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La piccola gente

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LETTERA

ARTICOLO

Una sinfonia zingaresca come riscatto degli umili.

G

iuseppe Ballarini, pittore pesarese dell’umiltà, noto per avere riempito le sue tele con le

spalle più o meno chine di tanta piccola gente della nostra periferia, ha fatto suo il

mondo degli Zingari. Si è innamorato degli Zingari. Se n’è lasciato affascinare, ammaliare, stregare.

Li ha cercati a lungo, di giorno e di sera, ai margini delle strade; li ha, più o meno furtivamente,

osservati nelle loro apparizioni fugaci; li ha studiati nei loro accampamenti pittoreschi, fra le

tende, i cavalli, i fuochi notturni, gli stracci multicolori; li ha spiati di spalle, li ha fissati nel viso e

negli occhi; li ha frugati nell’anima, giovani e vecchi, donne e bambini, zingari e cavalli. E ne ha

creato una sua nuova sinfonia pittorica. Una sinfonia di marroni bruciati, con chiarori di fuochi e

nero di occhi, che un giorno d’inverno, sotto le feste natalizie, ha presentato, a Pesaro, nella Sala

Laurana.

Zingari ritratti solo come figure dal portamento eretto, dagli occhi “magici”, dai profili “fantastici”?

Zingari come “straccioni”?

Zingari come “ladri” e “stregoni”? Come nelle leggende, che una volta terrorizzavano i bambini?

No. Niente nella pittura del Ballarini, sempre scarna e drammatica, sempre sofferta, sempre

intenta a una ricerca del reale umano, a una indagine psicologica e sociologica insieme; niente di

ispirato al puro gusto della bellezza fisica o del folclore.

Zingari come popolo errante. Come “gente in continuo andare”, ci dice il pittore. Ma gente in

continuo andare per maledizione. Senza nessun anelito al viaggiare. Nessuna ansia di scoprire il

mondo. Nessuna voglia ardente di goderselo. E nessun gusto del paesaggio vario. Nessuna contemplazione

di monti o di mari. Nessuna gioia per i colori. Intorno alle figure degli Zingari,

nient’altro che aloni di luce, tra ombre e penombre indistinte.

Dunque, che cosa, del mondo zingaresco, ha ammaliato il pittore?

Gli Zingari al Palazzo Ducale.

Ero entrato a vederli per pura curiosità. Lui, Ballarini, in mezzo al salone, in piedi, sorridente ai

“Bravo!” di un maestro della pittura pesarese: Sandro Gallucci. Alle quattro pareti, la sua sinfonia

zingaresca. Come una giostra, un carosello, un convegno. Ma senza aria di festa. Zingari come

ombre meste nella penombra rossastra della sera. Sagome infreddolite, intorno a fuochi nella

notte. Davanti alle tende, occhi di zingari e vampe di fuoco, come spiriti purganti tra le fiamme

del purgatorio. E gran silenzio. Zingari muti. Senza parole tra loro. Zingari soli. Come nel deserto.

Soli, impenetrabili, corazzati di un dolore atavico, separati dagli altri uomini da un’indifferenza

reciproca, come da una sabbia invalicabile. Zingari dolenti, ma senza alcuna attesa di pietà.

Senza alcun lamento o rimpianto.

Zingari come uomini. Come squarcio di umanità. Non come mondo pittoresco. Uomini, scavati

nell’anima. Occhi, visi, membra del corpo, solo come espressione di una tensione intima. Terre

d’ombra bruciate con nero di occhi e chiarore di fuochi, come segni di una concentrazione drammatica.

Occhi e labbra taglienti, spalle erette, gomiti serrati ai fianchi, come a difesa di un orgoglio

ferito. Uomini drammatici, ma senza teatro. Dolore senza grido, come senza grido il dolore

accettato dal Cristo che porta la sua Croce nella “Via Crucis”, dipinta dal Ballarini per la chiesa

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