CANALETTO_2019_Catalogo
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Whig – che proprio in quegli stava costruendo le proprie
sontuose dimore – possono liberare, pienamente
incoraggiati, il loro estro creativo.
Ritornato a Venezia, esibisce con sfrontatezza
un nuovo status sociale, figlio, oltre che del suo straordinario
talento, anche di una non comune capacità
imprenditoriale. Si permette di chiedere compensi
impensabili per la maggior parte dei suoi colleghi, soddisfando,
senza preoccupazioni, la propria personale
passione per il mondo dello spettacolo, imbarcandosi
in iniziative di dubbia fortuna come quella d’impresario
teatrale. Acquista, a caro prezzo, uno splendido appartamento
alle Procuratie Vecchie in piazza San Marco.
Prima di lui solo Pietro Liberi aveva osato di più, facendosi
costruire un intero palazzo sul Canal Grande. Negli
anni della vecchiaia accentua con virtuosismo sempre
maggiore le proprie doti esecutive. Si lega in modo
stretto a un gruppo di raffinati conoscitori come Anton
Maria Zanetti il vecchio e Joseph Smith, futuro console
inglese a Venezia. Sono collezionisti originali e al contempo
mercanti d’arte; estranei all’ambiente tradizionale
dell’aristocrazia veneziana. Il loro gusto è votato ai
valori pittorici, e prediligono la produzione dei grandi
figuristi nel suo aspetto privato e creativo: bozzetti e
disegni preparatori. Sotto questo aspetto Ricci era il
loro artista ideale.
Ritroviamo la sua estrema dichiarazione poetica
nella lettera che egli indirizza, settantenne, al conte
Giacomo Tassis il 14 novembre 1731. L’argomento è il
compenso per il bozzetto per la pala bergamasca delle
Anime purganti di cui il nobile è stato intermediario.
Le parole di Ricci, valgono più di ogni ulteriore commento:
“Ma sappia V. S. Illustriss. che vi è differenza
da un bozzetto, che porta il nome di modello, a quello
che le perverrà. Perché questo non è modello solo, ma
è quadro terminato, e le giuro che io farei un quadro
grande d’altare simile a quello che io ho fatto piuttosto
che far questo piccolo, che ella chiama col nome di
modello. Sappia di più, che questo piccolo è l’originale
e la tavola d’altare è la copia”, aggiungendo in chiusura
“Se fosse fatto com’è il solito costume dei bozzetti non
avrei cercato alcuna ricompensa. Ma torno a dirle che
sarebbe stato per me il più agevole farlo in grande” [12] .
Per alcuni aspetti sovrapponibile è la biografia
Antonio Pellegrini: vi ritroviamo lo stesso, infaticabile,
itinerario europeo, con molte tappe comuni, ad
accendere una rivalità che durerà per tutta la vita [13] .
Più giovane di Sebastiano Ricci (nasce a Venezia nel
1675), si forma con l’artista forse più eccentrico ed
eterodosso presente a Venezia alla fine del secolo:
il lombardo Paolo Pagani. Giovanissimo, lo accompagna
fra il 1692 e il 1695 in Moravia, dove lavora
presso il principe vescovo di Olomuc, Karl II von
Liechtenstein-Kastelkorn e poi a Cracovia. Dopo
questa esperienza, mentre il maestro fa ritorno nella
natia Valsolda, Pellegrini si reca a Roma. Nell’Urbe è
la pittura di Giovan Battista Gaulli e del Baciccio, a
lasciargli un segno profondo. Gli inusuali risultati di
questa stravagante associazione che vede il sulfureo
stile di Pagani mescolarsi con la scintillante interpretazione
del barocco romano di Gaulli, si palesano
nelle opere compiute da Pellegrini a Venezia a partire
dal 1698 [14] . Si tratta, spesso, di composizioni impetuose,
irrituali nello svolgimento anticlassico della narrazione:
le figure sono poste in audaci controluce e i
panneggi si accendono di curiose incandescenze cromatiche.
