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quaderni giugno 2010.pdf - Collegio San Giuseppe - Istituto De ...

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PERIODICO GIOVANILE<br />

DI CULTURA E SPORT<br />

Anno XXV N. 5-6<br />

Maggio Giugno 2010<br />

Direttore responsabile<br />

Virginio Mattoccia<br />

Hanno collaborato<br />

a questo numero:<br />

Alberto Tornatora, Marco Alocci, Edoardo<br />

Pistone, Duilio Cerini, Francesca Mascagna,<br />

Alessia Amato, Francesca Corsi,<br />

Emanuele Costa, Tiziana Daga, Andrea Testa,<br />

Carlo Benedizione, Domiziana Bergodi,<br />

Emanuele Spedicato, Ernesto Michieli,<br />

Giorgio Alecce, Goffredo Forconi<br />

Fotografie:<br />

Luxardo, fr. Lucio, fr. Virginio.<br />

Composizione, impaginazione<br />

e prestampa:<br />

SATIZ (gruppo ILTE)<br />

Stampa:<br />

ILTE SpA Moncalieri (TO)<br />

Edizione "Blutime"<br />

Via S. Sebastianello, 3-Roma<br />

Autorizzazione n. 242<br />

del 9 maggio 1986<br />

del Tribunale di Roma<br />

SOMMARIO<br />

Concorso letterario<br />

Biennio<br />

Triennio<br />

Caravaggio<br />

T. Daga - Io… Michelangelo Merisi<br />

E. Costa - Caravaggio a Roma<br />

A. Tornatora - Padri e figli:<br />

identità a confronto<br />

A. Tornatora - Il Gattopardo<br />

Pirandello<br />

E. Costa - Videoforum sulla Famiglia<br />

A. Testa - Una mattinata pirandelliana<br />

La triade pirandelliana:<br />

parola, teatro, vita<br />

D. Bergodi - Evoluzione dell’idea<br />

di cinema in Pirandello<br />

Copertina Bernini, Anchise, Enea, Ascanio: elaborazione<br />

della prof. Filena Barrea<br />

Distribuito gratuitamente presso il collegio<br />

S. <strong>Giuseppe</strong> - <strong>Istituto</strong> <strong>De</strong> Mérode<br />

controllare<br />

sommario<br />

C. Benedizione - Come Pirandello<br />

perse la sua battaglia<br />

col cinema<br />

L. Catalano - Proposta di una<br />

lettura “trasversale”<br />

del romanzo di<br />

Pirandello sul cinema<br />

E. Spedicato -


Nell’ottobre del 1919 il gruppo “ Enea, Anchise,<br />

Ascanio” veniva collocato su una base cilindrica<br />

in una sala del pianterreno di Villa Borghese.<br />

La scultura realizzata da Gianlorenzo Bernini,<br />

forse in collaborazione con il padre, ci rappresenta,<br />

con la sua forma a “serpentina” un<br />

modello di sapore ancora manierista, ma<br />

soprattutto evidenzia un valore di grande virtù<br />

e devozione, ben descritto nel celebre episodio<br />

dell’Eneide.<br />

È Virgilio stesso, infatti, che ci descrive Enea<br />

assommando in lui la duplice identità di<br />

figlio e di padre: figlio di Anchise e padre<br />

di Ascanio, Enea fugge dall’incendio di<br />

Troia recando sulle spalle Anchise, vecchio<br />

e paralizzato e il piccolo Ascanio,<br />

che porta con sé l’eterno fuoco custodito<br />

nel tempio di Vesta, mentre il nonno<br />

regge il vaso con le ceneri degli Antenati<br />

e le statue dei Penati, i simboli<br />

sacri del potere troiano, sottratti ai Greci<br />

e condotti in un lungo viaggio ch e<br />

si concluderà cob la fondazione di<br />

Roma.<br />

Per il Bernini il compito di scolpire<br />

questi tre corpi intrecciati drammaticamente<br />

è, inoltre, un’occasione<br />

straordinaria per esibire l’abilità, già spaventosa,<br />

che aveva conquistato nella rappresentazione del<br />

coprpo nelle differenze consistenze che esso assume<br />

nelle varie età della vita.<br />

La copertina di questo numero è realizzata dalla professoressa<br />

arch. Filena Barrea, già docente di disegno<br />

e storia dell’arte al liceo scientifico del S. <strong>Giuseppe</strong>-<br />

<strong>De</strong> Merode.<br />

Su uno sfondo liberamente creato, quasi un’alba primordiale,<br />

è stato inserito il capolavoro del Bernini,<br />

modificando con effetti cromatici i preziosi valori chiaroscurali<br />

e proponendo il gruppo marmoreo nelle tre<br />

diverse angolazioni prospettiche.<br />

Tre sono i punti di vista perché tre sono i protagonisti,<br />

come per mettere in evidenza i rapporti complessi<br />

all’interno dell’asse verticale formato dal padre, dal<br />

figlio e dal figlio del figlio, in un legame solido e inscindibile<br />

come il nucleo vitale di una cellula: è un intreccio<br />

di affetti che ha in sé la grandiosa potenzialità di<br />

vincere ogni violenza e distrazione e distruzione, fino<br />

a creare, generandola, una nuova società.<br />

Filena Barrea<br />

ÿ<br />

Questo quaderno n. 10 è una breve selezione degli<br />

incontri culturali del Liceo nell’anno scolastico<br />

2009-2010 , durante i quali sono stati approfonditi<br />

alcuni temi, dagli insegnanti o dagli studenti stessi:<br />

la paternità in occasione del musical “Mamma<br />

mia”; aspetti della letteratura del ‘900; la famiglia<br />

nel cinema; Pirandello e il cinema; Caravaggio.<br />

5ÿÿ


ÿ<br />

ÿ<br />

sdfsdasdsa<br />

X Concorso letterario Anno Scolastico 2009-10<br />

<strong>Collegio</strong> S. <strong>Giuseppe</strong> - <strong>Istituto</strong> <strong>De</strong> Merode Roma<br />

