrizioni del Codice.<br />
Questa battaglia si accompagnò a quella per tariffe “protezionistiche”, poi<br />
conseguite <strong>nel</strong> 1887, intese a difendere le gracili industrie italiane dalla concorrenza<br />
dei prodotti stranieri, più economici e qualitativamente migliori<br />
delle produzioni nostrane.<br />
Non è un caso che entrambi questi provvedimenti abbiano in buona parte<br />
coinciso con il decollo della nostra industria.<br />
Per ultimo, merita di essere menzionata l’azione di Rossi, in parte riuscita,<br />
volta a creare nuovi e più stretti legami tra la finanza veneta, all’epoca<br />
sostanzialmente immobilista basata com’era sulla rendita dei grandi proprietari<br />
fondiari, e quella dell’area lombarda, ben più dinamica. Essa trovò<br />
modo di esprimersi non solo attraverso la costituzione di imprese societarie<br />
minori con capitalisti extraveneti, ma soprattutto con la scelta strategica di<br />
trasformare (1873) la sua ditta individuale <strong>nel</strong>la più grande (almeno fino a<br />
metà degli anni Ottanta) anonima industriale del paese, coinvolgendovi<br />
investitori e capitalisti lombardi, romani, piemontesi e perfino stranieri,<br />
svizzeri ed austriaci in particolare, ma anche mediante lo svecchiamento<br />
dell’apparato finanziario veneto perseguito con una accorta rete relazionale<br />
con i grandi proprietari fondiari ed i mercanti-banchieri veneti. Una opzione<br />
che presto si rivelò come una vera e propria tecnica di apertura e di integrazione<br />
del <strong>Veneto</strong> <strong>nel</strong>la finanza del giovane regno italiano.<br />
Un altro imprenditore d’eccezione fu Vincenzo Stefano Breda, che <strong>nel</strong> 1872<br />
diede vita in Padova ad una impresa, la “Società Veneta per Imprese e<br />
Costruzioni Pubbliche”, che fu una delle primissime aziende italiane a dedicarsi<br />
ai grandi lavori di costruzione di <strong>nel</strong>le aree urbane: ponti, strade,<br />
fognature, acquedotti, reti ferroviarie minori, grandi immobili, cimiteri
14<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
(quello di S. Michele a Venezia, ad esempio), il tutto conglobato in un complesso<br />
sistema organizzativo. Nella costruzione di questa impresa, Breda fu<br />
buon compagno di strada di Alessandro Rossi, peraltro presente <strong>nel</strong> suo a-<br />
zionariato: ovvero apertura del capitale azionario agli investitori extraveneti,<br />
e soprattutto realizzazione di rapporti stretti con l’apparato pubblico centrale,<br />
spesso appaltante questa tipologia di lavori. Un rapporto, quest’ultimo,<br />
che se da un lato alimentò non poche corruttele con la struttura politica e<br />
l’alta burocrazia del paese, dall’altro portò ad esiti di grande valore imprenditoriale,<br />
come la costituzione della “Società degli Altiforni, Acciaierie e<br />
Fonderie di Terni”, elemento fondativo dell’industria siderurgica nazionale<br />
come magistralmente descritto <strong>nel</strong>lo studio del ricordato Bo<strong>nel</strong>li.<br />
Per raggiungere questo risultato, Breda si alleò con il capitale finanziario<br />
della nuova capitale romana, e con la locale Banca Tiberina (erede di una<br />
precedente Banca Italo-Tedesca) di cui la Società Veneta acquisì in breve il<br />
controllo azionario. Ciò che intendeva realizzare Breda con l’impianto di<br />
Terni era la prima vera acciaieria italiana. Ma a far decollare il progetto fu<br />
un fattore extraeconomico, e cioè una combine politico-burocratica: Breda,<br />
già deputato <strong>nel</strong> collegio di Padova 2, conobbe in anticipo la scelta della<br />
Marina militare italiana tesa a rendersi indipendente dall’estero per la<br />
corazzatura del naviglio da guerra, e della sua intenzione di reperire un impianto<br />
nazionale cui affidare quest’attività. La Società Veneta rilevò tempestivamente<br />
una piccola impresa metallurgica corrente in Terni, la futura<br />
“Società degli Altiforni”, che alla fine fu individuata dalla commissione<br />
incaricata dal Ministero della Marina militare – il cui titolare pro tempore<br />
era, guarda caso, amico personale di Breda – come la più idonea allo scopo.<br />
L’aspetto più inquietante e significativo di questo aspetto della modernizzazione<br />
italiana è rappresentato dal fatto che lo Stato anticipò per ben due<br />
volte, con altrettanti provvedimenti legislativi ad hoc, seppure in conto<br />
future forniture, il danaro occorrente alla Terni per trasformarsi da semplice<br />
fonderia in ferro in moderna acciaieria. In questo modo lo Stato, anche se<br />
non direttamente, ma attraverso un finanziamento anomalo, entrava in pieno<br />
<strong>nel</strong>l’attività economica, tanto che alcuni storici datano dal 1884, l’anno della<br />
costituzione formale della Società degli Altiforni, Acciaierie e Fonderie di<br />
Terni, ed invero forzando gli eventi, l’inizio dell’intervento pubblico italiano.<br />
A margine di questo episodio sarebbe da ricordare come l’avvio travagliato<br />
dell’impresa, che incontrò crescenti difficoltà economiche data la<br />
scelta (discutibile, ma senz’altro avveniristica) del Breda di realizzare un<br />
