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CANALETTO_2019_Catalogo

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Réunion des musées

nationaux – Grand Palais



Fondazione

Musei Civici di Venezia

Consiglio

di Amministrazione

Presidente

Mariacristina Gribaudi

Vicepresidente

Luigi Brugnaro

Consiglieri

Bruno Bernardi

Lorenza Lain

Roberto Zuccato

Direttore

Gabriella Belli

Segretario Organizzativo

Mattia Agnetti

Dirigenti

Daniela Ferretti

Area Museale (3)

Chiara Squarcina

Area Museale (2)

Ca’ Rezzonico, Museo del

Settecento Veneziano;

Museo Correr, Gabinetto

dei disegni e delle stampe

Alberto Craievich

con Daniele D’Anza

Rossella Granziero

Mostra e catalogo

Direzione scientifica

Gabriella Belli

Comitato scientifico

della mostra

Charles Beddigton

Alberto Craievich

Daniele D’Anza

Catherine Loisel

Giuseppe Pavanello

Mostra e catalogo

a cura di

Alberto Craievich

in collaborazione con

Charles Beddigton

Giuseppe Pavanello

Testi di

Marcella Ansaldi

Charles Beddington

Maureen Cassidy-Geiger

Alberto Craievich

Claudia Crosera

Daniele D’Anza

Monica De Vincenti

Simone Guerriero

Catherine Loisel

Giorgio Marini

Giuseppe Pavanello

Jan-Christoph Rößler

Francesca Stopper

Denis Ton

Apparati

Roberta Falcomer

Agnese Pudlis

Progetto di allestimento

Daniela Ferretti con

Francesca Boni

Assistenza tecnica

Stefano Rossi

Igor Nalesso

Ufficio mostre

Sofia Rinaldi, registrar

Monica Vianello, registrar

Giulia Biscontin

Georg Malfertheiner

Silvia Toffano

Comunicazione, Stampa e

Sviluppo Commerciale

Mara Vittori

con Andrea Marin

Chiara Marusso

Silvia Negretti

Alessandro Paolinelli

Giulia Sabattini

Valentina Avon, Addetto

Stampa

Servizi educativi

Monica da Cortà Fumei

con Riccardo Bon

Claudia Calabresi

Cristina Gazzola

Chiara Miotto

Condition report

Erika Bianchini

Luana Franceschet

Servizio Sicurezza e

Logistica

Lorenzo Palmisano

con Valeria Fedrigo

Amministrazione

Maria Cristina Carraro

con Leonardo Babbo

Piero Calore

Ludovica Fanti

Laura Miccoli

Elena Roccato

Francesca Rodella

Paola Vinaccia

Archivio fotografico

Denis Cecchin

Progetto grafico

e comunicazione coordinata

Sebastiano Girardi Studio

Editing e impaginazione

Lara Piffari

Traduzioni

Luciano Comoy

Cristina Pradella

©2019 Museum Musei

Milano

Tutti i diritti sono riservati

ISBN 978-88-32026-04-7

Editore

Consorzio Museum Musei

Presidente

Francisco Borja Blas

Mendez de Vigo

Consigliere Delegato

Lorenzo Losi

Project Manager

Marta Miglierina

Store Manager

Elisa Covre

Questa mostra nasce da

un progetto sviluppato

con la Réunion des

Musées Nationaux - Grand

Palais che ha portato

anche alla realizzazione

dell’esposizione

Èblouissante Venise. Venise,

les Arts et l’Europe au

XVIII e siècle (Paris, Grand

Palais, Galeries nationales,

24 settembre 2018-21

gennaio 2019), curata da

Catherine Loisel. Oltre

che all’autrice la nostra

gratitudine va a Emmanuel

Marcovitch ed Emmanuel

Coquery, direttore

generale e direttore

scientifico dell’istituzione;

Marion Mangon, capo

dipartimento delle

mostre; Vincent David,

responsabile del progetto,

e a tutto il personale che

ha collaborato all’iniziativa.

Albo dei prestatori

Ministero dei Beni e delle

Attività Culturali e del

Turismo

Direzione generale Musei

Direttore Generale

Antonio Lampis

Direttore Servizio I

Collezioni Museali

Antonio Tarasco

Dirigente delegato

Roberto A. Cassanelli

Dichiarazione di rilevante

interesse culturale

Silvia Trisciuzzi

Musées d’Angers, Angers

Museum of Fine Arts Boston,

Boston

Galerie Neuse, Bremen

The Fitzwilliam Museum,

University of Cambridge

The Art Institute, Chicago

Fundação Calouste

Gulbenkian, Lisboa

The Earl of Leicester and the

Trustees of the Holkham

Estate

Collection of the Late Sir

Brinsley Ford, London

Dulwich Picture Gallery,

London

Royal College of Music,

London

The British Museum, London

The National Gallery, London

The Royal Collection, Her

Majesty Queen Elizabeth II

Victoria and Albert Museum,

London

Museo Nacional Thyssen-

Bornemisza Madrid

FAI - Fondo Ambiente

Italiano, Villa Necchi

Campiglio, Milano

Pinacoteca del Castello

Sforzesco, Milano

Bayerische

Staatsgemäldesammlungen,

Alte Pinakothek, München

The Morgan Library &

Museum, New York

Musée des Beaux-Arts,

Orléans

Ashmolean Museum,

University of Oxford

Cognacq-Jay Museum, Paris

Département des Peintures

du Musée du Louvre, Paris

Département des Arts

graphiques du Musée du

Louvre, Paris

École nationale supérieure

des Beaux-Arts de Paris

Fondation Custodia,

Collection Frits Lugt, Paris

Fondazione Canova,

Possagno

MAR - Museo d'Arte della

città di Ravenna

Accademia Nazionale di San

Luca, Roma

Presidente Francesco

Cellini, Segretario Generale

Francesco Moschini

Gallerie Nazionali di Arte

Antica, Galleria Corsini,

Roma

Museo Statale Ermitage, San

Pietroburgo

Cattedrale di Notre-Dame,

Senonches

Stockholm University,

Stockholm

Musei Reali, Torino

Palazzo Madama, Museo

Civico d’Arte Antica, Torino

Musée des Beaux-Arts de

Troyes

Provincia Veneta dei Frati

Minori Cappuccini

Gabinetto Disegni e Stampe

dei Civici Musei d’Arte,

Verona

Ca’ Rezzonico, Museo

del Settecento veneziano,

Venezia

Casa di Carlo Goldoni,

Venezia

Gallerie dell’Accademia,

Venezia

Museo Correr, Venezia

Museo Correr, Biblioteca,

Venezia

Museo Correr, Gabinetto

dei disegni e delle stampe,

Venezia

Palazzo Ducale, Venezia

National Gallery of Art,

Washington

Kunsthistorisches Museum

Wien, Picture Gallery

Yale Center for British Art,

Paul Mellon Collection

The English Heritage. Accepted

in lieu of Inheritance Tax by H

M Government and allocated

to the Historic Buildings and

Monuments Commission for

England for Audley End House,

2018

e

Tutti i prestatori che hanno

preferito rimanere anonimi

Si ringraziano

Soprintendenza

Archeologia, belle arti e

paesaggio per il Comune di

Venezia e laguna

Soprintendenza

Archeologia, Belle Arti

e Paesaggio per l’area

metropolitana di Venezia

e le Province di Belluno,

Padova e Treviso

Emilio Ambasz, Terri

Anderson, Juliette Armand,

Irina Artemieva, Leila

Audouy, Alice Barron,

Alexander Bell, Christine

Bernheiden, Marlène

Bertanine, Beatriz Blanco,

Federica Brivio, Aisha

Burtenshaw, Carla Calisi,

Caroline Campbell, Anne

Campman, Stefania Capraro,

Alice Carr-Archer, Maria

Agnese Chiari, Alessandro

Conficoni, Maria Chiara

Corazza, Mariska de

Jonge, Christine Delaunay,

Francesca del Torre, Natasha

M. Derrickson, Giulio

Manieri Elia, Jordina Diaz

Ferrando, Maria Espinosa,

David Essex, Chiara Faedo,

Alberta Fabbri, Andrew

Fletcher, Jenny Foot,

Augustine Ford, Francis

Ford, Giuliana Forti,

Natalia Gastelut, Christina

Gernon, Luciana Gerolami,

Joshua Glazer, Samantha

Gordon, Franco Gualano,

Mario Guderzo, Camilla

Hjelm, Frederick Ilchman,

Olga Ilmenkova, Peter

Kerber, Florence Le Moing,

Stéphane Loire, Giovanni

Lokar, Constance Lombard,

Léonor Lopez-Albagli,

Nancy Macgregor, Isabella

Mancarella, Giulio Manieri

Elia, John Marciari, Paola

Marini, Marco Antonio

Marchetto, Cristina

Maritano, Alessandro

Martoni, Peter Moore, Jodi

Myers, Giuliana Onesti,

Carlo Orsi, Geneviève Paire,

Rossella Patrizio, Anna

Sheppard, Alberto Signor,

Maria Singer, Paola Marini,

Peter Moore, Melvina Mossé,

Sylvia Niveau, Manuela e

Bruno Pellegrini, Maria de

Peverelli, Valeria Poletto,

David Preece, Rosie Razall,

Sara Rodella, Fernanda de

Rosa, Alessandro e Luigi

Rossi, Gabriele Rossi

Rognoni, Chantal Rouquet,

Luisa Sampaio, Francis

Russell, Lorenza Santa,

Anita Sganzerla, Aminata

Sy, Francesca Tasso, Alberto

Tessiore, Devis Valenti,

Catherine Whistler, Lucy

Whitaker, Sophie Worley

e, in particolare,

Andrea Bellieni, Annamaria

Bravetti, Monica Da Cortà

Fumei, Elena Marchetti,

Marta Michielin, Francesca

Pederoda, Monica Viero

Questo catalogo è stato

pubblicato grazie al

contributo di

The Gladys Krieble

Delmas Foundation



Con questa esposizione a Palazzo Ducale celebriamo la storia di Venezia, in particolare

il Settecento. È un progetto che ho fortemente voluto e che sono particolarmente orgoglioso di

presentare, anche in virtù di una serie di prestiti importanti che siamo riusciti ad ottenere da alcuni tra i

più prestigiosi musei del mondo (Boston, Chicago, Washington, Parigi, Londra, San Pietroburgo). A questi

si affiancheranno le opere custodite all’interno delle ricche collezioni dei Musei Civici di Venezia, un patrimonio

che appartiene a tutta la città e che tutta la città può qui ammirare e condividere con i suoi ospiti.

L’esposizione si concentra sulla figura di uno dei massimi rappresentanti della Venezia del Settecento,

Canaletto, che più di ogni altro ha saputo ritrarre e esaltare la bellezza intrinseca della città. In qualsiasi

museo del mondo i dipinti di Canaletto sono tenuti in altissima considerazione, a testimonianza della

qualità di questo particolare linguaggio artistico, che fa della veduta il suo genere prediletto.

La mostra presenta anche opere di altri grandi artisti del secolo, da Tiepolo a Piazzetta, e dei frutti

che quell’irripetibile civiltà artistica che fu il Settecento veneziano produsse nel campo delle arti applicate

e della manifattura, con disegni, sculture, arredi, porcellane e argenti, per meglio offrire al visitatore il

senso della grandezza di quel patrimonio artistico che portò la scuola veneziana a primeggiare in Europa

e che ancora oggi affascina e attira milioni di visitatori.

LUIGI BRUGNARO

Sindaco di Venezia



Canaletto è stato un grande artista la cui caratura si misura anche nel suo emergere

durante un secolo eccezionale, quel Settecento veneziano che ha visto la nostra città divenire centro

di una civiltà artistica che ha saputo primeggiare in Europa. Da oltre vent’anni non si realizzava a Venezia

un evento di questa portata dedicato a quel secolo e ai suoi maestri, ma oggi Canaletto ritrova finalmente

la sua collocazione in una grande mostra a Palazzo Ducale, circondato dall’eccellenza che nel Settecento

a Venezia animò le arti maggiori, la pittura, la scultura, per attraversare la produzione manifatturiera e le

arti applicate. Una grande mostra che nasce dalla collaborazione con la Réunion des Musées Nationaux -

Grand Palais, che ha portato in realtà all’allestimento di due diverse mostre dedicate all’arte veneziana del

Settecento: una a Parigi da poco conclusa presso il Grand Palais, e questa di Palazzo Ducale, complementari

sotto tutti i punti di vista, con un nucleo centrale di opere comuni da cui si sviluppano diverse letture del

Settecento veneziano. Un secolo che ha prodotto un patrimonio artistico unico, che nella splendida Venezia

dove è stato creato si offre nuovamente agli occhi del mondo in tutta la sua magnificenza e complessità.

MARIACRISTINA GRIBAUDI

Presidente, Fondazione Musei Civici di Venezia



A partire dal 2013, con il nuovo riallestimento dell’Appartamento del doge a Palazzo

Ducale, la Fondazione Musei Civici ha inaugurato una rassegna di grandi mostre dedicata ai protagonisti e ai

momenti cruciali della storia dell’arte. Si sono susseguite così diverse iniziative, sovente realizzate in collaborazione

con importanti musei e istituti culturali.

Con le ultime esposizioni, Ruskin a Venezia e Tintoretto l’obiettivo è stato puntato sugli episodi cardine

dell’arte della Serenissima. In questa occasione, il protagonista è invece Canaletto, il grande esponente del vedutismo,

genere che proprio a Venezia raggiunse i suoi massimi livelli d’espressione. Nell’ideazione della mostra ci è

parso imprescindibile porre le opere del pittore in dialogo serrato con quelle degli altri grandi artisti del secolo.

Giambattista Tiepolo, coetaneo di Canaletto, ne condivide in parallelo il percorso stilistico e i successi economici,

mentre accanto a loro trovano spazio altri illustri rappresentanti di quella civiltà che si è fatta apprezzare in

Europa in ogni genere artistico. Un susseguirsi di capolavori da Giambattista Piazzetta a Federico Bencovich, da

Antonio Pellegrini a Rosalba Carriera e Sebastiano Ricci, fino a Francesco Guardi e Giandomenico Tiepolo. L’elenco

potrebbe proseguire, tanto era vitale la stagione creativa che fiorì a Venezia nel Settecento. Il cambiamento rispetto

al secolo precedente fu radicale sia nella pittura di storia che in quella di genere, nella scultura e nelle alle arti decorative,

fra cui spicca la porcellana, forse il materiale che meglio di altri incarna lo spirito del secolo. Riuscire a riassumere

tutto questo attraverso un numero per forza ristretto di opere, per quanto altamente simboliche e qualificanti,

ha rappresentato una vera sfida. Il risultato finale è senza dubbio inaspettato.

Il progetto dell’esposizione è stato sviluppato assieme alla Réunion des Musées Nationaux - Grand Palais

e prevede un nucleo centrale di opere da cui si sviluppano diversi piani di lettura fra loro complementari. La

mostra che apre i battenti a Palazzo Ducale, conclude, quindi, la narrazione aperta al Grand Palais di Parigi a

settembre 2018, mettendo in evidenza la dimensione europea dell’arte del Settecento veneziano e soprattutto il

suo slancio verso al modernità.

GABRIELLA BELLI

Direttore, Fondazione Musei Civici di Venezia



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CANALETTO & VENEZIA ...........................................Alberto Craievich

Catalogo I

VENEZIA ’700:

IMMAGINAZIONE/OSSERVAZIONE. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Pavanello

IL PRIMO SETTECENTO

UNA NUOVA PITTURA ..............................................Alberto Craievich

LA VEDUTA INCISA:

VENEZIA MOLTIPLICATA NELLE STAMPE ...................Giorgio Marini

L’ECCELLENTISSIMA CASA VEZZI ...........................Marcella Ansaldi

Catalogo II

ROVENTI GIOVINEZZE

CANALETTO ............................................................Charles Beddington

TIEPOLO .................................................................Giuseppe Pavanello

Catalogo III

LA SCOPERTA DELLA LUCE

CANALETTO ...........................................................Charles Beddington

TIEPOLO E PIAZZETTA .............................................Denis Ton

Catalogo IV

UNA DIMENSIONE EUROPEA

LA VEDUTA .............................................................Charles Beddington

LA PITTURA DI STORIA ............................................Denis Ton

UNO SGUARDO SULLA REALTÀ .................................Daniele D’Anza

Catalogo V

GENERI E TEMI

MOMENTI DI ARCHITETTURA ...................................Jan-Christoph Rössler

DISEGNARE A VENEZIA NEL SETTECENTO ................Catherine Loisel

SCULTURA DEL SETTECENTO. I ATTO .......................Simone Guerriero

SCULTURA DEL SETTECENTO. II ATTO ......................Monica De Vincenti

FRAGILI DONI PER LA SERENISSIMA:

SERVIZI ARALDICI DI MEISSEN

PER IL PATRIZIATO VENEZIANO. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maureen Cassidy-Geiger

LE ARTI DECORATIVE ..............................................Francesca Stopper

L’INCISIONE: GLI ANNI QUARANTA ...........................Giorgio Marini

L’EDITORIA .............................................................Claudia Crosera

Catalogo VI

LA FINE DEL SECOLO

FRANCESCO GUARDI ..............................................Alberto Craievich

LA PROPENSIONE AL "GENERE"

DI GIANDOMENICO TIEPOLO ..................................Daniele D’Anza

CANOVA E IL GUSTO NEOCLASSICO .........................Giuseppe Pavanello

Catalogo VII

BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE ESPOSTE



ALBERTO

CRAIEVICH

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

Il bacino di San Marco,

particolare.

Boston, Museum of Fine Arts,

Fondo Abbott Lawrence,

Fondo Seth K. Sweetser e

Fondo Charles Edward French

CANALETTO

& VENEZIA

Antonio Canal, detto

Canaletto è oggi l’artista più celebre del Settecento

veneziano. Ne fanno fede il numero di mostre che

gli sono dedicate e i risultati delle sue opere alle aste

(è uno dei pochi esponenti dell’arte antica a rivaleggiare

con le quotazioni dei maestri contemporanei).

Oggi il suo è uno dei grandi nomi di richiamo

della storia dell’arte: è un ulteriore e sorprendente

tassello della storia del gusto, che prosegue nel presente.

Quindi, scegliere il suo nome per esemplificare

un intero secolo è soltanto la presa d’atto di una

situazione oggettiva.

Al suo nome si è semplicemente accostato

quello di Venezia. Per ovvie ragioni. È Canaletto

più di qualsiasi altro vedutista ad aver codificato

l’aspetto della città che tuttora appartiene all’immaginario

collettivo, identificandosi con il luogo che

raffigura. Come il Marco Polo di Italo Calvino nelle

Città invisibili, anche lui avrebbe potuto affermare:

“ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di

Venezia [...] per distinguere le qualità delle altre devo

partire da una prima città che resta implicita. Per

me è Venezia”. Inoltre, per la prima volta, proprio

nel Settecento, è la città stessa a essere vista come

un’opera d’arte a sé stante: “Percorrendo le lagune

nel pieno sfolgorare del sole e osservando sul fianco

delle gondole i gondolieri, che sembravano scivolare

via nelle loro movenze agili e nei loro costumi variopinti,

mentre le loro figure si profilavano sullo specchio

verde chiaro dell’acqua, sullo sfondo dell’aria

di un azzurro profondo, ho ammirato il quadro

migliore e più perfetto della scuola veneziana” (J.W.

von Goethe).

Nella preparazione della mostra, tuttavia,

si è voluto, piuttosto che dedicargli un’ennesima

monografica, mettere in rapporto le sue opere con

quelle degli altri maestri della scuola veneziana, in

un confronto che non tenga conto solo del suo percorso

individuale ma che si innesti con i fatti che

hanno scandito la storia dell’arte in laguna durante

tutto il secolo. È stato necessario, quindi, ampliare

l’orizzonte tanto in termini cronologici, quanto di

‘genere’ (disegno, incisione, scultura, architettura,

arti decorative), provando così a ricomporre un quadro

d’insieme se non completo, almeno ampio.

L’ispirazione è data da due straordinarie

esposizioni allestite ormai un quarto di secolo

fa: The Glory of Venice (1994) e Splendori del

Settecento veneziano (1995), dove è stato posto l’accento

sull’aspetto più innovativo dell’arte veneziana

che scavalca il consueto limite posto dalla

caduta della Serenissima. Canova, soprattutto,

ma anche Piranesi e Bellotto (benché scomparsi

lontano dalla patria e prima della caduta della

Serenissima) ‘aprono’ ai grandi temi dell’arte europea:

il Neoclassicismo, la poetica del sublime, il

paesaggio romantico.

Una visione quest’ultima, troppo a lungo

appiattita da quel mito nostalgico, costruito dopo

la fine della Serenissima, che ha visto il Settecento

veneziano come il tempo del vivere felice e spensierato,

consapevole, tuttavia, della propria fine

imminente. Un’immagine leggera e allo stesso

tempo decadente che ha escluso ogni eccezione e

— CANALETTO & VENEZIA — 15



banalizzato una stagione artistica di grande complessità,

che, assieme alla Francia, detiene il primato

in Europa di tutte le arti: sarà l’ultima volta

che ciò accade per l’arte italiana.

La mostra è scandita da sezioni ‘aperte’ che

individuano cronologicamente e tematicamente

alcuni momenti salienti e precisi snodi culturali.

Ogni sala pone in dialogo le opere secondo il binomio

dell’immaginazione e dell’osservazione (si veda

il saggio di Giuseppe Pavanello in catalogo) a individuare

i due elementi dialettici entro cui si muove

l’arte veneziana: la fantasia dei suoi decoratori e lo

sguardo sulla realtà dei vedutisti e di Pietro Longhi.

Non si tratta di categorie ‘chiuse’ ma di poli di attrazione

fra i quali si muovono artisti come Guardi,

Piazzetta, Giandomenico e lo stessa Giambattista

Tiepolo, con esiti sorprendenti.

È parso opportuno presentare in prima

istanza al visitatore alcune opere il cui accostamento

visualizza le contraddizioni storiche e culturali

della città nel corso del Settecento. Il Nettuno

offre a Venezia i doni del mare di Giambattista

Tiepolo evoca alla perfezione il mito di Venezia che

la sua classe dirigente intende perpetuare, incurante

dell’oggettiva debolezza politica e militare dello

Stato. L’immagine del Ridotto ci documenta, invece,

il punto di vista del viaggiatore settecentesco, poco

incline a farsi sorprendere dalle immagini ufficiali,

ma irrimediabilmente sedotto dai luoghi d’incontro

e di divertimento. Il Bucintoro riassume questa

dicotomia: simbolo abbagliante del legame fra

la città e il mare e protagonista delle sfarzose cerimonie

che celebrano la grandezza di Venezia, è in

verità un’imbarcazione che non può navigare, “un

unico lavoro d’intaglio interamente dorato, inservibile

per qualsiasi altro uso, un vero e proprio ostensorio

su cui mostrare al popolo i suoi capi in pompa

magna” (J.W. von Goethe).

Il secondo capitolo è dedicato al radicale

cambiamento che, nel primo decennio del secolo,

interessa ogni forma artistica (la pittura di storia,

la scena di genere, il paesaggio e il ritratto) e

vede, con Luca Carlevarijs, la nascita del vedutismo,

la cui popolarità si lega fin da subito alla divulgazione

attraverso la stampa. Ancora, la storia della

porcellana sarebbe stata probabilmente diversa se

l’iniziativa di Francesco Vezzi, fra il 1720 e il 1727,

non si fosse conclusa tanto rapidamente, privandoci

di una manifattura di genio che aveva elevato

Venezia a terza ‘voce’ in questo campo subito dopo

Meissen e Vienna. Infine, i vetrai muranesi, attraverso

la creazione del vetro lattimo, propongono

un’originale alternativa alla stessa porcellana.

Mentre i protagonisti della pittura rococò,

votati al monumentale e all’affresco, danno vita a

una pittura emozionale, basata su valori esecutivi

e improvvisazione, un gruppo ristretto di artisti

sperimenta formule stilistiche antitetiche, indifferenti

alla dimensione decorativa o alla sensualità. La

sezione è stata intitolata, non a caso, Roventi giovinezze.

È una pittura votata a immagini dal forte

risalto plastico ed espressivo, violente nella gestualità

e nel colore. Il capofila è Giambattista Piazzetta,

ma i risultati più sorprendenti, marcati da giovanile

irruenza, sono opera di due coetanei poco più che

ventenni: Giambattista Tiepolo e Antonio Canal. Il

loro prepotente esordio non sfugge ai contemporanei.

Per il patrizio Vincenzo Da Canal, Tiepolo è

un artista “tutto spirito e foco”, mentre secondo il

pittore Antonio Marchesini, Canaletto “fa stordire

universalmente ognuno”.

Questo antagonismo fra due idee opposte

di pittura trova la sua sintesi negli anni Trenta del

secolo quando nelle opere di Tiepolo e Canaletto

l’intonazione notturna e il contrasto di luce si sciolgono

in colori caldi e ombre colorate. Lo stile, in

entrambi, si fa più controllato e nitido e il registro

cromatico acquista sonorità squillanti. Una nuova

luce cristallina, tersa, conferisce verità ottica ai loro

dipinti. Il titolo della sezione, La scoperta della luce,

fa riferimento al Newtonianismo per le Dame, ovvero

dialoghi sopra la luce e i colori di Francesco Algarotti,

pubblicato a Venezia nel 1737, dove vengono divulgate

le teorie sulla luce del grande fisico inglese,

visualizzate in mostra nel celebre capriccio allegorico

compiuto da Giambattista Pittoni assieme a

Giuseppe e Domenico Valeriani.

Lo sguardo sulla vita contemporanea veneziana

di Pietro Longhi, attraverso la creazione di

quella che oggi chiamiamo “Pittura di costume”,

merita invece una sezione a se stante. Alle sue opere

si sono volute accostare le straordinarie teste di

popolani di Giambattista Piazzetta e alcuni disegni

su carta azzurra di Giambattista Tiepolo, in cui

risalta un’analoga e sorprendente ricerca del ‘vero’.

Si è deciso di riunire le opere della piena

maturità di Canaletto e Tiepolo assieme agli altri

protagonisti del periodo (Diziani, Crosato, Antonio

Guardi, Marieschi, Bellotto) in alcune sale intitolate

Una dimensione europea, dove sono riassunti

l’ampiezza e il raggio d’influenza dell’arte veneziana

che si esprime ormai su tutto il continente e

in ogni genere, pittorico e non solo. I capitoli dedicati

all’architettura, alla scultura, alle arti decorative,

all’editoria e all’incisione denotano la sua eccellenza

in ogni campo. Una sezione specifica è stata dedicata

ai servizi araldici di Meissen per il patriziato

veneziano: non c’è corte, o stato europeo, che possa

vantare un numero così alto di ‘doni’ da parte del

sovrano di Sassonia.

Si sono riunite in un unico ambiente le opere

legate alle cerimonie e, soprattutto, alle regate

organizzate dalla Serenissima in onore di principi

e regnanti in visita alla città. I più importanti artisti

del Settecento hanno prestato il loro ingegno

per progettare le stravaganti imbarcazioni dai nomi

esotici come bissone, malgarote, peote che partecipavano

a questi spettacoli. In tali lavori, libera da vincoli

funzionali, la fantasia dei pittori si sprigionava

in capricciose invenzioni con motivi ornamentali,

scene mitologiche e allegorie. Nonostante il loro

aspetto fastoso queste imbarcazioni erano spesso

destinate a durare lo spazio di una cerimonia: capolavori

dell’effimero, oggi documentati solamente da

disegni preparatori oppure da incisioni.

Nelle sale dedicate alla fine del secolo occupano

un posto di primo piano Francesco Guardi e

Giandomenico Tiepolo. Entrambi sopravvissuti a

una cultura ormai superata e in declino, vivono la

loro vecchiaia ai margini del gusto allora dominante.

Tale punto di vista appartato e solitario conferisce

loro una posizione privilegiata per mettere a fuoco,

con distacco, il mondo che li circonda, creando

alcuni dei capolavori dell’arte europea.

Si è voluto chiudere l’esposizione con alcune

opere fortemente simboliche. La serie di acquatinte

di Giovanni De Pian su disegno di Francesco

Gallimberti, che inaugura la leggenda nera della

città, e il bozzetto per il monumento a Francesco

Pesaro, commissionato a Canova nel 1799, dove per

la prima volta compare una Venezia in lacrime – un

topos caro alla letteratura dell’Ottocento — antitetica

rispetto alla trionfante regina del mare eseguita

da Tiepolo quarant’anni prima. È un’immagine suggestiva,

carica di significati, che evoca i celebri versi

di Byron: “di tredici secoli di ricchezza e di gloria,

non rimangono che ceneri e pianto”.

16 — CANALETTO & VENEZIA — — CANALETTO & VENEZIA — 17



CAT.I.01

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Nettuno offre a Venezia i doni del mare

Olio su tela, 135×275 cm

Venezia, Palazzo Ducale, inv. p. n. 6 n. 328

Bibliografia _ Gemin, Pedrocco 1993, p. 458, cat. 470,

con bibliografia precedente; Barcham, in Giambattista

Tiepolo 1996, pp. 177-181, cat. 24; Pedrocco 2002, p. 297,

cat. 244; Pedrocco, in La bella Italia 2011, p. 362, cat.

10.3; Pedrocco, in Giambattista Tiepolo 2012, p. 245,

cat. 42.

18 — CANALETTO & VENEZIA —

— CATALOGO DELLE OPERE — 19



CAT.I.02

JOHANN HEINRICH TISCHBEIN

CAT.I.03

FRANCESCO GUARDI

CAT.I.04

IMPERIO BERALDO

Giocatori al Ridotto

Olio su tela, 109×195 cm

Brema, Galerie Neuse

(opera non esposta)

Bibliografia _ Fanti e denari 1989,

pp. 39-42, 183, cat. 156; Meijers, in De gouden 1991,

pp. 160-162, cat. 147; Pavanello 1993, pp. 79-85;

Artemieva, in Il mondo 1998, pp. 197, 241, cat. 283.

Il Ridotto

Olio su tela, 108×208 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. I, n. 124

Bibliografia _ Morassi 1973, pp. 161-163, cat. 232;

Pallucchini 1995, II, pp. 58-59; Pedrocco, in Francesco

Guardi 2012, p. 81, cat. 5.

Modello ricostruttivo del Bucintoro 1727-29

Fine realizzazione 1999; legni diversi, dipinti e dorati;

(scala 1 : 30)

Collezione privata; deposito, in comodato presso il

Museo Correr di Venezia

20 — CANALETTO & VENEZIA — — CATALOGO DELLE OPERE — 21



GIUSEPPE

PAVANELLO

FIG. 1

SEBASTIANO RICCI

Soffitto in nove comparti

con Divinità dell’Olimpo,

particolare. Berlino,

Gemäldegalerie - Staatliche

Museen zu Berlin (fino al 1944

Venezia, palazzo Mocenigo a

San Samuele)

V E N E Z I A ’ 700:

I M M AGI NA Z ION E /

OSSERVAZIONE

In apertura di secolo,

nell’Orazione in lode di S.E. Il Signor Cavaliere Luigi

Pisani Procurator di S. Marco (Venezia 1711), si legge:

“Alla Liberalità finalmente dessi aggiungere un’altra

Virtù, la quale fa un uso eroico delle ricchezze: ed è

la Magnificenza”. È la Serenissima Repubblica stessa

a dar esempio, a partire da piazza San Marco “teatro

di Meraviglie”, quindi dai palazzi: “sommi sforzi

di un’arte, che si adopera a dimostrare con la nobiltà

delle abitazioni la grandezza o di chi vi soggiorna, o di

chi ne comandò l’edificazione, o ne gode il dominio”.

È una visione di matrice barocca, favorita

pure dalle scelte ‘conservatrici’ del governo aristocratico.

Ma già in quegli anni d’inizio secolo molto

stava cambiando nell’ambiente artistico veneziano.

Basti pensare alla novità della ritrattistica di Rosalba

Carriera, che aveva relegato in soffitta, per così dire,

le rappresentazioni d’apparato, al fine di far emergere

i volti delle persone con fisionomie e caratteri specifici.

Per di più usando un mezzo, come il pastello, che

per la rapidità dell’esecuzione si attagliava alla mano

di chi, con un occhio ’moderno’, sapeva cogliere all’istante

la verità di uno sguardo.

Siamo nell’ambito dell’osservazione – contraltare

o rovescio, come in una medaglia, dell’immaginazione

–, che, sempre a inizio secolo, veniva rinnovando

espressioni e tematiche. È Sebastiano Ricci

il protagonista, ma con comprimari come Antonio

Pellegrini, soprattutto nel campo della decorazione

d’interni, anche in villa. La Dominante e il suo entroterra

sono un tutt’uno, quasi sempre anche nella

committenza.

Primi anni del Settecento. Ricci dipinge le

nove tele da soffitto in palazzo Mocenigo a San

Samuele per il matrimonio tra Alvise Mocenigo IV e

Pisana Corner, celebrato nel febbraio 1705; Pellegrini

affresca la sala di villa Alessandri alla Mira. Nel primo

complesso – purtroppo emigrato a Berlino nel corso

della Seconda guerra mondiale, in circostanze poco

chiare – si danno convegno le divinità dell’Olimpo:

protagonista è Amore stesso, e non più un personaggio

come Ercole, con le sue virtù e le sue imprese. Per

di più, è un Amore bambino, ricevuto in Olimpo da

Giove e da Giunone, con il Tempo incatenato: indice

quanto mai significativo della sensibilità che sta

prendendo piede anche nella tradizionalista Venezia.

E poi la luce è chiara, l’aria finalmente tersa, i colori

brillanti: è come un annuncio di primavera per la pittura

veneziana del secolo (fig. 1).

Un confronto con il soffitto dipinto da Nicolò

Bambini per ca’ Pesaro con l’Apoteosi di Venezia, di

vent’anni prima, è rivelatore delle novità che ormai

vengono a imporsi nella tematica, così come nella

vivacità della tavolozza: non più retorica e opulenza,

ma eleganza. Non diversamente, Antonio Pellegrini.

Nella villa di Mira si viene a creare una simulata

Galleria di quadri, provvisti di cornice: è l’apoteosi

della mitologia e della lievità pittorica, con tutta una

sequenza di episodi per lo più a tema erotico tratti

dalle Metamorfosi di Ovidio. In anni posteriori, il suo

vastissimo soffitto per il salone di palazzo Pisani a San

Vidal raffigurante l’Aurora con le ninfe dell’Aria (ora a

— VENEZIA ’700: IMMAGINAZIONE / OSSERVAZIONE — 23



Biltmore House, Asheville, North Carolina) è impregnato

di spirito rococò, specie per la leggerezza della

pennellata e l’ariosità della composizione: poche

figure nella vastità del cielo.

Se una volta si guardava a Roma, ora è la volta

di Parigi. “Cela se pouroit faire à Paris” si leggeva in

un articolo del giornale “La Galleria di Minerva” del

1708 a proposito dell’arredamento di casa Manin in

occasione di sponsali: ci si soffermava, in particolare,

su una stanza rivestita di “un finissimo damasco

tutto lavorato a fiori naturali in campo bianco”.

Vaghezza, leggiadria. “Di dentro ogni cosa ride”,

annotava Lorenzo Magalotti nel Diario di Francia

dell’anno 1668 a proposito degli interni della reggia

di Versailles.

Dopo Louis Dorigny, ecco giungere a Venezia un

altro pittore francese, Jean Raoux, per decorare con tele

le pareti del portego di palazzo Giustinian Lolin. Siamo

fra il 1707 e il 1709, ed è ancora il trionfo della mitologia,

con ascendenze seicentesche nell’impaginazione delle

scene, presentate come finti quadri e provviste di esuberanti

incorniciature che arieggiano l’arazzo francese,

con drappeggi, cascate e festoni di frutta: Paride rapisce

Elena, quindi Bacco e Arianna, il Giudizio di Paride e il

Parnaso nelle tele maggiori, più altri quattro episodi, fra

cui Amore e Psiche, nelle minori (fig. 2).

Il “gran gusto”, dunque, continua a imporsi, e

basti richiamare lo scalone di ca’ Sagredo interamente

affrescato da Pietro Longhi con La caduta dei

Giganti, risolta come una grandiosa macchina scenografica

di forte coinvolgimento emotivo, o la

fastosa decorazione del salone di palazzo Labia trasformato

da Giambattista Tiepolo nella reggia di

Cleopatra (fig. 3). Proprio là, comunque, si dia pure

uno sguardo alla statua affrescata fra i portali del

salone. È Minerva: una divinità che, per essere stata

posta in quella posizione, dà il tono all’assieme ed

è l’ultima immagine offerta al visitatore che sta per

lasciare quell’ambiente (fig. 4).

Dunque, tutta quella magnificenza è, per

così dire, una magnificenza virtuosa. Da una parte

trionfa una poetica della fantasia e dell’immaginazione;

al contempo si viene affermando una poetica

dell’osservazione che coinvolge lo stesso Tiepolo nei

sorprendenti disegni di caricatura e nelle riprese di

scorci paesistici. E pure nell’affresco stesso. In villa

Contarini Pisani alla Mira l’artista inscena un episodio

avvenuto due secoli prima con un’attenzione alla

verosimiglianza dell’insieme che sorprende: ovunque

personaggi in abito cinquecentesco che assistono al

Ricevimento di Enrico III di Francia in villa Contarini.

Solo la figura della Fama rinvia all’immaginazione,

mentre tutto il resto è legato a una vicenda precisa. E,

a mirare il sovrano francese, ci sono lo stesso autore

dell’opera e il figlio Giandomenico. Dunque, si guarda

anche dall’interno la rappresentazione inscenata.

FIG. 2

JEAN RAOUX

Bacco e Arianna.

Venezia, palazzo Giustinian

Lolin

FIG. 3

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Lo sbarco di Cleopatra.

Venezia, palazzo Labia

FIG. 4

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Minerva.

Venezia, palazzo Labia

Esemplare, la Sala di musica dell’Ospedaletto

affrescata nel 1776 da Jacopo Guarana assieme

al quadraturista Agostino Mengozzi Colonna. È un

ambiente dedicato a concerti e, sulla parete di fondo,

ci si presenta un Parnaso piuttosto insolito, con

Apollo che dirige un’orchestra formata dalle stesse

giovani del conservatorio che si sono prestate a interpretare

le Muse per quella recita (fig. 5). Tra gli ideali

spettatori, a osservare quanto sta avvenendo, coppie

di Figure femminili a finestre schermate da grate, prospettate

sulle pareti: inserti di genere che vengono

a completare il complesso sotto il segno dell’osservazione

(fig. 6). Va da sé che nel soffitto sia dispiegata

l’usuale rappresentazione fitta di allegorie, dove

domina la personificazione della Musica, con l’usignolo

sul capo.

Figure affacciate: un mondo per Venezia, in

mille variazioni. Lo scalone le richiama, si potrebbe

dire. In ca’ Bollani a Sant’Aponal Francesco

Fontebasso echeggia l’invenzione tiepolesca di Mira

con una miriade di personaggi e musicisti che si sporgono

dalla balaustra. Il culmine in palazzo Grassi,

dove il dispiegamento di personaggi si fa atlantico,

coinvolgente al massimo (fig. 7). Ce ne siamo assuefatti,

ma al momento dello scoprimento dell’affresco

– e siamo verso il 1770 – dovevano esserci occhi

sgranati nel vedere aggirarsi tutt’intorno in costume

contemporaneo quei ‘doppi’ di se stessi – di un patriziato,

tra l’altro, che viveva di glorie passate.

Lo “stile naturale”, per usare la definizione

che Goethe riferirà agli affreschi di Giandomenico

Tiepolo con scene di vita contemporanea nella foresteria

di villa Valmarana a Vicenza, contende il campo

allo “stile sublime”. Anche i “prospettici” partecipano

al clima del razionalismo, con punte di sorprendente

originalità nella serie di tele dipinte da Antonio

Visentini per il portego del secondo piano nobile di

palazzo Contarini a Santa Maria Zobenigo (cat. V.25).

Sfilano le immagini della vita quotidiana: episodi di

una “dolcezza di vivere” intimamente legata all’ancien

régime, già entrati nel mito nel momento stesso in cui

venivano rappresentati.

Si doppia la metà del secolo e si può scrivere:

“abbellire la vera natura, non altro”. È Gaspare Gozzi

nell’“Osservatore Veneto” del 14 febbraio 1761. Così,

Carlo Goldoni: “sopra del meraviglioso la vince nel

cuore dell’uomo il semplice e il naturale”. Una sorta

di credo estetico. “Mondo” e “Teatro” – parole dello

stesso Goldoni nella Prefazione alla prima raccolta

delle commedie –, i “due gran libri” da cui trarre

spunto: come a dire Osservazione e Immaginazione,

insieme, i fondamenti per creare opere d’arte.

L’Atelier del pittore di Pietro Longhi (cat.

V.46), in cui si trasferisce nella dimensione dell’esperienza

contemporanea l’antico tema di Apelle

che ritrae Campaspe alla presenza di Alessandro, è

emblematico dell’attenzione verso la realtà quotidiana,

pur se riproposta in chiave di garbata commedia.

Ci si svela il microcosmo degli ovattati

interni domestici, dove la donna ha ruolo di protagonista;

ed è una donna che non solo asseconda

o promuove il gioco della seduzione, ma che rivela

anche ambizioni intellettuali: ne è manifesto La

lezione di Geografia che si ammira alla Fondazione

Querini Stampalia, oppure l’altra, analoga, ambientata

in casa Barbarigo, con il ritratto del cardinale

Gregorio alla parete (Padova, Musei Civici) (fig. 10).

Per quanto concerne la riflessione sull’arte, un

ruolo cruciale va riconosciuto a un intellettuale come

Francesco Algarotti, sostenitore di un classicismo

temperato dall’eleganza e dalla fantasia, responsabile

della divulgazione delle teorie newtoniane sulla luce

e sui colori, che offrivano un fondamento scientifico

alla ricerca, da parte dei pittori, di una luminosità cristallina,

al tempo stesso fisica e mentale. “Pittore universale,

di fecondissima immaginazione” è, per lui,

Giambattista Tiepolo: una definizione icastica, perfetta

per un artista dai mille volti, imprendibile anche

per un occhio critico smaliziato.

Il secolo trova il suo momento di maggior

innovazione creativa negli anni Quaranta.

Giambattista Piazzetta, celebrato autore di opere

sacre, dipinge tele monumentali di tutt’altro carattere:

dal cosiddetto Idillio sulla spiaggia di Colonia, all’Indovina

delle Gallerie dell’Accademia, alla Pastorale di

Chicago (catt. IV.9-10). E i disegni: nudi sostanziati di

verità, intrisi di ombre – esemplare il Nudo virile di

Oxford –, con significative prove anche dal modello

femminile – la Nuda già Alverà (cat. III.11) –, quindi

le teste di carattere, un “campionario di tipi umani,

quasi un ‘ritratto immaginario’ del popolo veneziano

[...] in certo senso complementare a quello che,

24 — CANALETTO & VENEZIA — — VENEZIA ’700: IMMAGINAZIONE / OSSERVAZIONE — 25



FIG. 5

FIG. 8

JACOPO GUARANA,

AGOSTINO MENGOZZI

COLONNA

Apollo direttore d’orchestra,

particolare. Venezia, chiesa

di Santa Maria dei Derelitti

(Ospedaletto)

FRANCESCO FONTEBASSO,

QUADRATURISTA DEL XVIII

SECOLO

Personaggi affacciati a

una balaustra e figurazioni

allegoriche.

Venezia, palazzo Bernardi

FIG. 6

FIG. 9

per i piacere dei ‘foresti’ Canaletto dipingeva della sua

città” [1] . A esiti così originali poteva condurre la comune

ricerca del “naturale”.

Teste di carattere: osservazione e immaginazione

si compenetrano. “Leggiadrissime teste fatte a capriccio”,

oppure “teste [...] prese dal naturale ornate poi a capriccio”,

“tanto vere [...] che sembrano vive”, “che non può l’occhio

qua giù in terra veder cosa più vaga, e dilettevole!”, scrive

Francesco Maria Tassi [2] . Anche il grande Tiepolo si esercitò

in tale ambito. Con capolavori: la Giovane con pappagallo

di Oxford, o la Dama con mandolino di Detroit.

Siamo nella categoria soggettiva del gusto, e il

filone conosce una fortuna ininterrotta, anche nella

scultura, e pure fuori d’Italia. Lorenzo Tiepolo, il figlio

minore di Giambattista, ne farà il suo cavallo di battaglia

a Madrid nella tecnica del pastello. Fantasia sì, ma anche

realismo: ne trarrà profitto anche il giovane Goya (fig. 11).

L’interesse per il costume contemporaneo alimenta

anche la visione di Giandomenico Tiepolo. Il

confronto tra il modelletto del padre Giambattista

per il soffitto della villa dei Pisani a Stra (cat. V.31) e

il pressoché contemporaneo Consilium in Arena di

Giandomenico (Udine, Musei Civici; fig. 12) evidenzia lo

scarto tra un’arte celebrativa al suo apice, sorretta da una

concezione “sublime” dello stile, e un’arte documentaristica

e descrittiva, estranea alla tradizione dell’elogio.

Il salone di Stra: nel momento di prendere congedo

da Venezia nel marzo 1762 per recarsi a Madrid,

Tiepolo riconvoca tutte le figure del suo mondo

immaginifico: la Fama, le Virtù e i Vizi, i Continenti, l’Italia,

le Arti, quindi, in mezzo, i figli del procuratore di

San Marco Almorò III Pisani e Paolina Gambara. Sono

Almorò I Alvise, in azzurro, in grembo all’allegoria di

Venezia, quindi la sorella Elena, il fratello Almorò II

Carlo e l’altra sorella Elisabetta. Più in basso, in abito

di color rosa, il cugino Almorò, figlio di Alvise II detto

Andrea e di Marina Sagredo, artista in erba, accompagnato

da una delle Grazie. Trionfo dell’immaginazione

che non conosce confini e, al contempo, apoteosi dei

Pisani. Ma non nei personaggi del passato, bensì negli

esponenti giovanissimi che, come gli avi, si copriranno

di gloria al servizio della Serenissima, qui protagonista.

Anche qui Tiepolo viene dunque a sorprenderci.

Ma si dia un’occhiata, nel medesimo affresco, pure alla

coppia di giovani colta in un momento di svago sotto

un pino marittimo in un angolo dell’immensa composizione:

quasi uno scampolo da Déjeuner sur l’herbe (figg.

13, 14). Brani di “verità” nell’immaginazione.

La stessa famiglia di Giambattista Tiepolo – la

consorte Cecilia Guardi, il figlio Giuseppe Maria religioso

somasco, le tre figlie femmine – è stata oggetto di raffigurazione.

La vediamo nel dipinto generalmente riferito

all’ancor giovane Lorenzo Tiepolo [3] , anteriore alla partenza

per Madrid (1762), dove accompagnò il padre e il

fratello maggiore Giandomenico. Quasi un motivo firma,

la mano guantata di bianco della madre con il ventaglio,

così simile nella Dama con il tricorno della National

Gallery di Washington, opera riconosciuta di Lorenzo [4] .

JACOPO GUARANA

Coppia di personaggi femminili

a una finestra schermata da

grata.

Venezia, chiesa di Santa Maria

dei Derelitti (Ospedaletto)

(fotografia d’epoca)

FIG. 7

MICHELANGELO MORLAITER

Scena di ricevimento,

particolare.

Venezia, palazzo Grassi

1 _ A. Mariuz, Il Settecento. La

pittura, in Storia di Venezia. Temi.

L’arte, a cura di R. Pallucchini, I,

Roma 1995, p. 312.

2 _ F. M. Tassi, Vite de’ pittori,

scultori, architetti bergamaschi

scritte dal conte cavalier Francesco

Maria Tassi. Opera postuma,

Bergamo 1793.

3 _ R. Pallucchini, La pittura

nel Veneto. Il Settecento, II, Milano

1995, p. 199.

4 _ A. Mariuz, Tiepolo 1998,

“Arte Veneta”, 54, 1999, p. 89.

PIETRO VISCONTI (?)

Composizione.

Stra, villa Pisani

Ha tutto il fascino dell’opera incompiuta, dell’abbozzo

con parti già rifinite e altre no, anche elementi di

mobilia. Soprattutto, a caratterizzarlo, quel fondo a grandi

chiazze pressoché uniformi, che ci cattura perché viene a

conferire alla scena un singolare carattere di iperrealtà. Un

unicum nel panorama settecentesco: una rara scena di conversazione

moderna, che si può accostare al coevo Ritratto

della famiglia del procuratore Alvise Pisani di Alessandro

Longhi (Venezia, Gallerie dell’Accademia), ma senza riferimenti

allegorici, e con la presenza del pittore stesso, che si

raffigura mentre sta abbozzando con il pastello – il mezzo

pittorico preferito da Lorenzo – un ritratto, con lo sguardo

rivolto verso un personaggio che doveva campeggiare sulla

destra, evocato da quei primi tocchi di colore.

Consilium in Arena: illustrare un fatto contemporaneo,

con una data precisa (settembre 1748) e un luogo

determinato, la Sala del consiglio nel palazzo del Gran

Maestro dell’Ordine a Malta. Persino la foggia degli abiti

era prescritta, così come l’ora del giorno: di prima mattina.

La circostanza è la discussione della richiesta della

nobiltà udinese di poter accedere all’Ordine di Malta.

Siamo sulla scia di un dipinto come l’Assemblea dei

vescovi dissidenti in Sorbona contro la bolla “Unigenitus”

di Nicolas Vleughels conservato a Versailles, inciso da

Nicolas Edenlinck. Lo sguardo si sposta dall’alto verso il

basso. È la realtà a portata di sguardo.

Tutto un mondo viene a spalancarsi: anzitutto

nel campo della veduta, lungo tutto il secolo. Dopo

Carlevarijs, Canaletto mette in evidenza il complesso

organismo urbano di Venezia, le sue mille sfaccettature,

rivelate da un occhio d’aquila e aggregate anche ricorrendo

a “pittoresche licenze”, come aveva ben compreso

Anton Maria Zanetti (1771). Tanto da scrivere che la sua è

spesso pure una “Venezia immaginaria”, strutturata con

deformazioni prospettiche, tagli di luce/ombra calcolati,

dilatazioni spaziali, al fine di dar vita a vedute che talvolta

sconfinano nella visione. Si potrebbe dire allora, in certo

senso, che si compenetrano i due poli del nostro discorso.

Il Bacino di San Marco con San Giorgio Maggiore

(cat. IV.04) è come fosse ripreso da una mongolfiera, e

nulla sfugge allo sguardo del pittore: ogni dettaglio è

funzionale alla resa di quell’immenso panorama tenuto

sotto controllo da un’intelligenza visiva senza confronti.

Nessuno aveva dato di Venezia e del suo centro politico

e commerciale una tale glorificazione.

La componente illuministica, intesa come attenzione

al “vero” che si risolve in immagine mentale, non

si limita tuttavia a ritrarre il più fedelmente possibile la

città, ma talvolta addirittura la riprogetta, configurando

una Venezia ‘possibile’, altrettanto veridica.

Sempre Canaletto. È il caso della Veduta immaginaria

di Rialto (Parma, Galleria Nazionale), con il progetto non

realizzato di Palladio per il ponte e i contigui edifici costruiti

dall’architetto, inteso a connotare in senso classicistico

il cuore di Venezia (fig. 15). O, ancora, della Veduta della

Piazzetta con i Cavalli della basilica di San Marco (Windsor

Castle, Royal Collections), con i bronzi antichi: issati su alti

piedistalli in modo da esaltarne il valore di autonome opere

d’arte, anticipando la sistemazione suggerita da Antonio

Canova quando tornavano a Venezia nel 1815 quei capolavori

dall’esilio di Parigi. Ne risultano “capricci”, cioè liberi

assemblaggi di edifici e monumenti diversi, alla cui messa

in forma concorrono l’osservazione attenta e la libertà della

fantasia, così come il culto dell’Antico.

Capricci. Tutto il secolo ne è pervaso. Combinare

realtà e fantasia, a eccitare lo sguardo andando oltre i

confini dell’una e dell’altra. Una didascalia posta in calce

a un’incisione di Giambattista Brustolon ricavata da

un’invenzione di Canaletto con vari edifici, veneziani e

non, ci porta all’essenza del fenomeno: “L’antico, ed il

26 — CANALETTO & VENEZIA — — VENEZIA ’700: IMMAGINAZIONE / OSSERVAZIONE — 27



moderno, il rozzo, e il vago / Il capriccio qui insieme

lega e raccoglie: / Dell’umano cervello sembra un mago

/ Di mille idee fecondo, e opposte voglie”.

L’affermazione della poetica del Rococò favorisce le

libere espressioni in cui fantasia e spunti dal vero si compenetrano,

e l’ornato è il campo sconfinato in cui potersi

sbizzarrire. Andrea Urbani è protagonista, e non si contano

gli affreschi, soprattutto in villa, in cui la sua creatività senza

fine travalica le regole fino a dar vita a una corrente di gusto.

Pure il quadraturista lombardo Pietro Visconti

ha avuto un ruolo importante. Sua opera maggiore,

gli affreschi in villa Pisani a Stra, dove anche ambienti

estranei all’appartamento da parata sono stati oggetto

di attenzione, magari solo decorando le sopraporte,

allietate con inserti pittorici. Si presenta qui una animatissima

cornice in puro stile rocaille anche nel colore,

rosa, che racchiude un cespo di fiori e frutta (fig. 9). Vi

si appressa in volo una farfalla: effimero, fragile insetto,

per antonomasia rappresentativo dello stile rococò, grazie

alla sua leggerezza e anche al suo colorato volo zigzagante.

Sarà sufficiente richiamare le dodici incisioni

dell’Essay de papilloneries humaines di Charles-Germain

de Saint-Hubin, nel suo genere capolavoro inarrivabile.

Torniamo nel campo del vedutismo, spostandoci

nell’atelier di Francesco Guardi. L’alterazione del

sistema prospettico assume ora una sterzata tale da far

giudicare a Pietro Edwards le vedute guardesche “scorrette

quanto mai”. Siamo nell’ambito del “capriccio”

applicato alla veduta – e sono termini antitetici – così

da vanificarne l’essenza, rivendicando il primato del linguaggio

sul soggetto.

Una metamorfosi mai prima vista: al punto che

la città e la laguna ne escono trasfigurate, tanto che si

è potuto parlare di “stati d’animo”. Venezia, appunto,

“capriccio” di se stessa, proiettata in una dimensione

sfiorata dal sentimento dell’effimero, sino a risolvere il

finito nell’indefinito. Ma spetta proprio a Guardi documentare

con precisione i soggiorni di Pio VI come dei

Conti del Nord, o illustrare fatti di cronaca, come l’Incendio

a San Marcuola, oppure l’Ascensione della mongolfiera:

spettacolo offerto inconsapevolmente è la folla stessa,

mossa dalla curiosità, ripresa di spalle come i tanti personaggi

del Consilium in Arena, e la ritroveremo accalcarsi

nella scena del Mondo Novo a guardare attraverso il foro

praticato nel casotto che tanto attirava il mondo dell’infanzia.

L’evento cui assisteva lo stupefatto pubblico veneziano

è il trionfo della scienza e dell’ardimento umano: ed

è la definitiva laicizzazione del cielo, su cui gli uomini avevano

proiettato per secoli i loro miti. Una gondola nell’aria:

Venezia non si lascia sfuggire anche l’occasione di un

nuovo, mai visto prima, “divertimento” (fig. 19).

A fine secolo, caduta la Serenissima Repubblica,

ben altre situazioni saranno documentate all’acquatinta

da Francesco Gallimberti: i Pozzi e i Piombi del Palazzo

Ducale, cioè le prigioni di Stato circondate da un’aura tragica

che perdurerà nel mito “negativo” ottocentesco di

Venezia, da Byron in poi. Sì, osservazione, ma caricata di

melodramma (cat. VII. 30).

Le nuove esigenze razionalistiche di semplicità e

verità che si affermano nella seconda metà del secolo

influiscono su tutti i generi pittorici, compreso il ritratto.

È soprattutto il figlio di Pietro Longhi, Alessandro, che

se ne fa interprete. Mentre per Rosalba Carriera avevano

posato i protagonisti del bel mondo internazionale, egli

ritrae gli esponenti “progressisti” della cultura veneziana

– da Lodoli a Goldoni –, medici, scienziati, ma anche

semplici professionisti, preoccupandosi di cogliere,

assieme alle peculiarità fisionomiche, l’impronta di un

carattere, la dignità di uomini che si erano fatti da soli

(cat. V.49). Il teschio che compare nel Ritratto del medico

FIG. 10

PIETRO LONGHI

Lezione di geografia.

Padova, Musei Civici

FIG. 11

LORENZO TIEPOLO

Popolani.

Madrid, Palacio Real

FIG. 12

GIANDOMENICO TIEPOLO

Consilium in Arena.

Udine, Musei Civici

FIG. 13

GIAMBATTISTA TIEPOLO

L’Apoteosi della famiglia

Pisani, particolare.

Stra, villa Pisani

FIG. 14

GIAMBATTISTA TIEPOLO

L’Apoteosi della famiglia

Pisani, particolare.

Stra, villa Pisani

5 _ “Cosa che ha fatto stupire

tutta la città, a riuscire con

tanta grazia d’un tal impegno,

di far con il marmo apparire un

velo trasparente, oltre la figura

tuttavia graziosa, bene vestita e

ben disegnata”: lettera di Antonio

Balestra al cavalier Francesco

Gabburri, 25 dicembre 1717, in

G.G. Bottari, S. Ticozzi, Raccolta

di lettere sulla pittura, scultura ed

architettura. Scritte da’ più celebri

personaggi dei secoli XV, XVI e

XVII e XVIII, II, Milano 1822,

p. 125.

Gian Pietro Pellegrini si può assumere quale emblema di

questo scrupolo di verità.

Verità che tocca pure il mondo dell’incisione.

Dopo ritratti, vedute, paesaggi, riproduzioni di dipinti

di genere, ecco le teste di carattere piazzettesche; ma,

di più, le invenzioni di Gaetano Zompini riversate in Le

Arti che vanno per via.

Anche la scultura partecipa attivamente alle esigenze

che via via percorrono il secolo. Protagonista,

inizialmente, Antonio Corradini. Ecco farsi strada eleganze

nuove sia nelle attitudini sia nello svolgimento dei

panneggi, che si fanno aderenti, flessuosi, al fine di esaltare,

in particolare, il fascino della bellezza muliebre. Di

“grazia” parla Antonio Balestra a proposito di una Fede

velata del grande maestro ammirata in casa Manfrin [5] :

termine che evocava, da Correggio in poi, una predilezione

del gusto destinata a imporsi come mai prima in

un secolo che l’ha idolatrata, a partire da quelle sculture

in sedicesimo che sono le porcellane.

Nel periodo aureo della scultura veneziana settecentesca,

gli anni Quaranta, si viene affermando al più alto

grado una eccezionale varietà di maniere, analogamente a

quanto avveniva nella pittura. Accanto ad altre correnti di

gusto – il Rococò di Morlaiter e il classicismo di Antonio

Gai e Giovanni Marchiori –, con Antonio Bonazza s’impone

una sensibilità schiettamente legata al naturalismo,

che raccoglie pure l’eredità di tante sperimentazioni legate

al grottesco e alla tematica di genere di cui erano stati protagonisti

il padre Giovanni e Orazio Marinali.

Le statue del giardino di villa Widmann a Bagnoli

di Sopra possono competere con quanto di meglio si

andava facendo in Europa. È tutta una galleria di tipi,

figure di carattere, che viene a punteggiare gli spazi del

giardino all’italiana, secondo un reticolo geometrico che

genera dialoghi ravvicinati. Veniamo a incontrare persino

una Mora incinta: sorprendente davvero, premessa per

la figura femminile che assiste al Pasto dei contadini di

Giandomenico Tiepolo alla Valmarana (figg. 17, 18).

Anche nella decorazione in stucco le carte si

mescolano. Così troviamo i ghirigori dell’ornato francesizzante,

alla Berain, assieme a riprese dal mondo della

natura. Esempi: la stanza dell’“oseliera” di ca’ Sagredo

o un ambiente di palazzo Barbarigo a Santa Maria del

Giglio, con inserti d’animali di un’attrattiva inconsueta,

favorita anche dall’uso del colore (fig. 16).

Il gusto di matrice tardobarocca prolunga i suoi

tentacoli dell’immaginazione fino alla seconda metà del

secolo, e il governo della Serenissima non poteva fare altrimenti

affidando l’incarico della nuova decorazione del soffitto

della Sala dei banchetti di Palazzo Ducale. Siamo nel

1768. Tiepolo è ancora a Madrid al servizio del re di Spagna:

viene scelto allora Jacopo Guarana. Il soggetto è scontato:

un’ennesima, e forse ultima, Apoteosi di Venezia fra gruppi

di Virtù. Quindi, ancora una volta il manuale dell’Iconologia

di Cesare Ripa viene a porsi come un vademecum indispensabile,

e tale affresco si può considerare il sigillo posto

su un’età gloriosa al suo tramonto.

Si è fatto cenno all’Ascensione della mongolfiera

di Francesco Guardi: un fatto di cronaca, e alla ripresa di

spalle delle figure che assistono all’insolito evento. Dunque,

l’occhio dell’artista si sposta dalla platea alle quinte. Il messaggio

viene recepito dal nipote, Giandomenico Tiepolo.

28 — CANALETTO & VENEZIA — — VENEZIA ’700: IMMAGINAZIONE / OSSERVAZIONE — 29



6 _ A. Mariuz, I disegni di

Pulcinella di Giandomenico

Tiepolo, “Arte Veneta”, XLII, 1986,

pp. 265-273.

Pulcinella è un nostro simile, e tra nostri simili si aggira.

Ed è proprio grazie al velo della maschera che riusciamo

a sorridere di noi stessi, a rappresentarci, fin nelle situazioni

tragiche: Pulcinella fucilato e Pulcinella impiccato.

D’obbligo chiudere con un brano celebre:

Larve di un mondo rimosso, i Pulcinelli, nel loro

vero aspetto, sono ‘invisibili’ nella realtà, tranne

che per gli occhi del pittore. Giandomenico, l’artista-buffone

che celebra il rito propiziatorio del

carnevale alla fine di un’epoca, li ha evocati sulla

scena della vita, a riflettervi il comportamento

dell’uomo comune, di ogni uomo: con nessun altro

scopo, sembra, che quello di rivelare, a chiunque

sappia vederli, che tutta la vita, dal principio alla

fine, è una comica assurdità. Non sarà forse questo

il famigerato segreto di Pulcinella? [6]

Nelle sue opere tarde – i disegni con Scene di vita contemporanea

del 1791 e gli affreschi della propria villa di campagna

a Zianigo eseguiti nell’ultimo decennio del secolo

–, Giandomenico registra il comportamento risibile dei

suoi simili con una vena di amara ironia, volgendo l’osservazione

in critica. Tutta la sua carriera artistica si era svolta,

negli aspetti più originali, sotto il segno dell’“osservazione”,

nelle celebri rappresentazioni di eventi legati alla vita quotidiana,

ma ora, alla fine del secolo, il timbro cambia: si fa

più aggressivo (catt. VII.22-24).

Gli affreschi, strappati dai muri della villa per avidità

dell’antiquario di turno, ormai da più di un secolo, si

conservano nel Museo di Ca’ Rezzonico e siamo invitati

ad ammirarli là – nessun brano è presente in mostra –:

sarà un incontro memorabile per chi li vedrà per la

prima volta. Emozioni fortissime attendono il visitatore,

e ancor oggi ci è purtroppo preclusa la possibilità

di conoscere quale molla sia scattata nella mente del pittore

per indurlo a tali rappresentazioni da “commedia

sociale”. Immaginazione e Osservazione si sono ormai

dissociate: le opere sacre e profane di Giandomenico

nell’affresco sono come dei relitti spiaggiati.

Scena maggiore, il Mondo Novo, cioè il casotto

con le immagini dell’America mostrate per lo più ai

bambini, che è come uno spaccato di vita in anticipo

di centocinquant’anni sul cinema del Neorealismo. Ma

sono anche le dimensioni a sconvolgerci: tutte figure a

grandezza naturale. I nostri ‘doppi’, la gente.

Di fronte, due riprese della vita in villa, con quel

Terzetto in passeggiata che adombra la situazione familiare

dell’artista: un matrimonio praticamente fallito e

il nipote che viveva in casa, il quale sposò, con dispensa

papale, la moglie dell’artista subito dopo la morte di

Giandomenico.

C’è poi la stanza di Pulcinella, e il personaggio

va a occupare persino il soffitto, abitualmente riservato

ad apparizioni di divinità e allegorie. È il momento della

caduta della Serenissima Repubblica: proprio il 1797, e

l’artista sceglie di evadere nella dimensione del grottesco.

La maschera di Pulcinella diventa un popolo, visualizzando

attraverso il recupero della Commedia dell’Arte

l’ansia d’evasione e l’inquietudine che permeavano

soprattutto i ceti subalterni. Opere che fanno dell’artista

un genio universale, al pari del padre: ben superiore

a tanti “colleghi” di quell’epoca attestati sulla linea della

“modernità”. Ma qual è la vera modernità?

Non è finita. C’è anche una realtà sistematicamente

trasposta nella maschera. Nel momento stesso in cui la

Serenissima soccombe all’invasore francese, la fantasia di

Giandomenico dà vita a una delle creazioni più originali

di ogni tempo, il Divertimento per li regazzi: centoquattro

disegni che ci narrano vita, morte e miracoli di Pulcinella,

purtroppo dispersi ai quattro venti dopo l’asta del 1920.

Esposti l’anno dopo a Parigi, nientemeno che al Musée

des Arts-Décoratifs, dall’antiquario Richard Owen, furono

immediatamente dispersi. Si fosse compreso il valore straordinario

di quell’insieme, forse sarebbero stati comprati

dal Louvre. Ancora una volta, riconoscere un bene può “salvarlo”.

In Italia non è rimasto nessuno di quei fogli.

In mostra abbiamo la serie meravigliosa appartenuta

a Sir Brinsley Ford: occasione unica per ammirare

una parte consistente di quel capolavoro (catt.VII.08-19).

FIG. 15

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

Capriccio palladiano.

Parma, Pinacoteca Nazionale

FIG. 16

ABBONDIO STAZIO,

CARPOFORO MAZZETTI

Decorazione della

“stanza dell’oseliera”,

particolare.

Venezia, Ca’ Sagredo

FIG. 17

ANTONIO BONAZZA

Mora incinta.

Bagnoli di Sopra,

villa Widmann

FIG. 18

GIANDOMENICO TIEPOLO

Pasto dei contadini.

Vicenza, villa Valmarana ai Nani

FIG. 19

FRANCESCO GUARDI

Ascensione della mongolfiera.

Berlino, Gemäldegalerie -

Staatliche Museen - Staatliche

Museen zu Berlin

30 — CANALETTO & VENEZIA — — VENEZIA ’700: IMMAGINAZIONE / OSSERVAZIONE — 31



IL PRIMO

SETTECENTO



ALBERTO

CRAIEVICH

FIG. 1

SEBASTIANO RICCI

Venere e Adone, particolare.

Orléans, Musée des

Beaux-Arts

1 _ Sull’argomento si rimanda

agli ormai classici: M. Levey,

Painting in Eighteenth Century

Venice, London 1959 (III

edizione riveduta, Yale 1994,

edizione italiana Milano 1996);

F. Haskell, Patrons and Painters.

A Study in the Relations Between

Italian Art and Society in the

Age of the Baroque, London

1963 (edizione italiana Firenze

1966); A. Mariuz, Il Settecento.

La pittura (I), in Storia di

Venezia. Temi. L’Arte, a cura di

R. Pallucchini, II, Roma 1995,

pp. 251-383; R. Pallucchini, La

pittura nel Veneto. Il Settecento,

2 voll., Milano 1995.

IL PRIMO

SETTECENTO

UNA NUOVA

PITTURA

Nel primo decennio del

Settecento fiorisce a Venezia una stagione creativa di

straordinaria vitalità: il cambiamento è radicale e interessa

ogni forma artistica [1] .

Prima di allora il panorama pittorico in laguna

era dominato da figure cresciute con i maestri del

Barocco, eredi di quello che Marco Boschini chiamava

“manieron”, uno stile giocato fra irruenza d’esecuzione

e libertà compositiva.

Si tratta di una generazione di artisti nata

attorno agli anni cinquanta del Seicento: Nicolò

Bambini, Antonio Bellucci, Antonio Fumiani, Gregorio

Lazzarini, Giovanni Segala, Angelo Trevisani. Manca,

nel gruppo solo Antonio Molinari, scomparso nel 1704.

Essi, nella maturità, volgono lo sguardo verso la severità

del classicismo bolognese e l’eleganza del barocchetto

romano, creando, con diverse declinazioni, un linguaggio

artistico equilibrato, in cui composizioni ricche di

figure sono disposte con ordine all’interno di grandiosi

impianti architettonici. Il colore è steso in maniera

compatta e fluida; le anatomie e i panneggi sono definiti

con studiata attenzione. Il risultato è una sorta di accademismo

riscaldato dai tradizionali valori della scuola

veneziana; una pittura che potremmo definire ‘europea’,

agganciata agli esiti stilistici più moderni, sebbene priva

di caratteri di grande originalità. La sua fortuna, comunque,

si misura nel successo fuori dai limiti cittadini. Le

opere di questi artisti si ritrovano nelle gallerie dei collezionisti

più raffinati: Stefano Conti a Lucca, Raimondo

Buonaccorsi a Macerata, Lothar Franz von Schönborn,

l’elettore del Palatinato Johan Wilhelm von Pfalz-

Neuburg e, almeno in parte, Johann Adam Andreas von

Liechtenstein [2] .

Rispetto a questi nomi la principale novità è rappresentata

dalla presenza a Venezia fra il 1697 al 1718, di

un pittore veronese, Antonio Balestra che offre un’inflessione

particolarmente addolcita di questo gusto

accademico, devota alla grazia di Correggio. Nel frattempo

un pittore francese, Louis Dorigny, formatosi

presso Charles Le Brun, riporta in auge a Venezia la

tecnica dell’affresco. Entrambi, non a caso, giungono

in città reduci da un soggiorno a Roma presso l’Accademia

di San Luca. È un momento particolarmente

fertile. Tutti i pittori citati sono impegnati nella decorazione

dei palazzi del patriziato sulla scia di un rinnovato

fervore edilizio; dapprima con dipinti su tela, poi,

sempre più di frequente, con la tecnica dell’affresco

che progressivamente prende il sopravvento: in ogni

caso in coabitazione con rigogliose ornamentazioni in

stucco. È la committenza ecclesiastica tuttavia a recitare

la parte del leone: gli ordini religiosi e il clero secolare

fanno decorare le chiese con grandi cicli pittorici. Non

è tutto oro quello che luccica: nel 1713 una supplica del

Collegio dei Pittori destinata a chiedere l’esenzione

della tassa sulla ‘milizia da mar’ recita: “l’essercitio della

pittura con sé medesimo porta che vedendo il pittore

che nella propria patria non trova l’opere corrispondenti

al suo talento, procura negl’esteri paesi procurar le lor

sorti, come han fatto al presente il Beluzzi, il Rizzi, il

Cassana, il Pellegrini et altri nati in questa Serenissima

Dominante e questi si ponno nominar tra famosi e pur

hanno dovuto abbandonar la loro patria per fini sudetti

e continuano in estere regioni il loro soggiorno” [3] .

Prende così piede, per necessità, la nuova vocazione

internazionale della pittura veneziana.

— UNA NUOVA PITTURA — 35



L’accelerazione verso una forma artistica completamente

diversa, in grado di rompere ogni legame

sia con il rigore del classicismo sia con la teatralità del

Barocco, avviene per opera di un artista ormai maturo:

Sebastiano Ricci [4] . Con lui la pittura veneziana degli

inizi del secolo non è più a traino ma diventa essa stesso

modello. È una figura onnivora ed eclettica. Se a ogni

sommo pittore veneziano riconosciamo una cifra stilistica

che lo identifica in modo puntuale, Ricci, invece,

costruisce la grandezza del suo linguaggio nella manipolazione

di maniere altrui che fonde insieme attraverso

una tecnica prodigiosa. Nella sua pittura, infatti, l’elemento

esecutivo acquista un valore fondante.

Alcune notizie sulla sua vita tratteggiano

una personalità spregiudicata, impulsiva: un epicureo.

Nato nel 1659 a Belluno, si trasferisce nella

Dominante a dodici anni, ma trascorre gran parte

della sua prima attività lontano da Venezia. Nel

1681, infatti, si allontana dalla città dopo aver tentato

di avvelenare Antonia Venanzio, la ragazza che

avrebbe dovuto sposare e che aspettava un figlio da

lui. Mentre è in fuga un’altra fanciulla dà alla luce un

bambino, Zuanne Giacomo, la cui paternità dichiarata

è “figliolo naturale di Sebastiano Ricci pittor”.

Nella sua “latitanza” proseguiranno rocambolesche

fughe d’amore e conseguenti guai con la giustizia dai

quali esce sempre con l’aiuto di protettori importanti.

Farà ritorno a Venezia solo quindici anni dopo [5] .

Nel frattempo viaggia lungo la Penisola, al servizio di

mecenati prestigiosi e, soprattutto, studiando in presa

diretta i capolavori del passato. Dopo la fuga ripara in

Emilia: Bologna, Parma, San Secondo. Qui ha la possibilità

di avvicinarsi all’arte di Correggio e al classicismo

emiliano del Seicento che approfondirà a Roma

davanti gli affreschi di Annibale Carracci a palazzo

Farnese, dove risiede presso i suoi protettori. Le tappe

di questo viaggio di formazione gli consentono, inoltre,

di riflettere sui grandi maestri del passato e di

aggiornarsi sulle novità principali del Barocco: Luca

Giordano, il Baciccio, Pietro da Cortona. Tuttavia, le

sue prime opere, per quanto tradiscano un talento

innegabile, ci appaiono ancora eseguite nel solco della

tradizione seicentesca. L’esempio emiliano rimane

preponderante nella gestualità enfatica dei personaggi

e nel lucido e coerente impaginato compositivo, mentre

l’esecuzione e, soprattutto, il risentito chiaroscuro

tradiscono i ricordi della pittura veneziana della sua

giovinezza. Un amalgama non riuscito che non produce

uno stile proprio. La straordinaria cultura visiva

accumulata in anni di peregrinazioni non è elaborata

e messa a frutto; come se mancasse l’ingrediente decisivo

o, più semplicemente, come se l’artista non avesse

ancora individuato la direzione da prendere.

Dopo il ritorno a Venezia nel 1696 questo corpo

a corpo con la pittura altrui decanta e produce i primi

frutti. Sul crinale del secolo licenzia, infatti, alcune opere

che lo rivelano pittore di primo piano. Si tratta, ad esempio,

delle tele da soffitto per la chiesa di San Marziale

a Venezia e dell’affresco sulla volta della cappella del

Santissimo Sacramento nella chiesa di Santa Giustina a

Padova. In entrambi i casi, nella stesura del colore, è scoperto

l’omaggio a Paolo Veronese che Ricci reinterpreta

in forma barocca. È questa componente il lievito che trasforma

ciò che fino ad allora risultava incompiuto.

Soprattutto nell’affresco di Santa Giustina si

misura il salto di qualità dell’artista anche in veste di

decoratore. Se paragoniamo le soluzioni adottate in

questo caso con il soffitto compiuto a Roma per palazzo

Colonna notiamo che egli “ha scoperto una nuova

forma di dipingere: il vuoto. Esso nasce dalla giustezza

dei rapporti fra le figure, separate e sospese, ma reciprocamente

attratte. La potenza della luce è tale da desaturare

tutti i colori delle forme che raggiunge” [6] .

Dal punto di vista tecnico questi risultati sono

significativi, d’avanguardia; ma si tratta ancora di una

rivoluzione incompiuta. Rispetto a Pietro da Cortona

o Luca Giordano rivela valori luminosi inediti e una

qualità esecutiva assai più effervescente ma lo svolgimento

tematico è ancora saldamente barocco. Ne sono

testimonianza opere profane che esemplificano questo

stallo stilistico come il Ratto delle Sabine per palazzo

Barbaro a Venezia e, soprattutto, le due tele dedicate

allo stesso episodio storico in collezione Liechtenstein,

eseguite durante il soggiorno viennese fra il 1703-04.

Si tratta di omaggi fedeli a Pietro da Cortona che se pur

ci offrono un superbo preludio delle capacità decorative

del pittore, coagulano le esperienze figurative del

Seicento nella loro grave e virile magniloquenza.

La svolta arriva poco dopo, di nuovo lontano

da casa. Questa volta siamo a Firenze dove, fra il 1705

e il 1707, prima nella decorazione di palazzo Maruccelli,

e poi nell’appartamento estivo del Gran Principe

2 _ F. Zava Boccazzi, Episodi

di pittura veneziana a Vienna

nel Settecento, in Venezia

Vienna, a cura di G. Romanelli,

Milano 1983, pp. 25-88, Milano

1983; Ead., Residenze e gallerie.

Committenza tedesca di pittura

veneziana nel Settecento, in

Venezia e la Germania. Arte,

politica, commercio, due civiltà

a confronto, Milano 1986, pp.

171-2016; Ead., I veneti nella

galleria Conti di Lucca (1704

– 1707), “Saggi e Memorie di

Storia dell’Arte”, 17, 1990, pp.

107-152; B. Aikema, Molinari

& Co.: riflessioni sul momento

internazionale della pittura

veneziana fra Sei e Settecento,

“Arte Veneta”, 63, 2006, pp.

203-207.

3 _ E. Favaro, L’arte dei

pittori in Venezia e i suoi statuti,

Firenze 1975, p. 225.

4 _ J. Daniels, Sebastiano

Ricci, Hove 1976, p. 137; A.

Scarpa, Sebastiano Ricci, Milano

2006.

5 _ L. Moretti, Documenti

e appunti su Sebastiano Ricci,

“Saggi e memorie di storia

dell’arte”, 11, 1978, pp. 97-125;

F. Montecuccoli Degli Erri,

Sebastiano Ricci e la sua

famiglia. Nuove pagine di vita

privata, “Atti dell’Istituto

Veneto di Scienze, Lettere ed

Arti”, CLIII, 1994-1995, pp.

105-114.

6 _ D. Ton, Padova, in La

pittura nel Veneto. Il Settecento

di Terraferma, a cura di G.

Pavanello, Milano 2011, p. 17.

7 _ Mariuz 1995, p. 254.

8 _ M. Levey, The Later

Italian Pictures in the Collection

of Her Majesty the Queen, II

edizione, Cambridge 1991, pp.

148-149.

9 _ Cfr. F.J.B. Watson,

Wallace Collection Catalogues:

Furniture, London 1956, p. xxvi.

10 _ V. Da Canal, Della

maniera del dipingere

moderno... [1735], a cura di G.

Moschini, “Mercurio filosofico

e letterario e poetico”, marzo

1810, p. 17.

11 _ A.M. Zanetti, Della

pittura veneziana e delle opere

pubbliche de’ veneziani maestri

libri V, Venezia 1771, p. 396.

Ferdinando de’ Medici a palazzo Pitti, egli si libera di

ogni residuo di educazione barocca. Il luogo dove ciò

avviene è evocativo: la città in cui Pietro da Cortona e

Luca Giordano hanno lasciato, nella piena maturità, il

momento più alto della loro realizzazione artistica (le

Sale dei Pianeti a palazzo Pitti e la Galleria di palazzo

Medici-Riccardi).

Operando sulla base di una cultura visiva così

vasta e profondamente assimilata, Ricci metterà

a fuoco sulla pittura dei maestri cinquecenteschi

– Correggio, Annibale Carracci, i “classici

veneziani”, fra i quali soprattutto Veronese – la

lezione emozionante dei protagonisti della grande

decorazione barocca, così da decantarla della sua

magniloquenza, di tutti gli “eccessi” connaturati

alle funzioni encomiastiche e propagandistiche

quell’arte era stata chiamata ad assolvere. Egli

viene attuando in tal modo, nella concretezza del

suo fare pittorico, una vera e propria operazione

critica, attraverso al quale recupera alle ragioni del

moderno “buon gusto” la pittura barocca, facendone

emergere al contempo la matrice cinquecentesca,

in particolare la matrice veneziana. Ricci,

in sostanza, rivendica a Venezia, alla sua scuola

coloristica, il merito di essere all’origine di tutta la

più vitale pittura moderna. Per tale intento riformatore,

la sua visione artistica appare in sintonia

con quanto propugnava, in quegli stessi anni, il

movimento culturale e letterario dell’Arcadia: una

rilettura degli antichi, come avvio a una poesia

rinnovata che, in relazione al “meraviglioso”, allo

“stravagante”, allo “smisurato barocco”, attuasse

un accordo di grazie e naturalezza. Non c’è dubbio

che egli avrebbe potuto sottoscrivere, anzi assumere

come enunciato della sua estetica, la seguente

definizione di un protagonista della cultura arcadica:

“Per bello noi comunemente intendiamo

quello, che veduto, o ascoltato, o inteso, ci diletta,

ci piace e ci rapisce, cagionando dentro di noi dolce

sensazione, e amore”. [7]

Proprio negli affreschi per il Gran Principe, Ricci

elabora uno stile dove sono riassunti tutti gli elementi

tipici della futura scuola veneziana del Settecento: una

pittura emozionale che prevede velocità di esecuzione,

improvvisazione e primato del colore sul disegno.

Inoltre dal punto di vista tematico affronta il soggetto

assegnato, il Commiato di Venere da Adone, in modo

assolutamente inedito. Con un geniale colpo di fantasia

trasporta il tema ovidiano fra le nubi, lo astrae dal

suo contesto orginario e fissa per primo il cielo come

orizzonte della pittura monumentale veneziana del

Settecento (cat. II.02).

Questo nuovo svolgimento narrativo, leggero e

audace, investito da una calda e fragrante sensualità si

palesa in un’altra opera simbolo: la Continenza di Scipione

delle collezioni reali inglesi (cat. II.01) [8] . Si tratta di un

tema tratto da Tito Livio, particolarmente amato per

tutto il Seicento, e impiegato per esemplificare la magnanimità

del principe. Ricci lo trasforma, ne depotenzia

ogni valore morale grazie ai sontuosi e brillanti passaggi

coloristici e al modo, leggero, antieroico con cui risolve

il soggetto. La figura femminile ormai incarna pienamente

quell’ideale di fragilità che ha ben poco da condividere

con le orgogliose e risolute figure femminili raffigurate

fino a poco tempo prima. Scipione, soprattutto,

si presenta come un improbabile adolescente languidamente

abbandonato sul suo seggio. Il quadro risponde in

maniera puntuale a quell’appello alla giovinezza rivolto

da Luigi XIV al suo architetto Mansart nel 1699: “il me

paroit qu’il y a quelque chose à changer quel es subjects

sont trop serieux qu’il faut qu’il y ait de la jeunesse mêlee

dans ce que l’on ferai. Vous m’apportez des dessins quand

vous viendrez, ou du moins pensées. Il faut de l’enfance

repandue partout” [9] .

È Vincenzo da Canal a fissare con precisione

questo passaggio nell’arte di Sebastiano Ricci: a lui

spetta il merito di “aveva voluto sostituire in pittura la

grazia alla forza” [10] . Secondo Anton Maria Zanetti il

giovane, il grande critico del Settecento veneziano, si

tratta di “un dolce sogno, un incanto puramente del

senso” [11] , da paragonare a un vaso di fiori freschi o a un

cesto di frutta matura.

Sarà in Inghilterra, dove si trasferisce fra il 1711 e

la primavera del 1716, nella speranza di ottenere l’incarico

per affrescare la cupola della cattedrale di San Paolo,

che Ricci ottiene i suoi successi maggiori. Non sarà l’unico.

Il regno di Anna Stuart e poi di Giorgio I, rappresentano,

infatti, una felice congiuntura storica per tutti

gli interpreti del rococò veneziano, i quali, nell’atmosfera

relativamente libera degli ambienti dell’aristocrazia

36 — IL PRIMO SETTECENTO —

— UNA NUOVA PITTURA — 37



Whig – che proprio in quegli stava costruendo le proprie

sontuose dimore – possono liberare, pienamente

incoraggiati, il loro estro creativo.

Ritornato a Venezia, esibisce con sfrontatezza

un nuovo status sociale, figlio, oltre che del suo straordinario

talento, anche di una non comune capacità

imprenditoriale. Si permette di chiedere compensi

impensabili per la maggior parte dei suoi colleghi, soddisfando,

senza preoccupazioni, la propria personale

passione per il mondo dello spettacolo, imbarcandosi

in iniziative di dubbia fortuna come quella d’impresario

teatrale. Acquista, a caro prezzo, uno splendido appartamento

alle Procuratie Vecchie in piazza San Marco.

Prima di lui solo Pietro Liberi aveva osato di più, facendosi

costruire un intero palazzo sul Canal Grande. Negli

anni della vecchiaia accentua con virtuosismo sempre

maggiore le proprie doti esecutive. Si lega in modo

stretto a un gruppo di raffinati conoscitori come Anton

Maria Zanetti il vecchio e Joseph Smith, futuro console

inglese a Venezia. Sono collezionisti originali e al contempo

mercanti d’arte; estranei all’ambiente tradizionale

dell’aristocrazia veneziana. Il loro gusto è votato ai

valori pittorici, e prediligono la produzione dei grandi

figuristi nel suo aspetto privato e creativo: bozzetti e

disegni preparatori. Sotto questo aspetto Ricci era il

loro artista ideale.

Ritroviamo la sua estrema dichiarazione poetica

nella lettera che egli indirizza, settantenne, al conte

Giacomo Tassis il 14 novembre 1731. L’argomento è il

compenso per il bozzetto per la pala bergamasca delle

Anime purganti di cui il nobile è stato intermediario.

Le parole di Ricci, valgono più di ogni ulteriore commento:

“Ma sappia V. S. Illustriss. che vi è differenza

da un bozzetto, che porta il nome di modello, a quello

che le perverrà. Perché questo non è modello solo, ma

è quadro terminato, e le giuro che io farei un quadro

grande d’altare simile a quello che io ho fatto piuttosto

che far questo piccolo, che ella chiama col nome di

modello. Sappia di più, che questo piccolo è l’originale

e la tavola d’altare è la copia”, aggiungendo in chiusura

“Se fosse fatto com’è il solito costume dei bozzetti non

avrei cercato alcuna ricompensa. Ma torno a dirle che

sarebbe stato per me il più agevole farlo in grande” [12] .

Per alcuni aspetti sovrapponibile è la biografia

Antonio Pellegrini: vi ritroviamo lo stesso, infaticabile,

itinerario europeo, con molte tappe comuni, ad

accendere una rivalità che durerà per tutta la vita [13] .

Più giovane di Sebastiano Ricci (nasce a Venezia nel

1675), si forma con l’artista forse più eccentrico ed

eterodosso presente a Venezia alla fine del secolo:

il lombardo Paolo Pagani. Giovanissimo, lo accompagna

fra il 1692 e il 1695 in Moravia, dove lavora

presso il principe vescovo di Olomuc, Karl II von

Liechtenstein-Kastelkorn e poi a Cracovia. Dopo

questa esperienza, mentre il maestro fa ritorno nella

natia Valsolda, Pellegrini si reca a Roma. Nell’Urbe è

la pittura di Giovan Battista Gaulli e del Baciccio, a

lasciargli un segno profondo. Gli inusuali risultati di

questa stravagante associazione che vede il sulfureo

stile di Pagani mescolarsi con la scintillante interpretazione

del barocco romano di Gaulli, si palesano

nelle opere compiute da Pellegrini a Venezia a partire

dal 1698 [14] . Si tratta, spesso, di composizioni impetuose,

irrituali nello svolgimento anticlassico della narrazione:

le figure sono poste in audaci controluce e i

panneggi si accendono di curiose incandescenze cromatiche.

Lo ritroviamo spesso attivo per le famiglie

della ’nuova’ nobiltà o semplici “cittadini”: gli Albrizzi di

Sant’Aponal; i Vezzi, che di lì a poco avrebbero avviato la

loro fabbrica di porcellane; soprattutto i Giovanelli nella

villa di Noventa e gli Alessandri in quella di Mira [15] .

Le fonti, a queste date lo ignorano, segno di un successo

che tarda ad arrivare. L’unica opera pubblica di peso è

la grande tela con il Serpente di bronzo per la chiesa di

San Moisè, portata a termine tra il 1707 e il 1708. Deve,

quindi, aver accettato senza troppi rimpianti l’invito

di Charles Montagu, futuro duca di Manchester (per il

quale Luca Carlevarijs aveva realizzato il celebre Ingresso

solenne oggi al Museum and Art Gallery di Birmingham),

a recarsi in Inghilterra, assieme a Marco Ricci. Si tratta

dell’occasione della vita.

In Inghilterra, il Pellegrini, quasi come farfalla

smagliante lasciò cadere gli ultimi frammenti

della dura crisalide seicentesca che aveva fino ad

allora impedito le sue già audaci creazioni. In una

serie di mitologie, “historie”, capricci e ritratti,

venne nascendo uno stile nuovo: senza peso, sensuale,

qualche volta goffo e melodrammatico, ma

quasi sempre libero da tensione. Piume color di

rosa, volteggiano sullo sfondo di un cielo azzurro

striato di pennacchi di nuvole bianche; la luce

12 _ Sebastiano Ricci, Il

trionfo dell’invenzione nel

Settecento veneziano, catalogo

della mostra (Venezia,

Fondazione Giorgio Cini) a cura

di G. Pavanello, Venezia 2010;

Sebastiano Ricci 1659-1734, Atti

del Convegno Internazionale di

Studi (Venezia, Fondazione

Giorgio Cini, 14-15 dicembre

2009) a cura di G. Pavanello,

Verona 2012.

13 _ G. Knox, Antonio

Pellegrini 1675-1741, Oxford

1995; Antonio Pellegrini, il

maestro veneto del Rococò alle

corti d’Europa, catalogo della

mostra (Padova, Palazzo della

Ragione) a cura di A. Bettagno,

Venezia 1998.

14 _ Antonio Pellegrini nella

chiesa veneziana delle Eremite,

“Arte Veneta”, 60, 2003, pp.

205-210.

15 _ D. Ton, in Gli affreschi

nelle ville venete. Il Settecento, I,

a cura di G. Pavanello, Venezia

2010, cat. 100.

16 _ Haskell 1963 (ed. 1966),

pp. 426-427.

17 _ Zanetti 1771, pp. 445-

446.

18 _ A. Scarpa Sonino, Jacopo

Amigoni, Soncino 1994.

mette scintille su una delicata armatura, trecce

d’oro si sciolgono disordinate su invitanti nudità;

musicanti fantasiosamente abbigliati in costumi

di seta si appoggiano ad una balaustrata e alludono

scherzosamente al Veronese, senza il severo

impegno di Sebastiano Ricci o più tardi, di Tiepolo

(che a quest’epoca era appena agli inizi). Nuove e

sottili combinazioni di colori (toni di malva, verdi,

rossi ed argento trasparenti) si aggiungono alla

notevole freschezza della maniera di Pellegrini. [16]

Dopo aver esordito con una pittura fortemente

espressiva, egli alleggerisce il colore e le forme in evanescenti

composizioni aeree dove le figure fluttuano

lievi, senza regole e schemi. La sua capacità d’improvvisazione,

che sfrutta anche in questo caso una straordinaria

padronanza e rapidità, trova confronto solo nei

grandi musicisti del suo tempo. Pellegrini trasporta così

la libertà e la freschezza esecutiva del bozzetto su una

scala monumentale e decorativa. È una pittura seducente,

destinata ad appagare lo sguardo, in sintonia con

quanto avviene in Francia durante la Reggenza, che va

incontro al gusto di raffinati intenditori ma non sempre

trova l’approvazione dei colleghi o dei critici: Anton

Maria Zanetti il giovane avrebbe scritto: “Poteano dire

i critici a sua voglia, che li di lui opere non aveano fondati

studii di pittoresche dottrine, che per essere troppo

prestamente dipinte non sarebbero arrivate a durare un

mezzo secolo; tutto era un nulla” [17] .

Il primo soggiorno inglese di Pellegrini dura

cinque anni e lo vede attivo nelle principali residenze

di campagna. Forse a questo periodo spetta il delizioso

bozzetto del museo di Ravenna (cat. II.04) con la

Clemenza di Alessandro, un soggetto raffigurato in molte

occasioni durante la giovinezza, ma che qui diventa di

secondo piano rispetto al partito decorativo che lo

incornicia, che segue, anche nella balaustra, un sincopato

andamento rococò. Lo stesso gusto anima anche il

disegno dell’École des Beaux-Arts di Parigi, destinato a

una decorazione d’interni (cat. II.19).

Dopo aver rotto il sodalizio con Marco Ricci (che

nel frattempo aveva invitato a Londra lo zio Sebastiano),

nell’estate del 1713, assieme alla moglie, si reca presso l’elettore

del Palatinato Johan Wilhelm von Pfalz-Neuburg

a Düsseldorf, dove, oltre a trovare un grande mecenate

dei pittori veneziani, entra in contatto con una delle corti

europee più innovative e cosmopolite. In pochi anni realizza

un incredibile numero di opere che incontrano l’approvazione

del committente. È la moglie di Pellegrini,

Angela Carriera, a lasciarci, in una lettera alla sorella

Rosalba, un fulmineo quanto azzeccato commento sulla

coeva produzione del marito: “Toni fa quadri di Paradiso”;

come se la sua pittura leggera, schiarita su innaturali tinte

pastello, fosse in grado di evocare le delizie dell’Aldilà.

Fra questi dipinti possiamo annoverare senz’altro lo stupendo

San Sebastiano curato dalle pie donne, dove la

sfarfallante condotta esecutiva dell’artista si fa ancora più

preziosa e suggestiva nell’inedita ambientazione serale

della scena (cat. II.03). Soggiornerà a Düsseldorf fino alla

morte del principe elettore, nel 1716. Negli anni successivi

attraversa l’Europa senza sosta: i Paesi Bassi, di nuovo

l’Inghilterra, poi in più occasioni Parigi, Vienna e le corti

tedesche (Dresda, Würzburg, Mannheim).

Rientra a Venezia solo a pochi anni dalla morte

(1738), neanche in tempo per godersi il successo e il

meritato riposo. Anche su Pellegrini, come per Ricci,

abbiamo molte informazioni di prima mano, in questo

caso grazie all’epistolario di Rosalba Carriera. Ne

emerge una personalità gaudente, gioviale – come si

ricava anche dai pingui e sorridenti autoritratti che ci ha

lasciato – che certo non rivela l’inaspettato collezionista

di dipinti. Alla sua morte, furono venduti dalla vedova al

console Smith e da qui confluirono nelle collezioni reali

inglesi. Fra questi, testimonianza di una sensibilità straordinaria,

La lezione di musica di Vermeer.

Sebastiano Ricci e ancor meno Pellegrini, operarono

a Venezia solo durante intervalli della loro carriera,

spesa in gran parte all’estero. Analoga sorte tocco

a Jacopo Amigoni [18] . È l’artista di questo gruppo su cui

abbiamo meno informazioni in merito alla prima giovinezza.

Non è nota nemmeno la data di nascita, compresa,

stando a fonti successive, fra il 1675 e il 1685.

La sua prima opera databile, la pala d’altare con i santi

Andrea e Caterina della chiesa veneziana di San Stae, eseguita

prima del 1715 (non un’opera tanto precoce, quindi)

parla il linguaggio composto di Gregorio Lazzarini,

oppure di un minore come Giambattista Mariotti. La via

della modernità scelta da Amigoni non è quindi quella

elaborata dai suoi colleghi ma l’alternativa, a queste date,

“perdente”, ossia il languido e levigato formalismo di

Antonio Balestra, al quale si ispira. Su questa base egli

innesta, con sorprendente efficacia una pittura sgranata,

38 — IL PRIMO SETTECENTO —

— UNA NUOVA PITTURA — 39



vaporosa, come se un velo di cipria sfumasse la definizione

delle cose. È un’arte improntata sulla ’grazia’, che

declina l’ideale classico della bellezza in una forma più

delicata e malinconica, senza, tuttavia, tracimare nel

lezioso. Non è casuale che questa sua ingentilita interpretazione

della classicità sia stata spesso messa a paragone

con la pittura francese coeva di cui non assume,

tuttavia, l’accentuato valore erotico, carnale.

È un modo di dipingere che poco si presta

alla narrazione epica di historie, per quanto durante

la sua attività al servizio di Massimiliano II Emanuele

di Baviera, fra il 1717 e il 1726, a Schleissheim e

Nymphenburg non gli siano mancate opportunità in

tal senso. Ma, in questo caso, la narrazione, troppo

caricata sul tono patetico, non appare convincente.

Il campo di Amigoni è la favola di Ovidio, l’incontro

fra amanti appassionati (cat. II.05). Lo comprese assai

bene Francesco Algarotti che lo scelse fra i veneziani

cui commissionare un’opera per la Galleria Reale di

Dresda. Qualificandone le doti – e in parte limiti –

gli assegnò, unico del gruppo, una mitologia:

Anzia e Abrocome. Un incontro galante, dove si esprime

“la potenza e la vendetta, insieme, dell’amore” [19] .

In Baviera oltre a lavorare direttamente per

il principe elettore fu a servizio presso l’abbazia di

Ottobeuren che decorò in più occasioni fino al 1728,

il suo capolavoro nella tecnica dell’affresco: “la storia e

l’allegoria sacra subiscono la metamorfosi in trasognata

favola d’Arcadia […] vi traspare la nostalgia di uno stato

originario di semplicità e d’innocenza, di un mondo

soffuso di color dell’aurora” [20] . Già l’anno successivo è

ricordato a Londra. Tuttavia, rispetto al clima favorevole

incontrato da Ricci e Pellegrini vent’anni prima, i tempi

erano assai cambiati per i pittori di storia stranieri, su

cui pesava la rivalità, non tanto nascosta, degli artisti

inglesi. Con intelligenza, in mancanza di grandi commissioni,

Amigoni decide di puntare sulla ritrattistica.

In questo campo, il suo particolare stile conferisce ai

personaggi raffigurati un aspetto informale e rilassato

che non rinunciava al decoro, senza però risultare troppo

aulico e pomposo. Si tratta di un compromesso che

incontra subito il gradimento del pubblico e che segna

la fortuna di Amigoni in questo genere. Negli stessi anni

intraprende un’altra iniziativa di successo: l’apertura di

una società con l’incisore Joseph Wagner che lo seguirà

a Venezia nel 1739 e al quale è legata la divulgazione

delle sue composizioni [21] . Amigoni, tuttavia, riparte di

nuovo, questa volta verso Spagna, nel 1747, dov’è chiamato

a corte forse grazie all’aiuto di Farinelli, il celebre

cantante con cui era legato da lunga amicizia. Sarà la sua

ultima tappa terrena. Morirà a Madrid nel 1752.

Negli stessi anni in cui Ricci, Pellegrini e Amigoni

sviluppano, lontano dalla patria, una via alternativa alla

pittura di storia tradizionale, Luca Carlevarijs pone

le basi del vedutismo veneziano. Possiamo fissare per

questo avvenimento una data precisa: il 1703 quando

pubblica la raccolta di incisioni intitolata Le Fabbriche e

Vedute di Venezia disegnate, poste in prospettiva et intagliate

da Luca Carlevarijs. Si tratta di 103 tavole (104

nell’edizione finale) che raffigurano, secondo un criterio

tipologico, gli edifici più importanti della città [22] .

Era nato a Udine nel 1663, figlio di Giovanna e

Leonardo Carlevarijs (1614-69), artista locale dalla personalità

ancora sfocata e che fu, fra l’altro, autore di una

pianta prospettica di Udine oggi perduta che “sembra

preannunciare il destino figurativo del figlio” [23] . Giunge

a Venezia a sedici anni, assieme alla sorella Cassandra,

dopo essere rimasto orfano di entrambi i genitori.

Nonostante alcuni dati d’archivio consentano di

scandire con sufficiente regolarità le sue vicende biografiche

a partire dal matrimonio nel 1699 con Giovanna

Suchietti (dalla quale ebbe quattro figli, fra cui la pastellista

Marianna), non ci sono riferimenti certi sugli

esordi, avvenuti nel campo della pittura di paesaggio.

In città, fino ad allora, gli esperti riconosciuti in questo

campo erano soprattutto stranieri. Nel 1687, il pittore

Pieter Mulier, detto il Tempesta, scrive a proposito di

Venezia, dove si era trasferito da poco: “pittori di figure

cie ne assai, ma di paesi, marine e animaletti non ci è

o quelli che ci sono, sono di poco, dove non manca di

far, per Dei Grazia”. Proprio dal Tempesta e da un altro

forestiere presente in città, l’austriaco Johann Anton

Eismann, Carlevarijs mutua un collaudato repertorio

figurativo fatto di rovine antiche, monumenti moderni

che vengono assemblati in paesaggi fantastici, in cui

convivono marine e montagne e dove il cielo e le onde

sono sconvolti da venti tempestosi.

I suoi primi mecenati sono gli Zenobio, famiglia

di recente nobiltà con palazzo ai Carmini, vicino al quale

risiederà per tutta la vita, tanto da meritarsi l’appellativo

di “Luca di Ca’ Zenobio”.

Le sue prime opere documentate sono paesaggi

19 _ F. Algarotti, Opere,

Venezia, VIII, 1791-1794, p. 381.

20 _ Mariuz 1995, p. 304.

21 _ C. Lo Giudice, Joseph

Wagner. Maestro dell’incisione

nella Venezia del Settecento,

Sommacampagna 2018.

22 _ D. Succi, Luca

Carlevarijs, Gorizia 2015

23 _ Pallucchini 1995, I, p.

179.

24 _ Mariuz 1995, p. 284.

grandi dimensioni, conservati ancora nella loro ubicazione

originaria: due tele nella chiesa di San Pantalon a

Venezia raffiguranti Giuseppe venduto dai fratelli e Mosè

fa scaturire l’acqua dalla roccia e tre Paesaggi che decorano

proprio il portego di ca’ Zenobio. In base alla datazioni

correnti, sarebbero opera di un artista verso la quarantina

e lo individuano come il migliore specialista nel

campo della pittura di paesaggio allora attivo in città. In

esse si rileva la lezione dei foresti citati prima, ma è anche

percepibile lo stile del pittore che emerge nella struttura

semplificata delle composizioni – ben diverse da quelle

caotiche e incoerenti di Tempesta e Eismann – e nel

nuovo risalto conferito ai brani narrativi che prendono il

sopravvento sulla parte paesistica (quasi un’anticipazione

delle gustose e originali macchiette delle sue vedute). Si

avverte, inoltre, un’attenuazione del contrasto chiaroscurale

che sfuma su tinte più chiare e delicate.

Per quanto ormai affermato, Carlevarijs sarebbe

rimasto un pittore di secondo piano all’interno del

panorama artistico lagunare se non avesse impresso un

brusco cambiamento di rotta alla propria carriera proprio

con la pubblicazione della serie di incisioni dedicata

a Venezia. Le prime vedute sicuramente databili

sono invece quelle dipinte nella primavera-estate del

1706 per il mercante lucchese Stefano Conti.

Fu decisiva per questa giro di boa la conoscenza

dell’opera di Gaspar Van Wittel; il primo ad aver introdotto

in Italia,a Roma, l’utilizzo della camera ottica,

almeno a partire dal 1680. Il problema relativo al contatto

fra i due rimane ancora oggi aperto. Van Wittel fu

probabilmente a Venezia in occasione del suo secondo

viaggio nel nord Italia, attorno al 1694, quando eseguì

i disegni dai quali negli anni successivi avrebbe ricavato

vedute delle varie città italiane. Carlevarijs avrebbe

potuto incontrarlo in quell’occasione oppure aver visto

alcune sue opere presenti nelle collezioni veneziane.

Tuttavia, un’impresa laboriosa come la raccolta di incisioni

e il notevole divario tecnico che intercorre fra i

suoi primi paesaggi noti e le vedute eseguite per Stefano

Conti implicano una conoscenza piuttosto approfondita

tanto dei mezzi tecnici (la camera ottica), quanto

dei vari passaggi che portavano all’esecuzione di questo

genere di dipinti. Carlevarijs era versato nelle scienze

matematiche e nella prospettiva, ma un simile cambiamento

non si spiega solo con un fugace incontro

oppure con la visione di pochi quadri. Solo nell’Urbe,

dove, secondo alcune testimonianze letterarie si sarebbe

recato a inizio Settecento, avrebbe avuto una conoscenza

diretta e approfondita del nuovo modo di lavorare

e avrebbe toccato con mano il successo di questa

“novità” presso i viaggiatori del Grand Tour.

Carlevarijs non si limita solo a realizzare vedute

ideate come quelle compiute da Van Wittel. Sempre

a inizio secolo elabora un genere particolare, quello

della “veduta commemorativa” destinata a celebrare

avvenimenti particolarmente rappresentativi. La trasposizione

in pittura di questi eventi non è una novità

per Venezia, ma segue una tradizione che risale al

Rinascimento. Carlevarijs però mette in scena uno spettacolo

assolutamente nuovo, dove si riconosce una perizia

prospettica mai ritrovata in simili rappresentazioni.

Egli, per la prima volta, non si limita a registrare l’evento

ma amplia l’inquadratura fino a conferire alla città

il ruolo di protagonista: “A rendere solenne l’evento, a

farlo memorabile è il luogo stesso in cui si svolge, messo

in valore da un taglio vedutistico aperto e grandioso,

dinamizzato da un’inquadratura laterale. Combinando

la veridicità documentaristica con la spettacolarità di

un incomparabile scenario urbano Carlevarijs ha creato

una formula di sicuro successo” [24] . Ad oggi sono

stati riconosciuti cinque Ingressi solenni. Il primo, se

l’identificazione è corretta, sarebbe quello dell’ambasciatore

francese M. de Charmont avvenuto nel 1703,

cui sarebbero seguiti quelli di Henry-Charles Arnauld

de Pomponne (1706), Lord Manchester (1707), Jacques-

Vincent Languet de Gergy (1726) e il conte di Colloredo

(1726). Accanto alle entrate, diventato ormai quasi il

pittore “ufficiale” della Serenissima, immortala quelle

“solenni regate” che si svolgevano in onore dei sovrani

stranieri: come quella per il re di Danimarca del 1709

e la successiva per Federico Augusto principe elettore

di Sassonia nel 1716, dando vita a una tematica che nei

decenni a seguire avrebbe avuto grande presa presso

gli stranieri in visita a Venezia (egli stesso le replicherà

in più occasioni). La sequenza di questi dipinti ufficiali

consente inoltre di scandire con precisione il catalogo

di Carlevarijs, altrimenti quasi privo di date. Alla fine del

primo decennio del Settecento, con inaspettata rapidità,

il pittore ha ormai fissato un affidabile repertorio iconografico,

ristretto alla platea marciana e al bacino di San

Marco, ripresi invariabilmente attraverso inquadrature

stabilite, di formato standard (con rapporti 1:2 oppure

40 — IL PRIMO SETTECENTO —

— UNA NUOVA PITTURA — 41



2:3) replicate per il successivo ventennio in serie di due

o quattro dipinti (catt. II.12-13). Salvo rari casi, la parte

architettonica viene riproposta in modo immutabile,

sotto un’omogenea luce diafana che ha preso il posto

dei forti viraggi chiaroscurali delle sue prime vedute.

Tuttavia, anche nelle opere della maturità, egli continua

a mantenere la sua vena più autentica nelle straordinarie

macchiette che, anche nelle opere più stanche, descrivono

con gustosa vivacità l’esotica folla riunita sui moli

o nella Piazza. La ripetitività delle sue vedute e un certo

calo nella resa non agevolarono la tenuta commerciale

di Carlevarijs davanti all’inevitabile ascesa dell’astro di

Canaletto, tanto che Giannantonio Moschini riporta che

“dal dolore egli ne morisse”, nel 1730.

Si rimarrà sorpresi ma, di fatto, l’artista veneziano

più celebre in Europa nel Settecento fu una

donna: Rosalba Carriera [25] . Sulla sua eccellenza nei

ritratti si trovarono d’accordo tutti, dai Lord inglesi ai

principi dell’Impero. Fu forse l’unica a trovare consensi

unanimi tanto fra i sofisticati conoscitori del bel mondo

internazionale quanto fra la tradizionale e conservatrice

aristocrazia veneziana (catt. II.10-11).

Per quasi mezzo secolo le corti di tutto il continente

cercarono di accaparrarsi i suoi servigi; eppure,

nonostante i frequenti inviti e le generose proposte, preferì

rimanere a Venezia dove lavorò incessantemente per

tutta la vita, salvo tre brevi viaggi: presso il re di Francia,

il duca di Modena e l’Imperatore. Personalità schiva e

introversa è tuttavia l’artista del Settecento veneziano di

cui abbiamo più notizie sulla sua vita grazie ai diari e al

carteggio, oggi conservati alla Biblioteca Laurenziana di

Firenze (cod. Ashburnham 1781) [26] .

Nasce nel 1673. Secondo i primi biografi i suoi

maestri sarebbero stati il pittore Giuseppe Diamantini e

il ritrattista Giovanni Antonio Lazzari. È plausibile, tuttavia,

che il suo innato talento fiorisca in ambito familiare

grazie alla stretta amicizia, fin dalla giovinezza,

con addetti ai lavori di ben altro spessore: Anton Maria

Zanetti il vecchio, Antonio Balestra e Antonio Pellegrini.

