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TRAKS MAGAZINE #33

Ecco il numero di maggio 2020 di TRAKS MAGAZINE: in copertina Pierpaolo Lauriola, che parla del suo nuovo album in arrivo a breve. E all'interno interviste a Ivan Francesco Ballerini, San Diego, Dettori & Moretti, Ubba Bond, Eleviole?, Zero Portrait, Il Tipo di Jesi, oZZo, kmfrommyills, Iron Mais, Silek.

Ecco il numero di maggio 2020 di TRAKS MAGAZINE: in copertina Pierpaolo Lauriola, che parla del suo nuovo album in arrivo a breve. E all'interno interviste a Ivan Francesco Ballerini, San Diego, Dettori & Moretti, Ubba Bond, Eleviole?, Zero Portrait, Il Tipo di Jesi, oZZo, kmfrommyills, Iron Mais, Silek.

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MAGAZINE

Numero 33 - maggio 2020

PIERPAOLO LAURIOLA

il potenziale della musica

IVAN FRANCERSO BALLERINI

SAN DIEGO

ELEVIOLE?

UBBA BOND


sommario

4

10

14

18

22

26

30

34

38

42

46

50

Pierpaolo Lauriola

Ivan Ballerini

San Diego

Dettori & Moretti

Ubba Bond

Eleviole?

Zero Portrait

kmfrommyills

Il Tipo di Jesi

oZZo

Iron Mais

Silek

Questa non è una testata giornalistica poiché viene aggiornata

senza alcuna periodicità. Non può pertanto

considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge

n. 62/2001. Qualora l’uso di un’immagine violasse

diritti d’autore, lo si comunichi a info@musictraks.com

e provvederemo alla rimozione immediata

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PIERPAOLO LAURIOLA

il potenziale della musica

Giunto al suo terzo album, il cantautore presenta la sua

nuova fatica discografica “Canzoni scritte sui muri”,

in uscita il prossimo 13 maggio. Attivo sulla scena musicale

da ormai trent’anni, con questo album parla di

trasformazione e di certezze, raccontate con passione e

voglia di sperimentare

Di Chiara Orsetti

Il tuo nuovo album si intitola

“Canzoni scritte sui muri”, e fa

pensare immediatamente a muri

che creano divisioni e musica

che, nonostante tutto, unisce.

Che cosa rappresenta per te essere

un cantautore in un momento

storico così delicato? Che potenziale

ha la musica?

La musica ha un potenziale enorme;

essere un cantautore mi dà

la possibilità di esprimermi con

linguaggi diversi. Puoi mettere insieme

musica e testo, ed essere un

interprete di quel tutt’uno. A oggi

è difficile analizzare il ruolo della

musica e in particolare del cantautore

in un momento inaspettato

come questo; quando ne saremo

fuori, a distanza di tempo, verranno

a galla le riflessioni metabolizzate

in questi mesi.

Il primo singolo estratto è Scudo

e riparo, amaro e coraggioso

flusso che fa sentire allo stesso

tempo protetti e amareggiati.

Che sensazioni hai provato scrivendola?

In chi, o in che cosa,

riesci a specchiarti?

Scriverla è stato emozionante. La

musica l’ho scritta da solo nel mio

studio e ho seguito il mio istin-to.

Il testo l’ho composto insieme a

Sergio Salamone. Erano anni che

ci rincorrevamo e questa volta è

stata quella giusta. Abbiamo prima

parlato a lungo. Successivamente

ci siamo mandati via mail

tutte le idee a cui abbiamo lavorato.

Scrivere questa canzone per

me è stato catartico. Ho pensato

a tutte quelle persone che hanno

bisogno di affetto, di protezione.

Ho pensato che sono fortunato ad

avere questa protezione da parte

di chi mi vuole bene. I miei punti

di riferimento sono tutti quelli che

affrontano la vita spendendosi per

gli altri. Sono questi i valori che



mi affascinano e in cui mi rispecchio.

Sei impegnato da anni in progetti

umanitari e sociali. In questi

mesi di blocco totale i problemi

che incontreremo avranno connotati

diversi rispetto a quelli

che abbiamo lasciato. Hai già in

mente qualche nuovo progetto a

cui dedicarti?

Sì, vorrei realizzare nuove iniziative.

Non credo, come ho letto da

qualche parte che la pandemia

ci renderà migliori di prima, ma

spero che non venga meno il senso

di solidarietà: come ha detto

Papa Francesco, siamo tutti sulla

stessa barca. Penso che dovremo

ripartire ciascuno dal nostro piccolo,

e guardarci anche intorno,

partendo ciascuno dal proprio

quartiere. Sono diventato da poco

padre e non nascondo che mi

sento vicino alle problematiche

dell’infanzia.

Sei sulla scena musicale da

trent’anni: com’è è cambiato il

modo di fare musica nel corso

della tua esperienza? C’è qualche

costante che porti con te fin

dall’inizio della tua carriera?

Se penso a come è cambiato il

modo di fare musica non posso

che pensare ai sistemi con cui

si catturano le idee oggi. Quando

ho iniziato a fare musica era

il 1991 e i miei demo li costruivo

con il multitraccia Yamaha MD4.

Registravo tutti gli strumenti e poi

condividevo le mie incisioni con

gli altri della band. Oggi utilizzo

il computer. Per lo più lavoro su

Logic Pro X e Ableton per i pezzi

con più elettronica. Negli ultimi

dieci anni mi sono appassionato

molto anche alla chitarra acustica

oltre che a quella elettrica. Il device

con cui si ascolta musica oggi

per antonomasia è lo smartphone,

molto diverso dai vinili con cui

sono cresciuto, che imponevano

all’ascoltatore un tempo di attenzione

maggiore, si ascoltava tutto

l’album leggendo i testi, invece di

saltellare da una playlist all’altra

(di questo ho una certa nostalgia).

La costante in questi anni è stata

la scrittura; quando arriva la sera

metto nero su bianco le mie sensazioni

che poi nel tempo rimaneggio;

da quegli appunti nasceranno

i testi delle canzoni.

7



Una delle tracce che mi ha emozionata

di più è Ti reggo al ballo

le mani. Emozionante la storia,

vibrante la musica. Ci racconti la

storia di questo brano?

Sono contento che ti sia arrivata.

Per me è stata una prova di coraggio,

un piacevole schiaffo. Ti

reggo al ballo le mani è il pezzo

più vicino alle sonorità di Fabrizio

De André, con una melodia che

ri-corda Disamistade. Il protagonista

è un uomo solo in una stanza

d’attesa che immagina il suo

perso-nale ballo con la mamma.

Con questo ballo le chiede perdono

per tutto il tempo in cui è stato

assente.

Parliamo di influenze: si riconosce

l’influenza dei grandi cantautori,

ma con aspetti molto lontani

dalle sonorità a cui ci hanno

abituati. Quali sono i tuoi riferimenti

musicali?

