CANALETTO_2019_Catalogo
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Réunion des musées
nationaux – Grand Palais
Fondazione
Musei Civici di Venezia
Consiglio
di Amministrazione
Presidente
Mariacristina Gribaudi
Vicepresidente
Luigi Brugnaro
Consiglieri
Bruno Bernardi
Lorenza Lain
Roberto Zuccato
Direttore
Gabriella Belli
Segretario Organizzativo
Mattia Agnetti
Dirigenti
Daniela Ferretti
Area Museale (3)
Chiara Squarcina
Area Museale (2)
Ca’ Rezzonico, Museo del
Settecento Veneziano;
Museo Correr, Gabinetto
dei disegni e delle stampe
Alberto Craievich
con Daniele D’Anza
Rossella Granziero
Mostra e catalogo
Direzione scientifica
Gabriella Belli
Comitato scientifico
della mostra
Charles Beddigton
Alberto Craievich
Daniele D’Anza
Catherine Loisel
Giuseppe Pavanello
Mostra e catalogo
a cura di
Alberto Craievich
in collaborazione con
Charles Beddigton
Giuseppe Pavanello
Testi di
Marcella Ansaldi
Charles Beddington
Maureen Cassidy-Geiger
Alberto Craievich
Claudia Crosera
Daniele D’Anza
Monica De Vincenti
Simone Guerriero
Catherine Loisel
Giorgio Marini
Giuseppe Pavanello
Jan-Christoph Rößler
Francesca Stopper
Denis Ton
Apparati
Roberta Falcomer
Agnese Pudlis
Progetto di allestimento
Daniela Ferretti con
Francesca Boni
Assistenza tecnica
Stefano Rossi
Igor Nalesso
Ufficio mostre
Sofia Rinaldi, registrar
Monica Vianello, registrar
Giulia Biscontin
Georg Malfertheiner
Silvia Toffano
Comunicazione, Stampa e
Sviluppo Commerciale
Mara Vittori
con Andrea Marin
Chiara Marusso
Silvia Negretti
Alessandro Paolinelli
Giulia Sabattini
Valentina Avon, Addetto
Stampa
Servizi educativi
Monica da Cortà Fumei
con Riccardo Bon
Claudia Calabresi
Cristina Gazzola
Chiara Miotto
Condition report
Erika Bianchini
Luana Franceschet
Servizio Sicurezza e
Logistica
Lorenzo Palmisano
con Valeria Fedrigo
Amministrazione
Maria Cristina Carraro
con Leonardo Babbo
Piero Calore
Ludovica Fanti
Laura Miccoli
Elena Roccato
Francesca Rodella
Paola Vinaccia
Archivio fotografico
Denis Cecchin
Progetto grafico
e comunicazione coordinata
Sebastiano Girardi Studio
Editing e impaginazione
Lara Piffari
Traduzioni
Luciano Comoy
Cristina Pradella
©2019 Museum Musei
Milano
Tutti i diritti sono riservati
ISBN 978-88-32026-04-7
Editore
Consorzio Museum Musei
Presidente
Francisco Borja Blas
Mendez de Vigo
Consigliere Delegato
Lorenzo Losi
Project Manager
Marta Miglierina
Store Manager
Elisa Covre
Questa mostra nasce da
un progetto sviluppato
con la Réunion des
Musées Nationaux - Grand
Palais che ha portato
anche alla realizzazione
dell’esposizione
Èblouissante Venise. Venise,
les Arts et l’Europe au
XVIII e siècle (Paris, Grand
Palais, Galeries nationales,
24 settembre 2018-21
gennaio 2019), curata da
Catherine Loisel. Oltre
che all’autrice la nostra
gratitudine va a Emmanuel
Marcovitch ed Emmanuel
Coquery, direttore
generale e direttore
scientifico dell’istituzione;
Marion Mangon, capo
dipartimento delle
mostre; Vincent David,
responsabile del progetto,
e a tutto il personale che
ha collaborato all’iniziativa.
Albo dei prestatori
Ministero dei Beni e delle
Attività Culturali e del
Turismo
Direzione generale Musei
Direttore Generale
Antonio Lampis
Direttore Servizio I
Collezioni Museali
Antonio Tarasco
Dirigente delegato
Roberto A. Cassanelli
Dichiarazione di rilevante
interesse culturale
Silvia Trisciuzzi
Musées d’Angers, Angers
Museum of Fine Arts Boston,
Boston
Galerie Neuse, Bremen
The Fitzwilliam Museum,
University of Cambridge
The Art Institute, Chicago
Fundação Calouste
Gulbenkian, Lisboa
The Earl of Leicester and the
Trustees of the Holkham
Estate
Collection of the Late Sir
Brinsley Ford, London
Dulwich Picture Gallery,
London
Royal College of Music,
London
The British Museum, London
The National Gallery, London
The Royal Collection, Her
Majesty Queen Elizabeth II
Victoria and Albert Museum,
London
Museo Nacional Thyssen-
Bornemisza Madrid
FAI - Fondo Ambiente
Italiano, Villa Necchi
Campiglio, Milano
Pinacoteca del Castello
Sforzesco, Milano
Bayerische
Staatsgemäldesammlungen,
Alte Pinakothek, München
The Morgan Library &
Museum, New York
Musée des Beaux-Arts,
Orléans
Ashmolean Museum,
University of Oxford
Cognacq-Jay Museum, Paris
Département des Peintures
du Musée du Louvre, Paris
Département des Arts
graphiques du Musée du
Louvre, Paris
École nationale supérieure
des Beaux-Arts de Paris
Fondation Custodia,
Collection Frits Lugt, Paris
Fondazione Canova,
Possagno
MAR - Museo d'Arte della
città di Ravenna
Accademia Nazionale di San
Luca, Roma
Presidente Francesco
Cellini, Segretario Generale
Francesco Moschini
Gallerie Nazionali di Arte
Antica, Galleria Corsini,
Roma
Museo Statale Ermitage, San
Pietroburgo
Cattedrale di Notre-Dame,
Senonches
Stockholm University,
Stockholm
Musei Reali, Torino
Palazzo Madama, Museo
Civico d’Arte Antica, Torino
Musée des Beaux-Arts de
Troyes
Provincia Veneta dei Frati
Minori Cappuccini
Gabinetto Disegni e Stampe
dei Civici Musei d’Arte,
Verona
Ca’ Rezzonico, Museo
del Settecento veneziano,
Venezia
Casa di Carlo Goldoni,
Venezia
Gallerie dell’Accademia,
Venezia
Museo Correr, Venezia
Museo Correr, Biblioteca,
Venezia
Museo Correr, Gabinetto
dei disegni e delle stampe,
Venezia
Palazzo Ducale, Venezia
National Gallery of Art,
Washington
Kunsthistorisches Museum
Wien, Picture Gallery
Yale Center for British Art,
Paul Mellon Collection
The English Heritage. Accepted
in lieu of Inheritance Tax by H
M Government and allocated
to the Historic Buildings and
Monuments Commission for
England for Audley End House,
2018
e
Tutti i prestatori che hanno
preferito rimanere anonimi
Si ringraziano
Soprintendenza
Archeologia, belle arti e
paesaggio per il Comune di
Venezia e laguna
Soprintendenza
Archeologia, Belle Arti
e Paesaggio per l’area
metropolitana di Venezia
e le Province di Belluno,
Padova e Treviso
Emilio Ambasz, Terri
Anderson, Juliette Armand,
Irina Artemieva, Leila
Audouy, Alice Barron,
Alexander Bell, Christine
Bernheiden, Marlène
Bertanine, Beatriz Blanco,
Federica Brivio, Aisha
Burtenshaw, Carla Calisi,
Caroline Campbell, Anne
Campman, Stefania Capraro,
Alice Carr-Archer, Maria
Agnese Chiari, Alessandro
Conficoni, Maria Chiara
Corazza, Mariska de
Jonge, Christine Delaunay,
Francesca del Torre, Natasha
M. Derrickson, Giulio
Manieri Elia, Jordina Diaz
Ferrando, Maria Espinosa,
David Essex, Chiara Faedo,
Alberta Fabbri, Andrew
Fletcher, Jenny Foot,
Augustine Ford, Francis
Ford, Giuliana Forti,
Natalia Gastelut, Christina
Gernon, Luciana Gerolami,
Joshua Glazer, Samantha
Gordon, Franco Gualano,
Mario Guderzo, Camilla
Hjelm, Frederick Ilchman,
Olga Ilmenkova, Peter
Kerber, Florence Le Moing,
Stéphane Loire, Giovanni
Lokar, Constance Lombard,
Léonor Lopez-Albagli,
Nancy Macgregor, Isabella
Mancarella, Giulio Manieri
Elia, John Marciari, Paola
Marini, Marco Antonio
Marchetto, Cristina
Maritano, Alessandro
Martoni, Peter Moore, Jodi
Myers, Giuliana Onesti,
Carlo Orsi, Geneviève Paire,
Rossella Patrizio, Anna
Sheppard, Alberto Signor,
Maria Singer, Paola Marini,
Peter Moore, Melvina Mossé,
Sylvia Niveau, Manuela e
Bruno Pellegrini, Maria de
Peverelli, Valeria Poletto,
David Preece, Rosie Razall,
Sara Rodella, Fernanda de
Rosa, Alessandro e Luigi
Rossi, Gabriele Rossi
Rognoni, Chantal Rouquet,
Luisa Sampaio, Francis
Russell, Lorenza Santa,
Anita Sganzerla, Aminata
Sy, Francesca Tasso, Alberto
Tessiore, Devis Valenti,
Catherine Whistler, Lucy
Whitaker, Sophie Worley
e, in particolare,
Andrea Bellieni, Annamaria
Bravetti, Monica Da Cortà
Fumei, Elena Marchetti,
Marta Michielin, Francesca
Pederoda, Monica Viero
Questo catalogo è stato
pubblicato grazie al
contributo di
The Gladys Krieble
Delmas Foundation
Con questa esposizione a Palazzo Ducale celebriamo la storia di Venezia, in particolare
il Settecento. È un progetto che ho fortemente voluto e che sono particolarmente orgoglioso di
presentare, anche in virtù di una serie di prestiti importanti che siamo riusciti ad ottenere da alcuni tra i
più prestigiosi musei del mondo (Boston, Chicago, Washington, Parigi, Londra, San Pietroburgo). A questi
si affiancheranno le opere custodite all’interno delle ricche collezioni dei Musei Civici di Venezia, un patrimonio
che appartiene a tutta la città e che tutta la città può qui ammirare e condividere con i suoi ospiti.
L’esposizione si concentra sulla figura di uno dei massimi rappresentanti della Venezia del Settecento,
Canaletto, che più di ogni altro ha saputo ritrarre e esaltare la bellezza intrinseca della città. In qualsiasi
museo del mondo i dipinti di Canaletto sono tenuti in altissima considerazione, a testimonianza della
qualità di questo particolare linguaggio artistico, che fa della veduta il suo genere prediletto.
La mostra presenta anche opere di altri grandi artisti del secolo, da Tiepolo a Piazzetta, e dei frutti
che quell’irripetibile civiltà artistica che fu il Settecento veneziano produsse nel campo delle arti applicate
e della manifattura, con disegni, sculture, arredi, porcellane e argenti, per meglio offrire al visitatore il
senso della grandezza di quel patrimonio artistico che portò la scuola veneziana a primeggiare in Europa
e che ancora oggi affascina e attira milioni di visitatori.
LUIGI BRUGNARO
Sindaco di Venezia
Canaletto è stato un grande artista la cui caratura si misura anche nel suo emergere
durante un secolo eccezionale, quel Settecento veneziano che ha visto la nostra città divenire centro
di una civiltà artistica che ha saputo primeggiare in Europa. Da oltre vent’anni non si realizzava a Venezia
un evento di questa portata dedicato a quel secolo e ai suoi maestri, ma oggi Canaletto ritrova finalmente
la sua collocazione in una grande mostra a Palazzo Ducale, circondato dall’eccellenza che nel Settecento
a Venezia animò le arti maggiori, la pittura, la scultura, per attraversare la produzione manifatturiera e le
arti applicate. Una grande mostra che nasce dalla collaborazione con la Réunion des Musées Nationaux -
Grand Palais, che ha portato in realtà all’allestimento di due diverse mostre dedicate all’arte veneziana del
Settecento: una a Parigi da poco conclusa presso il Grand Palais, e questa di Palazzo Ducale, complementari
sotto tutti i punti di vista, con un nucleo centrale di opere comuni da cui si sviluppano diverse letture del
Settecento veneziano. Un secolo che ha prodotto un patrimonio artistico unico, che nella splendida Venezia
dove è stato creato si offre nuovamente agli occhi del mondo in tutta la sua magnificenza e complessità.
MARIACRISTINA GRIBAUDI
Presidente, Fondazione Musei Civici di Venezia
A partire dal 2013, con il nuovo riallestimento dell’Appartamento del doge a Palazzo
Ducale, la Fondazione Musei Civici ha inaugurato una rassegna di grandi mostre dedicata ai protagonisti e ai
momenti cruciali della storia dell’arte. Si sono susseguite così diverse iniziative, sovente realizzate in collaborazione
con importanti musei e istituti culturali.
Con le ultime esposizioni, Ruskin a Venezia e Tintoretto l’obiettivo è stato puntato sugli episodi cardine
dell’arte della Serenissima. In questa occasione, il protagonista è invece Canaletto, il grande esponente del vedutismo,
genere che proprio a Venezia raggiunse i suoi massimi livelli d’espressione. Nell’ideazione della mostra ci è
parso imprescindibile porre le opere del pittore in dialogo serrato con quelle degli altri grandi artisti del secolo.
Giambattista Tiepolo, coetaneo di Canaletto, ne condivide in parallelo il percorso stilistico e i successi economici,
mentre accanto a loro trovano spazio altri illustri rappresentanti di quella civiltà che si è fatta apprezzare in
Europa in ogni genere artistico. Un susseguirsi di capolavori da Giambattista Piazzetta a Federico Bencovich, da
Antonio Pellegrini a Rosalba Carriera e Sebastiano Ricci, fino a Francesco Guardi e Giandomenico Tiepolo. L’elenco
potrebbe proseguire, tanto era vitale la stagione creativa che fiorì a Venezia nel Settecento. Il cambiamento rispetto
al secolo precedente fu radicale sia nella pittura di storia che in quella di genere, nella scultura e nelle alle arti decorative,
fra cui spicca la porcellana, forse il materiale che meglio di altri incarna lo spirito del secolo. Riuscire a riassumere
tutto questo attraverso un numero per forza ristretto di opere, per quanto altamente simboliche e qualificanti,
ha rappresentato una vera sfida. Il risultato finale è senza dubbio inaspettato.
Il progetto dell’esposizione è stato sviluppato assieme alla Réunion des Musées Nationaux - Grand Palais
e prevede un nucleo centrale di opere da cui si sviluppano diversi piani di lettura fra loro complementari. La
mostra che apre i battenti a Palazzo Ducale, conclude, quindi, la narrazione aperta al Grand Palais di Parigi a
settembre 2018, mettendo in evidenza la dimensione europea dell’arte del Settecento veneziano e soprattutto il
suo slancio verso al modernità.
GABRIELLA BELLI
Direttore, Fondazione Musei Civici di Venezia
15
18
23
35
45
53
58
89
95
100
115
119
126
149
157
165
170
223
237
247
257
265
271
279
286
292
339
347
355
362
388
CANALETTO & VENEZIA ...........................................Alberto Craievich
Catalogo I
VENEZIA ’700:
IMMAGINAZIONE/OSSERVAZIONE. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giuseppe Pavanello
IL PRIMO SETTECENTO
UNA NUOVA PITTURA ..............................................Alberto Craievich
LA VEDUTA INCISA:
VENEZIA MOLTIPLICATA NELLE STAMPE ...................Giorgio Marini
L’ECCELLENTISSIMA CASA VEZZI ...........................Marcella Ansaldi
Catalogo II
ROVENTI GIOVINEZZE
CANALETTO ............................................................Charles Beddington
TIEPOLO .................................................................Giuseppe Pavanello
Catalogo III
LA SCOPERTA DELLA LUCE
CANALETTO ...........................................................Charles Beddington
TIEPOLO E PIAZZETTA .............................................Denis Ton
Catalogo IV
UNA DIMENSIONE EUROPEA
LA VEDUTA .............................................................Charles Beddington
LA PITTURA DI STORIA ............................................Denis Ton
UNO SGUARDO SULLA REALTÀ .................................Daniele D’Anza
Catalogo V
GENERI E TEMI
MOMENTI DI ARCHITETTURA ...................................Jan-Christoph Rössler
DISEGNARE A VENEZIA NEL SETTECENTO ................Catherine Loisel
SCULTURA DEL SETTECENTO. I ATTO .......................Simone Guerriero
SCULTURA DEL SETTECENTO. II ATTO ......................Monica De Vincenti
FRAGILI DONI PER LA SERENISSIMA:
SERVIZI ARALDICI DI MEISSEN
PER IL PATRIZIATO VENEZIANO. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Maureen Cassidy-Geiger
LE ARTI DECORATIVE ..............................................Francesca Stopper
L’INCISIONE: GLI ANNI QUARANTA ...........................Giorgio Marini
L’EDITORIA .............................................................Claudia Crosera
Catalogo VI
LA FINE DEL SECOLO
FRANCESCO GUARDI ..............................................Alberto Craievich
LA PROPENSIONE AL "GENERE"
DI GIANDOMENICO TIEPOLO ..................................Daniele D’Anza
CANOVA E IL GUSTO NEOCLASSICO .........................Giuseppe Pavanello
Catalogo VII
BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE ESPOSTE
ALBERTO
CRAIEVICH
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
Il bacino di San Marco,
particolare.
Boston, Museum of Fine Arts,
Fondo Abbott Lawrence,
Fondo Seth K. Sweetser e
Fondo Charles Edward French
CANALETTO
& VENEZIA
Antonio Canal, detto
Canaletto è oggi l’artista più celebre del Settecento
veneziano. Ne fanno fede il numero di mostre che
gli sono dedicate e i risultati delle sue opere alle aste
(è uno dei pochi esponenti dell’arte antica a rivaleggiare
con le quotazioni dei maestri contemporanei).
Oggi il suo è uno dei grandi nomi di richiamo
della storia dell’arte: è un ulteriore e sorprendente
tassello della storia del gusto, che prosegue nel presente.
Quindi, scegliere il suo nome per esemplificare
un intero secolo è soltanto la presa d’atto di una
situazione oggettiva.
Al suo nome si è semplicemente accostato
quello di Venezia. Per ovvie ragioni. È Canaletto
più di qualsiasi altro vedutista ad aver codificato
l’aspetto della città che tuttora appartiene all’immaginario
collettivo, identificandosi con il luogo che
raffigura. Come il Marco Polo di Italo Calvino nelle
Città invisibili, anche lui avrebbe potuto affermare:
“ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di
Venezia [...] per distinguere le qualità delle altre devo
partire da una prima città che resta implicita. Per
me è Venezia”. Inoltre, per la prima volta, proprio
nel Settecento, è la città stessa a essere vista come
un’opera d’arte a sé stante: “Percorrendo le lagune
nel pieno sfolgorare del sole e osservando sul fianco
delle gondole i gondolieri, che sembravano scivolare
via nelle loro movenze agili e nei loro costumi variopinti,
mentre le loro figure si profilavano sullo specchio
verde chiaro dell’acqua, sullo sfondo dell’aria
di un azzurro profondo, ho ammirato il quadro
migliore e più perfetto della scuola veneziana” (J.W.
von Goethe).
Nella preparazione della mostra, tuttavia,
si è voluto, piuttosto che dedicargli un’ennesima
monografica, mettere in rapporto le sue opere con
quelle degli altri maestri della scuola veneziana, in
un confronto che non tenga conto solo del suo percorso
individuale ma che si innesti con i fatti che
hanno scandito la storia dell’arte in laguna durante
tutto il secolo. È stato necessario, quindi, ampliare
l’orizzonte tanto in termini cronologici, quanto di
‘genere’ (disegno, incisione, scultura, architettura,
arti decorative), provando così a ricomporre un quadro
d’insieme se non completo, almeno ampio.
L’ispirazione è data da due straordinarie
esposizioni allestite ormai un quarto di secolo
fa: The Glory of Venice (1994) e Splendori del
Settecento veneziano (1995), dove è stato posto l’accento
sull’aspetto più innovativo dell’arte veneziana
che scavalca il consueto limite posto dalla
caduta della Serenissima. Canova, soprattutto,
ma anche Piranesi e Bellotto (benché scomparsi
lontano dalla patria e prima della caduta della
Serenissima) ‘aprono’ ai grandi temi dell’arte europea:
il Neoclassicismo, la poetica del sublime, il
paesaggio romantico.
Una visione quest’ultima, troppo a lungo
appiattita da quel mito nostalgico, costruito dopo
la fine della Serenissima, che ha visto il Settecento
veneziano come il tempo del vivere felice e spensierato,
consapevole, tuttavia, della propria fine
imminente. Un’immagine leggera e allo stesso
tempo decadente che ha escluso ogni eccezione e
— CANALETTO & VENEZIA — 15
banalizzato una stagione artistica di grande complessità,
che, assieme alla Francia, detiene il primato
in Europa di tutte le arti: sarà l’ultima volta
che ciò accade per l’arte italiana.
La mostra è scandita da sezioni ‘aperte’ che
individuano cronologicamente e tematicamente
alcuni momenti salienti e precisi snodi culturali.
Ogni sala pone in dialogo le opere secondo il binomio
dell’immaginazione e dell’osservazione (si veda
il saggio di Giuseppe Pavanello in catalogo) a individuare
i due elementi dialettici entro cui si muove
l’arte veneziana: la fantasia dei suoi decoratori e lo
sguardo sulla realtà dei vedutisti e di Pietro Longhi.
Non si tratta di categorie ‘chiuse’ ma di poli di attrazione
fra i quali si muovono artisti come Guardi,
Piazzetta, Giandomenico e lo stessa Giambattista
Tiepolo, con esiti sorprendenti.
È parso opportuno presentare in prima
istanza al visitatore alcune opere il cui accostamento
visualizza le contraddizioni storiche e culturali
della città nel corso del Settecento. Il Nettuno
offre a Venezia i doni del mare di Giambattista
Tiepolo evoca alla perfezione il mito di Venezia che
la sua classe dirigente intende perpetuare, incurante
dell’oggettiva debolezza politica e militare dello
Stato. L’immagine del Ridotto ci documenta, invece,
il punto di vista del viaggiatore settecentesco, poco
incline a farsi sorprendere dalle immagini ufficiali,
ma irrimediabilmente sedotto dai luoghi d’incontro
e di divertimento. Il Bucintoro riassume questa
dicotomia: simbolo abbagliante del legame fra
la città e il mare e protagonista delle sfarzose cerimonie
che celebrano la grandezza di Venezia, è in
verità un’imbarcazione che non può navigare, “un
unico lavoro d’intaglio interamente dorato, inservibile
per qualsiasi altro uso, un vero e proprio ostensorio
su cui mostrare al popolo i suoi capi in pompa
magna” (J.W. von Goethe).
Il secondo capitolo è dedicato al radicale
cambiamento che, nel primo decennio del secolo,
interessa ogni forma artistica (la pittura di storia,
la scena di genere, il paesaggio e il ritratto) e
vede, con Luca Carlevarijs, la nascita del vedutismo,
la cui popolarità si lega fin da subito alla divulgazione
attraverso la stampa. Ancora, la storia della
porcellana sarebbe stata probabilmente diversa se
l’iniziativa di Francesco Vezzi, fra il 1720 e il 1727,
non si fosse conclusa tanto rapidamente, privandoci
di una manifattura di genio che aveva elevato
Venezia a terza ‘voce’ in questo campo subito dopo
Meissen e Vienna. Infine, i vetrai muranesi, attraverso
la creazione del vetro lattimo, propongono
un’originale alternativa alla stessa porcellana.
Mentre i protagonisti della pittura rococò,
votati al monumentale e all’affresco, danno vita a
una pittura emozionale, basata su valori esecutivi
e improvvisazione, un gruppo ristretto di artisti
sperimenta formule stilistiche antitetiche, indifferenti
alla dimensione decorativa o alla sensualità. La
sezione è stata intitolata, non a caso, Roventi giovinezze.
È una pittura votata a immagini dal forte
risalto plastico ed espressivo, violente nella gestualità
e nel colore. Il capofila è Giambattista Piazzetta,
ma i risultati più sorprendenti, marcati da giovanile
irruenza, sono opera di due coetanei poco più che
ventenni: Giambattista Tiepolo e Antonio Canal. Il
loro prepotente esordio non sfugge ai contemporanei.
Per il patrizio Vincenzo Da Canal, Tiepolo è
un artista “tutto spirito e foco”, mentre secondo il
pittore Antonio Marchesini, Canaletto “fa stordire
universalmente ognuno”.
Questo antagonismo fra due idee opposte
di pittura trova la sua sintesi negli anni Trenta del
secolo quando nelle opere di Tiepolo e Canaletto
l’intonazione notturna e il contrasto di luce si sciolgono
in colori caldi e ombre colorate. Lo stile, in
entrambi, si fa più controllato e nitido e il registro
cromatico acquista sonorità squillanti. Una nuova
luce cristallina, tersa, conferisce verità ottica ai loro
dipinti. Il titolo della sezione, La scoperta della luce,
fa riferimento al Newtonianismo per le Dame, ovvero
dialoghi sopra la luce e i colori di Francesco Algarotti,
pubblicato a Venezia nel 1737, dove vengono divulgate
le teorie sulla luce del grande fisico inglese,
visualizzate in mostra nel celebre capriccio allegorico
compiuto da Giambattista Pittoni assieme a
Giuseppe e Domenico Valeriani.
Lo sguardo sulla vita contemporanea veneziana
di Pietro Longhi, attraverso la creazione di
quella che oggi chiamiamo “Pittura di costume”,
merita invece una sezione a se stante. Alle sue opere
si sono volute accostare le straordinarie teste di
popolani di Giambattista Piazzetta e alcuni disegni
su carta azzurra di Giambattista Tiepolo, in cui
risalta un’analoga e sorprendente ricerca del ‘vero’.
Si è deciso di riunire le opere della piena
maturità di Canaletto e Tiepolo assieme agli altri
protagonisti del periodo (Diziani, Crosato, Antonio
Guardi, Marieschi, Bellotto) in alcune sale intitolate
Una dimensione europea, dove sono riassunti
l’ampiezza e il raggio d’influenza dell’arte veneziana
che si esprime ormai su tutto il continente e
in ogni genere, pittorico e non solo. I capitoli dedicati
all’architettura, alla scultura, alle arti decorative,
all’editoria e all’incisione denotano la sua eccellenza
in ogni campo. Una sezione specifica è stata dedicata
ai servizi araldici di Meissen per il patriziato
veneziano: non c’è corte, o stato europeo, che possa
vantare un numero così alto di ‘doni’ da parte del
sovrano di Sassonia.
Si sono riunite in un unico ambiente le opere
legate alle cerimonie e, soprattutto, alle regate
organizzate dalla Serenissima in onore di principi
e regnanti in visita alla città. I più importanti artisti
del Settecento hanno prestato il loro ingegno
per progettare le stravaganti imbarcazioni dai nomi
esotici come bissone, malgarote, peote che partecipavano
a questi spettacoli. In tali lavori, libera da vincoli
funzionali, la fantasia dei pittori si sprigionava
in capricciose invenzioni con motivi ornamentali,
scene mitologiche e allegorie. Nonostante il loro
aspetto fastoso queste imbarcazioni erano spesso
destinate a durare lo spazio di una cerimonia: capolavori
dell’effimero, oggi documentati solamente da
disegni preparatori oppure da incisioni.
Nelle sale dedicate alla fine del secolo occupano
un posto di primo piano Francesco Guardi e
Giandomenico Tiepolo. Entrambi sopravvissuti a
una cultura ormai superata e in declino, vivono la
loro vecchiaia ai margini del gusto allora dominante.
Tale punto di vista appartato e solitario conferisce
loro una posizione privilegiata per mettere a fuoco,
con distacco, il mondo che li circonda, creando
alcuni dei capolavori dell’arte europea.
Si è voluto chiudere l’esposizione con alcune
opere fortemente simboliche. La serie di acquatinte
di Giovanni De Pian su disegno di Francesco
Gallimberti, che inaugura la leggenda nera della
città, e il bozzetto per il monumento a Francesco
Pesaro, commissionato a Canova nel 1799, dove per
la prima volta compare una Venezia in lacrime – un
topos caro alla letteratura dell’Ottocento — antitetica
rispetto alla trionfante regina del mare eseguita
da Tiepolo quarant’anni prima. È un’immagine suggestiva,
carica di significati, che evoca i celebri versi
di Byron: “di tredici secoli di ricchezza e di gloria,
non rimangono che ceneri e pianto”.
16 — CANALETTO & VENEZIA — — CANALETTO & VENEZIA — 17
CAT.I.01
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Nettuno offre a Venezia i doni del mare
Olio su tela, 135×275 cm
Venezia, Palazzo Ducale, inv. p. n. 6 n. 328
Bibliografia _ Gemin, Pedrocco 1993, p. 458, cat. 470,
con bibliografia precedente; Barcham, in Giambattista
Tiepolo 1996, pp. 177-181, cat. 24; Pedrocco 2002, p. 297,
cat. 244; Pedrocco, in La bella Italia 2011, p. 362, cat.
10.3; Pedrocco, in Giambattista Tiepolo 2012, p. 245,
cat. 42.
18 — CANALETTO & VENEZIA —
— CATALOGO DELLE OPERE — 19
CAT.I.02
JOHANN HEINRICH TISCHBEIN
CAT.I.03
FRANCESCO GUARDI
CAT.I.04
IMPERIO BERALDO
Giocatori al Ridotto
Olio su tela, 109×195 cm
Brema, Galerie Neuse
(opera non esposta)
Bibliografia _ Fanti e denari 1989,
pp. 39-42, 183, cat. 156; Meijers, in De gouden 1991,
pp. 160-162, cat. 147; Pavanello 1993, pp. 79-85;
Artemieva, in Il mondo 1998, pp. 197, 241, cat. 283.
Il Ridotto
Olio su tela, 108×208 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. I, n. 124
Bibliografia _ Morassi 1973, pp. 161-163, cat. 232;
Pallucchini 1995, II, pp. 58-59; Pedrocco, in Francesco
Guardi 2012, p. 81, cat. 5.
Modello ricostruttivo del Bucintoro 1727-29
Fine realizzazione 1999; legni diversi, dipinti e dorati;
(scala 1 : 30)
Collezione privata; deposito, in comodato presso il
Museo Correr di Venezia
20 — CANALETTO & VENEZIA — — CATALOGO DELLE OPERE — 21
GIUSEPPE
PAVANELLO
FIG. 1
SEBASTIANO RICCI
Soffitto in nove comparti
con Divinità dell’Olimpo,
particolare. Berlino,
Gemäldegalerie - Staatliche
Museen zu Berlin (fino al 1944
Venezia, palazzo Mocenigo a
San Samuele)
V E N E Z I A ’ 700:
I M M AGI NA Z ION E /
OSSERVAZIONE
In apertura di secolo,
nell’Orazione in lode di S.E. Il Signor Cavaliere Luigi
Pisani Procurator di S. Marco (Venezia 1711), si legge:
“Alla Liberalità finalmente dessi aggiungere un’altra
Virtù, la quale fa un uso eroico delle ricchezze: ed è
la Magnificenza”. È la Serenissima Repubblica stessa
a dar esempio, a partire da piazza San Marco “teatro
di Meraviglie”, quindi dai palazzi: “sommi sforzi
di un’arte, che si adopera a dimostrare con la nobiltà
delle abitazioni la grandezza o di chi vi soggiorna, o di
chi ne comandò l’edificazione, o ne gode il dominio”.
È una visione di matrice barocca, favorita
pure dalle scelte ‘conservatrici’ del governo aristocratico.
Ma già in quegli anni d’inizio secolo molto
stava cambiando nell’ambiente artistico veneziano.
Basti pensare alla novità della ritrattistica di Rosalba
Carriera, che aveva relegato in soffitta, per così dire,
le rappresentazioni d’apparato, al fine di far emergere
i volti delle persone con fisionomie e caratteri specifici.
Per di più usando un mezzo, come il pastello, che
per la rapidità dell’esecuzione si attagliava alla mano
di chi, con un occhio ’moderno’, sapeva cogliere all’istante
la verità di uno sguardo.
Siamo nell’ambito dell’osservazione – contraltare
o rovescio, come in una medaglia, dell’immaginazione
–, che, sempre a inizio secolo, veniva rinnovando
espressioni e tematiche. È Sebastiano Ricci
il protagonista, ma con comprimari come Antonio
Pellegrini, soprattutto nel campo della decorazione
d’interni, anche in villa. La Dominante e il suo entroterra
sono un tutt’uno, quasi sempre anche nella
committenza.
Primi anni del Settecento. Ricci dipinge le
nove tele da soffitto in palazzo Mocenigo a San
Samuele per il matrimonio tra Alvise Mocenigo IV e
Pisana Corner, celebrato nel febbraio 1705; Pellegrini
affresca la sala di villa Alessandri alla Mira. Nel primo
complesso – purtroppo emigrato a Berlino nel corso
della Seconda guerra mondiale, in circostanze poco
chiare – si danno convegno le divinità dell’Olimpo:
protagonista è Amore stesso, e non più un personaggio
come Ercole, con le sue virtù e le sue imprese. Per
di più, è un Amore bambino, ricevuto in Olimpo da
Giove e da Giunone, con il Tempo incatenato: indice
quanto mai significativo della sensibilità che sta
prendendo piede anche nella tradizionalista Venezia.
E poi la luce è chiara, l’aria finalmente tersa, i colori
brillanti: è come un annuncio di primavera per la pittura
veneziana del secolo (fig. 1).
Un confronto con il soffitto dipinto da Nicolò
Bambini per ca’ Pesaro con l’Apoteosi di Venezia, di
vent’anni prima, è rivelatore delle novità che ormai
vengono a imporsi nella tematica, così come nella
vivacità della tavolozza: non più retorica e opulenza,
ma eleganza. Non diversamente, Antonio Pellegrini.
Nella villa di Mira si viene a creare una simulata
Galleria di quadri, provvisti di cornice: è l’apoteosi
della mitologia e della lievità pittorica, con tutta una
sequenza di episodi per lo più a tema erotico tratti
dalle Metamorfosi di Ovidio. In anni posteriori, il suo
vastissimo soffitto per il salone di palazzo Pisani a San
Vidal raffigurante l’Aurora con le ninfe dell’Aria (ora a
— VENEZIA ’700: IMMAGINAZIONE / OSSERVAZIONE — 23
Biltmore House, Asheville, North Carolina) è impregnato
di spirito rococò, specie per la leggerezza della
pennellata e l’ariosità della composizione: poche
figure nella vastità del cielo.
Se una volta si guardava a Roma, ora è la volta
di Parigi. “Cela se pouroit faire à Paris” si leggeva in
un articolo del giornale “La Galleria di Minerva” del
1708 a proposito dell’arredamento di casa Manin in
occasione di sponsali: ci si soffermava, in particolare,
su una stanza rivestita di “un finissimo damasco
tutto lavorato a fiori naturali in campo bianco”.
Vaghezza, leggiadria. “Di dentro ogni cosa ride”,
annotava Lorenzo Magalotti nel Diario di Francia
dell’anno 1668 a proposito degli interni della reggia
di Versailles.
Dopo Louis Dorigny, ecco giungere a Venezia un
altro pittore francese, Jean Raoux, per decorare con tele
le pareti del portego di palazzo Giustinian Lolin. Siamo
fra il 1707 e il 1709, ed è ancora il trionfo della mitologia,
con ascendenze seicentesche nell’impaginazione delle
scene, presentate come finti quadri e provviste di esuberanti
incorniciature che arieggiano l’arazzo francese,
con drappeggi, cascate e festoni di frutta: Paride rapisce
Elena, quindi Bacco e Arianna, il Giudizio di Paride e il
Parnaso nelle tele maggiori, più altri quattro episodi, fra
cui Amore e Psiche, nelle minori (fig. 2).
Il “gran gusto”, dunque, continua a imporsi, e
basti richiamare lo scalone di ca’ Sagredo interamente
affrescato da Pietro Longhi con La caduta dei
Giganti, risolta come una grandiosa macchina scenografica
di forte coinvolgimento emotivo, o la
fastosa decorazione del salone di palazzo Labia trasformato
da Giambattista Tiepolo nella reggia di
Cleopatra (fig. 3). Proprio là, comunque, si dia pure
uno sguardo alla statua affrescata fra i portali del
salone. È Minerva: una divinità che, per essere stata
posta in quella posizione, dà il tono all’assieme ed
è l’ultima immagine offerta al visitatore che sta per
lasciare quell’ambiente (fig. 4).
Dunque, tutta quella magnificenza è, per
così dire, una magnificenza virtuosa. Da una parte
trionfa una poetica della fantasia e dell’immaginazione;
al contempo si viene affermando una poetica
dell’osservazione che coinvolge lo stesso Tiepolo nei
sorprendenti disegni di caricatura e nelle riprese di
scorci paesistici. E pure nell’affresco stesso. In villa
Contarini Pisani alla Mira l’artista inscena un episodio
avvenuto due secoli prima con un’attenzione alla
verosimiglianza dell’insieme che sorprende: ovunque
personaggi in abito cinquecentesco che assistono al
Ricevimento di Enrico III di Francia in villa Contarini.
Solo la figura della Fama rinvia all’immaginazione,
mentre tutto il resto è legato a una vicenda precisa. E,
a mirare il sovrano francese, ci sono lo stesso autore
dell’opera e il figlio Giandomenico. Dunque, si guarda
anche dall’interno la rappresentazione inscenata.
FIG. 2
JEAN RAOUX
Bacco e Arianna.
Venezia, palazzo Giustinian
Lolin
FIG. 3
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Lo sbarco di Cleopatra.
Venezia, palazzo Labia
FIG. 4
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Minerva.
Venezia, palazzo Labia
Esemplare, la Sala di musica dell’Ospedaletto
affrescata nel 1776 da Jacopo Guarana assieme
al quadraturista Agostino Mengozzi Colonna. È un
ambiente dedicato a concerti e, sulla parete di fondo,
ci si presenta un Parnaso piuttosto insolito, con
Apollo che dirige un’orchestra formata dalle stesse
giovani del conservatorio che si sono prestate a interpretare
le Muse per quella recita (fig. 5). Tra gli ideali
spettatori, a osservare quanto sta avvenendo, coppie
di Figure femminili a finestre schermate da grate, prospettate
sulle pareti: inserti di genere che vengono
a completare il complesso sotto il segno dell’osservazione
(fig. 6). Va da sé che nel soffitto sia dispiegata
l’usuale rappresentazione fitta di allegorie, dove
domina la personificazione della Musica, con l’usignolo
sul capo.
Figure affacciate: un mondo per Venezia, in
mille variazioni. Lo scalone le richiama, si potrebbe
dire. In ca’ Bollani a Sant’Aponal Francesco
Fontebasso echeggia l’invenzione tiepolesca di Mira
con una miriade di personaggi e musicisti che si sporgono
dalla balaustra. Il culmine in palazzo Grassi,
dove il dispiegamento di personaggi si fa atlantico,
coinvolgente al massimo (fig. 7). Ce ne siamo assuefatti,
ma al momento dello scoprimento dell’affresco
– e siamo verso il 1770 – dovevano esserci occhi
sgranati nel vedere aggirarsi tutt’intorno in costume
contemporaneo quei ‘doppi’ di se stessi – di un patriziato,
tra l’altro, che viveva di glorie passate.
Lo “stile naturale”, per usare la definizione
che Goethe riferirà agli affreschi di Giandomenico
Tiepolo con scene di vita contemporanea nella foresteria
di villa Valmarana a Vicenza, contende il campo
allo “stile sublime”. Anche i “prospettici” partecipano
al clima del razionalismo, con punte di sorprendente
originalità nella serie di tele dipinte da Antonio
Visentini per il portego del secondo piano nobile di
palazzo Contarini a Santa Maria Zobenigo (cat. V.25).
Sfilano le immagini della vita quotidiana: episodi di
una “dolcezza di vivere” intimamente legata all’ancien
régime, già entrati nel mito nel momento stesso in cui
venivano rappresentati.
Si doppia la metà del secolo e si può scrivere:
“abbellire la vera natura, non altro”. È Gaspare Gozzi
nell’“Osservatore Veneto” del 14 febbraio 1761. Così,
Carlo Goldoni: “sopra del meraviglioso la vince nel
cuore dell’uomo il semplice e il naturale”. Una sorta
di credo estetico. “Mondo” e “Teatro” – parole dello
stesso Goldoni nella Prefazione alla prima raccolta
delle commedie –, i “due gran libri” da cui trarre
spunto: come a dire Osservazione e Immaginazione,
insieme, i fondamenti per creare opere d’arte.
L’Atelier del pittore di Pietro Longhi (cat.
V.46), in cui si trasferisce nella dimensione dell’esperienza
contemporanea l’antico tema di Apelle
che ritrae Campaspe alla presenza di Alessandro, è
emblematico dell’attenzione verso la realtà quotidiana,
pur se riproposta in chiave di garbata commedia.
Ci si svela il microcosmo degli ovattati
interni domestici, dove la donna ha ruolo di protagonista;
ed è una donna che non solo asseconda
o promuove il gioco della seduzione, ma che rivela
anche ambizioni intellettuali: ne è manifesto La
lezione di Geografia che si ammira alla Fondazione
Querini Stampalia, oppure l’altra, analoga, ambientata
in casa Barbarigo, con il ritratto del cardinale
Gregorio alla parete (Padova, Musei Civici) (fig. 10).
Per quanto concerne la riflessione sull’arte, un
ruolo cruciale va riconosciuto a un intellettuale come
Francesco Algarotti, sostenitore di un classicismo
temperato dall’eleganza e dalla fantasia, responsabile
della divulgazione delle teorie newtoniane sulla luce
e sui colori, che offrivano un fondamento scientifico
alla ricerca, da parte dei pittori, di una luminosità cristallina,
al tempo stesso fisica e mentale. “Pittore universale,
di fecondissima immaginazione” è, per lui,
Giambattista Tiepolo: una definizione icastica, perfetta
per un artista dai mille volti, imprendibile anche
per un occhio critico smaliziato.
Il secolo trova il suo momento di maggior
innovazione creativa negli anni Quaranta.
Giambattista Piazzetta, celebrato autore di opere
sacre, dipinge tele monumentali di tutt’altro carattere:
dal cosiddetto Idillio sulla spiaggia di Colonia, all’Indovina
delle Gallerie dell’Accademia, alla Pastorale di
Chicago (catt. IV.9-10). E i disegni: nudi sostanziati di
verità, intrisi di ombre – esemplare il Nudo virile di
Oxford –, con significative prove anche dal modello
femminile – la Nuda già Alverà (cat. III.11) –, quindi
le teste di carattere, un “campionario di tipi umani,
quasi un ‘ritratto immaginario’ del popolo veneziano
[...] in certo senso complementare a quello che,
24 — CANALETTO & VENEZIA — — VENEZIA ’700: IMMAGINAZIONE / OSSERVAZIONE — 25
FIG. 5
FIG. 8
JACOPO GUARANA,
AGOSTINO MENGOZZI
COLONNA
Apollo direttore d’orchestra,
particolare. Venezia, chiesa
di Santa Maria dei Derelitti
(Ospedaletto)
FRANCESCO FONTEBASSO,
QUADRATURISTA DEL XVIII
SECOLO
Personaggi affacciati a
una balaustra e figurazioni
allegoriche.
Venezia, palazzo Bernardi
FIG. 6
FIG. 9
per i piacere dei ‘foresti’ Canaletto dipingeva della sua
città” [1] . A esiti così originali poteva condurre la comune
ricerca del “naturale”.
Teste di carattere: osservazione e immaginazione
si compenetrano. “Leggiadrissime teste fatte a capriccio”,
oppure “teste [...] prese dal naturale ornate poi a capriccio”,
“tanto vere [...] che sembrano vive”, “che non può l’occhio
qua giù in terra veder cosa più vaga, e dilettevole!”, scrive
Francesco Maria Tassi [2] . Anche il grande Tiepolo si esercitò
in tale ambito. Con capolavori: la Giovane con pappagallo
di Oxford, o la Dama con mandolino di Detroit.
Siamo nella categoria soggettiva del gusto, e il
filone conosce una fortuna ininterrotta, anche nella
scultura, e pure fuori d’Italia. Lorenzo Tiepolo, il figlio
minore di Giambattista, ne farà il suo cavallo di battaglia
a Madrid nella tecnica del pastello. Fantasia sì, ma anche
realismo: ne trarrà profitto anche il giovane Goya (fig. 11).
L’interesse per il costume contemporaneo alimenta
anche la visione di Giandomenico Tiepolo. Il
confronto tra il modelletto del padre Giambattista
per il soffitto della villa dei Pisani a Stra (cat. V.31) e
il pressoché contemporaneo Consilium in Arena di
Giandomenico (Udine, Musei Civici; fig. 12) evidenzia lo
scarto tra un’arte celebrativa al suo apice, sorretta da una
concezione “sublime” dello stile, e un’arte documentaristica
e descrittiva, estranea alla tradizione dell’elogio.
Il salone di Stra: nel momento di prendere congedo
da Venezia nel marzo 1762 per recarsi a Madrid,
Tiepolo riconvoca tutte le figure del suo mondo
immaginifico: la Fama, le Virtù e i Vizi, i Continenti, l’Italia,
le Arti, quindi, in mezzo, i figli del procuratore di
San Marco Almorò III Pisani e Paolina Gambara. Sono
Almorò I Alvise, in azzurro, in grembo all’allegoria di
Venezia, quindi la sorella Elena, il fratello Almorò II
Carlo e l’altra sorella Elisabetta. Più in basso, in abito
di color rosa, il cugino Almorò, figlio di Alvise II detto
Andrea e di Marina Sagredo, artista in erba, accompagnato
da una delle Grazie. Trionfo dell’immaginazione
che non conosce confini e, al contempo, apoteosi dei
Pisani. Ma non nei personaggi del passato, bensì negli
esponenti giovanissimi che, come gli avi, si copriranno
di gloria al servizio della Serenissima, qui protagonista.
Anche qui Tiepolo viene dunque a sorprenderci.
Ma si dia un’occhiata, nel medesimo affresco, pure alla
coppia di giovani colta in un momento di svago sotto
un pino marittimo in un angolo dell’immensa composizione:
quasi uno scampolo da Déjeuner sur l’herbe (figg.
13, 14). Brani di “verità” nell’immaginazione.
La stessa famiglia di Giambattista Tiepolo – la
consorte Cecilia Guardi, il figlio Giuseppe Maria religioso
somasco, le tre figlie femmine – è stata oggetto di raffigurazione.
La vediamo nel dipinto generalmente riferito
all’ancor giovane Lorenzo Tiepolo [3] , anteriore alla partenza
per Madrid (1762), dove accompagnò il padre e il
fratello maggiore Giandomenico. Quasi un motivo firma,
la mano guantata di bianco della madre con il ventaglio,
così simile nella Dama con il tricorno della National
Gallery di Washington, opera riconosciuta di Lorenzo [4] .
JACOPO GUARANA
Coppia di personaggi femminili
a una finestra schermata da
grata.
Venezia, chiesa di Santa Maria
dei Derelitti (Ospedaletto)
(fotografia d’epoca)
FIG. 7
MICHELANGELO MORLAITER
Scena di ricevimento,
particolare.
Venezia, palazzo Grassi
1 _ A. Mariuz, Il Settecento. La
pittura, in Storia di Venezia. Temi.
L’arte, a cura di R. Pallucchini, I,
Roma 1995, p. 312.
2 _ F. M. Tassi, Vite de’ pittori,
scultori, architetti bergamaschi
scritte dal conte cavalier Francesco
Maria Tassi. Opera postuma,
Bergamo 1793.
3 _ R. Pallucchini, La pittura
nel Veneto. Il Settecento, II, Milano
1995, p. 199.
4 _ A. Mariuz, Tiepolo 1998,
“Arte Veneta”, 54, 1999, p. 89.
PIETRO VISCONTI (?)
Composizione.
Stra, villa Pisani
Ha tutto il fascino dell’opera incompiuta, dell’abbozzo
con parti già rifinite e altre no, anche elementi di
mobilia. Soprattutto, a caratterizzarlo, quel fondo a grandi
chiazze pressoché uniformi, che ci cattura perché viene a
conferire alla scena un singolare carattere di iperrealtà. Un
unicum nel panorama settecentesco: una rara scena di conversazione
moderna, che si può accostare al coevo Ritratto
della famiglia del procuratore Alvise Pisani di Alessandro
Longhi (Venezia, Gallerie dell’Accademia), ma senza riferimenti
allegorici, e con la presenza del pittore stesso, che si
raffigura mentre sta abbozzando con il pastello – il mezzo
pittorico preferito da Lorenzo – un ritratto, con lo sguardo
rivolto verso un personaggio che doveva campeggiare sulla
destra, evocato da quei primi tocchi di colore.
Consilium in Arena: illustrare un fatto contemporaneo,
con una data precisa (settembre 1748) e un luogo
determinato, la Sala del consiglio nel palazzo del Gran
Maestro dell’Ordine a Malta. Persino la foggia degli abiti
era prescritta, così come l’ora del giorno: di prima mattina.
La circostanza è la discussione della richiesta della
nobiltà udinese di poter accedere all’Ordine di Malta.
Siamo sulla scia di un dipinto come l’Assemblea dei
vescovi dissidenti in Sorbona contro la bolla “Unigenitus”
di Nicolas Vleughels conservato a Versailles, inciso da
Nicolas Edenlinck. Lo sguardo si sposta dall’alto verso il
basso. È la realtà a portata di sguardo.
Tutto un mondo viene a spalancarsi: anzitutto
nel campo della veduta, lungo tutto il secolo. Dopo
Carlevarijs, Canaletto mette in evidenza il complesso
organismo urbano di Venezia, le sue mille sfaccettature,
rivelate da un occhio d’aquila e aggregate anche ricorrendo
a “pittoresche licenze”, come aveva ben compreso
Anton Maria Zanetti (1771). Tanto da scrivere che la sua è
spesso pure una “Venezia immaginaria”, strutturata con
deformazioni prospettiche, tagli di luce/ombra calcolati,
dilatazioni spaziali, al fine di dar vita a vedute che talvolta
sconfinano nella visione. Si potrebbe dire allora, in certo
senso, che si compenetrano i due poli del nostro discorso.
Il Bacino di San Marco con San Giorgio Maggiore
(cat. IV.04) è come fosse ripreso da una mongolfiera, e
nulla sfugge allo sguardo del pittore: ogni dettaglio è
funzionale alla resa di quell’immenso panorama tenuto
sotto controllo da un’intelligenza visiva senza confronti.
Nessuno aveva dato di Venezia e del suo centro politico
e commerciale una tale glorificazione.
La componente illuministica, intesa come attenzione
al “vero” che si risolve in immagine mentale, non
si limita tuttavia a ritrarre il più fedelmente possibile la
città, ma talvolta addirittura la riprogetta, configurando
una Venezia ‘possibile’, altrettanto veridica.
Sempre Canaletto. È il caso della Veduta immaginaria
di Rialto (Parma, Galleria Nazionale), con il progetto non
realizzato di Palladio per il ponte e i contigui edifici costruiti
dall’architetto, inteso a connotare in senso classicistico
il cuore di Venezia (fig. 15). O, ancora, della Veduta della
Piazzetta con i Cavalli della basilica di San Marco (Windsor
Castle, Royal Collections), con i bronzi antichi: issati su alti
piedistalli in modo da esaltarne il valore di autonome opere
d’arte, anticipando la sistemazione suggerita da Antonio
Canova quando tornavano a Venezia nel 1815 quei capolavori
dall’esilio di Parigi. Ne risultano “capricci”, cioè liberi
assemblaggi di edifici e monumenti diversi, alla cui messa
in forma concorrono l’osservazione attenta e la libertà della
fantasia, così come il culto dell’Antico.
Capricci. Tutto il secolo ne è pervaso. Combinare
realtà e fantasia, a eccitare lo sguardo andando oltre i
confini dell’una e dell’altra. Una didascalia posta in calce
a un’incisione di Giambattista Brustolon ricavata da
un’invenzione di Canaletto con vari edifici, veneziani e
non, ci porta all’essenza del fenomeno: “L’antico, ed il
26 — CANALETTO & VENEZIA — — VENEZIA ’700: IMMAGINAZIONE / OSSERVAZIONE — 27
moderno, il rozzo, e il vago / Il capriccio qui insieme
lega e raccoglie: / Dell’umano cervello sembra un mago
/ Di mille idee fecondo, e opposte voglie”.
L’affermazione della poetica del Rococò favorisce le
libere espressioni in cui fantasia e spunti dal vero si compenetrano,
e l’ornato è il campo sconfinato in cui potersi
sbizzarrire. Andrea Urbani è protagonista, e non si contano
gli affreschi, soprattutto in villa, in cui la sua creatività senza
fine travalica le regole fino a dar vita a una corrente di gusto.
Pure il quadraturista lombardo Pietro Visconti
ha avuto un ruolo importante. Sua opera maggiore,
gli affreschi in villa Pisani a Stra, dove anche ambienti
estranei all’appartamento da parata sono stati oggetto
di attenzione, magari solo decorando le sopraporte,
allietate con inserti pittorici. Si presenta qui una animatissima
cornice in puro stile rocaille anche nel colore,
rosa, che racchiude un cespo di fiori e frutta (fig. 9). Vi
si appressa in volo una farfalla: effimero, fragile insetto,
per antonomasia rappresentativo dello stile rococò, grazie
alla sua leggerezza e anche al suo colorato volo zigzagante.
Sarà sufficiente richiamare le dodici incisioni
dell’Essay de papilloneries humaines di Charles-Germain
de Saint-Hubin, nel suo genere capolavoro inarrivabile.
Torniamo nel campo del vedutismo, spostandoci
nell’atelier di Francesco Guardi. L’alterazione del
sistema prospettico assume ora una sterzata tale da far
giudicare a Pietro Edwards le vedute guardesche “scorrette
quanto mai”. Siamo nell’ambito del “capriccio”
applicato alla veduta – e sono termini antitetici – così
da vanificarne l’essenza, rivendicando il primato del linguaggio
sul soggetto.
Una metamorfosi mai prima vista: al punto che
la città e la laguna ne escono trasfigurate, tanto che si
è potuto parlare di “stati d’animo”. Venezia, appunto,
“capriccio” di se stessa, proiettata in una dimensione
sfiorata dal sentimento dell’effimero, sino a risolvere il
finito nell’indefinito. Ma spetta proprio a Guardi documentare
con precisione i soggiorni di Pio VI come dei
Conti del Nord, o illustrare fatti di cronaca, come l’Incendio
a San Marcuola, oppure l’Ascensione della mongolfiera:
spettacolo offerto inconsapevolmente è la folla stessa,
mossa dalla curiosità, ripresa di spalle come i tanti personaggi
del Consilium in Arena, e la ritroveremo accalcarsi
nella scena del Mondo Novo a guardare attraverso il foro
praticato nel casotto che tanto attirava il mondo dell’infanzia.
L’evento cui assisteva lo stupefatto pubblico veneziano
è il trionfo della scienza e dell’ardimento umano: ed
è la definitiva laicizzazione del cielo, su cui gli uomini avevano
proiettato per secoli i loro miti. Una gondola nell’aria:
Venezia non si lascia sfuggire anche l’occasione di un
nuovo, mai visto prima, “divertimento” (fig. 19).
A fine secolo, caduta la Serenissima Repubblica,
ben altre situazioni saranno documentate all’acquatinta
da Francesco Gallimberti: i Pozzi e i Piombi del Palazzo
Ducale, cioè le prigioni di Stato circondate da un’aura tragica
che perdurerà nel mito “negativo” ottocentesco di
Venezia, da Byron in poi. Sì, osservazione, ma caricata di
melodramma (cat. VII. 30).
Le nuove esigenze razionalistiche di semplicità e
verità che si affermano nella seconda metà del secolo
influiscono su tutti i generi pittorici, compreso il ritratto.
È soprattutto il figlio di Pietro Longhi, Alessandro, che
se ne fa interprete. Mentre per Rosalba Carriera avevano
posato i protagonisti del bel mondo internazionale, egli
ritrae gli esponenti “progressisti” della cultura veneziana
– da Lodoli a Goldoni –, medici, scienziati, ma anche
semplici professionisti, preoccupandosi di cogliere,
assieme alle peculiarità fisionomiche, l’impronta di un
carattere, la dignità di uomini che si erano fatti da soli
(cat. V.49). Il teschio che compare nel Ritratto del medico
FIG. 10
PIETRO LONGHI
Lezione di geografia.
Padova, Musei Civici
FIG. 11
LORENZO TIEPOLO
Popolani.
Madrid, Palacio Real
FIG. 12
GIANDOMENICO TIEPOLO
Consilium in Arena.
Udine, Musei Civici
FIG. 13
GIAMBATTISTA TIEPOLO
L’Apoteosi della famiglia
Pisani, particolare.
Stra, villa Pisani
FIG. 14
GIAMBATTISTA TIEPOLO
L’Apoteosi della famiglia
Pisani, particolare.
Stra, villa Pisani
5 _ “Cosa che ha fatto stupire
tutta la città, a riuscire con
tanta grazia d’un tal impegno,
di far con il marmo apparire un
velo trasparente, oltre la figura
tuttavia graziosa, bene vestita e
ben disegnata”: lettera di Antonio
Balestra al cavalier Francesco
Gabburri, 25 dicembre 1717, in
G.G. Bottari, S. Ticozzi, Raccolta
di lettere sulla pittura, scultura ed
architettura. Scritte da’ più celebri
personaggi dei secoli XV, XVI e
XVII e XVIII, II, Milano 1822,
p. 125.
Gian Pietro Pellegrini si può assumere quale emblema di
questo scrupolo di verità.
Verità che tocca pure il mondo dell’incisione.
Dopo ritratti, vedute, paesaggi, riproduzioni di dipinti
di genere, ecco le teste di carattere piazzettesche; ma,
di più, le invenzioni di Gaetano Zompini riversate in Le
Arti che vanno per via.
Anche la scultura partecipa attivamente alle esigenze
che via via percorrono il secolo. Protagonista,
inizialmente, Antonio Corradini. Ecco farsi strada eleganze
nuove sia nelle attitudini sia nello svolgimento dei
panneggi, che si fanno aderenti, flessuosi, al fine di esaltare,
in particolare, il fascino della bellezza muliebre. Di
“grazia” parla Antonio Balestra a proposito di una Fede
velata del grande maestro ammirata in casa Manfrin [5] :
termine che evocava, da Correggio in poi, una predilezione
del gusto destinata a imporsi come mai prima in
un secolo che l’ha idolatrata, a partire da quelle sculture
in sedicesimo che sono le porcellane.
Nel periodo aureo della scultura veneziana settecentesca,
gli anni Quaranta, si viene affermando al più alto
grado una eccezionale varietà di maniere, analogamente a
quanto avveniva nella pittura. Accanto ad altre correnti di
gusto – il Rococò di Morlaiter e il classicismo di Antonio
Gai e Giovanni Marchiori –, con Antonio Bonazza s’impone
una sensibilità schiettamente legata al naturalismo,
che raccoglie pure l’eredità di tante sperimentazioni legate
al grottesco e alla tematica di genere di cui erano stati protagonisti
il padre Giovanni e Orazio Marinali.
Le statue del giardino di villa Widmann a Bagnoli
di Sopra possono competere con quanto di meglio si
andava facendo in Europa. È tutta una galleria di tipi,
figure di carattere, che viene a punteggiare gli spazi del
giardino all’italiana, secondo un reticolo geometrico che
genera dialoghi ravvicinati. Veniamo a incontrare persino
una Mora incinta: sorprendente davvero, premessa per
la figura femminile che assiste al Pasto dei contadini di
Giandomenico Tiepolo alla Valmarana (figg. 17, 18).
Anche nella decorazione in stucco le carte si
mescolano. Così troviamo i ghirigori dell’ornato francesizzante,
alla Berain, assieme a riprese dal mondo della
natura. Esempi: la stanza dell’“oseliera” di ca’ Sagredo
o un ambiente di palazzo Barbarigo a Santa Maria del
Giglio, con inserti d’animali di un’attrattiva inconsueta,
favorita anche dall’uso del colore (fig. 16).
Il gusto di matrice tardobarocca prolunga i suoi
tentacoli dell’immaginazione fino alla seconda metà del
secolo, e il governo della Serenissima non poteva fare altrimenti
affidando l’incarico della nuova decorazione del soffitto
della Sala dei banchetti di Palazzo Ducale. Siamo nel
1768. Tiepolo è ancora a Madrid al servizio del re di Spagna:
viene scelto allora Jacopo Guarana. Il soggetto è scontato:
un’ennesima, e forse ultima, Apoteosi di Venezia fra gruppi
di Virtù. Quindi, ancora una volta il manuale dell’Iconologia
di Cesare Ripa viene a porsi come un vademecum indispensabile,
e tale affresco si può considerare il sigillo posto
su un’età gloriosa al suo tramonto.
Si è fatto cenno all’Ascensione della mongolfiera
di Francesco Guardi: un fatto di cronaca, e alla ripresa di
spalle delle figure che assistono all’insolito evento. Dunque,
l’occhio dell’artista si sposta dalla platea alle quinte. Il messaggio
viene recepito dal nipote, Giandomenico Tiepolo.
28 — CANALETTO & VENEZIA — — VENEZIA ’700: IMMAGINAZIONE / OSSERVAZIONE — 29
6 _ A. Mariuz, I disegni di
Pulcinella di Giandomenico
Tiepolo, “Arte Veneta”, XLII, 1986,
pp. 265-273.
Pulcinella è un nostro simile, e tra nostri simili si aggira.
Ed è proprio grazie al velo della maschera che riusciamo
a sorridere di noi stessi, a rappresentarci, fin nelle situazioni
tragiche: Pulcinella fucilato e Pulcinella impiccato.
D’obbligo chiudere con un brano celebre:
Larve di un mondo rimosso, i Pulcinelli, nel loro
vero aspetto, sono ‘invisibili’ nella realtà, tranne
che per gli occhi del pittore. Giandomenico, l’artista-buffone
che celebra il rito propiziatorio del
carnevale alla fine di un’epoca, li ha evocati sulla
scena della vita, a riflettervi il comportamento
dell’uomo comune, di ogni uomo: con nessun altro
scopo, sembra, che quello di rivelare, a chiunque
sappia vederli, che tutta la vita, dal principio alla
fine, è una comica assurdità. Non sarà forse questo
il famigerato segreto di Pulcinella? [6]
Nelle sue opere tarde – i disegni con Scene di vita contemporanea
del 1791 e gli affreschi della propria villa di campagna
a Zianigo eseguiti nell’ultimo decennio del secolo
–, Giandomenico registra il comportamento risibile dei
suoi simili con una vena di amara ironia, volgendo l’osservazione
in critica. Tutta la sua carriera artistica si era svolta,
negli aspetti più originali, sotto il segno dell’“osservazione”,
nelle celebri rappresentazioni di eventi legati alla vita quotidiana,
ma ora, alla fine del secolo, il timbro cambia: si fa
più aggressivo (catt. VII.22-24).
Gli affreschi, strappati dai muri della villa per avidità
dell’antiquario di turno, ormai da più di un secolo, si
conservano nel Museo di Ca’ Rezzonico e siamo invitati
ad ammirarli là – nessun brano è presente in mostra –:
sarà un incontro memorabile per chi li vedrà per la
prima volta. Emozioni fortissime attendono il visitatore,
e ancor oggi ci è purtroppo preclusa la possibilità
di conoscere quale molla sia scattata nella mente del pittore
per indurlo a tali rappresentazioni da “commedia
sociale”. Immaginazione e Osservazione si sono ormai
dissociate: le opere sacre e profane di Giandomenico
nell’affresco sono come dei relitti spiaggiati.
Scena maggiore, il Mondo Novo, cioè il casotto
con le immagini dell’America mostrate per lo più ai
bambini, che è come uno spaccato di vita in anticipo
di centocinquant’anni sul cinema del Neorealismo. Ma
sono anche le dimensioni a sconvolgerci: tutte figure a
grandezza naturale. I nostri ‘doppi’, la gente.
Di fronte, due riprese della vita in villa, con quel
Terzetto in passeggiata che adombra la situazione familiare
dell’artista: un matrimonio praticamente fallito e
il nipote che viveva in casa, il quale sposò, con dispensa
papale, la moglie dell’artista subito dopo la morte di
Giandomenico.
C’è poi la stanza di Pulcinella, e il personaggio
va a occupare persino il soffitto, abitualmente riservato
ad apparizioni di divinità e allegorie. È il momento della
caduta della Serenissima Repubblica: proprio il 1797, e
l’artista sceglie di evadere nella dimensione del grottesco.
La maschera di Pulcinella diventa un popolo, visualizzando
attraverso il recupero della Commedia dell’Arte
l’ansia d’evasione e l’inquietudine che permeavano
soprattutto i ceti subalterni. Opere che fanno dell’artista
un genio universale, al pari del padre: ben superiore
a tanti “colleghi” di quell’epoca attestati sulla linea della
“modernità”. Ma qual è la vera modernità?
Non è finita. C’è anche una realtà sistematicamente
trasposta nella maschera. Nel momento stesso in cui la
Serenissima soccombe all’invasore francese, la fantasia di
Giandomenico dà vita a una delle creazioni più originali
di ogni tempo, il Divertimento per li regazzi: centoquattro
disegni che ci narrano vita, morte e miracoli di Pulcinella,
purtroppo dispersi ai quattro venti dopo l’asta del 1920.
Esposti l’anno dopo a Parigi, nientemeno che al Musée
des Arts-Décoratifs, dall’antiquario Richard Owen, furono
immediatamente dispersi. Si fosse compreso il valore straordinario
di quell’insieme, forse sarebbero stati comprati
dal Louvre. Ancora una volta, riconoscere un bene può “salvarlo”.
In Italia non è rimasto nessuno di quei fogli.
In mostra abbiamo la serie meravigliosa appartenuta
a Sir Brinsley Ford: occasione unica per ammirare
una parte consistente di quel capolavoro (catt.VII.08-19).
FIG. 15
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
Capriccio palladiano.
Parma, Pinacoteca Nazionale
FIG. 16
ABBONDIO STAZIO,
CARPOFORO MAZZETTI
Decorazione della
“stanza dell’oseliera”,
particolare.
Venezia, Ca’ Sagredo
FIG. 17
ANTONIO BONAZZA
Mora incinta.
Bagnoli di Sopra,
villa Widmann
FIG. 18
GIANDOMENICO TIEPOLO
Pasto dei contadini.
Vicenza, villa Valmarana ai Nani
FIG. 19
FRANCESCO GUARDI
Ascensione della mongolfiera.
Berlino, Gemäldegalerie -
Staatliche Museen - Staatliche
Museen zu Berlin
30 — CANALETTO & VENEZIA — — VENEZIA ’700: IMMAGINAZIONE / OSSERVAZIONE — 31
IL PRIMO
SETTECENTO
ALBERTO
CRAIEVICH
FIG. 1
SEBASTIANO RICCI
Venere e Adone, particolare.
Orléans, Musée des
Beaux-Arts
1 _ Sull’argomento si rimanda
agli ormai classici: M. Levey,
Painting in Eighteenth Century
Venice, London 1959 (III
edizione riveduta, Yale 1994,
edizione italiana Milano 1996);
F. Haskell, Patrons and Painters.
A Study in the Relations Between
Italian Art and Society in the
Age of the Baroque, London
1963 (edizione italiana Firenze
1966); A. Mariuz, Il Settecento.
La pittura (I), in Storia di
Venezia. Temi. L’Arte, a cura di
R. Pallucchini, II, Roma 1995,
pp. 251-383; R. Pallucchini, La
pittura nel Veneto. Il Settecento,
2 voll., Milano 1995.
IL PRIMO
SETTECENTO
UNA NUOVA
PITTURA
Nel primo decennio del
Settecento fiorisce a Venezia una stagione creativa di
straordinaria vitalità: il cambiamento è radicale e interessa
ogni forma artistica [1] .
Prima di allora il panorama pittorico in laguna
era dominato da figure cresciute con i maestri del
Barocco, eredi di quello che Marco Boschini chiamava
“manieron”, uno stile giocato fra irruenza d’esecuzione
e libertà compositiva.
Si tratta di una generazione di artisti nata
attorno agli anni cinquanta del Seicento: Nicolò
Bambini, Antonio Bellucci, Antonio Fumiani, Gregorio
Lazzarini, Giovanni Segala, Angelo Trevisani. Manca,
nel gruppo solo Antonio Molinari, scomparso nel 1704.
Essi, nella maturità, volgono lo sguardo verso la severità
del classicismo bolognese e l’eleganza del barocchetto
romano, creando, con diverse declinazioni, un linguaggio
artistico equilibrato, in cui composizioni ricche di
figure sono disposte con ordine all’interno di grandiosi
impianti architettonici. Il colore è steso in maniera
compatta e fluida; le anatomie e i panneggi sono definiti
con studiata attenzione. Il risultato è una sorta di accademismo
riscaldato dai tradizionali valori della scuola
veneziana; una pittura che potremmo definire ‘europea’,
agganciata agli esiti stilistici più moderni, sebbene priva
di caratteri di grande originalità. La sua fortuna, comunque,
si misura nel successo fuori dai limiti cittadini. Le
opere di questi artisti si ritrovano nelle gallerie dei collezionisti
più raffinati: Stefano Conti a Lucca, Raimondo
Buonaccorsi a Macerata, Lothar Franz von Schönborn,
l’elettore del Palatinato Johan Wilhelm von Pfalz-
Neuburg e, almeno in parte, Johann Adam Andreas von
Liechtenstein [2] .