Lo ritroviamo spesso attivo per le famiglie
della ’nuova’ nobiltà o semplici “cittadini”: gli Albrizzi di
Sant’Aponal; i Vezzi, che di lì a poco avrebbero avviato la
loro fabbrica di porcellane; soprattutto i Giovanelli nella
villa di Noventa e gli Alessandri in quella di Mira [15] .
Le fonti, a queste date lo ignorano, segno di un successo
che tarda ad arrivare. L’unica opera pubblica di peso è
la grande tela con il Serpente di bronzo per la chiesa di
San Moisè, portata a termine tra il 1707 e il 1708. Deve,
quindi, aver accettato senza troppi rimpianti l’invito
di Charles Montagu, futuro duca di Manchester (per il
quale Luca Carlevarijs aveva realizzato il celebre Ingresso
solenne oggi al Museum and Art Gallery di Birmingham),
a recarsi in Inghilterra, assieme a Marco Ricci. Si tratta
dell’occasione della vita.
In Inghilterra, il Pellegrini, quasi come farfalla
smagliante lasciò cadere gli ultimi frammenti
della dura crisalide seicentesca che aveva fino ad
allora impedito le sue già audaci creazioni. In una
serie di mitologie, “historie”, capricci e ritratti,
venne nascendo uno stile nuovo: senza peso, sensuale,
qualche volta goffo e melodrammatico, ma
quasi sempre libero da tensione. Piume color di
rosa, volteggiano sullo sfondo di un cielo azzurro
striato di pennacchi di nuvole bianche; la luce
12 _ Sebastiano Ricci, Il
trionfo dell’invenzione nel
Settecento veneziano, catalogo
della mostra (Venezia,
Fondazione Giorgio Cini) a cura
di G. Pavanello, Venezia 2010;
Sebastiano Ricci 1659-1734, Atti
del Convegno Internazionale di
Studi (Venezia, Fondazione
Giorgio Cini, 14-15 dicembre
2009) a cura di G. Pavanello,
Verona 2012.
13 _ G. Knox, Antonio
Pellegrini 1675-1741, Oxford
1995; Antonio Pellegrini, il
maestro veneto del Rococò alle
corti d’Europa, catalogo della
mostra (Padova, Palazzo della
Ragione) a cura di A. Bettagno,
Venezia 1998.
14 _ Antonio Pellegrini nella
chiesa veneziana delle Eremite,
“Arte Veneta”, 60, 2003, pp.
205-210.
15 _ D. Ton, in Gli affreschi
nelle ville venete. Il Settecento, I,
a cura di G. Pavanello, Venezia
2010, cat. 100.
16 _ Haskell 1963 (ed. 1966),
pp. 426-427.
17 _ Zanetti 1771, pp. 445-
446.
18 _ A. Scarpa Sonino, Jacopo
Amigoni, Soncino 1994.
mette scintille su una delicata armatura, trecce
d’oro si sciolgono disordinate su invitanti nudità;
musicanti fantasiosamente abbigliati in costumi
di seta si appoggiano ad una balaustrata e alludono
scherzosamente al Veronese, senza il severo
impegno di Sebastiano Ricci o più tardi, di Tiepolo
(che a quest’epoca era appena agli inizi). Nuove e
sottili combinazioni di colori (toni di malva, verdi,
rossi ed argento trasparenti) si aggiungono alla
notevole freschezza della maniera di Pellegrini. [16]
Dopo aver esordito con una pittura fortemente
espressiva, egli alleggerisce il colore e le forme in evanescenti
composizioni aeree dove le figure fluttuano
lievi, senza regole e schemi. La sua capacità d’improvvisazione,
che sfrutta anche in questo caso una straordinaria
padronanza e rapidità, trova confronto solo nei
grandi musicisti del suo tempo. Pellegrini trasporta così
la libertà e la freschezza esecutiva del bozzetto su una
scala monumentale e decorativa. È una pittura seducente,
destinata ad appagare lo sguardo, in sintonia con
quanto avviene in Francia durante la Reggenza, che va
incontro al gusto di raffinati intenditori ma non sempre
trova l’approvazione dei colleghi o dei critici: Anton
Maria Zanetti il giovane avrebbe scritto: “Poteano dire
i critici a sua voglia, che li di lui opere non aveano fondati
studii di pittoresche dottrine, che per essere troppo
prestamente dipinte non sarebbero arrivate a durare un
mezzo secolo; tutto era un nulla” [17] .