In Canzoni scritte sui muri interagiscono

tra loro lo stile italiano

di autori quali Ivano Fossati, Fabrizio

De André, Paolo Conte, e

dei grandi maestri come Leonard

Cohen, Bob Dylan, Johnny

Cash a cui si aggiungono le

suggestioni degli ascolti più

recenti come Bon Iver, Radiohead

e Sufjan Stevens.

La musica che ora sembra

andare per la maggiore funziona

un po’ come un mordi

e fuggi. Canzoni che impari

in fretta e che, altrettanto

in fretta, finiscono nel dimenticatoio.

La tua scelta di

comporre un album come

Canzoni scritte sui muri si

contrappone, chiedendo

espressamente pazienza e

attenzione, è stato un gesto

coraggioso o semplice necessità

espressiva?

Avendo ascoltato per anni

molti dischi pensati come un

concept e come un progetto

unico, indipendente da ogni

singola traccia che le componeva,

mi viene naturale

pensare a questo tipo di progettualità.

È stata una mia necessità

narrativa.

Chiara Orsetti



IVAN FRANCESCO

BALLERINI

Si intitola “Cavallo Pazzo” l’esordio discografico del cantautore toscano.

Dieci brani inediti in un concept album in cui si narra la storia del leggendario

capo indiano

Ci vuoi raccontare chi sei?

Chi sono? E chi lo sa. Forse un

cane reincarnato nel corpo di un

uomo.... scherzi a parte. Sono un

musicista. Nel 2019, stanco di

suonare canzoni di altri autori,

seppur bellissime, mi sono messo

a scrivere cose mie. È iniziato tutto

come un gioco, una sfida con



me stesso per capire cosa sarei stato

in grado di produrre. Poi senza

accorgermene, mi sono trovato in

mano un album di dodici inediti,

alcuni son stati scartati,

tutto incentrato sugli indiani

d’America. Bestiale....

Domanda ovvia: perché

un album intero sulle storie

dei nativi americani?

Non c’è un motivo vero e

proprio. Son partito scrivendo

“Cavallo Pazzo”... poi

via via, i brani sono venuti

fuori da soli. Alla fine mi

son trovato tra le mani cinque-sei

brani tutti sui nativi

americani e allora ho deciso,

anzi abbiamo deciso

assieme ad Alberto Checcacci,

di fare un album su

un unico argomento, un

concept, come si suol dire.

Che cosa ti ha colpito in

particolare della storia di

Cavallo Pazzo?

Tutto... il suo senso di libertà,

il suo essere indomabile.

È morto a soli 39 anni

ed è, e sarà sempre, un personaggio

mitologico. Lui

non nasce con indole guerriera.

Lo diventa a seguito di alcuni lutti

che lo colpiscono direttamente.

Poi la sua diversità rispetto agli

altri.... aveva i capelli ricci e non

lisci, castani e non neri.... unico.

Chi sono i tuoi artisti di riferimento?

Se si ascolta Cavallo pazzo è piuttosto

semplice intuire. Fabrizio De

André primo tra tutti, Francesco

De Gregori, Guccini. Ma anche

Claudio Baglioni. Do più importanza

al testo che alla musica. La

musica per me arriva un attimo

dopo il messaggio che si vuole

lanciare. Inutile avere musiche

fantastiche e testi vuoti.... oggi se

ne sentono tante di canzoni così.

Il mio è un album semplice, interamente

partorito in due.... io,

scrittore di testi e musiche, Alberto

Checcacci arrangiatore.

So che sei al lavoro su un nuovo

disco. Ci puoi anticipare come

sarà?

Alcuni mi hanno chiesto se ci sarebbe

stato un Cavallo pazzo parte

due.... ahahahah, no assolutamente.

Quello che stiamo portando a

termine è un album di canzoni attuali.

A canzoni d’amore si intrecciano

storie di vita, massaggi per

i giovani, e un brano dedicato a

mia figlia Eleonora. Pur trattando

argomenti completamente diversi

da cavallo pazzo, sotto certi aspetti

gli somiglia. Insomma si sente

che chi compone è sempre lo stesso

individuo. Quello che mi preme

evidenziare è che la famiglia

sta crescendo. Al mio fianco oltre

Alberto Checcacci, che è colui che

cura ogni dettaglio degli arrangiamenti

e a Nedo Baglioni, fotografo

e regista, si è aggiunta Monica

Barghini, corista e cantante di un

mio brano e il bravissimo violinista

Alessandro Golini che vol suo

violino e la sua sensibilità ha “dipinto”

alcuni miei brani e...... basta

altrimenti vi dico tutto.

12

13



SAN DIEGO

Un album “estivo”, dal titolo molto curioso, cioè “ù” e un nuovo featuring

con lo Sgargabonzi: tre anni dopo “Disco”, un nuovo lavoro per il

cantautore

Be’ partirei dal curioso titolo.

Perché “ù”?

Perché “ù” è l’unica lettera rimasta

dopo aver cancellato tutti i ti-



toli papabili sul foglio di testo, il

classico errore invece di premere

“invio” sulla tastiera, e lo ritenevo

molto emblematico come concetto,

oltretutto è una vocale che ricorre

spesso nel disco.

Trovo che il tuo disco sia particolarmente

“estivo”. In questa

condizione particolare pensi che

potrebbe cambiare la percezione

di chi ascolta o può servire da

consolazione?

In base a quello che mi stanno dicendo

per molti funge da proiezione

verso ambienti e sensazioni

marittime, quindi direi che sì, può

essere anche consolatorio al limite.

“Rinascente” è un po’ il manifesto

del disco. Da cosa avevi bisogno

di rinascere?

Per me ha vari significati, come

un po’ tutte le canzoni. Rinascere

per un nuovo disco o una fase

successiva della vita, per me qualsiasi

cosa va affrontata come una

rinascita.

Hai fatto un altro featuring con

lo Sgargabonzi. Qual è la sua caratteristica

decisiva nello scegliere

di lavorare con lui?

Perché mi piace moltissimo come

scrive, la scelta accurata di ogni

singola parola, la sua capacità di

creare microcosmi letterari, e tra

noi c’è una sincera amicizia e reciproca

stima.

Quali saranno i tuoi passi successivi?

Sto scrivendo cose nuove e sono

già proiettato verso l’immediato

futuro, mi sento fiducioso.

17



BEPPE DETTORI &

RAOUL MORETTI

“(In)Canto Rituale” è un disco che si snoda tra innovazione e la matrice

identitaria tradizionale, in omaggio a Maria Carta

Vorrei sapere come nasce il progetto

e l’omaggio a Maria Carta

DETTORI: Nasce grazie a Giovannino

Porcheddu di UNDAS

Edizioni Musicali e Federico Canu

del Tangerine Sa Pedrache. Abbiamo

“fermato” qualche nostro live

in alcune registrazioni. Nel 2019

c’è stata la ricorrenza dei 25 anni

dalla scomparsa di Maria Carta e,

come a dar seguito a qualcosa già

accennato nel nostro precedente

disco, abbiamo deciso di dedicarci

proprio a un intero omaggio a

questa grandissima artista.