Biennio Liceo Classico e Scientifico<br />

”I sì e i no alla vita”<br />

1Classificato<br />

Marco Alocci<br />

V Ginnasio B<br />

2 Classificato<br />

Edoardo Pistone<br />

2 Scientifico A<br />

3 Classificato<br />

Duilio Cerini<br />

IV Ginnasio A<br />

Triennio Liceo Classico e Scientifico<br />

”I sì e i no alla vita”<br />

1Classificato<br />

Francesca Mascagna<br />

III Classico A<br />

2 Classificato<br />

Alessia Amato<br />

I Classico B<br />

3 Classificato<br />

Francesca Corsi<br />

5 Scientifico A<br />

Sabrina Livadiotti<br />

Filippo Maria Rea<br />

Sara D’Itri<br />

Alessandro Aronica<br />

Guendalina Bianchi<br />

Alessandro Biotti<br />

Dario Cecchetti<br />

Edoardo Coia<br />

Veronica Cozzi<br />

Patrizio <strong>De</strong> Juliis<br />

Si sono distinti particolarmente gli elaborati di<br />

Triennio<br />

Carlo Fabiani<br />

Manfredi Ferrari<br />

Marco Maria Germani<br />

Francesca Giacomini<br />

Alessandra Graux<br />

Federico Guerzoni<br />

Augusto Migliori<br />

Eleonora Munaretto<br />

Edoardo Prosperini<br />

Emanuele Spedicato<br />

Biennio<br />

Livia Sirna<br />

Veronica Proietti<br />

Damiano Rosi<br />

<strong>De</strong>lia Di Bagno<br />

Chiara Capoccetti<br />

Eleonora <strong>De</strong> Luca<br />

Marzia Di Genua<br />

Veronica Era<br />

Enrico Fenoaltea<br />

Giulia Gambarini<br />

Alberto Mattia<br />

Matteo Pugliese<br />

Rebecca Travasi<br />

6ÿÿ<br />

7ÿÿ


ÿ<br />

ÿ<br />

Concorso letterario<br />

Fjhgsdsa ljhgsadhg<br />

ashdgkash<br />

“Rifiutando il mondo”, “sentendosi rifiutati dal mondo”.<br />

Due forme verbali, una attiva e l’altra passiva, che sembrano<br />

così vicine ma allo stesso tempo tanto lontane.<br />

Due frasi che rispecchiano chiaramente i due personaggi<br />

principali del romanzo e le loro condizioni esistenziali,<br />

segnate da quei due episodi, che ci sembrano<br />

anch’essi così diversi, ma che accomunano ed<br />

intrecciano le vite di Mattia ed Alice.<br />

Un terribile incidente sugli sci e l’abbandono con la<br />

conseguente scomparsa di una sorella ritardata, non<br />

ci aiutano a trovare dei veri e propri punti di contatto,<br />

ma ci supportano nel seguire l’intreccio che si viene a<br />

creare in seguito a questi eventi, che porteranno Mattia<br />

ed Alice a rifiutare e ad essere rifiutati dal mondo.<br />

Due rifiuti che si collegano alla situazione dei due adolescenti:<br />

così vicini ma incapaci di potersi sfiorare davvero,<br />

come due numeri primi gemelli, sempre intervallati<br />

da un numero pari che non consente loro di stare<br />

uno accanto all’altro.<br />

Questa similitudine rappresenta quindi la triste realtà<br />

dei due ragazzi, che, oltre a dover competere con i<br />

loro trascorsi, devono sopportare questa solitudine che<br />

li rende unici al mondo, proprio come due numeri primi.<br />

Quella solitudine che sì ferisce i due personaggi, ma<br />

allo stesso tempo li distingue, e nel caso di Mattia, rende<br />

addirittura felici, felici di rifiutare un mondo che altro<br />

La vita è fatta<br />

di episodi comuni<br />

di Marco Alocci<br />

V ginnasio B -<br />

1° Classificato-Biennio<br />

non può offrire che caos, confusione ed effimere amicizie,<br />

che altro non portano che una profonda delusione<br />

nei confronti del mondo. Quella mescolanza e quell’insieme<br />

di molte persone o cose senza ordine, senza<br />

criterio e senza distinzione che, in sostanza, popolano<br />

disordinatamente il mondo.<br />

Proprio per questo Mattia costruisce intorno a sé una<br />

realtà parallela, che lo distrae dal mondo che lo circonda,<br />

pur ancora interagendo con esso. Il contare i<br />

tetti delle case, le gocce di pioggia, misurare il perimetro<br />

e l’area di una stanza o comunque prestare<br />

attenzione a particolari insignificanti, non è mosso<br />

solo da una passione scientifica, ma rappresenta un<br />

modo per eludere una realtà volatile, sconfortante ed<br />

amara.<br />

Qualcosa di invisibile per Mattia, perché totalmente<br />

inappagante. Al contrario Alice è insoddisfatta di ciò<br />

che una realtà parallela può offrire, cercando in ogni<br />

modo di entrare in quel mondo che tanto significa per<br />

lei. Quel mondo che, pur rifiutandola già dalla tenera<br />

età, la ragazza cerca di conquistare, e cercare<br />

inutilmente di raggiungere usando i metodi più particolari,<br />

finisce solo per incappare in quell’abisso che<br />

fin da adolescente la porterà alla malnutrizione, ed<br />

in seguito, all’anoressia.<br />

Alice crede di poter essere accettata dal mondo rifiutando<br />

la vita, ma contraddicendo se stessa con le proprie<br />

azioni e vedendo sempre di più allontanarsi quel<br />

mondo che tanto aveva bramato fin da giovane. Il<br />

suo “no” alla vita è nettissimo, ma purtroppo la ragazza<br />

non sembra accorgersene, rifiutando il sostegno di<br />

suo marito Fabio e del suo datore di lavoro, conosciuto<br />

nel romanzo come il signor Crozza.<br />

Malgrado le opinioni della critica, ritengo che quello<br />

del libro sia un modello difficilmente applicabile<br />

alla società odierna e raramente riscontrabile nelle<br />

persone che ci circondano. Le situazioni di Mattia ed<br />

Alice rappresentano infatti degli esempi drammatici,<br />

più unici che rari, di cui probabilmente siamo perennemente<br />

all’oscuro.<br />

I nostri “si” e “no” alla vita scaturiscono sicuramente<br />

da avvenimenti gravi, ma decisamente più comuni<br />

che comunque lasciano un segno indelebile nell’esistenza<br />

di un uomo. Lasciano un marchio che contraddistingue<br />

queste persone dai loro atteggiamenti, sia<br />

nei confronti del mondo che delle persone.<br />

Eventi come violenze, incidenti, traumi e scomparse<br />

di persone care segnano, soprattutto nell’infanzia, il<br />

resto della nostra vita. Spesso pensiamo che ciò derivi<br />

da eventi straordinari come quelli sopra citati; in<br />

realtà dichiariamo il nostro “no” alla vita solo compiendo<br />

determinate azioni. Fumare, bere alcolici,<br />

assumere sostanze stupefacenti, o più semplicemente<br />

rifiutare il mangiare, offendere i compagni e i genitori<br />

o anche rinnegare la nostra religione sono comportamenti<br />

che, con il passare del tempo, sgretolano la<br />

nostra vita, fino a ridurla in polvere.<br />

Anche gli avvenimenti che ci sembrano più comuni rappresentano<br />

dei secchi rifiuti alla vita, dei rifiuti dei quali<br />

inizialmente non ci accorgiamo, ma che avranno forti<br />

ripercussioni sul futuro e su ciò che la vita può riservare.<br />

Essa non potrà riservarci nulla per il semplice fatto che<br />

verrà distrutta, con questi comportamenti, prima di<br />

poterci dare le gioie che essa sa offrire. La vita ci riserverà<br />

solo quello che il nostro atteggiamento nei suoi<br />

confronti le permetterà, e proprio per questo dobbiamo<br />

onorarla e mai accantonarla.<br />

La vita ci lega infatti al mondo, e senza di essa ci<br />

andremmo a ritrovare in quella solitudine che tanto ha<br />

condizionato l’esistenza di Mattia e di Alice.<br />

Rischiamo in ogni momento di cadere in quella realtà<br />

parallela che sa portare solo sofferenze, perciò<br />

dovremo sempre rammentare “che la vita è un dono<br />

di Dio, e per questo va rispettata”.<br />

Marco Alocci<br />

Il “filo” per uscire<br />

dal labirinto<br />

di Edoardo Pistone<br />

2 Scientifico A<br />

2° Classificato-Biennio<br />

Cosa sia veramente il dolore sfugge ad ogni definizione.<br />

Perché Forse perché è una cosa che prima o poi<br />

tutti provano, e quando arriva non c’è nulla da fare.<br />

O forse perché esso è un cattivo inquilino, che viene ad<br />

abitare dentro di noi nei momenti più inaspettati, e molte<br />

volte non ci lascia più.<br />

Si tratta di uno dei sentimenti più indescrivibili dell’animo<br />

umano, ti rattrista nei momenti felici e ti affossa nei<br />

momenti difficili.<br />

È completamente soggettivo, ogni individuo lo vive a<br />

modo suo e le sue conseguenze cambiano da persona<br />

a persona.<br />

Per Mattia ed Alice fu devastante. Fu come se le tre Parche<br />

si fossero accanite sul loro filo vitale, sfilacciandolo,<br />

rendendolo quasi inesistente, dello spessore di un crine<br />

di cavallo.<br />

Per quanto riguarda Mattia, la sforbiciata decisiva fu la<br />

perdita di Michela.<br />

In una notte il dolore mise le sue radici in Mattia, costringendolo<br />

a vivere la sua vita da perenne spettatore.<br />

E se per Mattia il colore del dolore è il blu intenso della notte,<br />

per Alice è il bianco. Il bianco della neve, che non le ha<br />

lasciato scampo e si è presa il suo perone e la sua vita.<br />

8ÿ<br />

9ÿ


Concorso letterario<br />

Mattia ed Alice rappresentano due numeri primi, ma<br />

come tutti sanno, i numeri primi sono molti di più; infiniti.<br />

Tanti sono i numeri primi, quante le persone che soffrono<br />

nella nostra società. Queste sono persone fragili, ricolme<br />

di problemi, che sono state, più che segnate, lacerate da<br />

prove troppo difficili a cui la vita le ha sottoposte.<br />

Come ci dice Giordano, essi si scavano un baratro intorno,<br />

impossibile da superare senza caderci dentro.<br />

Sono prigionieri della loro stessa vita<br />

Dapprima tentano di combattere per liberarsi da questa<br />

reclusione, ma fallendo, si lasciano andare nella speranza<br />

che qualcuno le noti e le aiuti a rialzarsi.<br />

Nasce così l’autolesionismo di Mattia, che quasi per<br />

punizione divina si trova a sostituirsi a Michela come parte<br />

debole e problematica della famiglia.<br />

Egli utilizza vetri e bisturi per liberarsi dalle infinite tensioni<br />

che lo opprimono; essendo incapace di aprirsi al mondo<br />

utilizza oggetti acuminati come chiavi che gli permettono<br />

di esistere agli occhi degli altri e di comunicare la<br />

sua morta interiore.<br />

Nascono così anche i disturbi alimentari di Alice, che la<br />

porteranno alla sterilità.<br />

Dopo l’intervento subito, non riesce più a vedersi bella, si<br />

svalorizza, perde il contatto con il proprio corpo ed incomincia<br />

ad odiarlo; cade nel vortice dell’anoressia e della<br />

bulimia, sperando nel suo inconscio che non sia solo<br />

Soledad, la colf, ad accorgersene, ma anche il padre.<br />

Analizzando questi due esempi ci rendiamo conto di<br />

come sia la nostra società a svolgere la parte del carnefice;<br />

persone come Alice e Mattia vengono quotidianamente<br />

isolate e lasciate sole ad affondare nel loro oblio<br />

senza nessuno che le aiuti a risalire.<br />

Non bastano psichiatri e medicinali, il si alla vita, infatti,<br />

va gridato in coro.<br />

Spesso situazioni all’apparenza facili da controllare si<br />

rivelano impossibili da gestire. Infatti non è all’entrata del<br />

labirinto che si hanno problemi, ma è nel mezzo che si<br />

rischia di non tornare più indietro.<br />

Senza Arianna, Teseo, non avrebbe mai sconfitto il Minotauro.<br />

E allora, soltanto basandoci su una società libera dalla<br />

superficialità e dall’egoismo riusciremo a salvare molte<br />

persone, scongiurando il gesto estremo ed aiutandoli a<br />

trovare un senso alla loro vita.<br />

E se “filo” in greco significa “amore” allora, tutti noi dobbiamo<br />

aiutare queste persone, attraverso il nostro “filo”,<br />

ad uscire dal labirinto, e dire si alla vita.<br />

Edoardo Pistone<br />

Nulla può impedirci di<br />

"La solitudine dei numeri primi" non è un libro qualsiasi<br />

poichè affronta un tema molto importante e delicato,<br />

le considerazioni della vita secondo particolari adolescenti,<br />

in questo caso Alice e Mattia, che sono stati vittime<br />

di un tragico episodio che ha segnato molto le loro<br />

vite cambiandole copletamente. Il passo del libro riportato<br />

nella nostra traccia sta a indicare i difficili rapporti<br />

che i due ragazzi hanno con il resto della comunità e<br />

con se stessi. Lei vittima di un incidente che non le permetterà<br />

mai più di camminare correttamente e lui responsabile<br />

della scomparsa della sorella gemella ritardata,<br />

due episodi accaduti durante l'infanzia che saranno ricorrenti<br />