Rispetto a questi nomi la principale novità è rappresentata
dalla presenza a Venezia fra il 1697 al 1718, di
un pittore veronese, Antonio Balestra che offre un’inflessione
particolarmente addolcita di questo gusto
accademico, devota alla grazia di Correggio. Nel frattempo
un pittore francese, Louis Dorigny, formatosi
presso Charles Le Brun, riporta in auge a Venezia la
tecnica dell’affresco. Entrambi, non a caso, giungono
in città reduci da un soggiorno a Roma presso l’Accademia
di San Luca. È un momento particolarmente
fertile. Tutti i pittori citati sono impegnati nella decorazione
dei palazzi del patriziato sulla scia di un rinnovato
fervore edilizio; dapprima con dipinti su tela, poi,
sempre più di frequente, con la tecnica dell’affresco
che progressivamente prende il sopravvento: in ogni
caso in coabitazione con rigogliose ornamentazioni in
stucco. È la committenza ecclesiastica tuttavia a recitare
la parte del leone: gli ordini religiosi e il clero secolare
fanno decorare le chiese con grandi cicli pittorici. Non
è tutto oro quello che luccica: nel 1713 una supplica del
Collegio dei Pittori destinata a chiedere l’esenzione
della tassa sulla ‘milizia da mar’ recita: “l’essercitio della
pittura con sé medesimo porta che vedendo il pittore
che nella propria patria non trova l’opere corrispondenti
al suo talento, procura negl’esteri paesi procurar le lor
sorti, come han fatto al presente il Beluzzi, il Rizzi, il
Cassana, il Pellegrini et altri nati in questa Serenissima
Dominante e questi si ponno nominar tra famosi e pur
hanno dovuto abbandonar la loro patria per fini sudetti
e continuano in estere regioni il loro soggiorno” [3] .
Prende così piede, per necessità, la nuova vocazione
internazionale della pittura veneziana.
— UNA NUOVA PITTURA — 35
L’accelerazione verso una forma artistica completamente
diversa, in grado di rompere ogni legame
sia con il rigore del classicismo sia con la teatralità del
Barocco, avviene per opera di un artista ormai maturo:
Sebastiano Ricci [4] . Con lui la pittura veneziana degli
inizi del secolo non è più a traino ma diventa essa stesso
modello. È una figura onnivora ed eclettica. Se a ogni
sommo pittore veneziano riconosciamo una cifra stilistica
che lo identifica in modo puntuale, Ricci, invece,
costruisce la grandezza del suo linguaggio nella manipolazione
di maniere altrui che fonde insieme attraverso
una tecnica prodigiosa. Nella sua pittura, infatti, l’elemento
esecutivo acquista un valore fondante.
Alcune notizie sulla sua vita tratteggiano
una personalità spregiudicata, impulsiva: un epicureo.
Nato nel 1659 a Belluno, si trasferisce nella
Dominante a dodici anni, ma trascorre gran parte
della sua prima attività lontano da Venezia. Nel
1681, infatti, si allontana dalla città dopo aver tentato
di avvelenare Antonia Venanzio, la ragazza che
avrebbe dovuto sposare e che aspettava un figlio da
lui. Mentre è in fuga un’altra fanciulla dà alla luce un
bambino, Zuanne Giacomo, la cui paternità dichiarata
è “figliolo naturale di Sebastiano Ricci pittor”.
Nella sua “latitanza” proseguiranno rocambolesche
fughe d’amore e conseguenti guai con la giustizia dai
quali esce sempre con l’aiuto di protettori importanti.
Farà ritorno a Venezia solo quindici anni dopo [5] .
Nel frattempo viaggia lungo la Penisola, al servizio di
mecenati prestigiosi e, soprattutto, studiando in presa
diretta i capolavori del passato. Dopo la fuga ripara in
Emilia: Bologna, Parma, San Secondo. Qui ha la possibilità
di avvicinarsi all’arte di Correggio e al classicismo
emiliano del Seicento che approfondirà a Roma
davanti gli affreschi di Annibale Carracci a palazzo
Farnese, dove risiede presso i suoi protettori. Le tappe
di questo viaggio di formazione gli consentono, inoltre,
di riflettere sui grandi maestri del passato e di
aggiornarsi sulle novità principali del Barocco: Luca
Giordano, il Baciccio, Pietro da Cortona. Tuttavia, le
sue prime opere, per quanto tradiscano un talento
innegabile, ci appaiono ancora eseguite nel solco della
tradizione seicentesca. L’esempio emiliano rimane
preponderante nella gestualità enfatica dei personaggi
e nel lucido e coerente impaginato compositivo, mentre
l’esecuzione e, soprattutto, il risentito chiaroscuro
tradiscono i ricordi della pittura veneziana della sua
giovinezza. Un amalgama non riuscito che non produce
uno stile proprio. La straordinaria cultura visiva
accumulata in anni di peregrinazioni non è elaborata
e messa a frutto; come se mancasse l’ingrediente decisivo
o, più semplicemente, come se l’artista non avesse
ancora individuato la direzione da prendere.
Dopo il ritorno a Venezia nel 1696 questo corpo
a corpo con la pittura altrui decanta e produce i primi
frutti. Sul crinale del secolo licenzia, infatti, alcune opere
che lo rivelano pittore di primo piano. Si tratta, ad esempio,
delle tele da soffitto per la chiesa di San Marziale
a Venezia e dell’affresco sulla volta della cappella del
Santissimo Sacramento nella chiesa di Santa Giustina a
Padova. In entrambi i casi, nella stesura del colore, è scoperto
l’omaggio a Paolo Veronese che Ricci reinterpreta
in forma barocca. È questa componente il lievito che trasforma
ciò che fino ad allora risultava incompiuto.
Soprattutto nell’affresco di Santa Giustina si
misura il salto di qualità dell’artista anche in veste di
decoratore. Se paragoniamo le soluzioni adottate in
questo caso con il soffitto compiuto a Roma per palazzo
Colonna notiamo che egli “ha scoperto una nuova
forma di dipingere: il vuoto. Esso nasce dalla giustezza
dei rapporti fra le figure, separate e sospese, ma reciprocamente
attratte. La potenza della luce è tale da desaturare
tutti i colori delle forme che raggiunge” [6] .
Dal punto di vista tecnico questi risultati sono
significativi, d’avanguardia; ma si tratta ancora di una
rivoluzione incompiuta. Rispetto a Pietro da Cortona
o Luca Giordano rivela valori luminosi inediti e una
qualità esecutiva assai più effervescente ma lo svolgimento
tematico è ancora saldamente barocco. Ne sono
testimonianza opere profane che esemplificano questo
stallo stilistico come il Ratto delle Sabine per palazzo
Barbaro a Venezia e, soprattutto, le due tele dedicate
allo stesso episodio storico in collezione Liechtenstein,
eseguite durante il soggiorno viennese fra il 1703-04.
Si tratta di omaggi fedeli a Pietro da Cortona che se pur
ci offrono un superbo preludio delle capacità decorative
del pittore, coagulano le esperienze figurative del
Seicento nella loro grave e virile magniloquenza.
La svolta arriva poco dopo, di nuovo lontano
da casa. Questa volta siamo a Firenze dove, fra il 1705
e il 1707, prima nella decorazione di palazzo Maruccelli,
e poi nell’appartamento estivo del Gran Principe
2 _ F. Zava Boccazzi, Episodi
di pittura veneziana a Vienna
nel Settecento, in Venezia
Vienna, a cura di G. Romanelli,
Milano 1983, pp. 25-88, Milano
1983; Ead., Residenze e gallerie.
Committenza tedesca di pittura
veneziana nel Settecento, in
Venezia e la Germania. Arte,
politica, commercio, due civiltà
a confronto, Milano 1986, pp.
171-2016; Ead., I veneti nella
galleria Conti di Lucca (1704
– 1707), “Saggi e Memorie di
Storia dell’Arte”, 17, 1990, pp.
107-152; B. Aikema, Molinari
& Co.: riflessioni sul momento
internazionale della pittura
veneziana fra Sei e Settecento,
“Arte Veneta”, 63, 2006, pp.
203-207.
3 _ E. Favaro, L’arte dei
pittori in Venezia e i suoi statuti,
Firenze 1975, p. 225.
4 _ J. Daniels, Sebastiano
Ricci, Hove 1976, p. 137; A.
Scarpa, Sebastiano Ricci, Milano
2006.
5 _ L. Moretti, Documenti
e appunti su Sebastiano Ricci,
“Saggi e memorie di storia
dell’arte”, 11, 1978, pp. 97-125;
F. Montecuccoli Degli Erri,
Sebastiano Ricci e la sua
famiglia. Nuove pagine di vita
privata, “Atti dell’Istituto
Veneto di Scienze, Lettere ed
Arti”, CLIII, 1994-1995, pp.
105-114.
6 _ D. Ton, Padova, in La
pittura nel Veneto. Il Settecento
di Terraferma, a cura di G.
Pavanello, Milano 2011, p. 17.
7 _ Mariuz 1995, p. 254.
8 _ M. Levey, The Later
Italian Pictures in the Collection
of Her Majesty the Queen, II
edizione, Cambridge 1991, pp.
148-149.
9 _ Cfr. F.J.B. Watson,
Wallace Collection Catalogues:
Furniture, London 1956, p. xxvi.
10 _ V. Da Canal, Della
maniera del dipingere
moderno... [1735], a cura di G.
Moschini, “Mercurio filosofico
e letterario e poetico”, marzo
1810, p. 17.
11 _ A.M. Zanetti, Della
pittura veneziana e delle opere
pubbliche de’ veneziani maestri
libri V, Venezia 1771, p. 396.
Ferdinando de’ Medici a palazzo Pitti, egli si libera di
ogni residuo di educazione barocca. Il luogo dove ciò
avviene è evocativo: la città in cui Pietro da Cortona e
Luca Giordano hanno lasciato, nella piena maturità, il
momento più alto della loro realizzazione artistica (le
Sale dei Pianeti a palazzo Pitti e la Galleria di palazzo
Medici-Riccardi).
Operando sulla base di una cultura visiva così
vasta e profondamente assimilata, Ricci metterà
a fuoco sulla pittura dei maestri cinquecenteschi
– Correggio, Annibale Carracci, i “classici
veneziani”, fra i quali soprattutto Veronese – la
lezione emozionante dei protagonisti della grande
decorazione barocca, così da decantarla della sua
magniloquenza, di tutti gli “eccessi” connaturati
alle funzioni encomiastiche e propagandistiche
quell’arte era stata chiamata ad assolvere. Egli
viene attuando in tal modo, nella concretezza del
suo fare pittorico, una vera e propria operazione
critica, attraverso al quale recupera alle ragioni del
moderno “buon gusto” la pittura barocca, facendone
emergere al contempo la matrice cinquecentesca,
in particolare la matrice veneziana. Ricci,
in sostanza, rivendica a Venezia, alla sua scuola
coloristica, il merito di essere all’origine di tutta la
più vitale pittura moderna. Per tale intento riformatore,
la sua visione artistica appare in sintonia
con quanto propugnava, in quegli stessi anni, il
movimento culturale e letterario dell’Arcadia: una
rilettura degli antichi, come avvio a una poesia
rinnovata che, in relazione al “meraviglioso”, allo
“stravagante”, allo “smisurato barocco”, attuasse
un accordo di grazie e naturalezza. Non c’è dubbio
che egli avrebbe potuto sottoscrivere, anzi assumere
come enunciato della sua estetica, la seguente
definizione di un protagonista della cultura arcadica:
“Per bello noi comunemente intendiamo
quello, che veduto, o ascoltato, o inteso, ci diletta,
ci piace e ci rapisce, cagionando dentro di noi dolce
sensazione, e amore”. [7]
Proprio negli affreschi per il Gran Principe, Ricci
elabora uno stile dove sono riassunti tutti gli elementi
tipici della futura scuola veneziana del Settecento: una
pittura emozionale che prevede velocità di esecuzione,
improvvisazione e primato del colore sul disegno.
Inoltre dal punto di vista tematico affronta il soggetto
assegnato, il Commiato di Venere da Adone, in modo
assolutamente inedito. Con un geniale colpo di fantasia
trasporta il tema ovidiano fra le nubi, lo astrae dal
suo contesto orginario e fissa per primo il cielo come
orizzonte della pittura monumentale veneziana del
Settecento (cat. II.02).
Questo nuovo svolgimento narrativo, leggero e
audace, investito da una calda e fragrante sensualità si
palesa in un’altra opera simbolo: la Continenza di Scipione
delle collezioni reali inglesi (cat. II.01) [8] . Si tratta di un
tema tratto da Tito Livio, particolarmente amato per
tutto il Seicento, e impiegato per esemplificare la magnanimità
del principe. Ricci lo trasforma, ne depotenzia
ogni valore morale grazie ai sontuosi e brillanti passaggi
coloristici e al modo, leggero, antieroico con cui risolve
il soggetto. La figura femminile ormai incarna pienamente
quell’ideale di fragilità che ha ben poco da condividere
con le orgogliose e risolute figure femminili raffigurate
fino a poco tempo prima. Scipione, soprattutto,
si presenta come un improbabile adolescente languidamente
abbandonato sul suo seggio. Il quadro risponde in
maniera puntuale a quell’appello alla giovinezza rivolto
da Luigi XIV al suo architetto Mansart nel 1699: “il me
paroit qu’il y a quelque chose à changer quel es subjects
sont trop serieux qu’il faut qu’il y ait de la jeunesse mêlee
dans ce que l’on ferai. Vous m’apportez des dessins quand
vous viendrez, ou du moins pensées. Il faut de l’enfance
repandue partout” [9] .
È Vincenzo da Canal a fissare con precisione
questo passaggio nell’arte di Sebastiano Ricci: a lui
spetta il merito di “aveva voluto sostituire in pittura la
grazia alla forza” [10] . Secondo Anton Maria Zanetti il
giovane, il grande critico del Settecento veneziano, si
tratta di “un dolce sogno, un incanto puramente del
senso” [11] , da paragonare a un vaso di fiori freschi o a un
cesto di frutta matura.
Sarà in Inghilterra, dove si trasferisce fra il 1711 e
la primavera del 1716, nella speranza di ottenere l’incarico
per affrescare la cupola della cattedrale di San Paolo,
che Ricci ottiene i suoi successi maggiori. Non sarà l’unico.
Il regno di Anna Stuart e poi di Giorgio I, rappresentano,
infatti, una felice congiuntura storica per tutti
gli interpreti del rococò veneziano, i quali, nell’atmosfera
relativamente libera degli ambienti dell’aristocrazia
36 — IL PRIMO SETTECENTO —
— UNA NUOVA PITTURA — 37
Whig – che proprio in quegli stava costruendo le proprie
sontuose dimore – possono liberare, pienamente
incoraggiati, il loro estro creativo.
Ritornato a Venezia, esibisce con sfrontatezza
un nuovo status sociale, figlio, oltre che del suo straordinario
talento, anche di una non comune capacità
imprenditoriale. Si permette di chiedere compensi
impensabili per la maggior parte dei suoi colleghi, soddisfando,
senza preoccupazioni, la propria personale
passione per il mondo dello spettacolo, imbarcandosi
in iniziative di dubbia fortuna come quella d’impresario
teatrale. Acquista, a caro prezzo, uno splendido appartamento
alle Procuratie Vecchie in piazza San Marco.
Prima di lui solo Pietro Liberi aveva osato di più, facendosi
costruire un intero palazzo sul Canal Grande. Negli
anni della vecchiaia accentua con virtuosismo sempre
maggiore le proprie doti esecutive. Si lega in modo
stretto a un gruppo di raffinati conoscitori come Anton
Maria Zanetti il vecchio e Joseph Smith, futuro console
inglese a Venezia. Sono collezionisti originali e al contempo
mercanti d’arte; estranei all’ambiente tradizionale
dell’aristocrazia veneziana. Il loro gusto è votato ai
valori pittorici, e prediligono la produzione dei grandi
figuristi nel suo aspetto privato e creativo: bozzetti e
disegni preparatori. Sotto questo aspetto Ricci era il
loro artista ideale.
Ritroviamo la sua estrema dichiarazione poetica
nella lettera che egli indirizza, settantenne, al conte
Giacomo Tassis il 14 novembre 1731. L’argomento è il
compenso per il bozzetto per la pala bergamasca delle
Anime purganti di cui il nobile è stato intermediario.
Le parole di Ricci, valgono più di ogni ulteriore commento:
“Ma sappia V. S. Illustriss. che vi è differenza
da un bozzetto, che porta il nome di modello, a quello
che le perverrà. Perché questo non è modello solo, ma
è quadro terminato, e le giuro che io farei un quadro
grande d’altare simile a quello che io ho fatto piuttosto
che far questo piccolo, che ella chiama col nome di
modello. Sappia di più, che questo piccolo è l’originale
e la tavola d’altare è la copia”, aggiungendo in chiusura
“Se fosse fatto com’è il solito costume dei bozzetti non
avrei cercato alcuna ricompensa. Ma torno a dirle che
sarebbe stato per me il più agevole farlo in grande” [12] .
Per alcuni aspetti sovrapponibile è la biografia
Antonio Pellegrini: vi ritroviamo lo stesso, infaticabile,
itinerario europeo, con molte tappe comuni, ad
accendere una rivalità che durerà per tutta la vita [13] .
Più giovane di Sebastiano Ricci (nasce a Venezia nel
1675), si forma con l’artista forse più eccentrico ed
eterodosso presente a Venezia alla fine del secolo:
il lombardo Paolo Pagani. Giovanissimo, lo accompagna
fra il 1692 e il 1695 in Moravia, dove lavora
presso il principe vescovo di Olomuc, Karl II von
Liechtenstein-Kastelkorn e poi a Cracovia. Dopo
questa esperienza, mentre il maestro fa ritorno nella
natia Valsolda, Pellegrini si reca a Roma. Nell’Urbe è
la pittura di Giovan Battista Gaulli e del Baciccio, a
lasciargli un segno profondo. Gli inusuali risultati di
questa stravagante associazione che vede il sulfureo
stile di Pagani mescolarsi con la scintillante interpretazione
del barocco romano di Gaulli, si palesano
nelle opere compiute da Pellegrini a Venezia a partire
dal 1698 [14] . Si tratta, spesso, di composizioni impetuose,
irrituali nello svolgimento anticlassico della narrazione:
le figure sono poste in audaci controluce e i
panneggi si accendono di curiose incandescenze cromatiche.
Lo ritroviamo spesso attivo per le famiglie
della ’nuova’ nobiltà o semplici “cittadini”: gli Albrizzi di
Sant’Aponal; i Vezzi, che di lì a poco avrebbero avviato la
loro fabbrica di porcellane; soprattutto i Giovanelli nella
villa di Noventa e gli Alessandri in quella di Mira [15] .
Le fonti, a queste date lo ignorano, segno di un successo
che tarda ad arrivare. L’unica opera pubblica di peso è
la grande tela con il Serpente di bronzo per la chiesa di
San Moisè, portata a termine tra il 1707 e il 1708. Deve,
quindi, aver accettato senza troppi rimpianti l’invito
di Charles Montagu, futuro duca di Manchester (per il
quale Luca Carlevarijs aveva realizzato il celebre Ingresso
solenne oggi al Museum and Art Gallery di Birmingham),
a recarsi in Inghilterra, assieme a Marco Ricci. Si tratta
dell’occasione della vita.
In Inghilterra, il Pellegrini, quasi come farfalla
smagliante lasciò cadere gli ultimi frammenti
della dura crisalide seicentesca che aveva fino ad
allora impedito le sue già audaci creazioni. In una
serie di mitologie, “historie”, capricci e ritratti,
venne nascendo uno stile nuovo: senza peso, sensuale,
qualche volta goffo e melodrammatico, ma
quasi sempre libero da tensione. Piume color di
rosa, volteggiano sullo sfondo di un cielo azzurro
striato di pennacchi di nuvole bianche; la luce
12 _ Sebastiano Ricci, Il
trionfo dell’invenzione nel
Settecento veneziano, catalogo
della mostra (Venezia,
Fondazione Giorgio Cini) a cura
di G. Pavanello, Venezia 2010;
Sebastiano Ricci 1659-1734, Atti
del Convegno Internazionale di
Studi (Venezia, Fondazione
Giorgio Cini, 14-15 dicembre
2009) a cura di G. Pavanello,
Verona 2012.
13 _ G. Knox, Antonio
Pellegrini 1675-1741, Oxford
1995; Antonio Pellegrini, il
maestro veneto del Rococò alle
corti d’Europa, catalogo della
mostra (Padova, Palazzo della
Ragione) a cura di A. Bettagno,
Venezia 1998.
14 _ Antonio Pellegrini nella
chiesa veneziana delle Eremite,
“Arte Veneta”, 60, 2003, pp.
205-210.
15 _ D. Ton, in Gli affreschi
nelle ville venete. Il Settecento, I,
a cura di G. Pavanello, Venezia
2010, cat. 100.
16 _ Haskell 1963 (ed. 1966),
pp. 426-427.
17 _ Zanetti 1771, pp. 445-
446.
18 _ A. Scarpa Sonino, Jacopo
Amigoni, Soncino 1994.
mette scintille su una delicata armatura, trecce
d’oro si sciolgono disordinate su invitanti nudità;
musicanti fantasiosamente abbigliati in costumi
di seta si appoggiano ad una balaustrata e alludono
scherzosamente al Veronese, senza il severo
impegno di Sebastiano Ricci o più tardi, di Tiepolo
(che a quest’epoca era appena agli inizi). Nuove e
sottili combinazioni di colori (toni di malva, verdi,
rossi ed argento trasparenti) si aggiungono alla
notevole freschezza della maniera di Pellegrini. [16]
Dopo aver esordito con una pittura fortemente
espressiva, egli alleggerisce il colore e le forme in evanescenti
composizioni aeree dove le figure fluttuano
lievi, senza regole e schemi. La sua capacità d’improvvisazione,
che sfrutta anche in questo caso una straordinaria
padronanza e rapidità, trova confronto solo nei
grandi musicisti del suo tempo. Pellegrini trasporta così
la libertà e la freschezza esecutiva del bozzetto su una
scala monumentale e decorativa. È una pittura seducente,
destinata ad appagare lo sguardo, in sintonia con
quanto avviene in Francia durante la Reggenza, che va
incontro al gusto di raffinati intenditori ma non sempre
trova l’approvazione dei colleghi o dei critici: Anton
Maria Zanetti il giovane avrebbe scritto: “Poteano dire
i critici a sua voglia, che li di lui opere non aveano fondati
studii di pittoresche dottrine, che per essere troppo
prestamente dipinte non sarebbero arrivate a durare un
mezzo secolo; tutto era un nulla” [17] .
Il primo soggiorno inglese di Pellegrini dura
cinque anni e lo vede attivo nelle principali residenze
di campagna. Forse a questo periodo spetta il delizioso
bozzetto del museo di Ravenna (cat. II.04) con la
Clemenza di Alessandro, un soggetto raffigurato in molte
occasioni durante la giovinezza, ma che qui diventa di
secondo piano rispetto al partito decorativo che lo
incornicia, che segue, anche nella balaustra, un sincopato
andamento rococò. Lo stesso gusto anima anche il
disegno dell’École des Beaux-Arts di Parigi, destinato a
una decorazione d’interni (cat. II.19).
Dopo aver rotto il sodalizio con Marco Ricci (che
nel frattempo aveva invitato a Londra lo zio Sebastiano),
nell’estate del 1713, assieme alla moglie, si reca presso l’elettore
del Palatinato Johan Wilhelm von Pfalz-Neuburg
a Düsseldorf, dove, oltre a trovare un grande mecenate
dei pittori veneziani, entra in contatto con una delle corti
europee più innovative e cosmopolite. In pochi anni realizza
un incredibile numero di opere che incontrano l’approvazione
del committente. È la moglie di Pellegrini,
Angela Carriera, a lasciarci, in una lettera alla sorella
Rosalba, un fulmineo quanto azzeccato commento sulla
coeva produzione del marito: “Toni fa quadri di Paradiso”;
come se la sua pittura leggera, schiarita su innaturali tinte
pastello, fosse in grado di evocare le delizie dell’Aldilà.
Fra questi dipinti possiamo annoverare senz’altro lo stupendo
San Sebastiano curato dalle pie donne, dove la
sfarfallante condotta esecutiva dell’artista si fa ancora più
preziosa e suggestiva nell’inedita ambientazione serale
della scena (cat. II.03). Soggiornerà a Düsseldorf fino alla
morte del principe elettore, nel 1716. Negli anni successivi
attraversa l’Europa senza sosta: i Paesi Bassi, di nuovo
l’Inghilterra, poi in più occasioni Parigi, Vienna e le corti
tedesche (Dresda, Würzburg, Mannheim).
Rientra a Venezia solo a pochi anni dalla morte
(1738), neanche in tempo per godersi il successo e il
meritato riposo. Anche su Pellegrini, come per Ricci,
abbiamo molte informazioni di prima mano, in questo
caso grazie all’epistolario di Rosalba Carriera. Ne
emerge una personalità gaudente, gioviale – come si
ricava anche dai pingui e sorridenti autoritratti che ci ha
lasciato – che certo non rivela l’inaspettato collezionista
di dipinti. Alla sua morte, furono venduti dalla vedova al
console Smith e da qui confluirono nelle collezioni reali
inglesi. Fra questi, testimonianza di una sensibilità straordinaria,
La lezione di musica di Vermeer.
Sebastiano Ricci e ancor meno Pellegrini, operarono
a Venezia solo durante intervalli della loro carriera,
spesa in gran parte all’estero. Analoga sorte tocco
a Jacopo Amigoni [18] . È l’artista di questo gruppo su cui
abbiamo meno informazioni in merito alla prima giovinezza.
Non è nota nemmeno la data di nascita, compresa,
stando a fonti successive, fra il 1675 e il 1685.
La sua prima opera databile, la pala d’altare con i santi
Andrea e Caterina della chiesa veneziana di San Stae, eseguita
prima del 1715 (non un’opera tanto precoce, quindi)
parla il linguaggio composto di Gregorio Lazzarini,
oppure di un minore come Giambattista Mariotti. La via
della modernità scelta da Amigoni non è quindi quella
elaborata dai suoi colleghi ma l’alternativa, a queste date,
“perdente”, ossia il languido e levigato formalismo di
Antonio Balestra, al quale si ispira. Su questa base egli
innesta, con sorprendente efficacia una pittura sgranata,
38 — IL PRIMO SETTECENTO —
— UNA NUOVA PITTURA — 39
vaporosa, come se un velo di cipria sfumasse la definizione
delle cose. È un’arte improntata sulla ’grazia’, che
declina l’ideale classico della bellezza in una forma più
delicata e malinconica, senza, tuttavia, tracimare nel
lezioso. Non è casuale che questa sua ingentilita interpretazione
della classicità sia stata spesso messa a paragone
con la pittura francese coeva di cui non assume,
tuttavia, l’accentuato valore erotico, carnale.
È un modo di dipingere che poco si presta
alla narrazione epica di historie, per quanto durante
la sua attività al servizio di Massimiliano II Emanuele
di Baviera, fra il 1717 e il 1726, a Schleissheim e
Nymphenburg non gli siano mancate opportunità in
tal senso. Ma, in questo caso, la narrazione, troppo
caricata sul tono patetico, non appare convincente.
Il campo di Amigoni è la favola di Ovidio, l’incontro
fra amanti appassionati (cat. II.05). Lo comprese assai
bene Francesco Algarotti che lo scelse fra i veneziani
cui commissionare un’opera per la Galleria Reale di
Dresda. Qualificandone le doti – e in parte limiti –
gli assegnò, unico del gruppo, una mitologia:
Anzia e Abrocome. Un incontro galante, dove si esprime
“la potenza e la vendetta, insieme, dell’amore” [19] .
In Baviera oltre a lavorare direttamente per
il principe elettore fu a servizio presso l’abbazia di
Ottobeuren che decorò in più occasioni fino al 1728,
il suo capolavoro nella tecnica dell’affresco: “la storia e
l’allegoria sacra subiscono la metamorfosi in trasognata
favola d’Arcadia […] vi traspare la nostalgia di uno stato
originario di semplicità e d’innocenza, di un mondo
soffuso di color dell’aurora” [20] . Già l’anno successivo è
ricordato a Londra. Tuttavia, rispetto al clima favorevole
incontrato da Ricci e Pellegrini vent’anni prima, i tempi
erano assai cambiati per i pittori di storia stranieri, su
cui pesava la rivalità, non tanto nascosta, degli artisti
inglesi. Con intelligenza, in mancanza di grandi commissioni,
Amigoni decide di puntare sulla ritrattistica.
In questo campo, il suo particolare stile conferisce ai
personaggi raffigurati un aspetto informale e rilassato
che non rinunciava al decoro, senza però risultare troppo
aulico e pomposo. Si tratta di un compromesso che
incontra subito il gradimento del pubblico e che segna
la fortuna di Amigoni in questo genere. Negli stessi anni
intraprende un’altra iniziativa di successo: l’apertura di
una società con l’incisore Joseph Wagner che lo seguirà
a Venezia nel 1739 e al quale è legata la divulgazione
delle sue composizioni [21] . Amigoni, tuttavia, riparte di
nuovo, questa volta verso Spagna, nel 1747, dov’è chiamato
a corte forse grazie all’aiuto di Farinelli, il celebre
cantante con cui era legato da lunga amicizia. Sarà la sua
ultima tappa terrena. Morirà a Madrid nel 1752.
Negli stessi anni in cui Ricci, Pellegrini e Amigoni
sviluppano, lontano dalla patria, una via alternativa alla
pittura di storia tradizionale, Luca Carlevarijs pone
le basi del vedutismo veneziano. Possiamo fissare per
questo avvenimento una data precisa: il 1703 quando
pubblica la raccolta di incisioni intitolata Le Fabbriche e
Vedute di Venezia disegnate, poste in prospettiva et intagliate
da Luca Carlevarijs. Si tratta di 103 tavole (104
nell’edizione finale) che raffigurano, secondo un criterio
tipologico, gli edifici più importanti della città [22] .
Era nato a Udine nel 1663, figlio di Giovanna e
Leonardo Carlevarijs (1614-69), artista locale dalla personalità
ancora sfocata e che fu, fra l’altro, autore di una
pianta prospettica di Udine oggi perduta che “sembra
preannunciare il destino figurativo del figlio” [23] . Giunge
a Venezia a sedici anni, assieme alla sorella Cassandra,
dopo essere rimasto orfano di entrambi i genitori.
Nonostante alcuni dati d’archivio consentano di
scandire con sufficiente regolarità le sue vicende biografiche
a partire dal matrimonio nel 1699 con Giovanna
Suchietti (dalla quale ebbe quattro figli, fra cui la pastellista
Marianna), non ci sono riferimenti certi sugli
esordi, avvenuti nel campo della pittura di paesaggio.
In città, fino ad allora, gli esperti riconosciuti in questo
campo erano soprattutto stranieri. Nel 1687, il pittore
Pieter Mulier, detto il Tempesta, scrive a proposito di
Venezia, dove si era trasferito da poco: “pittori di figure
cie ne assai, ma di paesi, marine e animaletti non ci è
o quelli che ci sono, sono di poco, dove non manca di
far, per Dei Grazia”. Proprio dal Tempesta e da un altro
forestiere presente in città, l’austriaco Johann Anton
Eismann, Carlevarijs mutua un collaudato repertorio
figurativo fatto di rovine antiche, monumenti moderni
che vengono assemblati in paesaggi fantastici, in cui
convivono marine e montagne e dove il cielo e le onde
sono sconvolti da venti tempestosi.
I suoi primi mecenati sono gli Zenobio, famiglia
di recente nobiltà con palazzo ai Carmini, vicino al quale
risiederà per tutta la vita, tanto da meritarsi l’appellativo
di “Luca di Ca’ Zenobio”.
Le sue prime opere documentate sono paesaggi
19 _ F. Algarotti, Opere,
Venezia, VIII, 1791-1794, p. 381.
20 _ Mariuz 1995, p. 304.
21 _ C. Lo Giudice, Joseph
Wagner. Maestro dell’incisione
nella Venezia del Settecento,
Sommacampagna 2018.
22 _ D. Succi, Luca
Carlevarijs, Gorizia 2015
23 _ Pallucchini 1995, I, p.
179.
24 _ Mariuz 1995, p. 284.
grandi dimensioni, conservati ancora nella loro ubicazione
originaria: due tele nella chiesa di San Pantalon a
Venezia raffiguranti Giuseppe venduto dai fratelli e Mosè
fa scaturire l’acqua dalla roccia e tre Paesaggi che decorano
proprio il portego di ca’ Zenobio. In base alla datazioni
correnti, sarebbero opera di un artista verso la quarantina
e lo individuano come il migliore specialista nel
campo della pittura di paesaggio allora attivo in città. In
esse si rileva la lezione dei foresti citati prima, ma è anche
percepibile lo stile del pittore che emerge nella struttura
semplificata delle composizioni – ben diverse da quelle
caotiche e incoerenti di Tempesta e Eismann – e nel
nuovo risalto conferito ai brani narrativi che prendono il
sopravvento sulla parte paesistica (quasi un’anticipazione
delle gustose e originali macchiette delle sue vedute). Si
avverte, inoltre, un’attenuazione del contrasto chiaroscurale
che sfuma su tinte più chiare e delicate.
Per quanto ormai affermato, Carlevarijs sarebbe
rimasto un pittore di secondo piano all’interno del
panorama artistico lagunare se non avesse impresso un
brusco cambiamento di rotta alla propria carriera proprio
con la pubblicazione della serie di incisioni dedicata
a Venezia. Le prime vedute sicuramente databili
sono invece quelle dipinte nella primavera-estate del
1706 per il mercante lucchese Stefano Conti.
Fu decisiva per questa giro di boa la conoscenza
dell’opera di Gaspar Van Wittel; il primo ad aver introdotto
in Italia,a Roma, l’utilizzo della camera ottica,
almeno a partire dal 1680. Il problema relativo al contatto
fra i due rimane ancora oggi aperto. Van Wittel fu
probabilmente a Venezia in occasione del suo secondo
viaggio nel nord Italia, attorno al 1694, quando eseguì
i disegni dai quali negli anni successivi avrebbe ricavato
vedute delle varie città italiane. Carlevarijs avrebbe
potuto incontrarlo in quell’occasione oppure aver visto
alcune sue opere presenti nelle collezioni veneziane.
Tuttavia, un’impresa laboriosa come la raccolta di incisioni
e il notevole divario tecnico che intercorre fra i
suoi primi paesaggi noti e le vedute eseguite per Stefano
Conti implicano una conoscenza piuttosto approfondita
tanto dei mezzi tecnici (la camera ottica), quanto
dei vari passaggi che portavano all’esecuzione di questo
genere di dipinti. Carlevarijs era versato nelle scienze
matematiche e nella prospettiva, ma un simile cambiamento
non si spiega solo con un fugace incontro
oppure con la visione di pochi quadri. Solo nell’Urbe,
dove, secondo alcune testimonianze letterarie si sarebbe
recato a inizio Settecento, avrebbe avuto una conoscenza
diretta e approfondita del nuovo modo di lavorare
e avrebbe toccato con mano il successo di questa
“novità” presso i viaggiatori del Grand Tour.
Carlevarijs non si limita solo a realizzare vedute
ideate come quelle compiute da Van Wittel. Sempre
a inizio secolo elabora un genere particolare, quello
della “veduta commemorativa” destinata a celebrare
avvenimenti particolarmente rappresentativi. La trasposizione
in pittura di questi eventi non è una novità
per Venezia, ma segue una tradizione che risale al
Rinascimento. Carlevarijs però mette in scena uno spettacolo
assolutamente nuovo, dove si riconosce una perizia
prospettica mai ritrovata in simili rappresentazioni.
Egli, per la prima volta, non si limita a registrare l’evento
ma amplia l’inquadratura fino a conferire alla città
il ruolo di protagonista: “A rendere solenne l’evento, a
farlo memorabile è il luogo stesso in cui si svolge, messo
in valore da un taglio vedutistico aperto e grandioso,
dinamizzato da un’inquadratura laterale. Combinando
la veridicità documentaristica con la spettacolarità di
un incomparabile scenario urbano Carlevarijs ha creato
una formula di sicuro successo” [24] . Ad oggi sono
stati riconosciuti cinque Ingressi solenni. Il primo, se
l’identificazione è corretta, sarebbe quello dell’ambasciatore
francese M. de Charmont avvenuto nel 1703,
cui sarebbero seguiti quelli di Henry-Charles Arnauld
de Pomponne (1706), Lord Manchester (1707), Jacques-
Vincent Languet de Gergy (1726) e il conte di Colloredo
(1726). Accanto alle entrate, diventato ormai quasi il
pittore “ufficiale” della Serenissima, immortala quelle
“solenni regate” che si svolgevano in onore dei sovrani
stranieri: come quella per il re di Danimarca del 1709
e la successiva per Federico Augusto principe elettore
di Sassonia nel 1716, dando vita a una tematica che nei
decenni a seguire avrebbe avuto grande presa presso
gli stranieri in visita a Venezia (egli stesso le replicherà
in più occasioni). La sequenza di questi dipinti ufficiali
consente inoltre di scandire con precisione il catalogo
di Carlevarijs, altrimenti quasi privo di date. Alla fine del
primo decennio del Settecento, con inaspettata rapidità,
il pittore ha ormai fissato un affidabile repertorio iconografico,
ristretto alla platea marciana e al bacino di San
Marco, ripresi invariabilmente attraverso inquadrature
stabilite, di formato standard (con rapporti 1:2 oppure
40 — IL PRIMO SETTECENTO —
— UNA NUOVA PITTURA — 41
2:3) replicate per il successivo ventennio in serie di due
o quattro dipinti (catt. II.12-13). Salvo rari casi, la parte
architettonica viene riproposta in modo immutabile,
sotto un’omogenea luce diafana che ha preso il posto
dei forti viraggi chiaroscurali delle sue prime vedute.
Tuttavia, anche nelle opere della maturità, egli continua
a mantenere la sua vena più autentica nelle straordinarie
macchiette che, anche nelle opere più stanche, descrivono
con gustosa vivacità l’esotica folla riunita sui moli
o nella Piazza. La ripetitività delle sue vedute e un certo
calo nella resa non agevolarono la tenuta commerciale
di Carlevarijs davanti all’inevitabile ascesa dell’astro di
Canaletto, tanto che Giannantonio Moschini riporta che
“dal dolore egli ne morisse”, nel 1730.
Si rimarrà sorpresi ma, di fatto, l’artista veneziano
più celebre in Europa nel Settecento fu una
donna: Rosalba Carriera [25] . Sulla sua eccellenza nei
ritratti si trovarono d’accordo tutti, dai Lord inglesi ai
principi dell’Impero. Fu forse l’unica a trovare consensi
unanimi tanto fra i sofisticati conoscitori del bel mondo
internazionale quanto fra la tradizionale e conservatrice
aristocrazia veneziana (catt. II.10-11).
Per quasi mezzo secolo le corti di tutto il continente
cercarono di accaparrarsi i suoi servigi; eppure,
nonostante i frequenti inviti e le generose proposte, preferì
rimanere a Venezia dove lavorò incessantemente per
tutta la vita, salvo tre brevi viaggi: presso il re di Francia,
il duca di Modena e l’Imperatore. Personalità schiva e
introversa è tuttavia l’artista del Settecento veneziano di
cui abbiamo più notizie sulla sua vita grazie ai diari e al
carteggio, oggi conservati alla Biblioteca Laurenziana di
Firenze (cod. Ashburnham 1781) [26] .
Nasce nel 1673. Secondo i primi biografi i suoi
maestri sarebbero stati il pittore Giuseppe Diamantini e
il ritrattista Giovanni Antonio Lazzari. È plausibile, tuttavia,
che il suo innato talento fiorisca in ambito familiare
grazie alla stretta amicizia, fin dalla giovinezza,
con addetti ai lavori di ben altro spessore: Anton Maria
Zanetti il vecchio, Antonio Balestra e Antonio Pellegrini.
Si specializza da subito, assieme alla sorella
Giovanna, nella miniatura su avorio, un genere tipicamente
femminile: è un’arte che si pratica al riparo delle
mura domestiche, sotto lo sguardo vigile dei familiari.
In questa campo rivela da subito capacità non comuni.
Già nel 1697 è ricordata come la miniaturista più abile
della città. Pochi anni dopo, nel 1705, ottiene il suo
primo grande successo professionale: l’ammissione
all’Accademia di San Luca a Roma, proprio in veste di
miniaturista. Dipingerà su avorio per tutta la vita, ma è
nell’uso del pastello che sarà destinata a diventare una
vera e proprio celebrità. È in Francia, durante il Seicento
che questa tecnica si afferma, soprattutto nei ritratti, ad
opera di artisti quali Charles Le Brun e Robert Nanteuil.
Agli inizi del secolo successivo viene tecnicamente perfezionata.
Steso su un supporto di carta o di cartone dal
colore grigio-azzurro, le peculiarità del pastello sono la
morbidezza, la rapidità di esecuzione e la possibilità di
sovrapporre più stesure di colore. Ciò consente la traduzione
perfetta di valore materici e in particolare dell’epidermide
umana, circostanza che lo fa divenire la tecnica
preferita nei ritratti. Proprio per queste caratteristiche
presenta però grossi problemi di fissaggio: la pellicola di
colore, assai friabile, si danneggia al minimo contatto.
Per tali ragioni già in antico era sempre protetto da un
cristallo. Nonostante la sua fioritura sia avvenuta in
Francia, è Rosalba a portare la tecnica al limite delle sue
possibilità, e allo stesso tempo conferirlei una struttura
più moderna e di grande effetto, condizionando anche
in seguito l’attività degli specialisti francesi.
Il suo primo pastello databile è il Ritratto
dell’amico della vita, Anton Maria Zanetti il vecchio,
realizzato quando l’effigiato aveva circa vent’anni,
attorno al 1700. Partendo da opere acerbe come questa,
ancora improntate sui modelli della miniatura,
Rosalba affina le proprie capacità, dando vita a ritratti
di straordinaria naturalezza, antitetici a quelli della
ritrattistica ufficiale. Si tratta spesso di immagini da
contemplare in privato, nella sfera degli affetti, che
non veicolano messaggi di rango o di status. Sono
ritratti ‘sentimentali’ che ancora oggi sorprendono
per la loro intima spontaneità.
Nell’aprile del 1720 Rosalba accoglie finalmente
l’invito del banchiere Pierre Crozat e, assieme
alla madre e alla sorella, parte alla volta di Parigi,
dove rimane fino a marzo dell’anno seguente. Il soggiorno
si rivela uno straordinario successo. In quasi
un anno di permanenza l’attività di Rosalba è frenetica:
dipinge settantasei pastelli e ventuno miniature.
Tutto il bel mondo e l’alta società parigina si mettono
in fila per farsi ritrarre dalla pittrice. Lo stesso
omaggio le viene tributato anche dall’ambiente artistico
contemporaneo: Rosalba viene infatti ammessa
25 _ B. Sani, Rosalba
Carriera, Torino 2007
26 _ B. Sani, Rosalba
Carriera. Lettere, diari,
frammenti, Firenze 1985.
27 _ Rosalba Carriera
"prima pittrice de l’Europa",
catalogo della mostra (Venezia,
Galleria di Palazzo Cini) a cura
di G. Pavanello, Venezia 2007;
Rosalba Carriera 1673-1757, Atti
del Convegno Internazionale
di Studi (Venezia, Fondazione
Giorgio Cini, 26-28 aprile 2007)
a cura di G. Pavanello, Verona
2009.
28 _ Levey 1959 (ed. 1996),
p. 174.
29 _ Mariuz 1995, p. 289.
30 _ A. Scarpa, Marco Ricci,
Milano 1991.
31 _ La vita come opera
d’arte. Anton Maria Zanetti
e le sue collezioni, catalogo
della mostra, (Venezia,
Ca’ Rezzonico, Museo del
Settecento veneziano), a cura
di A. Craievich, Crocetta del
Montello 2018.
all’Accademia Reale di Pittura e Scultura. Non c’è pittore
presente allora in città che non le faccia visita a
partire da Antoine Watteau di cui esegue il ritratto.
Oltre ai sovrani di tutta Europa – Augusto III
principe elettore e re di Polonia arrivò a possedere 157
pastelli della pittrice – si devono annoverare fra i più
grandi estimatori di Rosalba i viaggiatori inglesi che
soggiornavano a Venezia per il Grand Tour [27] .
Le prime relazioni della pittrice con la committenza
anglosassone si stabiliscono già a inizio Settecento,
quando dipinge per loro miniature e fondi di tabacchiere.
Saranno tuttavia i ritratti a pastello a segnalarsi
per l’estremo virtuosismo tecnico e la varietà di soluzioni.
Ad accentuare la suggestione di queste immagini
vale la pena ricordare che quasi tutti questi personaggi
visitarono l’Italia fra i diciotto e i vent’anni. Pochi di loro
vi avrebbero fatto ritorno. Il ritratto di Rosalba ricordava
quindi una splendida esperienza di gioventù. “Si direbbe
che il pastello intenda ricordare un’occasione particolare
oltre che una somiglianza: ci è facile immaginare il soggetto
(magari ritratto in bauta e zendal come nel disegno
preparatorio di Edward Walpole) che, in seguito, in un
clima più freddo, spiega che tipo di costume fosse quello
che indossava. La fragilità del pastello ispira di per sè
nostalgia, come osserva Nerval in Sylvie, dove due ritratti
a pastello del Settecento rievocano il bon vieux temps
della giovinezza e della felicità” [28] .
Rosalba fu una lavoratrice instancabile, fino
alla consunzione, tanto da diventare cieca. È lei stessa
a immortalare questo passaggio drammatico della sua
vita in uno straordinario autoritratto come musa della
Tragedia, oggi alle Gallerie dell’Accademia di Venezia: “Il
sorriso è svanito, lo sguardo, che di lì a poco si sarebbe
spento per la sopravvenuta cecità, evita quello dell’osservatore
per seguire un interno fantasma: nel trapasso
della luce e dell’ombra, Rosalba, giunta alla fine della sua
attività sembra aver scoperto e fatto proprio qualcosa
del segreto dei ritratti di Rembrandt” [29] .
Come si è visto per Carlevarijs, lungo tutto il
Seicento la pittura di paesaggio in città era stata appannaggio
dei forestieri. A inizio secolo, per la prima volta, è
un pittore locale, sebbene nato a Belluno, a prenderne le
redini, trasformandolo in qualcosa di specificatamente
veneziano: Marco Ricci [30] .
Nato nel 1676, è nipote di Sebastiano e nel
corso della sua carriera collaborerà spesso con lui nella
realizzazione di fondali paesaggistici per i suoi dipinti
di storia. È un artista poliedrico, innovativo, in grado
di toccare tutte le corde della creatività. A Venezia
rivoluziona, tanto nel modo di dipingere quanto
nella scelta tematica, il paesaggio barocco, direzionando
le proprie ricerche stilistiche verso il raggiungimento
di una nuova resa del dato naturale. Se per
Sebastiano il punto di riferimento all’interno della
tradizione del Rinascimento veneziano era stato
Paolo Veronese; per Marco il confronto d’obbligo è
rappresentato da Tiziano. Dopo una prima produzione
agganciata al tradizionale repertorio barocco
(burrasche di mare, assalti di banditi) carica le proprie
opere di una nuova qualità luminosa, ma senza
eccessi cromatici. Sono peculiarità che si ritrovano in
gruppo di dipinti databili attorno al 1706, realizzati
per il Gran Principe Ferdinando di Toscana e oggi
agli Uffizi, che ci consentono di misurare la cesura
fra le opere di Marco e quelle dei vari Tempesta ed
Eismann. Nel 1708, assieme a Pellegrini, parte per
l’Inghilterra, per lavorare, soprattutto, in veste di
scenografo al Queen’s Theatre di Haymarket. Non è
tuttavia questo l’esito più originale del suo viaggio.
Probabilmente già a Firenze egli aveva dipinto alcune
curiose tele dedicate al mondo dell’opera, oggi riunite
sotto il nome di Prove di canto, che stanno alla
base della moderna scena di conversazione. Tali soggetti,
tuttavia, compiuti per i committenti inglesi si
caricano di un inedito umore satirico, tale da evocare
il nome di Hogarth, cui sarebbero stati attribuiti
in seguito (catt. II.06-07). Marco non farà più
quadri come questi al suo ritorno a Venezia, chiaro
segno del loro legame con la committenza inglese;
tuttavia la sua vena satirica si esprimerà in seguito
attraverso vere e proprie caricature, compiute all’interno
di un milieu molto sofisticato: il console Smith
(ancora un inglese), Anton Maria Zanetti e i loro
amici [31] . Nel frattempo sperimenta, con successo,
nuove tecniche come la tempera su pelle di capretto
che gli permette di fissare con limpida resa ottica
la qualità atmosferica di ogni situazione ambientale
(cat. II.09). A partire dal 1723, ancora su suggerimento
di Anton Maria Zanetti, egli stesso incisore
provetto, si cimenta nella tecnica dell’acquaforte
con esiti altissimi. La serie esce nel 1730, l’anno
stesso della sua morte.
42 — IL PRIMO SETTECENTO —
— UNA NUOVA PITTURA — 43
GIORGIO
MARINI
FIG. 1
FILIPPO VASCONI?
Veduta della Piazzetta sul
Canale e delle Prigioni
pubbliche di S. Marco
di Venezia,
in Il Gran Teatro
di Venezia [...]
Il maggior motivo, per cui io ò intrapresa la non lieve
fatica di quest’operazione […] è stato il sommo desiderio
di rendere più facili alla notizia de Paesi stranieri
le Venete Magnificenze.
(Luca Carlevarijs al doge Alvise II Mocenigo,
27 maggio 1703)
Come un paesaggio urbano
IL PRIMO
SETTECENTO
L A V EDU TA
INCISA:
V EN EZ I A
MOLT I PL IC ATA
NELLE STAMPE
intrinsecamente mutevole, l’immagine di Venezia
moltiplicata dalla trasposizione incisoria è una realtà
difficile da inquadrare in pochi tratti, prendendo
forma in un panorama che non può essere che provvisorio,
sempre aperto a mille reciproci influssi tra gli
artisti che alimentarono quella ineguagliata fioritura
calcografica. Osservata dalla nostra prospettiva, la
straordinaria filiera produttiva, di diffusione e commercializzazione
delle stampe di veduta nella Venezia
del Settecento costituisce un fenomeno di cui fatichiamo
a valutare la reale portata per i destinatari di
allora, così come stentiamo a percepirne oggi tutta
la carica innovativa – e, di fatto, radicale – come
svolta decisiva nel definirsi dell’immaginario visivo
della città.
Forse più di ogni altro luogo, Venezia ha una
storia fittissima delle immagini di se stessa, che per
il Settecento furono veicolate in massima parte da
una fiorente produzione d’incisioni calcografiche,
organizzata secondo dinamiche preindustriali. Così,
in un caleidoscopio di punti di vista, si riducevano
le grandi tele dipinte per il collezionismo internazionale
al piccolo formato delle stampe, che a loro volta,
alla fine del secolo, sarebbero state rovesciate dalle
vues d’optique nelle meraviglie stereometriche proiettate
nei “mondi novi”, in un’operazione promozionale
che si rivolgeva a un pubblico – e a un mercato
– potenzialmente vastissimo. Nelle stampe la sintesi
grafica del bianco e nero sottolineava l’impianto scenico-prospettico
dei monumenti e dei luoghi salienti
della città ben più che nei dipinti – per molti versi
prossimi alla veduta reale – e fissava, paradossalmente,
il modo canonico di rappresentare quel fragile
tessuto urbano, mobile come le acque in cui si
riflettono i suoi edifici. Messo in sequenza secondo
ideali percorsi di visita, questo corpus d’immagini a
stampa venne costituendo dunque il più immediato
corrispettivo visuale delle guide per forestieri, e a formare
a poco a poco un “doppio” che si sostituiva alla
Venezia reale, al punto che era quest’ultima, alla fine,
a venire misurata e giudicata a partire da esso. E della
città rifletteva all’epoca – e tuttora, per noi, oggi –
l’inesausta capacità d’attrazione che la vedeva ancora,
nonostante il declino politico, tra le capitali turistiche
d’Europa.
Inevitabile premessa di tale ricchissima stagione
vedutistica fu la straordinaria produzione editoriale,
cartografica e calcografica, orchestrata dalla
fine del Seicento dal francescano Vincenzo Coronelli
(1650-1718), poligrafo enciclopedico, geografo e
cosmografo della Serenissima. Con la fondazione
dell’Accademia degli Argonauti, nel 1684, egli aveva
infatti promosso una rilettura topografica del territorio,
stimolando l’affermazione della ripresa prospettica
ben oltre l’ambito di applicazione meramente
scientifico, come emerge dal suo Teatro delle
città (1696-1697), compilazione confluita nell’Atlante
veneto, primo esempio di cartografia urbana improntata
a criteri assonometrico-vedutistici. Ma a inaugurare
emblematicamente il secolo d’oro del vedutismo
veneziano – e proprio sul versante incisorio – sarà
— LA VEDUTA INCISA: VENEZIA MOLTIPLICATA NELLE STAMPE — 45
soprattutto la raccolta delle oltre cento tavole delle
Fabriche, e vedute di Venetia disegnate, poste in prospettiva
et intagliate da Luca Carlevarijs (1663-1730),
pubblicate nel 1703 presso Giambattista Finazzi,
celebrazione insieme del singolare volto monumentale
della città e del governo della Serenissima.
Pur senza un’apparente formazione da incisore,
Carlevarijs riesce a fissarvi con chiarezza magistrale
la categoria della veduta veneziana a stampa, e
– nella valenza normativa delle sue riprese, governate
dal montaggio prospettico dei principali siti della
città secondo criteri scenografici – ne fa un modello
destinato a essere imitato a lungo, nella sequenza
gerarchica di un percorso ideale tra le tipologie degli
edifici. La preferenza è accordata alle vedute frontali
di architetture presentate secondo categorie tipologiche:
le chiese precedono le “scuole”, seguite dagli
edifici pubblici e dai palazzi privati. Ne risulta quindi
un compendio ragionato, ricomposto in un itinerario
narrativo, svincolato da una logica strettamente
topografica: le fabbriche del buon governo della
Repubblica, i luoghi delle istituzioni e della mercatura,
le architetture moderne dei cives che partecipano
alla gloria della città. Stimolato dagli esempi
degli incisori romani – probabilmente conosciuti in un
suo viaggio in riva al Tevere dei tardi anni Ottanta –
e in particolare dalle Vedute delle Fabriche che Giovan
Battista Falda aveva pubblicato nel 1665, parafrasandone
persino il titolo Carlevarijs ne riprende lo schema
compositivo e gli arrangiamenti spaziali, trasferendo a
Venezia quella stessa vocazione documentaria e didascalica
ispirata dai romanisti neerlandesi e dal vedutismo
analitico di Gaspar van Wittel. Per la serie si conosce
la maggior parte dei disegni preparatori, eloquenti
del suo metodo, debitore del ricorso alla camera ottica
per impostare con facilità l’impianto spaziale: l’artista
delinea prima l’ossatura delle vedute, che condensa in
un telaio geometrico essenziale, superandolo quindi
nella traduzione incisoria con la vivacità del segno
d’acquaforte e l’efficace scansione luministica.
La dedica della raccolta al doge regnante si
spinge a dichiararle non solo il prodotto della “fatica
della mano”, ma piuttosto dell’azione dell’intelletto,
con un’operazione di lettura e interpretazione del
reale. Esplicitandone programmaticamente gli intenti
divulgativi delle “venete magnificenze”, essa ci rivela
quanto la serie rivestisse già agli occhi del suo autore
un chiaro interesse promozionale per il mercato artistico,
come confermerà da subito una fitta sequenza
di riedizioni, derivazioni o evidenti plagi: da quelli
delle Singolarità veneziane del frate Coronelli (1708-
09) alle copie commissionate dell’editore olandese
Pieter van der Aa per il quinto tomo del Thesaurum
antiquitatum et historiarum Italiæ, pubblicato nel
1722. E ancora, le acqueforti di Carlevarijs servirono
da fonte diretta alle molte vedute incise da Francesco
Zucchi per il Teatro delle fabbriche più cospicue in prospettiva,
sì pubbliche, che private della città di Venezia,
a illustrazione della guida del Forestiere illuminato –
edita a più riprese da Giambattista Albrizzi a partire
dal 1740, ma fino agli inizi dell’Ottocento – e vennero
quindi reincise, intorno al 1750, nell’attivissima bottega
di Martin Engelbrecht ad Augusta.
Preparata da un’attenta campagna pubblicitaria,
che annunciava nell’aprile 1715, nel manifesto
d’invito alla sottoscrizione, come fossero sempre
più “universalmente desiderate le stampe delle principali
Vedute, e delle più celebri Pitture dell’inclita
città di Venezia”, vide la luce nel 1717 il Gran Teatro
di Venezia, ovvero raccolta delle principali vedute e pitture
che in essa si contengono, un’ulteriore silloge in
cui Domenico Lovisa, libraio e stampatore a Rialto,
aveva raccolto per conto di un’accademia patrizia
promossa dal Cancellier grande Giovambattista
Nicolosi una serie d’immagini della città, ancora
apertamente ispirate al precedente di Carlevarijs.
La loro relativa obiettività documentaria lascia piuttosto
il campo, come già suggeriva il titolo, alla suggestione
del panorama urbano nella sua valenza scenografica,
presentando gli spazi comuni cittadini
come palcoscenici, resi vitali da presenze operose,
intente alle attività quotidiane, che popolano piazze,
campi, calli. Ne risulta una lettura del volto della città
come teatro – appunto – di un tessuto sociale vitalissimo,
attento insieme alla celebrazione di se stesso
e a offrirne l’immagine più consona al “consumo” dei
visitatori stranieri.
Col procedere del secolo, la produzione di
vedute a stampa muoverà però rapidamente dal
prevalente carattere repertoriale delle tipologie dei
monumenti cittadini alla loro rappresentazione in
sequenze visive più ordinate e coerenti. La serie di
FIG. 2
LUCA CARLEVARIJS
Veduta della Piazza di San
Marco verso l’Horologio,
in Fabbriche, e vedute di
Venezia [...]
riprese veneziane che l’architetto, teorico e prospettico
Antonio Visentini (1688-1782) trasse da dipinti
di Canaletto è senza dubbio una delle interpretazioni
più felici del vedutismo obiettivo settecentesco
in laguna; un singolare episodio di committenza
che prese forma, non a caso, sotto l’abile regia del
mercante inglese – e poi console a Venezia – Joseph
Smith. La sua valenza promozionale rispetto alle piccole
tele che Canaletto andava dipingendo per il console
risulta evidente almeno nelle prime quattordici
tavole, pubblicate nel 1735 sotto il titolo Prospectus
Magni Canalis Venetiarum, che venivano in pratica a
costituire un vero e proprio “catalogo di vendita” dei
dipinti, disponibili presso lo Smith nel suo palazzo ai
Santi Apostoli. Sul piano espressivo, peraltro, il loro
indubbio elemento di novità risulta soprattutto l’originale
messa in sequenza delle tavole di Visentini
secondo una lettura urbana continua, lungo un percorso
coerente che dal fulcro di Rialto si divide per
raggiungere separatamente gli estremi opposti del
Canal Grande. Ampliata a trentotto tavole nell’edizione
del 1742 per Giambattista Pasquali, dal titolo
di Urbis Venetiarum Prospectus Celebriores, la raccolta
venne così a rappresentare non solamente una brillantissima
idea promozionale che – tramite la riduzione
al bianco e nero e al piccolo formato – consentiva
di raggiungere un più vasto, crescente mercato,
ma pure un’ideale successione visiva dei luoghi più
caratteristici della città dallo straordinario fascino
panoramico, rendendola un ricercato souvenir per un
46 — IL PRIMO SETTECENTO — — LA VEDUTA INCISA: VENEZIA MOLTIPLICATA NELLE STAMPE — 47
FIG. 3
MICHELE MARIESCHI
Veduta dell’Arsenale,
in Magnificentiores
Selectioresque Urbis
Venetiarum Prospectus
FIG. 4
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
Le Porte del Dolo,
in VEDUTE Altre prese da
i Luoghi altre ideate da
ANTONIO CANAL [...]
pittorico l’esasperata apertura prospettica e la dilatazione
grandangolare conferiscono alle riprese urbane
una dimensione quasi irreale, che rasenta il capriccio.
Nelle sue espressioni più felici, tale produzione
si pone come un’ideale compromesso tra le riprese
urbane di apparente perfezione ottica di Canaletto e
quelle poeticamente evocative di Francesco Guardi.
Ma a improntarla fortemente dovette essere soprattutto
il tirocinio di Marieschi come pittore prospettico
e scenografo teatrale, del quale si conosce anche
un’attività di ideatore di apparati effimeri, che lo
porta in genere – sia nei dipinti che nelle loro traduzioni
a stampa – a esasperare l’ampiezza delle vedute
urbane, segnando di un tocco fantastico anche i luoghi
reali e più comuni dello specialissimo theatrum
urbis veneziano.
Più anomalo, nella sua genesi e nelle motivazioni,
risulta invece il corpus acquafortistico di
Canaletto (1697-1768), che pure, per felicità del linguaggio
tecnico – in corrispondenza della piena conquista
dell’interpretazione fenomenica del suo vedutismo
–, si pone come uno degli esiti grafici più alti di
tutto il secolo. Sollecitata forse dal console Smith con
la funzione di attirare commissioni per i dipinti del
suo “protetto” Canaletto, questa produzione sembra
da suddividere in due fasi cronologiche distinte,
pubblico di ricchi viaggiatori di ogni nazione.
Tra le nuove vedute Visentini inserì le traduzioni
di dipinti non più legati solamente al Canal
Grande ma anche agli altri principali luoghi pubblici
della città, a iniziare dal suo centro ideale: la piazza
di San Marco, rappresentata da molteplici punti di
vista. Un linguaggio tecnico perfezionato caratterizza
le nuove tavole con scarti stilistici così evidenti da
aver fatto ipotizzare scambi espressivi tra Visentini e
lo stesso Canaletto, stimolandone la veloce maturazione
come incisore, versante non segnato da alcun
apprendistato apparente.
Nel delicato confronto con gli originali pittorici
canalettiani, l’interpretazione grafica del Prospectus
non va letta però come una loro servile traduzione
figurativa in termini di mera trama lineare, quanto
un’autonoma rielaborazione in forza della sensibilità
di raffinato teorico e prospettico che Visentini poteva
vantare, che lo metteva in grado di padroneggiare
lo specifico linguaggio segnico dell’acquaforte, piegandolo
alla resa lucidissima della descrizione ottica.
Questo processo si applica anche alle dimensioni ben
più ridotte delle venti incisioni dell’Isolario, eseguite
tra il 1736 e il 1737 come vignette per l’edizione Della
Istoria d’Italia di Francesco Guicciardini, edita da
Giambattista Pasquali nel 1738 e corredata da tredici
capilettera di un alfabeto figurato che impaginano
con sorprendente efficacia, seppur miniaturalizzati,
scorci prospettici della città. La serie delle vedutine,
stampata separatamente da Teodoro Viero negli anni
Settanta e ancora da Battaggia nel primo Ottocento,
è originale invenzione di Visentini dall’estrema sintesi
grafica, che allarga al contesto delle isole della laguna
il puntuale sistema di visione dell’artista.
Un’educazione da scenografo e un gusto apertamente
sbilanciato per il rovinismo architettonico
caratterizzano ancora più apertamente la produzione
di Michele Marieschi (1710-1743), che sul versante
incisorio pubblicava, all’esordio di quei fatidici anni
Quaranta del secolo, i Magnificentiores Selectioresque
Urbis Venetiarum Prospectus, in cui tradusse poco
prima della propria morte precoce, nel 1743, gli esiti
migliori di una breve attività vedutistica. In queste
singolari trasposizioni grafiche del proprio catalogo
48 — IL PRIMO SETTECENTO — — LA VEDUTA INCISA: VENEZIA MOLTIPLICATA NELLE STAMPE — 49
verso la metà degli anni Quaranta la prima, entro cioè
la sua partenza per Londra, e un’ulteriore nel 1750-51.
Sulla direttrice di un duplice percorso – suggerito già
dal titolo eloquente di Vedute Altre prese da i luoghi
altre ideate, emblematica asserzione di una sostanziale
equivalenza tra i registri del reale e dell’immaginario
– si snoda un itinerario che oscilla tra la
veduta e il suo naturale polo dialettico: il capriccio,
con contaminazioni paesistiche di motivi padovani
e lagunari. La loro genesi inventiva, tuttavia, doveva
aver preso forma già intorno al 1740, se sono servite
di modello, come pare, alle acqueforti giovanili del
precoce nipote Bernardo Bellotto (1722-80), in un’attività
che sfocia in una serie di piccoli soggetti di paesaggio
dalla grafia prodigiosa. Si tratta di un gruppo di
otto piccole, delicate acqueforti con capricci e rovine,
che in alcuni casi guardano direttamente a simili soggetti
canalettiani, rivisitandoli però, con segno largo e
semplificato, all’insegna di un’elegiaca malinconia, e
in cui si fatica a cogliere i segni di quel nitore incisorio
che caratterizzerà invece i più tardi, limpidissimi
panorami eseguiti da Bellotto a Dresda e a Varsavia.
È verosimile dunque ipotizzare un comune percorso
nell’immediato entroterra veneziano, in cui zio e
nipote si dedicarono con impegno a riprese grafiche
dei luoghi topograficamente più interessanti. Queste,
tuttavia, non sembrano orientate alla fedele diffusione
degli aspetti monumentali della città, quanto
a una manipolazione del dato visuale oggettivo, rivelandoci
come il vedutismo canalettiano presupponga
semmai la conoscenza delle regole prospettiche al
solo fine di ingannare l’osservatore. Consapevoli della
natura “falsata” di queste riprese, caratterizzate dalla
contiguità concettuale tra paesaggio, capriccio – nelle
sue diverse accezioni – e veduta, possiamo apprezzarne
più liberamente il peculiare segno vibrante,
vitale, fluido come un tratto di penna, ma ancor più
di quello capace di una resa sensibilissima della luce.
Il corpus acquafortistico di Canaletto, qualunque
fossero le sue effettive origini e destinazioni,
resta quindi un capitolo a sé stante nel percorso
dell’incisione settecentesca veneziana. Esso sfuggirà
infatti, per la sua peculiare concezione, a quel
comune destino di riprese, contraffazioni e plagi che
subirono le stampe degli altri vedutisti-incisori del
tempo, salvo essere rivalutato più tardi, per la sua
FIG. 5
ANTONIO VISENTINI
Prospectus Magni Canalis
Venetiarum [...], frontespizio
1 _ Per un approfondimento
sull’argomento si rimanda a:
Disegni, incisioni e bozzetti
del Carlevarijs, catalogo della
mostra (Udine, Loggia del
Lionello; Roma, Gabinetto
Nazionale delle Stampe) a
cura di A. Rizzi, Udine 1963;
J. G. Links, Views of Venice by
Canaletto, Engraved by Antonio
Visentini, New York 1971; R.M.
Mason, Nuovo catalogo delle
incisioni “archeologiche” di
Gianfrancesco Costa, “Print
collector. Il conoscitore di
stampe”, 41, 1979, pp. 2-55;
F. Montecuccoli Degli Erri,
Antonio Visentini: la prima
edizione delle incisioni di vedute
di Venezia, “Print collector.
Il conoscitore di stampe”, 48,
1980, pp. 2-45; Le incisioni
di Michele Marieschi (1710-
1743) vedutista veneziano,
catalogo della mostra (Gorizia,
Museo Provinciale di Palazzo
Attems) a cura di D. Succi,
Gorizia 1981; P. Dreyer,
Vedute. Architektonisches
Capriccio und Landschaft in
der Venezianischen Graphik
des 18. Jahrhunderts, catalogo
della mostra (Berlino,
Kupferstichkabinett), Berlin
1985; R.M. Mason, Canaletto
imprimé: un nouveau catalogue
raisonné, “Arte Veneta”, 40,
1986, pp. 302-304; Canaletto &
Visentini, Venezia & Londra,
catalogo della mostra a cura
di D. Succi, Cittadella 1986;
D. Succi, Michiel Marieschi,
Catalogo ragionato dell’opera
incisa, Torino 1987; T. Colletta,
Vincenzo Coronelli, cosmografo
della Repubblica veneta e gli
“Atlanti di città” tra il XVII
e il XVIII secolo, in Libro e
incisione a Venezia e nel Veneto
nei secoli XVII e XVIII, Vicenza
1988, pp. 1-32; E. Concina, Il
Canal Grande nelle vedute del
“Prospectus Magni Canalis
Venetiarum” disegnate e incise
da Antonio Visentini dai dipinti
di Canaletto, Milano 1988; Une
Venise imaginaire. Architectures,
vues et scènes capricieuses dans
la gravure vénitienne du XVIIIe
siècle, catalogo della mostra
(Ginevra, Cabinet des Estampes)
a cura di R.M. Mason, Genève
1991; R. Bromberg, Canaletto’s
Etchings. Revised and Enlarged
Edition of the Catalogue
Raisonné, San Francisco 1993;
Venezia 1717 Venezia 1993
immagini a confronto, catalogo
della mostra (Venezia, Palazzo
Ducale) a cura di U. Franzoi, M.
G. Montessori, A. Bonannini,
Cinisello Balsamo 1993; G.
Marini, L’incisione nel Seicento
e nel Settecento, in Storia di
Venezia. Temi, II: L’Arte, a cura
di R. Pallucchini, Roma 1995,
pp. 521-555; Luca Carlevarijs.
Le fabriche, e Vedute di Venezia,
catalogo della mostra a cura
di I. Reale, Venezia 1995; J.
Schulz, Il Gran teatro di Venezia
di Domenico Lovisa, in Studi
in onore di Renato Cevese,
a cura di G. Beltramini, A.
Ghisetti Giavarina, P. Marini,
Vicenza 2000, pp. 443-457;
Tiepolo. Piazzetta. Novelli.