impianto a ciclo integrato dal controllo della materia prima fino al prodotto<br />
finito, provocò (dopo il crollo della Banca Romana dell’inizio degli anni
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> 15<br />
Novanta dell’Ottocento) il secondo grande scandalo finanziario dello stato<br />
unitario, stante che i lavori per l’approntamento della Terni proseguivano<br />
con difficoltà senza che alcuna piastra corazzata – a fronte delle due successive<br />
anticipazioni ex lege – fosse stata ancora stata consegnata. Attaccato<br />
da più parti, Breda, che <strong>nel</strong> frattempo era stato nominato senatore del Regno,<br />
si difese alla Camera alta in una infuocata seduta dei primi anni ’90<br />
argomentando più o meno così: «Ma cosa vi aspettavate, Signori? Che un<br />
imprenditore spendesse del suo <strong>nel</strong>l’acciaio, e cioè in un affare dagli elevati<br />
costi e dall’esito dubbio? No! Era lo Stato che aveva bisogno di acciaio, e<br />
non avendone le competenze ha chiesto a dei patrioti, a degli industriali, di<br />
farsene carico! E noi, patrioti, lo abbiamo con generosità fatto. Quindi, i ritardi,<br />
e le spese crescenti, non sono stata colpa nostra. Sono la conseguenza<br />
del fatto che l’Italia ha ritenuto di entrare <strong>nel</strong>l’acciaio, e cioè in un settore<br />
difficile, dovendone sostenere gli elevati costi, e l’alea, che nessun imprenditore<br />
avrebbe mai potuto affrontare da solo!».<br />
È una testimonianza significativa questa, perché evidenzia il punto da cui si<br />
origina il deficit strutturale dell’acciaio italiano, che non riuscì per lungo<br />
tempo ad essere competitivo con quello straniero costringendo alla fine lo<br />
Stato ad assorbirlo (e poi, non senza recuperi di efficienza, a gestirlo)<br />
attraverso l’IRI. Ma l’interesse del caso Breda sta appunto <strong>nel</strong>l’aver lo<br />
spregiudicato imprenditore padovano colto, egli e non altri!, anche se<br />
indubbiamente in una combine politico-affaristica dal sapore oggi amaro,<br />
che se il paese voleva modernizzarsi aveva bisogno dell’acciaio, e che solo<br />
con l’improprio finanziamento pubblico allora escogitato ciò avrebbe potuto<br />
avvenire.<br />
Dal <strong>Veneto</strong> supposto periferico, o marginale fino agli anni Settanta del Novecento,<br />
appaiono da questa breve ricostruzione risaltare invece fin da prima<br />
del decollo industriale italiano due messaggi forti: che sono quelli dell’integrazione<br />
finanziaria del paese e della sua modernizzazione attraverso<br />
l’acciaio ed il successivo sviluppo di un’industria meccanica che proprio<br />
sull’acciaio nazionale andò fondandosi.<br />
Questa precoce “centralità” ottocentesca del <strong>Veneto</strong> trovò invero il suo definitivo<br />
affinamento nei primi decenni del Novecento, quando emerse un<br />
personaggio come Giuseppe Volpi, veneziano, presidente della SADE, che<br />
mise mano a quel grande progetto che è stato il Porto Industriale di Venezia,<br />
destinato non solo a ridare una nuova identità ad una Venezia languente, ma<br />
soprattutto a realizzare la definitiva integrazione fra il capitale veneto e la<br />
finanza della parte più moderna del paese, cioè il Nordovest. E, infatti, da lì<br />
scaturì l’alleanza capitalistica che, attraverso la localizzazione a Marghera
16<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
del Porto Industriale e della relativa zona produttiva, fece approdare in laguna<br />
i grandi gruppi ad alta intensità di capitale del Nordovest: la Fiat,<br />
l’Ansaldo, la Montecatini etc.<br />
Su questo sfondo, vi sono alcune caratteristiche dello sviluppo veneto che<br />
conviene riassumere. La prima è che il polo laniero dell’alto Vicentino<br />
nacque sulle antiche competenze manifatturiere della zona. Lì la lana si<br />
lavorava all’incirca dal Seicento, e ciò diede origine ad intere generazioni di<br />
persone adibite a tale attività attraverso la classica trasmissione “del saper<br />
fare” e “dell’imparar facendo”. Lì , inoltre, erano disponibili le risorse necessarie<br />
per sviluppare quell’attività: l’acqua, innanzitutto, necessaria alle<br />
prime lavorazioni di pulitura della lana, e quindi l’energia idraulica, ma<br />
soprattutto la materia prima costituita dalle greggi ovine. Nel momento in<br />
cui partì il sistema di fabbrica, quest’area, che era intensamente investita dal<br />
fenomeno manifatturiero d’ancien régime, fu tra le prime in Europa ad<br />
inserirsi, e proficuamente, pur con alcune contraddizioni, nei nuovi metodi<br />
produttivi.<br />
L’anomalia, ed alla fine vincente, fu costituta dal fatto che, mentre le altre<br />
zone che seguirono gli stessi percorsi, come il biellese e il pratese, crebbero<br />
sulla piccola e media impresa, <strong>nel</strong> polo dell’alto Vicentino ben presto emersero<br />
due grandi imprese, che di fatto monopolizzarono il settore e, soprattutto,<br />
il mercato del lavoro: il lanificio Rossi a Schio e i Marzotto a<br />
Valdagno. La loro presenza, se da un lato rischiò di uccidere il distretto che<br />
si era formato sulla base di tante piccole imprese familiari, svolse dall’altro<br />