MORETTI: Alcune rivisitazioni

di brani che erano nel repertorio

di Maria Carta erano già presenti

nel repertorio di Beppe da qualche

anno, e poi sono entrati a far

parte del nostro progetto del 2019

“S’Incantu e sas cordas”. Stimolati

anche dalla Fondazione Maria

Carta abbiamo sviluppato gli arrangiamenti

ed aggiunto altre due

pietre miliari come “Stata Mater”

e “No Potho Reposare” . A completamento,

abbiamo musicato la

poesia “Ombre” che apre il libro di

Maria Carta, Canto Rituale, da cui

è tratto il titolo del disco.

Non è certo la prima

collaborazione Dettori-Moretti.

Non vi è

venuta la tentazione di

coinvolgere altri musicisti

per questo progetto?

DETTORI: Un progetto

con un sound ben definito

e scarno per nostra

scelta, dettata anche da

un’esigenza mera di mercato,

che, per assurdo,

nella sua crisi, ha generato

tutto questo… Ma

comunque nella solidità

di questo duo abbiamo certamente

provato ad inserire altri strumenti

e con ottimi risultati.

MORETTI: In realtà la nostra

collaborazione nacque all’interno

di un quartetto che negli anni

è andato a scalare. Siamo rimasti

per un periodo in trio con Manuel

Rossi Cabizza, che abbiamo

comunque ospitato in due brani

del precedente lavoro. Ora volevamo

arrivare all’essenza del nostro

sound, un incontro tra voce, chitarra

e arpa, ed il loro utilizzo con

18 19



tecniche provenienti dalla tradizione

e dalla contemporaneità.

Al contrario di altre tradizioni

regionali, a uno sguardo totalmente

esterno mi sembra che

la musica sarda goda ancora di

estimatori e sia ancora piuttosto

forte. Ci sono dei rischi all’orizzonte?

DETTORI: Sì è una nicchia molto

solida, e gode di stima in tutto il

mondo e questo è una ricchezza

che va sostenuta. Però il decadimento

della cultura è un grande

campanello d’allarme che sta ancora

suonando e ci ha resi assuefatti

a quel disturbo sonoro tipico

dell’allarme. Le tecnologie e le

proiezioni continue di felicità fittizie

hanno soppiantato la bellezza

dell’arte e della cultura, uccidendo

anche la nostra identità.

MORETTI: Il mio approccio da

continentale adottato dall’isola è

proprio quello di un estimatore.

Oltre al fascino dalla musica che

nasce in questa terra, mi colpisce

quanta cultura e con quanta forza

e identità si esprime… I suoi riti

arcaici, la musicalità della sua lingua

e tanto altro.

Come si vive l’isolamento dovuto

al virus in una terra che l’isolamento

lo conosce già piuttosto

bene?

DETTORI: Per alcuni, come me,

non e’ cambiato molto, devo essere

sincero. Immagino però la

sofferenza grande che c’è ovunque

si guardi. Speriamo finisca presto.

Soltanto questo…

MORETTI: L’anno scorso sono

uscito con un lavoro solista dal

titolo “IsolaMenti” che oggi mi

sembra quasi profetico. Era frutto

di un percorso personale in cui

c’era l’isola come metafora. Non

un luogo di esilio ma un luogo di

contemplazione verso il tutto. Ora

il mio augurio è che questo sia un

periodo di contemplazione, di sottrazione

per arrivare all’essenza e

da li ripartire verso una nuova direzione.

Quali saranno i prossimi progetti?

DETTORI: Guarire… risanare la

mente e lo spirito… sognare…

amare e continuare a farlo con

una determinazione d’acciaio. E se

fosse ancora possibile vorrei suonare

e cantare nei concerti, piccoli

e grandi, con il pubblico che

si diverte… e noi, a nostra volta,

che andiamo ai concerti di amici e

colleghi, una festa di rinascita globale…

vivere!

MORETTI: Tornare a suonare dal

vivo, incontrare la gente, viaggiare

e condividere i nostri progetti. Il

musicista è nato per suonare dal

vivo, in quella magia dell’incontro

con il pubblico che ogni sera si

rinnova. Il nostro mestiere vive di

questo. Tutto il resto è “industria”,

è un fattore marginale.

20 21



ELEVIOLE?

Un nuovo video, tutto al femminile, che chiude l’avventura del disco “Dove

non si tocca” e che si prepara, in qualche modo, a “uscire”: la cantautrice

milanese pubblica “Dieci gocce” e pensa al futuro

Hai realizzato il video di “Dieci

gocce” in un contesto che non

prevedeva la quarantena... Che

effetto fa ora pubblicare un video

che trasmette la voglia di

“uscire”?

Questo voleva essere un videoclip

sulla femminilità e sulle sue

sfumature. L’ho girato in inverno

e avevo pensato di farlo uscire l’8

marzo. Poi l’emergenza sanitaria

ha rimescolato le carte e il video è



diventato una piccola celebrazione

di quella che è l’attesa della normalità.

Penso trasmetta un messaggio

positivo ma non banale,

in questo momento dove siamo

soverchiati di arcobaleni e di positività

un po’ forzata penso che la

sua leggerezza non possa che farci

bene.

E’ anche il primo video che ti

vede nei panni della regista.

Come ti sei sentita dietro la macchina

da presa?

È stato molto bello. Era un po’ che

questa cosa mi ronzava in testa

e ho preferito fare questo esperimento

su una mia canzone. Ho

sempre tante idee e pochi mezzi

per realizzarle e mi sono scontrata

con una serie di problematiche

“tecniche” a cui non ero assolutamente

pronta. Devo ringraziare

Claudio del Monte con cui ho lavorato

su altri video, che si è occupato

del montaggio e mi ha dato

un supporto tecnico fondamentale

per arrivare in fondo e per tirare

fuori 4 minuti da circa 300!

Chi sono le attrici del tuo clip?

Sono tutte mie amiche, e anche

per questo è stato così bello lavorare

insieme, c’è stata da subito

fiducia reciproca e voglia di giocare.

Ciascuna di noi ha lavorato

sulle proprie resistenze e insicurezze,

me compresa, e ognuna di

loro mi ha insegnato cos’è la bellezza.

Sono veramente molto grata

per questo.

“Dieci gocce” conclude il viaggio

di “Dove non si tocca”, il tuo

primo album da solista. E parlo

di “viaggio” non a caso, visto che

l’hai anche accompagnato con

un road movie. Sei soddisfatta

del percorso che hai fatto e quali

consapevolezze porterai nel

prossimo disco?