L’incanto del libro illustrato
nel Settecento veneto, catalogo
della mostra (Padova, Musei
Civici agli Eremitani, Palazzo
Zuckermann) a cura di V. C.
Donvito, D. Ton, Crocetta del
Montello 2012; D. Succi, La
Serenissima nello specchio di
rame. Splendore di una civiltà
figurativa del Settecento. L’opera
completa dei grandi maestri
veneti, Castelfranco Veneto
2013.
componente poetica e immaginaria, nel contesto di
quel nuovo modo di piegare la veduta alla rappresentazione
del mondo che furono le vedute ottiche, dove
pure alcune stampe di Canaletto finirono per essere
riusate – colorate e ritagliate – nella molteplice attività
editoriale della Calcografia Remondini.
Se è difficile valutare quale fosse la reale diffusione
e la “ricezione” contemporanea delle acqueforti
di Canaletto, certo è che il filone commerciale
di gran lunga prevalente per il resto del secolo rimase
quello rivolto al mercato delle vedute e della rappresentazione
topografica della città. A riprova, tuttavia,
di quanto fosse in realtà incerto un preciso confine
tra le categorie che – noi, oggi, per una praticità
molto convenzionale e riduttiva – pensiamo di poter
distinguere fra “stampa originale” e “stampa di traduzione”,
si pone l’attività di incisori come il bellunese
Giovambattista Brustolon (1712-1796), in grado
di rielaborare con visione autonoma i più fortunati
esempi grafici della generazione precedente. Nel 1763
veniva pubblicata dall’editore Ludovico Furlanetto la
serie del Prospectum Ædium, Viarumque insignorum
Urbis Venetiarum, in cui l’incisore bellunese riuniva
dodici vedute di Venezia riprese, in formato ingrandito,
tratte dalle traduzioni di Visentini dai dipinti
di Canaletto, a cui furono aggiunte in seguito altre
dieci tavole, da prototipi di Marieschi, Moretti e
ancora Canaletto. Lo stesso Furlanetto, a partire dal
marzo 1766, offriva al pubblico una serie di grandi
stampe commissionate a Brustolon raffiguranti le
Feste Ducali, ovvero le cerimonie e le celebrazioni
cui partecipavano i dogi veneziani al momento della
loro elezione, o in occasione delle diverse festività
nel corso dell’anno. Sappiamo che solamente quattro
acqueforti erano effettivamente completate nell’agosto
del 1768, e che l’intera serie non fu in realtà
portata a termine prima del 1773-75, ma il loro successo
è confermato dalle numerose edizioni che ne
vennero tratte, operazioni in cui gli editori Teodoro
Viero e quindi Giuseppe Battaggia si succedettero al
Furlanetto. Lo stile largamente descrittivo dei prototipi
di Canaletto, reso con tecnica raffinata nei dieci
grandi disegni acquerellati oggi noti, contribuisce alla
vivacità dei soggetti, e al loro facile appeal di accattivante
narrazione per immagini della peculiare storia
veneziana. Brustolon vi adotta una tecnica in grado di
rendere fedelmente i modelli originali, con effetti di
grande luminosità, ottenuti con un continuo variare
di linee e di incroci di segni, oltre a diverse morsure
della lastra con l’acido.
La fortuna di questa formula dovette offrire il
modello a una sequenza incalzante di iniziative consimili,
in cui peraltro si andava gradualmente esaurendo
l’iniziale forza d’impatto di quella “rivoluzione
visiva” inaugurata all’inizio del secolo proprio tramite
le stampe. Così il parmense Dionisio Valesi (1715-post
1781), dopo una diffusa attività di traduzione per il
mercato editoriale di Verona e la collaborazione a una
celebre serie di sei grandi vedute della città, promossa
da Francesco Masieri nel 1747, si dedicò a tradurre il
sensibilissimo vedutismo di Francesco Guardi in una
serie di soggetti veneziani, pubblicati nel 1778 dal
libraio Melchior Gabrieli. L’anno seguente usciva la
raccolta delle Ventiquattro Prospettive delle Isole della
laguna di Venezia, incise da Antonio Sandi (1733-1817),
autore pure di quattro grandi fogli con i Prospetti
marittimi, del 1781. Quanto questa produzione fosse
ormai compilativa, e guidata da dinamiche editoriali,
lo ribadisce anche l’attività di Marco Sebastiano
Giampiccoli, autore di oltre quaranta vedute veneziane
che ripercorrevano moduli e inquadrature di
tutto il vedutismo dei decenni precedenti. Di certo,
il proliferare di queste iniziative commerciali dà la
misura della tenace continuità di una domanda di
mercato ancora fiorente, se un incisore e mercante di
stampe come il bassanese Teodoro Viero (1740-1819)
poteva trascinare oltre gli estremi limiti del secolo, e
fin dopo la caduta della Repubblica, una fitta attività
di riedizioni di rami altrui, in cui era ancora largamente
preponderante il filone della veduta.
Come per la Roma settecentesca rappresentata
da Piranesi – peraltro anch’egli segnato da una
giovanile formazione veneziana – l’immagine di
Venezia veicolata dalle stampe si era andata sostituendo,
superandola e alterandola, alla visione diretta,
reale dei monumenti e dei siti della città. Anche se
questi, nella trasposizione incisoria, da spazi condivisi
del vivere collettivo erano ormai scaduti a “luoghi
comuni” della visione, banalizzati dal loro “consumo”
incondizionato [1] .
50 — IL PRIMO SETTECENTO —
— LA VEDUTA INCISA: VENEZIA MOLTIPLICATA NELLE STAMPE — 51
MARCELLA
ANSALDI
FIG. 1
MANIFATTURA VEZZI
Teiera, particolare.
Vicenza, collezione privata
1 _ F. Stazzi, Porcellane
dell’Eccellentissima Casa Vezzi
(1720-1727), Milano 1967. L.
Melegati, Giovanni Vezzi e le sue
porcellane, Milano 1998.
2 _ V. Toso, Un abate “libero
pensatore” nella Venezia di fine
Seicento, tesi di dottorato, tutor
Prof.ssa I. Crotti, Università Ca’
Foscari Venezia, a.a.2017-2018,
dspace.unive.it [dicembre 2018].
3 _ Stazzi 1967, p. 325.
IL PRIMO SETTECENTO
L’ECCELLENTISSIMA
CASA VEZZI
Veneziano nello spirito
anche se non di antichi natali, Giovanni Vezzi (1687-
1746) ben rappresenta i desideri, le velleità e le proiezioni
della nuova aristocrazia che anima la città
nel primo quarto del Settecento. È il periodo d’ascesa
sociale della famiglia Vezzi. Francesco, padre
di Giovanni, da giovane apprendista orafo udinese
diventa “zoialer et orese al Drago d’Oro” [1] . È uomo
d’affari e presto raggiunge una stimata posizione tra
i patrizi veneti e ottiene il titolo di conte. A seguito
della supplica dell’agosto 1716, gli eredi maschi dei
due fratelli Francesco e Giuseppe (Iseppo), nuovi aristocratici
di terzo grado, possono incontrare a San
Marco, presso la Porta della Carta, i membri dell’antica
aristocrazia di primo e secondo grado. In questo
modo la famiglia Vezzi costruisce il proprio inserimento
sociale e consolida le relazioni con altri blasonati.
I conflitti nel cuore del patriziato veneziano
sono forti, mai pacati dopo la spaccatura dell’inizio
del Seicento. Le intolleranze politiche sono aggravate
dall’inconsistenza del potere economico dei nobili
poveri di Vecchia Casa. I Vezzi possono invece ostentare
la propria ricchezza, fieri di appartenere a un’aristocrazia
superba, anche se talvolta riottosa.
Quando Francesco diventa padre, il primogenito
maschio, Giovanni, sarà accompagnato al fonte
battesimale dal N.H. Giancarlo Grimani.
Giovanni cresce nel palazzo nei pressi di Rialto,
in calle dei Muti, frequenta la neonata Congregazione
dei Filippini di Santa Maria, detta della Fava (1662) [2] ,
dove studia assieme ad altri nobili rampolli e stringe
conoscenza con l’abate Antonio Scinella Conti.
L’abate è un uomo di lettere e di scienze, scrive sonetti
e sermoni che, come ricorda Stazzi [3] , sottopone
al giudizio del giovane Giovanni. I rapporti epistolari
tra i due sembrano però interrompersi nel 1708,
quando l’abate è allontanato dalla Congregazione per
sospetto d’eresia. Ritroviamo Conti firmatario di una
missiva del 1727 indirizzata a Madame de Caylus,
in cui elogia le porcellane dell’Eccellentissima Casa
e fa richiesta del blasone della nobildonna, affinché
la manifattura veneziana possa inviarle un servizio
decorato con le armi Le Valois de Vilette de Mursay
de Caylus. Sfortunatamente la contessa morirà due
anni più tardi e la manifattura chiuderà.
Il 26 gennaio 1711 Giovanni sposa Angela
Merati, che lo sosterrà nell’impresa che da lì a qualche
anno segnerà la vita di Giovanni.
Il giovane sposo, incoraggiato dal padre, si
lancia subito nella sfida in voga nel primo decennio
del Settecento: scoprire il segreto della produzione
della porcellana. In lizza ci sono i rappresentanti
delle più importanti corti d’Europa. Del mistero
della porcellana se ne parla nei salotti e tra i mercanti,
la brama di possedere un oggetto tanto raro
quanto lucente è contagiosa. La porcellana, importata
dall’Oriente, è eccelsa per leggerezza e qualità.
Da alcuni decenni abbellisce le prestigiose residenze
europee e il repertorio decorativo orientale si plasma
per incontrare il gusto dei nuovi acquirenti occidentali.
Vasi, tazzine, scatole e teiere prodotti per l’esportazione
giungono in Europa e a Venezia. Quando
nel 1710 l’Elettore di Sassonia annuncia dal proprio
castello di Alberchtsburg, presso Meissen, che è stata
scoperta la formula della porcellana, l’aristocrazia
— L’ECCELLENTISSIMA CASA VEZZI — 53
tutta si appassiona. Il segreto viene conservato per
alcuni anni entro le mura della neonata fabbrica, ma
le maestranze impiegate nella manifattura capiscono
di essere preziosi strumenti d’informazione e presto
saranno corteggiati dai concorrenti di Augusto
il Forte. A Vienna Claudius Innocentius Du Paquier,
consigliere imperiale di Carlo VI d’Asburgo, riesce
a organizzare una manifattura di porcellane appena
nove anni dopo Meissen. A Venezia, Giovanni Vezzi,
comincia i propri esperimenti alla Giudecca, probabilmente
già tra il 1718 e il 1719, affiancato da un tecnico
che è giunto in città per questo scopo.
È ancora Stazzi che riporta i Commemoriali
di Pietro Gradenigo : “…Cristofalo Ongaro (Hunger)
tedesco fuggito dà Dresda andò a Vienna, ove fu posto
prigione, dove pure esisteva Gio: Maria Santinelli
veneziano, e assieme a lui fatta stretta amicizia scapò,
e si portò a Venezia circa il 1716” [4] .
Il primo documento costitutivo a noi pervenuto,
che attesta l’esistenza della manifattura Vezzi,
è datato 20 dicembre 1721, a firma dei soci Giovanni
Vezzi, Giovanni Marco Norbis, Cristoforo Corrado
Hunger e Giovanni Maria Santinelli. Come già fece
notare Stazzi, i cui studi risultano ancor oggi fondamentali,
l’Eccellentissima Casa Vezzi si caratterizza
come un’impresa familiare. Il finanziatore è
Giovanni, ma i capitali sono controllati dal padre
Francesco; altri parenti diventeranno soci dell’impresa
nel 1724, l’anno di svolta, quando tra i nuovi
finanziatori troviamo menzionati i cugini di Udine,
Antonio e Francesco Zanoni.
Nell’accordo del 1720 con Giovanni Vezzi,
Hunger entra in società senza capitali, ma mette a
disposizione le conoscenze nella produzione delle
porcellane, mentre Santinelli coordina la nascente
fabbrica e probabilmente si occupa della materia
prima, il caolino sassone. I trafficanti, contrabbandieri
e importatori clandestini, non costituiscono una
novità per la Repubblica, le “liste” dove sono presenti
ambasciate e ambasciatori, come la lista di Spagna a
Cannaregio, sono luoghi dove si riescono a sdoganare
merci non proprio legali, come il caolino proveniente
da Shneeberg, in Sassonia [5] .
Produrre porcellana richiede competenze,
tempo e strutture, bisogna sapere costruire un
forno, diverso da quelli che si usano a Murano,
bisogna controllare la temperatura per la cottura
del biscotto a milleduecento gradi e saper regolare
le temperature progressivamente più basse necessarie
alla fusione delle vernici e dei colori. Hunger
è a conoscenza del processo di produzione, visto a
Meissen e a Vienna, ma è pur sempre solo un decoratore.
Giovanni però crede strenuamente all’impresa,
che pure gli costa in un biennio oltre trentaduemila
ducati, messi a disposizione dal padre. Finalmente
dall’unico forno, costruito probabilmente alla
Giudecca, escono i primi oggetti finiti e verniciati a
firma Vezzi. La prima produzione sarà stata caratterizzata
da oggetti di piccole dimensioni, come le tazzine
da tè in monocromia blu e i piattini. Da subito
compare il marchio “Ven.a” con lettera quadra, in blu
sottovernice [6] , e, generalmente incise due iniziali
nell’impasto. Non è una novità l’uso di questo tipo
di sigle che ogni manifattura utilizza a proprio modo
per identificare il periodo, l’esecutore o il lotto. Nel
caso di Vezzi troviamo la “M” come lettera ricorrente
in molti pezzi del primo periodo, presente in
tazze da tè monocrome e in alcune teiere globulari e
ottagonali con decoro semplificato in bi o tricromia.
Le lettere “S”, “B”, “ F” sono pure ricorrenti nello
stesso periodo. È plausibile che tali sigle riguardino
l’impasto e/o la vernice, considerando che il primo
costituisce un capitale di produzione e la formula
per il rivestimento varia. La marca Vezzi svolazzante
in verde o rosso, connota oggetti con decorazione
floreale d’ispirazione orientale, come la caffettiera
e il porta tè conservati a Parigi, al Musée des
Arts Décoratifs. La stessa firma compare su oggetti
simili per tipologia decorativa: la tazza con pappagalli
del Museo Civico di Torino, le quattro tazze a
campana di Ca’ Rezzonico, la teiera globulare a fiori
semplici in bicromia rossa e verde e altri ancora [7] .
Nel mondo così ancora poco indagato dell’apparato
decorativo in uso nella manifattura e con le scarse
informazioni a disposizione per l’identificazione dei
dipendenti, possiamo però ipotizzare che questo tipo
di marchio possa corrispondere alla firma del decoratore,
specializzato in questo repertorio.
La seconda stagione della manifattura, dopo il
1724, è la più feconda per diversità di modelli e ricchezza
cromatica dei decori, nonché per abilità pittorica.
Tuttavia è anche il momento del licenziamento
4 _ Stazzi 1967, p. 37.
5 _ M. Infelise, Conflitti tra
ambasciate a Venezia alla fine
del ’600, “Mèlange de l’Ecole
françoise de Rome. Italie et Mediteranée
Mefrim”, 119, 2007, 1,
pp. 67-75.
6 _ A. Alverà Bortolotto,
Storia della ceramica a Venezia
dagli albori alla fine della
Repubblica, Firenze 1981.
7 _ Le porcellane di Marino
Nani Mocenigo, catalogo della
mostra (Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento veneziano)
a cura di M. Ansaldi, A.
Craievich, Verona 2014.
FIG. 2
MANIFATTURA VEZZI
Teiera, particolare.
Vicenza, collezione privata
8 _ P. Pastres, Lettere da
Dresda. Note sulla Sassonia
attraverso gli scritti di viaggio di
Francesco Algarotti e Giovanni
Ludovico Bianconi, in Arte per
i Re, Capolavori del ’700 dalla
Galleria Statale di Dresda,
catalogo della mostra (Udine,
chiesa di San Francesco)
a cura di H. Marx, Udine 2004,
pp. 75-85.
9 _ E. Dal Carlo, La
porcellana veneziana vero
“antidoto contro la decadenza”:
Vezzi, Hewelke, Cozzi a Ca’
Rezzonico, “Ceramica Antica”,
VIII, 1998, pp. 18-33.
10 _ F. Morena, Cineseria.
Evoluzioni del gusto per
l’Oriente in Italia dal XIV al
XIX secolo, Firenze 2009, pp.
143-145.
di Hunger, della rinuncia di Francesco alla partecipazione
finanziaria della società, della riorganizzazione
della manifattura a Cannaregio e infine dei nuovi
debiti e nuovi finanziatori.
Proprio in questi anni la manifattura ha raggiunto
livelli di tutto rispetto, paragonabili per qualità
a Meissen e, ancor più, a Du Paquier [8] . Le teiere
a rilievo, anche se prive di decoro, competono per
lucentezza ed eleganza agli oggetti coevi in argento. Il
beccuccio a mascherone, che ricorda soluzioni adottate
dalla manifattura di Meissen, è reso da Vezzi in
modo originale e con una resa plastica molto efficace.
I beccucci, le anse, le forme sono sempre declinati
in modo eclettico e geniale. Tra il 1724 e il 1726 la
manifattura riesce a controllare bene la produzione
e la fabbrica è ampia, articolata in più zone di produzione:
c’è la zona di cottura, dove probabilmente
ci sono due forni, i depositi per materia prima, quelli
per il semilavorato e la stanza dei pittori. La prima
manifattura italiana può accontentare le richieste
della nobiltà e i pittori possono riprodurre gli stemmi
delle case più illustri: i manufatti con soggetto araldico
sono ben noti agli studiosi e di grande aiuto per
la datazione degli oggetti [9] .
Impossibile non menzionare anche la coppia
di tazze in monocromo rosso lumeggiate in oro
di Ca’ Rezzonico. Un raffronto necessario è rappresentato
dalle somiglianze del repertorio floreale dei
famosissimi vasi già Rava-Fenton, con la coppa decorata
in monocromia porpora appartenente alla collezione
Lokar. Questi esempi di maestria esecutiva
suggeriscono l’ipotesi che Vezzi si sia rivolto a un
certo punto a degli Hausmaler, i pittori a domicilio.
Venezia ha abili decoratori di vetri, lattimo, maioliche,
lacche e stucchi. Iseppo Tosello, per esempio, è
un laccatore abile in cineserie e risulta essere in contatto
con Giovanni Vezzi [10] .
Altri maestri specializzati in battaglie, tema
popolare ben noto, possono aver contribuito occasionalmente
alla storia della manifattura. Forse
anche negli anni successivi al 1727. Ciò spiegherebbe
la scarsa omogeneità pittorica tra oggetti della
54 — IL PRIMO SETTECENTO — — L’ECCELLENTISSIMA CASA VEZZI — 55
manifattura e la difficoltà di individuare stili esecutivi
chiari. Consideriamo che ci troviamo nel momento
di crisi delle confraternite dei mestieri: è appena iniziato
un lento processo di riforma delle Arti che dopo
l’enunciazione di principio del 1719, si paralizza. La
conseguenza è una caotica deregolamentazione dei
mestieri artigiani, almeno fino al 1751, quando nasce
un’apposita magistratura, l’Inquisitorato sopra la regolazione
delle Arti. Sono anni in cui aumenta il lavoro
“nero” e il passaggio di maestranze tra le arti è assai
diffusa. Pochi sono i nomi dei collaboratori di Vezzi:
Lodovico Ortolani, che firma il piatto conservato al
British Museum, il famoso Duramano, tanto citato
quanto ignoto, e il pittore che si firma con le iniziale
A.G della teiera con decoro “a vascello” entro riserva
di Collezione Lokar [11] . Recentemente è stato pubblicato
un inventario della manifattura risalente al 1724,
ossia tre anni prima che fossero distrutti i forni [12] .
Si evince che nei depositi del Casin dei Spiriti, che si
affaccia sulla laguna a Cannaregio, ci sarebbero stati
oltre settantaquattromila pezzi, di cui quasi cinquantatremila
crudi.
È credibile che in fase di produzione ci fosse
almeno un trenta per cento di scarto di cottura, o
forse più, secondo le testimonianze rilasciate dai due
sovrintendenti alla produzione Giovanni Chioldelli e
Bortolo Bernardi. È inoltre documentata la giacenza
a magazzino di trentadue pastoni di caolino. Quanto
riesce a produrre Vezzi con questa quantità di materia
prima? Abbiamo due testimoni dell’epoca che
concordano nella difficoltà di approvvigionamento
del caolino: uno è Hunger, che durante il processo
subito in patria esprime la certezza che per far terminare
la concorrenza in porcellana sia sufficiente
inasprire i controlli sull’esportazione del caolino;
l’altro è Cozzi, che pure non è mai stato in diretto
contatto con Vezzi. Certo è che fino al 1724 i forni
dell’Eccellentissima Casa non erano in grado di produrre
parecchi pezzi senza difetti per ogni infornata.
È quindi plausibile che i pezzi bianchi sopravvissuti
alla distruzione della fabbrica siano solo i
pezzi verniciati, e non i grezzi. È anche probabile
che solo gli oggetti verniciati siano stati occasionalmente
venduti dopo il 1727 ad altri pittori e cotti
successivamente in forni da specchi o da vetro riadattati
allo scopo. È difficile invece immaginare che
a Venezia siano sopravvissuti per anni molti oggetti
crudi e da verniciare. Le difficoltà di trasporto, l’umidità,
i problemi di stoccaggio, hanno fatto sì che
in città si concludesse una stagione, per troppo poco
tempo gloriosa.
Per Giovanni Vezzi i guai non finiscono con
l’imposizione paterna di “atterrar la fabbrica”: sarà
costretto a contrarre ancora molti debiti, inoltre è
gravemente malato e tra il 1731 e il 1735 si aggrava il
diabete. Vive ancora a palazzo ma nel 1737, a seguito
dell’incendio che ne devasta una parte, chiede agli
Albrizzi di concedergli in affitto una porzione di abitazione,
giusto il tempo necessario per restaurare il
palazzo di San Cassian [13] . Giovanni ha una lunga
lista di debitori e si reca in Ghetto, dove ottiene nel
1738 un prestito dal gestore del banco, Moisè David
q. Salomon, per sistemare il palazzo.
Quando nel 1746 morirà, la porcellana in
Europa sta vivendo il proprio momento di splendore.
Il marchese Carlo Ginori, che ha tenuto qualche rapporto
epistolare con Giovanni, ha già fondato la propria
manifattura e a Capodimonte da tre anni è attiva
la manifattura voluta dal re Carlo di Borbone e da
Maria Amalia di Sassonia.
Venezia dovrà aspettare il 1761 e l’arrivo di
una coppia di coniugi sassoni in fuga dalla Guerra dei
sette anni, gli Hewelke, per vedere la rinascita della
porcellana in città [14] .
11 _ L. Melegati, La
produzione di Giovanni
Vezzi nella collezione Lokar /
Italian Porcelainin the Lokar
Collection, catalogo della
mostra (Trieste, Museo d’arte
orientale) a cura di A. d’Agliano,
Cinisello Balsamo 2013, pp.
18-53.
12 _ N. Stringa, Un inventario
della manifattura Vezzi del 1724,
“Arte Veneta”, 64, 2007, pp.
262-276.
13 _ Sulla decorazione del
palazzo a San Cassiano, voluta
da Francesco Vezzi, si veda G.
Pavanello, Antonio Pellegrini
frescante per Francesco Vezzi
(con una nota su Giovanni
Battista Crosato), in Venezia
Settecento. Studi in memoria
di Alessandro Bettagno, a cura
di B.A. Kowalczyk, Cinisello
Balsamo 2015, pp. 157-159.
14 _ C. Maritano, Emanuele
d’Azeglio e le ricerche sulla
porcellana veneta, “Palazzo
Madama, studi e notizie”, 1,
2010, pp. 52-79.
FIG. 3
MANIFATTURA VEZZI
Lattiera, particolare.
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo
del Settecento veneziano
56 — IL PRIMO SETTECENTO — — L’ECCELLENTISSIMA CASA VEZZI — 57
CAT.II.01
SEBASTIANO RICCI
La continenza di Scipione
Olio su tela, 114,3×137,2 cm
Londra, The Royal Collection /
HM Queen Elizabeth II, inv. RCIN 404981
Bibliografia _ Daniels 1976, pp. 47-48, cat. 147; Levey
1991, pp. 148-149; Pignatti, in Disegni antichi 1996,
p. 190; Scarpa 2006, p. 226, cat. 234.
58 — IL PRIMO SETTECENTO —
CAT.II.02
SEBASTIANO RICCI
Venere e Adone
Olio su tela, 77,5×45,5 cm
Orléans, Musée des Beaux-Arts, inv. 71-8-1
Bibliografia _ Rosenberg, in Venise au dix-huitième
siècle 1971, pp. 140-142, cat. 215; Daniels 1976, p. 110,
cat. 282; Rizzi, in Sebastiano Ricci 1989, p. 104, cat.
26; Magani, in Splendori Settecento 1995, p. 82, cat. 2;
Scarpa 2006, p. 260, cat. 335, fig. 535; Chiarini,
in Sebastiano Ricci 2010, p. 66, cat. 11, con bibliografia
precedente; Toutain-Quittelier, in Éblouissante Venise
2018, p. 247, cat. 104.
CAT.II.03
ANTONIO PELLEGRINI
San Sebastiano e le pie donne
Olio su tela, 228×169 cm
Monaco di Baviera, Bayerische
Staatsgemäldesammlungen, Alte Pinakothek,
inv. 10376
Bibliografia _ Zampetti 1969, n. 29; Knox 1995, pp.
102, 265, cat. P510, fig. 81; Pallucchini 1995, I, p. 80,
fig. 98; Bettagno, in Antonio Pellegrini 1999, p. 152, cat.
24, con bibliografia precedente; Loisel, in Éblouissante
Venise 2018, pp. 169, 247-248, cat. 116.
60 — IL PRIMO SETTECENTO —
CAT.II.04
ANTONIO PELLEGRINI
Il Re indiano Poro condotto davanti ad Alessandro
Olio su tela, 73,5×63 cm
Ravenna, MAR - Museo d’Arte della città di Ravenna,
inv. QA0065
Bibliografia _ Zampetti 1969, p. 80; Steingräber 1987,
n. 6; Del Torre, in Splendori Settecento 1995, p. 118, cat.
12; Knox 1995, p. 254, cat. P367; Pallucchini 1995, I,
p. 70; Bettagno, in Antonio Pellegrini 1999, p. 130, cat.
12, con bibliografia precedente; Loisel, in Éblouissante
Venise 2018, p. 246, cat. 83.
CAT.II.05
JACOPO AMIGONI
Pigmalione e Galatea
Olio su tela, 124×95 cm
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Scarpa Sonino 1994, pp. 60-61,
cat. 122, fig. 30.
62 — IL PRIMO SETTECENTO —
CAT.II.06
MARCO RICCI
Concerto da camera IV
Olio su tela, 46,4×57,8 cm
New Haven, Yale Center for British Art,
Paul Mellon Collection, inv. B1981.55.524
Bibliografia _ Blunt, Croft Murray 1957, pp. 143-144,
fig. 7; White 1960, pp. 79-90; Scarpa Sonino 1991,
p. 128, cat. 67, fig. 70; Scarpa, in Tiepolo 2004, cat. 1;
Loisel, in Éblouissante Venise 2018, p. 246, cat. 86.
CAT.II.07
MARCO RICCI
Concerto da camera V
Olio su tela, 48,3×55,9 cm
New Haven, Yale Center for British Art, Paul Mellon
Collection, inv. B1981.55.523
Bibliografia _ Blunt, Croft Murray 1957, pp. 143-145;
White 1960, pp. 79-90, fig. 1; Scarpa Sonino 1991,
cat. 69, fig. 61, con con bibliografia precedente; Loisel,
in Éblouissante Venise 2018, p. 246, cat. 87.
64 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 65
CAT.II.09
MARCO RICCI
Paesaggio in tempesta
Tempera su pelle di capretto, 45×29 cm
Venezia, collezione privata
Bibliografia _ Scarpa Sonino 1991, p. 156, cat. T84,
fig. 218.
CAT.II.08
MARCO RICCI
Paesaggio con bestiame e una donna che parla
a un uomo seduto
Olio su tela, 73,7×125 cm
Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth II,
inv. RCIN 401005
Bibliografia _ Scarpa Sonino 1991, pp. 138-139,
cat. 115; Levey 1991, pp. 96-97, cat. 625; Giacometti,
in The Glory 1994, pp. 102, 488, cat. 28; Whitaker, in
Canaletto 2017, pp. 98-99, cat. 35.
66 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 67
CAT.II.10
ROSALBA CARRIERA
Ritratto di gentiluomo in rosso
Pastello su carta, 67×51 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. I, n. 1434
Bibliografia _ Pignatti 1960, p. 53; Magrini, in
Splendori Settecento 1995, p. 134, cat. 21; Pedrocco, in
’700 Veneziano 1998, pp. 25, 147, cat. 11; Sani 2007, p.
338, cat. 383.
CAT.II.11
ROSALBA CARRIERA
Ritratto di George primo marchese di Townshend
Pastello su carta, 57×44 cm
Milano, FAI Fondo Ambiente Italiano, villa Necchi
Campiglio, collezione Alighiero ed Emilietta
de’ Micheli
Bibliografia _ Moore, in Norfolk and the Grand Tour
1985, p. 56; Ingamelles 1997, p. 948; Ricatti, in L’Anima
e il Volto 1998, p. 308; Jeffares 2006, p. 99; Sani 2007,
p. 357, cat. 411; Whistler, in Rosalba Carriera 2007, p.
150, cat. 36; Loisel, in Éblouissante Venise 2018, p. 246,
cat. 82.
68 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 69
CAT.II.12
LUCA CARLEVARIJS
Il Molo verso la Riva degli Schiavoni
Olio su tela, 75×118 cm
Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica di
Palazzo Corsini
Bibliografia _ Rizzi 1967, p. 94; Zampetti, in
I Vedutisti 1967, p. 48, cat. 23; Alloisi, in Canaletto
2008, pp. 244-245, cat. 6; Succi 2015, pp. 168-169, cat.
27, con bibliografia precedente.
70 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 71
CAT.II.13
LUCA CARLEVARIJS
Il Molo verso la Basilica della Salute
Olio su tela, 75×118 cm
Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo
Corsini
Bibliografia _ Rizzi 1967, p. 94; Zampetti, in
I Vedutisti 1967, p. 48, cat. 24; Alloisi, in Canaletto
2008, pp. 244-245, cat. 7; Succi 2015, pp. 168-169, cat.
26, con bibliografia precedente.
72 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 73
CAT.II.14
LUCA CARLEVARIJS
Galera
Matita, penna a inchiostro bruno, pennello seppia,
biacca, 191×283 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e
delle stampe, inv. Cl. III, n. 5945
Bibliografia _ Pedrocco, in Disegni antichi 1980, p.
98, cat. 75; Luca Carlevarijs 2008, p. 17, cat. 10.
CAT.II.16
SEBASTIANO RICCI
La continenza di Scipione
Penna inchiostro grigio e pennello, 172×233 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 1774
Bibliografia _ Rizzi, in Sebastiano Ricci 1975, p. 79,
cat. 24; Pignatti, in Disegni 1985, pp. 81-82, cat. 23;
Scarpa 2006, p. 226, cat. 234, fig. 358.
CAT.II.17
SEBASTIANO RICCI
CAT.II.15
LUCA CARLEVARIJS
Burchio e rascona
Matita, penna a inchiostro bruno, biacca,
200×190 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e
delle stampe, inv. Cl. III, n. 5949
Battesimo di Cristo
Gesso nero, penna e inchiostro bruno, acquerello,
228×342 mm
Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts
graphiques, inv. 5322
Bibliografia _ Bacou, in Venise au dix-huitième siècle
1971, n. 221; Rizzi, in Sebastiano Ricci 1975, p. 138,
cat. 83; Loisel, in Venise, l’art 2006, cat. 49.
Bibliografia _ Pedrocco, in Disegni antichi 1980,
p. 100, cat. 79; Luca Carlevarijs 2008, p. 18, cat. 13.
74 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 75
CAT.II.18
SEBASTIANO RICCI
Studio di quattro figure femmnili, un uomo e un
bambino
Sanguigna, penna e inchiostro bruno, acquerello,
291×202 mm
Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts
graphiques, inv. 14271
Bibliografia _ Rizzi, in Sebastiano Ricci 1975, p. 121,
cat. 69; Loisel, in Venise, l’art 2006, cat. 48.
CAT.II.19
ANTONIO PELLEGRINI
Studio per decorazione murale
Matita nera, penna, inchiostro bruno, acquerelli
colorati, 260×325 mm
Parigi, École nationale supérieure des Beaux-Arts
(ENSBA), inv. 0.1381
Bibliografia _ Brugerolles, Guillet, in Disegni veneti
1988, p. 49, cat. 44; Brugerolles, Guillet, in Les dessins
1990, p. 92, cat. 44.
— CATALOGO DELLE OPERE — 77
CAT.II.20
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 16 cm
Marca: A C, M sul coperchio incise
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Stazzi 1967, tav. XLVIII;
d’Agliano, in Porcellane 2013, p. 24.
CAT.II.21
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 11,6 cm
Marca: Ve=a in rosso, F e J più segno cocleare incisi
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013, p. 34.
CAT.II.23
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 15,5 cm
Marca: Ven:a in rosso, C P incise
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Melegati 1998, p. 51; Galbusera, in
La porcellana di Venezia 1998, p. 15; d’Agliano, in
Porcellane 2013, p. 40.
CAT.II.24
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Portatè
Porcellana, h 17,4 cm
Marca: Vena:a in rosso, L O incise
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Melegati 1998, p. 53; d’Agliano,
in Porcellane 2013, p. 42.
CAT.II.22
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Tazza a campana con piattino Ottoboni
Porcellana, tazza h 8 cm; piattino ø 13 cm
Marca: Ven.a in rosso, M incisa sul piattino
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013,
pp. 38-39.
— CATALOGO DELLE OPERE — 79
CAT.II.25
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 12,5 cm
Marca: Ven.a A.G in porpora, sul coperchio W incisa
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 167-170;
d’Agliano, in Porcellane 2013, p. 46.
CAT.II.26
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Scodella
Porcellana, h 8,5 cm, ø 17,5 cm
Marca: Ven:a in porpora
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013, p. 47.
CAT.II.27
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 16 cm, ø 18 cm
Marca: N F incise
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 88-89.
CAT.II.28
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 16 cm, ø 20,5 cm
Marca: C. F incise
Collezione privata
CAT.II.29
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 16 cm, ø 18,3 cm
Marca: J più segno cocleare incisi
Collezione privata
Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 72-73.
CAT.II.30
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 10 cm
Marca: N A incise
Vicenza, collezione privata
CAT.II.31
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 9,5 cm
Marca: Ven:a in verde, corsivo,
M S incise
Vicenza, collezione privata
CAT.II.32
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 12 cm
Marca: Ven:a in rosso, M incisa
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Stazzi 1967, tav. XXX; Melegati 1998,
pp. 114-115.
80 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 81
CAT.II.33
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 15 cm
Marca: Ven.a in bruno, A F incise
Vicenza, collezione privata
CAT.II.35
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Tazza a campana e piattino
Porcellana, tazza h 7,45 cm, ø 6,6 cm; piattino ø 13 cm
Marca: V. a in argento e S inciso sulla tazza
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Stazzi 1967, tavv. LVII-LVIII.
CAT.II.36
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Tazza a campana e piattino
Porcellana, tazza h 7,8 cm, ø 6,7 cm;
piattino ø 12,6 cm
Marca: Marca: Ven:a in rosso e X incisa
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 180-183.
CAT.II.34
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Caffettiera
Porcellana, h 16 cm
Marca: V=A in porpora, J e segno cocleare incisi
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Melegati, in Porcellane 2013, p. 21.
CAT.II.37
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Teiera
Porcellana, h 7,5 cm
Marca: Ven:a in bruno, C incisa
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 100-101.
82 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 83
CAT.II.38
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
CAT.II.40
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Piatto
Porcellana, ø 24 cm
Marca: A N incise
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Melegati 1998, pp. 208-209.
Teiera
Porcellana, h 12 cm
Marca: Ven:a in rosso
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, n. 297
Bibliografia _ Stazzi 1967, tav.XXVII; Mottola
Molfino 1976; Melegati 1998, pp. 108-109.
CAT.II.39
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Tazze a campana (due esemplari)
Porcellana, h 7,5 cm
Marca: Ven:a in blu sottovernice, corsivo, N incisa sul
n. 22, C sul n. 23
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, nn. 22, 23
Bibliografia _ Barbantini 1936, cat. VIII; Santangelo
1961, p. 61, fig. 28; Stazzi 1967, tav. XX; Mottola
Molfino 1976, fig. 58; Dal Carlo, in Bottega 1991, p.
135; Galbusera, in La porcellana di Venezia 1998, p. 29;
Munarini, in Arte 2002, cat. 35.
CAT.II.41 (SINISTRA)
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Lattiera
Porcellana, 7 cm
Marca: Ven:a in verde, corsivo
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, n. 805/1
Bibliografia _ Stazzi 1967, tavv. LXX-LXXI; Mottola
Molfino 1976; Melegati 1998, pp. 128-129.
CAT.II.41 (DESTRA)
VENEZIA, MANIFATTURA VEZZI
Lattiera
Porcellana, h 7 cm
Marca: Ven:a in rosso, corsivo, M incisa
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, n. 805/2
Bibliografia _ Stazzi 1967, tavv. LXVIII-LXIX;
Mottola Molfino 1976; Melegati 1998, pp. 128-129.
84 — IL PRIMO SETTECENTO — — CATALOGO DELLE OPERE — 85
ROVENTI
GIOVINEZZE
CHARLES
BEDDINGTON
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
La chiesa e la scuola della
Carità dal laboratorio
dei marmi di San Vidal,
particolare.
Londra, The National Gallery
1 _ W.G. Constable, Canaletto:
Giovanni Antonio Canal
1697-1768, London 1962, I, pls.
130-132; II, cat. 713.
2 _ La data venne annotata
per la prima volta da Hugo
Chapman nel catalogo della
mostra Canaletto, prima
maniera (Venezia, Fondazione
Giorgio Cini), Milano 2001,
pp. 50-51, no. 3. Nella mostra
vennero inoltre inclusi altri
dodici fogli, catt. 1-2 e 4-13,
tutti illustrati a colori.
3 _ A.M. Zanetti, Della pittura
veneziana e delle opere pubbliche
de’ veneziani maestri libri V,
Venezia 1771, p. 463.
ROVENTI
GIOVINEZZE
CANALETTO
Nel luglio del 1725 il pittore
veronese Alessandro Marchesini (1663-1738)
scrisse al collezionista lucchese Stefano Conti invitandolo
a non commissionare più dipinti a Luca Carlevarijs,
ma di rivolgersi al “signor Antonio Canale, che fa in
questo paese stodire universalmente ognuno che vede
le sue opere, che consiste sul ordine di Carlevari ma vi
si vede lucer entro il sole”. Queste parole esprimono in
maniera eloquente il modo in cui tutto, nell’opera di
Canaletto, fosse già visto in questa data in termini di
attenzione alla luce – tanto da far apparire l’opera di
Luca Carlevarijs lineare e piatta – e come, a questa giovane
età, la risposta incredibilmente intuitiva dell’artista
ai fenomeni naturali portasse l’arte della veduta
a un nuovo livello. Lo sviluppo costante dell’arte di
Canaletto permette di datare con accuratezza i suoi
lavori, nonostante lo scarso appiglio fornito dai cambiamenti
topografici e le poche opere datate con certezza.
Una di queste appartiene alle ventitré vedute di
Roma eseguite dal pittore nel 1719-20, a inizio carriera,
ventidue delle quali ora si trovano al British Museum
e una a Darmstadt [1] . Datata “AUGUSTO X 1720”, è la
sua prima opera con una certa collocazione cronologica
[2] . I dipinti rispecchiano alla perfezione la storia
raccontata da Pietro Guarienti, Pierre-Jean Mariette e
Antonio Maria Zanetti il Giovane, i tre principali biografi
settecenteschi dell’artista: ovvero che fu a Roma,
mentre assisteva il padre nella produzione di materiale
scenico, che la sua carriera di vedutista ebbe inizio.
Seguendo le parole di Zanetti: “Nei primi anni seguitò
col padre quell’esercizio, utile per sciogliere la mano e
svegliare la fantasia della gioventù e per obbligarla ad
operar con prontezza; e fece bellissimi disegni per gli
scenari […]. Lasciato poi il teatro, annoiato dalla indiscretezza
de’ poeti drammatici […] e ciò fu circa l’anno
1719, in cui scommunicò, così dicea egli sollennemente,
il teatro […]. passò giovinetto a Roma, e tutto
si diede a dipingere vedute dal naturale” [3] .
Sarebbe interessante credere che questi primi
passi come vedutista possano essere stati direttamente
ispirati da Gaspare Vanvitelli, l’artista olandese che si
era stabilito a Roma negli anni Settanta del Seicento
e che è a giusto titolo considerato il padre della
scuola italiana del vedutismo settecentesco. Ci sono
prove che Canaletto conoscesse le composizioni di
Vanvitelli, il che suggerisce un loro incontro a Roma
in quello stesso periodo. Poiché non vi è alcuna testimonianza
che il padre di Canaletto, Bernardo Canal
(1673-1744), avesse eseguito vedute prima di questa
data, né che avesse impartito al figlio una formazione
che esulasse dalla pittura di scenografie teatrali, vi
è ampio spazio di speculazione circa altre influenze.
L’esempio di Vanvitelli nell’intraprendere una carriera
come vedutista potrebbe essere stata un’ispirazione,
ma sotto altri aspetti l’approccio di Canaletto è molto
diverso da quello dell’artista più anziano. In primo
luogo, la maggior parte dei suoi dipinti raffigurano
la Roma antica e non quella moderna, che era il soggetto
preferito di Vanvitelli. Gli stessi quadri sono di
dimensioni ridotte e molto dettagliati, come se fossero
destinati alla stampa: ventidue di essi, in effetti, vennero
tradotti in incisioni solo molto più tardi, verso il
1780. Canaletto doveva conoscere i libri di stampe del
Seicento, come quelli di Aloisio Giovannoli (dell’antica
Roma), Lieven Cruyl, Alessandro Specchi e Giovanni
Battista Falda (della Roma “moderna”); non a caso uno
dei suoi dipinti è una copia diretta di un’incisione del
— CANALETTO— 89
FIG. 1
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
Il rio dei Mendicanti, verso
sud. Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento
veneziano
FIG. 2
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
Piazza San Marco verso la
basilica. Madrid, Museo
Nacional Thyssen-Bornemisza
Quest’ultima veduta è databile agli anni sopra indicati
per l’evidente stato di avanzamento della ripavimentazione
della piazza secondo il progetto di Andrea Tirali.
Sebbene questo dipinto pare contraddistinguersi per
accuratezza documentaria, la mancanza di precisione
topografica è una caratteristica costante nell’opera di
Canaletto. Ciò è particolarmente vero per le rappresentazioni
di piazza San Marco, in cui l’altezza del
campanile viene drasticamente ridotta e sono operate
altre distorsioni, come la riduzione del numero delle
campate delle Procuratie Vecchie. I punti d’osservazione
vengono spesso sollevati, sovente in posizioni
non raggiungibili, celando l’uso della camera oscura. Il
dipinto è uno sfoggio pirotecnico di destrezza tecnica,
il colore è applicato in maniera vivida e ampia, apparentemente
da una distanza adeguata, fondamentale
all’arte di un pittore di scenografie, dando luogo a
una superficie corrugata, dalla ricca materia. Il tutto
si abbina a un affinamento parimenti sensibile nella
capacità di osservazione del pittore. La scena è popolata
da figure sparse dall’aspetto naturalistico e appartenenti
a una gamma variegata di background sociali,
ognuna è una creazione unica lontana dall’universo di
Carlevarijs e dal suo uso ripetuto di “macchiette” da
manuale di modelli. Un’ampia sezione della piazza è
messa in ombra dall’angolo del sole pomeridiano, le
figure che vi si trovano gettano ombre inverse per la
luce che riflette dalla facciata delle Procuratie Nuove.
Ma, cosa più importante, l’impressione di verosimiglianza
non idealizzata è completata dall’atmosfera
cupa, le nuvole incombenti cariche di pioggia che presagiscono
il brutto tempo. Siamo già molto distanti
1683 di quest’ultimo. Sebbene chiaramente si tratti di
opere giovanili, i dipinti mostrano già l’abilità di disegnatore
del giovane artista e, soprattutto, la capacità
di creare composizioni di grande impatto. Canaletto
chiaramente si rese conto della forza dei suoi disegni,
che tenne nel suo studio per decenni (il foglio
di Darmstadt venne portato a Dresda da Bellotto nel
1747). Una serie di esercizi grafici fu la base compositiva
per alcuni dipinti eseguiti negli anni successivi e
nel quinto decennio del secolo, quando vennero utilizzati
anche da Bellotto. Il giovane Piranesi senza dubbio
li conosceva e ne fu influenzato.
Alcuni dei primi dipinti di Canaletto, realizzati
dopo il suo ritorno a Venezia nel 1720, hanno la
chiarezza, la tonalità tenue e la colorazione dorata di
Vanvitelli e del suo discepolo e compatriota del Nord
Hendrik Frans Van Lint (Anversa 1684-Roma 1763).
Tra questi, vi è una veduta di Piazza San Marco, guardando
a sud verso San Giorgio Maggiore, splendidamente
inondata dalla luce del pomeriggio, la cui composizione
è affine a un’opera di Vanvitelli [4] . La tela
di Canaletto fa parte di un piccolo gruppo del 1722
circa, accomunato da ridotte dimensioni, composizioni
d’impatto e minuscole figure avvolte da abiti
scuri e dipinte in modo compatto, assieme a Piazza
San Marco, guardando a ovest (Vienna, Collezione
Liechtenstein [5] ) e Piazza San Marco, guardando a
sud verso San Giorgio Maggiore, attraverso l’Arco della
Torre dell’Orologio (Montecarlo, collezione privata,
precedentemente nella collezione Neave [6] ). Per altri
aspetti, tuttavia, queste ultime vedute hanno un carattere
molto diverso e uno stile più vicino alla serie di
commissioni eseguite negli anni successivi, tutte per
dipinti di dimensioni considerevoli.
Tra le vedute veneziane, le più grandi appartengono
a una serie di quattro dipinti eseguiti per Johann
Wenzel von und zu Liechtenstein nel 1723-4 circa; due
si conservano attualmente al Museo del Settecento
veneziano di Ca’ Rezzonico, Il Canal Grande da Palazzo
Balbi verso Rialto (cat. III.08) e Il rio dei Mendicanti,
verso sud (fig. 1), e due al Museo Thyssen-Bornemisza di
Madrid, tra cui Piazza San Marco verso la basilica (fig. 2).
4 _ Roma, Biblioteca
Nazionale Vittorio Emanuele; G.
Briganti, Gaspar van Wittel, a
cura di L. Laureati, L. Trezzani,
Milano 1996, pp. 407-408, cat.
D339, illustrato.
5 _ Esposto a Aix-en-
Provence, Caumont Centre
d’Art e presentato nel catalogo
dell’esposizione Canaletto,
Rome – Londre – Venise, Paris
2015, pp. 72-73, cat. 6, illustrato
a colori.
6 _ 82,5x48,3 cm.
90 — ROVENTI GIOVINEZZE —
— CANALETTO— 91
dall’universo di Vanvitelli o di Carlevarijs.
Di data affine è una serie di sei vedute di
piazza San Marco e della piazzetta, ma di formato
minore; si tratta delle prime opere commissionate
da Joseph Smith che, alcuni anni dopo, sarebbe divenuto
una figura cruciale per lo sviluppo della carriera
di Canaletto (Londra, Royal Collection) [7] . Due orizzontali
e quattro verticali, sono disposte a coppie, presumibilmente
per decorare una stanza, e sono capolavori
di equilibrio compositivo. Parte del lavoro che
contribuì a ottenere tale risultato è rivelato da evidenti
ripensamenti in alcune di esse; in Piazza San
Marco, guardando a ovest i cambiamenti sono particolarmente
incisivi e vennero eseguiti in uno stadio
molto avanzato del processo di pittura. Un disegno
de L’angolo sud ovest di Palazzo Ducale (cat. IV.11)
(Oxford, Ashmolean Museum, C543), con tutta probabilità
preparatorio al dipinto corrispondente della
serie [8] , ha il carattere di uno schizzo rapido, en plein
air, ma è sicuramente uno studio compositivo realizzato
in studio. Presenta una chiara inaccuratezza topografica
o “correzione” fatta per motivi estetici, con tre
grandi finestre sulle tre campate visibili dell’arcata di
Palazzo Ducale; due sono visibili nel dipinto corrispondente,
ma ce ne dovrebbe essere solo una.
Alle dimensioni di questi dipinti è associata
l’enfasi sulla monumentalità di questi edifici. Ciò è
anche evidente nei dipinti più grandi che Canaletto
abbia mai eseguito, una coppia di enormi capricci
dipinti su commissione dei fratelli Giovanni Benedetto
e Giovanni Paolo Giovanelli per decorare la loro villa
a Noventa Padovana, uno dei quali è datato 1723 [9] .
Questi sono dominati da reminiscenze romane, in particolare
della Roma antica. Mentre Marco Ricci è solitamente
citato come principale riferimento nei primi
capricci di Canaletto – e questi sono probabilmente gli
ultimi che dipinse prima di ritornare su questo genere
nel 1742 – gli edifici dell’artista bellunese sono più leggeri
e delicati (e molti degli esempi più pertinenti sono
effettivamente di data successiva). Il peso dell’architettura
classica è più affine al lavoro dei pittori attivi
a Roma nel secolo precedente, avvezzi alla monumentalità
dell’architettura antica, come Viviano Codazzi
(1604-1670 ca.), Giovanni Ghisolfi (1623-1683),
Alessandro Salucci (1590-1660 ca.) e Angelo Maria
Costa (attivo tra il 1696 e il 1721). Gli altri due grandi
capricci di questa fase dello sviluppo di Canaletto sono
anch’essi di dimensioni considerevoli, e fanno parte
della serie di tombe allegoriche di personalità britanniche
commissionata da Owen McSwiny; si tratta de
La tomba allegorica di Lord Somers e La tomba allegorica
dell’arcivescovo Tillotson (entrambi in collezioni
private) [10] . Essi vennero eseguiti in collaborazione con
Giovanni Battista Cimaroli, che si occupò del foliage e
degli elementi paesaggistici. Il primo ha un’atmosfera
molto cupa, oscura, persino oppressiva. L’elemento
figurativo fu affidato a Giambattista Piazzetta, alcuni
anni dopo che Canaletto ebbe terminato l’architettura.
Il secondo dipinto è più aperto e luminoso, il contributo
di Cimaroli è più evidente, e Giovanni Battista
Pittoni venne scelto per le figure.
Il tono dei dipinti di Canaletto si alleggerisce
progressivamente da questo momento in poi. La
chiesa e la Scuola della Carità dal laboratorio dei marmi
di San Vidal (cat. III.07) (Londra, National Gallery) è
stato verosimilmente datato al 1725 circa, dall’attività
dello scalpellino in primo piano che dà al dipinto il
nome popolare “Il laboratorio de marmi”. La sua presenza
è stata difatti associata al lavoro di costruzione
nell’adiacente chiesa di San Vidal, documentato in
quell’anno. Il dipinto mostra una vista che è molto più
conosciuta oggi che nel Settecento, poiché il campo in
primo piano è ora la via d’accesso per il ponte dell’Accademia.
Allora era un oscuro cul-de-sac, e non se ne
conoscono altre rappresentazioni pittoriche. La chiesa
di Santa Maria della Carità appare con il suo campanile,
che nel marzo del 1744 cadde spettacolarmente
senza essere sostituito. A differenza dei predecessori,
Canaletto è già alla ricerca di soggetti originali oltre il
cuore cerimoniale della città. La luce è più calda che
nelle sue opere precedenti, la pennellata è meno irregolare
e i profili iniziano a farsi più netti: tutti elementi
che a ragion veduta sono stati visti come segno della
transizione tra il primo e il secondo stile del pittore.
È uno sfoggio di bravura la differenziazione della resa
dei vari tipi di opere laterizie, mura ricoperte da stucco
logoro, pietre grezze e levigate, legno, acqua e stracci,
riportando anche una quantità considerevole di dettagli
(solo nell’angolo sinistro una madre che corre verso
il figlio, un galletto alla finestra e la pubblicità di elezioni
locali). È curioso che dei tre dipinti più importanti
di Canaletto alla National Gallery di Londra non
7 _ R. Razzall, L. Whitaker,
Canaletto & the Art of Venice,
London 2017, pp. 136-149, catt.
52-57, tutte illustrate a colori.
8 _ RCIN 401036; Ibidem,
cat. 54.
9 _ Entrambi esposti insieme
a Roma, Palazzo Giustiniani,
e presentati nel catalogo
dell’esposizione Canaletto:
il trionfo della veduta, a cura
di A.B. Kowalczyk, Cinisello
Balsamo 2005, pp. 48-55, catt.
4-5, entrambi illustrati a colori.
10 _ Entrambi esposti a New
York, Metropolitan Museum of
Art, e pubblicati nel catalogo
dell’esposizione Canaletto, New
York 1989, pp. 99-103, catt. 12-
13, entrambi illustrati a colori.
11 _ D. Succi, Luca Carlevarijs,
Gorizia 2015, pp. 150 e 154-155,
cat. 16, illustrato a colori.
FIG. 3
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
L’Arrivo del duca di Gergy,
particolare. San Pietroburgo,
Museo Statale Ermitage
si conoscano le vicende collezionistiche prima del XIX
secolo: questo dipinto, ad esempio, è documentato
per la prima volta nel 1808, quando entrò nella collezione
del mecenate, collezionista e pittore inglese Sir
George Beaumont.
L’ingresso solenne a Palazzo Ducale dell’ambasciatore
di Francia Jacques-Vincent Languet, conte
di Gergy (cat. V.01; fig. 3) (San Pietroburgo, Museo
Statale Ermitage) è la prima rappresentazione di una
cerimonia dipinta da Canaletto. Ritrae il ricevimento
ufficiale del conte di Gergy da parte del doge Alvise II
Mocenigo a Palazzo Ducale il 4 novembre 1726, sebbene
risiedesse in città effettivamente dal 6 dicembre
1723. Si potrebbe supporre che il dipinto di Canaletto
sia stato eseguito poco dopo l’evento. La composizione
è fondamentalmente quella stabilita nel 1703
per le rappresentazioni dei ricevimenti ufficiali di
dignitari a Palazzo Ducale da Luca Carlevarijs, che in
verità aveva eseguito per il conte un esempio, insolitamente
piccolo, del medesimo soggetto (Musée
national du Château de Fontainebleau) [11] . Nella tela
dell’Ermitage è pienamente visibile la grandezza di
Canaletto a questa data, come in una competizione ad
armi pari. Se la larghezza del dipinto di Canaletto corrisponde
al formato preferito da Carlevarijs, il primo
ha aumentato l’altezza della tela e arretrato il punto di
vista per dare una maggiore sensazione di profondità.
Ha trasformato la scena statica e, a confronto, piatta
del Carlevarijs infondendole vita. L’atmosfera è sempre
cupa, a contrasto con l’occasione festiva, e le nuvole
basse forniscono all’artista l’opportunità di includere
il dettaglio dell’ombra di una di esse sulla facciata di
Palazzo Ducale. Il sole tanto ammirato da Marchesini
stava solamente iniziando a spuntare.
92 — ROVENTI GIOVINEZZE —
— CANALETTO— 93
GIUSEPPE
PAVANELLO
FIG. 1
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Diana e Atteone, particolare.
Venezia, Gallerie
dell’Accademia
1 _ V. Da Canal, Della maniera
del dipingere moderno. Memoria
di Vincenzo da Canal P.V. ora
per la prima volta pubblicata
[1735], a cura di G. Moschini,
“Mercurio filosofico e letterario
e poetico”, marzo 1810, p. 16.
2 _ R. Pallucchini,
Nota per Giambattista Tiepolo,
“Emporium”, L, 1-3,
XCIX, 589-591, gennaio-marzo
1944, p. 3.
È un giovane, al quale nulla manca in questa sua età
né di franchezza, né di colorito, né di nuova invenzione,
avendo uno spirito sì franco e pittoresco in ogni
lavoro, che dà gelosia a quanti pittori possono lavorare
col più buon gusto moderno.
(Da Canal 1735) [1]
Quel tanto di appassionato, di violento e di aspro
che caratterizza costantemente la prima formazione
tiepolesca è così prossimo a noi moderni, da tramutare
il problema filologico in un altro di gusto.
(Pallucchini 1944) [2]
ROVENTI
GIOVINEZZE
TIEPOLO
A distanza di due secoli,
non è cambiata la percezione di quella che è stata definita
la “rovente giovinezza” di Giambattista Tiepolo:
parole di Silvia De Vito Battaglia che, poco meno di
cent’anni fa, avviò il recupero delle tele della chiesa
veneziana dell’Ospedaletto, attribuendole, sulla traccia
delle antiche fonti, al giovanissimo Tiepolo [3] .
All’epoca, quel sasso gettato nello stagno non produsse
ondate. Furono gli studiosi veneti, capitanati
da Giuseppe Fiocco e dall’allievo prediletto Rodolfo
Pallucchini, a far opera di sbarramento a quell’intuizione
critica. Ma, si sa, il Tempo scopre la Verità, come
nel formidabile dipinto tiepolesco ora a Boston; quindi
oggi si condivide generalmente quell’ardita proposta.
È un ciclo di tele entusiasmante. Ben sette
le opere, tra soprarchi e coppie di pennacchi, in cui
risalta il rifiuto per la convenienza, il decoro: nessuna
accettazione delle novità alla Sebastiano Ricci, né del
classicismo levigato del maestro, Gregorio Lazzarini.
È, ma non solo, l’“ombreggiare con forza usato dal
Piazzetta”, l’“esatta intelligenza di chiaroscuro”, come
dirà Anton Maria Zanetti [4] , accompagnata da una
disposizione delle figure disinvolta fino alla scompostezza.
Alla fine, si può parlare di una sorta di antologica
personale, nel segno di una pennellata neotenebrosa,
innervata, e, si potrebbe dire, elettrizzata da
chiazze ardite, a stacchi, come di un fauve di primo
Settecento. Ne risulta l’immagine di un artista privo
di inibizioni che, mese dopo mese, tra il 1715 e il
1716, matura il proprio linguaggio nel segno di un’espressività
caricata, come nella coppia degli Apostoli
Tommaso e Giovanni.
È un momento di vivaci sperimentazioni, con
analogie e ‘tangenze’ che coinvolgono pure i coetanei
di Tiepolo, da Mattia Bortoloni al “risoluto e bizzarro”
Giambattista Crosato [5] . Ma è ormai chiaro chi sia stato
nel ruolo-guida, a chi – Tiepolo, appunto – ascrivere le
bizzarrie che caratterizzano la scuola veneziana di questi
anni, ricondotte di solito a Federico Bencovich [6] .
È Tiepolo il leader in quello che si è definito
il mondo dell’“estro pittoresco” [7] . Sua quell’espressività
spinta fino all’allucinazione, quel macchiare
nervoso d’ombra e di lume, quello scatto formale
che innerva l’immagine sino a transustanziarla in una
vitalità che può trovare confronti solo in certi manieristi
visionari, come Tintoretto o El Greco.
Eppure, il giovanissimo Tiepolo si era formato
presso “la pesata e ritenuta scuola” di Gregorio
Lazzarini [ 8] , una scelta che ora sappiamo dovuta pure
a motivi familiari: la conoscenza, con relativa ‘raccomandazione’,
di un ecclesiastico legato alla famiglia [9] .
Presso quella bottega si praticava la copia dal modello,
come appare nella Scuola del nudo, manifesto di adesione,
sul piano stilistico, alla corrente piazzettesca.
Ma ben presto si va ben oltre. “È un giovane, al
quale nulla manca in questa sua età né di franchezza,
né di colorito, né di nuova invenzione, avendo uno
spirito sì franco e pittoresco in ogni lavoro, che dà
gelosia a quanti pittori possono lavorare col più buon
gusto moderno” [10] . È Vincenzo Da Canal, proprio il
biografo di Lazzarini, che scrive: ed è un incalzare di
termini, persino ripetuti – “franchezza”, “franco” –,
con rimarcature – “nuova invenzione” –, con quei tre
“né” iterati, indicativi di inconsueta libertà espressiva.
Tiepolo giovane. Nel tempo, si è venuta a
configurare una personalità sempre più aderente al
profilo tracciato dai contemporanei: “Suo distinto
— TIEPOLO — 95
pregio è il pronto carattere d’inventare, e inventando
distinguere e risolvere ad uno stesso tempo quantità
di figure con novità di ritrovati” [11] . Parole di Anton
Maria Zanetti: si faccia caso alla scansione dei tre
verbi “inventare, distinguere, risolvere”, come un
celebre motto classico.
“Tutto spirito e foco” è l’appellativo che
Vincenzo da Canal dà nel 1732 all’ormai famoso
Giambattista, che aveva già lavorato all’estero, a
Milano [12] . “Spirito” e “fuoco” formano il crogiolo
in cui le diverse componenti della formazione unite
a un’inventiva eccezionale – “fecondissimo d’ingegno”
– si amalgamano sino a trasformarsi in un linguaggio
personale, come l’oro prodotto in seguito
al processo alchemico. Quel giovane, prensile come
pochi, ghermisce a piene mani dagli antichi e dai
moderni, da dipinti e incisioni: Tintoretto, Stefano
della Bella, Pietro Testa e Giulio Carpioni, Pietro
Vecchia, Francesco Solimena, Antonio Balestra, Louis
Dorigny, eccetera. Sempre punti d’appoggio di cui la
fantasia di Tiepolo si serve per avviare, fuori d’ogni
impaccio, una costruzione dell’immagine che risulterà,
alla fine, originale.
“Qualcosa del furor ideativo di Tintoretto
si trasmise al giovane artista o, piuttosto, trovò
corrispondenza nel suo temperamento”, ha rilevato
Mariuz [13] . Fin da subito, un regista che sa tenere sotto
controllo una quantità di nodi figurali: Tintoretto
redivivo, per parafrasare un’espressione celebre di
Francesco Algarotti – “Veronese redivivo” – relativa
al Tiepolo degli anni Quaranta.
Anton Maria Zanetti, rimarcando “il fuoco
del terribile genio suo”, “il grand’impeto della imaginazione”,
scriverà di “vivacità di operare che spirito
in Pittura si chiama”, di “furioso entusiasmo che gli
accendea il cuore” [14] . Sembra che parli dell’artista
“tutto spirito e foco”; invece sono parole riferite a
Tintoretto, ma calzanti pure per il giovane Tiepolo,
che dà subito prova del suo ardimento anche nel
campo della pittura di storia, nella tradizione lagunare
del telero, per misurarsi con l’imponenza seicentesca
e, nel contempo, con i capolavori del secolo
d’oro della pittura veneziana.
Ne è esempio l’immenso Ratto delle Sabine (ora
all’Ermitage di San Pietroburgo, 288x588 cm), collocato
nel palazzo di Alvise III Zorzi presumibilmente
a seguito delle sue nozze con Lucia Donà celebrate
nel febbraio 1718 (fig. 2). Pur nell’omaggio a precedenti
illustri, come il telero con quel soggetto eseguito
da Sebastiano Ricci per il salone di palazzo Barbaro,
3 _ S. De Vito Battaglia,
Le opere di G.B. Tiepolo nella
chiesa dell’Ospedaletto a
Venezia, “Rivista dell’Istituto di
Archeologia e Storia dell’arte”,
3, 1931, pp. 189-206. Per una
più articolata trattazione, il
saggio di chi scrive Un pittore
“tutto spirito e foco”, apparso
in Il giovane Tiepolo. La
scoperta della luce, catalogo
della mostra (Udine, Castello)
a cura di G. Pavanello, V.
Gransinigh, Udine 2011, pp.
20-61; quindi le schede in
Giambattista Tiepolo “il miglior
pittore di Venezia”, catalogo
della mostra (Passariano, Villa
Manin) a cura di G. Bergamini,
A. Craievich, F. Pedrocco,
Passariano-Codroipo 2012,
pp. 212-214. I due soprarchi
con i Dottori della Chiesa
sono stati riferiti a Tiepolo
dallo scrivente: Ancora sul
giovane Tiepolo: un disegno per
l’Apostolo Giacomo maggiore e
i pennacchi con i Dottori della
Chiesa all’Ospedaletto, in Il cielo
o qualcosa di più. Scritti per
Adriano Mariuz, a cura di E.
Saccomani, Cittadella 2007, pp.
166-170. Come noto, il soprarco
con I santi Girolamo e Agostino
è stato danneggiato in modo
gravissimo nell’incendio del
4 maggio 2010 ed è tuttora in
attesa di restauro.
4 _ A.M. Zanetti, Descrizione
di tutte le pubbliche pitture
della città di Venezia e Isole
circonvicine, Venezia 1733, p. 62.
5 _ Da Canal 1810, p. 16.
FIG. 2
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Ratto delle Sabine,
particolare.
San Pietroburgo, Museo
Statale Ermitage
FIG. 3
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Fetonte chiede il carro ad
Apollo, particolare.
Massanzago, villa Baglioni
6 _ Si rinvia al catalogo della
mostra di Udine citato alla
nota 3, quindi all’articolo di
chi scrive, Non Bencovich, ma
Crosato, compreso in Schedule
sei e settecentesche, “Arte in
Friuli Arte a Trieste”, 16-17,
1997, pp. 73-79. Infine, alla
monografia di Gabriele Crosilla,
in corso di stampa: Federico
Bencovich, Soncino 2019.
7 _ Cfr. il breve testo di
chi scrive: I pittori dell’estro
pittoresco, in Bortoloni,
Piazzetta, Tiepolo il ’700 veneto,
catalogo della mostra (Rovigo,
Palazzo Roverella) a cura di F.
Malachin, A. Vedova, Cinisello
Balsamo 2010, pp. 18-19.
8 _ A.M. Zanetti, Della
pittura veneziana e delle opere
pubbliche de’ veneziani maestri
libri V, Venezia 1771, p. 464.
9 _ S. Bostock, Novità
biografiche sugli anni giovanili
di Giambattista Tiepolo, “Arte
Veneta”, 66, 2010, pp. 220-221,
223, 226.
10 _ Da Canal 1810, p. 15.
11 _ Zanetti 1733, p. 62.
12 _ Da Canal 1810, p. XXXII.
13 _ A. Mariuz, Giambattista
Tiepolo, in La Gloria di Venezia.
L’arte nel diciottesimo secolo,
catalogo della mostra (London,
Royal Academy of Arts) a cura
di J. Martineau, A. Robison,
(edizione italiana Milano 1994,
p. 171) (quindi, in A. Mariuz,
Tiepolo, a cura di G. Pavanello,
Verona 2008, p. 297).
14 _ Zanetti 1771, pp. 128-129.
15 _ Cfr. A. Craievich, Antonio
Molinari, Soncino 2005, cat. 65,
tav. XL.
16 _ I. Artemieva, Un
episodio del collezionismo
russo di opere di Giambattista
Tiepolo: “Il ratto delle Sabine”
dell’Ermitage, “Arte Veneta”, 49,
1996, p. 41.
FIG. 4
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Trionfo dell’Eloquenza,
particolare.
Venezia, palazzo Sandi
o l’altro di Antonio Molinari raffigurante la Lotta dei
Lapiti con i Centauri di casa Correr, [15] emergono novità
d’impianto e di stesura, specie per via di quella foga, di
quel fare “a macchia”. Come “mutevole Proteo” [16] , l’artista
ci sorprende ogni volta per la varietà di esiti della
sua maniera “spedita e risoluta”, anche se non riesce
sempre a dare omogeneità e coerenza ai vari gruppi di
personaggi, talvolta scollegati tra loro.
Capolavoro della giovinezza, l’affresco del
salone di villa Baglioni a Massanzago. Siamo verosimilmente
nel 1719. Nella dimora di terraferma
di Giambattista Baglioni, patrizio veneto di fresca
nomina, entro un unico grande ambiente viene prospettato,
in un continuum narrativo, un tema soltanto:
Fetonte che chiede ad Apollo il carro del Sole
e che precipita nell’Eridano (fig. 3). Per impaginarlo,
si riprendono motivi da incisioni – di Pietro Testa e
Giulio Carpioni – nonché da una tela di Balestra; così
si strizza l’occhio a Ricci, a Piazzetta, come a Dorigny.
Senza l’esempio del primo non si spiegherebbe il
grande respiro della composizione, l’aria e la luce che
la pervadono, e al repertorio riccesco sono ispirati
i gesti, le pose, le tipologie di più manifesta grazia
rococò. Dall’altra parte, si palesa il debito nei confronti
del metodo piazzettesco nella calcolata modellazione
plastica delle figure in primo piano, conseguita
attraverso un pieno controllo ottico dell’immagine;
anche se ancora non si ravvisa l’interesse per
una caratterizzazione icastica dei particolari e per una
espressione ‘caricata’ degli affetti, quale si riscontrerà,
invece, negli affreschi udinesi della Galleria.
Emergono motivi, figure, idee compositive
che il pittore continuerà a svolgere e a variare nel
corso della sua attività, come se proprio in questa circostanza
egli avesse individuato il nucleo generatore
della sua visione, liberando flussi d’immagini che non
abbandoneranno più la sua fantasia.
Ogni volta che lo si considera, quell’affresco
rivela la sua originalità, il ruolo cardine per l’autore e
per un’epoca dominata da Sebastiano Ricci, rientrato
a Venezia dopo il soggiorno inglese. Ma Tiepolo ormai
è su un altro pianeta. Egli sembra sogguardare, con lo
stesso sussiego di uno dei suoi personaggi, l’esecuzione
virtuosa, stilisticamente impeccabile, dell’anziano collega,
che ormai viaggiava su un binario morto.