un ruolo di primo piano <strong>nel</strong>la diffusione delle conoscenze. Si pensi ai tanti<br />
lavoratori che si formarono all’interno di queste grandi imprese, prima di<br />
allontanarsene magari per mettersi in proprio, o all’addestramento del personale<br />
addetto alla manutenzione e riparazione dei macchinari, che la<br />
meccanizzazione della produzione necessariamente comportava. In quest’ultimo<br />
caso, ora sappiamo che l’impresa meccanica vicentina nacque<br />
anche a partire dalla fuoriuscita da queste fabbriche di tecnici e di operai che<br />
si erano formati proprio <strong>nel</strong>la riparazione delle macchine tessili.<br />
A ciò bisogna aggiungere l’attività di patronage che personaggi come<br />
Alessandro Rossi e, in un contesto diverso, anche Vincenzo Stefano Breda,<br />
esercitarono nei confronti dei grandi proprietari, incoraggiandoli a partecipare<br />
alle attività imprenditoriali e svolgendo un ruolo promozionale verso<br />
le nuove iniziative. Quest’opera, che potremmo definire “pedagogica”, e<br />
spesso, se vogliamo, di un pedagogismo spicciolo, si connette all’andamento<br />
della congiuntura che andò registrandosi <strong>nel</strong>l’Italia del Nord tra gli<br />
anni ’80 e ’90 dell’Ottocento, con l’emergere, ad esempio in <strong>Veneto</strong> lungo
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> 17<br />
l’asse padano che collega Verona a Treviso, ed in un ambito non più<br />
solamente rurale ma anche cittadino, di una miriade di piccole imprese.<br />
Fu questa la prima ondata di piccola impresa che si originò <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong>, alla<br />
quale ne seguirono poi altre nei decenni successivi: dapprima in periodo<br />
giolittiano, quindi <strong>nel</strong> primo dopoguerra, infine e soprattutto negli anni<br />
successivi al miracolo economico, cioè tra la fine degli anni ’60 e l’inizio<br />
degli anni ’70. Che significato ebbe questa diffusione di piccole imprese?<br />
Un significato evidente può essere colto, innanzitutto, <strong>nel</strong>la voglia di molti<br />
individui di migliorare le proprie condizioni di vita. Spesso si trattava di<br />
operai che si mettevano in proprio a partire dalle competenze acquisite <strong>nel</strong><br />
corso della loro attività lavorativa. Non mancavano però anche molti piccoli<br />
mercanti di estrazione cittadina, che cominciarono a produrre ciò che fino a<br />
quel momento avevano solo intermediato, rischiando le loro risorse <strong>nel</strong><br />
divenire imprenditori. Questo è un processo tipico di tutte le industrializzazioni,<br />
in cui il mercante, anche di piccola taglia, tende a frasi imprenditore<br />
attraverso la produzione di ciò che vende o di qualcosa che ad<br />
esso è più contiguo. È evidente che in questo contesto si andarono formando<br />
solo imprenditori di limitate dimensioni, ed interagenti quasi esclusivamente<br />
con il mercato locale. E, tuttavia, non pochi, anche se con fatica, riuscirono<br />
poi a veicolare le loro produzioni su mercati più vasti di quella del paese,<br />
della provincia, o di quella confinante.<br />
Questa è la situazione che ritroviamo ancora a metà del Novecento. Pensiamo<br />
a Padova. Oggi il Padovano, antico granaio del <strong>Veneto</strong>, è un’area<br />
intensamente industrializzata, con imprese che godono di una presenza internazionale<br />
in non pochi settori di elevata qualificazione. Fino agli anni<br />
’50, però, fatte salve tre o quattro grandi imprese con circuiti di distribuzione<br />
nazionale, prima fra tutte la SGIV-Società Generale italiana della<br />
Viscosa (durante la seconda guerra mondiale inglobata <strong>nel</strong> monopolio della<br />
SNIA in tale settore della chimica tessile), <strong>nel</strong> Padovano erano insediate sì<br />
tante piccolissime imprese industriali, ma <strong>nel</strong>la maggior parte tutte incapaci<br />
di uscire per quanto riguarda la distribuzione dal territorio del proprio comune<br />
o da quelli limitrofi, riuscendo solo in pochi casi a raggiungere le altre<br />
località della provincia: il che appariva un evidente sintomo della loro debolezza,<br />
e della loro marginalità.<br />
Sappiamo che col modificarsi dei mercati (e grazie alla crescente domanda<br />
postbellica) questa debolezza andò via via scomparendo: da imprese marginali,<br />
esse via via irrobustendosi riuscirono ad andare ben al di là del<br />
mercato provinciale o interprovinciale o regionale, diventando aziende in
18<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
grado di aggredire non solo il mercato nazionale ma, in non pochi casi,<br />
anche quello internazionale.<br />
Tra le varie ondate di insediamento di piccole imprese che ho citato prima,<br />
una in particolare merita la nostra attenzione. Essa si verifica <strong>nel</strong> corso degli<br />
anni ’30 e si manifesta attraverso un’insolita crescita del numero di iscrizioni<br />
alle Camere di Commercio venete ad opera di imprenditori, ma anche<br />
lavoratori ex dipendemti che iniziano ad “auto-intraprendere”. In un momento<br />