Se mi guardo indietro è stato un

percorso piuttosto denso. Penso di

essere riuscita a fare un lavoro sul

femminile con un focus ben preciso:

dallo straordinario all’ordinario,

a far diventare la normalità

e il quotidiano cose da proteggere

e custodire. Sono molto felice di

questo disco e l’unica certezza che

ho è che porterò con me la voglia

di continuare a compiere delle

piccole/grandi imprese affinché la

mia musica continui a essere “sostanza”.

25



UBBA BOND

“Mangiasabbia” è il nuovo album del duo, portatore di una dedica importante

e sentita, tra pensieri sulla quarantena e scelte di dischi da

ascoltare piuttosto significative e particolari

Questo disco ha una dedica importante.

Se per voi va bene partirei

da qui.

Sì, abbiamo scelto di dedicarlo a

una persona per noi importante

che in poco tempo ha saputo

conquistarci, seminando perle di

genialità nella stesura condivisa

delle parti di fiati che sono uno

degli elementi fondanti di questo

disco. Si chiamava Daniel Cau e la

sua recente ed improvvisa scomparsa

ci ha trovato completamente

impreparati e ci ha lasciato scossi

e increduli. Ci è sembrato quindi

doveroso ricordarlo per sottolineare,

celebrare e lodare le qualità di

una persona che in vita ha saputo

vivere di musica, con la musica,

nella musica. Grazie Daniel.

Mi incuriosisce molto il titolo e

vorrei sapere su quali basi poggia

questo disco.

Si riferisce e risuona in una parte

del testo di un brano intitolato “Su

milioni di auto”. La frase in oggetto

è “la solita vecchia storia di

quando hai sete di deserto e inizi

a bere sabbia” ed è stata scritta da

Max Guidetti, altro amico e collaboratore

che ha prestato la voce in

due brani del disco. La frase suona

ovvia e assurda allo stesso tempo:

la sete di deserto (quello stesso

deserto in cui la sete sembra ovvia)

ti porta a bere sabbia (assurdo).

Da qui il mangiare sabbia

che, ancora per un assurdo contrasto,

rappresenta un’azione senza

dubbio più corretta: la sabbia

si mangia, non si beve. Senonchè

il mangiare sabbia non è altro che

l’azione del mare, quindi dell’acqua

che potresti bere, ma non

puoi perché l’acqua di mare è essa

stessa intrisa di una forma, seppur

speciale, di sabbia (il sale). Quindi

rimani a guardare e ad ascoltare

la musica, incantato dalle sirene

che ti attirano in un mondo acquatico,

friabile come infiniti granelli

di sabbia. Non a caso, l’acqua

è il denominatore comune di molti

brani del disco.

Lavorate un po’ con le porte girevoli

rispetto ai collaboratori:

scrivete pensando a chi potrebbe

intervenire oppure prima arriva

il collaboratore e poi la canzone?

In realtà, nonostante tutti si facciano

la fatidica domanda, a nessuno

interessa sapere se sia nato

prima l’uovo o la gallina. Il filo

d’erba si piega a causa del vento



o il vento soffia pur di accompagnarne

l’inchino? L’ordine (in cui

accadono le cose) è un concetto

sopravvalutato, almeno quanto il

concetto di tempo.

Potete scegliere tre dischi usciti

di recente che vi piacciono particolarmente?

Il primo che ci viene in mente è

Milano posto di merda dei Giallorenzo:

loro sono giovani e scazzati,

ma nella direzione giusta (alla

Pavement per capirci) e con una

scrittura di qualità...e poi sono

ragazzi che sanno suonare, insomma

sono una boccata di aria

fresca in un panorama asfittico

come quello della musica italiana.

Vedremo come continueranno,

ma di sicuro hanno iniziato sganciando

una bombetta. Per gli altri

due titoli invece dobbiamo andare

indietro di qualche anno (con il

vostro permesso). Appartengono

a due artisti che amiamo molto,

il primo è Francesco De Leo, uno

dei pochissimi veri talenti usciti

allo scoperto negli ultimi anni.

Di Fra (che salutiamo, avendoci

fatto due dischi insieme) scegliamo

Antologia della cameretta non

perché non amiamo anche i dischi

“ufficiali” dell’Officina Della Camomilla

(tutti bellissimi), ma perchè

è all’interno di quel quintuplo

disco (!) di demo registrate in casa

che è possibile ammirare la purezza

della sua visione artistica. Un

vero gioiello. Infine non possiamo

non nominare Edda, ovvero l’artista

che, secondo noi, ha lasciato

un segno indelebile sulla musica

degli ultimi 10 anni. Edda è pura

potenza emotiva, sia su disco

che dal vivo (in solo o con la sua

formidabile band) ed è un vero

peccato che un artista di questo

spessore non abbia un riscontro di

pubblico adeguato, a discapito di

tanti fenomeni indie-pop buoni al

massimo per qualche like su Facebook

o una diretta Instagram. Di

Edda amiamo tutto, ma scegliamo

Odio i vivi perché contiene Anna.

Un artista di un altro livello, un

alieno, un dono.

Siete stati costretti a spostare l’uscita

del disco e presumo ad annullare

i live. Come ritenete che

usciremo da questa curiosa e paradossale

situazione?

Per dirla alla Bennato “ne usciremo

in fila per tre”: un modo

semplice per dire che (purtroppo)

procederemo in maniera ordinata

e organizzata dall’alto, verso quella

che sembra essere l’uscita, sperando

che lo sia. Questo per mettere

l’accento su varie cose, includendo

il fatto che non riusciamo a vedere

una via di uscita nello “smart working”

applicato allo spettacolo dal

vivo, come se fosse possibile farlo

a distanza. Per vivere un’esperienza

“LIVE” è necessario scambiare

fluidi corporei e contagiarsi di

sudore e lacrime, non ci si può

limitare a fare dei video (anche

se ci stiamo divertendo a farne).

Quindi, mettendo al fuoco molta

calma e una manciata di buon

senso, accettando di aspettare che

i tempi maturino e che ci sia di

nuovo uno spazio da riempire e

a cui destinare vita vera, cerchiamo

di “scarrocciare” per goderci

in seguito quello che ci viene più

naturale fare: suonare. Non sappiamo

quando, ma sappiamo che

succederà.

28

29



ZERO PORTRAIT

Misterioso e mascherato, dopo un’intensa attività da dj, varie collaborazioni

e produzioni con differenti moniker, firma il suo primo lavoro discografico

in uscita l’8 maggio 2020 per Antistandard Records. “Pulp”

Il tuo attuale moniker fa riferimento

alla negazione dell’immagine

che mai come in questi anni

ha “colpito” anche i personaggi

del pop e dei generi contigui.

Che cosa rappresenta la tua denominazione

Zero Portrait?

Da che ho memoria nella mia

infanzia ho sempre ascoltato la

musica in radio e guardato i video

musicali su Mtv cercando i

programmi che trasmettessero la

musica che mi faceva fantasticare

mondi lontani dalla quotidianità.

