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LUIGI CANCRINI Psichiatra, Psicoterapeuta ... - Fiore Del Deserto

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<strong>LUIGI</strong> <strong>CANCRINI</strong><br />

<strong>Psichiatra</strong>, <strong>Psicoterapeuta</strong>, Presidente del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale.<br />

Condivido le riflessione di straordinario rilievo espresse stamani.<br />

Noi eravamo abituati a pensare al disturbo di personalità come a qualcosa di stabile, di statico e<br />

invece non è così. Il disturbo di personalità è qualcosa in cui tanti di noi “entrano” ed “escono”<br />

a periodi.<br />

Vi propongo due riflessioni su questo tema. Una riflessione riguarda una ricerca; la principale<br />

ricercatrice si chiama Mary Zanarini (Zanarini et al., 2010) di Boston. Si tratta di uno studio su<br />

persone diagnosticate con disturbo borderline di personalità, durante un ricovero in una<br />

struttura psichiatrica; è stata svolta una revisione di queste situazioni a 2, 4, 6 e più di 7 anni,<br />

sempre con la domanda “Soddisfa ancora i criteri per il disturbo borderline di personalità?”.<br />

Ebbene dai 2 ai 4 ai 6 e agli oltre 7 anni c’è una discesa progressiva del tasso di persone che<br />

soddisfano ancora quei criteri: oltre i 7 anni soltanto il 25%. Badate che sono diagnosi fatte in<br />

ambiente ospedaliero e quindi per persone che hanno richiesto un ricovero per questo loro<br />

disturbo; pertanto, non stiamo parlando di borderline detto così come si dice “matto”, ma si<br />

tratta di una “cosa seria”; è una diagnosi seria che tende a scomparire.<br />

E, d’altra parte, chi ha frequentato i luoghi del potere, quante volte vediamo persone che<br />

sembrano “normali” e poi, ad un certo punto, partono in una traiettoria psicopatologica; gli<br />

sviluppi narcisistici del personaggio politico o dello spettacolo, e così via, sono drammatici per<br />

chi guarda da fuori; non c’è dubbio che questo accada per un eccesso di consenso, certo su una<br />

persona che una disposizione ce l’ha in quella direzione.<br />

Benjamin L.S. (1996) ha riassunto bene questo aspetto, evidenziando che i disturbi narcisistici<br />

si sviluppano, si espandono, sfondano tutto da una certa fase della vita in poi. Ecco noi<br />

abbiamo questa grande area dei disturbi di personalità, che poi raccoglie la grandissima parte<br />

della psicopatologia, la quale è reversibile con grande vivacità di cambiamenti nell’età<br />

adolescenziale e con una maggiore farraginosità e lentezza, successivamente in un senso e<br />

nell’altro, ma comunque un’area in cui si può “entrare” ed “uscire” a seconda delle circostanze<br />

della vita. Tornando agli adolescenti, il problema è che noi non possiamo mai pensare, che ad<br />

un certo punto individuiamo un adolescente che è patologico e che quindi viene da una<br />

patologia e seguiterà una patologia se non viene curato; noi siamo sempre di fronte a situazioni<br />

provvisorie, rispetto a cui i cambiamenti di contesto e i cambiamenti di situazioni<br />

interpersonali intorno possono determinare sviluppi incredibilmente diversi rispetto al punto di<br />

partenza. Sia detto per inciso anche per ristabilire qual è lo spazio proprio della psichiatria, che<br />

in uno studio di Toronto (Korenblum M., 1990), quello che si vede è invece che laddove a 13 o<br />

a 15 anni si fa diagnosi di un disturbo psicotico, lì è difficile che a 18 non lo si ritrova. Quindi<br />

quello è un altro capitolo, un capitolo più psichiatrico in cui è chiaro che quando saremo in<br />

grado bene di fare le diagnosi sul disturbo di personalità, invece che proprio sui sintomi che<br />

appaiono, ne possiamo forse dimensionare meglio i programmi; perché poi uno deve ragionare<br />

anche su ciò che può promettere a chi viene da lui e promettere a sé stesso come obiettivo del<br />

proprio intervento ogni volta. E certo quello che sta accadendo adesso è che quello che<br />