di crisi come quello, vedere che il numero di piccole imprese e di<br />
iscrizioni alla Camera di Commercio è in crescita costituisce un fatto<br />
abbastanza singolare. L’analisi di questa casistica ci dice che si trattava di<br />
persone che intraprendevano perché sapevano del loro licenziamento o<br />
perché temevano, soltanto temevano!, tale esito estremo.<br />
Naturalmente, molte di queste piccole, piccolissime, imprese erano destinate<br />
a chiudere quasi subito, perché i loro titolari non avevano le risorse per<br />
andare avanti. Tuttavia, <strong>nel</strong> momento in cui si andò, <strong>nel</strong> dopoguerra, verificando<br />
un’inversione del ciclo economico, non pochi di quelli che<br />
avevano “intrapreso” e poi erano stati costretti a chiudere, tornarono a intraprendere,<br />
questa volta rimanendo sul mercato. In questo senso, un ruolo<br />
importante giocò anche la sedimentazione di esperienza e di conoscenze, e<br />
la voglia di non darsi per vinti.<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
Arriviamo cosi alle <strong>biografie</strong> d’impresa. Nel <strong>Veneto</strong> questo genere di studi è<br />
ancora relativamente poco frequentato, in parte a causa <strong>nel</strong>la scarsa presenza<br />
di grandi imprese.<br />
Se la storiografia d’impresa in Italia si è occupata soprattutto delle grandi<br />
imprese, <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> essa ne ha trovate poche. Avendole tutte studiate, si è<br />
trovata di fronte a imprese che rappresentavano la leadership di interi settori.<br />
È il caso di Marzotto, un imprenditore che ha operato anche su mercati internazionale<br />
qualificati, e non solo in quelli a valuta povera, come avviene<br />
per i produttori di media dimensione.<br />
Oltre a queste imprese leader, sono state studiate alcune medie imprese del<br />
porto industriale di Marghera, che avevano collegamenti con altre imprese<br />
collocate a Nordovest, ma in sostanza non si è scavato molto. Ciò è dipeso<br />
da un lato dalle difficoltà legate alla ricordata praticabilità degli archivi,<br />
dall’altro dal fatto che un tessuto di piccola e media impresa è difficile da<br />
studiare <strong>nel</strong>la individualità delle singole imprese che lo compongono. In tali
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> 19<br />
condizioni è più facile che vengano prodotte delle <strong>biografie</strong> di singoli imprenditori,<br />
piuttosto che delle monografie d’impresa.<br />
Soffermiamoci in proposito sul Vicentino. Oggi il Vicentino è la terza provincia<br />
più industrializzata del paese, il che trova riscontro anche <strong>nel</strong> fatto<br />
che la locale Associazione degli Industriali occupa un posto di rilievo all’interno<br />
della Confindustria. Essendo oggi la provincia più industrializzata<br />
del <strong>Veneto</strong> e la terza d’Italia, essa presenta un grande numero di insediamenti<br />
produttivi e di profili imprenditoriali di notevole interesse. Possiamo,<br />
ad esempio, citare il Lanificio G.B. Conte di Schio, il Lanificio Cazzola,<br />
sempre di Schio, il Lanificio Ferrarin di Thiene, il Cotonificio Roi di<br />
Cavazzale, le Industrie Saccardo attive <strong>nel</strong> settore di supporto al tessile<br />
attraverso la produzione di spole e navette per la tessitura, la Marzari,<br />
ancora di Schio, che fu azienda pioniera in Italia della fototipia e della produzione<br />
di cartoline illustrate. Oltre a questi, troviamo Brusarosco ad<br />
Arzignano, attivo <strong>nel</strong> settore della concia delle pelli; Pellizzari, sempre ad<br />
Arzignano, che fu uno dei pionieri dell’elettromeccanica in Italia; Laverda,<br />
il cui nome forse è più familiare per via delle moto, ma che iniziò e crebbe<br />
<strong>nel</strong>la produzione di macchinari agricoli; Ceccato a Montecchio Maggiore, la<br />
cui storia sarebbe tutta da raccontare perché la sua è una delle <strong>biografie</strong> più<br />
interessanti dal punto di vista della vocazione all’intrapresa.<br />
Altre <strong>biografie</strong> significative, sempre in ambito vicentino, sono quelle di<br />
Gaetano Zambon, che da un’attività di tipo commerciale <strong>nel</strong> campo dei<br />
prodotti farmaceutici passò poi a produrli, diventando un’impresa che oggi<br />
costituisce una piccola realtà multinazionale; o di Bortolo Nardini, di Bassano<br />
del Grappa, che partì da una grande passione per la grappa diventando<br />
poi un esperto <strong>nel</strong>le tecniche di distillazione, e la cui azienda è oggi conosciutissima<br />
<strong>nel</strong> mondo.<br />
Analizzando questi profili, si nota come il <strong>Veneto</strong> goda di una singolare<br />
presenza di imprese di lunga durata, anche se non di grandi dimensioni.<br />
Basti pensare ad Antonio Conte, del quale esistono diversi profili biografici,<br />
diede vita alla sua impresa – il Lanificio Conte – <strong>nel</strong> lontano 1757, che<br />
risulta essere tra le più longeve aziende italiane ancora in attività. O a<br />
Giuseppe Colbachini, che ancor prima – <strong>nel</strong> 1745 – avviò ad Angarano, un<br />