i tutta la loro vita. Al seguito dell'incidente Alice inizia<br />

col passare degli anni a sentirsi isolata dalle altre<br />

persone a causa del suo problema alla gamba, e l'invidia<br />

nei confronti delle sue bellissime compagne la porterà<br />

a seguire una dieta per farsi così finalmente accettare<br />

dal gruppo, ma da una semplice idea della bellezza<br />

e dell'odio per il proprio corpo la ragazza finisce per<br />

diventare anoressica. Nel corso degli anni la ragazza<br />

scoprirà anche di non poter avere figli a causa della tremenda<br />

malattia. Mattia invece cerca di cancellare i sensi<br />

di colpa per la scomparsa della sorella infliggendosi<br />

sognare<br />

di Duilio Cerini<br />

IV Ginnasio A<br />

3° Classificato-Biennio<br />

delle tremende ferite su tutto il corpo e diventa autolesionista.<br />

Ne deriva che lei si sente evitata e odiata dal resto<br />

del mondo, lui evita e odia il resto del mondo. I due<br />

conoscendosi riescono a trovare la completezza l'uno<br />

nell'altra, due ragazzi che odiano il mondo, non capiscono<br />

quale sia il loro ruolo, perchè esistono e perchè<br />

non riescono a mettere fine alla loro esistenza semplicemente<br />

volendolo, interpretano il mondo come null'altro<br />

che un magazzino di dolori e dispiaceri in cui tutte le<br />

speranze sono messe da parte e si pongono una domanda:<br />

"Che senso ha stare qui" E se noi ci poniamo questa<br />

stessa domanda dal loro punto di vista non avremmo<br />

torto a rispondere "Nessuno". La vita, cosa c'è da<br />

dire E' fatta di paura, frustazione, odio, dolore, ma<br />

anche di amore, felicità, bellezza. Questo vuol dire che<br />

la vita non bisogna passarla, piuttosto assaporarla, nel<br />

suo corso sentiremo spesso l'amaro, ma sono certo che<br />

non potranno mancare i momenti in cui sentiremo il dolce,<br />

e per quei momenti conviene aspettare e sperare,<br />

perchè una volta raggiunti ne sarà valsa la pena. La verità<br />

è che bisognerebbe avere due diverse esistenze contemporaneamente<br />

per assaporare la vita in tutto il suo<br />

insieme, e osservarla da due finestre opposte l'una all'altra.<br />

La prima è quella del bene, ovvero ascoltare il mondo<br />

e sentire l'amore, la pace e la famiglia, la seconda<br />

è quella di chi ascolta e sente la guerra, la morte e la<br />

distruzione. Tutte e due vedono una propria realtà,<br />

entrambe giuste, poichè il male può essere equiparato<br />

al bene, per andare avanti l'unica soluzione è saper interpretare<br />

e decifrare il codice dell'esistenza. Credo che<br />

non bisogna dire si alla vita o no alla vita, ma grazie,<br />

perchè è un dono che ci è stato fatto e noi dobbiamo<br />

accettarlo, di certo non possiamo rifiutarlo, ma potremmo<br />

interromperlo a nostro piacimento. La domanda è<br />

"Perchè dovremmo" sono certo che moltissime persone<br />

potrebbero darmi milioni di motivi diversi per farlo, ma<br />

io ne potrei dare miliardi in contrario, semplicemente<br />

poter osservare le stelle di notte, poter camminare in un<br />

prato, svegliarsi la mattina, ognuno di questi è una ragione<br />

di vita e noi dovremmo sorridere e ringraziare il cielo<br />

ogni volta che apriamo gli occhi e osserviamo tutto ciò<br />

che abbiamo intorno e che è stato creato solamente per<br />

noi. Le cose vanno male a tutti molto spesso, certo ci sono<br />

i più fortunati e i meno, ma tutto, qualsiasi cosa, passa e<br />

si risolve nel modo migliore. La vita è bella in qualsiasi<br />

situazione ci troviamo, perchè anche se può accadere<br />

che non riusciamo a realizzare i nostri sogni, niente potrà<br />

mai impedirci di continuare a sognare. E' riportato nel<br />

testo che i due ragazzi si rendono conto che il loro emarginamento<br />

dal mondo "non faceva poi una grande differenza",<br />

ma in realtà non potranno mai saperlo perchè il<br />

loro futuro è dipeso direttamente da loro, se si rendono<br />

conto in sè stessi di non contare nulla è perchè loro hanno<br />

deciso che preferivano così poichè ho la certezza che<br />

con le loro capacità avrebbero avuto entrambi un importante<br />

ruolo nel mondo, ma era più la paura di non trovare<br />

il proprio posto che la voglia di cercarlo. Per quanto<br />

riguarda il "trovare il coraggio di dire si alla vita", chiunque<br />

può riuscirci, le difficoltà sorgono quando bisogna<br />

trovare il coraggio di convincersi di questo "si" perchè tutti<br />

riescono a dire "La vita è bellissima", ma scommetto che<br />

pochi sanno che è vero, è più sempice rendersi conto<br />

che la vita è orrenda perchè possiamo vedere da ogni<br />

parte i segni della morte e della distruzione, è più difficile<br />

trovare la vera bellezza, questo non perchè le cose<br />

belle nel mondo sono poche e nascoste, ma perchè la<br />

bellezza del mondo non bisogna cercarla, bisogna<br />

capirla. In conclusione vorrei dedicare questo tema a<br />

Marco Spinnato, a cui volevo molto bene. Non aveva<br />

capito quanto è bella la vita e si è arreso presto.<br />

Duilio Cerini<br />

10ÿ<br />

ÿ<br />

11ÿ<br />

ÿ


Concorso letterario<br />

L’adolescenza<br />

è una serpentina<br />

barocca<br />

di Francesca Mascagna<br />

III Classico A<br />

1° Classificato-Triennio<br />

L’adolescenza, è risaputo, è un periodo particolare<br />

della vita di una persona. Essa, in una rappresentazione<br />

grafica, troverebbe corrispondenza non<br />

in un punto, né in una linea, ma piuttosto in un fregio,<br />

un arabesco, per nulla semplice da decifrare e<br />

da interpretare. Come è facile confondersi nella articolata<br />

linea serpentina di un ornamento barocco,<br />

perderne il senso, così lo è durante l’adolescenza,<br />

confusa per antonomasia, in cui ognuno è esposto<br />

alla propria fragilità, perdere il senso della propria<br />

vita. Essa è, tuttavia, come ogni periodo di crisi,<br />

anche un’opportunità di crescita; in particolare è il<br />

momento in cui si viene a contatto con la realtà, in<br />

cui cade il “velo di Maya”, per citare Schopenauer,<br />

che avvolge e falsifica le percezioni dei bambini, e<br />

si comincia a vedere tutto più chiaramente, come<br />

dopo aver rimosso una patina opaca. Confrontandosi<br />

con la realtà, conoscendola per la sua effettiva<br />

essenza, o apparenza, o presunte tali, si viene<br />

inevitabilmente a conoscere ogni aspetto di essa,<br />

che si può concisamente riassumere in quella dicotomia<br />

tra bene e male che assilla l’uomo da quando<br />

ha facoltà intellettive. Non essendo più il male<br />

censurato ai nostri occhi, avendo perso quell’innocenza<br />

che un tempo ci avrebbe fatto scegliere senza<br />

riserve l’amore, la filìa, la buona azione, ci troviamo<br />

per la prima volta a dover decidere con<br />

cognizione di causa quale strada intraprendere,<br />

cosa rispondere alla vita che, a suo modo, ci pone<br />

delle domande.<br />

È proprio su questo gioco di domande e risposte<br />

che sono incentrati i due romanzi “Agostino” e “Con<br />

gli occhi chiusi” e le vicende dei loro protagonisti.<br />

Essi si trovano infatti in quel delicato momento della<br />

vita in cui non si è bambini né uomini donne, ma<br />

in cui si gettano le basi per ciò che si diventerà con<br />

le decisioni prese giorno dopo giorno. Ed è questo<br />

processo che si trovano ad affrontare Pietro, Ghisola<br />

e Agostino. Quest’ultimo, ad esempio, in un primo<br />

momento è come cieco, ha “gli occhi chiusi”,<br />

prendendo in prestito l’espressione di Tozzi. Il suo<br />

risveglio intellettuale, quel subitaneo mutamento che<br />

lo trasporta in una nuova fase della sua vita, avviene<br />

in concomitanza con il cambiamento dell’immagine<br />

che ha della madre: ella, da figura angelica e<br />

idealizzata, si trova a rappresentare l’emblema di<br />

una sfera sessuale ancora inesplorata. Le “risposte<br />

alla vita” pronunciate in seguito da Agostino sembrerebbero<br />

tutte affermative: dice sì al fumo, sì ai<br />

furtarelli, sì alla gita in barca con il Saro…eppure<br />

sono negative, perché non pronunciate liberamente.<br />

Libertà è dunque in questo caso libertà di scegliere,<br />

libertà di prendere decisioni conformemente<br />

alle proprie inclinazioni e ai propri desideri, senza<br />

il timore di essere perciò isolati. I “sì” di Agostino<br />

sono in realtà “no”: no alla possibilità di crescere,<br />

no alla prospettiva di guardarsi allo specchio dopo<br />

anni e riconoscersi ancora, orgoglioso di non essere<br />

rimasto vittima delle ipocrisie della società. Il percorso<br />

di Agostino lo porta infine a crescere, ma certo<br />

non nel migliore dei modi, e in ogni caso non<br />

riuscirà mai ad aprire gli occhi completamente. Per<br />

quanto riguarda invece i protagonisti del romanzo<br />

di Tozzi, le loro storie sono diverse, corrono parallele<br />

e poi si intrecciano, si separano e infine si riuniscono<br />

in un’implosione finale. Il “no” più grande<br />

pronunciato da Pietro è quello alla reazione, alla<br />

ribellione contro un padre autoritario e ottuso che<br />

lo castra psicologicamente, nello stesso modo in cui<br />

castra gli animali della sua fattoria, quasi a voler<br />

affermare la sua virilità su ogni altro essere che rientri<br />

nella sua sfera di competenza. Il suo “sì” è invece<br />

all’amore per Ghisola, sentimento mai sopito,<br />

destinato a tracollare solo davanti a una grande<br />

delusione. Ghisola, da parte sua, è un personaggio<br />

ambiguo, incerta nelle sue scelte, che alla fine<br />

le si ritorceranno contro: ella dice sì alle esperienze<br />

della vita, e in virtù di ciò dice no a Pietro, negandosi<br />

la stabilità affettiva rappresentata dal ragazzo.<br />

La scena finale, in cui un deluso Pietro la lascia definitivamente<br />

dopo averla scoperta incinta, rappresenta<br />

la conseguenza delle rispettive scelte e il loro<br />

fallimento.<br />

Questi tre personaggi rappresentano, ciascuno a<br />

modo proprio, differenti vie di rapportarsi alla vita, di<br />

rispondere in maniera affermativa o negativa alle<br />

opportunità che essa offre. È estremamente difficile,<br />

se non addirittura impossibile, fare sempre la scelta<br />

giusta; ciò che è importante è ponderarne bene ognuna<br />

per non pentirsene in seguito. In questa graduale<br />

scoperta della realtà il ruolo principale viene assunto<br />

dal singolo: l’uomo diventa “faber fortunae suae” e si<br />

prepara ad affacciarsi in un mondo che lo metterà<br />

alla prova, sarà crudele e bonario, vendicativo e<br />

indulgente, inospitale e accogliente, avverso e propizio,<br />

ma che è pur sempre il mondo in cui siamo<br />

costretti (e felici) a vivere.<br />

Francesca Mascagna<br />

L’adolescenza<br />

come periodo<br />

di smascheramento<br />

della realtà<br />

di Alessia Amato<br />

I Classico B<br />

2° Classificato-Triennio<br />

L’adolescenza è la dinamica più contorta che l’animo<br />

umano possa conoscere. Darle voce in modo semplice<br />

e lineare è una sfida non indifferente, tanto più se<br />

si pretende di farlo analizzando l’iter formativo di tre<br />

perdenti. Perdenti perché Pietro, Ghìsola e – in misura<br />

molto minore – Agostino si sono rivelati, ciascuno a suo<br />

modo e ciascuno per un motivo diverso – indifendibili<br />

inetti. La loro sconfitta, però, non è un vezzo letterario<br />

dei rispettivi autori; è l’allegoria quasi concreta e tangibile<br />

di come l’adolescenza, fase di delicata transizione,<br />

operi una vera e propria selezione naturale: sono i<br />

sì e i no detti alla vita a determinare la sopravvivenza.<br />

Pensare che la realizzazione umana dipenda da scelte<br />

riassumibili in un monosillabo è destabilizzante, ma lo<br />

è ancora di più la realtà in cui sono repentinamente calati<br />

i nostri tre personaggi. Gli anni passano e l’infanzia si<br />

allontana, la vita si svela, perde quella patina di candore<br />

fiabesco e li risveglia dal torpore dell’innocenza.<br />

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ÿ<br />

13ÿ<br />

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Concorso letterario<br />

