chiere no, sono andata in cucina, gli facevo vedere: -Questo?-. No.-Quello?-. No. -Porca miseria, voglio un bicchiere di acqua-. Così hoimparato io la lingua italiana. Per forza. [...] Lei [l’amica che la ospitavain Italia] andava al lavoro, io mi trovavo da sola, non conoscevola lingua, ho passato brutti, proprio due anni ho fatto fatica a viverequi. [...] Prima di tutto avevo paura dei carabinieri, non ho avuto problemima la paura c’era. Alla fine dico se mi prendono va anche beneperché sono stanca di questa vita. Ma non mi hanno preso. [...] [orache ha il permesso di soggiorno] è meglio, si vive meglio così, perchéio c’ho la voglia di fare la scuola di infermiera, la patente, la scuolaguida, sai con il permesso ti si aprono proprio le porte” (int. 6a).“Io non sapevo niente, sapevo solo ciao buongiorno, quelle robe lì,perché mio marito quando lavorava nella zona veneta veniva tutti glianni insieme al suo capo, col pulmino venivano e stava una settimanainsieme a noi, quindi vedendo loro che parlavano, perché mio maritodoveva fare da tramite altrimenti non riuscivamo a capirci. E questosignore era molto simpatico...Poi somiglia tanto, perché la lingualatina, comunque tante parole sono uguali quasi, per esempio pane”(int. 8).Arriva poi la ricerca di un lavoro e, in seguito, la possibilità diregolarizzare la propria presenza in Italia e di trovare una sistemazioneabitativa più idonea. E, così, la possibilità di inoltrare lepratiche di ricongiungimento familiare e ritrovare finalmente lapropria famiglia. E’ la storia di molte famiglie delle persone chesono state intervistate. È la storia di ragazzo rumeno che ha raccontatoche il padre lavorava in Romania per una ditta statale, chepoi è stata venduta ad un privato, spingendolo a venire in Italia acercare lavoro. Dopo circa un anno e mezzo la mamma è andataa trovare il marito in Italia; doveva essere solo per tre mesi e poisarebbe rientrata in Romania, ma alla fine si è fermata anche lei.E l’anno dopo sono stati lui con suo fratello a raggiungerli. Ora ilpadre ha una sua ditta da due anni, con dei dipendenti, e la madrefa la babysitter. Lui studia al liceo scientifico e sogna di fare ilpilota. E’ la storia di questa donna, che ha raggiunto suo marito,26
che già da qualche anno lavorava a <strong>Bergamo</strong>.“Io sono arrivata nel ’96, c’era mio marito qui in Italia già a quei tempi,noi ci siamo sposati in Romania, lui era venuto senza di noi, perchéavevamo già una bambina. E la bambina ha compiuto 4 anni quando èvenuta anche lei, sempre nel ’96. Ho sempre lavorato in casa, comecollaboratrice domestica, fare le pulizie, sturare, fare un po’ di tuttoe niente. Là ho fatto il tappezziere di mestiere, però qua per aprireun mio laboratorio ci vogliono tanti soldi e non li avevo. E sono statacostretta a fare questo lavoro, che mi piace, perché conosco tantagente, mi trovi bene...Mio marito lavorava già qui, poi sono arrivataio per 4 mesi non ho lavorato, dopo ho trovato qualcosina, e poi horiempito tutta la settimana. Adesso mi devo clonare per fare tutto.Sono tanti che mi vogliono bene, perché poi vado un po’ in questagrande famiglia, dove ho iniziato” (int. 5a).Eppure, alcune distinzioni devono essere fatte. In primo luogo, lecose sono un po’ diverse per le donne che arrivano sole e che, ancoramolte, lavorano come colf a ore e assistenti familiari di tipoconvivente nelle case bergamasche. La loro situazione non arrivamai a stabilizzarsi veramente e sono sempre esposte al rischio diindietreggiare nel loro percorso migratorio. Questo perché la lorosituazione lavorativa è a tempo determinato e può interrompersi,ad esempio, per il venire a mancare dell’anziano che accudiscono.Ma poiché queste donne, spesso, abitano presso la personache accudiscono o la famiglia per cui lavorano, perdere la propriaoccupazione significa anche, e in breve tempo, perdere la propria“casa”. E questo, ancora prima della perdita del lavoro, può averedelle conseguenze davvero pesanti. Bisogna, poi, considerare chel’orario e il carico di lavoro che queste donne affrontano lascialoro poco tempo per intrattenere rapporti interpersonali e, peresempio, stringere amicizie e legami con i propri connazionali eche i contatti che queste donne hanno spesso e volentieri coinvolgonoaltre connazionali che svolgono la stessa occupazione, e che,quindi, sono nell’impossibilità di ospitarle in queste situazione. Lepiù sfortunate devono cercare aiuto presso qualche associazioneo comunità ed è proprio questa l’esperienza del dormitorio fem-27
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