borgo di Bassano, una piccola fonderia di campane. Ovviamente i clienti di<br />
questo particolare prodotto non potevano che essere le chiese, e siccome<br />
Bassano apparteneva, allora come adesso, alla diocesi di Padova, gli eredi<br />
del fondatore spostarono agli inizi dell’Ottocento la propria attività in quella<br />
città, a poche centinaia di metri dalla Curia, in quel momento il principale<br />
committente. Per farla breve, quest’impresa crebbe arrivando ai giorni no-
20<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
stri, ed è ancora attiva, anche se negli anni Sessanta del Novecento la famiglia<br />
imprenditrice affiancò ad essa un più redditizio business <strong>nel</strong> settore<br />
dei tubi speciali per l’industria e nei prodotti paramedicali.<br />
In questi, e in altri casi simili, è possibile notare come gli imprenditori di<br />
antica origine siano andati presto scoprendo <strong>nel</strong>la longevità aziendale un valore<br />
spendibile sul mercato, e come questa intuizione sia stata a tal punto<br />
interiorizzata da riversarsi <strong>nel</strong> ripetersi dei nomi di battesimo della famiglia<br />
tanto da originare delle vere e proprie dinastie che evocano le pratiche delle<br />
dinastie aristocratiche. Un esempio, ma non l’unico, si ritrova <strong>nel</strong>la famiglia<br />
Conte di Schio proprietaria dell’omonimo Lanificio: dove furono ben quattro<br />
i Giovanni Battista – usualmente ricordati o chiamati con il numero romano<br />
progressivo: Giovanni Battista I, II, III ecc. – a succedersi alla sua<br />
guida<br />
Altri due nomi di lunga durata, le cui attività originarono anch’esse alla fine<br />
del Settecento, sono quelli dei Barovier, che diedero vita ad un’azienda del<br />
settore del vetro a Murano, e dei Bianchi originari di Cibiana in Cadore, la<br />
cui impresa a metà degli anni Cinquanta del Novecento migrò in quel di<br />
Conegliano poi definitinivamente installandosi a Vittorio <strong>Veneto</strong>. La Silca<br />
(Società Italiana Lavorazione Chiavi e Affini), il nome che assunse negli<br />
anni Sessanta l’antica ditta del cibianese Prospero Bianchi, all’origine<br />
piccolo fabbro ferraio, è oggi leader europeo <strong>nel</strong>la produzione di fusti per<br />
chiave e <strong>nel</strong>le apparecchiature per la duplicazione di chiavi di sicurezza.<br />
Mi sono soffermato su questi casi perché la lunga durata è uno degli<br />
elementi caratteristici della storia di un’impresa, vale a dire un fattore che<br />
consente di guardare in prospettiva allo sviluppo stesso del settore alla quale<br />
l’azienda studiata appartiene. Queste storie di lunga durata stanno anche a<br />
dimostrare che la storia industriale del <strong>Veneto</strong> è in realtà una storia antica,<br />
non recente, che affonda le sue radici in parte nei vecchi mestieri, ma che si<br />
fonda anche sulla capacità imprenditoriale di cogliere i momenti di<br />
innovazione. Si pensi ad esempio al già citato Volpi che, operatore di origine<br />
mercantile, non esitò a buttarsi <strong>nel</strong> settore elettrico – la nuova fonte di<br />
energia – intuendone le potenzialità, e divenendo presto l’assertore forse più<br />
coerente della necessità di accentrare <strong>nel</strong>le mani di pochi grandi produttori<br />
la produzione di energia e propugnando la teoria del suo monopolio “naturale”,<br />
più o meno analogamente alla battaglia condotta da J.D. Rockefeller<br />
negli Stati Uniti degli ultimi decenni dell’Ottocento a proposito della raffinazione<br />
del petrolio.<br />
In realtà la storiografia sul <strong>Veneto</strong> industriale presenta un numero più ampio<br />
di <strong>biografie</strong> imprenditoriali rispetto alle storie d’impresa. Una biografia
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> 21<br />
recente (e per certi versi esemplare) è quella che G.L. Fontana ha dedicata al<br />
fondatore della Safilo: Guglielmo Tabacchi pioniere dell’occhialeria italiana.<br />
La ragione principale del numero ancora esiguo di storie d’impresa<br />
vere e proprie, rispetto al ricco tessuto imprenditoriale regionale, sta – come<br />
accennato – <strong>nel</strong>la carenza delle fonti archivistiche interne alle aziende, per<br />
cui risulta relativamente più agevole ricostruire l’attività di un imprenditore<br />
attraverso la documentazione conservata negli archivi pubblici, o <strong>nel</strong>le carte<br />
private degli imprenditori stessi.<br />
In mancanza degli archivi aziendali, esistono tuttavia altre fonti che possono<br />
aiutare lo storico d’impresa, come la pubblicistica politica e gli archivi<br />
sindacali. In effetti, sia i partiti, che soprattutto i sindacati, a partire dagli<br />
anni ’50 spesso hanno prodotto, <strong>nel</strong> corso delle lotte operaie e delle<br />
trattative con la controparte padronale, articolate analisi sulle singole<br />
situazioni aziendali, che possono risultare utili per capire l’ambiente di<br />
fabbrica e l’andamento del processo produttivo. Anche da questi studi non<br />
accademici può emergere una ricca mole di informazioni, tale da compensare,<br />
almeno in parte, la mancanza della documentazione d’impresa.<br />
