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IL FENOMENO DEL LOOK ALIKE: “SAILING TOO CLOSE ... - Indicam

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<strong>IL</strong> PROBLEMA DEI <strong>LOOK</strong>-<strong>ALIKE</strong>:<br />

I GIUSTI LIMITI ALLA "LIBERTÀ DI IMITARE"<br />

11 giugno 2003<br />

Federica Santonocito<br />

Lorenza Mosna<br />

Avv. Ass. Franzosi Dal Negro Pensato Setti<br />

Milano<br />

<strong>IL</strong> <strong>LOOK</strong>-<strong>ALIKE</strong>: “SA<strong>IL</strong>ING <strong>TOO</strong> <strong>CLOSE</strong> TO THE WIND”<br />

1. La definizione di look-alike.<br />

Nei paesi anglosassoni (in particolare negli Stati Uniti), il tema relativo all’imitazione di prodotti,<br />

e/o di confezioni di prodotto, viene indicato col termine look-alike (o me too).<br />

Look-alike indica la somiglianza di prodotti e/o di confezioni di prodotto per la loro immagine<br />

esteriore. Per immagine si intende il rivestimento esteriore del prodotto (che può essere una scatola<br />

o una bottiglia o altro contenitore o il prodotto stesso) comprensivo di tutto ciò che appare<br />

visivamente all’esterno (colori, forme, scritte, disegni e/o figure).<br />

Look-alike significa “sembra come”, “simile a”.<br />

Si ha look-alike tutte le volte in cui l’impressione generale di un certo prodotto B fa sì che questo<br />

venga considerato lo stesso di un prodotto più noto A (con un marchio più noto) attraverso la<br />

adozione sul prodotto B di certe caratteristiche del confezionamento, che i consumatori<br />

normalmente associano con quel determinato prodotto A. In buona sostanza, si ha look-alike tutte le<br />

volte in cui due prodotti si assomigliano per le loro caratteristiche esteriori del modo di<br />

presentazione (colori, scritte, figure, forme). Il prodotto meno noto che nel suo insieme richiama il<br />

prodotto più noto risponde ad una precisa logica, e cioè: “the … subtle goal of look-alike packaging<br />

is to hijack the reputation and the symbolism of the famous brand. To give two products a virtually<br />

visual appearance is to imply a similarity of quality, taste or efficiency” 1 .<br />

Per quello che qui interessa, si pensi ai prodotti di grandi catene distributive (Coop, Esselunga,<br />

Despar, ecc.), c.d. “own brand product”. Tali prodotti presentano, talvolta, (spesso) confezioni<br />

molto simili a quelle di marchi notori e solitamente vengono vendute ad un prezzo inferiore.<br />

2. La tutela contro il look-alike in Europa: gli orientamenti della giurisprudenza e della<br />

dottrina.<br />

Il fenomeno del look-alike trova un’adeguata considerazione giuridica più all’estero che in Italia.<br />

In particolare, i giudici inglesi si sono occupati del fenomeno del look-alike. Qui di seguito<br />

menzioniamo alcune decisioni tra le più interessanti.<br />

Nel caso Spalding & Bros c. AW Gamage Ltd. 2 , il Giudice precisò che in un’azione di passing off di<br />

prodotti che si assomigliano per il marchio e l’immagine globale della confezione, è necessario<br />

dimostrare, non solo la sussistenza di una confusione (oggettiva) tra i due prodotti, ma anche che il<br />

consumatore è indotto a credere che i prodotti del convenuto (imitati) provengono dall’attore.<br />

Occorre, dunque, la volontà di “copiare per ingannare”.<br />

1<br />

Dall’articolo Brand of logic, apparso sul quotidiano inglese The Times il 20 aprile 1994.<br />

2<br />

1915, 32 RPC 279, 284.<br />

1


Nel caso JPF 3 , l’attore ebbe a promuovere un’azione di passing off a seguito dell’immissione sul<br />

mercato delle sigarette “Raffles” vendute in una confezione nera con le scritte oro del tutto simile al<br />

famoso pacchetto delle sigarette John Player Special.<br />

Qui di seguito sono riportate entrambe le confezioni.<br />

In quell’occasione, il giudice non concesse il provvedimento di inibitoria richiesto dal titolare del<br />

marchio John Player Special; infatti, il giudice ritenne che gli elementi figurativi e denominativi<br />

riprodotti sulla confezione delle sigarette John Player Special, non avessero sufficiente capacità<br />

individualizzante. Infatti sul mercato venivano vendute sigarette in pacchetti di colore nero anche<br />

se, tuttavia, al momento della causa, nessun altro marchio era così conosciuto come il marchio John<br />

Player Special.<br />

Esito positivo ha avuto, invece, l’azione promossa da Reckitt & Colman Products nel caso Jif<br />

Lemon 4 . Il caso riguardava la confezione dell’attore per succo di limone, avente la forma e il colore<br />

del limone. Il Giudice affermò che la particolare confezione adottata dall’attore fosse dotata di<br />

carattere distintivo – distintività acquisita anche grazie all’uso decennale da parte del produttore.<br />

Anche il caso Marmite 5 ha avuto esito positivo: il prodotto a marchio Sainsbury’s (nota catena di<br />

distribuzione inglese) riproduceva la confezione dell’estratto di lievito Marmite, e pertanto ne fu<br />

inibito l’uso.<br />

Altro esempio di imitazione del packaging da parte di un “own brand product” si rinviene nel caso<br />

Puffin 6 , in cui il giudice ha riconosciuto la contraffazione del marchio e della confezione di biscotti<br />

3 Imperial Group plc & Another c. Philip Morris Ltd & Another, 1984 RPC 293.<br />

4 Reckitt & Colman Products Ltd c. Borden Inc, 1990 RPC 341.<br />

5 Beecham Group plc & Another c. J Sainsbury plc, 1987, inedita. Il giudice non ha concesso l’inibitoria poiché<br />

mancava il pericolo in mora, non era stato dimostrato il rischio di associazione. La causa è poi stata abbandonata.<br />