All’epoca era la musica che mi ricordava

i videogiochi e i fumetti,

e che mi rimandavano mondi cyberpunk

o distese californiane con

quei suoi elettronici che, nella mia

fantasia, venivano direttamente

dal futuro. Questi ascolti creavano

in me un’aspettativa sui musicisti,

immaginando che facessero una

vita diversa da quella di noi altri

e mi sono sempre chiesto quale

fosse il loro volto. Questo desiderio

ha mantenuto vivo in me

quell’attenzione alla ricerca della

musica con la fantasia di un bambino

che provava ad andare oltre

dell’ascoltato. Il passaggio negli

anni è stato che i dj/produttori e

beatmaker sono passati da essere

autentici sconosciuti dietro alle

macchine a superstar, con volti

sovraesposti, interviste fatte trite

e ritrite. L’occasione di mostrare

l’autenticità artistica è diventata

mezzo di propaganda di uno stile

di vita consumistico e orientato

a fare sponsor più che parlare da

esseri umani a esseri umani. Forse

abbiamo barattato la piacevolezza

del desiderio con la mercificazione

ossessiva quasi pornografica

dell’atto creativo. Per cui credo,

almeno per me ha funzionato, di

voler ripristinare una parte di quel

“mistero” creativo, non esponendomi,

anche se in realtà si tratta di

mera protezione del mio me più

autentico, lasciando che la musica

sia da colonna sonora e che non

parli necessariamente di me ma

che, come un’opera cinematografica,

ti trasporti in mondi diversi

del quotidiano. Il nome pertanto

dovrebbe essere Portrait, ovvero

ritratto di un’idea, di un luogo geografico

o meta. L’aggiunta dello

Zero è dovuta in quanto in passato

ho avuto altri progetti sotto

diversi moniker e, alla giovane

soddisfazione di sapere di aver totalizzato

1k di listens, mi è stato

rimandato da gente più dentro di

me nel mondo della musica che

1k ad oggi (all’epoca) corrisponde(va)

a Zero. Ho fatto quindi risorsa

di questa “delusione”. Per cui

voglio concedermi la possibilità di

iniziare sempre da zero ogni cosa



che farò in questo percorso d’artigianato

musicale. Non c’è dunque

connessione diretta tra i due, Zero

Portrait è cacofonico, è dissonante,

difficile da scrivere. Per cui mi

piace...

Nel tuo disco si viaggia senza distinzione

di genere, quasi da un

estremo all’altro. Come ti immagini

il tuo “ascoltatore medio”?

Se dovessi fare un’analisi che osserva

i canoni stilistici della struttura

di ogni brano potrebbero in

effetti risultare fatti da mani diverse.

Ma non è così, Pulp è come un

viaggio, con relativi vissuti, quello

che senza dubbio li accomuna, e

che ha un filo comune, per me che

li ho creati, è la ritmica e la percussione,

poco lineare. Li ho immaginati

come colonne sonore di

un’unica opera che si può consumare

in un club in cui ogni traccia

diventa colonna sonora di quanto

succede tra le persone che sono

il centro di tutto, gli attori principali

senza dei quali tutto “sto

casino” non avrebbe senso. Il mio

ascoltatore medio credo quindi

che possa essere senza dubbio una

persona curiosa che segue un filo

personale nella scoperta delle cose

che va aldilà del seminato, dove

ogni cosa non è al suo posto perché

ognuno può scegliere il posto

dove inserirla.

Vorrei sapere come nasce “Fauna”

e la collaborazione con

Agronomist

Con Agro ci siamo conosciuti

anni fa a un evento legato al mondo

del design e della grafica, mettevano

i dischi due nostri amici.

Lui indossava il giubbotto del suo

gruppo Smania Uagliuns, gruppo

rap che io seguivo. In quella

circostanza non l’ho riconosciuto

per cui gli ho fatto i props sia per

il giubbotto che per i gusti musicali.

Insomma ci siamo conosciuti

casualmente. Entrambi fuori luogo

dagli ambienti hype ci siamo

confrontati su molti aspetti, e ci

siamo trovati sulla stessa lunghezza

d’onda oltre che sui contenuti,

sui modi che avevamo e abbiamo

di scegliere la musica che ci piace,

le letture, le persone e le situazioni

in cui c’inseriamo. Alla fine

abbiamo sentito che quel modo

di leggere le cose doveva diventare

musica e abbiamo iniziato a

vederci praticamente quasi quotidianamente

da un capo all’altro

di Roma per provare a unire

le nostre competenze. L’idea di

Fauna è stata proposta da me, lui

è stato capace di coglierne l’essenza

intenzionale, senza che io

gliela spiegassi ed è venuto quello

che sapete. Fauna è un brano che

esprime, e in un certo qual modo

è, il manifesto di Pulp e di quello

che entrambi cerchiamo di portare

avanti umanamente nelle nostre

professioni e nella musica, si parla

di quelle faune fuori da quella visione

sovraesposta, ma dei margini

di chi non ha modo o voglia di

esporsi ma ha un mondo da esprimere

e il semplice fatto che i loro

mezzi non gli concedano voce

non rende la loro voce meno interessante.

E noi siamo e stiamo con

loro. Attualmente siamo e saremo

in collaborazioni per altri progetti.

Tre nomi che ti piacciono particolarmente

della musica contemporanea

italiana di qualunque

genere

Per contemporanei intendo che

ho ascoltato o che sono usciti con

qualcosa nelle ultime settimane.

Direi Agronomist/Smania Uagliuns

(e tutte le sue camaleontiche

forme) forse l’artista rap che è

capace ad oggi di declinare le sue

intenzioni artistiche senza cadere

nella trappola di genere musicali.

Nasty Boy, storico produttore

house, che ha creato questo progetto

parallelo Future Jazz Ensemble,

la prima forma, che io

conosca, di Jazz in Italia fatto con

strumenti elettronici che non sia

il classico crossover acerbo, bensì

un vero disco jazz in piena regola.

Infine il terzo nome è La Musica

del Sud Italia, da cui proviene secondo

me il 70% della migliore

musica italiana contemporanea.

Per citare qualcuno, dalla scuola

pugliese, il duo Jok Troonz & K9,

e da Napoli, città-stato che ha un

mondo culturale vero, cito Yodaman,

la Niňa e i Fuera.

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IL TIPO DI JESI

Tommaso Sampaolesi cambia in parte il sound e pubblica “Yeah Yeah

Jesi!!”, nuovo disco in cui stempera un po’ l’atteggiamento nei confronti

della provincia marchigiana

Cambio sonoro e di atmosfere

per il tuo nuovo lavoro. A cosa è

dovuto?

Avevo voglia di sperimentare e

azzardare un po’ per trovare un

sound più elettronico rispetto al

primo disco. In aggiunta c’è da

dire che dopo Pranzo Rock in Via

Trieste ho passato molto più tempo

sul synth rispetto alla chitarra

e questo sicuramente ha influito

sulle scelte artistiche di Yeah Yeah

Jesi!! Per quanto riguarda i testi



ho voluto prendermi un po’ meno

sul serio e le atmosfere del disco

rispecchiano questa ricerca di un

maggiore senso di leggerezza.