Si specializza da subito, assieme alla sorella

Giovanna, nella miniatura su avorio, un genere tipicamente

femminile: è un’arte che si pratica al riparo delle

mura domestiche, sotto lo sguardo vigile dei familiari.

In questa campo rivela da subito capacità non comuni.

Già nel 1697 è ricordata come la miniaturista più abile

della città. Pochi anni dopo, nel 1705, ottiene il suo

primo grande successo professionale: l’ammissione

all’Accademia di San Luca a Roma, proprio in veste di

miniaturista. Dipingerà su avorio per tutta la vita, ma è

nell’uso del pastello che sarà destinata a diventare una

vera e proprio celebrità. È in Francia, durante il Seicento

che questa tecnica si afferma, soprattutto nei ritratti, ad

opera di artisti quali Charles Le Brun e Robert Nanteuil.

Agli inizi del secolo successivo viene tecnicamente perfezionata.

Steso su un supporto di carta o di cartone dal

colore grigio-azzurro, le peculiarità del pastello sono la

morbidezza, la rapidità di esecuzione e la possibilità di

sovrapporre più stesure di colore. Ciò consente la traduzione

perfetta di valore materici e in particolare dell’epidermide

umana, circostanza che lo fa divenire la tecnica

preferita nei ritratti. Proprio per queste caratteristiche

presenta però grossi problemi di fissaggio: la pellicola di

colore, assai friabile, si danneggia al minimo contatto.

Per tali ragioni già in antico era sempre protetto da un

cristallo. Nonostante la sua fioritura sia avvenuta in

Francia, è Rosalba a portare la tecnica al limite delle sue

possibilità, e allo stesso tempo conferirlei una struttura

più moderna e di grande effetto, condizionando anche

in seguito l’attività degli specialisti francesi.

Il suo primo pastello databile è il Ritratto

dell’amico della vita, Anton Maria Zanetti il vecchio,

realizzato quando l’effigiato aveva circa vent’anni,

attorno al 1700. Partendo da opere acerbe come questa,

ancora improntate sui modelli della miniatura,

Rosalba affina le proprie capacità, dando vita a ritratti

di straordinaria naturalezza, antitetici a quelli della

ritrattistica ufficiale. Si tratta spesso di immagini da

contemplare in privato, nella sfera degli affetti, che

non veicolano messaggi di rango o di status. Sono

ritratti ‘sentimentali’ che ancora oggi sorprendono

per la loro intima spontaneità.

Nell’aprile del 1720 Rosalba accoglie finalmente

l’invito del banchiere Pierre Crozat e, assieme

alla madre e alla sorella, parte alla volta di Parigi,

dove rimane fino a marzo dell’anno seguente. Il soggiorno

si rivela uno straordinario successo. In quasi

un anno di permanenza l’attività di Rosalba è frenetica:

dipinge settantasei pastelli e ventuno miniature.

Tutto il bel mondo e l’alta società parigina si mettono

in fila per farsi ritrarre dalla pittrice. Lo stesso

omaggio le viene tributato anche dall’ambiente artistico

contemporaneo: Rosalba viene infatti ammessa

25 _ B. Sani, Rosalba

Carriera, Torino 2007

26 _ B. Sani, Rosalba

Carriera. Lettere, diari,

frammenti, Firenze 1985.

27 _ Rosalba Carriera

"prima pittrice de l’Europa",

catalogo della mostra (Venezia,

Galleria di Palazzo Cini) a cura

di G. Pavanello, Venezia 2007;

Rosalba Carriera 1673-1757, Atti

del Convegno Internazionale

di Studi (Venezia, Fondazione

Giorgio Cini, 26-28 aprile 2007)

a cura di G. Pavanello, Verona

2009.

28 _ Levey 1959 (ed. 1996),

p. 174.

29 _ Mariuz 1995, p. 289.

30 _ A. Scarpa, Marco Ricci,

Milano 1991.

31 _ La vita come opera

d’arte. Anton Maria Zanetti

e le sue collezioni, catalogo

della mostra, (Venezia,

Ca’ Rezzonico, Museo del

Settecento veneziano), a cura

di A. Craievich, Crocetta del

Montello 2018.

all’Accademia Reale di Pittura e Scultura. Non c’è pittore

presente allora in città che non le faccia visita a

partire da Antoine Watteau di cui esegue il ritratto.

Oltre ai sovrani di tutta Europa – Augusto III

principe elettore e re di Polonia arrivò a possedere 157

pastelli della pittrice – si devono annoverare fra i più

grandi estimatori di Rosalba i viaggiatori inglesi che

soggiornavano a Venezia per il Grand Tour [27] .

Le prime relazioni della pittrice con la committenza

anglosassone si stabiliscono già a inizio Settecento,

quando dipinge per loro miniature e fondi di tabacchiere.

Saranno tuttavia i ritratti a pastello a segnalarsi

per l’estremo virtuosismo tecnico e la varietà di soluzioni.

Ad accentuare la suggestione di queste immagini

vale la pena ricordare che quasi tutti questi personaggi

visitarono l’Italia fra i diciotto e i vent’anni. Pochi di loro

vi avrebbero fatto ritorno. Il ritratto di Rosalba ricordava

quindi una splendida esperienza di gioventù. “Si direbbe

che il pastello intenda ricordare un’occasione particolare

oltre che una somiglianza: ci è facile immaginare il soggetto

(magari ritratto in bauta e zendal come nel disegno

preparatorio di Edward Walpole) che, in seguito, in un

clima più freddo, spiega che tipo di costume fosse quello

che indossava. La fragilità del pastello ispira di per sè

nostalgia, come osserva Nerval in Sylvie, dove due ritratti

a pastello del Settecento rievocano il bon vieux temps

della giovinezza e della felicità” [28] .

Rosalba fu una lavoratrice instancabile, fino

alla consunzione, tanto da diventare cieca. È lei stessa

a immortalare questo passaggio drammatico della sua

vita in uno straordinario autoritratto come musa della

Tragedia, oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia: “Il

sorriso è svanito, lo sguardo, che di lì a poco si sarebbe

spento per la sopravvenuta cecità, evita quello dell’osservatore

per seguire un interno fantasma: nel trapasso

della luce e dell’ombra, Rosalba, giunta alla fine della sua

attività sembra aver scoperto e fatto proprio qualcosa

del segreto dei ritratti di Rembrandt” [29] .

Come si è visto per Carlevarijs, lungo tutto il

Seicento la pittura di paesaggio in città era stata appannaggio

dei forestieri. A inizio secolo, per la prima volta, è

un pittore locale, sebbene nato a Belluno, a prenderne le

redini, trasformandolo in qualcosa di specificatamente

veneziano: Marco Ricci [30] .

Nato nel 1676, è nipote di Sebastiano e nel

corso della sua carriera collaborerà spesso con lui nella

realizzazione di fondali paesaggistici per i suoi dipinti

di storia. È un artista poliedrico, innovativo, in grado

di toccare tutte le corde della creatività. A Venezia

rivoluziona, tanto nel modo di dipingere quanto

nella scelta tematica, il paesaggio barocco, direzionando

le proprie ricerche stilistiche verso il raggiungimento

di una nuova resa del dato naturale. Se per

Sebastiano il punto di riferimento all’interno della

tradizione del Rinascimento veneziano era stato

Paolo Veronese; per Marco il confronto d’obbligo è

rappresentato da Tiziano. Dopo una prima produzione

agganciata al tradizionale repertorio barocco

(burrasche di mare, assalti di banditi) carica le proprie

opere di una nuova qualità luminosa, ma senza

eccessi cromatici. Sono peculiarità che si ritrovano in

gruppo di dipinti databili attorno al 1706, realizzati

per il Gran Principe Ferdinando di Toscana e oggi

agli Uffizi, che ci consentono di misurare la cesura

fra le opere di Marco e quelle dei vari Tempesta ed

Eismann. Nel 1708, assieme a Pellegrini, parte per

l’Inghilterra, per lavorare, soprattutto, in veste di

scenografo al Queen’s Theatre di Haymarket. Non è

tuttavia questo l’esito più originale del suo viaggio.

Probabilmente già a Firenze egli aveva dipinto alcune

curiose tele dedicate al mondo dell’opera, oggi riunite

sotto il nome di Prove di canto, che stanno alla

base della moderna scena di conversazione. Tali soggetti,

tuttavia, compiuti per i committenti inglesi si

caricano di un inedito umore satirico, tale da evocare

il nome di Hogarth, cui sarebbero stati attribuiti

in seguito (catt. II.06-07). Marco non farà più

quadri come questi al suo ritorno a Venezia, chiaro

segno del loro legame con la committenza inglese;

tuttavia la sua vena satirica si esprimerà in seguito

attraverso vere e proprie caricature, compiute all’interno

di un milieu molto sofisticato: il console Smith

(ancora un inglese), Anton Maria Zanetti e i loro

amici [31] . Nel frattempo sperimenta, con successo,

nuove tecniche come la tempera su pelle di capretto

che gli permette di fissare con limpida resa ottica

la qualità atmosferica di ogni situazione ambientale

(cat. II.09). A partire dal 1723, ancora su suggerimento

di Anton Maria Zanetti, egli stesso incisore

provetto, si cimenta nella tecnica dell’acquaforte

con esiti altissimi. La serie esce nel 1730, l’anno

stesso della sua morte.

42 — IL PRIMO SETTECENTO —

— UNA NUOVA PITTURA — 43



GIORGIO

MARINI

FIG. 1

FILIPPO VASCONI?

Veduta della Piazzetta sul

Canale e delle Prigioni

pubbliche di S. Marco

di Venezia,

in Il Gran Teatro

di Venezia [...]

Il maggior motivo, per cui io ò intrapresa la non lieve

fatica di quest’operazione […] è stato il sommo desiderio

di rendere più facili alla notizia de Paesi stranieri

le Venete Magnificenze.

(Luca Carlevarijs al doge Alvise II Mocenigo,

27 maggio 1703)

Come un paesaggio urbano

IL PRIMO

SETTECENTO

L A V EDU TA

INCISA:

V EN EZ I A

MOLT I PL IC ATA

NELLE STAMPE

intrinsecamente mutevole, l’immagine di Venezia

moltiplicata dalla trasposizione incisoria è una realtà

difficile da inquadrare in pochi tratti, prendendo

forma in un panorama che non può essere che provvisorio,

sempre aperto a mille reciproci influssi tra gli

artisti che alimentarono quella ineguagliata fioritura

calcografica. Osservata dalla nostra prospettiva, la

straordinaria filiera produttiva, di diffusione e commercializzazione

delle stampe di veduta nella Venezia

del Settecento costituisce un fenomeno di cui fatichiamo

a valutare la reale portata per i destinatari di

allora, così come stentiamo a percepirne oggi tutta

la carica innovativa – e, di fatto, radicale – come

svolta decisiva nel definirsi dell’immaginario visivo

della città.

Forse più di ogni altro luogo, Venezia ha una

storia fittissima delle immagini di se stessa, che per

il Settecento furono veicolate in massima parte da

una fiorente produzione d’incisioni calcografiche,

organizzata secondo dinamiche preindustriali. Così,

in un caleidoscopio di punti di vista, si riducevano

le grandi tele dipinte per il collezionismo internazionale

al piccolo formato delle stampe, che a loro volta,

alla fine del secolo, sarebbero state rovesciate dalle

vues d’optique nelle meraviglie stereometriche proiettate

nei “mondi novi”, in un’operazione promozionale

che si rivolgeva a un pubblico – e a un mercato

– potenzialmente vastissimo. Nelle stampe la sintesi

grafica del bianco e nero sottolineava l’impianto scenico-prospettico

dei monumenti e dei luoghi salienti

della città ben più che nei dipinti – per molti versi

prossimi alla veduta reale – e fissava, paradossalmente,

il modo canonico di rappresentare quel fragile

tessuto urbano, mobile come le acque in cui si

riflettono i suoi edifici. Messo in sequenza secondo

ideali percorsi di visita, questo corpus d’immagini a

stampa venne costituendo dunque il più immediato

corrispettivo visuale delle guide per forestieri, e a formare

a poco a poco un “doppio” che si sostituiva alla

Venezia reale, al punto che era quest’ultima, alla fine,

a venire misurata e giudicata a partire da esso. E della

città rifletteva all’epoca – e tuttora, per noi, oggi –

l’inesausta capacità d’attrazione che la vedeva ancora,

nonostante il declino politico, tra le capitali turistiche

d’Europa.

Inevitabile premessa di tale ricchissima stagione

vedutistica fu la straordinaria produzione editoriale,

cartografica e calcografica, orchestrata dalla

fine del Seicento dal francescano Vincenzo Coronelli

(1650-1718), poligrafo enciclopedico, geografo e

cosmografo della Serenissima. Con la fondazione

dell’Accademia degli Argonauti, nel 1684, egli aveva

infatti promosso una rilettura topografica del territorio,

stimolando l’affermazione della ripresa prospettica

ben oltre l’ambito di applicazione meramente

scientifico, come emerge dal suo Teatro delle

città (1696-1697), compilazione confluita nell’Atlante

veneto, primo esempio di cartografia urbana improntata

a criteri assonometrico-vedutistici. Ma a inaugurare

emblematicamente il secolo d’oro del vedutismo

veneziano – e proprio sul versante incisorio – sarà

— LA VEDUTA INCISA: VENEZIA MOLTIPLICATA NELLE STAMPE — 45



soprattutto la raccolta delle oltre cento tavole delle

Fabriche, e vedute di Venetia disegnate, poste in prospettiva

et intagliate da Luca Carlevarijs (1663-1730),

pubblicate nel 1703 presso Giambattista Finazzi,

celebrazione insieme del singolare volto monumentale

della città e del governo della Serenissima.

Pur senza un’apparente formazione da incisore,

Carlevarijs riesce a fissarvi con chiarezza magistrale

la categoria della veduta veneziana a stampa, e

– nella valenza normativa delle sue riprese, governate

dal montaggio prospettico dei principali siti della

città secondo criteri scenografici – ne fa un modello

destinato a essere imitato a lungo, nella sequenza

gerarchica di un percorso ideale tra le tipologie degli

edifici. La preferenza è accordata alle vedute frontali

di architetture presentate secondo categorie tipologiche:

le chiese precedono le “scuole”, seguite dagli

edifici pubblici e dai palazzi privati. Ne risulta quindi

un compendio ragionato, ricomposto in un itinerario

narrativo, svincolato da una logica strettamente

topografica: le fabbriche del buon governo della

Repubblica, i luoghi delle istituzioni e della mercatura,

le architetture moderne dei cives che partecipano

alla gloria della città. Stimolato dagli esempi

degli incisori romani – probabilmente conosciuti in un

suo viaggio in riva al Tevere dei tardi anni Ottanta –

e in particolare dalle Vedute delle Fabriche che Giovan

Battista Falda aveva pubblicato nel 1665, parafrasandone

persino il titolo Carlevarijs ne riprende lo schema

compositivo e gli arrangiamenti spaziali, trasferendo a

Venezia quella stessa vocazione documentaria e didascalica

ispirata dai romanisti neerlandesi e dal vedutismo

analitico di Gaspar van Wittel. Per la serie si conosce

la maggior parte dei disegni preparatori, eloquenti

del suo metodo, debitore del ricorso alla camera ottica

per impostare con facilità l’impianto spaziale: l’artista

delinea prima l’ossatura delle vedute, che condensa in

un telaio geometrico essenziale, superandolo quindi

nella traduzione incisoria con la vivacità del segno

d’acquaforte e l’efficace scansione luministica.

La dedica della raccolta al doge regnante si

spinge a dichiararle non solo il prodotto della “fatica

della mano”, ma piuttosto dell’azione dell’intelletto,

con un’operazione di lettura e interpretazione del

reale. Esplicitandone programmaticamente gli intenti

divulgativi delle “venete magnificenze”, essa ci rivela

quanto la serie rivestisse già agli occhi del suo autore

un chiaro interesse promozionale per il mercato artistico,

come confermerà da subito una fitta sequenza

di riedizioni, derivazioni o evidenti plagi: da quelli

delle Singolarità veneziane del frate Coronelli (1708-

09) alle copie commissionate dell’editore olandese

Pieter van der Aa per il quinto tomo del Thesaurum

antiquitatum et historiarum Italiæ, pubblicato nel

1722. E ancora, le acqueforti di Carlevarijs servirono

da fonte diretta alle molte vedute incise da Francesco

Zucchi per il Teatro delle fabbriche più cospicue in prospettiva,

sì pubbliche, che private della città di Venezia,

a illustrazione della guida del Forestiere illuminato –

edita a più riprese da Giambattista Albrizzi a partire

dal 1740, ma fino agli inizi dell’Ottocento – e vennero

quindi reincise, intorno al 1750, nell’attivissima bottega

di Martin Engelbrecht ad Augusta.

Preparata da un’attenta campagna pubblicitaria,

che annunciava nell’aprile 1715, nel manifesto

d’invito alla sottoscrizione, come fossero sempre

più “universalmente desiderate le stampe delle principali

Vedute, e delle più celebri Pitture dell’inclita

città di Venezia”, vide la luce nel 1717 il Gran Teatro

di Venezia, ovvero raccolta delle principali vedute e pitture

che in essa si contengono, un’ulteriore silloge in

cui Domenico Lovisa, libraio e stampatore a Rialto,

aveva raccolto per conto di un’accademia patrizia

promossa dal Cancellier grande Giovambattista

Nicolosi una serie d’immagini della città, ancora

apertamente ispirate al precedente di Carlevarijs.

La loro relativa obiettività documentaria lascia piuttosto

il campo, come già suggeriva il titolo, alla suggestione

del panorama urbano nella sua valenza scenografica,

presentando gli spazi comuni cittadini

come palcoscenici, resi vitali da presenze operose,

intente alle attività quotidiane, che popolano piazze,

campi, calli. Ne risulta una lettura del volto della città

come teatro – appunto – di un tessuto sociale vitalissimo,

attento insieme alla celebrazione di se stesso

e a offrirne l’immagine più consona al “consumo” dei

visitatori stranieri.

Col procedere del secolo, la produzione di

vedute a stampa muoverà però rapidamente dal

prevalente carattere repertoriale delle tipologie dei

monumenti cittadini alla loro rappresentazione in

sequenze visive più ordinate e coerenti. La serie di

FIG. 2

LUCA CARLEVARIJS

Veduta della Piazza di San

Marco verso l’Horologio,

in Fabbriche, e vedute di

Venezia [...]

riprese veneziane che l’architetto, teorico e prospettico

Antonio Visentini (1688-1782) trasse da dipinti

di Canaletto è senza dubbio una delle interpretazioni

più felici del vedutismo obiettivo settecentesco

in laguna; un singolare episodio di committenza

che prese forma, non a caso, sotto l’abile regia del

mercante inglese – e poi console a Venezia – Joseph

Smith. La sua valenza promozionale rispetto alle piccole

tele che Canaletto andava dipingendo per il console

risulta evidente almeno nelle prime quattordici

tavole, pubblicate nel 1735 sotto il titolo Prospectus

Magni Canalis Venetiarum, che venivano in pratica a

costituire un vero e proprio “catalogo di vendita” dei

dipinti, disponibili presso lo Smith nel suo palazzo ai

Santi Apostoli. Sul piano espressivo, peraltro, il loro

indubbio elemento di novità risulta soprattutto l’originale

messa in sequenza delle tavole di Visentini

secondo una lettura urbana continua, lungo un percorso

coerente che dal fulcro di Rialto si divide per

raggiungere separatamente gli estremi opposti del

Canal Grande. Ampliata a trentotto tavole nell’edizione

del 1742 per Giambattista Pasquali, dal titolo

di Urbis Venetiarum Prospectus Celebriores, la raccolta

venne così a rappresentare non solamente una brillantissima

idea promozionale che – tramite la riduzione

al bianco e nero e al piccolo formato – consentiva

di raggiungere un più vasto, crescente mercato,

ma pure un’ideale successione visiva dei luoghi più

caratteristici della città dallo straordinario fascino

panoramico, rendendola un ricercato souvenir per un

46 — IL PRIMO SETTECENTO — — LA VEDUTA INCISA: VENEZIA MOLTIPLICATA NELLE STAMPE — 47



FIG. 3

MICHELE MARIESCHI

Veduta dell’Arsenale,

in Magnificentiores

Selectioresque Urbis

Venetiarum Prospectus

FIG. 4

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

Le Porte del Dolo,

in VEDUTE Altre prese da

i Luoghi altre ideate da

ANTONIO CANAL [...]

pittorico l’esasperata apertura prospettica e la dilatazione

grandangolare conferiscono alle riprese urbane

una dimensione quasi irreale, che rasenta il capriccio.

Nelle sue espressioni più felici, tale produzione

si pone come un’ideale compromesso tra le riprese

urbane di apparente perfezione ottica di Canaletto e

quelle poeticamente evocative di Francesco Guardi.

Ma a improntarla fortemente dovette essere soprattutto

il tirocinio di Marieschi come pittore prospettico

e scenografo teatrale, del quale si conosce anche

un’attività di ideatore di apparati effimeri, che lo

porta in genere – sia nei dipinti che nelle loro traduzioni

a stampa – a esasperare l’ampiezza delle vedute

urbane, segnando di un tocco fantastico anche i luoghi

reali e più comuni dello specialissimo theatrum

urbis veneziano.

Più anomalo, nella sua genesi e nelle motivazioni,

risulta invece il corpus acquafortistico di

Canaletto (1697-1768), che pure, per felicità del linguaggio

tecnico – in corrispondenza della piena conquista

dell’interpretazione fenomenica del suo vedutismo

–, si pone come uno degli esiti grafici più alti di

tutto il secolo. Sollecitata forse dal console Smith con

la funzione di attirare commissioni per i dipinti del

suo “protetto” Canaletto, questa produzione sembra

da suddividere in due fasi cronologiche distinte,

pubblico di ricchi viaggiatori di ogni nazione.

Tra le nuove vedute Visentini inserì le traduzioni

di dipinti non più legati solamente al Canal

Grande ma anche agli altri principali luoghi pubblici

della città, a iniziare dal suo centro ideale: la piazza

di San Marco, rappresentata da molteplici punti di

vista. Un linguaggio tecnico perfezionato caratterizza

le nuove tavole con scarti stilistici così evidenti da

aver fatto ipotizzare scambi espressivi tra Visentini e

lo stesso Canaletto, stimolandone la veloce maturazione

come incisore, versante non segnato da alcun

apprendistato apparente.

Nel delicato confronto con gli originali pittorici

canalettiani, l’interpretazione grafica del Prospectus

non va letta però come una loro servile traduzione

figurativa in termini di mera trama lineare, quanto

un’autonoma rielaborazione in forza della sensibilità

di raffinato teorico e prospettico che Visentini poteva

vantare, che lo metteva in grado di padroneggiare

lo specifico linguaggio segnico dell’acquaforte, piegandolo

alla resa lucidissima della descrizione ottica.

Questo processo si applica anche alle dimensioni ben

più ridotte delle venti incisioni dell’Isolario, eseguite

tra il 1736 e il 1737 come vignette per l’edizione Della

Istoria d’Italia di Francesco Guicciardini, edita da

Giambattista Pasquali nel 1738 e corredata da tredici

capilettera di un alfabeto figurato che impaginano

con sorprendente efficacia, seppur miniaturalizzati,

scorci prospettici della città. La serie delle vedutine,

stampata separatamente da Teodoro Viero negli anni

Settanta e ancora da Battaggia nel primo Ottocento,

è originale invenzione di Visentini dall’estrema sintesi

grafica, che allarga al contesto delle isole della laguna

il puntuale sistema di visione dell’artista.

Un’educazione da scenografo e un gusto apertamente

sbilanciato per il rovinismo architettonico

caratterizzano ancora più apertamente la produzione

di Michele Marieschi (1710-1743), che sul versante

incisorio pubblicava, all’esordio di quei fatidici anni

Quaranta del secolo, i Magnificentiores Selectioresque

Urbis Venetiarum Prospectus, in cui tradusse poco

prima della propria morte precoce, nel 1743, gli esiti

migliori di una breve attività vedutistica. In queste

singolari trasposizioni grafiche del proprio catalogo

48 — IL PRIMO SETTECENTO — — LA VEDUTA INCISA: VENEZIA MOLTIPLICATA NELLE STAMPE — 49



verso la metà degli anni Quaranta la prima, entro cioè

la sua partenza per Londra, e un’ulteriore nel 1750-51.

Sulla direttrice di un duplice percorso – suggerito già

dal titolo eloquente di Vedute Altre prese da i luoghi

altre ideate, emblematica asserzione di una sostanziale

equivalenza tra i registri del reale e dell’immaginario

– si snoda un itinerario che oscilla tra la

veduta e il suo naturale polo dialettico: il capriccio,

con contaminazioni paesistiche di motivi padovani

e lagunari. La loro genesi inventiva, tuttavia, doveva

aver preso forma già intorno al 1740, se sono servite

di modello, come pare, alle acqueforti giovanili del

precoce nipote Bernardo Bellotto (1722-80), in un’attività

che sfocia in una serie di piccoli soggetti di paesaggio

dalla grafia prodigiosa. Si tratta di un gruppo di

otto piccole, delicate acqueforti con capricci e rovine,

che in alcuni casi guardano direttamente a simili soggetti

canalettiani, rivisitandoli però, con segno largo e

semplificato, all’insegna di un’elegiaca malinconia, e

in cui si fatica a cogliere i segni di quel nitore incisorio

che caratterizzerà invece i più tardi, limpidissimi

panorami eseguiti da Bellotto a Dresda e a Varsavia.

È verosimile dunque ipotizzare un comune percorso

nell’immediato entroterra veneziano, in cui zio e

nipote si dedicarono con impegno a riprese grafiche

dei luoghi topograficamente più interessanti. Queste,

tuttavia, non sembrano orientate alla fedele diffusione

degli aspetti monumentali della città, quanto

a una manipolazione del dato visuale oggettivo, rivelandoci

come il vedutismo canalettiano presupponga

semmai la conoscenza delle regole prospettiche al

solo fine di ingannare l’osservatore. Consapevoli della

natura “falsata” di queste riprese, caratterizzate dalla

contiguità concettuale tra paesaggio, capriccio – nelle

sue diverse accezioni – e veduta, possiamo apprezzarne

più liberamente il peculiare segno vibrante,

vitale, fluido come un tratto di penna, ma ancor più

di quello capace di una resa sensibilissima della luce.

Il corpus acquafortistico di Canaletto, qualunque

fossero le sue effettive origini e destinazioni,

resta quindi un capitolo a sé stante nel percorso

dell’incisione settecentesca veneziana. Esso sfuggirà

infatti, per la sua peculiare concezione, a quel

comune destino di riprese, contraffazioni e plagi che

subirono le stampe degli altri vedutisti-incisori del

tempo, salvo essere rivalutato più tardi, per la sua

FIG. 5

ANTONIO VISENTINI

Prospectus Magni Canalis

Venetiarum [...], frontespizio

1 _ Per un approfondimento

sull’argomento si rimanda a:

Disegni, incisioni e bozzetti

del Carlevarijs, catalogo della

mostra (Udine, Loggia del

Lionello; Roma, Gabinetto

Nazionale delle Stampe) a

cura di A. Rizzi, Udine 1963;

J. G. Links, Views of Venice by

Canaletto, Engraved by Antonio

Visentini, New York 1971; R.M.

Mason, Nuovo catalogo delle

incisioni “archeologiche” di

Gianfrancesco Costa, “Print

collector. Il conoscitore di

stampe”, 41, 1979, pp. 2-55;

F. Montecuccoli Degli Erri,

Antonio Visentini: la prima

edizione delle incisioni di vedute

di Venezia, “Print collector.

Il conoscitore di stampe”, 48,

1980, pp. 2-45; Le incisioni

di Michele Marieschi (1710-

1743) vedutista veneziano,

catalogo della mostra (Gorizia,

Museo Provinciale di Palazzo

Attems) a cura di D. Succi,

Gorizia 1981; P. Dreyer,

Vedute. Architektonisches

Capriccio und Landschaft in

der Venezianischen Graphik

des 18. Jahrhunderts, catalogo

della mostra (Berlino,

Kupferstichkabinett), Berlin

1985; R.M. Mason, Canaletto

imprimé: un nouveau catalogue

raisonné, “Arte Veneta”, 40,

1986, pp. 302-304; Canaletto &

Visentini, Venezia & Londra,

catalogo della mostra a cura

di D. Succi, Cittadella 1986;

D. Succi, Michiel Marieschi,

Catalogo ragionato dell’opera

incisa, Torino 1987; T. Colletta,

Vincenzo Coronelli, cosmografo

della Repubblica veneta e gli

“Atlanti di città” tra il XVII

e il XVIII secolo, in Libro e

incisione a Venezia e nel Veneto

nei secoli XVII e XVIII, Vicenza

1988, pp. 1-32; E. Concina, Il

Canal Grande nelle vedute del

“Prospectus Magni Canalis

Venetiarum” disegnate e incise

da Antonio Visentini dai dipinti

di Canaletto, Milano 1988; Une

Venise imaginaire. Architectures,

vues et scènes capricieuses dans

la gravure vénitienne du XVIIIe

siècle, catalogo della mostra

(Ginevra, Cabinet des Estampes)

a cura di R.M. Mason, Genève

1991; R. Bromberg, Canaletto’s

Etchings. Revised and Enlarged

Edition of the Catalogue

Raisonné, San Francisco 1993;

Venezia 1717 Venezia 1993

immagini a confronto, catalogo

della mostra (Venezia, Palazzo

Ducale) a cura di U. Franzoi, M.

G. Montessori, A. Bonannini,

Cinisello Balsamo 1993; G.

Marini, L’incisione nel Seicento

e nel Settecento, in Storia di

Venezia. Temi, II: L’Arte, a cura

di R. Pallucchini, Roma 1995,

pp. 521-555; Luca Carlevarijs.

Le fabriche, e Vedute di Venezia,

catalogo della mostra a cura

di I. Reale, Venezia 1995; J.

Schulz, Il Gran teatro di Venezia

di Domenico Lovisa, in Studi

in onore di Renato Cevese,

a cura di G. Beltramini, A.

Ghisetti Giavarina, P. Marini,

Vicenza 2000, pp. 443-457;

Tiepolo. Piazzetta. Novelli.

L’incanto del libro illustrato

nel Settecento veneto, catalogo

della mostra (Padova, Musei

Civici agli Eremitani, Palazzo

Zuckermann) a cura di V. C.

Donvito, D. Ton, Crocetta del

Montello 2012; D. Succi, La

Serenissima nello specchio di

rame. Splendore di una civiltà

figurativa del Settecento. L’opera

completa dei grandi maestri

veneti, Castelfranco Veneto

2013.

componente poetica e immaginaria, nel contesto di

quel nuovo modo di piegare la veduta alla rappresentazione

del mondo che furono le vedute ottiche, dove

pure alcune stampe di Canaletto finirono per essere

riusate – colorate e ritagliate – nella molteplice attività

editoriale della Calcografia Remondini.

Se è difficile valutare quale fosse la reale diffusione

e la “ricezione” contemporanea delle acqueforti

di Canaletto, certo è che il filone commerciale

di gran lunga prevalente per il resto del secolo rimase

quello rivolto al mercato delle vedute e della rappresentazione

topografica della città. A riprova, tuttavia,

di quanto fosse in realtà incerto un preciso confine

tra le categorie che – noi, oggi, per una praticità

molto convenzionale e riduttiva – pensiamo di poter

distinguere fra “stampa originale” e “stampa di traduzione”,

si pone l’attività di incisori come il bellunese

Giovambattista Brustolon (1712-1796), in grado

di rielaborare con visione autonoma i più fortunati

esempi grafici della generazione precedente. Nel 1763

veniva pubblicata dall’editore Ludovico Furlanetto la

serie del Prospectum Ædium, Viarumque insignorum

Urbis Venetiarum, in cui l’incisore bellunese riuniva

dodici vedute di Venezia riprese, in formato ingrandito,

tratte dalle traduzioni di Visentini dai dipinti

di Canaletto, a cui furono aggiunte in seguito altre

dieci tavole, da prototipi di Marieschi, Moretti e

ancora Canaletto. Lo stesso Furlanetto, a partire dal

marzo 1766, offriva al pubblico una serie di grandi

stampe commissionate a Brustolon raffiguranti le

Feste Ducali, ovvero le cerimonie e le celebrazioni

cui partecipavano i dogi veneziani al momento della

loro elezione, o in occasione delle diverse festività

nel corso dell’anno. Sappiamo che solamente quattro

acqueforti erano effettivamente completate nell’agosto

del 1768, e che l’intera serie non fu in realtà

portata a termine prima del 1773-75, ma il loro successo

è confermato dalle numerose edizioni che ne

vennero tratte, operazioni in cui gli editori Teodoro

Viero e quindi Giuseppe Battaggia si succedettero al

Furlanetto. Lo stile largamente descrittivo dei prototipi

di Canaletto, reso con tecnica raffinata nei dieci

grandi disegni acquerellati oggi noti, contribuisce alla

vivacità dei soggetti, e al loro facile appeal di accattivante

narrazione per immagini della peculiare storia

veneziana. Brustolon vi adotta una tecnica in grado di

rendere fedelmente i modelli originali, con effetti di

grande luminosità, ottenuti con un continuo variare

di linee e di incroci di segni, oltre a diverse morsure

della lastra con l’acido.

La fortuna di questa formula dovette offrire il

modello a una sequenza incalzante di iniziative consimili,

in cui peraltro si andava gradualmente esaurendo

l’iniziale forza d’impatto di quella “rivoluzione

visiva” inaugurata all’inizio del secolo proprio tramite

le stampe. Così il parmense Dionisio Valesi (1715-post

1781), dopo una diffusa attività di traduzione per il

mercato editoriale di Verona e la collaborazione a una

celebre serie di sei grandi vedute della città, promossa

da Francesco Masieri nel 1747, si dedicò a tradurre il

sensibilissimo vedutismo di Francesco Guardi in una

serie di soggetti veneziani, pubblicati nel 1778 dal

libraio Melchior Gabrieli. L’anno seguente usciva la

raccolta delle Ventiquattro Prospettive delle Isole della

laguna di Venezia, incise da Antonio Sandi (1733-1817),

autore pure di quattro grandi fogli con i Prospetti

marittimi, del 1781. Quanto questa produzione fosse

ormai compilativa, e guidata da dinamiche editoriali,

lo ribadisce anche l’attività di Marco Sebastiano

Giampiccoli, autore di oltre quaranta vedute veneziane

che ripercorrevano moduli e inquadrature di

tutto il vedutismo dei decenni precedenti. Di certo,

il proliferare di queste iniziative commerciali dà la

misura della tenace continuità di una domanda di

mercato ancora fiorente, se un incisore e mercante di

stampe come il bassanese Teodoro Viero (1740-1819)

poteva trascinare oltre gli estremi limiti del secolo, e

fin dopo la caduta della Repubblica, una fitta attività

di riedizioni di rami altrui, in cui era ancora largamente

preponderante il filone della veduta.

Come per la Roma settecentesca rappresentata

da Piranesi – peraltro anch’egli segnato da una

giovanile formazione veneziana – l’immagine di

Venezia veicolata dalle stampe si era andata sostituendo,

superandola e alterandola, alla visione diretta,

reale dei monumenti e dei siti della città. Anche se

questi, nella trasposizione incisoria, da spazi condivisi

del vivere collettivo erano ormai scaduti a “luoghi

comuni” della visione, banalizzati dal loro “consumo”

incondizionato [1] .

50 — IL PRIMO SETTECENTO —

— LA VEDUTA INCISA: VENEZIA MOLTIPLICATA NELLE STAMPE — 51



MARCELLA

ANSALDI

FIG. 1

MANIFATTURA VEZZI

Teiera, particolare.

Vicenza, collezione privata

1 _ F. Stazzi, Porcellane

dell’Eccellentissima Casa Vezzi

(1720-1727), Milano 1967. L.

Melegati, Giovanni Vezzi e le sue

porcellane, Milano 1998.

2 _ V. Toso, Un abate “libero

pensatore” nella Venezia di fine

Seicento, tesi di dottorato, tutor

Prof.ssa I. Crotti, Università Ca’

Foscari Venezia, a.a.2017-2018,

dspace.unive.it [dicembre 2018].

3 _ Stazzi 1967, p. 325.

IL PRIMO SETTECENTO

L’ECCELLENTISSIMA

CASA VEZZI

Veneziano nello spirito

anche se non di antichi natali, Giovanni Vezzi (1687-

1746) ben rappresenta i desideri, le velleità e le proiezioni

della nuova aristocrazia che anima la città

nel primo quarto del Settecento. È il periodo d’ascesa

sociale della famiglia Vezzi. Francesco, padre

di Giovanni, da giovane apprendista orafo udinese

diventa “zoialer et orese al Drago d’Oro” [1] . È uomo

d’affari e presto raggiunge una stimata posizione tra

i patrizi veneti e ottiene il titolo di conte. A seguito

della supplica dell’agosto 1716, gli eredi maschi dei

due fratelli Francesco e Giuseppe (Iseppo), nuovi aristocratici

di terzo grado, possono incontrare a San

Marco, presso la Porta della Carta, i membri dell’antica

aristocrazia di primo e secondo grado. In questo

modo la famiglia Vezzi costruisce il proprio inserimento

sociale e consolida le relazioni con altri blasonati.

I conflitti nel cuore del patriziato veneziano

sono forti, mai pacati dopo la spaccatura dell’inizio

del Seicento. Le intolleranze politiche sono aggravate

dall’inconsistenza del potere economico dei nobili

poveri di Vecchia Casa. I Vezzi possono invece ostentare

la propria ricchezza, fieri di appartenere a un’aristocrazia

superba, anche se talvolta riottosa.

Quando Francesco diventa padre, il primogenito

maschio, Giovanni, sarà accompagnato al fonte

battesimale dal N.H. Giancarlo Grimani.

Giovanni cresce nel palazzo nei pressi di Rialto,

in calle dei Muti, frequenta la neonata Congregazione

dei Filippini di Santa Maria, detta della Fava (1662) [2] ,

dove studia assieme ad altri nobili rampolli e stringe

conoscenza con l’abate Antonio Scinella Conti.

L’abate è un uomo di lettere e di scienze, scrive sonetti

e sermoni che, come ricorda Stazzi [3] , sottopone

al giudizio del giovane Giovanni. I rapporti epistolari

tra i due sembrano però interrompersi nel 1708,

quando l’abate è allontanato dalla Congregazione per

sospetto d’eresia. Ritroviamo Conti firmatario di una

missiva del 1727 indirizzata a Madame de Caylus,

in cui elogia le porcellane dell’Eccellentissima Casa

e fa richiesta del blasone della nobildonna, affinché

la manifattura veneziana possa inviarle un servizio

decorato con le armi Le Valois de Vilette de Mursay

de Caylus. Sfortunatamente la contessa morirà due

anni più tardi e la manifattura chiuderà.

Il 26 gennaio 1711 Giovanni sposa Angela

Merati, che lo sosterrà nell’impresa che da lì a qualche

anno segnerà la vita di Giovanni.

Il giovane sposo, incoraggiato dal padre, si

lancia subito nella sfida in voga nel primo decennio

del Settecento: scoprire il segreto della produzione

della porcellana. In lizza ci sono i rappresentanti

delle più importanti corti d’Europa. Del mistero

della porcellana se ne parla nei salotti e tra i mercanti,

la brama di possedere un oggetto tanto raro

quanto lucente è contagiosa. La porcellana, importata

dall’Oriente, è eccelsa per leggerezza e qualità.

Da alcuni decenni abbellisce le prestigiose residenze

europee e il repertorio decorativo orientale si plasma

per incontrare il gusto dei nuovi acquirenti occidentali.

Vasi, tazzine, scatole e teiere prodotti per l’esportazione

giungono in Europa e a Venezia. Quando

nel 1710 l’Elettore di Sassonia annuncia dal proprio

castello di Alberchtsburg, presso Meissen, che è stata

scoperta la formula della porcellana, l’aristocrazia

— L’ECCELLENTISSIMA CASA VEZZI — 53



tutta si appassiona. Il segreto viene conservato per

alcuni anni entro le mura della neonata fabbrica, ma

le maestranze impiegate nella manifattura capiscono

di essere preziosi strumenti d’informazione e presto

saranno corteggiati dai concorrenti di Augusto

il Forte. A Vienna Claudius Innocentius Du Paquier,

consigliere imperiale di Carlo VI d’Asburgo, riesce

a organizzare una manifattura di porcellane appena

nove anni dopo Meissen. A Venezia, Giovanni Vezzi,

comincia i propri esperimenti alla Giudecca, probabilmente

già tra il 1718 e il 1719, affiancato da un tecnico

che è giunto in città per questo scopo.

È ancora Stazzi che riporta i Commemoriali

di Pietro Gradenigo : “…Cristofalo Ongaro (Hunger)

tedesco fuggito dà Dresda andò a Vienna, ove fu posto

prigione, dove pure esisteva Gio: Maria Santinelli

veneziano, e assieme a lui fatta stretta amicizia scapò,

e si portò a Venezia circa il 1716” [4] .

Il primo documento costitutivo a noi pervenuto,

che attesta l’esistenza della manifattura Vezzi,

è datato 20 dicembre 1721, a firma dei soci Giovanni

Vezzi, Giovanni Marco Norbis, Cristoforo Corrado

Hunger e Giovanni Maria Santinelli. Come già fece

notare Stazzi, i cui studi risultano ancor oggi fondamentali,

l’Eccellentissima Casa Vezzi si caratterizza

come un’impresa familiare. Il finanziatore è

Giovanni, ma i capitali sono controllati dal padre

Francesco; altri parenti diventeranno soci dell’impresa

nel 1724, l’anno di svolta, quando tra i nuovi

finanziatori troviamo menzionati i cugini di Udine,

Antonio e Francesco Zanoni.

Nell’accordo del 1720 con Giovanni Vezzi,

Hunger entra in società senza capitali, ma mette a

disposizione le conoscenze nella produzione delle

porcellane, mentre Santinelli coordina la nascente

fabbrica e probabilmente si occupa della materia

prima, il caolino sassone. I trafficanti, contrabbandieri

e importatori clandestini, non costituiscono una

novità per la Repubblica, le “liste” dove sono presenti

ambasciate e ambasciatori, come la lista di Spagna a

Cannaregio, sono luoghi dove si riescono a sdoganare

merci non proprio legali, come il caolino proveniente

da Shneeberg, in Sassonia [5] .

Produrre porcellana richiede competenze,

tempo e strutture, bisogna sapere costruire un

forno, diverso da quelli che si usano a Murano,

bisogna controllare la temperatura per la cottura

del biscotto a milleduecento gradi e saper regolare

le temperature progressivamente più basse necessarie

alla fusione delle vernici e dei colori. Hunger

è a conoscenza del processo di produzione, visto a

Meissen e a Vienna, ma è pur sempre solo un decoratore.

Giovanni però crede strenuamente all’impresa,

che pure gli costa in un biennio oltre trentaduemila

ducati, messi a disposizione dal padre. Finalmente

dall’unico forno, costruito probabilmente alla

Giudecca, escono i primi oggetti finiti e verniciati a

firma Vezzi. La prima produzione sarà stata caratterizzata

da oggetti di piccole dimensioni, come le tazzine

da tè in monocromia blu e i piattini. Da subito

compare il marchio “Ven.a” con lettera quadra, in blu

sottovernice [6] , e, generalmente incise due iniziali

nell’impasto. Non è una novità l’uso di questo tipo

di sigle che ogni manifattura utilizza a proprio modo

per identificare il periodo, l’esecutore o il lotto. Nel

caso di Vezzi troviamo la “M” come lettera ricorrente

in molti pezzi del primo periodo, presente in

tazze da tè monocrome e in alcune teiere globulari e

ottagonali con decoro semplificato in bi o tricromia.

Le lettere “S”, “B”, “ F” sono pure ricorrenti nello

stesso periodo. È plausibile che tali sigle riguardino

l’impasto e/o la vernice, considerando che il primo

costituisce un capitale di produzione e la formula

per il rivestimento varia. La marca Vezzi svolazzante

in verde o rosso, connota oggetti con decorazione

floreale d’ispirazione orientale, come la caffettiera

e il porta tè conservati a Parigi, al Musée des

Arts Décoratifs. La stessa firma compare su oggetti

simili per tipologia decorativa: la tazza con pappagalli

del Museo Civico di Torino, le quattro tazze a

campana di Ca’ Rezzonico, la teiera globulare a fiori

semplici in bicromia rossa e verde e altri ancora [7] .

Nel mondo così ancora poco indagato dell’apparato

decorativo in uso nella manifattura e con le scarse

informazioni a disposizione per l’identificazione dei

dipendenti, possiamo però ipotizzare che questo tipo

di marchio possa corrispondere alla firma del decoratore,

specializzato in questo repertorio.

La seconda stagione della manifattura, dopo il

1724, è la più feconda per diversità di modelli e ricchezza

cromatica dei decori, nonché per abilità pittorica.

Tuttavia è anche il momento del licenziamento

4 _ Stazzi 1967, p. 37.

5 _ M. Infelise, Conflitti tra

ambasciate a Venezia alla fine

del ’600, “Mèlange de l’Ecole

françoise de Rome. Italie et Mediteranée

Mefrim”, 119, 2007, 1,

pp. 67-75.

6 _ A. Alverà Bortolotto,

Storia della ceramica a Venezia

dagli albori alla fine della

Repubblica, Firenze 1981.

7 _ Le porcellane di Marino

Nani Mocenigo, catalogo della

mostra (Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento veneziano)

a cura di M. Ansaldi, A.

Craievich, Verona 2014.

FIG. 2

MANIFATTURA VEZZI

Teiera, particolare.

Vicenza, collezione privata

8 _ P. Pastres, Lettere da

Dresda. Note sulla Sassonia

attraverso gli scritti di viaggio di

Francesco Algarotti e Giovanni

Ludovico Bianconi, in Arte per

i Re, Capolavori del ’700 dalla

Galleria Statale di Dresda,

catalogo della mostra (Udine,

chiesa di San Francesco)

a cura di H. Marx, Udine 2004,

pp. 75-85.

9 _ E. Dal Carlo, La

porcellana veneziana vero

“antidoto contro la decadenza”:

Vezzi, Hewelke, Cozzi a Ca’

Rezzonico, “Ceramica Antica”,

VIII, 1998, pp. 18-33.

10 _ F. Morena, Cineseria.

Evoluzioni del gusto per

l’Oriente in Italia dal XIV al

XIX secolo, Firenze 2009, pp.

143-145.

di Hunger, della rinuncia di Francesco alla partecipazione

finanziaria della società, della riorganizzazione

della manifattura a Cannaregio e infine dei nuovi

debiti e nuovi finanziatori.

Proprio in questi anni la manifattura ha raggiunto

livelli di tutto rispetto, paragonabili per qualità

a Meissen e, ancor più, a Du Paquier [8] . Le teiere

a rilievo, anche se prive di decoro, competono per

lucentezza ed eleganza agli oggetti coevi in argento. Il

beccuccio a mascherone, che ricorda soluzioni adottate

dalla manifattura di Meissen, è reso da Vezzi in

modo originale e con una resa plastica molto efficace.

I beccucci, le anse, le forme sono sempre declinati

in modo eclettico e geniale. Tra il 1724 e il 1726 la

manifattura riesce a controllare bene la produzione

e la fabbrica è ampia, articolata in più zone di produzione:

c’è la zona di cottura, dove probabilmente

ci sono due forni, i depositi per materia prima, quelli

per il semilavorato e la stanza dei pittori. La prima

manifattura italiana può accontentare le richieste

della nobiltà e i pittori possono riprodurre gli stemmi

delle case più illustri: i manufatti con soggetto araldico

sono ben noti agli studiosi e di grande aiuto per

la datazione degli oggetti [9] .

Impossibile non menzionare anche la coppia

di tazze in monocromo rosso lumeggiate in oro

di Ca’ Rezzonico. Un raffronto necessario è rappresentato

dalle somiglianze del repertorio floreale dei

famosissimi vasi già Rava-Fenton, con la coppa decorata

in monocromia porpora appartenente alla collezione

Lokar. Questi esempi di maestria esecutiva

suggeriscono l’ipotesi che Vezzi si sia rivolto a un

certo punto a degli Hausmaler, i pittori a domicilio.

Venezia ha abili decoratori di vetri, lattimo, maioliche,

lacche e stucchi. Iseppo Tosello, per esempio, è

un laccatore abile in cineserie e risulta essere in contatto

con Giovanni Vezzi [10] .

Altri maestri specializzati in battaglie, tema

popolare ben noto, possono aver contribuito occasionalmente

alla storia della manifattura. Forse

anche negli anni successivi al 1727. Ciò spiegherebbe

la scarsa omogeneità pittorica tra oggetti della

54 — IL PRIMO SETTECENTO — — L’ECCELLENTISSIMA CASA VEZZI — 55



manifattura e la difficoltà di individuare stili esecutivi

chiari. Consideriamo che ci troviamo nel momento

di crisi delle confraternite dei mestieri: è appena iniziato

un lento processo di riforma delle Arti che dopo

l’enunciazione di principio del 1719, si paralizza. La

conseguenza è una caotica deregolamentazione dei

mestieri artigiani, almeno fino al 1751, quando nasce

un’apposita magistratura, l’Inquisitorato sopra la regolazione

delle Arti. Sono anni in cui aumenta il lavoro

“nero” e il passaggio di maestranze tra le arti è assai

diffusa. Pochi sono i nomi dei collaboratori di Vezzi:

Lodovico Ortolani, che firma il piatto conservato al

British Museum, il famoso Duramano, tanto citato

quanto ignoto, e il pittore che si firma con le iniziale

A.G della teiera con decoro “a vascello” entro riserva

di Collezione Lokar [11] . Recentemente è stato pubblicato

un inventario della manifattura risalente al 1724,

ossia tre anni prima che fossero distrutti i forni [12] .

Si evince che nei depositi del Casin dei Spiriti, che si

affaccia sulla laguna a Cannaregio, ci sarebbero stati

oltre settantaquattromila pezzi, di cui quasi cinquantatremila

crudi.

È credibile che in fase di produzione ci fosse

almeno un trenta per cento di scarto di cottura, o

forse più, secondo le testimonianze rilasciate dai due

sovrintendenti alla produzione Giovanni Chioldelli e

Bortolo Bernardi. È inoltre documentata la giacenza

a magazzino di trentadue pastoni di caolino. Quanto

riesce a produrre Vezzi con questa quantità di materia

prima? Abbiamo due testimoni dell’epoca che

concordano nella difficoltà di approvvigionamento

del caolino: uno è Hunger, che durante il processo

subito in patria esprime la certezza che per far terminare

la concorrenza in porcellana sia sufficiente

inasprire i controlli sull’esportazione del caolino;

l’altro è Cozzi, che pure non è mai stato in diretto

contatto con Vezzi. Certo è che fino al 1724 i forni

dell’Eccellentissima Casa non erano in grado di produrre

parecchi pezzi senza difetti per ogni infornata.

È quindi plausibile che i pezzi bianchi sopravvissuti

alla distruzione della fabbrica siano solo i

pezzi verniciati, e non i grezzi. È anche probabile

che solo gli oggetti verniciati siano stati occasionalmente

venduti dopo il 1727 ad altri pittori e cotti

successivamente in forni da specchi o da vetro riadattati

allo scopo. È difficile invece immaginare che

a Venezia siano sopravvissuti per anni molti oggetti

crudi e da verniciare. Le difficoltà di trasporto, l’umidità,

i problemi di stoccaggio, hanno fatto sì che

in città si concludesse una stagione, per troppo poco

tempo gloriosa.

Per Giovanni Vezzi i guai non finiscono con

l’imposizione paterna di “atterrar la fabbrica”: sarà

costretto a contrarre ancora molti debiti, inoltre è

gravemente malato e tra il 1731 e il 1735 si aggrava il

diabete. Vive ancora a palazzo ma nel 1737, a seguito

dell’incendio che ne devasta una parte, chiede agli

Albrizzi di concedergli in affitto una porzione di abitazione,

giusto il tempo necessario per restaurare il

palazzo di San Cassian [13] . Giovanni ha una lunga

lista di debitori e si reca in Ghetto, dove ottiene nel

1738 un prestito dal gestore del banco, Moisè David

q. Salomon, per sistemare il palazzo.

Quando nel 1746 morirà, la porcellana in

Europa sta vivendo il proprio momento di splendore.

Il marchese Carlo Ginori, che ha tenuto qualche rapporto

epistolare con Giovanni, ha già fondato la propria

manifattura e a Capodimonte da tre anni è attiva

la manifattura voluta dal re Carlo di Borbone e da

Maria Amalia di Sassonia.

Venezia dovrà aspettare il 1761 e l’arrivo di

una coppia di coniugi sassoni in fuga dalla Guerra dei

sette anni, gli Hewelke, per vedere la rinascita della

porcellana in città [14] .

11 _ L. Melegati, La

produzione di Giovanni

Vezzi nella collezione Lokar /

Italian Porcelainin the Lokar

Collection, catalogo della

mostra (Trieste, Museo d’arte

orientale) a cura di A. d’Agliano,

Cinisello Balsamo 2013, pp.

18-53.

12 _ N. Stringa, Un inventario

della manifattura Vezzi del 1724,

“Arte Veneta”, 64, 2007, pp.

262-276.

13 _ Sulla decorazione del

palazzo a San Cassiano, voluta

da Francesco Vezzi, si veda G.

Pavanello, Antonio Pellegrini

frescante per Francesco Vezzi

(con una nota su Giovanni

Battista Crosato), in Venezia

Settecento. Studi in memoria

di Alessandro Bettagno, a cura

di B.A. Kowalczyk, Cinisello

Balsamo 2015, pp. 157-159.

14 _ C. Maritano, Emanuele

d’Azeglio e le ricerche sulla

porcellana veneta, “Palazzo

Madama, studi e notizie”, 1,

2010, pp. 52-79.

FIG. 3

MANIFATTURA VEZZI

Lattiera, particolare.

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo

del Settecento veneziano

56 — IL PRIMO SETTECENTO — — L’ECCELLENTISSIMA CASA VEZZI — 57



CAT.II.01

SEBASTIANO RICCI

La continenza di Scipione

Olio su tela, 114,3×137,2 cm

Londra, The Royal Collection /

HM Queen Elizabeth II, inv. RCIN 404981

Bibliografia _ Daniels 1976, pp. 47-48, cat. 147; Levey

1991, pp. 148-149; Pignatti, in Disegni antichi 1996,

p. 190; Scarpa 2006, p. 226, cat. 234.

58 — IL PRIMO SETTECENTO —



CAT.II.02

SEBASTIANO RICCI

Venere e Adone

Olio su tela, 77,5×45,5 cm

Orléans, Musée des Beaux-Arts, inv. 71-8-1

Bibliografia _ Rosenberg, in Venise au dix-huitième

siècle 1971, pp. 140-142, cat. 215; Daniels 1976, p. 110,

cat. 282; Rizzi, in Sebastiano Ricci 1989, p. 104, cat.

26; Magani, in Splendori Settecento 1995, p. 82, cat. 2;

Scarpa 2006, p. 260, cat. 335, fig. 535; Chiarini,

in Sebastiano Ricci 2010, p. 66, cat. 11, con bibliografia

precedente; Toutain-Quittelier, in Éblouissante Venise

2018, p. 247, cat. 104.

CAT.II.03

ANTONIO PELLEGRINI

San Sebastiano e le pie donne

Olio su tela, 228×169 cm

Monaco di Baviera, Bayerische

Staatsgemäldesammlungen, Alte Pinakothek,

inv. 10376

Bibliografia _ Zampetti 1969, n. 29; Knox 1995, pp.

102, 265, cat. P510, fig. 81; Pallucchini 1995, I, p. 80,

fig. 98; Bettagno, in Antonio Pellegrini 1999, p. 152, cat.

24, con bibliografia precedente; Loisel, in Éblouissante

Venise 2018, pp. 169, 247-248, cat. 116.

60 — IL PRIMO SETTECENTO —



CAT.II.04

ANTONIO PELLEGRINI

Il Re indiano Poro condotto davanti ad Alessandro

Olio su tela, 73,5×63 cm

Ravenna, MAR - Museo d’Arte della città di Ravenna,

inv. QA0065

Bibliografia _ Zampetti 1969, p. 80; Steingräber 1987,

n. 6; Del Torre, in Splendori Settecento 1995, p. 118, cat.

12; Knox 1995, p. 254, cat. P367; Pallucchini 1995, I,

p. 70; Bettagno, in Antonio Pellegrini 1999, p. 130, cat.

12, con bibliografia precedente; Loisel, in Éblouissante

Venise 2018, p. 246, cat. 83.

CAT.II.05

JACOPO AMIGONI

Pigmalione e Galatea

Olio su tela, 124×95 cm

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Scarpa Sonino 1994, pp. 60-61,

cat. 122, fig. 30.

62 — IL PRIMO SETTECENTO —



CAT.II.06

MARCO RICCI

Concerto da camera IV

Olio su tela, 46,4×57,8 cm

New Haven, Yale Center for British Art,

Paul Mellon Collection, inv. B1981.55.524

Bibliografia _ Blunt, Croft Murray 1957, pp. 143-144,

fig. 7; White 1960, pp. 79-90; Scarpa Sonino 1991,

p. 128, cat. 67, fig. 70; Scarpa, in Tiepolo 2004, cat. 1;

Loisel, in Éblouissante Venise 2018, p. 246, cat. 86.

CAT.II.07

MARCO RICCI

Concerto da camera V

Olio su tela, 48,3×55,9 cm

New Haven, Yale Center for British Art, Paul Mellon

Collection, inv. B1981.55.523

Bibliografia _ Blunt, Croft Murray 1957, pp. 143-145;

White 1960, pp. 79-90, fig. 1; Scarpa Sonino 1991,

cat. 69, fig. 61, con con bibliografia precedente; Loisel,

in Éblouissante Venise 2018, p. 246, cat. 87.

64 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 65



CAT.II.09

MARCO RICCI

Paesaggio in tempesta

Tempera su pelle di capretto, 45×29 cm

Venezia, collezione privata

Bibliografia _ Scarpa Sonino 1991, p. 156, cat. T84,

fig. 218.

CAT.II.08

MARCO RICCI

Paesaggio con bestiame e una donna che parla

a un uomo seduto

Olio su tela, 73,7×125 cm

Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth II,

inv. RCIN 401005

Bibliografia _ Scarpa Sonino 1991, pp. 138-139,

cat. 115; Levey 1991, pp. 96-97, cat. 625; Giacometti,

in The Glory 1994, pp. 102, 488, cat. 28; Whitaker, in

Canaletto 2017, pp. 98-99, cat. 35.

66 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 67



CAT.II.10

ROSALBA CARRIERA

Ritratto di gentiluomo in rosso

Pastello su carta, 67×51 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. I, n. 1434

Bibliografia _ Pignatti 1960, p. 53; Magrini, in

Splendori Settecento 1995, p. 134, cat. 21; Pedrocco, in

’700 Veneziano 1998, pp. 25, 147, cat. 11; Sani 2007, p.

338, cat. 383.

CAT.II.11

ROSALBA CARRIERA

Ritratto di George primo marchese di Townshend

Pastello su carta, 57×44 cm

Milano, FAI Fondo Ambiente Italiano, villa Necchi

Campiglio, collezione Alighiero ed Emilietta

de’ Micheli

Bibliografia _ Moore, in Norfolk and the Grand Tour

1985, p. 56; Ingamelles 1997, p. 948; Ricatti, in L’Anima

e il Volto 1998, p. 308; Jeffares 2006, p. 99; Sani 2007,

p. 357, cat. 411; Whistler, in Rosalba Carriera 2007, p.

150, cat. 36; Loisel, in Éblouissante Venise 2018, p. 246,

cat. 82.

68 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 69



CAT.II.12

LUCA CARLEVARIJS

Il Molo verso la Riva degli Schiavoni

Olio su tela, 75×118 cm

Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica di

Palazzo Corsini

Bibliografia _ Rizzi 1967, p. 94; Zampetti, in

I Vedutisti 1967, p. 48, cat. 23; Alloisi, in Canaletto

2008, pp. 244-245, cat. 6; Succi 2015, pp. 168-169, cat.

27, con bibliografia precedente.

70 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 71



CAT.II.13

LUCA CARLEVARIJS

Il Molo verso la Basilica della Salute

Olio su tela, 75×118 cm

Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo

Corsini

Bibliografia _ Rizzi 1967, p. 94; Zampetti, in

I Vedutisti 1967, p. 48, cat. 24; Alloisi, in Canaletto

2008, pp. 244-245, cat. 7; Succi 2015, pp. 168-169, cat.

26, con bibliografia precedente.

72 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 73



CAT.II.14

LUCA CARLEVARIJS

Galera

Matita, penna a inchiostro bruno, pennello seppia,

biacca, 191×283 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e

delle stampe, inv. Cl. III, n. 5945

Bibliografia _ Pedrocco, in Disegni antichi 1980, p.

98, cat. 75; Luca Carlevarijs 2008, p. 17, cat. 10.

CAT.II.16

SEBASTIANO RICCI

La continenza di Scipione

Penna inchiostro grigio e pennello, 172×233 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 1774

Bibliografia _ Rizzi, in Sebastiano Ricci 1975, p. 79,

cat. 24; Pignatti, in Disegni 1985, pp. 81-82, cat. 23;

Scarpa 2006, p. 226, cat. 234, fig. 358.

CAT.II.17

SEBASTIANO RICCI

CAT.II.15

LUCA CARLEVARIJS

Burchio e rascona

Matita, penna a inchiostro bruno, biacca,

200×190 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e

delle stampe, inv. Cl. III, n. 5949

Battesimo di Cristo

Gesso nero, penna e inchiostro bruno, acquerello,

228×342 mm

Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts

graphiques, inv. 5322

Bibliografia _ Bacou, in Venise au dix-huitième siècle

1971, n. 221; Rizzi, in Sebastiano Ricci 1975, p. 138,

cat. 83; Loisel, in Venise, l’art 2006, cat. 49.

Bibliografia _ Pedrocco, in Disegni antichi 1980,

p. 100, cat. 79; Luca Carlevarijs 2008, p. 18, cat. 13.

74 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 75



CAT.II.18

SEBASTIANO RICCI

Studio di quattro figure femmnili, un uomo e un

bambino

Sanguigna, penna e inchiostro bruno, acquerello,

291×202 mm

Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts

graphiques, inv. 14271

Bibliografia _ Rizzi, in Sebastiano Ricci 1975, p. 121,

cat. 69; Loisel, in Venise, l’art 2006, cat. 48.

CAT.II.19

ANTONIO PELLEGRINI

Studio per decorazione murale

Matita nera, penna, inchiostro bruno, acquerelli

colorati, 260×325 mm

Parigi, École nationale supérieure des Beaux-Arts

(ENSBA), inv. 0.1381

Bibliografia _ Brugerolles, Guillet, in Disegni veneti

1988, p. 49, cat. 44; Brugerolles, Guillet, in Les dessins

1990, p. 92, cat. 44.

— CATALOGO DELLE OPERE — 77



CAT.II.20

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 16 cm

Marca: A C, M sul coperchio incise

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Stazzi 1967, tav. XLVIII;

d’Agliano, in Porcellane 2013, p. 24.

CAT.II.21

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 11,6 cm

Marca: Ve=a in rosso, F e J più segno cocleare incisi

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013, p. 34.

CAT.II.23

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 15,5 cm

Marca: Ven:a in rosso, C P incise

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Melegati 1998, p. 51; Galbusera, in

La porcellana di Venezia 1998, p. 15; d’Agliano, in

Porcellane 2013, p. 40.

CAT.II.24

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Portatè

Porcellana, h 17,4 cm

Marca: Vena:a in rosso, L O incise

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Melegati 1998, p. 53; d’Agliano,

in Porcellane 2013, p. 42.

CAT.II.22

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Tazza a campana con piattino Ottoboni

Porcellana, tazza h 8 cm; piattino ø 13 cm

Marca: Ven.a in rosso, M incisa sul piattino

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013,

pp. 38-39.

— CATALOGO DELLE OPERE — 79



CAT.II.25

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 12,5 cm

Marca: Ven.a A.G in porpora, sul coperchio W incisa

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 167-170;

d’Agliano, in Porcellane 2013, p. 46.

CAT.II.26

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Scodella

Porcellana, h 8,5 cm, ø 17,5 cm

Marca: Ven:a in porpora

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013, p. 47.

CAT.II.27

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 16 cm, ø 18 cm

Marca: N F incise

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 88-89.

CAT.II.28

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 16 cm, ø 20,5 cm

Marca: C. F incise

Collezione privata

CAT.II.29

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 16 cm, ø 18,3 cm

Marca: J più segno cocleare incisi

Collezione privata

Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 72-73.

CAT.II.30

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 10 cm

Marca: N A incise

Vicenza, collezione privata

CAT.II.31

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 9,5 cm

Marca: Ven:a in verde, corsivo,

M S incise

Vicenza, collezione privata

CAT.II.32

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 12 cm

Marca: Ven:a in rosso, M incisa

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Stazzi 1967, tav. XXX; Melegati 1998,

pp. 114-115.

80 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 81



CAT.II.33

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 15 cm

Marca: Ven.a in bruno, A F incise

Vicenza, collezione privata

CAT.II.35

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Tazza a campana e piattino

Porcellana, tazza h 7,45 cm, ø 6,6 cm; piattino ø 13 cm

Marca: V. a in argento e S inciso sulla tazza

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Stazzi 1967, tavv. LVII-LVIII.

CAT.II.36

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Tazza a campana e piattino

Porcellana, tazza h 7,8 cm, ø 6,7 cm;

piattino ø 12,6 cm

Marca: Marca: Ven:a in rosso e X incisa

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 180-183.

CAT.II.34

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Caffettiera

Porcellana, h 16 cm

Marca: V=A in porpora, J e segno cocleare incisi

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Melegati, in Porcellane 2013, p. 21.

CAT.II.37

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Teiera

Porcellana, h 7,5 cm

Marca: Ven:a in bruno, C incisa

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 100-101.

82 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 83



CAT.II.38

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

CAT.II.40

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Piatto

Porcellana, ø 24 cm

Marca: A N incise

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 208-209.

Teiera

Porcellana, h 12 cm

Marca: Ven:a in rosso

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, n. 297

Bibliografia _ Stazzi 1967, tav.XXVII; Mottola

Molfino 1976; Melegati 1998, pp. 108-109.

CAT.II.39

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Tazze a campana (due esemplari)

Porcellana, h 7,5 cm

Marca: Ven:a in blu sottovernice, corsivo, N incisa sul

n. 22, C sul n. 23

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, nn. 22, 23

Bibliografia _ Barbantini 1936, cat. VIII; Santangelo

1961, p. 61, fig. 28; Stazzi 1967, tav. XX; Mottola

Molfino 1976, fig. 58; Dal Carlo, in Bottega 1991, p.

135; Galbusera, in La porcellana di Venezia 1998, p. 29;

Munarini, in Arte 2002, cat. 35.

CAT.II.41 (SINISTRA)

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Lattiera

Porcellana, 7 cm

Marca: Ven:a in verde, corsivo

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, n. 805/1

Bibliografia _ Stazzi 1967, tavv. LXX-LXXI; Mottola

Molfino 1976; Melegati 1998, pp. 128-129.

CAT.II.41 (DESTRA)

VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI

Lattiera

Porcellana, h 7 cm

Marca: Ven:a in rosso, corsivo, M incisa

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, n. 805/2

Bibliografia _ Stazzi 1967, tavv. LXVIII-LXIX;

Mottola Molfino 1976; Melegati 1998, pp. 128-129.

84 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 85



ROVENTI

GIOVINEZZE



CHARLES

BEDDINGTON

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

La chiesa e la scuola della

Carità dal laboratorio

dei marmi di San Vidal,

particolare.

Londra, The National Gallery

1 _ W.G. Constable, Canaletto:

Giovanni Antonio Canal

1697-1768, London 1962, I, pls.

130-132; II, cat. 713.

2 _ La data venne annotata

per la prima volta da Hugo

Chapman nel catalogo della

mostra Canaletto, prima

maniera (Venezia, Fondazione

Giorgio Cini), Milano 2001,

pp. 50-51, no. 3. Nella mostra

vennero inoltre inclusi altri

dodici fogli, catt. 1-2 e 4-13,

tutti illustrati a colori.

3 _ A.M. Zanetti, Della pittura

veneziana e delle opere pubbliche

de’ veneziani maestri libri V,

Venezia 1771, p. 463.

ROVENTI

GIOVINEZZE

CANALETTO

Nel luglio del 1725 il pittore

veronese Alessandro Marchesini (1663-1738)

scrisse al collezionista lucchese Stefano Conti invitandolo

a non commissionare più dipinti a Luca Carlevarijs,

ma di rivolgersi al “signor Antonio Canale, che fa in

questo paese stodire universalmente ognuno che vede

le sue opere, che consiste sul ordine di Carlevari ma vi

si vede lucer entro il sole”. Queste parole esprimono in

maniera eloquente il modo in cui tutto, nell’opera di

Canaletto, fosse già visto in questa data in termini di

attenzione alla luce – tanto da far apparire l’opera di

Luca Carlevarijs lineare e piatta – e come, a questa giovane

età, la risposta incredibilmente intuitiva dell’artista

ai fenomeni naturali portasse l’arte della veduta

a un nuovo livello. Lo sviluppo costante dell’arte di

Canaletto permette di datare con accuratezza i suoi

lavori, nonostante lo scarso appiglio fornito dai cambiamenti

topografici e le poche opere datate con certezza.

Una di queste appartiene alle ventitré vedute di

Roma eseguite dal pittore nel 1719-20, a inizio carriera,

ventidue delle quali ora si trovano al British Museum

e una a Darmstadt [1] . Datata “AUGUSTO X 1720”, è la

sua prima opera con una certa collocazione cronologica

[2] . I dipinti rispecchiano alla perfezione la storia

raccontata da Pietro Guarienti, Pierre-Jean Mariette e

Antonio Maria Zanetti il Giovane, i tre principali biografi

settecenteschi dell’artista: ovvero che fu a Roma,

mentre assisteva il padre nella produzione di materiale

scenico, che la sua carriera di vedutista ebbe inizio.

Seguendo le parole di Zanetti: “Nei primi anni seguitò

col padre quell’esercizio, utile per sciogliere la mano e

svegliare la fantasia della gioventù e per obbligarla ad

operar con prontezza; e fece bellissimi disegni per gli

scenari […]. Lasciato poi il teatro, annoiato dalla indiscretezza

de’ poeti drammatici […] e ciò fu circa l’anno

1719, in cui scommunicò, così dicea egli sollennemente,

il teatro […]. passò giovinetto a Roma, e tutto

si diede a dipingere vedute dal naturale” [3] .

Sarebbe interessante credere che questi primi

passi come vedutista possano essere stati direttamente

ispirati da Gaspare Vanvitelli, l’artista olandese che si

era stabilito a Roma negli anni Settanta del Seicento

e che è a giusto titolo considerato il padre della

scuola italiana del vedutismo settecentesco. Ci sono

prove che Canaletto conoscesse le composizioni di

Vanvitelli, il che suggerisce un loro incontro a Roma

in quello stesso periodo. Poiché non vi è alcuna testimonianza

che il padre di Canaletto, Bernardo Canal

(1673-1744), avesse eseguito vedute prima di questa

data, né che avesse impartito al figlio una formazione

che esulasse dalla pittura di scenografie teatrali, vi

è ampio spazio di speculazione circa altre influenze.

L’esempio di Vanvitelli nell’intraprendere una carriera

come vedutista potrebbe essere stata un’ispirazione,

ma sotto altri aspetti l’approccio di Canaletto è molto

diverso da quello dell’artista più anziano. In primo

luogo, la maggior parte dei suoi dipinti raffigurano

la Roma antica e non quella moderna, che era il soggetto

preferito di Vanvitelli. Gli stessi quadri sono di

dimensioni ridotte e molto dettagliati, come se fossero

destinati alla stampa: ventidue di essi, in effetti, vennero

tradotti in incisioni solo molto più tardi, verso il

1780. Canaletto doveva conoscere i libri di stampe del

Seicento, come quelli di Aloisio Giovannoli (dell’antica

Roma), Lieven Cruyl, Alessandro Specchi e Giovanni

Battista Falda (della Roma “moderna”); non a caso uno

dei suoi dipinti è una copia diretta di un’incisione del

— CANALETTO— 89



FIG. 1

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

Il rio dei Mendicanti, verso

sud. Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento

veneziano

FIG. 2

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

Piazza San Marco verso la

basilica. Madrid, Museo

Nacional Thyssen-Bornemisza

Quest’ultima veduta è databile agli anni sopra indicati

per l’evidente stato di avanzamento della ripavimentazione

della piazza secondo il progetto di Andrea Tirali.

Sebbene questo dipinto pare contraddistinguersi per

accuratezza documentaria, la mancanza di precisione

topografica è una caratteristica costante nell’opera di

Canaletto. Ciò è particolarmente vero per le rappresentazioni

di piazza San Marco, in cui l’altezza del

campanile viene drasticamente ridotta e sono operate

altre distorsioni, come la riduzione del numero delle

campate delle Procuratie Vecchie. I punti d’osservazione

vengono spesso sollevati, sovente in posizioni

non raggiungibili, celando l’uso della camera oscura. Il

dipinto è uno sfoggio pirotecnico di destrezza tecnica,

il colore è applicato in maniera vivida e ampia, apparentemente

da una distanza adeguata, fondamentale

all’arte di un pittore di scenografie, dando luogo a

una superficie corrugata, dalla ricca materia. Il tutto

si abbina a un affinamento parimenti sensibile nella

capacità di osservazione del pittore. La scena è popolata

da figure sparse dall’aspetto naturalistico e appartenenti

a una gamma variegata di background sociali,

ognuna è una creazione unica lontana dall’universo di

Carlevarijs e dal suo uso ripetuto di “macchiette” da

manuale di modelli. Un’ampia sezione della piazza è

messa in ombra dall’angolo del sole pomeridiano, le

figure che vi si trovano gettano ombre inverse per la

luce che riflette dalla facciata delle Procuratie Nuove.

Ma, cosa più importante, l’impressione di verosimiglianza

non idealizzata è completata dall’atmosfera

cupa, le nuvole incombenti cariche di pioggia che presagiscono

il brutto tempo. Siamo già molto distanti

1683 di quest’ultimo. Sebbene chiaramente si tratti di

opere giovanili, i dipinti mostrano già l’abilità di disegnatore

del giovane artista e, soprattutto, la capacità

di creare composizioni di grande impatto. Canaletto

chiaramente si rese conto della forza dei suoi disegni,

che tenne nel suo studio per decenni (il foglio

di Darmstadt venne portato a Dresda da Bellotto nel

1747). Una serie di esercizi grafici fu la base compositiva

per alcuni dipinti eseguiti negli anni successivi e

nel quinto decennio del secolo, quando vennero utilizzati

anche da Bellotto. Il giovane Piranesi senza dubbio

li conosceva e ne fu influenzato.

Alcuni dei primi dipinti di Canaletto, realizzati

dopo il suo ritorno a Venezia nel 1720, hanno la

chiarezza, la tonalità tenue e la colorazione dorata di

Vanvitelli e del suo discepolo e compatriota del Nord

Hendrik Frans Van Lint (Anversa 1684-Roma 1763).

Tra questi, vi è una veduta di Piazza San Marco, guardando

a sud verso San Giorgio Maggiore, splendidamente

inondata dalla luce del pomeriggio, la cui composizione

è affine a un’opera di Vanvitelli [4] . La tela

di Canaletto fa parte di un piccolo gruppo del 1722

circa, accomunato da ridotte dimensioni, composizioni

d’impatto e minuscole figure avvolte da abiti

scuri e dipinte in modo compatto, assieme a Piazza

San Marco, guardando a ovest (Vienna, Collezione

Liechtenstein [5] ) e Piazza San Marco, guardando a

sud verso San Giorgio Maggiore, attraverso l’Arco della

Torre dell’Orologio (Montecarlo, collezione privata,

precedentemente nella collezione Neave [6] ). Per altri

aspetti, tuttavia, queste ultime vedute hanno un carattere

molto diverso e uno stile più vicino alla serie di

commissioni eseguite negli anni successivi, tutte per

dipinti di dimensioni considerevoli.

Tra le vedute veneziane, le più grandi appartengono

a una serie di quattro dipinti eseguiti per Johann

Wenzel von und zu Liechtenstein nel 1723-4 circa; due

si conservano attualmente al Museo del Settecento

veneziano di Ca’ Rezzonico, Il Canal Grande da Palazzo

Balbi verso Rialto (cat. III.08) e Il rio dei Mendicanti,

verso sud (fig. 1), e due al Museo Thyssen-Bornemisza di

Madrid, tra cui Piazza San Marco verso la basilica (fig. 2).

4 _ Roma, Biblioteca

Nazionale Vittorio Emanuele; G.

Briganti, Gaspar van Wittel, a

cura di L. Laureati, L. Trezzani,

Milano 1996, pp. 407-408, cat.

D339, illustrato.

5 _ Esposto a Aix-en-

Provence, Caumont Centre

d’Art e presentato nel catalogo

dell’esposizione Canaletto,

Rome – Londre – Venise, Paris

2015, pp. 72-73, cat. 6, illustrato

a colori.

6 _ 82,5x48,3 cm.

90 — ROVENTI GIOVINEZZE —

— CANALETTO— 91



dall’universo di Vanvitelli o di Carlevarijs.

Di data affine è una serie di sei vedute di

piazza San Marco e della piazzetta, ma di formato

minore; si tratta delle prime opere commissionate

da Joseph Smith che, alcuni anni dopo, sarebbe divenuto

una figura cruciale per lo sviluppo della carriera

di Canaletto (Londra, Royal Collection) [7] . Due orizzontali

e quattro verticali, sono disposte a coppie, presumibilmente

per decorare una stanza, e sono capolavori

di equilibrio compositivo. Parte del lavoro che

contribuì a ottenere tale risultato è rivelato da evidenti

ripensamenti in alcune di esse; in Piazza San

Marco, guardando a ovest i cambiamenti sono particolarmente

incisivi e vennero eseguiti in uno stadio

molto avanzato del processo di pittura. Un disegno

de L’angolo sud ovest di Palazzo Ducale (cat. IV.11)

(Oxford, Ashmolean Museum, C543), con tutta probabilità

preparatorio al dipinto corrispondente della

serie [8] , ha il carattere di uno schizzo rapido, en plein

air, ma è sicuramente uno studio compositivo realizzato

in studio. Presenta una chiara inaccuratezza topografica

o “correzione” fatta per motivi estetici, con tre

grandi finestre sulle tre campate visibili dell’arcata di

Palazzo Ducale; due sono visibili nel dipinto corrispondente,

ma ce ne dovrebbe essere solo una.

Alle dimensioni di questi dipinti è associata

l’enfasi sulla monumentalità di questi edifici. Ciò è

anche evidente nei dipinti più grandi che Canaletto

abbia mai eseguito, una coppia di enormi capricci

dipinti su commissione dei fratelli Giovanni Benedetto

e Giovanni Paolo Giovanelli per decorare la loro villa

a Noventa Padovana, uno dei quali è datato 1723 [9] .

Questi sono dominati da reminiscenze romane, in particolare

della Roma antica. Mentre Marco Ricci è solitamente

citato come principale riferimento nei primi

capricci di Canaletto – e questi sono probabilmente gli

ultimi che dipinse prima di ritornare su questo genere

nel 1742 – gli edifici dell’artista bellunese sono più leggeri

e delicati (e molti degli esempi più pertinenti sono

effettivamente di data successiva). Il peso dell’architettura

classica è più affine al lavoro dei pittori attivi

a Roma nel secolo precedente, avvezzi alla monumentalità

dell’architettura antica, come Viviano Codazzi

(1604-1670 ca.), Giovanni Ghisolfi (1623-1683),

Alessandro Salucci (1590-1660 ca.) e Angelo Maria

Costa (attivo tra il 1696 e il 1721). Gli altri due grandi

capricci di questa fase dello sviluppo di Canaletto sono

anch’essi di dimensioni considerevoli, e fanno parte

della serie di tombe allegoriche di personalità britanniche

commissionata da Owen McSwiny; si tratta de

La tomba allegorica di Lord Somers e La tomba allegorica

dell’arcivescovo Tillotson (entrambi in collezioni

private) [10] . Essi vennero eseguiti in collaborazione con

Giovanni Battista Cimaroli, che si occupò del foliage e

degli elementi paesaggistici. Il primo ha un’atmosfera

molto cupa, oscura, persino oppressiva. L’elemento

figurativo fu affidato a Giambattista Piazzetta, alcuni

anni dopo che Canaletto ebbe terminato l’architettura.

Il secondo dipinto è più aperto e luminoso, il contributo

di Cimaroli è più evidente, e Giovanni Battista

Pittoni venne scelto per le figure.

Il tono dei dipinti di Canaletto si alleggerisce

progressivamente da questo momento in poi. La

chiesa e la Scuola della Carità dal laboratorio dei marmi

di San Vidal (cat. III.07) (Londra, National Gallery) è

stato verosimilmente datato al 1725 circa, dall’attività

dello scalpellino in primo piano che dà al dipinto il

nome popolare “Il laboratorio de marmi”. La sua presenza

è stata difatti associata al lavoro di costruzione

nell’adiacente chiesa di San Vidal, documentato in

quell’anno. Il dipinto mostra una vista che è molto più

conosciuta oggi che nel Settecento, poiché il campo in

primo piano è ora la via d’accesso per il ponte dell’Accademia.

Allora era un oscuro cul-de-sac, e non se ne

conoscono altre rappresentazioni pittoriche. La chiesa

di Santa Maria della Carità appare con il suo campanile,

che nel marzo del 1744 cadde spettacolarmente

senza essere sostituito. A differenza dei predecessori,

Canaletto è già alla ricerca di soggetti originali oltre il

cuore cerimoniale della città. La luce è più calda che

nelle sue opere precedenti, la pennellata è meno irregolare

e i profili iniziano a farsi più netti: tutti elementi

che a ragion veduta sono stati visti come segno della

transizione tra il primo e il secondo stile del pittore.

È uno sfoggio di bravura la differenziazione della resa

dei vari tipi di opere laterizie, mura ricoperte da stucco

logoro, pietre grezze e levigate, legno, acqua e stracci,

riportando anche una quantità considerevole di dettagli

(solo nell’angolo sinistro una madre che corre verso

il figlio, un galletto alla finestra e la pubblicità di elezioni

locali). È curioso che dei tre dipinti più importanti

di Canaletto alla National Gallery di Londra non

7 _ R. Razzall, L. Whitaker,

Canaletto & the Art of Venice,

London 2017, pp. 136-149, catt.

52-57, tutte illustrate a colori.

8 _ RCIN 401036; Ibidem,

cat. 54.

9 _ Entrambi esposti insieme

a Roma, Palazzo Giustiniani,

e presentati nel catalogo

dell’esposizione Canaletto:

il trionfo della veduta, a cura

di A.B. Kowalczyk, Cinisello

Balsamo 2005, pp. 48-55, catt.

4-5, entrambi illustrati a colori.

10 _ Entrambi esposti a New

York, Metropolitan Museum of

Art, e pubblicati nel catalogo

dell’esposizione Canaletto, New

York 1989, pp. 99-103, catt. 12-

13, entrambi illustrati a colori.

11 _ D. Succi, Luca Carlevarijs,

Gorizia 2015, pp. 150 e 154-155,

cat. 16, illustrato a colori.

FIG. 3

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

L’Arrivo del duca di Gergy,

particolare. San Pietroburgo,

Museo Statale Ermitage

si conoscano le vicende collezionistiche prima del XIX

secolo: questo dipinto, ad esempio, è documentato

per la prima volta nel 1808, quando entrò nella collezione

del mecenate, collezionista e pittore inglese Sir

George Beaumont.

L’ingresso solenne a Palazzo Ducale dell’ambasciatore

di Francia Jacques-Vincent Languet, conte

di Gergy (cat. V.01; fig. 3) (San Pietroburgo, Museo

Statale Ermitage) è la prima rappresentazione di una

cerimonia dipinta da Canaletto. Ritrae il ricevimento

ufficiale del conte di Gergy da parte del doge Alvise II

Mocenigo a Palazzo Ducale il 4 novembre 1726, sebbene

risiedesse in città effettivamente dal 6 dicembre

1723. Si potrebbe supporre che il dipinto di Canaletto

sia stato eseguito poco dopo l’evento. La composizione

è fondamentalmente quella stabilita nel 1703

per le rappresentazioni dei ricevimenti ufficiali di

dignitari a Palazzo Ducale da Luca Carlevarijs, che in

verità aveva eseguito per il conte un esempio, insolitamente

piccolo, del medesimo soggetto (Musée

national du Château de Fontainebleau) [11] . Nella tela

dell’Ermitage è pienamente visibile la grandezza di

Canaletto a questa data, come in una competizione ad

armi pari. Se la larghezza del dipinto di Canaletto corrisponde

al formato preferito da Carlevarijs, il primo

ha aumentato l’altezza della tela e arretrato il punto di

vista per dare una maggiore sensazione di profondità.

Ha trasformato la scena statica e, a confronto, piatta

del Carlevarijs infondendole vita. L’atmosfera è sempre

cupa, a contrasto con l’occasione festiva, e le nuvole

basse forniscono all’artista l’opportunità di includere

il dettaglio dell’ombra di una di esse sulla facciata di

Palazzo Ducale. Il sole tanto ammirato da Marchesini

stava solamente iniziando a spuntare.

92 — ROVENTI GIOVINEZZE —

— CANALETTO— 93



GIUSEPPE

PAVANELLO

FIG. 1

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Diana e Atteone, particolare.

Venezia, Gallerie

dell’Accademia

1 _ V. Da Canal, Della maniera

del dipingere moderno. Memoria

di Vincenzo da Canal P.V. ora

per la prima volta pubblicata

[1735], a cura di G. Moschini,

“Mercurio filosofico e letterario

e poetico”, marzo 1810, p. 16.

2 _ R. Pallucchini,

Nota per Giambattista Tiepolo,

“Emporium”, L, 1-3,

XCIX, 589-591, gennaio-marzo

1944, p. 3.

È un giovane, al quale nulla manca in questa sua età

né di franchezza, né di colorito, né di nuova invenzione,

avendo uno spirito sì franco e pittoresco in ogni

lavoro, che dà gelosia a quanti pittori possono lavorare

col più buon gusto moderno.

(Da Canal 1735) [1]

Quel tanto di appassionato, di violento e di aspro

che caratterizza costantemente la prima formazione

tiepolesca è così prossimo a noi moderni, da tramutare

il problema filologico in un altro di gusto.

(Pallucchini 1944) [2]

ROVENTI

GIOVINEZZE

TIEPOLO

A distanza di due secoli,

non è cambiata la percezione di quella che è stata definita

la “rovente giovinezza” di Giambattista Tiepolo:

parole di Silvia De Vito Battaglia che, poco meno di

cent’anni fa, avviò il recupero delle tele della chiesa

veneziana dell’Ospedaletto, attribuendole, sulla traccia

delle antiche fonti, al giovanissimo Tiepolo [3] .

All’epoca, quel sasso gettato nello stagno non produsse

ondate. Furono gli studiosi veneti, capitanati

da Giuseppe Fiocco e dall’allievo prediletto Rodolfo

Pallucchini, a far opera di sbarramento a quell’intuizione

critica. Ma, si sa, il Tempo scopre la Verità, come

nel formidabile dipinto tiepolesco ora a Boston; quindi

oggi si condivide generalmente quell’ardita proposta.

È un ciclo di tele entusiasmante. Ben sette

le opere, tra soprarchi e coppie di pennacchi, in cui

risalta il rifiuto per la convenienza, il decoro: nessuna

accettazione delle novità alla Sebastiano Ricci, né del

classicismo levigato del maestro, Gregorio Lazzarini.

È, ma non solo, l’“ombreggiare con forza usato dal

Piazzetta”, l’“esatta intelligenza di chiaroscuro”, come

dirà Anton Maria Zanetti [4] , accompagnata da una

disposizione delle figure disinvolta fino alla scompostezza.

Alla fine, si può parlare di una sorta di antologica

personale, nel segno di una pennellata neotenebrosa,

innervata, e, si potrebbe dire, elettrizzata da

chiazze ardite, a stacchi, come di un fauve di primo

Settecento. Ne risulta l’immagine di un artista privo

di inibizioni che, mese dopo mese, tra il 1715 e il

1716, matura il proprio linguaggio nel segno di un’espressività

caricata, come nella coppia degli Apostoli

Tommaso e Giovanni.

È un momento di vivaci sperimentazioni, con

analogie e ‘tangenze’ che coinvolgono pure i coetanei

di Tiepolo, da Mattia Bortoloni al “risoluto e bizzarro”

Giambattista Crosato [5] . Ma è ormai chiaro chi sia stato

nel ruolo-guida, a chi – Tiepolo, appunto – ascrivere le

bizzarrie che caratterizzano la scuola veneziana di questi

anni, ricondotte di solito a Federico Bencovich [6] .

È Tiepolo il leader in quello che si è definito

il mondo dell’“estro pittoresco” [7] . Sua quell’espressività

spinta fino all’allucinazione, quel macchiare

nervoso d’ombra e di lume, quello scatto formale

che innerva l’immagine sino a transustanziarla in una

vitalità che può trovare confronti solo in certi manieristi

visionari, come Tintoretto o El Greco.

Eppure, il giovanissimo Tiepolo si era formato

presso “la pesata e ritenuta scuola” di Gregorio

Lazzarini [ 8] , una scelta che ora sappiamo dovuta pure

a motivi familiari: la conoscenza, con relativa ‘raccomandazione’,

di un ecclesiastico legato alla famiglia [9] .

Presso quella bottega si praticava la copia dal modello,

come appare nella Scuola del nudo, manifesto di adesione,

sul piano stilistico, alla corrente piazzettesca.

Ma ben presto si va ben oltre. “È un giovane, al

quale nulla manca in questa sua età né di franchezza,

né di colorito, né di nuova invenzione, avendo uno

spirito sì franco e pittoresco in ogni lavoro, che dà

gelosia a quanti pittori possono lavorare col più buon

gusto moderno” [10] . È Vincenzo Da Canal, proprio il

biografo di Lazzarini, che scrive: ed è un incalzare di

termini, persino ripetuti – “franchezza”, “franco” –,

con rimarcature – “nuova invenzione” –, con quei tre

“né” iterati, indicativi di inconsueta libertà espressiva.

Tiepolo giovane. Nel tempo, si è venuta a

configurare una personalità sempre più aderente al

profilo tracciato dai contemporanei: “Suo distinto

— TIEPOLO — 95



pregio è il pronto carattere d’inventare, e inventando

distinguere e risolvere ad uno stesso tempo quantità

di figure con novità di ritrovati” [11] . Parole di Anton

Maria Zanetti: si faccia caso alla scansione dei tre

verbi “inventare, distinguere, risolvere”, come un

celebre motto classico.

“Tutto spirito e foco” è l’appellativo che

Vincenzo da Canal dà nel 1732 all’ormai famoso

Giambattista, che aveva già lavorato all’estero, a

Milano [12] . “Spirito” e “fuoco” formano il crogiolo

in cui le diverse componenti della formazione unite

a un’inventiva eccezionale – “fecondissimo d’ingegno”

– si amalgamano sino a trasformarsi in un linguaggio

personale, come l’oro prodotto in seguito

al processo alchemico. Quel giovane, prensile come

pochi, ghermisce a piene mani dagli antichi e dai

moderni, da dipinti e incisioni: Tintoretto, Stefano

della Bella, Pietro Testa e Giulio Carpioni, Pietro

Vecchia, Francesco Solimena, Antonio Balestra, Louis

Dorigny, eccetera. Sempre punti d’appoggio di cui la

fantasia di Tiepolo si serve per avviare, fuori d’ogni

impaccio, una costruzione dell’immagine che risulterà,

alla fine, originale.

“Qualcosa del furor ideativo di Tintoretto

si trasmise al giovane artista o, piuttosto, trovò

corrispondenza nel suo temperamento”, ha rilevato

Mariuz [13] . Fin da subito, un regista che sa tenere sotto

controllo una quantità di nodi figurali: Tintoretto

redivivo, per parafrasare un’espressione celebre di

Francesco Algarotti – “Veronese redivivo” – relativa

al Tiepolo degli anni Quaranta.

Anton Maria Zanetti, rimarcando “il fuoco

del terribile genio suo”, “il grand’impeto della imaginazione”,

scriverà di “vivacità di operare che spirito

in Pittura si chiama”, di “furioso entusiasmo che gli

accendea il cuore” [14] . Sembra che parli dell’artista

“tutto spirito e foco”; invece sono parole riferite a

Tintoretto, ma calzanti pure per il giovane Tiepolo,

che dà subito prova del suo ardimento anche nel

campo della pittura di storia, nella tradizione lagunare

del telero, per misurarsi con l’imponenza seicentesca

e, nel contempo, con i capolavori del secolo

d’oro della pittura veneziana.

Ne è esempio l’immenso Ratto delle Sabine (ora

all’Ermitage di San Pietroburgo, 288x588 cm), collocato

nel palazzo di Alvise III Zorzi presumibilmente

a seguito delle sue nozze con Lucia Donà celebrate

nel febbraio 1718 (fig. 2). Pur nell’omaggio a precedenti

illustri, come il telero con quel soggetto eseguito

da Sebastiano Ricci per il salone di palazzo Barbaro,

3 _ S. De Vito Battaglia,

Le opere di G.B. Tiepolo nella

chiesa dell’Ospedaletto a

Venezia, “Rivista dell’Istituto di

Archeologia e Storia dell’arte”,

3, 1931, pp. 189-206. Per una

più articolata trattazione, il

saggio di chi scrive Un pittore

“tutto spirito e foco”, apparso

in Il giovane Tiepolo. La

scoperta della luce, catalogo

della mostra (Udine, Castello)

a cura di G. Pavanello, V.

Gransinigh, Udine 2011, pp.

20-61; quindi le schede in

Giambattista Tiepolo “il miglior

pittore di Venezia”, catalogo

della mostra (Passariano, Villa

Manin) a cura di G. Bergamini,

A. Craievich, F. Pedrocco,

Passariano-Codroipo 2012,

pp. 212-214. I due soprarchi

con i Dottori della Chiesa

sono stati riferiti a Tiepolo

dallo scrivente: Ancora sul

giovane Tiepolo: un disegno per

l’Apostolo Giacomo maggiore e

i pennacchi con i Dottori della

Chiesa all’Ospedaletto, in Il cielo

o qualcosa di più. Scritti per

Adriano Mariuz, a cura di E.

Saccomani, Cittadella 2007, pp.

166-170. Come noto, il soprarco

con I santi Girolamo e Agostino

è stato danneggiato in modo

gravissimo nell’incendio del

4 maggio 2010 ed è tuttora in

attesa di restauro.

4 _ A.M. Zanetti, Descrizione

di tutte le pubbliche pitture

della città di Venezia e Isole

circonvicine, Venezia 1733, p. 62.

5 _ Da Canal 1810, p. 16.

FIG. 2

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Ratto delle Sabine,

particolare.

San Pietroburgo, Museo

Statale Ermitage

FIG. 3

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Fetonte chiede il carro ad

Apollo, particolare.

Massanzago, villa Baglioni

6 _ Si rinvia al catalogo della

mostra di Udine citato alla

nota 3, quindi all’articolo di

chi scrive, Non Bencovich, ma

Crosato, compreso in Schedule

sei e settecentesche, “Arte in

Friuli Arte a Trieste”, 16-17,

1997, pp. 73-79. Infine, alla

monografia di Gabriele Crosilla,

in corso di stampa: Federico

Bencovich, Soncino 2019.

7 _ Cfr. il breve testo di

chi scrive: I pittori dell’estro

pittoresco, in Bortoloni,

Piazzetta, Tiepolo il ’700 veneto,

catalogo della mostra (Rovigo,

Palazzo Roverella) a cura di F.

Malachin, A. Vedova, Cinisello

Balsamo 2010, pp. 18-19.

8 _ A.M. Zanetti, Della

pittura veneziana e delle opere

pubbliche de’ veneziani maestri

libri V, Venezia 1771, p. 464.

9 _ S. Bostock, Novità

biografiche sugli anni giovanili

di Giambattista Tiepolo, “Arte

Veneta”, 66, 2010, pp. 220-221,

223, 226.

10 _ Da Canal 1810, p. 15.

11 _ Zanetti 1733, p. 62.

12 _ Da Canal 1810, p. XXXII.

13 _ A. Mariuz, Giambattista

Tiepolo, in La Gloria di Venezia.

L’arte nel diciottesimo secolo,

catalogo della mostra (London,

Royal Academy of Arts) a cura

di J. Martineau, A. Robison,

(edizione italiana Milano 1994,

p. 171) (quindi, in A. Mariuz,

Tiepolo, a cura di G. Pavanello,

Verona 2008, p. 297).

14 _ Zanetti 1771, pp. 128-129.

15 _ Cfr. A. Craievich, Antonio

Molinari, Soncino 2005, cat. 65,

tav. XL.

16 _ I. Artemieva, Un

episodio del collezionismo

russo di opere di Giambattista

Tiepolo: “Il ratto delle Sabine”

dell’Ermitage, “Arte Veneta”, 49,

1996, p. 41.

FIG. 4

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Trionfo dell’Eloquenza,

particolare.

Venezia, palazzo Sandi

o l’altro di Antonio Molinari raffigurante la Lotta dei

Lapiti con i Centauri di casa Correr, [15] emergono novità

d’impianto e di stesura, specie per via di quella foga, di

quel fare “a macchia”. Come “mutevole Proteo” [16] , l’artista

ci sorprende ogni volta per la varietà di esiti della

sua maniera “spedita e risoluta”, anche se non riesce

sempre a dare omogeneità e coerenza ai vari gruppi di

personaggi, talvolta scollegati tra loro.

Capolavoro della giovinezza, l’affresco del

salone di villa Baglioni a Massanzago. Siamo verosimilmente

nel 1719. Nella dimora di terraferma

di Giambattista Baglioni, patrizio veneto di fresca

nomina, entro un unico grande ambiente viene prospettato,

in un continuum narrativo, un tema soltanto:

Fetonte che chiede ad Apollo il carro del Sole

e che precipita nell’Eridano (fig. 3). Per impaginarlo,

si riprendono motivi da incisioni – di Pietro Testa e

Giulio Carpioni – nonché da una tela di Balestra; così

si strizza l’occhio a Ricci, a Piazzetta, come a Dorigny.

Senza l’esempio del primo non si spiegherebbe il

grande respiro della composizione, l’aria e la luce che

la pervadono, e al repertorio riccesco sono ispirati

i gesti, le pose, le tipologie di più manifesta grazia

rococò. Dall’altra parte, si palesa il debito nei confronti

del metodo piazzettesco nella calcolata modellazione

plastica delle figure in primo piano, conseguita

attraverso un pieno controllo ottico dell’immagine;

anche se ancora non si ravvisa l’interesse per

una caratterizzazione icastica dei particolari e per una

espressione ‘caricata’ degli affetti, quale si riscontrerà,

invece, negli affreschi udinesi della Galleria.

Emergono motivi, figure, idee compositive

che il pittore continuerà a svolgere e a variare nel

corso della sua attività, come se proprio in questa circostanza

egli avesse individuato il nucleo generatore

della sua visione, liberando flussi d’immagini che non

abbandoneranno più la sua fantasia.

Ogni volta che lo si considera, quell’affresco

rivela la sua originalità, il ruolo cardine per l’autore e

per un’epoca dominata da Sebastiano Ricci, rientrato

a Venezia dopo il soggiorno inglese. Ma Tiepolo ormai

è su un altro pianeta. Egli sembra sogguardare, con lo

stesso sussiego di uno dei suoi personaggi, l’esecuzione

virtuosa, stilisticamente impeccabile, dell’anziano collega,

che ormai viaggiava su un binario morto.

Solo Piazzetta può davvero tenergli testa e lo si

vedrà subito, all’atto del concorso per il soffitto della

cappella di san Domenico ai Santi Giovanni e Paolo,

nel 1723. È più anziano e ha molti successi alle spalle,

e quel concorso lo vince meritatamente. Il bozzetto

del giovane rivale non è da meno, con quelle figure

d’angeli disseminate sul cornicione, le stesse che volteggiano

nella Galleria di Udine, ma è più nuova l’invenzione

piazzettesca – andamento a zig-zag e spazio

libero al centro –: imprevedibile, per un artista

non aduso alle composizioni da soffitto. Come per

Debussy il quartetto d’archi, sarà la sua unica, geniale,

prova in quel genere.

96 — ROVENTI GIOVINEZZE —

— TIEPOLO — 97



Al tempo stesso, il pressoché contemporaneo

intervento in palazzo Sandi. Incanta il brio, la

baldanza potremmo dire, con cui un astruso tema

barocco – il Trionfo dell’Eloquenza – viene srotolato

a mo’ di fregio nella zona perimetrale di quel soffitto.

Come il cavallo di Bellerofonte, l’intera composizione

sembra impennarsi entro un ritmo sinusoidale,

a strappi, con i personaggi scorciati sul cielo come

sculture svettanti su un muro di cinta (fig. 4).

Tiepolo lavora indifferente sia per l’antica aristocrazia

veneziana (Pisani, Corner, Zorzi) sia per la

nuova (Baglioni, Sandi), ma anche per committenti

“borghesi”. Disegnatore per insegne di negozi, pittore

di tele grandiose a soggetto sacro per dei farmacisti: la

Madonna del Carmelo di Brera (210x650 cm), commissionata

nel dicembre 1721 per la chiesa veneziana di

Sant’Aponal, e la Crocifissione di Burano (250x400 cm:

fig. 5), nella quale compare, entro un ovale, il ritratto

del committente: raro esempio à la manière de Rosalba

Carriera, omaggio all’artista che aveva rinnovato dalle

fondamenta la tipologia del ritratto agli albori del

secolo concentrando l’attenzione sul volto dell’effigiato.

Il gesto della mano che si staglia sul fondo scuro,

pur accostante, è perentorio, a indicare una direzione

che porta, senza ostacoli, alla Croce. Tintoretto alla

Scuola di San Rocco e a San Severo, Palma il Giovane

alla Madonna dell’Orto, Leonardo Corona a San

Giovanni Elemosinario, Veronese a San Nicolò, Pietro

Vecchia a San Lio e agli Ognissanti: Crocifissioni degli

antichi maestri che Giambattista studia nelle chiese

veneziane, come in una periegesi alla ricerca di motivi

da far propri per un tema che imponeva di misurarsi

con due secoli di pittura.

Spostiamoci nel Palazzo Patriarcale di Udine.

Le forme della nuova architettura, quindi le relative

decorazioni ad affresco, dovevano proclamare

la grandezza del Patriarcato di Aquileia, in un’epoca

di incertezze e discussioni sul ruolo di Udine quale

sede dell’antichissima istituzione. I lavori di costruzione

erano completati nel 1718. Era urgente passare

alla seconda fase, ancora più cruciale, in cui far

palese il progetto politico-religioso portato avanti

dal patriarca, il cardinale Dionisio Dolfin, nipote del

predecessore, cardinale Giovanni Dolfin: la famiglia

veneziana riproponeva fra Sei e Settecento la successione

familiare che era stata dei Grimani.

È la Galleria lo spazio privilegiato per far subito

comprendere a chi vi faceva ingresso l’ambiziosa iniziativa,

e il patriarca Dolfin non trascurava di farvi porre

il proprio ritratto in forma di busto, a sottolineare

FIG. 5

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Crocefissione.

Burano, chiesa di San Martino

17 _ Mariuz 1994, p. 178

(quindi, in Mariuz 2008, p. 307).

18 _ D. Ton, Tiepolo e Vico:

il “Trionfo dell’Eloquenza” in

palazzo Sandi, “Arte Veneta”,

61, 2004, p. 111.

FIG. 6

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Rachele nasconde gli idoli,

particolare.

Udine, Palazzo Patriarcale

l’ininterrotta discendenza dai patriarchi dell’Antico

Testamento. Gli si contrappuntava, dirimpetto, quello

del frescante, responsabile di aver dato forma a quelle

aspettative, un Tiepolo poco più che ventenne, proprio

al centro del brano maggiore – e più denso di

significati –, con Rachele che nasconde gli idoli (fig. 6).

Grazie all’affresco, scopriamo un altro Tiepolo:

egli è ora come la farfalla che esce dalla crisalide.

Una luce limpidissima, come mai prima s’era

vista nell’opera tiepolesca, bagna ogni cosa,

esalta i colori che, più ancora che dalla pittura

di Veronese, si direbbero distillati dalla flora

primaverile. Giambattista ha scelto di rappresentare

la saga dei primi patriarchi [...] in una

chiave che si potrebbe definire domestico-fiabesca;

[...] soprattutto perché il soprannaturale,

il meraviglioso, entrano nella sua visione come

una componente integrante del quotidiano,

connaturata ad esso. [...] Nella sua opera successiva

non si troverà più un simile accordo di

incanto fiabesco e di umorismo, di gusto cifrato

della forma e freschezza di racconto. È come se,

eseguiti questi affreschi, gli fosse capitato quello

che succede a quei cantanti che, maturando,

cambiano timbro di voce, diventano baritoni da

tenori. [17]

Di continuo, in progress. Subito dopo, lo scalone

e la cappella in duomo, quindi la cappella di

Santa Teresa nella chiesa veneziana degli Scalzi. Il

“piccolo uragano da salotto” scatenato nel soffitto di

palazzo Sandi [18] si è amplificato, sino a coinvolgere

l’osservatore grazie al dissolvimento del limite fra

spazio reale e spazio d’illusione.

Un ulteriore viaggio a Udine. In una sala del

Palazzo Patriarcale Tiepolo affresca Il giudizio di

Salomone. Alla stesura sciolta, liquida, che aveva caratterizzato

soprattutto la volta della Galleria, è subentrata

una pennellata più corposa e costruttiva, d’un cromatismo

sontuoso, che riprende la tavolozza di Veronese, già

ravvisabile nell’Achille scoperto tra le figlie di Licomede,

una delle tele parietali di palazzo Sandi, che, di Veronese,

riprende lo schema del Ritrovamento di Mosè allora nel

palazzo Grimani ai Servi.

Siamo intorno al 1726 o poco oltre.

Giambattista era allora sui trent’anni: il tempo della

giovinezza scapigliata era quasi un ricordo.

98 — ROVENTI GIOVINEZZE —

— TIEPOLO — 99



CAT.III.01

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Diana e Callisto

Olio su tela, 100×135 cm

Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 755

Bibliografia _ Levey 1986, pp. 16-17; Gemin, Pedrocco

1993, p. 228, cat. 30; Mariuz, in The Glory 1994, p. 174;

Pallucchini 1995, I, p. 333; Pilo, in Giambattista Tiepolo

1996, pp. 68-72; Loire, de Los Llanos, in Giambattista

Tiepolo 1998, p. 78; Pedrocco 2002, p. 201, cat. 27/3;

Ton, in Giambattista Tiepolo 2012, pp. 215-216, cat. 3a,

con bibliografia precedente.

CAT.III.02

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Diana e Atteone

Olio su tela, 100×135 cm

Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 754

Bibliografia _ Gemin, Pedrocco 1993, p. 228,

cat. 30; Pallucchini 1995, I, p. 333, fig. 541; Magrini,

in Splendori Settecento 1995, pp. 232-233, cat. 49; Pilo,

in Giambattista Tiepolo 1996, pp. 68-72, cat. 6a; Loire,

de Los Llanos, in Giambattista Tiepolo 1998,

pp. 78-81, cat. 5; Pedroccco 2002, p. 201, cat. 27/2;

Panchieri, in Il giovane Tiepolo 2011, p. 170, cat. 22,

con bibliografia precedente.

100 — ROVENTI GIOVINEZZE — — CATALOGO DELLE OPERE — 101



CAT.III.04

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Contadina che si spulcia

Olio su tela, 74,5×96,5 cm

Boston, Museum of Fine Arts, Ernest Wadsworth

Longfellow Fund, 1946, inv. 46.461

Bibliografia _ Mariuz 1982, pp. 77-78, cat. 13; Knox

1992, p. 71, fig. 61.

CAT.III.03

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Giovane erbivendolo che conta i denari

Olio su tela, 74,5×96,5 cm

Boston, Museum of Fine Arts, Ernest Wadsworth

Longfellow Fund, 1946, inv. 46.462

Bibliografia _ Mariuz 1982, p. 78, cat. 14; Knox 1992,

p. 74, fig. 62.

102 — ROVENTI GIOVINEZZE — — CATALOGO DELLE OPERE — 103



CAT.III.05

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Giuditta e Oloferne

Olio su tela, 81×94 cm

Roma, Accademia Nazionale di San Luca, inv. 693

Bibliografia _ Mariuz 1982, p. 79, cat. 18; Knox 1992,

pp. 171, 181, fig. 130; Loisel, in Éblouissante Venise 2018,

p. 245, cat. 49.

CAT.III.06

FEDERICO BENCOVICH

Sant’Andrea tra i santi Bartolomeo, Carlo Borromeo,

Lucia e Apollonia

Olio su tela, 236×167 cm

Senonches, chiesa parrocchiale

Bibliografia _ Rosenberg, Brejon de Levergnée

1981, pp. 187-191; Volle, in Settecento 2000, cat. 15, con

bibliografia precedente; Craievich, in Éblouissante

Venise 2018, p. 245, cat. 41.