6 United Biscuits (UK) Ltd c. Asda Stores Ltd, 1997.<br />

2


al cioccolato contrassegnati dal marchio “Penguin” da parte del marchio e della confezione Puffin<br />

della ASDA (nota catena distributiva).<br />

Significativi i seguenti casi di riproduzione di confezioni di note marche da parte dei supermercati<br />

inglesi Sainsbury’s.<br />

Interessante è, infine, il caso Red Bull 7 , in Australia, in cui il giudice ha ritenuto che la confezione<br />

del concorrente (Limewire) fosse così simile all’originale slimline di Red Bull da ingenerare un<br />

rischio di confusione tale che anche l’apposizione di un marchio completamente diverso non fosse<br />

idonea ad escludere la responsabilità per concorrenza sleale. Per usare le parole del giudice<br />

australiano “LIMEWIRE drinks were sailing too close to the wind”.<br />

2.1 La dilution e la misappropriation<br />

Così la dottrina e giurisprudenza straniera sopra ricordate, accanto all’azione di passing off, che<br />

richiede presupposti molto rigorosi, ha elaborato altre possibili forme di tutela del packaging dei<br />

prodotti, tra cui la cosiddetta azione di “dilution”. Il concetto di dilution viene identificato con la<br />

perdita di distintività. Un autore americano ha definito la dilution (in relazione al marchio) come:<br />

7 Sydneywide Distributors Pty Limited v. RED BULL Australia Pty Limited, PricewaterhouseCoopers Legal, 2002,<br />

Winter Edition.<br />

3


“Il continuo uso di un marchio simile a quello del titolare, che determina inevitabili conseguenze<br />

negative sulla capacità distintiva del marchio del titolare e, se egli non si adopera per prevenire<br />

tale uso, il suo marchio perderà interamente la sua capacità distintiva. Questo attacco differisce<br />

notevolmente dal concetto di confusione. Questa confusione determina immediatamente un danno,<br />

mentre la dilution porta inevitabilmente alla distruzione del valore pubblicitario del marchio” 8 .<br />

Il concetto di dilution non è stato considerato allo stesso modo in tutti i Paesi. In particolare, la<br />

teoria della dilution si è sviluppata negli Stati Uniti e, nella Comunità Europea, in Germania e Gran<br />

Bretagna.<br />

Negli Stati Uniti, i giudici hanno stabilito che per avere successo in un’azione di dilution occorre<br />

che il titolare del marchio dimostri il cosiddetto “likelihood of injury” (rischio di danno) alla<br />

reputazione commerciale e la perdita di distintività del cosiddetto “distinctive quality” del<br />

marchio”. È stato detto, da più parti, che il concetto di “distinctive quality” riguarda i marchi con<br />

una significativa reputazione, o marchi con un ben fondato secondary meaning.<br />

In Europa, il concetto di dilution ha ricevuto una diversa interpretazione.<br />

Per esempio, in Germania, la dilution è stata sviluppata per proteggere i marchi notori. Gli elementi<br />

importanti che vengono tenuti in considerazione dalle Corti tedesche riguardano l’ambito in cui il<br />

marchio è conosciuto; se esso viene usato seriamente ed effettivamente, ed il pubblico di<br />

riferimento (sono state, per esempio, avviate con successo azioni di dilution dai titolari dei famosi<br />

marchi 4711, Roll Royce e Whisky Dimple).<br />

In Inghilterra, la teoria della dilution si è sviluppata molto più recentemente che negli Stati Uniti. Il<br />

nuovo Trademark Act del 1994 è il primo statuto inglese che ha riconosciuto la dilution in pratica,<br />

anche se non espressamente (la sezione 10 che riguarda la contraffazione del marchio e la sezione<br />

10.3, disciplina l’ipotesi dell’uso di un marchio simile o identico su prodotti differenti che<br />

costituisce contraffazione, se il marchio gode di reputazione nel Regno Unito, e l’uso del segno è<br />

idoneo a determinare perdita di capacità distintiva o di reputazione al marchio).<br />

Infine, tutti i Paesi che prevedono una legge di concorrenza sleale hanno previsto, come strumento<br />

alternativo alla tutela delle azioni concernenti il look-alike dei prodotti, un’azione di concorrenza<br />

sleale, in particolare per la cosiddetta “misappropriation”.<br />

Il concetto di misappropriation sta ad indicare l’ipotesi in cui il produttore del prodotto che, per il<br />

suo aspetto esteriore, assomiglia ad un prodotto più conosciuto, si sia appropriato dello sforzo<br />

creativo del primo produttore. E ciò indipendentemente da un rischio di confusione tra i due<br />

prodotti. Questa è l’impostazione tenuta anche dalle Corti francesi, per esempio in relazione alle<br />

azioni di concorrenza sleale e di cosiddetto parassitismo (o imitazione servile) dove i Tribunali<br />

guardano alle caratteristiche del packaging del prodotto, così come esso appare sul secondo<br />

prodotto, al fine di stabilire se questo packaging trae origine dal primo, oppure no. A questo<br />

proposito, ricordiamo il caso della “Classic Cola” che ottenne, con successo, una condanna in<br />

Francia di un produttore di Cola in bottiglie simili alla più famosa Coca Cola.<br />

3. La tutela contro il look-alike in Italia<br />

3.1 La confezione del prodotto: marchio o cos’altro?<br />

La tutela della confezione di un prodotto induce ad alcune riflessioni. Occorre, prima di tutto,<br />

stabilire se la confezione sia un segno oppure no.<br />

Riterremmo che i giudici tendono troppo spesso a sottovalutare il ruolo della confezione del<br />

prodotto. I magistrati danno maggiore importanza ai marchi apposti sulle confezioni, più che alla<br />

confezione in sé, cioè intesa come un insieme di colori, di forme, di scritte, di immagini che<br />

trasmettono messaggi importanti al consumatore. Nelle motivazioni dei giudici che si sono occupati<br />

di imitazione di confezioni, il principio diffuso e generalizzato è quello di considerare la confezione<br />

del prodotto come priva di capacità distintiva. Il giudice spesso ritiene che la confezione è un<br />

insieme di simboli diffusi, banali, non individualizzanti, dunque non meritevoli di protezione.<br />