accomuna nella struttura è l’essere adolescente e non la diagnosi ancora. Solo che la diagnosi<br />

vista da questo punto di vista divide le persone in tre grandi categorie: quelli che hanno un<br />

disturbo psicotico già nell’adolescenza e che chiedono, un’attenzione, una cura, una pazienza,<br />

una dedizione di programma abbastanza complesso e sicuramente anche un forte<br />

coinvolgimento della famiglia; ma questo adesso lo lasciamo un attimo perdere perché è una


parte che non è centrale nel grande numero di persone di cui si è parlato oggi in tutti questi<br />

interventi, anche se a volte spunta anche nelle situazioni del Tribunale, perché certamente la<br />

rottura comportamentale può essere psicotica. La seconda grande categoria è quella delle<br />

persone di cui io ripeto che “entrano” ed “escono” o “entrano” e “possono uscire” che è un<br />

pochino più delicato all’interno di un disturbo di personalità. Vedete, noi dobbiamo avere<br />

ormai una visione della psicopatologia dell’età evolutiva, come giustamente proponeva<br />

Sabatello, in cui le manifestazioni dell’ “entrare” nel disturbo di personalità possono essere a<br />

volte sintomatiche; la grande crisi, che un tempo si chiamava isterica, oppure il disturbo<br />

ossessivo - compulsivo, ma possono essere a volte invece direttamente comportamentali. Cioè<br />

quello che si rivela attraverso la rottura comportamentale, è un disturbo della persona, è uno<br />

che sta male, il ragazzo che fa casino sta male. Questa è una cosa che se noi pensiamo, un<br />

pochino ci aiuta, non è che esiste una differenza tra quello che è cattivo e deve essere<br />

“corretto” e quello che sta male e deve essere “curato”. Una delle manifestazioni dello star<br />

male, che anch’essa va curata, è il comportamento scorretto con tante variazioni, certamente<br />

con tante situazioni complesse, perché sicuramente quello a cui dobbiamo stare molto attenti è<br />

il fatto che questa scorrettezza, illogicità, incoerenza, se volete non eticità, amoralità del<br />

comportamento sia legata ad un disturbo più interno della persona o a qualche cosa di<br />

assimilato all’ambiente per esempio.<br />

In una comunità per minori che, con Saman, abbiamo aperto vicino Foggia, ad Apricena, poco<br />

tempo fa, sui primi 10 ragazzi che sono passati in questo primo anno di attività, ce ne sono<br />

almeno due che hanno un’attività delinquenziale familiare, che sono fonte di sostentamento<br />

criminale per famiglie immerse in una logica di un altro tipo, non rispetto a quella in cui gli<br />

altri invece si trovano. Certamente, il problema è molto più complesso e pone problemi di<br />

ordine vario; insomma, nella rete bisogna dare più importanza all’intervento giudiziario che a<br />

quello psicologico interpersonale, perché è complesso fare un lavoro di terapia familiare in<br />

rapporto con i genitori, se i genitori hanno in mente di portarlo fuori, perché poi gli “serve”.<br />

Questo riguarda tante situazioni in cui bisogna immaginare insieme al ragazzo o ragionando<br />

per lui e, comunque, sempre con lui, se quello di cui ha veramente bisogno è di essere portato<br />

fuori dall’ambiente da cui proviene anche in modo definitivo. Pensate a tutte le baby prostitute<br />

che poi chiedono aiuto, dopo essere state portate in Italia; magari non hanno nemmeno 18 anni,<br />

ma sono un problema serio lo stesso, vanno aiutate a ricostruirsi una vita in ambienti diversi da<br />

quello da cui provengono. Questo è uno dei temi con cui ci si confronta. Però fuori da queste<br />

situazioni il grande problema di questi ragazzi e ragazze è quello di “trovare pace” con i loro<br />

genitori interni, trovando anche un qualche rapporto con quelli che hanno fuori e con quelli<br />

putativi che incontrano nelle varie comunità. Allora, il rapporto con questi ragazzi ha necessità<br />

assoluta di due grandi principi: uno è un principio di ordine, a cui si collega il tema della<br />

responsabilizzazione e uno è un principio di vicinanza e di ascolto che tiene conto del<br />