104 — ROVENTI GIOVINEZZE —



CAT.III.07

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

La chiesa e la Scuola della Carità dal laboratorio dei

marmi di San Vidal

Olio su tela, 147,7×199,4 cm

Londra, The National Gallery, inv. NG 127

Bibliografia _ Constable 1962, I, fig. 43, II, cat. 199;

Levey 1973, pp. 28, 36, fig. 2; Links 1977, pp. 35-36,

41, figg. 41-43; Corboz 1985, I, pp. 94, 97, fig. 92, II,

p. 580, cat. P54; Pallucchini 1995, I, pp. 480, fig. 752;

Kowalczyk, in Canaletto 2001, pp. 160-163, cat. 60;

Beddington, in Venice: Canaletto 2010, p. 181, cat. 11.

— CATALOGO DELLE OPERE — 107



CAT.III.08

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il Canal Grande da Palazzo Balbi verso Rialto

Olio su tela, 144×207 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. I, n. 2325

Bibliografia _ Kowalczyk, in Canaletto 2001, p. 138,

cat. 50; Pedrocco, in Canaletto 2008, pp. 254-255, cat.

24; Kowalczyk, in Canaletto 2015, p. 75, cat. 7.

108 — ROVENTI GIOVINEZZE —



CAT.III.10

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Nudo virile seduto

Matita nera, gessetto bianco, 458×325 mm

Verona, Gabinetto Disegni e Stampe dei Civici Musei

d’Arte, inv. 13113 2b 581

Bibliografia _ Marinelli 1996, p. 45; Marini, in Museo

di Castelvecchio 1999, cat. 41; Marini 2000, cat. 28;

Pasian, in Il giovane Tiepolo 2011, p. 136, cat. 10.

CAT.III.11

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Nudo femminile seduto

Carboncino, gesso bianco, 526×396 mm

Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 2603

Bibliografia _ Mariuz 1982, p. 134, cat. D55; Knox, in

G.B. Piazzetta 1983, cat. 2; Marini, in The Glory 1994,

p. 473, cat. 60.

CAT.III.12

GIULIA LAMA

Nudo femminile sdraiato

Carboncino e gessetto bianco, 451×570 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 6987

Bibliografia _ Pedrocco, in Disegni antichi 1987, pp.

44-45, cat. 940; Giulia Lama 2018, pp. 12-13.

CAT.III.09

GIAMBATTISTA TIEPOLO

La scuola del nudo

Matita nera, 410×540 mm

Inghilterra, collezione privata

Bibliografia _ Morassi 1971; Levey 1986, p. 8, tav.

11; Knox 1992, p. 211, tav. 151; Harrison, in The Glory

1994, p. 493, cat. 91; Lucchese 2017, pp. 154-175, con

bibliografia precedente.

110 — ROVENTI GIOVINEZZE — — CATALOGO DELLE OPERE — 111



LA SCOPERTA

DELLA LUCE



CHARLES

BEDDINGTON

FIG. 1

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

Il molo verso est con la

colonna di San Marco,

particolare.

Milano, Pinacoteca del

Castello Sforzesco

1 _ Tutte esposte a New

York nel corso dell’esposizione

Canaletto (Metropolitan

Museum of Art), e pubblicate

nel relativo catalogo, New York

1989, pp. 104-121, catt. 14-22,

illustrate a colori.

2 _ Owen McSwiny’s Letters

1720-1744, a cura di T.D.

Llewellyn, Verona 2009, p. 86.

LA SCOPERTA

DELLA LUCE

CANALETTO

Tra il 1726 e il 1731

Canaletto esegue una serie di vedute veneziane su

rame che segnano dei cambi di direzione sotto vari

aspetti. Nove di esse, alcune coppie in una collezione

privata belga e presso Holkham Hall (catt. IV.01-02),

Goodwood House e Chatsworth e una singola al

Musée des Beaux-Arts di Strasburgo, sono arrivate

a noi [1] . L’uso del rame come supporto è raro per le

vedute e di per sé rappresenta un nuovo sviluppo: è

infatti la prima volta in cui il pittore usa un supporto

diverso dalla tela. In seguito si spingerà oltre, usando

sporadicamente tele applicate a pannelli e, durante gli

anni trascorsi a Londra, pannelli di mogano, oltre a vari

colori di fondo e all’adozione della tecnica dell’acquaforte.

Tutte le lastre in rame misurano approssimativamente

45x60 cm, una dimensione che agevolava

il trasporto. A partire da questo momento, e sicuramente

per ragioni commerciali, i dipinti di grandi

dimensioni vengono numericamente superati da altri

relativamente più piccoli, che possono essere più facilmente

spediti all’estero, ai mecenati britannici che

li hanno ordinati durante le loro visite a Venezia. La

superficie liscia del supporto, la trasparenza, l’atmosfera

di pace e la calda luce solare che caratterizzano

le lastre di rame diventano caratteristiche di questa

fase, in cui lo schiarimento dei toni evoca lo sviluppo

di Giambattista Tiepolo, più vecchio di Canaletto di

un anno, scostandosi dal tenebrismo di Giambattista

Piazzetta. Le lastre di rame risalgono a date diverse

e la coppia di Chatsworth, con i suoi marcati profili

neri, è chiaramente quella di data più recente. È tuttavia

sorprendentemente difficile collegare gli esempi di

cui abbiamo traccia con la documentazione esistente.

Sir William Morice, che acquistò la coppia ora in una

collezione privata belga, sicuramente la più antica, non

si recò a Venezia prima del novembre 1729 [2] . La coppia

formata da Il Canal Grande da San Vio e Il Ponte

di Rialto, ora a Holkham Hall, erano di proprietà di

Thomas Coke, primo conte di Leicester (1697-1759),

ma non vi è alcuna traccia dell’acquisto. È probabile

che sia stata acquisita tramite Joseph Smith. Con le

lastre di rame la responsabilità di diffusione commerciale

dell’opera di Canaletto ai mecenati britannici

passò da Owen McSwiny – che aveva commissionato

le tombe allegoriche intorno al 1723 e che sembra aver

avuto qualche ruolo con le prime tre coppie – all’amico

Joseph Smith, che aveva ordinato la serie di sei

vedute con la Piazza e Piazzetta del 1723-24 circa e che

avrebbe avuto un ruolo determinante nella carriera

successiva del pittore.

Una coppia di vedute, eseguita per il mecenate

irlandese Hugh Howard di Shelton Abbey e ricevuta

il 22 agosto 1730 – L’ingresso del Canal Grande,

verso ovest, con la Basilica della Salute (fig. 2) e Il Canal

Grande, guardando a sud-ovest dal Ponte di Rialto

verso Palazzo Foscari (Houston, Museum of Fine

Arts) [3] – e una coppia per Samuel Hill di Shenstone

Park, Staffordshire, documentata al 1730-31 – La Riva

degli Schiavoni verso est e Il Molo verso ovest (Tatton

Park, The Egerton Collection, National Trust) [4] – sono

le prime opere databili con sicurezza in quello che si

potrebbe descrivere lo stile “maturo” di Canaletto, che

arriva fino al 1738 circa. Si tratta di dipinti molto precisi,

con largo uso di dettagli e profili neri come nelle

lastre di rame di Chatsworth. Gli effetti atmosferici che

dominano le opere dei primi anni Venti lasciano spazio

alla tranquillità e danno nuova enfasi alla solidità degli

— CANALETTO— 115



edifici. L’esecuzione è incredibilmente sicura, con piccole

pennellate che differenziano splendidamente la

resa di marmo, pietra, mattoni, legno, tessuti e acqua.

Ogni figura in primo piano è uno studio indipendente.

La tonalità è chiara, con vividi sprazzi di colore nei

vestiti. Sono presenti dettagli in gran quantità, a dire

il vero molti di più di quanti l’occhio possa assimilarne

davanti alla veduta. Viene stabilita una formula per rappresentare

le increspature dell’acqua, e il cielo è punteggiato

da nuvole attentamente posizionate che in un

certo qual modo somigliano a matasse galleggianti di

ovatta.

Queste due commesse sono le prime sicuramente

’piazzate’ grazie all’intermediazione di Joseph

Smith, che potrebbe anche essere stato, almeno

in parte, responsabile dello sviluppo dello stile di

Canaletto, influenzandolo ad adattarsi ai gusti dei

clienti britannici. Per i successivi otto anni la vita

dell’artista sarebbe stata dominata da gratificanti

commissioni ottenute grazie a Smith, e la richiesta

di vedute veneziane era tale che per dieci anni, anche

volendo, non ebbe tempo per altro. Gli anni Trenta

sono l’epoca d’oro della carriera dell’artista, durante

i quali, nonostante il crescente peso delle commesse,

mantiene un costante livello di qualità, mentre il calore

dei suoi dipinti sembra riflettere il suo piacere di aver

conseguito l’apice del successo. I quadri vengono

spesso ordinati in serie, di cui il maggiore esempio è

la serie di ventiquattro vedute, due grandi e le restanti

di dimensioni minori che poi diventeranno standard,

approssimativamente 47x80 cm, eseguite nel 1733-

36 circa per John Russell, quarto duca di Bedford, e

ancora nella collezione di famiglia presso Woburn

Abbey, e una serie di venti vedute delle stesse ridotte

dimensioni dipinte immediatamente dopo per il

cognato Charles Spencer, terzo duca di Marlborough,

ora sparse tra varie collezioni private. Vista la relazione

tra i due committenti, Canaletto differenziò attentamente

i soggetti della seconda serie, espandendo sensibilmente

il raggio topografico delle vedute veneziane.

Smith avrebbe continuato a commissionare dipinti per

decorare il proprio palazzo sul Canal Grande fino agli

anni Cinquanta. Era anche un avido collezionista dei

disegni di Canaletto: già negli anni Trenta commissionava

fogli finiti, come L’angolo di Palazzo Ducale con

San Giorgio Maggiore (cat. IV.12) (C544; Londra, Royal

Collection). Probabilmente del 1730 circa, esso si basa

su un disegno di diversi anni prima (cat. IV.11) (Oxford,

Ashmolean Museum) e come quello include una finestra

“extra” sulla facciata di Palazzo Ducale. La composizione

è stata aggiornata, con la cupola a cipolla del

campanile di San Giorgio Maggiore che sostituì quella

piramidale nel 1726-28, e corretta, con la colonna di

San Marco ridotta. Ripensamenti sono evidenti nelle

linee dell’arcata e nell’altezza del campanile.

Il capolavoro della metà degli anni Trenta è

un dipinto di dimensioni insolitamente grandi, non

eseguito per l’estero, e probabilmente non commissionato

tramite Smith, La Riva degli Schiavoni, verso

ovest (fig. 3) (Londra, Sir John Soane’s Museum), la

veduta più copiata di Canaletto, di cui è noto un pagamento

parziale effettuato a febbraio del 1736. Caso

unico in questa fase della carriera dell’artista, venne

dipinta per un residente di Venezia (non Smith), per

FIG. 2

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

L’ingresso del Canal Grande,

verso ovest, con la Basilica

della Salute.

Houston, Museum of Fine Arts

FIG. 3

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

La Riva degli Schiavoni, verso

ovest.

Londra, Sir John Soane’s

Museum

3 _ W.G. Constable,

Canaletto: Giovanni Antonio

Canal 1697-1768, I, London

1962, catt. 166, 220; esposte

a New York e pubblicate in

Canaletto 1989, pp. 149-53,

catt. 35-36, entrambe illustrate

a colori.

4 _ Esposte a New York:

Canaletto 1989, pp. 144-9,

catt. 33-4, entrambe illustrate

a colori, e Roma, Palazzo

Giustiniani: Canaletto: il trionfo

della veduta, a cura di B.A.

Kowalczyk, Cinisello Balsamo

2005, pp. 88-93, catt. 15-16,

entrambe illustrate a colori.

5 _ Constable 1962, catt. 333,

350, 14, 24.

6 _ Ivi, cat. 131.

7 _ Ivi, cat. 259.

8 _ A. Bettagno, In margine a

una Mostra, “Notizie di Palazzo

Albani”, XII, 1-2, 1983, pp.

227-228.

il quale le grandi dimensioni non costituivano un problema.

Venne richiesta dal feldmaresciallo Johann

Matthias von der Schulenburg (1661-1747), mecenate

e collezionista di sufficiente perspicacia da apprezzare

il dipinto di una veduta decisamente insolita. La

fama di Canaletto subì un’impennata dopo la pubblicazione

nel 1735 della prima edizione del Prospectus

Magni Canalis Venetiarum di Antonio Visentini, celebre

libro di quattordici incisioni tratte dalle vedute

veneziane dell’artista appartenenti alla collezione di

Smith, che aiutò a diffondere le sue composizioni e

senza dubbio servì anche ad attrarre ulteriori incarichi.

Una seconda edizione ampliata, pubblicata nel 1742,

include dipinti commissionati tramite Smith ma non

conservati nella sua collezione. Tra questi, Il molo verso

est con la colonna di San Marco (cat. IV.03) (Milano,

Pinacoteca del Castello Sforzesco). Databile secondo

elementi stilistici al 1738 circa, questo dipinto e il suo

pendant, nella stessa collezione, facevano parte di cinque

superbe coppie di vedute veneziane eseguite per

Thomas Osborne, quarto duca di Leeds, di cui altre

si trovano alla National Gallery di Londra, al Fogg

Art Museum di Harvard e al Detroit Institute of Arts

[5]

. Tutte erano racchiuse in finissime cornici in stile

William Kent. Il duca aveva visitato Venezia nel 1734,

creando un caso relativamente raro di una commessa

non corrispondente con precisione alla visita del

committente.

A questo punto l’atmosfera dell’opera del

Canaletto cambia nettamente, la luce fredda sostituisce

il caldo bagliore del sole che pervade i dipinti d’inizio

decennio, e mantiene questo carattere fino al 1742

circa, quando torna la luce solare. Un altro dipinto

inciso per l’edizione del 1742 del Visentini è Il Canal

Grande da Santa Chiara verso Santa Croce (cat. IV.05)

(Parigi, Musée Cognacq-Jay). Sfortunatamente il cliente

di Smith per quest’opera e il suo pendant, della stessa

collezione, non è identificabile. Si tratta di una delle

vedute di Venezia di dimensioni piccole “standard”

ma differisce dalle serie di Bedford e Marlborough nel

carattere glaciale della luce, per la quale si può proporre

una datazione all’inizio del periodo “freddo”, al

1738 circa. Con questo stile produsse un gran numero

di capolavori, in particolare la “fredda” veduta del

Bacino di San Marco, verso est (cat. IV.04) (Boston,

Museum of Fine Arts) [6] , e Il Canal grande a San

Simeone Piccolo (Londra, National Gallery) [7] , che non

ha eguali nella sua limpidezza e precisione. Il quadro di

Boston è un ottimo esempio dell’inclinazione dell’artista

di dare l’impressione di aver dipinto da un punto

di vista irraggiungibile. Questa tela deve aver messo

al massimo alla prova le sue capacità immaginative, e

un punto era sicuramente quello di celare l’uso della

camera oscura. Il dipinto è ricchissimo di dettagli, una

vera e propria enciclopedia dei tipi di attività visibili

nelle acque di Venezia, come la presenza di spedizionieri

inglesi, francesi e danesi, oltre che veneziani. Per

fortuna Canaletto ha incluso, nello skyline a destra della

chiesa di San Zaccaria, un dettaglio che aiuta la datazione.

Si tratta di un’opportunità rara nella sua opera,

visti i pochi cambiamenti topografici nella città oltre

alla mancanza di rispetto per l’accuratezza dimostrata

dall’artista. Si vede un’impalcatura sulla nuova cupola

a cipolla del campanile della chiesa di Sant’Antonin,

documentata come prossima alla conclusione nell’ottobre

1738 [8] . La data convince pienamente anche dal

punto di vista stilistico. Tutto è tenuto assieme dalla

luce cristallina, invernale, qui più che in qualsiasi altro

dipinto di Canaletto, e la superficie, piuttosto ‘ruvida’

per un’opera di quest’epoca, ne amplifica l’effetto.

116 —LA SCOPERTA DELLA LUCE —

— CANALETTO— 117



DENIS

TON

FIG. 1

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Passeggiata campestre.

Colonia, Wallraf-Richartz

Museum

1 _ “Dans la vigeur de son

âge, il était d’un tempérament

très-vif & fort jaloux de sa

reputation. Il est a combattre

les ennemis ordinaires du

mérite ce furent ses rivaux:

Sebastiano Ricci fut du nombre

& il lui reproche avivement

l’offre qu’il avait faite aux

Senateurs de corriger & de

retoucher un de ses tableaux”.

A. J. Dezallier d’Argenville,

Abregé de la vie des plus

fameux peintres, Paris 1762,

p. 319. Sul profilo che l’autore

francese dedica a Piazzetta, si

veda, recentemente: S. Loire,

Giambattista Piazzetta dans

l’“Abregé de la vie des plus

fameux peintres” de Dezallier

d’Argenville (1762), “Bollettino

dei Musei Civici Veneziani”, ser.

2, 9/10, 2014-2015, pp. 172-179.

2 _ A. Scarpa, Sebastiano

Ricci, Milano 2006, p. 335, cat.

542.

LA SCOPERTA

DELLA LUCE

TIEPOLO E

PIAZZETTA

Racconta Dezallier D’Argenville

che Sebastiano Ricci, colui che al principio del

Settecento era senza ombra di dubbio riconosciuto

come il grande maestro e punto di riferimento per una

generazione intera di pittori, si sarebbe un giorno proposto

di ritoccare uno dei dipinti di un giovane artista,

per migliorarlo [1] . Quel giovane era Giambattista

Piazzetta, dal carattere orgoglioso e sicuramente consapevole

delle proprie capacità, e v’è motivo di credere

che una simile proposta abbia causato un risentimento

duraturo, corroborato da altri irritanti episodi:

intorno al 1718, il pittore si vide rifiutare dalla Scuola

dell’Angelo Custode a Venezia una sua pala d’altare a

vantaggio di quella, di medesimo soggetto, poi commissionata

al maestro bellunese [2] . Piazzetta dovette

misurare l’incompatibilità della propria maniera

rispetto all’alternativa riccesca: da un lato – nel frammento

superstite della sua tela, ora a Detroit (fig. 4) [3] ,

che fu prontamente acquistato dopo il rifiuto dal

senatore Zaccaria Sagredo – la Madonna ci appare in

tutta la sua altera superiorità, Madre e Regina celeste,

in un racconto austero e drammatico, tra luci affocate;

dall’altro, il suo antagonista aveva immaginato

la Vergine come una mamma sorridente e divertita

che osserva dal balcone i giochi a scalone dei bimbi in

cortile. Per Piazzetta invece la pittura è, tanto più nel

suo periodo giovanile, una cosa tremendamente seria,

tutta racchiusa nella tensione tra un divino reso tangibile

nella natura e un reale sottratto alla contingenza,

immerso in clima di sospensione. Su tutto, però, uno

stile costruito su intonazioni neotenebrose e netti

risalti di chiaroscuro. Qualche tempo dopo, con l’Estasi

di san Francesco per la chiesa vicentina dell’Araceli

(oggi Musei Civici, Pinacoteca di Palazzo Chiericati),

del 1732, si confronterà a distanza con un tema simile

a quello affrontato poco lontano da Sebastiano Ricci,

nell’Estasi di Santa Teresa per un altro tempio vicentino,

San Girolamo degli Scalzi (il cui bozzetto preparatorio

si trova a Vienna, Kusthistorishes Museum, fig.

2). Al di là della vicinanza tra i due soggetti e dell’ispirazione

per la figura in deliquio sostenuta dall’angelo,

è evidente la differente tenuta drammatica dell’idea

rispetto alla grazia leggiadra dell’invenzione riccesca

[4] . Completamente differente è l’uso che i due

fanno della luce: in un caso per accentuare l’ellissi di

un divino che rimane nascosto, nell’altro per celebrare

la variopinta tavolozza e inondare di sole dall’alto creature

angeliche, la santa in levitazione e l’architettura

nel fondo. I due pittori e rivali furono entrambi ingaggiati

come figuristi nella celebre serie dei Tombeaux

(monumenti allegorici immaginari, per grandi personaggi

della storia inglese), una commissione dell’impresario

teatrale irlandese Owen McSwiny realizzata

nell’arco di circa un decennio, a partire dal 1719, che

vide coinvolti alcuni degli artisti veneti più importanti

di quel periodo [5] , versati nel campo della pittura di

storia come in quello del paesaggio e della veduta. Da

un lato Piazzetta e Canaletto, pienamente in sintonia in

questi anni sul versante delle ambientazioni drammatiche

e chiaroscurate e che collaborarono unitamente a

Giambattista Cimaroli per la Tomba allegorica di John

Somers, attualmente conservata presso il Birmingham

Museum and Art Gallery; dall’altro Marco e Sebastiano

Ricci, con la Tomba allegorica dell’Ammiraglio Shovell,

oggi alla National Gallery di Washington (cat. IV.07),

— TIEPOLO E PIAZZETTA — 119



portavoci di una visione atmosferica, aperta e luminosa.

Nell’impresa è assoldato anche Giambattista

Pittoni, che sembra giocare anch’egli nel campo dei

neotenebrosi, con le sue figure accuratamente definite,

e altrettanto attentamente colorate, di una consistenza

minerale, entro una scenografia che favorisce

l’avventura della luce tra le sue quinte architettoniche.

Ma proprio la sua Tomba allegorica di Isaac Newton

(cat. IV.06), al Fitzwilliam di Cambridge, con quel

raggio di sole che attraversa varie lenti, dà forma

all’esperimento dell’analisi dello spettro luminoso e

allo stesso tempo alla scintilla che presto incendierà

la pittura veneziana, nella nuova stagione pittorica

della riscoperta della luce che finirà per coinvolgere

tutti i protagonisti della scena artistica. Più tardi, in

coincidenza con l’apparire di questa luce cristallina e

della ricerca di una nuova verità ottica e atmosferica,

Francesco Algarotti darà alle stampe, nel 1737, il suo

Newtonianismo per le Dame ovvero dialoghi sopra la

luce e i colori, dove le teorie del grande fisico inglese

trovarono piena divulgazione.

La prima attività giovanile di Piazzetta tuttavia

aveva perseguito la via “neotenebrosa” con grande

convinzione, spesso facendo uso di fonti di luce artificiale,

e poco importa in tal senso che i soggetti fossero

collegati ai grandi temi della pittura storica e biblica –

come la Giuditta e Oloferne dell’Accademia di San Luca

a Roma (cat. III.05) – o di genere – come la Contadina

che si spulcia e l’Erbivendolo che conta i denari del

Museum of Fine Arts di Boston (catt. III.03-04): personaggi

che, al di là delle prosaiche occupazioni, sono

sottratti a qualsiasi declinazione meramente aneddotica,

più tipica della pittura di genere, e partecipano

invece di una malinconia e forse apatia esistenziale che

si fa assoluta. Sono queste le opere, verosimilmente

degli anni Venti del secolo, dove possiamo rintracciare

quella “maniera tutta fondata sul naturale e sul

vero, senza elezione delle migliori forme, e caricata di

un chiaroscuro da dare alle cose il maggior rilievo, e

renderle palpabili” che già Algarotti riconosceva come

tratto caratteristico della sua arte [6] . Qualche tempo

prima, tuttavia, Vincenzo Da Canal aveva però giudicato

proprio questa insistenza sugli sbattimenti

di luce, come qualcosa contrario alla naturalezza e

alla verosimiglianza: “Affettava molti sbattimenti de’

secondi lumi nelle carni, i quali sogliono fare un cattivo

effetto, molto lontano dal naturale” [7] . La dimensione

universale che Piazzetta vuole dare al suo approccio

alla natura non lo rende particolarmente interessato

al ritratto, e tra i pochi episodi notevoli un posto

eccezionale merita tuttavia il Ritratto di Giulia Lama

del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid (cat. V.47):

il volto della sua allieva pittrice, tra le più autorevoli

esponenti della corrente neotenebrosa, che interpreta

con audacità e distorsioni anatomiche di nudi accademici,

viene caricato di un afflato sentimentale del tutto

nuovo nella pittura veneziana del Settecento. I ricami

dorati della mantella, che brillano risaltando dall’oscurità

del fondale, e la veduta di tre quarti con il braccio

proteso verso l’esterno segnalano come Piazzetta

sapesse giocare sui grandi modelli della ritrattistica

cinquecentesca e seicentesca (Tiziano e Rembrandt),

arricchendoli di una intonazione patetica e malinconica

che gli è propria.

Sulla strada delle ambientazioni notturne,

Piazzetta sembra precedere un altro artista amante delle

impostazioni neotenebrose, Federico Bencovich (1677-

1756), il cui apporto allo sviluppo della pittura veneziana

del Settecento è stato forse sopravvalutato in passato e

ora viceversa ridimensionato [8] , anche in ragione di un

catalogo assai esiguo. Tra i vertici della sua pittura vi è

indubbiamente la pala oggi conservata a Senonches, ma

un tempo presso la chiesa della Madonna del Piombo di

Bologna, e rappresentante I santi Andrea, Bartolomeo,

Carlo Borromeo, Lucia e Apollonia. Una delle sue opere

meglio riuscite, forse realizzata intorno al 1710 al principio

del soggiorno veneziano [9] . Il pittore vi chiama a

raccolta un bizzarro consesso di santi, attraversati da un

fremito che pare trasmettersi dalla luce lattiginosa che

li raggiunge dall’alto, rivelando bene come il dato della

natura non sia stato mai la sua preoccupazione principale:

quegli sguardi ostentamente rivolti verso l’alto,

presàghi di un qualche sconosciuto fenomeno celeste,

forse extraterrestre, enfatizzano l’insolita suspense, più

adatta si direbbe ad accompagnare in una pellicola di

fantascienza gli effetti speciali per l’atterraggio di un

UFO.

Difficile credere che Piazzetta potesse esser

molto influenzato da opere di questo genere, benché

le fonti ricordino un quadro del pittore dalmata in collezione

Algarotti a cui Piazzetta avrebbe aggiunto una

figura e nonostante la “guaina luminosa” che avvolge le

3 _ L’opera di Piazzetta

rappresentante La Madonna con

il Bambino e l’Angelo custode,

il cui frammento si conserva

oggi all’Institute of Art di

Detroit, venne verosimilmente

realizzata tra 1718-19, poi

sostituita nel 1720 da quella di

Sebastiano Ricci (si veda a tal

proposito L. Moretti, Notizie

e appunti su G.B. Piazzetta,

alcuni piazzetteschi e G.B.

Tiepolo, “Atti dell’Istituto

Veneto di Scienze, Lettere ed

Arti”, CXLIII, 1984-85, p. 319.

Sappiamo però che Piazzetta

si prese la sua rivincita non

solo vendendo la versione

che aveva realizzato per la

Scuola a Zaccaria Sagredo per

20 zecchini in più di quanto

fosse riuscito a farsi pagare

Sebastiano Ricci per il suo

dipinto ma anche, nel suo

inventario del 1738, abbassando

di 100 ducati il valore di

stima di due dipinti di Ricci

conservati nella galleria del

maresciallo Schulenburg,

rappresentanti Diana e Marte e

Venere e Adone.

4 _ Si veda, sul confronto: R.

Pallucchini, Piazzetta, Milano

1956, p. 26; A. Mariuz, L’opera

completa di Giambattista

Piazzetta, Milano 1982, pp. 86-

87, cat. 49.

5 _ Per una ricostruzione

accurata della vicenda, si vedano

i passaggi documentari riportati

da T.D. Llewellyn in Owen

McSwiny’s letters 1720-1744, a

cura di T.D. Llewelly, Verona

2009, pp. 91-128.

6 _ F. Algarotti, Saggio sopra

la pittura, Livorno 1763, p. 167.

7 _ “Giambattista Piazzetta

incominciò con nome strepitoso

a palesarsi per un de’ primi

pittori di questa città per essere

tale disegnatore, che forse non à

pari: ma in varie delle prime sue

opere di grande aspettazione

declinò per modo, che il suo

colorito medesimo pregiudicò

al buon del suo disegno.

Affettava molti sbattimenti de’

secondi lumi nelle carni, i quali

sogliono fare un cattivo effetto,

molto lontano dal naturale. Il

troppo ricercare le parti e farne

un modello di ogni membro

impediva che i di lui quadri

avessero tutta l’armonia. La

FIG. 2

SEBASTIANO RICCI

Estasi di Santa Teresa.

Vienna, Kunsthistorisches

Museum

FIG. 3

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Assunzione della Vergine.

Parigi, Musée du Louvre

tavola dell’Angiolo Custode

in S. Vitale fa fece di quel

ch’io dico”, V. Da Canal, Della

maniera del dipingere moderno.

Memoria di Vincenzo da Canal

P.V. ora per la prima volta

pubblicata [1735], a cura di G.

Moschini, “Mercurio filosofico

e letterario e poetico”, marzo

1810, pp. 13-14.

8 _ G. Pavanello, Un pittore

“tutto spirito e foco”, in Il

giovane Tiepolo. La scoperta

della luca, catalogo della

mostra (Udine, Castello, Salone

del Parlamento) a cura di V.

Gransinigh, G. Pavanello, Udine

2011, p. 25.

9 _ Sul quadro si veda P.

Rosenberg, A. Brejon de

Lavergnée, Un tableau de

Bencovitch retrouvé, “Arte

Veneta”, XXXV, 1981, pp.

187-191.

10 _ Mariuz 1982, pp. 77-78.

11 _ A. Mariuz, Da Giorgione a

Canova, a cura di G. Pavanello,

Verona 2012, p. 192.

12 _ Sul dipinto del Louvre,

si veda S. Loire, Peintures

italiennes du XVIII e siècle du

musée du Louvre, Paris 2017, pp.

270-276.

13 _ Si tratta probabilmente

di una aggiunta al testo,

redatto principalmente nel

1732, in tempo reale rispetto

alla pubblicazione dell’opera

prima della sua partenza per la

Germania. Si veda supra, nota 5.

14 _ Compendio delle vite

de’ Pittori veneziani istorici

più rinomati del presente con

suoi ritratti tratti dal naturale,

Venezia 1962, ad vocem

Piazzetta.

sue figure nelle opere giovanili abbia un qualche punto

di contatto con la costruzione delle forme di Bencovich,

forse grazie al comune interesse per la pittura emiliana

[10] . Più probabile tuttavia che fosse quest’ultimo a

restare affascinato dall’interpretazione del chiaroscuro

del veneziano, tanto da non distaccarsene poi mai nel

corso della sua attività, che poco piacque alla committenza

e agli amatori cittadini [11] .

Per quanto riguarda Piazzetta, invece, egli non

solo seppe porsi quale punto di riferimento di un’intera

generazione di artisti ma fu in grado anche, intorno alla

metà degli anni Trenta, di adeguarsi alle nuove richieste

del gusto e anzi, per certi versi, guidarle, senza tradire

l’essenza del proprio linguaggio pittorico. Nonostante

il risentimento personale che Piazzetta dovette nutrire

per Ricci, è un fatto che subito dopo la scomparsa di

Sebastiano la pittura del più giovane maestro conobbe

una virata che certamente non sarebbe stata possibile

senza la lezione dell’artista bellunese. La svolta veniva

osservata dal suo amico ed editore Giambattista

Albrizzi, nelle parole dedicate alla pala rappresentante

l’Assunzione della Vergine dipinta per Clemente Augusto

Wittelsbach, principe elettore di Colonia, per la chiesa

di Sachsenhausen, presso Francoforte, e oggi conservata

al Louvre (fig. 3): “Si scostò dal suo primo periodo

alquanto tetro di colorire, dipingendola vagamente e

con graziose tinte” [12] . La preferenza per un gusto meno

drammatico e intonazioni più lievi risulta evidente

anche dalle parole di Vincenzo Da Canal: “Dopo la sua

fresca età si avvide de’ suoi primi errori, o di quella sua

maniera non molto gradita, perciò raddolcì il carattere,

che avea buoni semi, e compare in questi ultimi tempi

uno de’ primi pittori viventi, come il prova la tavola che

per Magonza dipinse per 1735” [13] .

L’anonimo longhiano del 1762 parlerà invece

di “lume solivo” nella pittura di Piazzetta, termine

120 —LA SCOPERTA DELLA LUCE —

— TIEPOLO E PIAZZETTA — 121



che possiamo estendere a tutta questa grande stagione

artistica veneziana [14] . In verità, se dal punto

di vista dell’impostazione luministica, ora riportata

tutta in chiaro e quasi “sovraesposta”, possiamo dire

che Piazzetta possa avere ceduto di fronte alla lezione

riccesca, derivandone la preferenza per ambientazioni

poco contrastate, dal punto di vista della tavolozza

non v’è dubbio che il pittore veneziano perseguisse

una strada di grande autonomia e coerenza rispetto

alle proprie premesse: una gamma austera e assai limitata

di bianchi, ocra, grigi e neri segna una netta differenza

rispetto alla ricca scelta di Ricci e anche dell’interpretazione

che di quella lezione ne dà Giambattista

Tiepolo in questi anni.

L’impressione è che Piazzetta abbia semplicemente

sottratto alle ambientazioni neotenebrose

i soggetti e le composizioni a lui cari, costruiti con

grande semplicità e gesti controllati, per esporli in

piena luce, sotto un sole meridiano. Benché gli studiosi

abbiano, sulla scorta di questo momento di

passaggio già evidenziato dalle fonti antiche, enfatizzato

la così detta “svolta” del 1735, v’è da credere che

Piazzetta non abbandonasse in verità mai costruzioni

luministiche più drammatiche e che, in queste scelte,

si debba invece riconoscere un’estensione dei propri

mezzi espressivi, che si accompagna anche all’ampliamento

dei temi e dei soggetti affrontati.

Piazzetta sviluppa un nuovo filone, dalla critica

forse un poco sbrigativamente considerato

“rococò”, inizialmente nell’ambito dell’illustrazione

libraria (soprattutto nei volumi realizzati per l’amico

Giambattista Albrizzi, le Opere di Bossuet e poi per l’edizione

della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso

del 1745), ma presto estendendolo anche alla sua produzione

pittorica.

Uno dei casi più affascinanti in questo senso

è dato dalle tele, realizzate fra 1740 e 1745 per il

maresciallo von der Schulenburg [15] , la Pastorale

dell’Art Institute di Chicago (cat. IV.09) e la cosiddetta

Passeggiata campestre (o Idillio sulla spiaggia)

del Wallraf-Richartz Museum di Colonia, opere capitali

della storia della pittura europea del Settecento:

soggetti sino ad allora per lo più relegati all’ambito

di genere, e certamente più frequentati nel contesto

della pittura nordica, vengono per la prima volta

interpretati in chiave “eroica”, sia per il formato [16] sia

per l’impegno e la tenuta stilistica. Un’operazione che

ha paragoni, nel secolo, solo con certe invenzioni di

Watteau, con il quale peraltro questi dipinti possono

condividere un orizzonte vago, indeterminato, al di

fuori di ogni naturalismo episodico e trasportato nel

versante dell’idillio malinconico e sognante. L’arte di

Piazzetta è fondamentalmente elusiva e lavora per sottrazione:

i volti sono spesso ripresi di sguincio, le palpebre

abbassate, i contorni emergenti dall’oscurità.

Un linguaggio “mistico”, nel senso che l’impressione

è sempre quella di sostare al limite di un

mistero, sia esso di natura religiosa o semplicemente

quello delle vite e dei pensieri dei personaggi su cui

l’artista posa il proprio sguardo. Perché l’opera possa

essere compiuta è necessaria dunque l’immaginazione

dello spettatore, che completi la composizione,

ne esplori idealmente le parti in ombra o nascoste, ne

esamini le circostanze e l’occasione. Chi osserva è “iniziato”

al mistero che si dispiega davanti ai suoi occhi, e

indotto a una disposizione d’animo di contemplazione

e di riflessione, poco importa che dietro i soggetti rappresentati

in questo caso si nascondano, con ogni

verosimiglianza, dei temi licenziosi. La proverbiale

lentezza esecutiva di Piazzetta è anche la lentezza che

si richiede agli spettatori per esplorare le sue opere.

Si osservi ad esempio come è costruita la cosiddetta

Passeggiata campestre di Colonia (fig. 1): un giovane

personaggio maschile ci guarda direttamente dal

centro del quadro e pare indicare la figura alle sue spalle,

verso la quale indirizza egualmente lo sguardo della

compagna femminile in piedi, con un bizzarro colletto

a gorgiera di gusto seicentesco. La protagonista assoluta,

verso la quale sembrano convergere gli occhi di

tutti oltre che i nostri, ci volge le spalle, reggendo un

ombrellino e sfuggendo al nostro sguardo, bloccata nel

momento in cui potrebbe voltarsi verso di noi.

L’indeterminatezza dei soggetti è ostentata anche

nella descrizione che del dipinto di Chicago fece lo stesso

Piazzetta, nell’inventario della collezione Schulenburg

del 1741: “Donna sentata con ragazzo in mezzo alle

gambe col cesto d’uva alla mano con cani che scaturiscono

un’Anera nell’acqua e due uomini in distanza” [17] .

Una descrizione didascalica, meramente funzionale al

riconoscimento del dipinto tra gli altri della collezione,

evidentemente, ma indicativa dell’approccio lontano

da eccessi interpretativi con cui era possibile avvicinare

15 _ Sulla data di esecuzione

dei due dipinti e i pagamenti

al pittore, si veda A. Binion,

La Galleria scomparsa del

maresciallo von der Schulenburg.

Un mecenate nella Venezia del

Settecento, Milano 1990, p. 98.

16 _ Sono tele rispettivamente

di 191x143 e 196,5x146 cm.

17 _ A. Binion, From

Schulenburg’s gallery and

record, “Burlington Magazine”,

112, 1970, p. 302; Binion 1990,

p. 98.

FIG. 4

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

La Madonna con il Bambino e

l’Angelo Custode.

Detroit, Institute of Fine Arts

18 _ C. de Brosses, Viaggio

in Italia. Lettere familiari, Bari

1973, p. 117-118.

questo tipo di dipinti. Tanto elusive erano le presenze

femminili nel quadro di Colonia, quanto sfacciata è però

ora quella che ci guarda direttamente negli occhi dal

dipinto americano. Le due tele à pendant sono concepite

dunque in una sorta di opposizione duale, cui contribuisce

anche il diverso abbigliamento dei personaggi,

elegante e ricercato in un caso, per quanto di una moda

senza tempo, popolaresco nell’altro. Non sarà difficile a

ogni modo rintracciare il sottotesto erotico di entrambi

i dipinti, destinati al maresciallo tedesco residente a

Venezia che Charles de Brosses ricordava come “un vecchione

assai per bene che sa tutto sulla guerra e pochissimo

sulla morale. Ci propina sulla questione delle donne

continui sermoni, che ascoltiamo poco e seguiamo

meno” [18] .

A nobilitare tali soggetti allusivi è tuttavia egualmente

evidente il richiamo al tema pastorale, ancora

di grande successo nel corso del Settecento. Pensiamo

ad esempio che nel 1735 venne ristampato proprio a

Verona, dove risiederà a partire dal 1742 il maresciallo

von Schulenburg, il Pastor Fido di Guarino Guarini.

L’abbigliamento e la licenziosità nel vestire, i volti dai

tratti popolari, la presenza di animali, contribuiscono

ad ambientare la Pastorale di Chicago in un contesto

agreste, senza tempo, nel quale potrebbe essere difficoltoso

definire anche solo il momento della giornata

in cui si svolge la scena. Il fondale chiuso in un’ombra

quasi impenetrabile – complice una preparazione pittorica

che si è scurita nel corso dei secoli – dà quasi

l’impressione che la scena si svolga all’imboccatura

di una grotta, mentre un riflettore luminoso rivela la

donna dal corpetto slacciato e il fanciullo con la cesta

piena d’uva, che esita sul limite dello specchio d’acqua

nel primo piano, amplificando l’impressione che queste

creature sostino sul limite di un altro mondo, che ci

sfiora ma resta irraggiungibile.

In questo caso, come anche nella cosiddetta

Indovina delle Gallerie dell’Accademia (cat. IV.10), è

difficile non cogliere un’allusione erotica nella scena:

qui la fanciulla si offre all’osservatore in modo quasi

122 —LA SCOPERTA DELLA LUCE —

— TIEPOLO E PIAZZETTA — 123



sfacciato, sotto una luce estiva e un poco stordente,

veramente un “lume solivo”, che però pare provenire da

distanze siderali ed esalta l’incarnato perlaceo di questa

dea rusticana dal cappello di paglia, le vesti discinte

dai panni color rosa e crema, il vivace cagnolino sotto

braccio attratto dall’esca offerta sul palmo dalla sua

accompagnatrice come i due giovani che stanno probabilmente

contrattando il prezzo e anche i fruitori del

quadro lo sono dalle grazie femminili in primo piano.

Non si sta forse alludendo al desiderio che nasce dallo

sguardo e che l’immagine ha il potere di suscitare e, al

contempo, in quanto frutto di un artificio, di eludere?

Non è tuttavia minore il mistero che pare avvolgere i

personaggi, e che ha legittimato le interpretazioni iconografiche

le più bizzarre, da quelle sensuali, per l’appunto,

a quelle mitologiche, psicoanalitiche e persino

politiche e religiose, talvolta inconsapevolmente sminuendo

l’aspetto rivoluzionario di queste opere [19] .

Nonostante la natura cripto-erotica dei soggetti, è

comunque decisiva la componente di “capriccio”, realizzata

con un’associazione di figure apparentemente

incongrue, invece che con paesaggi e rovine: “capricci

fiamminghi” verranno infatti chiamate le simili invenzioni

del suo allievo Domenico Maggiotto [20] .

Se a Venezia intorno agli anni Trenta Piazzetta

domina il campo della grande pittura religiosa e di

storia, con incursioni di successo nel “genere”, incomincia

tuttavia a prendersi prepotentemente la scena

quello che sarà poi il grande protagonista del secolo:

Giambattista Tiepolo, che di questa stagione luminosa

rappresenterà il vero Sole attorno al quale tutti

si troveranno a ruotare. Mentre Piazzetta si limiterà

a una rapida incursione nel campo della decorazione

soffittale – la Gloria di san Domenico per la basilica

dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, commissione

peraltro ottenuta a discapito di Mattia Bortoloni e

dello stesso Tiepolo – quest’ultimo incomincerà proprio

in questi anni, dopo le grandi esperienze del

Palazzo Patriarcale di Udine, e dei successi raccolti

a Milano con la decorazione di palazzo Archinto e

poi di palazzo Casati, a prendere saldamente possesso

del suo elemento naturale, il cielo, rivelandosi

FIG. 5

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Il Tempo scopre la Verità.

Biron, villa Loschi-Zileri dal

Verme

19 _ Per una panoramica

recente sulle varie proposte, si

veda: S. Stephan, Die Pastoralen

des Giambattista Piazzetta

Ein Beitrag zum Wandel der

Bildsprache am Vorabend der

Moderne, München 2004. A

favore di una lettura “erotica”

delle pastorali di Schulenburg

sono L.M. Jones, The paintings

of Giovanni Battista Piazzetta,

New York 1981, II, pp. 45-40,

194-198, catt. 14, 65; Mariuz

1982, pp. 95-97 e, con nuovi

argomenti, F. Porzio, Pitture

ridicole. Scene genere e

tradizione popolare, Milano

2008, pp. 127-133.

20 _ G. Knox, Giambattista

Piazzetta 1682-1754, Oxford

1992, p. 187.

21 _ A. Mariuz, Giandomenico

Tiepolo, Venezia 1971, pp. 8-9:

“E si potrebbe allora indicare

nel Tiepolo un ’vedutista

della fantasia’ che, puntando

la camera ottica sulle regioni

dell’immaginazione, conferisce

a ogni figura l’evidenza

raggiante di un cristallo, ne

fissa l’orbita, con infallibile

precisione, nella spirale dello

spazio”.

22 _ Per questi disegni, si

veda G. Knox, Un quaderno

di vedute di Giambattista e

Giandomenico Tiepolo, Milano

1974.

23 _ M. Levey, Giambattista

Tiepolo. La sua vita, la sua arte,

Milano 1986, p. 72.

come l’artista più dotato della sua generazione.

Perfettamente in linea con lo spirito del tempo, la

luminosità aperta e tersa che era già comparsa nella

sua pittura ad affresco si fa strada anche nelle tele a

olio, come dimostra il soffitto con Zefiro e Flora, pensato

per Ca’ Pesaro, in occasione del matrimonio tra

Antonio Pesaro e Caterina Sagredo, nel 1732, e oggi

conservato presso il Museo del Settecento veneziano

a Ca’ Rezzonico: difficilmente Tiepolo avrebbe potuto

affrontare un soggetto più adatto per dimostrare la

dimestichezza con il genere. Le figure si muovono con

un agio e una naturalezza nuova, attraversate e quasi

rese trasparenti come le ali di Zefiro da una luce di cristallo,

e una tavolozza fredda, di nuvole azzurre e grigio-scure,

infiammata improvvisamente dal drappo

rosso-arancio che cinge i fianchi di Flora. Il benaugurale

messaggio di prosperità e fecondità alla nuova

coppia di sposi è risolto con la lievità di un epigramma

o di un sonetto. Ma con quale lucidità Tiepolo sa dare

corpo alle sue visioni! Veramente, un “vedutista della

fantasia”, come è stato detto [21] , che fa tesoro dell’ottica

newtoniana non per ricreare l’effetto realtà della

natura, ma per manipolarla. Sono le medesime qualità

– il nitore ottico dei dettagli, la luce tersa ed esatta

che dà volume e credibilità alle sue figure in volo, una

tavolozza quanto mai varia – che rintracciamo nella

grande decorazione ad affresco cui attende in questi

anni, come ad esempio nello straordinario ciclo di

affreschi per villa Loschi a Biron di Monteviale presso

Vicenza, intorno al 1734 (fig. 5). Resta ancor oggi sorprendente

la capacità del maestro di far convivere

le sue doti visionarie e l’interesse per la natura, posando

su di essa uno sguardo nuovo: documenti eccezionali

in tal senso sono alcuni disegni di paesaggio, realizzati

probabilmente già intorno agli anni Cinquanta, vedute

di tetti o di casolari, come quello del British Museum

convocato in mostra (cat. IV.17) con la sommità di

villa Valmarana, in cui il fondo del foglio, lasciato

bianco, o in altri casi appena acquerellato, si afferma

con una forza inedita, quasi che l’occhio dell’artista

fosse calamitato verso il cielo e tutto ciò che posa sulla

terra potesse essere visto solo di scorcio, ai margini

di un abbaglio luminoso [22] . Talvolta invece basta

un’umile staccionata e un muricciolo, sui quali far

scendere la meridiana di un’ombra netta, per accendere

di luce estiva il bianco della carta risparmiata

dall’acquerellatura, quasi fosse una tempera di Marco

Ricci (cat. IV.18).

La circostanza che, poco dopo gli affreschi

vicentini, il conte Carl Gustav Tessin, giungendo a

Venezia nel 1736 per assoldare il pittore in grado di

decorare il palazzo reale di Stoccolma, individuasse in

Giambattista Tiepolo il maestro adatto ad assolvere il

gravoso compito, ci fa comprendere la rapidità con la

quale egli seppe affermarsi come protagonista assoluto

della pittura veneziana. Il corteggiamento non

andò a buon fine – questioni di soldi –, ma almeno

il conte poté ritornare in patria con la Danae oggi

all’Università di Stoccolma (cat. IV.08), un capolavoro

di quel genere mitologico-erotico molto apprezzato

nell’ambito dell’arte veneta sin dal Cinquecento e nel

quale Tiepolo rivaleggiava idealmente con Veronese

e Sebastiano Ricci, aggiungendovi una nota comica e

irriverente, certamente gradita al gusto settecentesco.

Le poche monete che accompagnano la discesa della

pioggia d’oro di Giove verso Danae – la cui compagnia

la divinità compra “con la minore spesa possibile”,

come osservò argutamente Michael Levey [23] – non

saranno da interpretare tanto come un’allusione alla

tirchieria del committente, ma come scelta di sostituire

questo oro così tangibile con il riscatto di una luce

che è essa stessa il soffio della materia più preziosa.

Se Piazzetta concepisce sempre le sue opere

come il risultato di una dialettica, tra luce-ombra, sofferenza-riscatto,

visibile-invisibile, per Tiepolo, rara

occorrenza nella storia della creatività umana, l’arte

non si dispiega in questi anni felici come risultato di

un’opposizione e conquista di un travaglio, ma come

puro dono e gioia. Ecco perché, se pur in questa stagione

entrambi si fanno contagiare dall’ebbrezza per

tale nuova arte luminosa, nelle loro opere la luce è così

diversa: in un caso essa illumina sovente ciò che riconosciamo

nella vita di tutti i giorni, ma pare sempre

provenire da mondi lontani; nell’altro la pittura, popolata

di miti, sogni e allegorie, sembra condurci direttamente

là dove questa luce ha la sua origine e trionfo.

Insieme con l’affermarsi di questa nuova stagione,

Tiepolo incominciava a farsi strada in un contesto

non solo veneto e italiano, ma europeo. Ciò apparirà

in modo ancora più evidente a partire dagli anni

successivi, nei quali egli divenne, sempre più, il primo

maestro del secolo.

124 —LA SCOPERTA DELLA LUCE —

— TIEPOLO— 125



CAT.IV.01

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il Canal Grande da San Vio

Olio su rame, 46×62,5 cm

Wells-Next-The-Sea, The Earl of Leicester and the

Trustees of the Holkham Estate

Bibliografia _ Brettingham 1773, p. 10; Constable

1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I, tav. 41, II,

cat. 192; Puppi 1968, cat. 57; Corboz 1985, II, p. 586,

cat. P77; Canaletto 1989, cat. 20.

CAT.IV.02

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il Ponte di Rialto

Olio su rame, 45,5×62,5 cm

Wells-Next-The-Sea, The Earl of Leicester and the

Trustees of the Holkham Estate

Bibliografia _ Brettingham 1773, p. 10; Constable

1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I, tav. 47, II,

cat. 226; Puppi 1968, cat. 58; Corboz 1985, II, p. 586,

cat. P78; Canaletto 1989, cat. 21.

126 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 127



CAT.IV.03

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il molo verso est con la colonna di San Marco

Olio su tela, 111×186 cm

Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco, inv. 1473

Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni

di J.G. Links), I, tav. 29, II, cat. 113; Puppi 1968, cat.

143A; Links 1981, cat. 161; Corboz 1985, II, p. 637, cat.

P 251; Kowalczyk, in Splendori Settecento 1995, p. 288,

cat. 69; Kowalczyk, in Canaletto 2005, cat. 29; Lucchese,

in Canaletto 2008, pp. 262-263, cat. 35; Beddington, in

Éblouissante Venise 2018, p. 244, cat. 13.

128 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 129



CAT.IV.04

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il bacino di San Marco

Olio su tela, 124,5×204,5 cm

Boston, Museum of Fine Arts, Abbott Lawrence

Fund, Seth K. Sweetser Fund and Charles Edward

French Fund, 1939, inv. 39.290

Bibliografia _ Waagen 1838, III, p. 206, cat. 64;

Waagen 1854, III, p. 323, cat. 64; Constable 1929, p. 46;

Constable 1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I,

tav. 32, II, cat. 131; Canaletto 1964, pp. 56-57, cat. 18; I

vedutisti 1967, pp. 158-161, cat. 71; Puppi 1968,

cat. 161A; Links 1977, pp. 42, 50, tav. X; Links 1981,

cat. 146; Canaletto 1982, p. 61, cat. 85; Bettagno 1983,

pp. 225-228, figg. 4-5, 7; Corboz 1985, I, pp. 101, 104,

160, figg. 108, 153, II, p. 643, cat. P278; Canaletto 1989,

pp. 192-196, cat. 51; The Glory 1994, pp. 230-231, 437,

cat. 140; Links 1994, pp. 95, 98, 100, tav. 78; Pallucchini

1995, I, pp. 489-491, figg. 770, 773; Redford 1996, tav.

24; Succi 1999, pp. 49, 51, fig. 30; Venice: Canaletto 2010,

p. 183, cat. 22.

130 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 131



CAT.IV.05

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il Canal Grande da Santa Chiara verso Santa Croce

Olio su tela, 48,5×79 cm

Parigi, Musée de Cognacq-Jay

Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni di

J.G. Links), II, cat. 268; Puppi 1968, cat. 99C; Venise au

dix-huitième siècle 1971, cat. 10; Corboz 1985, II, p. 628,

cat. P 210; de Los Llanos, in Canaletto 2008, pp. 267-

268, cat. 42.

132 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 133



CAT.IV.06

GIAMBATTISTA PITTONI, GIUSEPPE

VALERIANI, DOMENICO VALERIANI

Tomba allegorica di Isaac Newton

Olio su tela, 220×139 cm

Cambridge, The Syndics of the Fitzwilliam

Museum, University of Cambridge, inv.

PD.52-1973

Bibliografia _ Zava Boccazzi 1979, p. 123,

cat. 40; Pallucchini 1995, I, pp. 529-530;

Lettere artistiche 2009, p. 121.

CAT.IV.07

SEBASTIANO RICCI, MARCO RICCI

Tomba allegorica a sir Cloudesly

Shovel

Olio su tela, 222,1×158,8 cm

Washington, National Gallery of Art,

Samuel H. Kress Collection, inv. 1961.9.58

Bibliografia _ Daniels 1976, pp. 153-154,

cat. 531; Scarpa 2006, pp. 342-343, cat. 556.

134 —LA SCOPERTA DELLA LUCE —



CAT.IV.08

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Danae

Olio su tela, 41×53 cm

Stoccolma, Stockholm University Art Collections,

inv. SU230

Bibliografia _ Brown 1993, pp. 176-178, cat. 12, con

bibliografia precedente; Gemin, Pedrocco 1993, p. 313,

cat. 209; Mariuz, in The Glory 1994, p. 186, cat. 103;

Barcham, in Giambattista Tiepolo 1996, pp. 124-126, cat.

15; Craievich, in Giambattista Tiepolo 2012,

pp. 228-229, cat. 21.

136 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 137



CAT.IV.09

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Scena pastorale

Olio su tela, 191,8×143 cm

Chicago, The Art Institut, Charles H. and Mary F.S.

Worcester Collection, inv. 1937.68

Bibliografia _ Mariuz 1982, p. 96, cat. 96; Binion

1990, pp. 98-101; Knox 1992, pp. 184-191; Binion,

in The Glory 1994, p. 159, cat. 79; Magani, in Splendori

Settecento 1995, cat. 47; Pallucchini 1995, I, p. 380;

Porzio 2008, p. 132; Loisel, in Éblouissante Venise

2018, p. 76.

CAT.IV.10

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

L’indovina

Olio su tela, 154×114 cm

Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 483

Bibliografia _ Ruggeri, in Giambattista Piazzetta

1983, p. 102, cat. 35; Knox 1992, pp. 186-187; Binion,

in The Glory 1994, p. 156, cat. 76; Porzio 2008, p. 132;

Loisel, in Éblouissante Venise 2018, pp. 76, 245, cat. 50.

138 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 139



CAT.IV.11

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

L’angolo sud ovest di Palazzo Ducale

Penna, inchiostro bruno, 225×176 mm

Oxford, Ashmolean Museum, University of Oxford,

inv. WA 1938.94

Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni

di J.G. Links), I, tav. 99, II, cat. 543.

CAT.IV.13

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Palazzo Ducale dal bacino di San Marco

Penna e inchiostro marrone su matita, 220×376 mm

Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth

II, inv. RCIN 907450

Bibliografia _ Parker 1948, p. 38, cat. 46, tav. 19;

Constable 1962 (e successive edizioni di J.G. Links), II,

cat. 563.

CAT.IV.12

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

L’angolo di Palazzo Ducale

con San Giorgio Maggiore

Penna e inchiostro bruno su matita, 270×188 mm

Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth

II, inv. RCIN 907442

Bibliografia _ Parker 1948, p. 31, cat. 12, tav. 23;

Constable 1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I,

tav. 99, II, cat. 544.

CAT.IV.14

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il Canal Grande a Palazzo Corner

Penna e inchiostro bruno su matita, 270×374 mm

Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth

II, inv. RCIN 907469

Bibliografia _ Hadeln 1929, p. 21; Parker 1948, p. 32,

cat. 17, tav. 26; Constable 1962 (e successive edizioni di

J.G. Links), I, tav. 106, II, cat. 584; Bleyl 1981, p. 21.

140 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 141



CAT.IV.15

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il Canale delle barche a Mestre

Penna e inchiostro grigio su matita, 255×407 mm

Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth

II, inv. RCIN 907490

Bibliografia _ Parker 1948, pp. 47-48, cat. 89, tav. 61;

Constable 1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I,

tav. 123, II, cat. 666; Canaletto 1964, cat. 84; Razzall,

in Canaletto 2017, pp. 345-347, cat. 188.

CAT.IV.16

BERNARDO BELLOTTO

Veduta di Rota (recto)

Studi per la Basilica di San Marco (verso)

Penna e inchiostro bruno su matita nera,

278×305 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 8633

Bibliografia _ Kowalczyk, in Bellotto e Canaletto

2016, p. 96, cat. 20, con bibliografia precedente.

CAT.IV.17

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Piano superiore della Scuderia di Villa Valmarana

Penna e inchiostro bruno, con guazzo bruno,

100×232 mm

Londra, The British Museum, Donated by Charles

Ricketts, inv. 1903,1126.2

Bibliografia _ Knox 1974, cat. 36; Mariuz 2008,

p. 211.

CAT.IV.18

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Muro con cancello e edificio rustico

Penna e inchiostro bruno, con guazzo bruno,

170×282 mm

Londra, The British Museum, inv. 1936,1010.17

Bibliografia _ Knox 1974, cat. 4; Aikema 1996, p. 230.

142 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 143



CAT.IV.19

ANTONIO VISENTINI

Palazzo Labia e l’ingresso a Cannareggio

Matita, penna, inchiostro seppia, ripassati a punta

metallica, 313x482 mm

Iscrizioni: Veduta dal ponte di Canalregio

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 418

Bibliografia _ Succi, in Canaletto & Visentini 1986, p.

351, cat. 178.

CAT.IV.20

FRANCESCO ALGAROTTI

Il Newtonianismo per le dame, ovvero dialoghi sopra

la luce e i colori

Pasquali, Venezia o Padova (1737)

Venezia, Museo Correr, Biblioteca

144 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 145



COLORE

FAKE

U NA

DIMENSIONE

EUROPEA



CHARLES

BEDDINGTON

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

Il ponte di Walton, particolare.

Dulwich Picture Gallery

UNA DIMENSIONE

EUROPEA

LA VEDUTA

L’unica vera minaccia che

Canaletto abbia mai dovuto affrontare nel suo monopolio

del mercato delle vedute fu Michele Marieschi

(1710-1743). Come Canaletto, era un nativo veneziano

con un passato nella scenografia, ma per molti aspetti

era molto diverso da lui. Mentre Canaletto era un gentiluomo

della classe dei “cittadini originari” e aveva

uno stemma di famiglia, Marieschi proveniva da una

famiglia molto umile, sembra che fosse quasi analfabeta

e sposò la figlia di un mercante d’arte. Anche il

modus operandi di Marieschi era molto differente.

Fondamentalmente, si dedicava a lavori molto più

veloci e, sebbene ci siano note solamente otto opere

di grandi dimensioni, c’è una quantità significativa di

opere più piccole, quasi delle stesse dimensioni della

misura “standard” di Canaletto degli anni Trenta,

tutte prodotte durante una carriera molto breve. Il suo

stile altamente personale era caratterizzato dalla vivacità

della pennellata e da una ricca materia. In generale

mostra una variante più luminosa e dai colori più

brillanti rispetto al Canaletto di quegli anni, dominata

da azzurri e tonalità di marrone e punteggiata da piccole

aree di rosso intenso. È anche più animata, con

una formula più agitata per l’acqua, e mostra minore

preoccupazione verso il tentativo di impartire solidità

agli edifici. Lo spessore della sua pittura e la pennellata

più ampia, con i singoli tocchi chiaramente individuabili,

ricordano il lavoro di Canaletto all’epoca in cui

Marieschi era ancora un giovane adolescente; ciò suggerisce

che l’artista potesse avere una certa familiarità

con le prime vedute di Canaletto rimaste a Venezia.

Non si conoscono disegni di Marieschi, che,

almeno a volte, sviluppò le sue composizioni direttamente

durante l’esecuzione, dando luogo a forti interventi

di ripensamento sulle tele.

Spesso mostra una predilezione non solo per

composizioni d’impatto basate su punti di vista inaspettati,

ma anche per un grado di distorsione che va oltre

tutto ciò che era stato tentato da Canaletto. Diverse delle

sue tele più grandi, inevitabilmente i suoi capolavori, ne

sono un buon esempio, in particolare Santa Maria della

Salute e l’entrata sul Canal Grande, guardando verso est

(Parigi, Musée du Louvre), il cui effetto penetrante è

dovuto allo scorcio d’impatto della chiesa derivato dal

punto di vista insolitamente basso, Il Canal Grande con

il Ponte di Rialto da nord e l’arrivo del nuovo Patriarca

Antonio Correr, 7 febbraio 1735 (Osterley Park, National

Trust), in cui il canale è distorto in una netta ansa, e la

Veduta del Ponte di Rialto con la Riva del Ferro (cat. V.16;

San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage), in cui il Ponte

di Rialto viene visto da una visuale molto ristretta. Queste

opere fanno apparire le composizioni di Canaletto meno

briose. Mentre Canaletto e la sua famiglia realizzarono

in prima persona le ‘macchiette’, Marieschi, che non era

un grande pittore di figure, ne delegava l’esecuzione a

pittori specializzati, secondo una pratica non rara nelle

botteghe veneziane del periodo. Tra questi, Gaspare

Diziani (Belluno 1689-Venezia 1767), uno dei testimoni

al matrimonio di Marieschi; Francesco Simonini (Parma

1686-Firenze o Venezia 1753 circa); Giovanni Antonio

Guardi (Vienna 1699-Venezia 1760); e infine Francesco

Fontebasso (Venezia 1707-1769), padrino del suo terzo

figlio. Diziani e Simonini dipinsero i personaggi del quadro

di Osterley (che reca le iniziali “MMF” e “F SIM”, probabilmente

da interpretare come firme); mentre Diziani

si occupò da solo di quelle del quadro dell’Ermitage.

— LA VEDUTA — 149



Nel 1741 Marieschi pubblicò un libro di ventidue

acqueforti tratte dalle sue composizioni,

Magnificentiores Selectioresque Urbis Venetiarum

Prospectus. Come il libro di Visentini sulle incisioni

da Canaletto, la chiara funzione del volume era quella

di diffondere il lavoro di Marieschi a un pubblico più

ampio e fungere da libro di modelli. Per certi versi lo

sorpassa, in quanto l’artista incise direttamente le sue

lastre e le composizioni non sono successive ai suoi

dipinti, sebbene molte delle sue opere siano varianti

delle stesse. La velocità di esecuzione di Marieschi

lo aiutò probabilmente a vendere a un prezzo inferiore

rispetto a Canaletto, e sicuramente strappò dei

clienti al suo rivale più noto. Il feldmaresciallo von der

Schulenburg, che aveva commissionato a Canaletto La

Riva degli Schiavoni, verso ovest, rispose alla incomparabile

qualità del dipinto affidando non meno di dodici

dipinti a Marieschi. Henry Howard, quarto conte

di Carlisle, aveva ricevuto un altro dei capolavori di

Canaletto, il Bacino di San Marco conservato a Boston

(cat. IV.04; Boston, Museum of Fine Arts), prima di

acquistare diciotto dipinti di Marieschi. Canaletto si

dovette probabilmente sentire sollevato alla morte di

Marieschi nel 1743, poco dopo il suo trentaduesimo

compleanno.

Il periodo “freddo” di Canaletto, 1738-42

circa, coincide con l’emergere nella sua bottega del

nipote Bernardo Bellotto (Venezia 1722-Varsavia

1780). Incredibilmente precoce, Bellotto era bravissimo

ad assimilare le lezioni dallo zio scapolo e

sfruttò al massimo quella che era la migliore formazione

che un pittore vedutista potesse mai ricevere.

Aveva solo sedici anni quando venne accettato dalla

corporazione dei pittori veneziani, nel 1738, e già nel

1740 circa era in grado di imitare lo stile dello zio

con straordinaria destrezza. Pietro Guarienti scrisse

delle vedute veneziane di Bellotto che “un grande

intendimento ricercasi in chi vuole distinguerle da

quelle del Zio” [1] . Le fasi successive della sua formazione

comprendono la riproduzione pressoché completa

delle composizioni di Canaletto: lavori recenti

accessibili in bottega nell’attesa che venissero inviati

ai committenti, e i primi esempi a casa di Joseph

Smith sul Canal Grande conosciuti tramite le incisioni

di Visentini. Sebbene molte delle sue opere

siano presumibilmente state vendute con il nome del

più noto capobottega, la distinta personalità artistica

di Bellotto è espressa chiaramente fin dall’inizio, poiché

non fu mai timido nel cercare di “migliorare” i

suoi modelli.

Il Bacino di San Marco nel giorno dell’Ascensione

con il Ritorno del Bucintoro (cat. V.03; Audley

End) è uno splendido esempio di uno dei primi

lavori di Bellotto, recentemente indentificato come

tale dallo scrivente [2] . È una replica del dipinto del

Canaletto di Holkham Hall (cat. V.02) [3] .

Nessuno dei due è stato esposto prima. L’opera

di Holkham venne eseguita per il grande mecenate e

collezionista Thomas Coke, Lord Lovel, dal 1744 primo

conte di Leicester (1697-1759), che in precedenza aveva

acquistato le due lastre di rame di Canaletto ancora

a Holkham (catt. IV.01-02) per la decorazione della

sua dimora, all’epoca in costruzione. Lettere rinvenute

indicano che doveva essere stato commissionato

intorno al marzo 1738. Doveva decorare il caminetto

del boudoir della moglie Lady Clifford nell’ala domestica,

posizione in cui venne installato nel 1740 e che

ancora occupa, incorniciato da William Kent. Un

disegno di Bellotto ispirato al dipinto di Canaletto

di Holkham si trova tra i fogli dello studio di Bellotto

ora a Darmstadt [4] . Il dipinto di Audley End deve,

tuttavia, essere stato dipinto in prossimità a quello

di Canaletto di Holkham, in quanto lo segue persino

nei minimi dettagli di colore. Si deve dunque datare

intorno al 1739, quando Bellotto aveva solamente

diciassette anni. Non venne dipinto per Audley End,

ma ci arrivò prima del 1836 dopo essere stato lasciato

in eredità a Richard Neville, secondo Lord Braybrooke,

dalla signora George Berkeley (1734-1800), assieme ad

altre due vedute veneziane della stessa data. Vi è traccia

dell’arrivo di queste tele in eredità alla signora Berkeley

da parte del suocero George Berkeley (1663-1753),

vescovo della cittadina irlandese di Cloyne e rinomato

filosofo, e non vi è ragione di dubitare che il dipinto di

Bellotto provenisse dalla stessa fonte. Berkeley, che era

stato nominato vescovo di Cloyne nel 1734 vivendo qui

fino al 1752, era sufficientemente abbiente per commissionare

vedute veneziane. I due dipinti minori sono

di un copista delle opere di Canaletto attivo alla fine

degli anni Trenta, battezzato dallo scrivente “Maestro

di Bateman”. Si ha traccia solamente della sua opera

come copista dei quadri di Canaletto passati per le

1 _ P. Guarienti in P.A.

Orlandi, P. Guarienti,

Abecedario Pittorico, Venezia

1753.

2 _ Nonostante si trovi in un

collezione di prestigio, è stato

pubblicato un’unica volta a cura

di J.G. Links, A Supplement to

W.G. Constable’s Canaletto:

Giovanni Antonio Canal 1697-

1768, London 1998, p. 34, cat.

342(a), come replica del dipinto

di Canaletto a Holkham.

3 _ W.G. Constable,

Canaletto: Giovanni Antonio

Canal 1697-1768, London 1962,

I, tav. 65; II, cat. 342; D. Succi,

Il Bucintoro nella grande arte

della Serenissima, Treviso 2017,

pp. 47-48, cat. 2, tav. 32 (a

colori).

4 _ S. Kozakiewicz, Bernardo

Bellotto, London 1972, II, pp.

410-411, cat. Z68, illustrato; M.

Bleyl, Bernardo Bellotto genannt

Canaletto: Zeichnungen aus

dem Hessischen Landesmuseum

Darmstadt, Darmstadt 1981, pp.

10-11, cat. 2, illustrato.

FIG. 1

ANTONIO CANALdetto

CANALETTO

Il Ritorno del Bucintoro

al molo nel giorno

dell’Ascensione, particolare.

Well-Next-the-Sea, The Earl

of Leicester and the Trustees

of the Holkham Estate

FIG. 2

BERNARDO BELLOTTO

Il Ritorno del Bucintoro al

molo nel giorno

dell’Ascensione, particolare.

English Heritage, Audley And

Ouse

mani di Joseph Smith, dunque sembra probabile che

il Bellotto di Audley End, e di conseguenza anche il

Canaletto di Holkham, siano stati commissionati tramite

Smith.

Il Bellotto di Audley End mostra già il tocco

distintivo del giovane pittore e molte delle caratteristiche

di questo primo stile. Una di queste è la resa

del cielo con pennellate diagonali che procedono

dal lato superiore destro all’inferiore sinistro, un’altra

l’uso di linee incise per catturare la luce. Mentre

le nuvole di Canaletto sono morbide, vagamente

somiglianti a matasse di ovatta galleggianti, quelle

del nipote somigliano più a una glassa grattata.

La predilezione di Bellotto per il nero è evidente,

proprio come alcune delle sue tonalità preferite

nell’abbigliamento, in particolare un azzurro grigiastro.

Le figure sono più rigide, meno eleganti che in

Canaletto e, persino in quest’epoca, divergono dai

tipi del maestro. Altre caratteristiche del primo stile

del pittore non sono evidenti, o lo sono meno, poiché

il dipinto è insolitamente fedele al prototipo:

molto probabilmente perché venne commissionato

da Smith come un “Canaletto” scontato, magari

non poi tanto. Se la maggior parte delle repliche di

Bellotto sono più grandi dei prototipi di Canaletto,

il dipinto di Audley End è esattamente delle stesse

dimensioni del Canaletto di Holkham. Bellotto

ha copiato la formula dell’acqua di Canaletto, con

increspature a forma di “W” estese che si intersecano,

e le sue difficoltà nel dipingere barche sull’acqua

in questa fase – con imbarcazioni che sembrano

scivolare sulla superficie dell’acqua piuttosto che

esservi dentro – sono meno apparenti che altrove.

Ma soprattutto, il dipinto è insolitamente irradiato

dal sole. In generale, nelle versioni di Bellotto

delle composizioni di Canaletto la calda luce solare

dell’originale veniva sostituita da una luce più

fredda, quasi invernale, che dava un effetto di cielo

coperto. Questa rimarrà una caratteristica dello

stile di Bellotto per tutta la sua carriera, sebbene sia

ovviamente meno appropriata nelle vedute italiane

di quanto non lo fosse a Königstein in Sassonia e a

Varsavia. Il Bellotto di Audley End era in realtà in

origine ancora più soleggiato: il blu del cielo si è

leggermente sbiadito, come si può notare dal tono

originale più intenso visibile nei cinque centimetri

superiori del dipinto, dove la tela doveva originariamente

essere stata coperta da una cornice.

150 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— LA VEDUTA — 151



Come abbiamo visto, i dipinti di Canaletto tendono

a rimpicciolirsi con il progredire della sua carriera.

Quelli di Bellotto, invece, seguono il percorso

inverso. Già in gioventù aveva mostrato la tendenza a

dipingere versioni dei quadri dello zio in dimensioni

più grandi dei prototipi, poiché le grandi misure aiutavano

a esaltare la monumentalità degli edifici, fine a

cui contribuisce sensibilmente anche un’applicazione

più decisa delle ombre.

Durante gli anni trascorsi a Dresda, immediatamente

dopo essere emigrato a nord delle Alpi

nel 1747, il formato standard non è mai minore ai

135x235 cm. Durante i circa sedici anni che precedono

la sua partenza per la Polonia, alla fine del 1766,

eseguì per Augusto III, re di Polonia e principe elettore

di Sassonia, diciassette vedute di Dresda, undici

di Pirna e cinque della fortezza di Königstein; tutte

rispettano le dimensioni standard tranne due, oltre

ai capricci e alle allegorie (trentasei delle quali ancora

a Dresda). Nello stesso periodo dipinse una seconda

serie di quindici varianti di vedute delle stesse dimensioni

per il primo ministro conte Heinrich Brühl, in

parte come ringraziamento per avergli garantito il

posto a Dresda; ma ovviamente fu un duro colpo

quando Brühl morì nel 1763, lasciando il conto aperto.

Nel 1768 vennero acquistate tutte dall’ambasciatore

russo in Sassonia e molte finirono nella collezione di

Caterina la Grande. Tra queste, la Veduta del castello

di Sonnenstein e Pirna (cat. V.21; San Pietroburgo,

Museo Statale Ermitage), della serie di Brühl, che si

discosta solamente per dettagli minimi dalla versione

che rimane a Dresda [5] . Il conte Brühl aveva emesso

un mandato datato 26 aprile 1753 dando indicazioni

all’amministratore locale di “non ostacolare in alcun

modo” il pittore di corte Bellotto, “incaricato di

eseguire disegni delle località intorno a Pirna e non

solo”. Dei dipinti risultanti, questo colpisce particolarmente

per la relativa insignificanza degli edifici e

per la vista panoramica sulla valle dell’Elba che comprende

le guglie di Dresda, ammirata dal pastore in

primo piano. È stato notato che, nonostante in tutta

la produzione di vedute tedesche di Bellotto ci sembri

essere un forte senso d’accuratezza topografica, in

realtà questa sia solo apparente. Come in molte delle

sue opere, la composizione è generata a partire da

incastri e molti degli animali al pascolo sono ricavati

dalle incisioni di Joseph Wagner ispirate a Nicolaes

Berchem. Le cinque pecore e la capra sono riprese da

un’incisione intitolata Di quel terreno […], mentre la

mucca e il pastore da un’altra chiamata Senza pensier

[…] [6] . Fin dall’inizio della sua carriera, Bellotto getta

spesso un’ombra per tutta la larghezza del dipinto, in

primo piano, come a inserire una seconda cornice che

crei profondità e guidi l’occhio nel dipinto. In questo

caso, al medesimo scopo, è utilizzato uno steccato.

Il lavoro di Bellotto a Dresda venne interrotto

tra il 1758 e il febbraio del 1762 dalla Guerra dei sette

anni, e l’artista trascorse questo periodo a Vienna e

Monaco. Le rovine di Pirna dopo il bombardamento del

1760 (cat. V.22) (Troyes, Musée des Beaux-Arts), dipinto

dopo il suo ritorno, mostra il quartiere Pirna’sche

Vorstadt dopo il bombardamento prussiano del luglio

1760. Tale opera fu riscoperta solamente nel 1974, sebbene

la composizione fosse nota già da un’incisione di

Bellotto stesso pubblicata nel 1766 (che omette i personaggi

d’alto rango, a cavallo sulla sinistra). La scena

di devastazione, con a sinistra la facciata della casa arsa

di Johann Georg von Fürstenhoff – architetto delle

fortificazioni di Dresda e comandante del Corpo degli

Ingegneri –, è resa ancor più toccante dall’atmosfera

bucolica. Gli effetti del bombardamento prussiano

erano profondamente sentiti da Bellotto così come da

chiunque altro, in quanto vennero distrutti o saccheggiati

quasi tutti i suoi beni, inclusa una biblioteca di

centinaia di volumi [7] .

Negli anni intorno al 1740 la bottega di

Canaletto era nel pieno della sua attività, con un

numero considerevole di familiari e assistenti che lo

aiutavano a soddisfare le richieste: non solo Bernardo

Bellotto e il padre, Bernardo Canal (che visse fino al

1744), ma anche Pietro Bellotti, forse Giovanni Battista

Piranesi, e vari assistenti, i cui nomi non sono giunti

fino a noi. Mentre le commesse di gruppi di dipinti

prima della fine degli anni Trenta avevano dato luogo

a serie dallo stile omogeneo, intorno a questa data il

controllo della qualità sembra vacillare. La ragione

potrebbe essere il coinvolgimento di altri agenti, oltre

a Smith. Henry Howard, quarto duca di Carlisle, che

aveva commissionato nel 1738 l’impareggiabile Bacino

di San Marco, verso est (cat. IV.04) (Boston, Museum of

Fine Arts), finì per avere più vedute veneziane, buona

parte delle quali acquistate tramite Antonio Maria

5 _ Esposto, ad esempio,

a Venezia, Museo Correr,

Bernardo Bellotto 1722-1780

(catalogo Milano 2005), e in

seguito a Houston, Museum

of Fine Arts, Bernardo Bellotto

and the capitals of Europe, e

pubblicato nel catalogo: New

Haven 2001, pp. 194-5, cat. 62,

illustrato a colori.

6 _ G. Weber in Bernardo

Bellotto and the capitals of

Europe 2001, pp. 21, 25, 194.

7 _ E. Manikowska, The

rediscovery of Bernardo

Bellotto’s inventory, “The

Burlington Magazine”, CLIV,

No. 1306, January 2012, pp.

32-36.

8 _ Constable 1962, cat. 66.

9 _ Si veda, ad esempio,

J. Gash e C. Beddington,

Paintings by Canaletto and his

father at Aberdeen University,

“The Burlington Magazine”,

CLIX, december 2017, pp.

976-981.

Zanetti, di qualsiasi altro mecenate del diciottesimo

secolo. Un’ulteriore coppia di dipinti di Canaletto,

che deve aver ricevuto nel 1743 circa – tra cui Piazza

San Marco e la Piazzetta, verso sud-est (cat. V.18;

Washington, National Gallery of Art) – sono anch’essi

di qualità eccezionale ma dal tono molto più dorato,

oltre che in una scala totalmente diversa e poco coerenti

stilisticamente rispetto agli acquisti precedenti. Il

duca di Newcastle ricevette un gruppo di dipinti ben

più discordanti, tra cui un capolavoro, La Piazzetta

dal Bacino di San Marco (Pasadena, Norton Simon

Museum), tra altre opere molto meno prestigiose [8] .

Persino una serie di quattro vedute veneziane eseguite

per Smith, due firmate e datate 1743, tra cui Il Molo con

le Prigioni e Palazzo Ducale (cat. V.19) (Londra, Royal

Collection, RCIN400517), e due del 1744, formano un

gruppo dallo stile decisamente disomogeneo. Fanno

parte degli oltre venti dipinti degli anni 1742-44 a cui

Canaletto sentì il bisogno di apporre una firma, per la

prima volta dal 1723. All’inizio degli anni Quaranta il

pittore mostrava chiaramente di aver bisogno di nuove

sfide dopo due decadi passate a concentrarsi sulle

vedute veneziane. Un probabile fattore è che durante

la Guerra di successione austriaca – scoppiata nel

dicembre del 1740, spostatasi in Italia nel 1741 e proseguita

dopo un’escalation nel 1744, fino a che venne

sancita la pace nell’ottobre 1748 – la richiesta si contrasse.

Anche se gli eventi bellici non impedivano certo

di recarsi a Venezia, la circostanza affievolì inevitabilmente

l’entusiasmo dei molti potenziali visitatori britannici.

Intorno a quest’epoca Canaletto diversificò i

suoi soggetti con vedute della terraferma che seguivano

un viaggio per il canale del Brenta intrapreso nel

1742 insieme a Bellotto. Il ritorno del nipote da Roma

nel 1743 lo ispirò inoltre a considerare la Città Eterna

come soggetto dei suoi dipinti, per la prima volta dal

1720, in particolare nella serie di grandi tele prevalentemente

verticali della Royal Collection, che mostrano

particolarmente bene la sua abilità nel saper rendere

in modo convincente degli scorci che non vedeva da

molti anni con i suoi stessi occhi.

All’inizio degli anni Quaranta Canaletto

si dedicò anche per la prima volta all’incisione

( Acqueforti), e sia in questo mezzo espressivo sia nella

pittura a olio tornò al genere inventivo dei “capricci”,

che aveva abbandonato nel 1723. La maggior parte di

essi vennero eseguiti per Joseph Smith: in particolare

una serie di tredici sopraporta per la sua casa, palazzo

Mangilli-Valmarana sul Canal Grande, sebbene resti

traccia anche di un gruppetto di piccoli capricci particolarmente

raffinati e fortemente bellotteschi databili

su base stilistica all’inizio degli anni Quaranta [9] .

Capricci di natura molto diversa vennero prodotti

all’incirca nello stesso periodo anche da Antonio

Visentini (1688-1782). Nel corso di una carriera insolitamente

longeva, Visentini fu un artista con un’ampia

gamma di talenti: fu l’incisore che riprodusse le più

raffinate incisioni ricavate dalle vedute del Canaletto,

l’architetto che progettò la facciata della casa di Joseph

Smith, un eccellente disegnatore e pittore, quasi esclusivamente

di capricci, sebbene gli siano state attribuite

un paio di vedute. I suoi maggiori successi col pennello

sono una serie di otto grandi tele che decorano ancora

il portego di palazzo Contarini Fasan, databili intorno

al 1740. Una di queste, Veduta prospettica con giocatori

di carte (cat. V.25) (Venezia, palazzo Contarini Fasan),

mostra come il carattere dell’opera di Visentini si differenzi

da quello di Canaletto nel suo essere più luminoso,

colorato e giocoso. Uno dei più stretti collaboratori

di Visentini era il pittore paesaggista e di figura

Francesco Zuccarelli (1702-1788). D’origine toscana,

Zuccarelli è considerato il maggiore paesaggista veneziano

del Settecento, nonostante non si sia trasferito a

Venezia che all’età di trent’anni. Godette di un successo

considerevole, diventando membro fondatore della

Royal Academy of Arts di Londra, dove trascorse un

lungo periodo, e, nel 1771, presidente dell’Accademia

Veneziana. Eseguì sia le figure che i paesaggi di circa

quindici tele con elementi architettonici di Visentini, e

fu uno dei pochissimi pittori a disegnare ‘macchiette’

nei dipinti di Bellotto.

Il desiderio di nuove sfide potrebbe essere stato

un fattore decisivo nella scelta di Canaletto di trasferirsi

a Londra nel 1746. L’artista vi rimase per ben nove anni,

eccetto un ritorno di otto mesi a Venezia nel 1750-51 (il

cui unico frutto di cui siamo a conoscenza è la grande

coppia di vedute ora alla Royal Collection). Sebbene per

circa un decennio non fosse rimasto alcun pittore di

calibro al servizio di ciò che rimaneva del mercato delle

vedute – avendo il fratello di Bellotto, Pietro Bellotti,

lasciato Venezia probabilmente nel 1745 circa, e con la

partenza di Bellotto stesso per il nord Europa nel 1747,

152 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— LA VEDUTA — 153



che completò così la diaspora familiare –, fu un periodo

di successo tanto artistico quanto economico. Canaletto

riuscì a riallacciare i rapporti con molti mecenati che in

passato (anche piuttosto remoto) gli avevano commissionato

una o più vedute veneziane, convincendoli ad

acquistare serie di dipinti. Durante questo periodo continuò

a sperimentare, non solo scegliendo temi completamente

nuovi, ma anche adottando una preparazione

grigia al posto di quella ruggine usata sempre a Venezia

che produceva una tonalità più chiara, e preferendo,

occasionalmente, pannelli di mogano come supporto.

Il ponte di Walton (cat. V.15) (Londra, Dulwich

Picture Gallery) è da lungo stato considerato come una

delle più deliziose vedute inglesi di Canaletto, oltre che

l’unica in cui tenti di immortalare condizioni atmosferiche

variabili, tipicamente inglesi. Questo “incantevole

ritratto dell’Old Walton Bridge” era particolarmente

apprezzato dal grande esperto di Canaletto J.G. Links,

che vi vedeva “la perfetta combinazione di struttura fiabesca

e un artista che vi rispondeva con la sensibilità che

aveva dimostrato nelle più raffinate delle sue incisioni”.

Firmato e datato al 1754, verso la fine degli anni inglesi

del pittore, mostra il ponte Walton, aperto al pubblico

nell’agosto del 1750, che attraversava il Tamigi circa

venticinque miglia a monte di Westminster facilitando

enormemente il trasporto fluviale in quell’area. Eccetto

i quattro piloni in pietra, era costruito interamente con

tralicci di legno, secondo l’insolito metodo della “travatura”,

che permetteva di rimuovere qualsiasi elemento

senza spostarne altri. Aveva una campata centrale di 132

piedi (40 metri circa) e due campate laterali di 44 piedi

(13,5 metri) l’una. L’arco centrale, salutato come “l’arco

più grande d’Europa” (“The Daily Advertiser”, 3 marzo

1747), aveva un’altezza libera di 26 piedi (8 metri) sopra

il livello di piena più alto, rendendo la strada incredibilmente

ripida e dando al ponte un aspetto imponente se

visto dai lati. Il ponte venne costruito a spese di Samuel

Dicker, cui fu permesso di imporre un pedaggio per

l’uso. Dicker fu membro del Parlamento di Plymouth

dal 1754 e morì a Londra nel 1760; la sua casa a Mount

Felix è visibile nel dipinto, sul terreno sollevato a sinistra.

La veduta era una delle sei eseguite per Thomas Hollis,

divenuto amico di Joseph Smith durante una visita a

Venezia in occasione del suo Grand Tour (vi rimase

dall’8 dicembre 1750 al 28 febbraio 1751), durante la

quale potrebbe contestualmente aver conosciuto

Canaletto. Il gruppo di figure in primo piano è identificato

in un catalogo del 1809 come “Thomas Hollis, l’amico

Thomas Brand, il servo Francisco e il cane, Malta”.

Brand, in seguito Brand-Hollis, fu il compagno di una

vita di Hollis nonché erede, e “Francisco” era Francesco

Giovannini, un romano che Hollis aveva conosciuto a

Venezia, dove si spacciò per “una sorta di antiquario”

al viaggiatore inglese e in seguito lo accompagnò in

Inghilterra. Hollis è presumibilmente il più alto della

coppia di gentiluomini al centro. Canaletto ha anche

incluso un artista, probabilmente se stesso, seduto su

uno sgabello in primo piano al centro mentre ritrae la

scena, come a indicare il suo orgoglio in questa particolare

opera

Il lavoro di Canaletto dopo il suo ritorno a

Venezia mostra ulteriori e peculiari cambiamenti stilistici.

Le tele sono spesso piccole e la tonalità è scura. Le

nuvole si tingono di rosa, le lumeggiature sono rese con

puntini di vernice e le figure sullo sfondo si dissolvono

in ghirigori calligrafici. Sebbene questo venga spesso

considerato come il periodo meno interessante del pittore,

non manca di nuove idee e ripartenze. L’Interno

della Basilica di San Marco (cat. V.17) (Londra, Royal

Collection, RCIN400575), generalmente datato su

base stilistica al periodo immediatamente successivo al

ritorno dell’artista a Venezia, è la versione minore di un

dipinto eseguito probabilmente poco più di dieci anni

prima per George Garnier di Rookesbury Park, ora al

Montreal Museum of Fine Arts [10] . Sebbene fosse stato

dipinto per Smith, e fosse così altamente improbabile

che i due collezionisti avessero avuto la possibilità

di confrontarsi, è notevole come il pittore si rifiuti

di ripetersi, variando gli angoli e molte delle figure e

producendo un lavoro dal tono nettamente più cupo.

Queste tendenze negative sono poco evidenti nei

capolavori pittorici degli ultimi anni dell’artista: le

quattro vedute commissionate dal mercante tedesco

residente a Venezia Sigismund Streit per la sua vecchia

scuola di Berlino, a cui vennero consegnate nel 1763

e cui ancora appartengono (Berlino, Gemäldegalerie,

in prestito dalla Streit Foundation). Particolarmente

sorprendenti tra queste sono due vedute notturne, una

che ritrae La festa notturna a San Pietro di Castello alla

vigilia della festività dei Santi Pietro e Paolo (29 giugno)

[11] . Tra le vedute diurne, quella del Canal Grande,

guardando a sudest da Campo Santa Sofia verso il Ponte

10 _ Esposto a Roma, Palazzo

Giustiniani, Canaletto: Il trionfo

della veduta, e pubblicato nel

catalogo, Cinisello Balsamo

2005, pp. 244-247, cat. 66,

illustrato a colori.

11 _ Constable 1962, cat. 359.

12 _ Ivi, cat. 242.

13 _ W. G. Constable,

Canaletto, II edizione rivista

da J. G. Links, Oxford 1976,

cat. 54*.

14 _ Constable 1962, cat. 558.

FIG. 3

ANTONIO CANAL dettO

CANALETTO

La sagra di San Pietro di

Castello, particolare.

Berlino, Staatliche Museen zu

Berlin, Gemäldegalerie

di Rialto si potrebbe considerare il culmine dello sviluppo

verso profili decisi e dettagli netti [12] . Le distorsioni

ottiche dei piccoli dipinti di Piazza San Marco,

guardando a sud e ovest (Los Angeles, County Museum

of Art) [13] , firmato e datato 1763 sul retro, che è una

delle ultime vedute del pittore di questo importante

soggetto, mostrano che anche all’età di sessantasei anni

Canaletto cercava e trovava ancora nuove sfide. Quella

che deve essere stata la sua ultima grande commessa fu

per i dodici spettacolari dipinti delle Feste Dogali, preparatori

alle incisioni di Giovanni Battista Brustolon.

Benché otto delle stampe vennero annunciate a marzo

1766, la loro pubblicazione si dev’essere estesa fino

agli anni 1770. Dieci dei dodici fogli particolarmente

rifiniti sopravvivono, trovati da Sir Robert Colt Hoare

in una libreria veneziana nel 1787-89, tra cui Il Doge

in pozzetto compie il giro della Piazza (Londra, British

Museum), Ringraziamenti del Doge dopo l’elezione nella

Sala del Maggior Consiglio (Londra, British Museum)

e Il Bucintoro a San Nicolò del Lido (Washington,

National Gallery of Art) (catt. V.06-07). Le composizioni

erano molto popolari e furono massicciamente

copiate, nondimeno da Francesco Guardi, la cui serie

di dipinti basati su tutti e dodici (catt. V.08-09).

Un disegno dell’interno della Basilica di San

Marco (Amburgo, Kunsthalle) è l’ultimo lavoro datato

per mano di Canaletto; è del 1766 e reca orgogliosamente

la scritta “Io … Hò fatto il presente disegnio …

in ettá de- Anni 68 Cenzza Ochiali” [14] . L’artista morì

nel 1768 all’età di settantun anni. Scapolo a vita, lasciò

alle tre sorelle minori qualche vecchio abito e l’affitto

di una piccola proprietà sulle Zattere per la quale

pagava nel 1751 2.150 ducati, le uniche testimonianze

di tre decenni di successo.

154 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— LA VEDUTA — 155



DENIS TON

FIG. 1

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Il Banchetto di Antonio e

Cleopatra, particolare.

Venezia, palazzo Labia

1 _ Opera da datare, come

appurato da Franca Zava

Boccazzi, al 1734-35: cfr. F.

Zava Boccazzi, Pittoni. L’opera

completa, Venezia 1979, pp. 111-

112, cat. 4.

2 _ Per un’analisi dettagliata

del rapporto tra modelletto e

opera finita, si veda S. Loire,

Peintures italiennes du XVIIIe

siècle du musée du Louvre, Paris

2017, pp. 331-333.

UNA DIMENSIONE

EUROPEA

LA PITTURA DI

STORIA

Intorno alla metà degli anni

Trenta del Settecento, Clemente Augusto di Baviera

commissionò a Venezia, dove già nel 1727 non aveva

mancato di farsi ritrarre da Rosalba Carriera, alcune

importanti pale d’altare agli artisti che dovettero apparirgli

come i maggiori interpreti della grande pittura

di storia: una di queste fu affidata al maestro più celebrato

nel genere, Giambattista Piazzetta, che realizzò

l’Assunzione della Vergine oggi al Louvre, di cui si è già

fatto cenno in questo volume; un’altra, che avrebbe

dovuto raffigurare L’elemosina di santa Elisabetta per

la Schlosskirche di Bad Mergentheim, venne affidata a

Giambattista Pittoni [1] , e infine a Giambattista Tiepolo

spettò l’incarico di realizzare la grande pala per la chiesa

di Notre-Dame di Nymphenburg, rappresentante San

Clemente papa adora la Trinità, attualmente conservata

presso l’Alte Pinakothek di Monaco (fig. 3). Poco dopo

la scomparsa di Sebastiano Ricci, erano questi i punti

di riferimento per la grande pittura sacra e l’attenzione

di un principe vescovo in terra tedesca quale Clemente

Augusto dà la misura di come l’arte veneziana fosse

ormai universalmente considerata una delle maggiori

d’Europa, se non la più importante.

Nel campo della pittura religiosa Tiepolo è protagonista

non solo per la grande committenza straniera,

ma domina ormai anche il campo a Venezia, dove il

suo talento non si limita all’esecuzione di pale d’altare

ma trova la propria dimensione in grandi progetti

decorativi: negli anni Quaranta, ad esempio, è impiegato

nella straordinaria trasformazione della volta della

chiesa degli Scalzi, con l’affresco del Miracolo della santa

casa di Loreto, purtroppo distrutto nel 1915; e poi con

uno dei suoi cicli pittorici più celebri, la decorazione

con nove dipinti a olio del salone principale del piano

superiore della Scuola dei Carmini, e in particolare con

lo scomparto centrale rappresentante la Vergine del

Carmelo appare al beato Simone Stock (1740-49) (cat.

V.29). Il modelletto del Louvre, che include già nella

parte inferiore le anime purganti che impetrano la salvezza,

presenta poche varianti rispetto alla redazione

finale: il volto della Vergine verrà indirizzato verso i

membri della Scuola invece che verso il Santo, al quale

poi sarà il grande angelo in volo al centro a porgere lo

scapolare [2] . Ma resta invariata l’intuizione iniziale, con

quell’apparizione improvvisa e potente della Vergine,

novella Nike, che, con il corteggio di creature celesti e

il Bambino in braccio a penzoloni nel vuoto, sembra

fendere l’aria come la polena di una nave lanciata da un

vento gagliardo. Un’intuizione visiva di estrema semplicità,

ma folgorante, che fa appello alla nostra fede e

amplifica i poteri del nostro sguardo.

Nonostante l’affermazione nei più prestigiosi

cantieri religiosi cittadini, Tiepolo è richiestissimo

anche all’estero. La pala per Clemente Augusto fu soltanto

la prima di una serie di incarichi prestigiosi che

incominciarono a giungergli da ogni parte del continente.

Un ruolo importante per la sua affermazione

fuori dai confini della Serenissima lo ebbe Francesco

Algarotti, il noto poligrafo veneziano, con interessi

che spaziavano dalla letteratura alla scienza e all’arte,

con cui egli fu in contatto sicuramente a partire dagli

anni Quaranta. Fu un incontro decisivo, non soltanto

perché Tiepolo si avviò grazie a esso verso una nuova

dimensione aulica, solenne e “classica” della proprio

arte, ma anche perché Algarotti lo promosse come il

—LA PITTURA DI STORIA— 157



più importante artista del suo tempo presso la corte di

Dresda, dove lavorava e per la quale procacciava dipinti

sia di antichi maestri sia di artisti a lui contemporanei.

A Venezia, in particolare, commissionò opere, spesso

dai soggetti alquanto singolari, non solo a Tiepolo,

ma pure a Pittoni, Piazzetta, Amigoni, Zuccarelli. Al

primo affidò un dipinto di storia antica rappresentante

Cesare che contempla la testa di Pompeo ad Alessandria

e quindi un’altra coppia di dipinti: Mecenate presenta

le arti ad Augusto, oggi conservato presso l’Ermitage

di San Pietroburgo, e il così detto Regno di Flora, oggi

al M. H. de Young Memorial Museum di San Francisco

(fig. 2), opere queste pensate per omaggiare il potente

ministro di Augusto III, il conte Heinrich von Brühl [3] .

Nel dipinto oggi a San Pietroburgo, Tiepolo immaginò,

su indicazione del suo colto suggeritore, che le Arti

liberali, raffigurate da tre donne – Pittura, Scultura,

Architettura nonché Poesia (identificata quest’ultima

da Omero) – fossero presentate all’imperatore tramite

l’intercessione di Mecenate. Il fatto che nello sfondo

del dipinto si intraveda il palazzo dello stesso conte

indica chiaramente l’intento adulatorio del quadro,

facendo scattare l’identificazione tra Brühl e Mecenate

promotore delle arti. La suggestione dell’opera risiede

però nella capacità di Tiepolo di trasformare un soggetto

che potremmo considerare la versione pittorica

dei molti poemetti adulatori e celebrativi, di gran voga

durante il secolo, in una scena viva: nobile per forme

elette, attrezzerie di scena e abiti sontuosi, prospettive

architettoniche impeccabili e di stampo dichiaratamente

neopalladiano, inondando il tutto di una luce

dorata capace di far brillare i dettagli più preziosi e il

tessuto più ricercato.

In entrambi i dipinti, il ruolo civilizzatore e

trasformatore dell’arte non è immaginato statico, ma

rappresentato in piena azione: in un caso, gli scalpellini

sono ancora intenti, proprio sopra l’imperatore, a

completare la grande balaustra neoveronesiana che fa

da sfondo al dipinto; nell’altro assistiamo alla metamorfosi

della natura operata da Flora al suo passaggio,

secondo quello che era il proposito di Algarotti stesso

indicato nella lettera indirizzata a Brühl del luglio 1743,

ove si proponeva di rappresentare la dea “qui change

en endroits délicieux les lieux les plus sauvages” [4] .

In quello stesso 1743, Algarotti annuncia al

suo corrispondente di avere acquisito a Venezia un

altro capolavoro di Tiepolo, cominciato per un committente

ancora ignoto, per donarlo al sovrano:

si tratta del Banchetto di Antonio e Cleopatra oggi

alla National Gallery of Victoria di Melbourne [5] ,

una tela straordinaria per dimensioni e tenuta qualitativa,

che segna un nuovo punto di arrivo dello stile

“aulico” e solenne che l’artista è capace di realizzare nel

corso di questa stagione della sua attività. Ma mentre

FIG. 2

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Il Regno di Flora.

San Francisco,

M. H. de Young Memorial

Museum

FIG. 3

GIAMBATTISTA TIEPOLO

San Clemente papa adora la

Trinità. Monaco di Baviera,

Alte Pinakothek

3 _ Sul dipinto dell’Ermitage,

si veda, da ultimo: P. Pastres,

Algarotti per Augusto e Mecenate

a Dresda. Artisti, acquisti e

programmi pittorici nei versi

ad Augusto III del 1743-1744,

“Studi Germanici”, 10, 2016,

pp. 9-66; per il Regno di Flora,

si rimanda ancora a W.L.

Barcham, Il “Trionfo di Flora”

di Giambattista Tiepolo: una

Primavera per Dresda, “Arte

Veneta”, 45, 1993, pp. 70-77,

dove si ipotizza di riconoscere

nel giardino di Flora quello

di Armida raccontato nella

Gerusalemme Liberata di

Torquato Tasso.

4 _ Lettere artistiche del

Settecento veneziano, Vicenza

2002, p. 103.

5 _ Su questa tela come,

più in generale, sul soggetto

e gli affreschi di palazzo

Labia, si veda A. Mariuz, Le

storie di Antonio e Cleopatra.

Giambattista Tiepolo e

Girolamo Mengozzi Colonna a

Palazzo Labia, Venezia 2004, in

particolare p. 14.

6 _ A. Mariuz, Giambattista

Tiepolo, in The Glory of Venice.

Art in Eighteenth Century,

catalogo della mostra (Londra,

Royal Academy of Arts;

Washington, National Gallery

of Art) a cura di J. Martineau,

A. Robison, London 1994, ed.

cit. A. Mariuz, Tiepolo, Verona

2012, p. 322.

7 _ Per un’analisi iconografica

del dipinto si veda W.L.

Barcham, in Giambattista

Tiepolo 1696-1996, catalogo

della mostra (Venezia,

Ca’ Rezzonico; New York,

Metropolitan Museum of Art),

Milano 1996, pp. 171-177. Il

dipinto era stato commissionato

dal conte Wilhelm Friedrich von

Schaumburg-Lippe, in memoria

verosimilmente del suo amante

morto nel 1751.

8 _ L’identificazione

del bambino con Enea era

stata proposta da Michael

Levey (National Gallery. The

seventeenth and eighteenth

century Italian schools, London

1971, pp. 228-231), osservando

l’assenza di ali. D’altronde

Cupido sembra presente nella

parte inferiore del dipinto,

recando una faretra di frecce.

La natura semidivina, e

pertanto, mortale di Enea

sembra meglio compatibile

con l’interpretazione, venata di

una certa malinconia, data da

Tiepolo alla scena.

Tiepolo stava ideando il grande dipinto, dovette balenargli

l’idea che il soggetto delle storie di Antonio e

Cleopatra si sarebbe prestato a una rappresentazione

ancora più audace, tale da far transitare la sua compagnia

di teatranti in un palcoscenico immenso. Ecco dunque

che Tiepolo, come un impresario e regista ossessionato

dal bisogno di spazi e set grandiosi, troverà l’ambientazione

ideale per i suoi sogni non molto tempo

dopo, con la decorazione ad affresco del salone del

palazzo dei Labia, una famiglia arricchitasi con il commercio

di tessuti preziosi. Lì, a partire dal 1746, si trovò

a immaginare immense aule, approdi marini, giganteschi

prospetti di palazzi e ambientazioni da “kolossal”,

nel massimo dispiego dei propri mezzi espressivi.

Il ciclo, completato con la fondamentale collaborazione

per l’apparato quadraturistico di Girolamo

Mengozzi Colonna, diventerà probabilmente il punto

più alto del suo tentativo di emulazione e di “aggiornamento”

della grande lezione cinquecentesca di Paolo

Veronese. Il precedente è però tradotto in un linguaggio

che ha ormai attraversato l’età barocca e punta

dunque alla trasformazione completa dello spazio e

dell’ambiente vissuto dallo spettatore (fig. 1).

Gli affreschi furono preceduti da diversi studi

grafici e pittorici, e in tal senso la tela con il Banchetto di

Antonio e Cleopatra oggi conservata presso l’Università di

Stoccolma (cat. V.30) testimonia al meglio la grandiosità

trasfigurante che sarà ben più avvertibile nell’originale ad

affresco. Qui è già immaginata la scalinata, abitata a mo’

di repoussoir da un nano visto da tergo, tramite ideale tra

il nostro mondo e quello dell’immaginazione, l’ingresso

magico alla scena.

Il salone di palazzo Labia è la prova generale

di quello che, oltre a essere il vertice assoluto dell’arte

di Tiepolo, è forse il capolavoro decisivo della pittura

del secolo: la decorazione della volta dello scalone di

Würzburg, nella residenza del principe arcivescovo Karl

Philipp von Greiffenclau, con Apollo e i Quattro continenti,

affresco a cui attese tra 1750 e 1753. La fame di

spazi sconfinati, il bisogno di nuove prove per una mente

capace di immaginare un mondo intero, come quello cui

è intenta l’Allegoria della Pittura [6] , portò Giambattista a

dipingere, in questo caso senza alcun elemento quadraturistico,

una superficie di circa seicento metri quadri.

Ma accanto a queste imprese atlantiche,

prosegue la richiesta di dipinti a olio, soggetti della

mitologia antica, per gli stessi prestigiosi committenti

che ne reclamavano le decorazioni ad affresco o

le grandi pale d’altare: tra di essi un ricordo in particolare

merita la Morte di Giacinto del Museo Thyssen-

Bornemisza di Madrid, che ha la capacità di dare

forma al dramma con la grazia e insieme la nitidezza

di una cantata profana di Händel (cat. V.39). Si raffigura

un passo delle Metamorfosi di Ovidio, relativo

alla sfortunata uccisione da parte di Apollo dell’amato

Giacinto: nello stesso giardino dove nascevano

corolle per il passaggio di Flora, viene ora svelato il

mistero dietro la nascita di un fiore, sbocciato dall’amore,

certo, ma, ancor più, dalla sua perdita [7] .

In un’opera come questa si annuncia nella pittura

di Tiepolo una nuova svolta, elegiaca e sentimentale,

sollecitata dalle istanze patetiche della visione

algarottiana: momento che avrà la sua massima espressione

nel ciclo di affreschi di villa Valmarana a Vicenza

(1757), nel quale ogni riquadro, dedicato a episodi

tratti dai grandi poemi dell’antichità e della letteratura

moderna, è una scena d’amore, cantata su palcoscenici

separati, nei salotti di un amante del teatro come

Giustino Valmarana. Il tono degli affreschi vicentini,

commosso e sentimentale, trabocca anche nella pittura

allegorica decorativa, ma essa non è risolta con un semplice

aggiornamento di un formulario consolidato. È

sufficiente, in tal senso, volgersi all’Allegoria con Venere

e il Tempo della National Gallery di Londra (cat. V.32),

realizzata tra 1754 e 1757, che ornava, insieme a quattro

ovali ad affresco, una sala di palazzo Contarini a Venezia.

Nella tela, ricordata dallo stesso figlio Giandomenico

come “il parto di Venere, e le Grazie in Ca’ Contarini”,

il soggetto celebrativo, probabilmente per l’arrivo di un

erede in famiglia, si trasforma in una sorta di natività

profana, dove la dea, con la serietà di chi si accinge a

un distacco doloroso, pare offrire al mondo dei mortali

il suo bambino, forse Enea invece di Cupido [8] . Il

Tempo lo accoglie tra le mani quasi intimidito dalla

bellezza ultraterrena della sua Regina, che fissa intensamente.

Avevamo visto il Tempo planare minaccioso

nel salone di villa Baglioni a Massanzago, stringere

a sé la Verità al culmine del soffitto di palazzo

Cordellina a Vicenza (oggi ai Musei Civici): appare

ora remissivo, consapevole della gravità del momento,

timoroso della fragilità del fanciullo che gli viene

consegnato.

158 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

—LA PITTURA DI STORIA— 159



La luce inonda le figure, ha il potere incantatorio

non solo di far vibrare le forme nell’atmosfera,

ma di illuminarle quasi dall’interno, dando

loro la consistenza abbacinante di un miraggio, come

nell’indefettibile e pur sensuale incarnato della dea,

o nell’apparizione delle Grazie in alto a destra, colte

un attimo prima di svanire in un’ombra colorata. Gli

accordi cromatici sono perfette tessiture luminose,

come l’incontro tra l’arancio dorato e il rosa tenue

delle vesti di Venere, dalle quali sboccia il suo busto

ignudo. Tutta l’immagine è costruita in profondità,

con il massimo di lucidità ottica, così che noi, inevitabilmente

rapiti, partecipi nella nostra natura creaturale

della corruzione del Tempo, siamo vinti insieme

nella mente e nel sentimento.

Tiepolo dominava un campo, quella della pittura

di storia e decorativa, dove non mancavano altri

fuoriclasse, interpreti lucidi e abilissimi decoratori

che portavano avanti premesse differenti: le alternative,

nel campo della grande decorazione e della pittura

di storia, erano di grande livello. Tra di essi, alcuni

erano allievi di Sebastiano Ricci: Francesco Fontebasso

(Venezia 1707-1769), attivo anche per la Russia, e,

soprattutto, Gaspare Diziani (Belluno 1689-Venezia

1767). Anch’egli lavorò principalmente per la Germania,

a Monaco, Ansbach e Dresda, intorno al 1717, oltre che

per la stessa Pietroburgo [9] . Con accordi di colore audaci

e una pennellata spezzata, inquieta, egli seppe interpretare

al meglio e in chiave assolutamente personale

la lezione del maestro, recuperando con audacia vorticose

composizioni ed effetti luministici contrastati

di sapore tintorettesco. Opere come il Ratto d’Europa

e Teti ordina le armi di Vulcano (catt. V.34-35), tuttavia,

di collezione privata, da collocare intorno agli

anni Cinquanta del Settecento, rivelano come il suo

gusto potesse evolversi verso la fine della sua attività

in linea con una tendenza neoveronesiana e di matrice

“rococò”: l’attenzione non è tanto al dato atmosferico

e alla sintesi luce-colore, come in Tiepolo, bensì alla

creazione di gemme colorate, mondi di “arcadia” [10]

dove l’ombra non sembra avere cittadinanza e le tonalità

sono le più ricercate, come il verde acqua tralucente,

della veste di Teti, che “raffredda” la tavolozza

calda della fucina di Vulcano.

Dal punto di vista tecnico, come anche dell’originalità

nel racconto, l’unica voce che può in certa

misura reggere il confronto con il grande genio del

secolo è invece Giambattista Crosato, che Vincenzo Da

Canal intorno al 1732 definiva “giovane intelligente del

chiaroscuro, risoluto e bizzarro” [11] . Artista che infatti

dovette, al principio della sua carriera, essere sedotto

dalle ambientazioni neotenebrose e che poi, pur aderendo

convinto alla nuova linea neoveronesiana, seppe

elaborare un linguaggio di chiara impronta “rococò”,

buono per la grande decorazione, la pittura di storia

ma anche lambriggi, boiseries e scenografie teatrali,

con una versatilità che lo fece apprezzare alla corte

sabauda a Torino, “laboratorio” della pittura settecentesca

aperto alle scuole più diverse, dalla francese alla

napoletana, sotto la regia geniale di Filippo Juvarra.