Questa impostazione non è corretta. Stabilire se una confezione sia dotata di capacità distintiva, non<br />

dipende assolutamente da ciò che è riprodotto sulla confezione, bensì da come questa immagine è<br />

8 Callmann, The Law of Unfair Competition and Trademarks, 2 nd edition 1950, 1643.<br />

4


percepita dal pubblico dei consumatori. Non sono le singole parole o le singole immagini a<br />

conferire un ruolo distintivo alla confezione del prodotto; è l’insieme di tali elementi che rende una<br />

confezione un vero e proprio segno.<br />

La capacità distintiva non va ricercata in una parola piuttosto che in un colore o in un’immagine; la<br />

capacità distintiva è data da tutta la confezione, dalla sua immagine globale. Non possiamo<br />

scomporre le immagini e le parole della confezione di un prodotto; non possiamo porci di fronte ad<br />

una confezione con visione atomistica 9 . E allora, occorre cambiare l’impostazione.<br />

La confezione, di per sé, ha un ruolo attrattivo e significativo per il consumatore, e per tale motivo<br />

essa assume sempre più importanza, non solo per la comunicazione di un’azienda, bensì proprio nel<br />

determinare la decisione all’acquisto del consumatore: una bella confezione (con disegni particolari<br />

o con una forma originale) faciliterà la decisione 10 .<br />

In un articolo pubblicato in Internet e riferito alla Fiera Pack-Mat di Bologna, tenutasi nel febbraio<br />

2002, si legge 11 : “Forza del brand e personalità del prodotto trovano nel design la loro massima<br />

espressione: ‘Pensiamo alla bottiglia della Coca Cola. Si potrebbe eliminare l’etichetta adesiva,<br />

verniciare il vetro di bianco e quanto otterremo sarebbe comunque riconoscibile come bottiglia di<br />

Coca Cola”.<br />

Il prodotto si presenta con un insieme di caratteristiche, una delle quali (ma solo una delle tante) è il<br />

marchio. La reazione del consumatore, in relazione al prodotto, dipende da quell’insieme di<br />

caratteristiche non, invece, soltanto dal marchio. Tra queste caratteristiche, una delle più importanti<br />

è proprio la confezione in cui è racchiuso il prodotto. Il marchio identifica nella mente del pubblico<br />

un prodotto, separandolo dai prodotti concorrenti, utilizzabili per la soddisfazione dello stesso<br />

bisogno. Ciò non può che avvenire, nella mente del pubblico, ricollegando i prodotti, così separati,<br />

ad una fonte comune, ad un comune trattamento, ad una comune origine e, cioè, ad una comune<br />

impresa da cui i prodotti provengono. Il marchio identifica i prodotti di un fabbricante o un<br />

venditore, distinguendoli da quelli venduti o usati da altri.<br />

Occorre, ora, chiarire che cosa sia il prodotto. I prodotti sono acquistati e consumati non solo per<br />

quello che sono, ma anche per quello che essi significano per il consumatore.<br />

L’aspetto che viene subito considerato è la sua struttura fisica. Nel processo che porta alla<br />

soddisfazione del bisogno umano, si devono però tener presente molti altri aspetti, quali il<br />

confezionamento, la garanzia, il colore, il modo di distribuzione, il marchio, l’immagine<br />

dell’azienda, il prezzo, la pubblicità, ecc. Tutti questi aspetti hanno rilievo per far sì che un prodotto<br />

sia un prodotto e non un altro. Quanto alla confezione del prodotto, essa possiede un’attitudine a<br />

distinguere, attitudine dimostrata dall’uso. E così, indipendentemente dal marchio denominativo<br />

apposto sulla confezione, il consumatore percepirà la provenienza di quel prodotto da una certa<br />

fonte produttiva, anche per effetto del confezionamento. Si faccia un esempio semplicissimo. Si<br />

pensi ad una confezione di biscotti caratterizzata da una particolare forma, colore e figure, che<br />

riporta anche un marchio denominativo. Si pensi ad una confezione di biscotti Mulino Bianco: il<br />

marchio denominativo è “Mulino Bianco”, mentre la confezione riporta anche un insieme di simboli<br />

denominativi e/o figurativi. Per capire se la confezione possa essere idonea a distinguere quei<br />

biscotti come provenienti da Barilla e non da altra fonte produttiva, immaginiamo la confezione<br />

9<br />

A questo proposito, correttamente, un magistrato napoletano, in una recente ordinanza dell’11 luglio 2000, ha detto:<br />

“Quel che rileva (ed è sanzionabile se imitato pedissequamente) è l’assemblaggio, la composizione di tutti tali elementi<br />

in una confezione: appunto il packaging”. Interessante anche il passaggio successivo nell’ordinanza: “In definitiva, e<br />

nonostante la presenza di questo o di quell’elemento comune (ma mai di tutti contestualmente),la confezione Gran<br />

Turchese non è mai confondibile con le altre; ad una grammatica comune, vale a dire gli elementi di partenza (tazza,<br />

biscotti, ecc…) corrisponde una sintassi (composizione) differenziata e non confondibile”.<br />

10<br />

La rilevanza della confezione non è fenomeno ignoto al giudice nel campo del diritto industriale. Si pensi ai brevetti<br />

per modello ornamentale: parte della giurisprudenza e della dottrina hanno affermato che l’originalità (in un brevetto<br />

per modello ornamentale) deve essere intesa con quel “quantum di diversità della forma, oggetto di brevetto, dalle<br />

forme preesistenti, che deve essere idonea ad essere percepita e presa in considerazione dal consumatore medio al<br />

momento di decidere la convenienza dell’acquisto” (così VANZETTI, in questa rivista, 1994, parte I, 319). Questa<br />

opinione è condivisa anche della Corte di Cassazione (Cass. 1995/484).<br />

11<br />

Tenutasi a Bologna dal 7 al 9 febbraio 2002. Il contributo è di Andrea Giollo, partner dello studio di design Giò Rossi<br />

e Associati, www.pack-mat.com/packmat2002/<br />

5


senza il marchio “Mulino Bianco”. Ebbene, il consumatore, in mezzo a molte altre confezioni di<br />

biscotti, (in ipotesi, prive anch’esse di marchio) sarà in grado di riconoscere quella confezione come<br />

proveniente da una specifica fonte produttiva. In altre parole, il consumatore riconoscerà la<br />

confezione Mulino Bianco di Barilla anche se priva del marchio nominativo. In questo caso,<br />

diciamo, allora, che la confezione di un prodotto diventa segno quando sia idonea a suscitare nella<br />

mente del consumatore il collegamento tra il segno ed il prodotto. Per tale segno usiamo il termine<br />

