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La piccola gente

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INTRODUZIONE A GIUSEPPE BALLARINI

“P

epino dla Maria dla maestra”. Pepino dla Maria dla Maestra: così potrebbe essere il

titolo di questo libro.

Nome, nonna e madre: una sigla popolare per rispondere alla comune domanda “ma di chi

parli? ma chi è?”

Non per definire l’essenza di un uomo: con un po’ di libero arbitrio (molto poco) o di fortuna

(quasi niente), o di casualità (moltissima), un DNA avvolgente e determinante.

Lui, il Peppino nato il 26 Dicembre del ‘26 a Montecchio, agrimensore e pittore di figurine

viste dalle finestre di case o di borghi agresti, delle strade antiche, delle marine solitarie, dei prati

con lenzuola stese al sole e di grandi querce. Immagino che lui abbia voluto questa mia prefazione

al suo libro perché anch’io sono una sigla popolare: Mario de Vitori de Ragnota.

I miei erano cordai (ragnota da ragno con desinenza gallica) lungo il porto canale fanese: la

“mannella” legata alla coscia destra, i calzoni sostenuti da una rete attorciliata come una serpe

(anche per salpare la tratta), una pezzuola bagnata per meglio far correre la canapa nella mano.

Tutto quello che non abbiamo dimenticato, non abbiamo lasciato, perché origine e cuore. Dice

Elias Canetti: “Il destino degli uomini viene semplificato dai loro nomi”. Ego aggiungo, anche

dai loro soprannomi.

Così Peppino appartiene a un mondo dato che in parte è anima del passato, delle sue immagini

di persone o personaggi, di figure e figurine, di caratteri e sentimenti, di cose e paesaggi, di una

vita semplice e talvolta giocosa, pericolosa e tragica.

E continiuamo con i nomi, di artisti, scrittori, critici e giornalisti della nostra periferia riuniti in

queste pagine come in coro.

C’è Alessandro Gallucci e Francesco Carnevali, grandissimi, e anime nascoste, timorose e agitate,

sentimentali. Qualcosa li ugualiava a Giuseppe Ballarini: si rispecchiavano in un mondo di

natura e società, in una bolla di riflessi e di immagini, con una certa poesia delicata, talora evanescente.

Gallucci aveva capito il temperamento duplice di questo pittore: “La sua dote predominante è

la sobrietà sia disegnatoria che pittorica, quale si addice ad uno spirito prevalentemente drammatico,

anche se qualche volta ti sorprende con genuini accenti di tenerezza, quando il colore si fa

delicatissimo quale non ti saresti aspettato dopo aver sentito la quasi aggressiva potenza dei neri

essenziali contorni di altri lavori”.

E così Carnevali sulla stesura di questo colore: “Il valore probante oltreché della costruzione

della “figura”, che in alcuni casi si contorce e scatta, è dato - a me sembra - da questa atmosferaspazio

che la avvolge e la tiene. E sono azzurrini e grigi, azzurri cupi, oppure gialli rossastri come

di terra; a volte una nota di vivo rosso puntualizza un centro, e bianchi e rosei e parchi tocchi di

altri colori, e invece scale di bruni e più intensi grigi fino a raggiungere un nero...”

Ho scritto sulla pittura di Ballarini, molto tempo fa: “Questo dialogo in contrasto non ha

necessità di una definizione: è come se per dipingere abbia bisogno di una altalena”.

Ma i nomi sono anche altri, né li voglio tutti enumerare e vagliare. Non posso trascurare però

Valerio Volpini che mi è stato amico di scuola, di banco e di tenda e di ribellione patriottica; né la

cara dolce Ivana Baldassarri, generosa di parole significative e amichevoli, concentrate a rivelare,

forse prima d’altri, lo sviluppo degli artisti locali. In varia misura tutti quei nomi hanno delineato

e definito il carattere, il segno (e il sogno) pittorico ed esistenziale di Giuseppe Ballarini.

Molti hanno evocato Marino Moretti crepuscolare, romanziere e poeta di queste parti. La

madre tanto amata ed evocata, figura spesso centrale nei suoi racconti, era una pesarese, maestrina

andata ad insegnare nella vicina Romagna, dove nacque Marino, a Cesenatico il 18 Luglio

1885. Anche il Moretti ha la sua piccola gente, semplice e spesso umiliata che lui chiamava “le

parti di fianco”.

E nella pittura di Ballarini c’è anche il nostro Fabio Tombari, nei suoi temporali, nelle burrasche

che squassano le coste e le scogliere, salgono con le ondate alle “bilance” e ai “quader”,

distruggono le barche nelle marine non più ridenti.

Non ricordate quel tale che disegnava cavalli sui muri con l’acqua che gli usciva dalla pistola?

Anche Peppino lo disegna questo “coso”.

“Non capì più niente; schiumava di rabbia, tutto rosso vedeva: e con la scusa di annaffiare il

muro, si piantò sotto la costellazione dell’Orsa, rampognando il Fato...” Un tombariano davvero

metafisico.

Guardate la donna o il prete nel vento e nella pioggia con le gonne alzate: Peppino ci ha fatto

vedere anche questo.

Ma cercarle tutte non finirei più. In molti mazzi di carte ci sono molte “petrangole”. In questo

libro non c’è solo il momentaneo o il provvisorio, c’è anche il sacro. E alla fine c’è una sorpresa,

alcuni “momenti” - così lui li chiama - in prosa o poesia, momenti quasi pascoliani, rivelatori del

suo far pittura.

O del cercare un suo assoluto.

Leggete questo “Senza fine”. “Avere ottant’anni o più/ interrare una piccola ghianda/ e attendere

che la quercia/ si faccia così grande da godere/ supino sull’erba/ di lunghe soste/ alla sua

ombra”.

Anche questo è infinito.

Ha scritto Elias Canetti: “Vivere come se si avesse dinnanzi a sé un tempo illimitato.

Appuntamenti da qui a cento anni”.

Il libro è dedicato a Giuliana, la moglie. Una donna gelosissima del suo Pino pittore, non delle

modelle che non aveva, ma della natura stessa, immagini e colore.

Aveva gli occhi azzurri. Un colore che ha lasciato negli occhi dei suoi nipoti. Quando cominciò

a soffrire, cominciò a morire.

E con quegli occhi di cielo i bimbi continuano la vita: e guardando i quadri del nonno lodano

una finestra, quasi alla Henri Matisse, con un gatto nero. (Vero Claudia, Carlotta, Lorenza e

Giuseppe?)

Una immagine sulla continuità di una fine e di un principio, un piccolo infinito umano, un dentro

e un fuori del tempo nel racconto famigliare, un’altra ghianda da veder crescere per la nostra

ombra.

Novembre 1999

Mario Omiccioli

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