Un’altra fonte alternativa e integrativa che sta emergendo è costituita dalla<br />
collana “Imprese e strategie” pubblicata dell’ISEDI di Torino e diretta da<br />
Giorgio Brunetti e Giovanni Costa, ambedue docenti di Economia aziendale.<br />
L’impianto dei volumi è di tipo didattico, <strong>nel</strong> senso che serve a verificare,<br />
dapprima attraverso un’intervista all’imprenditore e quindi attraverso<br />
una ricostruzione del profilo storico dell’impresa, alcuni elementi della<br />
teoria aziendalistica. La storia d’impresa è perciò piegata a cogliere i momenti<br />
di snodo dell’impresa analizzata. La prima biografia apparsa è stata<br />
quella sulla Marzotto di Valdagno, sulla quale per altro esistevano già lavori<br />
consistenti dal punto di vista della storia economica. A questa ne sono seguite<br />
altre due: la prima dedicata alla Forall-Pal Zileri, un’impresa di abbigliamento<br />
sartoriale, sempre vicentina, di cui – data la formazione relativamente<br />
recente (1970) – non esisteva alcuna ricostruzione storica; la seconda<br />
affronta invece il caso della Carraro di Campodarsego, <strong>nel</strong> padovano, il cui<br />
percorso evolutivo (dalla produzione di seminatrici e trattori alla componentistica<br />
sofisticata, assali e trasmissioni in genere, per trattori e macchine<br />
movimentazione terra) l’ha insediata in posizioni di leadership mondiale.<br />
Va infine tenuto presente che, poiché ci troviamo in un territorio la cui<br />
economia è basata in gran parte sulla piccola impresa, è naturale che, una<br />
volta studiate le grandi imprese, la ricerca storiografica andrà vai via orientandosi<br />
a questo settore, che costituisce a tutt’oggi un vero buco nero <strong>nel</strong>le<br />
nostre conoscenze. La piccola impresa è difficilissima da indagare: il dato
22<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
significativo per lo studioso non può certo essere la singola piccola impresa,<br />
ma piuttosto l’insieme di imprese di cui essa fa parte, e più ancora le<br />
relazioni che tra esse sono andate consolidandosi. <strong>Le</strong> ricerche, pertanto,<br />
dovranno orientarsi più a capire le pulsioni che motivano la crescita di una<br />
massa vasta di imprese, piuttosto che sui singoli imprenditori e le loro unità<br />
produttive.<br />
Per farlo, possono aiutarci gli studi di Giacomo Becattini sui distretti industriali,<br />
cioè di quelle aree in cui, col tempo, si è formata una particolare specializzazione<br />
produttiva a partire da una comunità di valori e di scambio<br />
produttivi. Nel <strong>Veneto</strong> l’esistenza di questi distretti, o comunità d’imprese,<br />
come forse sarebbe preferibile chiamarle, data spesso da un passato lontano,<br />
anche se non mancano aree cresciute più recentemente.<br />
All’interno di queste comunità d’imprese è possibile non solo ricostruire<br />
l’insieme, ma recuperare qualche profilo di storia d’impresa, che rimanda a<br />
saperi e tradizioni produttive. Un esempio abbastanza recente (1998) è costituito<br />
dai risultati di uno studio sulla Riviera del Brenta, realizzato da G.L.<br />
Fontana, G. Franceschetti e dal sottoscritto per conto dalla locale Associazione<br />
degli industriali calzaturieri (Acrib). Quel distretto calzaturiero si formò<br />
grazie alla sedimentazione di saperi scaturiti, a partire dal 1898, quando<br />
ad opera di tale Giovanni Luigi Voltan di Stra che, emigrato negli Stati Uniti,<br />
tornò in paese con l’idea di riprodurre in piccolo i grandi calzaturifici<br />
meccanizzati da lui osservati a Boston. La fabbrica all’inizio partì bene, dato<br />
il minor costo della produzione meccanizzata: e nei primi decenni del Novecento<br />
già poteva contare su 5-600 addetti. Il successo iniziale dovette però<br />
presto scontrarsi con la diffidenza del consumatore verso un prodotto di<br />
fatto, anche se non completamente, serializzato. Per superare questa difficoltà,<br />
l’imprenditore, sempre mutuando dagli Stati Uniti, costruì una<br />
propria rete distributiva strutturata su negozi di vendita <strong>nel</strong>le principali città<br />
e su una politica di prezzi contenuti che battesse il prodotto artigiano. Una<br />
serie di cause, anche relazionali, portò però a partire dagli anni Venti ad una<br />
graduale fuoriuscita di operai dall’azienda, che si azzardarono a sfruttare in<br />
proprio le competenze acquisite <strong>nel</strong>la fabbrica meccanizzata. Non avendo<br />
tuttavia a disposizione le risorse economiche necessarie a replicare in<br />
piccolo il processo produttivo della Voltan, essi si orientarono ad una<br />
produzione pressoché interamente manuale, trasformando cosi in un prodotto<br />
di qualità l’originaria matrice massificata. L’infoltirsi di queste fuoriuscite,<br />
il crescere di altre imprese via via ingranditesi, con nuovi successivi<br />
esodi di operai spinti all’auto-imprenditorialità, l’applicazione successiva di<br />
una meccanizzazione soft che non rinunciava ad una forte componente
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> 23<br />
manuale delle lavorazioni, andò gradatamente trasformando la Riviera del<br />