Solo Piazzetta può davvero tenergli testa e lo si
vedrà subito, all’atto del concorso per il soffitto della
cappella di san Domenico ai Santi Giovanni e Paolo,
nel 1723. È più anziano e ha molti successi alle spalle,
e quel concorso lo vince meritatamente. Il bozzetto
del giovane rivale non è da meno, con quelle figure
d’angeli disseminate sul cornicione, le stesse che volteggiano
nella Galleria di Udine, ma è più nuova l’invenzione
piazzettesca – andamento a zig-zag e spazio
libero al centro –: imprevedibile, per un artista
non aduso alle composizioni da soffitto. Come per
Debussy il quartetto d’archi, sarà la sua unica, geniale,
prova in quel genere.
96 — ROVENTI GIOVINEZZE —
— TIEPOLO — 97
Al tempo stesso, il pressoché contemporaneo
intervento in palazzo Sandi. Incanta il brio, la
baldanza potremmo dire, con cui un astruso tema
barocco – il Trionfo dell’Eloquenza – viene srotolato
a mo’ di fregio nella zona perimetrale di quel soffitto.
Come il cavallo di Bellerofonte, l’intera composizione
sembra impennarsi entro un ritmo sinusoidale,
a strappi, con i personaggi scorciati sul cielo come
sculture svettanti su un muro di cinta (fig. 4).
Tiepolo lavora indifferente sia per l’antica aristocrazia
veneziana (Pisani, Corner, Zorzi) sia per la
nuova (Baglioni, Sandi), ma anche per committenti
“borghesi”. Disegnatore per insegne di negozi, pittore
di tele grandiose a soggetto sacro per dei farmacisti: la
Madonna del Carmelo di Brera (210x650 cm), commissionata
nel dicembre 1721 per la chiesa veneziana di
Sant’Aponal, e la Crocifissione di Burano (250x400 cm:
fig. 5), nella quale compare, entro un ovale, il ritratto
del committente: raro esempio à la manière de Rosalba
Carriera, omaggio all’artista che aveva rinnovato dalle
fondamenta la tipologia del ritratto agli albori del
secolo concentrando l’attenzione sul volto dell’effigiato.
Il gesto della mano che si staglia sul fondo scuro,
pur accostante, è perentorio, a indicare una direzione
che porta, senza ostacoli, alla Croce. Tintoretto alla
Scuola di San Rocco e a San Severo, Palma il Giovane
alla Madonna dell’Orto, Leonardo Corona a San
Giovanni Elemosinario, Veronese a San Nicolò, Pietro
Vecchia a San Lio e agli Ognissanti: Crocifissioni degli
antichi maestri che Giambattista studia nelle chiese
veneziane, come in una periegesi alla ricerca di motivi
da far propri per un tema che imponeva di misurarsi
con due secoli di pittura.
Spostiamoci nel Palazzo Patriarcale di Udine.
Le forme della nuova architettura, quindi le relative
decorazioni ad affresco, dovevano proclamare
la grandezza del Patriarcato di Aquileia, in un’epoca
di incertezze e discussioni sul ruolo di Udine quale
sede dell’antichissima istituzione. I lavori di costruzione
erano completati nel 1718. Era urgente passare
alla seconda fase, ancora più cruciale, in cui far
palese il progetto politico-religioso portato avanti
dal patriarca, il cardinale Dionisio Dolfin, nipote del
predecessore, cardinale Giovanni Dolfin: la famiglia
veneziana riproponeva fra Sei e Settecento la successione
familiare che era stata dei Grimani.
È la Galleria lo spazio privilegiato per far subito
comprendere a chi vi faceva ingresso l’ambiziosa iniziativa,
e il patriarca Dolfin non trascurava di farvi porre
il proprio ritratto in forma di busto, a sottolineare
FIG. 5
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Crocefissione.
Burano, chiesa di San Martino
17 _ Mariuz 1994, p. 178
(quindi, in Mariuz 2008, p. 307).
18 _ D. Ton, Tiepolo e Vico:
il “Trionfo dell’Eloquenza” in
palazzo Sandi, “Arte Veneta”,
61, 2004, p. 111.
FIG. 6
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Rachele nasconde gli idoli,
particolare.
Udine, Palazzo Patriarcale
l’ininterrotta discendenza dai patriarchi dell’Antico
Testamento. Gli si contrappuntava, dirimpetto, quello
del frescante, responsabile di aver dato forma a quelle
aspettative, un Tiepolo poco più che ventenne, proprio
al centro del brano maggiore – e più denso di
significati –, con Rachele che nasconde gli idoli (fig. 6).
Grazie all’affresco, scopriamo un altro Tiepolo:
egli è ora come la farfalla che esce dalla crisalide.
Una luce limpidissima, come mai prima s’era
vista nell’opera tiepolesca, bagna ogni cosa,
esalta i colori che, più ancora che dalla pittura
di Veronese, si direbbero distillati dalla flora
primaverile. Giambattista ha scelto di rappresentare
la saga dei primi patriarchi [...] in una
chiave che si potrebbe definire domestico-fiabesca;
[...] soprattutto perché il soprannaturale,
il meraviglioso, entrano nella sua visione come
una componente integrante del quotidiano,
connaturata ad esso. [...] Nella sua opera successiva
non si troverà più un simile accordo di
incanto fiabesco e di umorismo, di gusto cifrato
della forma e freschezza di racconto. È come se,
eseguiti questi affreschi, gli fosse capitato quello
che succede a quei cantanti che, maturando,
cambiano timbro di voce, diventano baritoni da
tenori. [17]
Di continuo, in progress. Subito dopo, lo scalone
e la cappella in duomo, quindi la cappella di
Santa Teresa nella chiesa veneziana degli Scalzi. Il
“piccolo uragano da salotto” scatenato nel soffitto di
palazzo Sandi [18] si è amplificato, sino a coinvolgere
l’osservatore grazie al dissolvimento del limite fra
spazio reale e spazio d’illusione.
Un ulteriore viaggio a Udine. In una sala del
Palazzo Patriarcale Tiepolo affresca Il giudizio di
Salomone. Alla stesura sciolta, liquida, che aveva caratterizzato
soprattutto la volta della Galleria, è subentrata
una pennellata più corposa e costruttiva, d’un cromatismo
sontuoso, che riprende la tavolozza di Veronese, già
ravvisabile nell’Achille scoperto tra le figlie di Licomede,
una delle tele parietali di palazzo Sandi, che, di Veronese,
riprende lo schema del Ritrovamento di Mosè allora nel
palazzo Grimani ai Servi.
Siamo intorno al 1726 o poco oltre.
Giambattista era allora sui trent’anni: il tempo della
giovinezza scapigliata era quasi un ricordo.
98 — ROVENTI GIOVINEZZE —
— TIEPOLO — 99
CAT.III.01
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Diana e Callisto
Olio su tela, 100×135 cm
Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 755
Bibliografia _ Levey 1986, pp. 16-17; Gemin, Pedrocco
1993, p. 228, cat. 30; Mariuz, in The Glory 1994, p. 174;
Pallucchini 1995, I, p. 333; Pilo, in Giambattista Tiepolo
1996, pp. 68-72; Loire, de Los Llanos, in Giambattista
Tiepolo 1998, p. 78; Pedrocco 2002, p. 201, cat. 27/3;
Ton, in Giambattista Tiepolo 2012, pp. 215-216, cat. 3a,
con bibliografia precedente.
CAT.III.02
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Diana e Atteone
Olio su tela, 100×135 cm
Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 754
Bibliografia _ Gemin, Pedrocco 1993, p. 228,
cat. 30; Pallucchini 1995, I, p. 333, fig. 541; Magrini,
in Splendori Settecento 1995, pp. 232-233, cat. 49; Pilo,
in Giambattista Tiepolo 1996, pp. 68-72, cat. 6a; Loire,
de Los Llanos, in Giambattista Tiepolo 1998,
pp. 78-81, cat. 5; Pedroccco 2002, p. 201, cat. 27/2;
Panchieri, in Il giovane Tiepolo 2011, p. 170, cat. 22,
con bibliografia precedente.
100 — ROVENTI GIOVINEZZE — — CATALOGO DELLE OPERE — 101
CAT.III.04
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Contadina che si spulcia
Olio su tela, 74,5×96,5 cm
Boston, Museum of Fine Arts, Ernest Wadsworth
Longfellow Fund, 1946, inv. 46.461
Bibliografia _ Mariuz 1982, pp. 77-78, cat. 13; Knox
1992, p. 71, fig. 61.
CAT.III.03
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Giovane erbivendolo che conta i denari
Olio su tela, 74,5×96,5 cm
Boston, Museum of Fine Arts, Ernest Wadsworth
Longfellow Fund, 1946, inv. 46.462
Bibliografia _ Mariuz 1982, p. 78, cat. 14; Knox 1992,
p. 74, fig. 62.
102 — ROVENTI GIOVINEZZE — — CATALOGO DELLE OPERE — 103
CAT.III.05
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Giuditta e Oloferne
Olio su tela, 81×94 cm
Roma, Accademia Nazionale di San Luca, inv. 693
Bibliografia _ Mariuz 1982, p. 79, cat. 18; Knox 1992,
pp. 171, 181, fig. 130; Loisel, in Éblouissante Venise 2018,
p. 245, cat. 49.
CAT.III.06
FEDERICO BENCOVICH
Sant’Andrea tra i santi Bartolomeo, Carlo Borromeo,
Lucia e Apollonia
Olio su tela, 236×167 cm
Senonches, chiesa parrocchiale
Bibliografia _ Rosenberg, Brejon de Levergnée
1981, pp. 187-191; Volle, in Settecento 2000, cat. 15, con
bibliografia precedente; Craievich, in Éblouissante
Venise 2018, p. 245, cat. 41.
104 — ROVENTI GIOVINEZZE —
CAT.III.07
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
La chiesa e la Scuola della Carità dal laboratorio dei
marmi di San Vidal
Olio su tela, 147,7×199,4 cm
Londra, The National Gallery, inv. NG 127
Bibliografia _ Constable 1962, I, fig. 43, II, cat. 199;
Levey 1973, pp. 28, 36, fig. 2; Links 1977, pp. 35-36,
41, figg. 41-43; Corboz 1985, I, pp. 94, 97, fig. 92, II,
p. 580, cat. P54; Pallucchini 1995, I, pp. 480, fig. 752;
Kowalczyk, in Canaletto 2001, pp. 160-163, cat. 60;
Beddington, in Venice: Canaletto 2010, p. 181, cat. 11.
— CATALOGO DELLE OPERE — 107
CAT.III.08
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il Canal Grande da Palazzo Balbi verso Rialto
Olio su tela, 144×207 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. I, n. 2325
Bibliografia _ Kowalczyk, in Canaletto 2001, p. 138,
cat. 50; Pedrocco, in Canaletto 2008, pp. 254-255, cat.
24; Kowalczyk, in Canaletto 2015, p. 75, cat. 7.
108 — ROVENTI GIOVINEZZE —
CAT.III.10
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Nudo virile seduto
Matita nera, gessetto bianco, 458×325 mm
Verona, Gabinetto Disegni e Stampe dei Civici Musei
d’Arte, inv. 13113 2b 581
Bibliografia _ Marinelli 1996, p. 45; Marini, in Museo
di Castelvecchio 1999, cat. 41; Marini 2000, cat. 28;
Pasian, in Il giovane Tiepolo 2011, p. 136, cat. 10.
CAT.III.11
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Nudo femminile seduto
Carboncino, gesso bianco, 526×396 mm
Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 2603
Bibliografia _ Mariuz 1982, p. 134, cat. D55; Knox, in
G.B. Piazzetta 1983, cat. 2; Marini, in The Glory 1994,
p. 473, cat. 60.
CAT.III.12
GIULIA LAMA
Nudo femminile sdraiato
Carboncino e gessetto bianco, 451×570 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 6987
Bibliografia _ Pedrocco, in Disegni antichi 1987, pp.
44-45, cat. 940; Giulia Lama 2018, pp. 12-13.
CAT.III.09
GIAMBATTISTA TIEPOLO
La scuola del nudo
Matita nera, 410×540 mm
Inghilterra, collezione privata
Bibliografia _ Morassi 1971; Levey 1986, p. 8, tav.
11; Knox 1992, p. 211, tav. 151; Harrison, in The Glory
1994, p. 493, cat. 91; Lucchese 2017, pp. 154-175, con
bibliografia precedente.
110 — ROVENTI GIOVINEZZE — — CATALOGO DELLE OPERE — 111
LA SCOPERTA
DELLA LUCE
CHARLES
BEDDINGTON
FIG. 1
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
Il molo verso est con la
colonna di San Marco,
particolare.
Milano, Pinacoteca del
Castello Sforzesco
1 _ Tutte esposte a New
York nel corso dell’esposizione
Canaletto (Metropolitan
Museum of Art), e pubblicate
nel relativo catalogo, New York
1989, pp. 104-121, catt. 14-22,
illustrate a colori.
2 _ Owen McSwiny’s Letters
1720-1744, a cura di T.D.
Llewellyn, Verona 2009, p. 86.
LA SCOPERTA
DELLA LUCE
CANALETTO
Tra il 1726 e il 1731
Canaletto esegue una serie di vedute veneziane su
rame che segnano dei cambi di direzione sotto vari
aspetti. Nove di esse, alcune coppie in una collezione
privata belga e presso Holkham Hall (catt. IV.01-02),
Goodwood House e Chatsworth e una singola al
Musée des Beaux-Arts di Strasburgo, sono arrivate
a noi [1] . L’uso del rame come supporto è raro per le
vedute e di per sé rappresenta un nuovo sviluppo: è
infatti la prima volta in cui il pittore usa un supporto
diverso dalla tela. In seguito si spingerà oltre, usando
sporadicamente tele applicate a pannelli e, durante gli
anni trascorsi a Londra, pannelli di mogano, oltre a vari
colori di fondo e all’adozione della tecnica dell’acquaforte.
Tutte le lastre in rame misurano approssimativamente
45x60 cm, una dimensione che agevolava
il trasporto. A partire da questo momento, e sicuramente
per ragioni commerciali, i dipinti di grandi
dimensioni vengono numericamente superati da altri
relativamente più piccoli, che possono essere più facilmente
spediti all’estero, ai mecenati britannici che
li hanno ordinati durante le loro visite a Venezia. La
superficie liscia del supporto, la trasparenza, l’atmosfera
di pace e la calda luce solare che caratterizzano
le lastre di rame diventano caratteristiche di questa
fase, in cui lo schiarimento dei toni evoca lo sviluppo
di Giambattista Tiepolo, più vecchio di Canaletto di
un anno, scostandosi dal tenebrismo di Giambattista
Piazzetta. Le lastre di rame risalgono a date diverse
e la coppia di Chatsworth, con i suoi marcati profili
neri, è chiaramente quella di data più recente. È tuttavia
sorprendentemente difficile collegare gli esempi di
cui abbiamo traccia con la documentazione esistente.
Sir William Morice, che acquistò la coppia ora in una
collezione privata belga, sicuramente la più antica, non
si recò a Venezia prima del novembre 1729 [2] . La coppia
formata da Il Canal Grande da San Vio e Il Ponte
di Rialto, ora a Holkham Hall, erano di proprietà di
Thomas Coke, primo conte di Leicester (1697-1759),
ma non vi è alcuna traccia dell’acquisto. È probabile
che sia stata acquisita tramite Joseph Smith. Con le
lastre di rame la responsabilità di diffusione commerciale
dell’opera di Canaletto ai mecenati britannici
passò da Owen McSwiny – che aveva commissionato
le tombe allegoriche intorno al 1723 e che sembra aver
avuto qualche ruolo con le prime tre coppie – all’amico
Joseph Smith, che aveva ordinato la serie di sei
vedute con la Piazza e Piazzetta del 1723-24 circa e che
avrebbe avuto un ruolo determinante nella carriera
successiva del pittore.
Una coppia di vedute, eseguita per il mecenate
irlandese Hugh Howard di Shelton Abbey e ricevuta
il 22 agosto 1730 – L’ingresso del Canal Grande,
verso ovest, con la Basilica della Salute (fig. 2) e Il Canal
Grande, guardando a sud-ovest dal Ponte di Rialto
verso Palazzo Foscari (Houston, Museum of Fine
Arts) [3] – e una coppia per Samuel Hill di Shenstone
Park, Staffordshire, documentata al 1730-31 – La Riva
degli Schiavoni verso est e Il Molo verso ovest (Tatton
Park, The Egerton Collection, National Trust) [4] – sono
le prime opere databili con sicurezza in quello che si
potrebbe descrivere lo stile “maturo” di Canaletto, che
arriva fino al 1738 circa. Si tratta di dipinti molto precisi,
con largo uso di dettagli e profili neri come nelle
lastre di rame di Chatsworth. Gli effetti atmosferici che
dominano le opere dei primi anni Venti lasciano spazio
alla tranquillità e danno nuova enfasi alla solidità degli
— CANALETTO— 115
edifici. L’esecuzione è incredibilmente sicura, con piccole
pennellate che differenziano splendidamente la
resa di marmo, pietra, mattoni, legno, tessuti e acqua.
Ogni figura in primo piano è uno studio indipendente.
La tonalità è chiara, con vividi sprazzi di colore nei
vestiti. Sono presenti dettagli in gran quantità, a dire
il vero molti di più di quanti l’occhio possa assimilarne
davanti alla veduta. Viene stabilita una formula per rappresentare
le increspature dell’acqua, e il cielo è punteggiato
da nuvole attentamente posizionate che in un
certo qual modo somigliano a matasse galleggianti di
ovatta.
Queste due commesse sono le prime sicuramente
’piazzate’ grazie all’intermediazione di Joseph
Smith, che potrebbe anche essere stato, almeno
in parte, responsabile dello sviluppo dello stile di
Canaletto, influenzandolo ad adattarsi ai gusti dei
clienti britannici. Per i successivi otto anni la vita
dell’artista sarebbe stata dominata da gratificanti
commissioni ottenute grazie a Smith, e la richiesta
di vedute veneziane era tale che per dieci anni, anche
volendo, non ebbe tempo per altro. Gli anni Trenta
sono l’epoca d’oro della carriera dell’artista, durante
i quali, nonostante il crescente peso delle commesse,
mantiene un costante livello di qualità, mentre il calore
dei suoi dipinti sembra riflettere il suo piacere di aver
conseguito l’apice del successo. I quadri vengono
spesso ordinati in serie, di cui il maggiore esempio è
la serie di ventiquattro vedute, due grandi e le restanti
di dimensioni minori che poi diventeranno standard,
approssimativamente 47x80 cm, eseguite nel 1733-
36 circa per John Russell, quarto duca di Bedford, e
ancora nella collezione di famiglia presso Woburn
Abbey, e una serie di venti vedute delle stesse ridotte
dimensioni dipinte immediatamente dopo per il
cognato Charles Spencer, terzo duca di Marlborough,
ora sparse tra varie collezioni private. Vista la relazione
tra i due committenti, Canaletto differenziò attentamente
i soggetti della seconda serie, espandendo sensibilmente
il raggio topografico delle vedute veneziane.
Smith avrebbe continuato a commissionare dipinti per
decorare il proprio palazzo sul Canal Grande fino agli
anni Cinquanta. Era anche un avido collezionista dei
disegni di Canaletto: già negli anni Trenta commissionava
fogli finiti, come L’angolo di Palazzo Ducale con
San Giorgio Maggiore (cat. IV.12) (C544; Londra, Royal
Collection). Probabilmente del 1730 circa, esso si basa
su un disegno di diversi anni prima (cat. IV.11) (Oxford,
Ashmolean Museum) e come quello include una finestra
“extra” sulla facciata di Palazzo Ducale. La composizione
è stata aggiornata, con la cupola a cipolla del
campanile di San Giorgio Maggiore che sostituì quella
piramidale nel 1726-28, e corretta, con la colonna di
San Marco ridotta. Ripensamenti sono evidenti nelle
linee dell’arcata e nell’altezza del campanile.
Il capolavoro della metà degli anni Trenta è
un dipinto di dimensioni insolitamente grandi, non
eseguito per l’estero, e probabilmente non commissionato
tramite Smith, La Riva degli Schiavoni, verso
ovest (fig. 3) (Londra, Sir John Soane’s Museum), la
veduta più copiata di Canaletto, di cui è noto un pagamento
parziale effettuato a febbraio del 1736. Caso
unico in questa fase della carriera dell’artista, venne
dipinta per un residente di Venezia (non Smith), per
FIG. 2
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
L’ingresso del Canal Grande,
verso ovest, con la Basilica
della Salute.
Houston, Museum of Fine Arts
FIG. 3
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
La Riva degli Schiavoni, verso
ovest.
Londra, Sir John Soane’s
Museum
3 _ W.G. Constable,
Canaletto: Giovanni Antonio
Canal 1697-1768, I, London
1962, catt. 166, 220; esposte
a New York e pubblicate in
Canaletto 1989, pp. 149-53,
catt. 35-36, entrambe illustrate
a colori.
4 _ Esposte a New York:
Canaletto 1989, pp. 144-9,
catt. 33-4, entrambe illustrate
a colori, e Roma, Palazzo
Giustiniani: Canaletto: il trionfo
della veduta, a cura di B.A.
Kowalczyk, Cinisello Balsamo
2005, pp. 88-93, catt. 15-16,
entrambe illustrate a colori.
5 _ Constable 1962, catt. 333,
350, 14, 24.
6 _ Ivi, cat. 131.
7 _ Ivi, cat. 259.
8 _ A. Bettagno, In margine a
una Mostra, “Notizie di Palazzo
Albani”, XII, 1-2, 1983, pp.
227-228.
il quale le grandi dimensioni non costituivano un problema.
Venne richiesta dal feldmaresciallo Johann
Matthias von der Schulenburg (1661-1747), mecenate
e collezionista di sufficiente perspicacia da apprezzare
il dipinto di una veduta decisamente insolita. La
fama di Canaletto subì un’impennata dopo la pubblicazione
nel 1735 della prima edizione del Prospectus
Magni Canalis Venetiarum di Antonio Visentini, celebre
libro di quattordici incisioni tratte dalle vedute
veneziane dell’artista appartenenti alla collezione di
Smith, che aiutò a diffondere le sue composizioni e
senza dubbio servì anche ad attrarre ulteriori incarichi.
Una seconda edizione ampliata, pubblicata nel 1742,
include dipinti commissionati tramite Smith ma non
conservati nella sua collezione. Tra questi, Il molo verso
est con la colonna di San Marco (cat. IV.03) (Milano,
Pinacoteca del Castello Sforzesco). Databile secondo
elementi stilistici al 1738 circa, questo dipinto e il suo
pendant, nella stessa collezione, facevano parte di cinque
superbe coppie di vedute veneziane eseguite per
Thomas Osborne, quarto duca di Leeds, di cui altre
si trovano alla National Gallery di Londra, al Fogg
Art Museum di Harvard e al Detroit Institute of Arts
[5]
. Tutte erano racchiuse in finissime cornici in stile
William Kent. Il duca aveva visitato Venezia nel 1734,
creando un caso relativamente raro di una commessa
non corrispondente con precisione alla visita del
committente.
A questo punto l’atmosfera dell’opera del
Canaletto cambia nettamente, la luce fredda sostituisce
il caldo bagliore del sole che pervade i dipinti d’inizio
decennio, e mantiene questo carattere fino al 1742
circa, quando torna la luce solare. Un altro dipinto
inciso per l’edizione del 1742 del Visentini è Il Canal
Grande da Santa Chiara verso Santa Croce (cat. IV.05)
(Parigi, Musée Cognacq-Jay). Sfortunatamente il cliente
di Smith per quest’opera e il suo pendant, della stessa
collezione, non è identificabile. Si tratta di una delle
vedute di Venezia di dimensioni piccole “standard”
ma differisce dalle serie di Bedford e Marlborough nel
carattere glaciale della luce, per la quale si può proporre
una datazione all’inizio del periodo “freddo”, al
1738 circa. Con questo stile produsse un gran numero
di capolavori, in particolare la “fredda” veduta del
Bacino di San Marco, verso est (cat. IV.04) (Boston,
Museum of Fine Arts) [6] , e Il Canal grande a San
Simeone Piccolo (Londra, National Gallery) [7] , che non
ha eguali nella sua limpidezza e precisione. Il quadro di
Boston è un ottimo esempio dell’inclinazione dell’artista
di dare l’impressione di aver dipinto da un punto
di vista irraggiungibile. Questa tela deve aver messo
al massimo alla prova le sue capacità immaginative, e
un punto era sicuramente quello di celare l’uso della
camera oscura. Il dipinto è ricchissimo di dettagli, una
vera e propria enciclopedia dei tipi di attività visibili
nelle acque di Venezia, come la presenza di spedizionieri
inglesi, francesi e danesi, oltre che veneziani. Per
fortuna Canaletto ha incluso, nello skyline a destra della
chiesa di San Zaccaria, un dettaglio che aiuta la datazione.
Si tratta di un’opportunità rara nella sua opera,
visti i pochi cambiamenti topografici nella città oltre
alla mancanza di rispetto per l’accuratezza dimostrata
dall’artista. Si vede un’impalcatura sulla nuova cupola
a cipolla del campanile della chiesa di Sant’Antonin,
documentata come prossima alla conclusione nell’ottobre
1738 [8] . La data convince pienamente anche dal
punto di vista stilistico. Tutto è tenuto assieme dalla
luce cristallina, invernale, qui più che in qualsiasi altro
dipinto di Canaletto, e la superficie, piuttosto ‘ruvida’
per un’opera di quest’epoca, ne amplifica l’effetto.
116 —LA SCOPERTA DELLA LUCE —
— CANALETTO— 117
DENIS
TON
FIG. 1
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Passeggiata campestre.
Colonia, Wallraf-Richartz
Museum
1 _ “Dans la vigeur de son
âge, il était d’un tempérament
très-vif & fort jaloux de sa
reputation. Il est a combattre
les ennemis ordinaires du
mérite ce furent ses rivaux:
Sebastiano Ricci fut du nombre
& il lui reproche avivement
l’offre qu’il avait faite aux
Senateurs de corriger & de
retoucher un de ses tableaux”.
A. J. Dezallier d’Argenville,
Abregé de la vie des plus
fameux peintres, Paris 1762,
p. 319. Sul profilo che l’autore
francese dedica a Piazzetta, si
veda, recentemente: S. Loire,
Giambattista Piazzetta dans
l’“Abregé de la vie des plus
fameux peintres” de Dezallier
d’Argenville (1762), “Bollettino
dei Musei Civici Veneziani”, ser.
2, 9/10, 2014-2015, pp. 172-179.
2 _ A. Scarpa, Sebastiano
Ricci, Milano 2006, p. 335, cat.
542.
LA SCOPERTA
DELLA LUCE
TIEPOLO E
PIAZZETTA
Racconta Dezallier D’Argenville
che Sebastiano Ricci, colui che al principio del
Settecento era senza ombra di dubbio riconosciuto
come il grande maestro e punto di riferimento per una
generazione intera di pittori, si sarebbe un giorno proposto
di ritoccare uno dei dipinti di un giovane artista,
per migliorarlo [1] . Quel giovane era Giambattista
Piazzetta, dal carattere orgoglioso e sicuramente consapevole
delle proprie capacità, e v’è motivo di credere
che una simile proposta abbia causato un risentimento
duraturo, corroborato da altri irritanti episodi:
intorno al 1718, il pittore si vide rifiutare dalla Scuola
dell’Angelo Custode a Venezia una sua pala d’altare a
vantaggio di quella, di medesimo soggetto, poi commissionata
al maestro bellunese [2] . Piazzetta dovette
misurare l’incompatibilità della propria maniera
rispetto all’alternativa riccesca: da un lato – nel frammento
superstite della sua tela, ora a Detroit (fig. 4) [3] ,
che fu prontamente acquistato dopo il rifiuto dal
senatore Zaccaria Sagredo – la Madonna ci appare in
tutta la sua altera superiorità, Madre e Regina celeste,
in un racconto austero e drammatico, tra luci affocate;
dall’altro, il suo antagonista aveva immaginato
la Vergine come una mamma sorridente e divertita
che osserva dal balcone i giochi a scalone dei bimbi in
cortile. Per Piazzetta invece la pittura è, tanto più nel
suo periodo giovanile, una cosa tremendamente seria,
tutta racchiusa nella tensione tra un divino reso tangibile
nella natura e un reale sottratto alla contingenza,
immerso in clima di sospensione. Su tutto, però, uno
stile costruito su intonazioni neotenebrose e netti
risalti di chiaroscuro. Qualche tempo dopo, con l’Estasi
di san Francesco per la chiesa vicentina dell’Araceli
(oggi Musei Civici, Pinacoteca di Palazzo Chiericati),
del 1732, si confronterà a distanza con un tema simile
a quello affrontato poco lontano da Sebastiano Ricci,
nell’Estasi di Santa Teresa per un altro tempio vicentino,
San Girolamo degli Scalzi (il cui bozzetto preparatorio
si trova a Vienna, Kusthistorishes Museum, fig.
2). Al di là della vicinanza tra i due soggetti e dell’ispirazione
per la figura in deliquio sostenuta dall’angelo,
è evidente la differente tenuta drammatica dell’idea
rispetto alla grazia leggiadra dell’invenzione riccesca
[4] . Completamente differente è l’uso che i due
fanno della luce: in un caso per accentuare l’ellissi di
un divino che rimane nascosto, nell’altro per celebrare
la variopinta tavolozza e inondare di sole dall’alto creature
angeliche, la santa in levitazione e l’architettura
nel fondo. I due pittori e rivali furono entrambi ingaggiati
come figuristi nella celebre serie dei Tombeaux
(monumenti allegorici immaginari, per grandi personaggi
della storia inglese), una commissione dell’impresario
teatrale irlandese Owen McSwiny realizzata
nell’arco di circa un decennio, a partire dal 1719, che
vide coinvolti alcuni degli artisti veneti più importanti
di quel periodo [5] , versati nel campo della pittura di
storia come in quello del paesaggio e della veduta. Da
un lato Piazzetta e Canaletto, pienamente in sintonia in
questi anni sul versante delle ambientazioni drammatiche
e chiaroscurate e che collaborarono unitamente a
Giambattista Cimaroli per la Tomba allegorica di John
Somers, attualmente conservata presso il Birmingham
Museum and Art Gallery; dall’altro Marco e Sebastiano
Ricci, con la Tomba allegorica dell’Ammiraglio Shovell,
oggi alla National Gallery di Washington (cat. IV.07),
— TIEPOLO E PIAZZETTA — 119
portavoci di una visione atmosferica, aperta e luminosa.
Nell’impresa è assoldato anche Giambattista
Pittoni, che sembra giocare anch’egli nel campo dei
neotenebrosi, con le sue figure accuratamente definite,
e altrettanto attentamente colorate, di una consistenza
minerale, entro una scenografia che favorisce
l’avventura della luce tra le sue quinte architettoniche.
Ma proprio la sua Tomba allegorica di Isaac Newton
(cat. IV.06), al Fitzwilliam di Cambridge, con quel
raggio di sole che attraversa varie lenti, dà forma
all’esperimento dell’analisi dello spettro luminoso e
allo stesso tempo alla scintilla che presto incendierà
la pittura veneziana, nella nuova stagione pittorica
della riscoperta della luce che finirà per coinvolgere
tutti i protagonisti della scena artistica. Più tardi, in
coincidenza con l’apparire di questa luce cristallina e
della ricerca di una nuova verità ottica e atmosferica,
Francesco Algarotti darà alle stampe, nel 1737, il suo
Newtonianismo per le Dame ovvero dialoghi sopra la
luce e i colori, dove le teorie del grande fisico inglese
trovarono piena divulgazione.
La prima attività giovanile di Piazzetta tuttavia
aveva perseguito la via “neotenebrosa” con grande
convinzione, spesso facendo uso di fonti di luce artificiale,
e poco importa in tal senso che i soggetti fossero
collegati ai grandi temi della pittura storica e biblica –
come la Giuditta e Oloferne dell’Accademia di San Luca
a Roma (cat. III.05) – o di genere – come la Contadina
che si spulcia e l’Erbivendolo che conta i denari del
Museum of Fine Arts di Boston (catt. III.03-04): personaggi
che, al di là delle prosaiche occupazioni, sono
sottratti a qualsiasi declinazione meramente aneddotica,
più tipica della pittura di genere, e partecipano
invece di una malinconia e forse apatia esistenziale che
si fa assoluta. Sono queste le opere, verosimilmente
degli anni Venti del secolo, dove possiamo rintracciare
quella “maniera tutta fondata sul naturale e sul
vero, senza elezione delle migliori forme, e caricata di
un chiaroscuro da dare alle cose il maggior rilievo, e
renderle palpabili” che già Algarotti riconosceva come
tratto caratteristico della sua arte [6] . Qualche tempo
prima, tuttavia, Vincenzo Da Canal aveva però giudicato
proprio questa insistenza sugli sbattimenti
di luce, come qualcosa contrario alla naturalezza e
alla verosimiglianza: “Affettava molti sbattimenti de’
secondi lumi nelle carni, i quali sogliono fare un cattivo
effetto, molto lontano dal naturale” [7] . La dimensione
universale che Piazzetta vuole dare al suo approccio
alla natura non lo rende particolarmente interessato
al ritratto, e tra i pochi episodi notevoli un posto
eccezionale merita tuttavia il Ritratto di Giulia Lama
del Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid (cat. V.47):
il volto della sua allieva pittrice, tra le più autorevoli
esponenti della corrente neotenebrosa, che interpreta
con audacità e distorsioni anatomiche di nudi accademici,
viene caricato di un afflato sentimentale del tutto
nuovo nella pittura veneziana del Settecento. I ricami
dorati della mantella, che brillano risaltando dall’oscurità
del fondale, e la veduta di tre quarti con il braccio
proteso verso l’esterno segnalano come Piazzetta
sapesse giocare sui grandi modelli della ritrattistica
cinquecentesca e seicentesca (Tiziano e Rembrandt),
arricchendoli di una intonazione patetica e malinconica
che gli è propria.
Sulla strada delle ambientazioni notturne,
Piazzetta sembra precedere un altro artista amante delle
impostazioni neotenebrose, Federico Bencovich (1677-
1756), il cui apporto allo sviluppo della pittura veneziana
del Settecento è stato forse sopravvalutato in passato e
ora viceversa ridimensionato [8] , anche in ragione di un
catalogo assai esiguo. Tra i vertici della sua pittura vi è
indubbiamente la pala oggi conservata a Senonches, ma
un tempo presso la chiesa della Madonna del Piombo di
Bologna, e rappresentante I santi Andrea, Bartolomeo,
Carlo Borromeo, Lucia e Apollonia. Una delle sue opere
meglio riuscite, forse realizzata intorno al 1710 al principio
del soggiorno veneziano [9] . Il pittore vi chiama a
raccolta un bizzarro consesso di santi, attraversati da un
fremito che pare trasmettersi dalla luce lattiginosa che
li raggiunge dall’alto, rivelando bene come il dato della
natura non sia stato mai la sua preoccupazione principale:
quegli sguardi ostentamente rivolti verso l’alto,
presàghi di un qualche sconosciuto fenomeno celeste,
forse extraterrestre, enfatizzano l’insolita suspense, più
adatta si direbbe ad accompagnare in una pellicola di
fantascienza gli effetti speciali per l’atterraggio di un
UFO.
Difficile credere che Piazzetta potesse esser
molto influenzato da opere di questo genere, benché
le fonti ricordino un quadro del pittore dalmata in collezione
Algarotti a cui Piazzetta avrebbe aggiunto una
figura e nonostante la “guaina luminosa” che avvolge le
3 _ L’opera di Piazzetta
rappresentante La Madonna con
il Bambino e l’Angelo custode,
il cui frammento si conserva
oggi all’Institute of Art di
Detroit, venne verosimilmente
realizzata tra 1718-19, poi
sostituita nel 1720 da quella di
Sebastiano Ricci (si veda a tal
proposito L. Moretti, Notizie
e appunti su G.B. Piazzetta,
alcuni piazzetteschi e G.B.
Tiepolo, “Atti dell’Istituto
Veneto di Scienze, Lettere ed
Arti”, CXLIII, 1984-85, p. 319.
Sappiamo però che Piazzetta
si prese la sua rivincita non
solo vendendo la versione
che aveva realizzato per la
Scuola a Zaccaria Sagredo per
20 zecchini in più di quanto
fosse riuscito a farsi pagare
Sebastiano Ricci per il suo
dipinto ma anche, nel suo
inventario del 1738, abbassando
di 100 ducati il valore di
stima di due dipinti di Ricci
conservati nella galleria del
maresciallo Schulenburg,
rappresentanti Diana e Marte e
Venere e Adone.
4 _ Si veda, sul confronto: R.
Pallucchini, Piazzetta, Milano
1956, p. 26; A. Mariuz, L’opera
completa di Giambattista
Piazzetta, Milano 1982, pp. 86-
87, cat. 49.
5 _ Per una ricostruzione
accurata della vicenda, si vedano
i passaggi documentari riportati
da T.D. Llewellyn in Owen
McSwiny’s letters 1720-1744, a
cura di T.D. Llewelly, Verona
2009, pp. 91-128.
6 _ F. Algarotti, Saggio sopra
la pittura, Livorno 1763, p. 167.
7 _ “Giambattista Piazzetta
incominciò con nome strepitoso
a palesarsi per un de’ primi
pittori di questa città per essere
tale disegnatore, che forse non à
pari: ma in varie delle prime sue
opere di grande aspettazione
declinò per modo, che il suo
colorito medesimo pregiudicò
al buon del suo disegno.
Affettava molti sbattimenti de’
secondi lumi nelle carni, i quali
sogliono fare un cattivo effetto,
molto lontano dal naturale. Il
troppo ricercare le parti e farne
un modello di ogni membro
impediva che i di lui quadri
avessero tutta l’armonia. La
FIG. 2
SEBASTIANO RICCI
Estasi di Santa Teresa.
Vienna, Kunsthistorisches
Museum
FIG. 3
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Assunzione della Vergine.
Parigi, Musée du Louvre
tavola dell’Angiolo Custode
in S. Vitale fa fece di quel
ch’io dico”, V. Da Canal, Della
maniera del dipingere moderno.
Memoria di Vincenzo da Canal
P.V. ora per la prima volta
pubblicata [1735], a cura di G.
Moschini, “Mercurio filosofico
e letterario e poetico”, marzo
1810, pp. 13-14.
8 _ G. Pavanello, Un pittore
“tutto spirito e foco”, in Il
giovane Tiepolo. La scoperta
della luca, catalogo della
mostra (Udine, Castello, Salone
del Parlamento) a cura di V.
Gransinigh, G. Pavanello, Udine
2011, p. 25.
9 _ Sul quadro si veda P.
Rosenberg, A. Brejon de
Lavergnée, Un tableau de
Bencovitch retrouvé, “Arte
Veneta”, XXXV, 1981, pp.
187-191.
10 _ Mariuz 1982, pp. 77-78.
11 _ A. Mariuz, Da Giorgione a
Canova, a cura di G. Pavanello,
Verona 2012, p. 192.
12 _ Sul dipinto del Louvre,
si veda S. Loire, Peintures
italiennes du XVIII e siècle du
musée du Louvre, Paris 2017, pp.
270-276.
13 _ Si tratta probabilmente
di una aggiunta al testo,
redatto principalmente nel
1732, in tempo reale rispetto
alla pubblicazione dell’opera
prima della sua partenza per la
Germania. Si veda supra, nota 5.
14 _ Compendio delle vite
de’ Pittori veneziani istorici
più rinomati del presente con
suoi ritratti tratti dal naturale,
Venezia 1962, ad vocem
Piazzetta.
sue figure nelle opere giovanili abbia un qualche punto
di contatto con la costruzione delle forme di Bencovich,
forse grazie al comune interesse per la pittura emiliana
[10] . Più probabile tuttavia che fosse quest’ultimo a
restare affascinato dall’interpretazione del chiaroscuro
del veneziano, tanto da non distaccarsene poi mai nel
corso della sua attività, che poco piacque alla committenza
e agli amatori cittadini [11] .
Per quanto riguarda Piazzetta, invece, egli non
solo seppe porsi quale punto di riferimento di un’intera
generazione di artisti ma fu in grado anche, intorno alla
metà degli anni Trenta, di adeguarsi alle nuove richieste
del gusto e anzi, per certi versi, guidarle, senza tradire
l’essenza del proprio linguaggio pittorico. Nonostante
il risentimento personale che Piazzetta dovette nutrire
per Ricci, è un fatto che subito dopo la scomparsa di
Sebastiano la pittura del più giovane maestro conobbe
una virata che certamente non sarebbe stata possibile
senza la lezione dell’artista bellunese. La svolta veniva
osservata dal suo amico ed editore Giambattista
Albrizzi, nelle parole dedicate alla pala rappresentante
l’Assunzione della Vergine dipinta per Clemente Augusto
Wittelsbach, principe elettore di Colonia, per la chiesa
di Sachsenhausen, presso Francoforte, e oggi conservata
al Louvre (fig. 3): “Si scostò dal suo primo periodo
alquanto tetro di colorire, dipingendola vagamente e
con graziose tinte” [12] . La preferenza per un gusto meno
drammatico e intonazioni più lievi risulta evidente
anche dalle parole di Vincenzo Da Canal: “Dopo la sua
fresca età si avvide de’ suoi primi errori, o di quella sua
maniera non molto gradita, perciò raddolcì il carattere,
che avea buoni semi, e compare in questi ultimi tempi
uno de’ primi pittori viventi, come il prova la tavola che
per Magonza dipinse per 1735” [13] .
L’anonimo longhiano del 1762 parlerà invece
di “lume solivo” nella pittura di Piazzetta, termine
120 —LA SCOPERTA DELLA LUCE —
— TIEPOLO E PIAZZETTA — 121
che possiamo estendere a tutta questa grande stagione
artistica veneziana [14] . In verità, se dal punto
di vista dell’impostazione luministica, ora riportata
tutta in chiaro e quasi “sovraesposta”, possiamo dire
che Piazzetta possa avere ceduto di fronte alla lezione
riccesca, derivandone la preferenza per ambientazioni
poco contrastate, dal punto di vista della tavolozza
non v’è dubbio che il pittore veneziano perseguisse
una strada di grande autonomia e coerenza rispetto
alle proprie premesse: una gamma austera e assai limitata
di bianchi, ocra, grigi e neri segna una netta differenza
rispetto alla ricca scelta di Ricci e anche dell’interpretazione
che di quella lezione ne dà Giambattista
Tiepolo in questi anni.
L’impressione è che Piazzetta abbia semplicemente
sottratto alle ambientazioni neotenebrose
i soggetti e le composizioni a lui cari, costruiti con
grande semplicità e gesti controllati, per esporli in
piena luce, sotto un sole meridiano. Benché gli studiosi
abbiano, sulla scorta di questo momento di
passaggio già evidenziato dalle fonti antiche, enfatizzato
la così detta “svolta” del 1735, v’è da credere che
Piazzetta non abbandonasse in verità mai costruzioni
luministiche più drammatiche e che, in queste scelte,
si debba invece riconoscere un’estensione dei propri
mezzi espressivi, che si accompagna anche all’ampliamento
dei temi e dei soggetti affrontati.
Piazzetta sviluppa un nuovo filone, dalla critica
forse un poco sbrigativamente considerato
“rococò”, inizialmente nell’ambito dell’illustrazione
libraria (soprattutto nei volumi realizzati per l’amico
Giambattista Albrizzi, le Opere di Bossuet e poi per l’edizione
della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso
del 1745), ma presto estendendolo anche alla sua produzione
pittorica.
Uno dei casi più affascinanti in questo senso
è dato dalle tele, realizzate fra 1740 e 1745 per il
maresciallo von der Schulenburg [15] , la Pastorale
dell’Art Institute di Chicago (cat. IV.09) e la cosiddetta
Passeggiata campestre (o Idillio sulla spiaggia)
del Wallraf-Richartz Museum di Colonia, opere capitali
della storia della pittura europea del Settecento:
soggetti sino ad allora per lo più relegati all’ambito
di genere, e certamente più frequentati nel contesto
della pittura nordica, vengono per la prima volta
interpretati in chiave “eroica”, sia per il formato [16] sia
per l’impegno e la tenuta stilistica. Un’operazione che
ha paragoni, nel secolo, solo con certe invenzioni di
Watteau, con il quale peraltro questi dipinti possono
condividere un orizzonte vago, indeterminato, al di
fuori di ogni naturalismo episodico e trasportato nel
versante dell’idillio malinconico e sognante. L’arte di
Piazzetta è fondamentalmente elusiva e lavora per sottrazione:
i volti sono spesso ripresi di sguincio, le palpebre
abbassate, i contorni emergenti dall’oscurità.
Un linguaggio “mistico”, nel senso che l’impressione
è sempre quella di sostare al limite di un
mistero, sia esso di natura religiosa o semplicemente
quello delle vite e dei pensieri dei personaggi su cui
l’artista posa il proprio sguardo. Perché l’opera possa
essere compiuta è necessaria dunque l’immaginazione
dello spettatore, che completi la composizione,
ne esplori idealmente le parti in ombra o nascoste, ne
esamini le circostanze e l’occasione. Chi osserva è “iniziato”
al mistero che si dispiega davanti ai suoi occhi, e
indotto a una disposizione d’animo di contemplazione
e di riflessione, poco importa che dietro i soggetti rappresentati
in questo caso si nascondano, con ogni
verosimiglianza, dei temi licenziosi. La proverbiale
lentezza esecutiva di Piazzetta è anche la lentezza che
si richiede agli spettatori per esplorare le sue opere.
Si osservi ad esempio come è costruita la cosiddetta
Passeggiata campestre di Colonia (fig. 1): un giovane
personaggio maschile ci guarda direttamente dal
centro del quadro e pare indicare la figura alle sue spalle,
verso la quale indirizza egualmente lo sguardo della
compagna femminile in piedi, con un bizzarro colletto
a gorgiera di gusto seicentesco. La protagonista assoluta,
verso la quale sembrano convergere gli occhi di
tutti oltre che i nostri, ci volge le spalle, reggendo un
ombrellino e sfuggendo al nostro sguardo, bloccata nel
momento in cui potrebbe voltarsi verso di noi.
L’indeterminatezza dei soggetti è ostentata anche
nella descrizione che del dipinto di Chicago fece lo stesso
Piazzetta, nell’inventario della collezione Schulenburg
del 1741: “Donna sentata con ragazzo in mezzo alle
gambe col cesto d’uva alla mano con cani che scaturiscono
un’Anera nell’acqua e due uomini in distanza” [17] .
Una descrizione didascalica, meramente funzionale al
riconoscimento del dipinto tra gli altri della collezione,
evidentemente, ma indicativa dell’approccio lontano
da eccessi interpretativi con cui era possibile avvicinare
15 _ Sulla data di esecuzione
dei due dipinti e i pagamenti
al pittore, si veda A. Binion,
La Galleria scomparsa del
maresciallo von der Schulenburg.
Un mecenate nella Venezia del
Settecento, Milano 1990, p. 98.
16 _ Sono tele rispettivamente
di 191x143 e 196,5x146 cm.
17 _ A. Binion, From
Schulenburg’s gallery and
record, “Burlington Magazine”,
112, 1970, p. 302; Binion 1990,
p. 98.
FIG. 4
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
La Madonna con il Bambino e
l’Angelo Custode.
Detroit, Institute of Fine Arts
18 _ C. de Brosses, Viaggio
in Italia. Lettere familiari, Bari
1973, p. 117-118.
questo tipo di dipinti. Tanto elusive erano le presenze
femminili nel quadro di Colonia, quanto sfacciata è però
ora quella che ci guarda direttamente negli occhi dal
dipinto americano. Le due tele à pendant sono concepite
dunque in una sorta di opposizione duale, cui contribuisce
anche il diverso abbigliamento dei personaggi,
elegante e ricercato in un caso, per quanto di una moda
senza tempo, popolaresco nell’altro. Non sarà difficile a
ogni modo rintracciare il sottotesto erotico di entrambi
i dipinti, destinati al maresciallo tedesco residente a
Venezia che Charles de Brosses ricordava come “un vecchione
assai per bene che sa tutto sulla guerra e pochissimo
sulla morale. Ci propina sulla questione delle donne
continui sermoni, che ascoltiamo poco e seguiamo
meno” [18] .
A nobilitare tali soggetti allusivi è tuttavia egualmente
evidente il richiamo al tema pastorale, ancora
di grande successo nel corso del Settecento. Pensiamo
ad esempio che nel 1735 venne ristampato proprio a
Verona, dove risiederà a partire dal 1742 il maresciallo
von Schulenburg, il Pastor Fido di Guarino Guarini.
L’abbigliamento e la licenziosità nel vestire, i volti dai
tratti popolari, la presenza di animali, contribuiscono
ad ambientare la Pastorale di Chicago in un contesto
agreste, senza tempo, nel quale potrebbe essere difficoltoso
definire anche solo il momento della giornata
in cui si svolge la scena. Il fondale chiuso in un’ombra
quasi impenetrabile – complice una preparazione pittorica
che si è scurita nel corso dei secoli – dà quasi
l’impressione che la scena si svolga all’imboccatura
di una grotta, mentre un riflettore luminoso rivela la
donna dal corpetto slacciato e il fanciullo con la cesta
piena d’uva, che esita sul limite dello specchio d’acqua
nel primo piano, amplificando l’impressione che queste
creature sostino sul limite di un altro mondo, che ci
sfiora ma resta irraggiungibile.
In questo caso, come anche nella cosiddetta
Indovina delle Gallerie dell’Accademia (cat. IV.10), è
difficile non cogliere un’allusione erotica nella scena:
qui la fanciulla si offre all’osservatore in modo quasi
122 —LA SCOPERTA DELLA LUCE —
— TIEPOLO E PIAZZETTA — 123
sfacciato, sotto una luce estiva e un poco stordente,
veramente un “lume solivo”, che però pare provenire da
distanze siderali ed esalta l’incarnato perlaceo di questa
dea rusticana dal cappello di paglia, le vesti discinte
dai panni color rosa e crema, il vivace cagnolino sotto
braccio attratto dall’esca offerta sul palmo dalla sua
accompagnatrice come i due giovani che stanno probabilmente
contrattando il prezzo e anche i fruitori del
quadro lo sono dalle grazie femminili in primo piano.
Non si sta forse alludendo al desiderio che nasce dallo
sguardo e che l’immagine ha il potere di suscitare e, al
contempo, in quanto frutto di un artificio, di eludere?
Non è tuttavia minore il mistero che pare avvolgere i
personaggi, e che ha legittimato le interpretazioni iconografiche
le più bizzarre, da quelle sensuali, per l’appunto,
a quelle mitologiche, psicoanalitiche e persino
politiche e religiose, talvolta inconsapevolmente sminuendo
l’aspetto rivoluzionario di queste opere [19] .
Nonostante la natura cripto-erotica dei soggetti, è
comunque decisiva la componente di “capriccio”, realizzata
con un’associazione di figure apparentemente
incongrue, invece che con paesaggi e rovine: “capricci
fiamminghi” verranno infatti chiamate le simili invenzioni
del suo allievo Domenico Maggiotto [20] .
Se a Venezia intorno agli anni Trenta Piazzetta
domina il campo della grande pittura religiosa e di
storia, con incursioni di successo nel “genere”, incomincia
tuttavia a prendersi prepotentemente la scena
quello che sarà poi il grande protagonista del secolo:
Giambattista Tiepolo, che di questa stagione luminosa
rappresenterà il vero Sole attorno al quale tutti
si troveranno a ruotare. Mentre Piazzetta si limiterà
a una rapida incursione nel campo della decorazione
soffittale – la Gloria di san Domenico per la basilica
dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, commissione
peraltro ottenuta a discapito di Mattia Bortoloni e
dello stesso Tiepolo – quest’ultimo incomincerà proprio
in questi anni, dopo le grandi esperienze del
Palazzo Patriarcale di Udine, e dei successi raccolti
a Milano con la decorazione di palazzo Archinto e
poi di palazzo Casati, a prendere saldamente possesso
del suo elemento naturale, il cielo, rivelandosi
FIG. 5
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Il Tempo scopre la Verità.
Biron, villa Loschi-Zileri dal
Verme
19 _ Per una panoramica
recente sulle varie proposte, si
veda: S. Stephan, Die Pastoralen
des Giambattista Piazzetta
Ein Beitrag zum Wandel der
Bildsprache am Vorabend der
Moderne, München 2004. A
favore di una lettura “erotica”
delle pastorali di Schulenburg
sono L.M. Jones, The paintings
of Giovanni Battista Piazzetta,
New York 1981, II, pp. 45-40,
194-198, catt. 14, 65; Mariuz
1982, pp. 95-97 e, con nuovi
argomenti, F. Porzio, Pitture
ridicole. Scene genere e
tradizione popolare, Milano
2008, pp. 127-133.
20 _ G. Knox, Giambattista
Piazzetta 1682-1754, Oxford
1992, p. 187.
21 _ A. Mariuz, Giandomenico
Tiepolo, Venezia 1971, pp. 8-9:
“E si potrebbe allora indicare
nel Tiepolo un ’vedutista
della fantasia’ che, puntando
la camera ottica sulle regioni
dell’immaginazione, conferisce
a ogni figura l’evidenza
raggiante di un cristallo, ne
fissa l’orbita, con infallibile
precisione, nella spirale dello
spazio”.
22 _ Per questi disegni, si
veda G. Knox, Un quaderno
di vedute di Giambattista e
Giandomenico Tiepolo, Milano
1974.
23 _ M. Levey, Giambattista
Tiepolo. La sua vita, la sua arte,
Milano 1986, p. 72.
come l’artista più dotato della sua generazione.
Perfettamente in linea con lo spirito del tempo, la
luminosità aperta e tersa che era già comparsa nella
sua pittura ad affresco si fa strada anche nelle tele a
olio, come dimostra il soffitto con Zefiro e Flora, pensato
per Ca’ Pesaro, in occasione del matrimonio tra
Antonio Pesaro e Caterina Sagredo, nel 1732, e oggi
conservato presso il Museo del Settecento veneziano
a Ca’ Rezzonico: difficilmente Tiepolo avrebbe potuto
affrontare un soggetto più adatto per dimostrare la
dimestichezza con il genere. Le figure si muovono con
un agio e una naturalezza nuova, attraversate e quasi
rese trasparenti come le ali di Zefiro da una luce di cristallo,
e una tavolozza fredda, di nuvole azzurre e grigio-scure,
infiammata improvvisamente dal drappo
rosso-arancio che cinge i fianchi di Flora. Il benaugurale
messaggio di prosperità e fecondità alla nuova
coppia di sposi è risolto con la lievità di un epigramma
o di un sonetto. Ma con quale lucidità Tiepolo sa dare
corpo alle sue visioni! Veramente, un “vedutista della
fantasia”, come è stato detto [21] , che fa tesoro dell’ottica
newtoniana non per ricreare l’effetto realtà della
natura, ma per manipolarla. Sono le medesime qualità
– il nitore ottico dei dettagli, la luce tersa ed esatta
che dà volume e credibilità alle sue figure in volo, una
tavolozza quanto mai varia – che rintracciamo nella
grande decorazione ad affresco cui attende in questi
anni, come ad esempio nello straordinario ciclo di
affreschi per villa Loschi a Biron di Monteviale presso
Vicenza, intorno al 1734 (fig. 5). Resta ancor oggi sorprendente
la capacità del maestro di far convivere
le sue doti visionarie e l’interesse per la natura, posando
su di essa uno sguardo nuovo: documenti eccezionali
in tal senso sono alcuni disegni di paesaggio, realizzati
probabilmente già intorno agli anni Cinquanta, vedute
di tetti o di casolari, come quello del British Museum
convocato in mostra (cat. IV.17) con la sommità di
villa Valmarana, in cui il fondo del foglio, lasciato
bianco, o in altri casi appena acquerellato, si afferma
con una forza inedita, quasi che l’occhio dell’artista
fosse calamitato verso il cielo e tutto ciò che posa sulla
terra potesse essere visto solo di scorcio, ai margini
di un abbaglio luminoso [22] . Talvolta invece basta
un’umile staccionata e un muricciolo, sui quali far
scendere la meridiana di un’ombra netta, per accendere
di luce estiva il bianco della carta risparmiata
dall’acquerellatura, quasi fosse una tempera di Marco
Ricci (cat. IV.18).
La circostanza che, poco dopo gli affreschi
vicentini, il conte Carl Gustav Tessin, giungendo a
Venezia nel 1736 per assoldare il pittore in grado di
decorare il palazzo reale di Stoccolma, individuasse in
Giambattista Tiepolo il maestro adatto ad assolvere il
gravoso compito, ci fa comprendere la rapidità con la
quale egli seppe affermarsi come protagonista assoluto
della pittura veneziana. Il corteggiamento non
andò a buon fine – questioni di soldi –, ma almeno
il conte poté ritornare in patria con la Danae oggi
all’Università di Stoccolma (cat. IV.08), un capolavoro
di quel genere mitologico-erotico molto apprezzato
nell’ambito dell’arte veneta sin dal Cinquecento e nel
quale Tiepolo rivaleggiava idealmente con Veronese
e Sebastiano Ricci, aggiungendovi una nota comica e
irriverente, certamente gradita al gusto settecentesco.
Le poche monete che accompagnano la discesa della
pioggia d’oro di Giove verso Danae – la cui compagnia
la divinità compra “con la minore spesa possibile”,
come osservò argutamente Michael Levey [23] – non
saranno da interpretare tanto come un’allusione alla
tirchieria del committente, ma come scelta di sostituire
questo oro così tangibile con il riscatto di una luce
che è essa stessa il soffio della materia più preziosa.
Se Piazzetta concepisce sempre le sue opere
come il risultato di una dialettica, tra luce-ombra, sofferenza-riscatto,
visibile-invisibile, per Tiepolo, rara
occorrenza nella storia della creatività umana, l’arte
non si dispiega in questi anni felici come risultato di
un’opposizione e conquista di un travaglio, ma come
puro dono e gioia. Ecco perché, se pur in questa stagione
entrambi si fanno contagiare dall’ebbrezza per
tale nuova arte luminosa, nelle loro opere la luce è così
diversa: in un caso essa illumina sovente ciò che riconosciamo
nella vita di tutti i giorni, ma pare sempre
provenire da mondi lontani; nell’altro la pittura, popolata
di miti, sogni e allegorie, sembra condurci direttamente
là dove questa luce ha la sua origine e trionfo.
Insieme con l’affermarsi di questa nuova stagione,
Tiepolo incominciava a farsi strada in un contesto
non solo veneto e italiano, ma europeo. Ciò apparirà
in modo ancora più evidente a partire dagli anni
successivi, nei quali egli divenne, sempre più, il primo
maestro del secolo.
124 —LA SCOPERTA DELLA LUCE —
— TIEPOLO— 125
CAT.IV.01
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il Canal Grande da San Vio
Olio su rame, 46×62,5 cm
Wells-Next-The-Sea, The Earl of Leicester and the
Trustees of the Holkham Estate
Bibliografia _ Brettingham 1773, p. 10; Constable
1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I, tav. 41, II,
cat. 192; Puppi 1968, cat. 57; Corboz 1985, II, p. 586,
cat. P77; Canaletto 1989, cat. 20.
CAT.IV.02
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il Ponte di Rialto
Olio su rame, 45,5×62,5 cm
Wells-Next-The-Sea, The Earl of Leicester and the
Trustees of the Holkham Estate
Bibliografia _ Brettingham 1773, p. 10; Constable
1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I, tav. 47, II,
cat. 226; Puppi 1968, cat. 58; Corboz 1985, II, p. 586,
cat. P78; Canaletto 1989, cat. 21.
126 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 127
CAT.IV.03
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il molo verso est con la colonna di San Marco
Olio su tela, 111×186 cm
Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco, inv. 1473
Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni
di J.G. Links), I, tav. 29, II, cat. 113; Puppi 1968, cat.
143A; Links 1981, cat. 161; Corboz 1985, II, p. 637, cat.
P 251; Kowalczyk, in Splendori Settecento 1995, p. 288,
cat. 69; Kowalczyk, in Canaletto 2005, cat. 29; Lucchese,
in Canaletto 2008, pp. 262-263, cat. 35; Beddington, in
Éblouissante Venise 2018, p. 244, cat. 13.
128 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 129
CAT.IV.04
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il bacino di San Marco
Olio su tela, 124,5×204,5 cm
Boston, Museum of Fine Arts, Abbott Lawrence
Fund, Seth K. Sweetser Fund and Charles Edward
French Fund, 1939, inv. 39.290
Bibliografia _ Waagen 1838, III, p. 206, cat. 64;
Waagen 1854, III, p. 323, cat. 64; Constable 1929, p. 46;
Constable 1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I,
tav. 32, II, cat. 131; Canaletto 1964, pp. 56-57, cat. 18; I
vedutisti 1967, pp. 158-161, cat. 71; Puppi 1968,
cat. 161A; Links 1977, pp. 42, 50, tav. X; Links 1981,
cat. 146; Canaletto 1982, p. 61, cat. 85; Bettagno 1983,
pp. 225-228, figg. 4-5, 7; Corboz 1985, I, pp. 101, 104,
160, figg. 108, 153, II, p. 643, cat. P278; Canaletto 1989,
pp. 192-196, cat. 51; The Glory 1994, pp. 230-231, 437,
cat. 140; Links 1994, pp. 95, 98, 100, tav. 78; Pallucchini
1995, I, pp. 489-491, figg. 770, 773; Redford 1996, tav.
24; Succi 1999, pp. 49, 51, fig. 30; Venice: Canaletto 2010,
p. 183, cat. 22.
130 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 131
CAT.IV.05
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il Canal Grande da Santa Chiara verso Santa Croce
Olio su tela, 48,5×79 cm
Parigi, Musée de Cognacq-Jay
Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni di
J.G. Links), II, cat. 268; Puppi 1968, cat. 99C; Venise au
dix-huitième siècle 1971, cat. 10; Corboz 1985, II, p. 628,
cat. P 210; de Los Llanos, in Canaletto 2008, pp. 267-
268, cat. 42.
132 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 133
CAT.IV.06
GIAMBATTISTA PITTONI, GIUSEPPE
VALERIANI, DOMENICO VALERIANI
Tomba allegorica di Isaac Newton
Olio su tela, 220×139 cm
Cambridge, The Syndics of the Fitzwilliam
Museum, University of Cambridge, inv.
PD.52-1973
Bibliografia _ Zava Boccazzi 1979, p. 123,
cat. 40; Pallucchini 1995, I, pp. 529-530;
Lettere artistiche 2009, p. 121.
CAT.IV.07
SEBASTIANO RICCI, MARCO RICCI
Tomba allegorica a sir Cloudesly
Shovel
Olio su tela, 222,1×158,8 cm
Washington, National Gallery of Art,
Samuel H. Kress Collection, inv. 1961.9.58
Bibliografia _ Daniels 1976, pp. 153-154,
cat. 531; Scarpa 2006, pp. 342-343, cat. 556.
134 —LA SCOPERTA DELLA LUCE —
CAT.IV.08
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Danae
Olio su tela, 41×53 cm
Stoccolma, Stockholm University Art Collections,
inv. SU230
Bibliografia _ Brown 1993, pp. 176-178, cat. 12, con
bibliografia precedente; Gemin, Pedrocco 1993, p. 313,
cat. 209; Mariuz, in The Glory 1994, p. 186, cat. 103;
Barcham, in Giambattista Tiepolo 1996, pp. 124-126, cat.
15; Craievich, in Giambattista Tiepolo 2012,
pp. 228-229, cat. 21.
136 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 137
CAT.IV.09
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Scena pastorale
Olio su tela, 191,8×143 cm
Chicago, The Art Institut, Charles H. and Mary F.S.
Worcester Collection, inv. 1937.68
Bibliografia _ Mariuz 1982, p. 96, cat. 96; Binion
1990, pp. 98-101; Knox 1992, pp. 184-191; Binion,
in The Glory 1994, p. 159, cat. 79; Magani, in Splendori
Settecento 1995, cat. 47; Pallucchini 1995, I, p. 380;
Porzio 2008, p. 132; Loisel, in Éblouissante Venise
2018, p. 76.
CAT.IV.10
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
L’indovina
Olio su tela, 154×114 cm
Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 483
Bibliografia _ Ruggeri, in Giambattista Piazzetta
1983, p. 102, cat. 35; Knox 1992, pp. 186-187; Binion,
in The Glory 1994, p. 156, cat. 76; Porzio 2008, p. 132;
Loisel, in Éblouissante Venise 2018, pp. 76, 245, cat. 50.
138 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 139
CAT.IV.11
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
L’angolo sud ovest di Palazzo Ducale
Penna, inchiostro bruno, 225×176 mm
Oxford, Ashmolean Museum, University of Oxford,
inv. WA 1938.94
Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni
di J.G. Links), I, tav. 99, II, cat. 543.
CAT.IV.13
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Palazzo Ducale dal bacino di San Marco
Penna e inchiostro marrone su matita, 220×376 mm
Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth
II, inv. RCIN 907450
Bibliografia _ Parker 1948, p. 38, cat. 46, tav. 19;
Constable 1962 (e successive edizioni di J.G. Links), II,
cat. 563.
CAT.IV.12
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
L’angolo di Palazzo Ducale
con San Giorgio Maggiore
Penna e inchiostro bruno su matita, 270×188 mm
Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth
II, inv. RCIN 907442
Bibliografia _ Parker 1948, p. 31, cat. 12, tav. 23;
Constable 1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I,
tav. 99, II, cat. 544.
CAT.IV.14
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il Canal Grande a Palazzo Corner
Penna e inchiostro bruno su matita, 270×374 mm
Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth
II, inv. RCIN 907469
Bibliografia _ Hadeln 1929, p. 21; Parker 1948, p. 32,
cat. 17, tav. 26; Constable 1962 (e successive edizioni di
J.G. Links), I, tav. 106, II, cat. 584; Bleyl 1981, p. 21.
140 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 141
CAT.IV.15
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il Canale delle barche a Mestre
Penna e inchiostro grigio su matita, 255×407 mm
Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth
II, inv. RCIN 907490
Bibliografia _ Parker 1948, pp. 47-48, cat. 89, tav. 61;
Constable 1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I,
tav. 123, II, cat. 666; Canaletto 1964, cat. 84; Razzall,
in Canaletto 2017, pp. 345-347, cat. 188.
CAT.IV.16
BERNARDO BELLOTTO
Veduta di Rota (recto)
Studi per la Basilica di San Marco (verso)
Penna e inchiostro bruno su matita nera,
278×305 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 8633
Bibliografia _ Kowalczyk, in Bellotto e Canaletto
2016, p. 96, cat. 20, con bibliografia precedente.
CAT.IV.17
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Piano superiore della Scuderia di Villa Valmarana
Penna e inchiostro bruno, con guazzo bruno,
100×232 mm
Londra, The British Museum, Donated by Charles
Ricketts, inv. 1903,1126.2
Bibliografia _ Knox 1974, cat. 36; Mariuz 2008,
p. 211.
CAT.IV.18
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Muro con cancello e edificio rustico
Penna e inchiostro bruno, con guazzo bruno,
170×282 mm
Londra, The British Museum, inv. 1936,1010.17
Bibliografia _ Knox 1974, cat. 4; Aikema 1996, p. 230.
142 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 143
CAT.IV.19
ANTONIO VISENTINI
Palazzo Labia e l’ingresso a Cannareggio
Matita, penna, inchiostro seppia, ripassati a punta
metallica, 313x482 mm
Iscrizioni: Veduta dal ponte di Canalregio
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 418
Bibliografia _ Succi, in Canaletto & Visentini 1986, p.
351, cat. 178.
CAT.IV.20
FRANCESCO ALGAROTTI
Il Newtonianismo per le dame, ovvero dialoghi sopra
la luce e i colori
Pasquali, Venezia o Padova (1737)
Venezia, Museo Correr, Biblioteca
144 —LA SCOPERTA DELLA LUCE — — CATALOGO DELLE OPERE — 145
COLORE
FAKE
U NA
DIMENSIONE
EUROPEA
CHARLES
BEDDINGTON
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
Il ponte di Walton, particolare.
Dulwich Picture Gallery
UNA DIMENSIONE
EUROPEA
LA VEDUTA
L’unica vera minaccia che
Canaletto abbia mai dovuto affrontare nel suo monopolio
del mercato delle vedute fu Michele Marieschi
(1710-1743). Come Canaletto, era un nativo veneziano
con un passato nella scenografia, ma per molti aspetti
era molto diverso da lui. Mentre Canaletto era un gentiluomo
della classe dei “cittadini originari” e aveva
uno stemma di famiglia, Marieschi proveniva da una
famiglia molto umile, sembra che fosse quasi analfabeta
e sposò la figlia di un mercante d’arte. Anche il
modus operandi di Marieschi era molto differente.
Fondamentalmente, si dedicava a lavori molto più
veloci e, sebbene ci siano note solamente otto opere
di grandi dimensioni, c’è una quantità significativa di
opere più piccole, quasi delle stesse dimensioni della
misura “standard” di Canaletto degli anni Trenta,
tutte prodotte durante una carriera molto breve. Il suo
stile altamente personale era caratterizzato dalla vivacità
della pennellata e da una ricca materia. In generale
mostra una variante più luminosa e dai colori più
brillanti rispetto al Canaletto di quegli anni, dominata
da azzurri e tonalità di marrone e punteggiata da piccole
aree di rosso intenso. È anche più animata, con
una formula più agitata per l’acqua, e mostra minore
preoccupazione verso il tentativo di impartire solidità
agli edifici. Lo spessore della sua pittura e la pennellata
più ampia, con i singoli tocchi chiaramente individuabili,
ricordano il lavoro di Canaletto all’epoca in cui
Marieschi era ancora un giovane adolescente; ciò suggerisce
che l’artista potesse avere una certa familiarità
con le prime vedute di Canaletto rimaste a Venezia.