C’è un cuore in copertina ma

non lo definirei “romantico”: che

cosa vuoi simboleggiare?

Mi dà l’idea che sia un po’ un cuore

elettronico, “romantico a comando”,

che rispecchia abbastanza

il sound e le atmosfere del disco.

La copertina sta a significare che

dentro questo disco c’è il mio cuore

e la base tramite cui ci ho potuto

imprimere le mie emozioni è

l’elettronica.

Mi incuriosisce La notte invece

di dormire suona: come nasce?

Questa è la canzone romantica del

disco e si attacca un po’ al brano

Tione, la nebbia, le montagne, tu

contenuto nel primo album. È

una canzone d’amore che racconta

i primi passi di avvicinamento tra

due persone chiuse al riparo del

loro rifugio sicuro. Mi sono immaginato

una scena notturna in

cui l’uomo suona una dolce confessione

d’amore e promessa di

protezione alla sua amata.

Tre nomi contemporanei italiani

che ti piacciono particolarmente?

Giovanni Truppi su tutti, poi La

Rappresentante di Lista e Calcutta.

Le Marche sono state fra le regioni

più colpite dal coronavirus

e tu sei legato alla tua terra fin

dal nome d’arte. Che cosa ti senti

di dire in questo momento così

particolare della, ma anche alla,

tua città?

Spero che l’emergenza finisca presto

e che ognuno di noi possa tornare

a sentirsi libero di vivere la

propria vita. Mi auguro che questa

esperienza ci lasci e ci insegni

qualcosa soprattutto sul modo di

rapportarci alle altre persone ma

anche sul modo in cui decidiamo

di vivere le nostre vite. Probabilmente

c’era anche bisogno di fermarsi

un attimo perché la frenesia

di questa società di certo non ci

faceva bene. Mi dispiace che questa

occasione di nuova consapevolezza

sia dovuta accadere a spese

di tante vite e a costo di tanti disagi,

soprattutto per chi è impegnato

in prima linea al contenimento

dell’emergenza.

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oZZo

A partire dal singolo “Hello”, sono mille i progetti per il musicista e dj ex

adepto della scena hardcore milanese

Come nasce il progetto oZZo?

Nasce intorno al 2018 dopo una

mia separazione dal mondo musicale

di circa un anno dopo lo scioglimento

degli Audrey (metalcore

band ultima mia fiamma). Veterano

della scena hardcore milanese

di metà anni 90 ho militato come

chitarrista in progetti come PHP,

Mellowtoy per chiudere per l’appunto

con gli Audrey. Un po’ per

nostalgia e un po’ per terapeutico

rifiuto della vecchia scena nasce

quasi per scherzo il progetto oZZo

che per l’appunto prende il nome

dal mio stesso nickname. Doveva

essere una toccata e fuga, mi volevo

regalare la scrittura di un singolo

(Nothing but you) lontano dai

canoni e dalle imposizioni di genere

che il mio passato mi costringeva

ad avere. Poi in realtà ci ho

preso gusto e ho scritto insieme a

Alessio Corrado alla voce e Jacopo

Festa alla produzione in studio,

#pastislost il mio primo ep datato

aprile 2018. Sei tracce di elettronica

e rock senza timori reverenziali;

ero riuscito a scrivere dei pezzi

che non seguivano le leggi del genere

in cui mi si etichettava, suono

come si suol dire quello che mi

piace. Dall’ep sempre per scherzo

inizio a giocare ma un po’ più seriamente

con la parte elettronica

della mia nuova avventura e da li

a poco senza accorgermene faccio

i primi passi verso il mondo dei

producer/dj; nascono cosi a breve

i remix di Crazy (smilax records),

Change, Choices (tutti brani presenti

nel mio ep ma stravolti in

chiave “dance” elettrica, fino ad

arrivare a Hello, uscita lo scorso

28 febbraio.

Vorrei sapere qualcosa sulla genesi

dell’ultimo singolo, Hello

Hello, appunto. Hai presente

quando si dice le congiunzioni

astrali? In questo momento di

stallo dovuto al lockdown e incognite

sul futuro mi giro indietro

al 2019 e sorrido. E’ successo

tutto velocemente, ho iniziato a

collaborare con 7skies dj producer

noto ai più come artefice dei

successi di Tiesto, KHSMR, Nervo

e via dicendo; insomma non proprio

l’ultimo arrivato al quale avevo

chiesto un supporto per il mix

e il mastering di Hello e la sua versione

remix. Scatta quello che in

gergo si dice stima a pelle reciproca,

lui ci mette del suo anche nella

produzione delle due versioni dei

brani e io nel frattempo inizio una

collaborazione come musicista

per la sua Standalone-music registrando

dapprima dei loop di chitarra

per il primo sound pack per

il vst Getlow e poi proseguo con la

registrazione di sample di chitarre

elettriche, (grazie a Lamina gtr e



nero gtr per la partnership) acustiche

e classiche per il secodo gtr

pack uscito poco prima della release

di Hello. La versione di Hello

sancisce un altro passo di avvicinamento

del mio vecchio suono

al mondo dell’elettronica. Uso

massiccio di synth e loop, ma non

ho abbandonato le chitarre heheh.

Poi dopo il mio viaggio a New

york dello scorso ottobre stringo

dei buoni rapporti con l’etichetta

indipendente (italiana) beatsound

di Beppe Stanco che mi prende

sottobraccio e mi pubblica i brani

e segue la promozione. Ritorno

alle origini, di nuovo “indipendente”.

Il video della canzone è molto

forte e d’impatto...

La regia del video è stata come

sempre affidata a Helena Gudkova

(cameragirlhelena) mia compagna

di video e visual fin dai tempi

degli Audrey. Ho totale fiducia in

lei e so che sa leggere bene nella

mia testa senza bisogno di perdere

tempo in chiacchiere. L’idea

della sceneggiatura quindi è un

mix della mia, embrionale e molto

semplice, con gli innesti geniali

della regista per rendere la confusione

e dicotomia che regna nel

mio cervello diciamo un po piu

fruibile. La storia apparentemente

banale esprime il concetto del:

“nella vita siamo il risultato delle

nostre scelte e da quelle spesso dipende

la nostra storia”. Ho voluto

inserire come protagonista Elisa,

la mia nipotina che ai tempi delle

riprese aveva 2 anni e attraverso

lei abbiamo raccontato le paure e i

ricordi di una bambina che cresce

e fa i conti col suo essere e diventare

donna. Il fatto che ci siano dei

riferimenti più o meno espliciti a

mondi come Madonna (Frozen) e

a film come Dal tramonto all’alba

o spunti alla 30 seconds to mars,

fa parte della mia deformazione

professionale (art director e fotografo)

che cerca sempre di posizionare

un prodotto anche sul

mercato e renderlo appetibile

Ci vuoi spiegare perché i singoli

escono affiancati dal remix?