“marchio”.<br />

3.2 I casi giurisprudenziali italiani di look-alike<br />

In Italia non esiste una trattazione del look-alike.<br />

Il fenomeno è disciplinato dalla giurisprudenza attraverso la fattispecie della concorrenza sleale per<br />

imitazione servile (art. 2598 c.c. n. 1).<br />

Le decisioni sono piuttosto rare. Tra queste merita attenzione la decisione del Tribunale di Verona 12<br />

(forse una delle prime), che ha riconosciuto confondibili due confezioni di dentifricio (di seguito<br />

riprodotte).<br />

Un’altra decisione è l’ordinanza del Tribunale di Napoli, 11 luglio 2000 (successivamente revocata<br />

in sede di reclamo) 13 .<br />

Il caso riguardava l’imitazione della nota confezione dei biscotti Gran Turchese di Colussi da parte<br />

della società Elledì (qui di seguito sono riprodotte le due confezioni):<br />

La decisione napoletana ha, per la prima volta, parlato di look-alike. Secondo il giudice che ha<br />

esaminato la fattispecie, il look-alike non può essere disciplinato ricorrendo al punto 3 dell’art. 2598<br />

c.c. in tema di concorrenza sleale (attività non conforme ai principi della correttezza professionale)<br />

ma piuttosto in quella disciplinata al n. 1 della stessa norma (imitazione servile confusoria). In<br />

particolare, è stato ritenuto che l’apposizione sulla confezione di un marchio denominativo<br />

differente, non esclude il rischio di confusione per il consumatore, che vedendo una confezione<br />

assolutamente simile in tutti i suoi elementi denominativi, figurativi e di colore, alla più nota<br />

confezione di biscotti che egli, abitualmente, è solito comprare, sarà indotto a ritenere o che quella<br />

confezione proviene da Colussi o che, quanto meno, tra quella confezione, che non proviene da<br />

12 Tribunale di Verona, (ord.), 21 settembre 1992, caso Farmaceutici Dr. Ciccarelli S.p.A. contro Lidl Italia S.r.l.,<br />

inedita. Per un breve commento si veda EIPR 1992, D-238.<br />

13 Tribunale di Napoli, 13 settembre 2000.<br />

6


Colussi, vi sia un collegamento all’azienda Colussi. Il magistrato napoletano ha, per la prima volta,<br />

allora, introdotto un concetto di rischio di associazione in ambito di concorrenza sleale. E’ stata<br />

riconosciuta, alla confezione, la qualifica di segno distintivo dell’azienda.<br />

È ancora il Tribunale di Napoli 14 ad affermare la sussistenza della fattispecie di concorrenza sleale<br />

in un caso di imitazione servile (della forma e) della confezione delle patatine Cipster della Saiwa<br />

da parte di un produttore meno noto.<br />

Di segno opposto il Tribunale di Bergamo 15 , che ha negato il rischio di confusione tra le confezioni<br />

di grissini “Fagolosi” della Grissin Bon e “Amor di Pane” della società Oscar S.p.A.<br />

Il Tribunale di Bergamo, peraltro seguendo un orientamento giurisprudenziale assai diffuso, ha<br />

ritenuto che l’apposizione di marchi diversi sulle confezioni (da un lato “Fagolosi” e all’altro<br />

“Amor di Pane”) fosse sufficiente ad escludere ogni rischio di confusione per il consumatore,<br />

indipendentemente dal fatto che le due confezioni presentassero elementi tra loro molto simili.<br />

Inoltre, nel caso specifico, il Tribunale ha ritenuto che la confezione “Fagolosi” non potesse essere<br />

dotata di capacità distintiva, perché riproducente elementi, di per sé presi, privi di capacità<br />

distintiva. L’errore in cui, a nostro avviso, è caduto il Tribunale, è stato quello di valutare la<br />

confezione separando i singoli elementi, non tenendo conto dell’insieme degli stessi e della loro<br />

combinazione. Anche la combinazione di elementi, di per sé noti, può essere idonea a distinguere<br />

un certo prodotto in mezzo a tanti altri simili, quando il consumatore percepisca tale combinazione<br />

come avente un significato.<br />

3.3 La tutela della confezione del prodotto: legge marchi o concorrenza sleale?: un falso<br />

problema.<br />

La confezione di un prodotto è un marchio quando e se dotata di capacità distintiva. La confezione<br />

del prodotto può essere un marchio registrato o marchio di fatto (quest’ultima è l’ipotesi più<br />

frequente). Nel primo caso, non c’è dubbio che la confezione del prodotto dovrà essere trattata alla<br />

stregua di tutti gli altri marchi tradizionali. In tal caso, troveranno applicazione i principi contenuti<br />

nella legge marchi. Nel caso, invece, che la confezione non sia registrata come marchio, il problema<br />

posto da dottrina e giurisprudenza è se il marchio di fatto debba essere protetto mediante il ricorso<br />

ai principi della tutela della concorrenza sleale o, invece, mediante il ricorso alla tutela derivata, con<br />

opportuni adattamenti, dalla disciplina del marchio registrato.<br />

Ci sembra oramai acquisito che nella sostanza la questione non sia rilevante. In definitiva, la<br />

violazione della norma sulla concorrenza sleale è sanzionata allo stesso modo della violazione delle<br />

norme sul marchio registrato.<br />

Piuttosto, occorre osservare che la fattispecie della concorrenza sleale non può essere fotografata in<br />

forma tipica, statica, ed è, per così dire, “a geometria variabile”. Ciò che è considerato concorrenza<br />

sleale oggi poteva non esserlo in passato e non lo sarà domani. La moralità del mercato cambia con<br />

l’evolversi del tempo. Non solo cambiano i criteri di valutazione, ma anche i fatti che possono<br />