Non si conoscono disegni di Marieschi, che,
almeno a volte, sviluppò le sue composizioni direttamente
durante l’esecuzione, dando luogo a forti interventi
di ripensamento sulle tele.
Spesso mostra una predilezione non solo per
composizioni d’impatto basate su punti di vista inaspettati,
ma anche per un grado di distorsione che va oltre
tutto ciò che era stato tentato da Canaletto. Diverse delle
sue tele più grandi, inevitabilmente i suoi capolavori, ne
sono un buon esempio, in particolare Santa Maria della
Salute e l’entrata sul Canal Grande, guardando verso est
(Parigi, Musée du Louvre), il cui effetto penetrante è
dovuto allo scorcio d’impatto della chiesa derivato dal
punto di vista insolitamente basso, Il Canal Grande con
il Ponte di Rialto da nord e l’arrivo del nuovo Patriarca
Antonio Correr, 7 febbraio 1735 (Osterley Park, National
Trust), in cui il canale è distorto in una netta ansa, e la
Veduta del Ponte di Rialto con la Riva del Ferro (cat. V.16;
San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage), in cui il Ponte
di Rialto viene visto da una visuale molto ristretta. Queste
opere fanno apparire le composizioni di Canaletto meno
briose. Mentre Canaletto e la sua famiglia realizzarono
in prima persona le ‘macchiette’, Marieschi, che non era
un grande pittore di figure, ne delegava l’esecuzione a
pittori specializzati, secondo una pratica non rara nelle
botteghe veneziane del periodo. Tra questi, Gaspare
Diziani (Belluno 1689-Venezia 1767), uno dei testimoni
al matrimonio di Marieschi; Francesco Simonini (Parma
1686-Firenze o Venezia 1753 circa); Giovanni Antonio
Guardi (Vienna 1699-Venezia 1760); e infine Francesco
Fontebasso (Venezia 1707-1769), padrino del suo terzo
figlio. Diziani e Simonini dipinsero i personaggi del quadro
di Osterley (che reca le iniziali “MMF” e “F SIM”, probabilmente
da interpretare come firme); mentre Diziani
si occupò da solo di quelle del quadro dell’Ermitage.
— LA VEDUTA — 149
Nel 1741 Marieschi pubblicò un libro di ventidue
acqueforti tratte dalle sue composizioni,
Magnificentiores Selectioresque Urbis Venetiarum
Prospectus. Come il libro di Visentini sulle incisioni
da Canaletto, la chiara funzione del volume era quella
di diffondere il lavoro di Marieschi a un pubblico più
ampio e fungere da libro di modelli. Per certi versi lo
sorpassa, in quanto l’artista incise direttamente le sue
lastre e le composizioni non sono successive ai suoi
dipinti, sebbene molte delle sue opere siano varianti
delle stesse. La velocità di esecuzione di Marieschi
lo aiutò probabilmente a vendere a un prezzo inferiore
rispetto a Canaletto, e sicuramente strappò dei
clienti al suo rivale più noto. Il feldmaresciallo von der
Schulenburg, che aveva commissionato a Canaletto La
Riva degli Schiavoni, verso ovest, rispose alla incomparabile
qualità del dipinto affidando non meno di dodici
dipinti a Marieschi. Henry Howard, quarto conte
di Carlisle, aveva ricevuto un altro dei capolavori di
Canaletto, il Bacino di San Marco conservato a Boston
(cat. IV.04; Boston, Museum of Fine Arts), prima di
acquistare diciotto dipinti di Marieschi. Canaletto si
dovette probabilmente sentire sollevato alla morte di
Marieschi nel 1743, poco dopo il suo trentaduesimo
compleanno.
Il periodo “freddo” di Canaletto, 1738-42
circa, coincide con l’emergere nella sua bottega del
nipote Bernardo Bellotto (Venezia 1722-Varsavia
1780). Incredibilmente precoce, Bellotto era bravissimo
ad assimilare le lezioni dallo zio scapolo e
sfruttò al massimo quella che era la migliore formazione
che un pittore vedutista potesse mai ricevere.
Aveva solo sedici anni quando venne accettato dalla
corporazione dei pittori veneziani, nel 1738, e già nel
1740 circa era in grado di imitare lo stile dello zio
con straordinaria destrezza. Pietro Guarienti scrisse
delle vedute veneziane di Bellotto che “un grande
intendimento ricercasi in chi vuole distinguerle da
quelle del Zio” [1] . Le fasi successive della sua formazione
comprendono la riproduzione pressoché completa
delle composizioni di Canaletto: lavori recenti
accessibili in bottega nell’attesa che venissero inviati
ai committenti, e i primi esempi a casa di Joseph
Smith sul Canal Grande conosciuti tramite le incisioni
di Visentini. Sebbene molte delle sue opere
siano presumibilmente state vendute con il nome del
più noto capobottega, la distinta personalità artistica
di Bellotto è espressa chiaramente fin dall’inizio, poiché
non fu mai timido nel cercare di “migliorare” i
suoi modelli.
Il Bacino di San Marco nel giorno dell’Ascensione
con il Ritorno del Bucintoro (cat. V.03; Audley
End) è uno splendido esempio di uno dei primi
lavori di Bellotto, recentemente indentificato come
tale dallo scrivente [2] . È una replica del dipinto del
Canaletto di Holkham Hall (cat. V.02) [3] .
Nessuno dei due è stato esposto prima. L’opera
di Holkham venne eseguita per il grande mecenate e
collezionista Thomas Coke, Lord Lovel, dal 1744 primo
conte di Leicester (1697-1759), che in precedenza aveva
acquistato le due lastre di rame di Canaletto ancora
a Holkham (catt. IV.01-02) per la decorazione della
sua dimora, all’epoca in costruzione. Lettere rinvenute
indicano che doveva essere stato commissionato
intorno al marzo 1738. Doveva decorare il caminetto
del boudoir della moglie Lady Clifford nell’ala domestica,
posizione in cui venne installato nel 1740 e che
ancora occupa, incorniciato da William Kent. Un
disegno di Bellotto ispirato al dipinto di Canaletto
di Holkham si trova tra i fogli dello studio di Bellotto
ora a Darmstadt [4] . Il dipinto di Audley End deve,
tuttavia, essere stato dipinto in prossimità a quello
di Canaletto di Holkham, in quanto lo segue persino
nei minimi dettagli di colore. Si deve dunque datare
intorno al 1739, quando Bellotto aveva solamente
diciassette anni. Non venne dipinto per Audley End,
ma ci arrivò prima del 1836 dopo essere stato lasciato
in eredità a Richard Neville, secondo Lord Braybrooke,
dalla signora George Berkeley (1734-1800), assieme ad
altre due vedute veneziane della stessa data. Vi è traccia
dell’arrivo di queste tele in eredità alla signora Berkeley
da parte del suocero George Berkeley (1663-1753),
vescovo della cittadina irlandese di Cloyne e rinomato
filosofo, e non vi è ragione di dubitare che il dipinto di
Bellotto provenisse dalla stessa fonte. Berkeley, che era
stato nominato vescovo di Cloyne nel 1734 vivendo qui
fino al 1752, era sufficientemente abbiente per commissionare
vedute veneziane. I due dipinti minori sono
di un copista delle opere di Canaletto attivo alla fine
degli anni Trenta, battezzato dallo scrivente “Maestro
di Bateman”. Si ha traccia solamente della sua opera
come copista dei quadri di Canaletto passati per le
1 _ P. Guarienti in P.A.
Orlandi, P. Guarienti,
Abecedario Pittorico, Venezia
1753.
2 _ Nonostante si trovi in un
collezione di prestigio, è stato
pubblicato un’unica volta a cura
di J.G. Links, A Supplement to
W.G. Constable’s Canaletto:
Giovanni Antonio Canal 1697-
1768, London 1998, p. 34, cat.
342(a), come replica del dipinto
di Canaletto a Holkham.
3 _ W.G. Constable,
Canaletto: Giovanni Antonio
Canal 1697-1768, London 1962,
I, tav. 65; II, cat. 342; D. Succi,
Il Bucintoro nella grande arte
della Serenissima, Treviso 2017,
pp. 47-48, cat. 2, tav. 32 (a
colori).
4 _ S. Kozakiewicz, Bernardo
Bellotto, London 1972, II, pp.
410-411, cat. Z68, illustrato; M.
Bleyl, Bernardo Bellotto genannt
Canaletto: Zeichnungen aus
dem Hessischen Landesmuseum
Darmstadt, Darmstadt 1981, pp.
10-11, cat. 2, illustrato.
FIG. 1
ANTONIO CANALdetto
CANALETTO
Il Ritorno del Bucintoro
al molo nel giorno
dell’Ascensione, particolare.
Well-Next-the-Sea, The Earl
of Leicester and the Trustees
of the Holkham Estate
FIG. 2
BERNARDO BELLOTTO
Il Ritorno del Bucintoro al
molo nel giorno
dell’Ascensione, particolare.
English Heritage, Audley And
Ouse
mani di Joseph Smith, dunque sembra probabile che
il Bellotto di Audley End, e di conseguenza anche il
Canaletto di Holkham, siano stati commissionati tramite
Smith.
Il Bellotto di Audley End mostra già il tocco
distintivo del giovane pittore e molte delle caratteristiche
di questo primo stile. Una di queste è la resa
del cielo con pennellate diagonali che procedono
dal lato superiore destro all’inferiore sinistro, un’altra
l’uso di linee incise per catturare la luce. Mentre
le nuvole di Canaletto sono morbide, vagamente
somiglianti a matasse di ovatta galleggianti, quelle
del nipote somigliano più a una glassa grattata.
La predilezione di Bellotto per il nero è evidente,
proprio come alcune delle sue tonalità preferite
nell’abbigliamento, in particolare un azzurro grigiastro.
Le figure sono più rigide, meno eleganti che in
Canaletto e, persino in quest’epoca, divergono dai
tipi del maestro. Altre caratteristiche del primo stile
del pittore non sono evidenti, o lo sono meno, poiché
il dipinto è insolitamente fedele al prototipo:
molto probabilmente perché venne commissionato
da Smith come un “Canaletto” scontato, magari
non poi tanto. Se la maggior parte delle repliche di
Bellotto sono più grandi dei prototipi di Canaletto,
il dipinto di Audley End è esattamente delle stesse
dimensioni del Canaletto di Holkham. Bellotto
ha copiato la formula dell’acqua di Canaletto, con
increspature a forma di “W” estese che si intersecano,
e le sue difficoltà nel dipingere barche sull’acqua
in questa fase – con imbarcazioni che sembrano
scivolare sulla superficie dell’acqua piuttosto che
esservi dentro – sono meno apparenti che altrove.
Ma soprattutto, il dipinto è insolitamente irradiato
dal sole. In generale, nelle versioni di Bellotto
delle composizioni di Canaletto la calda luce solare
dell’originale veniva sostituita da una luce più
fredda, quasi invernale, che dava un effetto di cielo
coperto. Questa rimarrà una caratteristica dello
stile di Bellotto per tutta la sua carriera, sebbene sia
ovviamente meno appropriata nelle vedute italiane
di quanto non lo fosse a Königstein in Sassonia e a
Varsavia. Il Bellotto di Audley End era in realtà in
origine ancora più soleggiato: il blu del cielo si è
leggermente sbiadito, come si può notare dal tono
originale più intenso visibile nei cinque centimetri
superiori del dipinto, dove la tela doveva originariamente
essere stata coperta da una cornice.
150 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— LA VEDUTA — 151
Come abbiamo visto, i dipinti di Canaletto tendono
a rimpicciolirsi con il progredire della sua carriera.
Quelli di Bellotto, invece, seguono il percorso
inverso. Già in gioventù aveva mostrato la tendenza a
dipingere versioni dei quadri dello zio in dimensioni
più grandi dei prototipi, poiché le grandi misure aiutavano
a esaltare la monumentalità degli edifici, fine a
cui contribuisce sensibilmente anche un’applicazione
più decisa delle ombre.
Durante gli anni trascorsi a Dresda, immediatamente
dopo essere emigrato a nord delle Alpi
nel 1747, il formato standard non è mai minore ai
135x235 cm. Durante i circa sedici anni che precedono
la sua partenza per la Polonia, alla fine del 1766,
eseguì per Augusto III, re di Polonia e principe elettore
di Sassonia, diciassette vedute di Dresda, undici
di Pirna e cinque della fortezza di Königstein; tutte
rispettano le dimensioni standard tranne due, oltre
ai capricci e alle allegorie (trentasei delle quali ancora
a Dresda). Nello stesso periodo dipinse una seconda
serie di quindici varianti di vedute delle stesse dimensioni
per il primo ministro conte Heinrich Brühl, in
parte come ringraziamento per avergli garantito il
posto a Dresda; ma ovviamente fu un duro colpo
quando Brühl morì nel 1763, lasciando il conto aperto.
Nel 1768 vennero acquistate tutte dall’ambasciatore
russo in Sassonia e molte finirono nella collezione di
Caterina la Grande. Tra queste, la Veduta del castello
di Sonnenstein e Pirna (cat. V.21; San Pietroburgo,
Museo Statale Ermitage), della serie di Brühl, che si
discosta solamente per dettagli minimi dalla versione
che rimane a Dresda [5] . Il conte Brühl aveva emesso
un mandato datato 26 aprile 1753 dando indicazioni
all’amministratore locale di “non ostacolare in alcun
modo” il pittore di corte Bellotto, “incaricato di
eseguire disegni delle località intorno a Pirna e non
solo”. Dei dipinti risultanti, questo colpisce particolarmente
per la relativa insignificanza degli edifici e
per la vista panoramica sulla valle dell’Elba che comprende
le guglie di Dresda, ammirata dal pastore in
primo piano. È stato notato che, nonostante in tutta
la produzione di vedute tedesche di Bellotto ci sembri
essere un forte senso d’accuratezza topografica, in
realtà questa sia solo apparente. Come in molte delle
sue opere, la composizione è generata a partire da
incastri e molti degli animali al pascolo sono ricavati
dalle incisioni di Joseph Wagner ispirate a Nicolaes
Berchem. Le cinque pecore e la capra sono riprese da
un’incisione intitolata Di quel terreno […], mentre la
mucca e il pastore da un’altra chiamata Senza pensier
[…] [6] . Fin dall’inizio della sua carriera, Bellotto getta
spesso un’ombra per tutta la larghezza del dipinto, in
primo piano, come a inserire una seconda cornice che
crei profondità e guidi l’occhio nel dipinto. In questo
caso, al medesimo scopo, è utilizzato uno steccato.
Il lavoro di Bellotto a Dresda venne interrotto
tra il 1758 e il febbraio del 1762 dalla Guerra dei sette
anni, e l’artista trascorse questo periodo a Vienna e
Monaco. Le rovine di Pirna dopo il bombardamento del
1760 (cat. V.22) (Troyes, Musée des Beaux-Arts), dipinto
dopo il suo ritorno, mostra il quartiere Pirna’sche
Vorstadt dopo il bombardamento prussiano del luglio
1760. Tale opera fu riscoperta solamente nel 1974, sebbene
la composizione fosse nota già da un’incisione di
Bellotto stesso pubblicata nel 1766 (che omette i personaggi
d’alto rango, a cavallo sulla sinistra). La scena
di devastazione, con a sinistra la facciata della casa arsa
di Johann Georg von Fürstenhoff – architetto delle
fortificazioni di Dresda e comandante del Corpo degli
Ingegneri –, è resa ancor più toccante dall’atmosfera
bucolica. Gli effetti del bombardamento prussiano
erano profondamente sentiti da Bellotto così come da
chiunque altro, in quanto vennero distrutti o saccheggiati
quasi tutti i suoi beni, inclusa una biblioteca di
centinaia di volumi [7] .
Negli anni intorno al 1740 la bottega di
Canaletto era nel pieno della sua attività, con un
numero considerevole di familiari e assistenti che lo
aiutavano a soddisfare le richieste: non solo Bernardo
Bellotto e il padre, Bernardo Canal (che visse fino al
1744), ma anche Pietro Bellotti, forse Giovanni Battista
Piranesi, e vari assistenti, i cui nomi non sono giunti
fino a noi. Mentre le commesse di gruppi di dipinti
prima della fine degli anni Trenta avevano dato luogo
a serie dallo stile omogeneo, intorno a questa data il
controllo della qualità sembra vacillare. La ragione
potrebbe essere il coinvolgimento di altri agenti, oltre
a Smith. Henry Howard, quarto duca di Carlisle, che
aveva commissionato nel 1738 l’impareggiabile Bacino
di San Marco, verso est (cat. IV.04) (Boston, Museum of
Fine Arts), finì per avere più vedute veneziane, buona
parte delle quali acquistate tramite Antonio Maria
5 _ Esposto, ad esempio,
a Venezia, Museo Correr,
Bernardo Bellotto 1722-1780
(catalogo Milano 2005), e in
seguito a Houston, Museum
of Fine Arts, Bernardo Bellotto
and the capitals of Europe, e
pubblicato nel catalogo: New
Haven 2001, pp. 194-5, cat. 62,
illustrato a colori.
6 _ G. Weber in Bernardo
Bellotto and the capitals of
Europe 2001, pp. 21, 25, 194.
7 _ E. Manikowska, The
rediscovery of Bernardo
Bellotto’s inventory, “The
Burlington Magazine”, CLIV,
No. 1306, January 2012, pp.
32-36.
8 _ Constable 1962, cat. 66.
9 _ Si veda, ad esempio,
J. Gash e C. Beddington,
Paintings by Canaletto and his
father at Aberdeen University,
“The Burlington Magazine”,
CLIX, december 2017, pp.
976-981.
Zanetti, di qualsiasi altro mecenate del diciottesimo
secolo. Un’ulteriore coppia di dipinti di Canaletto,
che deve aver ricevuto nel 1743 circa – tra cui Piazza
San Marco e la Piazzetta, verso sud-est (cat. V.18;
Washington, National Gallery of Art) – sono anch’essi
di qualità eccezionale ma dal tono molto più dorato,
oltre che in una scala totalmente diversa e poco coerenti
stilisticamente rispetto agli acquisti precedenti. Il
duca di Newcastle ricevette un gruppo di dipinti ben
più discordanti, tra cui un capolavoro, La Piazzetta
dal Bacino di San Marco (Pasadena, Norton Simon
Museum), tra altre opere molto meno prestigiose [8] .
Persino una serie di quattro vedute veneziane eseguite
per Smith, due firmate e datate 1743, tra cui Il Molo con
le Prigioni e Palazzo Ducale (cat. V.19) (Londra, Royal
Collection, RCIN400517), e due del 1744, formano un
gruppo dallo stile decisamente disomogeneo. Fanno
parte degli oltre venti dipinti degli anni 1742-44 a cui
Canaletto sentì il bisogno di apporre una firma, per la
prima volta dal 1723. All’inizio degli anni Quaranta il
pittore mostrava chiaramente di aver bisogno di nuove
sfide dopo due decadi passate a concentrarsi sulle
vedute veneziane. Un probabile fattore è che durante
la Guerra di successione austriaca – scoppiata nel
dicembre del 1740, spostatasi in Italia nel 1741 e proseguita
dopo un’escalation nel 1744, fino a che venne
sancita la pace nell’ottobre 1748 – la richiesta si contrasse.
Anche se gli eventi bellici non impedivano certo
di recarsi a Venezia, la circostanza affievolì inevitabilmente
l’entusiasmo dei molti potenziali visitatori britannici.
Intorno a quest’epoca Canaletto diversificò i
suoi soggetti con vedute della terraferma che seguivano
un viaggio per il canale del Brenta intrapreso nel
1742 insieme a Bellotto. Il ritorno del nipote da Roma
nel 1743 lo ispirò inoltre a considerare la Città Eterna
come soggetto dei suoi dipinti, per la prima volta dal
1720, in particolare nella serie di grandi tele prevalentemente
verticali della Royal Collection, che mostrano
particolarmente bene la sua abilità nel saper rendere
in modo convincente degli scorci che non vedeva da
molti anni con i suoi stessi occhi.
All’inizio degli anni Quaranta Canaletto
si dedicò anche per la prima volta all’incisione
( Acqueforti), e sia in questo mezzo espressivo sia nella
pittura a olio tornò al genere inventivo dei “capricci”,
che aveva abbandonato nel 1723. La maggior parte di
essi vennero eseguiti per Joseph Smith: in particolare
una serie di tredici sopraporta per la sua casa, palazzo
Mangilli-Valmarana sul Canal Grande, sebbene resti
traccia anche di un gruppetto di piccoli capricci particolarmente
raffinati e fortemente bellotteschi databili
su base stilistica all’inizio degli anni Quaranta [9] .
Capricci di natura molto diversa vennero prodotti
all’incirca nello stesso periodo anche da Antonio
Visentini (1688-1782). Nel corso di una carriera insolitamente
longeva, Visentini fu un artista con un’ampia
gamma di talenti: fu l’incisore che riprodusse le più
raffinate incisioni ricavate dalle vedute del Canaletto,
l’architetto che progettò la facciata della casa di Joseph
Smith, un eccellente disegnatore e pittore, quasi esclusivamente
di capricci, sebbene gli siano state attribuite
un paio di vedute. I suoi maggiori successi col pennello
sono una serie di otto grandi tele che decorano ancora
il portego di palazzo Contarini Fasan, databili intorno
al 1740. Una di queste, Veduta prospettica con giocatori
di carte (cat. V.25) (Venezia, palazzo Contarini Fasan),
mostra come il carattere dell’opera di Visentini si differenzi
da quello di Canaletto nel suo essere più luminoso,
colorato e giocoso. Uno dei più stretti collaboratori
di Visentini era il pittore paesaggista e di figura
Francesco Zuccarelli (1702-1788). D’origine toscana,
Zuccarelli è considerato il maggiore paesaggista veneziano
del Settecento, nonostante non si sia trasferito a
Venezia che all’età di trent’anni. Godette di un successo
considerevole, diventando membro fondatore della
Royal Academy of Arts di Londra, dove trascorse un
lungo periodo, e, nel 1771, presidente dell’Accademia
Veneziana. Eseguì sia le figure che i paesaggi di circa
quindici tele con elementi architettonici di Visentini, e
fu uno dei pochissimi pittori a disegnare ‘macchiette’
nei dipinti di Bellotto.
Il desiderio di nuove sfide potrebbe essere stato
un fattore decisivo nella scelta di Canaletto di trasferirsi
a Londra nel 1746. L’artista vi rimase per ben nove anni,
eccetto un ritorno di otto mesi a Venezia nel 1750-51 (il
cui unico frutto di cui siamo a conoscenza è la grande
coppia di vedute ora alla Royal Collection). Sebbene per
circa un decennio non fosse rimasto alcun pittore di
calibro al servizio di ciò che rimaneva del mercato delle
vedute – avendo il fratello di Bellotto, Pietro Bellotti,
lasciato Venezia probabilmente nel 1745 circa, e con la
partenza di Bellotto stesso per il nord Europa nel 1747,
152 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— LA VEDUTA — 153
che completò così la diaspora familiare –, fu un periodo
di successo tanto artistico quanto economico. Canaletto
riuscì a riallacciare i rapporti con molti mecenati che in
passato (anche piuttosto remoto) gli avevano commissionato
una o più vedute veneziane, convincendoli ad
acquistare serie di dipinti. Durante questo periodo continuò
a sperimentare, non solo scegliendo temi completamente
nuovi, ma anche adottando una preparazione
grigia al posto di quella ruggine usata sempre a Venezia
che produceva una tonalità più chiara, e preferendo,
occasionalmente, pannelli di mogano come supporto.
Il ponte di Walton (cat. V.15) (Londra, Dulwich
Picture Gallery) è da lungo stato considerato come una
delle più deliziose vedute inglesi di Canaletto, oltre che
l’unica in cui tenti di immortalare condizioni atmosferiche
variabili, tipicamente inglesi. Questo “incantevole
ritratto dell’Old Walton Bridge” era particolarmente
apprezzato dal grande esperto di Canaletto J.G. Links,
che vi vedeva “la perfetta combinazione di struttura fiabesca
e un artista che vi rispondeva con la sensibilità che
aveva dimostrato nelle più raffinate delle sue incisioni”.
Firmato e datato al 1754, verso la fine degli anni inglesi
del pittore, mostra il ponte Walton, aperto al pubblico
nell’agosto del 1750, che attraversava il Tamigi circa
venticinque miglia a monte di Westminster facilitando
enormemente il trasporto fluviale in quell’area. Eccetto
i quattro piloni in pietra, era costruito interamente con
tralicci di legno, secondo l’insolito metodo della “travatura”,
che permetteva di rimuovere qualsiasi elemento
senza spostarne altri. Aveva una campata centrale di 132
piedi (40 metri circa) e due campate laterali di 44 piedi
(13,5 metri) l’una. L’arco centrale, salutato come “l’arco
più grande d’Europa” (“The Daily Advertiser”, 3 marzo
1747), aveva un’altezza libera di 26 piedi (8 metri) sopra
il livello di piena più alto, rendendo la strada incredibilmente
ripida e dando al ponte un aspetto imponente se
visto dai lati. Il ponte venne costruito a spese di Samuel
Dicker, cui fu permesso di imporre un pedaggio per
l’uso. Dicker fu membro del Parlamento di Plymouth
dal 1754 e morì a Londra nel 1760; la sua casa a Mount
Felix è visibile nel dipinto, sul terreno sollevato a sinistra.
La veduta era una delle sei eseguite per Thomas Hollis,
divenuto amico di Joseph Smith durante una visita a
Venezia in occasione del suo Grand Tour (vi rimase
dall’8 dicembre 1750 al 28 febbraio 1751), durante la
quale potrebbe contestualmente aver conosciuto
Canaletto. Il gruppo di figure in primo piano è identificato
in un catalogo del 1809 come “Thomas Hollis, l’amico
Thomas Brand, il servo Francisco e il cane, Malta”.
Brand, in seguito Brand-Hollis, fu il compagno di una
vita di Hollis nonché erede, e “Francisco” era Francesco
Giovannini, un romano che Hollis aveva conosciuto a
Venezia, dove si spacciò per “una sorta di antiquario”
al viaggiatore inglese e in seguito lo accompagnò in
Inghilterra. Hollis è presumibilmente il più alto della
coppia di gentiluomini al centro. Canaletto ha anche
incluso un artista, probabilmente se stesso, seduto su
uno sgabello in primo piano al centro mentre ritrae la
scena, come a indicare il suo orgoglio in questa particolare
opera
Il lavoro di Canaletto dopo il suo ritorno a
Venezia mostra ulteriori e peculiari cambiamenti stilistici.
Le tele sono spesso piccole e la tonalità è scura. Le
nuvole si tingono di rosa, le lumeggiature sono rese con
puntini di vernice e le figure sullo sfondo si dissolvono
in ghirigori calligrafici. Sebbene questo venga spesso
considerato come il periodo meno interessante del pittore,
non manca di nuove idee e ripartenze. L’Interno
della Basilica di San Marco (cat. V.17) (Londra, Royal
Collection, RCIN400575), generalmente datato su
base stilistica al periodo immediatamente successivo al
ritorno dell’artista a Venezia, è la versione minore di un
dipinto eseguito probabilmente poco più di dieci anni
prima per George Garnier di Rookesbury Park, ora al
Montreal Museum of Fine Arts [10] . Sebbene fosse stato
dipinto per Smith, e fosse così altamente improbabile
che i due collezionisti avessero avuto la possibilità
di confrontarsi, è notevole come il pittore si rifiuti
di ripetersi, variando gli angoli e molte delle figure e
producendo un lavoro dal tono nettamente più cupo.
Queste tendenze negative sono poco evidenti nei
capolavori pittorici degli ultimi anni dell’artista: le
quattro vedute commissionate dal mercante tedesco
residente a Venezia Sigismund Streit per la sua vecchia
scuola di Berlino, a cui vennero consegnate nel 1763
e cui ancora appartengono (Berlino, Gemäldegalerie,
in prestito dalla Streit Foundation). Particolarmente
sorprendenti tra queste sono due vedute notturne, una
che ritrae La festa notturna a San Pietro di Castello alla
vigilia della festività dei Santi Pietro e Paolo (29 giugno)
[11] . Tra le vedute diurne, quella del Canal Grande,
guardando a sudest da Campo Santa Sofia verso il Ponte
10 _ Esposto a Roma, Palazzo
Giustiniani, Canaletto: Il trionfo
della veduta, e pubblicato nel
catalogo, Cinisello Balsamo
2005, pp. 244-247, cat. 66,
illustrato a colori.
11 _ Constable 1962, cat. 359.
12 _ Ivi, cat. 242.
13 _ W. G. Constable,
Canaletto, II edizione rivista
da J. G. Links, Oxford 1976,
cat. 54*.
14 _ Constable 1962, cat. 558.
FIG. 3
ANTONIO CANAL dettO
CANALETTO
La sagra di San Pietro di
Castello, particolare.
Berlino, Staatliche Museen zu
Berlin, Gemäldegalerie
di Rialto si potrebbe considerare il culmine dello sviluppo
verso profili decisi e dettagli netti [12] . Le distorsioni
ottiche dei piccoli dipinti di Piazza San Marco,
guardando a sud e ovest (Los Angeles, County Museum
of Art) [13] , firmato e datato 1763 sul retro, che è una
delle ultime vedute del pittore di questo importante
soggetto, mostrano che anche all’età di sessantasei anni
Canaletto cercava e trovava ancora nuove sfide. Quella
che deve essere stata la sua ultima grande commessa fu
per i dodici spettacolari dipinti delle Feste Dogali, preparatori
alle incisioni di Giovanni Battista Brustolon.
Benché otto delle stampe vennero annunciate a marzo
1766, la loro pubblicazione si dev’essere estesa fino
agli anni 1770. Dieci dei dodici fogli particolarmente
rifiniti sopravvivono, trovati da Sir Robert Colt Hoare
in una libreria veneziana nel 1787-89, tra cui Il Doge
in pozzetto compie il giro della Piazza (Londra, British
Museum), Ringraziamenti del Doge dopo l’elezione nella
Sala del Maggior Consiglio (Londra, British Museum)
e Il Bucintoro a San Nicolò del Lido (Washington,
National Gallery of Art) (catt. V.06-07). Le composizioni
erano molto popolari e furono massicciamente
copiate, nondimeno da Francesco Guardi, la cui serie
di dipinti basati su tutti e dodici (catt. V.08-09).
Un disegno dell’interno della Basilica di San
Marco (Amburgo, Kunsthalle) è l’ultimo lavoro datato
per mano di Canaletto; è del 1766 e reca orgogliosamente
la scritta “Io … Hò fatto il presente disegnio …
in ettá de- Anni 68 Cenzza Ochiali” [14] . L’artista morì
nel 1768 all’età di settantun anni. Scapolo a vita, lasciò
alle tre sorelle minori qualche vecchio abito e l’affitto
di una piccola proprietà sulle Zattere per la quale
pagava nel 1751 2.150 ducati, le uniche testimonianze
di tre decenni di successo.
154 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— LA VEDUTA — 155
DENIS TON
FIG. 1
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Il Banchetto di Antonio e
Cleopatra, particolare.
Venezia, palazzo Labia
1 _ Opera da datare, come
appurato da Franca Zava
Boccazzi, al 1734-35: cfr. F.
Zava Boccazzi, Pittoni. L’opera
completa, Venezia 1979, pp. 111-
112, cat. 4.
2 _ Per un’analisi dettagliata
del rapporto tra modelletto e
opera finita, si veda S. Loire,
Peintures italiennes du XVIIIe
siècle du musée du Louvre, Paris
2017, pp. 331-333.
UNA DIMENSIONE
EUROPEA
LA PITTURA DI
STORIA
Intorno alla metà degli anni
Trenta del Settecento, Clemente Augusto di Baviera
commissionò a Venezia, dove già nel 1727 non aveva
mancato di farsi ritrarre da Rosalba Carriera, alcune
importanti pale d’altare agli artisti che dovettero apparirgli
come i maggiori interpreti della grande pittura
di storia: una di queste fu affidata al maestro più celebrato
nel genere, Giambattista Piazzetta, che realizzò
l’Assunzione della Vergine oggi al Louvre, di cui si è già
fatto cenno in questo volume; un’altra, che avrebbe
dovuto raffigurare L’elemosina di santa Elisabetta per
la Schlosskirche di Bad Mergentheim, venne affidata a
Giambattista Pittoni [1] , e infine a Giambattista Tiepolo
spettò l’incarico di realizzare la grande pala per la chiesa
di Notre-Dame di Nymphenburg, rappresentante San
Clemente papa adora la Trinità, attualmente conservata
presso l’Alte Pinakothek di Monaco (fig. 3). Poco dopo
la scomparsa di Sebastiano Ricci, erano questi i punti
di riferimento per la grande pittura sacra e l’attenzione
di un principe vescovo in terra tedesca quale Clemente
Augusto dà la misura di come l’arte veneziana fosse
ormai universalmente considerata una delle maggiori
d’Europa, se non la più importante.
Nel campo della pittura religiosa Tiepolo è protagonista
non solo per la grande committenza straniera,
ma domina ormai anche il campo a Venezia, dove il
suo talento non si limita all’esecuzione di pale d’altare
ma trova la propria dimensione in grandi progetti
decorativi: negli anni Quaranta, ad esempio, è impiegato
nella straordinaria trasformazione della volta della
chiesa degli Scalzi, con l’affresco del Miracolo della santa
casa di Loreto, purtroppo distrutto nel 1915; e poi con
uno dei suoi cicli pittorici più celebri, la decorazione
con nove dipinti a olio del salone principale del piano
superiore della Scuola dei Carmini, e in particolare con
lo scomparto centrale rappresentante la Vergine del
Carmelo appare al beato Simone Stock (1740-49) (cat.
V.29). Il modelletto del Louvre, che include già nella
parte inferiore le anime purganti che impetrano la salvezza,
presenta poche varianti rispetto alla redazione
finale: il volto della Vergine verrà indirizzato verso i
membri della Scuola invece che verso il Santo, al quale
poi sarà il grande angelo in volo al centro a porgere lo
scapolare [2] . Ma resta invariata l’intuizione iniziale, con
quell’apparizione improvvisa e potente della Vergine,
novella Nike, che, con il corteggio di creature celesti e
il Bambino in braccio a penzoloni nel vuoto, sembra
fendere l’aria come la polena di una nave lanciata da un
vento gagliardo. Un’intuizione visiva di estrema semplicità,
ma folgorante, che fa appello alla nostra fede e
amplifica i poteri del nostro sguardo.
Nonostante l’affermazione nei più prestigiosi
cantieri religiosi cittadini, Tiepolo è richiestissimo
anche all’estero. La pala per Clemente Augusto fu soltanto
la prima di una serie di incarichi prestigiosi che
incominciarono a giungergli da ogni parte del continente.
Un ruolo importante per la sua affermazione
fuori dai confini della Serenissima lo ebbe Francesco
Algarotti, il noto poligrafo veneziano, con interessi
che spaziavano dalla letteratura alla scienza e all’arte,
con cui egli fu in contatto sicuramente a partire dagli
anni Quaranta. Fu un incontro decisivo, non soltanto
perché Tiepolo si avviò grazie a esso verso una nuova
dimensione aulica, solenne e “classica” della proprio
arte, ma anche perché Algarotti lo promosse come il
—LA PITTURA DI STORIA— 157
più importante artista del suo tempo presso la corte di
Dresda, dove lavorava e per la quale procacciava dipinti
sia di antichi maestri sia di artisti a lui contemporanei.
A Venezia, in particolare, commissionò opere, spesso
dai soggetti alquanto singolari, non solo a Tiepolo,
ma pure a Pittoni, Piazzetta, Amigoni, Zuccarelli. Al
primo affidò un dipinto di storia antica rappresentante
Cesare che contempla la testa di Pompeo ad Alessandria
e quindi un’altra coppia di dipinti: Mecenate presenta
le arti ad Augusto, oggi conservato presso l’Ermitage
di San Pietroburgo, e il così detto Regno di Flora, oggi
al M. H. de Young Memorial Museum di San Francisco
(fig. 2), opere queste pensate per omaggiare il potente
ministro di Augusto III, il conte Heinrich von Brühl [3] .
Nel dipinto oggi a San Pietroburgo, Tiepolo immaginò,
su indicazione del suo colto suggeritore, che le Arti
liberali, raffigurate da tre donne – Pittura, Scultura,
Architettura nonché Poesia (identificata quest’ultima
da Omero) – fossero presentate all’imperatore tramite
l’intercessione di Mecenate. Il fatto che nello sfondo
del dipinto si intraveda il palazzo dello stesso conte
indica chiaramente l’intento adulatorio del quadro,
facendo scattare l’identificazione tra Brühl e Mecenate
promotore delle arti. La suggestione dell’opera risiede
però nella capacità di Tiepolo di trasformare un soggetto
che potremmo considerare la versione pittorica
dei molti poemetti adulatori e celebrativi, di gran voga
durante il secolo, in una scena viva: nobile per forme
elette, attrezzerie di scena e abiti sontuosi, prospettive
architettoniche impeccabili e di stampo dichiaratamente
neopalladiano, inondando il tutto di una luce
dorata capace di far brillare i dettagli più preziosi e il
tessuto più ricercato.
In entrambi i dipinti, il ruolo civilizzatore e
trasformatore dell’arte non è immaginato statico, ma
rappresentato in piena azione: in un caso, gli scalpellini
sono ancora intenti, proprio sopra l’imperatore, a
completare la grande balaustra neoveronesiana che fa
da sfondo al dipinto; nell’altro assistiamo alla metamorfosi
della natura operata da Flora al suo passaggio,
secondo quello che era il proposito di Algarotti stesso
indicato nella lettera indirizzata a Brühl del luglio 1743,
ove si proponeva di rappresentare la dea “qui change
en endroits délicieux les lieux les plus sauvages” [4] .
In quello stesso 1743, Algarotti annuncia al
suo corrispondente di avere acquisito a Venezia un
altro capolavoro di Tiepolo, cominciato per un committente
ancora ignoto, per donarlo al sovrano:
si tratta del Banchetto di Antonio e Cleopatra oggi
alla National Gallery of Victoria di Melbourne [5] ,
una tela straordinaria per dimensioni e tenuta qualitativa,
che segna un nuovo punto di arrivo dello stile
“aulico” e solenne che l’artista è capace di realizzare nel
corso di questa stagione della sua attività. Ma mentre
FIG. 2
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Il Regno di Flora.
San Francisco,
M. H. de Young Memorial
Museum
FIG. 3
GIAMBATTISTA TIEPOLO
San Clemente papa adora la
Trinità. Monaco di Baviera,
Alte Pinakothek
3 _ Sul dipinto dell’Ermitage,
si veda, da ultimo: P. Pastres,
Algarotti per Augusto e Mecenate
a Dresda. Artisti, acquisti e
programmi pittorici nei versi
ad Augusto III del 1743-1744,
“Studi Germanici”, 10, 2016,
pp. 9-66; per il Regno di Flora,
si rimanda ancora a W.L.
Barcham, Il “Trionfo di Flora”
di Giambattista Tiepolo: una
Primavera per Dresda, “Arte
Veneta”, 45, 1993, pp. 70-77,
dove si ipotizza di riconoscere
nel giardino di Flora quello
di Armida raccontato nella
Gerusalemme Liberata di
Torquato Tasso.
4 _ Lettere artistiche del
Settecento veneziano, Vicenza
2002, p. 103.
5 _ Su questa tela come,
più in generale, sul soggetto
e gli affreschi di palazzo
Labia, si veda A. Mariuz, Le
storie di Antonio e Cleopatra.
Giambattista Tiepolo e
Girolamo Mengozzi Colonna a
Palazzo Labia, Venezia 2004, in
particolare p. 14.
6 _ A. Mariuz, Giambattista
Tiepolo, in The Glory of Venice.
Art in Eighteenth Century,
catalogo della mostra (Londra,
Royal Academy of Arts;
Washington, National Gallery
of Art) a cura di J. Martineau,
A. Robison, London 1994, ed.
cit. A. Mariuz, Tiepolo, Verona
2012, p. 322.
7 _ Per un’analisi iconografica
del dipinto si veda W.L.
Barcham, in Giambattista
Tiepolo 1696-1996, catalogo
della mostra (Venezia,
Ca’ Rezzonico; New York,
Metropolitan Museum of Art),
Milano 1996, pp. 171-177. Il
dipinto era stato commissionato
dal conte Wilhelm Friedrich von
Schaumburg-Lippe, in memoria
verosimilmente del suo amante
morto nel 1751.
8 _ L’identificazione
del bambino con Enea era
stata proposta da Michael
Levey (National Gallery. The
seventeenth and eighteenth
century Italian schools, London
1971, pp. 228-231), osservando
l’assenza di ali. D’altronde
Cupido sembra presente nella
parte inferiore del dipinto,
recando una faretra di frecce.
La natura semidivina, e
pertanto, mortale di Enea
sembra meglio compatibile
con l’interpretazione, venata di
una certa malinconia, data da
Tiepolo alla scena.
Tiepolo stava ideando il grande dipinto, dovette balenargli
l’idea che il soggetto delle storie di Antonio e
Cleopatra si sarebbe prestato a una rappresentazione
ancora più audace, tale da far transitare la sua compagnia
di teatranti in un palcoscenico immenso. Ecco dunque
che Tiepolo, come un impresario e regista ossessionato
dal bisogno di spazi e set grandiosi, troverà l’ambientazione
ideale per i suoi sogni non molto tempo
dopo, con la decorazione ad affresco del salone del
palazzo dei Labia, una famiglia arricchitasi con il commercio
di tessuti preziosi. Lì, a partire dal 1746, si trovò
a immaginare immense aule, approdi marini, giganteschi
prospetti di palazzi e ambientazioni da “kolossal”,
nel massimo dispiego dei propri mezzi espressivi.
Il ciclo, completato con la fondamentale collaborazione
per l’apparato quadraturistico di Girolamo
Mengozzi Colonna, diventerà probabilmente il punto
più alto del suo tentativo di emulazione e di “aggiornamento”
della grande lezione cinquecentesca di Paolo
Veronese. Il precedente è però tradotto in un linguaggio
che ha ormai attraversato l’età barocca e punta
dunque alla trasformazione completa dello spazio e
dell’ambiente vissuto dallo spettatore (fig. 1).
Gli affreschi furono preceduti da diversi studi
grafici e pittorici, e in tal senso la tela con il Banchetto di
Antonio e Cleopatra oggi conservata presso l’Università di
Stoccolma (cat. V.30) testimonia al meglio la grandiosità
trasfigurante che sarà ben più avvertibile nell’originale ad
affresco. Qui è già immaginata la scalinata, abitata a mo’
di repoussoir da un nano visto da tergo, tramite ideale tra
il nostro mondo e quello dell’immaginazione, l’ingresso
magico alla scena.
Il salone di palazzo Labia è la prova generale
di quello che, oltre a essere il vertice assoluto dell’arte
di Tiepolo, è forse il capolavoro decisivo della pittura
del secolo: la decorazione della volta dello scalone di
Würzburg, nella residenza del principe arcivescovo Karl
Philipp von Greiffenclau, con Apollo e i Quattro continenti,
affresco a cui attese tra 1750 e 1753. La fame di
spazi sconfinati, il bisogno di nuove prove per una mente
capace di immaginare un mondo intero, come quello cui
è intenta l’Allegoria della Pittura [6] , portò Giambattista a
dipingere, in questo caso senza alcun elemento quadraturistico,
una superficie di circa seicento metri quadri.
Ma accanto a queste imprese atlantiche,
prosegue la richiesta di dipinti a olio, soggetti della
mitologia antica, per gli stessi prestigiosi committenti
che ne reclamavano le decorazioni ad affresco o
le grandi pale d’altare: tra di essi un ricordo in particolare
merita la Morte di Giacinto del Museo Thyssen-
Bornemisza di Madrid, che ha la capacità di dare
forma al dramma con la grazia e insieme la nitidezza
di una cantata profana di Händel (cat. V.39). Si raffigura
un passo delle Metamorfosi di Ovidio, relativo
alla sfortunata uccisione da parte di Apollo dell’amato
Giacinto: nello stesso giardino dove nascevano
corolle per il passaggio di Flora, viene ora svelato il
mistero dietro la nascita di un fiore, sbocciato dall’amore,
certo, ma, ancor più, dalla sua perdita [7] .
In un’opera come questa si annuncia nella pittura
di Tiepolo una nuova svolta, elegiaca e sentimentale,
sollecitata dalle istanze patetiche della visione
algarottiana: momento che avrà la sua massima espressione
nel ciclo di affreschi di villa Valmarana a Vicenza
(1757), nel quale ogni riquadro, dedicato a episodi
tratti dai grandi poemi dell’antichità e della letteratura
moderna, è una scena d’amore, cantata su palcoscenici
separati, nei salotti di un amante del teatro come
Giustino Valmarana. Il tono degli affreschi vicentini,
commosso e sentimentale, trabocca anche nella pittura
allegorica decorativa, ma essa non è risolta con un semplice
aggiornamento di un formulario consolidato. È
sufficiente, in tal senso, volgersi all’Allegoria con Venere
e il Tempo della National Gallery di Londra (cat. V.32),
realizzata tra 1754 e 1757, che ornava, insieme a quattro
ovali ad affresco, una sala di palazzo Contarini a Venezia.
Nella tela, ricordata dallo stesso figlio Giandomenico
come “il parto di Venere, e le Grazie in Ca’ Contarini”,
il soggetto celebrativo, probabilmente per l’arrivo di un
erede in famiglia, si trasforma in una sorta di natività
profana, dove la dea, con la serietà di chi si accinge a
un distacco doloroso, pare offrire al mondo dei mortali
il suo bambino, forse Enea invece di Cupido [8] . Il
Tempo lo accoglie tra le mani quasi intimidito dalla
bellezza ultraterrena della sua Regina, che fissa intensamente.
Avevamo visto il Tempo planare minaccioso
nel salone di villa Baglioni a Massanzago, stringere
a sé la Verità al culmine del soffitto di palazzo
Cordellina a Vicenza (oggi ai Musei Civici): appare
ora remissivo, consapevole della gravità del momento,
timoroso della fragilità del fanciullo che gli viene
consegnato.
158 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
—LA PITTURA DI STORIA— 159
La luce inonda le figure, ha il potere incantatorio
non solo di far vibrare le forme nell’atmosfera,
ma di illuminarle quasi dall’interno, dando
loro la consistenza abbacinante di un miraggio, come
nell’indefettibile e pur sensuale incarnato della dea,
o nell’apparizione delle Grazie in alto a destra, colte
un attimo prima di svanire in un’ombra colorata. Gli
accordi cromatici sono perfette tessiture luminose,
come l’incontro tra l’arancio dorato e il rosa tenue
delle vesti di Venere, dalle quali sboccia il suo busto
ignudo. Tutta l’immagine è costruita in profondità,
con il massimo di lucidità ottica, così che noi, inevitabilmente
rapiti, partecipi nella nostra natura creaturale
della corruzione del Tempo, siamo vinti insieme
nella mente e nel sentimento.
Tiepolo dominava un campo, quella della pittura
di storia e decorativa, dove non mancavano altri
fuoriclasse, interpreti lucidi e abilissimi decoratori
che portavano avanti premesse differenti: le alternative,
nel campo della grande decorazione e della pittura
di storia, erano di grande livello. Tra di essi, alcuni
erano allievi di Sebastiano Ricci: Francesco Fontebasso
(Venezia 1707-1769), attivo anche per la Russia, e,
soprattutto, Gaspare Diziani (Belluno 1689-Venezia
1767). Anch’egli lavorò principalmente per la Germania,
a Monaco, Ansbach e Dresda, intorno al 1717, oltre che
per la stessa Pietroburgo [9] . Con accordi di colore audaci
e una pennellata spezzata, inquieta, egli seppe interpretare
al meglio e in chiave assolutamente personale
la lezione del maestro, recuperando con audacia vorticose
composizioni ed effetti luministici contrastati
di sapore tintorettesco. Opere come il Ratto d’Europa
e Teti ordina le armi di Vulcano (catt. V.34-35), tuttavia,
di collezione privata, da collocare intorno agli
anni Cinquanta del Settecento, rivelano come il suo
gusto potesse evolversi verso la fine della sua attività
in linea con una tendenza neoveronesiana e di matrice
“rococò”: l’attenzione non è tanto al dato atmosferico
e alla sintesi luce-colore, come in Tiepolo, bensì alla
creazione di gemme colorate, mondi di “arcadia” [10]
dove l’ombra non sembra avere cittadinanza e le tonalità
sono le più ricercate, come il verde acqua tralucente,
della veste di Teti, che “raffredda” la tavolozza
calda della fucina di Vulcano.
Dal punto di vista tecnico, come anche dell’originalità
nel racconto, l’unica voce che può in certa
misura reggere il confronto con il grande genio del
secolo è invece Giambattista Crosato, che Vincenzo Da
Canal intorno al 1732 definiva “giovane intelligente del
chiaroscuro, risoluto e bizzarro” [11] . Artista che infatti
dovette, al principio della sua carriera, essere sedotto
dalle ambientazioni neotenebrose e che poi, pur aderendo
convinto alla nuova linea neoveronesiana, seppe
elaborare un linguaggio di chiara impronta “rococò”,
buono per la grande decorazione, la pittura di storia
ma anche lambriggi, boiseries e scenografie teatrali,
con una versatilità che lo fece apprezzare alla corte
sabauda a Torino, “laboratorio” della pittura settecentesca
aperto alle scuole più diverse, dalla francese alla
napoletana, sotto la regia geniale di Filippo Juvarra.
Per i Savoia, Crosato assolse a importanti incarichi
sia per il Teatro Regio sia per la Palazzina di caccia di
Stupinigi, come l’affresco con l’indimenticabile interpretazione
del Sacrificio di Ifigenia, dove la mitologia
9_ Su Diziani in Germania,
si vedano G. Pavanello, Per
Gaspare Diziani decoratore,
“Arte Veneta”, XXXV, 1981, pp.
126-129; D. Ton, Due “historie”
di Gaspare Diziani ad Ansbach,
in L’impegno e la conoscenza.
Studi di storia dell’arte in onore
di Egidio Martini, a cura di F.
Pedrocco, A. Craievich, Verona
2009, pp. 331-335.
10 _ Di “Arcadia dizianesca”
parla Anna Paola Zugni-Tauro,
autrice della monografia
di riferimento dell’artista,
a proposito di questa fase
della sua produzione, ben
rappresentata dalla decorazione
di palazzo Contarini a San
Beneto: si veda A.P. Zugni-
Tauro, Gaspare Diziani, Venezia
1971, p. 95.
11 _ V. Da Canal, Della
maniera del dipingere moderno.
Memoria di Vincenzo da Canal
P.V. ora per la prima volta
pubblicata [1735], a cura di G.
Moschini, “Mercurio filosofico
e letterario e poetico”, marzo
1810, p. 16. Per la messa a fuoco
della giovinezza dell’artista, sia
concesso rimandare a D. Ton,
Giambattista Crosato. Pittore
del rococò europeo, Verona 2012,
pp. 21-42.
FIG. 4
GIAMBATTISTA CROSATO
Il sacrificio di Ifigenia.
Stupinigi, Palazzina di caccia
FIG. 5
GIAMBATTISTA CROSATO
Punizione di Uzza.
Collezione privata
FIG. 6
ANTONIO GUARDI
Aurora.
Venezia, Collezione Cini
è trattata con arguzia divertita, i personaggi sembrano
usciti da una casa di bambole, e il colore conosce
vibrazioni e una scioltezza di segno impareggiabile (fig.
4). In Veneto invece, tra gli altri, lavorò per lo stesso
Algarotti, che lo volle interprete – cogliendone certamente
la sensibilità “a fior di pelle” e la grazia sentimentale,
ancora lontana dallo spirito neoclassico – di
soggetti tratti dall’Iliade per gli affreschi a monocromo
della villa di famiglia a Carpendo.
L’evoluzione del suo percorso si può cogliere
efficacemente anche attraverso le sue tele da cavalletto.
Il Ritrovamento di Mosè (cat. V.33), di Palazzo Madama
a Torino, probabilmente dei primi anni Trenta del
Settecento, bene rivela l’incidenza nella sua formazione
della corrente neotenebrosa: lamine di luce e filamenti
di colore emergono dal fondale scuro, a rischiarare i
volti della Regina, dei bambini e delle fanciulle che sono
i protagonisti più tipici del suo repertorio, aggiungendo
una nota divertita ai suoi racconti. La Punizione di Uzza
(fig. 5), di collezione privata, è invece un’opera della fase
finale della sua attività: nella sua concezione spaziale
libera, in un paesaggio aperto e pienamente luminoso,
Crosato non rinuncia a una costruzione di sapore scenografico,
con il cavaliere che occupa nell’angolo sinistro
il primo piano d’ombra. Il raro episodio biblico
– Uzza muore fulminato da Dio per avere toccato
l’Arca dell’Alleanza – viene narrato senza alcuna indulgenza
sensazionalistica all’irruzione del soprannaturale,
160 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
—LA PITTURA DI STORIA— 161
e interpretato da figurine minute, quasi fantasmatiche,
risolte da pochi tocchi di colore e pennellate roride di
luce, secondo un linguaggio estremo che avevamo già
visto nei due allucinati episodi della Via Crucis di Santa
Maria del Giglio, del 1755.
Verso la metà degli anni Cinquanta del
Settecento era stato poi forse lo stesso Tiepolo a suggerire
ai suoi vicini di casa, i Zulian di San Felice, l’impiego
di un altro grande outsider, al quale era legato
da un legame di parentela grazie alla moglie Cecilia:
Antonio Guardi (1699-1760), che di questa era il fratello
maggiore, come lo era del più noto vedutista
Francesco. Nonostante le alterne fortune, e una
dimensione tutto sommato artigianale della propria
bottega, Antonio fu capace di creare un’arte estremamente
originale, in grado di cogliere l’essenza della
pittura rococò: una maniera iridescente, costruita con
frange di colore, tocchi rapidi, una luce in movimento
incessante, trasformata in pulviscolo dorato.
Le composizioni traggono spesso spunto da
modelli di altri maestri, così che il suo linguaggio pare
perseguire un ideale quasi musicale di libertà e improvvisazione:
trascrizioni di partiture, dove cambiano
gli strumenti e finanche gli arrangiamenti, nei quali
lo spunto iniziale è appena riconoscibile. Così l’Aurora
che campeggiava al centro del soffitto dei Zulian
(oggi in Collezione Cini: fig. 6) nasce da un’invenzione
di Antonio Pellegrini, colui che, per molti versi, può
essere considerato il vero anticipatore dello stile guardesco.
Antonio porta tuttavia quelle premesse alle
estreme conseguenze, facendo egualmente tesoro di
soluzioni tiepolesche per accampare i suoi protagonisti
nel cielo dove fanno la loro apparizione, concependo
le sue immagini come fiamme colorate, colte
un attimo prima di svanire, o mutare ancora di stato.
Caratteristiche che ritroviamo perfettamente nelle due
sopraporte convocate in mostra, rappresentanti Apollo
e Diana (catt. V.36-37), divinità scelte a rappresentare
evidentemente il Giorno e la Notte [12] .
Nonostante la polifonia di voci ci faccia apparire
oggi questo come un momento felicissimo della
storia dell’arte europea, e non mancassero ai “rivali”
occasioni prestigiose (la decorazione del salone di Ca’
Rezzonico di Crosato si data intorno al 1750), non v’è
dubbio, tuttavia, che a seguito del suo rientro dalla
Germania, nel 1753, e fino alla fine della sua attività in
FIG. 7
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Riposo durante la fuga
in Egitto.
Stoccarda, Staatsgalerie
FIG. 8
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Riposo durante la fuga in
Egitto. Collezione privata
12 _ Sul ciclo di Palazzo
Zulian, come anche sul
riconoscimento delle due
tele ovali di Apollo e Diana,
si veda G. Pavanello, Antonio
Guardi a Ca’ Zulian, “Arte
Veneta”, 57, 2000, pp. 50-59. Lo
studioso collega egualmente
l’occasione della decorazione
in palazzo con il matrimonio
tra Lucrezia Zulian, sorella dei
possibili committenti Girolamo
e Antonio, con Alessandro
Ottoboni Boncompagni nel
1757.
13 _ F. Haskell, Mecenati e
pittori. Studio sui rapporti tra
arte e società italiana nell’età
barocca, Firenze 1966, p. 391.
14 _ Per un’analisi
iconografica dell’affresco, si
veda A. Mariuz, in Gli affreschi
nelle ville venete. Dal Seicento
all’Ottocento, prefazione di R.
Pallucchini, testi di F. D’Arcais,
F. Zava Boccazzi, G. Pavanello,
2 voll., Venezia 1978, I, p. 247.
Alcune proposte recenti,
riguardo l’identificazione dei
Quattro Continenti, sono in F.
Marcellan, L’opera di Francesco
Bertos e Giambattista Tiepolo in
Villa Pisani a Stra. Una lettura
iconologica, “Saggi e Memorie
di Storia dell’Arte”, 40, 2016,
pp. 108-147.
15 _ A. Mariuz, in Gli affreschi
nelle ville venete… 1978, p. 247.
16 _ Sul gruppo, si rimanda a
K. Christiansen, in Giambattista
Tiepolo 1696-1996… 1996, pp.
338-343, catt. 57a-57d.
Italia, Tiepolo rappresentasse il punto di riferimento
assoluto della pittura contemporanea. Dal maggio del
1760 agli inizi del 1762 il maestro fu impegnato nell’ultima
grande commissione nella Serenissima, prima
del trasferimento, che dovette essere poi definitivo,
in Spagna: la volta del salone di villa Pisani a Stra. Fu
quella, a detta di Francis Haskell [13] , “la più straordinaria
allegoria di famiglia che avesse mai dipinto”.
La celebrazione, con allusioni politiche-militari, alla
gloria di Venezia e alla guerra contro i Turchi, si trasforma
in una sorta di catasterismo in figura: i più
giovani membri viventi della casa Pisani sono assunti
tra le nuvole, trasformati in astri di un cielo mai così
terso e sgombro di nuvole, e accompagnati dall’allegoria
della Serenissima e da Venere [14] . Una trasformazione
naturalmente resa possibile solo dall’arte di
Tiepolo, sacerdote delle aspirazioni e dei desideri di
immortalità di una classe politica che si rispecchia in
queste iperboli allegoriche. La limpidezza di visione,
con dettagli straordinari e mai visti primi nel campo
della decorazione soffittale – come il boschetto che fa
da sfondo a una coppia di innamorati, nella parte inferiore
sinistra –, sono già tutti presenti nel modelletto
del Musée des Beaux-Arts di Angers (cat. V.31), capace
di distillare nello spazio di pochi centimetri le sconfinate
visioni tiepolesche, la sicurezza di segno, la sintesi
di un nuovo linguaggio ancora, che procede ormai per
sottrazione e per valori di pura luce. Vale per questa
teletta ciò che Adriano Mariuz ha scritto per l’affresco:
“il colore si rifrange in sfaccettature moltiplicate, come
le forme fossero aggregati cristallini” [15] .
Questa estrema capacità di sintesi, di cui si
incomincia a intuire l’avvio nelle opere venete a ridosso
della partenza per Madrid, sarà tanto più evidente nelle
prove spagnole, sia nei cicli decorativi ad affresco, sia,
soprattutto, nelle commissioni religiose. Qui Tiepolo
sembra avere ormai rinunciato ai suoi sortilegi, ai toni
ora sublimi, ora caustici, con i quali seppe condurre
temi sacri sin dalla giovinezza e poi, a seguire, nella
maturità, sulla scia del grande modello veronesiano. La
nuova semplicità del racconto è visibile nelle pale per
la chiesa di Aranjuez, dove Giambattista pare scoprire
la lezione insieme realista e metafisica della grande
pittura spagnola del Seicento, di Murillo e soprattutto
Zurbarán, ma è vera soprattutto per una serie di indimenticabili
telette, di soggetto evangelico, con storie
dell’infanzia o della passione di Cristo, alle quali il
maestro si accosta con il tono incantato e partecipe
della confessione intima.
Tra tutti, il tema che maggiormente sembra
avere interessato l’artista nel corso degli ultimi anni
della sua vita è quello, già affrontato in una serie di
disegni, della “Fuga in Egitto” (fig. 7). Alcuni dipinti
di piccole dimensioni (oggi divisi tra la Staatsgalerie di
Stoccarda, il Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona
e alcune raccolte private) testimoniano l’eccezionale
capacità di interpretare diversamente, con sottili variazioni,
il soggetto [16] . Nella tela di Stoccarda, l’episodio
evangelico è risolto con piccole figure nel primo piano
quasi disperse nella vastità di un paesaggio montuoso:
il grande abete appoggiato alla parete rocciosa, su cui
viene impalcata la scena in diagonale, lascia il posto alla
vastità di un cielo immenso, accentuato dal planare di
rondini che, ricomparendo in ciascuna delle tele della
serie, sembrano migrare di dipinto in dipinto, accentuando
la solitudine dei personaggi rappresentati.
Talvolta invece volteggiano verso una veduta cittadina
– Madrid – che, lontanissima, fa capolino nella versione
di collezione privata (fig. 8): qui la coppia in fuga
si accampa nel primo piano, il bastone di Giuseppe,
la bisaccia e l’umile gerla di vimini dell’asino poggiate
su un rialzo roccioso, mentre un pino marittimo, prelevato
dal boschetto della gloria della famiglia Pisani,
fa ora ombra alla Vergine, che ci dà le spalle reggendo
il Bambino, lasciando emergere soltanto parte del suo
volto assorto, seminascosto dal cartoccio della veste
azzurra. Piacerebbe sapere qualcosa in più sulla destinazione
finale e sulla commissione di questi dipinti,
ma si ha gioco facile a riconoscere qui il soliloquio e
l’assorta malinconia del maestro, al limite della sua vita
terrena durante l’“esilio” madrileno.
Come solo gli artisti immensi hanno saputo
essere, anche Tiepolo ci offre un volto diverso in ciascuna
delle stagioni della sua vita, e dopo aver sperimentato
tutti i registri del racconto, fatto suonare
tutti gli strumenti della sua straordinaria orchestra, il
maestro prende commiato con una chiusa “in diminuendo”,
quasi che l’ultima sfida fosse ormai solo
quella di dipingere il silenzio.
162 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
—LA PITTURA DI STORIA— 163
DANIELE
D’ANZA
assecondando il desiderio dei suoi committenti – l’antico
patriziato veneziano – di coltivare un’immagine di
sé diversa da quella ufficiale.
FIG. 1
PIETRO LONGHI
Concertino in famiglia.
Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento
veneziano
1 _ T. Pignatti, Pietro Longhi,
Venezia 1968, p. 26.
2 _ A. Longhi, Compendio
delle vite de’ Pittori veneziani
istorici più rinomati del presente
secolo, Venezia 1762, p. 31.
3 _ [G. Selva], Catalogo
dei Quadri dei Disegni e dei
Libri che trattano dell’Arte del
Disegno della Galleria del fu
Sig. Conte Algarotti in Venezia,
Venezia 1776, p. II.
UNA DIMENSIONE
EUROPEA
U NO SGUA R DO
SULLA REALTÀ
La raffigurazione di scene
di vita quotidiana sganciate da eventi celebrativi, piuttosto
che di soggetti religiosi, storici, mitologici o allegorici,
si diffonde a Venezia verso la metà del Seicento
tramite due artisti stranieri, Eberhard Keil, noto anche
come Monsù Bernardo, e soprattutto Joseph Heintz il
Giovane, la cui lunga residenzialità lo qualifica veneziano
d’adozione. Se quest’ultimo, nelle raffigurazioni
d’interni giunte fino a noi – il Ridotto di Würzburg,
l’Interno di cucina del Museo Davia Bargellini di
Bologna, il Parlatorio di monache di collezione privata
– adotta una ripresa dall’alto e comunque da una
posizione distaccata, Pietro Longhi si pone a pochi
passi da ciò che scruta e raffigura. Egli opera una drastica
riduzione del campo di osservazione, per meglio
investigare gli abiti, le stoffe, il trucco, gli sguardi e i
sorrisi dei suoi personaggi, che spesso hanno nomi e
cognomi, aristocratici s’intende. Nessuno più di lui ha
saputo penetrare e rappresentare la sfera del privato,
Cinque anni più giovane di Tiepolo e quattro
di Canaletto, Pietro Longhi si forma con Antonio
Balestra, il protagonista del classicismo accademico a
Venezia, ossia di quella linea “perdente” della pittura
veneziana di primo Settecento improntata alla decorazione
classicistica di derivazione romana: non a caso
Balestra si trasferirà a Verona.
Abbandonate le velleità di pittore di storia, che
lo spingono ad affrontare la decorazione dello scalone
di Ca’ Sagredo [1] , e consapevole dei propri limiti e di
una concorrenza di altissimo livello, da Sebastiano
Ricci a Gaspare Diziani, da Giambattista Piazzetta a
Giambattista Tiepolo, Longhi cambia registro dedicandosi
all’esplorazione della pittura di genere.
I primi dipinti eseguiti in questo nuovo stile
raffigurano un mondo popolato da giovani pastori e
contadini, toccati da un fascio di luce contro l’ombra
del fondo. Una sorta di Arcadia felice, senza accenni
alla fatica e alla miseria, in cui si colgono talvolta
allusioni sessuali. All’origine di queste opere vi sono
gli esempi della pittura fiamminga, con le scene di
taverna, così come la conoscenza della pittura bolognese
di Giuseppe Maria Crespi [2] , nonché le suggestioni
di certi lavori di Piazzetta e Bencovich, sul tipo
di quanto descritto nell’inventario della raccolta di
Algarotti: “Una Pastorella sedente che si spulcia, ed un
Giovine Pastore che la osserva. Quest’ultimo vi è stato
aggiunto da Gio: Battista Piazzetta” [3] .
Se Longhi si fosse fermato a questi esiti figurativi
non sarebbe il celebre pittore che oggi conosciamo,
ma egli di nuovo cambia argomento e stile.
Abbandonate le tonalità scure delle scene pastorali, si
risolve per una pittura chiara e brillante, più consona
alla nuova tematica che si accinge ad affrontare: la narrazione
degli usi e costumi del patriziato veneziano.
Ovviamente, ciò fu possibile soltanto insinuandosi,
previa autorizzazione, in quelle dimore.
Il primo dipinto datato di questa nuova avventura
estetica è il Concertino delle Gallerie dell’Accademia
di Venezia del 1741. La critica non è riuscita a
individuarne il committente: unico indizio il dipinto
a parete che ritrae un Procuratore di San Marco. Altre
— UNO SGUARDO SULLA REALTÀ— 165
volte invece l’identificazione risulta più agevole. Nel
celebre Rinoceronte di Ca’ Rezzonico (cat. V.44), ad
esempio, il nome del committente è riportato nel cartiglio
sull’assito. Si tratta di Giovanni Grimani, patrizio
veneziano, proprietario nella sua villa in terraferma
di una sorta di zoo privato con molti animali esotici
[4]
. La presenza quindi in città del rinoceronte indiano
femmina chiamato Clara, condotto qui da un capitano
della compagnia delle indie olandesi in occasione
del carnevale del 1751, spinse il nobiluomo a commissionare
l’opera a Pietro Longhi. Non solo, egli si fece
ritrarre al centro della composizione accanto alla sua
bellissima e sfortunata sposa, Caterina Contarini, che
sarebbe morta di lì a poco, dopo aver dato alla luce la
loro unica figlia. A sinistra, inoltre, si riconosce il proprietario
dell’animale, Douvemont van der Meer di
Leida, mentre e a destra compare un patrizio in tabarro
che fuma una pipa. Grimani, peraltro, commissionò al
pittore altre opere [5] , tra cui L’ambasciata del moro (cat.
V.45), sulla cui parete compare un dipinto di paesaggio
alla maniera di Francesco Zuccarelli, e il Ritratto del
gigante Magrat, un’altra testimonianza della predilezione
di Grimani per le “meraviglie” naturali.
Anche nella serie della Caccia in valle riconosciamo
un personaggio specifico: il patrizio veneto
Gregorio Barbarigo, appassionato cacciatore che aveva
appositamente decorato una sala del mezzanino del
suo palazzo con questa serie di dipinti [6] . In altri casi,
invece, l’identificazione degli interni di case signorili,
e quindi dei possibili committenti, è stata avanzata
in virtù dei ritratti degli avi illustri appesi alle pareti o
della presenza di stemmi familiari [7] .
Si tratta di quadri di dimensioni contenute
che forniscono una ricchezza d’informazioni su abitudini,
costumi, usanze e modi di vita del patriziato
veneziano. Per tale motivo, e considerando che vi sono
ritratte persone reali – a volte gli stessi committenti –,
appare forse riduttivo considerarli quali semplici pitture
di genere. I titoli in questo caso rendono bene l’idea:
Il risveglio del cavaliere, La cioccolata del mattino,
La visita in bauta, La lezione di ballo, il Concertino in
famiglia, La dama della sarta, solo per citarne alcuni
(figg. 1-2).
Se Canaletto offre quindi una descrizione
esterna della città, dei suoi monumenti e dei suoi
palazzi, Longhi conduce l’osservatore direttamente
all’interno delle case patrizie, e questa fu davvero una
rivoluzione. Prima di allora, non era mai successo che
la nobiltà veneziana si mostrasse in privato nella propria
intimità, occupata negli svaghi o negli impegni
domestici.
È stato giustamente notato come il pittore,
rifiutando la “grande storia” e la favola arcadico-mitologico-cristiana,
abbia optato per un approccio “da
naturalista – nel senso che si propone di rappresentare
il comportamento umano come fosse un aspetto della
‘storia naturale’ – per cui dipingere equivale a riflettere
il costume della società contemporanea” [8] .