Pietro è gracile e cagionevole, ma la sua costituzione è<br />

debole almeno quanto la sua vista. “l’occhio vede tutto,<br />

salvo se stesso” diceva Calvino: niente di più vero<br />

per il personaggio tozziano. Pietro, infatti, vede la<br />

madre, ma non riesce ad amarla fino in fondo; vede il<br />

padre ma i suoi sforzi di instaurare un rapporto non sono<br />

mai sufficienti; vede la possibilità di studiare, ma dopo<br />

un tentativo evanescente e troppo conflittuale ribadisce<br />

un secco no; infine vede Ghìsola, ma non la osserva –<br />

e quando lo fa, quando per la prima e forse unica volta<br />

riesce a pronunciare un sì, è troppo tardi.<br />

Se Pietro è cieco di fronte al mondo, Ghisola può essere<br />

elevata al rango di miope. Ragazza disinibita e ipocrita<br />

prima, donna immorale e voluttuosa poi, rinuncia<br />

senza troppi rimorsi alla dignità e l’amore genuino, in<br />

nome di un’improbabile ascesa sociale. Forse la sua<br />

determinazione, per quanto disonesta, ne fa un personaggio<br />

meno biasimevole: ad ogni modo, identica è la<br />

disfatta, identica l’inettitudine.<br />

Un discorso in parte meno penalizzante può essere fatto<br />

per Agostino che, al contrario di Pietro, è costretto,<br />

vittima delle circostanze, ad aprire gli occhi. L’estate dei<br />

suoi tredici anni lo introduce in una realtà che, sproporzionata<br />

alle sue forze di bambino, lo sovrasta e lo annichilisce<br />

– ma non lo sconfigge del tutto. E allora è sì al<br />

fumo, sì alla sensualità, sì alle cattive compagnie, ma<br />

un imperioso no – forse il suo autocontrollo, forse la sua<br />

neonata quanto fragile maturità di adolescente – non lo<br />

abbandona mai.<br />

In ultima analisi, dunque, cosa accomuna e cosa differenzia<br />

i tre<br />

Pietro ha perso la madre, Agostino il padre, Ghìsola<br />

entrambi: anologo il loro retroterra, simile e al tempo<br />

stesso peculiare l’esito della loro lotta contro la vita.<br />

Pietro cerca rifugio in un amore falso e disperato, unica<br />

oasi di appagamento nell’aridità di un deserto etico e<br />

sentimentale, ma è condannato a un crudo disincanto.<br />

Ghìsola, incapace di vivere, si accontenterebbe di esistere<br />

all’ombra di Pietro: anche in questo caso il fallimento<br />

è doloroso e umiliante.<br />

E Agostino Agostino non placa le sue pulsioni interne,<br />

non risolve il rapporto ambivalente con la madre, non si<br />

fa degli amici e non trova l’amore neanche dietro pagamento.<br />

Eppure Moravia con un’ultima frase penetrante ci<br />

lascia il beneficio del dubbio. È vero: Agostino non esce<br />

di scena da “uomo”, da fiero vincitore, ma, almeno lui,<br />

dopo “molto tempo infelice” lo sarebbe diventato.<br />

Alessia Amato<br />

La realtà va affrontata<br />

Posso affermare di avere quasi varcato il “limitare”<br />

della mia adolescenza, almeno quella anagrafica. Per<br />

carità, molte sono state le scoperte positive fatte, si entra<br />

nel mondo degli adulti (chissà per quale motivo tanto<br />

agognato), ma è sempre così, quelli che si ricordano con<br />

più vivezza sono gli incubi provati davanti alla realtà<br />

che, bruscamente e quasi con gioiosa crudeltà, si è tolta<br />

la maschera, si è svelata per quello che è. Così, brusco<br />

e crudele, è “l’apparir del vero” per Agostino, il tredicenne<br />

protagonista dell’omonimo libro di Alberto Moravia.<br />

La sua è un’iniziazione alla sessualità, un passaggio dall’innocenza<br />

infantile alla realtà e non pochi sono i disagi<br />

che il personaggio dovrà patire: in primis, il profondo<br />

cambiamento che investe il rapporto con la madre.<br />

Agostino aveva un saldo legame con la figura materna,<br />

dovuto anche all’assenza forzata del padre, morto giovane,<br />

era estremamente fiero di mostrarsi in pubblico con<br />

lei, una donna ancora molto attraente sebbene di età<br />

matura, e ne era bambinescamente geloso, così come si<br />

può essere gelosi del proprio giocattolo, quello più bello.<br />

Ora, però, ben diversa è la sua gelosia: essa è avida,<br />

acuta, infelice, portatrice di un sentimento che rasenta<br />

l’ossessione, la bramosia, che rischia di cadere quasi<br />

nella perversione. La madre diventa una donna, lui, lentamente,<br />

smette di essere figlio. Per cancellare, o almeno<br />

affievolire, la sua nuova, sensuale visione della madre<br />

con gli occhi aperti<br />

di Francesca Corsi<br />

5 Scientifico A<br />

3° Classificato-Triennio<br />

tenta anche di entrare in una casa chiusa, di affrontare<br />

così il mondo appena scoperto della femminilità, ma tutto<br />

si risolve in un gran “ buco nell’acqua”.<br />

Svolge una funzione portante nella metamorfosi agostiniana<br />

l’incontro con una banda di ragazzi. Sono proprio<br />

questi ad accelerare la profonda trasformazione di<br />

Agostino (soprannominato da loro “Pisa”); fungono da<br />

“deus ex machina” delle sue azioni e dei suoi pensieri<br />

nuovi, inconsueti, sfacciati (come dice- il Gedo).<br />

Non è questo l’unico scontro con il “vero” per Agostino:<br />

entra , infatti, in contatto con una realtà sociale ben diversa<br />

da quella che era solito frequentare. Lui, figlio di borghesi,<br />

di condizione economica agiata, viene catapultato<br />

tra giovani popolani. Si scontra da un lato con l’impossibilità<br />

di ridursi a ragazzo del popolo, sebbene inizi a<br />

indossare i suoi abiti peggiori, con grande sorpresa della<br />

madre, che non nota il suo cambiamento, dall’altro con<br />

l’impossibilità di ritornare quello che era, di riabbracciare<br />

quella felice innocenza (trova, ormai, “scoloriti” i suoi<br />

vecchi compagni di gioco, i ricchi borghesi di Bagno<br />

Speranza). Agostino non è più un bambino, ma non è<br />

ancora un uomo: “molto tempo infelice dovrà passare<br />

prima che lo fosse”.<br />

Lo smascheramento della realtà è doloroso anche per Pietro<br />

Rosi, protagonista di “Con gli occhi chiusi” di Federigo<br />

Tozzi, trasfigurazione letteraria dello stesso autore.<br />

Fin dall’inizio notiamo come sia gravemente affetto<br />

da cecità spirituale (lo stesso titolo ce lo rivela); non<br />

è in grado di vedere la reale esistenza che Ghisola<br />

conduce, o meglio, non vuole vederla. È il tipico personaggio<br />

inetto che volontariamente decide di bendarsi,<br />

di chiudere gli occhi per non vedere.<br />

Sicuramente ha avuto grande peso in questa sua<br />

scelta il rapporto conflittuale che Pietro ha sempre<br />

avuto con il padre, Domenico, un uomo dispotico,<br />

gretto, attento solo ai guadagni della sua osteria,<br />

che non si relaziona mai con il figlio, se non per<br />

ricordargli quanto sia diverso da come lui avrebbe<br />

voluto. Pietro è sottomesso alla figura paterna; in sua<br />

presenza procede a testa bassa, non solleva mai lo<br />

sguardo da terra, non osa. Per riuscire a sopravvivere<br />

ha assunto un atteggiamento si muta sottomissione,<br />

la scuola è diventata un pretesto per stare lontano<br />

da casa. Anche la madre, Anna, è debole di<br />

fronte a Domenico; ama Pietro, molte volte lo difende,<br />

ma non è in grado di dimostrargli affetto. Per<br />

altro va soggetta a crisi epilettiche che la condurranno<br />

alla morte, evento che renderà Domenico, se possibile,<br />

ancora più aggressivo e scontento.<br />

Tutto ciò concorre a rendere Pietro insicuro, in un<br />

costante atteggiamento difensivo nei confronti della<br />

vita. Solo alla fine riesce ad aprire gli occhi, e solo<br />

grazie ad una lettera anonima. Si reca da Ghisola e<br />

scopre la verità, la sua gravidanza: “Una volta che si<br />

riebbe dalla vertigine che lo aveva abbattuto ai piedi<br />

di Ghisola, lui non l’amava più”. Per la prima volta<br />

Pietro accetta di guardare la realtà ad occhi ben aperti<br />

e di non nascondersi dietro ad effimere illusioni.<br />

Ghisola, a mio avviso, è un caso a parte: prima degli<br />

altri diventa conscia della sua condizione, della realtà<br />

nella quale è immersa e, non contenta, cerca di<br />

migliorarla a spese di Pietro.<br />

Consapevole del sentimento che il figlio del padrone<br />

provava per lei fin dall’infanzia, incoraggiata anche<br />

da un commerciante che la mantiene economicamente,<br />

si prodiga per farsi sposare da Pietro, per fargli<br />

credere che il bambino che porta in grembo è suo,<br />

per nascondergli la sua professione di prostituta.<br />

Grande sarà, però, la delusione che riceverà dalla<br />

vita: capito l’inganno, Pietro dimenticherà rapidamente<br />

l’amore per lei.<br />

Amara, dunque, è la realtà che si presenta davanti<br />

agli occhi di tutti i personaggi, una realtà che momentaneamente<br />

li travolge, turba la loro felicità (per alcuni<br />

decisamente illusoria), induce in loro un profondo<br />

e radicale cambiamento che segnerà le loro vite.<br />

Francesca Corsi<br />

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Caravaggio<br />

Io...<br />

Michelangelo Merisi,<br />

detto Caravaggio<br />

È il maggio del 1606 quando Michelangelo<br />

Merisi da Caravaggio – egregius in urbe pictor –<br />

fugge, malamente ferito, dopo aver ucciso in una<br />

rissa Ranuccio Tommasoni. Da quel momento il suo<br />

destino sarà segnato da una condanna a morte in<br />

contumacia.<br />

Considerato tra i maggiori artisti attivi nella Roma del<br />

primo Seicento, ricercato dai maggiori collezionisti<br />

del tempo e ben voluto da nobili, banchieri e monsignori,<br />

Michelangelo Merisi avrebbe potuto condurre<br />

di Tiziana Daga<br />

come il Giovane con il canestro di frutta della<br />

Borghese al Riposo durante la fuga in Egitto della<br />

Doria Pamphilj – dominati da una tavolozza di tinte<br />

calde e chiare – ad opere distinte da quell’inconfondibile<br />

contrasto di luci e di ombre che diverranno il<br />

marchio distintivo del suo naturalismo.<br />

Si pensi all’effetto che ancora oggi suscitano su di<br />

noi dipinti come le tele Contarelli in <strong>San</strong> Luigi dei<br />

Francesi, o quelle della cappella Cerasi in <strong>San</strong>ta<br />

Maria del Popolo, e ancora lo stupore che provocano<br />

in noi, per la qualità fotografica ma allo stesso<br />

tempo evocativa, opere come l’Amor Vincitore o<br />

Giovane con il canestro di frutta<br />

una tranquilla vita da ricco e stimato pittore. Invece il<br />

ghiribizzoso artista consumò la bruciante parabola<br />

della sua carriera di pittore in neanche vent’anni: dal<br />

suo arrivo a Roma forse nel 1592, dopo un breve<br />

apprendistato nella bottega milanese di Simone<br />

Peterzano, al luglio del 1610 quando la sua esistenza<br />

si conclude tragicamente da fuggiasco, malato e<br />

stanco, sulle spiagge di Porto Ercole.<br />

Aveva 39 anni, 9 mesi e venti giorni.<br />

In questo breve lasso di tempo produce opere di straordinaria<br />

qualità dove con una tecnica pittorica profondamente<br />

innovativa ritrae “dal vero” soggetti d’arte<br />

sacra e profana, passando da dipinti giovanili<br />

l’Amor Vincitore<br />

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Caravaggio<br />

l’Incredulità di Tommaso, entrambe non a caso eseguite<br />

per uno dei suoi più importanti committenti, il<br />

marchese Vincenzo Giustiniani.<br />

La forte aderenza alla realtà, la salda e corposa<br />

struttura pittorica, il gioco di luci che aprono squarci<br />

di tenebre e scoprono un’umanità disperatamente<br />

alla ricerca di redenzione, sono gli elementi che<br />

fanno di Caravaggio l’artista prediletto di quella<br />

elité di colti e raffinati committenti della Roma della<br />

fine del ‘500 alla quale appartengono non solo<br />

Vincenzo Giustiniani, ma Tiberio Cerasi, i fratelli<br />

Mattei e ancora lui, l’eminenza grigia di<br />

Caravaggio, il cardinale<br />

Francesco Maria del Monte.<br />

Parallelamente le sue opere<br />

sconvolgono e conquistano<br />

una folta schiera di artisti contemporanei<br />

che vedranno in lui<br />

l’iniziatore del modo di dipingere<br />

al naturale.<br />

Da Roma a Napoli, da Napoli<br />

a Malta e poi alla Sicilia, fino<br />

alle spiagge della Toscana, la<br />

sua attività è segnata da un crescendo<br />

sempre più concitato e<br />