Per i Savoia, Crosato assolse a importanti incarichi

sia per il Teatro Regio sia per la Palazzina di caccia di

Stupinigi, come l’affresco con l’indimenticabile interpretazione

del Sacrificio di Ifigenia, dove la mitologia

9_ Su Diziani in Germania,

si vedano G. Pavanello, Per

Gaspare Diziani decoratore,

“Arte Veneta”, XXXV, 1981, pp.

126-129; D. Ton, Due “historie”

di Gaspare Diziani ad Ansbach,

in L’impegno e la conoscenza.

Studi di storia dell’arte in onore

di Egidio Martini, a cura di F.

Pedrocco, A. Craievich, Verona

2009, pp. 331-335.

10 _ Di “Arcadia dizianesca”

parla Anna Paola Zugni-Tauro,

autrice della monografia

di riferimento dell’artista,

a proposito di questa fase

della sua produzione, ben

rappresentata dalla decorazione

di palazzo Contarini a San

Beneto: si veda A.P. Zugni-

Tauro, Gaspare Diziani, Venezia

1971, p. 95.

11 _ V. Da Canal, Della

maniera del dipingere moderno.

Memoria di Vincenzo da Canal

P.V. ora per la prima volta

pubblicata [1735], a cura di G.

Moschini, “Mercurio filosofico

e letterario e poetico”, marzo

1810, p. 16. Per la messa a fuoco

della giovinezza dell’artista, sia

concesso rimandare a D. Ton,

Giambattista Crosato. Pittore

del rococò europeo, Verona 2012,

pp. 21-42.

FIG. 4

GIAMBATTISTA CROSATO

Il sacrificio di Ifigenia.

Stupinigi, Palazzina di caccia

FIG. 5

GIAMBATTISTA CROSATO

Punizione di Uzza.

Collezione privata

FIG. 6

ANTONIO GUARDI

Aurora.

Venezia, Collezione Cini

è trattata con arguzia divertita, i personaggi sembrano

usciti da una casa di bambole, e il colore conosce

vibrazioni e una scioltezza di segno impareggiabile (fig.

4). In Veneto invece, tra gli altri, lavorò per lo stesso

Algarotti, che lo volle interprete – cogliendone certamente

la sensibilità “a fior di pelle” e la grazia sentimentale,

ancora lontana dallo spirito neoclassico – di

soggetti tratti dall’Iliade per gli affreschi a monocromo

della villa di famiglia a Carpendo.

L’evoluzione del suo percorso si può cogliere

efficacemente anche attraverso le sue tele da cavalletto.

Il Ritrovamento di Mosè (cat. V.33), di Palazzo Madama

a Torino, probabilmente dei primi anni Trenta del

Settecento, bene rivela l’incidenza nella sua formazione

della corrente neotenebrosa: lamine di luce e filamenti

di colore emergono dal fondale scuro, a rischiarare i

volti della Regina, dei bambini e delle fanciulle che sono

i protagonisti più tipici del suo repertorio, aggiungendo

una nota divertita ai suoi racconti. La Punizione di Uzza

(fig. 5), di collezione privata, è invece un’opera della fase

finale della sua attività: nella sua concezione spaziale

libera, in un paesaggio aperto e pienamente luminoso,

Crosato non rinuncia a una costruzione di sapore scenografico,

con il cavaliere che occupa nell’angolo sinistro

il primo piano d’ombra. Il raro episodio biblico

– Uzza muore fulminato da Dio per avere toccato

l’Arca dell’Alleanza – viene narrato senza alcuna indulgenza

sensazionalistica all’irruzione del soprannaturale,

160 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

—LA PITTURA DI STORIA— 161



e interpretato da figurine minute, quasi fantasmatiche,

risolte da pochi tocchi di colore e pennellate roride di

luce, secondo un linguaggio estremo che avevamo già

visto nei due allucinati episodi della Via Crucis di Santa

Maria del Giglio, del 1755.

Verso la metà degli anni Cinquanta del

Settecento era stato poi forse lo stesso Tiepolo a suggerire

ai suoi vicini di casa, i Zulian di San Felice, l’impiego

di un altro grande outsider, al quale era legato

da un legame di parentela grazie alla moglie Cecilia:

Antonio Guardi (1699-1760), che di questa era il fratello

maggiore, come lo era del più noto vedutista

Francesco. Nonostante le alterne fortune, e una

dimensione tutto sommato artigianale della propria

bottega, Antonio fu capace di creare un’arte estremamente

originale, in grado di cogliere l’essenza della

pittura rococò: una maniera iridescente, costruita con

frange di colore, tocchi rapidi, una luce in movimento

incessante, trasformata in pulviscolo dorato.

Le composizioni traggono spesso spunto da

modelli di altri maestri, così che il suo linguaggio pare

perseguire un ideale quasi musicale di libertà e improvvisazione:

trascrizioni di partiture, dove cambiano

gli strumenti e finanche gli arrangiamenti, nei quali

lo spunto iniziale è appena riconoscibile. Così l’Aurora

che campeggiava al centro del soffitto dei Zulian

(oggi in Collezione Cini: fig. 6) nasce da un’invenzione

di Antonio Pellegrini, colui che, per molti versi, può

essere considerato il vero anticipatore dello stile guardesco.

Antonio porta tuttavia quelle premesse alle

estreme conseguenze, facendo egualmente tesoro di

soluzioni tiepolesche per accampare i suoi protagonisti

nel cielo dove fanno la loro apparizione, concependo

le sue immagini come fiamme colorate, colte

un attimo prima di svanire, o mutare ancora di stato.

Caratteristiche che ritroviamo perfettamente nelle due

sopraporte convocate in mostra, rappresentanti Apollo

e Diana (catt. V.36-37), divinità scelte a rappresentare

evidentemente il Giorno e la Notte [12] .

Nonostante la polifonia di voci ci faccia apparire

oggi questo come un momento felicissimo della

storia dell’arte europea, e non mancassero ai “rivali”

occasioni prestigiose (la decorazione del salone di Ca’

Rezzonico di Crosato si data intorno al 1750), non v’è

dubbio, tuttavia, che a seguito del suo rientro dalla

Germania, nel 1753, e fino alla fine della sua attività in

FIG. 7

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Riposo durante la fuga

in Egitto.

Stoccarda, Staatsgalerie

FIG. 8

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Riposo durante la fuga in

Egitto. Collezione privata

12 _ Sul ciclo di Palazzo

Zulian, come anche sul

riconoscimento delle due

tele ovali di Apollo e Diana,

si veda G. Pavanello, Antonio

Guardi a Ca’ Zulian, “Arte

Veneta”, 57, 2000, pp. 50-59. Lo

studioso collega egualmente

l’occasione della decorazione

in palazzo con il matrimonio

tra Lucrezia Zulian, sorella dei

possibili committenti Girolamo

e Antonio, con Alessandro

Ottoboni Boncompagni nel

1757.

13 _ F. Haskell, Mecenati e

pittori. Studio sui rapporti tra

arte e società italiana nell’età

barocca, Firenze 1966, p. 391.

14 _ Per un’analisi

iconografica dell’affresco, si

veda A. Mariuz, in Gli affreschi

nelle ville venete. Dal Seicento

all’Ottocento, prefazione di R.

Pallucchini, testi di F. D’Arcais,

F. Zava Boccazzi, G. Pavanello,

2 voll., Venezia 1978, I, p. 247.

Alcune proposte recenti,

riguardo l’identificazione dei

Quattro Continenti, sono in F.

Marcellan, L’opera di Francesco

Bertos e Giambattista Tiepolo in

Villa Pisani a Stra. Una lettura

iconologica, “Saggi e Memorie

di Storia dell’Arte”, 40, 2016,

pp. 108-147.

15 _ A. Mariuz, in Gli affreschi

nelle ville venete… 1978, p. 247.

16 _ Sul gruppo, si rimanda a

K. Christiansen, in Giambattista

Tiepolo 1696-1996… 1996, pp.

338-343, catt. 57a-57d.

Italia, Tiepolo rappresentasse il punto di riferimento

assoluto della pittura contemporanea. Dal maggio del

1760 agli inizi del 1762 il maestro fu impegnato nell’ultima

grande commissione nella Serenissima, prima

del trasferimento, che dovette essere poi definitivo,

in Spagna: la volta del salone di villa Pisani a Stra. Fu

quella, a detta di Francis Haskell [13] , “la più straordinaria

allegoria di famiglia che avesse mai dipinto”.

La celebrazione, con allusioni politiche-militari, alla

gloria di Venezia e alla guerra contro i Turchi, si trasforma

in una sorta di catasterismo in figura: i più

giovani membri viventi della casa Pisani sono assunti

tra le nuvole, trasformati in astri di un cielo mai così

terso e sgombro di nuvole, e accompagnati dall’allegoria

della Serenissima e da Venere [14] . Una trasformazione

naturalmente resa possibile solo dall’arte di

Tiepolo, sacerdote delle aspirazioni e dei desideri di

immortalità di una classe politica che si rispecchia in

queste iperboli allegoriche. La limpidezza di visione,

con dettagli straordinari e mai visti primi nel campo

della decorazione soffittale – come il boschetto che fa

da sfondo a una coppia di innamorati, nella parte inferiore

sinistra –, sono già tutti presenti nel modelletto

del Musée des Beaux-Arts di Angers (cat. V.31), capace

di distillare nello spazio di pochi centimetri le sconfinate

visioni tiepolesche, la sicurezza di segno, la sintesi

di un nuovo linguaggio ancora, che procede ormai per

sottrazione e per valori di pura luce. Vale per questa

teletta ciò che Adriano Mariuz ha scritto per l’affresco:

“il colore si rifrange in sfaccettature moltiplicate, come

le forme fossero aggregati cristallini” [15] .

Questa estrema capacità di sintesi, di cui si

incomincia a intuire l’avvio nelle opere venete a ridosso

della partenza per Madrid, sarà tanto più evidente nelle

prove spagnole, sia nei cicli decorativi ad affresco, sia,

soprattutto, nelle commissioni religiose. Qui Tiepolo

sembra avere ormai rinunciato ai suoi sortilegi, ai toni

ora sublimi, ora caustici, con i quali seppe condurre

temi sacri sin dalla giovinezza e poi, a seguire, nella

maturità, sulla scia del grande modello veronesiano. La

nuova semplicità del racconto è visibile nelle pale per

la chiesa di Aranjuez, dove Giambattista pare scoprire

la lezione insieme realista e metafisica della grande

pittura spagnola del Seicento, di Murillo e soprattutto

Zurbarán, ma è vera soprattutto per una serie di indimenticabili

telette, di soggetto evangelico, con storie

dell’infanzia o della passione di Cristo, alle quali il

maestro si accosta con il tono incantato e partecipe

della confessione intima.

Tra tutti, il tema che maggiormente sembra

avere interessato l’artista nel corso degli ultimi anni

della sua vita è quello, già affrontato in una serie di

disegni, della “Fuga in Egitto” (fig. 7). Alcuni dipinti

di piccole dimensioni (oggi divisi tra la Staatsgalerie di

Stoccarda, il Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona

e alcune raccolte private) testimoniano l’eccezionale

capacità di interpretare diversamente, con sottili variazioni,

il soggetto [16] . Nella tela di Stoccarda, l’episodio

evangelico è risolto con piccole figure nel primo piano

quasi disperse nella vastità di un paesaggio montuoso:

il grande abete appoggiato alla parete rocciosa, su cui

viene impalcata la scena in diagonale, lascia il posto alla

vastità di un cielo immenso, accentuato dal planare di

rondini che, ricomparendo in ciascuna delle tele della

serie, sembrano migrare di dipinto in dipinto, accentuando

la solitudine dei personaggi rappresentati.

Talvolta invece volteggiano verso una veduta cittadina

– Madrid – che, lontanissima, fa capolino nella versione

di collezione privata (fig. 8): qui la coppia in fuga

si accampa nel primo piano, il bastone di Giuseppe,

la bisaccia e l’umile gerla di vimini dell’asino poggiate

su un rialzo roccioso, mentre un pino marittimo, prelevato

dal boschetto della gloria della famiglia Pisani,

fa ora ombra alla Vergine, che ci dà le spalle reggendo

il Bambino, lasciando emergere soltanto parte del suo

volto assorto, seminascosto dal cartoccio della veste

azzurra. Piacerebbe sapere qualcosa in più sulla destinazione

finale e sulla commissione di questi dipinti,

ma si ha gioco facile a riconoscere qui il soliloquio e

l’assorta malinconia del maestro, al limite della sua vita

terrena durante l’“esilio” madrileno.

Come solo gli artisti immensi hanno saputo

essere, anche Tiepolo ci offre un volto diverso in ciascuna

delle stagioni della sua vita, e dopo aver sperimentato

tutti i registri del racconto, fatto suonare

tutti gli strumenti della sua straordinaria orchestra, il

maestro prende commiato con una chiusa “in diminuendo”,

quasi che l’ultima sfida fosse ormai solo

quella di dipingere il silenzio.

162 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

—LA PITTURA DI STORIA— 163



DANIELE

D’ANZA

assecondando il desiderio dei suoi committenti – l’antico

patriziato veneziano – di coltivare un’immagine di

sé diversa da quella ufficiale.

FIG. 1

PIETRO LONGHI

Concertino in famiglia.

Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento

veneziano

1 _ T. Pignatti, Pietro Longhi,

Venezia 1968, p. 26.

2 _ A. Longhi, Compendio

delle vite de’ Pittori veneziani

istorici più rinomati del presente

secolo, Venezia 1762, p. 31.

3 _ [G. Selva], Catalogo

dei Quadri dei Disegni e dei

Libri che trattano dell’Arte del

Disegno della Galleria del fu

Sig. Conte Algarotti in Venezia,

Venezia 1776, p. II.

UNA DIMENSIONE

EUROPEA

U NO SGUA R DO

SULLA REALTÀ

La raffigurazione di scene

di vita quotidiana sganciate da eventi celebrativi, piuttosto

che di soggetti religiosi, storici, mitologici o allegorici,

si diffonde a Venezia verso la metà del Seicento

tramite due artisti stranieri, Eberhard Keil, noto anche

come Monsù Bernardo, e soprattutto Joseph Heintz il

Giovane, la cui lunga residenzialità lo qualifica veneziano

d’adozione. Se quest’ultimo, nelle raffigurazioni

d’interni giunte fino a noi – il Ridotto di Würzburg,

l’Interno di cucina del Museo Davia Bargellini di

Bologna, il Parlatorio di monache di collezione privata

– adotta una ripresa dall’alto e comunque da una

posizione distaccata, Pietro Longhi si pone a pochi

passi da ciò che scruta e raffigura. Egli opera una drastica

riduzione del campo di osservazione, per meglio

investigare gli abiti, le stoffe, il trucco, gli sguardi e i

sorrisi dei suoi personaggi, che spesso hanno nomi e

cognomi, aristocratici s’intende. Nessuno più di lui ha

saputo penetrare e rappresentare la sfera del privato,

Cinque anni più giovane di Tiepolo e quattro

di Canaletto, Pietro Longhi si forma con Antonio

Balestra, il protagonista del classicismo accademico a

Venezia, ossia di quella linea “perdente” della pittura

veneziana di primo Settecento improntata alla decorazione

classicistica di derivazione romana: non a caso

Balestra si trasferirà a Verona.

Abbandonate le velleità di pittore di storia, che

lo spingono ad affrontare la decorazione dello scalone

di Ca’ Sagredo [1] , e consapevole dei propri limiti e di

una concorrenza di altissimo livello, da Sebastiano

Ricci a Gaspare Diziani, da Giambattista Piazzetta a

Giambattista Tiepolo, Longhi cambia registro dedicandosi

all’esplorazione della pittura di genere.

I primi dipinti eseguiti in questo nuovo stile

raffigurano un mondo popolato da giovani pastori e

contadini, toccati da un fascio di luce contro l’ombra

del fondo. Una sorta di Arcadia felice, senza accenni

alla fatica e alla miseria, in cui si colgono talvolta

allusioni sessuali. All’origine di queste opere vi sono

gli esempi della pittura fiamminga, con le scene di

taverna, così come la conoscenza della pittura bolognese

di Giuseppe Maria Crespi [2] , nonché le suggestioni

di certi lavori di Piazzetta e Bencovich, sul tipo

di quanto descritto nell’inventario della raccolta di

Algarotti: “Una Pastorella sedente che si spulcia, ed un

Giovine Pastore che la osserva. Quest’ultimo vi è stato

aggiunto da Gio: Battista Piazzetta” [3] .

Se Longhi si fosse fermato a questi esiti figurativi

non sarebbe il celebre pittore che oggi conosciamo,

ma egli di nuovo cambia argomento e stile.

Abbandonate le tonalità scure delle scene pastorali, si

risolve per una pittura chiara e brillante, più consona

alla nuova tematica che si accinge ad affrontare: la narrazione

degli usi e costumi del patriziato veneziano.

Ovviamente, ciò fu possibile soltanto insinuandosi,

previa autorizzazione, in quelle dimore.

Il primo dipinto datato di questa nuova avventura

estetica è il Concertino delle Gallerie dell’Accademia

di Venezia del 1741. La critica non è riuscita a

individuarne il committente: unico indizio il dipinto

a parete che ritrae un Procuratore di San Marco. Altre

— UNO SGUARDO SULLA REALTÀ— 165



volte invece l’identificazione risulta più agevole. Nel

celebre Rinoceronte di Ca’ Rezzonico (cat. V.44), ad

esempio, il nome del committente è riportato nel cartiglio

sull’assito. Si tratta di Giovanni Grimani, patrizio

veneziano, proprietario nella sua villa in terraferma

di una sorta di zoo privato con molti animali esotici

[4]

. La presenza quindi in città del rinoceronte indiano

femmina chiamato Clara, condotto qui da un capitano

della compagnia delle indie olandesi in occasione

del carnevale del 1751, spinse il nobiluomo a commissionare

l’opera a Pietro Longhi. Non solo, egli si fece

ritrarre al centro della composizione accanto alla sua

bellissima e sfortunata sposa, Caterina Contarini, che

sarebbe morta di lì a poco, dopo aver dato alla luce la

loro unica figlia. A sinistra, inoltre, si riconosce il proprietario

dell’animale, Douvemont van der Meer di

Leida, mentre e a destra compare un patrizio in tabarro

che fuma una pipa. Grimani, peraltro, commissionò al

pittore altre opere [5] , tra cui L’ambasciata del moro (cat.

V.45), sulla cui parete compare un dipinto di paesaggio

alla maniera di Francesco Zuccarelli, e il Ritratto del

gigante Magrat, un’altra testimonianza della predilezione

di Grimani per le “meraviglie” naturali.

Anche nella serie della Caccia in valle riconosciamo

un personaggio specifico: il patrizio veneto

Gregorio Barbarigo, appassionato cacciatore che aveva

appositamente decorato una sala del mezzanino del

suo palazzo con questa serie di dipinti [6] . In altri casi,

invece, l’identificazione degli interni di case signorili,

e quindi dei possibili committenti, è stata avanzata

in virtù dei ritratti degli avi illustri appesi alle pareti o

della presenza di stemmi familiari [7] .

Si tratta di quadri di dimensioni contenute

che forniscono una ricchezza d’informazioni su abitudini,

costumi, usanze e modi di vita del patriziato

veneziano. Per tale motivo, e considerando che vi sono

ritratte persone reali – a volte gli stessi committenti –,

appare forse riduttivo considerarli quali semplici pitture

di genere. I titoli in questo caso rendono bene l’idea:

Il risveglio del cavaliere, La cioccolata del mattino,

La visita in bauta, La lezione di ballo, il Concertino in

famiglia, La dama della sarta, solo per citarne alcuni

(figg. 1-2).

Se Canaletto offre quindi una descrizione

esterna della città, dei suoi monumenti e dei suoi

palazzi, Longhi conduce l’osservatore direttamente

all’interno delle case patrizie, e questa fu davvero una

rivoluzione. Prima di allora, non era mai successo che

la nobiltà veneziana si mostrasse in privato nella propria

intimità, occupata negli svaghi o negli impegni

domestici.

È stato giustamente notato come il pittore,

rifiutando la “grande storia” e la favola arcadico-mitologico-cristiana,

abbia optato per un approccio “da

naturalista – nel senso che si propone di rappresentare

il comportamento umano come fosse un aspetto della

‘storia naturale’ – per cui dipingere equivale a riflettere

il costume della società contemporanea” [8] .

I modelli a cui pare Longhi si sia ispirato sono

stranieri, dalla pittura inglese del primo Settecento

fino a William Hogarth – di cui il console inglese di

stanza a Venezia, Joseph Smith, possedeva tutte le

stampe –, agli artisti francesi della vita contemporanea,

noti attraverso le incisioni di riproduzione. In

questo senso il tramite è stato individuato nel pittore

Jacopo Amigoni che ritorna a Venezia nel 1739 dopo

un lungo soggiorno inglese e, soprattutto, una tappa

a Parigi. In particolare egli rientra fra le lagune con un

amico incisore, Joseph Wagner [9] , con il quale a Londra

aveva aperto una bottega di stampe. Con loro, giunge a

Venezia un altro incisore, il giovanissimo Jean Charles

Flipart, figlio del celebre calcografo francese, che negli

anni successivi tradurrà in stampa molti dipinti di

Longhi [10] . I tre si mettono subito in affari a Venezia,

e sarà un successo. Gli anni concidono con quelli in

cui Longhi elabora il suo nuovo stile, ed è plausibile

che le novità francesi gli siano giunte attraverso tali

frequentazioni.

Il pittore elabora quindi una poetica che

riscuote presto larghi consensi. Stando a quanto riportato

da un suo contemporaneo nel 1753, egli “con tale

abilità salì a grande credito, e le sue opere si pagano

a grossi prezzi, molte delle quali sono a quest’ora da

più di un incisore intagliate e date alle stampe” [11] .

Non dissimile la considerazione riportata da Gaspare

Gozzi, il quale, qualche anno dopo, precisa come

“sopra tutto però veggo, che s’ammirano le imitazioni

inventate dal Signor Pietro Longhi, perch’egli lasciato

indietro ne’ trovati suoi, le figure vestite all’antica, e

gl’immaginati caratteri, ritragge nelle sue tele quel che

vede con gli occhi suoi propri, e studia una situazione

da aggrupparci dentro certi sentimenti, che pizzichino

4 _ F.S. Fapanni, Intorno

tredici quadri di costume

veneziano dipinti da Pietro

Longhi, “Il Vaglio”, 38, 22

settembre, 1838, pp. 306-308.

5 _ D. D’Anza, I Longhi di

Giovanni Grimani, in Venezia

e San Pietroburgo. Artisti,

principi e mercanti, catalogo

della mostra (Mestre, Centro

Culturale Candiani) a cura di I.

Artemieva, A. Craievich, Venezia

2018, pp. 29-35.

6 _ L. Moretti, Asterischi

longhiani, in Pietro Longhi,

catalogo della mostra (Venezia,

Museo Correr) a cura di A.

Mariuz, G. Pavanello, G.

Romanelli, Milano 1993, pp.

249-255.

7 _ P. Del Negro, “Amato da

tutta la Veneta Nobiltà”. Pietro

Longhi e il patriziato veneziano,

in Pietro Longhi 1993, pp.

225-241.

8 _ A. Mariuz, In margine

a mostra di Pietro Longhi,

“Arte Veneta”, XXIX, 1975, pp.

307-308.

9 _ Sulla calcografia Wagner,

si veda il recente studio di C. Lo

Giudice, Joseph Wagner. Maestro

dell’incisione nella Venezia del

Settecento, Verona 2018.

10 _ A. Mariuz, Pietro Longhi:

“un’originale maniera...”, in

Pietro Longhi 1993, pp. 31-48.

FIG. 2

PIETRO LONGHI

La dama dalla sarta. Venezia,

Ca’ Rezzonico, Museo del

Settecento veneziano

166 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— UNO SGUARDO SULLA REALTÀ— 167



del gioviale. Principalmente veggo, che la sua buona

riuscita deriva dallo esprimere felicemente i costumi, i

quali in ogni attitudine delle sue figure si veggono” [12] .

Tra l’apprezzamento dei suoi contemporanei,

spicca quello di Carlo Goldoni, che ebbe modo di dar

risalto alla contiguità del proprio lavoro con quello

del pittore in un noto sonetto del 1750, dedicato ai

due giovani sposi ritratti nel Rinoceronte, Giovanni

Grimani e la moglie Caterina Contarini. Il componimento

esordisce con i celeberrimi versi “Longhi, tu

che la mia musa sorella / chiami del tuo pennel che

cerca il vero”, concludendo: “Tu coi vivi colori, ed io col

canto; / io le grazie dirò, tu l’auree chiome; / e del suo

Amor godran gli sposi intanto” [13] .

Al pari di Goldoni – il quale, riformando il teatro

comico, abbandona perlopiù la scena esterna, tipica

della commedia all’improvviso, e introduce lo spettatore

in casa –, Longhi dentro un’apparente semplicità

di linguaggio concentra l’essenza di uno stile di vita, le

tracce di una civiltà complessa che lascia affiorare la

propria intimità, i propri passatempi e usi domestici.

Varcando la soglia del privato, egli asseconda

il desiderio dei patrizi veneziani di coltivare un’immagine

di sé diversa da quella ufficiale e ossequiata.

All’esigenza dell’encomio mercé il ritratto aulico, essi

affiancano la tentazione di vedersi rappresentati come

individui, invece che funzionari dello Stato, calati nella

quotidianità, presi da sentimenti comuni. In tal modo,

il pittore si fa “testimone di una situazione di sdoppiamento

vissuta dalla nobiltà veneziana, che comincia a

sentire come un peso il proprio ruolo pubblico e s’avvia

così a una crisi d’identità” [14] .

Le sue composizioni si pongono perciò quale

necessario contrappeso alle visioni celestiali dei frescanti

veneziani dell’epoca. Con lui la realtà bilancia

l’immaginazione, tanto che “la sua pittura attua in

modi originali una poetica dell’osservazione alternativa

alla poetica tardo barocca dell’immaginazione

sostenuta dal prestigio di Giambattista Tiepolo” [15] .

Una concezione diversa della pittura di genere

fu proposta in precedenza da Giambattista Piazzetta,

il quale, negli anni in cui Longhi iniziava la carriera, si

era già conquistato una solida reputazione internazionale

di disegnatore e si stava imponendo anche come

pittore. L’avveduto connoisseur svedese Gustav Tessin,

in una lettera del 1736, lo giudicava il primo artista di

Venezia [16] . Piazzetta, al pari di Longhi, ebbe in Crespi

un punto di riferimento e il pittore emiliano deve aver

contribuito ad accentuare la sua tendenza verso una

specie particolare di realismo [17] .

Per tutto il terzo decennio del secolo, infatti,

il veneziano ricava mezze figure giovanili, proseguendo

quell’interesse manifestato già nella coppia di

Contadinelli di Boston (catt. III.03-04): la prima incursione

in questo genere. Interesse che non sembra essere

rivolto alla mera analisi fisionomica o alla precisa rispondenza

del dato naturale, quanto alla trasfigurazione del

soggetto entro un alone favoloso di chiaroscuro patetico,

come gli suggerivano le stampe di Rembrandt. Di

queste cosiddette teste egli intraprese un’interessante

produzione grafica apprezzata dai suoi contemporanei

(catt. V.54-58). Anton Maria Zanetti precisa infatti

nel 1733 come, “oltre a molti suoi pregi è assai distinto

quello del disegnare le teste sopra la carta con gesso e

carbone”, chiosando: “più belle delle quali in questo

genere altre non se ne sono mai più vedute” [18] . Quasi

mezzo secolo dopo il tenore non cambia e un viaggiatore

straniero quale Mariette annota: “Il Piazzetta disegnava

con la stessa facilità con cui dipingeva. Egli ha

realizzato soprattutto un’infinità di teste di grandezza

naturale, disegnate dal modello e per lo più in carboncino

rialzato di bianco su carta azzurra. Esse sono ricercatissime

e ben pagate, tanto che egli poteva appena far

fronte a tutte le richieste” [19] .

Si tratta di composizioni vergate su fogli di

grande formato “che costituiscono un ritratto immaginario

del popolo veneziano, presentato compiacentemente

con la sua ricchezza di affetti [...]; un ritratto

in certo modo complementare a quello che, per il piacere

dei foresti, Canaletto andava realizzando della sua

città. L’accostamento è forse meno gratuito di quanto

possa sembrare a tutta prima. Effettivamente i disegni

di teste di Piazzetta e le vedute di Canaletto sono

quanto di più moderno si produca in campo artistico a

Venezia fra il terzo e il quarto decennio del Settecento:

almeno per la loro originalità in confronto ai generi

tradizionali” [20] .

Una produzione svolta in parallelo a quella ufficiale,

con gli stessi committenti che gli ordinavano

pale d’altare o dipinti di soggetto storico pronti ad

acquisire per le loro collezioni anche i suoi quadri di

11 _ A. Orlandi, Abecedario

pittorico, Venezia 1753, p. 427.

12 _ G. Gozzi, “L’Osservatore

Veneto”, 14 febbraio 1761, p. 28.

13 _ Componimenti Poetici

per le felicissime Nozze di Sue

Eccellenze il Signor Giovanni

Grimani e la Signora Catterina

Contarini, Venezia 1750 in Tutte

le opere di Carlo Goldoni, XIII,

a cura di G. Ortolani, Milano

1955, pp. 187-188.

14 _ Mariuz 1993, p. 40.

15 _ Mariuz 1975, p. 307.

16 _ A. Binion, Il paradosso

Piazzetta, in La gloria di

Venezia. L’arte nel diciottesimo

secolo, catalogo della mostra

(Londra, Royal Academy, of

Arts; Washington, National

Gallery of Art) a cura di J.

Martineau, A. Robison, London

1994 (edizione italiana Milano

1994, pp. 139-169 [144]).

17 _ M. Levey, La pittura a

Venezia nel diciottesimo secolo,

Milano 1983, p. 174.

18 _ A.M. Zanetti, Descrizione

di tutte le pubbliche pitture della

città di Venezia, Venezia 1733,

p. 61.

19 _ P.J. Mariette, Abecedario

1771, ed. 1851-1853.

20 _ A. Mariuz, “Questi

xe visi... Nu depensemp delle

maschere”: Giambattista

Piazzetta e gli incisori delle sue

“mezze figure”, in G.B Piazzetta.

Disegni – Incisioni – Libri –

Manoscritti, catalogo della

mostra (Venezia, Fondazione

Giorgio Cini) a cura di A.

Bettagno, Vicenza 1983, pp.

48-51 [49].

21 _ Levey 1983, p. 174.

22 _ Mariuz 1993, p. 35.

23 _ Su Alessadro Longhi si

veda: P. Delorenzi, Alessandro

Longhi, pittore e incisore del

Settecento veneziano, tesi di

dottorato (Venezia, Università

di Ca’ Foscari, a.a. 2009-2010),

Venezia 2010.

24 _ R. Pallucchini, La

pittura nel Veneto. Il Settecento,

II, Milano 1995, p. 439.

25 _ G. Maggioni, Bartolomeo

Ferracina (nel secondo

centenario della morte), “Padova

e la sua provincia”, 24, IV, 1978,

pp. 13-16; Bartolomeo Ferracina

1692-1777. Miscellanea di studi

nel bicentenario della morte,

a cura di F. Rigon, G. Vinco

da Sesso, Solagna 1978, pp.

199-214.

genere. “Così l’elettore di Colonia, Clemente Augusto

– mediante il quale le opere sacre del Piazzetta raggiunsero

la Germania –, aveva acquistato per sé una

decina di quadri di genere, soprattutto teste” [21] .

A partire dal 1735 l’artista disegna per le edizioni

di Giambattista Albrizzi scenette agresti e pastorali-idilliache,

utilizzando le fonti più svariate (incisioni

di artisti italiani, fiammingo-olandesi, francesi).

Ne scaturisce un’umanità senza distinzioni gerarchiche,

intenta a godere le semplici gioie della vita. Tale

filone tematico culminerà con esiti spettacolari e inattesi

nelle grandi composizioni che Piazzetta dipinge

attorno al 1740: L’Indovina delle Gallerie dell’Accademia

di Venezia, la Scena pastorale di Chicago (The

Art Institute) e la Passeggiata campestre del Wallraf-

Richartz Museum di Colonia (catt. IV.09-10). In quegli

anni l’artista peraltro realizza almeno altre quattro

scene a sfondo agreste e di contenuto più scopertamente

galante, note attraverso copie o incisioni di

derivazione, che Mariuz indica come modelli per

alcuni dipinti di Pietro Longhi [22] ; quelli della seconda

maniera, riservata alla raffigurazione di scene di vita

popolare, anticipazione della svolta verso quella pittura

d’interni che lo ha reso celebre.

Alessandro Longhi, figlio di Pietro, si distingue

invece nella seconda metà del secolo come pittore

ritrattista. Se Rosalba Carriera domina questo

campo per tutta la prima metà del Settecento, Longhi

ne sarà il successore [23] . Più che alle vaporose effigi di

Rosalba, Alessandro guarda ai quei colori luminosi e

a quella stesura spumeggiante di Bartolomeo Nazari,

ben esemplata nel Ritratto di Farinelli (cat. V.50) presente

in mostra. Nazari andava configurando un ritrattismo

conforme al gusto dell’epoca, ormai libero dalle

ombre dense dei cosiddetti “tenebrosi”. Se Rosalba

s’era distinta nel ritratto intimo, Nazari si specializzò

nel ritratto ufficiale e in quello d’ambiente. Farinelli,

infatti, è rievocato nel suo habitat, mentre poggia

un braccio su un clavicembalo. La sua produzione

si esaurisce, per ’limiti di età’, negli anni in cui inizia

quella di Longhi figlio.

Alessandro si forma con Giuseppe Nogari, la

cui influenza è ancora avvertibile nel giovanile Ritratto

di Carlo Goldoni (cat. V.49), il cui sorriso bonario invita

al dialogo l’osservatore. “La grande novità da lui introdotta

è l’invenzione di una tipologia variata a seconda

delle professioni e delle attitudini, magistrati e professionisti,

preti e dame dell’aristocrazia, letterati e rappresentanti

della nuova scienza, perfino popolani” [24] .

In questi ritratti il pittore evidenzia la caratterizzazione

professionale dei suoi modelli, dando dimostrazione

di saper tenere livelli eccelsi anche nell’esecuzione

degli oggetti appoggiati sul tavolo: il vassoietto con i

calamai e il volume sorretto dal celebre drammaturgo.

Coevo al Ritratto di Carlo Goldoni è quello di

Bartolomeo Ferracina (cat. V.51) ora al Louvre, di cui

esiste a Ca’ Rezzonico una seconda versione, realizzata

circa vent’anni dopo. Nel riprendere l’“Archimede

della meccanica”, com’era definito dai suoi contemporanei,

il pittore decide per una estrema umanizzazione

del personaggio, colto con gli strumenti scientifici a

uso dei calcoli ingegneristici. Ferracina legò, in qualche

misura, la sua fortuna a una delle famiglie più potenti

del Settecento veneziano, i Rezzonico. Il suo primo

lavoro, che gli diede ampia notorietà, fu infatti la riparazione

di un orologio inglese di Quare, proprietà

di Giambattista Rezzonico, padre del futuro papa

Clemente XIII. Egli inoltre collaborò con Giovanni

Poleni, docente di fisica all’Università di Padova, alla

realizzazione di varie macchine, poi usate nelle dimostrazioni

universitarie [25] .

In conclusione, Pietro Longhi, con le sue cronache

degli usi e costumi del patriziato veneziano, e

il figlio Alessandro, con i suoi ritratti ufficiali e d’ambiente,

hanno saputo offrirci un’impareggiabile documentazione

visiva della società veneziana del tempo,

nel suo specchiarsi vanesia.

168 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— UNO SGUARDO SULLA REALTÀ— 169



Va

CAT.V.01

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

L’ingresso solenne del conte de Gergy

Olio su tela, 181×259,5 cm

San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage,

inv. n. Гэ-5537.

Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni

di J. G. Links), I, tav. 66, II, cat. 356; Puppi 1968, cat.

31; Links 1981, cat. 75; Canaletto 1982, cat. 83; Succi,

in Luca Carlevarijs 1994, pp. 68-72, fig. 5; Kowalczyk,

in Splendori Settecento 1995, pp. 290-291, cat. 70;

Pallucchini 1995, I, pp. 478-81, fig. 753; Artemieva, in

Canaletto 2008, pp. 260-261, cat. 32; Venice: Canaletto

2010, cat. 13.



CAT.V.02

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il ritorno del Bucintoro al molo nel giorno

dell’Ascensione

Olio su tela, 106,5×106,5 cm

Wells-Next-The-Sea, The Earl of Leicester and the

Trustees of the Holkham Estate

Bibliografia _ Brettingham 1773, p. 14; Constable

1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I, tav. 65, II,

cat. 342.

CAT.V.03

BERNARDO BELLOTTO

Il ritorno del Bucintoro al molo nel giorno

dell’Ascensione

Olio su tela, 108×115 cm

English Heritage, Audley End House

Bibliografia _ Neville 1836, p. 107, cat. 8 (Canaletto);

Catalogue 1871, p. 2, cat. 28; Walker 1973, p. 1; Links

1998, p. 34, cat. 342(a) (come replica della tela di

Holkham Hall).

172 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 173



CAT.V.04

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il doge in pozzetto compie il giro della Piazza

Penna, inchiostro bruno e acquerello grigio,

380×552 mm

Londra, The British Museum, Bequeathed by

George Salting, inv. 1910,0212.18

Bibliografia _ Hadeln 1929, p. 6 (copia); Constable

1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I, tav. 115, II,

cat. 631; Canaletto 1982, cat. 65; Corboz 1985, II, p. 767,

cat. D 222.

CAT.V.06

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il Bucintoro a San Nicolò del Lido nel giorno

dell’Ascensione

Penna, inchiostro bruno con guazzo grigio su carta,

387×555 mm

Washington, National Gallery of Art, Samuel

H. Kress Collection, inv. 1963.15.5

Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni

di J.G. Links), I, tav. 116, II, cat. 635; Corboz 1985,

II, p. 768, cat. D 226.

CAT.V.05

GIAMBATTISTA BRUSTOLON, ANTONIO CANAL

detto CANALETTO

Il doge in pozzetto

Rame, acquaforte e bulino, 457×580 mm

Iscrizioni: Il Doge di Venezia uscendo dalla Basilica

di S. Marco getta denari al popolo / Antonius canal

pinxit Jo. Bap. Brustolon inc. / [Presso G. Battaglia

in Venezia]

Venezia, Museo Correr, inv. Cl. XXXIII, n. 1568

Bibliografia _ Canaletto-Brustolon 2006, pp. 16-17,

cat. 2.

CAT.V.07

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Ringraziamenti del doge dopo l’elezione nella Sala

del Maggior Consiglio

Penna, inchiostro bruno, 389×553 mm

Londra, The British Museum, inv. 1910,0212.20

Bibliografia _ Hadeln 1929, p. 6 (copia); Constable

1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I, tav. 115, II,

cat. 633; Canaletto 1982, cat. 67; Corboz 1985, II, p. 767,

cat. D 224; Canaletto Guardi 2012, cat. 42.

174 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— CATALOGO DELLE OPERE — 175



CAT.V.09

FRANCESCO GUARDI

L’udienza nella Sala del Maggior Consiglio

Olio su tela, 66×101 cm

Parigi, Musée du Louvre, Département des

Peintures, inv. RF 325

Bibliografia _ Morassi 1973, cat. 248; Merlino, in

The Glory 1994, cat. 204; Augusti, in Splendori

Settecento 1995, p. 330, cat. 82; Loire 2017, pp. 133-154,

con bibliografia precedente.

CAT.V.10

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

La Piazza San Marco con la chiesa di San Gemignano

Matita, penna, inchiostro bruno, acquerello,

191×270 mm

Parigi, Musée du Louvre, Départments des Arts

graphique, inv. 4794

Bibliografia _ Constable 1989, p. 483, cat. 531.

CAT.V.08

FRANCESCO GUARDI

Il Bucintoro a San Nicolò del Lido nel giorno

dell’Ascensione

Olio su tela, 67×101 cm

Parigi, Musée du Louvre, Département des

Peintures, inv. RF 319

Bibliografia _ Morassi 1973, cat. 248; Succi 1993,

p. 89, fig. 81; Augusti, in Splendori Settecento 1995,

pp. 330-331, cat. 82; Pallucchini 1995, II, pp. 538-539;

Loire, in Canaletto 2008, pp. 294-295, cat. 91; Pedrocco,

in Francesco Guardi 2012, pp. 217-218, cat. 78; Loire

2017, pp. 133-154, con bibliografia precedente.

176 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 177



CAT.V.11

ANDREA URBANI

Costumi per i rematori per le peote delle Scienze,

delle Arti

Matita nera, penna, inchiostro seppia, acquerellato a

colori, 158×220 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 5791a

Bibliografia _ Pignatti, in Disegni 1985, cat. 37;

Pavanello 1999, pp. 85, 87, 110, nota 58, fig. 49.

CAT.V.12

ANDREA URBANI

Costumi per i rematori per le peote della Pace e

dell’Abbondanza

Matita nera, penna, inchiostro seppia, acquerellato a

colori, 165×214 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 5791b

Bibliografia _ Pavanello 1999, pp. 85, 87, 110, nota 58,

fig. 50; Le capitali 2007, tav. XIV.

CAT.V.13

ANDREA ZUCCHI, ALESSANDRO MAURO

La Cina condotta in trionfo dall’Asia

Incisione, 556×900 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Bissona n. 36

Bibliografia _ Pedrocco, in Bissone 1980, p. 20,

cat. 69; Pavanello 1999, p. 85; Garbero Zorzi, in Le

capitali 2007, p. 309, fig. 34.

CAT.V.14

GIORGIO FOSSATI

Peota raffigurante l’Acqua

Incisione, 390×945 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Bissona n. 54

Bibliografia _ Pedrocco, in Bissone 1980, p. 22,

cat. 78.

178 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 179



CAT.V.15

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il ponte di Walton

Olio su tela, 48,7×76,4 cm

Londra, Dulwich Picture Gallery, inv. DPG 600

Bibliografia _ Finberg 1921, pp. 42, 66, tav. XXXI(a);

Constable 1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I,

tav. 83, II, cat. 441; Puppi 1968, cat. 302; Links 1981, cat.

255; Links 1982, pp. 173, 177, fig. 171; Canaletto 1982,

cat. 108; Corboz 1985, I, pp. 34, 37, 74, 268, 294, fig. 330,

II, p. 705, cat. P 371; Canaletto 1989, cat. 73; Canaletto

1993, cat. 35; Links 1994, pp. 191, 196, tav. 170;

Canaletto 2006, cat. 37.

180 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 181



CAT.V.16

MICHELE MARIESCHI

Veduta del Ponte di Rialto con la Riva del Ferro

Olio su tela, 131×196 cm

San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, inv. n. 176

Bibliografia _ Constable 1962, I, tav. 47, II, cat.

229 (Canaletto); Puppi 1968, cat. 53 (Canaletto);

Kozakiewicz 1972, pp. 434-437, cat. Z189 (Canaletto);

Links 1981, cat. 30 (Canaletto); Corboz 1985, I, p. 219,

fig. 265, II, p. 584, cat. P73 (Canaletto); Marieschi

1989, pp. 122-125, 253, cat. 27; Manzelli 1991, p. 61,

cat. M.38.1; Toledano 1995, p. 77, cat. V.16; Splendori

Settecento 1995, pp. 268-269, cat. 65; Pallucchini

1995, II, p. 308, fig. 459; Links 1998, p. 24, fig. 258;

Montecuccoli Degli Erri, Pedrocco 1999, pp. 295, 297,

cat. 75; Officina veneziana 2002, pp. 146-147, cat. 29;

Manzelli 2002, pp. 90-91, cat. M.38.01; Venice: Canaletto

2010, cat. 39; Succi 2016, pp. 102-107.

CAT.V.17

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Interno della Basilica di San Marco

Olio su tela, 36,4×33,4 cm

Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth

II, inv. RCIN 400575

Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni

di J.G. Links), I, tav. 25, II, cat. 78; Canaletto 1980, cat.

28; Links 1981, cat. 283; Canaletto 1982, cat. 115; Corboz

1985, II, p. 728, cat. P 444; Levey 1991, pp. 37-38,

cat. 399, fig. 45; Canaletto 2015, cat. 14; Whitaker, in

Canaletto 2017, cat. 73.

182 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —



CAT.V.18

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Piazza San Marco verso est

Olio su tela, 115×153 cm

Washington, National Gallery of Art, Gift of

Mrs. Barbara Hutton, inv. 1945.15.3

Bibliografia _ Browning 1905, pp. 340-345;

Constable 1929, p. 46; Puppi 1968, cat. 141; Constable

1976, I, tav. 19, II, pp. 207-208, cat. 50; Shapley 1979, I,

pp. 101-103, II, tav. 69; Links 1981, cat. 139; Canaletto

1982, p. 62, cat. 86; Corboz 1985, II, p. 636, cat. P249;

Links 1994, p. 97, cat. 75; Bowron, in The

Collections 1996, pp. 24-31; Succi 1999, p. 51, fig. 28;

Canaletto 2005, pp. 194-200, cat. 48; Beddington,

in Venice: Canaletto 2010, cat. 28.

— CATALOGO DELLE OPERE — 185



CAT.V.19

ANTONIO CANAL detto CANALETTO

Il Molo con le Prigioni e Palazzo Ducale

Olio su tela, 60,3×95,6 cm

Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth

II, inv. RCIN 400517

Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni di

J.G. Links), I, tav. 26, II, cat. 85; Canaletto 1980, cat. 23;

Links 1981, cat. 183; Levey 1991, p. 42, cat. 406, fig. 52.

CAT.V.20

FRANCESCO GUARDI

Fondamenta Nove con l’isola di San Michele

Olio su tela, 72×120 cm

Oxford, Ashmolean Museum, University of Oxford,

inv. WA2013.144

Bibliografia _ Russell 2015, pp. 107-109.

186 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 187



CAT.V.21

BERNARDO BELLOTTO

Veduta di Pirna e del castello Sonnenstein

Olio su tela, 134×237 cm

San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, inv. n. 209

Bibliografia _ Kozakiewicz 1972, II, pp. 174-175,

cat. 221; Camesasca 1974, cat. 127; Rizzi 1996, cat. 62;

Bernardo Bellotto 2001, cat. 61.

188 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 189



CAT.V.22

BERNARDO BELLOTTO

Le rovine di Pirna dopo il bombardamento del 1760

Olio su tela, 80×112 cm

Troyes, Musée des Beaux-Arts, inv. 850.1.4

CAT.V.23

GIAMBATTISTA PIRANESI

Rovine delle Terme antoniniane

Incisione, 420×690 mm

Venezia, collezione privata

CAT.V.24

GIAMBATTISTA PIRANESI

Veduta delle Terme di Tito

Incisione, 480×700 mm

Venezia, collezione privata

Bibliografia _ Bernardo Bellotto 1990, cat. 46;

Canaletto: Bernardo Bellotto 2014, cat. 54.

Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 852; Wilton-Ely

1994, cat. 209; Ficacci 2001, cat. 947.

Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 837; Wilton-Ely

1994, cat. 256; Ficacci 2001, cat. 994.

190 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 191



CAT.V.27

CAT.V.25

ANTONIO VISENTINI

Veduta prospettica con giocatori di carte

Olio su tela, 207,3×252,4 cm

Venezia, palazzo Contarini Fasan

(opera non esposta)

Bibliografia _ Canaletto & Visentini 1986, pp. 62-64,

365, cat. 192.

GIUSEPPE ZAIS

Paesaggio con venditrici d’uova

Penna e pennello inchiostro seppia su traccia a

matita nera, acquarello, 400×540 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 5770

Bibliografia _ Pignatti, in Disegni 1985, p. 116, cat. 76.

CAT.V.28

GIUSEPPE ZAIS

Paesaggio con lavandaie

Penna e pennello inchiostro seppia su traccia a

matita nera, acquarello, 400×540 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 5769

Bibliografia _ Drawings 1985, cat. 74; Pignatti, in

Disegni 1985, p. 116, cat. 75; Perissa Torrini, in Splendori

Settecento 1995, p. 411.

CAT.V.26

FRANCESCO ZUCCARELLI

Pastorale

Olio su tela, 28×36 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. I, n. 2180

Bibliografia _ Pignatti 1960, p. 398; Pedrocco, in ‘700

veneziano, p. 91; Pedrocco, in Vittorio Amedeo Cignaroli

2001, cat. 71; Pittura 2001, p. 118, cat. 38; Spadotto

2007, pp. 129-130, cat. 170.

192 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 193



CAT.V.29

GIAMBATTISTA TIEPOLO

La Vergine dona lo scapolare a san Simeone Stock

Olio su tela, 66×42 cm

Parigi, Musée du Louvre, Département des

Peintures, inv. RF 1983-44

CAT.V.30

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Il banchetto di Cleopatra

Olio su tela, 67×41 cm

Stoccolma, J.A. Berg Collection, Stockholm

University, inv. SUBS114

CAT.V.31

GIAMBATTISTA TIEPOLO

L’apoteosi della famiglia Pisani

Olio su tela, 140×96 cm

Angers, Musée des Beaux-Artes, inv. MBA J273 -

J1881

Bibliografia _ Brown 1993, pp. 256-258, cat. 38;

Gemin, Pedrocco 1993, p. 352, cat. 275a; Bergamini,

in Giambattista Tiepolo 2012, pp. 239-240, cat. 34;

Loire 2017, pp. 331-333, con bibliografia precedente.

Bibliografia _ Brown 1993, pp. 250-255, cat. 36, con

bibliografia precedente; Gemin, Pedrocco 1993,

p. 396-297, cat. 376a; Giambattista Tiepolo 1998, cat. 55;

Mariuz 2004a, p. 54.

Bibliografia _ Gemin, Pedrocco 1993, p. 483,

cat. 511a; Barcham, in Giambattista Tiepolo 1996,

pp. 171-176, cat. 23; Loire, in Chefs-d’œuvre 2004,

p. 142, cat. 73; Pasian, in Giambattista Tiepolo 2012,

pp. 248-249.

194 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —



CAT.V.32

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Allegoria con Venere e il Tempo

Olio su tela, 292×190,4 cm

Londra, The National Gallery, Bought with a special

grant and a contribution from The Pilgrim Trust,

1969, inv. NG6387

Bibliografia _ Gemin, Pedrocco 1993, pp. 460-461,

cat. 472; Mariuz 1994, p. 209, cat. 124; Pallucchini 1995,

I, p. 431.

CAT.V.33

GIAMBATTISTA CROSATO

Ritrovamento di Mosè

Olio su tela,72,5×108,5 cm

Torino, Palazzo Madama, Museo Civico d'Arte

Antica, inv. 658/D

Bibliografia _ Ton 2012, pp. 254-255, cat. 24, con

bibliografia precedente; Ton, in Rois & Mécènes 2015,

pp. 134-135, cat. 21.

— CATALOGO DELLE OPERE — 197



CAT.V.34 - CAT.V.35

GASPARE DIZIANI

Ratto d’Europa

Venere e Vulcano

Olio su tela, 169×144 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Martini 1964, p. 238, cat. 196; Zugni

Tauro 1972, pp. 83-84.

198 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— CATALOGO DELLE OPERE — 199



CAT.V.36-CAT.V.37

ANTONIO GUARDI

Apollo

Diana

Olio su tela, 60×88 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Pavanello 2000, p. 57.

CAT.V.38

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Costruzione del cavallo di Troia

Olio su tela, 38,8×66,7 cm

Londra, The National Gallery, Bought 1918,

inv. NG3318

Bibliografia _ Mariuz 1971, pp. 78, 120, fig. 270;

Whistler, in The Glory 1994, p. 509, cat. 237; Loisel,

in Éblouissante Venise 2018, p. 248, cat. 143.

200 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— CATALOGO DELLE OPERE — 201



CAT.V.39

GIAMBATTISTA TIEPOLO

La morte di Giacinto

Olio su tela, 287×232 cm

Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, inv.

1934-29

Bibliografia _ Gemin, Pedrocco 1993, p. 432, cat. 423;

Pallucchini 1995, I, p. 441; Barcham, in Giambattista

Tiepolo 1996, pp. 171-177.

— CATALOGO DELLE OPERE — 203



CAT.V.40

GASPARE DIZIANI

Allegoria delle Arti

Penna, inchiostro seppia, acquerello seppia,

280×202 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 5514

Bibliografia _ Dorigato, in Disegni antichi 1981, p.

133, cat. 392.

CAT.V.41

FRANCESCO FONTEBASSO

Progetto decorativo per soffitto di Ca’ Bollani

Matita, penna, inchiostro bruno, acquerello seppia,

268×232 mm

Parigi, École nationale supérieure des Beaux-Arts

(ENSBA), inv. O. 1378

Bibliografia _ Brugerolles, Guillet, in Disegni veneti

1988, p. 51, cat. 48; Brugellores, Guillet, in Les dessins

1990, p. 100, cat. 48.

CAT.V.42

FRANCESCO ZUCCHI, PIETRO ANTONIO NOVELLI

Progetto decorativo per soffitto

Matita nera, penna, acquerello bruno, 258×573 mm

Parigi, École nationale supérieure des Beaux-Arts

(ENSBA), inv. O.1379

Bibliografia _ Brugerolles, Guillet, in Disegni veneti

1988, p. 68, cat. 90; Brugerolles, Guillet, in Les dessins

1990, p. 164, cat. 84.

CAT.V.43

PIETRO VISCONTI

Progetto decorativo per soffitto

Penna e inchiostro bruno, acquerellato a varie tinte,

350×253 mm

Verona, Gabinetto Disegni e Stampe dei Civici Musei

d’Arte, inv. 12627 2B 87

Bibliografia _ Marinelli, in Museo di Castelvecchio

1999, p. 103, cat. 70; Pavanello 2016, p. 89.

204 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— CATALOGO DELLE OPERE — 205



CAT.V.44

PIETRO LONGHI

Il Rinoceronte

Olio su tela, 62×50 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. I, n. 1312

Bibliografia _ Berenson 1894, p. 104; Valcanover

1956, p. 25; Pignatti 1968, p. 100, tav. 116; Pedrocco,

in Pietro Longhi 1993, p. 132, cat. 63; Pedrocco, in

’700 Veneziano 1998, p. 70; D’Anza, in Éblouissante

Venise 2018, p. 249, cat. 151.

CAT.V.45

PIETRO LONGHI

L’ambasciata del moro

Olio su tela, 62×50 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. I, n. 1301

Bibliografia _ Pignatti 1968, p. 100, tav. 119;

Pedrocco, in Pietro Longhi 1993, p. 122, cat. 59;

Theodoli, in The Glory 1994, p. 463, cat. 183; Pedrocco,

in ’700 Veneziano 1998, p. 72, cat. 54; D’Anza, in

Éblouissante Venise 2018, p. 249, cat. 152.

206 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— CATALOGO DELLE OPERE — 207



CAT.V.46

PIETRO LONGHI

L’atelier del pittore

Olio su tela, 44×53 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. I, n. 133

Bibliografia _ Pignatti 1968, p. 100, tav. 47; Pedrocco,

in Pietro Longhi 1993, p. 96, cat. 47; Theodoli, in The

Glory 1994, p. 463, cat. 183; Pedrocco, in Pietro Longhi

2006, p. 9, cat. 4; D’Anza, in Éblouissante Venise 2018,

p. 249, cat. 150.

— CATALOGO DELLE OPERE — 209



CAT.V.47

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Ritratto di Giulia Lama

Olio su tela, 69,4×55,5 cm

Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, inv.

n. 1966.11

Bibliografia _ Zampetti 1969, p. 132; Mariuz 1982,

n. 17, tav. III; Ruggeri, in Giambattista Piazzetta 1983,

pp. 67-68; Knox 1992, pp. 84, 86, fig. 69; Giacometti,

in The Glory 1994, p. 473, cat. 62; Magani, in Splendori

Settecento 1995, p. 204, cat. 43; Pallucchini 1995, I,

p. 298, fig. 490; Craievich, in Éblouissante Venise 2018,

p. 245, cat. 48.

CAT.V.49

ALESSANDRO LONGHI

Ritratto di Carlo Goldoni

Olio su tela, 125×105 cm

Venezia, Casa di Carlo Goldoni, inv. Cl. I, n. 339

Bibliografia _ Pilo 1957, pp. 43-45, cat. 10; Pignatti

1960, pp. 156-158; Pallucchini 1995, I, p. 437; Delorenzi

2009-2010, pp. 137-138, cat. 1, fig. 1, con bibliografia

precedente.

CAT.V.50

BARTOLOMEO NAZARI

Ritratto di Farinelli

Olio su tela, 141×117 cm

Londra, Royal College of Music, inv. PPH C000272

Bibliografia _ Noris 1982, p. 232, cat. 26; Barbier

1988; McGeary 2002, pp. 203-213; Joncus 2005;

Freitas 2009, pp. 203-215; Feldman 2015; Barbier, in

Éblouissante Venise 2018, p. 244, cat. 23.

CAT.V.51

ALESSANDRO LONGHI

Ritratto di Bartolomeo Ferracina

Olio su tela, 120×87 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. I, n. 253

Bibliografia _ Pignatti 1960, pp. 147-148 ; Pallucchini

1995, I, p. 444; Pedrocco 1998, p. 84; Pedrocco, in ‘700

Veneziano 1998, p. 148, cat. 68; Rigoni 2003, p. 133;

Delorenzi 2009-2010, pp. 193-194, cat. 78, fig. 114, con

bibliografia precedente.

— CATALOGO DELLE OPERE — 211



CAT.V.52

PIETRO LONGHI

Pittore al cavalletto; Due gentiluomini in “Bauta”

Carboncino e gessetto bianco, 293×438 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 437

Bibliografia _ Pignatti 1968, pp. 17, 120; Pignatti, in

Disegni antichi 1987, pp. 69-71, cat. 975; Dorigato, in

Pietro Longhi 1993, p. 57, cat. 13; Pietro Longhi 2006,

pp. 9-10, cat. 4.

CAT.V.53

PIETRO LONGHI

Gentiluomo seduto che legge

Carboncino e gessetto bianco, 267×384 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 563

Bibliografia _ Pignatti 1968, pp. 126, 137; Pignatti,

in Disegni antichi 1987, p. 92, cat. 1003; Dorigato, in

Pietro Longhi 1993, p. 56, cat. 12; Pietro Longhi 2006,

p. 15, cat. 16.

CAT.V.54

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Busto di giovane voltato verso destra con un libro

in mano

Carboncino e biacca su carta bruna, 380×270 mm

Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. n. 300

Bibliografia _ Mariuz 1982, cat. D23; Nepi Scirè, in

G.B. Piazzetta 1983, p. 25, cat. 18; Perissa Torrini, in

Splendori Settecento 1995, pp. 415-416, cat. 131, con

bibliografia precedente.

— CATALOGO DELLE OPERE — 213



CAT.V.55

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Alfiere e tamburino

Carboncino e biacca su carta bruno grigia,

432×327 mm

Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. n. 320

Bibliografia _ Mariuz 1982, cat. D32; Nepi Scirè,

in G.B. Piazzetta 1983, p. 26, cat. 20; Perissa Torrini,

in Splendori Settecento 1995, p. 416, cat. 132, con

bibliografia precedente.

CAT.V.56

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Il concertino

Carboncino e biacca su carta bruna, 425×327 mm

Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. n. 323

Bibliografia _ Mariuz 1982, cat. D33; Nepi Scirè, in

G.B. Piazzetta 1983, p. 26, cat. 21; Perissa Torrini,

in Splendori Settecento 1995, p. 416, cat. 133, con

bibliografia precedente.

— CATALOGO DELLE OPERE — 215



CAT.V.57

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Ritratto di giovane di profilo

Gessetto bianco e nero, 415×291 mm

Londra, The British Museum, Donated by Antoine

Seilern, inv. 1946,0713.100

Bibliografia _ Mariuz 1982, cat. 16a; Knox, in G.B.

Piazzetta 1983, p. 30, cat. 34.

CAT.V.58

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Figura di ecclesiastico

Carboncino e gesso nero con lumeggiature in gesso

bianco, 403×303 mm

Parigi, Fondation Custodia, Collection Frits Lugt,

inv. n. 6017

Bibliografia _ Disegni veneti 1981, pp. 65-66, cat. 75;

Mariuz 1982, cat. D42.

— CATALOGO DELLE OPERE — 217



CAT.V.59

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Ritratto di Lorenzo Tiepolo

Gesso nero, 272×202 mm

Parigi, Fondation Custodia, Collection Frits Lugt,

inv. n. 3128

Bibliografia _ Byam Shaw 1962, pp. 83-84, cat. 54;

Knox 1980, I, pp. 57, 230, cat. M166, II, tav. 174; Disegni

veneti 1981, p. 70, cat. 80; Crosera, in Giambattista

Tiepolo 2012, pp. 263-264, cat. 67, con bibliografia

precedente.

CAT.V.60

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Sacra famiglia

Penna e inchiostro nero, acquerello bruno-grigio su

carboncino, 295×192 mm

Parigi, Fondation Custodia, Collection Frits Lugt,

inv. n. 3504

Bibliografia _ Disegni veneti 1981, pp. 73-74, cat. 83;

Mariuz 2008, pp. 210, 212.

218 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —

— CATALOGO DELLE OPERE — 219



GEN ER I

E TEMI



JAN - CHRISTOPH

RÖSSLER

FIG. 1

DOMENICO ROSSI

Venezia, San Stae,

facciata

1 _ A. Memmo, Elementi

dell’architettura lodoliana o sia

l’arte del fabbricare con solidità

scientifica e con eleganza non

capricciosa, Zara 1833-1834, p.

9 e sgg.

2 _ Ivi, p. 52.

3 _ Così recita la didascalia di

un’incisione di Antonio Longhi

raffigurante il frate.

4 _ T. Temanza, Vite dei più

eccellenti architetti, Venezia

1778, p. 87.

5 _ V. Coronelli, Proposizioni

diverse de’ principali architetti

per il progetto di Sant’Eustachio,

Venezia s.d. (1710?); L. M.

Ravaioli, Il concorso per la

facciata di S. Stae a Venezia,

“Disegno di architettura”, 7

(1993), pp. 57-70.

Per guadagnarci il pane convien che acquistiamo

una qualche fama, e questa non s’acquista già colla

matematica alla mano, ma coll’imitare il meglio, ed

il più che per noi si può, l’opere che sono nella stima

maggiore, evitandone con diligenza i difetti. Se io presentassi

un qualche disegno tutto nuovo, per quanto

ragionevol fosse, sarei sicuro, che quello d’ogni altro

architetto, imitante, per esempio, una facciata del

Palladio, o del Vignola, sarebbe al mio preferito, e

frattanto chi sosterrebbe la mia famiglia?

GENERI

E TEMI

MOM EN T I DI

ARCHITETTURA

Queste sono le parole

con cui Giorgio Massari (1687-1766) avrebbe difeso,

intorno al 1736, il suo modello per la chiesa della

Pietà in un colloquio con Carlo Lodoli (1690-1761) [1] .

Entrambi i personaggi sono ben noti: il primo senza

dubbio l’architetto più richiesto del Settecento

veneziano; il secondo, frate francescano, il paladino

più strenuo di un razionalismo ispirato dalla teoria

francese cosiddetta “illuminista”, mirante a trovare

“nuove forme e nuovi termini” [2] per “unir e

fabrica e ragione e sia funzion la rapresentazione” [3] .

Caro tanto ai circoli dotti dell’epoca quanto alla storiografia,

il precursore del moderno funzionalismo

era considerato perfino da Tommaso Temanza un

“critico insolente, e impostore sfacciato”, per cui

“non c’era fabbrica al mondo, che fosse buona; non

ci fu mai buon architetto, neppure fra gli Antichi” [4] .

Mentre gli allievi di Lodoli si estenuarono in

aspri discorsi accademici sul rinnovamento dell’architettura

in base alla sola ragione e alla natura dei materiali,

Massari vinceva concorsi. Massimamente nel

campo dell’edilizia sacra riuscì a cogliere con efficacia

quanto fosse apprezzato dai committenti e a imparare

dalle opere mature dei maestri della generazione precedente.

Tra questi figura Domenico Rossi (1657-1737),

la cui fortuna iniziò forse non a caso dopo la morte

dello zio e maestro Giuseppe Sardi (1624-1699). Con

la facciata di San Stae (1709) e la chiesa di Santa Maria

Assunta dei Gesuiti (1713-1728), Rossi lasciò a Venezia

due opere di somma importanza. Dopo la sua ricostruzione

nel 1674, la chiesa di San Stae era rimasta

priva di una facciata. Dodici delle proposte del concorso

appositamente indetto nel 1709 sono tramandate

da incisioni di Vincenzo Maria Coronelli e dimostrano

una variegata gamma stilistica, da invenzioni di

derivazione tardoseicentesca a proposte di gusto borrominiano,

come quella di Giovanni Giacomo Gaspari,

figlio del più noto Antonio [5] .

Al concorso partecipò anche Giovanni Gratii,

autore della chiesa stessa [6] . Come Gratii, anche

Domenico Rossi cercò di conformarsi in facciata

alla disposizione dell’interno, accorciando le brevi

ali dell’ordine minore in modo da coprire appena le

cappelle laterali addossate alla navata unica (fig. 1).

Fra tutte le proposte il disegno vincitore di Rossi presenta

il maggiore equilibrio tra architettura e scultura,

ponendosi al contempo in linea con una tradizione

veneziana risalente a Palladio, riconducibile al motivo

paradigmatico dell’ordine gigante delle facciate di San

Francesco della Vigna e di San Giorgio Maggiore [7] .

La chiesa di Santa Maria Assunta dei Gesuiti

nacque dalla coincidenza singolare tra la volontà

rappresentativa della famiglia Manin, finanziatrice

dell’impresa, e le esigenze dell’Ordine appena riammesso

a Venezia [8] . Fino all’Ottocento la chiesa si

affacciava in gran parte su una salizzada non molto

larga, lasciando libero soltanto l’angolo settentrionale.

Tale situazione urbanistica sfavorevole, già lievemente

smussata nella veduta di Canaletto (fig. 2) e oggi

non più intuibile, fu affrontata da Domenico Rossi

mediante l’arretramento delle ali all’estremità e l’impiego

di colonne libere nel registro inferiore; entrambi

tratti già presenti in un contributo anonimo per il concorso

di San Stae [9] .

— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 223



La costruzione della nuova chiesa di Santa

Maria Rosario iniziata nel 1725 [10] su disegno di

Massari era il primo incarico importante dell’architetto

a Venezia. Come la chiesa mariana dei Gesuiti,

anche quella dei Domenicani Osservanti, detta dei

Gesuati, è situata ai margini della città (fig. 3). Grazie

alla posizione privilegiata sul Canale della Giudecca,

esaltata in una veduta di Francesco Guardi, il prospetto

era destinato a essere percepito prevalentemente

a grande distanza. Massari ne tenne conto

con una ulteriore semplificazione dello schema palladiano,

estendendo il grandioso tetrastilo di semicolonne

a tutta la larghezza della navata, e raccordandolo

ai fianchi con massicci fasci di pilastri. Ne risulta

un forte effetto tettonico, rafforzato ulteriormente

dal chiaroscuro del grande portale e dalle quattro

statue delle Virtù sostenute da grosse mensole semicircolari.

All’interno, invece, i setti murari tra le cappelle

laterali presentano nella parte superiore dei bassorilievi,

similmente allo schema della chiesa di Santa

Maria della Fava, iniziata da Antonio Gaspari ma portata

a termine dallo stesso Massari pochi anni prima.

Un programma scultoreo è assente nei due

progetti di Massari per le facciate delle chiese delle

Penitenti e dell’ospedale della Pietà, la prima incompiuta,

la seconda realizzata tardivamente con un disegno

diverso da quello originale. Non è noto il disegno

preciso per il prospetto della chiesa di San Marcuola,

rifabbricata a partire dal 1728, ma i quattro piedistalli

eseguiti indicano anche in questo caso un ordine

gigante di ispirazione palladiana. Se nelle numerose

chiese erette da Massari, a Venezia come in Terraferma,

le composizioni delle facciate seguirono sempre lo

stesso schema, questo non vale per gli spazi interni,

dove l’architetto dimostrò una grande flessibilità per

adattarsi alle necessità dei committenti e alle particolarità

dei rispettivi siti: a San Marcuola una pianta quadrata

con facciata laterale rivolta sul Canal Grande; ai

Gesuati una variazione del motivo della navata unica

con sei cappelle laterali; infine una pianta ellissoide

con lesene poco aggettanti per la chiesa della Pietà,

del tutto incentrata sulle famose esecuzioni musicali

dell’annesso pio istituto. Questa volta però l’impianto

non era desunto da un archetipo palladiano, bensì

dalla distrutta chiesa degli Incurabili, opera di Jacopo

Sansovino [11] .

Mancò poco, e il vecchio Massari avrebbe

realizzato nel 1759 anche la chiesa di Santa Maria

Maddalena. Tra gli architetti chiamati dal parroco

Marchioni a presentare i loro progetti fu anche

Tommaso Temanza (1705-1789), la cui proposta di una

pianta circolare fu scelta alla fine non solo “per la propria

sua essenziale perfezione” [12] , ma per essere stata

ritenuta più adeguata a un sito particolarmente angusto

e difficile, incastrato tra una fondamenta pubblica e

varie case private. La tipologia centrale non era affatto

FIG. 2

ANTONIO VISENTINI

(da CANALETTO)

Campo dei Gesuiti, incisione

6 _ Basandosi su una cronaca

della storia di San Stae, la

storiografia identifica l’autore

della rifabbrica con uno

sconosciuto Giovanni Grassi.

Per motivi di coincidenza

cronologica si è indotti a

pensare a una qualche svista,

essendovi a Venezia nel 1661

in parrocchia di San Polo un

“Zuanne Gratiis tagiapiera”

(Archivio di Stato di Venezia

[d’ora in poi ASVe], Dieci Savi

alle Decime, R. 423, San Polo,

c. 38v, n. 275), senz’altro il

“Zuanne di Gratii” eletto,

assieme a Gerolamo Viviani e il

più noto Alessandro Tremignon,

alla fine del 1673 in una causa

divisoria (ASVe, Notarile, Atti,

R. 6106, not. Marco Fratina, c.

131v, 31 dicembre 1673), e pure

omonimo allo “scultore Veneto

Giovanni Grazzi” attivo nello

stesso anno nella Scuola del

Rosario di Treviso (cfr. D. M.

Federici, Memorie trevigiane

sulle opere di disegno dal Mille

e Cento al Mille e Ottocento. Per

servire alla storia delle Belle Arti

d’Italia, II, Venezia 1803, p. 105).

7 _ Vedasi l’analisi limpida

di W. Oechslin, Die Kirche

San Stae in Venedig: die

Palladianische Fassade des

Tessiner Architekten Domenico

Rossi, “Unsere Kunstdenkmäler:

Mitteilungsblatt für die

Mitglieder der Gesellschaft

für Schweizerische

Kunstgeschichte”, 25, 4, 1974,

pp. 225-235.

8 _ Cfr. ultimamente, F.

Lenzo, Oltre Palladio. La chiesa

dei Gesuiti e la tradizione

architettonica veneziana, in

Immaginari della Modernità,

a cura di S. Marini, Sesto San

Giovanni 2016, pp. 26-43, con

bibliografia.

9 _ Non convince

l’interpretazione di F.

Lenzo, Venezia, in Storia

dell’architettura nel Veneto: Il

Settecento, a cura di E. Kieven

e S. Pasquali, Venezia 2012, pp.

134-165, in particolare p. 155,

secondo il quale le colonne

riecheggerebbero la basilica

ducale di San Marco.

10 _ A. Massari, Giorgio

Massari. Architetto veneziano

del Settecento, Vicenza 1971, pp.

42 e sgg.

11 _ Ivi, pp. 70-76.

FIG. 3

GIORGIO MASSARI

Venezia, Santa Maria

del Rosario (Gesuati),

facciata

FIG. 4

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

Il Canal Grande a San Simeon

Piccolo. Londra, The National

Gallery

nuova a quell’epoca: dopo l’illustre caso seicentesco di

Santa Maria della Salute, era stata riproposta nel 1718

da Giovanni Scalfurotto (1697-1764), zio materno e

maestro dello stesso Temanza, nella chiesa dei Santi

Simeone e Giuda Taddeo Apostoli, detta San Simeon

Piccolo [13] . Ben nota per la costruzione audace dell’alta

cupola lignea [14] , e le somiglianze con il tempietto palladiano

di Maser [15] , San Simeon si distingue dalle altre

chiese erette prima della caduta della Repubblica non

tanto per il pronao, motivo già sperimentato pochi

anni prima da Andrea Tirali (1657-1737) nella chiesa di

San Nicolò da Tolentino, bensì per la plastica raffigurazione

del Martirio dei Santi titolari in forma di grande

rilievo marmoreo che ne riempie l’intero timpano [16] .

Si sarebbe dovuto aspettare quasi un secolo per

vedere nel prospetto neoclassico della chiesa di San

Maurizio una soluzione simile. Una veduta del Canal

Grande di Canaletto conservata alla National Gallery

di Londra (fig. 4) dimostra che il pittore colse brillantemente

come la nuova chiesa bianca di San Simeon

Piccolo, sfiorata da una controluce invernale, si venga

a porre in chiave antitetica alla chiesa di Santa Maria

di Nazareth ubicata quasi di fronte, uno degli esempi

più fastosi di una facciata commemorativa seicentesca

finanziata da una famiglia patrizia. Appare significativo

che sia la chiesa dei Gesuati, sia San Simeon Piccolo,

divennero soggetti di capricci del grande vedutista.

Ma torniamo alla chiesa della Maddalena.

Sostituito, per meri motivi di spazio, il presbiterio

quadrato previsto nel progetto primitivo con uno

ovale più piccolo, l’impianto sembra avvicinarsi ancora

di più a quello di San Simeon. Lo spazio interno è però

diverso per la cupola ribassata e per l’uso di un ordine

gigante di colonne ioniche a tre quarti, da cui risultano

quattro semicappelle. “Sapientia aedificavit sibi

domum” recita l’iscrizione sotto la lunetta della porta

principale. All’esterno, il tempio del “dotto architetto,

il signor Tomaso Temanza, matematico, letterato erudito”

[17] , è privo di simboli esplicitamente cattolici, a

parte l’ambiguo e insolito occhio della Divina Sapienza

intrecciato al triangolo della Santissima Trinità [18] .

Della santa titolare non c’è traccia (fig. 5). La “purità

che innamora” (così la fortuna critica neoclassica locale

[19]

) di questa architettura a sé stante, in cui pittura e

scultura sono confinate ai soli altari, è lontana da una

Gesamtkunstwerk come la chiesa dei Gesuiti, profusa

di stucchi, affreschi e intagli di marmi policromi, o la

chiesa dei Gesuati, arricchita da sculture di Gian Maria

Morlaiter e dipinta nei soffitti, come spesso avvenne in

costruzioni di Massari, da Giambattista Tiepolo.

Quasi contemporaneamente alla costruzione di

Santa Maria Maddalena fu innalzata la chiesa di San

Geremia su modello dell’architetto-sacerdote bresciano

Carlo Corbellini. Restano finora oscure le circostanze

precise di questo raro incarico di un architetto

non veneziano. Ricerche recenti hanno individuato

224 —GENERI E TEMI —

— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 225



nell’alzato raffigurato in una medaglia commemorativa

del 1752 il progetto primitivo di un edificio centrale

con cupola ribassata sul modello del Pantheon

e pronao apparentemente dorico destinato al prospetto

rivolto al Canal Grande: progetto accolto dal

vescovo di Brescia, cardinale Angelo Maria Querini,

che diventò in seguito il maggiore benefattore della

nuova costruzione [20] . La morte precoce del presule

nel gennaio 1755 deve aver comportato, per vicende

ancora da chiarire, un cambiamento profondo, poiché

l’edificio effettivamente realizzato – con impianto a

forma di croce, alta cupola centrale e tre facciate per

sfruttare il sito particolarmente favorevole sull’angolo

tra il Canal Grande, il canale di Cannaregio e il campo

di San Geremia – è alquanto diverso dal progetto primitivo

(fig. 6).

Sempre nel sesto decennio, la Scuola Grande

di San Rocco diede inizio alla ricostruzione della facciata,

cadente, dell’adiacente chiesa omonima. Vari

architetti furono chiamati nel 1756 a presentare progetti

[21] . Prevalse il proto della Scuola, Giorgio Fossati

(1705-1778). Le sue invenzioni classicheggianti – di

una è anche pervenuto il modello ligneo [22] – condividono

l’impiego di un ordine gigante corinzio su alti

piedistalli, e timpano con lunetta ornata di sculture.

Di particolare interesse è un disegno acquarellato (fig.

7), di cui non si può negare, nella sua impostazione

generale, l’affinità con la facciata dei Gesuati, con cui

condivide anche la fascia alla greca dell’ordine minore.

Diversamente dal modello ligneo alternativo, le nicchie

destinate a ospitare statue di Santi sono sostituite

con grandi riquadri di bassorilievi.

Il rigore inerente ai progetti di Fossati si contrappone

in maniera eclatante a un capriccio d’un

Rococò sfrenato elaborato da Michele Marieschi, in cui

l’antico prospetto quattrocentesco della chiesa è ricoperto

da tre grandi rilievi (fig. 8). Come mezzo secolo

prima il concorso per San Stae, anche le varie proposte

per San Rocco dimostrano il rapporto talvolta conflittuale

tra il programma scultoreo, più o meno preponderante,

e l’architettura che lo doveva incorniciare. Alla

fine, la nuova facciata fu iniziata su modello di Fossati,

ma i lavori furono fermati poco dopo. Probabilmente i

“guardiani” della confraternita avevano intuito, alla vista

dei piedistalli che si stavano per erigere, come il nuovo

prospetto avrebbe spostato il baricentro della corte

verso la chiesa, soffocando la Scuola. Abbandonato il

progetto di Fossati e smontato con dispendio notevole

quanto già costruito, fu invece realizzata, entro il

1769, un’idea di Bernardino Maccaruzzi (1728 ca.-1798)

che riprende la partitura architettonica a due registri

e colonne libere della Scuola cinquecentesca (fig. 9).

Come Massari, anche Maccaruzzi sapeva “imitare il

meglio” per tutelare il genius loci.

FIG. 5

TOMMASO TEMANZA

Venezia, Santa Maria

Maddalena, facciata

FIG. 6

CARLO CORBELLINI

Venezia, San Geremia,

facciata

12 _ Riportato in M. Favilla,

R. Rugolo, Un’architettura

di “scientifica semplicità”.

Tommaso Temanza e la chiesa

della Maddalena, “Studi

Veneziani”, N.S., LV, 2008, pp.

203-282, qui p. 226; studio

approfondito a cui si rimanda

per la storia complessissima

della genesi del progetto.

13 _ Vedansi gli espliciti

riferimenti dati da Temanza

1778, p. 432, in nota. Cfr.

inoltre M. Brusatin, Venezia nel

Settecento: stato, architettura,

territorio, Torino 1980, p. 221.

14 _ M. Piana, San Giorgio

Maggiore e le cupole lignee,

“Annali di Architettura”, XXI,

2009, pp. 79-90.

15 _ Vedasi da ultimo Lenzo

2012, p. 157.

FIG. 7

GIORGIO FOSSATI

Disegno per la facciata di San

Rocco, da F. Posocco, Scuola

Grande di San Rocco: la

vicenda urbanistica e lo spazio

scenico, Cittadella 1997

FIG. 8

MICHELE MARIESCHI

Campo San Rocco,

incisione

16 _ Opera di Francesco

Penso detto Cabianca: T.

Temanza, Zibaldon, a cura di

N. Ivanoff, Venezia-Roma 1963,

p. 42.

17 _ Favilla, Rugolo 2008,

p. 226.

18 _ Ivi, p. 260.

19 _ L. Cicognara, A.

Diedo, G. Selva, Le fabbriche

e i monumenti più cospicui di

Venezia, Venezia 1840, p. 54,

nota 1.

20 _ M. Favilla, R. Rugolo,

Frammenti dalla Venezia

barocca, “Atti dell’Istituto

Veneto di Scienze, Lettere ed

Arti”, 163, 2004-2005, Classe di

scienze morali, lettere ed arti,

pp. 47-138, in particolare pp.

125 sgg.

L’atteggiamento eclettico diffuso nel Settecento

veneziano si riscontra pure in opere di Domenico

Rossi. Nel campo dell’edilizia privata l’architetto è

noto soprattutto per palazzo Corner della Regina sul

Canal Grande, iniziato nel 1723 (fig. 10) [23] . Mentre

nei piani inferiori Rossi dimostra di aver interiorizzato

l’insegnamento barocco dato dallo zio Giuseppe quasi

mezzo secolo prima a palazzo Flangini San Geremia

(1678), la parte superiore, con esili frontoncini triangolari

che sovrastano le aperture architravate del secondo

piano nobile, allude ad architetture palladiane di

Terraferma, in particolare palazzo Porto Breganze a

Vicenza. Gli antenati dei committenti, del resto, avevano

fatto erigere proprio da Palladio la famosa villa

di Piombino Dese. A causa della ristrettezza del sito –

un fantasioso progetto precedente ascritto allo stesso

architetto aveva previsto di edificare anche il lotto del

palazzetto gotico limitrofo – l’edificio ideato da Rossi

doveva svilupparsi soprattutto in verticalità. Stante

la notoria volontà dei Corner di costruire un nuovo

palazzo monumentale seguendo le ordinazioni testamentarie

del procuratore Ferigo Corner fu Andrea

del 1706, non era certamente una mera coincidenza

che i Pesaro San Stae avessero fatto eseguire all’inizio

del secolo un dispendioso rivestimento lapideo della

facciata laterale orientale del loro palazzo seicentesco:

opera che pare finalizzata a controbilanciare, per

quanto possibile, la ventura fabbrica dei vicini [24] .

Sorprende che palazzo Corner sia privo di un

salone a più piani; motivo introdotto nella città lagunare

alla fine del secolo precedente da Antonio Gaspari

nei palazzi Barbaro San Vidal e Zenobio, e tosto

entrato nel repertorio tipologico delle dimore più

fastose veneziane del secolo XVIII. Con palazzo Dolfin

San Pantalon, Rossi stesso aveva eretto, tra il 1709 e il

1717, l’esempio più significativo di questo genere [25] .

Al livello d’impianto, ca’ Corner della Regina presenta

ridondanze dovute alla creazione di appartamenti

semi-indipendenti per i fratelli committenti Andrea

e Ferigo Corner fu Gerolamo. In corrispondenza dei

portali minori laterali in facciata, doppie scale con

brevi rampe d’invito prendono avvio nell’atrio a colonnato

verso Canal Grande. Demolita nell’Ottocento

gran parte della scala occidentale dal mezzanino in su,

ed eretta posteriormente una rampa di scale nell’androne

passante, la primitiva struttura dei collegamenti

verticali oggi non è più percepibile.

La capacità di Rossi di conformarsi ai desideri

dei committenti si manifesta in due altri edifici

eretti pressoché contemporaneamente. Se palazzo

Da Riva, fabbricato da marzo 1720 fino al 1727 per il

nobile Vincenzo da Riva [26] , dimostra nella facciata

sul rio di San Lorenzo un vocabolario seicentesco

diventato ormai stantio, il palazzo di Tommaso Sandi,

226 —GENERI E TEMI —

— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 227



incominciato con il salone dalla parte del rio nell’aprile

1721, sconcerta nel sobrio prospetto sul campo eretto

nell’anno successivo [27] , con una impostazione simile a

palazzi veneziani della fine del secolo XVI, salvo alcuni

particolari (fig. 11). Risparmio economico o acquisto

di tradizione da parte della famiglia del committente,

ammessa al patriziato veneto nel 1685?

Del tutto diverso era invece l’approccio nella

rifabbrica della dimora di Zaccaria, Anzolo Maria,

Piero e Zuanne Priuli fu Marc’Antonio (fig. 12). Dopo

l’elezione di Zuanne alla dignità di procuratore di

San Marco nel 1723, le case medievali dei Priuli a

San Geremia non bastarono più alle nuove esigenze

di rappresentanza. Con i lavori iniziati nel 1724 su

disegno di Andrea Tirali si cercò di unificare il vasto

complesso eterogeneo, dotandolo di una facciata unitaria

e aggiornando la distribuzione interna, ma evitando

al contempo un dispendio eccessivo [28] . Andrea

Tirali era, come del resto anche il succitato Giovanni

Scalfurotto suo genero, allievo del matematico e teorico

di architettura Andrea Musalo (1665-1721), il cui

insegnamento era volto al recupero delle regole di

Vincenzo Scamozzi, facilitate e rese pratiche attraverso

tabelle numeriche [29] . Palazzo Priuli va pertanto letto

alla luce di queste premesse.

Basata su una rigorosa composizione geometrica

caratterizzata dal rivestimento lapideo delle

poche superficie murarie e dall’assenza di aperture

arcuate ai piani superiori, la facciata tripartita simmetrica

non ha un riscontro nella disposizione dei vani:

il portale di destra è finto; il salone cubico a due piani

occupa solo cinque delle sette assi centrali. Lo scalone

principale è inserito contro ogni logica architettonica

nell’antico portego passante di una delle case preesistenti,

in modo che i pianerottoli, sfalsati rispetto ai

solai, vengono a otturare una parte delle finestre. La

razionalità “avanguardista”, tanto decantata dalla storiografia,

si limita al solo prospetto. Come San Simeon

Piccolo, palazzo Priuli non trovò una successione

immediata. Palazzo Diedo Santa Fosca, iniziato nel

1715 per il procuratore Anzolo Diedo [30] , dimostra

come anche Tirali seppe certamente adeguarsi bene

alle richieste del committente, elevando il semplificato

vocabolario cinquecentesco locale sul piano di una

rara monumentalità.

Verso la metà del Settecento nacque, come già

due secoli prima, una gara architettonica che interessò

vari siti lungo il Canal Grande. Affiorarono grandiosi

progetti per palazzi patrizi, di cui solo uno vide la realizzazione

completa. Diverse erano le strategie scelte

21 _ Vedasi, più ampiamente,

R. Maschio, La facciata della

chiesa di San Rocco, in Le

Venezie possibili. Da Palladio

a Le Corbusier, catalogo

della mostra (Venezia, Ala

Napoleonica Museo Correr) a

cura di L. Puppi e G. Romanelli,

Venezia 1985, pp. 106-112.

22 _ Cfr. F. Posocco, Scuola

Grande di San Rocco: la vicenda

urbanistica e lo spazio scenico,

Cittadella 1997, pp. 92 sgg.

23 _ Rimane tuttora

fondamentale lo studio di L.

Olivato, Un’avventura edilizia

nella Venezia del Settecento.

Palazzo Corner della Regina,

“Antichità viva”, 3, 1973, pp.

27-49.

24 _ E. Bassi, Palazzi di

Venezia. Admiranda Urbis

Venetae, Venezia 1974, p. 168

ritiene invece lo sviluppo in

altezza di palazzo Corner una

reazione alla facciata laterale di

palazzo Pesaro.

25 _ Vedasi V. Conticelli,

Ca’ Dolfin a San Pantalon:

Precisazioni sulla committenza

e sul programma iconografico

della “Magnifica Sala”, in

Giambattista Tiepolo nel terzo

centenario della nascita, a cura

di L. Puppi, Padova 1998, pp.

231-237. L’aumento della tassa

imposta sull’immobile nel

luglio 1717 (ASVe, Dieci Savi alle

Decime, R. 868, San Pantalon)

dovrebbe costituire un terminus

ante quem.

26 _ Cfr. il testamento del

committente in ASVe, Notarile,

Testamenti, b. 1010b, not.

Emilio Velan, cedole, n. 406 del

04 luglio 1735. Di più, vedasi

ASVe, Giudici del Piovego, b. 23,

R. 16, c. 24v, n. 300, 04 gennaio

1720 more veneto.

FIG. 9

BERNARDINO MACCARUZZI

Venezia, San Rocco,

facciata

FIG. 10

DOMENICO ROSSI

Venezia, palazzo Corner

della Regina,

facciata

FIG. 11

DOMENICO ROSSI

Venezia, palazzo Sandi,

facciata

FIG. 12

ANDREA TIRALI

Venezia, palazzo

Priuli Manfrin,

facciata

27 _ ASVe, Giudici del

Piovego, b. 23, R. 16, c. 30r, n.

278, 16 aprile 1722.

28 _ V. Farinati, Architettura

e committenza nel primo

Settecento veneziano:

l’intervento di Andrea Tirali

in palazzo Priuli Manfrin a

Cannaregio (1724-1731), “Annali

di architettura”, 3, 1991, pp. 113-

131; Id., Interni e architettura

nel primo Settecento veneziano:

palazzo Priuli Manfrin a

Cannaregio, “Venezia Arti”, 6,

1992, pp. 53-66.

dai vari committenti. Il procuratore Gherardo Sagredo

aveva avviato il progressivo ammodernamento architettonico

del suo palazzo gotico con la costruzione della

nota scala a tenaglia, una delle ultime opere di Tirali. Al

medesimo architetto dovrebbe pertanto spettare anche

l’inizio del rinnovo dell’esterno, progredendo nel 1733

dall’angolo settentrionale sul campo Santa Sofia. Un

anno dopo la morte di Tirali avvenuta nel 1737, Sagredo

redasse le ultime volontà, ordinando di proseguire i

lavori giusto un progetto di Tommaso Temanza approvato

dal matematico Bernardino Zendrini: progetto

tramandato forse nell’alzato di facciata nella raccolta di

disegni Admiranda Urbis Veneta [31] .

Come a palazzo Priuli, una riflessione sulla

planimetria dimostra che l’interno non avrebbe corrisposto

al prospetto incentrato sui due assi dei portali

con sovrastanti bifore, il tutto ritmato da lesene.

Liti sull’eredità ne hanno impedito la realizzazione, in

modo che si è conservata una delle facciate gotiche più

importanti di Venezia. Opposto al procedimento di

Sagredo era quello di Chiara Pisani: la ristrutturazione

profonda del suo palazzo di San Polo a partire dal 1739

su progetto di Giovanni Filippini – anch’egli allievo di

Musalo – si limitò alla modernizzazione degli interni e

dei collegamenti verticali, mentre la facciata gotica fu

esplicitamente conservata e restaurata in stile [32] .

La stirpe dei Pisani spicca, d’altronde, per la sua

attività edilizia nel Settecento, come dimostra l’ultimo

ampliamento del palazzo del ramo di San Vidal culminato

a partire dal 1726 nella costruzione della singolare

sala egizia a due piani eretta dal 1726 su idea di

Gerolamo Frigimelica Roberti. Un progetto di Temanza

per un nuovo palazzo per l’altrettanto facoltoso ramo

dei Pisani Santa Maria Zobenigo, databile agli anni

Cinquanta del Settecento [33] , prevedeva una costruzione

ex novo in luogo del grande conglomerato di case

possedute dai figli di Vincenzo IV Pisani fu Vincenzo I.

Rispetto all’infelice e ostico ibrido di Ca’ Sagredo, i disegni

di palazzo Pisani (fig. 13a,b) presentano tratti innovativi

nella concezione degli spazi e al contempo una

grande regolarità planimetrica. La facciata con ordine

gigante di semicolonne corinzie sopra un pianoterra

rivestito di bugnato rivela somiglianze con quella di

palazzo Repeta a Vicenza, opera di Francesco Muttoni.

Organizzato intorno a un cortile quadrato circondato

da logge e insolitamente elevato da terra mediante una

228 —GENERI E TEMI —

— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 229



fondazione a pilastri, palazzo Pisani non avrebbe avuto

un primo piano ammezzato, ma sarebbe stato dotato

da ben due saloni a doppia altezza: quello principale,

rivolto verso il Canal Grande, sarebbe stato reso accessibile

direttamente attraverso uno scalone a tre rampe.

L’estinzione precoce dei Pisani Santa Maria

Zobenigo nel 1761 segnò la fine di questo progetto

ambizioso, al pari di un altro, parimenti famoso, vittima

della crisi demografica delle ricche famiglie nobili

veneziane. Nella speranza di poter perpetuare il loro

ramo del casato, i procuratori Nicolò e Gerolamo

Venier avevano dato, nel 1751, inizio alla costruzione

di un grande palazzo in contrada di San Vio, quasi di

fronte alla cinquecentesca ca’ Corner della ca’ Grande

e non molto lontano dal sito che avrebbe visto la “macchina”

di palazzo Pisani Santa Maria Zobenigo; due

costruzioni che, insieme, avrebbero completamente

cambiato la fisionomia del Canal Grande.

Si può presumere che i lavori siano stati abbandonati

quando si prospettò la fine della famiglia,

FIG. 13a

TOMMASO TEMANZA

Progetto per palazzo Pisani

a Santa Maria Zobenigo,

planimetria del piano nobile.

Venezia, Museo Correr,

Biblioteca

FIG. 13b

TOMMASO TEMANZA

Progetto per palazzo Pisani

a Santa Maria Zobenigo,

spaccato. Venezia, Museo

Correr, Biblioteca

avvenuta difatti nel 1781. Il disegno primitivo dell’architetto

Lorenzo Boschetti del 1749 è tramandato da

un’incisione di Giorgio Fossati. Morto Boschetti nel

1750, fu sostituito dal proto Domenico Rizzi, tuttora

poco conosciuto [34] . Il confronto tra il modello ligneo

conservato al Museo Correr e l’alzato di Boschetti (fig.

14) dimostra modifiche non indifferenti che interessarono,

tra l’altro, il risalto delle trabeazioni in concomitanza

con le trifore centrali, il cambiamento della proporzione

a 3:2, la riduzione delle finestre laterali del

secondo piano nobile ad arco ribassato, sormontato

da frontoncini triangolari, e l’aumento della superficie

dei fori, dimezzando il numero delle lesene e mezze

colonne che scandiscono le ali. Rilievi recenti hanno

dimostrato che il modello corrisponde perfettamente

al frammento di pianoterra effettivamente realizzato

[35]

. Per quanto riguarda la facciata, il modello di Rizzi

si avvicina in modo sbalorditivo al disegno di Vincenzo

Scamozzi per un secondo palazzo Corner previsto per

il lotto a fianco la “ca’ Granda” a San Maurizio (fig. 15).

29 _ Si veda, ultimamente,

V. Farinati, La scuola di

Andrea Musalo, Andrea Tirali

e l’ampliamento settecentesco di

palazzo Priuli a Cannaregio, in

Da Longhena a Selva: un’idea

di Venezia a dieci anni dalla

scomparsa di Elena Bassi,

a cura di M. Frank, Venezia

2011, pp. 169-186; ivi anche la

bibliografia.

30 _ ASVe, Giudici del

Piovego, b. 23, R. 15, c. 178v,

17 febbraio 1714 more veneto;

Dieci Savi alle Decime, R.

865, S.Fosca, 5 ottobre 1715;

Notarile, Testamenti, b.

800, not. Giovanni Garzoni

Paulini di Domenico, prot.

I, c. 160v, 26 aprile 1714, con

vari successivi. Tra questi,

uno dell’aprile 1717 con cui il

testatore richiese di impegnare

certi capitali “pontualmente

nell’avvanzamento della fabrica

della casa dominicale a Santa

Fosca, che si va avanzando”.

In un altro dello stesso mese

ordinò che “li primi cinque

anni sia impiegata tutta essa

mia roba di qualsiasi sorte, non

mai li capitali nell’avanzamento

della detta fabrica di Santa

Fosca”. Tra i testimoni a

un codicillo del 1719 era il

tagliapietra Zan Maria Rossi,

successivamente impiegato

da Giorgio Massari nella

costruzione della chiesa di San

Marcuola.

31 _ Bassi 1974, p. 544.

32 _ Cfr. J.-C. Rössler,

L’architettura di palazzo

Pisani Moretta, in I Pisani

Moretta. Storia e Collezionismo,

catalogo della mostra (Venezia,

Ca’ Rezzonico) a cura di

A. Craievich, Crocetta del

Montello 2015, pp. 33-51.

33 _ S. Biadene, Palazzo

Pisani a Santa Maria del Giglio,

in: Le Venezie possibili 1985, p.

136 sg.

34 _ Su Boschetti, autore

della chiesa di San Barnaba,

cfr. L. Puppi, Lorenzo Boschetti

“dottor in amendue le leggi

perito”, proto e architetto.

Lineamenti di un profilo

biografico, in Studi di storia

dell’arte in onore di Maria Luisa

Gatti Perer, a cura di M. Rossi

e A. Rovetta, Milano 1999,

pp. 405-416. Ma vedasi già R.

Toffoluti, Ca’ Venier dei Leoni,

in Terza mostra internazionale

di architettura. Progetto

Venezia, Milano 1985, II, pp.

464-467.

35 _ R. Camponogara, Il

Palazzo Venier dei Leoni. Metodi

digitali per la costruzione del

progetto non realizzato, tesi di

laurea Università IUAV, facoltà

di Architettura, a.a. 2013-2014,

relatori F. Guerra e F. D’Agnano.

36 _ Si rimanda a G.

Romanelli, Nodi e problemi di

una macchina settecentesca-

Modificazioni strutturali tra

700 e 900, in G. Romanelli,

G. Pavanello, Palazzo

Grassi. Storia, architettura,

decorazioni dell’ultimo palazzo

veneziano, Venezia 1986, pp.

53 sgg. Romanelli identifica

il “moderno proseguimento”

menzionato alla morte di Polo

Grassi nel 1772 con un’ulteriore

fase costruttiva.

FIG. 14

GIORGIO FOSSATI

(da LORENZO BOSCHETTI)

Progetto per palazzo

Venier dei Leoni,

incisione

La pianta del progetto è legata alla tradizione veneziana

con una scala principale a due rampe.

Non può mancare, a questo punto, l’ultima

grande dimora patrizia sul Canal Grande. Invece di

chiarire le vicende, le vaghe notizie intorno alla costruzione

di Palazzo Grassi (fig. 16) sollevano problemi

non indifferenti. Iniziato nel 1748 e apparentemente

compiuto dieci anni dopo, lo stabile conobbe nel 1766,

secondo il diario di Piero Gradenigo, un non meglio

specificato “aumento di fabrica all’interno” [36] . Nello

stesso anno mancò a vivi anche Giorgio Massari, a

cui la fabbrica è tradizionalmente ascritta. Il largo

sito cuneiforme dilatato verso Canal Grande permise

di organizzare la mole intorno a un cortile quadrato,

introdotto da un atrio sostenuto da colonne.

Considerando la pianta del pianoterra e il leggero rientro

della fabbrica verso la calle divisoria occidentale, si

può ragionevolmente supporre che il progetto primitivo

di Massari prevedesse una loggia aperta sul lato

settentrionale, del tutto simile a quella tramandata dal

modello di palazzo Venier dei Leoni. Una veduta di

Francesco Guardi (fig. 17) conferma anche la profondità

ridotta del palazzo fino all’“aumento” del 1766 con

cui si aggiunse lo scalone reale a tre rampe in asse con

l’ingresso acqueo, nonché in varie stanze [37] . In effetti,

il lungo percorso di rappresentanza dal Canal Grande

non è privo di frizioni, poiché al piano nobile il visitatore

è costretto ad attraversare varie stanze intorno

al cortile per giungere fino al salone a doppia altezza

sul Canal Grande, dissimulato in facciata dai parapetti

delle finestre del secondo piano [38] . Alla luce della cronologia

e di alcuni elementi stilistici, lo scalone appare

attribuibile a Filippo Rossi.

Come il prospetto di palazzo Venier dei Leoni,

anche quello di Palazzo Grassi è una ricomposizione di

motivi cinquecenteschi. A parte il motivo delle finestre

timpanate ritmate da coppie di lesene, derivato dal

vicentino palazzo Civena Trissino al ponte Furo (che,

a sua volta, richiama il bramantesco palazzo Caprini

230 —GENERI E TEMI —

— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 231



FIG. 15

VINCENZO SCAMOZZI

Progetto per un secondo

palazzo Corner a San

Maurizio, da L’idea della

architettura universale di

Vincenzo Scamozzi architetto

veneto divisa in X libri,

Venezia 1615

FIG. 16

GIORGIO MASSARI

Venezia, palazzo Grassi,

facciata

FIG. 17

FRANCESCO GUARDI

Veduta del Canal Grande

presso San Samuele.

Collezione privata

FIG. 18

[39]

), l’invenzione di Massari trasporta piuttosto l’eredità

di Vincenzo Scamozzi, ampiamente diffusa fra gli

architetti attraverso le solite pubblicazioni, anziché i

modelli di Andrea Palladio. Un semplice confronto

con i due progetti per palazzi veneziani pubblicati nei

Quattro libri e con il progetto di una facciata di ordine

gigante recentemente assegnato al veneziano palazzo

Zen ai Frari [40] rivela che il gusto neocinquecentesco

di Boschetti, Rizzi e Massari in realtà ha poco in

comune con le idee con cui Andrea Palladio volle riformare

l’architettura civile veneziana due secoli prima.

Si giunge a un unicum nel panorama veneziano,

palazzo Montealegre a San Geremia. Sebbene

il nome del committente sia stato fornito già dalla letteratura

ottocentesca [41] , la storiografia moderna continua

ad appellare il palazzo con nomi fuorvianti [42] .

Al tramonto poco felice di una carriera politica notevole,

José Joaquin marchese di Montealegre e duca di

Salas, già primo segretario di stato dei regni di Napoli

e Sicilia, divenne nel 1749 ambasciatore spagnolo a

vita presso la Serenissima [43] . Solo nel 1757 acquistò il

fatiscente palazzo già Frizier e Zen in Lista di Spagna,

servendosi di un prestanome illustre, la marchesa

Isabella Soresina Vidoni, nata principessa Rasini [44] .

Non sono finora emerse notizie più precise intorno

alla nuova costruzione, conclusa senz’altro alla morte

del duca nel 1771 [45] . Precisata l’identità dell’illustre

committente, peraltro organizzatore del viaggio di

Giambattista Tiepolo in Spagna, non può sorprendere

che la dimora sia estranea a qualsiasi modello veneziano,

ma bensì ispirata all’architettura civile dell’Italia

meridionale di dominio spagnolo. Questo si riscontra

in particolar modo nel complesso scalone aperto,

caratterizzato dall’impiego di archi mistilinei rococò

sorretti da colonne, e affrescato sulle pareti con architetture

illusionistiche [46] . Un siffatto caso di importazione

culturale in un contesto di committenza “internazionale”

era un avvenimento raro in un ambito autoreferenziale

come Venezia.

La scala di palazzo Montealegre naturalmente

non poteva sfuggire alle censure insofferenti

del pittore, incisore e architetto Antonio Visentini

(1688-1782). Nel suo trattato dedicato agli “errori

degli architetti” del 1771, il manufatto venne definito

37 _ Olio su tela, cm 33,5x52.

Ringrazio Alberto Craievich

per avermi segnalato questo

quadro. Pur non essendo

completamente affidabile nei

dettagli architettonici, sembra

anche attestare una successiva

trasformazione del portale

d’acqua in forma della serliana

tuttora esistente.

38 _ Lecito chiedersi, a

questo punto, se questo

salone, arduo per quanto

riguarda la costruzione, non

sia frutto della demolizione

di un solaio intermedio e

pertanto influenzato dalla

ristrutturazione di palazzo

Bon Rezzonico effettuata,

per quanto pare, dallo stesso

Massari a partire dal 1750.

39 _ Per palazzo Civena, cfr.

la relativa scheda in L. Puppi,

D. Olivato, Andrea Palladio,

Milano 1999, pp. 242-245.

40 _ Cfr. J.-C. Rössler, “Un

palazzo imaginato certamente

per Venezia”. Considerazioni

sul disegno palladiano D. 27 di

Vicenza, “Ricche minere”, a. 4,

n. 7, pp. 53-59.

ANTONIO VISENTINI

Scalone di palazzo

Montealegre, da Osservazioni

di Antonio Visentini …,

Venezia 1771

41 _ G. Tassini, Alcuni palazzi

ed antichi edificii di Venezia

storicamente illustrati, Venezia

1879, pp. 37 sgg.

42 _ La dicitura “palazzo Zeno”

è ormai diventata comune. Vedasi

ultimamente Lenzo 2012, p. 149.

43 _ Su Montealegre si veda

G. Stiffoni, Per una storia dei

rapporti diplomatici tra Venezia

e la Spagna nel Settecento,

“Rassegna iberistica”, 27, dic. 1986,

pp. 3-30, in particolare p. 24.

44 _ ASVe, Notarile, Atti, R.

4145, not. Giuseppe Comincioli,

cc. 458v sgg, n. 437, 16 febbraio

1756 more veneto; R. 4146,

not. Giuseppe Comincioli,

c. 788r, n. 285, 11 agosto

1757. La marchesa Soresini

è anche una degli esecutori

testamentari di Montealegre:

ASVe, Notarile, Testamenti, b.

1025, not. Ferdinando Uccelli,

cedole, n. 17 (25 aprile 1771).

Il “palazzo detto di Spagna”

rimase alla famiglia fino al 1853,

quando fu acquistato dal conte

Giambattista Sceriman per

l’Istituto Manin: ASVe, Notarile

II Serie, b. 1469, not. Luigi

Dario Paulucci, n. 2253.

“assolutamente fuor di regola, e stravagante”, con

“arcate bizzarre, e forestiere” e balaustri obliqui che

invece “convien piantargli diritti” [47] . Oltre alle critiche

estenuanti, Visentini ci ha lasciato due edifici sul

Canal Grande che rispecchiano le richieste divergenti

dei committenti. Tra questi figura il console inglese

Joseph Smith, strettamente legato a Visentini per via

di Canaletto. Un’occasione unica per materializzare

le proprie norme di purezza, alla ricerca di una “perfezione”

da contrapporre alle “deformità, bizzarrie, e

licenze viziose” passate e presenti [48] . La “bella facciata

marmorea in bocco del rio sopra Canal Grande” (così il

diario di Piero Gradenigo) di palazzo Smith fu svelata

il 22 ottobre 1751 [49] (fig. 19). Una sopraelevazione per

opera di Gianantonio Selva nel penultimo decennio

del secolo comportò la perdita della terrazza scoperta

[50]

, nonché l’aggiunta di frontoncini alle finestre del

terzo piano superiore. Ironia della sorte: era proprio

l’esponente più stimato del Neoclassico veneziano

a manomettere irrimediabilmente la proporzione e

l’idea compositiva del prospetto in cui si preannunciava

con chiarezza lo stile a venire. La disposizione

interna tripartita è palesata in facciata mediante lesene

corinzie binate. In confronto con palazzo Grassi,

dove questo motivo fu impiegato proprio nello stesso

periodo (come si è detto), la soluzione adoperata di

Visentini si svincola dal modello palladiano in favore

dell’impostazione diretta sulla fascia marcadavanzale e

la forte coesione con le finestre timpanate.

Di un tono assai minore è la casa del conte

Camillo Coletti a San Felice, incominciata nel 1766

e portata a termine molto dopo (fig. 20). Si tratta di

uno stabile diviso in appartamenti sopra un sottoportico

pubblico; ragione per cui il pianoterra si apre

con quattro portali. A parte questa peculiarità, la casa

è emblematica di una nuova tipologia di abitazioni

che nella seconda metà del secolo acquistò un’importanza

sempre maggiore. Ne dà testimonianza, ad

esempio, lo stabile in due appartamenti e terrazze

sulla riva del Vin, eretto dal 1772 al 1776 per il conte

Marco Garganego [51] . A differenza dei grandi palazzi

delle famiglie di antica o recente nobiltà veneta, i ricchi

parvenus, sovente di origine dalmata, preferivano

case comode apparentemente modeste e con vani di

dimensioni contenuti.

“Mancano li dinari. È passato il tempo in cui s’allargava

la mano per l’erezione delle chiese. Ora si spende

solo e prodigamente si spende nell’erezione di teatri. Il

celebre pseudo architetto Maccarucci ne ha eretto uno

in Mestre che, quantunque sia un aggregato di spropositi,

ha riportato l’universale applauso” [52] . L’acidità di

queste esternazioni di Temanza del 1779 non era solo

dovuta al successo del detestato concorrente Bernardino

232 —GENERI E TEMI —

— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 233



FIG. 19

FIG. 21a

ANTONIO VISENTINI

Venezia, palazzo Smith,

facciata

FIG. 20

TOMMASO TEMANZA

Progetto per un teatro in |

calle del Ridotto, planimetria

del primo piano.

Venezia, Museo Correr,

Biblioteca

Maccaruzzi, ma è da considerare alla luce di un proprio

progetto fallito. Intorno al 1755 Temanza era stato chiamato

da Andrea Memmo e Vincenzo Pisani a presentare

disegni per un teatro da erigersi in calle del Ridotto, con

affaccio sul Canal Grande. Come il palazzo di Pisani di

Santa Maria Zobenigo, anche questo progetto rimase

sulla carta 531] . Dal materiale grafico fortunatamente

conservatosi (fig. 21a,b) si evincono non solo le difficoltà

inerenti alla forma del sito, ma anche i limiti del

progettista. La larghezza mediocre limitò le dimensioni

della sala teatrale, mentre la concentrazione del ridotto

e dei relativi vani secondari nella parte posteriore produsse

necessariamente percorsi lunghissimi. Stupiscono

la concentrazione dei collegamenti verticali principali

nella zona centrale, l’accanirsi su un rigore geometrico

con muri perpendicolari, la scelta di un perimetro quadrato

per la sala teatrale, che veniva a comportare palchi

inutilmente lunghi, e infine una facciata cieca dovuta

all’orientamento del fondo di palcoscenico verso Canal

Grande.