No non sono un megalomane anche

se ci sono tutti gli elementi

per pensarlo. Per me la musica è

sempre stata una questione solo

ed esclusivamente di linguaggio

e genere. La musica è espressione

del proprio stato d’animo e del

momento in cui sono state scritte;

la formula che io chiamo “formula

oZZo” prevede per le uscite

dei singoli sempre i tre elementi

– Pezzo originale – remix – video

- perché credo che sia la sintesi del

mio progetto intero. Dopo che finisco

la stesura e l’arrangiamento

del brano mi chiedo sempre come

sarebbe se lo dovessi portare oltre

che live anche durante un mio dj

set; come potrei far convivere il

brano con pezzi di Aoki o 7skies

per l’appunto o CID o Chali e

quindi come dicevo prima scatta

la necessità di cambiare linguaggio

e portarlo sui temi della “dancefloor”

sempre mista al mio animo

noir, ma più “smuovi sedere”.

Questa schizofrenia artistica mi

permette anche durante i dj set di

portare slot di 30 minuti circa di

soli miei brani che non è male per

chi come me fino a poco tempo fa

componeva musica punk e ha ancora

nel cuore i Bad Religion.

Quali i tuoi prossimi progetti?

Prima di entrare in questa fase

di stallo, più fisico che artistico,

stavo preparando il live show cercando

di non parlare piu di oZZo

e oZZo dj poiché la dicotomia è

nata più per necessità di comunicazione

italiana che altro. Lo show

si compone di momenti live suonati

(chitarra voce batteria) con

stacchi alla consolle con la batteria

e momenti di Djset puro. Non

potendo prevedere quando, ma

soprattutto come potrò portarlo

in giro sto preparando la sua trasposizione

live probabilmete streaming

dal mio quartier generale

(#kspacemilano) e ne ho fatto uno

showreel demo di 20min. Sto anche

scrivendo i follow up di Hello

e soprattutto lavorando come

producer a vari progetti al di fuori

di oZZo come i Wolftheory e suonando

in streaming con la neonata

crew House of NoLo che sarebbe

dovuto essere il format per la

presentazione di Hello nei piccoli

club ma che la contingenza non

me lo ha permesso, per il momento.

Vi aspetto per ora nei canali

social e sulle piattaforme stream

ma non dispero che presto potremo

incontrare come si diceva una

volta, sotto il palco.

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KMFROMMYILLS

Nell’ultimo singolo del duo, “The garden in_side” si concretizzano le

molteplici influenze che caratterizzano la musica di Caterina e Manuel

Partirei dal raccontare chi siete e

il motivo del vostro nome

Ciao a tutti e grazie dell’opportunità

di raccontarci. Il nome nasce

poco dopo l’incontro personale ed

artistico tra me (Manuel) e Caterina.

Riflette, in parte, la mia passione

per i giochi di parole e gli

acronimi. Quando ci siamo incontrati

abbiamo speso molto tempo

in un luogo bucolico, distante

kilometri dalla densità urbana,

in pratica, campi, fossi, colline,

uccelli notturni e cani da pastore.

Proveniamo entrambi da esperienze

musicali pregresse che hanno

contribuito a farci crescere sia

dal punto di vista umano che ar-



tistico e soprattutto, hanno mosso

in noi il desiderio di sperimentare

in questo progetto (composto da

due persone) territori musicali

che non avevamo ancora esplorato.

Ridurre l’organico, aumenta le

libertà e le responsabilità, quando

si vuole condividere l’etica e l’estetica

di quello che si produce.

Come nasce The garden in_side,

il vostro ultimo singolo e video?

The garden in_side nasce prima

come musica. Il testo è stato totalmente

ispirato dalla musica, la

melodia della voce si è generata

spontaneamente dall’ascolto. Parte

dei brani del progetto

(e questo in

particolare) indagano

la possibilità

della dimensione

domestica, intesa

come rifugio, spazio

concreto ma

anche dimensione

interiore, luogo in

cui poter coltivare

la creatività, ed

elaborare ciò che

poi restituirai al

mondo. Riguardo

al referente del

giardino interno,

esso non è una

pura idealizzazione,

ma corrisponde

alla realtà delle

cose, in quanto,

nella casa in cui

viviamo, piante e fiori occupano

spazio preponderante e godono di

importante attenzione (insieme ai

felini). Il video è stato completamente

realizzato da Martina Prosperi

aka IWRYN, un’artista visiva

con la quale siamo molto in sintonia

e con cui abbiamo collaborato

anche per la realizzazione del

video del singolo precedente. Esistono

numerose convergenze tra

la visione del mondo di Martina

e la nostra, è stato quindi molto

naturale affidarle il compito di costruire

un “visivo” per The garden

in_side. Quello che le abbiamo

chiesto, era di lavorare in totale

libertà, lasciandosi ispirare dall’ascolto

della canzone. E’ molto stimolante

pensare che qualcuno stia

traducendo, in un altro codice,

ispirazioni che tu stesso hai cercato

di tradurre in musica e parole.

La nostra collaborazione, infatti, è

in divenire e non si esaurisce con

questi due video.

Quali sono i vostri punti di riferimento

artistici e musicali?

Tutta la musica che abbiamo

ascoltato, ascoltiamo e ascolteremo,

molta letteratura, il teatro, la

performing art, l’arte visiva, il cinema.

L’umano. L’animale. La fisica.

La metafisica. Se vibra, ispira.

Quali sono i vostri prossimi progetti?

Il n°10 di Downing Street, il disco,

continuare a fare ciò che amiamo.

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IRON MAIS

“Woodcock” è il nuovo album della band “rurale”, con un inedito e

molte riletture, alcune delle quali decisamente sorprendenti

Partiamo dalle radici: mi raccontate

come nasce “Woodcock”?

Woodcock, come tutti gli altri

album, nasce per dare energia,

buon umore e fibra a chi sceglie di

ascoltarci; siamo rimasti fedeli alla

nostra linea , le nostre interpretazioni

diventano come sempre dei

veri e propri nuovi pezzi renden-



do quasi irriconoscibili le versioni

originali, il tutto sempre accompagnato

da inediti,in questo caso

“Sole” che rappresenta chi siamo e

cosa pensiamo sempre con un po’

di sarcasmo e ironia.

Come avete scelto i brani di cui

fare la cover? C’è molto metallo

ma anche punk e qualche scelta

decisamente pop...

Veniamo tutti da estrazioni e

background musicali diversi,

classica, stoner, psychobilly, folk,

rock, hardcore eccetera eccetera e

quindi nei nostri album cerchiamo

di omaggiare oltre che gli ar-

tisti anche solo i

brani che abbiamo

amato e amiamo

tuttora sempre e

rigorosamente con

il “Cock” duro!