drammatico delle sue composizioni.<br />

La paura si fa disperazione, si<br />

fa tenebra incupendo la tavolozza<br />

delle ultime opere, come<br />

in capolavori “frettolosi” quali il<br />

Martirio<br />

di <strong>San</strong>t’Orsola<br />

Incredulità<br />

di Tommaso<br />

Martirio di <strong>San</strong>t’Orsola dipinti solo pochi mesi prima<br />

di morire.<br />

Come non notare poi quanto sia sempre più insistente<br />

la presenza di Caravaggio nelle sue opere attraverso<br />

l’autoritratto. Ed è così, in veste di testimone di<br />

quell’ordinaria violenza che solo l’arte è in grado di<br />

sublimare, che lo troviamo autoritratto nei panni del<br />

neofita che compare nel Martirio di Matteo della<br />

Cappella Contarelli (la sua prima opera pubblica), o<br />

in quelli del curioso che spia nella scena della<br />

Cattura di Cristo di Dublino. Ma verso la fine l’artista<br />

da spettatore si fa protagonista della tragedia. Si<br />

pensi all’ossessiva frequenza con cui ritrae scene di<br />

decapitazione da quella di Giuditta e Oloferne della<br />

Barberini a quello straziante<br />

e pietoso testamento<br />

che è il<br />

David e Golia<br />

(fig.6) della<br />

B o r g h e s e ,<br />

Martirio di Matteo<br />

dove nella<br />

testa decapitata<br />

del gigante<br />

Golia è ritratto<br />

lo stesso Cara -<br />

vaggio.<br />

Sono gli anni in cui<br />

Cara vaggio sembra<br />

posseduto da un demone<br />

che lo istiga ai comportamenti<br />

più bizzarri, trascinandolo<br />

in una incredibile<br />

serie di vicende giudiziarie. I documenti al riguardo<br />

sembrano un vero e proprio bollettino di guerra: due<br />

denunce per aggressione nel 1600 e nel 1602; una<br />

querela per diffamazione nel 1603, un arresto per<br />

ingiurie nello stesso anno; una denuncia per morosità<br />

nel 1605; due arresti per porto abusivo di armi nel<br />

1604 e nel 1605; ricercato e condannato in contumacia<br />

alla pena capitale per l’assassinio di Ranuccio<br />

Tommasoni nel 1606; denuncia per rissa a Malta nel<br />

1608 con incarcerazione e rocambolesca fuga.<br />

Nel 1610 viene fermato ed interrogato, forse per<br />

sbaglio, a Palo laziale e pochi giorni dopo – il 18<br />

luglio – muore a Porto Ercole in attesa della notizia<br />

ufficiale della sospirata grazia.<br />

Quest’anno ricorre il quarto centenario della morte<br />

di Caravaggio eppure appare ancora difficile rimanere<br />

indifferenti a quanto raccontato e la straordinaria<br />

vicenda artistica di Caravaggio appare così intimamente<br />

legata alla sua tragica vicenda umana,<br />

David e Golia<br />

così spesso colorita dalle fosche tinte della cronaca<br />

del tempo, da sembrare fatta apposta per suscitare<br />

in noi continuamente riflessioni sul senso dell’arte e<br />

dell’esistenza.<br />

Chi era Michelangelo Merisi, l’artista che alle<br />

accademie preferiva i bordelli, al bello ideale dei<br />

manieristi le popolane e gli umili presi dalla strada<br />

e alla fede bigotta nei dogmi della scienza e della<br />

religione la volontà di verificare con mano, attraverso<br />

l’esperienza diretta della realtà<br />

Gli studi, soprattutto quelli degli ultimi vent’anni,<br />

hanno restituito storicità alla figura di quest’artista,<br />

liberandolo dai molti luoghi comuni di una letteratura<br />

che già nel ‘600 aveva contribuito alla nascita<br />

del mito di Caravaggio pittore maledetto, sorta di<br />

eroe romantico – bohémien ante litteram - permettendo<br />

non solo di ampliare il corpus delle sue opere,<br />

ma di approfondire i motivi di quella “violenza” che<br />

lo vede così spesso implicato in fatti di sangue.<br />

Ma al di là delle molte curiosità appagate sull’uomo<br />

Caravaggio e su questo secolo – il Seicento,<br />

così carico di contraddizioni – rimane l’artista, con<br />

la straordinaria, umana forza delle sue immagini:<br />

angeli, santi, martiri, musici sì … ma veri.<br />

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Caravaggio<br />

di Emanuele Costa<br />

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Caravaggio<br />

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Caravaggio<br />

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Caravaggio<br />

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Caravaggio<br />

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Caravaggio<br />

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Caravaggio<br />

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Caravaggio<br />

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Caravaggio<br />

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Caravaggio<br />

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Incontri culturali<br />

Tizia e Caio presentano<br />

il libro<br />

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inserire didascalie<br />

Alunni col Preside csdffdsdsf<br />

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Pupi Avati<br />

ritira il premio.....<br />

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Incontri culturali<br />

Padri e figli: identità<br />

di Alberto Tornatora<br />

Dalla mitologia classica ci vengono descritti episodi<br />

di padri che uccidono i propri figli: pensiamo a Kronos<br />

il titano che dopo avere evirato il padreUrano si insedia<br />

come Signore del mondo e che, per timore di essere a<br />

sua volta detronizzato, divora i figli appena partoriti da<br />

sua moglie; oppure pensiamo ad Agamennone che non<br />

esita a sacrificare sua figlia Ifigenìa per assicurarsi il buon<br />

esito della spedizione achea contro Troia. Da una altra<br />

prospettiva ci sono i figli che o uccidono i padri ( Edipo<br />

che ignaro compie il nefando delitto) o si vendicano esiliandoli<br />

come fa Zeus il quale riesce a salvarsi dalle fauci<br />

di Kronos grazie all’aiuto della madre e, una volta adulto,<br />

prende il posto del padre. Ancora il mito ci descrive<br />

alcuni comportamenti di figli che non prestano ascolto<br />

alle parole dei padri come nel caso di Fetonte che, di<br />

nascosto a suo padre Helios, sale sulla quadriga, perde<br />

il controllo della corsa e finisce per essere incenerito dal<br />

fulmine di Zeus; oppure il destino occorso allo sventurato<br />

Icaro che non da’ retta ai consigli del padre <strong>De</strong>dalo<br />

e, avvicinandosi troppo al sole, provoca lo scioglimento<br />

della cera con cui il padre gli aveva fissato le ali precipitando<br />

così nelle acque del mare. Fin qui alcuni dei rapporti<br />

conflittuali tra padri e figli nei quali la morte è esito<br />

definitivo ed esemplare. E’ il mito che mostra la sua natura<br />

per lo più tragica.<br />

Anche la letteratura non è da meno. Omero delinea il<br />

profilo di due padri, uno troiano (Ettore) e l’altro greco<br />

(Ulisse) che, per motivi diversi, sono due figure emblematiche.<br />

Ettore, l’eroe troiano destinato ad essere pianto dalla<br />

moglie Andromaca e dal vecchio Priamo, è padre di<br />

Astianatte che nel nome lo ricorda: Astianatte infatti significa<br />

“il Signore della città”. Ettore, prima di affrontare<br />

Achille, vede per l’ultima volta la moglie e il figlio e sorride<br />

dello spavento che la sua armatura provoca al piccolo<br />

Astianatte il quale scoppia a piangere. Allora lo<br />

a confronto<br />

Uno sguardo attraverso il mito, la letteratura<br />

e la religione<br />

prende in braccio e lo solleva augurandogli di essere più<br />

forte e valoroso di lui (Il. VI, 440-479): un gesto sorprendentemente<br />

moderno che non corrisponde ai canoni<br />

comportamentali dell’epoca e che esalta l’umanità dell’eroe<br />

troiano. L’altro figlio che porta nel nome l’impronta<br />

del padre è Telemaco il cui nome significa “colui che<br />

combatte lontano”. E’ così che Penelope ogni volta che<br />

lo chiama può pensare al suo sposo. Per venti anni Telemaco<br />

è vissuto nella assenza del padre, sicuramente supplito<br />

nelle sue funzioni dal nonno Laerte ma le parole che<br />

il giovane Telemaco pronuncia, non sapendo di parlare<br />

davanti a suo padre reso irriconoscibile da Atena, rivelano<br />

un bisogno profondo non soddisfatto: “Se quello<br />

che i mortali desiderano potesse avverarsi, per prima<br />

cosa vorrei il ritorno del padre”. (Od. XVI, 148) A queste<br />

parole Ulisse getta i suoi stracci e rivela la sua identità al<br />

figlio. Un lungo abbraccio bagnato da calde lacrime suggella<br />

l’incontro tra i due che si preparano a combattere<br />

fianco a fianco per ristabilire l’ordine a Itaca.<br />

Mi permetto una piccola osservazione di natura grammaticale<br />

in quanto illuminante per comprendere le caratteristiche<br />

del nuovo rapporto instauratosi tra i due: Omero<br />

costruisce il loro dialogo successivo all’agnizione, ovvero<br />

al riconoscimento reciproco, usando il numero duale e<br />

non un generico plurale; il poeta vuole in questo modo sottolineare<br />

la singolarità e l’indissolubilità del rapporto ristabilito<br />

e cioè che padre e figlio sono una cosa sola per il<br />

legame del sangue e non c’è spazio per nessun’altro.<br />

Tanto evidente e difficile da sopportare è stata per Telemaco<br />

l’assenza di Ulisse quanto evidente e parimenti<br />

pesante da sostenere è stata per Ascanio (il figlio di Enea)<br />

la presenza costante, vorrei dire quasi ingombrante, di<br />

suo padre. E’ Virgilio che ci descrive il cugino di Ettore,<br />

Enea appunto, assommando in lui la duplice identità di<br />

figlio e di padre: figlio del vecchio e malato Anchise che<br />

Enea porta sulle spalle la notte in cui abbandonano Troia<br />

in fiamme e padre di Ascanio conosciuto anche come<br />

Iulo che nel nome ricorda da un lato Ilus/Ilio la città ormai<br />

espugnata dai greci e dall’altro anticipa la futura gens<br />

Iulia; Ascanio , preso per mano dal genitore, si affretta<br />

nella fuga non passibus aequis (“con passi diseguali” En.<br />

II, 707-725). Solo trenta anni più tardi, divenuto ormai<br />

adulto, Iulo potrà avere la sua parte di gloria autonoma<br />

fondando la città di Alba Longa.<br />

Dunque i figli che nei nomi ricordano i padri… anche<br />

Shakespeare segue le orme di Omero e Virgilio. Nella<br />

fredda Europa del nord, in Danimarca e più precisamente<br />

ad Elsinore , non è certo per difetto di fantasia<br />

che il re ucciso con il veleno dal fratello abbia dato al<br />

suo unico figlio il suo stesso nome: Amleto. Il fantasma<br />

del re avvelenato che si aggira di notte vestito della armatura<br />

nei paraggi del castello chiede a suo figlio di essere<br />

vendicato: con il nome si propaga l’identità paterna<br />

e viene sancito l’indissolubile legame di sangue. E’ un<br />

po’ la ripresa di quanto aveva compiuto Oreste impegnato<br />

a vendicare la morte del padre Agamennone vittima<br />

delle trame assassine perpetrate dalla madre Clitemnestra<br />

e dal suo amante Egisto .<br />

I figli, che pure sono portatori di cambiamento, se non<br />

conoscono la propria origine faticano a capire dove<br />

andare, a sapere come individuare una meta. Se è vero<br />

che la madre è l’aria che si respira e la terra sulla quale<br />

si cammina è altrettanto vero che il padre è il punto<br />

fermo, è colui che segna l’inizio, che incarna la storia<br />

(ovvero il passato ed il presente) con cui il figlio deve<br />

confrontarsi per costruire la sua identità (il suo presente e<br />

il suo futuro). Goethe , ad esempio, ne “I dolori del giovane<br />

Werther” descrive il protagonista che abbandona<br />

la città, e la madre che lì si era trasferita dopo essere<br />

rimasta vedova, per tornare nella campagna della sua<br />

adolescenza in una sorta di pellegrinaggio religioso sulle<br />

orme del padre alla ricerca dei valori e della dimensione<br />

spirituale rappresentata dalla identità paterna.<br />

Anche l’Antico e il Nuovo Testamento sono testimonianza<br />

di una continua ricerca del Padre, ma è Gesù che<br />

annunciandosi come Cristo - Messia, il Figlio dell’Uomo<br />

opera un sovvertimento dell’ordine costituito. Il figlio del<br />

falegname <strong>Giuseppe</strong>, di colui che ha rispettato, accogliendola,<br />