Mentre i due committenti sembrano essersi

accontentati di siffatti difetti, la giuria del concorso

per il nuovo teatro La Fenice indetto nel 1789 insisteva

soprattutto sulla funzionalità acustica, visuali e sugli

aspetti costruttivi delle proposte, astenendosi quasi

interamente di considerazioni stilistiche. I ventinove

partecipanti, provenienti da varie parti d’Italia, dovevano

affrontare un sito irregolare e difficile, esteso tra

campo San Fantin e un nuovo rio appositamente scavato.

Di tre dei quattro progetti finali scelti dalla commissione

sono pervenuti i disegni [54] . Conviene limitarsi

ai contributi di Pietro Bianchi e Giannantonio

Selva, rappresentanti di due correnti culturali contrapposte:

il primo vicino ai modi di Maccaruzzi, il secondo

allievo di Temanza e appoggiato da Andrea Memmo,

discepolo di Lodoli. Per Bianchi, il teatro doveva inserirsi

nel tessuto urbano, poiché Venezia, già ornata di

capolavori cinquecenteschi, “non abbisogna di prospetti

che l’abbeliscano” [55] . Nel progetto di Selva

invece, anche l’esterno del palcoscenico è elevato a una

ANTONIO VISENTINI

Venezia, casa Coletti,

facciata

45 _ V. Fontana, Venezia:

trasformazioni delle residenze

signorili fra ’600 e ’700, in L’uso

dello spazio privato nell’età

dell’Illuminismo, a cura di G.

Simoncini, Firenze 1995, 1, pp.

141-164, in part. p. 157.

46 _ Lenzo 2012, p. 149, ha

voluto recentemente collegare

il manufatto a un progetto di

Filippo Juvarra per il Palazzo

Reale di Madrid del 1735, reso

noto nel Veneto nel 1753.

47 _ A. Visentini,

Osservazioni di Antonio

Visentini architetto veneto che

servono di continuazione al

trattato di Teofilo Gallaccini

sopra gli errori degli architetti,

Venezia 1771, p. 126.

48 _ Visentini 1771, p. 141.

49 _ Per la storia, cfr. F.

Montecuccoli degli Erri,

Il console Smith. Notizie e

documenti, “Ateneo Veneto”,

N.S., 33, 1995, pp. 111-181,

in particolare pp. 139-156,

165-167. In realtà il prospetto è

intonacato a marmorino.

50 _ Bassi 1971, p. 16;

Brusatin 1980, p. 232.

51 _ ASVe, Notarile, Atti, b.

4715, not. Giuseppe Cavanis, cc.

621v sgg, n. 273 (13 settembre

1790).

52 _ Lettera di Temanza

a Selva riportata in Favilla,

Rugolo 2004-2005, p. 270.

53 _ L. Olivato, Progetti di

teatri, in Le Venezie possibili

1985, pp. 122-125, qui p. 123.

54 _ Cfr. N. Mangini, I teatri

di Venezia, Milano 1974, pp.

165-171.

55 _ M.I. Biggi, Il concorso

per la Fenice 1789-1790, Venezia

1997, p. 155. Per il contributo

di Bianchi, cfr. la scheda di L.

Olivato in Le Venezie possibili

1985, pp. 130-132.

FIG. 21b

TOMMASO TEMANZA

Progetto per un teatro in calle

del Ridotto, spaccato.

Venezia, Museo Correr,

Biblioteca

grandiosa monumentalità volta a gareggiare sul piano

architettonico con i grandi teatri di Milano e Napoli.

Non mancarono le malelingue ad attribuire la vincita

di Selva agli ottimi rapporti con due membri della

giuria, Simone Stratico e Benedetto Buratti. Il nuovo

teatro fu portato a termine già nel 1792. Subito l’ottantenne

Francesco Guardi si mise a disegnare la facciata

sul campo San Fantin, trasfigurata da macchie di

ombra (cat. VII.27). In bella vista, sulla facciata di terra,

l’iscrizione che rendeva ragione dell’edificio, eretto per

iniziativa di privati cittadini: “SOCIETAS”, con l’anno

di costruzione “MDCCXCII”. Subito lo spirito caustico

di qualche buontempone sciolse quelle lettere

in “Sine Ordine Cum Irregularitate Erexit Theatrum

Antonius Selva”: senz’altro un simpatico esercizio di

retorica. Ma con un fondo di verità. L’architetto aveva

infatti dimostrato indipendenza rispetto ai modelli

canonici del neoclassicismo: di nuovo una traccia di

quell’originalità che, da sempre, caratterizza l’architettura

veneziana.

234 —GENERI E TEMI —

— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 235



CATHERINE

LOISEL

regna un certo decoro, con la maggior parte dei partecipanti,

di varia età, che porta la parrucca: potrebbe trattarsi

di un’accademia pubblica aperta anche ai dilettanti.

La Veneta Accademia di Pittura, Scultura e

Architettura, dapprima guidata da Giambattista

Piazzetta e in seguito da Giambattista Tiepolo, viene

creata solo nel 1750. Eppure questo suo apparente

ritardo rappresentava un vantaggio, più che un ostacolo,

e non impedisce ai maestri veneziani del Settecento

di detenere un ruolo di primo piano oltre i confini del

Veneto e in tutto il territorio europeo, Russia compresa.

In assenza di un insegnamento ufficiale, fiorisce infatti

la diversità stilistica.

FIG. 1

ANTONIO BALESTRA

Allegoria dell’Architettura

con il ritratto di Michele

Sanmicheli.

Innsbruck, Tiroler-

Landesmuseum

(Ferdinandeum)

1 _ C. Whistler, Life Drawing

in Venice from Titian to Tiepolo,

“Master Drawings”, 4, 2004,

p. 384.

2 _ Ead., Venice and drawing,

c. 1500-1800. Theory, Practice

and Collecting, New Haven

2016, p. 396.

3 _ Whistler 2016, p. 58

nota 11.

4 _ Per i disegni di Lazzarini

si veda A. Pasian, Il cimento

dell’invenzione. Studi e modelli

nella grafica veneta del primo

Settecento, “Arte Veneta”, 66,

2006, pp. 65-83.

5 _ A. Ravà, G.B. Piazzetta,

Firenze 1921, p. 55.

GENERI

E TEMI

DISEGNARE

A VENEZIA

NEL SETTECENTO

Singolare sotto ogni punto

di vista, la Serenissima lo è anche nelle sue tradizioni

artistiche, a partire dall’ambito dell’insegnamento. Nel

Settecento, mentre nella maggior parte delle principali

città i pittori sono già riusciti a far riconoscere il carattere

intellettuale della loro arte ottenendo la creazione

di un’Accademia ufficiale, gli artisti veneziani risultano

ancora riuniti nel Collegio dei Pittori, istituito nel 1682,

dopo la separazione dall’Arte dei Depentori, e guidato

da Pietro Liberi che teneva lezioni di nudo prima a San

Samuele e in seguito alle Fondamenta Nuove [1] . Lezioni

di disegno di nudo maschile e femminile sono attestate

nel Seicento presso le botteghe degli artisti. Gregorio

Lazzarini frequenta l’Accademia di Pietro della Vecchia

[2]

, mentre la Scuola del nudo di Piazzetta è documentata

a San Zulian solo nel 1722. L’Accademia del nudo, celebre

disegno di Giambattista Tiepolo [3] , rappresenta un

gruppo di artisti dinanzi a un modello in posa. Nella sala

Nel Medioevo e, in modo più evidente, nel

Rinascimento, il quadro essenziale della vita artistica è

ancora limitato agli atelier di famiglia. Chi non è nato

in una famiglia di pittori o scultori e rivela talento e

vocazione precoci entra nelle botteghe dei maestri che

dominano la scena artistica dell’epoca. Dopo Bellini,

Bassano, Caliari e Robusti, tale meccanismo continua

per tutto il Seicento e ancora nel Settecento, con il caso

di Giambattista Tiepolo. L’apprendistato del mestiere è

quindi svolto in uno o più studi di primo piano: Paolo

Pagani per Gianantonio Pellegrini, Antonio Molinari

per Piazzetta, Gregorio Lazzarini [4] per Giambattista

Tiepolo. L’assenza di corsi ufficiali sulle teorie artistiche

viene compensata dalla presenza di vere e proprie

accademie private. Non solo: i giovani artisti viaggiano,

completando in questo modo la loro formazione.

Ecco quindi Sebastiano Ricci che si reca a Bologna e in

seguito a Parma, dove conosce l’eredità di Correggio,

dei Carracci e di Guido Reni, probabilmente lavorando

presso la bottega di Carlo Cignani. Anche Federico

Bencovich trascorre qualche anno a Bologna, così

come Giambattista Piazzetta. Il suo ingresso all’Accademia

Clementina, nel 1727 [5] , sancisce il suo avvicinamento

alle pratiche dell’insegnamento accademico.

Per Giambattista Tiepolo è determinante il soggiorno

a Verona, dove entra in contatto con il grande erudito

Scipione Maffei che lo introduce allo studio dell’Antichità.

Ma cosa devono realmente apprendere questi

giovani pittori? Disegnare nudi e drappeggi; esprimere

le emozioni attraverso le attitudini del corpo e la vibrazione

dei tratti del viso; organizzare la composizione

donandole l’effetto prospettico e variandone i punti di

—DISEGNARE A VEBEZIA NEL SETTECENTO— 237



vista. Queste sono le tecniche che vengono quotidianamente

praticate in una bottega.

A Venezia, così come a Bologna e a Verona, le

collezioni private di disegni non mancano, e non è probabilmente

nemmeno tanto difficile riuscire ad accedervi.

La collezione di Nicolò Sagredo, arricchita poi

dal nipote Zaccaria [6] , è organizzata in album che somigliano

a fogli d’artista, più o meno ben identificati: i

disegni di Veronese, Bassano, Palma il Giovane, Strozzi

e alcuni contributi emiliani, perché nel 1728 Zaccaria ha

acquisito la Collezione Bonfiglioli, di origine bolognese.

Seguendone l’esempio, anche Anton Maria Zanetti realizzerà

alcuni album. A Bologna, il ricordo di Carracci

e Guercino è ancora molto vivo negli atelier di Carlo

Cignani, Marcantonio Franceschini, Giovanni Antonio

Burrini, Giovanni Gioseffo dal Sole, e in tutte quelle collezioni

private che nel primo decennio del Settecento

non sono ancora irrimediabilmente disperse. Crozat

acquisisce il gabinetto d’arte Muzelli di Verona durante

il suo viaggio del 1714-15, ma esistono all’epoca ancora

fondi accessibili, tra cui i disegni di Farinati. Come

ai tempi di Tintoretto, la collezione archeologica di

Venezia resta sempre una fonte molto importante per

quanto riguarda il disegno dall’Antico. Nell’affresco del

Giudizio di Salomone, conservato nel Palazzo Patriarcale

di Udine, Giambattista Tiepolo ritrae un personaggio

secondo i tratti del busto antico di Vitellio già studiato

con attenzione in disegni multipli da Jacopo Bassano

e dalla bottega di Tintoretto, come testimoniato dai

numerosi disegni conservati. Una collezione di fogli

quasi esclusivamente veneziani, detta “Reliable Venetian

Hand”, realizzata da un appassionato conoscitore, non è

ancora stata identificata [7] .

I veneziani adottano tutti i registri grafici e

le tecniche allora note, fino all’incisione di illustrazioni,

praticata con successo, tra gli altri, da Piazzetta e

Tiepolo, i quali realizzano disegni ben rifiniti, preparatori

per opere di rilievo. Tiepolo esegue di propria mano

alcune incisioni, ma la visione onirica, decisamente personale,

che caratterizza i suoi Scherzi verrà resa pubblica

solo dopo la morte dell’artista. E infine non dobbiamo

dimenticare la caricatura. Se si eccettua il ritratto del

duca Ranuccio Farnese, realizzato da Sebastiano Ricci

durante il soggiorno a Parma e nel quale il soggetto è

descritto senza mezzi termini come un personaggio

goffo e in carne, nel foglio della collezione Mariette

conservato a Darmstadt [8] , l’opera dell’artista non

conserva altre testimonianze del genere. Per contro, i

fondi contenenti le caricature di Anton Maria Zanetti e

Giambattista Tiepolo rappresentano validi riferimenti,

che fanno da apripista al repertorio di Giandomenico

Tiepolo.

I MAESTRI ATTIVI INTORNO AL 1700: DORIGNY,

BALESTRA, RICCI _ All’inizio del secolo, la scena

è dominata da una generazione di artisti che hanno

ormai terminato l’apprendistato: si tratta di Ludovico

Dorigny, Antonio Balestra e Sebastiano Ricci, disegnatori

fecondi, la cui produzione rivela una grande diversità

di fonti d’ispirazione. Tutti hanno diffusamente

viaggiato e frequentato ambienti culturali lontani.

Dorigny, nipote di Simon Vouet, ha studiato a Parigi,

presso la scuola di Charles Le Brun, prima di recarsi a

Roma, dove si iscrive al concorso dell’Accademia di San

Luca del 1673. Porta quindi con sé a Verona e Venezia

un bagaglio internazionale alquanto accademico, che

tuttavia non gli impedisce di inventare scene grandiose,

sorprendenti per la composizione decentrata e

le figure oblique, che avranno poi una certa influenza

sul giovane Tiepolo. I suoi disegni di nudo maschile,

realizzati con matita rossa e pietra nera e conservati al

Museo di Castelvecchio [9] , sono caratterizzati da una

tensione delle linee e da un gioco di chiaroscuri che

rivelano la futura monumentalità dei dipinti. Il repertorio

spazia dal minuscolo disegno preparatorio per le

incisioni ai modelli perfettamente rifiniti con lumeggiature

a guazzo e acquarello per le decorazioni dei soffitti,

come nel caso della chiesa veneziana degli Scalzi, dove

nel 1716 decora la cappella Manin, o di villa Allegri, a

Cuzzano di Grezzana.

Il veronese Balestra termina la propria formazione

a Roma, nella bottega di Carlo Maratti, dove

pratica il disegno dal vero e si cimenta nella copia delle

opere dei Maestri del Rinascimento. Riceve il premio

dell’Accademia di San Luca nel 1694 e conserverà per

tutta la sua vita l’abitudine di tracciare le figure principali

dei suoi quadri su fogli di grande formato con matita

rossa o pietra nera, lumeggiandole poi a gessetto bianco,

in uno stile molto ricercato e sensuale. Particolarmente

6 _ L. Borean, S. Mason, Il

collezionismo d’arte a Venezia.

Il Settecento, Venezia 2009.

Whistler 2016, p. 223.

7 _ A. Bettagno, Disegni di

una collezione veneziana del

Settecento, Venezia 1966.

8 _ Inv. AE 1965. Riprodotto

da E. Lucchese, L’Album di

caricature di Anton Maria

Zanetti alla Fondazione Giorgio

Cini, Venezia 2015, fig. 3, pp.

2, 5.

9 _ Louis Dorigny 1654-

1742. Un pittore della corte

francese a Verona, catalogo

della mostra (Verona, Museo

di Castelvecchio) a cura di G.

Marini, P. Marini, Venezia 2003,

catt. 53-54.

10 _ Inv. MG D 339. S.

Marinelli, in Venise, l’art de la

Serenissima, a cura di C. Loisel,

Montreuil 2006, cat. 55.

11 _ B.W. Meyer, Disegni di

Antonio Balestra, “Arte Veneta”,

60, 2003, pp. 88-111.

12 _ Antonio Balestra nel

segno della grazia, catalogo

della mostra (Verona, Museo

di Castelvecchio) a cura di A.

Tomezzoli, Verona 2016.

13 _ P. Delorenzi in Antonio

Balestra… 2016, p. 124.

14 _ Ivi, fig. 1, p. 4.

15 _ A. Rizzi, Sebastiano Ricci

disegnatore, Udine 1975, cat. 1.

16 _ Le copie di Ricci da

Watteau sono conservate a

Windsor Castle e provengono

dall’album di disegni del console

Smith. P. Rosenberg, L.-A. Prat,

Antoine Watteau 1684-1721.

Catalogue raisonné des dessins,

Milano 1996, cat. 440.

17 _ Inv. 14271, il demone

potrebbe introdurre a uno dei

quadri di Épinal. Venise, l’art

de la Serenissima 2006, cat. 48

con cronologia e bibliografia

antecedente.

18 _ Nationalmuseum

Stockholm, inv. NM 1530/1863.

Il disegno reca un’annotazione

a mano di Crozat: “Del Sigr

Sabastian Rizzi ma est donné

par il Sigr Ant° Maria Zanetti

quondam Gerolim/ mearquant

a Venise tres fameux dilectant”.

C. Loisel, in Un Suédois à Paris

au XVIIIe siècle, La collection

Tessin, Paris 2016, cat. 72.

19 _ Si veda V. Poletto in La

vita come opera d’arte. Anton

Maria Zanetti e le sue collezioni,

catalogo della mostra (Venezia,

Ca’ Rezzonico, Museo del

Settecento veneziano) a cura

di A. Craievich, Crocetta del

Montello 2018.

FIG. 2

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Foglio di studio con monaco

che legge.

Innsbruck, Tiroler-

Landesmuseum

(Ferdinandeum)

esemplificativo di questo aspetto è il Doppio studio per

i santi Pietro d’Alcantara e Giovanni da Capistrano,

conservato al Musée de Grenoble [10] . Una raccolta di

disegni ora al Kupferstichkabinett di Dresda [11] riunisce

diversi studi di particolari per figure, che permettono

di comprendere il suo metodo di lavoro molto organizzato

e le nozioni che in seguito insegnerà nel corso

accademico tenuto a Venezia dal 1695 al 1718. Per contro,

i fondi di bottega che si trovano presso la Biblioteca

Palatina di Parma riguardano la preparazione delle incisioni

per l’illustrazione [12] , aspetto non trascurabile della

sua attività, per la quale ha dimostrato una ricerca del

perfezionismo testimoniata dai numerosi studi di composizione

(fig. 1) per l’incisione dell’Allegoria dell’Architettura

con il ritratto di Michele Sanmicheli, antiporta

del volume Li cinque ordini dell’architettura civile di

Michel Sanmicheli… pubblicato dal conte Alessandro

Pompei nel 1735 [13] . I suoi disegni di gruppo, realizzati

a penna o a lavis, talvolta lumeggiati con guazzo bianco,

sono conosciuti e apprezzati dai collezionisti più esigenti,

come Pierre Crozat, che possedeva l’Ercole portato

nell’Olimpo da Mercurio e Minerva attualmente al

Nationalmuseum di Stoccolma [14] . Pensando alla presenza

prolungata di questi due artisti veronesi a Venezia,

e all’insegnamento che vi tiene Balestra, è indubitabile

che i loro disegni fossero conosciuti dai giovani apprendisti.

Da quelli, per esempio, che frequentavano la bottega

di Gregorio Lazzarini.

Per quanto riguarda Sebastiano Ricci, è difficile

stabilire in quale momento la sua attività grafica sia

divenuta accessibile agli artisti e agli appassionati veneziani.

Il suo primo disegno identificato è uno studio dal

Veronese [15] , fonte d’ispirazione che sarà per lui particolarmente

importante a partire dal 1700, quando lavora

per la chiesa di San Sebastiano. Dopo gli anni di formazione

a Venezia, il suo stile evolve in funzione dei viaggi

che compie: Bologna, Parma, Firenze, luogo quest’ultimo

dove ha potuto certamente studiare i disegni di

Pietro da Cortona e Volterrano. Durante il soggiorno

parigino viene profondamente segnato dalla visita all’atelier

di Antoine Watteau. Copia così i suoi disegni,

riproducendo con grande precisione persino la messa in

pagina [16] , e mette a punto uno stile d’ispirazione parigina

in alcuni fogli di studio, come quello conservato al

Louvre e appartenuto a Pierre Crozat, dove raggruppa

svariate figure femminili eleganti e un bambino, accostati

a un demone in volo piuttosto insolito che ricorda

Magnasco [17] .

Si può ugualmente supporre che abbia disegnato

a Parigi il Portrait d’une actrice de la Comédie Italienne,

pietra nera e pastello su carta blu, disegno donato da

Zanetti a Crozat [18] e attualmente al Nationalmuseum

di Stoccolma. Il corpus grafico di Sebastiano, composto

da diverse centinaia di disegni, si è fortunatamente conservato

grazie ai volumi riuniti da Anton Maria Zanetti

e dal console Smith [19] . La sua opera ci sorprende sempre

per la virtuosità di esecuzione, la varietà di tecniche

238 —GENERI E TEMI —

—DISEGNARE A VEBEZIA NEL SETTECENTO— 239



impiegate e l’apparente facilità con cui realizza composizioni

con più personaggi. Dietro a questa rapidità

inventiva si percepisce una lettura assidua dei maestri

del passato, in particolare del Veronese, e degli artisti a

lui coevi. Una Figura di dignitario dell’album dell’Accademia,

realizzata a matita rossa [20] , sembra rimandare

all’eleganza dei disegni di Francesco Solimena.

PIAZZETTA _ Personalità artistica davvero originale,

Piazzetta è figlio di uno scultore rinomato. Dopo

l’apprendistato presso Antonio Molinari, il soggiorno

a Bologna, dove conosce l’opera di Giuseppe Maria

Crespi, lo inizia all’incessante lavoro grafico caratteristico

della scuola bolognese. Il corpus delle sue opere è

davvero impressionante e comprende disegni di nudo,

teste espressive, attenti studi delle figure per i dipinti,

disegni preparatori per le incisioni. Anche se sono giunti

a noi pochi disegni d’insieme per le sue composizioni [21] ,

gli studi preparatori per le figure isolate sono numerosi

e permettono di comprendere il suo metodo di lavoro,

che si potrebbe qualificare come tradizionale. Dopo aver

definito la messa a punto generale studia ogni elemento

separatamente, tracciandolo con la pietra nera e talvolta

ricorrendo a importanti lumeggiature a gessetto bianco:

Il giovane uomo con bastone, del British Museum, è preparatorio

a uno degli ovali di Salisburgo; l’Angelo in

volo di Cleveland è destinato a comparire nella Gloria

di san Domenico; L’uomo con testa posata sulle mani,

conservato a Francoforte, è preparatorio per lo sfondo

della Pastorale dell’Art Institute di Chicago; Il busto di

giovane uomo del Fogg Art Museum si ritrova in primo

piano nella Passeggiata del Wallraf-Richartz Museum di

Colonia [22] . Un fondo in gran parte inedito proveniente

dalla sua bottega, e conservato al Ferdinandeum di

Innsbruck, completa il corpus dell’artista [23] con diversi

nuovi fogli di studi per le opere dipinte documentate,

come la Susanna e i vecchioni degli Uffizi, e include uno

studio per un particolare della Gloria di san Domenico,

il monaco che legge sullo sfondo del San Francesco in

estasi, in collezione privata (fig. 2), o una testa d’angelo per

L’Adorazione dei pastori, un tempo a Würzburg (fig. 3).

Si può così seguire passo passo l’interesse naturalistico

del maestro, che conferisce ai propri personaggi una

resa carnale disegnandoli direttamente dal modello.

Molto lento nell’esecuzione del proprio lavoro,

l’artista trova una fonte d’introito creando un genere

nuovo, con teste di personaggi e gruppi di figure riportati

su fogli di carta di grande formato, per la maggior

parte di colore blu, e destinati alla vendita, esposti poi

come opere d’arte autonome sotto vetro. Queste composizioni

– raggruppabili nei registri specifici di scene

pastorali idilliache, giovani innamorati, soggetti più

scabrosi come la giovane donna tra un cliente e una

mezzana, o ancora figure isolate, d’ispirazione talvolta

religiosa – sono state molto apprezzate e collezionate,

in particolare dal console Smith e dal maresciallo von

Schulenburg, già quando l’autore era in vita. L’impiego

di una pietra nera molto grassa, simile al pastello, di

gessetto bianco e carta blu, purtroppo spesso ingiallita

in seguito a una eccessiva esposizione alla luce, creano

effetti chiaroscurali monumentali e misteriosi, che rendono

tale produzione particolarmente affascinante. In

essa l’artista adotta per i suoi modelli sempre la medesima

tipologia fisica, allontanandosi così dal naturalismo

dei disegni da modello. Tutti gli allievi e i collaboratori

del Piazzetta hanno cercato di imitare questa

maniera, riprendendo le versioni incise dei disegni e

creando così una certa confusione nella percezione

di queste opere. Un’altra sezione del corpus grafico

dell’artista è legata alla sua collaborazione con l’editore

Giambattista Albrizzi. Si tratta di disegni preparatori,

sempre tracciati a punta di pietra nera e matita rossa su

carta bianca, per le illustrazioni dei libri Les Œuvres di

Bossuet, Il Paradiso Perduto di Milton, La Gerusalemme

Liberata di Torquato Tasso e Il Newtonismo per le dame

di Francesco Algarotti. Tali disegni, caratterizzati da

estrema raffinatezza e tematiche moderne, hanno avuto

un ruolo molto importante nel successo delle edizioni

veneziane. In cambio, Albrizzi ha favorito la fama

dell’artista pubblicando nel 1760 i suoi Studi di pittura,

base dell’insegnamento nella giovane Accademia, che

accompagnano la biografia dell’artista.

LA GRANDE STAGIONE DEL ROCOCÒ:

PELLEGRINI, DIZIANI, PITTONI, GIANANTONIO

GUARDI _ Durante il suo periodo di formazione,

Pellegrini visita l’Europa centrale con il maestro Paolo

Pagani, motivo per cui nelle sue opere giovanili è preponderante

l’influenza del disegno a penna e a lavis

di Pagani, molto fluido e atmosferico. A oggi, un solo

esempio di utilizzo della pietra nera è stato identificato:

si tratta dello studio per Il Banchetto di Cleopatra,

20 _ Ivi, p. 257, cat. 48.

21 _ A. Binion, Two New

Compositional Studies by

Piazzetta, “Master Drawings”,

22, 4, 1984, pp. 431-433.

22 _ G. Knox, Piazzetta,

Oxford 1983 pubblica un elenco

dei disegni preparatori per

alcune figure.

23 _ C. Loisel, pubblicazione

in corso.

24 _ D. Ton, Giambattista

Crosato. Pittore del rococò

europeo, Verona 2012, figg.

92-93.

FIG. 3

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Testa d’angelo.

Innsbruck, Tiroler-

Landesmuseum

(Ferdinandeum)

25 _ G. Knox, in Antonio

Pellegrini, catalogo della mostra

(Padova, Palazzo della Ragione)

a cura di A. Bettagno, F.M.

Aliberti Gaudioso, Venezia

1998, pp. 89-109.

26 _ S. Brink, Genio vigoroso

e originale. Die Zeichnungen

des Antonio Molinari. Museum

Kunst Palast Sammlung der

Kunstakademie Düsseldorf,

Düsseldorf 2005.

27 _ G. Knox, Antonio

Pellegrini 1675-1741, Oxford

1994, fig. 71, p. 83.

28 _ Inv. Nr. 13206. J.

Schewski-Bock, Von Titian

bis Tiepolo, Venezianische

Zeichnungen des 15. bis

18. Jahrhunderts aus der

Graphischen Sammlung im

Städel Museum, Frankfurt am

Main 2006, pp. 108-111.

29 _ V. Toutain Quittelier, Le

Carnaval, la Fortune et la Folie.

La rencontre de Paris et Venise à

l’aube des Lumières, Paris 2017,

pp. 201-203.

30 _ Knox 1994, fig. 153,

p. 186.

31 _ A.P. Zugni-Tauro,

Gaspare Diziani, Venezia 1971.

32 _ Louvre, inv. 18073 e V.

Toutain Quitelier, in Venise, l’art

de la Serenissima 2006, cat. 77,

inv. MGD 340.

33 _ T. Pignatti, Disegni

antichi del Museo Correr di

Venezia, Venezia 1981, II, catt.

421-422.

34 _ Ton 2012, fig. 106, p.

142.

35 _ Per l’identificazione del

“Pittoni brocantor” dell’Album

Zanetti, Fondazione Cini,

con Francesco Pittoni si veda

Lucchese 2015, pp. 226-229.

al Museo Correr, preparatorio per un affresco di villa

Giovanelli [24] . La maggior parte dei disegni conservati [25]

è rappresentata da studi per composizioni pittoriche,

eseguiti a penna e a lavis, raramente all’acquarello. Il

lavoro volutamente allusivo della penna, che evoca le

forme più che descriverle, ha indotto a una certa confusione

con le opere di Gaspare Diziani e di Gianantonio

Guardi, mentre i disegni di Antonio Molinari [26] sono

stati attribuiti per molto tempo a Pellegrini. Qualche

foglio può fungere da riferimento: è il caso del Ratto

d’Europa conservato al Nationalmuseum di Stoccolma

e appartenuto a Pierre Crozat, che può essere messo in

relazione con la decorazione di Burlington House, del

1709, trasportata a Narford Hall nel 1719. Da notare

l’importanza del lavis che dona profondità e volume. La

famiglia di Peter Le Motteux, realizzata a penna e lavis

bruno, del British Museum [27] , e datata al soggiorno

londinese, riesce a evocare una scena d’interno ricca e

molto animata, sebbene gli elementi non siano disposti

secondo una prospettiva corretta. Poco dopo, nel disegno

di Francoforte per una delle pitture destinate alla

decorazione del castello di Bensberg [28] , l’artista riesce

brillantemente a trattare la resa della folla decentrando

la composizione. Il foglio più avvincente del suo corpus

di opere è quello preparatorio per uno dei gruppi

allegorici del soffitto della Banque Royale, Le Génie et le

Commerce en compagnie de l’Invention, di Besançon [29] ,

dove i rilievi a lavis bruno fanno vibrare le figurine alate,

graziose e dinamiche. Pur avendo realizzato molte

opere decorative, la maggior parte delle quali purtroppo

andata distrutta, esistono pochi progetti completi per

una sala. Sotto questo aspetto, il disegno di Dresda per

una parete dello Zwinger [30] è particolarmente prezioso.

Lo stile grafico di Gaspare Diziani [31] , formatosi

presso Sebastiano Ricci, è ben noto grazie a Zaccaria

Sagredo, che ha riunito in volume molti dei suoi disegni,

in gran parte conservati nel fondo Molin del Museo

Correr. L’eclettismo dell’artista si esprime nella scelta di

varie tecniche, dalle composizioni d’insieme a penna

ombreggiata a lavis di matita rossa e a lavis bruno fino

alla pietra nera per gli studi di figure isolate [32] . Dezallier

d’Argenville ne possedeva alcuni begli esemplari, come

L’ingresso di Gesù a Gerusalemme, del Louvre. Si sono

fortunatamente conservati anche progetti per l’allestimento

di feste [33] . L’America della Kunsthalle di Brema

è stata messa in relazione con l’allestimento per le

Quarantore eseguito in collaborazione con Alessandro

Mauro a San Lorenzo in Damaso, su commissione del

cardinale Pietro Ottoboni [34] .

Allievo dello zio Francesco [35] , Giambattista

240 —GENERI E TEMI —

—DISEGNARE A VEBEZIA NEL SETTECENTO— 241



Pittoni è profondamente influenzato da Ricci e

Pellegrini, ma il suo corpus grafico si distingue per

il rigore formale e la severa disciplina. Il suo corpus è

composto da numerosi studi di particolari [36] , realizzati

a matita rossa e spesso molto raffinati, come quello

conservato al Louvre [37] e appartenuto a Mariette (fig.

5), che descrive accuratamente accessori ricercati, gioielli

e turbanti; da disegni d’insieme molto curati, il cui

raffronto con le opere dipinte evidenzia effettivamente

poche varianti – è il caso del disegno di Brera per il San

Girolamo, san Pietro di Alcantara e un altro santo francescano

oggi a Edimburgo [38] , realizzato con una tecnica

complessa e colorata: matita rossa, lavis di matita rossa,

lumeggiature di guazzo bianco –; infine da composizioni

molto rifinite, per le quali mette in opera tutte le

risorse della matita rossa (appuntita, sfumata, ripassata

a pennello), come gli esempi del Louvre [39] , lo Studio

di vegliardo seduto della Fondazione Cini [40] , o ancora

il San Giuseppe dell’Ashmolean Museum, preparatorio

per diverse versioni identiche della Natività [41] , tutti

disegni a lungo ritenuti copie da dipinti, tanto sono precisi

e identici alla versione finale.

Anche Gianantonio Guardi, impiegato come

copista presso il maresciallo von der Schulenburg, è stato

un grande pittore e un notevole disegnatore. Nel suo

studio preparatorio per Il Cristo e i pellegrini di Emmaus,

di Andelys, conservato a Francoforte [42] , utilizza con

brio la carta bianca per illuminare la scena e suggerire l’emozione

delle figure, a partire da qualche tratto di lavis

realizzato a pennello e con un dinamismo stupefacente.

La serie dei Fasti veneziani, pur ispirata alle pitture documentate,

manifesta tutta la personalità dell’artista [43] .

Altri importanti rappresentanti del Rococò veneziano

non hanno invece lasciato tracce della loro attività

grafica: è il caso di Jacopo Amigoni, di cui esistono

studi di ritratti, spesso erroneamente identificati [44] ,

e qualche grisaille preparatoria per le incisioni pubblicate

congiuntamente a Giuseppe Wagner [45] . Per quanto

riguarda Giambattista Crosato, il cui corpus pittorico è

36 _ A. Perissa Torrini,

Disegni di Giovan Battista

Pittoni, Gallerie dell’Accademia

di Venezia, Milano 1998.

37 _ Studio di particolare

per il dipinto Giuda e Tamar,

noto attraverso l’incisione

di F. Berardi, invertito, Zava

Boccazzi 1979, fig. 116, cat. D 5.

38 _ F. Zava Boccazzi,

Pittoni, l’opera completa,

Venezia 1979, fig. 133, cat. D- 3.

39 _ Elie sur un char de feu,

inv. 5473 ; Toutain-Quittelier,

in Venise, l’art de la Serenissima

2006, cat. 73 e Saint Antoine

de Padoue avec l’Enfant Jésus,

inv. 5276.

40 _ Zava Boccazzi 1979,

n. D.31.

41 _ Ivi, n. 89, 163, 118 e n.

247 e 18.

42 _ Éblouissante Venise,

les Arts et l’Europe au XVIII e

siècle, catalogo della mostra

(Paris, Grand Palais, Galleries

nationales) a cura di C. Loisel,

Paris 2018, catt. 57-58.

43 _ P. Delorenzi in

Capolavori ritrovati della

collezione di Vittorio Cini, a cura

di L.M. Barbero, Venezia 2016,

pp. 64-74.

44 _ Per esempio, i due

disegni del Louvre sono ancora

classificati sotto il nome di

Francesco Guardi: inv. 5466

e 5467.

45 _ A. Scarpa Sonino,

Jacopo Amigoni, Soncino 1994,

pp. 43-45, figg. 19, 20, 21.

FIG. 5

GIAMBATTISTA PITTONI

Testa di vecchio con turbante.

Parigi, Musée du Louvre,

Département des arts

graphiques

46 _ Ton 2012, pp. 135-148.

47 _ Ivi, fig. 97.

48 _ A. Pasian, in Il giovane

Tiepolo. La scoperta della luce,

catalogo della mostra (Udine,

Castello) a cura di G. Pavanello,

V. Gransinigh, Udine 2011.

49 _ Tiepolo e la sua cerchia.

L’opera grafica, catalogo della

mostra (New York; Pierpont

Morgan Library; Cambridge,

Fogg Art Museum) a cura di

B. Aikema, Venezia 1996, II;

A, Pasian in Giambattista

Tiepolo “il miglior pittore di

Venezia”, catalogo della mostra

(Passariano, Villa Manin) a cura

di G. Bergamini, A. Craievich, F.

Pedrocco, Passariano-Codroipo

2012, cat. 53. Per il foglio di

Bassano del Grappa, G. Ericani,

in Ivi, cat. 54.

50 _ Si veda Éblouissante

Venise 2018, pp. 86-92. L’artista

continuerà a utilizzare fogli di

grande formato per tutta la sua

carriera.

51 _ Un’annotazione a penna

tracciata della stessa mano si

trova anche su un disegno di

Pietro Longhi a Berlino, inv.

11697-417-1921: Pietro Longhi

Autografum.

52 _ Tiepolo e la sua cerchia

1996, cat. 7.

53 _ Alessandro e Poro,

Louvre, inv. 13895. Toutain

Quittelier, in Venise, l’art de la

Serenissima 2006, cat. 57.

54 _ Whistler 2016 p. 228,

fig. 210

55 _ Antonio Canova

possedeva un album di disegni

di Giambattista che riuniva

sessantasette studi di gruppo

per la Sacra Famiglia, realizzati

a penna e lavis.

notevole, solo pochi disegni sono stati considerati realmente

autografi da Denis Ton, tra cui Zefiro e Flora [46]

e uno studio di ventaglio [47] rappresentante Il trionfo

di Anfitrite. I fogli assegnati a Crosato dalla “Reliable

Venetian Hand” non sono compresi tra questi.

GIAMBATTISTA TIEPOLO _ Lo studio del corpus

grafico di Giambattista Tiepolo, in gran parte

rimasto nell’atelier dell’artista e passato poi quello

di Giandomenico, quindi disperso dopo la morte di

quest’ultimo nel 1804, è facilitato dal raffronto con

alcuni album pressoché completi che sono rapidamente

passati in collezioni pubbliche. E così gli Album

Cheney sono entrati al Victoria and Albert Museum,

il Fondo Bossi, che riguarda il cantiere della residenza

di Würzburg, è conservato presso la Staatsgalerie di

Stoccarda, mentre l’Album Beurdeley, ora all’Ermitage,

è più composito. Tuttavia, divergenze e incoerenze

risultano nei commenti degli storici riguardanti

da un lato i disegni realizzati dall’artista in giovane età e

dall’altro la collaborazione con Giandomenico a partire

dal 1750. Inoltre, per comprendere ogni fase dell’evoluzione

di Giambattista è necessario non separare i mezzi

che impiega. Le sue scelte – la penna, accompagnata o

meno dal lavis e dal guazzo bianco, o le tecniche a punta

secca, la matita rossa o la pietra nera su carta bianca

oppure blu – obbediscono a considerazioni di ordine

funzionale e non a una cronologia. E così, in uno stesso

giorno, l’artista può essere spinto a utilizzare tecniche

diverse in base al risultato cui ambisce, ma il suo orientamento

stilistico non ne è mai coinvolto.

Nato in una famiglia priva di legami con il

mondo artistico, Tiepolo si forma presso Lazzarini probabilmente

dall’età di quattordici anni, ovvero intorno

al 1710, e inizia ben presto a mantenersi grazie alla sua

attività artistica. I suoi primi disegni con la pietra nera

– scorci di profili e mani contorte – possono essere

posti in relazione con gli Apostoli dell’Ospedaletto [48] .

Provengono da un solo carnet e sono conservati in parte

al Fogg Art Museum e in parte all’Accademia Carrara

di Bergamo. Intorno al 1720 collabora all’edizione del

Gran Teatro di Venezia ovvero raccolta delle principali

vedute e pitture che in essa si contengono, indubitabile

segno del riconoscimento del suo talento. Tra il 1715 e

il 1720 ha modo di osservare attentamente le opere di

Bencovich e soprattutto di Piazzetta. Realizza quindi a

penna studi di corpi riuniti nel medesimo foglio e ambiziosi

disegni di composizioni come L’Annunciazione di

Bassano del Grappa [49] . In seguito, a Verona, disegna

le sculture antiche per La Verona illustrata di Scipione

Maffei. La diversità di procedimenti che utilizza in

questi suoi primi disegni preparatori per i quadri e nei

primi disegni di nudo dimostra la grande curiosità e una

maestria davvero notevole. Non esita poi a riportare le

sue composizioni su fogli di grande formato. È il caso

della Crocifissione del Ferdinandeum di Innsbruck, che

prepara il quadro per la chiesa di Burano del 1722-24,

così come lo studio dello Städelmuseum di Francoforte,

che gli permette di disporre i gruppi di angeli della cappella

del Sacramento del duomo di Udine, un progetto

tratteggiato con la pietra nera e poi lumeggiato all’acquarello

con colori vivaci [50] . Il foglio di Francoforte

è appartenuto allo stesso collezionista [51] dell’Annunciazione

a penna del Fogg Art Museum, uno dei suoi

primi disegni a essere identificato con certezza e realizzato

tra 1718 e 1720 [52] . Sebbene l’impiego dell’acquerello

sia poco diffuso – ma dobbiamo notare che lo si

trova anche in Gianantonio Pellegrini [53] –, l’attenzione

nell’uso del colore sarà una costante della sua opera fino

alla fine della carriera, e l’impiego del lavis di matita

rossa è frequente nei disegni realizzati in giovane età,

per esempio nel Soldato romano a pietra nera, matita

rossa e lavis di matita rossa, conservato a Princeton [54] .

Abbiamo maggiore conoscenza della produzione

grafica di Giambattista realizzata a partire dagli

anni Trenta. Gli studi d’insieme per le composizioni

dipinte sono eseguiti con tratti a penna molto decisi,

lumeggiati con lavis color ocra più o meno intenso, e

sfruttano con grande sapienza il colore bianco della

carta per suggerire la luce. Per gli studi di nudo maschile

sceglie la matita rossa e il gessetto bianco su carta blu.

Gli studi di figure isolate sono realizzati sia con la pietra

nera sia con la matita rossa. Pratica il disegno con

passione e disinvoltura, dando instancabilmente vita a

un mondo immaginario popolato di bellezze sensuali,

spesso esotiche e dai tratti orientali, talvolta minacciose,

realizzando composizioni dalla disposizione inattesa.

Particolarmente illuminante al proposito è la serie che

inscena la Sacra famiglia a penna e lavis in una disposizione

di gruppi diversi e originali, un’audace variazione

sul tema, come se si trattasse di un concerto alla moda

242 —GENERI E TEMI —

—DISEGNARE A VEBEZIA NEL SETTECENTO— 243



di Vivaldi [55] . Molto più intimo è il repertorio ricco di

umorismo dei Pulcinella e delle caricature, vicini a evocazioni

fantastiche e bizzarre che denotano una certa

fascinazione nei confronti dell’occulto, riflettente lo

stile di Magnasco. Una forte espressività drammatica

viene raggiunta in alcuni studi preparatori, come

La testa di vecchio dell’Ashmolean Museum [56] e La

testa di Sant’Agata di Berlino [57] , grazie alla virtuosità

del suo tratto a matita rossa che permette l’accentuazione

di alcuni particolari, per esempio la bocca aperta

di Sant’Agata. Giambattista è ormai chiamato sulla

“Terraferma” e oltre per la decorazione di ville e palazzi

che richiedono un’organizzazione perfetta. L’esempio di

palazzo Clerici a Milano è particolarmente illuminante,

perché i fondi di disegni della Pierpont Morgan Library,

del Metropolitan Museum e del Museo Horne permettono

di seguire l’evoluzione di questo enorme cantiere

[58]

. L’artista gestisce il suo atelier con abilità imprenditoriale

e il disegno occupa una parte non trascurabile

della sua organizzazione. Nel classificare i suoi fogli realizza

un vero e proprio vocabolario di riferimenti che gli

permette di riutilizzarli poi con alcune varianti per altre

decorazioni, senza che i motivi risultino ripetitivi. Così

nella decorazione di palazzo Labia ritroviamo il gruppo

della ragazza e del vecchio concupiscente creato in origine

per il disegno destinato a palazzo Clerici [59] , ora al

Metropolitan Museum.

L’artista fa copiare i propri disegni ad allievi e

figli [60] , che hanno accesso alla collezione di incisioni

da lui raccolta. È così che Giandomenico apprende

come disegnare alla maniera di suo padre e diventa il

suo principale collaboratore intorno al 1747, probabilmente

anche prima. La decorazione della residenza di

Würzburg segna una tappa importante nell’esistenza

della bottega di Tiepolo. Prima di lasciare Venezia,

Giandomenico ha già realizzato il suo primo lavoro personale

con la decorazione dell’Oratorio del Crocefisso

nella chiesa di San Polo, ha verosimilmente preso parte

in modo massiccio all’esecuzione di alcuni dipinti del

padre e, fatto tutto questo, ha mutato in meglio il proprio

status. Dalla fine del 1750 all’autunno del 1753, a

Würzburg, divide il proprio tempo tra l’esecuzione delle

decorazioni della Kaisersaal e della Treppenhaus sotto

gli ordini del padre e progetti personali come la serie

di incisioni della Fuga in Egitto e dipinti di un nuovo

genere, tra cui L’accampamento di zingari di Magonza.

Giambattista è in quel momento all’apice del

successo artistico, i suoi affreschi della Kaisersaal

inscenano episodi della storia di Franconia che si

dipanano intorno alla figura dell’imperatore Federico

Barbarossa, mescolano evocazioni medievali, figure

in costume rinascimentale ed esotismi orientaleggianti

sullo sfondo di un cielo luminoso. Le Allegorie

dei quattro continenti nel fregio soprastante la cornice

dello scalone d’onore affascinano per la loro inventiva.

Dopo la discussione e l’approvazione dei bozzetti

a olio, ogni elemento, dagli studi di gruppi alle

figure isolate, è divenuto oggetto di un disegno preliminare,

prima dell’esecuzione dei cartoni in scala. Un

insieme di disegni a matita rossa lumeggiati con gessetto

bianco su carta blu, conservati alla Staatsgalerie

di Stoccarda, documenta la genesi di diverse di queste

scene. A lungo considerati autografi di Giambattista,

sono stati svalutati e relegati allo status di copie eseguite

da Giandomenico Tiepolo su disegni (perduti)

del padre. A nostro parere la mancata attribuzione è

senza fondamento perché questi fogli meravigliosi

non hanno il carattere di copie e rivelano al contrario

la fecondità e la rapidità inventiva di Giambattista. Per

contro, alcuni studi di figure collegate al fregio dell’Allegoria

dell’Europa, provenienti dall’Album Gatteri del

Museo Correr, sono da attribuire a Giandomenico [61] .

Giambattista non è solo un disegnatore

fecondo, ma anche un prolifico incisore: una serie di

dieci Capricci da lui disegnati e incisi è pubblicata da

Anton Maria Zanetti in due volumi della sua Raccolta

di chiaroscuri, tra 1739 e 1749-51. L’apprezzamento

di Zanetti, che li definisce “di uno spiritoso e saporitissimo

gusto”, sottolinea la sua ammirazione nei

confronti dell’artista. In queste creazioni ritroviamo

il ricordo delle incisioni di Carpioni, Salvator Rosa e

Castiglione, e anche di Rembrandt, le cui opere erano

molto note nella Venezia dell’epoca grazie soprattutto

al console Smith. Per contro, le ventitré acqueforti

degli Scherzi di fantasia, realizzate in epoca successiva,

sono pubblicate da Giandomenico dopo la

morte del padre. Le invenzioni magiche e bizzarre di

Giambattista troveranno poi seguito in Piranesi, che

con probabilità ha frequentato la bottega del Tiepolo.

Tra i suoi disegni tardi, un gruppo di teste di vecchio

eseguite sia a pennello e lavis di matita rossa, sia a olio

[62]

, ha ispirato Fragonard.

56 _ C. Whistler, Drawing

in Venice Titian to Canaletto,

Oxford 2015, cat. 97.

57 _ Éblouissante Venise

2018, p. 190.

58 _ W. Barcham, Tiepolo’s

Pictorial Imagination Drawings

for Palazzo Clerici, New York

2017.

59 _ Ivi, pp. 27-28, fig. 14.

60 _ U. Ohm, Die

Würzburger “Tiepolo-

Skizzenbücher”, Die

Zeichnungen WS 134, 135 und

136 im Martin-von-Wagner-

Museum der Universität

Würzburg, Weimar 2009.

61 _ C. Loisel, A proposito del

“Quaderno Gatteri” del Museo

Correr di Venezia, riflessioni

sul metodo di lavoro nella

bottega dei Tiepolo e sul ruolo di

Giandomenico, in Libri e Album

di Disegni nell’Età moderna

1550-1800, Roma 2018.

62 _ Disegni del Fogg Art

Museum, Tiepolo e la sua

cerchia 1996, cat. 110, inv. 1946-

52; dell’Albertina, Éblouissante

Venise 2018, cat. 135; del

Courtauld Institute of Art, inv.

D. 1978-PG-169 e del British

Museum, inv. 1885-0509-1672.

63 _ M. Rago, Alcune

considerazioni sull’opera

internazionale di Pietro Antonio

Rotari, “AFAT”, 35, 2017, pp.

111-124.

64 _ Apollo et Marsia,

inv. 15378, Musée du Louvre,

Département des arts

graphiques.

65 _ La Fuga in Egitto,

inv. 4659, Musée du Louvre,

Département des arts

graphiques.

66 _ Inv. 514, F. Pedrocco,

Pietro Longhi disegnatore: dalle

collezioni del Museo Correr,

Venezia, 2006, cat. 1.

TRA REALISMO E IDEALISMO, IL MITO DI

VENEZIA _ Mentre tutta l’Europa viene a poco a poco

conquistata dalla moda del Neoclassicismo, Venezia evidenzia

ancora la propria originalità. È vero che Pietro

Rotari, da Verona, obbedisce alle nuove tendenze realizzando

scene misurate, di un classicismo molto equilibrato,

ma nel caso di una composizione molto rifinita,

come il disegno di Apollo e Marsia di Providence

[63]

, la prima ideazione, conservata nel fondo anonimo

del Louvre, colpisce per il suo dinamismo disordinato

[64]

. Sorprende anche notare che Pierre-Jean Mariette, il

quale non possedeva alcun disegno di Pellegrini, abbia

acquisito un foglio di Giambettino Cignaroli [65] tramite

l’intermediazione di Temanza. In Fontebasso e Pietro

Antonio Novelli si riscontrano infinite variazioni sui temi

della tradizione artistica veneziana, che perpetuano una

forma di Rococò addolcita e riappaiono in modo più

pittoresco nell’opera di Giuseppe Bernardino Bison.

Quando Pietro Longhi, già allievo di Balestra,

soggiorna a Bologna per proseguire la propria formazione,

è in contatto con Giuseppe Maria Crespi, le cui

scene di genere avranno una notevole influenza su di lui.

I suoi studi di nudi per l’affresco di Ca’ Sagredo [66] testimoniano

ancora una certa goffaggine, ma si registra una

rapida evoluzione nel suo stile, testimoniata quando

mette a punto in modo molto personale disegni a pietra

nera e gessetto bianco su carta beige di grande formato.

Nei suoi fogli di studio riesce a realizzare effetti luminosi

che danno vita a osservazioni di scene di vita quotidiana,

come la donna che sta in piedi su uno sgabello

per nutrire il proprio canarino, conservata al Museo

Correr. Talvolta alcune annotazioni aiutano la comprensione

di elementi appena abbozzati.

Contestualmente alla costante apparizione di

nuovi disegni, e all’attitudine degli storici che si rivolgono

al patrimonio grafico della Serenissima con una

maggiore acutezza di sguardo, la straordinaria fioritura

dell’arte veneziana appare indissolubilmente legata

all’attività grafica degli artisti. Ben lungi dall’essere confinati

in laguna, hanno scambi con altri centri italiani

ed europei, non foss’altro che per il dialogo incessante

e costruttivo con i centri artistici della “Terraferma”, in

particolare Verona. Utilizzando tutti i mezzi pittorici,

compresi pastelli, guazzo su velina o su carta e miniatura

su avorio, i maestri veneziani hanno ancora molto

da insegnarci.

244 —GENERI E TEMI —

—DISEGNARE A VEBEZIA NEL SETTECENTO— 245



SIMONE

GUERRIERO

FIG. 1

ANTONIO TARSIA

Pace.

Venezia, basilica dei

Santi Giovanni e Paolo,

monumento Valier

1 _ M. De Vincenti, “Piacere

ai dotti e ai migliori”. Scultori

classicisti del primo ’700, in

La scultura veneta del Seicento

e del Settecento. Nuovi studi,

Atti della Giornata di Studio

(Venezia, Istituto Veneto di

Scienze, Lettere e Arti, 30

novembre 2001), a cura di G.

Pavanello, Venezia 2002, pp.

221-281.

2 _ P. Del Negro, La crisi del

collegio degli scultori veneziani

del secondo Settecento, in

Antonio Canova. La cultura

figurativa e letteraria dei grandi

centri italiani, 1, Venezia e

Roma, Atti del Convegno

Nazionale (Bassano del Grappa,

25-28 settembre 2001), a cura

di F. Mazzocca e G. Venturi,

Bassano del Grappa 2005, p.

7; sulle vicende del Collegio

nel corso del Settecento si

rimanda a Id., L’Accademia di

belle arti di Venezia dalle origini

al 1806, in Antonio Canova e

il suo ambiente artistico fra

Venezia, Roma e Parigi, a cura

di G. Pavanello, Venezia 2000,

pp. 73-79.

GENERI

E TEMI

SCULTURA

V EN EZ I A NA DEL

S E T T E C E N T O.

I ATTO

I primi decenni del Settecento

furono anni di grande fioritura per la scultura

veneziana, capace di raggiungere esiti d’originalità

difficilmente riscontrabili altrove – e non soltanto in

Italia – in una polifonia di voci indipendenti riverberante

la vivace dialettica culturale riformatrice in corso,

che in città andava imponendo nuove tendenze estetiche

rintracciando nell’abbandono dell’imitazione

degli antichi modelli e dei maestri del Rinascimento

la principale causa della corruzione del gusto e delle

bizzarrie seicentesche [1] . In quel periodo un fermento

edificatorio investì Venezia offrendo numerose occasioni

di lavoro agli scultori, a cui giunsero inoltre

cospicue richieste di committenti locali e “foresti”

interessati ad arricchire le proprie collezioni artistiche

di sculture moderne, ad adornare i giardini delle proprie

residenze, a testimoniare la devozione, a eternare

le proprie virtù nel marmo. Testimonianza del florido

stato della scultura veneziana nei primi decenni del

secolo si trova nelle carte d’archivio della Milizia da

Mar, magistratura da cui dipendevano a Venezia sotto

il profilo fiscale quasi tutte le corporazioni, che rilevava

nel 1724, all’indomani della nascita del Collegio degli

scultori – con cui veniva finalmente sancita la separazione

dalle “arti triviali e minutissime de tagliapietra,

lustradori e segatti” [2] –, la presenza di ben quaranta

maestri, a cui se ne aggiunsero circa una decina negli

anni immediatamente successivi [3] .

Allo schiudersi del secolo fu l’orientamento

di gusto classicista ad assumere un’inedita evidenza

con il prestigioso “mausoleo di gloria alli fu serenissimi

principi Vallieri”, edificato nella chiesa dei Santi

Giovanni e Paolo su progetto di Andrea Tirali tra la fine

del 1702, anno in cui furono gettate le fondamenta, e

il 1709, quando fu posta sul suo basamento l’effigie

marmorea della dogaressa Elisabetta Querini Valier,

passata a miglior vita nel gennaio di quell’anno [4] . Il

monumento superava le memorie funebri seicentesche

liberandosi dagli eccessi decorativi e dispiegando

un insieme cospicuo di sculture, tutte ordinatamente

collocate nei vari registri della partitura architettonica

a comporre un preciso programma celebrativo. Statue

e rilievi furono realizzati da un gruppo di artisti tra i

principali del momento: i veneziani Giovanni Bonazza

(1654-1736), Marino Groppelli (1662-1721) e Antonio

Tarsia (1662-1739), e il carrarese Pietro Baratta (1668-

1729), che proprio all’inizio del 1702 aveva licenziato

il monumentino con il busto del doge Silvestro per

l’atrio della Pubblica Libreria, celebrato quale opera

“non meno insigne che speciosa per la rarità dello scultore”

[5] . Chiamato a eseguire anche sul monumento

Valier il ritratto a figura intera dello stesso doge – il

cui modello preparatorio si conserva nelle collezioni

civiche veneziane –, Pietro Baratta giunse in laguna

“ben avanzato nell’arte” nel 1693 circa [6] , importando

un linguaggio basato sull’elaborazione di modelli berniniani

e soprattutto algardiani che, seppur apprezzato

– fu, infatti, presente a Venezia in tutti i più importanti

cantieri artistici sino agli anni Venti –, non inciderà

in modo sostanziale nello sviluppo della corrente

classicistica locale. La lezione dello scultore rimase

del resto ben presto priva di eredi poiché il suo più

capace allievo, il veneziano Francesco Robba (1698-

1757), decise di stabilirsi già nel 1720 in Carniola [7] .

— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. I ATTO — 247



La permanenza di Baratta in laguna va inserita nella

precisa strategia intrapresa dal più dotato fratello

Giovanni, che seppe trasformare la bottega familiare

carrarese in un’impresa moderna capace di attrarre

commissioni da vari centri italiani ed esteri proprio

grazie alla presenza fisica dei suoi congiunti e collaboratori

in luoghi diversi [8] .

Antonio Tarsia – padre del pittore Bartolomeo

(1686-1762), trasferitosi in Russia nel 1722 [9] , amico

di Andrea Tirali e autore sul monumento Valier dell’idealizzata

effigie del doge Bertucci, della statua della

Liberalità e dei bei rilievi con la Pace (fig. 1) e la Costanza

– ricopre un ruolo di primo piano tra gli scultori “riformatori”

veneziani della prima e della seconda generazione

poiché ebbe come allievi il celebre Antonio

Corradini e il meno noto Gaetano Susali [10] . Formatosi

come intagliatore in legno in ambito familiare, sin dai

suoi esordi quale scultore in pietra – rintracciabili per

ora nelle statue dei Santi Sebastiano e Francesco dell’altare

maggiore della chiesa dell’Ospedaletto – sembra

aver guardato alle opere di Bernardo Falconi e, soprattutto,

di Tomaso Rues, altro apprezzato intagliatore

e scultore, deceduto nel 1703 [11] . Tarsia fu particolarmente

versato nei soggetti mitologici e allegorici declinati

in dimensioni contenute, ispirati all’antico e ai

bronzetti veneti rinascimentali, di cui rimane la nutrita

serie realizzata per la corte russa che rappresenta in

effetti l’antefatto delle più tarde statuette all’“antica”

dell’apprezzatissimo Antonio Gai. Ricercato, anche

come restauratore d’antichità, dai patrizi di vecchia

nobiltà, come i Corner [12] e i Pisani, e di nuova, come i

Manin, Tarsia perseguì una personale ricerca sintonizzata

sul moderno ideale di bellezza, semplice e naturale,

convergente in parte con il linguaggio classicista

permeato d’intonazioni sentimentali del bolognese

Giuseppe Maria Mazza, il cui rilievo bronzeo con l’Adorazione

dei pastori (fig. 2), eseguito per la chiesa di San

Clemente in Isola, era stato accolto con grande entusiasmo

e celebrato con componimenti poetici nel 1705 [13] .

In quello stesso anno gli ambiziosi Manin arricchivano

la collezione di sculture del loro palazzo sul

Canal Grande commissionando un nuovo nucleo di

piccole figure per la “camera delle figure distese” a tema

classico ai quattro più distinti scultori del momento:

Tarsia e Baratta consegnarono rispettivamente il

Bacco con satiro (cat. IV.04) e la Galatea (cat. VI.05),

ora al Victoria and Albert Museum, mentre Giuseppe

Torretti scolpì un Narciso alla fonte purtroppo scomparso

così come la Venere con amore di Mazza, il cui

aspetto è tramandato dall’incisione di Giannantonio

FIG. 2

GIUSEPPE MARIA MAZZA

Adorazione dei pastori.

Venezia,

chiesa di San Clemente

in Isola

3 _ Cfr. B. Cogo, Antonio

Corradini scultore veneziano

1688-1742, Este 1996, pp. 62-66.

4 _ La citazione è tratta dalla

“Pallade Veneta” manoscritta

che riferisce inoltre gli estremi

cronologici dell’erezione del

monumento, in P. Delorenzi,

Una divinità nella bottega dello

scrittore. Cronache d’arte tra

Sei e Settecento dalla “Pallade

Veneta”, “Saggi e memorie di

storia dell’arte”, 40, 2016, pp.

54, 71. Per la storia progettuale

e il significato delle sculture

rimando a M. De Vincenti, Il

“prodiggioso” mausoleo dei

dogi Valier ai Santi Giovanni e

Paolo, “Arte Veneta”, 68, 2011,

pp. 143-163 (con bibliografia

precedente).

5 _ Delorenzi 2016, p. 67. Il

monumento si trova sin dal 1843

nell’Accademia dei Concordi

di Rovigo (cfr. De Vincenti

2002, p. 228). Il modello in

terracotta del busto ritratto del

Serenissimo, di cui sino a oggi

s’ignorava l’esistenza, si trovava

nella collezione veneziana

della contessa Anna Morosini,

come risulta dall’immagine

conservata nella Fototeca Zeri

con attribuzione ad “Anonimo

veneziano sec. XVII-XVIII” (n.

scheda 81156).

6 _ T. Temanza, Zibaldon

(1738-1778), a cura di N. Ivanoff,

Venezia-Roma 1963, pp. 70-72.

7 _ Da ultimo si veda M.

Klemenčič, Francesco Robba

(169 -1757): a Venetian sculptor

and architect in Baroque

Ljubljana, Maribor 2013.

8 _ F. Freddolini, Giovanni

Baratta 1670-1747. Scultura

e industria del marmo tra la

Toscana e le corti d’Europa,

Roma 2013, ad indicem.

9 _ Sull’artista da ultima L.

Salmina Haskell, Bartolomeo

Tarsia as a Draughtsman,

in Venezia Settecento. Studi

in memoria di Alessandro

Bettagno, a cura di B. A.

Kowalczyk, Cinisello Balsamo

2015, pp. 197-207.

10 _ M. De Vincenti, Antonio

Tarsia (1622-1739), “Venezia

Arti”, 10, 1996, pp. 49-56; Id.

2002, pp. 223-225, 228-240.

11 _ Il profilo più aggiornato

dello scultore è offerto da

M. Clemente, Tommaso Rues

1636-1703: a German Sculptor

in Baroque Venice, Firenze

2016, pp. 9-24 (con bibliografia

precedente).

12 _ Si veda da ultimo M.

Favilla, R. Rugolo, Nome

et cineres una cum vanitate

sepulta: Alvise II Mocenigo e i

monumenti dogali nell’ultima

età barocca a Venezia, “Arte

Veneta”, 70, 2013, pp. 104-105,

124-125 nota 38.

FIG. 3

GIUSEPPE TORRETTI

Umiltà, particolare. Venezia,

chiesa dei Carmini

FIG. 4

ANTONIO CORRADINI

Madonna con il Bambino,

particolare. Venezia, chiesa

delle Eremite

Faldoni apparsa nella “Galleria di Minerva” del 1708

[14]

. Il Bacco rappresenta uno dei vertici della produzione

di Tarsia, rivelando l’alta qualità del personale

idioma classicista ove il richiamo all’antico si stempera

nell’intonazione languida e negli effetti chiaroscurali

pittoricamente soffusi di morbidi passaggi, mentre

la pur pregevole Galatea di Baratta presenta una

netta tendenza accademica a incidere profili con effetti

quasi grafici e a rendere fissi i movimenti come pure le

espressioni. L’attenzione agli esiti della pittura da parte

di Tarsia, qual è forse logica riscontrare nel padre di

un pittore, emerge a tutta evidenza nell’aggraziata e

luminosa pala marmorea realizzata alla fine della sua

carriera per i Pisani, già suoi committenti per alcune

statue collocate in uno dei cortili del loro palazzo a

Santo Stefano. L’Annunciazione (1728 ca.), posta tra le

statue di San Domenico e Santa Rosa sull’altare della

nobile famiglia nella vicina chiesa di San Vidal, evidenzia

infatti analogie compositive significative con le pale

di omonimo soggetto eseguite da Antonio Balestra per

chiese veronesi: quella ancora barocca e chiaroscurata

degli Scalzi che fu esposta pubblicamente a Venezia

nel 1697 e collocata sull’altare solo tra 1704 e 1719, e

quella soave e luminosa di San Tomaso Cantuariense

dei primi anni del Settecento [15] .

La vicenda artistica di Tarsia s’intreccia in varie

occasioni con quella di Giuseppe Torretti (1664-1743),

altro intagliatore in legno e scultore in marmo, originario

di Pagnano, il cui stile evolverà tra primo e terzo

decennio del secolo passando dai modelli di riferimento

tardobarocchi degli Apostoli della crociera di

San Giorgio Maggiore (1708-1711) a un classicismo

vigoroso e monumentale sostenuto da riferimenti

all’antico e alla scultura veneziana rinascimentale negli

eleganti, nitidi grandi rilievi scolpiti tra 1729 e 1732 [16]

per la cappella Manin di Udine, che trovano un paragone

per dimensioni e formato solo con i sei nobili

rilievi eseguiti su modelli del bolognese Mazza per la

cappella di San Domenico ai Santi Giovanni e Paolo,

dei quali il primo fu posto in opera nel 1722 [17] . Gran

parte della produzione di Torretti è connessa alle commissioni

dei Manin, ascritti al patriziato nel 1651, che

248 —GENERI E TEMI —

— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. I ATTO — 249



a Venezia finanziarono, oltre agli interventi in Santa

Maria di Nazareth, il rinnovo della chiesa dei Gesuiti

a cui si lega il viaggio a Roma compiuto dallo scultore

tra febbraio e marzo del 1711 in compagnia di Pietro

Baratta e degli architetti Domenico Rossi e Giovanni

Scalfurotto [18] . Più del viaggio, tuttavia, sembra incidere

particolarmente sullo sviluppo del linguaggio più

meditato e composto di Torretti la frequentazione

del giovane Corradini con cui condivise per anni il

forte impegno che condusse alla nascita nel 1723 del

Collegio degli scultori, di cui fu il primo Priore, e alla

formulazione della proposta di fondazione dell’Accademia

di “Scoltura, Pittura et Architettura”, presentata

unitamente ai pittori e accolta dal Senato Veneziano

grazie all’appoggio del potente Lorenzo Tiepolo, leader

indiscusso del grande patriziato, e alla probabile

collaborazione di Anton Maria Zanetti di Gerolamo [19] .

Non è un caso, infatti, se tra le molte opere realizzate

per le chiese veneziane da Torretti emerga per novità

la figura dell’Umiltà (fig. 3) della chiesa dei Carmini,

eseguita come pendant della Verginità di Antonio

Corradini (1688-1752) a partire dal 1721, ove grazia

arcadica e intonazioni intimistiche, quasi “borghesi”,

paiono fuse in immagini moderne e perfettamente

bilicate tra classico e naturale.

L’allievo e genero di Tarsia è senza dubbio la

personalità più rilevante nel panorama della scultura

del primo Settecento veneziano. Corradini appare

come “maestro lavorante” dal 1711, ma è probabile tuttavia

che avesse iniziato una sua attività indipendente

dal 1709, quando il suo nome compare nelle carte della

Fraglia dei tagliapietra di Padova per dei lavori compiuti

nella bottega di Giovanni Bonazza [20] . Il secondo

decennio, in seguito alla presentazione pubblica della

prima delle sue straordinarie velate nel 1717 [21] , lo scultore

si aggiudica due importanti commissioni di Stato:

13 _ Il riferimento è alla

raccolta di componimenti

poetici di vari autori stampata

in quell’anno a Padova e

intitolata Alle glorie Immortali

del Signor Giuseppe Maria

Mazza scultor Celeberrimo

Bolognese per il Prodigioso

Presepio di bronzo alto piedi

cinque, e largo piedi otto, e

mezzo gettato nell’Arsenal

di Venezia, e collocato nella

chiesa de R.R.P.P. Camaldolesi

dell’Eremo nell’Isola di S.

Clemente di Venezia l’anno

MDCCV, Padova 1705.

14 _ La citazione è tratta da

M. Frank, Virtù e fortuna: il

mecenatismo e le committenze

artistiche della famiglia Manin

tra Friuli e Venezia nel XVII e

XVIII secolo, Venezia 1996, p.

69; docc. in Ivi, pp. 365-366,

n. 10; l’incisione è nota grazie

a F. Zava Boccazzi, I veneti

alla galleria Conti, “Saggi e

memorie di storia dell’arte”,

17, 1990, p. 321, fig. 15. Si veda

inoltre J. Pope-Hennessy,

Catalogue of italian sculpture in

the Victoria and Albert Museum,

London 1964 (II, pp. 416: inv.

A. 138-1956, A.139-1956) con

l’assegnazione delle statue al

Victoria and Albert a Tarsia,

e De Vincenti 1996 (p. 56,

nota 58) per il riconoscimento

della provenienza dei marmi

e l’attribuzione della Galatea

a Baratta. I Manin richiesero

pure a Tarsia anche “una statua

compagna del Andromeda

comprata dal Serenissimo

di Mantoa”, due teste di

imperatori, due statue di Marte

e Venere (Frank 1996, pp.

366-369, doc. 11): opere tutte

scomparse.

15 _ Sulle opere il rimando

è a M. Favilla, R. Rugolo, “La

charité sa premiere vertu”:

la pittura sacra di Antonio

Balestra tra Barocco e

Barocchetto, in Antonio Balestra

FIG. 5

PIETRO BARATTA

Allegoria della Pace di Nystad,

San Pietroburgo, Giardino

d’Estate

FIG. 6

ANTONIO CORRADINI

Fede velata, particolare.

San Ildefonso, Palazzo Reale

della Granja

nel segno della grazia, catalogo

della mostra (Verona, Museo

di Castelvecchio) a cura di A.

Tomezzoli, Verona 2016, pp.

36-41, 50 note 18-25.

16 _ P. Rossi, Per il

catalogo delle opere veneziane

di Giuseppe Torretti, “Arte

Documento”, 13, 1999, pp. 285-

287; P. Goi, Giuseppe Torretti

nella Cappella Manin di Udine,

“Restauro nel Friuli Venezia

Giulia”, 2, 1990, pp. 9-63.

17 _ Cfr. M. De Vincenti,

Storie della vita di San

Domenico, in La Basilica

dei Santi Giovanni e Paolo.

Pantheon della Serenissima, a

cura di G. Pavanello, Venezia

2012, pp. 430-431 (con

bibliografia precedente).

18 _ P. Rossi, Pietro Baratta

e Giuseppe Torretti: il problema

delle interrelazioni, in Francesco

Robba and the Venetian

sculpture of the eighteenth

century, Atti del Convegno

Internazionale (Ljubljana, 16th-

18th October 1998), edited by J.

Höfler, Ljubljana 2000, pp. 41,

47-48 nota 2.

19 _ Del Negro 2005, p. 75.

20 _ Lo scultore risulta

possedere certamente una

propria bottega dal 1713 (Cogo

1996, pp. 36-39, 41-45).

21 _ Si veda infra. Sulle opere

di Corradini presenti nella

collezione del feldmaresciallo,

tra cui una Fede velata, si

rimanda a S. Guerriero,

Sculpteurs Vénitiens pour les

cours et les collectionneurs

d’Europe, in Éblouissante Venise,

les Arts et l’Europe au XVIII e

siècle, catalogo della mostra

(Paris, Grand Palais, Galleries

nationales) a cura di C. Loisel,

Paris 2018, pp. 164-165.

22 _ P. Rossi, Johann

Matthias von der Schulenburg e

due scultori del suo tempo, “Arte

veneta”, 70, 2013, pp. 238-241;

Cogo 1996, pp. 49-50, 162-163.

la statua-ritratto del feldmaresciallo Johannes Matthias

von der Schulenburg per il monumento eretto a Corfù,

posta in opera nel 1718 [22] , e la progettazione e sovrintendenza

delle decorazioni del nuovo Bucintoro nel

1719 [23] . A questi anni, con ogni probabilità, appartiene

la Madonna del Rosario (fig. 4) delle Eremite, rimasta

impressa nella mente di Tiepolo [24] , mentre al 1720

risale la virtuosistica statua di Sant’Ambrogio posta in

opera nella chiesa di San Stae accanto a quelle eseguite

da Torretti, Tarsia e Baratta, che sancisce il suo

ingresso nel gruppo degli scultori più rinomati [25] ;

segue, oltre alla citata Verginità dei Carmini, il gruppo

della Pietà della chiesa di San Moisè in origine collocato

sull’altare dei Sansoni, che veniva benedetto nel 1724,

come ricorda il Coletti definendola opera del “celeberrimo

Sculptore Veneto Antonio Corradino” [26] . L’anno

successivo il Senato, con una nuova sensibilità per la

tutela della sede del potere politico della Repubblica,

richiedeva fosse individuato per l’intervento conservativo

dei marmi di Palazzo Ducale uno dei migliori,

colti e competenti scultori al fine di eseguire un’accurata

analisi delle singole statue che determinasse l’autore,

l’epoca di esecuzione, lo stato conservativo e gli

interventi necessari da adottare: fu scelto Corradini,

che produsse due relazioni nelle quali con prosa elegante

seppe per primo, dopo il travisamento di Vasari,

restituire a Rizzo la paternità dell’Adamo, dell’Eva e del

Guerriero dell’Arco Foscari [27] .

La prima opportunità per Antonio Corradini

di imporsi sulla ribalta internazionale si ebbe allorquando

l’agente di Pietro il Grande, il conte Savva

Lukič Vladislavič detto Raguzinskij, residente a

Venezia dal 1716 al 1722, fece incetta di statue per

il Giardino d’Estate di Pietroburgo e la residenza

estiva di Peterhof, rivolgendosi agli artisti veneziani e

attingendo a ciò che offriva il fiorente mercato della

250 —GENERI E TEMI —

— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. I ATTO — 251



FIG. 7

ANTONIO CORRADINI

Scultura e Verità.

Ferrières-en-Brie,

Château de Ferrières

23 _ L. Urban, Intagliatori

e doratori del bucintoro del

Settecento, in Con il legno e con

l’oro: la Venezia artigiana degli

intagliatori, battiloro e doratori,

a cura di G. Caniato, Verona

2009, pp. 175-185.

24 _ La statua riecheggia,

infatti, nel dipinto di omonimo

soggetto di collezione privata,

datato 1735, come osservano G.

Pavanello, Tiepolo e la scultura:

dalla copia all’invenzione, in

Giambattista Tiepolo nel terzo

centenario della sua nascita, Atti

del Convegno Internazionale

(Venezia, Vicenza, Udine, Parigi,

29 ottobre-4 novembre 1996),

a cura di L. Puppi, Padova

1998, p. 167, fig. 14, e P. Rossi,

Giambattista Tiepolo e la

scultura del suo tempo, in Ivi,

p. 171.

25 _ Cogo 1996, pp. 188-190.

26 _ N. Coletti, Monumenta

ecclesiae venetae S. Moysis,

Venezia 1758, p. 344.

27 _ Si veda da ultimo P.

Delorenzi, A. Pizzati, Adamo,

Eva ed il Guerriero. Vicende

storico-artistiche, critiche e

conservative delle statue di

Antonio Rizzo, “Bollettino dei

Musei Civici Veneziani”, ser. III,

11-12, 2016-2017, pp. 79-82, 96-

99, docc. 4-11 (con bibliografia

precedente).

28 _ Si veda S. Androsov,

Pietro il Grande collezionista

d’arte veneta, Venezia 1999, p.

226. Per le acquisizioni presso

il mercato cfr. S. Guerriero, Le

alterne fortune dei marmi: busti,

teste di carattere e altre “scolture

moderne” nelle collezioni

veneziane tra Sei e Settecento, in

La scultura veneta del Seicento

e del Settecento. Nuovi studi,

Atti della Giornata di Studio

(Venezia, Istituto Veneto di

Scienze, Lettere e Arti, 30

novembre 2001), a cura di G.

Pavanello, Venezia 2002, pp. 77,

81, 109.

29 _ Temanza 1963, p. 43. La

copia dell’Antinoo del Belvedere

realizzata da Giovanni

Bonazza nel parco di Versailles

risale probabilmente a tale

commissione attuata sulla scia

della vasta campagna avviata

da Colbert per recuperare il

maggior numero di originali

e copie delle statue antiche

più famose di Roma per

l’immenso parco della reggia

(sull’argomento cfr. F. Haskell,

N. Penny, L’antico nella storia

del gusto: la seduzione della

scultura classica 1500-1900,

Torino 1984, pp. 46-53; sulla

statua di Bonazza si veda Les

Sculptures européenne du musée

du Louvre, a cura di G. Bresc-

Bautier, Paris 2006, p. 601).

30 _ S. Androsov, Pietro il

grande e la scultura italiana,

San Pietroburgo 2004, pp. 138-

243, 334-412.

31 _ “Foglio di Foligno”, 52,

26 dicembre 1721, alla data.

32 _ In “Gazeta de Lisboa

occidental”, 12 febbraio 1722, alla

data 14 dicembre 1721; si veda

Guerriero 2018, pp. 160-161.

33 _ Sulla vicenda e la sorte

delle statue cfr. Androsov

1999, p. 226 e Cogo 1996, pp.

197-201. Sul tema della figuta

velata cfr. R. Deckers, Die Testa

velata in der Barockplastik: zur

Bedeutung von Schleier und

Verhüllung zwichen Trauer,

Allegorie und Sinnlichkeit,

Münich, 2010.

34 _ Bottari 1822, II, p. 125;

l’identificazione si deve a De

Vincenti 2002, p. 237.

35 _ L’opera richiama il

bustino femminile in marmo

di Carrara, alto circa 60 cm,

“con un drappo che le avvolge

il capo” e posato su base

sagomata, presente nel 1934

nella collezione Donà dalle Rose

(G. Lorenzetti, L. Planiscig, La

collezione dei Conti Donà dalle

Rose a Venezia, Venezia 1934, p.

53, n. 245)

36 _ L’opera, scomparsa

dopo la vendita di parte

delle sculture del Grossen

Garten del maggio del 1836,

è recentemente riemersa

sul mercato antiquario in

precario stato di conservazione

(Guerriero 2018, pp. 162, 163

nota 19).

Serenissima [28] . In verità un precedente di analogo

significato e portata è documentato già sul finire del

Seicento, quando, come riporta Tommaso Temanza

nel suo Zibaldon, Luigi XIV aveva ordinato che fossero

inviati a Venezia “alcuni modelli in cera delle più

insigni statue di Roma” affinché dagli scultori venissero

scolpite “statue sulli modelli spediti per asportarle

a Parigi” [29] . Ma se della commissione di Re Sole ci

sfuggono gli esatti contorni e gli stessi esiti, la vicenda

riguardante le sculture richieste dallo zar e dalla sua

corte – una vera e propria armata di statue e busti

di soggetto mitologico e allegorico – risulta invece

documentata con estrema precisione e rivela il coinvolgimento

di pressoché tutti gli scultori allora attivi a

Venezia: Pietro Baratta (fig. 5), Antonio Tarsia, Antonio

Corradini, Giovanni Bonazza, Francesco Cabianca,

Giuseppe Torretti, Enrico Merengo, Marino, Paolo

e Giuseppe Groppelli, Alvise Tagliapietra, Bortolo

Modolo e Giovanni Zorzoni [30] . Il prestigio di queste

commissioni, come di quelle che seguiranno, dava

agio agli artisti d’esporre pubblicamente i propri lavori

prima della partenza sottoponendoli al giudizio degli

intenditori, mentre l’eco del loro valore giungeva

oltre i confini della Serenissima tramite le gazzette

del tempo. Così accadde la domenica mattina del 20

dicembre 1721, quando “si vidde esposta nell’Atrio

interiore della Chiesa Ducale di S. Marco una Statua di

Marmo da Carrara, quale rappresenta la Religione con

la faccia velata, che per la nuova invenzione non più

veduta a secoli, per l’esattezza del disegno, e per il delicato

lavoro, incontra universale applauso; Quest’opera

fu travagliata del sig. Antonio Corradini Veneto, & è

destinata per il Czar di Moscovia, dovendo in breve

esser spedita a Pietroburgo” [31] . La notizia fu ripresa

anche dalla “Gazeta de Lisboa” che l’inserì tra informazioni

politiche-diplomatiche riguardanti la risoluzione

presa dalla Serenissima di riconoscere lo zar

di Mosca imperatore di tutta la Russia e il commiato

dell’inviato straordinario dello zar, facendole assumere

quasi una valenza d’affare di Stato: “se expoz na

Igreja Ducal de S. Marcos huma Estatua de marmore

que representa a Religiaõ, a qual mandou fazer por

ordem do Czar o Conde de Sava, por Antonio Coradini

famoso Estatuario desta Cidade” [32] . Quest’opera,

che fu preceduta da una Fede velata giunta in Russia

nel 1719, rappresenta una delle numerose repliche e

varianti sul tema offerto per la prima volta dallo scultore

al pubblico nel 1717 [33] , quando venne presentata

a Venezia la Religione destinata ai monumenti Manin

di Udine: un evento, per dirla con le parole del pittore

Antonio Balestra, capace di “stupir tutta la città” [34] . Il

soggetto inaugurava, infatti, un nuovo linguaggio che

univa allo studio dal vero quello delle tecniche di resa

delle trasparenze della statuaria antica restituendo con

virtuosismo assoluto – come ben esemplifica il busto

della velata del Museo di Ca’ Rezzonico [35] (cat. VI.08)

– un’immagine capace d’eguagliare negli effetti chiaroscurali

il tocco sfumato e leggero della pittura coeva.

L’“invenzione” ottenne un grande successo a livello

europeo, come dimostrano l’esistenza della Vestale

Tuccia inviata a Dresda per Augusto il Forte [36] , della

Fede velata (fig. 6) donata a Isabella Farnese dal nunzio

Alessandro Aldobrandini, in occasione del suo trasferimento

da Venezia a Madrid nel novembre 1720 [37] ,

e dell’omonima figura del Louvre che potrebbe essere

identificata con la celebrata statua di Vestale custodita

sino al 1856 nella raccolta veneziana dei Manfrin,

forse in origine appartenente a Zaccaria Sagredo [38] .

La cosiddetta Pudicizia è l’ultima di tali figure, che

Corradini eseguì poco prima di morire per la cappella

Sansevero di Napoli: il suo corpo sontuoso, di senso

prevalentemente profano, dal ritmo complesso ed elegante

e dal modellato sicuro, è avvolto in un panneggio

stilizzato all’estremo, slanciato e geometrizzante, con

“un rigore che annuncia il Neoclassico” [39] .

Un numero significativo di opere di Corradini

giunse anche ad Augusto il Forte, principe elettore di

Sassonia e re di Polonia, attraverso la mediazione del

suo agente, il barone Raymond Leplat, che nei primi

anni Venti si trovava a Venezia. Inizialmente destinate

a decorare il giardino dell’Holländisches Palais di

Dresda, le sculture furono trasferite nel 1728 al Grosser

Garten e fortunatamente vennero riprodotte in incisioni

nel Recueil des marbres, pubblicato nel 1733 a

cura dello stesso barone Leplat, poiché nell’Ottocento

l’apparato scultoreo del giardino subì varie alienazioni

e fu smembrato. Le prime sculture di Corradini giunte

a Dresda furono i quattro gruppi raffiguranti Apollo e

Marsia, Zefiro e Flora, Arianna e Bacco e Venere e Adone

che erano stati acquistati a Venezia nel 1722, come

afferma lo stesso barone in una lettera indirizzata al

sovrano del settembre di quell’anno ove li definisce

252 —GENERI E TEMI —

— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. I ATTO — 253



“des mieux assorty par le suiet qui representent, par la

delicatesse du travail incroyable, par la bauté du marble

des plus baux de cararre” tanto che “il ne se trouve

pas catre presse egalle pareyllie ie croy en toutte lheurope”

[40] . Il “Mercure historique et politique” dell’ottobre

successivo diede ampio risalto all’acquisto informando

che “Le Baron de Planes a acheté en cette Ville

[Venezia] pour le Roi de Pologne 4 belles Statues, travaillées

par le célébre Antoine Corradini; & il les a déjà

feites embarquer su un vaisseau, pour être transportées

à Hambourg , & de la à Dresde” [41] . Le lettere del

1722 rivelano anche che i quattro gruppi erano stati

realizzati sei anni prima, nel 1716, mentre una successiva

missiva del conte de Villio, residente sassone

a Venezia, svela l’identità del precedente proprietario,

il marchese romano Pietro Gabrielli, allora dimorante

a Venezia, decisosi a vendere le opere per le momentanee

ristrettezze economiche in cui si trovava [42] . Le

opere successivamente inviate a Dresda furono probabilmente

ordinate a Corradini da Leplat, che infatti

confessò al sovrano il desiderio “que cet sculpteur fasse

quelque dessin pour ancore quelque grouppe”, tra cui

figuravano la Scultura e Verità (fig. 7), oggi a Château

de Ferrières, il Ratto di Proserpina, ora a Waddesdon

Manor, e il Tempo scopre la Verità, ancora collocato al

Grossen Garten e che all’inizio di gennaio del 1724 era

stato esposto prima della partenza in uno dei cortili

delle Procuratie in piazza San Marco, come riportò la

“Gazeta de Lisboa” [43] . Per soddisfare le richieste del

sovrano si era provveduto, oltre che con opere di artisti

francesi e romani, anche con l’invio di lavori di altri due

scultori attivi a Venezia in quegli anni: con la seconda

serie di sculture di Corradini giunsero infatti nella città

sull’Elba il gruppo con Ercole e Iole di Filippo Catasio

e le statue raffiguranti Magnificenza, Magnanimità,

Valore e Gloria di Pietro Baratta [44] .

Già nell’agosto dell’anno precedente, visitando

Venezia, il barone di Montesquieu aveva fornito

testimonianza dei meriti di Corradini annotando

nel suo Voyage en Italie che “il y a un sculpteur a present

a Venise nommeé Corradino Venitien, qui à fait

un Adonis qui paroit une des plus belles choses qu’on

puisse voir” [45] , riferendosi alla statua (fig. 8), ora al

Metropolitan Museum, che, in pendant con una perduta

Venere, si trovava nel palazzo dei nobili Sagredo a

Santa Sofia, alla cui collezione apparteneva anche una

Religione velata dello stesso autore, forse identificabile

con la statua conservata al Louvre [46] . In questi

stessi anni Corradini ricevette da Vienna l’incarico di

eseguire le sculture per la Josephsbrunnen nell’Hoher

Markt, progettata dall’architetto di corte Fischer von

Erlach: le statue – poste sulla fontana a rappresentare

lo sposalizio di Giuseppe e Maria, attorniati da quattro

angeli – furono spedite da Venezia il 30 novembre

1728. Cinque mesi dopo, il 28 maggio del 1729, il nuovo

Bucintoro, in tutto il suo splendore, solcava finalmente

le acque della laguna recando sulla prua, sotto la raffigurazione

dello Zodiaco, la scritta “Antonii Coradini

sculptoris inventum” [47] : quasi un preludio alla partenza

dell’autore. L’anno successivo il “celeberrimo

Sculptore Veneto” era a Vienna, come racconta l’abate

Sampellegrini a Rosalba Carriera, amica di Corradini

fin dal 1718 [48] . Nuovi protagonisti avrebbero calcato il

palcoscenico della scultura veneziana.

37 _ Sulla statua si veda

T. Lavalle-Cobo, Isabel de

Farnesio: la reina coleccionista,

Madrid 2002, p. 79. Si veda

anche M. Klemenčič, Antonio

Corradini: appunti e proposte,

in Artisti in viaggio 1600-1750:

presenze foreste in Friuli Venezia

Giulia, Atti del Convegno

Nazionale (Università di Udine,

Villa Manin di Passariano, 21-23

ottobre 2004), a cura di M. P.

Frattolin, Udine 2005, pp. 289-

304, e Guerriero 2018, p. 161.

38 _ Guerriero 2002, p. 93;

A. Bacchi, Antonio Corradini

e i Sagredo, in Il tempo e

la rosa. Scritti in onore di

Loredana Olivato, a cura di

P. Artoni, E.M. Dal Pozzolo,

M. Molteni, A. Zamperini,

Treviso 2013, pp. 132-133; M.

Klemenčič, Antonio Corradini,

the Collegio dei Scultori, and

Neo-Cinquecentismo in Venice

around 1720, in The Enduring

Legacy of Venetian Renaissance

Art, a cura di A. Badiee Banta,

London-New York 2016, pp. 114,

118 nota 29.

39 _ A. Nava Cellini, La

Scultura del Settecento, Torino

1982, p. 166.

40 _ B. Marx, Diplomaten,

Agenten, Abenteurer im Dienst

der Künste. Kunstbeziehungen

zwischen Dresden und

Venedig, in Venedig – Dresden.

Begegnung zweier Kulturstädte,

a cura di B. Marx e A. Henning,

Dresden 2010, p. 61, doc. 3; S.

Guerriero, Antonio Corradini a

Waddesdon Manor, in Venezia

Settecento. Studi in memoria

di Alessandro Bettagno, a cura

di B.A. Kowalczyk, Cinisello

Balsamo 2015, p. 98.

42 _ “Mercure historique

et politique””, 1722, p. 383.

Nel “Foglio di Foligno” è

specificato inoltre che i lavori

del “celebre Veneto scultore”

furono “spediti alla Maestà del

Rè di Polonia” il 3 ottobre del

1722 (“Foglio di Foligno”, 41, 9

ottobre 1722).

42 _ Il millesimo 1716 è

inciso sui due gruppi firmati

raffiguranti ciascuno un

Centauro intento a rapire una

fanciulla, collocati ancora oggi

al Grossen Garten, non citati

dai documenti settecenteschi,

ma che potrebbero aver fatto

parte integrante dell’insieme

posseduto dal marchese

romano; si veda Guerriero 2015,

pp. 98-99, anche sul destino

toccato alle sculture dopo la

dispersione ottocentesca.

43 _ Ibidem e Guerriero

2018, p. 162.

45 _ Marx 2010, pp. 41-42.

46 _ Voyages de Montesquieu,

a cura di A. de Montesquieu,

Bordeaux, 1894, I, p. 65.

L’attribuzione corretta del

marmo si deve a T. Montanari,

“A Thing of Beauty”: Antonio

Corradini’s Rediscoverd

Masterpiece, in One of the

most Beautiful Things. A

rediscovered Masterpiece by

Antonio Corradini, catalogo

della mostra (New York, Moretti

Fine Art Gallery-Adam Williams

Fine Art Gallery) a cura di A.

Butterfield, New York 2013, pp.

12-45; per l’identificazione del

soggetto e della provenienza

dalla collezione di Zaccaria

Sagredo si veda nota 38.

46 _ Si veda nota 38.

47 _ Urban 2009, p. 178.

48 _ Cfr. Cogo 1996, pp.

97-98.

FIG. 8

ANTONIO CORRADINI

Adone, particolare.

New York, Metropolitan

Museum

254 —GENERI E TEMI —

— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. I ATTO — 255



MONICA

DE VINCENTI

FIG. 1

GIOVANNI BONAZZA

Modellino per l'Adorazione dei

Magi della Cappella

del Rosario ai Santi

Giovanni e Paolo.

Collezione privata

1 _ M. De Vincenti, Antonio

Tarsia (1622-1739), “Venezia

Arti”, 10, 1996, p. 53.

2 _ G. Cirillo, G. Godi, L’arte

in villa Pallavicino a Busseto,

“Parma nell’Arte”, fsc. unico,

1988, p. 25.

3 _ M. De Vincenti,

“Compagni nel studio”: Gaetano

Susali e Francesco Cadorin,

scultori veneziani, “Venezia

arti”, 17-18, 2003-2004, pp.

79-88.

4 _ A. Niero, Tre artisti

per un tempio. S. Maria del

Rosario-Gesuati Venezia, a cura

di R. Rugolo, Venezia 2006, pp.

29, 61.

5 _ P. Del Negro, L’Accademia

di belle arti di Venezia dalle

origini al 1806, in L’Accademia

di belle arti di Venezia.

Il Settecento, a cura di G.

Pavanello, I, Crocetta del

Montello 2015, p. 73.

GENERI

E TEMI

SCULTURA

V EN EZ I A NA DEL

S E T T E C E N T O.

II ATTO

All’inizio del quarto

decennio del secolo la scena della scultura veneziana

si presenta priva di alcuni dei suoi protagonisti: Pietro

Baratta aveva lasciato la città nel 1727 ed era morto a

Carrara due anni dopo, Antonio Tarsia dichiarava ufficialmente

nel 1735 di non possedere bottega “da tanto

tempo” [1] mentre il suo celebrato allievo, Antonio

Corradini, si era già trasferito a Vienna.

Della prima compagine di classicisti rimaneva

ancora attivo a Venezia l’anziano Giuseppe Torretti

(1664-1743), coadiuvato dal nipote Giuseppe Bernardi

(1694-1773), futuro maestro di Canova, che sino alla

morte dello zio si trovò tuttavia costretto ad operare

“con le mani legate” poiché essendogli “sogieto”

non poteva manifestare il proprio “charatere”, come

egli stesso rivela in una lettera del 1745 indirizzata al

marchese Alessandro Pallavicino [2] . Gaetano Susali

(1697-1779), altro allievo di Tarsia, nel 1729 si aggiudicava

invece la realizzazione delle statue poste in luogo

di pala su tutti gli altari di San Marcuola, chiesa rifabbricata

da Giorgio Massari, il più importante architetto

del periodo. Il tour de force, portato a termine tra

1735 e 1736 con l’ausilio del socio di bottega Francesco

Cadorin [3] , procurerà a Susali la commissione dell’allegoria

della Prudenza, eseguita nel 1736, per la decorazione

della facciata della chiesa dei Gesuati, altro progetto

di Massari a cui parteciparono anche Francesco

Bonazza, Giuseppe Torretti e Alvise Tagliapietra [4] . In

seguito, tuttavia, la sostanziale incapacità di evolvere

il proprio stile dai modi del maestro e di emanciparsi

dalla suggestione dell’amico Corradini relegherà Susali

a un ruolo secondario.

La partenza di Corradini alla fine del 1729 aveva

privato la scultura veneziana della personalità creativa

più incisiva. Egli, in effetti, aveva saputo imporre un

preciso gusto attirando l’attenzione del pubblico europeo

anche attraverso una sorta di moderno battage,

sostenuto da alcuni nobili patrizi ed esponenti del

“civil cetto” [5] , attuato mediante esposizioni pubbliche

delle opere da lui realizzate, riprese e diffuse immediatamente

dalle gazzette del tempo [6] . Per gli artisti

veneziani, più o meno giovani, Corradini rimaneva

il modello con cui confrontarsi: infatti, Antonio Gai

(1686-1769) e Giovanni Maria Morlaiter (1699-1781) si

cimenteranno entrambi sul suo “cavallo di battaglia”,

la Fede velata. Il primo lo svolgerà per l’altar maggiore

della chiesa di San Vidal nel 1730, il secondo per l’altare

della chiesetta di villa Baglioni a Massanzago circa

cinque anni dopo [7] . Entrambi affronteranno la prova

gareggiando con Corradini in virtuosismo tecnico,

ma alla ricerca di una cifra personale che sortirà di lì a

poco per Gai in una declinazione più intellettualizzata

di classicismo e per Morlaiter in un Rococò “della specie

più pura” [8] .

Gli anni Trenta a Venezia sono ancora caratterizzati

da un fermento d’iniziative decorative e

si assiste a un’apertura anche verso artisti che ben

poco concedevano al gusto classicista. Alto inoltre

rimaneva l’interesse per due generi che avevano costituito

una peculiarità degli artisti attivi in Veneto sin

dal Seicento: la scultura da galleria, ora richiesta

anche dai collezionisti d’oltremanica, e la statuaria da

giardino [9] .

— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. II ATTO — 257



All’architetto Giorgio Massari si lega ancora

uno dei più importanti cicli scultorei veneziani di

questi anni, condotto come impresa corale da anziani

maestri e da artisti nati alla fine del Seicento, già

attivi sin dagli anni Venti. Si tratta della decorazione

del recinto marmoreo presbiteriale della cappella

del Rosario nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo,

che venne eseguita tra 1729 e 1738 da alcuni dei “più

accreditati autori viventi” [10] : una vera e propria “galleria

di scultura”, composta da dieci rilievi, in grado

d’illustrare, nonostante le ferite inferte dal disastroso

incendio del 1869, il variegato panorama artistico del

momento ove convivevano, insieme al classicismo di

Giuseppe Torretti e di Francesco Bonazza, l’eccentrico

linearismo dell’ultimo Cabianca e diverse declinazioni

della tradizione barocca veneziana: dal naturalismo

descrittivo e bonario dell’anziano Giovanni Bonazza,

alla briosa grazia di Alvise Tagliapietra, sino al Rococò

del suo talentuoso allievo, Giovanni Maria Morlaiter.

Giovanni Bonazza (1654-1736), tra i più originali

scultori italiani operanti tra Sei e Settecento,

è l’autore dei due più grandi rilievi dell’insieme raffiguranti

l’Adorazione dei pastori e quella dei Magi, che

furono portati a termine con l’aiuto dei figli Tommaso

e Antonio, a chiusura di un’attività vastissima svolta

dal 1697 risiedendo a Padova. Commovente è soprattutto

il modellino della seconda scena (fig. 1), recentemente

rintracciato, del tutto dovuto alla mano del vecchio

maestro, che nel 1730 fu preferito all’impressionistica

terracotta del giovane Morlaiter, custodita nel

Museo del Settecento veneziano di Ca’ Rezzonico [11] .

Il tono intimo e partecipato della terracotta di

Giovanni si stempera nella resa della traduzione

marmorea, licenziata nel 1732, in una “varietas pittoresca

che sposa, nel ritmo cadenzato della struttura

compositiva, l’esotico e il popolaresco alla citazione

colta” [12] . Qui, nelle proporzioni più gentili

e snelle dei personaggi, sembra di poter avvertire

la presenza del geniale figlio Antonio (1698-1763),

attivo soprattutto nella terraferma, che all’inizio degli

anni Quaranta seppe arricchire i giardini delle ville

venete di nuovi straordinari soggetti rivolgendosi

inizialmente al repertorio degli intermezzi teatrali

di primo Settecento per poi ispirarsi alla realtà: aristocratici,

borghesi e popolani colti nelle più comuni

azioni di vita quotidiana, in sintonia con la pittura

degli interni domestici e delle scene campestri di

Pietro Longhi [13] .

FIG. 2

GIOVANNI MARIA

MORLAITER

Busto muliebre. Dresda,

Staatliche Kunstsammlungen

FIG. 3

GIOVANNI MARIA

MORLAITER

Busto muliebre. Dresda,

Staatliche Kunstsammlungen

6 _ Si veda S. Guerriero,

Sculpteurs vénitiens pour les

cours et les collectionneurs

d’Europe, in Éblouissante Venise.

Venise, les arts et l’Europe ai

XVII e siecle, catalogo della

mostra (Paris, Grand Palais,

Galeries nationales) a cura di C.

Loisel, Paris 2018, pp. 160-164.

7 _ Per la datazione della

prima statua si veda L. Moretti,

Notizie e appunti su G.B.

Piazzetta, alcuni piazzetteschi e

G.B. Tiepolo, “Atti dell’Istituto

veneto di Scienze, Lettere e

Arti”, CXLIII, 1984-1985, p. 383;

l’attribuzione della seconda si

deve a G. Pavanello, Le statue

della chiesetta di villa Baglioni

a Massanzago, in Venezia, le

Marche e la civiltà adriatica per

fessteggiare i 90 anni di Pietro

Zampetti, a cura di I. Chiappini

di Sorio, L. De Rossi, “Arte

documento”, 17-19, 2003, pp.

483-484.

8 _ C. Semenzato, La

scultura veneta del Seicento e del

Settecento, Venezia 1966, p. 63.

9 _ S. Guerriero, Il

collezionismo di sculture

moderne, in Il collezionismo

d’arte a Venezia. Il Seicento, a

cura di L. Borean e S. Mason,

Venezia 2007, pp. 43-61; e

P. Rossi, Il collezionismo di

sculture tra antico e moderno, in

Il collezionismo d’arte a Venezia.

Il Settecento, a cura di L. Borean

e S. Mason, Venezia 2009, pp.

48-63.

10 _ P.A. Pacifico, Cronica

Veneta sacra e profana, Venezia

1736, p. 168. Sul ciclo scultoreo

fondamentale il contributo di

S. Guerriero, I rilievi marmorei

della Cappella del Rosario ai

santi Giovanni e Paolo, “Saggi e

memorie di storia dell’arte”, 19,

1994, pp. 161-189.

11 _ Sulle vicende legate

alle terrecotte originali

settecentesche e a quelle

realizzate nell’Ottocento si veda

M. De Vincenti, L’Adorazione

dei Magi di Giovanni Bonazza,

Milano 2017.

12 _ G. Pavanello, Il

Settecento. La scultura, in Storia

di Venezia. Temi L’arte, II, Roma

1995, p. 461.

13 _ Vertice di questa

produzione è il complesso

di statue del giardino di villa

Widmann a Bagnoli, si veda M.

De Vincenti, Antonio Bonazza

e l’ingresso della “scultura di

costume” nel giardino della villa

veneta, in Antonio Bonazza e la

scultura veneta del Settecento,

Atti della Giornata di Studi

(Padova, Museo Diocesano,

25 ottobre 2015), a cura di C.

Cavalli e A. Nante, Verona 2015,

pp. 99-134.

14 _ S. Guerriero, Profilo di

Alvise Tagliapietra (1670-1747),

“Arte Veneta”, 47, 1995, pp.

43-45.

15 _ Ivi, pp. 32-51, e Id. 1994,

pp. 163-165,169.

16 _ Sul rapporto tra scultore

e pittore si veda da ultimo

M. De Vincenti, Giovanni

Maria Morlaiter “alter ego” di

Sebastiano Ricci in scultura,

in Sebastiano Ricci. Il trionfo

dell’invenzione nel Settecento

veneziano, catalogo della mostra

(Venezia, Fondazione Cini) a

cura di G. Pavanello, Venezia

2010, pp. 137-143.

17 _ Per il catalogo completo

si veda M. De Vincenti, Catalogo

del “fondo di bottega” di Giovanni

Maria Morlaiter, “Bollettino dei

Musei Civici Veneziani”, ser. III, 6,

2011, pp. 7-77.

18 _ De Vincenti 2010, pp.

138-140.

19 _ Qualche esemplare in M.

De Vincenti, Nuovi contributi

per il catalogo di Giovanni

Maria Morlaiter, “Saggi e

memorie di storia dell’arte”,

23, 1999, pp. 58-63, figg. 36-39,

43-48; S. Guerriero, in Per un

Atlante della Statuaria Veneta

da Giardino, IV, a cura di M. De

Vincenti, S. Guerriero, “Arte

Veneta”, 65, 2008, pp. 278-290.

20 _ G. Moschini, Della

letteratura veneziana, III,

Venezia 1806, p. 100.

Discepolo di Enrico Merengo, a sua volta

allievo di Giusto Le Court, Alvise Tagliapietra (1670-

1747) predilesse sempre composizioni ariose protese

alle leggiadrie decorative del Barocchetto che venivano

apprezzate all’inizio del secolo soprattutto in

provincia [14] . Nel cantiere domenicano Tagliapietra

fu invece scelto da Massari per svolgere il ruolo di suo

“uomo di fiducia” sovraintendendo ai lavori e realizzando

anche due rilievi, la Visitazione di Santa Maria

Elisabetta e la Purificazione della Beata Vergine, che

firmò congiuntamente al figlio Carlo (1703-1787) [15] .

Il suo allievo Giovanni Maria Morlaiter, padre del pittore

Michelangelo e dello scultore Gregorio (1738-

1784), eseguì invece le scene della Disputa di Gesù nel

Tempio e il Riposo nella fuga d’Egitto, poste in opera

rispettivamente nel 1735 e nel 1738, che sembrano

voler tradurre nel marmo l’impeto dinamico, il gioco

marcato di luci ed ombre e l’eleganza formale della

pittura di Sebastiano Ricci, della cui casa lo scultore

fu assiduo frequentatore, insieme ad Anton Maria

Zanetti il Vecchio, al console Joseph Smith e ai pittori

Fontebasso e Polazzo. La conoscenza diretta delle

opere di Ricci e della loro genesi fornì a Morlaiter

un’indicazione metodologica e un repertorio iconografico

a cui l’artista farà ricorso sia nella formazione

del proprio vocabolario, sia nella piena maturità [16] .

La vicenda artistica di Morlaiter si lega a quella

dell’architetto Massari, che lo scelse quale collaboratore

in molti dei progetti realizzati in circa trent’anni.

Il frutto più importante di tale sodalizio, sostanziato

da affinità di gusto e da comunione d’intenti, è, senza

dubbio, l’intera decorazione scultorea della chiesa

veneziana dei Gesuati che occupò lo scultore tra 1737 e

1755. Le sei statue annicchiate e le otto scene a rilievo

sovrapposte risaltano con la loro luminosità fratta

e vibrante nel candore dell’interno neopalladiano e

appaiono in piena consonanza anche col soffitto affrescato

da Giambattista Tiepolo e con le pale d’altare.

La qualità “pittorica” della scultura di Morlaiter

è immediatamente rilevabile nel prezioso corpus di

modelli e bozzetti in terracruda e terracotta, “fondo”

della bottega dell’artista venduto dalle sue eredi nel

1806 a Marcantonio Michiel e confluito infine nelle

collezioni del Museo del Settecento veneziano di Ca’

Rezzonico [17] . Queste opere conservano, infatti, tutta

la fragrante pregnanza del gesto creativo di Morlaiter

offrendo una più vivida impressione della sua idea di

scultura, levitante e aerea, e paragoni più immediati

con la pittura contemporanea come accade nel già

citato rilievo dell’Adorazione dei re magi, datato 1730,

di raffinatissima fattura, ove si colgono riferimenti suggestivi

a opere di Ricci all’epoca possedute dagli amici

Joseph Smith e Anton Maria Zanetti il Vecchio [18] .

Come la maggior parte dei suoi colleghi veneziani,

anche Morlaiter si dedicò alla scultura da collezionismo.

Sebbene il catalogo sia ancora limitato

[19]

, tale genere è documentato da varie terrecotte e

terrecrude del già citato “fondo di bottega” raffiguranti,

tra l’altro, piccoli busti femminili e putti paffuti

intenti in varie attività. Moschini annotava nel 1806

– attingendo forse alle testimonianze dirette delle

eredi di Morlaiter – che l’artista aveva eseguito “molti

gruppi e molte statue per la Corte della Sassonia, e

varie statue e varj bassi rilievi per l’immortale imperatrice

delle Russie Cattarina” [20] . Sebbene non siano

ancora chiari i termini della commissione della corte

di Dresda, è probabile che vi fossero compresi i quattro

aggraziati busti muliebri a soggetto allegorico,

caratterizzati dai tipici dolci lineamenti, che si conservano

nella Skulpturensammlung degli Staatliche

Kunstsammlungen (figg. 2-3) [21] . Possediamo invece

notizie circostanziate sulla commissione russa che

risale al 1764 e che coinvolse, oltre a Morlaiter, anche i

classicisti Bernardi e Marchiori. In quell’anno gli artisti

furono incaricati dall’ambasciatore russo a Vienna

d’eseguire statue e rilievi per la dacia di Caterina II a

Oranienbaum, che giunsero a destinazione nel 1767.

Morlaiter scolpì le allegorie della Fortezza e della

Prudenza, oltre al rilievo con la Fuga di Enea da Troia,

Marchiori eseguì invece le statue della Clemenza e della

Vigilanza, e il rilievo col Ratto di Elena, Bernardi fornì

infine le allegorie della Scultura, della Pittura, dell’Architettura

e della Matematica [22] . Le sculture furono

trasferite all’epoca dello zar Paolo I nella residenza di

Gatčina, dove ancora oggi si conservano e dove pure,

come documentano delle foto storiche, si trovavano

almeno altre due opere di Morlaiter, di cui non si aveva

notizia, raffiguranti Giove e Cerere, i cui resti si conservano

attualmente nel vicino Palazzo del Priorato [23] .

Tra gli scultori selezionati dall’ambasciatore

russo nel 1764 non appare Antonio Gai, “le grand Gai”,

il “demi Michel-Ange” veneziano, l’unico scultore

258 —GENERI E TEMI —

— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. II ATTO — 259



FIG. 4

ANTONIO GAI

Diana.

Celdridge, Castletown House

FIG. 6

David.

Venezia, chiesa di San Rocco

FIG. 5

ANTONIO GAI

Apollo

Ferrières-en-Brie,

Château de Ferrières

degno di nota in Italia secondo l’opinione dell’ambasciatore

svedese a Vienna, Carl Gustav Tessin,

espressa in una lettera del 1736 all’intendente di corte

di Stoccolma in cui elenca pregi e difetti degli artisti

conosciuti in Laguna [24] . Gli inizi di scultore in pietra

di questo raffinato interprete di un classicismo

colto e intellettualizzato risalgono agli inizi del decennio

precedente, come afferma il suo primo biografo,

Tommaso Temanza, e come confermano le carte d’archivio

[25] . Tuttavia, perduti tali lavori, rimangono a

documentare questa fase artistica solo poche statue

certe, tutte realizzate dopo il 1727: le allegorie firmate

dell’Udire e del Vedere dello scalone di villa Giovanelli

a Noventa Padovana (1727-31) e le statue della già

citata Fede velata e della Fortezza della chiesa veneziana

di San Vidal (1730), che denotano virtuosismo

tecnico e uno stile dinamico e decorativo. Ai primi

anni Venti, tuttavia, dovrebbe risalire il monumentale

busto ritratto raffigurante, probabilmente, il volitivo

Giovanni Emo in veste di bailo – carica rivestita tra il

1720 e il 1724 – di recente attribuito a Gai, che presenta

una resa del drappeggio e una verve analoghe,

in effetti, alle allegorie realizzate nello stesso torno di

anni per il palazzo dei Pisani di Santo Stefano, ora al

Walters Art Museum di Baltimora [26] .