14 Tribunale di Napoli, 28 settembre 2001, in Giur. Napoletana, 12, 2001, 444.<br />

15 Tribunale di Bergamo, 27 novembre 1999, inedita.<br />

7


essere considerati illeciti: la distanza che il secondo concorrente deve mantenere dal marchio di<br />

fatto può variare nel tempo, e così anche la modalità degli atti lesivi e la loro natura. Diversamente,<br />

in tema di marchi registrati, può variare la valutazione del Tribunale circa la maggiore o minore<br />

vicinanza dell’imitazione al segno, ma l’imitazione, ci pare, rimane sempre quella. Pertanto, a<br />

differenza della concorrenza sleale la violazione di marchio sarebbe “a geometria fissa”.<br />

Per esempio, è proprio a proposito del marchio registrato che si possono nutrire dei dubbi sul punto<br />

se il rischio di confusione comprende il rischio di associazione (rischio di associazione che<br />

presuppone la confusione 16 oppure che non la presuppone 17 ). Questo perché la fattispecie è<br />

tipizzata e, pertanto, ciò che deve essere valutato è solo la distanza tra il marchio registrato e il<br />

marchio contraffattore. Per l’atto di concorrenza sleale, invece, possono anche essere diversi gli atti<br />

di aggressione, ovvero le modalità con cui l’illecito è posto in essere.<br />

4. Il rischio di confusione in tema di concorrenza sleale.<br />

Dal “passing off” alla tutela del “goodwill” alla repressione della slealtà<br />

Dottrina e giurisprudenza individuano l’atto di concorrenza sleale in presenza di due requisiti:<br />

i) un livello, anche minimo, di novità nella realizzazione del soggetto passivo dell’atto;<br />

ii) la confusione creata dal soggetto attivo.<br />

Qui interessa il punto sub ii).<br />

Il concetto di confusione ha subito una profonda evoluzione nel tempo.<br />

La prima costruzione si riferiva al concetto di confusione intesa nel senso di scambiabilità (il<br />

consumatore acquista il prodotto A credendo che sia il prodotto B); il principio, secondo la<br />

terminologia inglese, si chiama “passing off” o “palming off”. Da questa impostazione iniziale si<br />

passa in seguito ad un concetto di confusione legato alla tutela dell’avviamento (“goodwill”). E<br />

allora non si guarda tanto alla confusione, ma quanto alla necessità di tutelare l’avviamento creato e<br />

quindi di evitare che i concorrenti “si approprino della messe di colui che ha seminato” 18 . Questo<br />

indirizzo ha dato poi il via alla costruzione moderna dell’istituto come appunto basata soprattutto<br />

sulla necessità di tutelare l’avviamento.<br />

La riforma della Convenzione di Parigi, con la riformulazione dell’art. 10 bis, (testo adottato a<br />

Stoccolma il 14 luglio 1967; il testo di Stoccolma è stato ratificato e reso esecutivo per l’Italia con<br />

Legge 28 aprile 1976) introduce un elemento di tutela del consumatore: occorrerà allora guardare<br />

non più o non solo alla scambiabilità tra prodotti e alla tutela dell’avviamento del produttore, ma<br />

alla confusione (di qualunque tipo) che si crea nella mente del consumatore, alterando il processo<br />

decisionale di quest’ultimo, al momento dell’acquisto del prodotto.<br />

Recentemente, si è tornati, tuttavia, ad una valutazione della confusione più vicina alla concezione<br />

originaria. E’ necessario valutare la slealtà del comportamento che deve essere vietato, tutelando il<br />

lavoro dell’imprenditore e garantendo di conseguenza un regime concorrenziale basato sulla<br />

correttezza e la lealtà 19 .<br />

Ci sembra, allora, che si possa adottare una nozione unitaria del concetto di rischio di confusione.<br />

Tale conclusione, da un lato rappresenta il naturale sviluppo dell’interpretazione attribuita al<br />

concetto di rischio di confusione in materia di marchi, dall’altro è l’unica comunque utilizzabile in<br />

16 Tale è l’orientamento della Corte di Giustizia, Caso C-251/95, Sabel BV v. Puma AG, in Dir. Ind. 1998, 2, 132; C-39-<br />

97, 29 settembre 1998, Canon Kabushiki v. Metro Goldwyn Mayer Inc., in GADI 1999, 4038; C-342/97 Lloyd<br />

Schuhfabrik Meyer & Co. GmbH v. Klijsen Handel BV, in GADI 1999, 4045.<br />

17 Si tratta dell’orientamento di una parte di dottrina minoritaria, orientamento a cui aderiamo, secondo il quale il rischio<br />

di associazione (concetto tipico del diritto del Benelux) deve essere inteso quale rischio indipendente dal rischio di<br />

confusione sull’origine e più ampio di quest’ultimo. Cfr. M. FRANZOSI, Sulla funzione del marchio e sul rischio di<br />

associazione, in Dir. ind. 1999, 138; GALLI, Il diritto transitorio dei marchi, Milano 1994; Funzione del marchio e<br />

ampiezza della tutela, Milano, 1996; G CASABURI, Rischio di associazione: tutela avanzata del marchio, in Segni e<br />

forme distintive, Giuffrè 2001; M. BOSSHARD, Rischio di associazione tra segni, ampiezza della tutela e funzione del<br />

marchio nella recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Contratto e Impresa, 1999, pag. 1.<br />

18 International New Service v. Associated Press, Corte Suprema Americana, 1918.<br />

19 Cfr. Cass., 9 marzo 1998 n. 2578, in questa rivista 1998, II, 255; Cass., 28 maggio 1999 n. 5243, ivi 2000, I, 3.<br />