la volontà di Dio e che ha molto amato sua<br />

moglie, annunzia di essere il figlio di Dio e che lui e il<br />

Padre celeste sono una cosa sola; Gesù è il figlio voluto<br />

dal Padre che in questo modo ha assunto la natura<br />

umana. Questa è la prima di due trasformazioni radicali<br />

che riguardano il padre: il Padre creatore dell’Antico<br />

Testamento (severo, terribile, potente, misericordioso e<br />

paziente per intenderci il padre-Signore di Abramo, Isacco<br />

, Giacobbe ) diviene in Gesù Cristo il padre genitore<br />

che, per dirlo nella lingua che si parlava in quel tempo<br />

in Palestina (l’aramaico) Gesù chiamava abbà cioè<br />

papà. E questa è la seconda, per l’epoca ancora più<br />

eclatante, trasformazione: nelle preghiere la parola con<br />

cui si invocava il Signore in quanto Padre era abinù ovvero<br />

Padre Signore ma Gesù, chiama suo padre abbà<br />

(ossia papà) ed esorta i suoi discepoli a fare altrettanto:<br />

“Papà nostro che sei nei cieli…”: è così che veniva percepita<br />

dai discepoli la preghiera di Gesù: la preghiera<br />

filiale che sancisce il rapporto fraterno tra tutti i credenti.<br />

Ancora oggi la liturgia nelle parole introduttive della<br />

solenne recita comune del Padre Nostro ricorda l’audacia<br />

di chi si rivolge a Dio per pregarlo (…osiamo dire…<br />

audemus dicere) e, obbedendo a Gesù, lo chiama<br />

padre. È l’enunciazione più semplice e amorosa nei confronti<br />

di Dio privata di ogni pomposità religiosa; abbà,<br />

che nel greco del Nuovo Testamento è stato reso con il<br />

vocativo pàter, e che in alcuni casi lo accompagna<br />

(abbà o pàter ), diventa allora il termine fondamentale<br />

della rivelazione di Gesù e della fede professata dalla<br />

sua comunità: è molto più che la scelta di un diverso registro<br />

linguistico, più intimo, familiare; è piuttosto la trasformazione<br />

radicale di una nuova concezione del rapporto<br />

tra Dio (creatore e genitore) e l’uomo (creatura e figlio).<br />

Come Dante nel Paradiso, con una potente sintesi espressiva,<br />

fa dire a <strong>San</strong> Bernardo“… il suo fattore / non disdegnò<br />

di farsi sua fattura.” (Par. XXXIII vv.5-6)<br />

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Incontri culturali<br />

Il Gattopardo<br />

di G. Tomasi di Lampedusa<br />

di Alberto Tornatora<br />

«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli<br />

che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti,<br />

le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli<br />

e pecore continueremo a crederci<br />

il sale della terra». (cap. IV)<br />

Il Gattopardo è uno dei romanzi più significativi della<br />

letteratura italiana del Novecento: la sua notorietà è<br />

data anche dalla trasposizione cinematografica ad<br />

opera di Luchino Visconti (1963). E’ stato però anche<br />

un romanzo sfortunato e frainteso: il termine ''gattopardesco''<br />

oggi allude all'arte del trasformismo, mentre in<br />

realtà il romanzo di Tomasi di Lampedusa è una visione<br />

controcorrente del Risorgimento visto con gli occhi<br />

dei vinti che sanno che i vincitori saranno peggiori.<br />

Il Gattopardo è l'unico romanzo di <strong>Giuseppe</strong> Tomasi<br />

di Lampedusa, nobile siciliano: scritto<br />

fra il 1954 e il 1957 fu presentato<br />

ad Einaudi e Mondadori che rifiutarono<br />

il manoscritto; Elio Vittorini, consulente<br />

editoriale, bocciò il romanzo che<br />

poi fu pubblicato nel 1958, dopo la<br />

morte dell'autore, dalla casa editrice<br />

Feltrinelli con la prefazione di Giorgio<br />

Bassani.<br />

Il gattopardo era lo stemma della casata<br />

dei Tomasi di Lampedusa, i nobili<br />

siciliani da cui discendeva l'autore:<br />

infatti il protagonista del romanzo, il<br />

principe Fabrizio Corbera di Salina,<br />

altri non è che il bisnonno dell’autore principe Giulio<br />

Fabrizio Tomasi di Lampedusa. La vicenda si svolge a<br />

Palermo e nel feudo agrigentino di Donnafugata negli<br />

anni dal 1860 al 1910, senza una vera e propria<br />

coerenza temporale: e questa è una delle cose che<br />

subito lasciano stupito il lettore: dietro la patina del<br />

romanzo ottocentesco troviamo una struttura novecentesca,<br />

Tomasi mescola Manzoni e Proust con incredibile<br />

abilità.<br />

L’azione del Gattopardo si apre nel 1860, in una Sicilia<br />

feudale e borbonica, turbata nei suoi torpidi sonni<br />

secolari dai “falò che le squadre dei ribelli accendevano<br />

ogni notte”, stranamente simili a quelle luci “che<br />

si vedono ardere nelle camere degli ammalati gravi”.<br />

Le date entro cui si snoda la narrazione vanno dal<br />

1860 al 1883, anno della morte del protagonista, il<br />

principe di Salina Don Fabrizio Corbera, e che seguita<br />

fino al 1910 anno che segna la fine della dinastia<br />

dei Salina. Don Fabrizio, singolare temperamento, nel<br />

quale l’orgoglio e l’intellettualismo ereditati<br />

dalla madre si scontrano perpetuamente<br />

con la sensualità e la fiacchezza<br />

ricevute in eredità dal padre,<br />

assiste inerte alla rovina del proprio<br />

ceto e al sorgere di una nuova classe<br />

sociale e, quel che è più, allo sfaldamento<br />

del suo patrimonio a vantaggio<br />

di quel Calogero Sedara, contadino<br />

senza scrupoli divenuto milionario, e,<br />

in seguito senatore del nuovo regno,la<br />

cui bellissima figlia Angelica, alle ricchezze<br />

paterne aggiungerà il titolo di<br />

principessa per aver sposato il nobile<br />

e spiantato Tancredi Falconieri nipote di Don Fabrizio.<br />

(cfr. F. Felcini, <strong>Giuseppe</strong> Tomasi di Lampedusa, in Letteratura<br />