Brenta in un distretto che oggi è considerata un’area di eccellenza mondiale<br />
<strong>nel</strong>la produzione di calzature per donna.<br />
Lo studio di un distretto – normalmente composto da una miriade di piccole<br />
imprese, e di qualche azienda di media dimensione – consente, anche<br />
attraverso interviste e colloqui diretti, di mettere in luce non solo le pulsioni<br />
personali all’intraprendere, ma anche la loro trasmissione all’interno delle<br />
famiglie imprenditrici. Analizzando le singole <strong>biografie</strong>, o meglio un campione<br />
di <strong>biografie</strong>, si ritrovano chi si è messo in proprio per migliorare le<br />
proprie condizioni di vita, forse anche sperando di arricchirsi; chi lo ha fatto<br />
perché aveva litigato col padrone, magari perché quel padrone era fascista<br />
(ad es. <strong>nel</strong> caso dei Voltan di Stra) o per la sua arroganza; chi era stanco di<br />
fare otto chilometri a piedi, ogni giorno con il tempo cattivo o buono, per<br />
raggiungere il posto di lavoro, e via elencando.<br />
La storia della piccola impresa, diversamente dalla grande, è perciò una<br />
storia “naturalmente” corale, in cui si incrociano i percorsi e le figure più<br />
diverse.<br />
Certo, per conoscere un distretto bisogna farne l’analisi: come è nato, quali<br />
fenomeni si sono strutturati al suo interno, quali sono le imprese più<br />
significative, quali gli attori che lo governano. Lo studio delle impreseguida,<br />
in particolare, anche se piccole, ci permette di cogliere lo spirito con<br />
cui gli imprenditori che ne erano alla testa sono riusciti a stimolare gli altri a<br />
dotarsi tutti insieme di strumenti organizzativi. È risaputo, infatti, che uno<br />
degli elementi caratteristici del distretto è costituito dalla capacità di mettere<br />
in moto non solo collaborazioni informali tra imprese, attraverso l’interscambio<br />
di semilavorati, ma anche strutture di organizzazione del sistema<br />
locale di produzione.<br />
Un caso classico? Quello delle piccole imprese che non dispongono di<br />
risorse sufficienti per innovare, ad esempio per introdurre una macchina<br />
particolarmente costosa <strong>nel</strong> proprio ciclo produttivo, o per studiare i mercati<br />
di sbocco e le possibili innovazioni di prodotto, od ancora per la formazione<br />
di particolari figure professionali. La risposta sta <strong>nel</strong>la costruzione di<br />
consorzi ad hoc, o di associazioni imprenditoriali dimensionate sul territorio<br />
e sul prodotto, delegati a conseguire con i contributi degli associati quelle<br />
determinate finalità. Ed, ovviamente, la realizzazione di tali operazioni vedranno<br />
l’emergere <strong>nel</strong> distretto di imprese (o meglio di imprenditori) leader,<br />
capaci cioè di coagulare il consenso della maggior parte attorno a tali<br />
obiettivi.
24<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
Lo studio dei distretti, o delle comunità di imprese, od ancora delle areesistema<br />
incentrate su una particolare tipologia merceologica, fornisce in<br />
definitiva uno straordinario strumento di conoscenza delle imprese minori,<br />
ancorché parziale rimanendone fuori le imprese attive in aree non<br />
specializzate.<br />
C’è un’ultima fonte di conoscenza delle imprese venete che va menzionato,<br />
e per il quale si è solo agli inizi, ma che troverà un suo prossimo primo esito<br />
alla fine del 2003. Si tratta del Dizionario biografico degli imprenditori<br />
italiani, edito dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, <strong>nel</strong> quale per la parte<br />
veneta (curatori G.L. Fontana e chi scrive) compariranno una cinquantina di<br />
<strong>biografie</strong> riferite a questa regione, distribuite su tre volumi da qui al 2005.<br />
È ovvio che, trattandosi di un’opera a carattere nazionale, i nomi censiti<br />
riguarderanno solo i casi più significativi: che tuttavia, da soli, ed anche se<br />
taluni rilevantissimi, non riusciranno a rendere compiutamente la complessità<br />
dell’area.<br />
Né vanno dimenticate le numerose tesi di laurea, che ancorché non proseguite<br />
poi in più compiute pubblicazioni a stampa, hanno tuttavia abbozzato<br />
percorsi di ricerca foriere di positivi risultati.<br />
E mi piace, a questo proposito, di citare una ottima tesi da me seguita:<br />
quella di T. Bonazza, Gli Stucky di Venezia: profilo di una famiglia<br />
imprenditoriale tra Otto e Novecento, discussa alla Facoltà di Scienze<br />
Politiche di Padova <strong>nel</strong>l’a.a. 2000-2001, che costituisce il primo studio su<br />
tale (breve) dinastia familiare che tuttavia ebbe un ruolo rilevantissimo<br />
<strong>nel</strong>l’industria molitoria nazionale tra i due secoli. Una tesi che si addentra<br />
molto nei risvolti psicologico-familiari, individuando nei documeti catastali<br />
anche la residenza che gli Stucky acquistarono <strong>nel</strong> 1908, PalazzoGrassi sul<br />
Canal Grande, per trovare, loro stranieri, uno status <strong>nel</strong>l’establishement<br />
cittadino.<br />
Anni fa mi capitò di cominciare a lavorare – anche a partire dalle suggestioni<br />