Nel 1730 l’artista subentrò a Corradini sia

nella carica di priore del Collegio, sia in quella di scultore

“ufficiale” della Repubblica, e in conseguenza gli

furono assegnate tutte le più importanti commissioni

pubbliche del momento, tra cui le “portelle” in bronzo

della Loggetta di piazza San Marco (1733), forse la sua

opera più celebrata, esempio di un’originale vena decorativa

che rinvia ai motivi in voga nell’intaglio ligneo.

Alla sommità del cancello bronzeo stanno le allegorie

21 _ Le opere recano i

seguenti numeri di inventario:

1728 Bl. 054 Nr. 000a

(anonimo); 1765 Bl. 202 Nr. B

074 (anonimo); 1765 Bl. 202

Nr. B 067 (anonimo); 1765 Bl.

202 Nr. B 069 (attribuito a

Heermann, Paul); opere citate in

Guerriero 2018, p. 166, nota 52.

22 _ S. Androsov, Da Pietro I

a Paolo I. Mecenati russi e scultori

italiani nel XVIII secolo, in

Canova all’Ermitage. Le sculture

del museo di San Pietroburgo,

Venezia 1991, pp. pp. 32-33.

23 _ Le opere sono

attualmente oggetto di uno

studio da parte della scrivente.

24 _ Trascrizione completa

in M. Magrini, Giambattista

Tiepolo e i suoi contemporanei,

in Lettere artistiche del

Settecento Veneziano, a cura

di A. Bettagno, M. Magrini,

Vicenza 2002, pp. 80-84; De

Vincenti 2002, p. 245.

25 _ Si veda De Vincenti

2002, pp. 242.

26 _ S. Guerriero, Per un

repertorio della scultura veneta

del Sei e Settecento, “Saggi e

memorie”, 33, 2009, pp. 210, 255;

Id. 2018, p. 23; A. Bacchi, Antonio

Gai, in A Taste for Sculpture V.

Marble, bronze, terracotta, ivory

and wood (15th to 20th centuries),

a cura di A. Bacchi, London 2018,

pp. 88-95. Per le statue di palazzo

Pisani si veda G. Pavanello,

Antonio Gai’s Statues for Palazzo

Pisani Rediscovered in Baltimora,

“The Journal of the Walters Art

Musuem”, LX/LXI, 2002, pp.

27-31.

27 _ F. Benuzzi, Antonio Gai

(1686-1769), Tesi di dottorato,

XXV ciclo, Università Ca’

Foscari, relatore M. Frank,

Venezia 2013, pp. 106-107 cat.

23; Éblouissante Venise 2018, p.

22 con figura.

28 _ Sul rapporto d’amicizia

tra i due, attestato da una

caricatura di Zanetti che reca la

data 25 luglio 1732, rimando a

De Vincenti 2002, pp. 243-244.

29 _ Sull’impresa editoriale

si veda C. Crosera, Il volume

Delle antiche statue greche e

romane, in La vita come opera

d’arte. Anton Maria Zanetti e

le sue collezioni, catalogo della

mostra (Venezia, Ca’ Rezzonico)

a cura di A. Craievich, Crocetta

del Montello 2018, pp. 263-275.

30 _ T. Temanza, Zibaldon

[1738-1778], a cura di N. Ivanoff,

Venezia-Roma 1963, p. 30; De

Vincenti 2002, pp. 243-244.

31 _ L’opera, alta 149 cm,

è stata ritenuta di artista

sconosciuto: “French School,

late 18th century”, da D. Griffin,

Castletown: Decorative Arts,

Dublin 2011, p. 207; cat. No.

FC109.

32 _ Inv. NMDrhSk 115;

opera rintracciata da F. Benussi,

Uno scultore veneziano del

Settecento e le sue commissioni

europee: l’esempio di Antonio

Gai, in La storia dell’arte a

Venezia ieri e oggi: duecento

anni di studi, Atti del Convegno

Nazionale (Venezia, Ateneo

Veneto, 5-6 novembre 2012),

a cura di X. Barral i Altet e M.

Gottardi, “Ateneo Veneto”, ser.

III, 200, 2013, p. 353.

33 _ Cfr. Ivi, p. 344; il

Meleagro è stato identificato da

Pavanello 1995, p. 466.

34 _ Cfr. Guerriero 2018, pp.

163 (fig. 52), 164, 165 nota 34.

della Pubblica felicità e del Governo della Repubblica

assise tra i leoni marciani, che si palesano vicine per

attitudine, tipologia fisionomica e resa dei dettagli al

bozzetto in terracotta alla personificazione di Venezia

con il leone di San Marco di collezione privata [27] .

Nel 1733 Gai era già in rapporto d’amicizia

con Anton Maria Zanetti il Vecchio, che sorprendentemente

compare nel contratto per le portelle bronzee

in qualità di “intendente in tali materie” [28] : fu

proprio la frequentazione di questo straordinario

cosmopolita del Settecento veneziano a sostanziare la

maturazione artistica di Gai. Zanetti, infatti, in quegli

anni portava a termine insieme al cugino la preparazione

dei due magnifici volumi Delle antiche statue

greche e romane, pubblicati nel 1740 e nel 1743, frutto

di un lungo lavoro iniziato nel decennio precedente

che aveva coinvolto intellettuali, collezionisti e curiosi

determinando un diverso approccio verso l’antico e un

raffinamento del gusto [29] . È in questo lasso di tempo

che il catalogo di Gai s’arricchì di un soggetto nuovo,

le figure “all’antica”, che lo stesso Zanetti collezionò,

come ricorda il Temanza [30] : marmi dai soggetti non

sempre perspicui, ricercati da collezionisti veneziani

e stranieri – come le “velate” di Corradini –, di cui

sono fulgidi esempi l’inedita Diana (fig. 4), leggiadra

come una danzatrice, conservata a Castletown House

(Celbridge) [31] , e le due statue, firmate, del castello di

Ferrières, raffiguranti un’adolescente e fulgido Apollo

260 —GENERI E TEMI —

— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. II ATTO — 261



(fig. 5) e una Musa solenne: opere quasi neoclassiche

nella loro valenza culturale e nella tecnica di lavorazione

del marmo, candido e levigatissimo, tesa a ricreare

la perfezione ideale dei modelli greci e romani.

Grazie all’intermediazione di Zanetti, anche

il conte Tessin, suo prestigioso amico, acquisì “una

figura sedente” di Gai identificata nell’Allegoria della

scultura, ora nelle collezioni del Nationalmuseum

di Stoccolma [32] , così come pure fece il console britannico

Joseph Smith che, secondo Temanza, commissionò

una serie di sculture “sull’antico” da inviare

oltremanica di cui doveva far parte il Meleagro del

Metropolitan Museum, firmato e datato 1735 [33] . Altre

simili statue, raffiguranti le allegorie della Prudenza e

della Fortezza, entrarono tra 1733 e 1735 nella prestigiosa

collezione veneziana del maresciallo Johannes

Matthias von der Schulenburg, trasferita nel 1739 nel

palazzo di famiglia a Berlino, e giunsero in seguito,

insieme alla Fede di Corradini, al castello di Hehlen di

proprietà della famiglia a Wolfsburg, come documentano

alcune foto d’epoca [34] . Ignoto è invece il destino

toccato ai vari, virtuosistici gruppi bronzei e marmorei

commissionati dal maresciallo all’estroso e ricercatissimo

Francesco Bertos, “des choses jamais vues” e “très

copieux des figures entaillé [sic] d’une pièce”, raffiguranti

La Pittura e la Musica e La Scultura, l’Aritmetica

e l’Architettura [35] .

A partire dagli anni Quaranta il primato di

Antonio Gai venne insidiato da un altro straordinario

scultore, Giovanni Marchiori (1696-1778) [36] . Di origine

agordina, Marchiori era giunto a Venezia nel 1708

per formarsi come intagliatore e qui rimase sino al

1757 circa, quando si trasferì a Treviso. Suo capolavoro

nell’intaglio sono i rilievi per gli armadi della sala superiore

della Scuola Grande di San Rocco, commissionati

nel 1741, scene classicheggianti dal formato allungato

che risentono della lezione di Torretti, con sfondi

dagli spessori appena emergenti resi magistralmente.

Nel campo della scultura marmorea Marchiori s’impose

all’attenzione pubblica nel 1744 con le due statue

poste in controfacciata, ai lati dell’ingresso, della

chiesa di San Rocco: la Santa Cecilia e il David (fig. 6),

FIG. 7

GIOVANNI MARCHIORI

Saffo.

Providence, Rhode Island

School of Design Museum

of Art

FIG. 8

GIOVANNI MARCHIORI

Sacerdote antico.

Maincy, Château de

Vaux-le-Vicomte

35 _ A. Binion, La galleria

scomparsa del maresciallo von

der Schulenburg: un mecenate

nella Venezia del Settecento,

Milano 1990, passim. Cfr. anche

C. Avery, Bertos. The Triumph

of Motion Torino 2008, pp.

212-215, catt. 108-109; C. Avery,

H. Krelling, Feldmarshall,

Feldmarschall und

Kunstsammler Matthias Johann

von der Schulenburg (1661-

1747): ein unbekannter Bestand

von Kunstwerken aus seiner

Sammlung im Besitz der Grafen

von der Schulenburg-Wolfsburg,

Wolfsburg 2011, p. 71.

36 _ Sullo scultore si veda P.

Rossi, Giovanni Marchiori alla

Scuola Grande di San Rocco e

altre opere veneziane, Venezia

2014.

37 _ M. Favilla, R. Rugolo,

Venezia 700. Arte e società

nell’ultimo secolo della

Serenissima, s.l. 2011, p. 259.

38 _ Pavanello 1995, p. 469.

39 _ M. Magrini, Anton

Maria Zanetti il vecchio a

Francesco Algarotti: due

veneziani “cittadini” europei,

“Arte Veneta”, 73, 2016, pp.

227-231.

40 _ Si veda De Vincenti

2002, pp. 248, 281 figg. 60-61.

41 _ Per quest’ultima opera

vedi M. T. De Lotto, Novità su

Giovanni Marchiori e sulla Saffo

per Francesco Algarotti, “Arte

Veneta”, 67, 2010, pp. 172-182;

sulle precedenti De Vincenti

2002, p. 248.

42 _ L’opera è confluita nelle

collezioni dell’Ermitage, per

la sua provenienza vedi A. V.

Kruglov, “Statua marmorea di

Venere nuda, che non fu mai

pubblicata”, “Arte Veneta”, 64,

2007, p. 65 (figg. 34-35).

43 _ A. Angelieri, Saggio

istorico intorno alla condizione

di Este, altra volta stampato

col titolo di Brevi Notizie ed

ora in questa seconda edizione

migliorato ed accresciuto in

molte parti […], Venezia 1745, p.

68. È in corso di pubblicazione

da parte della scrivente uno

studio sull’intero apparato

scultoreo del giardino.

44 _ L. Menegazzi, Disegni

di Giovanni Marchiori, “Arte

Veneta”, XIII-XIV, 1959-1960, p.

152, fig. 198.

45 _ Menegazzi 1959-1960,

pp. 150-151

46 _ Giusta l’opinione di

A. Craievich, “Avendo l’arte

sua per fine principalissimo il

diletto”: note su alcuni disegni

di Francesco Algarotti, “Arte

Veneta”, 60, 2003, pp. 172,

173; si vedano in particolare

le teste riprodotte nelle figg.

8 e 11. Sulle acqueforti si veda

da ultimo A. Craievich, Scheda

in Giambattista Tiepolo “il

miglior pittore di Venezia”,

catalogo della mostra, Codroipo

(villa Manin di Passariano,

15 dicembre 2012-7 aprile

2013), a cura di G. Bergamini,

A. Craievich, F. Pedrocco,

Passariano Codroipo 2012, pp.

234-235, n. 28 a-g.

47 _ Ivi, p. 173.

48 _ F. Algarotti, Saggio

sopra la pittura, Livorno 1774,

pp. 43, 46.

49 _ “Antologia Romana”, IV,

1778, febbraio, XXXIV, p. 269.

il cui volto, com’è stato osservato, sembra riconducibile

a quello dell’Antinoo della Collezione Grimani [37] .

Ci troviamo di fronte a figure teatrali, senza magniloquenza,

di una perfezione immacolata, chiuse in un

armoniosissimo profilo e animate da un raffinatissimo

gioco di superfici, affini a certi nobilissimi personaggi

tiepoleschi quali si possono ammirare negli affreschi di

villa Cordellina a Montecchio Maggiore [38] .

La manifestazione di un gusto classicista

più rigoroso in Marchiori è legata al rapporto con

Francesco Algarotti, altra figura di intellettuale cosmopolita,

amico carissimo di Anton Maria Zanetti il

Vecchio [39] , in atto sin dal 1740. Nell’anno in cui veniva

stampato il primo volume di Delle antiche statue greche

e romane, Algarotti e il fratello Bonomo commissionarono

allo scultore quattro statue di divinità

classiche e un gruppo raffigurante Annibale che giura

eterno odio ai Romani per la loro villa a Carpenedo di

Mestre; opere che lo scultore condusse con uno stile

antichizzante molto personale [40] . I due fratelli richiesero

poi a Marchiori un busto di Saffo, ora conservato

a Providence insieme all’originale piedistallo ligneo

decorato da Giambattista Crosato, che dello scultore

fu amico (fig. 7) [41] . Quest’opera di dimensioni contenute

è un autentico capolavoro, un’opera ispirata, racchiusa

in un panneggio a fitte pieghe curvilinee tendente

all’astrazione geometrica, mentre il volto, finemente

cesellato, è connotato da un’espressione patetica

prettamente settecentesca. L’ovale è incorniciato

da ciocche di capelli inanellati che sembrano riprendere,

volutamente, l’acconciatura dell’antica e austera

Musa che decorava il palazzo veneziano degli Algarotti

[42]

, simile ad altre statue greche conservate nello

Statuario pubblico. L’alta qualità del busto di Saffo si

ritrova ancora in due inediti Sacerdoti antichi, firmati

da Marchiori (fig. 8), che ornano il parco del castello di

Vaux-le-Vicomte, ove giunsero nel secondo Ottocento

attraverso il mercato antiquario. Le due opere in pietra

tenera furono in verità eseguite per la nobile Chiara

Pisani Moretta, intenta nei primi anni Quaranta a rinnovare

il giardino del vecchio palazzo di famiglia a Este

con il proposito di riunirvi “i più rinomati scalpelli

dello stato Veneto, per arricchirlo di buone Statue, e

d’altri diversi lavori” [43] . L’appartenenza al disperso

ciclo scultoreo dei Pisani trova conferma nei disegni

dell’album di collezione privata, noto sin dal 1960, ove

appaiono le riproduzioni di opere di Marchiori eseguite

per vari committenti, tra cui anche la Pomona

del console Joseph Smith con l’indicazione “fù spedita

a Londra” [44] . Due dei disegni dell’album, recanti la

scritta “in Ca’ Pisani in Este” e la data “1743”, riproducono

infatti la stessa figura, fornendone l’uno la fronte

e l’altro il retro, corrispondente, in ogni particolare,

al Sacerdote che porta sulla spalla la testa recisa di un

animale mentre stringe ancora nella mano la lunga

lama sacrificale [45] . Le due statue denotano un’accuratezza

di intaglio di rara finitezza, a riprova che il

genere della scultura da giardino, tipicamente veneto,

non era affatto considerato meno degno di cura della

scultura in marmo. La testa del Sacerdote, la cui lunga

barba ripropone il motivo delle ciocche inanellate di

Saffo, trova un suggestivo parallelo negli studi grafici

di Francesco Algarotti raffiguranti mascheroni,

profili maschili e muliebri desunti da esempi antichi

come monete e gemme, approntati nei primi mesi del

1744 per visualizzare idee e teorie che andava elaborando

mentre si trovava in contatto con Giambattista

Tiepolo [46] . Queste prove grafiche sono state giustamente

quali frammenti del dialogo culturale intercorso

in quel tempo con il pittore che Algarotti sommergeva

di consigli e proposte nell’intento di “interferire’

il più possibile nell’attività del giovane amico” [47] .

Tale dialogo culturale dovette evidentemente coinvolgere

anche Marchiori, come le statue da giardino di

Chiara Pisani sembrano dimostrare. Torna alla mente a

riguardo un breve passaggio tratto dal Saggio sopra la

pittura di Francesco Algarotti, ove riecheggiano i probabili

contenuti dei colloqui intercorsi con Marchiori

riguardanti l’importanza di studiare le sculture greche:

“rimangono ancora come uno esempio non solo di giusta

simmetria, ma di grandiosità nelle parti, di decoro

e di contrasto nelle attitudini, di nobiltà nel carattere;

ne rimangono insomma come il paragone di ogni

genere, e lo specchio della bellezza”, quindi “il giovane

non potrà mai considerar le greche statue, qualunque

carattere od età ne figurino, che non ci scorga in lor

nuova bellezza” [48] . Il 2 gennaio del 1778 Giovanni

Marchiori moriva, ne dava notizia nel febbraio l’“Antologia

Romana” definendolo “uno de’ migliori artefici

del presente secolo, per il disegno, panneggiamenti, e

delicatezza di scalpello” [49] . L’anno successivo Canova

partiva per Roma.

262 —GENERI E TEMI —

— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. II ATTO — 263



MAUREEN

CASSIDY-GEIGER

durante i regni di Augusto II (1697-1733) e Augusto III

(1733-1763), elettori di Sassonia, che divennero anche

re eletti (ovvero non ereditari) di Polonia. Mentre alcuni

di questi doni rappresentavano una forma di ringraziamento

nei confronti di chi aveva ospitato Friedrich

Christian (1722-1763), principe della corona di Sassonia

che soggiornò a Venezia per sei mesi tra il 1739 e il 1740,

rimangono purtroppo per lo più avvolti nel mistero i

motivi dei doni in porcellana di Meissen antecedenti e

successivi a questa circostanza [3] .

MANIFATTURA MEISSEN

Tazza e piattino con stemma

Gradenigo, particolare.

Trieste, collezione Giovanni

Lokar

1 _ Per esempio, Elbflorenz:

Italienische Präsenz in Dresden

16.-19. Jahrhundert, a cura

di B. Marx, Dresden 2000; e

Venedig – Dresden / Begegnung

zweier Kulturstädte, a cura di B.

Marx e A. Henning, Dresden-

Leipzig 2010. Anche P. Kerber,

Eyewitness Views / Making

History in Eighteenth-Century

Europe, Los Angeles 2017.

2 _ Artisti, musicisti, medici,

segretari, cuochi e droghieri

provenienti dai vari Stati italiani

trovavano abitualmente impiego

presso la corte di Dresda.

3 _ Fragile Diplomacy /

Meissen Porcelain for European

Courts, ca. 1710-63, catalogo

della mostra (New York, The

Bard Graduate Center for

Studies in the Decorative Arts,

Design, and Culture) a cura di

M. Cassidy-Geiger, New Haven

2017. Per quanto riguarda il

tour del principe in Italia, cfr.

M. Cassidy-Geiger, Die Grande

Kur 1738-1740 / The Grand

Cure 1738-1740 (brochure

esposizione Dresda, 2018) e

comtedelusace.wordpress.com.

GENERI

E TEMI

F R AGI L I D ON I

PER L A

SERENISSIMA:

SERVIZI ARALDICI

DI M EISSEN

PER IL PATRIZIATO

VENEZIANO

Le relazioni culturali e artistiche

intercorse tra la corte reale di Sassonia e gli Stati

italiani a partire dal Rinascimento fino a tutto il XVIII

secolo sono da tempo oggetto di interesse e studio tra

accademici e storici dell’arte a Dresda e in altre nazioni

[1]

. Traendo spunto dalle opere d’arte e dagli archivi che

sono sopravvissuti fino a oggi, Venezia rappresentava

un punto di passaggio obbligato per le persone, i prodotti

alimentari, le manifatture commerciali e i doni

che si spostavano regolarmente tra Dresda da un lato e

lo Stato pontificio e il Regno di Napoli dall’altro [2] . La

Serenissima fu anche destinataria di almeno una dozzina

di ricchi servizi realizzati in fragile porcellana di Meissen

La Real Fabbrica di Porcellane (Königliche

Porzellan-Manufaktur) dello stato principesco di

Sassonia, nell’attuale Germania, venne fondata ufficialmente

nel 1710 all’interno del castello di Meissen, nei

pressi di Dresda. Ancora attiva ai giorni odierni come

Manifattura statale di porcellane (Staatliche Porzellan-

Manifaktur), la fabbrica e gli oggetti ivi prodotti da trecento

anni sono noti colloquialmente come “Meissen”.

Manifattura di grande prestigio paragonabile all’Opificio

delle pietre dure dei Medici o alla Manifattura dei

Gobelins dei re francesi, la porcellana di Meissen fu un

tesoro nazionale che funse principalmente da mezzo

di rappresentanza per la decorazione delle residenze

reali e divenne rapidamente il dono diplomatico per

eccellenza della corte sassone, sostituendo gli oggetti

di serpentino levigato proveniente dalle cave locali.

Meissen fu la prima fabbrica in Europa a produrre la

porcellana a pasta dura secondo procedimenti simili a

quelli noti in Cina e Giappone, ispirando così la fondazione

di simili manifatture in tutta Europa, tra cui le

celebri Vezzi (1720-27) e Cozzi (1764-1804) a Venezia.

Sin dall’avvio dell’azienda, il dono standard di

porcellane Meissen era rappresentato da un servizio da

tè, caffè o cioccolata. Nel tempo, e grazie ai miglioramenti

della tecnologia, vennero introdotti anche

serie di vasi e servizi da tavola degni di nota. Le forme

della gamma iniziale prendevano spunto dagli oggetti

in metalli preziosi, da porcellane e lacche asiatiche e

da piccole sculture di zucchero, avorio e bronzo presenti

nelle collezioni reali di Dresda. I cosiddetti

“modellatori” avevano il compito di ideare e realizzare

gli stampi delle forme di porcellana che venivano

poi invetriate e decorate da pittori esperti in colori a

smalto, dove ogni passaggio richiedeva poi la cottura

—FRAGILI DONI PER LA SERENISSIMA — 265



in forno. La base di porcellana bianca invetriata era

come una tela per dipinti in miniatura impreziositi da

cornici dorate. La decorazione di un servizio o di una

serie era uniforme per tutti i pezzi che li componevano,

garantendo così armonia e completezza. Molti

dei doni di Meissen presentavano lo stemma della

persona cui erano indirizzati, un grande favore per lo

studioso moderno. La maggior parte degli oggetti di

Meissen dotati di stemma sono pertanto da considerarsi,

originariamente, doni.

Se si esclude il pregio artistico dell’oggetto, la porcellana

di Meissen non aveva valore intrinseco, e fu proprio

questa sua naturale mancanza di valore, così come

la sua fragilità, che permise la sopravvivenza, fino al XX

secolo, di numerosi esemplari nella stessa casa o città in

cui erano giunti come dono, solitamente in perfette condizioni.

Dopo essere stati consegnati, gli oggetti in porcellana

erano subito destinati al magazzino, o altrimenti

a luoghi nascosti e protetti della casa, dove rimasero per

generazioni, la loro storia perduta fino all’età moderna,

quando i servizi araldici iniziarono a fare la loro comparsa

sul mercato o a essere esposti nei musei. L’interesse

per questi oggetti di porcellana, che fungono anche da

rappresentazione storica, venne definitivamente sancito

nel 2007, con l’esposizione Fragile Diplomacy: Meissen

porcelain for European Courts, ca. 1710-63 [4] .

Ogni servizio da caffè, tè o cioccolata che veniva

donato era un insieme standard composto da una caffettiera,

cioccolatiera o teiera, da un barattolo per il tè,

da una zuccheriera, da una waste bowl, da almeno sei

tazze da tè (rispettivamente con o senza manico) con

piattino, e forse da un paio di tazze per la cioccolata

(fig. 1). Pertanto, ogni pezzo singolo giunto sino a oggi

era in origine parte di un servizio molto più vasto. I

doni in porcellana di Meissen venivano accuratamente

riposti in cassette di legno e trasportati all’estero in

scatole regalo legate in cuoio (“Futteral”), realizzate da

specialisti sassoni che disponevano gli interni adattandoli

ai singoli pezzi, imbottendo e foderando gli spazi

vuoti con seta e guarnizioni in oro (fig. 2). Non si sa

con esattezza se queste scatole contenessero effettivamente

i servizi durante il trasporto, ma erano sicuramente

una parte integrante del dono nel momento in

cui era consegnato. Per esempio, nel resoconto pubblico

della visita del 1741 dell’ambasciatore straordinario

spagnolo Cristóbal Gregorio Portocarrero, conte di

Montijo, a Dresda, il ricchissimo servizio Meissen che

ricevette in dono fu portato nelle sue stanze durante

la sua assenza, tolto dall’imballo di viaggio e disposto

in scatole e cestini su ogni superficie disponibile,

pavimento compreso, per fargli una sorpresa [5] . Non

vi furono deroghe all’uso di presentare piccoli oggetti

preziosi, come tabacchiere e boîtes â portrait (gioielli

contenenti ritratti in miniatura), allo stesso destinatario

nel corso di un’udienza pubblica con il re. I doni

diplomatici più tradizionali e di grande valore sono

tuttavia raramente sopravvissuti fino ai giorni nostri, in

quanto venduti rapidamente oppure modificati o fusi

in seguito. Per contro, la porcellana rappresentava un

omaggio ausiliario e un oggetto di identità nazionale

che, per la complessità del trasporto, del disimballo e

dell’esposizione era consegnato in sede privata.

FIG. 1

MANIFATTURA DI MEISSEN

Servizio da tè, caffè e

cioccolata con lo stemma della

famiglia Contarini. Monaco,

Bayerisches Nationalmuseum

4 _ Fragile Diplomacy 2017.

5 _ “Er fuhr sodann

nach-Hause, und behielt den

Ceremonien-Meister bey sich

zur Tafel. Als sie von derselben

aufstunden, und zusammen

aus dem Speise-Gemach in

sein Zimmer trate, ward er auf

die angenehmste Weise von

der Welt überrascht, da er den

ganzen Fußboden mit einem

völligen Tafel-Aufsatz für 30.

Personen, von ausbündigschönem

Sächsischen Porcellan,

nicht weniger alle Tische und

Schranke mit Caffée- Thée-

Choccolade- und Camin-

Aufsatzen, ebenfalls von dem

kostbarsten hiesigen auf

Miniatur-Art gemahlten und

reich vergüldeten Porcellan,

verschiedener Gattung

vorgestellet, fand. Dieses

Königliche Präsent erweckte

bey demselben, weniger wegen

des Werths, welcher sich auf

etliche tausend Rthlr. belief,

als vielmehr dieserwegen ein

vollkommenes Vergnügen,

weil er selbst ein so grosser

Kenner und ausserordentlicher

Liebhaber des Porcellans

ist, und überdi . . . unserm

Sächsischen, vor allen andern

in der Welt, den Vorzug

beyzulegen pfleget.” Sächs.

Hof- und Staats-Calender

(1742): n.p. [Poi andò a casa, e

tenne con sé a tavola il Maestro

di Cerimonie. Quando si

alzarono e si recarono insieme

dalla sala da pranzo nella sua

camera, rimase piacevolmente

sorpreso scoprendo che tutto

il pavimento era coperto da un

intero servizio da tavola per

trenta persone, di porcellana

di Sassonia straordinariamente

bella, per non parlare di tutti

i tavoli e tutte le credenze

coperti di servizi da caffè,

tè e cioccolata e da vasi da

camino, tutti nella più preziosa

porcellana locale dipinta

con miniature di vario stile

e riccamente dorata. Questo

regalo reale suscitò nella stessa

persona grandissimo piacere,

non tanto per il suo valore, che

ammontava a diverse migliaia

di Reichstaler, ma soprattutto

perché è grande conoscitore e

appassionato di porcellana, e in

particolare preferisce la nostra

porcellana sassone a qualsiasi

altra varietà al mondo].

6 _ Come riportato da

Giulio Contarini in una

relazione ufficiale: “Primo

dover del nostro officio era

quegli d’esponere in nome

publico al Principe le più

affettuose congratulazioni

convenienti allo accoglimento

d’un ospite tanto illustre, e

così si è fatto. Toccato essendo

a me Contarini di rilevargli

nei termini più abbondanti la

consolazione della Republica

al di lui arrivo accresciuto dalla

grata memoria d’aver accolto

FIG. 2

MANIFATTURA DI MEISSEN

Servizio da tè, caffè e

cioccolata con lo stemma

della famiglia Correr, nella

sua scatola di presentazione

originale. Collezione privata

FIG. 3

PIETRO LONGHI

Il principe della corona

Friedrich Christian viene

accolto al confine della

Repubblica di Venezia.

Varsavia, Castello reale

Il matrimonio della principessa sassone Maria

Amalia con Carlo VII, re di Napoli (in seguito re Carlo

III di Spagna), nel 1738, e il Grand Tour compiuto dal di

lei fratello in Italia dal 1738 al 1740 indussero un flusso

costante di doni in porcellana di Meissen verso Napoli,

Roma, Firenze e Venezia. La corrispondenza diplomatica

conservata nell’Archivio di Stato di Dresda, scritta

in francese – l’allora lingua di corte –, documenta il

viaggio dei carri trainati da cavalli o buoi lungo le strade

postali che correvano da Dresda a Palmanova attraversando

il territorio austriaco. Al trasporto erano assegnati

anche scorte militari e corrieri speciali. Questi

ultimi erano artisti, rappresentanti della manifattura di

Meissen o servitori di corte che avrebbero poi dovuto

disimballare, disporre in modo artistico e presentare

formalmente il dono da parte del re. Avevano anche il

compito di riportare al sovrano le reazioni del destinatario.

Sebbene la fabbrica di Meissen detenga un archivio

storico, sono scarne le documentazioni sui doni di

porcellana che giunsero a Venezia. Fortunatamente, la

corrispondenza diplomatica a Dresda offre informazioni

di grande rilievo.

La maggior parte degli oggetti in porcellana

di Meissen inviati a Venezia può essere datata al 1740

circa e reca gli stemmi delle famiglie che ospitarono

Friedrich Christian – o che interagirono in qualche

modo con lui – durante il suo soggiorno veneziano dal

21 dicembre 1739 all’11 giugno 1740. Il principe venne

accolto sulla “Terrafirma” da quattro giovani delegati

che sarebbero stati per lui compagni e guide: Zuan

Alvise I Mocenigo, Giulio Contarini, Piero Correr e

Andrea Querini (fig. 3) [6] . Le stesse famiglie avevano

accompagnato anche suo padre e, prima ancora, suo

nonno nei loro soggiorni veneziani durante il Grand

Tour . Com’era avvenuto per sua sorella, suo padre e

suo nonno, il principe ricevette come tradizionali doni

veneziani un trionfo da tavola in vetro di Murano e

cestini traboccanti di pesce fresco; oggi non v’è traccia

a Dresda dell’opera in vetro.

I doni in porcellana di Meissen per Venezia

furono commissionati attraverso lo scambio di corrispondenza

tra il primo ministro conte Brühl e Joseph

Anton Gabaleon, conte di Wackerbarth-Salmour,

maggiordomo di palazzo del principe. Uno scambio

epistolare del febbraio 1740 riguardava lo stemma

araldico dei Mocenigo-Corner, richiesto per la decorazione

e prontamente fornito a Brühl, il quale a sua

volta inviò il campione ai pittori di Meissen. Alvise IV

Mocenigo e Pisana Corner ospitarono ufficialmente il

principe, anche se in realtà il ragazzo si stabilì sull’altra

riva del canale, a Ca’ Foscari. La famiglia Mocenigo

aveva accolto in passato anche il padre del principe, e di

conseguenza ricevette i doni più preziosi e importanti:

una serie di sette vasi e un servizio unico da tè, caffè e

cioccolata, composto da ventiquattro pezzi (figg. 4, 5

a,b). Ogni elemento del servizio di porcellana era decorato

con gli stemmi inquartati Mocenigo e Corner che

fluttuavano sopra paesaggi terrestri e marini finemente

smaltati, realizzati da Bonaventura Gottlieb Hauer e

aiuti. Le vedute smaltate erano ispirate a incisioni di

proprietà della manifattura di Meissen. I vasi Meissen

erano in genere riservati alle famiglie reali, pertanto il

266 —GENERI E TEMI —

—FRAGILI DONI PER LA SERENISSIMA — 267



dono di un insieme tanto eccezionale a una famiglia

di rango dogale era la testimonianza della particolare

considerazione che i reali di Sassonia riservavano

a questi nobili veneziani. I dipinti miniaturizzati che

ornano tutti gli elementi del dono sono inoltre paragonabili

per qualità e stile a quelli di un servizio Meissen

donato al re e alla regina di Francia nel 1737-41; ciò

sottolinea ulteriormente la stima riservata da Augusto

III ai Mocenigo-Corner. Il tessuto che incornicia le

cartouches, reso con un broccato particolarmente elaborato,

potrebbe riprendere il motivo su cui poggiava

lo stemma fornito a Meissen, e andato perduto.

Per contro, i servizi preparati per i deputati

del principe sono piuttosto semplici: ogni elemento è

decorato con uno stemma in posizione centrale e qualche

ramo di fiori dipinto oppure con una minima smaltatura

del bordo (cfr. figg. 1, 2; catt. VI.16-18). Poiché

i doni di Meissen non furono pronti in tempo per la

partenza del principe, nel giugno 1740, si procedette

con l’acquisto di gioielli in loco per alcune famiglie che

avrebbero ospitato il giovane, mentre ogni delegato

ricevette una boîte â portrait spedita con corriere da

Dresda. L’eventuale arrivo delle porcellane di Meissen

a Venezia non è invece documentato.

Il principe risiedette a Ca’ Foscari, la cui famiglia

ricevette in dono un servizio in porcellana di Meissen

recante il suo stemma e belle miniature dipinte (catt.

VI.31-32). Sono noti anche servizi simili con gli stemmi

araldici dei Morosini (catt. VI.14-15), Pisani Corner (catt.

VI.21-22), Diedo (cat. VI.28) e Gradenigo (catt. VI.33-

35), tutte famiglie citate nei diari del viaggio principesco

in Italia, sebbene le porcellane siano diversamente

datate –1740-45 circa – per motivi stilistici o in base

ai marchi incisi o dorati apposti sul fondo [8] . In un

caso, la data “1743” era incorporata nella decorazione

smaltata su parti del servizio Meissen donato a Piero

Andrea Capello quando fece tappa a Dresda durante

il viaggio per Londra, dove nel gennaio 1744 avrebbe

assunto un incarico diplomatico (cat. VI.13). Capello

aveva cenato con il principe a Venezia nel 1740.

Lo stile decorativo dei primi servizi araldici

veneziani in porcellana di Meissen li data al 1725 circa;

per esempio, lo stemma della famiglia Contarini compare

su parti di un servizio con classici motivi Meissen

di chinoiserie risalente alla metà degli anni venti del

XVIII secolo (fig. 6). Altri servizi dello stesso periodo

recano gli stemmi delle famiglie Grimani (cat. VI.30)

e Da Lezze (catt. VI.25-26). Piero Grimani e Andrea

Da Lezze erano entrambi diplomatici di alto rango.

Le ricerche di questi primi doni nella corrispondenza

diplomatica di Dresda non hanno dato alcun risultato.

Non si sono ancora compresi invece alcuni

doni in porcellana di Meissen inviati a Venezia intorno

al 1750, per esempio quelli recanti gli stemmi dei Da

Ponte (cat. VI.19) e Pisani-Gambara (catt. VI.23-24).

La corrispondenza diplomatica tra il rappresentante

di Sassonia a Venezia, Pietro Minelli, e il conte Brühl

nel periodo 1746-56 riferisce di opere d’arte, musicisti,

tessuti e cioccolato, diretti a Dresda. In cambio, vennero

spediti a Venezia oggetti in porcellana di Meissen

e altri manufatti di produzione sassone, in quanto la

Sassonia era alla ricerca di nuove opportunità commerciali

in Italia attraverso il Veneto [9] . Dopo il periodo in

FIG. 4

MANIFATTURA DI MEISSEN

Parti di un servizio da tè,

caffè e cioccolata con lo

stemma Mocenigo e Corner.

Collezione privata

altre volte sotto lo stesso

nome il Conte di Lusazia, ed in

questa istessa città, l’Augusta

Persona della Maestà di suo

Padre, e da quella più fresca

ancora, di aver pratticate le

più cospicue dimostrazioni

d’onore all’occasione del

passaggio per i Publici Stati,

seguito nell’anno scorso della

Regina delle due Sicilie sua

sorella; soggiungendo infine,

che come le comissioni nostre

erano quelle d’assistere a S. M.

R. E. in maniera corrispondente

all’antica amicizia, ed alla

perfetta estimazione del Senato

per l’Augusta Casa di Sassonia,

così niente s’ommetterebbe da

noi per ben essequirle co la più

accurata attenzione”; Biblioteca

del Museo Correr Venezia,

Cod. Cicogna 1248, Officii

d’Ambassatori in Coleggio e

giurisdizion del Friuli, fols.

21–24v.

7 _ Il principe, come suo

padre e suo nonno, posò

per Rosalba Carriera, il cui

inventario dimostra che

possedeva tazze e piattini di

porcellana, forse alcuni pezzi

dono di Meissen; cfr. L. Moretti,

Rosalba Carriera: l’inventario

dei suoi beni e alcune minuzie

marginali, “Arte Veneta”, 68,

2011, pp. 308-319, in particolare

p. 315, courtesy di Francesca

Stopper e Alberto Craievich.

8 _ I diari sono trascritti

e pubblicati online:

comtedelusace.wordpress.com.

In base ai diari, Vincenzo Maria

Diedo (1699-1753) fu vescovo di

Torcello e Murano.

9 _ È stato suggerito che

le manifatture sassoni fossero

destinate al Fondaco dei

Tedeschi a Venezia; cfr. E. Dal

Carlo, Doni Diplomatici di

Federico Cristiano di Sassonia

ai Nobili Veneziani, “Studi

Veneziani”, N.S., LXVI, 2012, pp.

377-393, in particolare p. 381,

nota 10.

10 _ Sächsisches

Hauptstaatsarchiv Dresden,

10026, Geh. Kab. 2815/1, fol.

306.

11 _ Sächsisches

Hauptstaatsarchiv Dresden,

10026, Geh. Kab., Loc.

2813 – 2818 che contiene la

corrispondenza diplomatica

tra Dresda e l’agente sassone

a Venezia per gli anni 1748-68

con numerosi riferimenti a

questioni commerciali e fiscali.

12 _ È dubbia l’autenticità

del vassoio in porcellana

di Meissen con lo stemma

dei Pisani dominato dal

corno dogale, conservato a

Ca’ Rezzonico, Museo del

Settecento veneziano (inv. Cl. V,

n. 21); la stessa veduta di Piazza

San Marco è visibile su un’alzata

con lo stemma dei Barbarigo,

andata perduta (G. Lorenzetti,

L. Planiscig, La collezione dei

conti Donà dalle Rose a Venezia,

Venezia 1934, tav. XCII, fig. 237).

FIG. 5a

MANIFATTURA DI MEISSEN

Vasi con lo stemma

Mocenigo e Corner.

Collezione privata

FIG. 5b

MANIFATTURA DI MEISSEN

Vasi con lo stemma

Mocenigo e Corner.

Collezione privata

FIG. 6

MANIFATTURA DI MEISSEN

Ciotola da tè e piattino con

lo stemma della famiglia

Contarini.

Collezione privata

cui gli scambi vennero interrotti per via della Guerra

dei sette anni (1756-63), aumentò l’opportunità di doni

in porcellana per il Collegio dei Savi (“gratificatinos

secretes et petits presents ne Porcelaine”) in cambio di

regole doganali meno restrittive [10] . Ovviamente questo

materiale d’archivio garantisce una conoscenza più

ampia e studi più approfonditi [11] . Un ultimo punto

da considerare: destinatarie dei doni in porcellana di

Meissen furono le famiglie nobili veneziane, e mai il

doge, sottolineando così la gerarchia di potere nella

Repubblica [12] .

268 —GENERI E TEMI —

—FRAGILI DONI PER LA SERENISSIMA — 269



FRANCESCA

STOPPER

FIG. 1

VETRERIA DI GIUSEPPE

BRIATI

Lampadario, particolare.

Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento

veneziano

1 _ G. Boesen, Venetianske

Glas På Rosenborg / I vetri

veneziani del Castello di

Rosenborg, Kobenhavn 1960,

p. 49; R. Barovier Mentasti, La

vetraria veneziana, in Storia di

Venezia, Temi. L’arte, II, Roma

1995, p. 895; L. Urban, Banchetti

veneziani dal Rinascimento al

1797, San Vito di Cadore 2007,

pp. 85-87.

2 _ P. Zecchin, I “deseri” di

cristallo a Venezia nel Settecento,

“Journal of glass studies”, 46,

2004, p. 163.

3 _ Ivi, p. 159.

4 _ C. Alberici, Il Mobile

Veneto, Milano 1980, p. 186.

5 _ Venezia, Archivio di

Stato, Savio Cassier, reg. 61,

Regali di Medaglie, e Collane

d’Oro a Ministri Esteri. Si veda:

P. Voltolina, La storia di Venezia

attraverso le medaglie, III,

Venezia 1998.

GENERI

E TEMI

L E A RT I

DECOR AT I V E

Nel corso del Settecento

la Serenissima organizzò straordinarie cerimonie per

accogliere principi e sovrani in visita alla città. Oltre

alla regata e al banchetto, il cerimoniale prevedeva doni

quanto mai ricercati, che la Repubblica destinava ai suoi

ospiti per impressionarli. A Federico IV re di Danimarca

e Norvegia, giunto a Venezia alla fine del 1708, furono

offerti “molti preziosi vetri”, “tanti quanti occorrono per

un servizio [...], che siano piatti piccoli o grandi o altri

fornimenti” [1] . Nel 1752 furono inviati, invece, alle autorità

turche due deseri “a giardino con perter di verdura

tutto di cristallo all’ultima moda” lavorati da Giuseppe

Briati [2] . Qualche anno dopo, vennero presentati

all’Ambasciatore straordinario del re delle Due Sicilie un

trionfo da tavola in vetro, acquistato dalla manifattura

Toninotto, e “frutti di cera [di] varie sorti” modellati da

Giovanni Battista Talamini [3] . Nel 1760 la Repubblica

donava alla moglie dell’Arciduca d’Austria un salotto in

vetro, composto da “un gran specchio, un tavolino, otto

careghe fatte di cristallo finissimo di colore azzurro” [4] .

Per gli ambasciatori stranieri e i loro segretari, infine, il

Senato veneziano era solito commissionare ai più valenti

orefici medaglie d’oro con collane [5] .

Sono solo alcuni dei numerosi doni diplomatici

ordinati dalla Serenissima ai suoi artigiani nel

corso del XVIII secolo; ma la lista potrebbe continuare.

Vetri, cere, mobili, oreficerie: nel dimostrare la sua ricchezza,

il governo veneziano si affidava all’abilità delle

sue manifatture. Si tratta di operazioni assai costose,

annotate scrupolosamente nei registri delle magistrature

del Savio Cassier e degli Ufficiali alle Rason

vecchie, che la Repubblica si sobbarcava non solo per

abbagliare i suoi ospiti, ma anche in segno di alleanza

e amicizia. Tuttavia attraverso questi documenti noi

abbiamo il metro di giudizio dei contemporanei sulle

arti, un censimento della produzione d’élite dello stato

e informazioni sugli artigiani che servivano ufficialmente

la Serenissima [6] . Nonostante la pittura veneziana

avesse raggiunto nel Settecento un’importanza

internazionale, il governo non incaricava i suoi artisti di

dipingere quadri da donare, come non li impegnava in

grandi commissioni pubbliche; ma consegnava oggetti

di lusso, che esprimevano l’identità “nazionale” (come

il vetro), e che erano della massima qualità artistica [7] .

Agli autori di queste originali manifatture va

riconosciuto il talento, le eccellenti capacità tecniche,

ma alle volte anche un carattere caparbio e determinato.

Tra questi va menzionato Giuseppe Briati, che,

sentendosi minacciato dalla rivalità degli altri vetrai

muranesi, ottenne il permesso di aprire una fabbrica a

Venezia, sebbene fin dal XIII secolo le fornaci fossero

state concentrate a Murano per allontanare dalla città

il pericolo di incendi. Egli inoltre disattese le concessioni

accordategli dalla Serenissima nel 1736, producendo

anche bicchieri e bottiglie, come si evince dalle

carte dei Pisani di San Polo [8] . Vi erano poi Pasquale

Antonibon e Geminiano Cozzi, che per tutta l’esistenza

furono aperti rivali: si accusarono reciprocamente

di spionaggio, concorrenza sleale e sabotaggio.

Al contrario, dei marangoni abbiamo scarsissime

notizie [9] . Eppure, come già metteva in luce Giuseppe

Morazzoni – pioniere delle arti decorative italiane –,

— LE ARTI DECORATIVE — 271



l’arte del mobilio ha dato un contributo fondamentale

al Rococò veneziano e ha goduto di una fortuna collezionistica

strabiliante nel corso del Novecento [10] .

In tralice si è appena espresso uno dei pilastri

dell’arte del secolo dei Lumi: la centralità delle arti

decorative. Mobili, stucchi, specchi, porcellane, argenti

e vetri sono valorizzati al massimo, come mai prima

d’allora. In linea con quanto avveniva a Parigi, centro

creatore e propulsore del Rococò, acquistano grande

importanza gli allestimenti degli interni, così che decorazione

e arredamento sono concepiti in modo assolutamente

unitario [11] . Anche Venezia, fin dal primo

decennio del secolo, risente dell’influenza dei dettami

del gusto d’oltralpe, come testimonia la lettera fittizia

indirizzata alla Marchesa N.N. apparsa sulla “Galleria di

Minerva” nel 1708, in cui si descrive l’arredo di palazzo

Manin in occasione di un matrimonio particolarmente

sfarzoso. Nella rassegna degli ambienti, il corrispondente

veneziano si sofferma a descrivere la “Stanza della

Primavera”, rivestita di “un finissimo damasco tutto

lavorato a fiori naturali in campo bianco” e decorata

con “bianchissime [...] sedie con fiori naturali seminati

dall’Arte con un ordine di attentissima negligenza”. Un

giardino di seta, che avrebbe suscitato nella Marchesa

l’esclamazione “Cela se pouroit faire à Paris” [12] .

Si diffondono nuove idee di forme, incentrate

sulla linea ondulata, sulla voluta a “C” e a “S”, e di

motivi ornamentali, ispirati alla conchiglia fratta, in cui

si fondono elementi astratti e naturalistici, oppure che

riflettono il gusto per l’esotico. Questi cambiamenti,

che come vedremo hanno vivificato l’arte veneziana di

un secolo, sono trasversali tra le diverse arti decorative,

ragion per cui sono state riunite in un’unica trattazione.

Per favorire lo sviluppo delle attività manifatturiere,

la Serenissima adottò una politica affine a quella

promossa nella Francia seicentesca da Jean-Baptiste

Colbert, che riconosceva nel commercio la sorgente

delle finanze. Venezia non era uno stato assolutistico,

non esistevano manifatture statali promosse e finanziate

direttamente da un sovrano. Poteva però contare

sul patriziato, che rivaleggiava nello sfarzo e nel lusso

dei suoi palazzi, interessati nel corso del secolo da interventi

di rinnovamento e decorazione. Prioritario per il

governo veneziano era promuovere il mercato interno,

sia per convogliare il flusso di denaro generato da queste

commissioni verso i beni prodotti nella Dominante,

arginando al contempo la richiesta di articoli di lusso

stranieri; sia per attirare i visitatori forestieri: la città

era una tappa privilegiata del Grand Tour. A tal fine la

Serenissima adottò provvedimenti di carattere protezionistico

e disciplinò le Arti con nuove regole. Vietò

l’importazione di lavorazioni estere, riservò alle manifatture

locali privilegi, esenzioni o sovvenzioni in modo

da favorirne lo sviluppo, combattere la concorrenza

straniera ed evitare il declino delle attività commerciali.

In tal modo, non sempre con esiti fortunati, riuscì a promuovere

le arti, che nel corso del secolo diedero vita a

una nuova fase artistica, quella Rococò.

È il caso del vetro, il cui primato europeo era

stato messo in crisi, fin dall’ultimo trentennio del XVII

secolo, dalla concorrenza internazionale, in particolare

inglese, e dal cristallo boemo. Per porre un argine

a questa situazione, il governo veneziano proibì l’introduzione

dei prodotti d’oltralpe, intraprese una politica

di riorganizzazione dell’Arte e impose ai suoi artigiani

di migliorare la qualità dei manufatti. A risollevarne le

sorti, Giuseppe Briati (1686-1772), uno dei più abili e

innovativi produttori di vetro, che riuscì a perfezionare

a livello tecnico ed estetico la lavorazione di cristalli “ad

uso di Boemia”, tanto da ottenere fin dal 1736 un privilegio

per la loro fabbricazione [13] . In occasione della Sensa

del 1743 espose “Lumiere e chiocche magnifiche [...]

Dessert, bicchiere, specchi” e “un burò ossia armadio

alla francese, composto tutto intero di cristallo

che è cosa veramente reale” [14] . Nella varietà

di manufatti prodotti, che spaziavano dai mobili

agli oggetti più minuti, si distinguono per originalità

e pregio i due Reliquiari eseguiti nel 1755 per

la chiesa del Redentore di Venezia [15] (cat. VI.93).

Animati da fiori policromi, resi in maniera naturalistica,

sembrano la risposta veneziana all’esuberante Rococò

delle chiese bavaresi.

Tuttavia il nome di Briati è indissolubilmente

legato ai lampadari centrali, detti in dialetto veneziano

ciocche, che egli seppe innovare, rivestendo gli elementi

strutturali in metallo con inserti cavi, oblunghi e globulari

di vetro. Essi si caratterizzavano per molteplici

bracci, che potevano svilupparsi secondo un andamento

serpentinato, o essere decorati da festoni, foglie e fiori

policromi, come nell’esemplare a venti fiamme su due

ordini di Ca’ Rezzonico (fig. 1). Oltre alle ciocche, che

ebbero ampia fortuna – da venir ancor oggi copiate in

6 _ Si veda anche R. Vitale

D’Alberton, Gli ultimi artigiani

della Repubblica, “Studi

Veneziani”, LIX, 2010, pp.

577-648.

7 _ Sui doni diplomatici,

quali parte integrante della

politica europea in età

moderna, cfr. M. Cassidy-

Geiger, Porcelain and Prestige:

Princely Gifts and “White

Gold” from Meissen, in Fragile

Diplomacy. Meissen Porcelain

for European Courts ca. 1710-63,

catalogo della mostra (New

York, The Bard Graduate Center

for Studies in the Decorative

Arts, Design and Culture) a

cura di M. Cassidy-Geiger, New

Haven 2007, pp. 3-23.

8 _ M. Ansaldi, in I Pisani

Moretta. Storia e collezionismo,

catalogo della mostra (Venezia,

Ca’ Rezzonico, Museo del

Settecento veneziano) a cura

di A. Craievich, Crocetta del

Montello 2015, pp. 138-142,

cat. 31.

9 _ M. De Vincenti,

S. Guerriero, Intagliatori e

scultura lignea nel Settecento a

Venezia, in Con il legno e con

l’oro. La Venezia artigiana degli

intagliatori, battiloro e doratori,

a cura di G. Caniato, Verona

2009, p. 153.

10 _ Egli si dedicò a tutte

le manifestazioni dell’arte

veneziana settecentesca, eccetto

gli argenti e gli stucchi. Sul

mobilio, cfr. G. Morazzoni, Il

mobile veneziano del Settecento,

a cura di S. Levy, 2 voll., Milano

1964. Su Morazzoni, cfr. E.

Colle, Le arti decorative del

Settecento italiano e gli studi

di Maria Accascina e Giuseppe

Morazzoni, in Storia, critica e

tutela dell’arte nel Novecento.

Un’esperienza siciliana a

confronto con il dibattito

nazionale, Atti del Convegno

Internazionale di Studi

(Palermo-Erice, 14-17 giugno

2006) a cura di M.C. Di Natale,

Caltanissetta 2007, pp. 155-160.

11 _ H. Bauer, H. Sedelmayr,

Rococò, in Enciclopedia

Universale dell’Arte, XI, Venezia-

Roma 1963, ad vocem; A. Mariuz,

Interni rococò, in Lezioni di

Storia dell’Arte. Dal trionfo del

barocco all’età romantica, Milano

2003, pp. 108-133.

12 _ “Galleria di Minerva”,

Parte IV, 1708, pp. 83-85, in

A. Mariuz, G. Pavanello, I

palazzi veneziani: la grande

decorazione. Dalla magnificenza

all’eleganza rococò, in Venezia.

L’arte nei secoli, a cura di G.

Romanelli, II, Udine 1997, pp.

610-611.

13 _ Sul vetro nel Settecento

e, in particolare, su Giuseppe

Briati: R. Gallo, Giuseppe Briati

e l’arte del vetro a Murano nel

XVIII secolo, Venezia 1953;

R. Barovier Mentasti, Il vetro

veneziano, Milano 1982, pp. 137-

178; L. Zecchin, Vetro e vetrai di

Murano: studi sulla storia del

vetro, 3 voll., Venezia 1987-1990,

II, 69, 72; Barovier Mentasti

1995, pp. 891-902; P. Zecchin,

Giuseppe Briati, il più famoso

vetraio veneziano del Settecento,

“Journal of glass studies”, 53,

2011, pp. 161-175.

14 _ F. Stefani, Memorie per

servire all’istoria della inclita

città di Venezia, “Archivio

Veneto”, XXIX, 1885, pp.

130-131.

15 _ La datazione è stata

desunta dai Notatori di Pietro

Gradenigo, che li ricorda come

“rara Manifattura, degna al

certo di essere ammirata”

(Venezia, Biblioteca del Museo

Correr, Mss. Gradenigo Dolfin,

67, III, c. 26r, già in Gallo 1953,

pp. 44-45).

16 _ Cfr. L. Urban, Teatri

in tavola. Ossia “trionfi” sulle

tavole dogali, “Studi Veneziani”,

N.S., XXV, 1993, 169-216.

17 _ Urban 1993, pp. 181-182;

R. Vitale D’Alberton, I giardini

di cera della Serenissima. Gio.

Batta Talamini, un originale

ceroplasta nella Venezia del

Settecento, “Studi Veneziani”,

N.S., L, 2005, pp. 301-337.

18 _ Ivi, p. 308.

19 _ Zecchin 1987-1990, I, pp.

195-199; II, pp. 189-193; III, p.

334; Barovier Mentasti 1995, pp.

895-898. Cfr. anche C. Tonini,

I lattimi veneziani smaltati

del XVIII secolo e i rapporti

iconografici con le incisioni,

“Journal of glass studies”, 49,

2007, pp. 127-142.

20 _ Sulla manifattura Vezzi,

si veda il saggio di Marcella

Ansaldi in catalogo.

infinite varianti –, la manifattura Briati era famosa per

i deseri, ossia i trionfi da tavola, fino ad allora lavorati

in pasta di zucchero, stucco e cera [16] . Come scenografie

miniaturizzate, composte da figure ed elementi

architettonici, erano articolati in modo da rappresentare

scene di caccia o di teatro, argomenti mitologici,

biblici, avvenimenti d’attualità o giardini all’italiana.

Esclusivamente decorativi, i trionfi in vetro erano una

produzione tutta veneziana e affascinavano i contemporanei

per la trasparenza e la fragilità del materiale.

Tra le manifatture che più rappresentavano la

Serenissima, forse l’episodio più originale riguarda le

cere, che insieme ai deseri contribuivano allo sfarzo dei

banchetti. Sino a questo momento la cera, oltre alle

fasi ideative della scultura, era stata adottata in ambito

devozionale, funerario, nella ritrattistica encomiastica

e negli studi anatomici. A Venezia, nel Settecento, si

ricorreva a questo materiale anche per ricreare artificiosamente

la natura. In questa singolare attività si

distinse Giovanni Battista Talamini (1700-60), che

riuscì a rendere la cera duttile e resistente e, grazie

all’uso del colore, seppe modellare frutti, piante, fiori

e animali di varie specie, in modo naturalistico [17] .

Ricercate in Oriente e Occidente, le sue opere erano

lavorate anche “in foggia di chichara, di tazza, o di

vaso” che, stando alle fonti, potevano contenere

liquidi [18] . Purtroppo gran parte delle sue opere è

andata perduta, tuttavia possiamo farci un’idea della

sua abilità grazie al rilievo della Scena campestre

(cat. VI.92), in cui egli reinterpreta quel gusto pastorale

elaborato da Giambattista Piazzetta attorno alla metà

del Settecento, che si ritrova in altre manifestazioni

artistiche, come nelle porcellane di Geminiano Cozzi.

All’insegna dell’imitazione, vi era un altro prodotto

tipico della Venezia settecentesca: il vetro lattimo

[19] . Chiamato così per l’aspetto bianco latteo, che

perfettamente opaco ben si adattava a riprodurre la

porcellana, esso si impose tra le attività manifatturiere

della Serenissima verso il terzo decennio del secolo, in

concomitanza con la chiusura della fabbrica di porcellana

Vezzi [20] , e non a caso venne incoraggiato dalla

Repubblica per ragioni economiche. Protagoniste: le fornaci

muranesi di Daniele Miotti, specializzato in soffiati

di lattimo ornati a smalto con motivi floreali, uccelli e

scene figurate, e dei fratelli Bertolini, che nel 1739 ottennero

un privilegio decennale, poi rinnovato fino al 1758,

per i “lavori di nuova invenzione [...] che imitano le porcellane”

decorati a oro lucido e opaco. I vetri lattimi non

solo simulavano l’“oro bianco”, ma ne adottavano anche

le forme e le tipologie decorative, come mostrano le

tazze con piattino raffiguranti cineserie in monocromo

rosso e oro (catt.VI. 79-82).

Anche altre arti segnarono l’epoca aurea della

città lagunare. Esse si svilupparono in seguito a cambiamenti

che investirono le esigenze dell’abitare e del

vivere moderno. Parole d’ordine: convenance, ossia

destinazione, comfort e piacevolezza. Esse contraddistinsero

gli allestimenti degli interni – la preferenza

era accordata a stanze più intime per la vita socievole –

e in particolare il mobilio, che mai come ora presenta

un’infinita varietà di forme: ricchissime sono infatti le

varianti delle sedie o dei tavoli [21] .

Anche il mondo della cucina fu investito da

novità: si preferirono pietanze da sapori e consistenze

delicate, si moltiplicò il numero delle portate e le porzioni

furono ridotte. Queste trasformazioni comportarono

lo sviluppo di suppellettili dalle nuove forme per

accompagnare il pasto, rese eleganti da decorazioni e

dorature. E inoltre, furono introdotte, in Europa, le

bevande coloniali: il tè, il caffè e il cioccolato, che stimolarono

a loro volta la creazione di nuovi recipienti.

La vita sociale si trasforma: la tavola diviene

luogo di scambio di idee e del confronto dialettico e

le sue suppellettili strumenti essenziali di quella che è

stata definita la “civiltà della conversazione” [22] .

Specchio delle abitudini settecentesche, come si

è rilevato, è il Ricevimento in palazzo Grassi, affrescato

alle pareti dello scalone da Michelangelo Morlaiter. Vi

è raffigurata la società veneziana “nei gesti che più la

seducevano”; tra questi si inscena il rito del caffè [23] .

Due servitori in livrea – il primo con un’imponente

cogoma in argento sopra a un’alzata, l’altro con un vassoio,

anch’esso d’argento, su cui poggiano tazze di porcellana

–, interrompono il loro veloce movimento per

accondiscendere alla richiesta di una dama.

Nel nostro immaginario la caffettiera è l’oggetto

“iconico” dell’oreficeria profana settecentesca, forse

anche per la fortuna che ebbe a livello collezionistico nel

Novecento. Gli orefici veneziani produssero caffettiere

di diverse proporzioni, lisce o decorate da nervature, con

andamento torsionale o meno, il manico ligneo sagomato,

il coperchio sormontato da un bottone, una pigna

272 —GENERI E TEMI —

— LE ARTI DECORATIVE — 273



o da foglioline e il becco liscio o ornato da modanature.

Dalla linea sobria ed elegante, la selezione di caffettiere

presentata in mostra illustra la fortuna di un modello,

declinato in minime varianti (catt. VI.85-90), che venne

adottato anche nella produzione di maioliche. In linea

con quella tendenza che prediligeva l’accordo stilistico

tra gli arredi, nervature impreziosivano anche cioccolatiere,

zuccheriere, acquamanili, bacili, candelieri, enfatizzando

la singolare capacità di irraggiamento, la lucentezza

e il potere riflettente del metallo.

Quali fossero le tipologie degli argenti da tavola

diffusi all’epoca, lo deduciamo più dai documenti che

dalle suppellettili oggi conservatisi: il valore del loro

stesso materiale è stato uno dei principali motivi

della loro dispersione e distruzione. Nelle carte della

famiglia Corner, ad esempio, si elenca vasellame d’argento

per la tavola, come piatti tondi e ovali di diverse

misure e per le più varie destinazioni, sottocoppe,

fruttiere, vassoi, zuccheriere, caffettiere, un servizio

da tè dorato, posate, sortù, una brocca e un portabottiglie.

Ma ad arricchire l’arredo domestico vi erano

anche argenterie per l’illuminazione, acquasantiere da

appendere accanto al letto, cornici, uno scaldapiedi,

un piccolo mantice, oggetti per la toeletta, accessori

per l’abbigliamento, argenti da scrittoio e volumi rilegati

entro coperte preziose [24] .

Venezia poteva vantare numerose botteghe

orafe, che, aggiornando il loro repertorio di forme

e ornati alla moda corrente, seppero dar vita a una

vivace stagione artistica. Dalle soluzioni tardobarocche

dell’avvio del secolo si passò ai motivi desunti

dalle arabesques di Jean Bérain il Vecchio, fino alla linguistica

rococò, che a Venezia perdurò sino alla fine

del secolo. Questo stile si diffuse curiosamente quasi

solo nell’argenteria a carattere sacro. Il Reliquiario del

beato Gregorio Barbarigo, eseguito dalla bottega al

San Lorenzo Giustinian, ben illustra questa tendenza:

volute contrapposte, conchiglie fratte ed elementi

desunti dal repertorio delle onde e delle spume marine

trasmettono la loro forma irregolare alla struttura del

reliquiario a urna [25] . Tale vocabolario ornamentale

ebbe il suo miglior interprete in Angelo Scarabello

(1712-95), argentiere nato a Este ma con bottega

nella vicina Padova, di cui si presenta un servizio di

Cartegloria (cat. VI.91) [26] . Apprezzato già dai contemporanei

per aver portato a termine le ante degli armadi

della cappella delle Reliquie nella basilica del Santo a

Padova, eseguì cornici in argento per i ritratti di papa

Clemente XIII Rezzonico e del doge Marco Foscarini,

nonché il superbo paliotto d’altare per la collegiata

di Sant’Eufemia di Rovigno d’Istria, suo capo d’opera.

Con la sua bottega all’insegna dell’Angelo, lavorò

fino alla fine del secolo suppellettili liturgiche in cui la

rocaille si propaga dappertutto.

Ma è nella porcellana che il Rococò trova la

sua più felice espressione. Fragile, preziosa e brillante,

essa incarna più d’ogni altro materiale lo spirito

di un’epoca [27] . Ogni sorta di manufatto era eseguito

in porcellana: dal vasellame (servizi da tavola, tè, caffè

e cioccolata), agli specchi, ai pomoli di bastone, alle

tabacchiere, ai gruppi plastici.

Dopo Meissen e Vienna, la terza città europea ad

avere una manifattura, elemento di prestigio, fu Venezia

che vide susseguirsi, nel corso del secolo, ben tre fabbriche,

di volta in volta appoggiate e promosse dal Senato.

La prima, fondata da Francesco Vezzi, fu attiva soltanto

dal 1720 al 1727 e a essa seguì, dopo pressappoco

un trentennio, quella dei coniugi sassoni Nathaniel

Friedrich e Maria Dorothea Hewelcke [28] . Scappati

dalla Guerra dei sette anni, si rifugiarono nel 1757 a

Udine, dove avviarono una manifattura di porcellana

grazie a una privativa e all’esenzione dei dazi dispensate

loro dal governo veneziano, a condizione che i loro

manufatti fossero marcati da una “V” in rilievo, chiara

allusione a Venezia. Nel 1761 si trasferirono in laguna,

dove trapiantarono la loro attività, che nonostante la

partecipazione di nuovi finanziatori (tra cui l’imprenditore

Geminiano Cozzi) fallì nell’agosto del 1763. È

l’anno in cui fu eseguito il medaglione con il Ritratto di

Giuseppe Ximenes d’Aragona (Londra, British Museum)

da Fortunato Tolerazzi, l’unica opera della manifattura

a mostrare sicurezza nella resa plastica [29] . Al contrario,

i pochi oggetti usciti dalla fabbrica Hewelcke hanno “la

freschezza, l’ingenuità e il fascino degli oggetti primitivi

con quelle figurine appena abbozzate o quei spontanei

decori floreali” [30] , come mostrano il vasellame e le statuine

esposte (catt. VI.38-45).

Le sventurate vicende dei coniugi sassoni si

intrecciarono con quelle della fabbrica Antonibon di

Nove, celebre per le sue maioliche, che nel 1763 aveva

richiesto ai Cinque Savi alla Mercanzia di poter produrre

anche porcellana. A essa si sovrappose poi, non

21 _ A. Schönberger, H.

Soehner, Il Rococò. Arte e civiltà

del secolo XVIII, Milano 1960,

p. 50.

22 _ M. Ansaldi, A.

Craievich, Un’àncora rosso

ferro, in Geminiano Cozzi e le

sue porcellane, catalogo della

mostra (Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento

veneziano) a cura di M. Ansaldi,

A. Craievich, Crocetta del

Montello 2016, pp. 11-17, in

part. 12-13.

23 _ G. Pavanello, Le

decorazioni di Palazzo Grassi

dal Settecento al Novecento, in

G. Romanelli, G. Pavanello,

Palazzo Grassi. Storia

architettura decorazioni

dell’ultimo palazzo veneziano,

Venezia 1986, pp. 117-193.

24 _ F. Stopper, La bottega

al San Lorenzo Giustinian.

“Orefici di primo credito, e

fama” tra Venezia, Roma e

Gerusalemme, “Ricche Minere”,

4, 2015, pp. 47-48.

25 _ Ivi, pp. 53-55.

26 _ Id., in Dizionario

Biografico degli Italiani, 91,

Roma 2018, pp. 302-305.

27 _ Bauer, Sedelmayr 1963.

28 _ Cfr. E. Dal Carlo,

Fabbricatori di porcellane

nello Stato veneto. I coniugi

Hewelcke, in Porcellane

italiane dalla collezione Lokar

/ Italian Porcelain in the

Lokar collection, a cura di A.

d’Agliano, Cinisello Balsamo

2013, pp. 56-63, con bibliografia

precedente; C. Campanella, A.

Moore Valeri, Cozzi e Ximenes

in un incartamento inedito

sulla “Fabbrica di porcellane a

Venezia”, “Faenza. Bollettino

del Museo Internazionale delle

Ceramiche in Faenza”, CII, 2,

2016, pp. 69-98.

29 _ Campanella, Moore

Valeri 2016.

30 _ F. Stazzi, Le porcellane

veneziane di Geminiano e

Vincenzo Cozzi, Venezia 1982,

p. 24.

31 _ Cfr. Geminiano Cozzi e

le sue porcellane 2016.

32 _ C. de Brosses, Viaggio in

Italia. Lettere familiari, Roma-

Bari 1973, p. 106.

33 _ Cfr. H. Williams,

Turquerie. An Eighteenth-

Century European Fantasy,

London 2014, p. 184. La

statuina qui esposta (cat. XX)

faceva coppia con un’altra

ora nella collezione Giannetti

(L. Melegatti, in Ceramiche

della collezione Gianetti, II,

Porcellane italiane europee e

orientali, Saronno 2000, pp.

156-157).

34 _ G. Pavanello, Vendramin

e Foscarini ai Carmini, gemelli

da dividere: magnificenze ed

esotismi intorno a una stanza

in maiolica, “Arte Veneta”, 66,

2009, pp. 102-135.

35 _ Cfr. P. Marini, La

manifattura Antonibon di Nove,

in La ceramica nel Veneto. La

Terraferma dal XIII al XVIII

secolo, a cura di G. Ericani,

P. Marini, Verona 1990, pp.

277-305; La ceramica degli

Antonibon, a cura di G. Ericani,

P. Marini, N. Stringa, Milano

1990.

senza discordie e rivalità, il terzo capitolo della porcellana

a Venezia, che vide come protagonista il modenese

Geminiano Cozzi (1728-98). Egli si affermò sul

mercato grazie al privilegio dell’esclusiva ottenuto dal

Senato nel 1765, ad altri sussidi e a un’intelligente strategia

commerciale [31] .

Marcate con un’àncora rossa, le opere della manifattura

Cozzi si caratterizzano per un vasto repertorio

ornamentale (catt. VI.46-71). Se da una parte replicava i

modelli adottati dalle manifatture di Meissen e Sèvres,

declinati in modo autonomo, dall’altra sperimentava

motivi originali. Tra questi ultimi vi è il decoro a bersò,

che raffigura giardini all’italiana con pergole, parterre,

architetture verdi. Influenzato dalla produzione incisoria

coeva, come la raccolta Delle delicie del fiume Brenta

espresse ne’ palazzi e casini sopra le sue sponde... (1750-56)

di Gianfrancesco Costa, nonché dai giardini delle ville

venete dell’epoca, questo ornato ebbe grande successo:

rispecchiava l’amore per la campagna e per la vita in villa,

cui la società veneziana settecentesca, ossia la principale

clientela di Cozzi, non sapeva sottrarsi. Esso fu applicato

a servizi da tavola, da tè e da caffè, in cui ciascun pezzo

era dissimile all’altro. Affine a questo decoro vi era quello

a paesetto, caratterizzato da paesaggi con case, alberi,

rovine, mulini, corsi d’acqua e templi.

Nelle opere della manifattura Cozzi trovano spazio

il mondo pastorale dei quadri di genere di Giambattista

Piazzetta, il capriccio, i paesaggi di Francesco Zuccarelli,

come quelli dipinti in rosso ferro nel Servizio reale di Ca’

Rezzonico, oppure la pittura di Paolo Veronese, come

nell’elaborato piatto in monocromo rosso raffigurante al

centro il Ratto d’Europa, quasi una guida per immagini di

Palazzo Ducale.

Nel repertorio della manifattura non mancano

raffinati decori rococò, come nella Caffettiera della collezione

Lokar, in cui l’ornato a rilievo, se da una parte

risente dell’influsso di Meissen, dall’altra evoca soluzioni

adottate nella pittura coeva da Andrea Urbani a

Noventa Padovana. Nel catalogo dei motivi naturalistici,

floreali e geometrici rientrano quelli, definiti nell’inventario

di fabbrica in dialetto veneziano, Blò raggi d’oro,

Feston e cadena, ma anche i più semplici a Striche o a

puntini, che sembrano echeggiare soluzioni dei tessuti

coevi e che, al nostro occhio, appaiono incredibilmente

moderni. Altri decori raffiguravano scene galanti

e personaggi della commedia dell’arte, attingevano alla

mitologia o proponevano immagini in trompe l’œil,

come le carte da gioco.

La manifattura Cozzi seppe aggiornare continuamente

le forme e i decori dei suoi lavori in base al

mutare del gusto, ma anche adattarsi alla diversa clientela

cui si rivolgeva. Accanto a manufatti di lusso eseguiti

per la Serenissima o per il patriziato veneziano

– come il Servizio Grimani –, produceva porcellane di

minor valore con decori essenziali, ancorché eleganti,

destinate all’uso delle botteghe da caffè, che a Venezia

erano assai numerose e sempre affollate, stando alle

parole di Charles de Brosses [32] .

L’amore per l’esotico si declinava nelle turqueries,

nel fascino per il mondo ottomano, soggetto che

grazie alla diffusione di incisioni, tratte dai disegni di

Jean-Etienne Liothard e dai dipinti di Jean-Baptiste

Vanmour, si diffuse in tutta Europa, Venezia compresa.

Rosalba Carriera dipinse Felicita Sartori in costume

turco, i fratelli Guardi copiarono le invenzioni della

Recueil Ferriol e, sulla scorta dell’esempio di Meissen,

la manifattura Hewelcke incluse questo tema nella

produzione di piccole figure [33] .

Anche le civiltà dell’Estremo Oriente erano

oggetto di fascino e curiosità, tanto da diventare un

soggetto di moda e uno degli aspetti più significativi

dell’arte rococò. Oltre alla porcellana, fino ad allora

prodotta solo in Cina e Giappone, l’interesse europeo

per l’Oriente portò a un’interpretazione fantastica dei

motivi desunti da quel mondo lontano, che passa sotto

il nome di chinoiserie.

Questo gusto si diffuse a Venezia fin dalla

fine del Seicento, ma nel secolo successivo dilagò in

ogni ambito delle arti figurative. Nei palazzi nobiliari

erano dedicati interi ambienti alla cineseria, come nel

mezzanino di palazzo Vendramin ai Carmini, dove le

pareti presentano fantasticherie orientali dipinte in

oro su piastrelle bianche in maiolica [34] . Ed è proprio

nella maiolica e nella porcellana che questi motivi trovarono

la loro più felice applicazione, come mostra il

vasellame con decoro a paesini cinesi della manifattura

Antonibon di Nove, caratterizzato da ponticelli

con costruzioni d’ispirazione orientale, rami fioriti e

fogliati, cipressi, uccelli e cinesini (catt. VI.72-75) [35] .

Anche la manifattura Cozzi non fu insensibile a questa

moda sia nelle suppellettili da tavola che nei gruppi

plastici, qui esemplificati dai Pagò (o Magot), figure

274 —GENERI E TEMI —

— LE ARTI DECORATIVE — 275



di divinità cinesi corpulente, molto amate in Europa

come mostra La colazione del mattino di François

Boucher (Parigi, Musée du Louvre) [36] .

La passione per l’Oriente si manifestava anche

in un altro materiale esotico: la lacca, apprezzata per

la sua lucentezza, i colori vivaci o delicati [37] . Fin dagli

ultimi decenni del Seicento – come ricorda il viaggiatore

francese Maximilian Misson –, il suo successo fu

enorme a Venezia, dove in mancanza di un’importazione

diretta si diede vita a un’attività imitativa che

trovò il suo sbocco in ogni campo delle arti decorative:

dai mobili a vassoi, scrigni, cornici di specchi, guantiere,

tavolini da gioco e servizi da toletta.

Quanto al mobilio, si tratta della tipologia più

ricercata e innovativa della Venezia settecentesca, che

non poteva contare su legni pregiati e ricche decorazioni

a rilievo in bronzo dorato, com’era di moda a Parigi. I

depentori, artigiani abili in verniciature e dorature, vennero

chiamati a rispondere a questa nuova richiesta:

adottarono una resina naturale, la sandracca, che conferiva

brillante trasparenza e impermeabilità ai manufatti.

Dapprima con questa tecnica vennero riprodotti esclusivamente

motivi orientali, poi dalla metà del secolo

vennero introdotte anche tematiche arcadico-pastorali

e decorazioni floreali dai colori vivaci.

È proprio in alcuni squisiti fornimenti, eseguiti

negli ultimi decenni del secolo e provenienti da

palazzo Calbo Crotta (ora conservati a Ca’ Rezzonico),

che si rivela la vera anima del Rococò veneziano [38] .

Si tratta ddei salotti in lacca gialla-rossa e verde-gialla con

decorazioni floreali e del Salotto verde, in cui su fondo

laccato in verde cupo va in scena il favoloso mondo del

Catai: pagode, ombrelli, salici, ciliegi e figurine di orientali,

inquadrati da riccioli di cornici rocaille, festoni e

intagli floreali sono resi a rilievo in pastiglia dorata.

Quanto alla forma, anche il mobilio veneziano

risente dell’influenza francese: la linea curva si insinua

in poltroncine, consoles, specchiere, guéridons, cassettoni,

cantonali e comodini, che assumono forme bombate

e rastremate verso il basso con piedini arcuati. Alle

volte è illeggiadrito da trafori e ornati, quali nervature,

foglie, mascheroni, nastri, cartigli, riccioli e conchiglie

sfrangiate a rilievo, già visto in altre manifestazioni

artistiche, oppure è decorato da inserti vitrei.

Nel mobilio tuttavia sembra riproporsi

quella dicotomia che esiste nella pittura coeva tra

la ritrattistica ufficiale e quella privata di Rosalba

Carriera. Accanto agli arredi finora descritti, vi erano

quelli da parata, eseguiti per precise esigenze di rappresentanza,

rivestiti in foglia d’oro e caratterizzati da

elaborati intagli, che trovano la massima espressione

nel Fornimento Renier, la cui datazione ancora oggi si

rimpalla tra il quarto e l’ottavo decennio del secolo [39] .

La grande richiesta di manufatti in lacca portò

allo sviluppo della cosiddetta “lacca povera”, un procedimento

semplice e immediato in cui il disegno

dipinto e laccato, che decorava le superfici del mobile o

dell’oggetto è sostituito da ritagli di calcografie e xilografie,

poi colorate e ricoperte da vernici trasparenti.

La produzione incisoria a Venezia nel Settecento era

fecondissima: dalle stamperie di Giuseppe Wagner e

Teodoro Viero e ancor più dalla calcografia Remondini

di Bassano uscivano incisioni e vignette con le più varie

raffigurazioni – magari tratte da idee di artisti importanti,

quali Marco Ricci, Jacopo Amigoni, Giuseppe

Zais e Francesco Zuccarelli – da ritagliare e usare per

la decorazione di mobili e suppellettili.

Sono queste le arti decorative che contribuirono

a dare un preciso volto alla Venezia settecentesca.

Nell’impossibilità di approfondire adeguatamente

i protagonisti di questa stagione e di togliere

dall’oscurità i nomi di quelli ancora nell’ombra, vale la

pena soffermarsi sulle relazioni tra le arti e sulla divisione

esistente tra il creatore, l’ideatore di un’opera e

l’esecutore. Si è detto dell’importanza delle incisioni,

che hanno fornito un repertorio quanto mai vario

di immagini da tradurre di volta in volta su porcellane

o da applicare su mobili e suppellettili [40] ; ma

esse potevano essere riprodotte anche su maioliche e

vetri lattimi. È il caso dei Piatti con vedute di Venezia,

tratte dalle incisioni Le fabriche et vedute di Venetia di

Luca Carlevarijs o da quelle di Antonio Visentini da

Canaletto, come negli esemplari esposti (catt. VI.83-

84). Souvenir ante litteram, vennero acquistati – sotto

forma di tre servizi identici da ventiquattro piatti ciascuno

– dal collezionista e antiquario inglese Horace

Walpole, da John Chute e da Henry Clinton, conte di

Lincoln e futuro duca di Newcastle, durante il loro

soggiorno a Venezia nel 1741. I tre non si limitarono ad

acquistare lattimi, con le vedute della città, soggetto

privilegiato dai forestieri, ma, seguendo la moda corrente,

si fecero ritrarre da Rosalba Carriera [41] .

36 _ Sull’argomento, cfr.

D. Kisluk-Grosheide, The

Reign of Magots and Pagods,

“Metropolitan Museum

Journal”, 73, 2002, pp. 177-197.

37 _ A. Rispoli Fabris, L’arte

della lacca, Milano 1974; C.

Santini, Le lacche dei veneziani.

Oggetti d’uso quotidiano nella

Venezia del Settecento, Modena

2003.

38 _ F. Pedrocco, L’arte

veneziane del Settecento, in

’700 veneziano. Capolavori da

Ca’ Rezzonico, catalogo della

mostra (Roma, Palazzo Venezia)

a cura di F. Pedrocco, Venezia

1998, pp. 110-113.

39 _ A. González Palacios, Il

Tempio del gusto, Milano 1986,

pp. 333-341 (cfr. Id., Vittorio

Cini: il gusto, la decorazione, le

opere d’arte, in La Galleria di

Palazzo Cini. Dipinti, sculture,

oggetti d’arte, a cura di A.

Bacchi, A. De Marchi, Venezia

2016, pp. 349-350); C. Santini,

Mille mobili veneti, III, Venezia,

Modena 2002, pp. 158-159.

40 _ C. Lo Giudice, La

fortuna delle invenzioni di

Amigoni, Zocchi e Zuccarelli

nelle arti decorative, “Ricche

Minere”, 7, 2017, pp. 101-119.

41 _ Nel catalogo di vendita

dei beni di Horace Walpole si

ricordano gli schizzi dei ritratti

dei tre viaggiatori (Strawberry

Hill Sale Catalogue, 1842, 21st

day, p. 207, lot. 1). Cfr. B. Sani,

Rosalba Carriera 1673-1757.

Maestra del pastello nell’Europa

ancien régime, Torino 2007, pp.

340, 347, 355-356, catt. 388,

397, 410.

FIG. 2

MANIFATTURA VENEZIANA

Porta laccata, particolare.

Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento

veneziano

FIG. 3

FRANCESCO GUARDI

Progetto per motivo

ornamentale, particolare.

Venezia, Museo Correr,

Gabinetto dei disegni e delle

stampe

42 _ Stefani 1885, p. 130.

43 _ M. De Vincenti, Storia

del “fondo di bottega” di

Giovanni Maria Morlaiter nel

Museo del Settecento Veneziano

di Ca’ Rezzonico, “Bollettino

dei Musei Civici Veneziani”,

ser. III, 6, 2010, pp. 6-77, in

particolare catt. 24, 56.

44 _ Cfr. M. Ansaldi, Figure

singole e gruppi, in Geminiano

Cozzi 2016, p. 301.

45 _ D. D’Anza, in Francesco

Guardi. 1712-1793, catalogo

della mostra (Venezia, Museo

Correr) a cura di A. Craievich, F.

Pedrocco, Ginevra-Milano 2012,

p. 282, cat. 115.

All’ideazione di opere decorative parteciparono

anche grandi artisti fornendo disegni, bozzetti

o modelli. È il caso dello scultore veneziano

Antonio Corradini (1668-1752), che fu incaricato dalla

Repubblica di sovraintendere alla decorazione plastica

dell’ultimo Bucintoro. Dopo la sua partenza per

Vienna, assunse il ruolo di “scultore ufficiale” della

Serenissima Antonio Gai (1686-1769), che progettò

il Reliquiario a urna del santo doge Pietro Orseolo e il

Cancello bronzeo per la Loggetta di San Marco, alla cui

esecuzione contribuirono anche i suoi figli Francesco

e Giovani Maria. Ma che fu anche autore dell’Allegoria

di Venezia, bozzetto in terracotta che trova dei paralleli

nelle porcellane della manifattura Cozzi: in linea con la

poetica rococò il monumento sembra farsi soprammobile

(catt. VI.11-12). Che Gai avesse una consuetudine

con la scultura in piccolo formato lo suggerisce inoltre

Girolamo Zanetti che ricorda un trionfo da tavola raffigurante

“la Sagra Istoria di Giuditta, ed Oloferne con

molti Padiglioni Torri Arme ed altro, tutto assai ben

fatto”, presentato dall’artista in occasione della Sensa

del 1743 [42] . Anche Gian Maria Morlaiter (1699-1781)

impiegò il proprio talento nel modellare bozzetti per

opere decorative, come i “segnali” lignei processionali,

che potevano venir eseguiti in legno intagliato, dorato

o dipinto e, eccezionalmente, in argento o impreziositi

con madreperla [43] . E che dire di alcune terre crude

appartenenti al fondo della sua bottega dalle dimensioni

così affini a statuette di porcellana [44] ?

La scultura non fu la sola a essere in rapporto

con le arti decorative. Nel 1746 Giambattista Tiepolo

(1696-1770) presentava un modello per l’insegna processionale

della Scuola Grande dei Carmini (New York,

The Pierpont Morgan Library & Museum), poi non

eseguito. Francesco Guardi (1712-93) e Giambattista

Piranesi (1720-78) furono autori di splendidi progetti

decorativi per interni rococò: soffitti, sopraporte o

particolari ornamentali, come il disegno con un nastro

e un ramo fiorito che si intrecciano – soluzione che

evoca motivi presenti nei tessuti, nelle porcellane e

nelle carte silografate dell’epoca (cat. VI.96, fig. 3) [45] .

Entrambi disegnarono anche bissone allestite per

le celebrazioni in onore di ospiti illustri. Guardi trascorse

la sua vita a Venezia e divenne uno degli ultimi

cantori della stagione rococò; Piranesi invece si trasferì

a Roma. Stessa sorte toccò ad Antonio Canova.

Filippo Tagliolini, invece, abbandonata la fabbrica

Cozzi e dopo un’esperienza viennese, migrò a Napoli

introducendo il biscuit nella manifattura della Real

Fabrica. Anche l’incisore Giovanni Volpato, trasferitosi

nell’Urbe, avrebbe dato vita a un’analoga produzione.

Fossero rimasti a Venezia, questa storia, forse,

sarebbe stata diversa.

276 —GENERI E TEMI —

— LE ARTI DECORATIVE — 277



GIORGIO

MARINI

ANTONIO CANAL DETTO

CANALETTO

Veduta immaginaria di

Venezia, particolare

in VEDUTE Altre prese da

i Luoghi altre ideate DA

ANTONIO CANAL […]

GENERI

E TEMI

L’I NC I S ION E :

GL I A N N I

QUARANTA

La misura dell’effettiva

centralità dell’incisione nella cultura figurativa veneziana

del Settecento ci viene offerta – come improvviso

scarto dalla linea, apparentemente continua, di

un graduale fenomeno evolutivo – da quell’autentica

esplosione della produzione calcografica che, a partire

dagli anni intorno al 1740, la vede invadere rapidamente

tutti gli ambiti produttivi. Non c’è quasi artista

a Venezia che non provi allora a misurarsi, anche solo

per diletto o alla ricerca di personali sperimentazioni,

con gli strumenti del bulino e dell’acquaforte, con le

complesse combinazioni degli acidi e delle morsure,

per non dire del sogno di dar nuova vita all’antica tecnica

del chiaroscuro xilografico in cui si cimentava

Anton Maria Zanetti di Girolamo proprio all’aprirsi

del quinto decennio.

La chiara percezione che tale pratica sia stata

di fatto l’elemento unificante tra tutti i livelli della

gerarchia artistica del tempo, adottata dai più modesti

professionisti della traduzione calcografica così come

dai massimi peintres-graveurs dell’epoca, emergeva già

nella mostra seminale dedicata agli Incisori veneti del

Settecento, con cui Rodolfo Pallucchini inaugurava,

quasi ottant’anni fa, la storiografia moderna sull’argomento,

nell’estate del 1941. Vi si riconosceva quindi,

come dato acquisito, che “la produzione incisoria del

Settecento veneziano […] è stata fecondissima, come

in nessun altro momento della storia delle arti figurative

italiane. In questo senso essa è venuta coerentemente

affiancando la pittura contemporanea: soprattutto

è stata l’affermazione di un periodo della cultura

italiana prodigiosamente ricco, fecondo, aperto

a tutte le curiosità. A Venezia incidevano grandi artisti,

dei quali almeno tre o quattro sono tra i massimi

nomi dell’incisione italiana, una moltitudine di professionisti,

a cui facevano seguito dilettanti, arruolati

nelle stesse file dell’alta società, dall’Algarotti al conte

Almorò Pisani”. Ipotesi queste che hanno poi portato

alla convinzione ormai assimilata di un ruolo tutt’altro

che ancillare, ma anzi cardine, dell’incisione anche

per la maturazione del percorso stilistico degli stessi

artisti eponimi della pittura veneziana del secolo: da

Canaletto a Marieschi, da Fontebasso ai Tiepolo.

Certamente alimentata pure da motivazioni

imprenditoriali, nella più chiara coscienza delle capacità

di diffusione offerta alle immagini moltiplicate

dalle stampe, quell’accelerazione inferta alla produzione

incisoria nel corso degli anni Quaranta ebbe a

che fare certamente con lo specifico rapporto tra il

momento creativo delle opere – che comunque implicava

una filiera tecnica allargata ai loro aspetti editoriali

e di stampa –, e le dinamiche di diffusione e commercializzazione

presso un pubblico in continuo aumento.

Indagarne le possibili ragioni, quali la prossimità con

l’industria del libro – di cui Venezia era ancora tra le

capitali europee, e vedeva il fiorire di alcuni grandi

editori-committenti – il ruolo di facile sintesi repertoriale

sul versante delle vedute urbane, il supporto al

crescente collezionismo e alla documentazione, o la

redditività rispetto a nuovi mercati in espansione, non

può esaurire motivazioni ben più intrinseche alla poetica

dei singoli artisti, come la possibilità di riformulare

i propri stili e metodi nella trasposizione illuminante e

nella sintesi, concettuale e operativa, del segno inciso.

— , L’INCISIONE: GLI ANNI QUARANTA — 279



FIG. 1

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Giovane seduto e appoggiato

su un vaso

in VARJ CAPRICCI […]

Prospectus Celebriores (1742), lucidissimo campionario

visivo delle emergenze architettoniche e degli

spazi urbani salienti del panorama veneziano. E

ancora, tra capriccio e veduta, verso quel medesimo

1742-43 si collocano pure le prime otto acqueforti

giovanili di Bernardo Bellotto, in una serie di piccoli

soggetti di rovina direttamente riflessi da quelli dello

zio Canaletto, ma segnati da una grafia più inquieta,

che conserva l’accento aspro e immediato dell’esecuzione

di getto. Esse testimoniano di un’intima empatia

con lo stile e la visione canalettiani, che il giovane

Bellotto riuscì a far propri in una misura sorprendentemente

prossima all’assimilazione e quasi al plagio,

a ridosso peraltro della immediata volontà di autonomia

che avrebbe portato alla brusca rottura dei

rapporti famigliari da parte del bizzarro nipote,

intorno al 1743.

Tra vedutismo e capriccio architettonico si

colloca anche, giusto in quel giro d’anni, la discontinua

produzione acquafortistica di Giovanfancesco

Costa, in cui a una prima serie di pittoresche incisioni

a tema rovinistico – Rovine d’archi templi terme

anfiteatri sepolcri et altri edifizzi sul gusto antico, riferibili

al periodo intorno al 1743 – seguirono a breve

illustrazioni di trattati prospettici e architettonici, e

quindi la più celebre serie di oltre centotrenta tavole

delle Delicie del fiume Brenta, luminosi reportage della

civiltà della villa veneta, presentata come ideale sintesi

tra buongoverno sociale e natura ordinata. La

loro effettiva esecuzione, da porsi tra il 1745 e il 1747,

esclude che la genuina freschezza dello stile grafico

di Costa possa essersi ispirato a quello, certo personalissimo,

delle acqueforti canalettiane, verosimilmente

note nella seconda metà degli anni Quaranta

solo nell’ambito ristretto di una cerchia di collezionisti

e conoscitori. Con singolare coincidenza, e sempre

lungo il versante di gusto per il capriccio rovinistico,

all’insegna di un revival per l’evocativo paesaggismo di

Marco Ricci, il ticinese Davide Antonio Fossati pubblicava

nel 1743, con dedica a Francesco Algarotti,

ventiquattro paesaggi tratti da originali ricceschi

allora conservati nelle collezioni di Smith e di Zanetti,

importanti per qualità tecnica, che riusciva a trasporre

con singolare scioltezza di segno i caratteri stilistici

Così, la ricerca di un nuovo esercizio espressivo

nel suo maggior intento di resa della luce deve

aver guidato Canaletto verso la rimeditazione del proprio

repertorio pittorico nell’astrazione assoluta di un

sistema binario di bianchi e di neri, che conferiscono

alle sue acqueforti insuperati riflessi d’argento. Forse

stimolato dal successo della prima serie di vedute

del Canal Grande, in cui Antonio Visentini aveva

tradotto in luminosissime incisioni le riprese canalettiane

nel Prospectus Magnis Canalis Venetiarum

(1735), il suo interesse per le tecniche incisorie vede

la rapida definizione di un linguaggio grafico senza

confronti, caratterizzato da una prodigiosa mobilità

del tratteggio e dalla capacità di dar valore semantico

anche ai bianchi del foglio. Senza un tirocinio

apparente, questo stile trova la sua formulazione

compiuta già in quella Veduta fantastica di Venezia

datata al 1741, da assumersi come termine medio

nell’evoluzione della sua attività d’incisore, mentre

la dedica della serie al console Smith, sotto il titolo

emblematico di Vedute Altre prese da i luoghi altre

ideate, fissa al 1744 la data post quem per l’edizione.

Un album già nella biblioteca del celebre conoscitore

Anton Maria Zanetti, ora ai musei di Berlino, offre la

testimonianza più antica della sequenza delle trentatré

acqueforti, incise tra il 1740 e il 1745 e disposte

secondo un itinerario coerente tra vedute topograficamente

realistiche, altre ideate, o altre ancora, più

esplicitamente partecipi dei caratteri del “capriccio”,

che dall’immediato entroterra veneziano si inoltrano

lungo la riviera del Brenta e fino a Padova.

Se quello di Canaletto è un percorso stilistico

autonomo, certo esso si viene a collocare in

corrispondenza di una straordinaria e accelerata

fioritura calcografica che accomuna in realtà molti

artisti a Venezia, inaugurata sul fronte della veduta

urbana dalla serie dei Magnificentiores Selectioresque

Urbis Venetiarum Prospectus (1741), in cui Michele

Marieschi trasponeva all’acquaforte, all’insegna di

un’esasperata dilatazione prospettica, il repertorio

delle proprie riprese scenografiche della città.

E in un’incalzante sequenza di iniziative editoriali sul

versante vedutistico, Antonio Visentini avrebbe di lì

a poco fatto seguire le tavole dell’Urbis Venetiarum

FIG.2

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Due maghi e un bambino

in Scherzi da Fantasia […]

280 —GENERI E TEMI —

— , L’INCISIONE: GLI ANNI QUARANTA — 281



peculiari delle tempere originali. Così come, proprio

agli stessi anni, si tende a riferire la raccolta di quarantadue

paesaggi d’après Marco Ricci pubblicata dal

bellunese Giuliano Giampiccoli, impresa grafica nel

cui corredo di figure va riconosciuto l’esordio acquafortistico

di Giambattista Tiepolo.

Della geniale assimilazione linguistica del segno

rembrandtiano da parte di Tiepolo ci dà conto invece,

ma sempre in quello stretto giro d’anni fecondissimi,

la serie dei dieci Capricci, pubblicati per la prima volta

nel 1742, in appendice al secondo volume dei chiaroscuri

xilografici di Anton Maria Zanetti, e realizzati

verosimilmente nell’arco di pochi mesi, tra il 1740 e il

1741. La loro compattezza tecnica e stilistica verrà in

seguito dissolta da Giambattista nell’approfondimento

delle soluzioni compositive delle visioni abbacinanti e

arcane degli Scherzi di fantasia, che restano un mistero

sostanzialmente ancora non risolto sotto il profilo del

significato più profondo e delle loro destinazioni. Di

certo, la forza suggestiva di un singolare linguaggio

grafico, che si affida a un tessuto di segni tremuli e

fluenti e a una sensibilità particolarissima per la luce,

ne fa uno degli esiti più alti di tutta l’incisione italiana

del Settecento, mentre svela al contempo la complessità

delle sue fonti, che radicano profondamente nella

migliore tradizione incisoria del secolo precedente.

Senza dubbio, la prodigiosa valenza evocativa di una

tale tecnica sarà d’influsso per tutti gli artisti di quella

generazione, a iniziare dal luminoso catalogo acquafortistico

del figlio Giandomenico, che pure esordisce

in quegli anni, e fino alle prove estemporanee di artisti

dilettanti come il conte Francesco Algarotti, che proprio

alla metà del quinto decennio, all’epoca dei suoi

più stretti rapporti con gli artisti veneziani in qualità

di agente per la Galleria di Dresda, si esercitava in vellutati

griffonages su stagno di aperta derivazione tiepolesca.

Se per la datazione degli Scherzi sappiamo

che dovettero essere realizzati tutti entro gli anni

Cinquanta del secolo – benché in gran parte concepiti

nel fatidico decennio precedente – il loro enigma

narrativo e spirituale rimane sostanzialmente insondabile,

chiuso in un mondo di metafore incentrate su

temi di ermetismo, di chiromanzia, di riti magici. Un

mondo di disfacimento e trasformazione, evocato da

FIG. 3

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

Veduta immaginaria di

Venezia

in VEDUTE Altre prese da

i Luoghi altre ideate DA

ANTONIO CANAL […]

1 _ Per un approfondimento

dell’argomento si rimanda a:

Gli incisori veneti del Settecento,

catalogo della mostra (Venezia,

teatro del “Ridotto”) a cura di

R. Pallucchini, Venezia 1941; Da

Carlevarijs ai Tiepolo: incisori

veneti e friulani del Settecento,

catalogo della mostra (Gorizia,

Musei provinciali, Palazzo

Attems; Venezia, Museo Correr)

a cura di D. Succi, Venezia

1983; Une Venise imaginaire.

Architectures, vues et scènes

capricieuses dans la gravure

vénitienne du XVIII e siècle,

catalogo della mostra (Ginevra,

Cabinet des Estampes) a cura di

R. M. Mason, Genève 1991; R.

Bromberg, Canaletto’s etchings,

San Francisco 1993; G. Marini,

L’incisione nel Seicento e nel

Settecento, in Storia di Venezia.

Temi, II: L’Arte, a cura di R.

Pallucchini, Roma 1995, pp.

521-555; G. Marini, Paesaggio,

capriccio, veduta. Mercato e

diffusione delle immagini tra

Venezia e Roma alla metà

del Settecento, in Nolli, Vasi,

Piranesi. Immagine di Roma

antica e moderna, catalogo della

mostra a cura di M. Bevilacqua,

Roma 2004, pp. 49-55; J.

Rutgers, The dating of Tiepolo’s

Capricci and Scherzi, “Print

Quarterly”, XXIII, 2006, 3, pp.

254-263; Ch. Rümelin, Remarks

on Giambattista Tiepolo’s

Scherzi, “Print Quarterly”,

XXVIII, 2011, 3, pp. 322-326;

D. Succi, La Serenissima nello

specchio di rame. Splendore

di una civiltà figurativa del

Settecento; l’opera completa dei

grandi maestri veneti, 2 voll.,

Castelfranco Veneto, 2013; A.

Griffiths, The Tiepolo family

publishing enterprise, in Venezia

Settecento. Studi in memoria

di Alessandro Bettagno, a cura

di B.A. Kowalczyk, Milano

2015, pp. 209-215; M. Matile,

Della grafica veneziana. Das

Zeitalter Anton Maria Zanettis

(1680-1767), Petersberg 2016;

G. Marini, Laurent Cars,

Joseph Wagner, Charles-Joseph

Flipart: le radici francesi

dell’incisione di traduzione

a Venezia nel Settecento, in

“Invenit et delineavit”. La

stampa di traduzione tra Italia

e Francia dal XVI al XIX secolo,

a cura di F. Mariano e V. Meyer,

“Horti Hesperidum. Studi

di storia del collezionismo e

della storiografia artistica”,

XIV, 2017, 2, pp. 315-346;

La vita come opera d’arte,

Anton Maria Zanetti e le

sue collezioni, catalogo della

mostra (Venezia, Museo del

Settecento veneziano) a cura

di A. Craievich, Crocetta del

Montello 2018; C. Lo Giudice,

Joseph Wagner. Maestro

dell’incisione nella Venezia del

Settecento, Sommacampagna

2018.

FIG. 4

ANTONIO CANAL detto

CANALETTO

Il portico con la lanterna

in VEDUTE Altre prese da

i Luoghi altre ideate DA

ANTONIO CANAL […]

rilievi antichi, ossa, crani, animali, che affascineranno

certamente anche la produzione giovanile di Piranesi.

Non a caso, infatti, quest’ultima appare segnata

da una matrice veneta che non deriva solamente dalla

prima educazione architettonica ricevuta da Piranesi

presso lo zio Matteo Lucchesi e Giovanni Scalfarotto,

dall’amicizia con Temanza, dall’alunnato presso Carlo

Zucchi nell’incisione e Giuseppe Valeriani per il disegno

scenografico, ma pure da un’intima vocazione

al capriccio, declinato con una sensibilità visiva tutta

lagunare. Ormai indagate le dinamiche del suo iniziale

pendolarismo tra Venezia e Roma, fin oltre la metà

degli anni Quaranta, risulta ora più agevole riconoscere

in Piranesi l’influsso delle contemporanee incisioni

di Tiepolo – plausibili responsabili della rapida

maturazione del linguaggio compositivo piranesiano

verso le commistioni di antico e d’Arcadia dei grandi

Grotteschi (1747-49) – e della singolare produzione

acquafortistica a soggetto paesistico e di veduta a cui

in quegli stessi anni si stava dedicando Canaletto. E

l’apparente contraddizione si risolve proprio in rapporto

a questo non estesissimo corpus incisorio canalettiano,

che fissa “la libertà dell’aria nella luce della

carta” con una felicità sino ad allora impensata. Del

resto, il definitivo rientro a Roma di Piranesi dopo

il secondo soggiorno a Venezia, nel settembre 1747,

fu reso possibile proprio dal mercato delle stampe,

su richiesta dell’editore tedesco Joseph Wagner, che

dal 1739 si era stabilito nella città lagunare dopo gli

esordi londinesi al seguito di Jacopo Amigoni. Iniziata

a Rialto, e trasferita poi in Merzaria a San Zulian, la

Calcografia Wagneriana avrebbe in seguito assunto un

ruolo fondamentale a Venezia come attivissimo fulcro

della locale produzione incisoria di traduzione, diffondendo

in tutta Europa il tipico linguaggio grafico della

Serenissima tramite tutta una generazione d’incisori

formatisi nella sua bottega. È possibile dunque che,

giusto in corrispondenza con la costituzione formale

della società d’impresa con Amigoni, nel 1747, Wagner

abbia pensato di inaugurare nuovi orizzonti commerciali

coinvolgendo proprio Piranesi che, secondo il suo

biografo Legrand, portò con sé a Roma un campionario

di stampe del valore di cinquecento ducati ricevuto

in conto vendita dall’editore, capitale con cui poté iniziare

con successo la propria carriera romana. È significativo

dunque che Piranesi, proprio nel corso di quel

decennio cardine per la stampa d’arte a Venezia, si sia

venuto a porre a Roma – e, da qui, rivolto poi a tutto

il mondo di allora – come l’ideale ambasciatore della

più originale produzione incisoria veneta. E questa, a

sua volta, non poteva non riflettere gli esiti della contiguità

concettuale di paesaggio, capriccio e veduta, trasfigurati

in un linguaggio grafico intriso nella speciale

fenomenologia della luce lagunare [1] .

282 —GENERI E TEMI —

— , L’INCISIONE: GLI ANNI QUARANTA — 283



CLAUDIA

CROSERA

FIG. 1

GIOVANNI CATTINI da

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Bossuet ispirato dalla Fede

e dalla Verità, in Jacques

Bénigne Bossuet, Œuvres,

Venezia 1736, antiporta, vol. I.

Venezia, Museo Correr,

Biblioteca

1 _ Lettere di Apostolo Zeno ...

3, Venezia 1752, p. 310.

2 _ Per Anton Maria Zanetti,

oltre al cammeo dedicato

all’erudito da Francis Haskell:

Mecenati e pittori. Studio sui

rapporti tra arte e società

italiana nell’età barocca, Firenze

1966 (ed. 1985), pp. 519-526, si

veda il recente catalogo della

mostra La vita come opera

d’arte, catalogo della mostra

(Venezia, Ca’ Rezzonico) a cura

di A. Craievich, Venezia 2018.

3 _ Sull’attività di

promozione culturale del

console Smith si veda il recente

contributo di B. Alfonzetti,

Le committenze del console

Smith e il sapere architettonico

(Algarotti, Arrighi-Landini,

Conti, Poleni), in Diplomazia

e comunicazione letteraria nel

secolo XVIII. Gran Bretagna

e Italia, Atti del Convegno

Internazionale di studi

(Modena, 21-23 maggio 2015) a

cura di F. Fedi e D. Tongiorgi,

Roma 2017, pp. 203-220.

4 _ Sulla figura di Algarotti

cfr. Haskell 1966 (ed. 1985), pp.

GENERI

E TEMI

L’EDITORIA

“Mi è tuttavia più caro

avere i libri, che i quattrini. Di questi ogni poco mi

basta: là dove di quelli sono insaziabile”: così scriveva

Apostolo Zeno da Vienna, il 31 gennaio 1722, al marchese

Giovanni Poleni di Padova [1] . Un piacere inappagabile

di possedere libri che il letterato condivideva

con molti degli amatori veneziani e stranieri presenti

in città in quel tempo come Anton Maria Zanetti il

Vecchio [2] , il console inglese residente a Venezia

Joseph Smith [3] e il Conte Francesco Algarotti [4] ,

che, oltre a possedere fornitissime biblioteche [5] ,

furono tra i promotori di alcune delle più importanti

imprese editoriali del secolo [6] .

Il modello di riferimento per la produzione

di volumi prestigiosi e riccamente illustrati è sicuramente

Parigi, centro nevralgico dell’editoria di lusso

in cui, a partire dal terzo decennio del secolo, con

l’affermarsi del linguaggio rococò, si assiste al fiorire

di un nuovo interesse per il libro d’arte, destinato a

un pubblico esclusivo, caratterizzato da uno sfarzoso

corredo iconografico, da una raffinata veste tipografica

e dalla leggera grazia della mise en page [7] . Questa

innovazione si deve principalmente alla presenza di

tre illuminati conoscitori, impegnati, in questi anni,

in importanti progetti editoriali: il banchiere Pierre

Crozat, il collezionista conte di Caylus e il mercante

di stampe Pierre-Jean Mariette [8] , che avevano intessuto

stretti legami di amicizia con alcuni dei più illustri

artisti e mecenati veneziani [9] .

La città lagunare si era dimostrata, in questi

stessi decenni, un terreno particolarmente fertile per

lo sviluppo dell’editoria illustrata: si trattava, infatti,

di un ambiente colto, aperto alle novità e agli scambi

culturali con i maggiori centri d’Europa. Venezia inizia

a elaborare progetti editoriali complessi e raffinati

con finalità celebrative, diventando così il maggiore

centro di produzione dell’editoria di lusso dei primi

decenni del XVIII secolo [10] .

La complessa realtà culturale sottesa alla nascita

e alla diffusione del progetto-libro – che prevedeva la

contemporanea presenza di mecenati, collezionisti,

bibliofili e consulenti culturali, disegnatori e incisori,

accanto a editori e stampatori, considerati dei veri e

propri “imprenditori del libro” – favorisce la produzione

di splendide e sontuose edizioni, frutto spesso

di un consistente impegno economico [11] , caratterizzate

da una lunga gestazione, da un’accurata fase preparatoria,

dal felice connubio tra il testo scritto e un

apparato illustrativo di altissima qualità, dall’impaginato

raffinato ed elegante e da complessi rapporti tra

committente-ideatore, artista-esecutore e stampatore.

Alcune delle pubblicazioni più interessanti

del secolo sono, infatti, sicuramente il frutto di riusciti

sodalizi di tipo artistico, come quelli tra l’editore

Albrizzi, Giambattista Piazzetta e l’incisore Andrea

Zucchi [12] , o di tipo commerciale, come quelli tra l’editore

Giambattista Pasquali e il console britannico

a Venezia Joseph Smith, o di Antonio Zatta con il

ricco mercante e collezionista e console di Augusta

Amedeo Svajer e il pittore Pietro Antonio Novelli [13] .

Tra i maggiori editori veneziani che si dedicavano

alla produzione di volumi illustrati in edizione

di lusso, si ricordano quindi l’Albrizzi, il Pasquali e

lo Zatta [14] .

— L’EDITORIA — 285



Giambattista Albrizzi, collezionista di opere

d’arte e di libri in contatto con il più aggiornato mercato

editoriale europeo, pubblica nel corso dell’Età

dei lumi opere di aristocratica eleganza come le

Œuvres del Bossuet con le illustrazioni di Giambattista

Tiepolo e di Giambattista Piazzetta (figg. 1, 2), in dieci

tomi editi a partire dal 1736 fino al 1757 [15] , e, nel 1745,

il volume in folio della Gerusalemme Liberata sempre

illustrato da Piazzetta, considerato uno dei capolavori

della stampa veneziana settecentesca (fig. 3) [16] .

“Grossissimo è ancora il commercio de’ libri, i quali

d’ordinario si vendono a discretissimo prezzo”, ricordava

Thomas Salmon, “e taluni de’ nostri Stampatori

son giunti in questi ultimi tempi colla nitidezza della

carta, colla pulitezza de’ caratteri, e cogli ornamenti di

bellissimi intagli in rame ad uguagliare le più magnifiche

Edizioni oltramontane, facendo fra le altre molto

onore alle Stampe veneziane la superba Edizione in

foglio della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso,

fatta nell’anno 1745 da Gio: Battista Albrizzi colle

figure di Gio: Battista Piazzetta. Tutte le altre arti sì

liberali che meccaniche fioriscono quivi a maraviglia

pittori, scultori, architetti, intagliatori ritrovano in

copia, e forse i più eccellenti di tutta l’Italia”.