Italiana I Contemporanei, Como 1970<br />

pp.249-264)<br />

Il Gattopardo non è il ritratto del camaleontismo, dell'italica<br />

arte del saltare sul carro che va più forte: non<br />

va confuso con un romanzo di ambientazione analoga,vale<br />

a dire I Viceré di <strong>De</strong> Roberto.<br />

Don Fabrizio assiste, nel maggio del 1860, con aristocratico<br />

distacco alla spedizione dei Mille e alla fine<br />

del suo mondo. E' consapevole che, con tutti i suoi<br />

difetti, il mondo al tramonto è migliore di quello che<br />

verrà: Il Gattopardo ha l'immenso merito di fare giustizia<br />

della Storia con un'operazione che ribalta la<br />

retorica risorgimentale. Tomasi non è il primo a parlare<br />

male di Garibaldi (già Giovanni Verga, con la sua<br />

novella ''Libertà'' basata sulla strage compiuta dai garibaldini<br />

a Bronte, ne aveva dato un saggio) ma la sua<br />

critica è letterariamente più alta e anche più sottile. La<br />

frase più nota del romanzo di Tomasi di Lampedusa è<br />

quella pronunciata da Tancredi, garibaldino nipote<br />

del principe, allo stesso Don Fabrizio, quando gli<br />

annuncia la sua volontà di unirsi ai piemontesi: “Se<br />

vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto<br />

cambi” al che Don Fabrizio risponde: “E dopo sarà<br />

diverso, ma peggiore.”<br />

Il principe di Salina, appassionato di astronomia, per<br />

aver fissato troppo a lungo il suo sguardo verso le stelle<br />

è portato a guardare con disprezzo gli scherani del<br />

Regno d'Italia: il sindaco di Donnafugata Calogero<br />

Sedara, piccolo opportunista e arrampicatore sociale<br />

favorito dai piemontesi, la cui figlia Angelica diverrà<br />

l'amata di Tancredi è la chiave di lettura che illustra<br />

uno dei maggiori inganni di Vittorio Emanuele II e<br />

Cavour nei confronti delle popolazioni del Mezzogiorno:<br />

i plebisciti sulla unificazione d’Italia.<br />

Quando i cittadini di Donnafugata chiedono al principe<br />

di Salina un parere su come votare riguardo l'annessione<br />

al Regno d'Italia, Don Fabrizio risponde che<br />

si dovrebbe votare "sì" più per rassegnazione che per<br />

convinzione (votare a favore dei piemontesi vorrebbe<br />

dire perdere totalmente prestigio). I siciliani però non<br />

vogliono passare sotto il regime sabaudo e votano<br />

"no". Tutti questi voti vengono annullati da don Calogero.<br />

Tomasi ci rende nota una verità storica che il<br />

nostro Paese vorrebbe rimuovere: l'unità d'Italia non fu<br />

“popolare” ma fu fatta dalle baionette di Garibaldi prima<br />

e dai plebisciti farsa (oggi diremmo "bulgari") in<br />

seguito. Gli italiani trattarono il Meridione come terra<br />

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Incontri culturali<br />

Incontri culturali<br />

di conquista (inoltre si sa che la pressione fiscale borbonica<br />

non fu particolarmente oppressiva, al contrario<br />

di quella piemontese, talmente onerosa da creare<br />

il fenomeno del brigantaggio).<br />

Il “gattopardismo” del principe di Salina viene spiegato<br />

perfettamente nel dialogo con Chevalley, mediocre<br />

funzionario piemontese, che offre a Don Fabrizio il titolo<br />

di senatore del Regno. A questo punto il vero cuore<br />

dell'opera viene alla luce: Don Fabrizio rifiuta il titolo,<br />

sentendosi legato alla sua terra e spiega come,<br />

nonostante i tanti invasori, i tanti colonizzatori che vollero<br />

imporre alla Sicilia usi e religioni diverse, l'anima<br />

siciliana è rimasta intatta: perché nonostante un apparente<br />

adattamento ai costumi degli invasori, il siciliano<br />

non ha mai rinunciato alla sua anima. E Don Fabrizio<br />

è ben cosciente della superiorità delle sue<br />

tradizioni rispetto alla “modernità” apportata dai piemontesi,<br />

pronunciando la frase che racchiude il vero<br />

senso dell'opera: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni;<br />

quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le<br />

iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo<br />

a crederci il sale della terra.”<br />

Don Fabrizio morirà in un'anonima stanza d'albergo,<br />

nel 1883, tornando da Napoli dove si era recato per<br />

cure mediche (lo stesso <strong>Giuseppe</strong> Tomasi di Lampedusa<br />

morirà in un'anonima stanza d'albergo in un viaggio<br />

intrapreso per cure mediche) mentre in casa resteranno<br />

le figlie zitelle e incattivite.<br />

Il libro si conclude con il ritratto delle ultime donne di<br />

casa Salina nel 1910, e Concetta che getta nella<br />

spazzatura Bendicò, il fedele cane imbalsamato, buttato<br />

via come spazzatura, quasi un simbolo di una<br />

nuova età che non più anima ed è immemore verso il<br />

suo passato e le sue radici.<br />

Il Gattopardo fa definitivamente piazza pulita della<br />

retorica risorgimentale: dinanzi al capolavoro di Tomasi<br />

opere come Cuore di <strong>De</strong> Amicis, pensate come esaltazione<br />

della “nuova Italia” appaiono non solo invecchiate,<br />

ma anche false. Se Il Gattopardo fosse stata<br />

una semplice denuncia dei soprusi del Regno d'Italia<br />

nei confronti di quei fieri meridionali che ancora oggi<br />

usano in maniera dispregiativa il termine “piemontese”<br />

sarebbe anch' esso invecchiato. Lo stesso sarebbe<br />

accaduto se Tomasi avesse scritto solo un'opera<br />

nostalgica riguardo le sue tradizioni: invece lo scrittore<br />

siciliano ci restituisce l'anima di un mondo intero.<br />

Scrive Marcello Veneziani, nel saggio I vinti: “Il Gattopardo<br />

di Tomasi di Lampedusa è una splendida tenda<br />

di pizzo che ripara la casa dei vinti dall'invadenza<br />

del mondo. Di vinti si parla in quel libro con un velo<br />

aristocratico di elegante e meridionale malinconia. È<br />

curioso pensare che il miglior romanzo dedicato al<br />

Risorgimento non ne celebri il trionfo ma sia visto con<br />

l'occhio dei vinti; ma le sconfitte ispirano più alta letteratura<br />

delle vittorie. Colpisce la sobrietà di quel congedo<br />

da un mondo, senza la teatralità che avrebbe<br />

potuto tentare un siciliano. I signori cedono il passo<br />

con distaccata galanteria, appena velata da un cenno<br />

di disgusto, ai loro massari e stallieri. Dopo di noi<br />

gattopardi verranno le iene, gli sciacalletti, dice don<br />

Fabrizio. La regalità dei vinti rispetto alla piccineria<br />

plebea dei vincitori.<br />

È irritante l'uso improprio del gattopardismo nel gergo<br />

corrente per alludere al diffuso camaleontismo e all'opportunismo<br />

di chi cambia tutto per non cambiare nulla.<br />

Il Gattopardo non è un manuale per restare comunque<br />

a galla, semmai un trattato di stile sulla nobiltà<br />

dell'affondare insieme col proprio mondo, accennando<br />

pure una smorfia di sorriso. Come si addiceva ai<br />

comandanti delle navi. Il Gattopardo descrive l'esatto<br />

contrario del tipico italiota che sopravvive ai regimi e<br />

alle mode.”<br />

Il Gattopardo è un libro inesauribile: non solo per il<br />

suo “revisionismo” che ci mostra un Risorgimento diverso<br />

(e più vero) di quello oleografico appreso sui libri<br />

di scuola, ma pure per la sorpresa di vedere quanto<br />

il messaggio di questo libro sia stato travisato. (cfr.<br />

scheda del Prof. Andrea Sartori reperibile in Internet<br />

s.v. Il Gattopardo )<br />

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Pirandello<br />

Una mattinata<br />

“pirandelliana”<br />

di Andrea Testa<br />

Mercoledì 24 marzo 2010, alle ore 9.30, nell’Aula<br />

Magna dell’<strong>Istituto</strong> “Villa Flaminia”, si è svolta<br />

una tavola rotonda dedicata alla preparazione<br />

del 47° Convegno internazionale organizzato dal<br />

Centro Nazionale Studi Pirandelliani, che si terrà in<br />

Agrigento nei giorni 6-8 dicembre 2010. Vi hanno<br />

preso parte il prof. Enzo Lauretta, presidente del<br />

C.N.S.P., il prof. Stefano Milioto, consigliere delegato<br />

del C.N.S.P. e il prof. Nino Borsellino, illustre<br />

cattedratico e studioso di Pirandello. Il preside<br />

Costantino Gaglio,<br />

respon sabile dell’Ufficio<br />

Scuola della Provincia<br />

Italia dei Fratelli delle<br />

Scuole Cristiane, ha<br />

svolto il ruolo di moderatore.<br />

L’iniziativa era<br />

rivolta ad istituti superiori<br />

statali e paritari di tutto<br />

il Lazio, rappresentati<br />

da classi o gruppi scelti<br />

di studenti accompagnati<br />

dai loro insegnanti,<br />

che avevano preso<br />

parte al concorso 2009<br />

su Pirandello e il cinema,<br />

indetto dal C.N.S.P., tramite l’elaborazione di<br />

una tesina.<br />

Ho accompagnato quattro studenti del III liceo classico<br />

(Carlo Benedizione, Domiziana Bergodi, Laura<br />

Catalano ed Emanuele Spedicato) che hanno<br />

partecipato al concorso con la tesina dal titolo Pirandello<br />

e il cinema: un rapporto difficile.<br />

Il dibattito è stato aperto con l’annuncio del tema<br />

del convegno agrigentino per il 2010: Quel che il<br />

teatro deve a Pirandello. Su di esso hanno fatto convergere<br />

il discorso gli studiosi presenti.<br />

La conferenza è stata interessante per la competenza<br />

bio-bibliografica e la frequentazione attenta dell’opera<br />

pirandelliana evidenziata dai professori<br />

intervenuti. Hanno messo in luce, infatti, la poetica<br />

letteraria e teatrale di Pirandello, ma anche il mondo<br />

delle sue riflessioni riguardo alle reali possibilità<br />

conoscitive e comunicative dell’uomo nel relativismo<br />

valoriale della sua condizione esistenziale. Il narratore<br />

e drammaturgo agrigentino risulta pienamente<br />

inserito nella crisi d’identità attraversata dall’uomo<br />

del Novecento, acutamente percepita anche da altri<br />

intellettuali a lui contemporanei o successivi, come<br />

Montale, Moravia, Pasolini, Testori, Brecht.<br />

Ma è stata anche l’occasione per scoprire la fortuna<br />

tuttora viva degli adattamenti e delle rivisitazioni<br />

cinematografici e televisivi delle commedie pirandelliane<br />

in diverse regioni del mondo, dall’<br />

Ungheria alla Cina, al Canada.<br />

La passione che ha animato le relazioni del prof.<br />

Lauretta e del prof. Milito ha trasmesso l’idea della<br />

problematicità della visione pirandelliana della vita<br />

e dell’arte, in particolar modo di quella teatrale.<br />

Così come, del resto, sono stati sottolineati la rinuncia<br />

al conseguimento di una verità condivisa e l’intento<br />

umanitario che ha ispirato la sua adesione<br />

all’attività teatrale solo nel 1910, all’età di 43 anni.<br />

Alle ore 12 circa, l’inontro è terminato, con l’unico<br />

rammarico di non aver ascoltato la voce di qualcuno<br />

dei ragazzi che si erano cimentati nei gruppi di<br />

lavoro, di ricerca e di approfondimento, sul tema<br />

previsto per l’anno scorso.<br />

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Pirandello e il cinema: un rapporto difficile<br />

La triade pirandelliana:<br />

parola, teatro, vita<br />

di Domiziana Bergodi<br />

Evoluzione<br />

dell’idea<br />

di cinema<br />

in Pirandello.<br />

Luigi Pirandello ha un rapporto molto complesso col<br />

cinema. Ce lo rivelano le lettere che scrisse a Marta<br />

Abba, il romanzo I <strong>quaderni</strong> di Serafino Gubbio<br />

operatore e gli articoli pubblicati nel corso della sua<br />

vita.<br />

La concezione pirandelliana dell'arte entra in collisione<br />

con la nuova forma espressiva costituita dalla<br />

cinematografia: al cinema egli nega qualsiasi dignità<br />

artistica, in quanto privo di spontaneità, sincerità<br />

ed interesse.<br />

Nei suoi interventi riguardo al dibattito sul cinema,<br />

si riscontrano due atteggiamenti: uno distruttivo ed<br />

uno propositivo; di qui la sua preoccupazione nel<br />

trovare idee e formule innovatrici e compatibili col<br />

teatro affinché questa novità si evolva da "fenomeno<br />

da baraccone" in vero prodotto artistico.<br />

Pirandello, per un verso, teme il cinema come concorrente<br />

del teatro e nel contempo si accorge delle<br />

sue potenzialità: offre possibilità di guadagnare<br />

bene, magari finanziare la costruzione di un teatro<br />

di Stato e far diventare Marta Abba una star internazionale.<br />

Tuttavia la sua è un’opposizione netta contro l'impiego<br />

naturalistico del cinema che invece, per sussistere,<br />

a suo avviso ha necessità di abbandonare la<br />

parola: "Bisogna creare nuove emozioni, parlare<br />

poco e suggerire molto, cercare delle espressioni<br />

improponibili nel teatro".<br />

Il cinema può affermarsi esclusivamente come “cinemelografia”:<br />

la riproduzione del reale attraverso la<br />

cinepresa deve avvenire, per Pirandello, con immagini<br />

accompagnate dalla musica, non dalla parola,<br />

la quale deve rimanere prerogativa del teatro.<br />

L’idea del cinema musicale è risolutiva; inoltre favorisce<br />

l’internazionalizzazione dell‘opera cinematografica.<br />

Nella lettera del 6 aprile 1929 a Marta<br />

Abba, Pirandello conferma la sua idea di un’immagine<br />

che accostata alla musica può valicare ogni<br />

confine: la parola al contrario non può avere tale<br />

capacità perché “ è soltanto della lingua che uno<br />

parla”.<br />

La presa di coscienza che il futuro sia nel cinema e<br />

non nel teatro è assai amara per Pirandello che inizia<br />

a fare i conti con la nuova forma d’arte: la cinematografia.<br />

La sua piccola vittoria è nell’impiego<br />

degli autori e dell’arte provenienti dalla drammaturgia:<br />

la sua conversione al cinematografo è registrata<br />

in una delle lettere scritte a Marta Abba nel ’30:<br />

“L’avvenire dell’arte drammatica e degli scrittori di<br />

teatro è ora là. È necessario orientarsi verso una<br />

nuova espressione d’arte: il film parlato. Ero contrario,<br />

mi sono ricreduto.”Tutto è concentrato nel giusto<br />

equilibrio tra la macchina ed il creatore: la macchina<br />

non deve prevalere, si cadrebbe nel virtuosismo;<br />

se, al contrario, il creatore prende il sopravvento ci<br />

sarebbe troppa verità psicologica. Tuttavia Pirandello<br />

insiste nel riconoscere che la musica sia l’indispensabile<br />

mezzo di suggestione per il cinema.<br />

Gli effetti ottenuti dai cinematografi imitatori del<br />

mondo pirandelliano non sono gli stessi cercati dallo<br />

scrittore: le esigenze del film hanno la capacità<br />

di alterare e in taluni casi di capovolgere il significato<br />

originario attribuito da Pirandello all’opera: si<br />

tende ad inserire nuovi personaggi od oggetti sulla<br />

scena, a dare più spazio ad alcune personalità che<br />

nel testo non sono di spicco, a porre in risalto dei<br />

temi anziché altri. C’è insomma un processo di interpretazione<br />

che si scontra con la traduzione che vorrebbe<br />

Pirandello: interpretare implica delle trasformazioni,<br />

anche radicali, di uno stesso contenuto,<br />

perciò delle modifiche nell’ambientazione, mutamenti<br />

relativi a eventi o azioni e addirittura ai filoni<br />

tematici.<br />

Tuttavia Pirandello, ben consapevole dell’importanza<br />

che il cinema sta assumendo nei vari Stati europei,<br />

tenta di incentivare, per quanto gli è possibile,<br />

la cinematografia italiana, ancorata ad un<br />

genere che non rispecchia più i gusti del pubblico:<br />

è “artigianale”, tale da non riuscire ad superare i<br />

confini della penisola.<br />

La causa di tale regresso cinematografico sta nel<br />

sistema organizzativo e dirigenziale, poiché coloro<br />

che ne fanno parte sono privi di slanci artistici e<br />

di spirito d’iniziativa. Stessa sorte fallimentare toccherà<br />

probabilmente al teatro, sostiene lo scrittore<br />

nella lettera del 14 marzo del ‘31 alla Abba.<br />

Nelle lettere a Marta Abba, chiarisce di volta in volta<br />

la propria posizione nei confronti del cinema:<br />

essa mai è di totale adesione, nonostante qualche<br />

volta Pirandello accenni a giudizi positivi. Infatti, lo<br />

scrittore di Agrigento non supera la sua visione del<br />

mondo cinematografico (che gli ha dato cocenti<br />

delusioni) e lo considera a lui ostile ed avverso.<br />

Tuttavia, a dispetto di altri personaggi di spicco suoi<br />

contemporanei, Pirandello si rivela un intellettuale<br />

cosciente delle potenzialità del nuovo mezzo espressivo,<br />

quale è il cinema, che gli appare così idoneo<br />

al punto da poter aprire una finestra e permettere<br />

l’esplorazione di tutto ciò che è sogno e astrazione.<br />

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Pirandello e il cinema: un rapporto difficile<br />