che mi pervenivano dai lavori più disparati, incluse le tesi di laurea –<br />
ad un “Dizionario biografico degli imprenditori veneti”, ma mi arresi presto<br />
per le difficoltà, soprattutto economiche, che mi si presentarono davanti. E<br />
tuttavia, l’idea continua a non apparirmi peregrina. Forse, con un comune<br />
sforzo dei centri di ricerca di storia contemporanea in <strong>Veneto</strong>, e con il<br />
contributo delle Associazioni imprenditoriali esistenti <strong>nel</strong> territorio, il<br />
progetto potrebbe riavviarsi: restituendo identità a tutte quelle ancor oggi<br />
anonime energie individuali che hanno reso in pochi decenni il <strong>Veneto</strong> una<br />
regione ad alta intensità manifatturiera. E penso non solo alle aree forti<br />
(Vicenza, Venezia, Treviso), ma anche ad aree un tempo marginali come il
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong> 25<br />
bellunese dove – e non solo per merito di Luxottica, Safilo o De Rigo! – è<br />
cresciuta la maggior concentrazione mondiale <strong>nel</strong>la produzione di occhiali,<br />
ma dove anche sono emerse interessanti realtà aziendali.<br />
Come dire, e concludo, che la storia d’impresa in <strong>Veneto</strong> ha innanzi a se<br />
ancora molta – e proficua – strada da percorrere*.<br />
____________________<br />
* NOTA BIBLIOGRAFICA<br />
Questo testo è la revisione della trascrizione, a cura dell’Isbrec, della conversazione<br />
intitolata <strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa in <strong>Veneto</strong>. Come e perché?, svoltasi il 9 dicembre 2002<br />
<strong>nel</strong>l’ambito degli incontri seminariali del Corso di Storia Economica tenuto dalla prof.ssa<br />
Paola Lanaro presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università Cà Foscari di<br />
Venezia<br />
Sulla storia industriale del <strong>Veneto</strong> esiste poca letteratura specifica, per la quale rimando a<br />
quanto citato in G. Roverato, L’industria <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong>: storia economica di un “caso”<br />
regionale, Padova, Esedra, 1996 ed <strong>nel</strong>le pagine dedicate alla regione da G.L. Fontana, a<br />
cura di, <strong>Le</strong> vie dell’industrializzazione europea. Sistemi a confronto, Bologna, Il Mulino,<br />
1997. Tipologie di <strong>biografie</strong> d’impresa o di imprenditori veneti sono riscontrabili nei<br />
seguenti testi: C. Chi<strong>nel</strong>lo, Storia di uno sviluppo capitalistico. Porto Marghera e Venezia,<br />
Roma, Editori Riuniti. 1975; C. Chi<strong>nel</strong>lo, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del<br />
"problema di Venezia", Venezia, Marsilio, 1979; G.L. Fontana, a cura di, Schio e<br />
Alessandro Rossi. Imprenditorialità, politica, cultura e paesaggi sociali del secondo<br />
Ottocento, voll. 2, Roma, Edizioni di Storia e <strong>Le</strong>tteratura, 1985-86; G. Roverato, Una casa<br />
industriale. I Marzotto, Milano, Angeli, 1986; G. Roverato, Gaetano Marzotto Jr: le<br />
ambizioni politiche di un imprenditore tra fascismo e postfascismo, "Annali di storia<br />
dell'impresa", 2, 1986; G. Toffanin, I novant'anni della Grassetto, Padova, Editoriale<br />
Programma, 1992; G.L. Fontana, Mercanti, pionieri e capitani d'industria. Imprenditori e<br />
imprese <strong>nel</strong> Vicentino tra '700 e '900, Vicenza, Neri Pozza, 1993; G. Roverato, a cura di,<br />
Una famiglia e un caso imprenditoriale: i Morassutti, Vicenza, Neri Pozza, 1993; G.L.<br />
Fontana, G. Franceschetti e G. Roverato, 100 anni di industria calzaturiera <strong>nel</strong>la Riviera<br />
del Brenta, Stra-Venezia, Acrib, 1998; G.L. Fontana, Guglielmo Tabacchi pioniere<br />
dell’occhialeria italiana, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2000; G.L. Fontana e<br />
G. Roverato, Processi di settorializzazione e di distrettualizzazione nei sistemi economici<br />
locali. Il caso veneto, in Amatori-Colli, a cura di, Comunità di imprese. Sistemi locali in<br />
Italia tra Ottocento e Novecento, Bologna, Il Mulino, 2001; M. Massignani, La Ceccato<br />
S.p.A.: storia d’impresa, storia operaia (1938-1957), “Quaderni del Centenario della<br />
Camera del Lavoro di Vicenza (1902-2002)” n. 1/2002, supplemento al n. 22/2001 di
26<br />
<strong>Le</strong> <strong>biografie</strong> d’impresa <strong>nel</strong> <strong>Veneto</strong><br />
“materiali di storia”. A proposito del bellunese, al cui carattere significativo ho accennato<br />
<strong>nel</strong> testo, consiglio la lettura del fascicolo Notizie sulle condizioni industriali della<br />
provincia di Belluno, pubblicato in "Annali di statistica", Serie IV, fasc. L (n. 33 della<br />
Statistica industriale), Roma, 1891, meritoriamente ristampato non molti anni or sono dalla<br />
locale Associazione degli Industriali. Tale fascicolo è prezioso, perché fornisce un catalogo<br />
ragionato delle attività manifatturiere provinciali di fine secolo, dalle quali può essere<br />
agevole, tramite l’archivio storico della locale Camera di Commercio, risalire via via alla<br />
crescita manifatturiera, e quindi imprenditoriale della provincia.