Il primo soggiorno inglese di Pellegrini dura
cinque anni e lo vede attivo nelle principali residenze
di campagna. Forse a questo periodo spetta il delizioso
bozzetto del museo di Ravenna (cat. II.04) con la
Clemenza di Alessandro, un soggetto raffigurato in molte
occasioni durante la giovinezza, ma che qui diventa di
secondo piano rispetto al partito decorativo che lo
incornicia, che segue, anche nella balaustra, un sincopato
andamento rococò. Lo stesso gusto anima anche il
disegno dell’École des Beaux-Arts di Parigi, destinato a
una decorazione d’interni (cat. II.19).
Dopo aver rotto il sodalizio con Marco Ricci (che
nel frattempo aveva invitato a Londra lo zio Sebastiano),
nell’estate del 1713, assieme alla moglie, si reca presso l’elettore
del Palatinato Johan Wilhelm von Pfalz-Neuburg
a Düsseldorf, dove, oltre a trovare un grande mecenate
dei pittori veneziani, entra in contatto con una delle corti
europee più innovative e cosmopolite. In pochi anni realizza
un incredibile numero di opere che incontrano l’approvazione
del committente. È la moglie di Pellegrini,
Angela Carriera, a lasciarci, in una lettera alla sorella
Rosalba, un fulmineo quanto azzeccato commento sulla
coeva produzione del marito: “Toni fa quadri di Paradiso”;
come se la sua pittura leggera, schiarita su innaturali tinte
pastello, fosse in grado di evocare le delizie dell’Aldilà.
Fra questi dipinti possiamo annoverare senz’altro lo stupendo
San Sebastiano curato dalle pie donne, dove la
sfarfallante condotta esecutiva dell’artista si fa ancora più
preziosa e suggestiva nell’inedita ambientazione serale
della scena (cat. II.03). Soggiornerà a Düsseldorf fino alla
morte del principe elettore, nel 1716. Negli anni successivi
attraversa l’Europa senza sosta: i Paesi Bassi, di nuovo
l’Inghilterra, poi in più occasioni Parigi, Vienna e le corti
tedesche (Dresda, Würzburg, Mannheim).
Rientra a Venezia solo a pochi anni dalla morte
(1738), neanche in tempo per godersi il successo e il
meritato riposo. Anche su Pellegrini, come per Ricci,
abbiamo molte informazioni di prima mano, in questo
caso grazie all’epistolario di Rosalba Carriera. Ne
emerge una personalità gaudente, gioviale – come si
ricava anche dai pingui e sorridenti autoritratti che ci ha
lasciato – che certo non rivela l’inaspettato collezionista
di dipinti. Alla sua morte, furono venduti dalla vedova al
console Smith e da qui confluirono nelle collezioni reali
inglesi. Fra questi, testimonianza di una sensibilità straordinaria,
La lezione di musica di Vermeer.
Sebastiano Ricci e ancor meno Pellegrini, operarono
a Venezia solo durante intervalli della loro carriera,
spesa in gran parte all’estero. Analoga sorte tocco
a Jacopo Amigoni [18] . È l’artista di questo gruppo su cui
abbiamo meno informazioni in merito alla prima giovinezza.
Non è nota nemmeno la data di nascita, compresa,
stando a fonti successive, fra il 1675 e il 1685.
La sua prima opera databile, la pala d’altare con i santi
Andrea e Caterina della chiesa veneziana di San Stae, eseguita
prima del 1715 (non un’opera tanto precoce, quindi)
parla il linguaggio composto di Gregorio Lazzarini,
oppure di un minore come Giambattista Mariotti. La via
della modernità scelta da Amigoni non è quindi quella
elaborata dai suoi colleghi ma l’alternativa, a queste date,
“perdente”, ossia il languido e levigato formalismo di
Antonio Balestra, al quale si ispira. Su questa base egli
innesta, con sorprendente efficacia una pittura sgranata,
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— UNA NUOVA PITTURA — 39