turbamento profondo che loro si portano dentro. Alloro io dico che l’intervento di comunità è<br />

un intervento continuamente anfibio, di comunità e anche fuori di comunità, in cui bisogna<br />

avere competenze psicoterapeutiche perché sono necessarie per questo ascolto e bisogna avere,<br />

però, anche posizioni e competenze di tipo educativo. Perché guardate, questa è un’illusione<br />

che ho consumato anche io che faccio lo psicoterapeuta ormai da 35 anni: il ragazzo che viene<br />

da te avendo dei comportamenti disordinati e che si lamenta e piange dei genitori, ma rispetto a<br />

cui tu metti in opera solo l’ascolto, è un ragazzo che da te non riceve nessun aiuto. Hai voglia<br />

ad ascoltare ed interpretare, ma non si conclude niente. Si conclude qualcosa quando accanto<br />

all’ascolto, c’è anche la risposta che gli impone di responsabilizzarsi. La responsabilizzazione<br />

nella comunità è un fatto fondamentale di ordine terapeutico. Io credo che sia importante<br />

collegare queste cose a ciò che sappiamo dalla ricerca psicoterapeutica e psicoanalitica in<br />

particolare.<br />

Vedete, Melanie Klein (1932) insisteva molto sul fatto, che le figure parentali introiettate dai<br />

pazienti con problemi di comportamento, di impulsività o, se volete, di antisocialità, sono


figure parentali introiettate estremamente crudeli, estremamente dure contro le quali si esprime<br />

una ribellione continua e totalmente inutile ed autolesiva. Ma c’è uno scontro con un qualcosa<br />

che uno si porta dentro, con una crudeltà che gli è stata inflitta. Nelle ricerche sui disturbi di<br />

personalità, si vede che laddove sono forti le componenti antisociali, è fortissima la<br />

trascuratezza che quel ragazzino ha subito: il neglect, dalla parola inglese, la “trascuratezza”, il<br />

fatto che non si sono accorti delle sue esigenze di base, corrisponde all’antisocialità ed è un<br />

genitore interno estremamente crudele e lontano quello che loro si portano dietro. Allora noi<br />

possiamo ragionevolmente immaginare che quando arrivano in un luogo dove qualcuno li<br />

“ferma” in un modo affettuoso, ma appunto fermo, loro si incontrano e reagiscono in tanti<br />

modi, con un genitore che non è distante, crudele, assurdo come quello che si portano dentro.<br />

Ma loro di questo hanno bisogno, perché al contrario con un atteggiamento troppo vicino,<br />

comprensivo, affettuoso e basato solo su quello, non si risolve niente; perché loro tanto non si<br />

possono fidare e il loro fidarsi passa attraverso la consuetudine con persone che danno loro un<br />

modello di comportamento a cui loro possono appoggiarsi. E’ vero, e Sabatello lo ricordava,<br />

che i disturbi antisociali di personalità sono quelli più difficili da trattare. Noi possiamo dire<br />

che quote antisociali ci sono nella gran parte dei ragazzi di cui stiamo parlando, di cui abbiamo<br />

discusso questa mattina. Più “pura” è l’antisocialità, più evidente e chiara è l’antisocialità, più<br />

difficile è la cura perché quello che è necessario è un tempo lungo per incontrare la persona<br />

dietro questa maschera continuamente beffarda, lontana, distante, aggressiva che fa saltare i<br />

nervi a qualsiasi operatore con tutta la sua pazienza. Però è anche vero che non è un’impresa<br />

impossibile, soprattutto finché sono giovani, finché sono adolescenti. Anche per un<br />

personaggio di Romanzo Criminale di De Cataldo, arrivato a 40 anni, che ha 30 anni di carcere<br />

da scontare, forse non è tanto facile da responsabilizzare, non è così semplice, e pertanto<br />

bisogna immaginare un carico maggiore di difficoltà.<br />

Anche se, guardate, io ho fatto per alcuni anni supervisione in un ospedale psichiatrico<br />

giudiziario e posso assicurarvi che c’è molta vita anche lì ! Ma l’antisociale “puro”<br />

difficilmente va in OPG, l’antisociale “puro” finisce magari nel 41bis e in altre di queste<br />