Anche dalla stamperia di Giambattista Pasquali

escono edizioni lussuose riccamente decorate: tra le

numerose si ricordano la Dactyliotheca Smithiana

con le illustrazioni di Giambattista Brustolon datata

1767 e i diciassette volumi delle Opere del Goldoni con

le vignette di Pietro Antonio Novelli usciti tra il 1761

e il 1780 [17] .

Dai torchi dell’editore Zatta, forse il più

moderno dei tre, a partire dalla metà del secolo,

escono alcuni importanti classici della letteratura

italiana: tra quelli di maggior rilievo si ricordano i

volumi de Le rime di Francesco Petrarca del 1756, alla

cui decorazione collaborano tra gli altri Francesco

Fontebasso e l’incisore Giambattista Brustolon; i tre

volumi della Divina Commedia di Dante, editi tra 1757

e 1758, con un centinaio di tavole, cornici e finalini a

opera di un’équipe di artisti tra cui Gaspare Diziani,

Francesco Fontebasso e Jacopo Guarana tra gli inventori

e Bartolomeo Crivellari, Giuliano Giampiccoli e

Giacomo Leonardis tra gli incisori [18] .

L’aspetto forse più interessante e al contempo

innovativo dell’editoria veneziana della prima metà

del XVIII secolo è dato dal fatto che molti tra i più

illustri pittori, disegnatori e incisori del tempo dedicavano

parte delle loro attività alla produzione di

materiali per l’editoria, sia per i veri e propri libri di

lusso, sia per pubblicazioni d’occasione [19] , libretti

d’opera, album e raccolte di incisioni e, talvolta, persino

per biglietti da visita e volantini pubblicitari

[20]

. Diventa consueto allora, tra le pagine stampate

nel Settecento, imbattersi nei nomi di Giambattista

Tiepolo, Giambattista Piazzetta, Luca Carlevarijs,

Antonio Balestra, Francesco Zugno, Francesco

Fontebasso, Gaspare Diziani, Gaetano Zompini e

Pietro Antonio Novelli in qualità di ideatori e disegnatori

di raffinate e complesse composizioni che

poi, dalle mani di alcuni tra più esperti calcografi del

tempo, venivano tradotte in segni incisi [21] .

E così, mentre i dettagliatissimi fogli di

Tiepolo [22] per lo più a matita nera che l’artista realizza

fin dalla sua prima giovinezza, coerentemente

con la sua poetica, si allontanano dalla tradizionale

impostazione tardoseicentesca, scegliendo un punto

di vista nuovo, un differente taglio delle inquadrature,

dando maggiore risalto agli effetti della luce, quelli di

Balestra “non cercano di suggerire il tratto dell’incisore,

come accade sovente in Tiepolo. Sono invece

disegni a penna e acquerello, spesso anche piuttosto

arruffati”, dei “veri e propri ’dipinti in miniatura’,

incastonati tra le pagine di un libro, come certe antiporte

del maestro, tanto più suggestive quanto maggiore

il formato del libro” [23] .

Ma il pittore che, nella Venezia del Settecento,

più di ogni altro aveva lavorato per il mondo dell’editoria

era sicuramente Giambattista Piazzetta: egli,

nel corso di tutta la sua esistenza, aveva fornito all’Albrizzi,

amico ed editore di fiducia, un gran numero di

disegni, per lo più a matita rossa, per alcune tra le sue

più importanti imprese tipografiche [24] . Ed è così che

la Gerusalemme Liberata del Tasso, uscita a Venezia

nel 1745, si riempie di eleganti cornici e fregi rococò,

capilettera istoriati e fantasiose vignette raffiguranti

movimentate scenette pastorali [25] .

L’ultimo grande artista attivo per il mondo

dell’editoria è stato Piero Antonio Novelli, che “per

quasi mezzo secolo non ha fatto altro che disegnare

antiporte, frontespizi, tavole, vignette e finali d’ogni

genere, non rifiutando la propria collaborazione

527-547 e M. Magrini, Anton

Maria Zanetti il vecchio a

Francesco Algarotti: due veneziani

“cittadini” europei, “Arte Veneta”,

73, 2016, pp. 227-231.

5 _ Tra queste, una delle più

ricche di preziosi volumi era

sicuramente quella di Zanetti,

come ricorda in una sua missiva

al conte Giacomo Carrara

il critico d’arte bergamasco

Francesco Maria Tassi: “Vado

spesse volte dal signor Antonio

Zanetti, il quale possiede cose

rarissime di disegni, stampe,

medaglie, cammei ed altre

pietre intagliate, ed ha una

raccolta di libri spettanti alle

belle arti del disegno che non si

può vedere cose più belle”.

6 _ M. Magrini, Giambattista

Tiepolo e i suoi contemporanei,

in Lettere artistiche del

Settecento veneziano, Vicenza

2002, pp. 253, n. 101. È stato

di recente pubblicato da Anna

Bozena Kowalczyk (Il “prezioso”

manoscritto della collezione

Bettagno: l’”Indice” della della

biblioteca di Anton Maria

Zanetti, in Venezia Settecento.

Studi in memoria di Alessandro

Bettagno, a cura di A.B.

Kowalczyk, Cinisello Balsamo

2015, pp. 31-36).

7_ Tra i più celebri pittori

che si dedicano all’illustrazione

libraria in Francia si ricordano

François Boucher, autore nel

1735 di trentatré invenzioni per

le Œuvres di Molière e Jean-

Honoré Fragonard con una serie

di disegni per i racconti di Jean

de la Fontaine.

8 _ È proprio grazie al loro

illuminato mecenatismo che,

tra il 1729 e il 1742, vennero

pubblicati i due volumi del

Recueil d’Estampes d’après

les plus beaux tableaux, et

d’après les plus beaux desseins

qui sont en France dans le

Cabinet du Roy et dans celui de

Monseigneur le duc d’Orléans,

et dans d’autres Cabinets (I vol.

1729, II vol. 1742). La portata

innovativa di questa impresa

anche sull’arte veneziana coeva

è sottolineata per la prima

volta da Francis Haskell nel suo

fondamentale contributo sulla

difficile nascita del libro d’arte

(La difficile nascita del libro

d’arte, in Le metamorfosi del

gusto. Studi su arte e pubblico

nel XVIII e XIX secolo, Torino

1989, pp. 502-103).).

9 _ Holloway (French Rococo

book illustration, London

1969) ricorda alcuni dei suoi

maggiori protagonisti: Jean

Baptiste Oudry, autore delle

Contes di La Fontaine, incise

da Charles-Nicolas Cochin

(cfr. C. Michel, Charles-Nicolas

Cochin et le livre illustré au

XVIIIe siècle. Avec un catalogue

raisonné des livres illustrés par

Cochin 1735-1790, Genève 1987

e Id., Charles-Nicolas Cochin et

l’art des lumières, Roma 1993),

Hubert-François Bourguignon

detto Gravelot e per finire

Charles Eisen.

10 _ Haskell 1966 (ed.

1985), pp. 506-526. Dopo il

pioneristico studio di Giuseppe

Morazzoni che risale al lontano

1943 intitolato Il libro illustrato

veneziano del Settecento

(Milano) e l’insostituibile tomo

dedicato all’editoria veneziana

del Settecento di Mario Infelise

uscito nel 1989, negli ultimi

decenni l’argomento è stato

oggetto di nuovo interesse da

parte degli studi. In particolare,

è stata data grande attenzione

all’attività di illustratori di

libri di molti artisti veneziani

nel corso di tutto il secolo nel

catalogo della mostra tenuta

a Padova, dal titolo Tiepolo.

Piazzetta. Novelli, Crocetta del

Montello 2012.

11 _ La pubblicazione di

volumi di lusso – in genere di

grandi dimensioni e spesso

divisi in più tomi – prevedeva

ingenti spese di esecuzione

e di stampa, presupponendo

finanziatori o sottoscrittori

che le coprissero, almeno in

parte. In caso di mancanza di

fondi si poteva ricorrere alle

FIG.2

GIOVANNI CATTINI da

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Il trionfo della Fede e della

Sapienza sulle Eresie, in

Jacques Bénigne Bossuet,

Œuvres, Venezia 1738,

antiporta, vol. III. Venezia,

Museo Correr, Biblioteca

anche per pochissimi soggetti” [26] . Di lui si ricordano

le linee accademiche e classicheggianti delle centinaia

di disegni realizzati per alcuni dei più importanti

testi letterari e teatrali della seconda metà del

secolo, dalla Gerusalemme Liberata stampata presso

Antonio Groppo tra 1760 e 1761 alle Commedie del

Goldoni, incise da Antonio Baratti e pubblicate tra

1760 e 1764 presso il Pasquali, all’Orlando Furioso di

Ariosto stampato da Zatta nel 1772, fino ai quarantaquattro

tomi con le Opere teatrali del Goldoni uscite

dai torchi di Zatta tra 1788 e 1795, con più di seicento

illustrazioni [27] .

Molte informazioni relative alla complessa

genesi di questo genere di prestigiosi libri riccamente

illustrati si potevano ricavare dalle dediche ad apertura

dei volumi [28] , dagli epistolari di eruditi, letterati,

storiografi e conoscitori, e dalle pubblicazioni

periodiche di argomento letterario, come ad esempio

“La Galleria di Minerva”, un giornale attivo dal 1696

al 1717, edito dall’Albrizzi, con il quale collaborava

Apostolo Zeno, in cui comparivano notizie sia nazionali

che internazionali, recensioni di edizioni rare e

soprattutto pubblicità delle più importanti nuove

imprese editoriali degli inizi del nuovo secolo [29] .

Tra i motivi della fortuna dell’industria editoriale

del Settecento lagunare, oltre alla presenza di un

gran numero di famosi artisti attivi nel settore dell’illustrazione

libraria, si aggiungeva una legislazione

286 —GENERI E TEMI —

— L’EDITORIA — 287



moderna che mirava a proteggere le pubblicazioni

locali dall’invasione dei testi foresti e dal plagio

attraverso il privilegio – cioè nel diritto esclusivo di

stampa –, garantendo così il lavoro degli stampatori

e dei librai che si dedicavano alla produzione e alla

distribuzione di libri illustrati di pregio [30] .

Fondamentale era stato inoltre il contributo

della fitta schiera di calcografi, sia incisori-traduttori

che utilizzavano e interpretavano disegni altrui,

sia peintres-graveurs, cioè artisti che traducevano in

stampe le loro idee originali, perché, come ricordava

Rodoldo Pallucchini introducendo un’epocale mostra

sulla storia dell’incisione a Venezia, “la produzione incisoria

del Settecento veneziano, ce lo documenta l’abate

Giannantonio Moschini nel suo abbozzo storico, è stata

fecondissima come in nessun altro momento della storia

delle arti figurative italiane” [31] . E mentre alcuni incisori

di traduzione attivissimi per il mondo dell’editoria

ancora continuavano a usare esclusivamente il bulino,

come Marco Pitteri – per il quale “era cosa mirabile

il vedere raggiunti sì vivi effetti di contorno e di chiaro-scuro,

ad onta che non cavasse il rame che con un

sol taglio. Egli non fece giammai uso dell’acqua forte”

–, altri invece avevano accolto la novità della commistione

delle tecniche del bulino e dell’acquaforte, giunta

in Italia grazie all’arrivo a Venezia, alla fine del terzo

decennio, di Joseph Wagner. Fu proprio l’incisore tedesco

che, tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo,

a detta di Anton Maria Zanetti il Giovane, “portò in

Venezia la bella maniera d’intagliare in rame con acqua

forte e bulino, svegliata e perfezionata già in Francia dal

celebre Audran”, ed è “perciò benemerito d’aver quivi

introdotta una maniera così applaudita; e d’aver fatti

molti degni discepoli” [32] , dando vita a una delle botteghe

calcografiche più operose del tempo, anche grazie

al sodalizio con Jacopo Amigoni, che lo mise in contatto

con i maggiori connoisseurs attivi a Venezia, come

Anton Maria Zanetti e il console Smith, con i quali collabora

fornendo incisioni per i loro più importanti progetti

editoriali [33] .

FIG. 3

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Apollo e le Muse, in Torquato

Tasso, La Gerusalemme

liberata, Venezia 1745.

Venezia, Museo Correr,

Biblioteca

sottoscrizioni, generalmente

promosse da librai ed editori:

si tratta di una sorta di

finanziamento attraverso

il quale si coinvolgevano

preventivamente nelle iniziative

editoriali gli illustri destinatari,

che, prenotando i volumi,

stipulavano una garanzia di

sicuro acquisto.

12 _ Sul rapporto Albrizzi-

Piazzetta, in una lettera di

Francesco Algarotti ad Heinrich

Bruhl si legge: “J’ai donné les

100 sequins à Monsieur Albrizzi,

libraire de ce païs-ci, le seul

homme qui puisse tirer quelque

chose de ce peintre habile et

bizarre”, cfr. Magrini in Lettere

artistiche 2002, I, n. 33, p. 107.

13 _ Infelise 1985, pp. 162-170.

14 _ Haskell 1966 (ed.

1985), pp. 509 e ss. Tra i più

importanti editori e stampatori

che a Venezia si occupavano

di libri d’arte si ricordano

Girolamo Albrizzi con i due figli

Almorò e Giovanni Battista,

Giambattista Pasquali e Antonio

Zatta (Infelise 1989, pp. 9-39).

15 _ Piazzetta aveva

realizzato per le Œuvres del

Bossuet (1736-1757) circa un

centinaio di disegni – oggi

conservati per la maggior parte

alla Biblioteca Reale di Torino

e alla Fondazione Giorgio Cini

di Venezia – incisi da Giovanni

Cattini in primis e da almeno

una decina di altri intagliatori

tra cui Carlo Orsolini, Marco

Pitteri e Bartolomeo Crivellari,

solo per ricordarne alcuni. Cfr.

Haskell 1966 (ed. 1985), pp. 510-

511 e Ton in Tiepolo. Piazzetta.

Novelli 2012, pp. 158-161.

16 _ T. Salmon, Lo stato

presente di tutti i paesi, e popoli

del mondo (Venezia 1731-1766),

Volume XX, parte 1, p. 83.

Haskell 1966 (ed. 1985), pp. 511-

512; Ton in Tiepolo. Piazzetta.

Novelli 2012, pp. 168-173.

17 _ Per il Pasquali si veda

Haskell 1966 (ed. 1985), pp.

513-515. Sui due volumi della

Dactyliotheca Smithiana, cfr.

Crosera in Tiepolo. Piazzetta.

Novelli 2012, pp. 408-411;

sull’edizione di Giambattista

Pasquali delle Commedie di

Carlo Goldoni, cfr. Stopper in

Tiepolo. Piazzetta. Novelli 2012,

pp. 264-268.

18 _ Per le edizioni Zatta,

cfr. il Catalogo dei libri latini

e italiani che trovansi vendibili

nel negozio di Antonio Zatta

e figli, libraj e stampatori di

Venezia, Venezia 1791; Haskell

1966 (ed. 1985), pp. 515-517.

In particolare, per le Rime del

Petrarca si vedano Lo Giudice in

Tiepolo, Piazzetta, Novelli 2012,

pp. 204-207, e per le edizioni

della Commedia dantesca,

Ibidem, pp. 208-213.

19 _ Per le pubblicazioni

d’occasione del Settecento a

Venezia si veda A. Pettoello,

Libri illustrati veneziani del

Settecento. Le pubblicazioni

d’occasione, Venezia 2005.

20 _ Si ricordano alcuni rari

esempi superstiti di progetti per

fogli pubblicitari di Giambattista

Tiepolo di Pietro Antonio Novelli

(A. Craievich, Maestri e botteghe

nella Venezia del Settecento,

catalogo della mostra (Crema,

Centro Culturale Sant’Agostino)

a cura di F. Magani, F. Pedrocco,

Milano 2002, pp. 48-49), di

Giambattista Piazzetta (D. Ton. in

Tiepolo. Piazzetta. Novelli 2012,

pp. 153, 189).

21 _ Molti disegni per le

illustrazioni librarie, che

un tempo si riteneva essere

rari esempi superstiti di una

procedura che li destinava

al sacrificio nelle botteghe

degli incisori, in realtà

sono sopravvissuti come

testimonianza dell’intenso

sforzo inventivo di pittori che

spesso, durante la loro carriera,

si dedicavano anche a questo

ambito: cfr. D. Ton, in Tiepolo,

Piazzetta, Novelli 2012, pp. 15-31.

22 _ Sull’attività di Tiepolo

per l’editoria si vedano F.

Pedrocco, Giambattista

Tiepolo illustratore di libri, in

Giambattista Tiepolo il segno e

l’enigma, catalogo della mostra

(Gorizia, Castello) a cura di D.

L’innovazione più importante del libro illustrato

veneziano del Settecento, rispetto alle pubblicazioni

del secolo precedente, è data dal fatto che le edizioni

diventano più ricche grazie alla scelta di carte più

preziose, di una migliore qualità di stampa mediante

l’utilizzo di caratteri più eleganti e ariosi, di una più

studiata impaginazione, di una maggiore quantità e

qualità di illustrazioni. Aumenta il numero delle edizioni

di altissima qualità e di grande impegno: si

ristampavano opere già edite oppure si pubblicavano

testi nuovi di argomento storico, scientifico, teatrale o

letterario, nei quali la maestosità dei vecchi fregi tipografici

lasciava il posto alla grazia e alla leggerezza delle

decorazioni calcografiche, a bulino e ad acquaforte. Si

assiste così a una vera e propria esplosione e frantumazione

dell’illustrazione, che irrompe, con le grandiose

antiporte, i solenni ritratti, le iniziali istoriate, le

eleganti vignette e i leggiadri finalini, in tutti i meandri

del libro di lusso. Le illustrazioni quindi, che ad

eccezione di alcuni casi avevano funzione didascalica,

FIG. 4

ROBERT VAN AUDENARD

Ercole indica la strada verso i

templi della Virtù e dell’Onore

a un giovane della famiglia

Barbarigo, in Numismata

virorum illustrium ex

Barbadica gente, Padova 1732,

antiporta. Venezia, Museo

Correr, Biblioteca

venivano utilizzate per visualizzare i contenuti del

libro ed enfatizzarne i valori, per rendere più appetibile

la lettura del testo o per arricchirlo di significati

ulteriori, diventando parte integrante, si potrebbe dire

irrinunciabile, dell’“oggetto-libro”. Lo si nota in prima

istanza nei cataloghi delle opere d’arte – talvolta anche

redatti con finalità commerciali – che anche a Venezia

iniziavano a essere concepiti su modello della colossale

impresa editoriale del Recueil d’estampes iniziata

nel 1720 da Pierre Crozat, come i due tomi del Gran

Teatro delle Pitture e Prospettive di Venezia, stampati

nello stesso anno, nei quali, come ricorda Moschini:

“gl’intagli sono, per la maggior parte, di Andrea Zucchi

veneziano il vecchio, e di Domenico Rossetti, con disegni

di Silvestro Manaigo, e alcuni di Giambattista

Tiepolo, avendo costui assai per tempo cominciato i

suoi studi dalle opere de’ più sublimi maestri, e spezialmente

da quelle di Paolo Veronese” [34] .

Spesso quindi, i sontuosi ritratti ad apertura dei

volumi, le composizioni allegoriche che animavano le

288 —GENERI E TEMI —

— L’EDITORIA — 289



complesse antiporte, le animate scenette che facevano

capolino tra le pagine scritte, diventavano uno strumento

comunicativo molto più efficace e diretto del

testo, soprattutto nei libri concepiti con finalità celebrativa,

come accade ad esempio in uno dei primi esempi

di volumi illustrati di pregio apparsi nel Veneto del XVIII

secolo: i Numismata virorum illustrium ex Barbadica

gente, volume in folio stampato a Padova nel 1732, ma

veneziano tout court, che celebra le glorie della illustre

famiglia Barbarigo attraverso le medaglie (fig. 4) [35] .

Accanto a questi, tra le pagine più felici dell’editoria

veneziana settecentesca, si ricordano anche

libri didattici, libri ecclesiastici, libri celebrativi, testi

teatrali [36] ; e ancora le Guide, gli Atlanti [37] , o i classici

della letteratura [38] , gli album di vedute, i libri di viaggio

[39] e i cataloghi illustrati delle raccolte di antichità

e d’arte. A questo ultimo genere di libri di tema antiquario

appartengono alcune pubblicazioni, come ad

esempio quella che Zanetti dedica allo statuario marciano

intitolata Delle antiche statue greche e romane

del 1740-43 (fig. 5) [40] ; la Dactyliotheca Zanettiana,

catalogo delle gemme antiche e dei cammei della

raccolta di Anton Maria Zanetti del 1750 (fig. 6) [41] ,

e la Dactyliotheca Smithiana, volume dedicato alla

analoga collezione del console britannico a Venezia

Joseph Smith del 1767 [42] , che può essere considerato,

a tutti gli effetti, uno degli ultimi grandiosi progetti

editoriali di una Venezia che presagiva già l’inizio di

un lento ma inesorabile crepuscolo. Le glorie dell’editoria

lagunare saranno, infatti, ben presto destinate

a dissolversi: nella seconda metà del secolo si iniziano

ad avvertire i primi sentori di una crisi dovuta in parte

all’aumento del potere delle stamperie di terraferma

– prime tra tutte quella dei Remondini di Bassano

– e in parte al crollo del mercato del libro religioso

che aveva determinato l’improvviso venir meno di

una delle maggiori fonti di guadagno per le stamperie

veneziane. Dopo il 1760, due tra i maggiori editori

di opere di alta qualità appaiono in pieno declino: per

l’Albrizzi inizia un periodo di grandi difficoltà finanziarie

e anche il Pasquali, a causa della rottura del

sodalizio con il console Smith, è costretto ad abbandonare

il genere dell’editoria illustrata di lusso per

mancanza di mezzi economici [43] .

Ma forse l’elemento che più determinò la fine

di questa era fu la diminuzione, rispetto alla prima

metà del Settecento, di importanti progetti e di

influenti mecenati in grado ancora di concepire idee

grandiose, come annota Giannantonio Moschini a

chiosa della sua storia dell’incisione veneziana: “è per

altro verissima cosa, che presentemente cessarono

tante di quelle occasioni che teneano in movimento

tante mani e tanti bulini” [44] .

Succi, Treviso 198, pp. 64-76, e il

recente contributo di D. Ton, in

Tiepolo, Piazzetta, Novelli 2012,

pp. 60-106.

23 _ Sull’attività del pittore

per l’editoria si veda inoltre A.

Tomezzoli, in Ivi, pp. 110-114

e ss. e il recente contributo di

Giorgio Marini nel catalogo della

mostra a lui dedicata: G. Marini,

Il microcosmo aggraziato:

disegni per l’editoria, in Antonio

Balestra, nel segno della grazia,

catalogo della mostra (Verona,

Museo di Castelvecchio) a cura

di A. Tomezzoli, Verona 2016,

pp. 101-114.

24 _ Il sodalizio con

l’editore, iniziato nel 1736 con

l’invenzione di un centinaio

di disegni per le Œuvres di

Jacques Benigne Bossuet, sarà

proficuo e duraturo: cfr. G. B.

Piazzetta. Disegni-Incisioni-

Libri-Manoscritti, catalogo della

mostra (Venezia, Fondazione

Giorgio Cini) a cura di A.

Bettagno, Vicenza 1983, passim

e da ultimo Ton, in Tiepolo.

Piazzetta. Novelli 2012, pp. 20-

25, 152-165, 168-175; Apolloni,

in Ibidem, pp. 166-167, 176-193.

25 _ Lo stesso Albrizzi

sottolineava la bellezza delle

illustrazioni “tutte di vario

disegno, delineate dal celebre

Pittor Piazzetta, ed intagliate

in rame da’ più valenti Incisori.

Di questa impresa resteranno

soddisfatti non solo i Poeti, ma

i Pittori ancora, e gli Scultori;

e spero che tanti e sì fini

ornamenti non sieno mai stati

più veduti in libro alcuno” (Ton,

in Tiepolo. Piazzetta. Novelli

2012, p. 23).

26 _ Morazzoni 1943, p. 184.

27 _ A. Sponchiado, in

Tiepolo. Piazzetta. Novelli 2012,

pp. 258-262, 274-277, 282-290,

294-299, 302-303; cfr. inoltre F.

Stopper, in Ibidem, pp. 264-273,

FIG. 5

FELICITA SARTORI da

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Minerva che rende omaggio

a Venezia, in Delle antiche

statue, Venezia 1740,

antiporta. Venezia, Museo

Correr, Biblioteca

FIG. 6

Le gemme antiche di Anton

Maria Zanetti di Girolamo,

Venezia 1750, frontespizio.

Venezia, Museo Correr,

Biblioteca

278-281, 292-293, 300-301.

28 _ Sulle forme, significati

e tipologie di dedica si veda M.

Paoli, La dedica. Storia di una

strategia editoriale, Lucca 2009,

passim.

29 _ Sulla rivista cfr. D.

Levi, L. Tongiorgi Tomasi,

Testo e immagine in una rivista

veneziana tra Sei e Settecento:

La galleria di Minerva,

“Annali della Scuola Normale

Superiore di Pisa, classe di

lettere e filosofia”, ser. III, XX,

1990, pp. 186-210; C. Griggio,

“La Galleria di Minerva” e

Venezia: “la più saggia, la più

giusta, la più forte di tutte le

Repubbliche”, “Cahiers d’études

romanes”, 12, 2005, pp. 13-24.

Cfr. inoltre R. Gorian, Testo e

immagine nei periodici antichi.

Le testate politiche veneziane

(XVII-XVIII secolo), in Storia per

parole e per immagini, a cura di

U. Rozzo, M. Gabriele, Udine

2006, pp. 267-299, pp. 267-299.

30 _ Come ricorda

Morazzoni (1943, p. 55), infatti,

nel 1697 a Venezia si contavano

ventisette stamperie; questo

numero era arrivato, nel giro di

quasi quarant’anni a triplicarsi

arrivando a novantaquattro

nel 1735, per poi diminuire

nuovamente fino ad arrivare a

cinquantasette a fine secolo.

31 _ Pallucchini 1941, p. 9.

32 _ A.M. Zanetti, Della

pittura veneziana e delle opere

pubbliche de’ veneziani maestri

libri V, Venezia 1771, p. 547.

33 _ C. Lo Giudice, Joseph

Wagner. Maestro dell’incisione

nella Venezia del Settecento,

Sommacampagna 2018, pp. 35-36.

34 _ G. Moschini,

Dell’incisione in Venezia,

pubblicata a cura della Regia

Accademia di Belle Arti di

Venezia, Venezia 1924, p. 56.

Altri importanti tomi riferibili a

questo genere furono stampati

solo molto più tardi: si pensi

agli Studi di pittura di Piazzetta

nel 1760 (Apolloni, in Tiepolo.

Piazzetta. Novelli 2012, pp. 179-

180), al Compendio delle Vite de’

Pittori di Alessandro Longhi del

1762 (Apolloni, in Ibidem, pp.

372-374) e alla Raccolta di cento

e dodeci quadri… incisi da Pietro

Monaco, del 1763 (Apolloni, in

Ibidem pp. 376-378).

35 _ C. Crosera, Passione

numismatica: editoria, arti e

collezionismo a Venezia nel Sei

e Settecento, tesi di dottorato di

ricerca in storia dell’arte presso

la Scuola Dottorale in Scienze

Umanistiche dell’Università degli

Studi di Trieste, indirizzo storico

e storico-artistico (XXII ciclo),

Trieste 2010, pp. 70-77, 261-265;

e Les Numismata virorum

illustrium ex Barbadica gente

(Padoue, 1732), in Les médailles de

Louis XIV et leur livre, a cura di Y.

Loskoutoff, Mont-Saint-Aignan

2016, pp. 403-419.

36 _ Tra i testi teatrali che

ebbero grandissima diffusione in

tutta Europa si devono ricordare

innanzitutto le commedie di

Goldoni edite da Pasquali e da

Zatta in più edizioni tra gli anni

Sessanta e l’ultimo decennio

del Settecento. Cfr. Stopper

in Tiepolo. Piazzetta. Novelli

2012, pp. 264-268 e 269-273;

Sponchiado, in Ibidem, pp.

262-263.

37 _ Per gli Atlanti cfr. M.

Magliani, in Tiepolo. Piazzetta.

Novelli 2012 pp. 449-452.

38 _ Per i testi letterari cfr. M.

Magliani, Letteratura per figure,

in Tiepolo. Piazzetta. Novelli

2012, pp. 196-202.

39 _ Accanto alle vedute del

Carlevarijs si aggiungevano

quelle di Michele Marieschi

(Magnificentiores selectioresque

urbis Venetiarum prospectus del

1741) di Canaletto e Visentini

(Urbis Venetiarum prospectus

celebriores del 1742) e di

Canaletto (Vedute altre prese dai

luoghi altre ideate da Antonio

Canal del 1744).

40 _ Crosera, in La vita come

opera d’arte 2018, pp. 262-275. Tra

le imprese editoriali finanziate da

Zanetti, oltre a quelle dedicate

allo statuario marciano e alla sua

collezione di gemme, si ricorda

l’impresa delle Arti che vanno

per via con l’incisore Gaetano

Zompini, una pubblicazione

di genere dedicata alla serie di

mestieri ambulanti nella Venezia

del Settecento. Per una recente

disamina su questa pubblicazione

cfr. Craievich, in La vita come

opera d’arte 2018, pp. 292-295.

41 _ La stessa cura e

attenzione all’andamento dei

lavori e alla qualità delle incisioni,

Zanetti la dedica anche alle fasi

preparatorie del catalogo delle

gemme antiche e dei cammei

della sua raccolta, la cosiddetta

Dactyliotheca Zanettiana

(Crosera 2010, pp. 306-309;

Crosera, in Tiepolo. Piazzetta.

Novelli 2012, pp. 400-403).

42 _ Tra questi si

annoverano sia i libri d’arte

con finalità celebrativa

destinati a essere usati come

strenna da parte di famiglie

aristocratiche desiderose

di pubblicare i cataloghi

delle proprie collezioni, sia

volumi dall’esplicita finalità

commerciale, come cataloghi di

vendita di collezioni destinate a

essere immesse sul mercato. La

Dactyliotheca Smithiana esce

presso la stamperia Pasquali nel

1767, proprio l’anno della morte

dello Zanetti. Alla realizzazione

del catalogo della raccolta

Smith, dedicata a Giorgio III,

avevano collaborato l’erudito

fiorentino Anton Francesco

Gori per la redazione dei testi,

Anton Maria Zanetti il Giovane

per l’esecuzione dei disegni

e il bellunese Giambattista

Brustolon per -gli intagli.

43 _ Infelise 1989, pp. 275-338.

44 _ Moschini 1924, p. 188.

290 —GENERI E TEMI —

— L’EDITORIA — 291



CAT.VI.01

FRANCESCO BERTOS

Allegoria della Vendemmia

Bronzo con tracce di doratura, h 110 cm

Torino, Musei Reali, Palazzo Reale, inv. 2604 DC

Bibliografia _ Viancini 1994, p. 150; Avery 2008,

p. 222, cat. 118.

CAT.VI.02

FRANCESCO BERTOS

Allegoria della Guerra

Bronzo con tracce di doratura, h 110 cm

Torino, Musei Reali, Palazzo Reale, inv. 2569 DC

Bibliografia _ Viancini 1994, p. 150; Avery 2008, p.

222, cat. 119.

292 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 293



CAT.VI.04

ANTONIO TARSIA

Bacco ebbro con piccolo satiro

Marmo, cm 63,5×102×41 (inclusa la base)

Iscrizioni: retro della base rocciosa ANT.o TARSIA

Londra, Victoria and Albert Museum, inv. A 138-1956

Bibliografia _ Honour 1960, p. 28; Pope-Hennessy

1964, pp. 666-667; Semenzato 1966, pp. 43, 109; Raggio

1968, p. 105; De Vincenti 1996, pp. 52, 56 nota 58 (con

identificazione della commissione Manin); Zanuso 2000,

p. 791; Honour 2001, pp. 68, 287 nota 8; Klemenčič

2013, pp. 20-21, 182 nota 64.

CAT.VI.05

PIETRO BARATTA

Galatea

Marmo, cm 73,5×104×39 (inclusa la base)

Londra, Victoria and Albert Museum, inv. A 139-1956

CAT.VI.03

ANTONIO GAI

Busto ritratto del Bailo Giovanni Emo

Marmo, h 36 cm

Brun Fine Art

Bibliografia _ Honour 1960, p. 28 (come Antonio

Tarsia); Pope-Hennessy 1964, pp. 666-667 (come

Antonio Tarsia); Semenzato 1966, pp. 43, 109 (come

Antonio Tarsia); Raggio 1968, p. 105 (come Antonio

Tarsia); De Vincenti 1996, pp. 52, 56 nota 58 (con

attribuzione a Pietro Baratta e identificazione della

commissione Manin); Klemenčič 2000, p. 691;

Honour 2001, pp. 68, 287 nota 8; Klemenčič 2013,

pp. 20-21, 182 nota 64.

Bibliografia _ Benuzzi 2012-2013, pp. 60, 106-107;

Guerriero, in Éblouissante Venise 2019, p. 244, cat. 2.

294 —GENERI E TEMI —



CAT.VI.06

GIUSEPPE TORRETTI

Democrito

Marmo, h 60 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. XXV, n. 102

CAT.VI.07

GIUSEPPE TORRETTI

Eraclito

Marmo, h 60 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. XXV, n. 141

CAT.VI.08

ANTONIO CORRADINI

Busto di velata

Marmo, 54×40×20 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. XXV, n. 1089

Bibliografia _ Guerriero 2002, p. 87.

Bibliografia _ Guerriero 2002, p. 87.

Bibliografia _ Wengraf, in The Glory 1994, p. 447, cat.

58; Pedrocco, in Venezia! 2002, p. 310, cat. 225.

296 —GENERI E TEMI —



CAT.VI.09

GIOVANNI MARIA MORLAITER

Putti che giocano

Terracotta, 67×39 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. XXVII, n. 496

Bibliografia _ De Vincenti 2011a, p. 19, cat. 20.

CAT.VI.10

GIOVANNI MARIA MORLAITER

Mosè

Terracotta, h 62,5 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. XXVII, n. 462

Bibliografia _ De Vincenti 2011a, pp. 20-21, cat. 22.

CAT.VI.11

ANTONIO GAI

Allegoria di Venezia

Terracotta, h 20 cm

Collezione privata (per cortesia di Carlo Orsi

Antichità, Milano)

Bibliografia _ Guerriero 2010, p. 210; Benuzzi 2012-

2013, pp. 60, 106-107; Ansaldi 2016, p. 301; Guerriero, in

Éblouissante Venise 2018, pp. 22, 244, cat. 2.

CAT.VI.12

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Allegoria di Venezia

Porcellana, h 30 cm

Marca: assente

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016, pp.

363-364, cat. 148.

298 —GENERI E TEMI —



CAT.VI.13

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Cappello

Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 8,5 cm;

piattino ø 13,4 cm

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228;

Dal Carlo 2012, pp. 381-382.

CAT.VI.16

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Querini

Porcellana, tazza h 7,4 cm, ø 7 cm;

piattino ø 13,4 cm

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 223;

Dal Carlo 2012, pp. 378-379.

CAT.VI.14

MANIFATTURA DI MEISSEN

Ciotola, tazza e piattino con stemma Morosini

Porcellana, tazza h 6,8 cm, ø 6,5 cm; piattino ø 13 cm

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 225;

Dal Carlo 2012, p. 383.

CAT.VI.17

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza a campana e piattino con stemma Querini

Porcellana, tazza h 7,4 cm, ø 7 cm;

piattino ø 13,4 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 223;

Dal Carlo 2012, pp. 378-379.

CAT.VI.15

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino (due esemplari) con stemma

Morosini

Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 8,2 cm;

piattino ø 13,2 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 225; Dal

Carlo 2012, p. 383.

CAT.VI.18

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Querini

Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 8,5 cm,

piattino ø 13,4 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 223;

Dal Carlo 2012, pp. 378-379.

300 —GENERI E TEMI —



CAT.VI.19

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Da Ponte

Porcellana, tazza h 7,5 cm, ø 7 cm; piattino ø 13,5 cm

Trieste, collezione Giovanni Lokar

CAT.VI.20

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Pisani Corner

Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 7,7 cm; piattino

ø 13,5 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228.

CAT.VI.21

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza da brodo con stemma Pisani Corner

Porcellana, h 12 cm, ø 16 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228.

CAT.VI.22

MANIFATTURA DI MEISSEN

Zuccheriera con stemma Pisani Corner

Porcellana, h 7,5 cm

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228.

CAT.VI.23

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Pisani Gambara

Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 7 cm; piattino ø 13,7 cm

Trieste, collezione Giovanni Lokar

CAT.VI.24

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Pisani Gambara

Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 7 cm; piattino ø 13,7 cm

Collezione privata

CAT.VI.25

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Da Lezze

Porcellana, tazza h 4,5 cm; ø 7,7 cm; piattino ø 13 cm

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 212.

CAT.VI.26

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Da Lezze

(due esemplari)

Porcellana, tazza h 4,5 cm, ø 7,7 cm; piattino ø 13 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 212.

— CATALOGO DELLE OPERE — 303



CAT.VI.31

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Foscari

Porcellana, tazza h 4,7 cm, ø 7,6 cm;

piattino ø 13,2 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 225;

Dal Carlo 2012, pp. 383-384.

CAT.VI.32

MANIFATTURA DI MEISSEN

Vassoio con stemma Foscari

Porcellana, 4×18×13 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 225;

Dal Carlo 2012, pp. 383-384.

CAT.VI.27

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Diedo

Porcellana, tazza h 4,2 cm, ø 7,3 cm; piattino ø 12 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228.

CAT.VI.28

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Diedo

Porcellana, tazza h 4,2 cm, ø 7,3 cm; piattino ø 12 cm

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228.

CAT.VI.29

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Foscari

Porcellana, tazza h 4,7 cm, ø 7,6 cm; piattino

ø 13,2 cm

Trieste, collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 225; Dal

Carlo 2012, pp. 383-384.

CAT.VI.30

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza e piattino con stemma Grimani

Porcellana, tazza h 4,5 cm, ø 7,5 cm;

piattino ø 12,5 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 212; Dal

Carlo 2012, pp. 381-382.

304 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 305



CAT.VI.36

VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE

Lattiera

Porcellana, h 8 cm

Marca: V incisa sotto la base

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, collezione Nani Mocenigo Le Gallais,

inv. HL0211

Bibliografia _ Stringa, in Le porcellane di Marino

2014, pp. 21-22, cat. 5, con bibliografia precedente.

CAT.VI.37

VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE

CAT.VI.33

MANIFATTURA DI MEISSEN

Tazza a campana e piattino con stemma Gradenigo

Porcellana, tazza h 7,4 cm, ø 7,5 cm; piattino ø 13 cm

Collezione privata

Bibliografia _ Ceramiche 1995, pp. 262-263;

Cassidy-Geiger 2007b, p. 228; Dal Carlo 2012, p. 382.

CAT.VI.34

MANIFATTURA DI MEISSEN

Zuccheriera con stemma Gradenigo

Porcellana, h 12 cm, ø 10,5 cm

Bibliografia _ Ceramiche 1995, pp. 262-263; Cassidy-

Geiger 2007b, p. 228; Dal Carlo 2012, p. 382.

CAT.VI.35

MANIFATTURA DI MEISSEN

Servizio Gradenigo (caffettiera, scodella, tre tazze

con piattino)

Porcellana, caffettiera h 15 cm; scodella ø 15 cm;

tazza h 4,3 cm; piattino ø 13 cm

Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento veneziano,

Cl. V, n. 605

Caffettiera

Porcellana, h 10,6 cm

Marca: V incisa sotto la base

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, collezione Nani Mocenigo Le Gallais,

inv. HL0213

Bibliografia _ Stringa, in Le porcellane di Marino

2014, pp. 21-22, cat. 6, con bibliografia precedente.

Bibliografia _ Ceramiche 1995, pp. 262-263;

Cassidy-Geiger 2007b, p. 228; Dal Carlo 2012, p. 382.

CAT.VI.38

CAT.VI.39

CAT.VI.40

VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE

VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE

VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE

Caffettiera

Porcellana, h 10,8 cm

Marca: V incisa e dipinta in rosso

Vicenza, collezione privata

Lattiera

Porcellana, h 8 cm

Marca: V incisa e dipinta in rosso

Vicenza, collezione privata

Caffettiera

Porcellana, h 13 cm

Marca: V incisa e dipinta in bruno,×incisa

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Stazzi 1964, tav. XVI; Mottola Molfino

1976, p. 24, fig. 97.

Bibliografia _ Mottola Molfino 1976, p. 24.

Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013,

pp. 64-65.

306 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 307



CAT.VI.41

VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE

Pappagallo

Porcellana, h 9,5 cm

Marca: V rilevata in rosso sulla base

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Stazzi 1964, tav. XVIII; Mottola

Molfino 1976, p. 24.

CAT.VI.42

VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE

Cani in lotta

Porcellana, h 9,5 cm

Marca: V rilevata in rosso sulla base

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Stazzi 1964, tav. XVIII; Mottola

Molfino 1976, fig. 104; Bonatesta Galbusera,

in La porcellana di Venezia 1998, p. 33, cat. 20.

CAT.VI.43

VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE

Figura di Turco

Porcellana, h. 13,5 cm

Marca: V rilevata in rosso sulla base

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Melegati, in Ceramiche 2000,

pp. 156-157; Dal Carlo 2013, pp. 59-61.

CAT.VI.44

VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE

Satiro che regge un cuore

Porcellana, h 20 cm

Marca: V in rilievo sulla base

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ Genova, Cambi Aste, 13 giugno 2017,

lotto 196.

CAT.VI.45

VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE

Gruppo di figure

Porcellana, h 12,5 cm

Marca: V incisa sulla base

Collezione privata

308 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 309



CAT.VI.47

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Caffettiera

Porcellana, h 22 cm

Marca: nessuna

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013, pp.

74-75, cat. 26; Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016, pp.

116-119, cat. 135, con bibliografia precedente.

CAT.VI.48

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Caffettiera

Porcellana, h 23,8 cm

Marca: àncora rossa

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013, pp.

80-81, cat. 30; Lukacs, Montanari, in Geminiano Cozzi

2016, pp. 280-282, cat. 20, con bibliografia precedente.

CAT.VI.49

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Caffettiera

Porcellana, h 24 cm

Marca: àncora rossa

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Lukacs, Montanari, in Geminiano

Cozzi 2016, pp. 280-281, cat. 19, con bibliografia

precedente.

CAT.VI.46

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Piatto

Porcellana, ø 23,5 cm

Marca: àncora oro

Iscrizioni: F. Cozzi 1780; S.B.F.

Londra, Victoria and Albert Museum, inv. C.1369-

1924

Bibliografia _ Mottola Molfino 1976, fig. 118; Guardi,

Tiepolo and Canaletto 1985, p. 35, cat. 54; Craievich

2016, p. 18.

CAT.VI.50

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Caffettiera

Porcellana, h 17,5 cm

Marca: àncora rossa

Trieste, collezione Giovanni Lokar

Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013, p. 90,

cat. 38; Dal Carlo, in Geminiano Cozzi 2016,

pp. 213, 215, cat. 94, con bibliografia precedente.

310 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 311



CAT.VI.51

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Zuccheriera

Porcellana, h 8 cm

Marca: àncora rossa

Collezione privata

CAT.VI.52

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Tazza con ansa e piattino (quattro esemplari)

Porcellana, tazza h 6 cm; piattino ø 12,3 cm

Marca: ancora rossa

Collezione privata

CAT.VI.53

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Teiera

Porcellana, h 11, 5 cm

Marca: àncora rossa

Collezione privata

Bibliografia _ Stazzi 1981, p. 203, tav. VI; Bonatesta

Galbusera, in La porcellana di Venezia 1998, p. 47, cat.

47; M. Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016, pp. 255-256,

cat. 2.

Bibliografia _ Bonatesta Galbusera, in La porcellana

di Venezia 1998, p. 47, cat. 47; d’Agliano 2010, p. 282,

cat. 315; Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016, pp. 255-256,

cat. 3.

Bibliografia _ Bonatesta Galbusera, in La porcellana

di Venezia 1998, pp. 45-46, cat. 46; d’Agliano 2010,

p. 218, cat. 313; Debomy 2013, pp. 274-275; Bolli, in

Geminiano Cozzi 2016, pp. 107-110, cat. 102.

CAT.VI.54

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Tazza e piattino (due esemplari)

Porcellana, tazza h 6,8 cm; piattino ø 12,5 cm

Marca: àncora rossa

Collezione privata

Bibliografia _ Debomy 2013, pp. 274-275; Bolli, in

Geminiano Cozzi 2016, pp. 107-110, cat. 104.

CAT.VI.55

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Piatto

Porcellana, ø 20,2 cm

Marca: àncora rossa

Collezione privata

Bibliografia _ Barbantini 1936, tav. LXXIV, fig. 217;

Stazzi 1964, p. 60, tav. XIX; Bolli, in Geminiano Cozzi

2016, pp. 107-110, cat. 107.

312 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 313



CAT.VI.56

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Cioccolatiera

Porcellana, h 18 cm

Marca: àncora rossa

Collezione privata

Bibliografia _ Bonatesta Galbusera, in La porcellana

di Venezia 1998, p. 37, cat. 27; Melegati, in Il cioccolato

2008, p. 199; d’Agliano 2010, pp. 282-283, cat. 316;

Favilla, Rugolo 2011, p. 160; Dal Carlo, in Geminiano

Cozzi 2016, pp. 214-215, cat. 95.

CAT.VI.57

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Caffettiera

Porcellana, h 24,5 cm

Marca: àncora rossa

Collezione privata

Bibliografia _ Bolli, in Geminiano

Cozzi 2016, pp. 90-91, cat. 51.

CAT.VI.58

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Caffettiera

Porcellana, h 21,5 cm

Marca: àncora rossa

Collezione privata

Bibliografia _ Bolli, in Geminiano

Cozzi 2016, pp. 92-93, cat. 56.

CAT.VI.59

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Servizio con decoro a feston e cadena

Tazza con ansa e piattino

Porcellana, tazza h 7 cm; piattino ø 12,4 cm

Marca: àncora rossa

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl.V, n. 603

Due tazze e piattino

Porcellana, tazza h 4 cm; piattino ø 12 cm

Marca: àncora rossa

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, nn. 603, 114, 475, 761

Bibliografia _ Bolli, in Geminiano Cozzi 2016, pp. 91,

93-94, catt. 55, 59-61.

CAT.VI.60

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Servizio con decoro a bersò

Porta tè

Porcellana, h 13,5 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, n. 444

Teiera

Porcellana, h 14 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, n. 445

Cremierina

Porcellana, h 6 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento veneziano, inv.

Cl. V, n. 627

Caffettiera

Porcellana, h 14 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, n. 446

Zuccheriera

Porcellana, h 11,5 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. IV, n. 47

Tazza e piattino (otto esemplari)

Porcellana, tazza h 5 cm; piattino ø 13,5 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv.Cl. V, nn. 450-453

Bibliografia _ Marchetto, in Geminiano Cozzi

2016, pp. 246-248, catt. 32-36, 39.

— CATALOGO DELLE OPERE — 315



CAT.VI.65

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Servizio reale

Caffettiera

Porcellana, h 23 cm

Marca: àncora rossa

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, n. 824

Teiera

Porcellana, h 10,5 cm

Marca: àncora rossa

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, n. 738

Porta tè

Porcellana, h 9,5 cm

Marca: àncora rossa

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, n. 825

Tazza e piattino

Porcellana, tazza h 4 cm; piattino ø 12,9 cm

Marca: àncora rossa

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, inv. Cl. V, n. 737

Bibliografia _ Barbantini 1936 p. 33, Morazzoni

1960, I, tav. 36; Mottola Molfino 1976, catt.

109-112; Stazzi 1981, p. 190; Bonatesta Galbusera,

in La porcellana di Venezia 1998, catt. 36-37, 44-45;

Geminiano Cozzi 2016, pp. 272-274, catt. 1-4.

CAT.VI.61

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Caffettiera

Porcellana, h 22 cm

Marca: àncora rossa

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Morazzoni 1960, I, tav. 41a; Mottola

Molfino 1976, tav. XIV, fig. 141; Bolli, in Geminiano

Cozzi 2016, pp. 103-107, cat. 97.

CAT.VI.63

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Bricco

Porcellana, h 10 cm

Marca: àncora rossa

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Bolli, in Geminiano Cozzi 2016, pp.

103-108, cat. 98.

CAT.VI.62

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Tazza

Porcellana, h 4,5 cm

Marca: ancora rossa; “U” incussa

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Bolli, in Geminiano Cozzi 2016, pp.

103-108, cat. 100.

CAT.VI.64

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Piatto

Porcellana, ø 21,6 cm

Marca: ancora rossa

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Morazzoni 1960, I, tav. 41b; Stazzi

1981, p. 230, fig. 41; Bolli, in Geminiano Cozzi 2016, pp.

103-108, cat. 99.

CAT.VI.66

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Caffettiera

Porcellana, h 12 cm

Marca: àncora rossa

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Stazzi 1981, p. 211, tav. XXXII.

CAT.VI.66bis

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Caffettiera

Porcellana, h 21,3 cm

Marca: àncora rossa

Iscrizioni: V V Li Macharoni sulla bandiera

Londra, Victoria and Albert Museum, inv.

C.83&A-1928

Bibliografia _ Lane 1963, p. 42, tav. 41; Commedia

dell’arte 2001, p. 266, cat. 273; Geminiano Cozzi 2016,

p. 15.

316 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 317



CAT.VI.67

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Gruppo con contadini in festa

Porcellana, h 23 cm

Marca: assente

Collezione privata

Bibliografia _ Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016, pp.

322, 324, cat. 56, con bibliografia precedente.

CAT.VI.68

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Gruppo di putti con aquila

Porcellana, h 14 cm

Marca: assente

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016,

pp. 333-334, cat. 81.

CAT.VI.69

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Pagò

Porcellana, h 16 cm

Marca: assente

Iscrizioni: Venecia in rosso

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Stazzi 1964, p. 59, fig. 45; Ansaldi,

in Geminiano Cozzi 2016, pp. 358-359, cat. 135, con

bibliografia precedente.

CAT.VI.70

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Coppia di Pagò

Porcellana, h 12,5 cm

Marca: assente

Vicenza, collezione privata

CAT.VI.71

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Pagò

Porcellana, h 16 cm

Marca: assente

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016,

pp. 359, 361, cat. 137.

318 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 319



CAT.VI.74

NOVE, MANIFATTURA ANTONIBON

Piatto (due esemplari)

Maiolica, ø 24 cm

Vicenza, collezione privata

CAT.VI.75

NOVE, MANIFATTURA ANTONIBON

Servizio (due caffettiere, due teiere e una tazza)

Maiolica, caffettiera grande h 27,5 cm; caffettiera

piccola h 20 cm; teiere h 15,5 cm; tazza h 7,5 cm

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ La ceramica degli Antonibon 1990,

pp. 72-73.

CAT.VI.72

NOVE, MANIFATTURA ANTONIBON

Vassoio

Maiolica, 36×45 cm

Vicenza, collezione privata

CAT.VI.73

NOVE, MANIFATTURA ANTONIBON

Vassoio

Maiolica, 36,5×45,5 cm

Vicenza, collezione privata

320 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 321



CAT.VI.76

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Piatto (due esemplari)

Maiolica, ø 24,2 cm

Vicenza, collezione privata

CAT.VI.77

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Piatto ovale (due esemplari)

Maiolica, 31,7×37 cm

Vicenza, collezione privata

CAT.VI.78

VENEZIA, MANIFATTURA COZZI

Piatto

Maiolica, 19,9×27 cm

Vicenza, collezione privata

CAT.VI.79

MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI O DEI BERTOLINI

Tazza (due esemplari)

Vetro lattimo, h 7,6 cm

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano, collezione Nani Mocenigo Le Gallais,

inv. HL0068, HL0069

Bibliografia _ Squarcina, Rusca, in Le porcellane

di Marino 2014, pp. 52-53, cat. 80, con bibliografia

precedente.

CAT.VI.80

MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI O DEI BERTOLINI

Tazza

Vetro lattimo, h 7,5 cm

Vicenza, collezione privata

Bibliografia _ Bonatesta Galbusera, in La porcellana

di Venezia 1998, p. 33, cat. 19.

CAT.VI.81

MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI O DEI BERTOLINI

Tazza e piattino

Vetro lattimo, tazza h 7,5 cm; piattino ø 12 cm

Collezione privata

CAT.VI.82

MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI O DEI BERTOLINI

Tazza e piattino

Vetro lattimo, tazza h 7,5 cm; piattino ø 12 cm

Collezione privata

— CATALOGO DELLE OPERE — 323



CAT.VI.83

MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI

Piatto

Vetro lattimo, ø 22,5 cm

Londra, Victoria and Albert Museum, Transferred

from the Museum of Practical Geology, Jermyn

Street, inv. 5272-1901

Bibliografia _ Horace Walpole’s Strawberry Hill 2009,

p. 334, cat. 247, con bibliografia precedente.

CAT.VI.84

MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI

Piatto

Vetro lattimo, ø 22,5 cm

Londra, Victoria and Albert Museum, Wilfred

Buckley Collection, inv. C.185-1936

Bibliografia _ Horace Walpole’s Strawberry Hill 2009,

p. 334, cat. 248; Barovier Mentasti, Tonini 2013, cat. 61,

con bibliografia precedente.

324 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 325



CAT.VI.88

BOTTEGA VENEZIANA

Caffettiera

Argento, h 33,5 cm

Punzoni: contrassegno della città di Venezia;

marchio dell’ufficiale di Zecca Zuanne Cottini (Pazzi

1992, I, p. 145, n. 452)

Collezione privata

Bibliografia _ Favilla, Rugolo 2011, p. 81.

CAT.VI.89

BOTTEGA VENEZIANA

Caffettiera

Argento, h 26,5 cm

Punzoni: contrassegno della città di Venezia;

marchio dell’ufficiale di Zecca Zuanne Cottini (Pazzi

1992, I, p. 145, n. 452)

Iscrizioni: lettera C incisa

Collezione privata

CAT.VI.90

BOTTEGA VENEZIANA

CAT.VI.85

BOTTEGA VENEZIANA

Caffettiera

Argento, h 31 cm

Punzoni: contrassegno della città di Venezia;

marchio dell’ufficiale di Zecca Zuanne Cottini (Pazzi

1992, I, p. 145, n. 452)

Iscrizioni: lettere BC incise

Vicenza, collezione privata

CAT.VI.86

BOTTEGA VENEZIANA - OREFICE A• T

Caffettiera

Argento, h 29 cm

Punzoni: contrassegno della città di Venezia;

marchio d’autore composto dalle lettere AT

inframezzate da un punto entro comparto bilobato

(Pazzi 1992, I, p. 69, n. 65)

CAT.VI.87

BOTTEGA VENEZIANA

Caffettiera

Argento, h 21,5 cm

Punzoni: contrassegno della città

di Venezia; marchio d’autore poco leggibile

composto dalle lettere ZC

Caffettiera

Argento, h 20 cm

Punzoni: contrassegno della città di Venezia;

marchio dell’ufficiale di Zecca lettere MG

inframezzate da due stelline (Pazzi 1992, I, p. 114,

n. 287)

Iscrizioni: lettere F:A incise

Collezione privata

BOTTEGA VENEZIANA

BOTTEGA VENEZIANA

Caffettiera

Argento, h 27,2 cm

Punzoni: contrassegno della città di Venezia;

marchio dell’ufficiale di Zecca Zuanne Premuda

(Pazzi 1992, I, p. 150, n. 479)

Iscrizioni: lettere NC incise

Caffettiera

Argento, h. 19 cm

Punzoni: contrassegno della città di Venezia;

marchio dell’ufficiale di Zecca lettere MG

inframezzate da due stelline (Pazzi 1992, I,

p. 114, n. 287)

Vicenza, collezione privata

Vicenza, collezione privata

326 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 327



CAT.VI.91

ANGELO SCARABELLO

Tre carteglorie

Argento sbalzato, cesellato e dorato, cartagloria

centrale 81×108×6 cm; cartegloria laterali 69×50×8

cm; 69×50×6 cm

Punzoni: contrassegno dell’ufficiale di Zecca

Marc’Antonio Bellotto (Pazzi 1992, II, p. 48); marchio

d’autore di Angelo Scarabello e della sua bottega

all’Angelo (Pazzi 1992, II, p. 49)

Collezione privata

Bibliografia _ Cavalli 2012, pp. 178-180.

328 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 329



CAT.VI.92

GIOVANNI BATTISTA TALAMINI

Scena agreste

Altorilievo in cera policroma in cornice lignea nera,

20,5×4,5 cm

Venezia, Museo Correr, inv. Cl. XX, n. 7

Bibliografia _ Vitale d’Alberton 2005, p. 308, fig. 5;

Vitale d’Alberton, in Le cere 2012, pp. 26-27, cat. 6.

CAT.VI.93

MURANO, VETRERIA DI GIUSEPPE BRIATI

Reliquiario

Vetro policromo, h. 76 cm

Venezia, chiesa del Redentore

Bibliografia _ A. Gasparetto, in Mille anni di arte

1982, p. 182, cat. 302; Save Venice 2011, p. 421; Zecchin

2011, pp. 170-171.

330 —GENERI E TEMI —



CAT.VI.94

GIAMBATTISTA TIEPOLO

Insegna di Francesco Zancarelli

Matita nera, 240×158 mm

Londra, The British Museum, inv. 1872,1012.3318

Bibliografia _ Giambattista Tiepolo 1989, pp. 28-29;

Aikema 1998, p. 269, fig. 22; Craievich 2002, p. 49, fig.

13; Pavanello 2011, p. 50, fig. 41.

CAT.VI.95

PIETRO ANTONIO NOVELLI

Studio per l’insegna di Francesco Zappella

Penna e inchiostro nero, acquerello bruno e grigio,

167×125 mm

Parigi, Fondation Custodia, Collection Frits Lugt,

inv. n. 1981-T.9

Bibliografia _ Byam Shaw, in Disegni veneti 1981, pp.

89-90, cat. 105; Craievich 2002, p. 49, fig. 12.

CAT.VI.96

GIAMBATTISTA PIRANESI

Studio per pannello decorativo

Penna e inchiostro bruno, su gesso nero,

quadrettatura a grafite, 288×282 mm

New York, The Morgan Library & Museum, Bequest

of Junius S. Morgan and gift of Henry S. Morgan,

inv. 1966.11:13

Bibliografia _ Stampfle 1978, cat. 13.

332 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 333



CAT.VI.97

GIAMBATTISTA PIRANESI

Gli scheletri

Incisione, 390×545 mm

Venezia, collezione privata

Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 20; Wilton-Ely 1994,

cat. 21; Ficacci 2001, cat. 105.

CAT.VI.99

GIAMBATTISTA PIRANESI

La tomba di Nerone

Incisione, 390×545 mm

Venezia, collezione privata

Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 22; Wilton-Ely 1994,

cat. 23; Ficacci 2001, cat. 107.

CAT.VI.98

GIAMBATTISTA PIRANESI

L’arco trionfale

Incisione, 395×550 mm

Venezia, collezione privata

Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 21; Wilton-Ely 1994,

cat. 22; Ficacci 2001, cat. 106.

CAT.VI.100

GIAMBATTISTA PIRANESI

La targa monumentale

Incisione, 395×545 mm

Venezia, collezione privata

Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 23; Wilton-Ely 1994,

cat. 24; Ficacci 2001, cat. 108.

334 —GENERI E TEMI —

— CATALOGO DELLE OPERE — 335



L A F I N E

DEL SECOLO



ALBERTO

CRAIEVICH

FIG. 1

FRANCESCO GUARDI

Festa della Sensa, in Piazza

San Marco, particolare.

Lisbona, Calouste Gulbenkian

Museum

Per la bibliografia di riferimento

sull’artista si rimanda a Venezia

attraverso gli occhi di Guardi,

in Francesco Guardi 1712-1793,

catalogo della mostra (Venezia,

Museo Correr) a cura di A.

Craievich, F. Pedrocco, Milano

2012.

1 _ A. Mariuz, Pietro Longhi:

“un’originale maniera…”,

in Pietro Longhi, catalogo

della mostra (Venezia, Museo

Correr) a cura di A. Mariuz, G.

Pavanello, G. Romanelli, Milano

1993, p. 31.

2 _ F. Montecuccoli Degli Erri,

in F. Pedrocco, F. Montecuccoli

Degli Erri, Antonio Guardi,

Milano 1992, pp. 14-40.

3 _ M. Ferro, Fraterna, in

Dizionario del diritto comune

e veneto, V, Venezia 1779, pp.

1764-1778, ad vocem.

LA FINE

DEL SECOLO

F R A NCESCO

GUARDI

Francesco Guardi è oggi

considerato l’ultimo protagonista della pittura veneziana

e uno degli artisti più originali di tutto il Settecento.

Tuttavia, è una fama che probabilmente né egli stesso

né i suoi contemporanei si sarebbero mai aspettati:

il suo, infatti, è stato un successo postumo che trova

pochi confronti nella storia dell’arte e che rappresenta

una delle vicende più affascinanti della storia del gusto.

A rendere ancora più avvincente la sua parabola

artistica è il fatto che raggiunse gli esiti figurativi per cui

è giustamente annoverato fra i grandi solo in tarda età,

attraverso un percorso tortuoso, scaleno, “per salti piuttosto

che per gradi”, a voler citare un passo dedicato da

Adriano Mariuz a Pietro Longhi, pittore che per certi

aspetti segue un’evoluzione analoga [1] .

Tuttavia, mentre Longhi dopo aver circoscritto

il proprio campo d’azione si assesta su un tema ben

definito che poi replica fino allo sfinimento, in Guardi

continuano invece a celarsi più anime che convivono

quasi fino alla morte, giustificando una delle più controverse

vicende critiche del Novecento.

L’artista nasce a Venezia il 5 ottobre 1712, quarto

di cinque figli. Il padre Domenico, originario della trentina

Val di Sole, fu pittore per niente brillante, prima a

Vienna poi a Venezia, dove sarebbe morto nel 1716, a

soli trentotto anni. A quanto ci è dato sapere fu soprattutto

un copista, attivo almeno negli ultimi anni della sua

vita per i fratelli Giovanni Benedetto e Giovanni Paolo

Giovanelli, patrizi veneziani [2] . Tale rapporto di patronato

proseguì anche per i figli che, probabilmente, ne ereditarono

l’atelier: il primogenito Giovanni Antonio (1699-

1760), che si sarebbe firmato sempre come Antonio, il

più giovane Nicolò (1715-1786), sulla cui attività di pittore

purtroppo sappiamo ben poco, e, appunto, il nostro

Francesco. Nessuno, all’interno di questa bottega a conduzione

familiare, sarà in grado di raggiungere in vita, se

non il successo, almeno una certa agiatezza. Le note spese

dei Giovanelli e poi del maresciallo von der Schulenburg,

con cui i Guardi avrebbero stretto in seguito un analogo

rapporto di lavoro, ci parlano di una quotidianità senz’altro

umile, se non proprio miserevole (le cifre pagate per

i loro dipinti sono assai modeste). Lo stesso Francesco

non si sarebbe mai scrollato di dosso questa condizione.

Ancora nel 1804, Pietro Edwards – che lo conosceva bene

– avrebbe scritto a proposito di lui, in una memorabile

lettera ad Antonio Canova: “Ella sa però che questo pittore

lavorava per la pagnotta giornaliera”.

Il primo riferimento, pur deduttivo, alla sua

attività di pittore risale al 19 dicembre 1731, quando

Giovanni Benedetto Giovanelli lascia in eredità al suo

agente Antonio de’ Caroli copie di quadri “delli fratelli

Guardi”.

Sappiamo inoltre che i fratelli dovevano essere

molto legati, visto che sarebbero vissuti in fraterna [3]

– termine che nel diritto veneto indicava la convivenza

tra fratelli e la comunione dei beni – fino al 12 febbraio

1761 quando, un anno dopo la morte di Antonio, Nicolò

e Francesco chiedono la divisione dei beni. Nell’atto

i due ricordano che “dalla loro pupillar età in amorosa

fraterna unione respettivamente sostenendosi col

mezzo dell’esercitio della pittura da loro egualmente

proffessata, mediante la quale ricconoscono la loro sussistenza

e quel pocco che s’attrovano respettivamente

avere e possedere” [4] . Non si fa esplicita menzione del

— FRANCESCO GUARDI — 339



fratello maggiore, morto l’anno prima, ma è plausibile

aspettarsi che fosse egli il legante del gruppo, alla cui

scomparsa il patto viene sciolto dai due più giovani.

Ci fosse o meno una bottega comune esemplificata su

quella fraterna (su cui molto si è dibattuto), oggi ci è

noto un nutrito gruppo di quadri di storia, in gran parte

copie da dipinti, anche celebri, che etichettiamo sotto il

nome “Guardi”. La distinzione delle varie mani in base

a semplici elementi stilistici è stata a lungo un raffinato

esercizio di attribuzionismo: si tratta della famosa

querelle guardesca che culmina con la mostra curata

da Pietro Zampetti a Palazzo Grassi nel 1965, dove il

dibattito sull’assegnazione delle opere a Francesco o ad

Antonio tocca il suo vertice. Nonostante non vi siano

ormai più dubbi sull’autore delle Storie di Tobiolo della

chiesa dell’Angelo Raffaele di Venezia, ancora oggi sono

numerosi i dipinti su cui il parere non è unanime (e sui

quali in seguito si è aggiunta anche l’opzione Nicolò).

Sappiamo, tuttavia, che Francesco proseguirà

per tutta la sua carriera a cimentarsi come pittore di storia

con esiti non sempre brillanti ma senz’altro originali.

Purtroppo non è possibile datare con certezza le opere

di questo primo periodo. I pochi punti fermi recano una

cronologia già avanzata, come le due tavole del John and

Mable Ringling Museum of Art di Sarasota, raffiguranti

la Fede e la Speranza, che un tempo recavano la firma di

Francesco e la data 1747, rimossa durante un restauro

eseguito nel 1949.

Come si è visto, l’esordio di Francesco è nel

campo della pittura di storia, il genere più alto, ma nel

suo aspetto più umile: il copista. Solo nel pieno della

maturità, indicativamente verso i quarant’anni, egli

si allontana dalla tradizione familiare alla ricerca di

nuove strade. Si potrebbe dire che incominci a osservare

Venezia dal suo interno, cogliendo l’originalità della

“nuova maniera” di Longhi, che verso la metà del secolo

stava riscuotendo grande successo. I pochi esempi noti

in questo campo come il Ridotto (cat. I.03) e il Parlatorio

delle monache (oggi di Ca’ Rezzonico) sono dipinti da

antologia, che “fanno letteratura”. Vi ritroviamo tutti gli

elementi familiari dell’atmosfera del Settecento veneziano:

la maschera, la coppia di amanti, la vita spensierata,

il dettaglio aneddotico. Li possiamo ritrovare composti

in maniera così indovinata e coinvolgente solo

in un’altra opera, a sua volta splendidamente isolata: i

Giocatori al Ridotto di Johann Heinrich Tischbein, compiuto,

a sua volta, verso la metà del secolo (cat. I.02).

Egli sceglie, quindi, una declinazione mondana,

galante, della pittura di costume e si concentra, salvo

poche eccezioni, sulle Mascherate, sintonizzandosi così

sulla stessa lunghezza d’onda di quelle stampe a uso turistico

che Charles Joseph Flipart e Alessandro Longhi

stavano tirando dalle invenzioni di Pietro. È il gusto del

Divertissement de Venise, come recita l’intitolazione di

una stampa, più tarda, di Giovanni Volpato, dall’iscrizione

eloquente: “Caffè, maschere, danze e la sincera

FIG. 2

FRANCESCO GUARDI

Insegna dell’Arte dei Coroneri.

Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo

del Settecento veneziano

4 _ L. Moretti, La vicenda

umana di Francesco Guardi, in

Francesco Guardi 2012, p. 18.

5 _ G. Marini, in Giovanni

Volpato 1735-1803, a cura di G.

Marini, Bassano del Grappa

1988, p. 70, cat. 39.

6 _ P. Biagi, Sull’incisione e

sul Piranesi, Venezia 1820 (cit. in

A. Bettagno, Piranesi. Incisioni-

Rami-Legature-Architetture,

catalogo della mostra (Venezia,

Fondazione Giorgio Cini).

7 _ Cfr F. Russell, Guardi and

the English tourist, “Burlington

Magazine”, CXXXVIII, 1114,

January 1996, pp. 4-11; C.

Beddington, Le prime vedute di

Francesco Guardi, in Francesco

Guardi 2012, pp. 95-98.

8 _ Anche Canaletto eseguì

in età giovanile alcune riprese

delle isole della laguna, ma il

loro carattere non potrebbe

essere più diverso.

amicizia d’amor fida seguace, sono i piacer che in libertade

e pace gode l’alma città che all’Adria impera” [5] .

Alla base di questa decisione si riconosce un

motivo concreto: la ricerca di una nicchia professionale

ancora libera che gli consenta di intercettare il pubblico

straniero, dando così una svolta alla propria carriera,

come aveva provato qualche anno prima, nella stessa direzione,

anche Giovambattista Piranesi, di cui ci è rimasto

il disegno con Maschere a uno spettacolo di burattini della

Kunsthalle di Amburgo che tradisce un analogo intento.

Tuttavia, si tratta ancora una volta di una falsa

partenza. Il loro numero è limitato, una dozzina di

dipinti, circostanza che rivela come il tentativo di

Francesco non sia andato a buon fine. Accanto a questi

capolavori egli continua in attività modeste, che rasentano

per la loro tipologia il valore artigianale, come l’Arte

dei Coroneri (1750) (fig. 2), dove tuttavia sono ben riconoscibili

le sue straordinarie doti esecutive. Fa caso a sé il

Convegno diplomatico di Ca’ Rezzonico, dove il pittore è

chiamato, per la prima volta, a registrare un avvenimento

realmente accaduto: il trattato commerciale stipulato a

L’Aia il 27 agosto 1753 fra il Regno di Napoli e Olanda,

su commissione, forse, di Giuseppe Finocchietti Fauloni.

Queste poche opere non hanno un seguito.

Mentre Piranesi è costretto “ad andare esule da Venezia

sua patria per non aver potuto ottenere nemmeno un

impieguccio” [6] , Guardi ci sorprende di nuovo, scarta

d’improvviso e sceglie un’altra via, più battuta ma in

gran voga: il vedutismo.

Il suo esordio in questo campo è stato, di nuovo,

uno degli argomenti filologici più dibattuti dagli studi

sia per la cronologia sia per la consistenza del corpus da

riferire a questo momento. Oggi, questa virata è circoscritta

in maniera abbastanza attendibile verso la metà

degli anni Cinquanta.

Fra i punti fermi di questo momento si annoverano:

una tela di collezione privata raffigurante la Festa

del Giovedì Grasso, datata 1758; due dipinti già nella

Collezione Henle e l’Albero Genealogico della famiglia

Giovanelli, un tempo nella collezione di Vittorio Cini

a Venezia. Soprattutto, le vedute realizzate per alcuni

nobili inglesi impegnati nel Grand Tour: Sir Brook

Bridges, John Montagu e Richard Milles, tutti a Venezia

fra il 1758 e il 1760. Molti di questi quadri sono firmati,

segno che il loro autore doveva essere orgoglioso dei

risultati ottenuti, oppure, semplicemente, che cercava

di promuoversi presso coloro che li avrebbero visti in

Inghilterra.

Si tratta di opere ben diverse da quelle eseguite

nella maturità e che lo hanno reso così celebre.

Ci troviamo di fronte, infatti, a dipinti dai toni schiariti

realizzati con una pennellata liquida e ferma. I profili

e gli elementi architettonici degli edifici sono invece

delineati con esili tocchi di nero, mentre le minuscole

figure, specie quelle dei gondolieri incurvati sul remo,

assumono una caratteristica forma stilizzata e asciutta.

Nell’insieme queste prime vedute rivelano un aspetto

scabro ed essenziale all’interno del quale le architetture,

con le proporzioni accentuate in altezza, presentano

uno slancio verticale ancora incerto ma evidente [7] .

Come ha osservato Francis Russell, l’analisi delle dimensioni

delle tele compiute da Guardi in questi primi

anni rivela un approccio commerciale a questo genere,

usando formati standard e mantenendo il consueto

metodo di lavoro: si impossessa dei prototipi iconografici

della ricca produzione incisoria lagunare e ne presenta

una versione “a colori”. Sono opere di secondo

piano se confrontate a quelle degli altri vedutisti, eppure

sono riscaldate da una personale vitalità esecutiva e da

un gamma cromatica niente affatto usuale.

Tuttavia, se egli si fosse assestato sugli esiti stilistici

che oggi riconosciamo in queste prime opere e che

nel 1764 incontrarono il favore di Pietro Gradenigo nel

famoso passo dei Notatori, Guardi sarebbe stato un gregario,

avviato a una carriera non dissimile da quella di

altri pittori “prospettici” coevi.

L’indicazione evidente che la sua sensibilità sia di

una caratura ben diversa di quella di un comprimario si

avverte in alcune tele che hanno per soggetto la laguna e

le sue isole. La novità di queste inquadrature è accentuata

proprio dal fatto che Guardi si mostra di solito privo d’indipendenza

nell’individuare lo spunto compositivo [8] . Si

tratta di opere veramente originali dove, all’interno di un

ampio taglio panoramico, predominano distese di acqua

e di cielo (vi si riconosce un’anticipazione delle tarde

Vedute lagunari). Esse danno l’impressione del virtuoso

che sta accordando lo strumento alla prova generale.

Una di queste, acquisita recentemente dall’Ashmolean

Museum di Oxford, può essere annoverata fra i capolavori

di questo momento (cat. V.20).

Progressivamente, anche nel suo consueto

modus operandi è percepibile, in controluce, il profilo

340 —LA FINE DEL SECOLO —

— FRANCESCO GUARDI — 341



di una personalità intrigante. Il suo confronto con

la fonte figurativa diviene sempre meno univoco o

banale. In una sorta di corpo a corpo con il prototipo

egli smonta i vari dettagli, incrociando citazioni provenienti

da stampe diverse. La composizione originaria è

un blocco d’argilla che egli rimodella liberamente; una

sorta di base musicale che gli dà la necessaria sicurezza

per lanciare il proprio assolo. Il punto di rottura in

questo confronto con gli esempi della pittura contemporanea

è nella serie delle Solennità dogali, desunta

dalle stampe incise da Giovanni Battista Brustolon su

disegni di Canaletto (catt. V.08-09) [9] . In queste tele,

pur preservando un’estrema fedeltà ai prototipi – tale

da rasentare il plagio –, Guardi ci appare riconoscibile

e indipendente. La serie, celeberrima, ha sempre rappresentato

la pietra angolare del confronto stilistico

fra Canaletto e Guardi, sulla quale si basa la consueta

contrapposizione fra i due: da una parte l’originalità

dell’invenzione e dall’altra il valore interpretativo;

oppure la prodigiosa sicurezza di segno del primo e la

pennellata indisciplinata, allusiva, del secondo.

Francesco riprende apparentemente in modo

fedele i prototipi, offrendone però una traduzione così

personale da trasformare la sua versione in un’opera

pienamente autonoma. L’effetto non è ottenuto solo

dalla nervosa vibrazione luministica che egli imprime

alle scene originarie in bianco e nero, ma anche da

alcuni accorgimenti che ne scompaginano la struttura.

Egli, infatti, altera liberamente la disposizione dei vari

gruppi figurativi, modificando o inventando di sana

pianta personaggi (come rivelano alcuni specifici studi

per Macchiette del Museo Correr) e inverte i rapporti

proporzionali fra figure e architettura con intenzione di

dilatare lo spazio.

Infine, trasforma in rigogliosi ed esuberanti

motivi rococò tutti i dettagli ornamentali originari,

dai soffitti cinquecenteschi di Palazzo Ducale fino alle

imbarcazioni che compaiono nella tela con L’Arrivo del

Bucintoro a San Nicolò del Lido. Esemplare al riguardo

il confronto fra l’imbarcazione presente nella stampa

e quella realizzata da Guardi dove il segno rigoroso,

“allucciolato”, del prototipo viene frantumato in brulicanti

tocchi nervosi, mentre le divise dei rematori diventano

sgargianti e fantasiosi abiti da commedia dell’arte.

Si potrebbe pensare a un diversivo, a un espediente di

mestiere per mascherare il modello; l’operazione di

Francesco, piuttosto, è analoga a quella che si incontra

nell’architettura del Rococò bavarese, dove il paradigma

berniniano viene smontato e riproposto in modo giocoso,

“svestito” della propria autorità.

A una data successiva alle Solennità dogali risalgono

invece le vedute della piazza di San Marco durante

la Festa della Sensa, con una platea marciana quanto

mai inconsueta, diventata essa stessa un capriccio architettonico

(fig. 1).

Con il tempo il suo stile si fa sempre più allusivo:

le proporzioni fra i vari elementi sono liberamente

sfalsate, la struttura prospettica diventa elastica e si

deforma alterando arbitrariamente le proporzioni fra le

varie parti. Le vedute presentano l’elemento architettonico

“compresso”, fino a divenire una semplice linea di

demarcazione fra il cielo e l’acqua. Sono questi ultimi a

conquistare lo spazio principale della tela, al cui interno

le figure e le imbarcazioni sono macchie di colore, un

rapido scarabocchio bianco o un punto nero fissato con

un segno tremolante. Contemporaneamente, presenta

inquadrature inedite della città e della laguna, estranee

alla consueta iconografia del Grand Tour: il Canale

della Giudecca con la punta di Santa Marta, il Rio dei

Mendicanti, l’Isola di San Michele o di San Cristoforo, il

Forte di Sant’Andrea. Se in queste opere Guardi è ancora

vincolato da un soggetto effettivo, nei Capricci egli può

esprimere liberamente la propria personalità. Anche in

questo genere, particolarmente amato nel Settecento,

non si accontenta di fare un collage con elementi reali e

di fantasia, secondo la definizione di Francesco Algarotti.

Egli trasporta queste composizioni nella laguna dedicando

la sua attenzione a edifici fatiscenti, accostandoli a

irriconoscibili rovine antiche che hanno perso ogni connotato

classico. Sono dipinti sempre più minuscoli, “a

volte eseguiti su una tavola poco più grande di una scatola

di fiammiferi, con luccicanti incantesimi di rovine

sulle isole della laguna o con un salone senza tetto sullo

sfondo di un cielo azzurro e bianco, percorso da brezze.

Questi quadri, una volta racchiusi nelle delicate cornici

dorate del tempo, dovevano apparire più ninnoli che veri

e propri dipinti” [10] .

È stato giustamente osservato che queste opere

rivelano affinità con il gusto per il “picturesque” diffuso

in Francia e Inghilterra [11] , ma “il suo atteggiamento

verso Venezia non è né romantico né sentimentale.

Non sottolinea mai la luccicante nobiltà di Venezia per

9 _ La serie è custodita quasi

nella sua totalità presso il Musée

du Louvre, a eccezione del

Trasporto del doge in pozzetto

nella Piazza di San Marco,

ora al Musée de Grenoble, e

del Doge presentato al popolo

nella basilica di San Marco,

conservato presso i Musées

d’Art e d’Historie di Bruxelles.

10 _ M. Levey, Painting in

Eighteenth Century Venice,

London 1959, p. 101.

11 _ Cfr. B. Aikema, Francesco

Guardi, il “picturesque” e il

mito di Venezia, in I Guardi.

Vedute, capricci, feste, disegni

e “quadri turcheschi”, a cura di

A. Bettagno, Venezia 2002, pp.

17-29.

12 _ Levey 1959, p. 103.

13 _ A. Mariuz, Giandomenico

Tiepolo, Venezia 1971, p. 82.

14 _ F. Haskell, Francesco

Guardi as vedutista and some

of his patrons, “Journal of

the Warburg and Courtauld

Institutes”, XXIII, 1960, pp.

256-278; Lettere artistiche del

Settecento veneziano, I, a cura

di A. Bettagno, M. Magrini,

Vicenza 2002 p. 476.

15 _ Haskell 1960, p. 275;

Disegni antichi del Museo Correr

di Venezia, III (Galimberti-

Guardi), a cura di T. Pignatti,

Vicenza 1983, cat. 543.

16 _ R. Lauber, Il mercante

vende ai britannici un migliaio

di opere; e al residente taglia

un Tiepolo, “Venezia Altrove.

Almanacco della presenza

veneziana nel mondo”, 10, 2011,

pp.115-144.

17 _ Haskell 1960, p. 275.

18 _ Su Francesco

Guardi pittore di feste e

cerimonie si rimanda a C.

Friedrichs, Francesco Guardi

– Venezianische feste und

Zeremonien. Die Inszenierung

der Republik in Festen und

Bildern, Berlin 2006.

farne la città di sogno di Turner; la sua Venezia è un po’

sciatta, asimmetrica, ora nobile, ora squallida. Sembra

che egli esprima una nuova consapevolezza degli elementi

atmosferici e concordi con Constable quando

questi rievoca la migliore lezione ricevuta: “Ricorda

che luce e ombra non restano mai immobili”. Tuttavia

in Guardi l’amore per il movimento, per i toni pallidi e

i cieli luminosi non deriva dal naturalismo ma dall’accentuato

Rococò del suo secolo, con la passione per la

leggerezza, l’eleganza, la grazia” [12] .

È in queste opere che Guardi intraprende una

strada antitetica rispetto al generale orientamento della

pittura veneziana, del resto già in ritardo nel contesto europeo.

Mentre in seno alla neonata accademia ci si orienta

verso un classicismo più ingessato che rigoroso, Francesco

accelera in senso opposto, accentuando i caratteri decorativi

della sua pittura incurante di quanto avviene

attorno a lui. Dal punto di vista promozionale è una scelta

suicida che lo taglia fuori da ogni possibile contatto

con la committenza aristocratica o con i viaggiatori

che facevano tappa in città, ormai educati al “buon

gusto” formato sull’antico. Nondimeno, come il nipote

Giandomenico Tiepolo, è grazie a questa marginalità

che egli può raggiungere esiti così sorprendenti:

“il suo credito presso i contemporanei è quello

di un buon artigiano; per questo egli può godere di una

libertà espressiva vietata agli engagés” [13] .

Vi è tuttavia un segmento della clientela in grado

di assecondare questa svolta. È stato Francis Haskell, in

un saggio insuperato, a dare la fisionomia dei clienti di

Francesco Guardi, ricostruendone i valori estetici e il

milieu culturale che ci aiuta a scoprire “in che modo gli sia

riuscito di procedere nel suo cammino solitario” [14] . Le

loro preferenze artistiche sono delineate in modo calzante

da una lettera, purtroppo anonima, indirizzata al pittore,

che egli riutilizzò per uno schizzo conservato al Museo

Correr: “Misura esatta di questa carta. Una vedutina del

Sig.r Franc.o Guardi che rappresenti la piazza e Procuratie

di S. Marco, una seconda che rappresenti S. Giorgio con

fabricche, e vista di laguna. Chi la desidera vuol prezzo

discreto, e lo amerà più di tocco forte, che finite. La desidera

abbondanti di figurine piene di tocco” [15] .

I nomi non sono quelli altisonanti del patriziato

veneziano; si chiamano Giacomo della Lena, Gianmaria

Sasso, Giovanni Vianelli, padre Giuseppe Toninotto (un

vero estimatore del vedutismo in generale), oppure il

canonico Giovanni Vianelli, il più compiaciuto dello stile

guardesco, e, soprattutto John Strange, per il quale realizza

un gruppo straordinario di opere (cat. VII.02) [16] .

Sono personaggi, oggi ben noti agli studiosi, attivi come

mediatori, agenti di vendita e orgogliosi collezionisti

dotati però di fortune modeste. È in questo mondo di

mezzo, fatto di affari più meno leciti e popolato da figure

immuni da ogni regola, che si annidano gli estimatori di

una pittura votata al primato dell’esecuzione e del virtuosismo,

al di là di ogni canone teorico.

Questo gusto tardivo, e forse proprio per questo

distillato in purezza fino al suo dissolvimento, appartiene

anche ad alcune figure di estrazione sociale ben diversa

rispetto alle precedenti come Giacomo Massimiliano di

Collalto e, soprattutto, il marchese Francesco Albergati

Capacelli che, in una celebre orazione tenuta all’Accademia

di Venezia nel 1784, esalta tutte quelle qualità che

riconosciamo nell’arte di Francesco e che sono in netto

contrasto con quanto l’Accademia stessa rappresentava:

“Guai se come pur troppo la stucchevole pedanteria

ha in tante guise corrotta e deturpata la letteratura italiana,

si dovesse anche nelle bell’arti vedere primeggiare

i cavillosi, i pedanti, i nudi e inutili precettisti” [17] .

Tanto l’anonimo acquirente delle due vedutine

quanto Albergati Capacelli non consideravano

Guardi un “alternativo” oppure un pittore d’avanguardia.

Anzi, proprio in quelle opere riconoscevano l’arte

rococò che probabilmente avevano amato in giovinezza,

e di cui Guardi appariva l’estremo interprete. Sebbene

ormai bandito dalle arti maggiori, questo stile sopravvive,

prossimo all’estinzione, nelle arti decorative. È in

questo contesto, per il quale non a caso Guardi compie

in tarda età straordinari studi preparatori, che egli ci

appare meno isolato.

Di quanto questi risultati formali fossero però

inattuali al di fuori di questa cerchia ristretta lo si

deduce abbastanza chiaramente dal completo silenzio

delle fonti contemporanee, condizionate dalla nuova

strada maestra del gusto.

Francesco Guardi è anche l’ultimo a immortalare

le feste e le cerimonie che si svolgevano nella

Serenissima. Va precisato, tuttavia, che gran parte della

sua produzione in questo campo non è legata a fatti

specifici né presenta composizioni originali; ancora

una volta egli si limita a perpetuare un genere in forme

e modi ormai codificati dai predecessori [18] . Secondo il

342 —LA FINE DEL SECOLO —

— FRANCESCO GUARDI — 343



suo tipico modus operandi si serve di modelli grafici preesistenti,

rielaborandoli in modo più o meno libero, ma

sempre personalizzati dalle sue inconfondibili doti esecutive

(cat. VII.03-04).

Esiste un gruppo di vedute tarde che presenta

un’inquadratura autonoma della Regata sul Canal

Grande (un campo più stretto, centrato sul Ponte di

Rialto con il palazzo Dolfin Manin in risalto), ma anche

in questo caso è difficile riconoscervi avvenimenti puntuali.

Infatti, nelle varie versioni compaiono le medesime

“peote” e “bissone” (alcune progettate dallo stesso

Guardi), assieme ad altre copiate da stampe di epoche

diverse. Fanno eccezione due esemplari dove sono riconoscibili

le imbarcazioni da parata create per la regata in

onore dell’imperatore Leopoldo II avvenuta il 2 aprile

1791. Tuttavia in entrambe le opere, come ha osservato

Dario Succi, la mano del figlio Giacomo è evidente [19] .

Le prime autentiche registrazioni di fatti contemporanei

sono assai tarde. È il 1782 e l’artista, ormai

settantenne, ha la sua grande occasione per mettersi in

luce: fra il 18 e il 25 gennaio soggiornano a Venezia i granduchi

Paolo Petrovič Romanov, erede al trono e futuro

imperatore della Russia, e sua moglie Sofia Dorotea di

Württemberg. La coppia viaggiava “in incognito” con il

titolo di conti del Nord; tuttavia, al loro arrivo in città,

ampiamente preannunciato, la Serenissima organizzò

fastose cerimonie. La loro permanenza viene scandita

giornalmente da appositi festeggiamenti, descritti in

modo dettagliato sia da cronache letterarie sia da numerose

incisioni. Non è noto con esattezza il numero delle

tele che Guardi eseguì per questo evento. È plausibile

che a ogni manifestazione del cerimoniale corrispondesse

uno specifico dipinto. A oggi, è stato possibile risalire

a sette scene, di cui quelle sicuramente identificabili

sono Il concerto delle dame al casino dei Filarmonici e

La sfilata dei carri allegorici nella piazza di San Marco

[20]

. Tutti i dipinti oggi conosciuti sono tratti da incisioni

coeve che Francesco rielabora con il suo segno inconfondibile;

fa eccezione Il concerto delle dame al casino

dei Filarmonici: semplicemente uno dei capolavori di

Guardi. Non è possibile stabilire con certezza il committente

dell’impresa. Tradizionalmente si ritiene che si

sia trattato di un incarico ufficiale da parte del governo,

presumibilmente nella figura di Pietro Edwards, ispettore

alle pubbliche pitture. Più di recente è stato proposto

di identificare il promotore dell’iniziativa in Pano

(Panafidios) Maruzzi, ricco mercante greco la cui famiglia

si era trasferita in città da due generazioni, e che dal

1768 era console di Russia in città [21] .

Ci sono invece informazioni più precise in

merito all’esecuzione dei dipinti che commemorano la

visita a Venezia di papa Pio VI, che si svolse solo pochi

mesi dopo, fra il 15 e 19 maggio. In questo caso, i documenti

attestano come Edwards avesse commissionato

al pittore, per conto dello Stato, quattro scene raffiguranti

altrettante funzioni relative al soggiorno del

FIG. 5

FRANCESCO GUARDI

La regata sul canale della

Giudecca.

Monaco di Baviera, Alte

Pinakothek

19 _ D. Succi, Francesco

Guardi, Milano 1993, pp.

128-131.

20 _ A. Morassi, Guardi. I

dipinti, Venezia 1973, catt. 255-

260; A. Craievich, in Francesco

Guardi 2012, pp. 183-227 (con

bibliografia precedente).

21 _ Cfr. S.O. Androsov,

Russkie zakazciki I italinskie

khudozniki (Committenti

russi e artisti italiani), San

Pietroburgo 2003, pp. 183-244

(in russo).

22 _ J. Byam Shaw, Some

Guardi Drawings Rediscovered,

“Master Drawings”, XV, 1, 1977,

p. 10.

23 _ J. Starobinski,

L’invention de la liberté, Genève

1964 (edizione italiana Milano

2006, p. 25).

24 _ A. Mariuz, Interni

rococò, in Lezioni di Storia

dell’Arte. Dal trionfo del barocco

all’età romantica, Milano 2003,

p. 133. Sulle nozze Polignac da

ultimo Id., Entrées solennelles

et cérémonies nuptiales: les

commanditaires français de

Carlevarijs, Canaletto, Guardi,

in Venise en France, Paris 2004,

pp. 94-97.

pontefice. Le indicazioni erano dettagliate e severe;

l’artista si impegnava a prendere le vedute dal vivo (non

da stampe, si potrebbe aggiungere) e di seguire tutte

le istruzioni del committente sulla collocazione delle

figure e sull’aspetto delle scene. Le tele sarebbero state

poi consegnate e pagate il 24 dicembre di quello stesso

anno. Tuttavia, al momento di ricevere il compenso,

il pittore si impegnava nuovamente ad “eseguire le

piccole ulteriori alterazioni desiderate da esso signor

Edwards”, segno che, nonostante le ferree disposizioni,

vi fossero ancora dei miglioramenti da fare.

Esistono due serie complete dedicate alla visita di Pio

VI che differiscono lievemente di formato (circa 15 cm

in altezza e in larghezza) e presentano minute differenze

nella disposizione dei personaggi e nella stesura

(la suite di formato maggiore presenta un’esecuzione

più definita e composta rispetto all’altra). Entrambe

però sono significativamente più piccole rispetto alle

misure indicate nel documento. Vi sono invece numerose

versioni integrali o parziali dell’ultima scena, raffigurante

Pio VI benedice la folla nel campo dei Santi

Giovanni e Paolo, non tutte autografe e alcune presumibilmente

copie successive [22] .

Diverso è il carattere dell’ultima richiesta. Non

si tratta di una cerimonia pubblica ma un evento mondano:

le nozze fra Armand-Jules-Marie-Héraclius de

Polignac e Idalie Johanna van Neukirchen, avvenuto il

6 settembre 1790 nella villa Gradenigo a Carpenedo.

La commissione non pare sia andata a buon fine ma,

stando ai magnifici studi preparatori del Gabinetto dei

disegni e delle stampe del Museo Correr, i dipinti avrebbero

dovuto rappresentare il Matrimonio e il Banchetto

nuziale (catt. VII.25-26). L’avvenimento fu una delle

ultime malinconiche fiammate dell’Ancien Régime; lo

sposo infatti era il figlio di émigrés che avevano abbandonato

la Francia subito dopo la presa della Bastiglia e

avevano avuto un ruolo centrale e assai discusso nella

corte di Luigi XVI: il duca Jules de Polignac e sua moglie

Yolande Martine Gabrielle de Polastron, la celebre amica

e confidente della regina Maria Antonietta. I modelli,

fatto insolito per Guardi, sono rifiniti con acquerelli

colorati, circostanza che dona loro un’innaturale bidimensionalità,

quasi fossero un paravento giapponese o

una pittura su seta, con i quali condividono la medesima

leggerezza e fragile grazia. Nella scena del Banchetto il

pittore ha raggiunto un esito di semplice perfezione.

“Le ultime feste trascritte da Guardi – il matrimonio

del figlio del duca di Polignac – prendono un aspetto

lieve come ragnatela: nel cerimoniale del banchetto, le

sedie hanno una vita propria, ironica e piena di grazia;

la disposizione spaziata, regolare, involontariamente

simboleggia l’imperiosa puerilità dell’etichetta aristocratica,

la quale separa quegli stessi che raduna” [23] . In

quest’occasione, per circostanze che potremmo definire

casuali, alcuni protagonisti della corte francese, ormai

spazzati via dalla storia, incrociano le loro strade con

l’ultimo, isolato, interprete del Rococò europeo. Poche

volte come in questo caso le circostanze portano a

caricare un’opera d’arte, per di più incompiuta, di una

valenza storica e culturale così forte. Come ha osservato

Adriano Mariuz, “il disegno mi sembra il più struggente

addio a una civiltà, a un modo di vita, allo stile artistico

che quella civiltà aveva promosso e coltivato. In una sala

di impronta neoclassica, scandita da colonne, i convitati,

ridotti a una traccia, appena un tocco di colore, siedono

intorno a un tavolo enorme imbandito di niente.

All’inizio ho accennato a farfalle che imitano il comportamento

degli esseri umani; qui assistiamo a una metamorfosi

inversa e ben più sorprendente: esseri umani

sono diventati essi stessi lievi, policromi ed effimeri

come farfalle” [24] .

Gli ultimi avvenimenti contemporanei immortalati

da Francesco Guardi sono però di tutt’altro tenore.

Egli assume la veste di cronista per l’ultima volta, non per

un mecenate ma per propria ispirazione. Il suo sguardo

si sofferma su alcuni fatti di cronaca e su eventi naturali

straordinari che registra con incuriosita partecipazione:

il 16 aprile 1784 il volo del pallone aerostatico costruito

dal procuratore Francesco Pesaro; la gelata della laguna

nell’inverno del 1788-89, l’incendio del magazzino degli

oli a San Marcuola il 28 novembre 1789, oppure la nuova

facciata del teatro La Fenice, eseguito pochi mesi prima

della morte (il teatro è ultimato nell’aprile del 1792).

Ancora una volta la sua naturale attitudine all’interpretazione

fantasiosa e inedita del dato reale gli consente

di captare gli aspetti più originali e transitori di Venezia,

soffermandosi – per la prima volta – sulla concreta

attualità e diventando, così, inavvertitamente moderno.

344 —LA FINE DEL SECOLO —

— FRANCESCO GUARDI — 345



DANIELE

D’ANZA

FIG. 1

GIANDOMENICO TIEPOLO

La partenza di Pulcinella.

Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento

veneziano

1 _ A Ca’ Rezzonico si

conserva il suo ritratto a pastello

(67x54 cm, inv. Cl. I, n. 1211)

eseguito dall’altro figlio pittore,

Lorenzo Tiepolo.

2 _ J. Starobinski, 1789. I sogni

e gli incubi della ragione, Milano

2010, pp. 25-31.

3 _ Starobinski 2010, p. 29.

4 _ A. Morassi, Giambattista

e Domenico Tiepolo alla Villa

Valmarana, “Le arti”, 4, 1941, p.

271; A. Mariuz, Giandomenico

Tiepolo, Venezia 1971, pp. 30-35.

5 _ S. Loire, in Tiepolo. Ironia

e comico, catalogo della mostra

(Venezia, Fondazione Giorgio

Cini) a cura di A. Mariuz, G.

Pavanello, Venezia 2004, pp.

146-148.

LA FINE

DEL SECOLO

L A

PROPENSIONE

AL “GENERE” DI

GIANDOMENICO

TIEPOLO

Insieme a Francesco

Guardi, Giandomenico Tiepolo è considerato l’ultimo

rappresentante di quella civiltà artistica che

fu il Settecento veneziano. I due peraltro risultano

parenti poiché la madre, Cecilia Guardi, era sorella

di Francesco [1] . Entrambi, inoltre, fanno in tempo

ad assistere ad alcuni eventi che cambiarono irrimediabilmente

la configurazione politica e culturale

dell’Occidente. Morto nel 1793, Guardi ha modo di

venire a conoscenza della Costituzione degli Stati

Uniti d’America, dell’abbattimento, a colpi di ghigliottina,

della monarchia francese e di comprendere

che ormai il nuovo indirizzo stilistico, a lui estraneo,

il Neoclassicismo – stile che a Venezia aveva orientato

il progetto della facciata del Nuovo Teatro alla Fenice

–, si stava irrimediabilmente imponendo in Italia e in

Europa. Dal canto suo Giandomenico, il cui decesso

si data al 1804, deve accettare la caduta, senza colpo

ferire, della Repubblica veneziana, occorsa nel 1797,

e condividere quel senso di smarrimento diffuso tra

i cattolici a seguito della notizia della morte di Pio

VI, nell’agosto del 1799, vittima e prigioniero della

Rivoluzione francese.

La figura di Giandomenico Tiepolo assume pertanto

la fisionomia dell’artista sopravvissuto a quella

civiltà che, a fianco del padre, aveva largamente celebrato.

Non a caso, Starobinski gli riconosce il ruolo di

mitografo favoloso della finis Venetiae, colui che seppe

far scomparire l’eternità [2] . Quell’eternità tante volte

raccontata attraverso miti e allegorie e che negli ultimi

anni di vita lascia posto a raffigurazioni grafiche di scene

familiari di vita veneziana, la cui condotta in chiave realistica

appare innervata da un visione caricaturale: vi traspira

“una eleganza gioiosa e un riso desolato” [3] .

Gran parte della propria esistenza Tiepolo la

trascorre a fianco del padre; è sempre con lui, anche

a Madrid, dove il genitore si spegne. Fin dal principio

quindi, la sua poetica si sostanzia sotto l’egida paterna,

differenziandosene nella resa autonoma di alcune

figure di complemento.

Durante gli anni trascorsi a Würzburg, oltre

ad assistere il maestro nella realizzazione di uno dei

più alti capolavori del Settecento europeo – l’enorme

affresco dello scalone monumentale della Residenz

–, il pittore vive un periodo di felicità creativa, licenziando

opere in proprio, in cui il distacco dai modi

paterni appare sensibile [4] . Al rientro in patria e prima

della partenza alla volta della Spagna, egli matura l’inclinazione

per la pittura di genere, affrescando le pareti

della foresteria di villa Valmarana, nei pressi di Vicenza.

Qui, tra l’altro, ha modo di sondare per la prima volta

il terreno che lo porterà anni dopo alla realizzazione

del celebre Mondo Novo, affrescato su una parete

della villa di famiglia a Zianigo e oggi a Ca’ Rezzonico

(fig. 2). A queste date e comunque prima del trasferimento

a Madrid nel 1762 – insieme al padre e al

fratello minore Lorenzo –, Giandomenico esegue

le sue prime scene di carnevale, tra cui la coppia con

Il minuetto e Il ciarlatano ora al Louvre (catt. VII.05-

06), ma un tempo proprietà di Francesco Algarotti [5] .

— LA PROPENSIONE AL “GENERE” DI GIANDOMENICO TIEPOLO — 347



Sono opere in cui l’artista contrappone al macrocosmo

degli affreschi decorativi “il microcosmo lucente

delle sue evocazioni di vita contemporanea”, in un

rovesciamento ironico dell’universo paterno. Motivi

resi con linguaggio spedito, tale da conferire alle composizioni,

almeno nei risultati più felici, “un tono di

improvvisazione giornalistica” [6] : la folla mascherata

e oziosa, resa con stile corsivo, “si accalca in giardini

di villa o per le strade di paesi in festa, in un’ora del

giorno che doppia a terra le forme in ombre lunghe

e distorte. Dame lievi si mescolano alla canaglia, fanciulle

si travestono da vecchi, e le bautte ambigue

parodiano gli spettri. E’ una labile schiuma umana, il

fastigio estroso di una civiltà convinta che altro bene

non vi è se non la felicità che riesce a cogliere su questa

terra. Il tempo scorre veloce; ogni occasione perciò

diventa pretesto di gioco, ogni luogo un palcoscenico”

[7] . La narrazione tende qui, evidentemente, al

sarcasmo, lambendo il grottesco, con i passi di danza

dei due ballerini del Minuetto scanditi dal ritmo frenetico

imposto dall’orchestrina compressa su una

pedana a destra. Tra i numerosi spettatori che affollano

la scena si scorgono, inoltre, quelle maschere bizzarre

dagli sguardi salaci, che ritorneranno più avanti

nelle composizioni riservate a Pulcinella, personaggio

peraltro già presente in queste raffigurazioni, seppur

calato in ruoli ancora marginali.

Tale svolta tematica, più consona forse al suo

temperamento, che predilige la rappresentazione

caricaturale dei contemporanei, è in qualche misura

anticipata da quei personaggi secondari, fortemente

caratterizzati, stipati in molte stazioni di quella Via

Crucis eseguita in gioventù per l’Oratorio veneziano

del Crocefisso annesso alla chiesa di San Polo. Tele, pur

connesse con le opere del padre, ma in cui affiora una

sensibilità diversa, indugiante sulla folla che, indifferente,

si accalca attorno al Cristo [8] .

In Spagna i Tiepolo celebrarono da un lato la

monarchia, avvalendosi del consueto materiale iconologico

codificato da quella civiltà costituitasi nell’età

barocca, dall’altro assecondarono ulteriori committenze

pubbliche e private. In questo torno di tempo,

come precisato da Mariuz, Giandomenico licenzia

altre scene di “genere”, tra cui il Burchiello del

Kunsthistorisches Museum di Vienna (cat. VII.07), raffigurazione

di un momento di vita quotidiana riservato

all’imbarcazione che, tramite il fiume Brenta, collegava

Venezia a Padova. Si trattava di una tipica imbarcazione

veneziana per trasporto passeggeri, con grande

cabina in legno. Giacomo Casanova vi salì per il suo

primo viaggio all’età di nove anni, nel 1734, quando

venne accompagnato dalla madre, dall’abate Alvise

Grimani e dal poeta erotico Giorgio Baffo a Padova,

al fine di iniziare gli studi grammaticali [9] , mentre

Carlo Goldoni, alle stesse date in cui Giandomenico

eseguiva la sua versione pittorica, gli riservò un componimento,

in cui si legge: “Gera in barca da Padoa,

o sia Burchiello, / che va via per la Brenta ogni mattina”,

aggiungendovi una poetica descrizione di quella

“folta compagnia de Zente varia [...] de caratteri vari

una misianza” [10] , placidamente raffigurata da Tiepolo

figlio nel dipinto viennese.

La morte del padre, occorsa il 27 marzo 1770,

spinge Giandomenico al rientro in patria, mentre il fratello

Lorenzo decide per la permanenza in terra iberica,

dove si stavano imponendo le istanze razionalistiche

e quindi classicistiche, del nuovo indirizzo stilistico.

Indirizzo che in laguna a queste date attecchiva soprattutto

in architettura e nella relativa trattatistica, quella

di Tommaso Temanza, Francesco Milizia e Andrea

Memmo [11] . Tale linea classicistica presupponeva una

volontà di moralizzazione nel campo dell’arte, di cui

si ribadiva la funzione educatrice. Per Giandomenico,

però, “l’aggiornamento in direzione di tale classicismo

programmatico si risolse solo in un ulteriore irrigidimento

delle forme di ascendenza paterna e nell’adozione

di schemi compositivi scolasticamente semplificati,

nel vano proposito di esprimere la serietà della

Storia” [12] . A questo spirito si sarebbero forse dovute

orientare le due composizioni della National Gallery di

Londra raffiguranti I greci costruiscono il cavallo di legno

e I troiani trascinano in città il cavallo (cat. V.38), in cui

invece persistono quei movimenti svelti, da operetta,

più consoni al gusto precedente.

Al rientro fra le lagune, Giandomenico Tiepolo

viene nominato membro della locale Accademia

di Pittura e la sua opera prosegue ricalcando lo stile

sublime della tradizione paterna. Lo attestano i lavori

condotti negli anni Settanta e Ottanta in palazzo

Valmarana-Franco di Vicenza, sul soffitto della parrocchiale

di Casale sul Sile o in quello della chiesa veneziana

di San Lio; e ancora in palazzo Contarini Dal

6 _ A. Mariuz, Giandomenico

Tiepolo, Venezia 1971, p. 42.

7 _ Ivi, p. 70.

8 _ Ivi, p. 22.

9 _ G. Casanova, Storia

della mia vita (titolo originale

dell’edizione critica Histoire de

ma vie, Wiesbaden-Paris 1960-

62), a cura di P. Chiara,

F. Roncoroni, II ed., Milano,

1989, voll. 3; I, pp. 28-29.

10 _ C. Goldoni, Il Burchiello

di Padova in occasione delle

nozze di sua Eccellenza il Sig.

Alvise Priuli e la Nobil donna

Lucrezia Manin, in Delli

componimenti diversi di Carlo

Goldoni avvocato veneto, tomo 1,

Venezia 1764, p. 184.

11 _ S. Pasquali, Scrivere di

architettura intorno al 1780:

Andrea Memmo e Francesco

Milizia tra il Veneto e Roma,

“Zeitenblicke”, 2, n. 3, 2003,

pp. 3-27; cfr. Rössler, saggio in

catalogo.

12 _ Mariuz 1971, p. 76.

FIG. 2

GIANDOMENICO TIEPOLO

Il Mondo Novo.

Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento

veneziano

13 _ “Il sudato lavoro di Gian

Domenico Tiepolo, accolto al

suo nascere da un generale coro

di consentimenti e lodi, ebbe

però avverso destino: giacché

nel giro di ottant’anni circa,

sotto la critica inesorabile degli

uomini e l’azione dissolvitrice

del tempo, andò a totale rovina.

Ed anche il ricordo scomparve:

infatti nel 1866 nello spazio da

esso occupato prese posto un

affresco del pittore genovese

Giuseppe Isola” (S. Rebaudi,

L’affresco di Gian Domenico

Tiepolo nel soffitto della gran sala

del Palazzo Ducale in Genova,

“Giornale storico e letterario

della Liguria”, XVI, II, 1940, pp.

63-71 [69-70]).

14 _ “Nuova Veneta Gazzetta”,

20 marzo 1762, riportato in

F. Haskell, Mecenati e pittori,

Firenze 1966, p. 389.

15 _ G. Fogolari, L’Accademia

veneziana di pittura e scoltura

del Settecento, “L’arte”,

1913, pp. 270-272. Per un

approfondimento: L’Accademia

di Belle Arti di Venezia. Il

Settecento, a cura di G. Pavanello,

I-II, Crocetta del Montello 2015.

16 _ F. Montecuccoli degli

Zaffo alla Misericordia, sempre a Venezia, e il grande

affresco nel soffitto del Salone di Palazzo Ducale a

Genova, commissionatogli nel 1784 [13] . Tutti incarichi

la cui finalità decorativa induce il pittore a riprendere

temi e stilemi paterni, in pieno contrasto con la poetica

neoclassica allora dominante. I risultati non sono

tra i più felici e le opere sembrano decretare il tramonto

di quella stagione grandiosamente celebrativa

segnata dal genio di Giambattista Tiepolo. In questi

ultimi esempi, infatti, si affacciano di continuo citazioni

da opere precedenti, disorganizzate però in una

visione spaziale meno unitaria e trionfale.

Fino all’ultimo, si direbbe, ma senza troppa

convinzione, Giandomenico cerca di perpetrare le

adusate indicazioni del padre, al tempo raccolte da un

suo contemporaneo: “Ho udito dire dal Signor Tiepolo

stesso [...] che li Pittori devono procurare di riuscire

nelle opere grandi, cioè in quelle che possono piacere

alli Signori Nobili, e ricchi, perché questi fanno la fortuna

de’ Professori, e non già l’altra gente, la quale non

può comprare Quadri di molto valore. Quindi è che

la mente del Pittore deve sempre tendere al Sublime,

all’Eroico, alla Perfezione” [14] .

In virtù soprattutto del ruolo di erede artistico

dell’illustre genitore, nel 1783 egli è nominato presidente

dell’Accademia veneziana, carica che terrà per

tre anni. Nonostante ciò il suo distacco dall’ambiente

artistico ufficiale è ormai inesorabile, anche in virtù

di fastidiose diatribe familiari. Lo certifica la lettera

inviata il 12 ottobre 1788, dalla sua proprietà di Zianigo,

al cancelliere dell’Accademia Vincenzo Nodari, dove, ai

ringraziamenti per l’invito a ricoprire il ruolo di maestro,

seguono le scuse di non poter accettare causa sfavorevoli

circostanze domestiche [15] .