8


tema di concorrenza sleale 20 . Tra l’altro, l’adozione di un concetto di rischio di confusione allargato<br />

per i marchi e ristretto per le altre ipotesi confusorie, condurrebbe all’inaccettabile conseguenza di<br />

attribuire una tutela maggiore per alcune delle fattispecie contemplate dalle citate norme e minore<br />

per le altre. Non vi è nessuna preclusione di ordine normativo pratico per ritenere che il concetto di<br />

rischio di associazione non sia applicabile anche in materia di concorrenza sleale. Al contrario, la<br />

nozione di confondibilità concorrenziale è l’unica adeguata all’attuale economia di mercato e alla<br />

connotazione che in essa assumono i prodotti: il prodotto non è soltanto quello contrassegnato da un<br />

certo marchio; il prodotto è anche pubblicità, valore economico, confezionamento, design, slogan,<br />

veicolo dell’immagine dell’imprenditore 21 . In tale contesto, l’imitazione del concorrente sarà<br />

illecita, non solo qualora induca il consumatore in errore circa la provenienza del prodotto, ma<br />

anche quando la stessa provochi nella sua mente un’associazione, al limite anche indiretta o<br />

subliminale tra prodotto o servizio della prima impresa e servizio o prodotto dell’imitatore,<br />

inducendolo a trasferire almeno una parte dell’immagine positiva che ha del primo (frutto di<br />

investimento, lavoro, scelte di marketing, strategie pubblicitarie) al secondo.<br />

4.1 Il rischio di associazione nell’ambito di imitazione delle confezioni di prodotti.<br />

Il ruolo del consumatore<br />

Il concetto del rischio di associazione in ambito concorrenziale acquista un valore particolare<br />

proprio con riguardo all’imitazione di confezioni di prodotti. In presenza di due confezioni che si<br />

assomigliano nei loro elementi esteriori, il consumatore sarà indotto a realizzare un collegamento,<br />

eventualmente anche solo indiretto, tra i prodotti e le attività pubblicitarie poste in essere dal<br />

prodotto cosiddetto originale e quelle del prodotto imitante 22 .<br />

Il giudizio sul rischio di confusione, in tema di look-alike, richiede alcune considerazioni generali<br />

sul consumatore.<br />

Ogni marchio trasmette un significato, un messaggio. Il messaggio avrà un percettore. In tema di<br />

marchi il percettore è il consumatore. La recente sentenza EUROCOOL del Tribunale di Primo<br />

Grado della Corte Europea 23 ha stabilito che il carattere distintivo di un marchio deve essere<br />

valutato non soltanto in relazione ai prodotti contrassegnati, ma altresì “rispetto alla percezione di<br />

un pubblico cui ci si rivolge, che è costituito dal consumatore di tali prodotti o servizi”. Già la<br />

Corte di Giustizia, nella recente sentenza Baby-Dry 24 , nel valutare la distintività del marchio, ha<br />

invitato a mettersi “in the feet of the consumers” (in italiano diremmo “nei panni dei consumatori”).<br />

Tale affermazione è altresì confermata nel passaggio successivo della sentenza della Corte europea<br />

in cui si legge che la funzione distintiva del marchio verrà assicurata solo se “consentirà al<br />

consumatore che acquista il prodotto o servizio indicato dal marchio, al momento di effettuare una<br />

successiva acquisizione, la stessa scelta di acquisto, se l’esperienza risulti positiva, o un’altra, se<br />

essa risulti negativa”. È nell’atto d’acquisto, dunque, che il marchio esplica la sua funzione. È nel<br />

momento dell’acquisto che il marchio viene memorizzato dal consumatore. Del resto, sul momento<br />

d’acquisto, insiste anche la sentenza TABS 25 dello stesso Tribunale di Primo Grado che, al<br />

paragrafo 46, ribadisce che la funzione del marchio è soddisfatta se “il marchio richiesto consente<br />

20 Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza dell’11 luglio 2000, nel caso Colussi, ha affermato che la nozione del rischio<br />

di confusione secondo il significato mutuato dalla legge marchi è: “… generalizzabile, anche oltre la tutela dei marchi<br />

d’impresa e viene ad integrare il significato normativo della nozione di confusione (lo si ribadisce, non meglio definita)<br />

di cui all'art. 2598 c.c.”.<br />

21 Cfr. G. CASABURI, Rischio di associazione: tutela avanzata del marchio, cit., pag. 103 ss.<br />

22 Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza dell’11 luglio 2000, ha detto a questo proposito: “In altri termini, l’imitazione<br />

comporta uno sviamento delle informazioni positive espresse dalla prima confezione e che sono acquisite da quella<br />

dell’imitatore”.<br />

23 Tribunale di Primo Grado, 27 febbraio 2002, T-34/00, Eurocool Logistic k GmbH vs. OHIM, caso EUROCOOL, par.<br />

38. Nello stesso senso Decisione T-219/00, 27 febbraio 2002, Ellos AB vs. OHIM, caso ELLOS; decisione T-79/00, 27<br />

febbraio 2002, Rewe Zentral AG. vs. OHIM, caso LITE e decisione T-106/00, 27 febbraio 2002, Streamserve Inc. vs.<br />

OHIM, caso STREAMSERVE.<br />

24 Corte di Giustizia CE, sentenza 20 settembre 2001, C-383/99, Plocter & Gumble vs. OHIM, Baby-Dry.<br />

25 Tribunal di Primo Grado, T-30/00, 19 settembre 2001, Henkel KGaA vs. OHIM, caso TABS.<br />

9


al pubblico cui ci si rivolge di distinguere i prodotti di cui trattasi da quelli aventi un’altra origine<br />

commerciale al momento della decisione di effettuare un acquisto” 26 .<br />

In tema di imitazione di confezione di prodotto, il rischio di confusione e/o il rischio di associazione<br />

assumono una connotazione particolare. Si ha rischio di confusione, nel senso classico del termine,<br />

quando il consumatore che vuole acquistare il prodotto A, acquista invece il prodotto B, perché<br />

tratto in inganno dalla similitudine delle confezioni. Tuttavia, questa ipotesi è forse la meno<br />

frequente. Normalmente, se anche le confezioni si assomigliano molto (nelle immagini, colori e<br />

forme) esse, tuttavia, riportano marchi differenti. Per lo più, le imitazioni riguardano confezioni di<br />

prodotti di largo consumo che abitualmente vengono vendute nei supermercati. E nei supermercati<br />

le confezioni (che si tratti di confezioni di pasta o di confezioni di detersivi o altro) sono allineate<br />

sugli scaffali le une accanto alle altre. Il consumatore che va al supermercato, normalmente si trova<br />

di fronte ad un prodotto ad una distanza piuttosto ravvicinata. Spesso l’acquisto avviene sì<br />

velocemente, ma in una posizione tale in cui il consumatore è in grado di distinguere che una<br />

confezione non è uguale all’altra o che una confezione riporta un marchio differente dall’altro.<br />