situazioni tutte segnate dalla repressività. Questo è un discorso che ci porterebbe lontano, ci<br />

porta verso la psicologia penitenziaria.<br />

Però è certa una cosa, stiamo parlando di adolescenti; sono storie che possono essere<br />

modificate quando si ha la possibilità di intervenire in adolescenza perché è ancora un<br />

materiale estremamente plastico. Allora noi dobbiamo passare da una cultura della diagnosi, in<br />

cui colui che fa diagnosi è uno che, con i raggi x della sua esperienza e cultura psicopatologica,<br />

fotografa il disturbo di chi ha davanti e quindi dice “questo che sta così, diventerà cosà”, ad<br />

una situazione in cui la diagnosi è una diagnosi funzionale che recita più o meno così “in<br />

questo momento della sua vita, in questo contesto, in questa situazione, in questo equilibrio<br />

complessivo dei suoi rapporti questa persona presenta questi tratti”, ma con tutte queste<br />

specificazioni intorno. Dopodiché la diagnosi reale da che cosa viene fuori, dal confronto fra<br />

questo e quello che accade a quella persona, man mano che i suoi contesti vengono cambiati<br />

dall’azione terapeutica. Noi dobbiamo sapere che quelli che vanno cambiati sono prima i<br />

contesti e poi la persona. La persona deve essere aiutata a vederle le situazioni di mutamento<br />

contestuale, senza averne paura. Deve essere aiutata a fidarsi, e spesso questa è la cosa più<br />

difficile.<br />

Ora vedete su questo punto, ho fatto in tanti anni un’esperienza significativa soprattutto con le<br />

comunità terapeutiche per tossicodipendenti che sono un’esperienza abbastanza straordinaria.<br />

Con Saman, abbiamo cominciato nel ’95 e sono passati tanti anni. L’accordo che io feci con<br />

Saman quando ho cominciato a lavorare con loro, era di affiancare agli educatori dentro<br />

ognuna delle comunità terapeutiche degli psicoterapeuti che avevano un loro referente, in parte<br />

io, in parte altre persone in altre città dove c’è Saman, per avere una supervisione sul loro<br />

lavoro. Avevamo stabilito un principio, che laddove sul programma c’era differenza di idea fra<br />

il responsabile di comunità, quindi il capo educatore, e i referenti terapeutici, quindi gli


psicoterapeuti, ci fosse una mediazione fatta con me come direttore scientifico di Saman.<br />

Avevamo stabilito, in qualche modo, una pari dignità degli psicoterapeuti con i loro<br />

ragionamenti e degli educatori con i loro ragionamenti, che veniva appianata discutendo nelle<br />

situazioni in cui c’era conflitto su come muoversi. Dopodiché abbiamo immaginato un<br />

percorso dove le supervisioni venivano fatte in equipe, cioè tutti insieme da psicoterapeuti<br />

esterni. Adesso 15 anni di lavoro sono tanti, e le risorse psicoterapeutiche degli educatori<br />

tradizionali di Saman sono straordinarie. Loro non hanno fatto psicoterapia, non hanno fatto<br />

una formazione psicoterapeutica, l’hanno imparata discutendo; certamente anche gli<br />

psicoterapeuti, che hanno lavorato con loro, hanno imparato dagli educatori un numero<br />

straordinario di cose che non sapevano. Allora che cos’è il senso di questa cosa? Il senso di<br />

questa cosa è che responsabilizzare progressivamente una persona, mentre la si accoglie<br />

affettuosamente è un’operazione terapeutica di grandissima potenzialità. Nella comunità<br />

accade questo attraverso una dialettica. Perché vedete, può capitare che il responsabile di<br />

comunità dia una punizione perché c’è stata un’infrazione comportamentale, lo psicoterapeuta<br />

che fa, ascolta la reazione alla punizione. L’utente, il ragazzo o la ragazza, va lì e dice<br />

“Quell’educatore mi ha dato questa punizione ingiusta, lui non capisce, non è possibile non<br />

capisce che cos’è per me questo” e fa tutta la sua sparata. Il terapeuta accoglie, ascolta e poi<br />

cerca di restituire un discorso in cui dice “Si, tu hai le tue regioni, ma anche lui ha le sue.<br />