I modelli a cui pare Longhi si sia ispirato sono
stranieri, dalla pittura inglese del primo Settecento
fino a William Hogarth – di cui il console inglese di
stanza a Venezia, Joseph Smith, possedeva tutte le
stampe –, agli artisti francesi della vita contemporanea,
noti attraverso le incisioni di riproduzione. In
questo senso il tramite è stato individuato nel pittore
Jacopo Amigoni che ritorna a Venezia nel 1739 dopo
un lungo soggiorno inglese e, soprattutto, una tappa
a Parigi. In particolare egli rientra fra le lagune con un
amico incisore, Joseph Wagner [9] , con il quale a Londra
aveva aperto una bottega di stampe. Con loro, giunge a
Venezia un altro incisore, il giovanissimo Jean Charles
Flipart, figlio del celebre calcografo francese, che negli
anni successivi tradurrà in stampa molti dipinti di
Longhi [10] . I tre si mettono subito in affari a Venezia,
e sarà un successo. Gli anni concidono con quelli in
cui Longhi elabora il suo nuovo stile, ed è plausibile
che le novità francesi gli siano giunte attraverso tali
frequentazioni.
Il pittore elabora quindi una poetica che
riscuote presto larghi consensi. Stando a quanto riportato
da un suo contemporaneo nel 1753, egli “con tale
abilità salì a grande credito, e le sue opere si pagano
a grossi prezzi, molte delle quali sono a quest’ora da
più di un incisore intagliate e date alle stampe” [11] .
Non dissimile la considerazione riportata da Gaspare
Gozzi, il quale, qualche anno dopo, precisa come
“sopra tutto però veggo, che s’ammirano le imitazioni
inventate dal Signor Pietro Longhi, perch’egli lasciato
indietro ne’ trovati suoi, le figure vestite all’antica, e
gl’immaginati caratteri, ritragge nelle sue tele quel che
vede con gli occhi suoi propri, e studia una situazione
da aggrupparci dentro certi sentimenti, che pizzichino
4 _ F.S. Fapanni, Intorno
tredici quadri di costume
veneziano dipinti da Pietro
Longhi, “Il Vaglio”, 38, 22
settembre, 1838, pp. 306-308.
5 _ D. D’Anza, I Longhi di
Giovanni Grimani, in Venezia
e San Pietroburgo. Artisti,
principi e mercanti, catalogo
della mostra (Mestre, Centro
Culturale Candiani) a cura di I.
Artemieva, A. Craievich, Venezia
2018, pp. 29-35.
6 _ L. Moretti, Asterischi
longhiani, in Pietro Longhi,
catalogo della mostra (Venezia,
Museo Correr) a cura di A.
Mariuz, G. Pavanello, G.
Romanelli, Milano 1993, pp.
249-255.
7 _ P. Del Negro, “Amato da
tutta la Veneta Nobiltà”. Pietro
Longhi e il patriziato veneziano,
in Pietro Longhi 1993, pp.
225-241.
8 _ A. Mariuz, In margine
a mostra di Pietro Longhi,
“Arte Veneta”, XXIX, 1975, pp.
307-308.
9 _ Sulla calcografia Wagner,
si veda il recente studio di C. Lo
Giudice, Joseph Wagner. Maestro
dell’incisione nella Venezia del
Settecento, Verona 2018.
10 _ A. Mariuz, Pietro Longhi:
“un’originale maniera...”, in
Pietro Longhi 1993, pp. 31-48.
FIG. 2
PIETRO LONGHI
La dama dalla sarta. Venezia,
Ca’ Rezzonico, Museo del
Settecento veneziano
166 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— UNO SGUARDO SULLA REALTÀ— 167
del gioviale. Principalmente veggo, che la sua buona
riuscita deriva dallo esprimere felicemente i costumi, i
quali in ogni attitudine delle sue figure si veggono” [12] .
Tra l’apprezzamento dei suoi contemporanei,
spicca quello di Carlo Goldoni, che ebbe modo di dar
risalto alla contiguità del proprio lavoro con quello
del pittore in un noto sonetto del 1750, dedicato ai
due giovani sposi ritratti nel Rinoceronte, Giovanni
Grimani e la moglie Caterina Contarini. Il componimento
esordisce con i celeberrimi versi “Longhi, tu
che la mia musa sorella / chiami del tuo pennel che
cerca il vero”, concludendo: “Tu coi vivi colori, ed io col
canto; / io le grazie dirò, tu l’auree chiome; / e del suo
Amor godran gli sposi intanto” [13] .
Al pari di Goldoni – il quale, riformando il teatro
comico, abbandona perlopiù la scena esterna, tipica
della commedia all’improvviso, e introduce lo spettatore
in casa –, Longhi dentro un’apparente semplicità
di linguaggio concentra l’essenza di uno stile di vita, le
tracce di una civiltà complessa che lascia affiorare la
propria intimità, i propri passatempi e usi domestici.
Varcando la soglia del privato, egli asseconda
il desiderio dei patrizi veneziani di coltivare un’immagine
di sé diversa da quella ufficiale e ossequiata.
All’esigenza dell’encomio mercé il ritratto aulico, essi
affiancano la tentazione di vedersi rappresentati come
individui, invece che funzionari dello Stato, calati nella
quotidianità, presi da sentimenti comuni. In tal modo,
il pittore si fa “testimone di una situazione di sdoppiamento
vissuta dalla nobiltà veneziana, che comincia a
sentire come un peso il proprio ruolo pubblico e s’avvia
così a una crisi d’identità” [14] .
Le sue composizioni si pongono perciò quale
necessario contrappeso alle visioni celestiali dei frescanti
veneziani dell’epoca. Con lui la realtà bilancia
l’immaginazione, tanto che “la sua pittura attua in
modi originali una poetica dell’osservazione alternativa
alla poetica tardo barocca dell’immaginazione
sostenuta dal prestigio di Giambattista Tiepolo” [15] .
Una concezione diversa della pittura di genere
fu proposta in precedenza da Giambattista Piazzetta,
il quale, negli anni in cui Longhi iniziava la carriera, si
era già conquistato una solida reputazione internazionale
di disegnatore e si stava imponendo anche come
pittore. L’avveduto connoisseur svedese Gustav Tessin,
in una lettera del 1736, lo giudicava il primo artista di
Venezia [16] . Piazzetta, al pari di Longhi, ebbe in Crespi
un punto di riferimento e il pittore emiliano deve aver
contribuito ad accentuare la sua tendenza verso una
specie particolare di realismo [17] .
Per tutto il terzo decennio del secolo, infatti,
il veneziano ricava mezze figure giovanili, proseguendo
quell’interesse manifestato già nella coppia di
Contadinelli di Boston (catt. III.03-04): la prima incursione
in questo genere. Interesse che non sembra essere
rivolto alla mera analisi fisionomica o alla precisa rispondenza
del dato naturale, quanto alla trasfigurazione del
soggetto entro un alone favoloso di chiaroscuro patetico,
come gli suggerivano le stampe di Rembrandt. Di
queste cosiddette teste egli intraprese un’interessante
produzione grafica apprezzata dai suoi contemporanei
(catt. V.54-58). Anton Maria Zanetti precisa infatti
nel 1733 come, “oltre a molti suoi pregi è assai distinto
quello del disegnare le teste sopra la carta con gesso e
carbone”, chiosando: “più belle delle quali in questo
genere altre non se ne sono mai più vedute” [18] . Quasi
mezzo secolo dopo il tenore non cambia e un viaggiatore
straniero quale Mariette annota: “Il Piazzetta disegnava
con la stessa facilità con cui dipingeva. Egli ha
realizzato soprattutto un’infinità di teste di grandezza
naturale, disegnate dal modello e per lo più in carboncino
rialzato di bianco su carta azzurra. Esse sono ricercatissime
e ben pagate, tanto che egli poteva appena far
fronte a tutte le richieste” [19] .
Si tratta di composizioni vergate su fogli di
grande formato “che costituiscono un ritratto immaginario
del popolo veneziano, presentato compiacentemente
con la sua ricchezza di affetti [...]; un ritratto
in certo modo complementare a quello che, per il piacere
dei foresti, Canaletto andava realizzando della sua
città. L’accostamento è forse meno gratuito di quanto
possa sembrare a tutta prima. Effettivamente i disegni
di teste di Piazzetta e le vedute di Canaletto sono
quanto di più moderno si produca in campo artistico a
Venezia fra il terzo e il quarto decennio del Settecento:
almeno per la loro originalità in confronto ai generi
tradizionali” [20] .
Una produzione svolta in parallelo a quella ufficiale,
con gli stessi committenti che gli ordinavano
pale d’altare o dipinti di soggetto storico pronti ad
acquisire per le loro collezioni anche i suoi quadri di
11 _ A. Orlandi, Abecedario
pittorico, Venezia 1753, p. 427.
12 _ G. Gozzi, “L’Osservatore
Veneto”, 14 febbraio 1761, p. 28.
13 _ Componimenti Poetici
per le felicissime Nozze di Sue
Eccellenze il Signor Giovanni
Grimani e la Signora Catterina
Contarini, Venezia 1750 in Tutte
le opere di Carlo Goldoni, XIII,
a cura di G. Ortolani, Milano
1955, pp. 187-188.
14 _ Mariuz 1993, p. 40.
15 _ Mariuz 1975, p. 307.
16 _ A. Binion, Il paradosso
Piazzetta, in La gloria di
Venezia. L’arte nel diciottesimo
secolo, catalogo della mostra
(Londra, Royal Academy, of
Arts; Washington, National
Gallery of Art) a cura di J.
Martineau, A. Robison, London
1994 (edizione italiana Milano
1994, pp. 139-169 [144]).
17 _ M. Levey, La pittura a
Venezia nel diciottesimo secolo,
Milano 1983, p. 174.
18 _ A.M. Zanetti, Descrizione
di tutte le pubbliche pitture della
città di Venezia, Venezia 1733,
p. 61.
19 _ P.J. Mariette, Abecedario
1771, ed. 1851-1853.
20 _ A. Mariuz, “Questi
xe visi... Nu depensemp delle
maschere”: Giambattista
Piazzetta e gli incisori delle sue
“mezze figure”, in G.B Piazzetta.
Disegni – Incisioni – Libri –
Manoscritti, catalogo della
mostra (Venezia, Fondazione
Giorgio Cini) a cura di A.
Bettagno, Vicenza 1983, pp.
48-51 [49].
21 _ Levey 1983, p. 174.
22 _ Mariuz 1993, p. 35.
23 _ Su Alessadro Longhi si
veda: P. Delorenzi, Alessandro
Longhi, pittore e incisore del
Settecento veneziano, tesi di
dottorato (Venezia, Università
di Ca’ Foscari, a.a. 2009-2010),
Venezia 2010.
24 _ R. Pallucchini, La
pittura nel Veneto. Il Settecento,
II, Milano 1995, p. 439.
25 _ G. Maggioni, Bartolomeo
Ferracina (nel secondo
centenario della morte), “Padova
e la sua provincia”, 24, IV, 1978,
pp. 13-16; Bartolomeo Ferracina
1692-1777. Miscellanea di studi
nel bicentenario della morte,
a cura di F. Rigon, G. Vinco
da Sesso, Solagna 1978, pp.
199-214.
genere. “Così l’elettore di Colonia, Clemente Augusto
– mediante il quale le opere sacre del Piazzetta raggiunsero
la Germania –, aveva acquistato per sé una
decina di quadri di genere, soprattutto teste” [21] .
A partire dal 1735 l’artista disegna per le edizioni
di Giambattista Albrizzi scenette agresti e pastorali-idilliache,
utilizzando le fonti più svariate (incisioni
di artisti italiani, fiammingo-olandesi, francesi).
Ne scaturisce un’umanità senza distinzioni gerarchiche,
intenta a godere le semplici gioie della vita. Tale
filone tematico culminerà con esiti spettacolari e inattesi
nelle grandi composizioni che Piazzetta dipinge
attorno al 1740: L’Indovina delle Gallerie dell’Accademia
di Venezia, la Scena pastorale di Chicago (The
Art Institute) e la Passeggiata campestre del Wallraf-
Richartz Museum di Colonia (catt. IV.09-10). In quegli
anni l’artista peraltro realizza almeno altre quattro
scene a sfondo agreste e di contenuto più scopertamente
galante, note attraverso copie o incisioni di
derivazione, che Mariuz indica come modelli per
alcuni dipinti di Pietro Longhi [22] ; quelli della seconda
maniera, riservata alla raffigurazione di scene di vita
popolare, anticipazione della svolta verso quella pittura
d’interni che lo ha reso celebre.
Alessandro Longhi, figlio di Pietro, si distingue
invece nella seconda metà del secolo come pittore
ritrattista. Se Rosalba Carriera domina questo
campo per tutta la prima metà del Settecento, Longhi
ne sarà il successore [23] . Più che alle vaporose effigi di
Rosalba, Alessandro guarda ai quei colori luminosi e
a quella stesura spumeggiante di Bartolomeo Nazari,
ben esemplata nel Ritratto di Farinelli (cat. V.50) presente
in mostra. Nazari andava configurando un ritrattismo
conforme al gusto dell’epoca, ormai libero dalle
ombre dense dei cosiddetti “tenebrosi”. Se Rosalba
s’era distinta nel ritratto intimo, Nazari si specializzò
nel ritratto ufficiale e in quello d’ambiente. Farinelli,
infatti, è rievocato nel suo habitat, mentre poggia
un braccio su un clavicembalo. La sua produzione
si esaurisce, per ’limiti di età’, negli anni in cui inizia
quella di Longhi figlio.
Alessandro si forma con Giuseppe Nogari, la
cui influenza è ancora avvertibile nel giovanile Ritratto
di Carlo Goldoni (cat. V.49), il cui sorriso bonario invita
al dialogo l’osservatore. “La grande novità da lui introdotta
è l’invenzione di una tipologia variata a seconda
delle professioni e delle attitudini, magistrati e professionisti,
preti e dame dell’aristocrazia, letterati e rappresentanti
della nuova scienza, perfino popolani” [24] .
In questi ritratti il pittore evidenzia la caratterizzazione
professionale dei suoi modelli, dando dimostrazione
di saper tenere livelli eccelsi anche nell’esecuzione
degli oggetti appoggiati sul tavolo: il vassoietto con i
calamai e il volume sorretto dal celebre drammaturgo.
Coevo al Ritratto di Carlo Goldoni è quello di
Bartolomeo Ferracina (cat. V.51) ora al Louvre, di cui
esiste a Ca’ Rezzonico una seconda versione, realizzata
circa vent’anni dopo. Nel riprendere l’“Archimede
della meccanica”, com’era definito dai suoi contemporanei,
il pittore decide per una estrema umanizzazione
del personaggio, colto con gli strumenti scientifici a
uso dei calcoli ingegneristici. Ferracina legò, in qualche
misura, la sua fortuna a una delle famiglie più potenti
del Settecento veneziano, i Rezzonico. Il suo primo
lavoro, che gli diede ampia notorietà, fu infatti la riparazione
di un orologio inglese di Quare, proprietà
di Giambattista Rezzonico, padre del futuro papa
Clemente XIII. Egli inoltre collaborò con Giovanni
Poleni, docente di fisica all’Università di Padova, alla
realizzazione di varie macchine, poi usate nelle dimostrazioni
universitarie [25] .
In conclusione, Pietro Longhi, con le sue cronache
degli usi e costumi del patriziato veneziano, e
il figlio Alessandro, con i suoi ritratti ufficiali e d’ambiente,
hanno saputo offrirci un’impareggiabile documentazione
visiva della società veneziana del tempo,
nel suo specchiarsi vanesia.
168 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— UNO SGUARDO SULLA REALTÀ— 169
Va
CAT.V.01
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
L’ingresso solenne del conte de Gergy
Olio su tela, 181×259,5 cm
San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage,
inv. n. Гэ-5537.
Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni
di J. G. Links), I, tav. 66, II, cat. 356; Puppi 1968, cat.
31; Links 1981, cat. 75; Canaletto 1982, cat. 83; Succi,
in Luca Carlevarijs 1994, pp. 68-72, fig. 5; Kowalczyk,
in Splendori Settecento 1995, pp. 290-291, cat. 70;
Pallucchini 1995, I, pp. 478-81, fig. 753; Artemieva, in
Canaletto 2008, pp. 260-261, cat. 32; Venice: Canaletto
2010, cat. 13.
CAT.V.02
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il ritorno del Bucintoro al molo nel giorno
dell’Ascensione
Olio su tela, 106,5×106,5 cm
Wells-Next-The-Sea, The Earl of Leicester and the
Trustees of the Holkham Estate
Bibliografia _ Brettingham 1773, p. 14; Constable
1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I, tav. 65, II,
cat. 342.
CAT.V.03
BERNARDO BELLOTTO
Il ritorno del Bucintoro al molo nel giorno
dell’Ascensione
Olio su tela, 108×115 cm
English Heritage, Audley End House
Bibliografia _ Neville 1836, p. 107, cat. 8 (Canaletto);
Catalogue 1871, p. 2, cat. 28; Walker 1973, p. 1; Links
1998, p. 34, cat. 342(a) (come replica della tela di
Holkham Hall).
172 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 173
CAT.V.04
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il doge in pozzetto compie il giro della Piazza
Penna, inchiostro bruno e acquerello grigio,
380×552 mm
Londra, The British Museum, Bequeathed by
George Salting, inv. 1910,0212.18
Bibliografia _ Hadeln 1929, p. 6 (copia); Constable
1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I, tav. 115, II,
cat. 631; Canaletto 1982, cat. 65; Corboz 1985, II, p. 767,
cat. D 222.
CAT.V.06
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il Bucintoro a San Nicolò del Lido nel giorno
dell’Ascensione
Penna, inchiostro bruno con guazzo grigio su carta,
387×555 mm
Washington, National Gallery of Art, Samuel
H. Kress Collection, inv. 1963.15.5
Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni
di J.G. Links), I, tav. 116, II, cat. 635; Corboz 1985,
II, p. 768, cat. D 226.
CAT.V.05
GIAMBATTISTA BRUSTOLON, ANTONIO CANAL
detto CANALETTO
Il doge in pozzetto
Rame, acquaforte e bulino, 457×580 mm
Iscrizioni: Il Doge di Venezia uscendo dalla Basilica
di S. Marco getta denari al popolo / Antonius canal
pinxit Jo. Bap. Brustolon inc. / [Presso G. Battaglia
in Venezia]
Venezia, Museo Correr, inv. Cl. XXXIII, n. 1568
Bibliografia _ Canaletto-Brustolon 2006, pp. 16-17,
cat. 2.
CAT.V.07
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Ringraziamenti del doge dopo l’elezione nella Sala
del Maggior Consiglio
Penna, inchiostro bruno, 389×553 mm
Londra, The British Museum, inv. 1910,0212.20
Bibliografia _ Hadeln 1929, p. 6 (copia); Constable
1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I, tav. 115, II,
cat. 633; Canaletto 1982, cat. 67; Corboz 1985, II, p. 767,
cat. D 224; Canaletto Guardi 2012, cat. 42.
174 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— CATALOGO DELLE OPERE — 175
CAT.V.09
FRANCESCO GUARDI
L’udienza nella Sala del Maggior Consiglio
Olio su tela, 66×101 cm
Parigi, Musée du Louvre, Département des
Peintures, inv. RF 325
Bibliografia _ Morassi 1973, cat. 248; Merlino, in
The Glory 1994, cat. 204; Augusti, in Splendori
Settecento 1995, p. 330, cat. 82; Loire 2017, pp. 133-154,
con bibliografia precedente.
CAT.V.10
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
La Piazza San Marco con la chiesa di San Gemignano
Matita, penna, inchiostro bruno, acquerello,
191×270 mm
Parigi, Musée du Louvre, Départments des Arts
graphique, inv. 4794
Bibliografia _ Constable 1989, p. 483, cat. 531.
CAT.V.08
FRANCESCO GUARDI
Il Bucintoro a San Nicolò del Lido nel giorno
dell’Ascensione
Olio su tela, 67×101 cm
Parigi, Musée du Louvre, Département des
Peintures, inv. RF 319
Bibliografia _ Morassi 1973, cat. 248; Succi 1993,
p. 89, fig. 81; Augusti, in Splendori Settecento 1995,
pp. 330-331, cat. 82; Pallucchini 1995, II, pp. 538-539;
Loire, in Canaletto 2008, pp. 294-295, cat. 91; Pedrocco,
in Francesco Guardi 2012, pp. 217-218, cat. 78; Loire
2017, pp. 133-154, con bibliografia precedente.
176 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 177
CAT.V.11
ANDREA URBANI
Costumi per i rematori per le peote delle Scienze,
delle Arti
Matita nera, penna, inchiostro seppia, acquerellato a
colori, 158×220 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 5791a
Bibliografia _ Pignatti, in Disegni 1985, cat. 37;
Pavanello 1999, pp. 85, 87, 110, nota 58, fig. 49.
CAT.V.12
ANDREA URBANI
Costumi per i rematori per le peote della Pace e
dell’Abbondanza
Matita nera, penna, inchiostro seppia, acquerellato a
colori, 165×214 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 5791b
Bibliografia _ Pavanello 1999, pp. 85, 87, 110, nota 58,
fig. 50; Le capitali 2007, tav. XIV.
CAT.V.13
ANDREA ZUCCHI, ALESSANDRO MAURO
La Cina condotta in trionfo dall’Asia
Incisione, 556×900 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Bissona n. 36
Bibliografia _ Pedrocco, in Bissone 1980, p. 20,
cat. 69; Pavanello 1999, p. 85; Garbero Zorzi, in Le
capitali 2007, p. 309, fig. 34.
CAT.V.14
GIORGIO FOSSATI
Peota raffigurante l’Acqua
Incisione, 390×945 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Bissona n. 54
Bibliografia _ Pedrocco, in Bissone 1980, p. 22,
cat. 78.
178 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 179
CAT.V.15
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il ponte di Walton
Olio su tela, 48,7×76,4 cm
Londra, Dulwich Picture Gallery, inv. DPG 600
Bibliografia _ Finberg 1921, pp. 42, 66, tav. XXXI(a);
Constable 1962 (e successive edizioni di J.G. Links), I,
tav. 83, II, cat. 441; Puppi 1968, cat. 302; Links 1981, cat.
255; Links 1982, pp. 173, 177, fig. 171; Canaletto 1982,
cat. 108; Corboz 1985, I, pp. 34, 37, 74, 268, 294, fig. 330,
II, p. 705, cat. P 371; Canaletto 1989, cat. 73; Canaletto
1993, cat. 35; Links 1994, pp. 191, 196, tav. 170;
Canaletto 2006, cat. 37.
180 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 181
CAT.V.16
MICHELE MARIESCHI
Veduta del Ponte di Rialto con la Riva del Ferro
Olio su tela, 131×196 cm
San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, inv. n. 176
Bibliografia _ Constable 1962, I, tav. 47, II, cat.
229 (Canaletto); Puppi 1968, cat. 53 (Canaletto);
Kozakiewicz 1972, pp. 434-437, cat. Z189 (Canaletto);
Links 1981, cat. 30 (Canaletto); Corboz 1985, I, p. 219,
fig. 265, II, p. 584, cat. P73 (Canaletto); Marieschi
1989, pp. 122-125, 253, cat. 27; Manzelli 1991, p. 61,
cat. M.38.1; Toledano 1995, p. 77, cat. V.16; Splendori
Settecento 1995, pp. 268-269, cat. 65; Pallucchini
1995, II, p. 308, fig. 459; Links 1998, p. 24, fig. 258;
Montecuccoli Degli Erri, Pedrocco 1999, pp. 295, 297,
cat. 75; Officina veneziana 2002, pp. 146-147, cat. 29;
Manzelli 2002, pp. 90-91, cat. M.38.01; Venice: Canaletto
2010, cat. 39; Succi 2016, pp. 102-107.
CAT.V.17
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Interno della Basilica di San Marco
Olio su tela, 36,4×33,4 cm
Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth
II, inv. RCIN 400575
Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni
di J.G. Links), I, tav. 25, II, cat. 78; Canaletto 1980, cat.
28; Links 1981, cat. 283; Canaletto 1982, cat. 115; Corboz
1985, II, p. 728, cat. P 444; Levey 1991, pp. 37-38,
cat. 399, fig. 45; Canaletto 2015, cat. 14; Whitaker, in
Canaletto 2017, cat. 73.
182 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
CAT.V.18
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Piazza San Marco verso est
Olio su tela, 115×153 cm
Washington, National Gallery of Art, Gift of
Mrs. Barbara Hutton, inv. 1945.15.3
Bibliografia _ Browning 1905, pp. 340-345;
Constable 1929, p. 46; Puppi 1968, cat. 141; Constable
1976, I, tav. 19, II, pp. 207-208, cat. 50; Shapley 1979, I,
pp. 101-103, II, tav. 69; Links 1981, cat. 139; Canaletto
1982, p. 62, cat. 86; Corboz 1985, II, p. 636, cat. P249;
Links 1994, p. 97, cat. 75; Bowron, in The
Collections 1996, pp. 24-31; Succi 1999, p. 51, fig. 28;
Canaletto 2005, pp. 194-200, cat. 48; Beddington,
in Venice: Canaletto 2010, cat. 28.
— CATALOGO DELLE OPERE — 185
CAT.V.19
ANTONIO CANAL detto CANALETTO
Il Molo con le Prigioni e Palazzo Ducale
Olio su tela, 60,3×95,6 cm
Londra, The Royal Collection / HM Queen Elizabeth
II, inv. RCIN 400517
Bibliografia _ Constable 1962 (e successive edizioni di
J.G. Links), I, tav. 26, II, cat. 85; Canaletto 1980, cat. 23;
Links 1981, cat. 183; Levey 1991, p. 42, cat. 406, fig. 52.
CAT.V.20
FRANCESCO GUARDI
Fondamenta Nove con l’isola di San Michele
Olio su tela, 72×120 cm
Oxford, Ashmolean Museum, University of Oxford,
inv. WA2013.144
Bibliografia _ Russell 2015, pp. 107-109.
186 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 187
CAT.V.21
BERNARDO BELLOTTO
Veduta di Pirna e del castello Sonnenstein
Olio su tela, 134×237 cm
San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage, inv. n. 209
Bibliografia _ Kozakiewicz 1972, II, pp. 174-175,
cat. 221; Camesasca 1974, cat. 127; Rizzi 1996, cat. 62;
Bernardo Bellotto 2001, cat. 61.
188 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 189
CAT.V.22
BERNARDO BELLOTTO
Le rovine di Pirna dopo il bombardamento del 1760
Olio su tela, 80×112 cm
Troyes, Musée des Beaux-Arts, inv. 850.1.4
CAT.V.23
GIAMBATTISTA PIRANESI
Rovine delle Terme antoniniane
Incisione, 420×690 mm
Venezia, collezione privata
CAT.V.24
GIAMBATTISTA PIRANESI
Veduta delle Terme di Tito
Incisione, 480×700 mm
Venezia, collezione privata
Bibliografia _ Bernardo Bellotto 1990, cat. 46;
Canaletto: Bernardo Bellotto 2014, cat. 54.
Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 852; Wilton-Ely
1994, cat. 209; Ficacci 2001, cat. 947.
Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 837; Wilton-Ely
1994, cat. 256; Ficacci 2001, cat. 994.
190 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 191
CAT.V.27
CAT.V.25
ANTONIO VISENTINI
Veduta prospettica con giocatori di carte
Olio su tela, 207,3×252,4 cm
Venezia, palazzo Contarini Fasan
(opera non esposta)
Bibliografia _ Canaletto & Visentini 1986, pp. 62-64,
365, cat. 192.
GIUSEPPE ZAIS
Paesaggio con venditrici d’uova
Penna e pennello inchiostro seppia su traccia a
matita nera, acquarello, 400×540 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 5770
Bibliografia _ Pignatti, in Disegni 1985, p. 116, cat. 76.
CAT.V.28
GIUSEPPE ZAIS
Paesaggio con lavandaie
Penna e pennello inchiostro seppia su traccia a
matita nera, acquarello, 400×540 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 5769
Bibliografia _ Drawings 1985, cat. 74; Pignatti, in
Disegni 1985, p. 116, cat. 75; Perissa Torrini, in Splendori
Settecento 1995, p. 411.
CAT.V.26
FRANCESCO ZUCCARELLI
Pastorale
Olio su tela, 28×36 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. I, n. 2180
Bibliografia _ Pignatti 1960, p. 398; Pedrocco, in ‘700
veneziano, p. 91; Pedrocco, in Vittorio Amedeo Cignaroli
2001, cat. 71; Pittura 2001, p. 118, cat. 38; Spadotto
2007, pp. 129-130, cat. 170.
192 —UNA DIMENSIONE EUROPEA — — CATALOGO DELLE OPERE — 193
CAT.V.29
GIAMBATTISTA TIEPOLO
La Vergine dona lo scapolare a san Simeone Stock
Olio su tela, 66×42 cm
Parigi, Musée du Louvre, Département des
Peintures, inv. RF 1983-44
CAT.V.30
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Il banchetto di Cleopatra
Olio su tela, 67×41 cm
Stoccolma, J.A. Berg Collection, Stockholm
University, inv. SUBS114
CAT.V.31
GIAMBATTISTA TIEPOLO
L’apoteosi della famiglia Pisani
Olio su tela, 140×96 cm
Angers, Musée des Beaux-Artes, inv. MBA J273 -
J1881
Bibliografia _ Brown 1993, pp. 256-258, cat. 38;
Gemin, Pedrocco 1993, p. 352, cat. 275a; Bergamini,
in Giambattista Tiepolo 2012, pp. 239-240, cat. 34;
Loire 2017, pp. 331-333, con bibliografia precedente.
Bibliografia _ Brown 1993, pp. 250-255, cat. 36, con
bibliografia precedente; Gemin, Pedrocco 1993,
p. 396-297, cat. 376a; Giambattista Tiepolo 1998, cat. 55;
Mariuz 2004a, p. 54.
Bibliografia _ Gemin, Pedrocco 1993, p. 483,
cat. 511a; Barcham, in Giambattista Tiepolo 1996,
pp. 171-176, cat. 23; Loire, in Chefs-d’œuvre 2004,
p. 142, cat. 73; Pasian, in Giambattista Tiepolo 2012,
pp. 248-249.
194 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
CAT.V.32
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Allegoria con Venere e il Tempo
Olio su tela, 292×190,4 cm
Londra, The National Gallery, Bought with a special
grant and a contribution from The Pilgrim Trust,
1969, inv. NG6387
Bibliografia _ Gemin, Pedrocco 1993, pp. 460-461,
cat. 472; Mariuz 1994, p. 209, cat. 124; Pallucchini 1995,
I, p. 431.
CAT.V.33
GIAMBATTISTA CROSATO
Ritrovamento di Mosè
Olio su tela,72,5×108,5 cm
Torino, Palazzo Madama, Museo Civico d'Arte
Antica, inv. 658/D
Bibliografia _ Ton 2012, pp. 254-255, cat. 24, con
bibliografia precedente; Ton, in Rois & Mécènes 2015,
pp. 134-135, cat. 21.
— CATALOGO DELLE OPERE — 197
CAT.V.34 - CAT.V.35
GASPARE DIZIANI
Ratto d’Europa
Venere e Vulcano
Olio su tela, 169×144 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Martini 1964, p. 238, cat. 196; Zugni
Tauro 1972, pp. 83-84.
198 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— CATALOGO DELLE OPERE — 199
CAT.V.36-CAT.V.37
ANTONIO GUARDI
Apollo
Diana
Olio su tela, 60×88 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Pavanello 2000, p. 57.
CAT.V.38
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Costruzione del cavallo di Troia
Olio su tela, 38,8×66,7 cm
Londra, The National Gallery, Bought 1918,
inv. NG3318
Bibliografia _ Mariuz 1971, pp. 78, 120, fig. 270;
Whistler, in The Glory 1994, p. 509, cat. 237; Loisel,
in Éblouissante Venise 2018, p. 248, cat. 143.
200 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— CATALOGO DELLE OPERE — 201
CAT.V.39
GIAMBATTISTA TIEPOLO
La morte di Giacinto
Olio su tela, 287×232 cm
Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, inv.
1934-29
Bibliografia _ Gemin, Pedrocco 1993, p. 432, cat. 423;
Pallucchini 1995, I, p. 441; Barcham, in Giambattista
Tiepolo 1996, pp. 171-177.
— CATALOGO DELLE OPERE — 203
CAT.V.40
GASPARE DIZIANI
Allegoria delle Arti
Penna, inchiostro seppia, acquerello seppia,
280×202 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 5514
Bibliografia _ Dorigato, in Disegni antichi 1981, p.
133, cat. 392.
CAT.V.41
FRANCESCO FONTEBASSO
Progetto decorativo per soffitto di Ca’ Bollani
Matita, penna, inchiostro bruno, acquerello seppia,
268×232 mm
Parigi, École nationale supérieure des Beaux-Arts
(ENSBA), inv. O. 1378
Bibliografia _ Brugerolles, Guillet, in Disegni veneti
1988, p. 51, cat. 48; Brugellores, Guillet, in Les dessins
1990, p. 100, cat. 48.
CAT.V.42
FRANCESCO ZUCCHI, PIETRO ANTONIO NOVELLI
Progetto decorativo per soffitto
Matita nera, penna, acquerello bruno, 258×573 mm
Parigi, École nationale supérieure des Beaux-Arts
(ENSBA), inv. O.1379
Bibliografia _ Brugerolles, Guillet, in Disegni veneti
1988, p. 68, cat. 90; Brugerolles, Guillet, in Les dessins
1990, p. 164, cat. 84.
CAT.V.43
PIETRO VISCONTI
Progetto decorativo per soffitto
Penna e inchiostro bruno, acquerellato a varie tinte,
350×253 mm
Verona, Gabinetto Disegni e Stampe dei Civici Musei
d’Arte, inv. 12627 2B 87
Bibliografia _ Marinelli, in Museo di Castelvecchio
1999, p. 103, cat. 70; Pavanello 2016, p. 89.
204 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— CATALOGO DELLE OPERE — 205
CAT.V.44
PIETRO LONGHI
Il Rinoceronte
Olio su tela, 62×50 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. I, n. 1312
Bibliografia _ Berenson 1894, p. 104; Valcanover
1956, p. 25; Pignatti 1968, p. 100, tav. 116; Pedrocco,
in Pietro Longhi 1993, p. 132, cat. 63; Pedrocco, in
’700 Veneziano 1998, p. 70; D’Anza, in Éblouissante
Venise 2018, p. 249, cat. 151.
CAT.V.45
PIETRO LONGHI
L’ambasciata del moro
Olio su tela, 62×50 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. I, n. 1301
Bibliografia _ Pignatti 1968, p. 100, tav. 119;
Pedrocco, in Pietro Longhi 1993, p. 122, cat. 59;
Theodoli, in The Glory 1994, p. 463, cat. 183; Pedrocco,
in ’700 Veneziano 1998, p. 72, cat. 54; D’Anza, in
Éblouissante Venise 2018, p. 249, cat. 152.
206 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— CATALOGO DELLE OPERE — 207
CAT.V.46
PIETRO LONGHI
L’atelier del pittore
Olio su tela, 44×53 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. I, n. 133
Bibliografia _ Pignatti 1968, p. 100, tav. 47; Pedrocco,
in Pietro Longhi 1993, p. 96, cat. 47; Theodoli, in The
Glory 1994, p. 463, cat. 183; Pedrocco, in Pietro Longhi
2006, p. 9, cat. 4; D’Anza, in Éblouissante Venise 2018,
p. 249, cat. 150.
— CATALOGO DELLE OPERE — 209
CAT.V.47
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Ritratto di Giulia Lama
Olio su tela, 69,4×55,5 cm
Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, inv.
n. 1966.11
Bibliografia _ Zampetti 1969, p. 132; Mariuz 1982,
n. 17, tav. III; Ruggeri, in Giambattista Piazzetta 1983,
pp. 67-68; Knox 1992, pp. 84, 86, fig. 69; Giacometti,
in The Glory 1994, p. 473, cat. 62; Magani, in Splendori
Settecento 1995, p. 204, cat. 43; Pallucchini 1995, I,
p. 298, fig. 490; Craievich, in Éblouissante Venise 2018,
p. 245, cat. 48.
CAT.V.49
ALESSANDRO LONGHI
Ritratto di Carlo Goldoni
Olio su tela, 125×105 cm
Venezia, Casa di Carlo Goldoni, inv. Cl. I, n. 339
Bibliografia _ Pilo 1957, pp. 43-45, cat. 10; Pignatti
1960, pp. 156-158; Pallucchini 1995, I, p. 437; Delorenzi
2009-2010, pp. 137-138, cat. 1, fig. 1, con bibliografia
precedente.
CAT.V.50
BARTOLOMEO NAZARI
Ritratto di Farinelli
Olio su tela, 141×117 cm
Londra, Royal College of Music, inv. PPH C000272
Bibliografia _ Noris 1982, p. 232, cat. 26; Barbier
1988; McGeary 2002, pp. 203-213; Joncus 2005;
Freitas 2009, pp. 203-215; Feldman 2015; Barbier, in
Éblouissante Venise 2018, p. 244, cat. 23.
CAT.V.51
ALESSANDRO LONGHI
Ritratto di Bartolomeo Ferracina
Olio su tela, 120×87 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. I, n. 253
Bibliografia _ Pignatti 1960, pp. 147-148 ; Pallucchini
1995, I, p. 444; Pedrocco 1998, p. 84; Pedrocco, in ‘700
Veneziano 1998, p. 148, cat. 68; Rigoni 2003, p. 133;
Delorenzi 2009-2010, pp. 193-194, cat. 78, fig. 114, con
bibliografia precedente.
— CATALOGO DELLE OPERE — 211
CAT.V.52
PIETRO LONGHI
Pittore al cavalletto; Due gentiluomini in “Bauta”
Carboncino e gessetto bianco, 293×438 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 437
Bibliografia _ Pignatti 1968, pp. 17, 120; Pignatti, in
Disegni antichi 1987, pp. 69-71, cat. 975; Dorigato, in
Pietro Longhi 1993, p. 57, cat. 13; Pietro Longhi 2006,
pp. 9-10, cat. 4.
CAT.V.53
PIETRO LONGHI
Gentiluomo seduto che legge
Carboncino e gessetto bianco, 267×384 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 563
Bibliografia _ Pignatti 1968, pp. 126, 137; Pignatti,
in Disegni antichi 1987, p. 92, cat. 1003; Dorigato, in
Pietro Longhi 1993, p. 56, cat. 12; Pietro Longhi 2006,
p. 15, cat. 16.
CAT.V.54
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Busto di giovane voltato verso destra con un libro
in mano
Carboncino e biacca su carta bruna, 380×270 mm
Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. n. 300
Bibliografia _ Mariuz 1982, cat. D23; Nepi Scirè, in
G.B. Piazzetta 1983, p. 25, cat. 18; Perissa Torrini, in
Splendori Settecento 1995, pp. 415-416, cat. 131, con
bibliografia precedente.
— CATALOGO DELLE OPERE — 213
CAT.V.55
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Alfiere e tamburino
Carboncino e biacca su carta bruno grigia,
432×327 mm
Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. n. 320
Bibliografia _ Mariuz 1982, cat. D32; Nepi Scirè,
in G.B. Piazzetta 1983, p. 26, cat. 20; Perissa Torrini,
in Splendori Settecento 1995, p. 416, cat. 132, con
bibliografia precedente.
CAT.V.56
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Il concertino
Carboncino e biacca su carta bruna, 425×327 mm
Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. n. 323
Bibliografia _ Mariuz 1982, cat. D33; Nepi Scirè, in
G.B. Piazzetta 1983, p. 26, cat. 21; Perissa Torrini,
in Splendori Settecento 1995, p. 416, cat. 133, con
bibliografia precedente.
— CATALOGO DELLE OPERE — 215
CAT.V.57
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Ritratto di giovane di profilo
Gessetto bianco e nero, 415×291 mm
Londra, The British Museum, Donated by Antoine
Seilern, inv. 1946,0713.100
Bibliografia _ Mariuz 1982, cat. 16a; Knox, in G.B.
Piazzetta 1983, p. 30, cat. 34.
CAT.V.58
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Figura di ecclesiastico
Carboncino e gesso nero con lumeggiature in gesso
bianco, 403×303 mm
Parigi, Fondation Custodia, Collection Frits Lugt,
inv. n. 6017
Bibliografia _ Disegni veneti 1981, pp. 65-66, cat. 75;
Mariuz 1982, cat. D42.
— CATALOGO DELLE OPERE — 217
CAT.V.59
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Ritratto di Lorenzo Tiepolo
Gesso nero, 272×202 mm
Parigi, Fondation Custodia, Collection Frits Lugt,
inv. n. 3128
Bibliografia _ Byam Shaw 1962, pp. 83-84, cat. 54;
Knox 1980, I, pp. 57, 230, cat. M166, II, tav. 174; Disegni
veneti 1981, p. 70, cat. 80; Crosera, in Giambattista
Tiepolo 2012, pp. 263-264, cat. 67, con bibliografia
precedente.
CAT.V.60
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Sacra famiglia
Penna e inchiostro nero, acquerello bruno-grigio su
carboncino, 295×192 mm
Parigi, Fondation Custodia, Collection Frits Lugt,
inv. n. 3504
Bibliografia _ Disegni veneti 1981, pp. 73-74, cat. 83;
Mariuz 2008, pp. 210, 212.
218 —UNA DIMENSIONE EUROPEA —
— CATALOGO DELLE OPERE — 219
GEN ER I
E TEMI
JAN - CHRISTOPH
RÖSSLER
FIG. 1
DOMENICO ROSSI
Venezia, San Stae,
facciata
1 _ A. Memmo, Elementi
dell’architettura lodoliana o sia
l’arte del fabbricare con solidità
scientifica e con eleganza non
capricciosa, Zara 1833-1834, p.
9 e sgg.
2 _ Ivi, p. 52.
3 _ Così recita la didascalia di
un’incisione di Antonio Longhi
raffigurante il frate.
4 _ T. Temanza, Vite dei più
eccellenti architetti, Venezia
1778, p. 87.
5 _ V. Coronelli, Proposizioni
diverse de’ principali architetti
per il progetto di Sant’Eustachio,
Venezia s.d. (1710?); L. M.
Ravaioli, Il concorso per la
facciata di S. Stae a Venezia,
“Disegno di architettura”, 7
(1993), pp. 57-70.
Per guadagnarci il pane convien che acquistiamo
una qualche fama, e questa non s’acquista già colla
matematica alla mano, ma coll’imitare il meglio, ed
il più che per noi si può, l’opere che sono nella stima
maggiore, evitandone con diligenza i difetti. Se io presentassi
un qualche disegno tutto nuovo, per quanto
ragionevol fosse, sarei sicuro, che quello d’ogni altro
architetto, imitante, per esempio, una facciata del
Palladio, o del Vignola, sarebbe al mio preferito, e
frattanto chi sosterrebbe la mia famiglia?
GENERI
E TEMI
MOM EN T I DI
ARCHITETTURA
Queste sono le parole
con cui Giorgio Massari (1687-1766) avrebbe difeso,
intorno al 1736, il suo modello per la chiesa della
Pietà in un colloquio con Carlo Lodoli (1690-1761) [1] .
Entrambi i personaggi sono ben noti: il primo senza
dubbio l’architetto più richiesto del Settecento
veneziano; il secondo, frate francescano, il paladino
più strenuo di un razionalismo ispirato dalla teoria
francese cosiddetta “illuminista”, mirante a trovare
“nuove forme e nuovi termini” [2] per “unir e
fabrica e ragione e sia funzion la rapresentazione” [3] .
Caro tanto ai circoli dotti dell’epoca quanto alla storiografia,
il precursore del moderno funzionalismo
era considerato perfino da Tommaso Temanza un
“critico insolente, e impostore sfacciato”, per cui
“non c’era fabbrica al mondo, che fosse buona; non
ci fu mai buon architetto, neppure fra gli Antichi” [4] .
Mentre gli allievi di Lodoli si estenuarono in
aspri discorsi accademici sul rinnovamento dell’architettura
in base alla sola ragione e alla natura dei materiali,
Massari vinceva concorsi. Massimamente nel
campo dell’edilizia sacra riuscì a cogliere con efficacia
quanto fosse apprezzato dai committenti e a imparare
dalle opere mature dei maestri della generazione precedente.
Tra questi figura Domenico Rossi (1657-1737),
la cui fortuna iniziò forse non a caso dopo la morte
dello zio e maestro Giuseppe Sardi (1624-1699). Con
la facciata di San Stae (1709) e la chiesa di Santa Maria
Assunta dei Gesuiti (1713-1728), Rossi lasciò a Venezia
due opere di somma importanza. Dopo la sua ricostruzione
nel 1674, la chiesa di San Stae era rimasta
priva di una facciata. Dodici delle proposte del concorso
appositamente indetto nel 1709 sono tramandate
da incisioni di Vincenzo Maria Coronelli e dimostrano
una variegata gamma stilistica, da invenzioni di
derivazione tardoseicentesca a proposte di gusto borrominiano,
come quella di Giovanni Giacomo Gaspari,
figlio del più noto Antonio [5] .
Al concorso partecipò anche Giovanni Gratii,
autore della chiesa stessa [6] . Come Gratii, anche
Domenico Rossi cercò di conformarsi in facciata
alla disposizione dell’interno, accorciando le brevi
ali dell’ordine minore in modo da coprire appena le
cappelle laterali addossate alla navata unica (fig. 1).
Fra tutte le proposte il disegno vincitore di Rossi presenta
il maggiore equilibrio tra architettura e scultura,
ponendosi al contempo in linea con una tradizione
veneziana risalente a Palladio, riconducibile al motivo
paradigmatico dell’ordine gigante delle facciate di San
Francesco della Vigna e di San Giorgio Maggiore [7] .
La chiesa di Santa Maria Assunta dei Gesuiti
nacque dalla coincidenza singolare tra la volontà
rappresentativa della famiglia Manin, finanziatrice
dell’impresa, e le esigenze dell’Ordine appena riammesso
a Venezia [8] . Fino all’Ottocento la chiesa si
affacciava in gran parte su una salizzada non molto
larga, lasciando libero soltanto l’angolo settentrionale.
Tale situazione urbanistica sfavorevole, già lievemente
smussata nella veduta di Canaletto (fig. 2) e oggi
non più intuibile, fu affrontata da Domenico Rossi
mediante l’arretramento delle ali all’estremità e l’impiego
di colonne libere nel registro inferiore; entrambi
tratti già presenti in un contributo anonimo per il concorso
di San Stae [9] .
— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 223
La costruzione della nuova chiesa di Santa
Maria Rosario iniziata nel 1725 [10] su disegno di
Massari era il primo incarico importante dell’architetto
a Venezia. Come la chiesa mariana dei Gesuiti,
anche quella dei Domenicani Osservanti, detta dei
Gesuati, è situata ai margini della città (fig. 3). Grazie
alla posizione privilegiata sul Canale della Giudecca,
esaltata in una veduta di Francesco Guardi, il prospetto
era destinato a essere percepito prevalentemente
a grande distanza. Massari ne tenne conto
con una ulteriore semplificazione dello schema palladiano,
estendendo il grandioso tetrastilo di semicolonne
a tutta la larghezza della navata, e raccordandolo
ai fianchi con massicci fasci di pilastri. Ne risulta
un forte effetto tettonico, rafforzato ulteriormente
dal chiaroscuro del grande portale e dalle quattro
statue delle Virtù sostenute da grosse mensole semicircolari.
All’interno, invece, i setti murari tra le cappelle
laterali presentano nella parte superiore dei bassorilievi,
similmente allo schema della chiesa di Santa
Maria della Fava, iniziata da Antonio Gaspari ma portata
a termine dallo stesso Massari pochi anni prima.
Un programma scultoreo è assente nei due
progetti di Massari per le facciate delle chiese delle
Penitenti e dell’ospedale della Pietà, la prima incompiuta,
la seconda realizzata tardivamente con un disegno
diverso da quello originale. Non è noto il disegno
preciso per il prospetto della chiesa di San Marcuola,
rifabbricata a partire dal 1728, ma i quattro piedistalli
eseguiti indicano anche in questo caso un ordine
gigante di ispirazione palladiana. Se nelle numerose
chiese erette da Massari, a Venezia come in Terraferma,
le composizioni delle facciate seguirono sempre lo
stesso schema, questo non vale per gli spazi interni,
dove l’architetto dimostrò una grande flessibilità per
adattarsi alle necessità dei committenti e alle particolarità
dei rispettivi siti: a San Marcuola una pianta quadrata
con facciata laterale rivolta sul Canal Grande; ai
Gesuati una variazione del motivo della navata unica
con sei cappelle laterali; infine una pianta ellissoide
con lesene poco aggettanti per la chiesa della Pietà,
del tutto incentrata sulle famose esecuzioni musicali
dell’annesso pio istituto. Questa volta però l’impianto
non era desunto da un archetipo palladiano, bensì
dalla distrutta chiesa degli Incurabili, opera di Jacopo
Sansovino [11] .
Mancò poco, e il vecchio Massari avrebbe
realizzato nel 1759 anche la chiesa di Santa Maria
Maddalena. Tra gli architetti chiamati dal parroco
Marchioni a presentare i loro progetti fu anche
Tommaso Temanza (1705-1789), la cui proposta di una
pianta circolare fu scelta alla fine non solo “per la propria
sua essenziale perfezione” [12] , ma per essere stata
ritenuta più adeguata a un sito particolarmente angusto
e difficile, incastrato tra una fondamenta pubblica e
varie case private. La tipologia centrale non era affatto
FIG. 2
ANTONIO VISENTINI
(da CANALETTO)
Campo dei Gesuiti, incisione
6 _ Basandosi su una cronaca
della storia di San Stae, la
storiografia identifica l’autore
della rifabbrica con uno
sconosciuto Giovanni Grassi.
Per motivi di coincidenza
cronologica si è indotti a
pensare a una qualche svista,
essendovi a Venezia nel 1661
in parrocchia di San Polo un
“Zuanne Gratiis tagiapiera”
(Archivio di Stato di Venezia
[d’ora in poi ASVe], Dieci Savi
alle Decime, R. 423, San Polo,
c. 38v, n. 275), senz’altro il
“Zuanne di Gratii” eletto,
assieme a Gerolamo Viviani e il
più noto Alessandro Tremignon,
alla fine del 1673 in una causa
divisoria (ASVe, Notarile, Atti,
R. 6106, not. Marco Fratina, c.
131v, 31 dicembre 1673), e pure
omonimo allo “scultore Veneto
Giovanni Grazzi” attivo nello
stesso anno nella Scuola del
Rosario di Treviso (cfr. D. M.
Federici, Memorie trevigiane
sulle opere di disegno dal Mille
e Cento al Mille e Ottocento. Per
servire alla storia delle Belle Arti
d’Italia, II, Venezia 1803, p. 105).
7 _ Vedasi l’analisi limpida
di W. Oechslin, Die Kirche
San Stae in Venedig: die
Palladianische Fassade des
Tessiner Architekten Domenico
Rossi, “Unsere Kunstdenkmäler:
Mitteilungsblatt für die
Mitglieder der Gesellschaft
für Schweizerische
Kunstgeschichte”, 25, 4, 1974,
pp. 225-235.
8 _ Cfr. ultimamente, F.
Lenzo, Oltre Palladio. La chiesa
dei Gesuiti e la tradizione
architettonica veneziana, in
Immaginari della Modernità,
a cura di S. Marini, Sesto San
Giovanni 2016, pp. 26-43, con
bibliografia.
9 _ Non convince
l’interpretazione di F.
Lenzo, Venezia, in Storia
dell’architettura nel Veneto: Il
Settecento, a cura di E. Kieven
e S. Pasquali, Venezia 2012, pp.
134-165, in particolare p. 155,
secondo il quale le colonne
riecheggerebbero la basilica
ducale di San Marco.
10 _ A. Massari, Giorgio
Massari. Architetto veneziano
del Settecento, Vicenza 1971, pp.
42 e sgg.
11 _ Ivi, pp. 70-76.
FIG. 3
GIORGIO MASSARI
Venezia, Santa Maria
del Rosario (Gesuati),
facciata
FIG. 4
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
Il Canal Grande a San Simeon
Piccolo. Londra, The National
Gallery
nuova a quell’epoca: dopo l’illustre caso seicentesco di
Santa Maria della Salute, era stata riproposta nel 1718
da Giovanni Scalfurotto (1697-1764), zio materno e
maestro dello stesso Temanza, nella chiesa dei Santi
Simeone e Giuda Taddeo Apostoli, detta San Simeon
Piccolo [13] . Ben nota per la costruzione audace dell’alta
cupola lignea [14] , e le somiglianze con il tempietto palladiano
di Maser [15] , San Simeon si distingue dalle altre
chiese erette prima della caduta della Repubblica non
tanto per il pronao, motivo già sperimentato pochi
anni prima da Andrea Tirali (1657-1737) nella chiesa di
San Nicolò da Tolentino, bensì per la plastica raffigurazione
del Martirio dei Santi titolari in forma di grande
rilievo marmoreo che ne riempie l’intero timpano [16] .
Si sarebbe dovuto aspettare quasi un secolo per
vedere nel prospetto neoclassico della chiesa di San
Maurizio una soluzione simile. Una veduta del Canal
Grande di Canaletto conservata alla National Gallery
di Londra (fig. 4) dimostra che il pittore colse brillantemente
come la nuova chiesa bianca di San Simeon
Piccolo, sfiorata da una controluce invernale, si venga
a porre in chiave antitetica alla chiesa di Santa Maria
di Nazareth ubicata quasi di fronte, uno degli esempi
più fastosi di una facciata commemorativa seicentesca
finanziata da una famiglia patrizia. Appare significativo
che sia la chiesa dei Gesuati, sia San Simeon Piccolo,
divennero soggetti di capricci del grande vedutista.
Ma torniamo alla chiesa della Maddalena.
Sostituito, per meri motivi di spazio, il presbiterio
quadrato previsto nel progetto primitivo con uno
ovale più piccolo, l’impianto sembra avvicinarsi ancora
di più a quello di San Simeon. Lo spazio interno è però
diverso per la cupola ribassata e per l’uso di un ordine
gigante di colonne ioniche a tre quarti, da cui risultano
quattro semicappelle. “Sapientia aedificavit sibi
domum” recita l’iscrizione sotto la lunetta della porta
principale. All’esterno, il tempio del “dotto architetto,
il signor Tomaso Temanza, matematico, letterato erudito”
[17] , è privo di simboli esplicitamente cattolici, a
parte l’ambiguo e insolito occhio della Divina Sapienza
intrecciato al triangolo della Santissima Trinità [18] .
Della santa titolare non c’è traccia (fig. 5). La “purità
che innamora” (così la fortuna critica neoclassica locale
[19]
) di questa architettura a sé stante, in cui pittura e
scultura sono confinate ai soli altari, è lontana da una
Gesamtkunstwerk come la chiesa dei Gesuiti, profusa
di stucchi, affreschi e intagli di marmi policromi, o la
chiesa dei Gesuati, arricchita da sculture di Gian Maria
Morlaiter e dipinta nei soffitti, come spesso avvenne in
costruzioni di Massari, da Giambattista Tiepolo.
Quasi contemporaneamente alla costruzione di
Santa Maria Maddalena fu innalzata la chiesa di San
Geremia su modello dell’architetto-sacerdote bresciano
Carlo Corbellini. Restano finora oscure le circostanze
precise di questo raro incarico di un architetto
non veneziano. Ricerche recenti hanno individuato
224 —GENERI E TEMI —
— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 225
nell’alzato raffigurato in una medaglia commemorativa
del 1752 il progetto primitivo di un edificio centrale
con cupola ribassata sul modello del Pantheon
e pronao apparentemente dorico destinato al prospetto
rivolto al Canal Grande: progetto accolto dal
vescovo di Brescia, cardinale Angelo Maria Querini,
che diventò in seguito il maggiore benefattore della
nuova costruzione [20] . La morte precoce del presule
nel gennaio 1755 deve aver comportato, per vicende
ancora da chiarire, un cambiamento profondo, poiché
l’edificio effettivamente realizzato – con impianto a
forma di croce, alta cupola centrale e tre facciate per
sfruttare il sito particolarmente favorevole sull’angolo
tra il Canal Grande, il canale di Cannaregio e il campo
di San Geremia – è alquanto diverso dal progetto primitivo
(fig. 6).
Sempre nel sesto decennio, la Scuola Grande
di San Rocco diede inizio alla ricostruzione della facciata,
cadente, dell’adiacente chiesa omonima. Vari
architetti furono chiamati nel 1756 a presentare progetti
[21] . Prevalse il proto della Scuola, Giorgio Fossati
(1705-1778). Le sue invenzioni classicheggianti – di
una è anche pervenuto il modello ligneo [22] – condividono
l’impiego di un ordine gigante corinzio su alti
piedistalli, e timpano con lunetta ornata di sculture.
Di particolare interesse è un disegno acquarellato (fig.
7), di cui non si può negare, nella sua impostazione
generale, l’affinità con la facciata dei Gesuati, con cui
condivide anche la fascia alla greca dell’ordine minore.
Diversamente dal modello ligneo alternativo, le nicchie
destinate a ospitare statue di Santi sono sostituite
con grandi riquadri di bassorilievi.
Il rigore inerente ai progetti di Fossati si contrappone
in maniera eclatante a un capriccio d’un
Rococò sfrenato elaborato da Michele Marieschi, in cui
l’antico prospetto quattrocentesco della chiesa è ricoperto
da tre grandi rilievi (fig. 8). Come mezzo secolo
prima il concorso per San Stae, anche le varie proposte
per San Rocco dimostrano il rapporto talvolta conflittuale
tra il programma scultoreo, più o meno preponderante,
e l’architettura che lo doveva incorniciare. Alla
fine, la nuova facciata fu iniziata su modello di Fossati,
ma i lavori furono fermati poco dopo. Probabilmente i
“guardiani” della confraternita avevano intuito, alla vista
dei piedistalli che si stavano per erigere, come il nuovo
prospetto avrebbe spostato il baricentro della corte
verso la chiesa, soffocando la Scuola. Abbandonato il
progetto di Fossati e smontato con dispendio notevole
quanto già costruito, fu invece realizzata, entro il
1769, un’idea di Bernardino Maccaruzzi (1728 ca.-1798)
che riprende la partitura architettonica a due registri
e colonne libere della Scuola cinquecentesca (fig. 9).
Come Massari, anche Maccaruzzi sapeva “imitare il
meglio” per tutelare il genius loci.
FIG. 5
TOMMASO TEMANZA
Venezia, Santa Maria
Maddalena, facciata
FIG. 6
CARLO CORBELLINI
Venezia, San Geremia,
facciata
12 _ Riportato in M. Favilla,
R. Rugolo, Un’architettura
di “scientifica semplicità”.
Tommaso Temanza e la chiesa
della Maddalena, “Studi
Veneziani”, N.S., LV, 2008, pp.
203-282, qui p. 226; studio
approfondito a cui si rimanda
per la storia complessissima
della genesi del progetto.
13 _ Vedansi gli espliciti
riferimenti dati da Temanza
1778, p. 432, in nota. Cfr.
inoltre M. Brusatin, Venezia nel
Settecento: stato, architettura,
territorio, Torino 1980, p. 221.
14 _ M. Piana, San Giorgio
Maggiore e le cupole lignee,
“Annali di Architettura”, XXI,
2009, pp. 79-90.
15 _ Vedasi da ultimo Lenzo
2012, p. 157.
FIG. 7
GIORGIO FOSSATI
Disegno per la facciata di San
Rocco, da F. Posocco, Scuola
Grande di San Rocco: la
vicenda urbanistica e lo spazio
scenico, Cittadella 1997
FIG. 8
MICHELE MARIESCHI
Campo San Rocco,
incisione
16 _ Opera di Francesco
Penso detto Cabianca: T.
Temanza, Zibaldon, a cura di
N. Ivanoff, Venezia-Roma 1963,
p. 42.
17 _ Favilla, Rugolo 2008,
p. 226.
18 _ Ivi, p. 260.
19 _ L. Cicognara, A.
Diedo, G. Selva, Le fabbriche
e i monumenti più cospicui di
Venezia, Venezia 1840, p. 54,
nota 1.
20 _ M. Favilla, R. Rugolo,
Frammenti dalla Venezia
barocca, “Atti dell’Istituto
Veneto di Scienze, Lettere ed
Arti”, 163, 2004-2005, Classe di
scienze morali, lettere ed arti,
pp. 47-138, in particolare pp.
125 sgg.
L’atteggiamento eclettico diffuso nel Settecento
veneziano si riscontra pure in opere di Domenico
Rossi. Nel campo dell’edilizia privata l’architetto è
noto soprattutto per palazzo Corner della Regina sul
Canal Grande, iniziato nel 1723 (fig. 10) [23] . Mentre
nei piani inferiori Rossi dimostra di aver interiorizzato
l’insegnamento barocco dato dallo zio Giuseppe quasi
mezzo secolo prima a palazzo Flangini San Geremia
(1678), la parte superiore, con esili frontoncini triangolari
che sovrastano le aperture architravate del secondo
piano nobile, allude ad architetture palladiane di
Terraferma, in particolare palazzo Porto Breganze a
Vicenza. Gli antenati dei committenti, del resto, avevano
fatto erigere proprio da Palladio la famosa villa
di Piombino Dese. A causa della ristrettezza del sito –
un fantasioso progetto precedente ascritto allo stesso
architetto aveva previsto di edificare anche il lotto del
palazzetto gotico limitrofo – l’edificio ideato da Rossi
doveva svilupparsi soprattutto in verticalità. Stante
la notoria volontà dei Corner di costruire un nuovo
palazzo monumentale seguendo le ordinazioni testamentarie
del procuratore Ferigo Corner fu Andrea
del 1706, non era certamente una mera coincidenza
che i Pesaro San Stae avessero fatto eseguire all’inizio
del secolo un dispendioso rivestimento lapideo della
facciata laterale orientale del loro palazzo seicentesco:
opera che pare finalizzata a controbilanciare, per
quanto possibile, la ventura fabbrica dei vicini [24] .
Sorprende che palazzo Corner sia privo di un
salone a più piani; motivo introdotto nella città lagunare
alla fine del secolo precedente da Antonio Gaspari
nei palazzi Barbaro San Vidal e Zenobio, e tosto
entrato nel repertorio tipologico delle dimore più
fastose veneziane del secolo XVIII. Con palazzo Dolfin
San Pantalon, Rossi stesso aveva eretto, tra il 1709 e il
1717, l’esempio più significativo di questo genere [25] .
Al livello d’impianto, ca’ Corner della Regina presenta
ridondanze dovute alla creazione di appartamenti
semi-indipendenti per i fratelli committenti Andrea
e Ferigo Corner fu Gerolamo. In corrispondenza dei
portali minori laterali in facciata, doppie scale con
brevi rampe d’invito prendono avvio nell’atrio a colonnato
verso Canal Grande. Demolita nell’Ottocento
gran parte della scala occidentale dal mezzanino in su,
ed eretta posteriormente una rampa di scale nell’androne
passante, la primitiva struttura dei collegamenti
verticali oggi non è più percepibile.
La capacità di Rossi di conformarsi ai desideri
dei committenti si manifesta in due altri edifici
eretti pressoché contemporaneamente. Se palazzo
Da Riva, fabbricato da marzo 1720 fino al 1727 per il
nobile Vincenzo da Riva [26] , dimostra nella facciata
sul rio di San Lorenzo un vocabolario seicentesco
diventato ormai stantio, il palazzo di Tommaso Sandi,
226 —GENERI E TEMI —
— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 227
incominciato con il salone dalla parte del rio nell’aprile
1721, sconcerta nel sobrio prospetto sul campo eretto
nell’anno successivo [27] , con una impostazione simile a
palazzi veneziani della fine del secolo XVI, salvo alcuni
particolari (fig. 11). Risparmio economico o acquisto
di tradizione da parte della famiglia del committente,
ammessa al patriziato veneto nel 1685?
Del tutto diverso era invece l’approccio nella
rifabbrica della dimora di Zaccaria, Anzolo Maria,
Piero e Zuanne Priuli fu Marc’Antonio (fig. 12). Dopo
l’elezione di Zuanne alla dignità di procuratore di
San Marco nel 1723, le case medievali dei Priuli a
San Geremia non bastarono più alle nuove esigenze
di rappresentanza. Con i lavori iniziati nel 1724 su
disegno di Andrea Tirali si cercò di unificare il vasto
complesso eterogeneo, dotandolo di una facciata unitaria
e aggiornando la distribuzione interna, ma evitando
al contempo un dispendio eccessivo [28] . Andrea
Tirali era, come del resto anche il succitato Giovanni
Scalfurotto suo genero, allievo del matematico e teorico
di architettura Andrea Musalo (1665-1721), il cui
insegnamento era volto al recupero delle regole di
Vincenzo Scamozzi, facilitate e rese pratiche attraverso
tabelle numeriche [29] . Palazzo Priuli va pertanto letto
alla luce di queste premesse.
Basata su una rigorosa composizione geometrica
caratterizzata dal rivestimento lapideo delle
poche superficie murarie e dall’assenza di aperture
arcuate ai piani superiori, la facciata tripartita simmetrica
non ha un riscontro nella disposizione dei vani:
il portale di destra è finto; il salone cubico a due piani
occupa solo cinque delle sette assi centrali. Lo scalone
principale è inserito contro ogni logica architettonica
nell’antico portego passante di una delle case preesistenti,
in modo che i pianerottoli, sfalsati rispetto ai
solai, vengono a otturare una parte delle finestre. La
razionalità “avanguardista”, tanto decantata dalla storiografia,
si limita al solo prospetto. Come San Simeon
Piccolo, palazzo Priuli non trovò una successione
immediata. Palazzo Diedo Santa Fosca, iniziato nel
1715 per il procuratore Anzolo Diedo [30] , dimostra
come anche Tirali seppe certamente adeguarsi bene
alle richieste del committente, elevando il semplificato
vocabolario cinquecentesco locale sul piano di una
rara monumentalità.
Verso la metà del Settecento nacque, come già
due secoli prima, una gara architettonica che interessò
vari siti lungo il Canal Grande. Affiorarono grandiosi
progetti per palazzi patrizi, di cui solo uno vide la realizzazione
completa. Diverse erano le strategie scelte
21 _ Vedasi, più ampiamente,
R. Maschio, La facciata della
chiesa di San Rocco, in Le
Venezie possibili. Da Palladio
a Le Corbusier, catalogo
della mostra (Venezia, Ala
Napoleonica Museo Correr) a
cura di L. Puppi e G. Romanelli,
Venezia 1985, pp. 106-112.
22 _ Cfr. F. Posocco, Scuola
Grande di San Rocco: la vicenda
urbanistica e lo spazio scenico,
Cittadella 1997, pp. 92 sgg.
23 _ Rimane tuttora
fondamentale lo studio di L.
Olivato, Un’avventura edilizia
nella Venezia del Settecento.
Palazzo Corner della Regina,
“Antichità viva”, 3, 1973, pp.
27-49.
24 _ E. Bassi, Palazzi di
Venezia. Admiranda Urbis
Venetae, Venezia 1974, p. 168
ritiene invece lo sviluppo in
altezza di palazzo Corner una
reazione alla facciata laterale di
palazzo Pesaro.
25 _ Vedasi V. Conticelli,
Ca’ Dolfin a San Pantalon:
Precisazioni sulla committenza
e sul programma iconografico
della “Magnifica Sala”, in
Giambattista Tiepolo nel terzo
centenario della nascita, a cura
di L. Puppi, Padova 1998, pp.
231-237. L’aumento della tassa
imposta sull’immobile nel
luglio 1717 (ASVe, Dieci Savi alle
Decime, R. 868, San Pantalon)
dovrebbe costituire un terminus
ante quem.
26 _ Cfr. il testamento del
committente in ASVe, Notarile,
Testamenti, b. 1010b, not.
Emilio Velan, cedole, n. 406 del
04 luglio 1735. Di più, vedasi
ASVe, Giudici del Piovego, b. 23,
R. 16, c. 24v, n. 300, 04 gennaio
1720 more veneto.
FIG. 9
BERNARDINO MACCARUZZI
Venezia, San Rocco,
facciata
FIG. 10
DOMENICO ROSSI
Venezia, palazzo Corner
della Regina,
facciata
FIG. 11
DOMENICO ROSSI
Venezia, palazzo Sandi,
facciata
FIG. 12
ANDREA TIRALI
Venezia, palazzo
Priuli Manfrin,
facciata
27 _ ASVe, Giudici del
Piovego, b. 23, R. 16, c. 30r, n.
278, 16 aprile 1722.
28 _ V. Farinati, Architettura
e committenza nel primo
Settecento veneziano:
l’intervento di Andrea Tirali
in palazzo Priuli Manfrin a
Cannaregio (1724-1731), “Annali
di architettura”, 3, 1991, pp. 113-
131; Id., Interni e architettura
nel primo Settecento veneziano:
palazzo Priuli Manfrin a
Cannaregio, “Venezia Arti”, 6,
1992, pp. 53-66.
dai vari committenti. Il procuratore Gherardo Sagredo
aveva avviato il progressivo ammodernamento architettonico
del suo palazzo gotico con la costruzione della
nota scala a tenaglia, una delle ultime opere di Tirali. Al
medesimo architetto dovrebbe pertanto spettare anche
l’inizio del rinnovo dell’esterno, progredendo nel 1733
dall’angolo settentrionale sul campo Santa Sofia. Un
anno dopo la morte di Tirali avvenuta nel 1737, Sagredo
redasse le ultime volontà, ordinando di proseguire i
lavori giusto un progetto di Tommaso Temanza approvato
dal matematico Bernardino Zendrini: progetto
tramandato forse nell’alzato di facciata nella raccolta di
disegni Admiranda Urbis Veneta [31] .
Come a palazzo Priuli, una riflessione sulla
planimetria dimostra che l’interno non avrebbe corrisposto
al prospetto incentrato sui due assi dei portali
con sovrastanti bifore, il tutto ritmato da lesene.
Liti sull’eredità ne hanno impedito la realizzazione, in
modo che si è conservata una delle facciate gotiche più
importanti di Venezia. Opposto al procedimento di
Sagredo era quello di Chiara Pisani: la ristrutturazione
profonda del suo palazzo di San Polo a partire dal 1739
su progetto di Giovanni Filippini – anch’egli allievo di
Musalo – si limitò alla modernizzazione degli interni e
dei collegamenti verticali, mentre la facciata gotica fu
esplicitamente conservata e restaurata in stile [32] .