di Carlo Benedizione<br />

Come Pirandello<br />

perse la sua<br />

battaglia<br />

col cinema<br />

Proposta di una lettura<br />

“trasversale” del<br />

romanzo di Pirandello<br />

sul cinema<br />

laura catalano<br />

mi manca la fotina!<br />

di Laura Catalano<br />

Quello che si evince dai paragrafi precedenti è<br />

una sorta di “adorazione” di Pirandello per il teatro,<br />

a scapito del cinema parlato. Dunque, non è sbagliato,<br />

né capzioso definire il nostro come “paladino del<br />

teatro”.<br />

Come detto in precedenza, però, la posizione pirandelliana<br />

non è mai assoluta, come si evince dalle lettere<br />

a Marta Abba. Si<br />

possono, dunque,<br />

riscontrare,tre fasi del<br />

pensiero pirandelliano.<br />

Una prima, in cui l’autore<br />

agrigentino si<br />

oppone all’avanzare<br />

del cinema.<br />

Questo nuovo mezzo<br />

non è adeguato alla<br />

rappresentazione. Per<br />

Pirandello, solo il teatro<br />

caratterizza la personalità<br />

dell’uomo, la<br />

parola detta e ascoltata<br />

dal vivo, solo questa arriva lì, dove il regista e la<br />

macchina da presa non possono giungere: nel cuore<br />

dell’uomo. Un pensiero profondo che, infatti, si concretizza,<br />

nelle opere pirandelliane, nei numerosi, contorti<br />

e impegnati dialoghi che sono i veri protagonisti<br />

della scena.<br />

Una critica che Pirandello muove al cinema consiste<br />

nel sostenere che la macchina da presa non riesce a<br />

riproporre “l’imparzialità visiva” del palcoscenico. Lo<br />

spettatore, con un’occhiata, riesce a vedere tutti gli<br />

attori raggruppati in scena. Il cinema, al contrario, ha<br />

bisogno di un aiuto, da questo punto di vista, che gli<br />

proviene dalla macchina da presa e dalle tecniche di<br />

ripresa che si possono utilizzare con essa.<br />

Per quanto strenuamente possa combattere il nuovo<br />

che avanza, Pirandello dovrà arrendersi, più che alla<br />

superiorità del grande schermo, alla richiesta del pubblico.<br />

L’evoluzione della concezione pirandelliana del cinema,<br />

che costituisce la seconda parte del suo pensiero,<br />

porterà l’autore di Agrigento a sostenere che l’unica<br />

forma di cinema sostenibile, tra le esistenti, sia il<br />

cinema muto (i film di Charlie Chaplin sono presi ad<br />

esempio). Ammesso e non concesso che le tecniche<br />

di ripresa della telecamera siano superiori all’effetto<br />

visivo del teatro, afferma il nostro, non si può certo<br />

riproporre la medesima profondità di dialogo.<br />

Per questo, dunque, il cinema muto è in assoluto la<br />

forma di cinematografia migliore, seppur sempre inferiore<br />

al teatro.<br />

L’ultima parte del pensiero di Luigi Pirandello prevede<br />

una resa totale al cinema. Resosi conto dell’inutilità<br />

della sua lotta, si arrende e cerca, allora, di riproporre<br />

il suo teatro sul grande schermo. Tenterà di scrivere<br />

un adattamento di Sei personaggi in cerca d’autore<br />

per il cinema, ma non troverà mai nessuno che lo<br />

aiuti a realizzare questo progetto.<br />

Anche questo sarà un grande problema per l’autore<br />

siciliano. Non riuscirà a trovare mai qualcuno che riesca<br />

a comprendere profondamente la sua concezione<br />

del teatro, per questo nessun produttore lo sosterrà<br />

nella sua impresa di fondere il teatro con il cinema.<br />

Dopo la lettura d‘insieme, ovvero il pensiero di<br />

Pirandello sul cinema e le sue implicazioni nel tempo<br />

in cui visse, dalle più immediate alle più profonde, è<br />

possibile ora proporne una “trasversale”. Questa lettura<br />

vuole essere un contributo alle osservazioni esposte<br />

in precedenza e volta ad evidenziare l’importanza<br />

storica delle riflessioni presenti nei Quaderni di<br />

Serafino Gubbio operatore.<br />

Si tratta di un romanzo incentrato sul cinema e su tutto<br />

ciò che vi gira intorno, visti con gli occhi di un insider<br />

: un operatore. Ne consegue, dunque, che<br />

l’obiettivo dell’autore è mettere il lettore a conoscenza<br />

dei suoi pensieri e delle sue riflessioni appuntate<br />

su un diario che ha valore terapeutico. Serafino, dunque,<br />

si propone come paladino non solo di se stesso,<br />

ma di un’intera categoria di lavoratori che svolgono<br />

un mestiere umiliante: l’essere semplice<br />

strumento della cinematografia. Ma dietro a tutto ciò,<br />

si cela ancora di più; Pirandello infatti allarma il pubblico<br />

di lettori, insinuando il dubbio, o la certezza,<br />

che presto un’intera generazione sarà costretta ad<br />

abdicare in favore della macchina. Questa riflessione<br />

si palesa quando nella confusione del backstage,<br />

un incuriosito quanto malizioso signore sorprende il<br />

nostro Serafino con un’osservazione “scottante”: - Siete<br />

proprio necessario voi Che cosa siete voi Una<br />

mano che gira la manovella - ; o,potremo chiederci,<br />

una mano che sarà sostituita da una macchina Quello<br />

che noi oggi chiameremo cameraman, sostituito<br />

dalla tecnologia, diventa simbolo della modernità e<br />

della frenesia che questa comporta. La meccanizzazione<br />

è il risultato di un processo di sviluppo sociale<br />

e non, che nella sua fretta, non tenendo conto dell’uomo<br />

lo lascia in disparte e lo coglie di sorpresa.<br />

La frequenza con cui si mostrano le immagini proposte<br />

dal grande schermo non dà la possibilità di pensare,<br />

ipnotizza e inebetisce; nonostante la sua recente<br />

nascita il cinematografo si profila dunque come<br />

industria e inizia a mettere in crisi tutte le altre forme<br />

d’arte tra cui anche il teatro, così caro a Pirandello.<br />

Così come il Marxismo vedeva l’alienazione dell’individuo<br />

e l’annullamento dei suoi diritti nel lavoro di fabbrica,<br />

dove ancora una volta riscontriamo il dualismo<br />

uomo-macchina, Pirandello riflette sul medesimo problema<br />

parlando dell’operatore. Quest’ultimo è legato<br />

indissolubilmente alla sua macchina da presa, con la<br />

quale stringe un rapporto di amore ed odio, poiché<br />

tutta la sua creatività viene soffocata nell’atto meccanico<br />

di girare la manovella. La macchina diventa<br />

“mangiatrice” a tutti gli effetti: sia di genio creativo,<br />

che di immagini vive, in movimento, che finiscono<br />

immortalate su di una pellicola plastica e statica.<br />

Non vi è dubbio quindi che la cinematografia sia<br />

un’industria, e l’operatore, così come gli attori, siano<br />

semplici strumenti per ottenere denaro. Questo è dunque<br />

uno spunto di riflessione che accomuna sia il<br />

drammaturgo agrigentino, sia il filosofo giudaicotedesco<br />

Walter Benjamin. Il primo rimane sconcertato davanti<br />

agli ingenti capitali investiti nel cinematografo,<br />

rispetto alla mancanza perpetua di somme da utilizzare<br />

nel teatro. Il secondo invece individua, come unico<br />

limite del cinema, questa sua stretta connivenzacon<br />

il capitalismo.<br />

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Pirandello e il cinema: un rapporto difficile<br />

di Emanuele Spedicato<br />

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La parola, si sa, ha da sempre costituito quella forma<br />

originale di espressione, sulla cui base tutta la cultura<br />

mondiale si è fondata: da una visione cristiano-dogmatica,<br />

che pone il verbo come realtà creatrice, ad una<br />

visione futurista che vede in essa un mezzo di rivoluzione<br />

di grande influenza. In ogni modo, non si può negare<br />

il suo apporto e le sue conseguenze: mezzo illustre<br />

di espressione, oggetto di studio ed interesse, monopolio<br />

dei potenti e strumento d’agonismo, ecco alcune delle<br />

tante definizioni con cui la si può designare.<br />

In una delle sue lettere, Pirandello denuncia che un<br />

numero immenso di parole sono state pronunciate nella<br />

storia, in campo<br />

sociale, politico, diplomatico…<br />

e tuttavia esse<br />

non sarebbero sopravvissute<br />

senza il soccorso<br />

della letteratura, laddove<br />

intendiamo con tale<br />

termine quella galassia<br />

polimorfica di testi,<br />

sopravvissuta in ogni<br />

tempo e adattatasi ad ogni situazione, che detiene il<br />

compito di salvaguardare l’espressione umana del parlare.<br />

Pirandello si accorse ben presto della potenza d’impatto<br />

che essa suscitava nei lettori e negli ascoltatori, finché<br />

scoprì, come molti prima di lui, il connubio del linguaggio<br />

verbale e di quello iconico, ovvero<br />

dell’immagine. Entrambi avevano lo stesso destino di<br />

comunicare, raccontare, rappresentare, ed uniti, davano<br />

vita a quella forma sublime che è il teatro: egli si<br />

decise a far proprio questo stile solamente in età più<br />

matura, superati i quarant’anni (ricordiamo tuttavia che<br />

già in giovinezza aveva composto alcuni testi teatrali,<br />

che egli stesso bruciò poco dopo). Difatti la sua meditazione<br />

sul teatro poteva venire solamente da una relativamente<br />

ampia esperienza di vita, da un arricchimento<br />

culturale e dalle vicende dei propri personaggi<br />

pensosi e complessi. Il teatro venne definito come “teatro<br />

dello specchio”, dell’imitazione del reale, una messa<br />

a nudo dei sentimenti e del pensiero umano, coperto<br />

da strati di falsità e corruzione, che egli indicherà<br />

come “maschera”: in quest’ottica non può che delinearsi<br />

la visione di teatro come vita, come sentimento vivo,<br />

come immagine del quotidiano riportata sulla scena.<br />

Dunque esso assume anche una funzione propedeutica<br />

a un corretto autoesame, oltre che catartica: vedendo<br />

se stesso protagonista di una vicenda, l’uomo è spinto<br />

ad osservarsi con una certa distanza che gli permette<br />

una critica più razionale di sé. E in tale critica egli si<br />

rinnova e ne esce se non altro con riflessioni più profonde<br />

sul suo intimo.<br />

L’istinto dello scrivere era più inconscio di quanto si può<br />

pensare: il carattere dei personaggi era già vivo ancor<br />

prima che il loro aspetto si formasse: una serie di persone<br />

dal comportamento più disparato. Ma perché -<br />

ci si potrebbe chiedere. Semplicemente perché il nostro<br />

subconscio possiede ogni categoria caratteriale, filtrata<br />

poi dal nostro modo di essere, dalle nostre esperienze<br />

e dalle nostre scelte. Ma, dovendo riportare su carta<br />

un personaggio, Pirandello, come ogni altro<br />

drammaturgo, poteva sentirsi libero da ogni giudizio,<br />

poiché il comportamento veniva a limitarsi nel personaggio<br />

e in esso si svolgeva. Ecco spiegata quindi la<br />

sensazione di libertà nella creazione artistica.<br />

In conclusione perciò, il teatro riuscì a rappresentare<br />

per Pirandello la sublimità di espressione, frutto dell’incontro<br />

tra immagine e parola, e garantiva un’analisi<br />

perfetta della psicologia umana.<br />

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