Perché poi c’è qualche cosa che è la cornice, il gruppo, lo stare insieme. Questa è una realtà a<br />

cui in qualche modo anche tu devi riuscire a partecipare e ad andare dentro”. Vedete, si<br />

ricostituisce una situazione di una famiglia in cui l’istanza normativa e l’istanza di<br />

accoglimento e di ascolto possono essere alternativamente giocate di più, dall’uno o dall’altro<br />

dei due genitori, nel rispetto delle regole che vengono date, ma nel rispetto anche del fatto che<br />

non sempre la regola e la sanzione collegata alla regola può essere compresa; sapendo che è<br />

molto più importante che venga compresa, che non il fatto che venga regolarmente obbedita.<br />

Questo, secondo me, è il punto su cui si esercita oggi il principio più forte dell’azione<br />

terapeutica in tutte queste situazioni.<br />

La capacità degli psicoterapeuti di “comprendere” si mette al servizio dell’equipe. Voglio dire<br />

che, alla fine, in una rete che si occupa di un minore, non è importante che ci sia lo<br />

psicoterapeuta del minore, ci deve essere la competenza psicoterapeutica che circola<br />

nell’equipe, che permette di prendere decisioni e posizioni che sono tali da assicurare al minore<br />

quel livello di comprensione, di vicinanza, di sentirsi con che è fondamentale per lui. Molte<br />

volte, secondo me, non è neppure opportuno che il minore abbia un terapeuta fuori dalla<br />

comunità. Io penso che in molti casi quello che è importante è che lo psicoterapeuta faccia<br />

parte dell’equipe che lavora e possa suggerire all’operatore che è più vicino al minore alcune<br />

risposte. Insomma, che ci si trovi in termini di rete ad utilizzare le competenze e il sapere<br />

psicoterapeutico, non a considerare la psicoterapia qualcosa che sta lì e che è uno dei pezzi del<br />

lavoro terapeutico. Se volete, utilizzando un’immagine, la competenza terapeutica dovrebbe<br />

essere un po’ come il sale nella minestra: senza sale non è buona la minestra, non è che uno si<br />

mette a mangiare solo il sale, insomma non è utile mangiare separatamente la minestra e il sale.<br />

Questo è quello che l’esperienza di questi anni mi ha insegnato.<br />

In secondo luogo, quello che è molto importante che si riesca a capire e a riflettere bene, è che<br />

molti degli adolescenti che arrivano al momento della comunità o del centro diurno o altro,<br />

sono adolescenti che hanno anche una famiglia e che questa famiglia resta con i suoi modi di<br />

muoversi, di porsi, nelle diverse situazioni di rapporto con questi adolescenti.<br />

Melanie Klein (1932) ha scritto una cosa bellissima su questo, nella sua psicoanalisi dei<br />

bambini. Una cosa che la faceva sempre riflettere era come, mesi e mesi di lavoro<br />

psicoterapeutico paziente - sapete che lei vedeva i suoi ragazzini anche tre quattro volte a<br />

settimana - a cui hai dedicato tantissimo tempo, tantissima passione, possono essere distrutti in<br />

un attimo da un aggrottarsi degli occhi della madre. Adesso può essere anche comodo, però è<br />

vero… perché, bene o male, questi genitori che sono fuori dalla comunità e che magari loro


vedono solo per poco, restano fondamentali. Allora noi con Saman, anche con persone più<br />

adulte, abbiamo messo come regola di ingaggio, cioè come regola per accettare i pazienti in<br />

comunità, il fatto che la loro famiglia, potremmo usare un linguaggio poliziesco, “si<br />

costituisca” per un lavoro terapeutico; proponiamo l’idea che, mentre loro cambiano in<br />

comunità, anche gli altri cambiano a casa, anche perché sennò a che serve quel cambiamento ?<br />

Ecco su questo ci si può mettere l’accento un po’ più forte, un po’ meno forte a seconda delle<br />

situazioni, però questa è una cosa importante. Noi non possiamo immaginare e su questo i<br />

terapeuti familiari hanno ragione e io lo rivendico con forza, la terapia non può essere<br />