La stirpe dei Pisani spicca, d’altronde, per la sua
attività edilizia nel Settecento, come dimostra l’ultimo
ampliamento del palazzo del ramo di San Vidal culminato
a partire dal 1726 nella costruzione della singolare
sala egizia a due piani eretta dal 1726 su idea di
Gerolamo Frigimelica Roberti. Un progetto di Temanza
per un nuovo palazzo per l’altrettanto facoltoso ramo
dei Pisani Santa Maria Zobenigo, databile agli anni
Cinquanta del Settecento [33] , prevedeva una costruzione
ex novo in luogo del grande conglomerato di case
possedute dai figli di Vincenzo IV Pisani fu Vincenzo I.
Rispetto all’infelice e ostico ibrido di Ca’ Sagredo, i disegni
di palazzo Pisani (fig. 13a,b) presentano tratti innovativi
nella concezione degli spazi e al contempo una
grande regolarità planimetrica. La facciata con ordine
gigante di semicolonne corinzie sopra un pianoterra
rivestito di bugnato rivela somiglianze con quella di
palazzo Repeta a Vicenza, opera di Francesco Muttoni.
Organizzato intorno a un cortile quadrato circondato
da logge e insolitamente elevato da terra mediante una
228 —GENERI E TEMI —
— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 229
fondazione a pilastri, palazzo Pisani non avrebbe avuto
un primo piano ammezzato, ma sarebbe stato dotato
da ben due saloni a doppia altezza: quello principale,
rivolto verso il Canal Grande, sarebbe stato reso accessibile
direttamente attraverso uno scalone a tre rampe.
L’estinzione precoce dei Pisani Santa Maria
Zobenigo nel 1761 segnò la fine di questo progetto
ambizioso, al pari di un altro, parimenti famoso, vittima
della crisi demografica delle ricche famiglie nobili
veneziane. Nella speranza di poter perpetuare il loro
ramo del casato, i procuratori Nicolò e Gerolamo
Venier avevano dato, nel 1751, inizio alla costruzione
di un grande palazzo in contrada di San Vio, quasi di
fronte alla cinquecentesca ca’ Corner della ca’ Grande
e non molto lontano dal sito che avrebbe visto la “macchina”
di palazzo Pisani Santa Maria Zobenigo; due
costruzioni che, insieme, avrebbero completamente
cambiato la fisionomia del Canal Grande.
Si può presumere che i lavori siano stati abbandonati
quando si prospettò la fine della famiglia,
FIG. 13a
TOMMASO TEMANZA
Progetto per palazzo Pisani
a Santa Maria Zobenigo,
planimetria del piano nobile.
Venezia, Museo Correr,
Biblioteca
FIG. 13b
TOMMASO TEMANZA
Progetto per palazzo Pisani
a Santa Maria Zobenigo,
spaccato. Venezia, Museo
Correr, Biblioteca
avvenuta difatti nel 1781. Il disegno primitivo dell’architetto
Lorenzo Boschetti del 1749 è tramandato da
un’incisione di Giorgio Fossati. Morto Boschetti nel
1750, fu sostituito dal proto Domenico Rizzi, tuttora
poco conosciuto [34] . Il confronto tra il modello ligneo
conservato al Museo Correr e l’alzato di Boschetti (fig.
14) dimostra modifiche non indifferenti che interessarono,
tra l’altro, il risalto delle trabeazioni in concomitanza
con le trifore centrali, il cambiamento della proporzione
a 3:2, la riduzione delle finestre laterali del
secondo piano nobile ad arco ribassato, sormontato
da frontoncini triangolari, e l’aumento della superficie
dei fori, dimezzando il numero delle lesene e mezze
colonne che scandiscono le ali. Rilievi recenti hanno
dimostrato che il modello corrisponde perfettamente
al frammento di pianoterra effettivamente realizzato
[35]
. Per quanto riguarda la facciata, il modello di Rizzi
si avvicina in modo sbalorditivo al disegno di Vincenzo
Scamozzi per un secondo palazzo Corner previsto per
il lotto a fianco la “ca’ Granda” a San Maurizio (fig. 15).
29 _ Si veda, ultimamente,
V. Farinati, La scuola di
Andrea Musalo, Andrea Tirali
e l’ampliamento settecentesco di
palazzo Priuli a Cannaregio, in
Da Longhena a Selva: un’idea
di Venezia a dieci anni dalla
scomparsa di Elena Bassi,
a cura di M. Frank, Venezia
2011, pp. 169-186; ivi anche la
bibliografia.
30 _ ASVe, Giudici del
Piovego, b. 23, R. 15, c. 178v,
17 febbraio 1714 more veneto;
Dieci Savi alle Decime, R.
865, S.Fosca, 5 ottobre 1715;
Notarile, Testamenti, b.
800, not. Giovanni Garzoni
Paulini di Domenico, prot.
I, c. 160v, 26 aprile 1714, con
vari successivi. Tra questi,
uno dell’aprile 1717 con cui il
testatore richiese di impegnare
certi capitali “pontualmente
nell’avvanzamento della fabrica
della casa dominicale a Santa
Fosca, che si va avanzando”.
In un altro dello stesso mese
ordinò che “li primi cinque
anni sia impiegata tutta essa
mia roba di qualsiasi sorte, non
mai li capitali nell’avanzamento
della detta fabrica di Santa
Fosca”. Tra i testimoni a
un codicillo del 1719 era il
tagliapietra Zan Maria Rossi,
successivamente impiegato
da Giorgio Massari nella
costruzione della chiesa di San
Marcuola.
31 _ Bassi 1974, p. 544.
32 _ Cfr. J.-C. Rössler,
L’architettura di palazzo
Pisani Moretta, in I Pisani
Moretta. Storia e Collezionismo,
catalogo della mostra (Venezia,
Ca’ Rezzonico) a cura di
A. Craievich, Crocetta del
Montello 2015, pp. 33-51.
33 _ S. Biadene, Palazzo
Pisani a Santa Maria del Giglio,
in: Le Venezie possibili 1985, p.
136 sg.
34 _ Su Boschetti, autore
della chiesa di San Barnaba,
cfr. L. Puppi, Lorenzo Boschetti
“dottor in amendue le leggi
perito”, proto e architetto.
Lineamenti di un profilo
biografico, in Studi di storia
dell’arte in onore di Maria Luisa
Gatti Perer, a cura di M. Rossi
e A. Rovetta, Milano 1999,
pp. 405-416. Ma vedasi già R.
Toffoluti, Ca’ Venier dei Leoni,
in Terza mostra internazionale
di architettura. Progetto
Venezia, Milano 1985, II, pp.
464-467.
35 _ R. Camponogara, Il
Palazzo Venier dei Leoni. Metodi
digitali per la costruzione del
progetto non realizzato, tesi di
laurea Università IUAV, facoltà
di Architettura, a.a. 2013-2014,
relatori F. Guerra e F. D’Agnano.
36 _ Si rimanda a G.
Romanelli, Nodi e problemi di
una macchina settecentesca-
Modificazioni strutturali tra
700 e 900, in G. Romanelli,
G. Pavanello, Palazzo
Grassi. Storia, architettura,
decorazioni dell’ultimo palazzo
veneziano, Venezia 1986, pp.
53 sgg. Romanelli identifica
il “moderno proseguimento”
menzionato alla morte di Polo
Grassi nel 1772 con un’ulteriore
fase costruttiva.
FIG. 14
GIORGIO FOSSATI
(da LORENZO BOSCHETTI)
Progetto per palazzo
Venier dei Leoni,
incisione
La pianta del progetto è legata alla tradizione veneziana
con una scala principale a due rampe.
Non può mancare, a questo punto, l’ultima
grande dimora patrizia sul Canal Grande. Invece di
chiarire le vicende, le vaghe notizie intorno alla costruzione
di Palazzo Grassi (fig. 16) sollevano problemi
non indifferenti. Iniziato nel 1748 e apparentemente
compiuto dieci anni dopo, lo stabile conobbe nel 1766,
secondo il diario di Piero Gradenigo, un non meglio
specificato “aumento di fabrica all’interno” [36] . Nello
stesso anno mancò a vivi anche Giorgio Massari, a
cui la fabbrica è tradizionalmente ascritta. Il largo
sito cuneiforme dilatato verso Canal Grande permise
di organizzare la mole intorno a un cortile quadrato,
introdotto da un atrio sostenuto da colonne.
Considerando la pianta del pianoterra e il leggero rientro
della fabbrica verso la calle divisoria occidentale, si
può ragionevolmente supporre che il progetto primitivo
di Massari prevedesse una loggia aperta sul lato
settentrionale, del tutto simile a quella tramandata dal
modello di palazzo Venier dei Leoni. Una veduta di
Francesco Guardi (fig. 17) conferma anche la profondità
ridotta del palazzo fino all’“aumento” del 1766 con
cui si aggiunse lo scalone reale a tre rampe in asse con
l’ingresso acqueo, nonché in varie stanze [37] . In effetti,
il lungo percorso di rappresentanza dal Canal Grande
non è privo di frizioni, poiché al piano nobile il visitatore
è costretto ad attraversare varie stanze intorno
al cortile per giungere fino al salone a doppia altezza
sul Canal Grande, dissimulato in facciata dai parapetti
delle finestre del secondo piano [38] . Alla luce della cronologia
e di alcuni elementi stilistici, lo scalone appare
attribuibile a Filippo Rossi.
Come il prospetto di palazzo Venier dei Leoni,
anche quello di Palazzo Grassi è una ricomposizione di
motivi cinquecenteschi. A parte il motivo delle finestre
timpanate ritmate da coppie di lesene, derivato dal
vicentino palazzo Civena Trissino al ponte Furo (che,
a sua volta, richiama il bramantesco palazzo Caprini
230 —GENERI E TEMI —
— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 231
FIG. 15
VINCENZO SCAMOZZI
Progetto per un secondo
palazzo Corner a San
Maurizio, da L’idea della
architettura universale di
Vincenzo Scamozzi architetto
veneto divisa in X libri,
Venezia 1615
FIG. 16
GIORGIO MASSARI
Venezia, palazzo Grassi,
facciata
FIG. 17
FRANCESCO GUARDI
Veduta del Canal Grande
presso San Samuele.
Collezione privata
FIG. 18
[39]
), l’invenzione di Massari trasporta piuttosto l’eredità
di Vincenzo Scamozzi, ampiamente diffusa fra gli
architetti attraverso le solite pubblicazioni, anziché i
modelli di Andrea Palladio. Un semplice confronto
con i due progetti per palazzi veneziani pubblicati nei
Quattro libri e con il progetto di una facciata di ordine
gigante recentemente assegnato al veneziano palazzo
Zen ai Frari [40] rivela che il gusto neocinquecentesco
di Boschetti, Rizzi e Massari in realtà ha poco in
comune con le idee con cui Andrea Palladio volle riformare
l’architettura civile veneziana due secoli prima.
Si giunge a un unicum nel panorama veneziano,
palazzo Montealegre a San Geremia. Sebbene
il nome del committente sia stato fornito già dalla letteratura
ottocentesca [41] , la storiografia moderna continua
ad appellare il palazzo con nomi fuorvianti [42] .
Al tramonto poco felice di una carriera politica notevole,
José Joaquin marchese di Montealegre e duca di
Salas, già primo segretario di stato dei regni di Napoli
e Sicilia, divenne nel 1749 ambasciatore spagnolo a
vita presso la Serenissima [43] . Solo nel 1757 acquistò il
fatiscente palazzo già Frizier e Zen in Lista di Spagna,
servendosi di un prestanome illustre, la marchesa
Isabella Soresina Vidoni, nata principessa Rasini [44] .
Non sono finora emerse notizie più precise intorno
alla nuova costruzione, conclusa senz’altro alla morte
del duca nel 1771 [45] . Precisata l’identità dell’illustre
committente, peraltro organizzatore del viaggio di
Giambattista Tiepolo in Spagna, non può sorprendere
che la dimora sia estranea a qualsiasi modello veneziano,
ma bensì ispirata all’architettura civile dell’Italia
meridionale di dominio spagnolo. Questo si riscontra
in particolar modo nel complesso scalone aperto,
caratterizzato dall’impiego di archi mistilinei rococò
sorretti da colonne, e affrescato sulle pareti con architetture
illusionistiche [46] . Un siffatto caso di importazione
culturale in un contesto di committenza “internazionale”
era un avvenimento raro in un ambito autoreferenziale
come Venezia.
La scala di palazzo Montealegre naturalmente
non poteva sfuggire alle censure insofferenti
del pittore, incisore e architetto Antonio Visentini
(1688-1782). Nel suo trattato dedicato agli “errori
degli architetti” del 1771, il manufatto venne definito
37 _ Olio su tela, cm 33,5x52.
Ringrazio Alberto Craievich
per avermi segnalato questo
quadro. Pur non essendo
completamente affidabile nei
dettagli architettonici, sembra
anche attestare una successiva
trasformazione del portale
d’acqua in forma della serliana
tuttora esistente.
38 _ Lecito chiedersi, a
questo punto, se questo
salone, arduo per quanto
riguarda la costruzione, non
sia frutto della demolizione
di un solaio intermedio e
pertanto influenzato dalla
ristrutturazione di palazzo
Bon Rezzonico effettuata,
per quanto pare, dallo stesso
Massari a partire dal 1750.
39 _ Per palazzo Civena, cfr.
la relativa scheda in L. Puppi,
D. Olivato, Andrea Palladio,
Milano 1999, pp. 242-245.
40 _ Cfr. J.-C. Rössler, “Un
palazzo imaginato certamente
per Venezia”. Considerazioni
sul disegno palladiano D. 27 di
Vicenza, “Ricche minere”, a. 4,
n. 7, pp. 53-59.
ANTONIO VISENTINI
Scalone di palazzo
Montealegre, da Osservazioni
di Antonio Visentini …,
Venezia 1771
41 _ G. Tassini, Alcuni palazzi
ed antichi edificii di Venezia
storicamente illustrati, Venezia
1879, pp. 37 sgg.
42 _ La dicitura “palazzo Zeno”
è ormai diventata comune. Vedasi
ultimamente Lenzo 2012, p. 149.
43 _ Su Montealegre si veda
G. Stiffoni, Per una storia dei
rapporti diplomatici tra Venezia
e la Spagna nel Settecento,
“Rassegna iberistica”, 27, dic. 1986,
pp. 3-30, in particolare p. 24.
44 _ ASVe, Notarile, Atti, R.
4145, not. Giuseppe Comincioli,
cc. 458v sgg, n. 437, 16 febbraio
1756 more veneto; R. 4146,
not. Giuseppe Comincioli,
c. 788r, n. 285, 11 agosto
1757. La marchesa Soresini
è anche una degli esecutori
testamentari di Montealegre:
ASVe, Notarile, Testamenti, b.
1025, not. Ferdinando Uccelli,
cedole, n. 17 (25 aprile 1771).
Il “palazzo detto di Spagna”
rimase alla famiglia fino al 1853,
quando fu acquistato dal conte
Giambattista Sceriman per
l’Istituto Manin: ASVe, Notarile
II Serie, b. 1469, not. Luigi
Dario Paulucci, n. 2253.
“assolutamente fuor di regola, e stravagante”, con
“arcate bizzarre, e forestiere” e balaustri obliqui che
invece “convien piantargli diritti” [47] . Oltre alle critiche
estenuanti, Visentini ci ha lasciato due edifici sul
Canal Grande che rispecchiano le richieste divergenti
dei committenti. Tra questi figura il console inglese
Joseph Smith, strettamente legato a Visentini per via
di Canaletto. Un’occasione unica per materializzare
le proprie norme di purezza, alla ricerca di una “perfezione”
da contrapporre alle “deformità, bizzarrie, e
licenze viziose” passate e presenti [48] . La “bella facciata
marmorea in bocco del rio sopra Canal Grande” (così il
diario di Piero Gradenigo) di palazzo Smith fu svelata
il 22 ottobre 1751 [49] (fig. 19). Una sopraelevazione per
opera di Gianantonio Selva nel penultimo decennio
del secolo comportò la perdita della terrazza scoperta
[50]
, nonché l’aggiunta di frontoncini alle finestre del
terzo piano superiore. Ironia della sorte: era proprio
l’esponente più stimato del Neoclassico veneziano
a manomettere irrimediabilmente la proporzione e
l’idea compositiva del prospetto in cui si preannunciava
con chiarezza lo stile a venire. La disposizione
interna tripartita è palesata in facciata mediante lesene
corinzie binate. In confronto con palazzo Grassi,
dove questo motivo fu impiegato proprio nello stesso
periodo (come si è detto), la soluzione adoperata di
Visentini si svincola dal modello palladiano in favore
dell’impostazione diretta sulla fascia marcadavanzale e
la forte coesione con le finestre timpanate.
Di un tono assai minore è la casa del conte
Camillo Coletti a San Felice, incominciata nel 1766
e portata a termine molto dopo (fig. 20). Si tratta di
uno stabile diviso in appartamenti sopra un sottoportico
pubblico; ragione per cui il pianoterra si apre
con quattro portali. A parte questa peculiarità, la casa
è emblematica di una nuova tipologia di abitazioni
che nella seconda metà del secolo acquistò un’importanza
sempre maggiore. Ne dà testimonianza, ad
esempio, lo stabile in due appartamenti e terrazze
sulla riva del Vin, eretto dal 1772 al 1776 per il conte
Marco Garganego [51] . A differenza dei grandi palazzi
delle famiglie di antica o recente nobiltà veneta, i ricchi
parvenus, sovente di origine dalmata, preferivano
case comode apparentemente modeste e con vani di
dimensioni contenuti.
“Mancano li dinari. È passato il tempo in cui s’allargava
la mano per l’erezione delle chiese. Ora si spende
solo e prodigamente si spende nell’erezione di teatri. Il
celebre pseudo architetto Maccarucci ne ha eretto uno
in Mestre che, quantunque sia un aggregato di spropositi,
ha riportato l’universale applauso” [52] . L’acidità di
queste esternazioni di Temanza del 1779 non era solo
dovuta al successo del detestato concorrente Bernardino
232 —GENERI E TEMI —
— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 233
FIG. 19
FIG. 21a
ANTONIO VISENTINI
Venezia, palazzo Smith,
facciata
FIG. 20
TOMMASO TEMANZA
Progetto per un teatro in |
calle del Ridotto, planimetria
del primo piano.
Venezia, Museo Correr,
Biblioteca
Maccaruzzi, ma è da considerare alla luce di un proprio
progetto fallito. Intorno al 1755 Temanza era stato chiamato
da Andrea Memmo e Vincenzo Pisani a presentare
disegni per un teatro da erigersi in calle del Ridotto, con
affaccio sul Canal Grande. Come il palazzo di Pisani di
Santa Maria Zobenigo, anche questo progetto rimase
sulla carta 531] . Dal materiale grafico fortunatamente
conservatosi (fig. 21a,b) si evincono non solo le difficoltà
inerenti alla forma del sito, ma anche i limiti del
progettista. La larghezza mediocre limitò le dimensioni
della sala teatrale, mentre la concentrazione del ridotto
e dei relativi vani secondari nella parte posteriore produsse
necessariamente percorsi lunghissimi. Stupiscono
la concentrazione dei collegamenti verticali principali
nella zona centrale, l’accanirsi su un rigore geometrico
con muri perpendicolari, la scelta di un perimetro quadrato
per la sala teatrale, che veniva a comportare palchi
inutilmente lunghi, e infine una facciata cieca dovuta
all’orientamento del fondo di palcoscenico verso Canal
Grande.
Mentre i due committenti sembrano essersi
accontentati di siffatti difetti, la giuria del concorso
per il nuovo teatro La Fenice indetto nel 1789 insisteva
soprattutto sulla funzionalità acustica, visuali e sugli
aspetti costruttivi delle proposte, astenendosi quasi
interamente di considerazioni stilistiche. I ventinove
partecipanti, provenienti da varie parti d’Italia, dovevano
affrontare un sito irregolare e difficile, esteso tra
campo San Fantin e un nuovo rio appositamente scavato.
Di tre dei quattro progetti finali scelti dalla commissione
sono pervenuti i disegni [54] . Conviene limitarsi
ai contributi di Pietro Bianchi e Giannantonio
Selva, rappresentanti di due correnti culturali contrapposte:
il primo vicino ai modi di Maccaruzzi, il secondo
allievo di Temanza e appoggiato da Andrea Memmo,
discepolo di Lodoli. Per Bianchi, il teatro doveva inserirsi
nel tessuto urbano, poiché Venezia, già ornata di
capolavori cinquecenteschi, “non abbisogna di prospetti
che l’abbeliscano” [55] . Nel progetto di Selva
invece, anche l’esterno del palcoscenico è elevato a una
ANTONIO VISENTINI
Venezia, casa Coletti,
facciata
45 _ V. Fontana, Venezia:
trasformazioni delle residenze
signorili fra ’600 e ’700, in L’uso
dello spazio privato nell’età
dell’Illuminismo, a cura di G.
Simoncini, Firenze 1995, 1, pp.
141-164, in part. p. 157.
46 _ Lenzo 2012, p. 149, ha
voluto recentemente collegare
il manufatto a un progetto di
Filippo Juvarra per il Palazzo
Reale di Madrid del 1735, reso
noto nel Veneto nel 1753.
47 _ A. Visentini,
Osservazioni di Antonio
Visentini architetto veneto che
servono di continuazione al
trattato di Teofilo Gallaccini
sopra gli errori degli architetti,
Venezia 1771, p. 126.
48 _ Visentini 1771, p. 141.
49 _ Per la storia, cfr. F.
Montecuccoli degli Erri,
Il console Smith. Notizie e
documenti, “Ateneo Veneto”,
N.S., 33, 1995, pp. 111-181,
in particolare pp. 139-156,
165-167. In realtà il prospetto è
intonacato a marmorino.
50 _ Bassi 1971, p. 16;
Brusatin 1980, p. 232.
51 _ ASVe, Notarile, Atti, b.
4715, not. Giuseppe Cavanis, cc.
621v sgg, n. 273 (13 settembre
1790).
52 _ Lettera di Temanza
a Selva riportata in Favilla,
Rugolo 2004-2005, p. 270.
53 _ L. Olivato, Progetti di
teatri, in Le Venezie possibili
1985, pp. 122-125, qui p. 123.
54 _ Cfr. N. Mangini, I teatri
di Venezia, Milano 1974, pp.
165-171.
55 _ M.I. Biggi, Il concorso
per la Fenice 1789-1790, Venezia
1997, p. 155. Per il contributo
di Bianchi, cfr. la scheda di L.
Olivato in Le Venezie possibili
1985, pp. 130-132.
FIG. 21b
TOMMASO TEMANZA
Progetto per un teatro in calle
del Ridotto, spaccato.
Venezia, Museo Correr,
Biblioteca
grandiosa monumentalità volta a gareggiare sul piano
architettonico con i grandi teatri di Milano e Napoli.
Non mancarono le malelingue ad attribuire la vincita
di Selva agli ottimi rapporti con due membri della
giuria, Simone Stratico e Benedetto Buratti. Il nuovo
teatro fu portato a termine già nel 1792. Subito l’ottantenne
Francesco Guardi si mise a disegnare la facciata
sul campo San Fantin, trasfigurata da macchie di
ombra (cat. VII.27). In bella vista, sulla facciata di terra,
l’iscrizione che rendeva ragione dell’edificio, eretto per
iniziativa di privati cittadini: “SOCIETAS”, con l’anno
di costruzione “MDCCXCII”. Subito lo spirito caustico
di qualche buontempone sciolse quelle lettere
in “Sine Ordine Cum Irregularitate Erexit Theatrum
Antonius Selva”: senz’altro un simpatico esercizio di
retorica. Ma con un fondo di verità. L’architetto aveva
infatti dimostrato indipendenza rispetto ai modelli
canonici del neoclassicismo: di nuovo una traccia di
quell’originalità che, da sempre, caratterizza l’architettura
veneziana.
234 —GENERI E TEMI —
— MOMENTI DI ARCHITETTURA — 235
CATHERINE
LOISEL
regna un certo decoro, con la maggior parte dei partecipanti,
di varia età, che porta la parrucca: potrebbe trattarsi
di un’accademia pubblica aperta anche ai dilettanti.
La Veneta Accademia di Pittura, Scultura e
Architettura, dapprima guidata da Giambattista
Piazzetta e in seguito da Giambattista Tiepolo, viene
creata solo nel 1750. Eppure questo suo apparente
ritardo rappresentava un vantaggio, più che un ostacolo,
e non impedisce ai maestri veneziani del Settecento
di detenere un ruolo di primo piano oltre i confini del
Veneto e in tutto il territorio europeo, Russia compresa.
In assenza di un insegnamento ufficiale, fiorisce infatti
la diversità stilistica.
FIG. 1
ANTONIO BALESTRA
Allegoria dell’Architettura
con il ritratto di Michele
Sanmicheli.
Innsbruck, Tiroler-
Landesmuseum
(Ferdinandeum)
1 _ C. Whistler, Life Drawing
in Venice from Titian to Tiepolo,
“Master Drawings”, 4, 2004,
p. 384.
2 _ Ead., Venice and drawing,
c. 1500-1800. Theory, Practice
and Collecting, New Haven
2016, p. 396.
3 _ Whistler 2016, p. 58
nota 11.
4 _ Per i disegni di Lazzarini
si veda A. Pasian, Il cimento
dell’invenzione. Studi e modelli
nella grafica veneta del primo
Settecento, “Arte Veneta”, 66,
2006, pp. 65-83.
5 _ A. Ravà, G.B. Piazzetta,
Firenze 1921, p. 55.
GENERI
E TEMI
DISEGNARE
A VENEZIA
NEL SETTECENTO
Singolare sotto ogni punto
di vista, la Serenissima lo è anche nelle sue tradizioni
artistiche, a partire dall’ambito dell’insegnamento. Nel
Settecento, mentre nella maggior parte delle principali
città i pittori sono già riusciti a far riconoscere il carattere
intellettuale della loro arte ottenendo la creazione
di un’Accademia ufficiale, gli artisti veneziani risultano
ancora riuniti nel Collegio dei Pittori, istituito nel 1682,
dopo la separazione dall’Arte dei Depentori, e guidato
da Pietro Liberi che teneva lezioni di nudo prima a San
Samuele e in seguito alle Fondamenta Nuove [1] . Lezioni
di disegno di nudo maschile e femminile sono attestate
nel Seicento presso le botteghe degli artisti. Gregorio
Lazzarini frequenta l’Accademia di Pietro della Vecchia
[2]
, mentre la Scuola del nudo di Piazzetta è documentata
a San Zulian solo nel 1722. L’Accademia del nudo, celebre
disegno di Giambattista Tiepolo [3] , rappresenta un
gruppo di artisti dinanzi a un modello in posa. Nella sala
Nel Medioevo e, in modo più evidente, nel
Rinascimento, il quadro essenziale della vita artistica è
ancora limitato agli atelier di famiglia. Chi non è nato
in una famiglia di pittori o scultori e rivela talento e
vocazione precoci entra nelle botteghe dei maestri che
dominano la scena artistica dell’epoca. Dopo Bellini,
Bassano, Caliari e Robusti, tale meccanismo continua
per tutto il Seicento e ancora nel Settecento, con il caso
di Giambattista Tiepolo. L’apprendistato del mestiere è
quindi svolto in uno o più studi di primo piano: Paolo
Pagani per Gianantonio Pellegrini, Antonio Molinari
per Piazzetta, Gregorio Lazzarini [4] per Giambattista
Tiepolo. L’assenza di corsi ufficiali sulle teorie artistiche
viene compensata dalla presenza di vere e proprie
accademie private. Non solo: i giovani artisti viaggiano,
completando in questo modo la loro formazione.
Ecco quindi Sebastiano Ricci che si reca a Bologna e in
seguito a Parma, dove conosce l’eredità di Correggio,
dei Carracci e di Guido Reni, probabilmente lavorando
presso la bottega di Carlo Cignani. Anche Federico
Bencovich trascorre qualche anno a Bologna, così
come Giambattista Piazzetta. Il suo ingresso all’Accademia
Clementina, nel 1727 [5] , sancisce il suo avvicinamento
alle pratiche dell’insegnamento accademico.
Per Giambattista Tiepolo è determinante il soggiorno
a Verona, dove entra in contatto con il grande erudito
Scipione Maffei che lo introduce allo studio dell’Antichità.
Ma cosa devono realmente apprendere questi
giovani pittori? Disegnare nudi e drappeggi; esprimere
le emozioni attraverso le attitudini del corpo e la vibrazione
dei tratti del viso; organizzare la composizione
donandole l’effetto prospettico e variandone i punti di
—DISEGNARE A VEBEZIA NEL SETTECENTO— 237
vista. Queste sono le tecniche che vengono quotidianamente
praticate in una bottega.
A Venezia, così come a Bologna e a Verona, le
collezioni private di disegni non mancano, e non è probabilmente
nemmeno tanto difficile riuscire ad accedervi.
La collezione di Nicolò Sagredo, arricchita poi
dal nipote Zaccaria [6] , è organizzata in album che somigliano
a fogli d’artista, più o meno ben identificati: i
disegni di Veronese, Bassano, Palma il Giovane, Strozzi
e alcuni contributi emiliani, perché nel 1728 Zaccaria ha
acquisito la Collezione Bonfiglioli, di origine bolognese.
Seguendone l’esempio, anche Anton Maria Zanetti realizzerà
alcuni album. A Bologna, il ricordo di Carracci
e Guercino è ancora molto vivo negli atelier di Carlo
Cignani, Marcantonio Franceschini, Giovanni Antonio
Burrini, Giovanni Gioseffo dal Sole, e in tutte quelle collezioni
private che nel primo decennio del Settecento
non sono ancora irrimediabilmente disperse. Crozat
acquisisce il gabinetto d’arte Muzelli di Verona durante
il suo viaggio del 1714-15, ma esistono all’epoca ancora
fondi accessibili, tra cui i disegni di Farinati. Come
ai tempi di Tintoretto, la collezione archeologica di
Venezia resta sempre una fonte molto importante per
quanto riguarda il disegno dall’Antico. Nell’affresco del
Giudizio di Salomone, conservato nel Palazzo Patriarcale
di Udine, Giambattista Tiepolo ritrae un personaggio
secondo i tratti del busto antico di Vitellio già studiato
con attenzione in disegni multipli da Jacopo Bassano
e dalla bottega di Tintoretto, come testimoniato dai
numerosi disegni conservati. Una collezione di fogli
quasi esclusivamente veneziani, detta “Reliable Venetian
Hand”, realizzata da un appassionato conoscitore, non è
ancora stata identificata [7] .
I veneziani adottano tutti i registri grafici e
le tecniche allora note, fino all’incisione di illustrazioni,
praticata con successo, tra gli altri, da Piazzetta e
Tiepolo, i quali realizzano disegni ben rifiniti, preparatori
per opere di rilievo. Tiepolo esegue di propria mano
alcune incisioni, ma la visione onirica, decisamente personale,
che caratterizza i suoi Scherzi verrà resa pubblica
solo dopo la morte dell’artista. E infine non dobbiamo
dimenticare la caricatura. Se si eccettua il ritratto del
duca Ranuccio Farnese, realizzato da Sebastiano Ricci
durante il soggiorno a Parma e nel quale il soggetto è
descritto senza mezzi termini come un personaggio
goffo e in carne, nel foglio della collezione Mariette
conservato a Darmstadt [8] , l’opera dell’artista non
conserva altre testimonianze del genere. Per contro, i
fondi contenenti le caricature di Anton Maria Zanetti e
Giambattista Tiepolo rappresentano validi riferimenti,
che fanno da apripista al repertorio di Giandomenico
Tiepolo.
I MAESTRI ATTIVI INTORNO AL 1700: DORIGNY,
BALESTRA, RICCI _ All’inizio del secolo, la scena
è dominata da una generazione di artisti che hanno
ormai terminato l’apprendistato: si tratta di Ludovico
Dorigny, Antonio Balestra e Sebastiano Ricci, disegnatori
fecondi, la cui produzione rivela una grande diversità
di fonti d’ispirazione. Tutti hanno diffusamente
viaggiato e frequentato ambienti culturali lontani.
Dorigny, nipote di Simon Vouet, ha studiato a Parigi,
presso la scuola di Charles Le Brun, prima di recarsi a
Roma, dove si iscrive al concorso dell’Accademia di San
Luca del 1673. Porta quindi con sé a Verona e Venezia
un bagaglio internazionale alquanto accademico, che
tuttavia non gli impedisce di inventare scene grandiose,
sorprendenti per la composizione decentrata e
le figure oblique, che avranno poi una certa influenza
sul giovane Tiepolo. I suoi disegni di nudo maschile,
realizzati con matita rossa e pietra nera e conservati al
Museo di Castelvecchio [9] , sono caratterizzati da una
tensione delle linee e da un gioco di chiaroscuri che
rivelano la futura monumentalità dei dipinti. Il repertorio
spazia dal minuscolo disegno preparatorio per le
incisioni ai modelli perfettamente rifiniti con lumeggiature
a guazzo e acquarello per le decorazioni dei soffitti,
come nel caso della chiesa veneziana degli Scalzi, dove
nel 1716 decora la cappella Manin, o di villa Allegri, a
Cuzzano di Grezzana.
Il veronese Balestra termina la propria formazione
a Roma, nella bottega di Carlo Maratti, dove
pratica il disegno dal vero e si cimenta nella copia delle
opere dei Maestri del Rinascimento. Riceve il premio
dell’Accademia di San Luca nel 1694 e conserverà per
tutta la sua vita l’abitudine di tracciare le figure principali
dei suoi quadri su fogli di grande formato con matita
rossa o pietra nera, lumeggiandole poi a gessetto bianco,
in uno stile molto ricercato e sensuale. Particolarmente
6 _ L. Borean, S. Mason, Il
collezionismo d’arte a Venezia.
Il Settecento, Venezia 2009.
Whistler 2016, p. 223.
7 _ A. Bettagno, Disegni di
una collezione veneziana del
Settecento, Venezia 1966.
8 _ Inv. AE 1965. Riprodotto
da E. Lucchese, L’Album di
caricature di Anton Maria
Zanetti alla Fondazione Giorgio
Cini, Venezia 2015, fig. 3, pp.
2, 5.
9 _ Louis Dorigny 1654-
1742. Un pittore della corte
francese a Verona, catalogo
della mostra (Verona, Museo
di Castelvecchio) a cura di G.
Marini, P. Marini, Venezia 2003,
catt. 53-54.
10 _ Inv. MG D 339. S.
Marinelli, in Venise, l’art de la
Serenissima, a cura di C. Loisel,
Montreuil 2006, cat. 55.
11 _ B.W. Meyer, Disegni di
Antonio Balestra, “Arte Veneta”,
60, 2003, pp. 88-111.
12 _ Antonio Balestra nel
segno della grazia, catalogo
della mostra (Verona, Museo
di Castelvecchio) a cura di A.
Tomezzoli, Verona 2016.
13 _ P. Delorenzi in Antonio
Balestra… 2016, p. 124.
14 _ Ivi, fig. 1, p. 4.
15 _ A. Rizzi, Sebastiano Ricci
disegnatore, Udine 1975, cat. 1.
16 _ Le copie di Ricci da
Watteau sono conservate a
Windsor Castle e provengono
dall’album di disegni del console
Smith. P. Rosenberg, L.-A. Prat,
Antoine Watteau 1684-1721.
Catalogue raisonné des dessins,
Milano 1996, cat. 440.
17 _ Inv. 14271, il demone
potrebbe introdurre a uno dei
quadri di Épinal. Venise, l’art
de la Serenissima 2006, cat. 48
con cronologia e bibliografia
antecedente.
18 _ Nationalmuseum
Stockholm, inv. NM 1530/1863.
Il disegno reca un’annotazione
a mano di Crozat: “Del Sigr
Sabastian Rizzi ma est donné
par il Sigr Ant° Maria Zanetti
quondam Gerolim/ mearquant
a Venise tres fameux dilectant”.
C. Loisel, in Un Suédois à Paris
au XVIIIe siècle, La collection
Tessin, Paris 2016, cat. 72.
19 _ Si veda V. Poletto in La
vita come opera d’arte. Anton
Maria Zanetti e le sue collezioni,
catalogo della mostra (Venezia,
Ca’ Rezzonico, Museo del
Settecento veneziano) a cura
di A. Craievich, Crocetta del
Montello 2018.
FIG. 2
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Foglio di studio con monaco
che legge.
Innsbruck, Tiroler-
Landesmuseum
(Ferdinandeum)
esemplificativo di questo aspetto è il Doppio studio per
i santi Pietro d’Alcantara e Giovanni da Capistrano,
conservato al Musée de Grenoble [10] . Una raccolta di
disegni ora al Kupferstichkabinett di Dresda [11] riunisce
diversi studi di particolari per figure, che permettono
di comprendere il suo metodo di lavoro molto organizzato
e le nozioni che in seguito insegnerà nel corso
accademico tenuto a Venezia dal 1695 al 1718. Per contro,
i fondi di bottega che si trovano presso la Biblioteca
Palatina di Parma riguardano la preparazione delle incisioni
per l’illustrazione [12] , aspetto non trascurabile della
sua attività, per la quale ha dimostrato una ricerca del
perfezionismo testimoniata dai numerosi studi di composizione
(fig. 1) per l’incisione dell’Allegoria dell’Architettura
con il ritratto di Michele Sanmicheli, antiporta
del volume Li cinque ordini dell’architettura civile di
Michel Sanmicheli… pubblicato dal conte Alessandro
Pompei nel 1735 [13] . I suoi disegni di gruppo, realizzati
a penna o a lavis, talvolta lumeggiati con guazzo bianco,
sono conosciuti e apprezzati dai collezionisti più esigenti,
come Pierre Crozat, che possedeva l’Ercole portato
nell’Olimpo da Mercurio e Minerva attualmente al
Nationalmuseum di Stoccolma [14] . Pensando alla presenza
prolungata di questi due artisti veronesi a Venezia,
e all’insegnamento che vi tiene Balestra, è indubitabile
che i loro disegni fossero conosciuti dai giovani apprendisti.
Da quelli, per esempio, che frequentavano la bottega
di Gregorio Lazzarini.
Per quanto riguarda Sebastiano Ricci, è difficile
stabilire in quale momento la sua attività grafica sia
divenuta accessibile agli artisti e agli appassionati veneziani.
Il suo primo disegno identificato è uno studio dal
Veronese [15] , fonte d’ispirazione che sarà per lui particolarmente
importante a partire dal 1700, quando lavora
per la chiesa di San Sebastiano. Dopo gli anni di formazione
a Venezia, il suo stile evolve in funzione dei viaggi
che compie: Bologna, Parma, Firenze, luogo quest’ultimo
dove ha potuto certamente studiare i disegni di
Pietro da Cortona e Volterrano. Durante il soggiorno
parigino viene profondamente segnato dalla visita all’atelier
di Antoine Watteau. Copia così i suoi disegni,
riproducendo con grande precisione persino la messa in
pagina [16] , e mette a punto uno stile d’ispirazione parigina
in alcuni fogli di studio, come quello conservato al
Louvre e appartenuto a Pierre Crozat, dove raggruppa
svariate figure femminili eleganti e un bambino, accostati
a un demone in volo piuttosto insolito che ricorda
Magnasco [17] .
Si può ugualmente supporre che abbia disegnato
a Parigi il Portrait d’une actrice de la Comédie Italienne,
pietra nera e pastello su carta blu, disegno donato da
Zanetti a Crozat [18] e attualmente al Nationalmuseum
di Stoccolma. Il corpus grafico di Sebastiano, composto
da diverse centinaia di disegni, si è fortunatamente conservato
grazie ai volumi riuniti da Anton Maria Zanetti
e dal console Smith [19] . La sua opera ci sorprende sempre
per la virtuosità di esecuzione, la varietà di tecniche
238 —GENERI E TEMI —
—DISEGNARE A VEBEZIA NEL SETTECENTO— 239
impiegate e l’apparente facilità con cui realizza composizioni
con più personaggi. Dietro a questa rapidità
inventiva si percepisce una lettura assidua dei maestri
del passato, in particolare del Veronese, e degli artisti a
lui coevi. Una Figura di dignitario dell’album dell’Accademia,
realizzata a matita rossa [20] , sembra rimandare
all’eleganza dei disegni di Francesco Solimena.
PIAZZETTA _ Personalità artistica davvero originale,
Piazzetta è figlio di uno scultore rinomato. Dopo
l’apprendistato presso Antonio Molinari, il soggiorno
a Bologna, dove conosce l’opera di Giuseppe Maria
Crespi, lo inizia all’incessante lavoro grafico caratteristico
della scuola bolognese. Il corpus delle sue opere è
davvero impressionante e comprende disegni di nudo,
teste espressive, attenti studi delle figure per i dipinti,
disegni preparatori per le incisioni. Anche se sono giunti
a noi pochi disegni d’insieme per le sue composizioni [21] ,
gli studi preparatori per le figure isolate sono numerosi
e permettono di comprendere il suo metodo di lavoro,
che si potrebbe qualificare come tradizionale. Dopo aver
definito la messa a punto generale studia ogni elemento
separatamente, tracciandolo con la pietra nera e talvolta
ricorrendo a importanti lumeggiature a gessetto bianco:
Il giovane uomo con bastone, del British Museum, è preparatorio
a uno degli ovali di Salisburgo; l’Angelo in
volo di Cleveland è destinato a comparire nella Gloria
di san Domenico; L’uomo con testa posata sulle mani,
conservato a Francoforte, è preparatorio per lo sfondo
della Pastorale dell’Art Institute di Chicago; Il busto di
giovane uomo del Fogg Art Museum si ritrova in primo
piano nella Passeggiata del Wallraf-Richartz Museum di
Colonia [22] . Un fondo in gran parte inedito proveniente
dalla sua bottega, e conservato al Ferdinandeum di
Innsbruck, completa il corpus dell’artista [23] con diversi
nuovi fogli di studi per le opere dipinte documentate,
come la Susanna e i vecchioni degli Uffizi, e include uno
studio per un particolare della Gloria di san Domenico,
il monaco che legge sullo sfondo del San Francesco in
estasi, in collezione privata (fig. 2), o una testa d’angelo per
L’Adorazione dei pastori, un tempo a Würzburg (fig. 3).
Si può così seguire passo passo l’interesse naturalistico
del maestro, che conferisce ai propri personaggi una
resa carnale disegnandoli direttamente dal modello.
Molto lento nell’esecuzione del proprio lavoro,
l’artista trova una fonte d’introito creando un genere
nuovo, con teste di personaggi e gruppi di figure riportati
su fogli di carta di grande formato, per la maggior
parte di colore blu, e destinati alla vendita, esposti poi
come opere d’arte autonome sotto vetro. Queste composizioni
– raggruppabili nei registri specifici di scene
pastorali idilliache, giovani innamorati, soggetti più
scabrosi come la giovane donna tra un cliente e una
mezzana, o ancora figure isolate, d’ispirazione talvolta
religiosa – sono state molto apprezzate e collezionate,
in particolare dal console Smith e dal maresciallo von
Schulenburg, già quando l’autore era in vita. L’impiego
di una pietra nera molto grassa, simile al pastello, di
gessetto bianco e carta blu, purtroppo spesso ingiallita
in seguito a una eccessiva esposizione alla luce, creano
effetti chiaroscurali monumentali e misteriosi, che rendono
tale produzione particolarmente affascinante. In
essa l’artista adotta per i suoi modelli sempre la medesima
tipologia fisica, allontanandosi così dal naturalismo
dei disegni da modello. Tutti gli allievi e i collaboratori
del Piazzetta hanno cercato di imitare questa
maniera, riprendendo le versioni incise dei disegni e
creando così una certa confusione nella percezione
di queste opere. Un’altra sezione del corpus grafico
dell’artista è legata alla sua collaborazione con l’editore
Giambattista Albrizzi. Si tratta di disegni preparatori,
sempre tracciati a punta di pietra nera e matita rossa su
carta bianca, per le illustrazioni dei libri Les Œuvres di
Bossuet, Il Paradiso Perduto di Milton, La Gerusalemme
Liberata di Torquato Tasso e Il Newtonismo per le dame
di Francesco Algarotti. Tali disegni, caratterizzati da
estrema raffinatezza e tematiche moderne, hanno avuto
un ruolo molto importante nel successo delle edizioni
veneziane. In cambio, Albrizzi ha favorito la fama
dell’artista pubblicando nel 1760 i suoi Studi di pittura,
base dell’insegnamento nella giovane Accademia, che
accompagnano la biografia dell’artista.
LA GRANDE STAGIONE DEL ROCOCÒ:
PELLEGRINI, DIZIANI, PITTONI, GIANANTONIO
GUARDI _ Durante il suo periodo di formazione,
Pellegrini visita l’Europa centrale con il maestro Paolo
Pagani, motivo per cui nelle sue opere giovanili è preponderante
l’influenza del disegno a penna e a lavis
di Pagani, molto fluido e atmosferico. A oggi, un solo
esempio di utilizzo della pietra nera è stato identificato:
si tratta dello studio per Il Banchetto di Cleopatra,
20 _ Ivi, p. 257, cat. 48.
21 _ A. Binion, Two New
Compositional Studies by
Piazzetta, “Master Drawings”,
22, 4, 1984, pp. 431-433.
22 _ G. Knox, Piazzetta,
Oxford 1983 pubblica un elenco
dei disegni preparatori per
alcune figure.
23 _ C. Loisel, pubblicazione
in corso.
24 _ D. Ton, Giambattista
Crosato. Pittore del rococò
europeo, Verona 2012, figg.
92-93.
FIG. 3
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Testa d’angelo.
Innsbruck, Tiroler-
Landesmuseum
(Ferdinandeum)
25 _ G. Knox, in Antonio
Pellegrini, catalogo della mostra
(Padova, Palazzo della Ragione)
a cura di A. Bettagno, F.M.
Aliberti Gaudioso, Venezia
1998, pp. 89-109.
26 _ S. Brink, Genio vigoroso
e originale. Die Zeichnungen
des Antonio Molinari. Museum
Kunst Palast Sammlung der
Kunstakademie Düsseldorf,
Düsseldorf 2005.
27 _ G. Knox, Antonio
Pellegrini 1675-1741, Oxford
1994, fig. 71, p. 83.
28 _ Inv. Nr. 13206. J.
Schewski-Bock, Von Titian
bis Tiepolo, Venezianische
Zeichnungen des 15. bis
18. Jahrhunderts aus der
Graphischen Sammlung im
Städel Museum, Frankfurt am
Main 2006, pp. 108-111.
29 _ V. Toutain Quittelier, Le
Carnaval, la Fortune et la Folie.
La rencontre de Paris et Venise à
l’aube des Lumières, Paris 2017,
pp. 201-203.
30 _ Knox 1994, fig. 153,
p. 186.
31 _ A.P. Zugni-Tauro,
Gaspare Diziani, Venezia 1971.
32 _ Louvre, inv. 18073 e V.
Toutain Quitelier, in Venise, l’art
de la Serenissima 2006, cat. 77,
inv. MGD 340.
33 _ T. Pignatti, Disegni
antichi del Museo Correr di
Venezia, Venezia 1981, II, catt.
421-422.
34 _ Ton 2012, fig. 106, p.
142.
35 _ Per l’identificazione del
“Pittoni brocantor” dell’Album
Zanetti, Fondazione Cini,
con Francesco Pittoni si veda
Lucchese 2015, pp. 226-229.
al Museo Correr, preparatorio per un affresco di villa
Giovanelli [24] . La maggior parte dei disegni conservati [25]
è rappresentata da studi per composizioni pittoriche,
eseguiti a penna e a lavis, raramente all’acquarello. Il
lavoro volutamente allusivo della penna, che evoca le
forme più che descriverle, ha indotto a una certa confusione
con le opere di Gaspare Diziani e di Gianantonio
Guardi, mentre i disegni di Antonio Molinari [26] sono
stati attribuiti per molto tempo a Pellegrini. Qualche
foglio può fungere da riferimento: è il caso del Ratto
d’Europa conservato al Nationalmuseum di Stoccolma
e appartenuto a Pierre Crozat, che può essere messo in
relazione con la decorazione di Burlington House, del
1709, trasportata a Narford Hall nel 1719. Da notare
l’importanza del lavis che dona profondità e volume. La
famiglia di Peter Le Motteux, realizzata a penna e lavis
bruno, del British Museum [27] , e datata al soggiorno
londinese, riesce a evocare una scena d’interno ricca e
molto animata, sebbene gli elementi non siano disposti
secondo una prospettiva corretta. Poco dopo, nel disegno
di Francoforte per una delle pitture destinate alla
decorazione del castello di Bensberg [28] , l’artista riesce
brillantemente a trattare la resa della folla decentrando
la composizione. Il foglio più avvincente del suo corpus
di opere è quello preparatorio per uno dei gruppi
allegorici del soffitto della Banque Royale, Le Génie et le
Commerce en compagnie de l’Invention, di Besançon [29] ,
dove i rilievi a lavis bruno fanno vibrare le figurine alate,
graziose e dinamiche. Pur avendo realizzato molte
opere decorative, la maggior parte delle quali purtroppo
andata distrutta, esistono pochi progetti completi per
una sala. Sotto questo aspetto, il disegno di Dresda per
una parete dello Zwinger [30] è particolarmente prezioso.
Lo stile grafico di Gaspare Diziani [31] , formatosi
presso Sebastiano Ricci, è ben noto grazie a Zaccaria
Sagredo, che ha riunito in volume molti dei suoi disegni,
in gran parte conservati nel fondo Molin del Museo
Correr. L’eclettismo dell’artista si esprime nella scelta di
varie tecniche, dalle composizioni d’insieme a penna
ombreggiata a lavis di matita rossa e a lavis bruno fino
alla pietra nera per gli studi di figure isolate [32] . Dezallier
d’Argenville ne possedeva alcuni begli esemplari, come
L’ingresso di Gesù a Gerusalemme, del Louvre. Si sono
fortunatamente conservati anche progetti per l’allestimento
di feste [33] . L’America della Kunsthalle di Brema
è stata messa in relazione con l’allestimento per le
Quarantore eseguito in collaborazione con Alessandro
Mauro a San Lorenzo in Damaso, su commissione del
cardinale Pietro Ottoboni [34] .
Allievo dello zio Francesco [35] , Giambattista
240 —GENERI E TEMI —
—DISEGNARE A VEBEZIA NEL SETTECENTO— 241
Pittoni è profondamente influenzato da Ricci e
Pellegrini, ma il suo corpus grafico si distingue per
il rigore formale e la severa disciplina. Il suo corpus è
composto da numerosi studi di particolari [36] , realizzati
a matita rossa e spesso molto raffinati, come quello
conservato al Louvre [37] e appartenuto a Mariette (fig.
5), che descrive accuratamente accessori ricercati, gioielli
e turbanti; da disegni d’insieme molto curati, il cui
raffronto con le opere dipinte evidenzia effettivamente
poche varianti – è il caso del disegno di Brera per il San
Girolamo, san Pietro di Alcantara e un altro santo francescano
oggi a Edimburgo [38] , realizzato con una tecnica
complessa e colorata: matita rossa, lavis di matita rossa,
lumeggiature di guazzo bianco –; infine da composizioni
molto rifinite, per le quali mette in opera tutte le
risorse della matita rossa (appuntita, sfumata, ripassata
a pennello), come gli esempi del Louvre [39] , lo Studio
di vegliardo seduto della Fondazione Cini [40] , o ancora
il San Giuseppe dell’Ashmolean Museum, preparatorio
per diverse versioni identiche della Natività [41] , tutti
disegni a lungo ritenuti copie da dipinti, tanto sono precisi
e identici alla versione finale.
Anche Gianantonio Guardi, impiegato come
copista presso il maresciallo von der Schulenburg, è stato
un grande pittore e un notevole disegnatore. Nel suo
studio preparatorio per Il Cristo e i pellegrini di Emmaus,
di Andelys, conservato a Francoforte [42] , utilizza con
brio la carta bianca per illuminare la scena e suggerire l’emozione
delle figure, a partire da qualche tratto di lavis
realizzato a pennello e con un dinamismo stupefacente.
La serie dei Fasti veneziani, pur ispirata alle pitture documentate,
manifesta tutta la personalità dell’artista [43] .
Altri importanti rappresentanti del Rococò veneziano
non hanno invece lasciato tracce della loro attività
grafica: è il caso di Jacopo Amigoni, di cui esistono
studi di ritratti, spesso erroneamente identificati [44] ,
e qualche grisaille preparatoria per le incisioni pubblicate
congiuntamente a Giuseppe Wagner [45] . Per quanto
riguarda Giambattista Crosato, il cui corpus pittorico è
36 _ A. Perissa Torrini,
Disegni di Giovan Battista
Pittoni, Gallerie dell’Accademia
di Venezia, Milano 1998.
37 _ Studio di particolare
per il dipinto Giuda e Tamar,
noto attraverso l’incisione
di F. Berardi, invertito, Zava
Boccazzi 1979, fig. 116, cat. D 5.
38 _ F. Zava Boccazzi,
Pittoni, l’opera completa,
Venezia 1979, fig. 133, cat. D- 3.
39 _ Elie sur un char de feu,
inv. 5473 ; Toutain-Quittelier,
in Venise, l’art de la Serenissima
2006, cat. 73 e Saint Antoine
de Padoue avec l’Enfant Jésus,
inv. 5276.
40 _ Zava Boccazzi 1979,
n. D.31.
41 _ Ivi, n. 89, 163, 118 e n.
247 e 18.
42 _ Éblouissante Venise,
les Arts et l’Europe au XVIII e
siècle, catalogo della mostra
(Paris, Grand Palais, Galleries
nationales) a cura di C. Loisel,
Paris 2018, catt. 57-58.
43 _ P. Delorenzi in
Capolavori ritrovati della
collezione di Vittorio Cini, a cura
di L.M. Barbero, Venezia 2016,
pp. 64-74.
44 _ Per esempio, i due
disegni del Louvre sono ancora
classificati sotto il nome di
Francesco Guardi: inv. 5466
e 5467.
45 _ A. Scarpa Sonino,
Jacopo Amigoni, Soncino 1994,
pp. 43-45, figg. 19, 20, 21.
FIG. 5
GIAMBATTISTA PITTONI
Testa di vecchio con turbante.
Parigi, Musée du Louvre,
Département des arts
graphiques
46 _ Ton 2012, pp. 135-148.
47 _ Ivi, fig. 97.
48 _ A. Pasian, in Il giovane
Tiepolo. La scoperta della luce,
catalogo della mostra (Udine,
Castello) a cura di G. Pavanello,
V. Gransinigh, Udine 2011.
49 _ Tiepolo e la sua cerchia.
L’opera grafica, catalogo della
mostra (New York; Pierpont
Morgan Library; Cambridge,
Fogg Art Museum) a cura di
B. Aikema, Venezia 1996, II;
A, Pasian in Giambattista
Tiepolo “il miglior pittore di
Venezia”, catalogo della mostra
(Passariano, Villa Manin) a cura
di G. Bergamini, A. Craievich, F.
Pedrocco, Passariano-Codroipo
2012, cat. 53. Per il foglio di
Bassano del Grappa, G. Ericani,
in Ivi, cat. 54.
50 _ Si veda Éblouissante
Venise 2018, pp. 86-92. L’artista
continuerà a utilizzare fogli di
grande formato per tutta la sua
carriera.
51 _ Un’annotazione a penna
tracciata della stessa mano si
trova anche su un disegno di
Pietro Longhi a Berlino, inv.
11697-417-1921: Pietro Longhi
Autografum.
52 _ Tiepolo e la sua cerchia
1996, cat. 7.
53 _ Alessandro e Poro,
Louvre, inv. 13895. Toutain
Quittelier, in Venise, l’art de la
Serenissima 2006, cat. 57.
54 _ Whistler 2016 p. 228,
fig. 210
55 _ Antonio Canova
possedeva un album di disegni
di Giambattista che riuniva
sessantasette studi di gruppo
per la Sacra Famiglia, realizzati
a penna e lavis.
notevole, solo pochi disegni sono stati considerati realmente
autografi da Denis Ton, tra cui Zefiro e Flora [46]
e uno studio di ventaglio [47] rappresentante Il trionfo
di Anfitrite. I fogli assegnati a Crosato dalla “Reliable
Venetian Hand” non sono compresi tra questi.
GIAMBATTISTA TIEPOLO _ Lo studio del corpus
grafico di Giambattista Tiepolo, in gran parte
rimasto nell’atelier dell’artista e passato poi quello
di Giandomenico, quindi disperso dopo la morte di
quest’ultimo nel 1804, è facilitato dal raffronto con
alcuni album pressoché completi che sono rapidamente
passati in collezioni pubbliche. E così gli Album
Cheney sono entrati al Victoria and Albert Museum,
il Fondo Bossi, che riguarda il cantiere della residenza
di Würzburg, è conservato presso la Staatsgalerie di
Stoccarda, mentre l’Album Beurdeley, ora all’Ermitage,
è più composito. Tuttavia, divergenze e incoerenze
risultano nei commenti degli storici riguardanti
da un lato i disegni realizzati dall’artista in giovane età e
dall’altro la collaborazione con Giandomenico a partire
dal 1750. Inoltre, per comprendere ogni fase dell’evoluzione
di Giambattista è necessario non separare i mezzi
che impiega. Le sue scelte – la penna, accompagnata o
meno dal lavis e dal guazzo bianco, o le tecniche a punta
secca, la matita rossa o la pietra nera su carta bianca
oppure blu – obbediscono a considerazioni di ordine
funzionale e non a una cronologia. E così, in uno stesso
giorno, l’artista può essere spinto a utilizzare tecniche
diverse in base al risultato cui ambisce, ma il suo orientamento
stilistico non ne è mai coinvolto.
Nato in una famiglia priva di legami con il
mondo artistico, Tiepolo si forma presso Lazzarini probabilmente
dall’età di quattordici anni, ovvero intorno
al 1710, e inizia ben presto a mantenersi grazie alla sua
attività artistica. I suoi primi disegni con la pietra nera
– scorci di profili e mani contorte – possono essere
posti in relazione con gli Apostoli dell’Ospedaletto [48] .
Provengono da un solo carnet e sono conservati in parte
al Fogg Art Museum e in parte all’Accademia Carrara
di Bergamo. Intorno al 1720 collabora all’edizione del
Gran Teatro di Venezia ovvero raccolta delle principali
vedute e pitture che in essa si contengono, indubitabile
segno del riconoscimento del suo talento. Tra il 1715 e
il 1720 ha modo di osservare attentamente le opere di
Bencovich e soprattutto di Piazzetta. Realizza quindi a
penna studi di corpi riuniti nel medesimo foglio e ambiziosi
disegni di composizioni come L’Annunciazione di
Bassano del Grappa [49] . In seguito, a Verona, disegna
le sculture antiche per La Verona illustrata di Scipione
Maffei. La diversità di procedimenti che utilizza in
questi suoi primi disegni preparatori per i quadri e nei
primi disegni di nudo dimostra la grande curiosità e una
maestria davvero notevole. Non esita poi a riportare le
sue composizioni su fogli di grande formato. È il caso
della Crocifissione del Ferdinandeum di Innsbruck, che
prepara il quadro per la chiesa di Burano del 1722-24,
così come lo studio dello Städelmuseum di Francoforte,
che gli permette di disporre i gruppi di angeli della cappella
del Sacramento del duomo di Udine, un progetto
tratteggiato con la pietra nera e poi lumeggiato all’acquarello
con colori vivaci [50] . Il foglio di Francoforte
è appartenuto allo stesso collezionista [51] dell’Annunciazione
a penna del Fogg Art Museum, uno dei suoi
primi disegni a essere identificato con certezza e realizzato
tra 1718 e 1720 [52] . Sebbene l’impiego dell’acquerello
sia poco diffuso – ma dobbiamo notare che lo si
trova anche in Gianantonio Pellegrini [53] –, l’attenzione
nell’uso del colore sarà una costante della sua opera fino
alla fine della carriera, e l’impiego del lavis di matita
rossa è frequente nei disegni realizzati in giovane età,
per esempio nel Soldato romano a pietra nera, matita
rossa e lavis di matita rossa, conservato a Princeton [54] .
Abbiamo maggiore conoscenza della produzione
grafica di Giambattista realizzata a partire dagli
anni Trenta. Gli studi d’insieme per le composizioni
dipinte sono eseguiti con tratti a penna molto decisi,
lumeggiati con lavis color ocra più o meno intenso, e
sfruttano con grande sapienza il colore bianco della
carta per suggerire la luce. Per gli studi di nudo maschile
sceglie la matita rossa e il gessetto bianco su carta blu.
Gli studi di figure isolate sono realizzati sia con la pietra
nera sia con la matita rossa. Pratica il disegno con
passione e disinvoltura, dando instancabilmente vita a
un mondo immaginario popolato di bellezze sensuali,
spesso esotiche e dai tratti orientali, talvolta minacciose,
realizzando composizioni dalla disposizione inattesa.
Particolarmente illuminante al proposito è la serie che
inscena la Sacra famiglia a penna e lavis in una disposizione
di gruppi diversi e originali, un’audace variazione
sul tema, come se si trattasse di un concerto alla moda
242 —GENERI E TEMI —
—DISEGNARE A VEBEZIA NEL SETTECENTO— 243
di Vivaldi [55] . Molto più intimo è il repertorio ricco di
umorismo dei Pulcinella e delle caricature, vicini a evocazioni
fantastiche e bizzarre che denotano una certa
fascinazione nei confronti dell’occulto, riflettente lo
stile di Magnasco. Una forte espressività drammatica
viene raggiunta in alcuni studi preparatori, come
La testa di vecchio dell’Ashmolean Museum [56] e La
testa di Sant’Agata di Berlino [57] , grazie alla virtuosità
del suo tratto a matita rossa che permette l’accentuazione
di alcuni particolari, per esempio la bocca aperta
di Sant’Agata. Giambattista è ormai chiamato sulla
“Terraferma” e oltre per la decorazione di ville e palazzi
che richiedono un’organizzazione perfetta. L’esempio di
palazzo Clerici a Milano è particolarmente illuminante,
perché i fondi di disegni della Pierpont Morgan Library,
del Metropolitan Museum e del Museo Horne permettono
di seguire l’evoluzione di questo enorme cantiere
[58]
. L’artista gestisce il suo atelier con abilità imprenditoriale
e il disegno occupa una parte non trascurabile
della sua organizzazione. Nel classificare i suoi fogli realizza
un vero e proprio vocabolario di riferimenti che gli
permette di riutilizzarli poi con alcune varianti per altre
decorazioni, senza che i motivi risultino ripetitivi. Così
nella decorazione di palazzo Labia ritroviamo il gruppo
della ragazza e del vecchio concupiscente creato in origine
per il disegno destinato a palazzo Clerici [59] , ora al
Metropolitan Museum.
L’artista fa copiare i propri disegni ad allievi e
figli [60] , che hanno accesso alla collezione di incisioni
da lui raccolta. È così che Giandomenico apprende
come disegnare alla maniera di suo padre e diventa il
suo principale collaboratore intorno al 1747, probabilmente
anche prima. La decorazione della residenza di
Würzburg segna una tappa importante nell’esistenza
della bottega di Tiepolo. Prima di lasciare Venezia,
Giandomenico ha già realizzato il suo primo lavoro personale
con la decorazione dell’Oratorio del Crocefisso
nella chiesa di San Polo, ha verosimilmente preso parte
in modo massiccio all’esecuzione di alcuni dipinti del
padre e, fatto tutto questo, ha mutato in meglio il proprio
status. Dalla fine del 1750 all’autunno del 1753, a
Würzburg, divide il proprio tempo tra l’esecuzione delle
decorazioni della Kaisersaal e della Treppenhaus sotto
gli ordini del padre e progetti personali come la serie
di incisioni della Fuga in Egitto e dipinti di un nuovo
genere, tra cui L’accampamento di zingari di Magonza.
Giambattista è in quel momento all’apice del
successo artistico, i suoi affreschi della Kaisersaal
inscenano episodi della storia di Franconia che si
dipanano intorno alla figura dell’imperatore Federico
Barbarossa, mescolano evocazioni medievali, figure
in costume rinascimentale ed esotismi orientaleggianti
sullo sfondo di un cielo luminoso. Le Allegorie
dei quattro continenti nel fregio soprastante la cornice
dello scalone d’onore affascinano per la loro inventiva.
Dopo la discussione e l’approvazione dei bozzetti
a olio, ogni elemento, dagli studi di gruppi alle
figure isolate, è divenuto oggetto di un disegno preliminare,
prima dell’esecuzione dei cartoni in scala. Un
insieme di disegni a matita rossa lumeggiati con gessetto
bianco su carta blu, conservati alla Staatsgalerie
di Stoccarda, documenta la genesi di diverse di queste
scene. A lungo considerati autografi di Giambattista,
sono stati svalutati e relegati allo status di copie eseguite
da Giandomenico Tiepolo su disegni (perduti)
del padre. A nostro parere la mancata attribuzione è
senza fondamento perché questi fogli meravigliosi
non hanno il carattere di copie e rivelano al contrario
la fecondità e la rapidità inventiva di Giambattista. Per
contro, alcuni studi di figure collegate al fregio dell’Allegoria
dell’Europa, provenienti dall’Album Gatteri del
Museo Correr, sono da attribuire a Giandomenico [61] .
Giambattista non è solo un disegnatore
fecondo, ma anche un prolifico incisore: una serie di
dieci Capricci da lui disegnati e incisi è pubblicata da
Anton Maria Zanetti in due volumi della sua Raccolta
di chiaroscuri, tra 1739 e 1749-51. L’apprezzamento
di Zanetti, che li definisce “di uno spiritoso e saporitissimo
gusto”, sottolinea la sua ammirazione nei
confronti dell’artista. In queste creazioni ritroviamo
il ricordo delle incisioni di Carpioni, Salvator Rosa e
Castiglione, e anche di Rembrandt, le cui opere erano
molto note nella Venezia dell’epoca grazie soprattutto
al console Smith. Per contro, le ventitré acqueforti
degli Scherzi di fantasia, realizzate in epoca successiva,
sono pubblicate da Giandomenico dopo la
morte del padre. Le invenzioni magiche e bizzarre di
Giambattista troveranno poi seguito in Piranesi, che
con probabilità ha frequentato la bottega del Tiepolo.
Tra i suoi disegni tardi, un gruppo di teste di vecchio
eseguite sia a pennello e lavis di matita rossa, sia a olio
[62]
, ha ispirato Fragonard.
56 _ C. Whistler, Drawing
in Venice Titian to Canaletto,
Oxford 2015, cat. 97.
57 _ Éblouissante Venise
2018, p. 190.
58 _ W. Barcham, Tiepolo’s
Pictorial Imagination Drawings
for Palazzo Clerici, New York
2017.
59 _ Ivi, pp. 27-28, fig. 14.
60 _ U. Ohm, Die
Würzburger “Tiepolo-
Skizzenbücher”, Die
Zeichnungen WS 134, 135 und
136 im Martin-von-Wagner-
Museum der Universität
Würzburg, Weimar 2009.
61 _ C. Loisel, A proposito del
“Quaderno Gatteri” del Museo
Correr di Venezia, riflessioni
sul metodo di lavoro nella
bottega dei Tiepolo e sul ruolo di
Giandomenico, in Libri e Album
di Disegni nell’Età moderna
1550-1800, Roma 2018.
62 _ Disegni del Fogg Art
Museum, Tiepolo e la sua
cerchia 1996, cat. 110, inv. 1946-
52; dell’Albertina, Éblouissante
Venise 2018, cat. 135; del
Courtauld Institute of Art, inv.
D. 1978-PG-169 e del British
Museum, inv. 1885-0509-1672.
63 _ M. Rago, Alcune
considerazioni sull’opera
internazionale di Pietro Antonio
Rotari, “AFAT”, 35, 2017, pp.
111-124.
64 _ Apollo et Marsia,
inv. 15378, Musée du Louvre,
Département des arts
graphiques.
65 _ La Fuga in Egitto,
inv. 4659, Musée du Louvre,
Département des arts
graphiques.
66 _ Inv. 514, F. Pedrocco,
Pietro Longhi disegnatore: dalle
collezioni del Museo Correr,
Venezia, 2006, cat. 1.
TRA REALISMO E IDEALISMO, IL MITO DI
VENEZIA _ Mentre tutta l’Europa viene a poco a poco
conquistata dalla moda del Neoclassicismo, Venezia evidenzia
ancora la propria originalità. È vero che Pietro
Rotari, da Verona, obbedisce alle nuove tendenze realizzando
scene misurate, di un classicismo molto equilibrato,
ma nel caso di una composizione molto rifinita,
come il disegno di Apollo e Marsia di Providence
[63]
, la prima ideazione, conservata nel fondo anonimo
del Louvre, colpisce per il suo dinamismo disordinato
[64]
. Sorprende anche notare che Pierre-Jean Mariette, il
quale non possedeva alcun disegno di Pellegrini, abbia
acquisito un foglio di Giambettino Cignaroli [65] tramite
l’intermediazione di Temanza. In Fontebasso e Pietro
Antonio Novelli si riscontrano infinite variazioni sui temi
della tradizione artistica veneziana, che perpetuano una
forma di Rococò addolcita e riappaiono in modo più
pittoresco nell’opera di Giuseppe Bernardino Bison.
Quando Pietro Longhi, già allievo di Balestra,
soggiorna a Bologna per proseguire la propria formazione,
è in contatto con Giuseppe Maria Crespi, le cui
scene di genere avranno una notevole influenza su di lui.
I suoi studi di nudi per l’affresco di Ca’ Sagredo [66] testimoniano
ancora una certa goffaggine, ma si registra una
rapida evoluzione nel suo stile, testimoniata quando
mette a punto in modo molto personale disegni a pietra
nera e gessetto bianco su carta beige di grande formato.