L’armonia familiare dei Tiepolo viene infatti a

sgretolarsi subito dopo la morte di Giambattista, con

la figlia che reclama più di quanto le è stato assegnato

tramite dote, accusando madre e fratelli di iniquità

nella distribuzione degli ingenti beni accumulati dalla

famiglia in gran parte dopo il suo matrimonio. A leggere

i relativi documenti d’archivio, si ritrovano tutte

le componenti di una saga familiare dei tempi nostri.

La madre altera dedita al gioco d’azzardo, il figlio primogenito

più incline all’isolamento che alla conciliazione,

il fratello all’estero che non per questo rinuncia

a reclamare ciò che gli spetta, l’altro fratello, prete, a

cui ci si affida alla bisogna per cercare di mantenere

un certo decoro nella disputa economica e, per l’appunto,

la sorella ingrata, Elena, sposata con Iseppo

Marco Bardese nel 1745. Istigata forse dal consorte,

la donna reclamava quindi un cospicuo adeguamento

della dote iniziale, e ciò nonostante fosse stata ugualmente

inserita dal padre nel proprio testamento e in

posizione paritaria agli altri fratelli. A Venezia, peraltro,

per antica tradizione, la figlia sposata, che aveva ricevuto

una dote adeguata, rinunciava implicitamente al

348 —LA FINE DEL SECOLO —

— LA PROPENSIONE AL “GENERE” DI GIANDOMENICO TIEPOLO — 349



resto dell’eredità, mentre i fratelli rimasti insieme nella

stessa casa possedevano in comune il resto dei beni [16] .

Nondimeno, come visto, la donna fece notificare una

“estragiudiziale” ai fratelli che avevano seguito il padre

in Spagna, nonché alla madre e al terzo fratello, don

Giuseppe, chiedendo conto, ai primi, “del denaro ed

effetti del padre esistenti a Madrid al tempo della sua

morte”, mentre alla madre e al fratello prelato “contestava

addirittura il maneggio del denaro che essi

avevano curato durante gli anni di assenza del padre,

e ne chiedeva il rendiconto” [17] . Contestazioni a cui

seguirono le risposte piccate di Giandomenico e della

madre Cecilia (fig. 3) [18] . Su quest’ultima però permangono

alcuni dubbi, alimentati da quella diceria che

circolava insistente nella Parigi dell’Ottocento, ossia

che la moglie del grande Tiepolo avrebbe sacrificato

al vizio del gioco gran parte dei gioielli di famiglia [19] .

Voce che sembra trovare conferma nell’analisi dell’inventario

dei beni stilato alla sua morte nel 1779, in cui

non figurano più i gioielli inviatele in dono dal marito

direttamente dalla Spagna e nemmeno quelli assegnatele

a seguito della vertenza giudiziaria suddetta. Non

a caso, i figli Giandomenico e Giuseppe preferirono

accettare l’eredità materna con beneficio d’inventario,

preoccupati di ritrovarsi a far fronte a situazioni debitorie

a loro sconosciute [20] .

Insomma, dopo aver assistito il padre per

mezza Europa e averlo diligentemente affiancato e

coadiuvato nella messa in scena di sontuose allegorie

celebranti pel tramite della mitologia, casate e famiglie

nobiliari, Giandomenico, al suo rientro, si trova

invischiato in una sgradevole lite successoria che lo

costringe a frequentare avvocati e a portarsi, giocoforza,

a più riprese davanti al notaio, insieme a tutti gli

altri membri della famiglia.

Frattanto, nel 1776, si era sposato con

Margherita Moscheni [21] , e anche in questo caso gli

sviluppi della relazione dovettero assumere contorni

da telenovela. L’intermediario al loro matrimonio

fu Ferdinando Tonioli, imparentatosi poi con il pittore

a seguito delle nozze contratte con una cugina

della Moscheni. Tonioli, successivamente, si attivò

come mediatore nella compravendita di opere di

Giambattista ancora in disponibilità della famiglia.

La decisione fu forse presa per far fronte alla mutata

situazione professionale di Giandomenico, che ormai,

a partire dagli anni Novanta, non era più remunerativa.

Al tal fine Tonioli tenne rapporti epistolari con Antonio

FIG. 3

LORENZO TIEPOLO

Ritratto di Cecilia Guardi.

Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento

veneziano

FIG. 4

GIANDOMENICO TIEPOLO

Passeggiata a tre.

Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento

veneziano

Erri, Giambattista Tiepolo e la

sua famiglia. Nuove pagine di

vita privata, “Ateneo Veneto”,

CLXXXI, 32, 1994, pp. 7-42 [19].

Si veda anche G. Munerati, La

famiglia dei Tiepolo a Mirano,

in sedici atti notarili inediti.

Settembre 1762 – Agosto 1778,

Milano 1992.

17 _ Ivi, p. 21.

18 _ Domenico dimostrò che

le disponibilità economiche

maturate in Spagna furono

riservate al funerale e ad

altre spese e di come lui e

il fratello fossero semmai

creditori verso l’asse ereditario

di quanto dovuto attingere

personalmente alle rispettive

borse per far fronte alle richieste

dei creditori. Più velenosa la

risposta della madre Cecila, che

rimproverava alla “fortunata

coerede”, a suo tempo “dotata

dal padre in vita, soccorsa quasi

del continuo dall’amore della

madre e beneficata anche in

morte dal testamento paterno”,

la richiesta di render conto

addirittura “a giornata” del

maneggio dei capitali e degli

investimenti effettuati con le

somme spedite dal padre alla

madre durante il soggiorno

madrileno. D’altra parte, come

ricorda Cecilia, l’indicazione

di affidare al figlio prelato

l’amministrazione delle sostanze

familiari in sua assenza fu presa

dallo stesso Giambattista prima

della partenza per la Spagna

(Montecuccoli degli Erri 1994,

pp. 21-22).

19 _ P. Molmenti,

Giambattista Tiepolo. La sua vita

e le sue opere, Milano 1909, p. 31.

20 _ Montecuccoli degli Erri

1994, p. 26.

21 _ G.M. Urbani de Gheltof,

Tiepolo e la sua famiglia: note e

documenti inediti, Venezia 1879,

pp. 20-29.

22 _ A. Mariuz, Giandomenico

Tiepolo nelle lettere di

Ferdinando Tonioli, in G.

Pavanello, Canova collezionista

di Tiepolo, Monfalcone 1996,

p. 81.

23 _ Mariuz 1996, p. 82. Le

vendite cominciarono subito

dopo la morte di Giandomenico

e Canova, grazie a Tonioli,

se ne avvantaggiò. I Bardese

si sbarazzarono della villa di

Zianigo, dove Giandomenico

aveva lasciato capolavori ad

affresco ora a Ca’ Rezzonico, nel

1826. Appena vent’anni dopo

decisero di liquidare le reliquie

estreme dell’eredità Tiepolo,

perlopiù stampe e disegni,

cedendoli verosimilmente a

qualche antiquario che poi

decise di metterli in vendita a

Parigi (La vendita Tiepolo. Parigi

1845, a cura di G. Pavanello,

Venezia 2013).

24 _ Mariuz 1996, p. 82.

25 _ Morassi 1941, p. 266.

26 _ La tragedia di Antonio

Foscarini di Giambattista

Niccolini presa in esame da

Giovambatista Gaspari giuntavi

un’aringa inedita di Marco

Foscarini, Venezia 1827, p. 189.

Canova, che allora si stava imponendo quale esponente

di spicco del nuovo stile neoclassico. La trattativa però

non fu semplice poiché a Giandomenico riluttava l’idea

di privarsi a buon mercato delle opere del padre.

Tale atteggiamento, evidentemente, non trovava concorde

Tonioli, desideroso di concludere un accordo, e

che per questo, senza mezzi termini, lo definì in una

lettera “minchione di prima linea” [22] .

Di conseguenza, la morte del pittore, occorsa il

3 marzo 1804, fu prontamente annunciata da Tonioli a

Canova, precisando come ora “sarà più facile trattare”.

Non solo, egli si fece latore presso l’illustre scultore di

una richiesta obiettivamente singolare, ossia informarsi

“se una vedova (senza le licenze da Roma) possi sposare

un figlio della sorella del suo defunto marito” [23] .

Si stava infatti preparando il matrimonio tra Margherita

Moscheni e il nipote del pittore, Giambattista Bardese,

figlio di Elena, accolto in casa dallo zio dopo essere

rimasto orfano di madre. Le missive di Tonioli a Canova

evidenziano la difficoltà di rapporti tra Giandomenico e

la sua più giovane sposa. A tal proposito in un’altra lettera

si legge: “Voi siete uomo di mondo. Questa signora

ha sposato un vecchio, e a dire il vero è stata sacrificata

fino al presente, perché era bensì un buon uomo;

ma pieno di pregiudizi”. Una complicità tra la vedova

e il nipote che dovette forse stringersi ben prima della

morte di Giandomenico, tanto che Mariuz, commentando

le parole di Tonioli, è indotto a cogliere un possibile

significato autobiografico in una delle scene ad

affresco oggi a Ca’ Rezzonico – ma un tempo nella villa

dei Tiepolo a Zianigo, località non troppo distante da

Venezia –, la cosiddetta Passeggiata a tre (fig. 4), “con

la dama al centro, a braccio di un uomo anziano e di un

giovane, il quale ci sogguarda di sopra la spalla con una

punta di malizia” [24] .

Le ultime incursioni del pittore nel campo

dell’affresco monumentale, per lungo tempo una specialità

di famiglia, tradiscono formule stanche e ripetitive,

che lo relegano inevitabilmente ai margini del

coevo circuito di committenze. Gli ultimi anni di vita,

Giandomenico li trascorre perciò ritirato, illustrando

una serie di fogli con scene di vita quotidiana. Sempre

per diletto personale prosegue ad affrescare le sale

della propria villa a Zianigo, tra cui figura il rinomato

Mondo Novo, concluso nel 1791 [25] , due anni dopo la

caduta della monarchia francese.

In vecchiaia, quindi, egli esegue a Zianigo

alcuni affreschi con scene di vita quotidiana e illustra

una serie di fogli di medesimo tema (figg. 1-2, 4), molti

dei quali datati 1791: lo stesso anno d’esecuzione riportato

nel Mondo Novo. Sono scene di genere aneddotico

tratte con spirito fresco e arguto, di contenuto

apparentemente disimpegnato, che fissano un’immagine

caricaturale della società veneziana coeva. In

alcune si è indotti a cogliere riferimenti biografici: la

Scena dell’avvocato (cat. VII.23), ad esempio, considerate

le traversie legali vissute in seno alla famiglia,

potrebbe essere intesa quale trasposizione scherzosa

di una realtà direttamente esperita dal pittore. A ogni

modo, egli riversa in queste prove grafiche gli umori

più intimi, cordiali e ironici della propria ispirazione

realistica, non immune da una sottile e talvolta acre

vena malinconica, presaga del crollo drammatico di

una civiltà millenaria.

Crollo prontamente occorso qualche anno

dopo, quando il 12 maggio 1797 il patriziato veneziano

assiste inerme alla fine della Serenissima.

Giandomenico si ritrova quindi circondato dalle

macerie dell’aristocrazia che fu, in un umore politico e

sociale travolto da nuovi valori. In questo clima di rassegnato

decadimento, egli inizia a percorre la via che

lo porta alla genesi della sua ultima fatica, l’album di

disegni dal titolo Divertimenti per li regazzi.

Che a Venezia la situazione politica e sociale

fosse critica, lo rilevava già Marco Foscarini nel marzo

1762, due mesi prima di venir eletto doge, quando

in un memorabile discorso in Maggior Consiglio,

affermò: “Molte disuguaglianze, el savemo tutti, passa

fra i nobili” [26] . Disuguaglianze che, allo scadere del

Settecento, coinvolgevano circa i due terzi degli aventi

diritto di rappresentanza nel Maggior Consiglio, classificati

come appartenenti alle famiglie nobili “povere”.

Tale situazione incise nella vita politica lagunare, poiché

i nullatenenti, che non riuscirono mai a strappare

alle famiglie “ricche” e “mezzane” la loro posizione di

privilegio politico, per mezzo del voto contribuirono

a rendere la Repubblica incapace di attuare le riforme

necessarie, paralizzando le sue istituzioni, conservando

una miriade di cariche inutili, vere e proprie

sinecure, continuando ad alimentare la beneficenza

statale a favore delle loro famiglie. Come è stato dimostrato,

i patrizi “plebei” non vivevano per lo Stato,

350 —LA FINE DEL SECOLO —

— LA PROPENSIONE AL “GENERE” DI GIANDOMENICO TIEPOLO — 351



giustificando in tal modo i loro privilegi politici, bensì

a spese dello Stato, e quindi contribuivano a privare

della sua legittimità il governo aristocratico, dissuadendo

anche chi era mosso da finalità più nobili. Per

questo, non tutti i patrizi appartenenti a Case vecchie

e ricche consideravano come il più alto onore quello di

servire la patria, e chi se ne occupava si accontentava di

occasionali elezioni all’uno o all’altro ufficio [27] .

A tal proposito, una figura centrale del

Settecento veneziano fu Andrea Memmo. Iniziato alla

massoneria da Giacomo Casanova, venne assistito

nell’educazione letteraria e artistica dal frate Carlo

Lodoli, di cui perpetrò la biografia intellettuale: suo il

merito d’aver trasformato a Padova una palude malsana

nel Prato della Valle. Nel 1785, il nobiluomo viene eletto

Procuratore di San Marco, la più alta dignità della

Repubblica dopo quella del Doge. Se da un lato però

questo patrizio veneziano serviva la patria e si dedicava

allo studio e all’investigazione delle questioni economiche

e sociali del tempo, dall’altro non rinunciava a un’esistenza

spensierata e gaudente. Lo stesso Memmo, in

una lettera inviata all’amico Casanova nel 1788, esplicita

il proprio disinteresse al “ragionar co’ nostri politici” e

a “conviver con gli uomini di lettere”, preferendo spassarsela

“col bel sesso”. La missiva, in cui il Procuratore

tradisce la preferenza per una vita epicurea, potrebbe

peraltro ben figurare quale canovaccio comico-sentimentale

di un’opera vaudeville del tempo.

Frattanto io m’occupo tutto il giorno, senza che

m’avanzi tempo giammai, e nelle ore della sera,

che non posso e non amo di riscaldarmi la testa

e gli occhi applicando, me la passo con le vecchie

amabili amiche, e colle giovani ancor più amabili,

belle pazze, che pur se tutto non mi concedono

ancor mi danno molto. Ho dovuto dir jeri

ad un mio amico certa verità che mi scappo, ieri

vedete a questi 60 anni e che mi chiese come avevo

passate le prime ore della sera!... Fui prima da

una bella per fare la pace, e come sembrommi ben

avviata, corsi dopo da un’altra che mi vedeva alla

stessa ora a far baruffa, mentre non potrei se non

cambiar ore per divertirmi con due. M’è necessario

il sollievo, e come non gioco, non compro

più alcuna cosa che mi diletti, non posso soffrire

il ragionar co’ nostri politici, e niente potendo

più studiare, conviver con gli uomini di lettere,

secondo l’istinto, la consuetudine e la stessa mia

inattendibile fortuna, me la passo col bel sesso.

Se vedeste Casanova quali belle ragazze sortirono

in questo Mondetto dopo che ne siete partito! Mi

compatireste se a poco a poco le tento tutte per

riuscir con alcuna, senza però mai perder né il

mio sonno, né il mio appetito. [28]

Con la stessa intonazione da viveur Memmo,

sempre a Casanova, confida di non riuscire a tagliare

“una inutile corrispondenza con venti donne di paesi

diversi, che tutte vogliono farmi credere d’esser di me

incessantemente innamorate” [29] .

In queste righe si condensa lo spirito di una

civiltà, quella veneziana di secondo Settecento, che si

riflette nei libretti d’opera licenziati proprio in quegli

anni da Lorenzo da Ponte – altro illustre esponente

di quella cultura – per la celebre trilogia di Mozart:

Le Nozze di Figaro, andate in scena nel 1786, il Don

Giovanni del 1787 e soprattutto il Così fan tutte del

1790. Narrazioni permeate d’una atmosfera tra l’ironico

e il licenzioso, che nella variazione del medium

si ritrova nei disegni e in alcuni affreschi di Zianigo

che Giandomenico andava ideando in quegli stessi

anni [30] .

Opere in cui il pittore interpreta beffardamente lo

spettacolo offertogli dall’umanità contemporanea, di cui

non sempre condivide la condotta: “un’umanità presa da

smanie d’evasione, stolida e svagata, che sembra vivere nel

tempo di un’eterna vacanza” [31] . Come notato da Morassi

già nel 1941, tali composizioni sono “senz’ombra di dubbio,

tra i più corrosivi documenti d’una società in disfacimento,

che trovano riscontro, d’altronde, anche nelle

satire di Parini, del Gozzi, e in particolare nei ’pamphlets’

della ’Frusta letteraria’ del Baretti: caricature d’uno spirito

acuto che notava causticamente i segni dell’interiore

rovina d’una società ormai infrollita” [32] .

Significativamente, il suo ultimo lavoro, l’album

Divertimento per li regazzi, sembra condotto dall’anziano

pittore soprattutto per piacere personale. Mosso

da nuova e genuina carica d’investigazione e interpretazione

della realtà contemporanea, egli genera una

silloge di disegni, centoquattro, tutta incentrata sull’esistenza

quotidiana di una delle maschere più celebri

della commedia dell’arte, Pulcinella. Ne scaturisce “il

27 _ V. Hunecke, Il corpo

aristocratico, in Storia di

Venezia. L’ultima fase della

Serenissima, VIII, Roma 1997.

pp. 361-364.

28 _ P. Molmenti, Epistolari

Veneziani del secolo XVIII,

Palermo 1914 [ed. Venezia 2005,

p. 114].

29 _ Molmenti 1914 [2005,

p.112]

30 _ M. Guiotto, Vicende

storiche e restauro della “villa

Tiepolo” a Zianigo di Mirano,

“Ateneo Veneto”, 14, 1976,

pp. 7-26; C.B. Tiozzo, Sul

fondo del cassone. Mirano e il

mistero dell’eredità dei Tiepolo,

Padova 1998; Satiri, Centauri e

Pulcinelli. Gli affreschi restaurati

di Giandomenico Tiepolo

conservati a Ca’ Rezzonico,

catalogo della mostra (Venezia,

Museo Correr) a cura di F.

Pedrocco, Venezia 2000.

31 _ Mariuz 1996, pp. 77-83.

32 _ Morassi 1941, pp. 280-

281.

33 _ Mariuz 1996, p. 79.

34 _ A. Gealt, Domenico

Tiepolo. I disegni di Pulcinella,

Milano 1986, p. 15. Di

provenienza incerta, l’album fu

battuto a Londra da Sotheby’s

nel luglio del 1920. Acquistato

da un mercante londinese, fu poi

venduto a un mercante parigino,

Richard Owen, che espose

l’intera serie al Musée des Arts

Décoratifs nel 1921, traendone

profitto alienando a gruppi

i vari disegni. Uno di questi

fu acquistato da una signora

Rotschild, Brinsley Ford ne

prese dodici, Léon e Paul Suzor

ne ottennero undici, mentre

alcuni andarono al museo di

Cleveland grazie all’intuizione

del suo direttore Henry Sayles

Francis (sei, più tre successivi,

oggi sono nove), altri furono

preda di intelligenti direttori di

musei americani.

35 _ Sui rapporti tra i

Pulcinella di Giambattista

e quelli di Giandomenico si

veda G. Knox, Pulcinella in

Arcadia, in Tiepolo ironia e

comico, catalogo della mostra

(Venezia, Fondazione Giorgio

Cini) a cura di A. Mariuz, G.

Pavanello, Venezia 2004, pp.

97-99; per un approfondimento

sulla genesi e sviluppo di questa

maschera: Pulcinella e le arti

dal Cinquecento al Novecento, a

cura di F. Carmelo Greco, Napoli

1990.

36 _ Mariuz 1971, pp. 85-89.

Si veda anche G. Pavanello,

“Tutta la vita, dal principio alla

fine, è una comica assurdità”,

ovvero “il segreto di Pulcinella”,

in Tiepolo ironia e comico 2004,

pp. 15-53.

37 _ A. Gealt, Domenico

Tiepolo. I disegni di Pulcinella,

Milano 1986, p. 17. La serie

di disegni fu in precedenza

pubblicata in A. Gealt, M.

Vetrocq, Domenico Tiepolo’s

Punchinello drawings, catalogo

della mostra (Indiana University

Art Museum), Bloomington

1979. Su questo argomento, si

veda inoltre P. Fehl, A Farewell

to Jokes: The Last Capricci of

Giovanni Domenico Tiepolo

and the Tradition of Irony in

Painting, “Critical Inquiry”, V,

1978/1979, pp. 761-791; G. Knox,

Domenico Tiepolo’s Punchiello

Drawings. Satire, or Labor of

Love?, “Satire in the Eighteenth

Century”, New York-Londra

1984, pp. 124-126; G. Knox,

The Punchinello Drawings of

Giambattista Tiepolo, “Studi

di storia dell’arte in onore di

Michelangelo Muraro”, a cura

di D. Rosand, Venezia 1984, pp.

439-446; A. Mariuz, I disegni

di Pulcinella di Giandomenico

Tiepolo, “Arte Veneta”, 40,

1986, pp. 265-273; A. Gealt,

Divertimento per li regazzi, in

Tiepolo ironia e comico 2004,

pp. 183-188; e più in generale

J. Byam Shaw, The Drawings of

Domenico Tiepolo, London 1962.

38 _ Gealt 1986, p. 15.

più avvincente documentario sulla società veneziana al

suo crepuscolo, in cui umorismo e malinconia si combinano

con una inesauribile capacità d’osservazione” [33] .

Riprendendo una maschera a lui ben nota, poiché

già utilizzata dal padre in alcuni famosi disegni, la

sottrae dal suo cliché di maschera oziosa e gaudente

– ancora presente negli ultimi affreschi eseguiti nella

villa di Zianigo –, predisponendone un nuovo sviluppo

iconografico, più consono a quel clima di rassegnato

decadimento politico e sociale, in cui stava operando.

Il Divertimento si qualifica come la biografia più

ampia e conosciuta di Pulcinella e non a caso l’inizio di

questo suo ultimo lavoro è stato datato al 1797, anno

in cui si concluse la storia secolare della Serenissima

Repubblica veneziana. L’incipit, peraltro, appare fortemente

significativo con il titolo inscritto sul fianco

di un sarcofago [34] .

La raffigurazione di episodi significativi della

vita quotidiana di Pulcinella (catt. VII.08-21), dalla

nascita alla morte, sembra dettata dall’esigenza di

sgretolare, con ironia affettuosa, la struttura portante

dell’ormai decaduta Repubblica. La narrazione, letta

con il senno di poi, acquista significati profondi, riflessi

in quella maschera codificata da Giandomenico, che

nella sua forma bizzarra, col nasone prominente, fissa

in modo efficace un’espressione comica [35] .

È stato notato come l’indicazione del titolo

“per li regazzi” abbia un sottinteso polemico: forse una

confessione indiretta dello stato di isolamento dell’artista,

ormai ai margini della scena artistica, e di come

il termine Divertimento sembri utilizzato nella sua

accezione di vocabolo musicale [36] . Tiepolo, in effetti,

intona un mondo che vive in parallelo a quello degli

uomini, talvolta mescolandovisi con estrema naturalezza.

Lo scherzo e la satira sguaiata, peculiarità di

Pulcinella, tendono però a sublimarsi in questi disegni

in una più ricercata compostezza d’atteggiamenti,

quasi un’evoluzione del personaggio, da una visione

istintuale e lasciva a una più riflessiva consapevolezza.

L’Album, oggi smembrato, si presta a diversi

piani di lettura, con rinvii alla situazione contingente

del pittore, non sempre comprensibili. Un’esegesi

approfondita è stata condotta da Gealt, che precisa

come l’artista racconti “una storia ramificata che comprende

intime scene di famiglia e avventure esotiche.

La diversità di situazioni raffigurate è possibile soltanto

grazie a questo personaggio simile, ma non identico, a

persone reali. Egli può infatti avere una famiglia senza

forzare la logica del racconto. Allo stesso tempo, sempre

senza forzature, può incontrare centauri ed altre

creature mitiche. Può essere un uomo qualunque o

essere stravagante” [37] . Una maschera dagli atteggiamenti

sempre più prossimi a quella realtà che non

riesce mai a riprodurre esattamente e, in questa prospettiva,

“la sua emulazione dell’esperienza umana

assume una nuova dimensione. Servendosi di un succedaneo

così simile e al tempo stesso così diverso da

noi, Giandomenico non ci racconta solo la storia di

Pulcinella, ma anche la nostra” [38] . Il passaggio da una

civiltà all’altra è quindi compiuto.

352 —LA FINE DEL SECOLO —

— LA PROPENSIONE AL “GENERE” DI GIANDOMENICO TIEPOLO — 353



GIUSEPPE

PAVANELLO

prediletto Giuseppe Angeli. Efficace silloge sarà la raccolta

d’incisioni incluse negli Studj di Pittura, pubblicato,

postumo, nel 1760: un volume inteso per “servire

come di scuola ad ognuno”, con scelta di immagini

realizzate da Marco Pitteri e, a solo contorno, da

Francesco Bartolozzi, tratte da opere del maestro. Con

il risultato che il giovane allievo frenava la sua vena

immaginativa per concentrare la sua attenzione su un

modello prefissato uguale per tutti.

FIG. 1

ANTONIO CANOVA

Dedalo e Icaro.

Venezia, Museo Correr

1 _ C.-N. Cochin, Voyage

d’Italie ou Recueil de notes sur

les ouvrages de peinture et de

sculpture, qu’on voit dan les

principales villes d’Italie, Paris

1769.

2 _ V. Barzoni, Lettera sopra

il Monumento di Angelo Emo

scolpito da Canova, Venezia

1795.

4 _ V. Barzoni, Lettera sopra

la Psiche modellata da Canova,

Venezia 1795.

5 _ J.G. Seume, Spaziergang

nach Syrakus im Jahre 1802,

Braunschweig-Leipzig 1803

(edizione italiana L’Italia a piedi

1802, a cura di A. Romagnoli,

Milano 1973).

LA FINE

DEL SECOLO

C A NOVA E

IL GUSTO

NEOCLASSICO

Giusto alla metà del

secolo viene istituita l’Accademia di “Scoltura, Pittura

et Architettura” e Alessandro Longhi esegue per il

Compendio delle vite de’ pittori veneziani istorici più

rinomati del presente secolo, apparso nel 1762, i ritratti

dei maggiori artisti. Ritratti, dunque: esigenza di dare

le immagini dei protagonisti della scena pittorica

veneziana, come una rassegna esemplare della maggiore

scuola pittorica europea: un intento, potremmo

dire, nello spirito dell’Encyclopédie.

L’istituzione dell’Accademia è di per sé indicativa

di una mutata concezione del fare artistico: si

passa dall’apprendistato di bottega a una didattica

normativa. Viene nominato direttore Piazzetta, che

tanta importanza aveva attribuito allo studio del nudo

– cardine dell’insegnamento accademico – da formare

una specifica scuola affidandone la direzione all’allievo

Si è scritto in apertura di Venezia ’700:

Immaginazione / Osservazione . Verso la fine del secolo

un terzo incomodo viene a interferire: è lo studio

dell’Antico, anticamera del Neoclassicismo. Il grande

esperto d’arte Anton Maria Zanetti il Giovane, nel suo

volume Della pittura veneziana e delle opere pubbliche

dei veneziani maestri, pubblicato nel 1771, auspica l’avvento

di un’arte che comunichi all’intelletto e al cuore,

fondata sul “bello semplice e vero”. A conclusione dell’opera,

rivolge ai giovani artisti l’invito a studiare la scultura

classica, sia pure nei calchi in gesso raccolti da

Filippo Farsetti nel suo palazzo sul Canal Grande: e ciò

allo scopo di apprendere “da quelle erudite forme come

rendasi col buon disegno la natura istessa bella compiutamente

e perfetta”, ma “conservando purità e leggiadria

pellegrina, che singolarmente caratterizzano la

vera eleganza”, per “poter poi passare con fondamento

e sicurezza a’ studii più sciolti e vivaci, che sono l’onor

maggiore della scuola nostra, e de’ Maestri di essa, veramente

signori dell’artifizio e della pronta esecuzione”.

Dunque, è dallo studio della statuaria classica

che potrà giungere quel rinnovamento che i tempi

impongono, e si potrà così competere con i colleghi

delle altre scuole d’Italia.

A ca’ Farsetti si celebrava – ed era una novità

per l’ambiente veneziano – il primato della scultura, in

grave situazione di crisi rispetto alla pittura. E se n’era

accorto un osservatore attento come Charles-Nicolas

Cochin, che annotava nel taccuino del suo Voyage d’Italie:

“on dir qui l’usage de l’école Vénitienne est de mettre

le pinceau à la main de leurs élèves, puisqu’en commençent

leurs études. Ce qu’ semble plus le confermer,

c’est la rareté des sculpteurs forni de cette école” [1] .

Gli auspici di una rinascita della scuola veneziana

si concreteranno nell’opera di un allievo dell’Accademia

proveniente dal contado trevigiano, subito fatto

— CANOVA E IL GUSTO NEOCLASSICO — 355



FIG. 2

GIAMBATTISTA PIAZZETTA

Studi di figura, incisione di

Marco Pitteri

FIG. 3

ANTONIO CANOVA

Monumento per Tiziano.

Possagno, Museo Canova

FIG. 4

ANTONIO CANOVA

Stele dell’ammiraglio

Angelo Emo.

Venezia, Museo Storico

Navale

Frari (1790-1795), mentre, poco dopo, il Senato Veneto

richiede un Monumento alla memoria dell’ammiraglio

Angelo Emo, morto nel 1792, da collocare in Palazzo

Ducale. Incarichi, entrambi, di forte significato simbolico:

il più grande artista veneto vivente è chiamato a

celebrare, da una parte, il massimo pittore veneto del

passato, dall’altra l’ultimo eroe della Repubblica, nella

prospettiva di un estremo rilancio di un mito perdurato

per secoli. Sono gli esempi del classicismo a suggerire

le forme delle nuove opere, secondo lo spirito dell’imitazione

degli antichi postulata da Winckelmann.

I modellini del Monumento per Tiziano, distribuiti

fra la Gipsoteca di Possagno e le Gallerie dell’Accademia,

rivelano l’inesausto sperimentare di Canova.

Dapprima il sarcofago addossato a una piramide con

figure afflitte (fig. 3). Poi, l’intuizione: eliminare quell’inutile

oggetto facendo diventare la piramide stessa

sepolcro, grazie all’apertura di un varco verso il quale

si dirigono, in mesta processione, le Arti.

Nasce così la concezione moderna della scultura

funeraria, che troverà esito in marmo nel Monumento

di Maria Cristina d’Austria (Vienna, Augustinerkirche).

Non più esaltazione del defunto, ma compianto:

afflizione per la perdita di una persona cara. Nel caso

di Tiziano, un confratello delle Arti veneziane.

Non sarà mai realizzato, purtroppo, quell’omaggio

al massimo pittore, mentre la Stele Emo

verrà portata a termine, ma collocata, con disappunto

di Canova, all’Arsenale (fig. 4). Celebrazione

sì, ma riprendendo il motivo della stele classica, con

il busto dell’ammiraglio incoronato dal genio della

Nautica, mentre la Fama scrive sul cippo “Angelo Emo

Immortale”: figure alate di sublime bellezza, tanto da

richiamare le creature angeliche tiepolesche.

“La tua grand’anima è ravvivata da un raggio di

luce che illuminò il secolo di Pericle, e che fu tanto propizia

ai tuoi Padri, agli Scultori della Grecia”, si poteva

scrivere allora [2] . Ancora un marmo giungeva in contemporanea

a Venezia: la statua di Psiche, inizialmente

prevista quale dono per Girolamo Zulian. Si accasava

nella più bella casa del momento: il palazzo del conte

Giuseppe Mangilli sul Canal Grande ai Santi Apostoli,

già dimora del console Joseph Smith, decorato da Pier

Antonio Novelli, Giambattista Canal, David Rossi, e

arredato da Giannantonio Selva. Era un insieme perfetto,

con pochi riscontri in Europa!

oggetto di premure da parte del patriziato, Antonio

Canova. Quale prova per un concorso, copierà nel 1775

il gesso dei Lottatori, ricavato dal marmo degli Uffizi.

Nelle sue prime statue – Euridice e Orfeo –,

concepite in coppia per il giardino di villa Falier ai

Pradazzi di Asolo, l’artista si cimenta nel nudo, base

dell’insegnamento accademico, ma inedita è una così

appassionata espressione degli affetti.

Subito dopo, nel 1777, il procuratore Pietro Vettor

Pisani commissionerà all’artista il gruppo di Dedalo e

Icaro (Venezia, Museo Correr), giocato sul contrapposto

tra la naturalistica figura del vecchio e l’idealizzato

giovane Icaro, in cui per la prima volta scompare ogni

residuo di gusto tardobarocco (fig. 1). Nasce un artista

moderno, che ha saputo aggiornarsi rapidamente sulle

istanze del razionalismo illuminista. Un passo dell’Encyclopédie,

divulgata nel veneziano Dizionario delle arti

e de’ mestieri (XV, 1773), sembra esser stato letto con

attenzione dal giovane Canova: la scultura è “particolarmente

nemica di quelle attitudini sforzate, che la Natura

disapprova e rigetta”, come pure “è nemica de’ contrasti

troppo ricercati nella composizione, come nella distribuzione

affettata dell’ombre e de’ lumi”.

Osservazione, si potrebbe dire, piuttosto che

Immaginazione. Il gruppo venne presentato nel 1779

alla Fiera della Sensa. Già l’Orfeo due anni prima aveva

riscosso, nella medesima circostanza, un inaspettato

successo, esaltato come opera che rinverdiva i fasti della

scultura veneziana cinquecentesca. Ora si riconosce che

è nata una nuova stagione per l’arte veneziana. Ma sarà a

Roma che quel giovane, non ancora ventiduenne ma già

ammesso, in deroga allo statuto, all’Accademia, dovrà

indirizzarsi, al fine di perfezionare la sua formazione

studiando soprattutto la statuaria classica.

Un viaggio di studio si trasformerà in un soggiorno

prolungatosi per tutta la vita.

Ma negli anni a seguire c’è qualcuno che cerca

di legare a Venezia colui che ormai è celebrato come

il primo scultore d’Europa. Girolamo Zulian, già

protettore dell’artista quand’era ambasciatore della

Serenissima nell’Urbe, commissiona all’artista un

Monumento per Tiziano, da erigere nella basilica dei

356 —LA FINE DEL SECOLO —

— CANOVA E IL GUSTO NEOCLASSICO — 357



Psiche è la prima opera di Canova di soggetto

“grazioso” che si può vedere in Patria (ora a Brema,

Kunsthalle). Un delirio d’entusiasmo ne conseguirà e

finalmente i veneziani potevano venire a conoscenza

delle esaltate, levigatissime lavorazioni del marmo:

qualità di esiti già acclamata universalmente, da cui

scaturisce quell’effetto di illusione in cui si coniugano

osservazione e astrazione.

Il clima che si percepisce? Ecco, di nuovo, un

testo di Vittore Barzoni: “Era notte quando mi sono

affacciato alla stanza di Psiche… Quale momento! In

mezzo a due fiaccole accese, ho veduta brillar nell’aria

una figura angelica: […] e ’l mio cuore fu preso da

quella spezie d’incanto, che la beltà sparge su tutto

ciò che la circonda. […] Le mosse delle mani, tutte

le loro inflessioni sono piene d’una grazia spontanea

che attrae, e d’una sì verace naturalezza che provoca

a baciarle. […] Psiche, io ti veggo e sento la tua presenza”.

Quindi, il finale: “Come Pimmalione innanzi

all’opera delle sue mani, io sono assorto dinanzi a te,

ed invoco al par di lui il fuoco sacro di Prometeo, che

scenda sulla tua fronte e ti dia la vita” [3] .

Si ha qui un cenno dell’ambiente predisposto

per accogliere quel marmo, ancor oggi sulla sua base

originale tonda fregiata di un festone di fiori, e l’indicazione

dell’ora scelta per la visita. Come consigliava lo

stesso Canova: uno spazio apposito, con illuminazione

zenitale per la luce naturale, quindi fiaccole per le visite

notturne: le più idonee, secondo l’artista, per cogliere

le finezze dello scalpello. E già abbiamo elencati motivi

destinati a diventare ’incollati’, per così dire, ai marmi

canoviani: grazia e naturalezza congiunte, l’evocazione

del mito di Pigmalione e Galatea, dare vita ai sassi!

Per la Stele Emo il Senato, invece di corrispondere

un pagamento, delibererà di riconoscere all’artista

una pensione vitalizia, rinnovando fasti rinascimentali.

Ma, in questo caso, soprattutto per tenere lo scultore

legato alla madrepatria.

Niente di più diverso da quanto fanno Francesco

Guardi (scomparso nel 1793) e Giandomenico Tiepolo

(che morirà nel 1804). Eppure, Canova cerca accanitamente

di impossessarsi di dipinti e disegni di

Giambattista Tiepolo e riesce ad avere nella propria collezione

una decina di modelletti e centinaia di disegni,

ammirati per “fantasia” e “grazia”, secondo le sue stesse

parole (lettera a Selva del 31 marzo 1804). Davvero, le

imprevedibilità del gusto.

Si è fatto cenno a casa Mangilli. Patriziato e

nobili di terraferma, a gara, rinnovano sui modelli del

classicismo di fine secolo gli interni delle loro dimore.

A gara, si è detto. E davvero si assiste a manifestazioni

numerose e qualificate, senz’altro di livello europeo,

che fanno degli anni di fine Settecento uno dei periodi

più rimarchevoli dell’arte veneta, grazie a pittori come

FIG. 5

GIAMBATTISTA CANAL,

DAVID ROSSI

Decorazione di soffitto con

Bacco e Arianna.

Venezia, palazzo Mangilli

ai Santi Apostoli

FIG. 6

COSTANTINO CEDINI,

DAVID ROSSI

Decorazione di sopraporta

con lira sorretta da figure

femminili.

Venezia, palazzo Berlendis

a Santa Margherita

Costantino Cedini, Pier Antonio Novelli, Giambattista

Mengardi, e pure Jacopo Guarana; gli ornatisti David

Rossi e Paolo Guidolini, lo stesso Giuseppe Bernardino

Bison; stuccatori come Giuseppe Castelli. La committenza

è variata: si va dal patriziato di antico (Querini

Stampalia, Pisani Moretta) e nuovo lignaggio (Sandi,

Manin, Gambara, Sangiantoffetti, Berlendis), a nobili

di Terraferma (il conte Giuseppe Mangilli) a ricchi borghesi

(Girolamo Manfrin).

Lo stesso ultimo doge, Ludovico Manin,

ordina l’ammodernamento del suo palazzo presso San

Salvador, chiamando l’architetto Selva, reduce dalla

costruzione del teatro La Fenice, il quale proprio allo

scadere del secolo riceveva l’elogio di Canova: “Voi siete

un vero artista non solo nell’architettura, ma anche

negli ornamenti, e conoscete assai bene le altre arti

ancora” (lettera del 15 febbraio 1800). Possono bastare

un paio d’immagini per dar conto di cos’è stato questo

momento straordinario della pittura veneziana: un

soffitto di palazzo Mangilli con Bacco e Arianna entro

un ovale attorniato da ornati in monocromo e Giochi

di putti – opera di Giambattista Canal e David Rossi –,

quindi l’inserto decorativo in una sopraporta di palazzo

Berlendis a Santa Margherita – ancora David Rossi,

assieme a Costantino Cedini –: anche in un edificio

‘minore’ entra la nuova sensibilità fatta di colte citazioni

dall’Antico, di simmetrie, di astrazione (figg. 5, 6).

Importanza particolare assume la presenza del

cammeo, che sigla con la sua cifra colta tanti piani

decorativi, al punto che Saverio Bettinelli lo indica nei

Discorsi su le Belle Arti (1793) quale emblema della sensibilità

classicistica di fine secolo, esaltando “la purità

de’ contorni, e la correttezza ed eleganza del disegno,

e la varietà dell’espressione, e le mirabili invenzioni con

l’esecuzione del par mirabile”.

Sempre, Canova è il punto di riferimento. Allo

scadere del secolo Venezia viene ‘invasa’ da gessi originali

e da calchi di sue opere. In particolare, bassorilievi

con le vicende degli ultimi istanti della vita di Socrate,

martire ‘laico’, dei poemi omerici, dell’Eneide, nei quali

si viene ad affermare il nuovo stile narrativo dell’età

neoclassica. E il giorno della cerimonia dell’“Ingresso”

del procuratore di San Marco Antonio Cappello il 5

settembre 1796, appena l’anno precedente la fine della

Serenissima, era dato ammirare quelle opere nell’appartamento

di Stato alle Procuratie Nuove: come un

parallelo moderno della Galleria Farsetti e, come quella,

“aperta agli amatori del Disegno”. Accanto ai bassorilievi,

i gessi dell’Amorino e, soprattutto, del gruppo

di Venere e Adone (fig. 7). Mai si erano viste creazioni

così originali, in cui la civiltà greca è evocata attraverso

forme di apollinea chiarezza: un altro mondo, e non

solo per l’ambiente lagunare. Pur da Roma, la civiltà

artistica veneziana continuava a imporsi all’Europa!

Varie creazioni artistiche vengono a contrapporsi

nel momento della caduta della Serenissima. Nei

mesi del Governo democratico – maggio-ottobre 1797

– e subito dopo, all’inizio della dominazione abitualmente

definita “austriaca”, meglio imperiale.

La propaganda antiaristocratica alla ricerca

del consenso popolare faceva eseguire da Francesco

Gallimberti una singolare serie di disegni, incisi da

Giovanni De Pian, al fine di rendere di pubblico dominio

il regime carcerario della defunta Serenissima, già

entrato nel mito negativo di Venezia, di cui le nostre

stampe sono l’incunabolo figurativo (cat. VII.30). Lo

scopo era illustrare le “Carceri sotterracquee della aristocratica

triumvirale, dette Pozzi, fatte demolire dalla

Municipalità provvisoria di Venezia il 25 marzo 1797”,

appena tredici giorni dopo le ‘dimissioni’ del governo

aristocratico: carceri che tante fantasie avevano alimentato,

specie dopo la rocambolesca fuga di Casanova

dai Piombi, sino a essere identificate con il dispotico

sistema di controllo dei “Tre Capi” del Consiglio dei

Dieci, condannato già dalla storiografia illuminista.

Per la prima volta, dopo tante raffigurazioni di

fantasia – prime, le Carceri di Piranesi – si potevano

vedere luoghi “veri” (poco importa che nel 1797 vi fossero

ospitati soltanto sette reclusi), estremamente angusti,

resi con effetti di orrido, come scene di un romanzo

gotico enfatizzate dalla tecnica dell’acquatinta.

Caduta della Repubblica Serenissima.

Conseguenza immediata: spoliazione capillare di capolavori,

trasferiti a Parigi, a partire dal Leone della Piazzetta

e dai Cavalli di San Marco, quindi dipinti a non finire

(parecchi mai restituiti, a partire dai soffitti di Palazzo

Ducale alle Nozze di Cana di San Giorgio Maggiore: il

Veronese che si deve andar ad ammirare al Louvre).

Giandomenico Tiepolo e Canova reagiscono

a quel traumatico evento con opere singolari e differenti.

Giandomenico risuscitando i fantasmi dell’antica

commedia italica nei Pulcinella affrescati nella sua casa

358 —LA FINE DEL SECOLO —

— CANOVA E IL GUSTO NEOCLASSICO — 359



FIG. 7

ANTONIO CANOVA

Venere e Adone.

Possagno, Museo Canova

del Monumento funerario di Francesco Pesaro per un

cenotafio che si doveva erigere nella basilica di San

Marco (cat. VII.31). Fine della Serenissima, si è detto.

Ecco qui, per la prima volta dopo tante rappresentazioni

glorificanti, la personificazione di Venezia stessa

afflitta, colta nel gesto di asciugarsi le lacrime presso

il sarcofago del figlio coraggioso, procuratore di San

Marco, fieramente antifrancese, rifugiatosi a Vienna e

quindi tornato quale rappresentante imperiale. E per

la fronte del sarcofago, cosa si sceglie di raffigurare?

Le genti venete che supplicano le Parche di non recidere

il filo della vita di Francesco Pesaro: soggetto che

non occorre commentare. Ma quanta libertà esprime!

Governati e governanti inscindibilmente connessi:

com’era, fra l’altro, nella tradizione della Serenissima.

Siamo alle origini del mito ottocentesco della

fine di Venezia, che troverà subito espressione nei versi

di Lord Byron: “di tredici secoli di ricchezza e di gloria,

non rimangono che ceneri e pianto”.

Ma non è ancor finita. Proprio nel momento

di passaggio al nuovo secolo giunge a Venezia il

marmo dell’Ebe, che va ad accasarsi presso Giuseppe

Vivante Albrizzi, ricco ebreo convertito che riuscì a

impadronirsene vincendo un’agguerrita concorrenza

(statua ora a Berlino, Neue Nationalgalerie). In tempi

poco lieti, si poteva ammirare un’immagine di serenità

e di grazia: altro capolavoro nel genere “delicato

e gentile”, giudicata “l’opera dell’eterna giovinezza” da

Johann Gottfried Seume quando la vide nel 1802 [4] .

Se n’era dato subito l’annuncio nelle “Notizie

del Mondo” del 13 gennaio 1800, pubblicando il testo

di una lettera di Antonio d’Este, direttore dello studio

canoviano a Roma, indirizzata a Giannantonio Selva:

Voi fra venti giorni vedrete la bella Ebe, e vedrete

se l’arte ha potuto fare di più nei tempi più felici

della Grecia. Il marmo è trasformato in varie bellezze,

in una fisionomia più che divina, in una

carne fresca, che appunto ricorda l’età di 14 anni,

in una mussolina, il di cui meccanismo non ha

esempio nell’antichità, in somma in un moto

generale, in un tutto, che in verità sorprende. [...]

godete con me, che sono stato stromento di salvare

un monumento per la nostra Patria.

di campagna a Zianigo: un no deciso e inappellabile al

verbo neoclassico, alle sue idealità; Canova dipingendo

nel “ritiro” di Possagno, “in angustiis”, l’enorme pala con

il Compianto di Cristo (quasi cinque metri di altezza:

fig. 8). Basti riportare l’iscrizione che campeggia in

basso: “In segno di attaccamento per la Patria / Antonio

Canova dipingeva / Possagno 1799”. Neppure questa si

può dire frutto riconoscibile del movimento artistico di

moda: le ’etichette’ non funzionano sempre.

L’episodio più drammatico nella storia dell’umanità

d’Occidente viene scelto dall’artista quale unica

possibilità per esprimere l’angoscia del momento.

Dispiace che quel dipinto non possa essere presente, per

ovvie ragioni, in mostra – gli affreschi di Giandomenico

si potrà andare a vederli a Ca’ Rezzonico –, ma lo dobbiamo

evocare qui, altrimenti non si può comprendere

cos’è avvenuto nel mondo delle arti veneziane e venete

allo scadere di un secolo che si è voluto aprire con il

soffitto di palazzo Mocenigo dipinto da Sebastiano Ricci

nel saggio Venezia ’700: Immaginazione / Osservazione.

Quanta ricchezza nella mente di Canova,

quanta imprevedibilità. Tragico e sublime si compenetrano,

sotto il segno dell’episodio che doveva essere la

fine di tutto. Lo accerta un cielo plumbeo nel quale

appare, come un fantasma, il Padreterno.

Quindi la schiera delle figure angeliche, che sembrano

trasposte dalla Deposizione di Cristo dipinta da

Giotto agli Scrovegni, altrettanto disperate. Su tutto,

s’impone il dolore cupo dei personaggi, mentre il cadavere

di Cristo sul cataletto riprende il Socrate morto di

uno dei bassorilievi modellati in gesso: il martire ’laico’

precede, in questo caso, la figura del Salvatore, in un

rovesciamento della trasposizione dal sacro al profano.

Canova sorprende, si è detto. Non è finita.

In contemporanea, sollecitato da un ex patrizio,

Giuseppe Priuli, plasma in cera nel 1799 il modellino

FIG. 8

ANTONIO CANOVA

Compianto di Cristo.

Possagno, Tempio

360 —LA FINE DEL SECOLO —

— CANOVA E IL GUSTO NEOCLASSICO — 361



CAT.VII.01

FRANCESCO GUARDI

Il Canal Grande con le chiese di Santa Lucia e Santa

Maria di Nazareth

Olio su tela, 48×78 cm

Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, inv.

174 (1934.6)

Bibliografia _ Morassi 1973, pp. 249, 419, cat. 585;

Rossi Bortolatto 1974, p. 123, cat. 547; Magrini, in

Francesco Guardi 1993, pp. 138-139, cat. 46; Museo

Thyssen-Bornemisza 2009, pp. 508-509; D’ Anza, in

Francesco Guardi 2012, p. 277, cat. 107, con bibliografia

precedente.

362 —LA FINE DEL SECOLO —

— CATALOGO DELLE OPERE — 363



CAT.VII.03

FRANCESCO GUARDI

Festa della Sensa in Piazza San Marco

Olio su tela, 61× 91 cm

Lisbona, Calouste Gulbenkian Museum, inv. n. 390

Bibliografia _ Morassi 1973, I, pp. 188, 361-362,

cat. 277, II, fig. 307; Rossi Bortolatto 1974, cat. 500;

Muraro 1993, pp. 28-31, 95-96, cat. 7; Succi 1993,

pp. 90-92, fig. 84; Beddington, in Venice: Canaletto

2010, pp. 134, 188, cat. 59.

CAT.VII.02

FRANCESCO GUARDI

Veduta del giardino di palazzo Surian

Olio su tela, 48×78 cm

Chicago, The Art Institute, Gift of Marion and Max

Ascoli Fund, inv. 1991.112

Bibliografia _ Morassi 1973, pp. 436-437, cat. 680,

fig. 635; Succi 1993, pp. 98-103; Lauber 2011, pp. 123-

124; D’Anza, in Francesco Guardi 2012, p. 281, cat. 114.

364 —LA FINE DEL SECOLO —



CAT.VII.04

FRANCESCO GUARDI

Regata sul Canal Grande

Olio su tela, 61×91 cm

Lisbona, Calouste Gulbenkian Museum, inv. n. 391

Bibliografia _ Morassi 1973, I, pp. 202, 366-367,

cat. 299, II, fig. 326; Rossi Bortolatto 1974, cat. 513;

Muraro 1993, pp. 36-39, 98-99, cat. 9; Succi 1993, p. 90,

fig. 85; Beddington, in Venice: Canaletto 2010, pp. 134,

188, cat. 60.

366 —LA FINE DEL SECOLO —

— CATALOGO DELLE OPERE — 367



CAT.VII.05

GIANDOMENICO TIEPOLO

Il ciarlatano

Olio su tela, 81×105 cm

Parigi, Musée du Louvre, Département des

Peintures, inv. RF 1938-99

Bibliografia _ Mariuz 1971, pp. 44, 50, 131-132,

fig. 84-85; Rosenberg, in Venise au dix-huitième siècle

1971, pp. 174-176, cat. 283; Pallucchini 1995, II,

pp. 562-565; Loire, in Tiepolo 2004, pp. 146-149,

cat. 95; Loire 2017, pp. 342-348, con bibliografia

precedente.

CAT.VII.06

GIANDOMENICO TIEPOLO

Il minuetto

Olio su tela, 81×105 cm

Parigi, Musée du Louvre, Département des

Peintures, inv. RF 1938-10

Bibliografia _ Mariuz 1971, pp. 44, 50, 131-132, fig.

84-85; Rosenberg, in Venise au dix-huitième siècle 1971,

pp. 174-176, cat. 282; Pallucchini 1995, II, pp. 562-565;

Loire, in Tiepolo 2004, pp. 146-149, cat. 96; Loire 2017,

pp. 342-348, con bibliografia precedente.

— CATALOGO DELLE OPERE — 369



CAT.VII.07

GIANDOMENICO TIEPOLO

Il burchiello

Olio su tela, 38×78,3 cm

Vienna, Kunsthistorisches Museum, Picture Gallery,

inv. GG 6424

Bibliografia _ Mariuz 1971, pp. 70, 150, fig. 190;

Knox 1980, p. 324; Mariuz, in The Glory 1994, p. 508,

cat. 236; Mariuz, Magrini, in Splendori Settecento 1995,

p. 386, cat. 100, con bibliografia precedente; Loisel, in

Éblouissante Venise 2018, p. 248, cat. 142.

370 —LA FINE DEL SECOLO —

— CATALOGO DELLE OPERE — 371



CAT.VII.08

GIANDOMENICO TIEPOLO

Pulcinella impara a camminare

Penna inchiostro bruno, acquerello bruno su gesso

nero, 293×413 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF121

Bibliografia _ Byam Shaw 1962 p. 92, fig. 85; Vetrocq,

in Domenico Tiepolo’s Pulchinello 1979, n. s 25; Gealt

1986, cat. 16; Giandomenico Tiepolo 1996, p. 244, cat. 11;

Gealt, in Tiepolo 2004, p. 197, cat. 128, con bibliografia

precedente.

CAT.VII.10

GIANDOMENICO TIEPOLO

Pulcinella e il granchio gigante

Penna e inchiostro bruno, acquerello bruno su gesso

nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, RBF123

Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s

Pulchinello 1979, n. s 34; Gealt 1986, cat. 27;

Giandomenico Tiepolo 1996, p. 244, cat. 23; Russell

1998, p. 172; Gealt, in Tiepolo 2004, p. 197, cat. 131,

con bibliografia precedente.

CAT.VII.09

GIANDOMENICO TIEPOLO

Il padre di Pulcinella nasce da un uovo di tacchino

Penna e inchiostro bruno e acquerello bruno su

gesso nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF120

Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s

Pulchinello 1979, n. s 1; Knox 1984, pp. 127, 144; Gealt

1986, cat. 2; Knox, in Giandomenico Tiepolo 1996, p.

244, cat. 1; Gealt, in Tiepolo 2004, pp. 191-192, cat. 125,

con bibliografia precedente.

CAT.VII.11

GIANDOMENICO TIEPOLO

Pulcinella rapito dall’aquila

Penna, inchiostro bruno e acquerello bruno su gesso

nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF127

Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s

Pulchinello 1979, n. s 65; Gealt 1986, cat. 58;

Giandomenico Tiepolo 1996, p. 245, cat. 47; Gealt,

in Tiepolo 2004, p. 202, cat. 138, con bibliografia

precedente.

372 —LA FINE DEL SECOLO —

— CATALOGO DELLE OPERE — 373



CAT.VII.12

GIANDOMENICO TIEPOLO

La partita a volano

Penna e inchiostro bruno, acquerello bruno su gesso

nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF122

Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s

Pulchinello 1979, n. s 13; Gealt 1986, cat. 17;

Giandomenico Tiepolo 1996, p. 245, cat. 29; Russell

1998, p. 172; Gealt, in Tiepolo 2004, pp. 199-201, cat.

132, con bibliografia precedente.

CAT.VII.14

GIANDOMENICO TIEPOLO

Una famiglia di Pulcinella a colazione

Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su

gesso nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF131

Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s

Pulchinello 1979, n. s 12; Knox 1984, pp. 127, 144; Gealt

1986, cat. 22; Giandomenico Tiepolo 1996, p. 245,

cat. 86; Russell 1998, p. 172; Gealt, in Tiepolo 2004,

pp. 209-210, cat. 144, con bibliografia precedente.

CAT.VII.13

GIANDOMENICO TIEPOLO

Pulcinella fa la polenta

Penna e inchiostro bruno, acquerello bruno chiaro su

gesso nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF124

Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s

Pulchinello 1979, n. s 10; Gealt 1986, cat. 20;

Giandomenico Tiepolo 1996, p. 245, cat. 30; Russell

1998, p. 172; Gealt, in Tiepolo 2004, p. 201, cat. 133,

con bibliografia precedente.

CAT.VII.15

GIANDOMENICO TIEPOLO

La bottega del barbiere

Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su

gesso nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF129

Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s

Pulchinello 1979, n. s 4; Gealt 1986, cat. 49;

Giandomenico Tiepolo 1996, p. 245, cat. 50; Russell

1998, p. 172; Gealt, in Tiepolo 2004, p. 202, cat. 139,

con bibliografia precedente.

374 —LA FINE DEL SECOLO —

— CATALOGO DELLE OPERE — 375



CAT.VII.16

GIANDOMENICO TIEPOLO

La bottega del falegname

Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su

gesso nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF130

Bibliografia _ Mariuz 1971, fig. 34; Vetrocq, in

Domenico Tiepolo’s Pulchinello 1979, n. s 51; Knox 1984,

p. 129; Giandomenico Tiepolo 1996, p. 246, cat. 56;

Russell 1998, p. 172.

CAT.VII.18

GIANDOMENICO TIEPOLO

Il giovane Pulcinella guarda i contadini al lavoro

Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su

gesso nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF125

Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s

Pulchinello 1979, n. s 30; Gealt 1986, cat. 8;

Giandomenico Tiepolo 1996, p. 246, cat. 56; Russell

1998, p. 172.

CAT.VII.17

GIANDOMENICO TIEPOLO

Famiglia di Pulcinella sull’Aia

Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su

gesso nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF126

Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s

Pulchinello 1979, n. s 7; Gealt 1986, cat. 6; Russell 1998,

p. 172.

CAT.VII.19

GIANDOMENICO TIEPOLO

Il mercato ortofrutticolo

Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su

gesso nero, 292×419 mm

Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley

Ford, inv. RBF128

Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s

Pulchinello 1979, n. s 47; Russell 1998, p. 172.

376 —LA FINE DEL SECOLO —

— CATALOGO DELLE OPERE — 377



CAT.VII.21

GIANDOMENICO TIEPOLO

Pulcinella prende parte al Trionfo di Flora

Penna e inchiostro marrone, coloritura marrone,

carboncino nero, 292×413 mm

New York, The Morgan Library & Museum, Gift of

Lore Heinemann, in memory of her husband, Dr.

Rudolf J. Heinemann, inv. 1997.29

Bibliografia _ Stampfle, Denison 1973, cat. 114.

CAT.VII.20

GIANDOMENICO TIEPOLO

Pulcinella cavalca un asino

Penna inchiostro bruno, coloritura marrone e ocra,

carboncino nero, 273×403 mm

New York, The Morgan Library & Museum, Gift

of Lore Heinemann, in memory of her husband,

Dr. Rudolf J. Heinemann, inv. 1997.30

Bibliografia _ Stampfle, Denison 1973, cat. 113.

378 —LA FINE DEL SECOLO —

— CATALOGO DELLE OPERE — 379



CAT.VII.22

GIANDOMENICO TIEPOLO

Dalla sarta

Penna e inchiostro marrone, coloritura marrone,

carboncino nero, 288×418 mm

New York, The Morgan Library & Museum,

Purchased as the gift of the Fellows, inv. 1967.22

Bibliografia _ Byam Shaw 1962 p. 88, fig. 68; Succi

1988, cat. 26; Giandomenico Tiepolo 2005, pp. 171, 176,

cat. 70.

CAT.VII.23

GIANDOMENICO TIEPOLO

La visita dall’avvocato

Penna e inchiostro marrone, con coloritura marrone,

carboncino nero, 287×419

New York, The Morgan Library & Museum,

Purchased as the gift of the Fellows, inv. 1967.23

Bibliografia _ Bean, Stampfle 1981, cat. 261.

CAT.VII.24

GIANDOMENICO TIEPOLO

La presentazione della fidanzata

Penna e inchiostro marrone, coloritura marrone e

grigia, carboncino nero, 287×406 mm

New York, The Morgan Library & Museum, Gift of

Lore Heinemann, in memory of her husband, Dr.

Rudolf J. Heinemann, inv. 1997.70

Bibliografia _ Pignatti 1965, p. 213, cat. 119; Stampfle,

Denison 1973, cat. 112; Mariuz, in The Glory 1994,

p. 506, cat. 227; Giandomenico Tiepolo 2005, p. 181,

cat. 75.

— CATALOGO DELLE OPERE — 381



CAT.VII.25

FRANCESCO GUARDI

Matita nera, penna inchiostro bruno, acquerelli vari,

250×455 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 1202

Bibliografia _ Morassi 1975, p. 134, cat. 116; Pignatti,

in Disegni antichi 1983, pp. 171-172, cat. 658; Bettagno,

in Francesco Guardi 1993, p. 86, cat. 22; Dorigato,

in Splendori Settecento 1995, p. 460, cat. 184, con

bibliografia precedente; Craievich, in Francesco Guardi

2012, pp. 226-227, cat. 94.

CAT.VII.26

FRANCESCO GUARDI

Banchetto per le nozze del duca di Polignac

Matita nera, penna inchiostro bruno, acquerelli vari,

275×419 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 29

Bibliografia _ Morassi 1975, p. 134, cat. 118; Pignatti,

in Disegni antichi 1983, p. 174, cat. 659; Bettagno, in

Francesco Guardi 1993, p. 88, cat. 23; Dorigato, in

Splendori Settecento 1995, pp. 460-461, cat. 185, con

bibliografia precedente; Perissa Torrini, in Il Gran

Teatro 2003, p. 418, cat. II.57; Craievich, in Francesco

Guardi 2012, p. 227, cat. 95.

CAT.VII.27

FRANCESCO GUARDI

Il teatro La Fenice

Penna inchiostro bruno, pennello inchiostro seppia,

195×254 mm

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle

stampe, inv. Cl. III, n. 724

Bibliografia _ Morassi 1975, p. 150, cat. 404; Pignatti,

in Disegni antichi 1983, p. 177, cat. 662; D’Anza, in

Francesco Guardi 2012, p. 285, cat. 121, con bibliografia

precedente.

382 —LA FINE DEL SECOLO —

— CATALOGO DELLE OPERE — 383



CAT.VII.28

ANTONIO CANOVA

Ecuba

Gesso, 120×266 cm

Possagno, Fondazione Canova

Bibliografia _ Bassi 1957, p. 85, cat. 56; Pavanello

1976, p. 97, cat. 61; Pavanello, in Venezia 1978, p. 69,

cat. 84.

CAT.VII.29

ANTONIO CANOVA

La morte di Priamo

Gesso, 140×245 cm

Possagno, Fondazione Canova

Bibliografia _ Bassi 1957, p. 85, cat. 38; Pavanello

1976, p. 96, cat. 56; Pavanello, in Venezia 1978, p. 69,

cat. 84; Pavanello 2017, pp. 69-77.

CAT.VII.30

FRANCESCO GALLIMBERTI, GIOVANNI DE PIAN

I pozzi e i piombi di Venezia

Carceri sotteracquee della aristocrazia triumvirale,

dette Pozzi, fatte demolire dalla Municipalità

provvisoria di Venezia li 25 maggio 1797

Iscrizioni: F. Galimberti delineò sopra luogo / Gio. de

Pian incise / Scala di Piedi 3 Veneti / N.° 1 / si vende

dal Cit.° Gio. Valerio Pasquali Librarjo rio terà

S. Marcuola

Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e

delle stampe, inv. Serie St. Gherro 249-256

Bibliografia _ Mariuz 1991, pp. 227-230; Mariuz

2000, pp. 215-243; Pavanello 2001, p. 180, figg. 17-18.

384 —LA FINE DEL SECOLO —



CAT.VII.31

ANTONIO CANOVA

Monumento funerario a Francesco Pesaro

Cera e legno, 32×51×23 cm

Venezia, Museo Correr, Cl. XX sn.

Bibliografia _ Pavanello, in Venezia 1978, p. 88, cat.

116, con bibliografia precedente; Miggiani 1990, pp. 176-

185; Pavanello, in Antonio Canova 1992, pp. 173-174.

— CATALOGO DELLE OPERE — 387



BIBLIOGRAFIA

DELLE OPERE

ESPOSTE

A

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Aikema 1998

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Albrizzi 1760

G.B. Albrizzi, Memorie intorno

alla vita di Giambattista

Piazzetta, in Studj di pittura

già disegnati da Giambattista

Piazzetta ed ora con l’intaglio di

Marco Pitteri pubblicati a spese

di Giambattista Albrizzi, Venezia

1760

Alfonzetti 2017

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203-220

Algarotti 1763

F. Algarotti, Saggio sopra la

pittura, Livorno 1763

Algarotti 1791-1794

F. Algarotti, Opere, 17 voll.,

Venezia 1791-1794

Alle glorie 1705

Alle glorie Immortali del Signor

Giuseppe Maria Mazza scultor

Celeberrimo Bolognese per il

Prodigioso Presepio di bronzo

alto piedi cinque, e largo piedi

otto, e mezzo gettato nell’Arsenal

di Venezia, e collocato nella

chiesa de R.R.P.P. Camaldolesi

dell’Eremo nell’Isola di S.

Clemente di Venezia l’anno

MDCCV, Padova 1705

Alverà Bortolotto 1981

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Androsov 1999

S.O. Androsov, Pietro il Grande

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Venezia 1999

Androsov 2003

S.O. Androsov, Russkie zakazčiki

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italiani), San Pietroburgo 2003

Androsov 2004

S.O. Androsov, Pietro il Grande

e la scultura italiana, San

Pietroburgo 2004

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Aneddoti, “Giornale

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Angelieri 1745

A. Angelieri, Saggio istorico

intorno alla condizione di Este,

altra volta stampato col titolo di

Brevi Notizie ed ora in questa

seconda edizione migliorato ed

accresciuto in molte parti […],

Venezia 1745

Ansaldi 2016

M. Ansaldi, Figure singole e

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mostra (Venezia, Ca’ Rezzonico,

Museo del Settecento veneziano)

a cura di M. Ansaldi, A.

Craievich, Crocetta del Montello

2016, pp. 299-301

Ansaldi, Craievich 2016

M. Ansaldi, A. Craievich,

Un’àncora rosso ferro, in

Geminiano Cozzi e le sue

porcellane, catalogo della mostra

(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo

del Settecento veneziano) a cura

di M. Ansaldi, A. Craievich,

Crocetta del Montello 2016,

pp. 11-17

“Antologia Romana” 1778

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Antonio Balestra 2016

Antonio Balestra nel segno

della grazia, catalogo della

mostra (Verona, Museo di

Castelvecchio) a cura di A.

Tomezzoli, Verona 2016

Antonio Canova 1992

Antonio Canova, catalogo della

mostra (Venezia, Museo Correr;

Possagno, Gipsoteca) a cura

di G. Pavanello, G. Romanelli,

Venezia 1992

Antonio Pellegrini 1998

Antonio Pellegrini. Il maestro

Veneto del Rococò alle corti

d’Europa, catalogo della mostra

(Padova, Palazzo della Ragione)

a cura di A. Bettagno, Venezia

1998

Argenterie 1938

Argenterie settecentesche italiane

sacre e profane, catalogo della

mostra (Venezia, Galleria

Napoleonica) a cura di G.

Lorenzetti, Venezia 1938

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Arte al caffè. Oro bianco argenti

ed esotiche bevande, catalogo

della mostra (Bolzano, Palazzo

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Munarini, P. Pazzi, Bolzano

2002

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Artemieva 1997

I. Artemieva, I soffitti dei

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von Kunstwerken aus seiner

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von der Schulenburg-Wolfsburg,

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B

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Scritti in onore di Loredana

Olivato, a cura di P. Artoni et

alii, Treviso 2013, pp. 130-135

Bacchi 2018

A. Bacchi, Antonio Gai, in A

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bronze, terracotta, ivory and

wood (15th to 20th centuries), a

cura di A. Bacchi, London 2018,

pp. 88-95

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W.L. Barcham, Il “Trionfo di

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W. Barcham, Tiepolo’s Pictorial

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R. Barovier Mentasti, Il vetro

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Barovier Mentasti 1995

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R. Barovier Mentasti, C. Tonini,

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Paris 2013

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Barzoni 1795b

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Venezia 1795

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Bellotto e Canaletto 2016

Bellotto e Canaletto. Lo stupore

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Balsamo 2016

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Benuzzi 2013

F. Benuzzi, Uno scultore

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Gottardi, “Ateneo Veneto”, ser.

III, 200, 2013, pp. 343-353

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Bernardo Bellotto 1990

Bernardo Bellotto. Verona e le

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Marinelli, Milano 1990

Bernardo Bellotto 2001

Bernardo Bellotto and the

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Canaletto 1980

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Canaletto 1982

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Canaletto 1989

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Canaletto 1993

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Canaletto 2001

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Fondazione Giorgio Cini)

a cura di A. Bettagno, B.A.

Kowalczyk, Milano 2001

Canaletto 2005

Canaletto. Il trionfo della

veduta, catalogo della mostra

(Roma, Palazzo Giustiniani)

a cura di B.A. Kowalczyk,

Cinisello Balsamo 2005

Canaletto 2006

Canaletto in England. A

Venetian Artist Abroad,

1746-1755, catalogo della

mostra (New Haven, Yale

Center for British Art;

London, Dulwich Picture

Gallery) a cura di C.

Beddington, New Haven

2006

Canaletto 2008

Canaletto. Venezia e i suoi

splendori, catalogo della

mostra (Treviso, Casa dei

Carraresi) a cura di G.

Pavanello, A. Craievich,

Venezia 2008

Canaletto 2015

Canaletto. Rome, Londres,

Venise. Le triomphe de la

lumière, catalogo della

mostra (Aix-en-Provence,

Caumont centre d’art) a cura

di B.A. Kowalczyk, Issy-les-

Moulineaux 2015

Canaletto 2017

R. Razzall, L. Whitaker,

Canaletto & the Art of Venice,

catalogo della mostra (Londra,

The Queen’s Gallery), London

2017

Canaletto: Bernardo Bellotto

2014

Canaletto: Bernardo Bellotto

malt Europa, catalogo

della mostra (Monaco, Alte

Pinakothek) a cura di A.

Schumacher, München 2014

Canaletto-Brustolon 2006

Canaletto-Brustolon: le feste ducali,

catalogo della mostra (Venezia, Ca’

Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano) a cura di F. Pedrocco,

C. Tonini, Venezia 2006

Canaletto & Visentini 1986

Canaletto & Visentini, Venezia

& Londra, catalogo della mostra

(Gorizia, Castello; Venezia,

Museo d’Arte Moderna di

Ca’ Pesaro) a cura di D. Succi,

Cittadella 1986

Canaletto Guardi 2012

Canaletto Guardi: les deux maître

de Venise, catalogo della mostra

(Parigi, Musée Jacquemart-André)

a cura di B.A. Kowalczyk, N.

Sainte Fare Garnot, Paris 2012

Capolavori ritrovati 2016

Capolavori ritrovati della

collezione di Vittorio Cini,

catalogo della mostra (Venezia,

Galleria di Palazzo Cini) a cura di

L.M. Barbero, Venezia 2016

Casanova 1989

G. Casanova, Storia della mia

vita (titolo originale dell’edizione

critica Histoire de ma vie,

Wiesbaden-Paris 1960-62), a

cura di P. Chiara, F. Roncoroni, 3

voll., II edizione, Milano 1989

Cassidy-Geiger 2007a

M. Cassidy-Geiger, Porcelain and

Prestige: Princely Gifts and “White

Gold” from Meissen, in Fragile

Diplomacy. Meissen Porcelain

for European Courts ca. 1710-63,

catalogo della mostra (New York,

The Bard Graduate Center for

Studies in the Decorative Arts,

Design and Culture) a cura di

M. Cassidy-Geiger, New Haven

2007, pp. 3-23

Cassidy-Geiger 2007b

M. Cassidy-Geiger, Princeps

and Porcelain on the Grand Tour

of Italy, in Fragile diplomacy.

Meissen Porcelain for European

Courts ca. 1710-63, catalogo della

mostra (New York, The Bard

Graduate Center for Studies in

the Decorative Arts, Design and

Culture) a cura di M. Cassidy-

Geiger, New Haven 2007, pp.

209-255

Cassidy-Geiger 2018

M. Cassidy-Geiger, Die Grande

Kur 1738-1740 / The Grand

Cure 1738-1740, brochure della

mostra (Dresda, Staatliche

Kunstsammlungen Dresden),

Dresden 2018

388 — CANALETTO & VENEZIA —

— BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE ESPOSTE — 389



Catalogo 1776

[G. Selva], Catalogo dei Quadri

dei Disegni e dei Libri che

trattano dell’Arte del Disegno

della Galleria del fu Sig. Conte

Algarotti in Venezia, Venezia

1776

Catalogo dei libri 1791

Catalogo dei libri latini e

italiani che trovansi vendibili

nel negozio di Antonio Zatta

e figli, libraj e stampatori di

Venezia, Venezia 1791

Catalogue 1871

Catalogue of the Pictures at

Audley End, the Property of

Lord Braybrooke, 4 th August,

1871, 1871

Cavalli 2012

C. Cavalli, Argenti, in

Palazzo Maruzzi Ambasz,

Ponzano 2012,

pp. 178-180

Ceramiche 1995

Ceramiche del ‘600 e ‘700

dei Musei Civici di Padova,

catalogo della mostra

(Padova, Palazzo della

Ragione) a cura di D. Banzato,

M. Munarini, Venezia 1995

Ceramiche 2000

Ceramiche della collezione

Gianetti, II, Porcellane italiane

europee e orientali, Saronno

2000

Cesare 2001

C. Cesare, Gian Domenico

Bertoli (1676-1763) e la

glittica (con appendice

documentaria dal carteggio

con A. M. Zanetti), “Bollettino

del Gruppo Archeologico

Aquileiese”, 11, 2001,

pp. 64-77

Charleston 1959

R.J. Charleston, Souvenirs

of the Grand Tour: Horace

Walpole’s Venetian glass plates,

“Journal of glass studies”, 1,

1959, pp. 62-82

Chefs-d’œuvre 2004

Chefs-d’œuvre du Musée des

Beaux-Arts d’Angers

(du XIV e au XXIe siècle), a cura

di P. Le Nouëne, Paris 2004

Cicognara, Diedo, Selva 1840

L. Cicognara, A. Diedo,

G. Selva, Le fabbriche e i

monumenti più cospicui di

Venezia, Venezia 1840

Cirillo, Godi 1088

G. Cirillo, G. Godi, L’arte in villa

Pallavicino a Busseto, “Parma

nell’Arte”, fsc. unico, 1988, pp.

5-34

Clemente 2016

M. Clemente, Tommaso Rues

1636-1703: a German Sculptor

in Baroque Venice, Firenze

2016

Cochin 1769

C.-N. Cochin, Voyage d’Italie

ou Recueil de notes sur les

ouvrages de peinture et de

sculpture, qu’on voit dan les

principales villes d’Italie, Paris

1769

Cogo 1996

B. Cogo, Antonio Corradini

scultore veneziano 1688-1742,

Este 1996

Coleti 1758

N. Coleti, Monumenta ecclesiae

venetae S. Moysis, Venezia 1758

Colle 2003

E. Colle, Il mobile rococò in

Italia: arredi e decorazioni

d’interni dal 1738 al 1775,

Milano 2003

Colle 2007

E. Colle, Le arti decorative

del Settecento italiano e gli

studi di Maria Accascina e

Giuseppe Morazzoni, in Storia,

critica e tute la dell’arte nel

Novecento. Un’esperienza

siciliana a confronto con il

dibattito nazionale, Atti del

Convegno Internazionale di

Studi (Palermo-Erice, 14-17

giugno 2006) a cura di M.C. Di

Natale, Caltanissetta 2007,

pp. 155-160

Colletta 1988

T. Colletta, Vincenzo Coronelli,

cosmografo della Repubblica

veneta e gli “Atlanti di città”

tra il XVII e il XVIII secolo, in

Libro e incisione a Venezia e nel

Veneto nei secoli XVII e XVIII,

Vicenza 1988, pp. 1-32

Commedia dell’Arte 2001

Commedia dell’Arte: Fest

der Komödianten, catalogo

della mostra (Berlino,

Charlottenburg) a cura di R.

Jansen, Stuttgart 2001

Compendio delle vite 1762

Compendio delle vite de’ pittori

veneziani istorici più rinomati

del presente con suoi ritratti

tratti dal naturale, Venezia

1762

Componimenti 1955

Componimenti poetici per

le felicissime Nozze di Sue

Eccellenze il Signor Giovanni

Grimani e la Signora Catterina

Contarini, Venezia 1750, in

Tutte le opere di Carlo Goldoni,

XIII, a cura di G. Ortolani,

Milano 1955, pp. 187-188

Concina 1988

E. Concina, Il Canal Grande

nelle vedute del “Prospectus

Magni Canalis Venetiarum”

disegnate e incise da Antonio

Visentini dai dipinti di

Canaletto, Milano 1988

Constable 1929

W.G. Constable, Canaletto at

the Magnasco Society, “The

Burlington Magazine”, LV,

1929, pp. 46-50

Constable 1962

W.G. Constable, Canaletto.

Giovanni Antonio Canal 1697-

1768, 2 voll., London 1962

Constable 1976

W.G. Constable, Canaletto, II

edizione rivista da J.G. Links,

Oxford 1976

Constable 1989

W.G. Constable, Canaletto, II

edizione rivista da J.G. Links,

Oxford 1989

Conticelli 1998

V. Conticelli, Ca’ Dolfin a

San Pantalon. Precisazioni

sulla committenza e sul

programma iconografico

della ‘Magnifica Sala’, in

Giambattista Tiepolo

nel terzo centenario

della nascita, Atti del

Convegno Internazionale

di Studi (Venezia, Vicenza,

Udine, Parigi, 29 ottobre-

4 novembre 1996) a cura

di L. Puppi, I, Padova 1998,

pp. 231-237

Corboz 1985

A. Corboz, Canaletto. Una

Venezia immaginaria, 2 voll.,

Milano 1985

Coronelli [1710]

V. Coronelli, Proposizioni

diverse de’ principali

architetti per il progetto di

Sant’Eustachio,

Venezia [1710]

Craievich 2002

A. Craievich, Pittura fra arte

liberale e professione: disegni,

progetti, apparati, in

Officina veneziana. Maestri

e botteghe nella Venezia del

Settecento, catalogo della

mostra (Crema, Centro

Culturale Sant’Agostino)

a cura di F. Magani,

F. Pedrocco, Cremona 2002,

pp. 35-52

Craievich 2003

A. Craievich, Antonio

Pellegrini nella chiesa

veneziana delle Eremite,

“Arte Veneta”, 60, 2003,

pp. 205- 210

Craievich 2003a

A. Craievich, “Avendo l’arte

sua per fine principalissimo il

diletto”: note su alcuni disegni

di Francesco Algarotti, “Arte

Veneta”, 60, 2003, pp. 168-185

Craievich 2005

A. Craievich, Antonio Molinari,

Soncino 2005

Craievich 2014-2015

A. Craievich, Luca Carlevarijs

per il Gran Teatro di Venezia di

Domenico Lovisa, “Bollettino

dei Musei Civici Veneziani”,

ser. III, 9-10, 2014-2015, pp.

86-88

Crosera 2000-2001

C. Crosera, Contribuito alla

storia del libro illustrato del

Settecento: i Numismata

virorum illustrium ex

Barbadica gente di Robert

van Audenaerd per il cardinal

Giovan Francesco Barbarigo,

tesi di specializzazione,

Università degli Studi di

Firenze, a.a. 2000-2001

Crosera 2008-2009

C. Crosera, Passione

numismatica: editoria, arti e

collezionismo a Venezia nel Sei

e Settecento, tesi di dottorato,

Università degli Studi di

Trieste, a.a. 2008-2009

Crosera 2018

C. Crosera, Il volume Delle

antiche statue greche e romane,

in La vita come opera d’arte.

Anton Maria Zanetti e le sue

collezioni, catalogo della mostra

(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo

del Settecento veneziano) a

cura di A. Craievich, Crocetta

del Montello 2018, pp. 263-275

Crosilla 2019

G. Crosilla, Federico Bencovich,

Soncino 2019 (in corso di

stampa)

D

Da Canal 1810

V. Da Canal, Della maniera del

dipingere moderno. Memoria di

Vincenzo da Canal P.V. ora per la

prima volta pubblicata [1735], a

cura di G. Moschini, “Mercurio

filosofico e letterario e poetico”,

marzo 1810

Da Carlevarijs 1983

Da Carlevarijs ai Tiepolo:

incisori veneti e friulani del

Settecento, catalogo della

mostra (Gorizia, Musei

provinciali, Palazzo Attems;

Venezia, Museo Correr) a cura

di D. Succi, Venezia 1983

d’Agliano 2010

A. d’Agliano, The Cozzi porcelain

factory in Venice, in Fascination

of fragility. Masterpieces of

European Porcelain, catalogo

della mostra (Berlino, Museum

Ephraim-Palais) a cura di Th.

Witting, U. Pietsch, Leipzig

2010, pp. 278-284

Dal Carlo 1988

E. Dal Carlo, La porcellana

veneziana vero “antidoto contro

la decadenza”: Vezzi, Hewelcke,

Cozzi a Ca’ Rezzonico, “Ceramica

Antica”, VIII, 1988, pp. 18-33

Dal Carlo 2012

E. Dal Carlo, Doni Diplomatici

di Federico Cristiano di Sassonia

ai Nobili Veneziani, “Studi

Veneziani”, N.S., LXVI, 2012,

pp. 377-393

Dal Carlo 2013

E. Dal Carlo, Fabbricatori di

porcellane nello Stato veneto. I

coniugi Hewelcke, in Porcellane

italiane dalla collezione Lokar

/ Italian Porcelain in the Lokar

collection, a cura di A. d’Agliano,

Cinisello Balsamo 2013, pp. 56-63

Daniels 1976

J. Daniels, Sebastiano Ricci,

Hove 1976

D’Anza 2018

D. D’Anza, I Longhi di Giovanni

Grimani, in Venezia e San

Pietroburgo. Artisti, principi e

mercanti, catalogo della mostra

(Mestre, Centro Culturale

Candiani) a cura di I. Artemieva, A.

Craievich, Venezia 2018, pp. 29-35

Debomy 2013

P.L. Debomy, Tobacco leaves and

Pseudo, Lavaur 2013

de Brosses 1973

C. de Brosses, Viaggio in Italia.

Lettere familiari, Roma-Bari 1973

Deckers 2010

R. Deckers, Die Testa velata in

der Barockplastik: zur Bedeutung

von Schleier und Verhüllung

zwichen Trauer, Allegorie und

Sinnlichkeit, Münich 2010

De gouden 1991

De gouden schemer van

Venetië: een portret van de

Venetiaanse adel in de achttiende

eeuw, catalogo della mostra

(Amsterdam, Historisch

Museum) a cura di D. Meijers,

‘s-Gravenhage 1991

De Grassi 1996

M. De Grassi, Libri illustrati del

Settecento Veneziano, catalogo

della mostra (Cormons, Palazzo

Locatelli), Gorizia 1996

Del Negro 1993

P. Del Negro, “Amato da tutta la

Veneta Nobiltà”. Pietro Longhi e

il patriziato veneziano, in Pietro

Longhi, catalogo della mostra

(Venezia, Museo Correr) a cura

di A. Mariuz, G. Pavanello, G.

Romanelli, Milano 1993, pp.

225-241

Del Negro 2000

P. Del Negro, L’Accademia

di Belle Arti di Venezia dalle

origini al 1806, in Antonio

Canova e il suo ambiente

artistico fra Venezia, Roma e

Parigi, a cura di G. Pavanello,

Venezia 2000, pp. 73-79

Del Negro 2005

P. Del Negro, La crisi del

collegio degli scultori veneziani

del secondo Settecento, in

Antonio Canova. La cultura

figurativa e letteraria dei

grandi centri italiani, 1,

Venezia e Roma, Atti del

Convegno Nazionale (Bassano

del Grappa, 25-28 settembre

2001), a cura di F. Mazzocca,

G. Venturi, Bassano del

Grappa 2005, pp. 7-23

Del Negro 2015

P. Del Negro, L’Accademia

di belle arti di Venezia dalle

origini al 1806, in L’Accademia

di belle arti di Venezia. Il

Settecento, a cura di G.

Pavanello, I, Crocetta del

Montello 2015, pp. 73-100

Delorenzi 2009-2010

P. Delorenzi, Alessandro

Longhi, pittore e incisore del

Settecento veneziano, tesi di

dottorato, Università Ca’

Foscari di Venezia, a.a. 2009-

2010, tutor S. Marinelli

Delorenzi 2016

P. Delorenzi, Una divinità nella

bottega dello scrittore. Cronache

d’arte tra Sei e Settecento dalla

“Pallade Veneta”, “Saggi e

memorie di storia dell’arte”, 40,

2016, pp. 47-77

Delorenzi, Pizzati 2016-2017

P. Delorenzi, A. Pizzati,

Adamo, Eva ed il Guerriero.

Vicende storico-artistiche,

critiche e conservative delle

statue di Antonio Rizzo,

“Bollettino dei Musei Civici

Veneziani”, ser. III, 11-12,

2016-2017, pp. 74-110

De Lotto 2010

M.T. De Lotto, Novità su

Giovanni Marchiori e sulla Saffo

per Francesco Algarotti, “Arte

Veneta”, 67, 2010, pp. 172-182

De Vincenti 1996

M. De Vincenti, Antonio Tarsia

(1622-1739), “Venezia Arti”, 10,

1996, pp. 49-56

De Vincenti 1999

M. De Vincenti, Nuovi

contributi per il catalogo di

Giovanni Maria Morlaiter,

“Saggi e memorie di storia

dell’arte”, 23, 1999, pp. 31-82

De Vicenti 2002

M. De Vincenti, “Piacere ai

dotti e ai migliori”. Scultori

classicisti del primo ‘700, in La

scultura veneta del Seicento e del

Settecento. Nuovi studi, Atti della

Giornata di Studio (Venezia,

Istituto Veneto di Scienze,

Lettere e Arti, 30 novembre

2001) a cura di G. Pavanello,

Venezia 2002, pp. 221-281

De Vincenti 2003-2004

M. De Vincenti, “Compagni

nel studio”: Gaetano Susali e

Francesco Cadorin, scultori

veneziani, “Venezia Arti”, 17-18,

2003-2004, pp. 79-88

De Vincenti 2010

M. De Vincenti, Giovanni

Maria Morlaiter “alter ego” di

Sebastiano Ricci in scultura,

in Sebastiano Ricci. Il trionfo

dell’invenzione nel Settecento

veneziano, catalogo della mostra

(Venezia, Fondazione Cini) a

cura di G. Pavanello, Venezia

2010, pp. 136-146

De Vincenti 2011a

M. De Vincenti, Catalogo del

“fondo di bottega” di Giovanni

Maria Morlaiter, “Bollettino dei

Musei Civici Veneziani”, ser. III,

6, 2011, pp. 12-77

De Vincenti 2011b

M. De Vincenti, Il “prodiggioso”

mausoleo dei dogi Valier ai Santi

Giovanni e Paolo, “Arte Veneta”,

68, 2011, pp. 143-163

De Vincenti 2011c

M. De Vincenti, Storia del

“fondo di bottega” di Giovanni

Maria Morlaiter nel Museo del

Settecento Veneziano di Ca’

Rezzonico, “Bollettino dei Musei

Civici Veneziani”, ser. III, 6,

2011, pp. 6-12

De Vincenti 2012

M. De Vincenti, Storie della vita

di San Domenico, in La Basilica

dei Santi Giovanni e Paolo.

Pantheon della Serenissima, a

cura di G. Pavanello, Venezia

2012, pp. 371-376

De Vincenti 2015

M. De Vincenti, Antonio

Bonazza e l’ingresso della

“scultura di costume” nel giardino

della villa veneta, in Antonio

Bonazza e la scultura veneta del

Settecento, Atti della Giornata

di Studi (Padova, Museo

Diocesano, 25 ottobre 2015)

a cura di C. Cavalli, A. Nante,

Verona 2015, pp. 99-134

De Vincenti 2017

M. De Vincenti, L’Adorazione

dei Magi di Giovanni Bonazza. I

rilievi della cappella del Rosario a

Venezia, Milano 2017

De Vincenti, Guerriero 2008

M. De Vincenti, S. Guerriero, Per

un Atlante della Statuaria Veneta

da Giardino, IV, “Arte Veneta”,

65, 2008, pp. 278-290

De Vincenti, Guerriero 2009

M. De Vincenti, S. Guerriero,

Intagliatori e scultura lignea

nel Settecento a Venezia, in Con

il legno e con l’oro. La Venezia

artigiana degli intagliatori,

battiloro e doratori, a cura di

G. Caniato, Verona 2009, pp.

120-159

De Vito Battaglia 1931

S. De Vito Battaglia, Le opere

di G.B. Tiepolo nella chiesa

dell’Ospedaletto a Venezia,

“Rivista dell’Istituto di

Archeologia e Storia dell’arte”, 3,

1931, pp. 189-206

Dezallier d’Argenville 1762

A.J. Dezallier d’Argenville,

Abregé de la vie des plus fameux

peintres, Paris 1762

Disegni 1963

Disegni, incisioni e bozzetti

del Carlevarjis, catalogo della

mostra (Udine, Loggia del

Lionello; Roma, Gabinetto

Nazionale delle Stampe) a cura

di A. Rizzi, Udine 1963

Disegni 1985

Disegni dalle collezioni del

Museo Correr XV-XIX secolo,

catalogo della mostra (Venezia,

Fondazione Giorgio Cini) a cura

di G. Romanelli, T. Pignatti,

Venezia 1985

Disegni antichi 1980

Disegni antichi del Museo Correr

di Venezia, I (Aliense-Crosato), a

cura di T. Pignatti,

Venezia 1980

Disegni antichi 1981

Disegni antichi del Museo Correr

di Venezia, II (Dall’Oglio-

Fontebasso), a cura di T.

Pignatti, Venezia 1981

Disegni antichi 1983

Disegni antichi del Museo Correr

di Venezia, III (Galimberti-

Guardi), a cura di T. Pignatti,

Venezia 1983

Disegni antichi 1987

Disegni antichi del Museo Correr

di Venezia, IV (Guercino-

Longhi), a cura di T. Pignatti,

Venezia 1987

Disegni antichi 1996

Disegni antichi del Museo Correr

di Venezia, V (Loth-Rubens), a

cura di T. Pignatti,

Venezia 1996

Disegni veneti 1981

Disegni veneti della collezione

Lugt, catalogo della mostra

(Venezia, Fondazione Giorgio

Cini) a cura di J. Byam Shaw,

Venezia 1981

Disegni veneti 1988

Disegni veneti dell’Ecole des

Beaux-Arts di Parigi, catalogo

della mostra (Venezia,

Fondazione Giorgio Cini) a cura

di A. Bettagno, Vicenza 1988

Dizionario 1779

Dizionario del diritto comune e

veneto, V, Venezia 1779

Domenico Tiepolo’s Pulchinello

1979

Domenico Tiepolo’s Pulchinello

drawings, catalogo della mostra

(Bloomington, Art Museum;

Stanford, Museum of Art) a cura

di A.M. Gealt, Bloomington

1979

Drawings 1985

Drawings from Venice.

Masterworks of Museo Correr,

Venice, catalogo della mostra

(New York, Drawing Center) a

cura di T. Pignatti, G. Romanelli,

London 1985

Dreyer 1985

P. Dreyer, Vedute.

Architektonisches Capriccio

und Landschaft in der

Venezianischen Graphik des

18. Jahrhunderts, catalogo

della mostra (Berlino,

Kupferstichkabinett), Berlin

1985

E

Éblouissante Venise 2018

Éblouissante Venise, les Arts et

l’Europe au XVIII e siècle, catalogo

della mostra (Paris, Grand Palais,

Galeries nationales) a cura di C.

Loisel, Paris 2018

Elbflorenz 1997

Elbflorenz: Italienische Präsenz in

Dresden 16.-19. Jahrhundert, Atti

del Convegno (Dresda, 30-31

maggio 1997) a cura di B. Marx,

Dresden 2000

Europäisches Rokoko 1958

Europäisches Rokoko. Kunst

und Kultur des 18. Jahrhunderts,

catalogo della mostra (Monaco

di Baviera, Residenz), München

1958

F

Fanti e denari 1989

Fanti e denari. Sei secoli di giochi

d’azzardo a Venezia, catalogo

della mostra (Venezia, Casinò

Municipale) a cura di A. Fiorin,

Venezia 1989

Fapanni 1838

F.S. Fapanni, Intorno tredici

quadri di costume veneziano

dipinti da Pietro Longhi, “Il

Vaglio”, 38, 22 settembre, 1838,

pp. 306-308

Farinati 1991

V. Farinati, Architettura e

committenza nel primo Settecento

veneziano: l’intervento di Andrea

Tirali in palazzo Priuli Manfrin a

Cannaregio (1724-1731), “Annali di

architettura”, 3, 1991, pp. 113-131

Farinati 1992

V. Farinati, Interni e architettura

nel primo Settecento veneziano:

palazzo Priuli Manfrin a

Cannaregio, “Venezia Arti”, 6,

1992, pp. 53-66

Farinati 2011

V. Farinati, La scuola di

Andrea Musalo, Andrea Tirali

e l’ampliamento settecentesco di

palazzo Priuli a Cannaregio, in

Da Longhena a Selva: un’idea

di Venezia a dieci anni dalla

scomparsa di Elena Bassi, a cura

di M. Frank, Venezia 2011, pp.

169-186

Favaro 1975

E. Favaro, L’arte dei pittori in

Venezia e i suoi statuti, Firenze

1975

Favilla, Rugolo 2004-2005

M. Favilla, R. Rugolo, Frammenti

dalla Venezia barocca, “Atti

dell’Istituto Veneto di Scienze,

Lettere ed Arti”, CLXIII, 2004-

2005, pp. 47-138

Favilla, Rugolo 2008

M. Favilla, R. Rugolo,

Un’architettura di “scientifica

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Giambattista Tiepolo 1988

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Giambattista Tiepolo 2012

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A. Craievich, F. Pedrocco,

Passariano 2012

Giandomenico Tiepolo 1996

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Giandomenico Tiepolo 2005

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Giovanni Volpato 1988

Giovanni Volpato 1735-1803,

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Museo Civico di Bassano del

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Stampe) a cura di G. Marini,

Bassano del Grappa 1988

Giulia Lama 2018

Giulia Lama 1681-1747, nudi.

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(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo

del Settecento veneziano) a cura

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Gli affreschi nelle ville venete. Dal

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Gli affreschi 2010

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Pavanello, Venezia 2010

Gli incisori veneti 1941

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González-Palacios 1986

A. González-Palacios, Il Tempio

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L

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L’Accademia 2015

L’Accademia di Belle Arti di Venezia.

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La porcellana di Venezia 1998

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L’arte di presentarsi 1985

L’arte di presentarsi. Il biglietto

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La tragedia 1827

La tragedia di Antonio Foscarini

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esame da Giovambatista Gaspari

giuntavi un’aringa inedita di Marco

Foscarini, Venezia 1827

Lauber 2011

R. Lauber, Il mercante vende ai

britannici un migliaio di opere;

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“Venezia Altrove. Almanacco della

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Lavalle-Cobo 2002

T. Lavalle-Cobo, Isabel de Farnesio:

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La vendita 2013

La vendita Tiepolo. Parigi 1845, a

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La vita 2018

La vita come opera d’arte. Anton

Maria Zanetti e le sue collezioni,

catalogo della mostra (Venezia, Ca’

Rezzonico, Museo del Settecento

veneziano) a cura di A. Craievich,

Venezia 2018

Le capitali 2007

Le capitali della festa, a cura di M.

Fagiolo, Roma 2007

Le cere 2012

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Civici Veneziani, a cura di C.

Tonini, D. Cristante, “Bollettino

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L’editoria 1984

L’editoria illustrata veneziana del

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catalogo della mostra (Grado) a

cura di M. De Grassi,

Udine 1984

392 — CANALETTO & VENEZIA —

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Le incisioni 1981

Le incisioni di Michele Marieschi

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Lenzo 2016

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Le porcellane 1936

Le porcellane di Venezia e delle

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(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo

del Settecento veneziano), a cura

di N. Barbantini, Venezia 1936

Le porcellane 2014

Le porcellane di Marino Nani

Mocenigo, catalogo della mostra

(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo

del Settecento veneziano) a

cura di M. Ansaldi, A. Craievich,

Verona 2014

Les dessins 1990

Les dessins vénetiens des collections

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Nationale Supérieure des Beaux-

Arts), Paris 1990

Les Sculptures 2006

Les Sculptures européenne du

Musée du Louvre, a cura di G.

Bresc-Bautier, Paris 2006

Lettere artistiche 2002

Lettere artistiche del Settecento

veneziano. I, a cura di A.

Bettagno, M. Magrini, Vicenza

2002

Lettere artistiche 2009

Lettere artistiche del Settecento

veneziano, 4, Owen McSwiny’s

letters 1720-1744, a cura di T.D.

Llwellyn, Venezia 2009

Lettere di Apostolo Zeno 1752

Lettere di Apostolo Zeno Cittadino

Veneziano Istorico e Poeta Cesareo,

nelle quali si contengono molte

notizie attenenti all’ Istoria

Letteraria de’ suoi tempi; e si

ragiona di Libri, d’Iscrizioni, di

Medaglie, e d’ogni genere d’erudita

Antichità, III, Venezia 1752

Levey 1959

M. Levey, Painting in Eighteenth

Century Venice, London 1959

(edizione italiana Milano 1996)

Levey 1971

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Levey 1986

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del P.R.P. Pellegrino Antonio

Orlandi bolognese contenente le

Notizie de’ Professori di Pittura,

Scoltura, ed Architettura in questa

edizione corretto e notabilmente di

nuove Notizie accresciuto da Pietro

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Succi 2016

D. Succi, Michele Marieschi. Opera

completa, Azzano Decimo 2016

D. Succi, Il Bucintoro nella grande

arte della Serenissima, Treviso

2017

T

Tassi 1793

F.M. Tassi, Vite de’ pittori, scultori,

architetti bergamaschi scritte dal

conte cavalier Francesco Maria

Tassi. Opera postuma, Bergamo

1793

Tassini 1879

G. Tassini, Alcuni palazzi

ed antichi edifici di Venezia

storicamente illustrati, Venezia

1879

Teste di fantasia 2006

Teste di fantasia del Settecento

veneziano, catalogo della mostra

(Venezia, Galleria di Palazzo Cini

a San Vio) a cura di R. Mangili, G.

Pavanello, Venezia 2006

Temanza 1778

T. Temanza, Vite dei più eccellenti

architetti, Venezia 1778

Temanza 1963

T. Temanza, Zibaldon (1738-1778),

a cura di N. Ivanoff, Venezia-Roma

1963

The Collections 1996

The Collections of the National

Gallery of Art Systematic

Catalogue: Italian Paintings of

the Seventeenth and Eighteenth

Centuries, a cura di D. De Grazia et

alii, Washington DC 1996

The Glory 1994

The Glory of Venice. Art in the

Eighteenth Century, catalogo della

mostra (Londra, Royal Academy of

Arts; Washington, National Gallery

of Art) a cura di J. Martineau, A.

Robinson, London 1994 (edizione

italiana Milano 1994)

Tiepolo 2004

Tiepolo. Ironia e comico, catalogo

della mostra (Venezia, Fondazione

Giorgio Cini) a cura di A. Mariuz,

G. Pavanello, Venezia 2004

Tiepolo. Piazzetta. Novelli 2012

Tiepolo. Piazzetta. Novelli.

L’incanto del libro illustrato del

Settecento veneto, catalogo della

mostra (Padova, Musei Civici agli

Eremitani, Palazzo Zuckermann)

a cura di V.C. Donvito, D. Ton,

Crocetta del Montello 2012

Toffoluti 1985

R. Toffoluti, Ca’ Venier dei Leoni,

in Terza mostra internazionale di

architettura. Progetto Venezia, II,

Milano 1985, pp. 464-467

R. Toledano, Michele Marieschi:

catalogo ragionato, II edizione,

Milano 1995

Ton 2004

D. Ton, Tiepolo e Vico: il “Trionfo

dell’Eloquenza” in palazzo Sandi,

“Arte Veneta”, 61, 2004, pp. 110-123

Ton 2009

D. Ton, Due “historie” di Gaspare

Diziani ad Ansbach, in L’impegno e la

conoscenza. Studi di storia dell’arte in

onore di Egidio Martini, a cura di F.

Pedrocco, A. Craievich, Verona 2009,

pp. 331-335

Ton 2011

D. Ton, Padova, in La pittura nel

Veneto. Il Settecento di Terraferma,

a cura di G. Pavanello, Milano

2011, pp. 15-54

Ton 2012

D. Ton, Giambattista Crosato.

Pittore del rococò europeo, Verona

2012

Tonini 2007

C. Tonini, I lattimi veneziani

smaltati del XVIII secolo e i

rapporti iconografici con le

incisioni, “Journal of glass studies”,

49, 2007, pp. 127-142

Toso 2018

V. Toso, Un abate “libero

pensatore” nella Venezia di fine

Seicento. Antonio Conti e i suoi

Sermoni presso la Congregazione

della “Fava”, tesi di dottorato,

Università Ca’ Foscari di Venezia,

2018

Toutain Quittelier 2017

V. Toutain Quittelier, Le Carnaval,

la Fortune et la Folie. La rencontre

de Paris et Venise à l’aube des

Lumières, Paris 2017

U

Une Venise imaginaire 1991

Une Venise imaginaire.

Architectures, vues et scènes

capricieuses dans la gravure

vénitienne du XVIII e siècle, catalogo

della mostra (Genève, Cabinet des

Estampes) a cura di R.M. Mason,

Genève 1991

Un Suédois 2016

Un Suédois à Paris au XVIIIe siècle.

La collection Tessin, a cura di G.

Faroult, X. Salmon, J. Trey, Paris

2016

Urban 2003

L. Urban, Teatri in tavola. Ossia

“trionfi” sulle tavole dogali, “Studi

Veneziani”, XXV, 2003, pp. 169-

216

L. Urban, Banchetti veneziani dal

Rinascimento al 1797, San Vito di

Cadore 2007

Urban 2009

L. Urban, Intagliatori e doratori

del bucintoro del Settecento, in

Con il legno e con l’oro: la Venezia

artigiana degli intagliatori,

battiloro e doratori, a cura di

G. Caniato, Verona 2009, pp.

175-186

Urbani de Gheltof 1879

G.M. Urbani de Gheltof, Tiepolo e

la sua famiglia: note e documenti

inediti, Venezia 1879

V

Valcanover 1956

F. Valcanover, Affreschi sconosciuti

di Pietro Longhi, “Paragone”, 73,

1956, pp. 21-26

Venedig-Dresden 2010

Venedig-Dresden / Begegnung

zweier Kulturstädte, a cura di

B. Marx, A. Henning, Dresden-

Leipzig 2010

Venezia 1978

Venezia nell’età di Canova 1780-

1830, catalogo della mostra

(Venezia, Museo Correr) a cura di

E. Bassi et alii, Venezia 1978

Venezia 1993

Venezia 1717 Venezia 1993

immagini a confronto, catalogo

della mostra (Venezia, Palazzo

Ducale) a cura di U. Franzoi,

M.G. Montessori, A. Bonannini,

Cinisello Balsamo 1993

Venezia! 2002

Venezia! Kunst aus venezianischen

Palästen, catalogo della mostra

(Bonn, Bundeskunsthalle) a cura

di J. Frings, Bonn 2002

Venezia Settecento 2015

Venezia Settecento. Studi in

memoria di Alessandro Bettagno,

a cura di B.A. Kowalczyk, Verona

2015

Venice 1998

Venice through Canaletto’s Eye,

catalogo della mostra (Londra,

The National Gallery; York, York

City Art Gallery; Swansea, Glynn

Vivian Art Gallery) a cura di D.

Bomford, G. Finaldi, London-

New Haven 1998

Venice 2010

Venice in the Age of Canaletto,

catalogo della mostra (Memphis

Brooks Museum of Arts) a cura di

A. Libby, M. Pacini, S. Thomas,

Memphis 2010

Venice: Canaletto and his Rivals,

catalogo della mostra (Londra,

National Gallery; Washington,

National Gallery) a cura di C.

Beddington, A. Bradley, New

Haven 2010

Venise au dix-huitième siècle

1971

Venise au dix-huitième siècle.

Peintures, dessins et grauvures des

collections francaises, catalogo

della mostra (Parigi, Orangeries

des Tuileries) a cura di M.

Laclotte, Parigi 1971

Venise, l’art 2006

Venise, l’art de la Serenissima.

Dessins des XVIIe et XVIIIe

siècle, catalogo della mostra

(Montpellier, Musée Fabre; Paris,

Musée du Louvre) a cura di C.

Loisel, Montreuil 2006

Viancini 1994

E. Viancini, Per Francesco Bertos,

“Saggi e memorie di storia

dell’arte”, 19, 1994, pp. 141-159

Visentini 1771

A. Visentini, Osservazioni di

Antonio Visentini architetto veneto

che servono di continuazione al

trattato di Teofilo Gallaccini sopra

gli errori degli architetti, Venezia

1771

Vitale D’Alberton 2005

R. Vitale D’Alberton, I giardini di

cera della Serenissima. Gio. Batta

Talamini, un originale ceroplasta

nella Venezia del Settecento,

“Studi Veneziani”, N.S., L, 2005,

pp. 301-337

Vitale D’Alberton 2010

R. Vitale D’Alberton, Gli ultimi

artigiani della Repubblica, “Studi

Veneziani”, LIX, 2010, pp. 577-

648

Vittorio Amedeo Cignaroli 2001

Vittorio Amedeo Cignaroli: un

paesaggista alla corte di Savoia

e la sua epoca, catalogo della

mostra (Torino, Museo di Arti

Decorative) a cura di A. Cottino,

Torino 2001

Voltolina 1998

P. Voltolina, La storia di Venezia

attraverso le medaglie, III, Venezia

1998

Voyages 1894

Voyages de Montesquieu, a cura di A.

de Montesquieu, I, Bordeaux 1894

W

Waagen 1838

G.F. Waagen, Kunstwerke und

Künstler in England, Berlin 1838

G.F. Waagen, Treasures of art in

Great Britain, London 1854

Walker 1973

R.J.B. Walker, Audley End,

Catalogue of Pictures in the State

Rooms, London 1973

Watson 1956

F.J.B. Watson, Wallace Collection

Catalogues: Furniture, London

1956

White 1959-1960

E.W. White, The Reharsal of an

opera, “Theatre Notebook”, XIV,

3, 1959-1960, pp. 79-90

Whistler 2004

C. Whistler, Life Drawing in

Venice from Titian to Tiepolo,

“Master Drawings”, XLII, 4, 2004,

pp. 370-396

Whistler 2015

C. Whistler, Drawing in Venice

Titian to Canaletto,

Oxford 2015

Whistler 2016

C. Whistler, Venice and drawing,

c. 1500-1800. Theory, Practice and

Collecting, New Haven 2016

Williams 2014

H. Williams, Turquerie. An

Eighteenth-Century European

Fantasy, London 2014

Wilton-Ely 1994

J. Wilton-Ely, Piranesi, Milano

1994

Z

Zamboni 1778

B.C. Zamboni, La libreria

di S.E. il N.U. signor Leopardo

Martinengo patrizio veneziano

conte di Barco, condomino di

Villanuova, feudatario di

Pavone, e signore di Clanesso,

cogli uomini illustri della

chiarissima famiglia Martinengo

umiliata al medesimo cavaliere

dalla spettabile comunità di

Calvisano, Brescia 1778

Zampetti 1969

P. Zampetti, Dal Ricci al Tiepolo.

I pittori di figura del Settecento

a Venezia, catalogo della mostra

(Venezia, Palazzo Ducale),

Venezia 1969

Zanetti 1733

A.M. Zanetti, Descrizione di tutte

le pubbliche pitture della città

di Venezia e Isole circonvicine,

Venezia 1733

A.M. Zanetti, Della pittura

veneziana e delle opere pubbliche

de’ veneziani maestri libri V,

Venezia 1771

Zanuso 2000

S. Zanuso, Antonio Tarsia, in

Scultura a Venezia da Sansovino

a Canova, a cura di A. Bacchi,

Milano 2000, ad vocem

Zava Boccazzi 1979

F. Zava Boccazzi, Pittoni, l’opera

completa, Venezia 1979

Zava Boccazzi 1983

F. Zava Boccazzi, Episodi di pittura

veneziana a Vienna nel Settecento,

in Venezia Vienna, a cura di G.

Romanelli, Milano 1983, pp. 25-88

Zava Boccazzi 1986

F. Zava Boccazzi, Residenze e

gallerie. Committenza tedesca di

pittura veneziana nel Settecento,

in Venezia e la Germania. Arte,

politica, commercio, due civiltà a

confronto, Milano 1986, pp. 171-216

Zava Boccazzi 1990

F. Zava Boccazzi, I veneti alla

galleria Conti (1704-1707), “Saggi

e memorie di storia dell’arte”, 17,

1990, pp. 107-152, 313-321

Zecchin 1987-1990

L. Zecchin, Vetro e vetrai di

Murano: studi sulla storia del vetro,

3 voll., Venezia 1987-1990

Zecchin 2004

P. Zecchin, I “deseri” di cristallo

a Venezia nel Settecento, “Journal

of glass studies”, 46, 2004, pp.

159-170

Zecchin 2011

P. Zecchin, Giuseppe Briati, il

più famoso vetraio veneziano

del Settecento, “Journal of glass

studies”, 53, 2011, pp. 161-175

Zugni Tauro 1971

A.P. Zugni Tauro, Gaspare Diziani,

Venezia 1971

398 —CANALETTO & VENEZIA —

— BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE ESPOSTE — 399



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Finito di stampare

nel mese di febbraio 2019

presso Grafiche Veneziane

Venezia

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