Mi raccontate

qualcosa dell’inedito,

Sole?

I nostri pezzi nascono

dalla voglia

di esprimere sentimenti,

pareri e

pensieri, di solito

i nostri brani sono

sempre ironicamente

pungenti

e nel caso di Sole

anche di protesta

verso quelle persone

che perdono

tempo vivendo infelici,

invidiose e

insoddisfatte invece di agire, passare

ai fatti e poi permettersi di riposarsi

e prendere il sole, appunto

da quí il titolo.

Con una cover che avete fatto in

passato avete duettato con l’artista

originale (Corona). Potendo

sceglierne una da “Woodcock”,

chi scegliereste per un duetto

ora?

Scegliere un artista con questa

parata di nomi storici sarebbe

impossibile, potremmo però fare

contenti tutti con un bel concerto

insieme ai Clash, ai Van Halen o

in un’altra vita con Michael Jackson,

perché no?!

Siete famosi per la voglia di sorridere

e le esibizioni dal vivo.

Pare che questo periodo ce le abbia

tolte entrambe. Come state

vivendo la quarantena?

Noi siamo un gruppo che vale

e dà molto dal vivo e questa situazione

non può che farci male,

come penso ai tanti musicisti nel

mondo nella nostra stessa situazione...

Viviamo un periodo che

passerà alla storia, in questo momento

di incertezze ci è consentito

soltanto aspettare come tutti il

ritorno della normalità anche nel

campo della musica. Ovviamente

in questo periodo ci dedicheremo

a qualche diretta on line o collaborazione

a distanza, a scrivere e

suonare ma soprattutto a restare

pronti per ricominciare ancora

più carichi e forti di prima.

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SILEK

Si chiama “Carnival” il nuovo album del rapper proveniente da Padova:

più omogeneo e compatto, è soprattutto “il primo disco di Simone”

Ci vuoi raccontare chi è Silek?

Silek è lo pseudonimo di Simone,

un ragazzino che si è appassionato

al rap e a tutta la cultura

hip hop da molto piccolo e nella

metà degli anni ‘90 ha voluto farne

parte in maniera attiva. Prima

del rap c’era tanta altra musica, e

dal rap in poi altra ancora per cui

la contaminazione con altri generi,

sia per musica che scrittura ha

colorato e cambiato molto la connotazione

di quello che faccio rispetto

al rap nella sua versione più



ortodossa. Per dieci anni ho fatto

parte di Dozhens, la prima realtà

nata a Padova, poi diventato quasi

un laboratorio di sperimentazione

e crossover fra generi inventandosi

fra i primi il rap sulla musica

elettronica già all’inizio dei 2000.

Chiusa l’esperienza di gruppo

dopo 10 anni di live e tre album,

ho continuato la stessa ricerca da

solo. Tanti altri live, vari album

solisti, pause, esperienze e collaborazioni

negli States fino a qui

oggi. Negli anni mi sono appropriato

di una scrittura sempre più

personale, ho imparato a produrmi

la musica da solo. La mia è una

ricerca che porta a una modalità

comunicativa fatta a strati, non

facile, ma è una scelta, così come

un flow personale, complesso che

continuo a rivedere ed evolvere.

Magari domani Silek sarà solo

musica... o solo scrittura... o un

progetto multimediale interattivo...

vedremo.

Si parla di maschere con “Carnival”:

mi racconti con quali sentimenti

hai approcciato il lavoro

sul disco?

Volevo fosse il primo disco di Simone.

Lasciare il personaggio per

far parlare la persona, toccando le

parti più intime, lasciando fluire

le emozioni senza imbarazzi. Non

ci sono temi sociali, come di solito

era per la mia composizione, non

ci sono teoremi e visioni o messaggi,

c’è la mia parte emotiva più

profonda, nuda, difficile da scrivere

perché smuove cose che sono in

fondo. L’ho scritto composto e registrato

in tre mesi esatti e ci sono

tutte le esperienze, le emotività i

passaggi di questo periodo, è stato

davvero intenso e mi ha portato

a scrivere ogni giorno in maniera

continua e fluida. In Carnival

ci sono bui profondi ma c’è anche

la luce, c’è il far pace con pezzi

della mia vita, ci sono le mie paure

e le mie speranze. La sera mi

sedevo e scrivevo e dopo un’ora

avevo la bozza del brano con tanto

di ritornello. Mandavo.in giro

su whatsapp i provini annoiando

tutti quelli che si sentivano di sopportarmi

e tiravo le somme. Poi

smussavo.

Benché tu sia abituato a spaziare

tra i generi mi sembra che in

questo caso tu abbia scelto un

vestito sonoro molto omogeneo

e compatto. Da cosa nasce questa

scelta?

Volevo avesse delle tinte precise,

ho scelto una palette e vi sono rimasto

coerente, l’idea è che fosse

un ascolto esattamente dentro

quella stanza, con quegli odori e

quei suoni. E’ un disco hip hop

attuale, non vintage o nostalgico,

ha bpm molto bassi, utili a darmi

elasticità nella stesura del rap.

Credo sia stato davvero il progetto

più fluido e veloce del mio percorso,

togli mix e periodo covid dopo

tre mesi scarsi dall’idea di fare un

nuovo progetto (dopo il precedente

uscito a settembre) era tutto registrato

con sette brani e pronto a

uscire. Ho aggiunto solo la bonus

track Quarantema composta e registrata

a casa da me per ovvi motivi

di cronaca. Nel totale quattro

produzioni sono mie, tre di Nevo,

una di Skinny.

Chi sono i tuoi punti di riferimento

nell’hip hop italiano?

Vengo dall’ascolto di tutto il rap

anni ‘90, per Sangue Misto e LouX

sono stati i mentori che ancora mi

godo, oggi però non riesco più ad

ascoltare artisti della mia generazione

ancora in giro, sono stati

ottimi maestri ma che sento non

appartenermi più. Fra i più attuali,

anche se a loro volta di lungo percorso,

ascolto e apprezzo molto

Noyz Narcos, Salmo, Marracash,

Primo Brown (RIP), Mezzo Sangue,

ma anche qualcuno di più

giovane ancora che si muove in

altri territori.

Che cosa pensi della situazione

attuale l’hai spiegato bene in

“Quarantema”... Che cosa farai

“all’uscita”?

Qualsiasi cosa io dica verrà confutata

e resa merda dalle due grosse

fazioni che vedo andare a crearsi,

future contro no future, negazionismo

contro fine del mondo.

Credo che ne usciremo, ma una

parte di noi è in preda al panico,

credo che subire la paura sia il rischio

più dannoso del virus stesso

che va amministrato con responsabilità,

ma presto o tardi passerà.

Il problema è se rimane la paura.

All’uscita farò quello che ho sempre

fatto: cercare di costruire cose

positive, solo che per un periodo

lo farò con la mascherina.

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