“rimettere a posto”, cioè non è un meccanico a cui dici “ti porto il figlio, facciamo un controllo<br />

e poi me lo ridai così io continuo e vado avanti”. I comportamenti del figlio sono da rivedere<br />

all’interno di sequenze comunicative che lui ha con i familiari più significativi, il papà, la<br />

mamma, i fratelli; quel che sia, ogni volta c’è da rifletterci bene sopra. Allora questa, secondo<br />

me, se la comunità terapeutica la sceglie come regola d’ingaggio, è una cosa molto importante.<br />

Io credo che questo valga anche per quelli che lavorano in contatto con il minorile penale.<br />

Devo dire che oggi, sentendo la Dottoressa Spagnoletti, capisco quanto il lavoro del magistrato<br />

sia difficile, però credo che noi abbiamo un codice penale minorile straordinario, perché è una<br />

cosa bella quella che si può fare con i nostri minori. Penso a quello che succede in altri paesi in<br />

cui non è assolutamente così. Noi abbiamo la possibilità di progettare con il minore con questa<br />

straordinaria “messa alla prova” all’interno della quale si può fare un progetto importante.<br />

Secondo me, non è tanto importante il fatto che la si chiami “limitazione della libertà<br />

personale”, ma se la comunità terapeutica sta dentro a un progetto di messa alla prova in cui si<br />

coinvolgono terapeuticamente i familiari, quando è possibile farlo chiaramente, questo è uno<br />

strumento. Forse alla parola “messa alla prova” dovremmo aggiungere l’idea che si tratta di un<br />

provvedimento finalizzato ad un lavoro terapeutico, cioè un cambiamento della situazione, non<br />

della persona. “Messa alla prova” è una brutta espressione, come dire “vediamo quanto sei<br />

tarato”, ma se si intende “messa alla prova” in termini di “ti diamo un’occasione e lavoriamo<br />

con te affinché questa occasione ti sia utile” diventa anche un termine interessante. Però la<br />

progettualità che al giudice viene suggerita dall’equipe che si occupa della situazione, deve<br />

comprendere una serie di aspetti che sono quelli della terapia di questo ragazzo, che può<br />

prevedere il suo stare in una comunità, che può prevedere il suo frequentare un centro diurno e<br />

deve prevedere anche la sua attività presso una struttura in cui fa un lavoro socialmente utile, la<br />

sua frequenza alla scuola, quel che sia; ma dentro a questo, ci deve essere il lavoro con la<br />

famiglia, altrimenti è difficile che questa persona possa cambiare solo lei; può capitare perché<br />

abbiamo visto che si guarisce spontaneamente in tante situazioni, a volte la paura che uno si è<br />

preso lo fa tornare indietro. Però nelle situazioni un po’ più complesse, l’intervento terapeutico<br />

deve tener conto dei fattori che sono rilevanti per l’equilibrio psicologico e per il recupero della<br />

possibilità e della capacità di crescere. Queste sono le sfide che abbiamo davanti.<br />

Aggiungo una piccola osservazione in merito a ciò che è stato detto oggi dalla dottoressa<br />

Spagnoletti. Io sto facendo un lavoro di supervisione con un gruppo di psicoterapeute che<br />

prepara dei progetti terapeutici per il Tribunale. Consiglio sempre a loro di dire “Io sono il<br />

terapeuta e dico questo, ma quello che decide è il giudice”. Perché penso che il giudice che<br />

decide entro certi limiti, che sono quelli scanditi dalla scrittura della legge; la dottoressa<br />

Spagnoletti l’ha detto benissimo stamattina. Io credo che ci sono tante situazioni in cui i tempi<br />

non coincidono esattamente e allora il ragazzo deve capire che la realtà è questa. La realtà della<br />

vita non è una realtà in cui le cose si accomodano secondo i tuoi tempi. Il giudice decide e “tu<br />

devi adeguarti, anche se la cosa non ti sembra completamente giusta, ne puoi discutere, ma<br />

devi discuterla nelle sedi giuste” e il terapeuta deve aiutare a comprendere che ci sono nella<br />

vita delle realtà a cui ci si deve adattare, cioè il rispetto della norma, dell’istituzione come<br />

anche dei genitori, dei compagni, dell’insegnante, un domani dei datori di lavoro, del<br />

compagno o della compagna. Il rispetto è un qualche cosa che si basa sull’idea per cui, tante<br />