Difficilmente, chi vuole A prenderà B nella convinzione che sia A. Invece, succede una cosa<br />

diversa. Il consumatore vuole acquistare A, vede il prodotto B che è assolutamente simile, nella<br />

confezione, al prodotto A. Il consumatore sa che il prodotto B non è il prodotto A, tuttavia acquista<br />

B perché pensa che tra l’azienda che produce B e l’azienda che produce A vi sia un qualche<br />

collegamento; il consumatore penserà che forse B è una sottomarca di A e dunque B ha la stessa<br />

qualità di A. Qui si verifica, allora, un rischio di associazione.<br />

Cioè, si verifica:<br />

i) alterazione del processo decisionale del consumatore;<br />

ii) possibile sviamento di clientela;<br />

iii) danno per l’impresa che ha diritti sulla confezione.<br />

L’errore, secondo noi, sta nel ritenere che un rischio di associazione tout court non crei confusione e<br />

non meriti protezione. Non è così. La decisione di comprare B e non A determina, nella mente del<br />

consumatore, alterazione decisionale al momento dell’acquisto.<br />

4.2 L’imitazione della confezione è un atto sleale. L’applicazione dell’art. 2598 n. 3 c.c.<br />

Il problema che vogliamo in conclusione affrontare e che speriamo possa rappresentare uno spunto<br />

di riflessione, è il superamento della visione ristretta della imitazione della confezione dal solo<br />

punto di vista della disciplina concorrenziale confusoria (art. 2598 n. 1 c.c.), ossia dal solo punto di<br />

vista del rischio di inganno per il consumatore 27 .<br />

L’imitazione della confezione non è un atto sleale solo perché l’imitazione crea confusione. Una<br />

tale concezione, troppo spesso adottata dalla prassi giudiziale, finisce col negare tutela alla<br />

confezione per il semplice fatto che in concreto la confusione pare non sussistere 28 . E non sussiste<br />

per svariati motivi: perché i singoli elementi della confezione sono giudicati non distintivi oppure<br />

non sono completamente identici, o ancora perché i canali distributivi sono diversi, oppure il<br />

marchio apposto sulla confezione è diverso. Il consumatore, che, come dice la Corte di Giustizia,<br />

oggi sempre più spesso è consumatore attento e informato, può sapere che i prodotti, pur<br />

presentando una confezione simile e confondibile, provengono da due fonti produttive diverse.<br />

Non c’è confusione, allora, non c’è concorrenza sleale? La conclusione è inaccettabile.<br />

Si è perso di vista il fondamento logico, la ratio dell’istituto della concorrenza sleale, che è quello<br />

di colpire il comportamento concorrenzialmente illecito, e non solo quello di proteggere<br />

determinate ideazioni – la confezione del prodotto – o eliminare l’effetto confusorio in relazione al<br />

consumatore.<br />

26<br />

Corte di Giustizia, decisione 16 luglio 1998, C-210/96; 6-Korn-Eier – Gut Springenheide; decisione 22 giugno 1999,<br />

C-342/97, Lloyd.<br />

27<br />

In questo senso si era già espresso ROTONDI, Diritto Industriale, Padova, 1965, pag. 498 ss., il quale ha sostenuto che<br />

è ammissibile l’imitazione servile senza la confusione dei prodotti. Tale atto sarebbe scorretto non tanto ai sensi dell’art.<br />

2598 n. 1 c.c., ma dell’art. 2598 n. 3 c.c.<br />

28<br />

Non sussiste in termini di scambiabilità, mentre esiste pur sempre il collegamento associativo con la fonte produttiva.<br />

10


Si dovrà, invece, guardare alla slealtà del comportamento in sé considerato.<br />

Il rischio di confusione per il consumatore potrà anche essere escluso, ma ciò non deve escludere a<br />

priori l’ulteriore valutazione se il comportamento di imitare la confezione altrui è sleale e deve<br />

essere proibito. L’esigenza di tutelare il lavoro di un imprenditore – (studio e realizzazione di una<br />

determinata confezione) che permetta al suo prodotto di distinguersi dagli altri – nasce dalla<br />

necessità di assicurare che il regime concorrenziale del mercato si realizzi su basi di correttezza e<br />

lealtà: “la legge, se deve evitare il perpetuarsi di un monopolio di sfruttamento oltre la fisiologica<br />

durata di una privativa, non può tuttavia, in via di principio, consentire un vero e proprio storno<br />

del frutto dell'altrui investimento. Siffatta soluzione finirebbe con l'essere essa anticoncorrenziale,<br />

perché toglierebbe un presupposto della competizione nel mercato, che è la possibilità di<br />

conquistare, secondo regole di correttezza commerciale, la clientela” 29 .<br />

La dottrina straniera, in particolare quella tedesca 30 , ha affermato che la disciplina della<br />

concorrenza sleale trova applicazione allorché si verifichino circostanze che permettono di ritenere<br />

sleale la condotta dell’imitatore. Tali circostanze devono essere oggettive (il prodotto e/o la<br />

confezione imitata devono essere innovative) e soggettive (il concorrente ha sfruttato direttamente<br />

la prestazione altrui: “unmittelbare Leistungsübernahme”).<br />

Un imprenditore che mette in commercio un nuovo prodotto o un prodotto con una nuova e<br />

accattivante confezione non lo fa certo con l’intento di offrire ai propri concorrenti un esempio da<br />

copiare. Gli altri imprenditori potranno sì prendere spunto dalla idee altrui ed elaborarle per creare<br />

ancora qualcosa di nuovo e diverso. Ma nel momento in cui il concorrente utilizza quel prodotto per<br />

riprodurlo esattamente, utilizza la prestazione altrui senza costi, senza fatica, senza lavoro.<br />