volte, io penso di aver ragione però abbozzo, perché è così; se non sono capace di abbozzare,


non sono capace di vivere; poi c’è sempre il tempo per dire le cose che riteniamo giuste, per<br />

rimettere in discussione. Non si può pensare di avere tutto e subito. Questo tenere, il giudice, il<br />

tribunale, la giustizia, il provvedimento un po’ fuori dal setting terapeutico. Vedere il setting<br />

terapeutico, come un luogo in cui, anche la comunità terapeutica, voglio dire setting<br />

terapeutico, intendo in senso molto lato, si riflette insieme sul fatto che gli esseri umani sono<br />

limitati, che gli errori ci sono, ma che per vivere insieme agli altri come io voglio che gli altri<br />

tollerino i miei errori, a volte lo pretendo perché do le mie spiegazioni, così io debbo tollerare<br />

quello che a me sembra errore nella condotta dell’altro. Questo è un principio educativo<br />

fondamentale: io credo che tutti cerchiamo di insegnarlo ai figli, anche se non sempre… perché<br />

vedo, seguendo le partite di pallone, i genitori che gridano più loro contro gli altri e i ragazzini<br />

che dicono “Papà sta’ buono, mamma sta’ buona, non ti arrabbiare”. Questo si vede anche a<br />

scuola quando i genitori dicono al figlio che meritava un voto più alto di quello dato<br />

dall’insegnante. Insomma è difficile perché i genitori si mantengono adolescenti fino a 50 anni,<br />

vivono attraverso i figli l’adolescenza e tante cose, ma adesso ci perderemmo… Il principio<br />

educativo su cui si fonda la stabilità dell’essere umano e quindi la buona crescita di un<br />

adolescente è questo. Io credo che rispetto ai ragazzi che rischiano di più di deragliare durante<br />

questo percorso di crescita, questo principio diventa più importante e deve essere seguito con<br />

un’attenzione particolare.<br />

Mi avvio alle conclusioni. Il punto è questo: che tutti coloro che si occupano del minore nella<br />

rete debbono avere un’assoluta univocità di atteggiamenti, univocità che si raggiunge al<br />

termine della discussione che non può essere immaginata o presunta “io faccio questo e tu ti<br />

devi adeguare”. Univocità significa che si discute prima, come si faceva in fondo un tempo nel<br />

partito comunista, si discuteva prima e dopo non si usciva fuori con un’altra idea. E’sempre<br />

facile fare l’anima bella che si schiera con il minore contro gli adulti cattivi; ma al minore non<br />

serve questo, serve qualcuno che sta con lui, con la sua sofferenza, con la sua difficoltà che lo<br />

aiuti a trovare la strada per vivere insieme agli altri, perché altrimenti “non ci si fa”.<br />

Io voglio dirvi che sono contento di essere qui, di aver trovato tutta questa gente che lavora in<br />

questo campo, vi assicuro che è qualche cosa davvero di molto nuovo, che io spero che cresca,<br />

perché questa, in fondo, è una missione della nostra generazione; far sì che questo cresca<br />

sempre di più e che diventi qualcosa che viene come risposta a tutti i minori in difficoltà. Credo<br />

che la percentuale non sia ancora vicina al 100%. C’è ancora molto da lavorare, perché tante di<br />

queste esperienze non più pionieristiche - il tempo dei pionieri è finito - ancora non però<br />

sufficientemente diffuse, diano davvero risposte a tutti quelli che ne hanno bisogno.<br />

Grazie<br />

Bibliografia<br />

� Benjamin S.L. (1996), Diagnosi interpersonale e trattamento dei disturbi di personalità, Tr. it. LAS,<br />

Roma, 1999.<br />

� Klein, M. (1932), Psicoanalisi di bambini, Tr. it. Martinelli, Firenze, 1969.<br />

� Korenblum M., Personality status: changes through Adolescente, in Psychiatric Clinic of North America,


vol. 13(3) 389-399, 1990.<br />

Zanarini MC, Frankenburg FR, Reich DB, Fitzmaurice G: Time to attainment of recovery from borderline<br />

personality disorder and stability of recovery: a 10-year prospective follow-up study, American Journal Psychi

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