L’illiceità, ancora una volta, non risiede nel risparmio di costi e fatica da parte del concorrente.<br />

Questo risparmio è la conseguenza dell’atto sleale, ma non è la slealtà. L’illiceità risiede nella<br />

volontà di utilizzare conoscenze produttive altrui al fine di fare concorrenza a colui che possiede tali<br />

conoscenze 31 .<br />

Negli esempi che abbiamo riportato all’inizio di questo articolo, le confezioni imitatrici<br />

riproducevano – con variazioni minime ed insignificanti – forma, colore, figure e parole, talvolta<br />

addirittura lo stesso numero degli elementi figurativi. Non si deve punire il concorrente per aver<br />

utilizzato una medesima forma della confezione, o il medesimo colore, o un identico elemento<br />

figurativo: si deve però punire il concorrente che utilizzi tutti gli elementi della confezione altrui in<br />

modo identico al titolare della confezione imitata, al solo fine di acquisire direttamente il risultato<br />

dello sforzo creativo di un concorrente: “Se gli affari vengono fatti per competere nel gioco del<br />

commercio, allora anche le regole del gioco devono garantire che i concorrenti competano<br />

lealmente” 32 .<br />

Ovviamente, non qualsiasi imitazione di una confezione altrui potrà essere considerata<br />

concorrenzialmente illecita, dovendosi pur sempre considerare l’imitare l’idea altrui, un incentivo al<br />

continuo miglioramento 33 , tuttavia diviene illecita e rimproverabile qualora sia evidente l’intento<br />

del terzo di creare confusione con i prodotti altrui (anche qualora la stessa confusione in concreto –<br />

29<br />

Cass., 9 marzo 1998 n. 2578, caso Lego System A/S c. Tyco Idustries Inc. e Arco Falc Srl, cit. Cass., 28 maggio 1999<br />

n. 5243, cit.<br />

30<br />

Disciplina della concorrenza sleale secpndo il § 1 UWG. Cfr. TROLLER, Immaterialgüterrecht, II, Basel-Stuttgart<br />

1971; BAUMBACH HEFERMEHL, Kommentar VWG, 1972, 1, par. 1, p. 338, 500.<br />

31<br />

Cfr. PERRET, La protetion des prestations en droit suisse, Basel, 1977, II, 250: “L’insieme dei concorrenti forma una<br />

comunità dominata da rapporti di fiducia. Ora costituisce un inganno della fiducia il ‘surmoulage’ di un oggetto, la<br />

reincisione di un disco, la fotocopia di un’edizione (a diritto d’autore scaduto) al fine di fare concorrenza a colui i cui<br />

prodotti sono serviti da prototipo all’impresa parassita”. Cfr. FRANZOSI, La protezione del disegno industriale<br />

(unmittelbare Leistungübernahme) quale base della protezione, in Contratto e Impresa, 1991, I, pag. 97 ss.<br />

32<br />

Cfr. H. BRETT, Unfair cpmpetition – not merely an accademic issue?, in EIPR, 1979.<br />

33<br />

Clark Boardman Callaghan, Trademarks and unfair competition, 3d ed., 1992-96, 5v., afferma “Il primo principio<br />

della legge sulla concorrenza sleale è che qualsiasi cosa che non è protetta da una privativa industriale può essere<br />

copiata. Infatti, copiare è uno degli elementi essenziale dell’intero sistema economico basato sulla libera concorrenza.<br />

Così che l’atto di copiare, ben lontano dall’essere intrinsecamente sconveniente, è essenziale e deve essere lodato ed<br />

incoraggiato, non condannato. Non c’è assolutamente nulla di legalmente o moralmente reprensibile in copiare<br />

esattamente cose di pubblico dominio”.<br />

11


confondibilità soggettiva - sia talvolta esclusa, nella prassi, dall’apposizione di un marchio<br />

diverso 34 ).<br />

L’imitazione della confezione altrui è anche, o solo, un atto illecito ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c.,<br />

perché contrario ai principi di correttezza professionale.<br />

5. Conclusioni.<br />

I precedenti in materia di imitazione delle confezioni, intese come veri e propri marchi, dotati di<br />

capacità distintiva ed idonei ad attirare l’attenzione del consumatore e a trasmettere una serie di<br />

informazioni relative alla fonte di provenienza sono ancora poco numerosi in Italia, nonostante che<br />

il problema si presenti sempre più spesso a danno di famose aziende che vedono spuntare ogni<br />

giorno una nuova confezione troppo simile alla loro 35 .<br />

Il fenomeno non può non essere preso in attenta considerazione dai nostri giudici.<br />

Il packaging di un prodotto, può e deve essere tutelato alla stregua di qualsiasi altro elemento<br />

distintivo dell’azienda, contro l’imitazione altrui.<br />

Il nostro sistema normativo fornisce gli strumenti adeguati. Occorre utilizzarli.<br />

34 Se si ritiene che due confezioni seppur identiche o molto simili non determinino una confondibilità a causa del<br />

marchio differente, tuttavia non è escluso che una parte rilevante di pubblico, pur ritenendo che i prodotti siano diversi,<br />

possano pensare che vengano dalla stessa casa o di case collegate per legami economici, tecnici, commerciali.<br />

35 La rarità delle decisioni in materia è spesso legata alla circostanza che i produttori di noti marchi, raramente<br />

intraprendono azioni a tutela delle confezioni dei loro prodotti, per il fatto che si troverebbero a dover agire contro i loro<br />

principali clienti (catene distributive) che adottano per i c.d. own brand products confezioni del tutto simili a quelle dei<br />

principali branded products. Ciò ha consentito al fenomeno del look-alike di dilagare senza possibilità di contrasto dello<br />

stesso.<br />

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