Nei suoi fogli di studio riesce a realizzare effetti luminosi
che danno vita a osservazioni di scene di vita quotidiana,
come la donna che sta in piedi su uno sgabello
per nutrire il proprio canarino, conservata al Museo
Correr. Talvolta alcune annotazioni aiutano la comprensione
di elementi appena abbozzati.
Contestualmente alla costante apparizione di
nuovi disegni, e all’attitudine degli storici che si rivolgono
al patrimonio grafico della Serenissima con una
maggiore acutezza di sguardo, la straordinaria fioritura
dell’arte veneziana appare indissolubilmente legata
all’attività grafica degli artisti. Ben lungi dall’essere confinati
in laguna, hanno scambi con altri centri italiani
ed europei, non foss’altro che per il dialogo incessante
e costruttivo con i centri artistici della “Terraferma”, in
particolare Verona. Utilizzando tutti i mezzi pittorici,
compresi pastelli, guazzo su velina o su carta e miniatura
su avorio, i maestri veneziani hanno ancora molto
da insegnarci.
244 —GENERI E TEMI —
—DISEGNARE A VEBEZIA NEL SETTECENTO— 245
SIMONE
GUERRIERO
FIG. 1
ANTONIO TARSIA
Pace.
Venezia, basilica dei
Santi Giovanni e Paolo,
monumento Valier
1 _ M. De Vincenti, “Piacere
ai dotti e ai migliori”. Scultori
classicisti del primo ’700, in
La scultura veneta del Seicento
e del Settecento. Nuovi studi,
Atti della Giornata di Studio
(Venezia, Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti, 30
novembre 2001), a cura di G.
Pavanello, Venezia 2002, pp.
221-281.
2 _ P. Del Negro, La crisi del
collegio degli scultori veneziani
del secondo Settecento, in
Antonio Canova. La cultura
figurativa e letteraria dei grandi
centri italiani, 1, Venezia e
Roma, Atti del Convegno
Nazionale (Bassano del Grappa,
25-28 settembre 2001), a cura
di F. Mazzocca e G. Venturi,
Bassano del Grappa 2005, p.
7; sulle vicende del Collegio
nel corso del Settecento si
rimanda a Id., L’Accademia di
belle arti di Venezia dalle origini
al 1806, in Antonio Canova e
il suo ambiente artistico fra
Venezia, Roma e Parigi, a cura
di G. Pavanello, Venezia 2000,
pp. 73-79.
GENERI
E TEMI
SCULTURA
V EN EZ I A NA DEL
S E T T E C E N T O.
I ATTO
I primi decenni del Settecento
furono anni di grande fioritura per la scultura
veneziana, capace di raggiungere esiti d’originalità
difficilmente riscontrabili altrove – e non soltanto in
Italia – in una polifonia di voci indipendenti riverberante
la vivace dialettica culturale riformatrice in corso,
che in città andava imponendo nuove tendenze estetiche
rintracciando nell’abbandono dell’imitazione
degli antichi modelli e dei maestri del Rinascimento
la principale causa della corruzione del gusto e delle
bizzarrie seicentesche [1] . In quel periodo un fermento
edificatorio investì Venezia offrendo numerose occasioni
di lavoro agli scultori, a cui giunsero inoltre
cospicue richieste di committenti locali e “foresti”
interessati ad arricchire le proprie collezioni artistiche
di sculture moderne, ad adornare i giardini delle proprie
residenze, a testimoniare la devozione, a eternare
le proprie virtù nel marmo. Testimonianza del florido
stato della scultura veneziana nei primi decenni del
secolo si trova nelle carte d’archivio della Milizia da
Mar, magistratura da cui dipendevano a Venezia sotto
il profilo fiscale quasi tutte le corporazioni, che rilevava
nel 1724, all’indomani della nascita del Collegio degli
scultori – con cui veniva finalmente sancita la separazione
dalle “arti triviali e minutissime de tagliapietra,
lustradori e segatti” [2] –, la presenza di ben quaranta
maestri, a cui se ne aggiunsero circa una decina negli
anni immediatamente successivi [3] .
Allo schiudersi del secolo fu l’orientamento
di gusto classicista ad assumere un’inedita evidenza
con il prestigioso “mausoleo di gloria alli fu serenissimi
principi Vallieri”, edificato nella chiesa dei Santi
Giovanni e Paolo su progetto di Andrea Tirali tra la fine
del 1702, anno in cui furono gettate le fondamenta, e
il 1709, quando fu posta sul suo basamento l’effigie
marmorea della dogaressa Elisabetta Querini Valier,
passata a miglior vita nel gennaio di quell’anno [4] . Il
monumento superava le memorie funebri seicentesche
liberandosi dagli eccessi decorativi e dispiegando
un insieme cospicuo di sculture, tutte ordinatamente
collocate nei vari registri della partitura architettonica
a comporre un preciso programma celebrativo. Statue
e rilievi furono realizzati da un gruppo di artisti tra i
principali del momento: i veneziani Giovanni Bonazza
(1654-1736), Marino Groppelli (1662-1721) e Antonio
Tarsia (1662-1739), e il carrarese Pietro Baratta (1668-
1729), che proprio all’inizio del 1702 aveva licenziato
il monumentino con il busto del doge Silvestro per
l’atrio della Pubblica Libreria, celebrato quale opera
“non meno insigne che speciosa per la rarità dello scultore”
[5] . Chiamato a eseguire anche sul monumento
Valier il ritratto a figura intera dello stesso doge – il
cui modello preparatorio si conserva nelle collezioni
civiche veneziane –, Pietro Baratta giunse in laguna
“ben avanzato nell’arte” nel 1693 circa [6] , importando
un linguaggio basato sull’elaborazione di modelli berniniani
e soprattutto algardiani che, seppur apprezzato
– fu, infatti, presente a Venezia in tutti i più importanti
cantieri artistici sino agli anni Venti –, non inciderà
in modo sostanziale nello sviluppo della corrente
classicistica locale. La lezione dello scultore rimase
del resto ben presto priva di eredi poiché il suo più
capace allievo, il veneziano Francesco Robba (1698-
1757), decise di stabilirsi già nel 1720 in Carniola [7] .
— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. I ATTO — 247
La permanenza di Baratta in laguna va inserita nella
precisa strategia intrapresa dal più dotato fratello
Giovanni, che seppe trasformare la bottega familiare
carrarese in un’impresa moderna capace di attrarre
commissioni da vari centri italiani ed esteri proprio
grazie alla presenza fisica dei suoi congiunti e collaboratori
in luoghi diversi [8] .
Antonio Tarsia – padre del pittore Bartolomeo
(1686-1762), trasferitosi in Russia nel 1722 [9] , amico
di Andrea Tirali e autore sul monumento Valier dell’idealizzata
effigie del doge Bertucci, della statua della
Liberalità e dei bei rilievi con la Pace (fig. 1) e la Costanza
– ricopre un ruolo di primo piano tra gli scultori “riformatori”
veneziani della prima e della seconda generazione
poiché ebbe come allievi il celebre Antonio
Corradini e il meno noto Gaetano Susali [10] . Formatosi
come intagliatore in legno in ambito familiare, sin dai
suoi esordi quale scultore in pietra – rintracciabili per
ora nelle statue dei Santi Sebastiano e Francesco dell’altare
maggiore della chiesa dell’Ospedaletto – sembra
aver guardato alle opere di Bernardo Falconi e, soprattutto,
di Tomaso Rues, altro apprezzato intagliatore
e scultore, deceduto nel 1703 [11] . Tarsia fu particolarmente
versato nei soggetti mitologici e allegorici declinati
in dimensioni contenute, ispirati all’antico e ai
bronzetti veneti rinascimentali, di cui rimane la nutrita
serie realizzata per la corte russa che rappresenta in
effetti l’antefatto delle più tarde statuette all’“antica”
dell’apprezzatissimo Antonio Gai. Ricercato, anche
come restauratore d’antichità, dai patrizi di vecchia
nobiltà, come i Corner [12] e i Pisani, e di nuova, come i
Manin, Tarsia perseguì una personale ricerca sintonizzata
sul moderno ideale di bellezza, semplice e naturale,
convergente in parte con il linguaggio classicista
permeato d’intonazioni sentimentali del bolognese
Giuseppe Maria Mazza, il cui rilievo bronzeo con l’Adorazione
dei pastori (fig. 2), eseguito per la chiesa di San
Clemente in Isola, era stato accolto con grande entusiasmo
e celebrato con componimenti poetici nel 1705 [13] .
In quello stesso anno gli ambiziosi Manin arricchivano
la collezione di sculture del loro palazzo sul
Canal Grande commissionando un nuovo nucleo di
piccole figure per la “camera delle figure distese” a tema
classico ai quattro più distinti scultori del momento:
Tarsia e Baratta consegnarono rispettivamente il
Bacco con satiro (cat. IV.04) e la Galatea (cat. VI.05),
ora al Victoria and Albert Museum, mentre Giuseppe
Torretti scolpì un Narciso alla fonte purtroppo scomparso
così come la Venere con amore di Mazza, il cui
aspetto è tramandato dall’incisione di Giannantonio
FIG. 2
GIUSEPPE MARIA MAZZA
Adorazione dei pastori.
Venezia,
chiesa di San Clemente
in Isola
3 _ Cfr. B. Cogo, Antonio
Corradini scultore veneziano
1688-1742, Este 1996, pp. 62-66.
4 _ La citazione è tratta dalla
“Pallade Veneta” manoscritta
che riferisce inoltre gli estremi
cronologici dell’erezione del
monumento, in P. Delorenzi,
Una divinità nella bottega dello
scrittore. Cronache d’arte tra
Sei e Settecento dalla “Pallade
Veneta”, “Saggi e memorie di
storia dell’arte”, 40, 2016, pp.
54, 71. Per la storia progettuale
e il significato delle sculture
rimando a M. De Vincenti, Il
“prodiggioso” mausoleo dei
dogi Valier ai Santi Giovanni e
Paolo, “Arte Veneta”, 68, 2011,
pp. 143-163 (con bibliografia
precedente).
5 _ Delorenzi 2016, p. 67. Il
monumento si trova sin dal 1843
nell’Accademia dei Concordi
di Rovigo (cfr. De Vincenti
2002, p. 228). Il modello in
terracotta del busto ritratto del
Serenissimo, di cui sino a oggi
s’ignorava l’esistenza, si trovava
nella collezione veneziana
della contessa Anna Morosini,
come risulta dall’immagine
conservata nella Fototeca Zeri
con attribuzione ad “Anonimo
veneziano sec. XVII-XVIII” (n.
scheda 81156).
6 _ T. Temanza, Zibaldon
(1738-1778), a cura di N. Ivanoff,
Venezia-Roma 1963, pp. 70-72.
7 _ Da ultimo si veda M.
Klemenčič, Francesco Robba
(169 -1757): a Venetian sculptor
and architect in Baroque
Ljubljana, Maribor 2013.
8 _ F. Freddolini, Giovanni
Baratta 1670-1747. Scultura
e industria del marmo tra la
Toscana e le corti d’Europa,
Roma 2013, ad indicem.
9 _ Sull’artista da ultima L.
Salmina Haskell, Bartolomeo
Tarsia as a Draughtsman,
in Venezia Settecento. Studi
in memoria di Alessandro
Bettagno, a cura di B. A.
Kowalczyk, Cinisello Balsamo
2015, pp. 197-207.
10 _ M. De Vincenti, Antonio
Tarsia (1622-1739), “Venezia
Arti”, 10, 1996, pp. 49-56; Id.
2002, pp. 223-225, 228-240.
11 _ Il profilo più aggiornato
dello scultore è offerto da
M. Clemente, Tommaso Rues
1636-1703: a German Sculptor
in Baroque Venice, Firenze
2016, pp. 9-24 (con bibliografia
precedente).
12 _ Si veda da ultimo M.
Favilla, R. Rugolo, Nome
et cineres una cum vanitate
sepulta: Alvise II Mocenigo e i
monumenti dogali nell’ultima
età barocca a Venezia, “Arte
Veneta”, 70, 2013, pp. 104-105,
124-125 nota 38.
FIG. 3
GIUSEPPE TORRETTI
Umiltà, particolare. Venezia,
chiesa dei Carmini
FIG. 4
ANTONIO CORRADINI
Madonna con il Bambino,
particolare. Venezia, chiesa
delle Eremite
Faldoni apparsa nella “Galleria di Minerva” del 1708
[14]
. Il Bacco rappresenta uno dei vertici della produzione
di Tarsia, rivelando l’alta qualità del personale
idioma classicista ove il richiamo all’antico si stempera
nell’intonazione languida e negli effetti chiaroscurali
pittoricamente soffusi di morbidi passaggi, mentre
la pur pregevole Galatea di Baratta presenta una
netta tendenza accademica a incidere profili con effetti
quasi grafici e a rendere fissi i movimenti come pure le
espressioni. L’attenzione agli esiti della pittura da parte
di Tarsia, qual è forse logica riscontrare nel padre di
un pittore, emerge a tutta evidenza nell’aggraziata e
luminosa pala marmorea realizzata alla fine della sua
carriera per i Pisani, già suoi committenti per alcune
statue collocate in uno dei cortili del loro palazzo a
Santo Stefano. L’Annunciazione (1728 ca.), posta tra le
statue di San Domenico e Santa Rosa sull’altare della
nobile famiglia nella vicina chiesa di San Vidal, evidenzia
infatti analogie compositive significative con le pale
di omonimo soggetto eseguite da Antonio Balestra per
chiese veronesi: quella ancora barocca e chiaroscurata
degli Scalzi che fu esposta pubblicamente a Venezia
nel 1697 e collocata sull’altare solo tra 1704 e 1719, e
quella soave e luminosa di San Tomaso Cantuariense
dei primi anni del Settecento [15] .
La vicenda artistica di Tarsia s’intreccia in varie
occasioni con quella di Giuseppe Torretti (1664-1743),
altro intagliatore in legno e scultore in marmo, originario
di Pagnano, il cui stile evolverà tra primo e terzo
decennio del secolo passando dai modelli di riferimento
tardobarocchi degli Apostoli della crociera di
San Giorgio Maggiore (1708-1711) a un classicismo
vigoroso e monumentale sostenuto da riferimenti
all’antico e alla scultura veneziana rinascimentale negli
eleganti, nitidi grandi rilievi scolpiti tra 1729 e 1732 [16]
per la cappella Manin di Udine, che trovano un paragone
per dimensioni e formato solo con i sei nobili
rilievi eseguiti su modelli del bolognese Mazza per la
cappella di San Domenico ai Santi Giovanni e Paolo,
dei quali il primo fu posto in opera nel 1722 [17] . Gran
parte della produzione di Torretti è connessa alle commissioni
dei Manin, ascritti al patriziato nel 1651, che
248 —GENERI E TEMI —
— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. I ATTO — 249
a Venezia finanziarono, oltre agli interventi in Santa
Maria di Nazareth, il rinnovo della chiesa dei Gesuiti
a cui si lega il viaggio a Roma compiuto dallo scultore
tra febbraio e marzo del 1711 in compagnia di Pietro
Baratta e degli architetti Domenico Rossi e Giovanni
Scalfurotto [18] . Più del viaggio, tuttavia, sembra incidere
particolarmente sullo sviluppo del linguaggio più
meditato e composto di Torretti la frequentazione
del giovane Corradini con cui condivise per anni il
forte impegno che condusse alla nascita nel 1723 del
Collegio degli scultori, di cui fu il primo Priore, e alla
formulazione della proposta di fondazione dell’Accademia
di “Scoltura, Pittura et Architettura”, presentata
unitamente ai pittori e accolta dal Senato Veneziano
grazie all’appoggio del potente Lorenzo Tiepolo, leader
indiscusso del grande patriziato, e alla probabile
collaborazione di Anton Maria Zanetti di Gerolamo [19] .
Non è un caso, infatti, se tra le molte opere realizzate
per le chiese veneziane da Torretti emerga per novità
la figura dell’Umiltà (fig. 3) della chiesa dei Carmini,
eseguita come pendant della Verginità di Antonio
Corradini (1688-1752) a partire dal 1721, ove grazia
arcadica e intonazioni intimistiche, quasi “borghesi”,
paiono fuse in immagini moderne e perfettamente
bilicate tra classico e naturale.
L’allievo e genero di Tarsia è senza dubbio la
personalità più rilevante nel panorama della scultura
del primo Settecento veneziano. Corradini appare
come “maestro lavorante” dal 1711, ma è probabile tuttavia
che avesse iniziato una sua attività indipendente
dal 1709, quando il suo nome compare nelle carte della
Fraglia dei tagliapietra di Padova per dei lavori compiuti
nella bottega di Giovanni Bonazza [20] . Il secondo
decennio, in seguito alla presentazione pubblica della
prima delle sue straordinarie velate nel 1717 [21] , lo scultore
si aggiudica due importanti commissioni di Stato:
13 _ Il riferimento è alla
raccolta di componimenti
poetici di vari autori stampata
in quell’anno a Padova e
intitolata Alle glorie Immortali
del Signor Giuseppe Maria
Mazza scultor Celeberrimo
Bolognese per il Prodigioso
Presepio di bronzo alto piedi
cinque, e largo piedi otto, e
mezzo gettato nell’Arsenal
di Venezia, e collocato nella
chiesa de R.R.P.P. Camaldolesi
dell’Eremo nell’Isola di S.
Clemente di Venezia l’anno
MDCCV, Padova 1705.
14 _ La citazione è tratta da
M. Frank, Virtù e fortuna: il
mecenatismo e le committenze
artistiche della famiglia Manin
tra Friuli e Venezia nel XVII e
XVIII secolo, Venezia 1996, p.
69; docc. in Ivi, pp. 365-366,
n. 10; l’incisione è nota grazie
a F. Zava Boccazzi, I veneti
alla galleria Conti, “Saggi e
memorie di storia dell’arte”,
17, 1990, p. 321, fig. 15. Si veda
inoltre J. Pope-Hennessy,
Catalogue of italian sculpture in
the Victoria and Albert Museum,
London 1964 (II, pp. 416: inv.
A. 138-1956, A.139-1956) con
l’assegnazione delle statue al
Victoria and Albert a Tarsia,
e De Vincenti 1996 (p. 56,
nota 58) per il riconoscimento
della provenienza dei marmi
e l’attribuzione della Galatea
a Baratta. I Manin richiesero
pure a Tarsia anche “una statua
compagna del Andromeda
comprata dal Serenissimo
di Mantoa”, due teste di
imperatori, due statue di Marte
e Venere (Frank 1996, pp.
366-369, doc. 11): opere tutte
scomparse.
15 _ Sulle opere il rimando
è a M. Favilla, R. Rugolo, “La
charité sa premiere vertu”:
la pittura sacra di Antonio
Balestra tra Barocco e
Barocchetto, in Antonio Balestra
FIG. 5
PIETRO BARATTA
Allegoria della Pace di Nystad,
San Pietroburgo, Giardino
d’Estate
FIG. 6
ANTONIO CORRADINI
Fede velata, particolare.
San Ildefonso, Palazzo Reale
della Granja
nel segno della grazia, catalogo
della mostra (Verona, Museo
di Castelvecchio) a cura di A.
Tomezzoli, Verona 2016, pp.
36-41, 50 note 18-25.
16 _ P. Rossi, Per il
catalogo delle opere veneziane
di Giuseppe Torretti, “Arte
Documento”, 13, 1999, pp. 285-
287; P. Goi, Giuseppe Torretti
nella Cappella Manin di Udine,
“Restauro nel Friuli Venezia
Giulia”, 2, 1990, pp. 9-63.
17 _ Cfr. M. De Vincenti,
Storie della vita di San
Domenico, in La Basilica
dei Santi Giovanni e Paolo.
Pantheon della Serenissima, a
cura di G. Pavanello, Venezia
2012, pp. 430-431 (con
bibliografia precedente).
18 _ P. Rossi, Pietro Baratta
e Giuseppe Torretti: il problema
delle interrelazioni, in Francesco
Robba and the Venetian
sculpture of the eighteenth
century, Atti del Convegno
Internazionale (Ljubljana, 16th-
18th October 1998), edited by J.
Höfler, Ljubljana 2000, pp. 41,
47-48 nota 2.
19 _ Del Negro 2005, p. 75.
20 _ Lo scultore risulta
possedere certamente una
propria bottega dal 1713 (Cogo
1996, pp. 36-39, 41-45).
21 _ Si veda infra. Sulle opere
di Corradini presenti nella
collezione del feldmaresciallo,
tra cui una Fede velata, si
rimanda a S. Guerriero,
Sculpteurs Vénitiens pour les
cours et les collectionneurs
d’Europe, in Éblouissante Venise,
les Arts et l’Europe au XVIII e
siècle, catalogo della mostra
(Paris, Grand Palais, Galleries
nationales) a cura di C. Loisel,
Paris 2018, pp. 164-165.
22 _ P. Rossi, Johann
Matthias von der Schulenburg e
due scultori del suo tempo, “Arte
veneta”, 70, 2013, pp. 238-241;
Cogo 1996, pp. 49-50, 162-163.
la statua-ritratto del feldmaresciallo Johannes Matthias
von der Schulenburg per il monumento eretto a Corfù,
posta in opera nel 1718 [22] , e la progettazione e sovrintendenza
delle decorazioni del nuovo Bucintoro nel
1719 [23] . A questi anni, con ogni probabilità, appartiene
la Madonna del Rosario (fig. 4) delle Eremite, rimasta
impressa nella mente di Tiepolo [24] , mentre al 1720
risale la virtuosistica statua di Sant’Ambrogio posta in
opera nella chiesa di San Stae accanto a quelle eseguite
da Torretti, Tarsia e Baratta, che sancisce il suo
ingresso nel gruppo degli scultori più rinomati [25] ;
segue, oltre alla citata Verginità dei Carmini, il gruppo
della Pietà della chiesa di San Moisè in origine collocato
sull’altare dei Sansoni, che veniva benedetto nel 1724,
come ricorda il Coletti definendola opera del “celeberrimo
Sculptore Veneto Antonio Corradino” [26] . L’anno
successivo il Senato, con una nuova sensibilità per la
tutela della sede del potere politico della Repubblica,
richiedeva fosse individuato per l’intervento conservativo
dei marmi di Palazzo Ducale uno dei migliori,
colti e competenti scultori al fine di eseguire un’accurata
analisi delle singole statue che determinasse l’autore,
l’epoca di esecuzione, lo stato conservativo e gli
interventi necessari da adottare: fu scelto Corradini,
che produsse due relazioni nelle quali con prosa elegante
seppe per primo, dopo il travisamento di Vasari,
restituire a Rizzo la paternità dell’Adamo, dell’Eva e del
Guerriero dell’Arco Foscari [27] .
La prima opportunità per Antonio Corradini
di imporsi sulla ribalta internazionale si ebbe allorquando
l’agente di Pietro il Grande, il conte Savva
Lukič Vladislavič detto Raguzinskij, residente a
Venezia dal 1716 al 1722, fece incetta di statue per
il Giardino d’Estate di Pietroburgo e la residenza
estiva di Peterhof, rivolgendosi agli artisti veneziani e
attingendo a ciò che offriva il fiorente mercato della
250 —GENERI E TEMI —
— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. I ATTO — 251
FIG. 7
ANTONIO CORRADINI
Scultura e Verità.
Ferrières-en-Brie,
Château de Ferrières
23 _ L. Urban, Intagliatori
e doratori del bucintoro del
Settecento, in Con il legno e con
l’oro: la Venezia artigiana degli
intagliatori, battiloro e doratori,
a cura di G. Caniato, Verona
2009, pp. 175-185.
24 _ La statua riecheggia,
infatti, nel dipinto di omonimo
soggetto di collezione privata,
datato 1735, come osservano G.
Pavanello, Tiepolo e la scultura:
dalla copia all’invenzione, in
Giambattista Tiepolo nel terzo
centenario della sua nascita, Atti
del Convegno Internazionale
(Venezia, Vicenza, Udine, Parigi,
29 ottobre-4 novembre 1996),
a cura di L. Puppi, Padova
1998, p. 167, fig. 14, e P. Rossi,
Giambattista Tiepolo e la
scultura del suo tempo, in Ivi,
p. 171.
25 _ Cogo 1996, pp. 188-190.
26 _ N. Coletti, Monumenta
ecclesiae venetae S. Moysis,
Venezia 1758, p. 344.
27 _ Si veda da ultimo P.
Delorenzi, A. Pizzati, Adamo,
Eva ed il Guerriero. Vicende
storico-artistiche, critiche e
conservative delle statue di
Antonio Rizzo, “Bollettino dei
Musei Civici Veneziani”, ser. III,
11-12, 2016-2017, pp. 79-82, 96-
99, docc. 4-11 (con bibliografia
precedente).
28 _ Si veda S. Androsov,
Pietro il Grande collezionista
d’arte veneta, Venezia 1999, p.
226. Per le acquisizioni presso
il mercato cfr. S. Guerriero, Le
alterne fortune dei marmi: busti,
teste di carattere e altre “scolture
moderne” nelle collezioni
veneziane tra Sei e Settecento, in
La scultura veneta del Seicento
e del Settecento. Nuovi studi,
Atti della Giornata di Studio
(Venezia, Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti, 30
novembre 2001), a cura di G.
Pavanello, Venezia 2002, pp. 77,
81, 109.
29 _ Temanza 1963, p. 43. La
copia dell’Antinoo del Belvedere
realizzata da Giovanni
Bonazza nel parco di Versailles
risale probabilmente a tale
commissione attuata sulla scia
della vasta campagna avviata
da Colbert per recuperare il
maggior numero di originali
e copie delle statue antiche
più famose di Roma per
l’immenso parco della reggia
(sull’argomento cfr. F. Haskell,
N. Penny, L’antico nella storia
del gusto: la seduzione della
scultura classica 1500-1900,
Torino 1984, pp. 46-53; sulla
statua di Bonazza si veda Les
Sculptures européenne du musée
du Louvre, a cura di G. Bresc-
Bautier, Paris 2006, p. 601).
30 _ S. Androsov, Pietro il
grande e la scultura italiana,
San Pietroburgo 2004, pp. 138-
243, 334-412.
31 _ “Foglio di Foligno”, 52,
26 dicembre 1721, alla data.
32 _ In “Gazeta de Lisboa
occidental”, 12 febbraio 1722, alla
data 14 dicembre 1721; si veda
Guerriero 2018, pp. 160-161.
33 _ Sulla vicenda e la sorte
delle statue cfr. Androsov
1999, p. 226 e Cogo 1996, pp.
197-201. Sul tema della figuta
velata cfr. R. Deckers, Die Testa
velata in der Barockplastik: zur
Bedeutung von Schleier und
Verhüllung zwichen Trauer,
Allegorie und Sinnlichkeit,
Münich, 2010.
34 _ Bottari 1822, II, p. 125;
l’identificazione si deve a De
Vincenti 2002, p. 237.
35 _ L’opera richiama il
bustino femminile in marmo
di Carrara, alto circa 60 cm,
“con un drappo che le avvolge
il capo” e posato su base
sagomata, presente nel 1934
nella collezione Donà dalle Rose
(G. Lorenzetti, L. Planiscig, La
collezione dei Conti Donà dalle
Rose a Venezia, Venezia 1934, p.
53, n. 245)
36 _ L’opera, scomparsa
dopo la vendita di parte
delle sculture del Grossen
Garten del maggio del 1836,
è recentemente riemersa
sul mercato antiquario in
precario stato di conservazione
(Guerriero 2018, pp. 162, 163
nota 19).
Serenissima [28] . In verità un precedente di analogo
significato e portata è documentato già sul finire del
Seicento, quando, come riporta Tommaso Temanza
nel suo Zibaldon, Luigi XIV aveva ordinato che fossero
inviati a Venezia “alcuni modelli in cera delle più
insigni statue di Roma” affinché dagli scultori venissero
scolpite “statue sulli modelli spediti per asportarle
a Parigi” [29] . Ma se della commissione di Re Sole ci
sfuggono gli esatti contorni e gli stessi esiti, la vicenda
riguardante le sculture richieste dallo zar e dalla sua
corte – una vera e propria armata di statue e busti
di soggetto mitologico e allegorico – risulta invece
documentata con estrema precisione e rivela il coinvolgimento
di pressoché tutti gli scultori allora attivi a
Venezia: Pietro Baratta (fig. 5), Antonio Tarsia, Antonio
Corradini, Giovanni Bonazza, Francesco Cabianca,
Giuseppe Torretti, Enrico Merengo, Marino, Paolo
e Giuseppe Groppelli, Alvise Tagliapietra, Bortolo
Modolo e Giovanni Zorzoni [30] . Il prestigio di queste
commissioni, come di quelle che seguiranno, dava
agio agli artisti d’esporre pubblicamente i propri lavori
prima della partenza sottoponendoli al giudizio degli
intenditori, mentre l’eco del loro valore giungeva
oltre i confini della Serenissima tramite le gazzette
del tempo. Così accadde la domenica mattina del 20
dicembre 1721, quando “si vidde esposta nell’Atrio
interiore della Chiesa Ducale di S. Marco una Statua di
Marmo da Carrara, quale rappresenta la Religione con
la faccia velata, che per la nuova invenzione non più
veduta a secoli, per l’esattezza del disegno, e per il delicato
lavoro, incontra universale applauso; Quest’opera
fu travagliata del sig. Antonio Corradini Veneto, & è
destinata per il Czar di Moscovia, dovendo in breve
esser spedita a Pietroburgo” [31] . La notizia fu ripresa
anche dalla “Gazeta de Lisboa” che l’inserì tra informazioni
politiche-diplomatiche riguardanti la risoluzione
presa dalla Serenissima di riconoscere lo zar
di Mosca imperatore di tutta la Russia e il commiato
dell’inviato straordinario dello zar, facendole assumere
quasi una valenza d’affare di Stato: “se expoz na
Igreja Ducal de S. Marcos huma Estatua de marmore
que representa a Religiaõ, a qual mandou fazer por
ordem do Czar o Conde de Sava, por Antonio Coradini
famoso Estatuario desta Cidade” [32] . Quest’opera,
che fu preceduta da una Fede velata giunta in Russia
nel 1719, rappresenta una delle numerose repliche e
varianti sul tema offerto per la prima volta dallo scultore
al pubblico nel 1717 [33] , quando venne presentata
a Venezia la Religione destinata ai monumenti Manin
di Udine: un evento, per dirla con le parole del pittore
Antonio Balestra, capace di “stupir tutta la città” [34] . Il
soggetto inaugurava, infatti, un nuovo linguaggio che
univa allo studio dal vero quello delle tecniche di resa
delle trasparenze della statuaria antica restituendo con
virtuosismo assoluto – come ben esemplifica il busto
della velata del Museo di Ca’ Rezzonico [35] (cat. VI.08)
– un’immagine capace d’eguagliare negli effetti chiaroscurali
il tocco sfumato e leggero della pittura coeva.
L’“invenzione” ottenne un grande successo a livello
europeo, come dimostrano l’esistenza della Vestale
Tuccia inviata a Dresda per Augusto il Forte [36] , della
Fede velata (fig. 6) donata a Isabella Farnese dal nunzio
Alessandro Aldobrandini, in occasione del suo trasferimento
da Venezia a Madrid nel novembre 1720 [37] ,
e dell’omonima figura del Louvre che potrebbe essere
identificata con la celebrata statua di Vestale custodita
sino al 1856 nella raccolta veneziana dei Manfrin,
forse in origine appartenente a Zaccaria Sagredo [38] .
La cosiddetta Pudicizia è l’ultima di tali figure, che
Corradini eseguì poco prima di morire per la cappella
Sansevero di Napoli: il suo corpo sontuoso, di senso
prevalentemente profano, dal ritmo complesso ed elegante
e dal modellato sicuro, è avvolto in un panneggio
stilizzato all’estremo, slanciato e geometrizzante, con
“un rigore che annuncia il Neoclassico” [39] .
Un numero significativo di opere di Corradini
giunse anche ad Augusto il Forte, principe elettore di
Sassonia e re di Polonia, attraverso la mediazione del
suo agente, il barone Raymond Leplat, che nei primi
anni Venti si trovava a Venezia. Inizialmente destinate
a decorare il giardino dell’Holländisches Palais di
Dresda, le sculture furono trasferite nel 1728 al Grosser
Garten e fortunatamente vennero riprodotte in incisioni
nel Recueil des marbres, pubblicato nel 1733 a
cura dello stesso barone Leplat, poiché nell’Ottocento
l’apparato scultoreo del giardino subì varie alienazioni
e fu smembrato. Le prime sculture di Corradini giunte
a Dresda furono i quattro gruppi raffiguranti Apollo e
Marsia, Zefiro e Flora, Arianna e Bacco e Venere e Adone
che erano stati acquistati a Venezia nel 1722, come
afferma lo stesso barone in una lettera indirizzata al
sovrano del settembre di quell’anno ove li definisce
252 —GENERI E TEMI —
— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. I ATTO — 253
“des mieux assorty par le suiet qui representent, par la
delicatesse du travail incroyable, par la bauté du marble
des plus baux de cararre” tanto che “il ne se trouve
pas catre presse egalle pareyllie ie croy en toutte lheurope”
[40] . Il “Mercure historique et politique” dell’ottobre
successivo diede ampio risalto all’acquisto informando
che “Le Baron de Planes a acheté en cette Ville
[Venezia] pour le Roi de Pologne 4 belles Statues, travaillées
par le célébre Antoine Corradini; & il les a déjà
feites embarquer su un vaisseau, pour être transportées
à Hambourg , & de la à Dresde” [41] . Le lettere del
1722 rivelano anche che i quattro gruppi erano stati
realizzati sei anni prima, nel 1716, mentre una successiva
missiva del conte de Villio, residente sassone
a Venezia, svela l’identità del precedente proprietario,
il marchese romano Pietro Gabrielli, allora dimorante
a Venezia, decisosi a vendere le opere per le momentanee
ristrettezze economiche in cui si trovava [42] . Le
opere successivamente inviate a Dresda furono probabilmente
ordinate a Corradini da Leplat, che infatti
confessò al sovrano il desiderio “que cet sculpteur fasse
quelque dessin pour ancore quelque grouppe”, tra cui
figuravano la Scultura e Verità (fig. 7), oggi a Château
de Ferrières, il Ratto di Proserpina, ora a Waddesdon
Manor, e il Tempo scopre la Verità, ancora collocato al
Grossen Garten e che all’inizio di gennaio del 1724 era
stato esposto prima della partenza in uno dei cortili
delle Procuratie in piazza San Marco, come riportò la
“Gazeta de Lisboa” [43] . Per soddisfare le richieste del
sovrano si era provveduto, oltre che con opere di artisti
francesi e romani, anche con l’invio di lavori di altri due
scultori attivi a Venezia in quegli anni: con la seconda
serie di sculture di Corradini giunsero infatti nella città
sull’Elba il gruppo con Ercole e Iole di Filippo Catasio
e le statue raffiguranti Magnificenza, Magnanimità,
Valore e Gloria di Pietro Baratta [44] .
Già nell’agosto dell’anno precedente, visitando
Venezia, il barone di Montesquieu aveva fornito
testimonianza dei meriti di Corradini annotando
nel suo Voyage en Italie che “il y a un sculpteur a present
a Venise nommeé Corradino Venitien, qui à fait
un Adonis qui paroit une des plus belles choses qu’on
puisse voir” [45] , riferendosi alla statua (fig. 8), ora al
Metropolitan Museum, che, in pendant con una perduta
Venere, si trovava nel palazzo dei nobili Sagredo a
Santa Sofia, alla cui collezione apparteneva anche una
Religione velata dello stesso autore, forse identificabile
con la statua conservata al Louvre [46] . In questi
stessi anni Corradini ricevette da Vienna l’incarico di
eseguire le sculture per la Josephsbrunnen nell’Hoher
Markt, progettata dall’architetto di corte Fischer von
Erlach: le statue – poste sulla fontana a rappresentare
lo sposalizio di Giuseppe e Maria, attorniati da quattro
angeli – furono spedite da Venezia il 30 novembre
1728. Cinque mesi dopo, il 28 maggio del 1729, il nuovo
Bucintoro, in tutto il suo splendore, solcava finalmente
le acque della laguna recando sulla prua, sotto la raffigurazione
dello Zodiaco, la scritta “Antonii Coradini
sculptoris inventum” [47] : quasi un preludio alla partenza
dell’autore. L’anno successivo il “celeberrimo
Sculptore Veneto” era a Vienna, come racconta l’abate
Sampellegrini a Rosalba Carriera, amica di Corradini
fin dal 1718 [48] . Nuovi protagonisti avrebbero calcato il
palcoscenico della scultura veneziana.
37 _ Sulla statua si veda
T. Lavalle-Cobo, Isabel de
Farnesio: la reina coleccionista,
Madrid 2002, p. 79. Si veda
anche M. Klemenčič, Antonio
Corradini: appunti e proposte,
in Artisti in viaggio 1600-1750:
presenze foreste in Friuli Venezia
Giulia, Atti del Convegno
Nazionale (Università di Udine,
Villa Manin di Passariano, 21-23
ottobre 2004), a cura di M. P.
Frattolin, Udine 2005, pp. 289-
304, e Guerriero 2018, p. 161.
38 _ Guerriero 2002, p. 93;
A. Bacchi, Antonio Corradini
e i Sagredo, in Il tempo e
la rosa. Scritti in onore di
Loredana Olivato, a cura di
P. Artoni, E.M. Dal Pozzolo,
M. Molteni, A. Zamperini,
Treviso 2013, pp. 132-133; M.
Klemenčič, Antonio Corradini,
the Collegio dei Scultori, and
Neo-Cinquecentismo in Venice
around 1720, in The Enduring
Legacy of Venetian Renaissance
Art, a cura di A. Badiee Banta,
London-New York 2016, pp. 114,
118 nota 29.
39 _ A. Nava Cellini, La
Scultura del Settecento, Torino
1982, p. 166.
40 _ B. Marx, Diplomaten,
Agenten, Abenteurer im Dienst
der Künste. Kunstbeziehungen
zwischen Dresden und
Venedig, in Venedig – Dresden.
Begegnung zweier Kulturstädte,
a cura di B. Marx e A. Henning,
Dresden 2010, p. 61, doc. 3; S.
Guerriero, Antonio Corradini a
Waddesdon Manor, in Venezia
Settecento. Studi in memoria
di Alessandro Bettagno, a cura
di B.A. Kowalczyk, Cinisello
Balsamo 2015, p. 98.
42 _ “Mercure historique
et politique””, 1722, p. 383.
Nel “Foglio di Foligno” è
specificato inoltre che i lavori
del “celebre Veneto scultore”
furono “spediti alla Maestà del
Rè di Polonia” il 3 ottobre del
1722 (“Foglio di Foligno”, 41, 9
ottobre 1722).
42 _ Il millesimo 1716 è
inciso sui due gruppi firmati
raffiguranti ciascuno un
Centauro intento a rapire una
fanciulla, collocati ancora oggi
al Grossen Garten, non citati
dai documenti settecenteschi,
ma che potrebbero aver fatto
parte integrante dell’insieme
posseduto dal marchese
romano; si veda Guerriero 2015,
pp. 98-99, anche sul destino
toccato alle sculture dopo la
dispersione ottocentesca.
43 _ Ibidem e Guerriero
2018, p. 162.
45 _ Marx 2010, pp. 41-42.
46 _ Voyages de Montesquieu,
a cura di A. de Montesquieu,
Bordeaux, 1894, I, p. 65.
L’attribuzione corretta del
marmo si deve a T. Montanari,
“A Thing of Beauty”: Antonio
Corradini’s Rediscoverd
Masterpiece, in One of the
most Beautiful Things. A
rediscovered Masterpiece by
Antonio Corradini, catalogo
della mostra (New York, Moretti
Fine Art Gallery-Adam Williams
Fine Art Gallery) a cura di A.
Butterfield, New York 2013, pp.
12-45; per l’identificazione del
soggetto e della provenienza
dalla collezione di Zaccaria
Sagredo si veda nota 38.
46 _ Si veda nota 38.
47 _ Urban 2009, p. 178.
48 _ Cfr. Cogo 1996, pp.
97-98.
FIG. 8
ANTONIO CORRADINI
Adone, particolare.
New York, Metropolitan
Museum
254 —GENERI E TEMI —
— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. I ATTO — 255
MONICA
DE VINCENTI
FIG. 1
GIOVANNI BONAZZA
Modellino per l'Adorazione dei
Magi della Cappella
del Rosario ai Santi
Giovanni e Paolo.
Collezione privata
1 _ M. De Vincenti, Antonio
Tarsia (1622-1739), “Venezia
Arti”, 10, 1996, p. 53.
2 _ G. Cirillo, G. Godi, L’arte
in villa Pallavicino a Busseto,
“Parma nell’Arte”, fsc. unico,
1988, p. 25.
3 _ M. De Vincenti,
“Compagni nel studio”: Gaetano
Susali e Francesco Cadorin,
scultori veneziani, “Venezia
arti”, 17-18, 2003-2004, pp.
79-88.
4 _ A. Niero, Tre artisti
per un tempio. S. Maria del
Rosario-Gesuati Venezia, a cura
di R. Rugolo, Venezia 2006, pp.
29, 61.
5 _ P. Del Negro, L’Accademia
di belle arti di Venezia dalle
origini al 1806, in L’Accademia
di belle arti di Venezia.
Il Settecento, a cura di G.
Pavanello, I, Crocetta del
Montello 2015, p. 73.
GENERI
E TEMI
SCULTURA
V EN EZ I A NA DEL
S E T T E C E N T O.
II ATTO
All’inizio del quarto
decennio del secolo la scena della scultura veneziana
si presenta priva di alcuni dei suoi protagonisti: Pietro
Baratta aveva lasciato la città nel 1727 ed era morto a
Carrara due anni dopo, Antonio Tarsia dichiarava ufficialmente
nel 1735 di non possedere bottega “da tanto
tempo” [1] mentre il suo celebrato allievo, Antonio
Corradini, si era già trasferito a Vienna.
Della prima compagine di classicisti rimaneva
ancora attivo a Venezia l’anziano Giuseppe Torretti
(1664-1743), coadiuvato dal nipote Giuseppe Bernardi
(1694-1773), futuro maestro di Canova, che sino alla
morte dello zio si trovò tuttavia costretto ad operare
“con le mani legate” poiché essendogli “sogieto”
non poteva manifestare il proprio “charatere”, come
egli stesso rivela in una lettera del 1745 indirizzata al
marchese Alessandro Pallavicino [2] . Gaetano Susali
(1697-1779), altro allievo di Tarsia, nel 1729 si aggiudicava
invece la realizzazione delle statue poste in luogo
di pala su tutti gli altari di San Marcuola, chiesa rifabbricata
da Giorgio Massari, il più importante architetto
del periodo. Il tour de force, portato a termine tra
1735 e 1736 con l’ausilio del socio di bottega Francesco
Cadorin [3] , procurerà a Susali la commissione dell’allegoria
della Prudenza, eseguita nel 1736, per la decorazione
della facciata della chiesa dei Gesuati, altro progetto
di Massari a cui parteciparono anche Francesco
Bonazza, Giuseppe Torretti e Alvise Tagliapietra [4] . In
seguito, tuttavia, la sostanziale incapacità di evolvere
il proprio stile dai modi del maestro e di emanciparsi
dalla suggestione dell’amico Corradini relegherà Susali
a un ruolo secondario.
La partenza di Corradini alla fine del 1729 aveva
privato la scultura veneziana della personalità creativa
più incisiva. Egli, in effetti, aveva saputo imporre un
preciso gusto attirando l’attenzione del pubblico europeo
anche attraverso una sorta di moderno battage,
sostenuto da alcuni nobili patrizi ed esponenti del
“civil cetto” [5] , attuato mediante esposizioni pubbliche
delle opere da lui realizzate, riprese e diffuse immediatamente
dalle gazzette del tempo [6] . Per gli artisti
veneziani, più o meno giovani, Corradini rimaneva
il modello con cui confrontarsi: infatti, Antonio Gai
(1686-1769) e Giovanni Maria Morlaiter (1699-1781) si
cimenteranno entrambi sul suo “cavallo di battaglia”,
la Fede velata. Il primo lo svolgerà per l’altar maggiore
della chiesa di San Vidal nel 1730, il secondo per l’altare
della chiesetta di villa Baglioni a Massanzago circa
cinque anni dopo [7] . Entrambi affronteranno la prova
gareggiando con Corradini in virtuosismo tecnico,
ma alla ricerca di una cifra personale che sortirà di lì a
poco per Gai in una declinazione più intellettualizzata
di classicismo e per Morlaiter in un Rococò “della specie
più pura” [8] .
Gli anni Trenta a Venezia sono ancora caratterizzati
da un fermento d’iniziative decorative e
si assiste a un’apertura anche verso artisti che ben
poco concedevano al gusto classicista. Alto inoltre
rimaneva l’interesse per due generi che avevano costituito
una peculiarità degli artisti attivi in Veneto sin
dal Seicento: la scultura da galleria, ora richiesta
anche dai collezionisti d’oltremanica, e la statuaria da
giardino [9] .
— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. II ATTO — 257
All’architetto Giorgio Massari si lega ancora
uno dei più importanti cicli scultorei veneziani di
questi anni, condotto come impresa corale da anziani
maestri e da artisti nati alla fine del Seicento, già
attivi sin dagli anni Venti. Si tratta della decorazione
del recinto marmoreo presbiteriale della cappella
del Rosario nella basilica dei Santi Giovanni e Paolo,
che venne eseguita tra 1729 e 1738 da alcuni dei “più
accreditati autori viventi” [10] : una vera e propria “galleria
di scultura”, composta da dieci rilievi, in grado
d’illustrare, nonostante le ferite inferte dal disastroso
incendio del 1869, il variegato panorama artistico del
momento ove convivevano, insieme al classicismo di
Giuseppe Torretti e di Francesco Bonazza, l’eccentrico
linearismo dell’ultimo Cabianca e diverse declinazioni
della tradizione barocca veneziana: dal naturalismo
descrittivo e bonario dell’anziano Giovanni Bonazza,
alla briosa grazia di Alvise Tagliapietra, sino al Rococò
del suo talentuoso allievo, Giovanni Maria Morlaiter.
Giovanni Bonazza (1654-1736), tra i più originali
scultori italiani operanti tra Sei e Settecento,
è l’autore dei due più grandi rilievi dell’insieme raffiguranti
l’Adorazione dei pastori e quella dei Magi, che
furono portati a termine con l’aiuto dei figli Tommaso
e Antonio, a chiusura di un’attività vastissima svolta
dal 1697 risiedendo a Padova. Commovente è soprattutto
il modellino della seconda scena (fig. 1), recentemente
rintracciato, del tutto dovuto alla mano del vecchio
maestro, che nel 1730 fu preferito all’impressionistica
terracotta del giovane Morlaiter, custodita nel
Museo del Settecento veneziano di Ca’ Rezzonico [11] .
Il tono intimo e partecipato della terracotta di
Giovanni si stempera nella resa della traduzione
marmorea, licenziata nel 1732, in una “varietas pittoresca
che sposa, nel ritmo cadenzato della struttura
compositiva, l’esotico e il popolaresco alla citazione
colta” [12] . Qui, nelle proporzioni più gentili
e snelle dei personaggi, sembra di poter avvertire
la presenza del geniale figlio Antonio (1698-1763),
attivo soprattutto nella terraferma, che all’inizio degli
anni Quaranta seppe arricchire i giardini delle ville
venete di nuovi straordinari soggetti rivolgendosi
inizialmente al repertorio degli intermezzi teatrali
di primo Settecento per poi ispirarsi alla realtà: aristocratici,
borghesi e popolani colti nelle più comuni
azioni di vita quotidiana, in sintonia con la pittura
degli interni domestici e delle scene campestri di
Pietro Longhi [13] .
FIG. 2
GIOVANNI MARIA
MORLAITER
Busto muliebre. Dresda,
Staatliche Kunstsammlungen
FIG. 3
GIOVANNI MARIA
MORLAITER
Busto muliebre. Dresda,
Staatliche Kunstsammlungen
6 _ Si veda S. Guerriero,
Sculpteurs vénitiens pour les
cours et les collectionneurs
d’Europe, in Éblouissante Venise.
Venise, les arts et l’Europe ai
XVII e siecle, catalogo della
mostra (Paris, Grand Palais,
Galeries nationales) a cura di C.
Loisel, Paris 2018, pp. 160-164.
7 _ Per la datazione della
prima statua si veda L. Moretti,
Notizie e appunti su G.B.
Piazzetta, alcuni piazzetteschi e
G.B. Tiepolo, “Atti dell’Istituto
veneto di Scienze, Lettere e
Arti”, CXLIII, 1984-1985, p. 383;
l’attribuzione della seconda si
deve a G. Pavanello, Le statue
della chiesetta di villa Baglioni
a Massanzago, in Venezia, le
Marche e la civiltà adriatica per
fessteggiare i 90 anni di Pietro
Zampetti, a cura di I. Chiappini
di Sorio, L. De Rossi, “Arte
documento”, 17-19, 2003, pp.
483-484.
8 _ C. Semenzato, La
scultura veneta del Seicento e del
Settecento, Venezia 1966, p. 63.
9 _ S. Guerriero, Il
collezionismo di sculture
moderne, in Il collezionismo
d’arte a Venezia. Il Seicento, a
cura di L. Borean e S. Mason,
Venezia 2007, pp. 43-61; e
P. Rossi, Il collezionismo di
sculture tra antico e moderno, in
Il collezionismo d’arte a Venezia.
Il Settecento, a cura di L. Borean
e S. Mason, Venezia 2009, pp.
48-63.
10 _ P.A. Pacifico, Cronica
Veneta sacra e profana, Venezia
1736, p. 168. Sul ciclo scultoreo
fondamentale il contributo di
S. Guerriero, I rilievi marmorei
della Cappella del Rosario ai
santi Giovanni e Paolo, “Saggi e
memorie di storia dell’arte”, 19,
1994, pp. 161-189.
11 _ Sulle vicende legate
alle terrecotte originali
settecentesche e a quelle
realizzate nell’Ottocento si veda
M. De Vincenti, L’Adorazione
dei Magi di Giovanni Bonazza,
Milano 2017.
12 _ G. Pavanello, Il
Settecento. La scultura, in Storia
di Venezia. Temi L’arte, II, Roma
1995, p. 461.
13 _ Vertice di questa
produzione è il complesso
di statue del giardino di villa
Widmann a Bagnoli, si veda M.
De Vincenti, Antonio Bonazza
e l’ingresso della “scultura di
costume” nel giardino della villa
veneta, in Antonio Bonazza e la
scultura veneta del Settecento,
Atti della Giornata di Studi
(Padova, Museo Diocesano,
25 ottobre 2015), a cura di C.
Cavalli e A. Nante, Verona 2015,
pp. 99-134.
14 _ S. Guerriero, Profilo di
Alvise Tagliapietra (1670-1747),
“Arte Veneta”, 47, 1995, pp.
43-45.
15 _ Ivi, pp. 32-51, e Id. 1994,
pp. 163-165,169.
16 _ Sul rapporto tra scultore
e pittore si veda da ultimo
M. De Vincenti, Giovanni
Maria Morlaiter “alter ego” di
Sebastiano Ricci in scultura,
in Sebastiano Ricci. Il trionfo
dell’invenzione nel Settecento
veneziano, catalogo della mostra
(Venezia, Fondazione Cini) a
cura di G. Pavanello, Venezia
2010, pp. 137-143.
17 _ Per il catalogo completo
si veda M. De Vincenti, Catalogo
del “fondo di bottega” di Giovanni
Maria Morlaiter, “Bollettino dei
Musei Civici Veneziani”, ser. III, 6,
2011, pp. 7-77.
18 _ De Vincenti 2010, pp.
138-140.
19 _ Qualche esemplare in M.
De Vincenti, Nuovi contributi
per il catalogo di Giovanni
Maria Morlaiter, “Saggi e
memorie di storia dell’arte”,
23, 1999, pp. 58-63, figg. 36-39,
43-48; S. Guerriero, in Per un
Atlante della Statuaria Veneta
da Giardino, IV, a cura di M. De
Vincenti, S. Guerriero, “Arte
Veneta”, 65, 2008, pp. 278-290.
20 _ G. Moschini, Della
letteratura veneziana, III,
Venezia 1806, p. 100.
Discepolo di Enrico Merengo, a sua volta
allievo di Giusto Le Court, Alvise Tagliapietra (1670-
1747) predilesse sempre composizioni ariose protese
alle leggiadrie decorative del Barocchetto che venivano
apprezzate all’inizio del secolo soprattutto in
provincia [14] . Nel cantiere domenicano Tagliapietra
fu invece scelto da Massari per svolgere il ruolo di suo
“uomo di fiducia” sovraintendendo ai lavori e realizzando
anche due rilievi, la Visitazione di Santa Maria
Elisabetta e la Purificazione della Beata Vergine, che
firmò congiuntamente al figlio Carlo (1703-1787) [15] .
Il suo allievo Giovanni Maria Morlaiter, padre del pittore
Michelangelo e dello scultore Gregorio (1738-
1784), eseguì invece le scene della Disputa di Gesù nel
Tempio e il Riposo nella fuga d’Egitto, poste in opera
rispettivamente nel 1735 e nel 1738, che sembrano
voler tradurre nel marmo l’impeto dinamico, il gioco
marcato di luci ed ombre e l’eleganza formale della
pittura di Sebastiano Ricci, della cui casa lo scultore
fu assiduo frequentatore, insieme ad Anton Maria
Zanetti il Vecchio, al console Joseph Smith e ai pittori
Fontebasso e Polazzo. La conoscenza diretta delle
opere di Ricci e della loro genesi fornì a Morlaiter
un’indicazione metodologica e un repertorio iconografico
a cui l’artista farà ricorso sia nella formazione
del proprio vocabolario, sia nella piena maturità [16] .
La vicenda artistica di Morlaiter si lega a quella
dell’architetto Massari, che lo scelse quale collaboratore
in molti dei progetti realizzati in circa trent’anni.
Il frutto più importante di tale sodalizio, sostanziato
da affinità di gusto e da comunione d’intenti, è, senza
dubbio, l’intera decorazione scultorea della chiesa
veneziana dei Gesuati che occupò lo scultore tra 1737 e
1755. Le sei statue annicchiate e le otto scene a rilievo
sovrapposte risaltano con la loro luminosità fratta
e vibrante nel candore dell’interno neopalladiano e
appaiono in piena consonanza anche col soffitto affrescato
da Giambattista Tiepolo e con le pale d’altare.
La qualità “pittorica” della scultura di Morlaiter
è immediatamente rilevabile nel prezioso corpus di
modelli e bozzetti in terracruda e terracotta, “fondo”
della bottega dell’artista venduto dalle sue eredi nel
1806 a Marcantonio Michiel e confluito infine nelle
collezioni del Museo del Settecento veneziano di Ca’
Rezzonico [17] . Queste opere conservano, infatti, tutta
la fragrante pregnanza del gesto creativo di Morlaiter
offrendo una più vivida impressione della sua idea di
scultura, levitante e aerea, e paragoni più immediati
con la pittura contemporanea come accade nel già
citato rilievo dell’Adorazione dei re magi, datato 1730,
di raffinatissima fattura, ove si colgono riferimenti suggestivi
a opere di Ricci all’epoca possedute dagli amici
Joseph Smith e Anton Maria Zanetti il Vecchio [18] .
Come la maggior parte dei suoi colleghi veneziani,
anche Morlaiter si dedicò alla scultura da collezionismo.
Sebbene il catalogo sia ancora limitato
[19]
, tale genere è documentato da varie terrecotte e
terrecrude del già citato “fondo di bottega” raffiguranti,
tra l’altro, piccoli busti femminili e putti paffuti
intenti in varie attività. Moschini annotava nel 1806
– attingendo forse alle testimonianze dirette delle
eredi di Morlaiter – che l’artista aveva eseguito “molti
gruppi e molte statue per la Corte della Sassonia, e
varie statue e varj bassi rilievi per l’immortale imperatrice
delle Russie Cattarina” [20] . Sebbene non siano
ancora chiari i termini della commissione della corte
di Dresda, è probabile che vi fossero compresi i quattro
aggraziati busti muliebri a soggetto allegorico,
caratterizzati dai tipici dolci lineamenti, che si conservano
nella Skulpturensammlung degli Staatliche
Kunstsammlungen (figg. 2-3) [21] . Possediamo invece
notizie circostanziate sulla commissione russa che
risale al 1764 e che coinvolse, oltre a Morlaiter, anche i
classicisti Bernardi e Marchiori. In quell’anno gli artisti
furono incaricati dall’ambasciatore russo a Vienna
d’eseguire statue e rilievi per la dacia di Caterina II a
Oranienbaum, che giunsero a destinazione nel 1767.
Morlaiter scolpì le allegorie della Fortezza e della
Prudenza, oltre al rilievo con la Fuga di Enea da Troia,
Marchiori eseguì invece le statue della Clemenza e della
Vigilanza, e il rilievo col Ratto di Elena, Bernardi fornì
infine le allegorie della Scultura, della Pittura, dell’Architettura
e della Matematica [22] . Le sculture furono
trasferite all’epoca dello zar Paolo I nella residenza di
Gatčina, dove ancora oggi si conservano e dove pure,
come documentano delle foto storiche, si trovavano
almeno altre due opere di Morlaiter, di cui non si aveva
notizia, raffiguranti Giove e Cerere, i cui resti si conservano
attualmente nel vicino Palazzo del Priorato [23] .
Tra gli scultori selezionati dall’ambasciatore
russo nel 1764 non appare Antonio Gai, “le grand Gai”,
il “demi Michel-Ange” veneziano, l’unico scultore
258 —GENERI E TEMI —
— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. II ATTO — 259
FIG. 4
ANTONIO GAI
Diana.
Celdridge, Castletown House
FIG. 6
David.
Venezia, chiesa di San Rocco
FIG. 5
ANTONIO GAI
Apollo
Ferrières-en-Brie,
Château de Ferrières
degno di nota in Italia secondo l’opinione dell’ambasciatore
svedese a Vienna, Carl Gustav Tessin,
espressa in una lettera del 1736 all’intendente di corte
di Stoccolma in cui elenca pregi e difetti degli artisti
conosciuti in Laguna [24] . Gli inizi di scultore in pietra
di questo raffinato interprete di un classicismo
colto e intellettualizzato risalgono agli inizi del decennio
precedente, come afferma il suo primo biografo,
Tommaso Temanza, e come confermano le carte d’archivio
[25] . Tuttavia, perduti tali lavori, rimangono a
documentare questa fase artistica solo poche statue
certe, tutte realizzate dopo il 1727: le allegorie firmate
dell’Udire e del Vedere dello scalone di villa Giovanelli
a Noventa Padovana (1727-31) e le statue della già
citata Fede velata e della Fortezza della chiesa veneziana
di San Vidal (1730), che denotano virtuosismo
tecnico e uno stile dinamico e decorativo. Ai primi
anni Venti, tuttavia, dovrebbe risalire il monumentale
busto ritratto raffigurante, probabilmente, il volitivo
Giovanni Emo in veste di bailo – carica rivestita tra il
1720 e il 1724 – di recente attribuito a Gai, che presenta
una resa del drappeggio e una verve analoghe,
in effetti, alle allegorie realizzate nello stesso torno di
anni per il palazzo dei Pisani di Santo Stefano, ora al
Walters Art Museum di Baltimora [26] .
Nel 1730 l’artista subentrò a Corradini sia
nella carica di priore del Collegio, sia in quella di scultore
“ufficiale” della Repubblica, e in conseguenza gli
furono assegnate tutte le più importanti commissioni
pubbliche del momento, tra cui le “portelle” in bronzo
della Loggetta di piazza San Marco (1733), forse la sua
opera più celebrata, esempio di un’originale vena decorativa
che rinvia ai motivi in voga nell’intaglio ligneo.
Alla sommità del cancello bronzeo stanno le allegorie
21 _ Le opere recano i
seguenti numeri di inventario:
1728 Bl. 054 Nr. 000a
(anonimo); 1765 Bl. 202 Nr. B
074 (anonimo); 1765 Bl. 202
Nr. B 067 (anonimo); 1765 Bl.
202 Nr. B 069 (attribuito a
Heermann, Paul); opere citate in
Guerriero 2018, p. 166, nota 52.
22 _ S. Androsov, Da Pietro I
a Paolo I. Mecenati russi e scultori
italiani nel XVIII secolo, in
Canova all’Ermitage. Le sculture
del museo di San Pietroburgo,
Venezia 1991, pp. pp. 32-33.
23 _ Le opere sono
attualmente oggetto di uno
studio da parte della scrivente.
24 _ Trascrizione completa
in M. Magrini, Giambattista
Tiepolo e i suoi contemporanei,
in Lettere artistiche del
Settecento Veneziano, a cura
di A. Bettagno, M. Magrini,
Vicenza 2002, pp. 80-84; De
Vincenti 2002, p. 245.
25 _ Si veda De Vincenti
2002, pp. 242.
26 _ S. Guerriero, Per un
repertorio della scultura veneta
del Sei e Settecento, “Saggi e
memorie”, 33, 2009, pp. 210, 255;
Id. 2018, p. 23; A. Bacchi, Antonio
Gai, in A Taste for Sculpture V.
Marble, bronze, terracotta, ivory
and wood (15th to 20th centuries),
a cura di A. Bacchi, London 2018,
pp. 88-95. Per le statue di palazzo
Pisani si veda G. Pavanello,
Antonio Gai’s Statues for Palazzo
Pisani Rediscovered in Baltimora,
“The Journal of the Walters Art
Musuem”, LX/LXI, 2002, pp.
27-31.
27 _ F. Benuzzi, Antonio Gai
(1686-1769), Tesi di dottorato,
XXV ciclo, Università Ca’
Foscari, relatore M. Frank,
Venezia 2013, pp. 106-107 cat.
23; Éblouissante Venise 2018, p.
22 con figura.
28 _ Sul rapporto d’amicizia
tra i due, attestato da una
caricatura di Zanetti che reca la
data 25 luglio 1732, rimando a
De Vincenti 2002, pp. 243-244.
29 _ Sull’impresa editoriale
si veda C. Crosera, Il volume
Delle antiche statue greche e
romane, in La vita come opera
d’arte. Anton Maria Zanetti e
le sue collezioni, catalogo della
mostra (Venezia, Ca’ Rezzonico)
a cura di A. Craievich, Crocetta
del Montello 2018, pp. 263-275.
30 _ T. Temanza, Zibaldon
[1738-1778], a cura di N. Ivanoff,
Venezia-Roma 1963, p. 30; De
Vincenti 2002, pp. 243-244.
31 _ L’opera, alta 149 cm,
è stata ritenuta di artista
sconosciuto: “French School,
late 18th century”, da D. Griffin,
Castletown: Decorative Arts,
Dublin 2011, p. 207; cat. No.
FC109.
32 _ Inv. NMDrhSk 115;
opera rintracciata da F. Benussi,
Uno scultore veneziano del
Settecento e le sue commissioni
europee: l’esempio di Antonio
Gai, in La storia dell’arte a
Venezia ieri e oggi: duecento
anni di studi, Atti del Convegno
Nazionale (Venezia, Ateneo
Veneto, 5-6 novembre 2012),
a cura di X. Barral i Altet e M.
Gottardi, “Ateneo Veneto”, ser.
III, 200, 2013, p. 353.
33 _ Cfr. Ivi, p. 344; il
Meleagro è stato identificato da
Pavanello 1995, p. 466.
34 _ Cfr. Guerriero 2018, pp.
163 (fig. 52), 164, 165 nota 34.
della Pubblica felicità e del Governo della Repubblica
assise tra i leoni marciani, che si palesano vicine per
attitudine, tipologia fisionomica e resa dei dettagli al
bozzetto in terracotta alla personificazione di Venezia
con il leone di San Marco di collezione privata [27] .
Nel 1733 Gai era già in rapporto d’amicizia
con Anton Maria Zanetti il Vecchio, che sorprendentemente
compare nel contratto per le portelle bronzee
in qualità di “intendente in tali materie” [28] : fu
proprio la frequentazione di questo straordinario
cosmopolita del Settecento veneziano a sostanziare la
maturazione artistica di Gai. Zanetti, infatti, in quegli
anni portava a termine insieme al cugino la preparazione
dei due magnifici volumi Delle antiche statue
greche e romane, pubblicati nel 1740 e nel 1743, frutto
di un lungo lavoro iniziato nel decennio precedente
che aveva coinvolto intellettuali, collezionisti e curiosi
determinando un diverso approccio verso l’antico e un
raffinamento del gusto [29] . È in questo lasso di tempo
che il catalogo di Gai s’arricchì di un soggetto nuovo,
le figure “all’antica”, che lo stesso Zanetti collezionò,
come ricorda il Temanza [30] : marmi dai soggetti non
sempre perspicui, ricercati da collezionisti veneziani
e stranieri – come le “velate” di Corradini –, di cui
sono fulgidi esempi l’inedita Diana (fig. 4), leggiadra
come una danzatrice, conservata a Castletown House
(Celbridge) [31] , e le due statue, firmate, del castello di
Ferrières, raffiguranti un’adolescente e fulgido Apollo
260 —GENERI E TEMI —
— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. II ATTO — 261
(fig. 5) e una Musa solenne: opere quasi neoclassiche
nella loro valenza culturale e nella tecnica di lavorazione
del marmo, candido e levigatissimo, tesa a ricreare
la perfezione ideale dei modelli greci e romani.
Grazie all’intermediazione di Zanetti, anche
il conte Tessin, suo prestigioso amico, acquisì “una
figura sedente” di Gai identificata nell’Allegoria della
scultura, ora nelle collezioni del Nationalmuseum
di Stoccolma [32] , così come pure fece il console britannico
Joseph Smith che, secondo Temanza, commissionò
una serie di sculture “sull’antico” da inviare
oltremanica di cui doveva far parte il Meleagro del
Metropolitan Museum, firmato e datato 1735 [33] . Altre
simili statue, raffiguranti le allegorie della Prudenza e
della Fortezza, entrarono tra 1733 e 1735 nella prestigiosa
collezione veneziana del maresciallo Johannes
Matthias von der Schulenburg, trasferita nel 1739 nel
palazzo di famiglia a Berlino, e giunsero in seguito,
insieme alla Fede di Corradini, al castello di Hehlen di
proprietà della famiglia a Wolfsburg, come documentano
alcune foto d’epoca [34] . Ignoto è invece il destino
toccato ai vari, virtuosistici gruppi bronzei e marmorei
commissionati dal maresciallo all’estroso e ricercatissimo
Francesco Bertos, “des choses jamais vues” e “très
copieux des figures entaillé [sic] d’une pièce”, raffiguranti
La Pittura e la Musica e La Scultura, l’Aritmetica
e l’Architettura [35] .
A partire dagli anni Quaranta il primato di
Antonio Gai venne insidiato da un altro straordinario
scultore, Giovanni Marchiori (1696-1778) [36] . Di origine
agordina, Marchiori era giunto a Venezia nel 1708
per formarsi come intagliatore e qui rimase sino al
1757 circa, quando si trasferì a Treviso. Suo capolavoro
nell’intaglio sono i rilievi per gli armadi della sala superiore
della Scuola Grande di San Rocco, commissionati
nel 1741, scene classicheggianti dal formato allungato
che risentono della lezione di Torretti, con sfondi
dagli spessori appena emergenti resi magistralmente.
Nel campo della scultura marmorea Marchiori s’impose
all’attenzione pubblica nel 1744 con le due statue
poste in controfacciata, ai lati dell’ingresso, della
chiesa di San Rocco: la Santa Cecilia e il David (fig. 6),
FIG. 7
GIOVANNI MARCHIORI
Saffo.
Providence, Rhode Island
School of Design Museum
of Art
FIG. 8
GIOVANNI MARCHIORI
Sacerdote antico.
Maincy, Château de
Vaux-le-Vicomte
35 _ A. Binion, La galleria
scomparsa del maresciallo von
der Schulenburg: un mecenate
nella Venezia del Settecento,
Milano 1990, passim. Cfr. anche
C. Avery, Bertos. The Triumph
of Motion Torino 2008, pp.
212-215, catt. 108-109; C. Avery,
H. Krelling, Feldmarshall,
Feldmarschall und
Kunstsammler Matthias Johann
von der Schulenburg (1661-
1747): ein unbekannter Bestand
von Kunstwerken aus seiner
Sammlung im Besitz der Grafen
von der Schulenburg-Wolfsburg,
Wolfsburg 2011, p. 71.
36 _ Sullo scultore si veda P.
Rossi, Giovanni Marchiori alla
Scuola Grande di San Rocco e
altre opere veneziane, Venezia
2014.
37 _ M. Favilla, R. Rugolo,
Venezia 700. Arte e società
nell’ultimo secolo della
Serenissima, s.l. 2011, p. 259.
38 _ Pavanello 1995, p. 469.
39 _ M. Magrini, Anton
Maria Zanetti il vecchio a
Francesco Algarotti: due
veneziani “cittadini” europei,
“Arte Veneta”, 73, 2016, pp.
227-231.
40 _ Si veda De Vincenti
2002, pp. 248, 281 figg. 60-61.
41 _ Per quest’ultima opera
vedi M. T. De Lotto, Novità su
Giovanni Marchiori e sulla Saffo
per Francesco Algarotti, “Arte
Veneta”, 67, 2010, pp. 172-182;
sulle precedenti De Vincenti
2002, p. 248.
42 _ L’opera è confluita nelle
collezioni dell’Ermitage, per
la sua provenienza vedi A. V.
Kruglov, “Statua marmorea di
Venere nuda, che non fu mai
pubblicata”, “Arte Veneta”, 64,
2007, p. 65 (figg. 34-35).
43 _ A. Angelieri, Saggio
istorico intorno alla condizione
di Este, altra volta stampato
col titolo di Brevi Notizie ed
ora in questa seconda edizione
migliorato ed accresciuto in
molte parti […], Venezia 1745, p.
68. È in corso di pubblicazione
da parte della scrivente uno
studio sull’intero apparato
scultoreo del giardino.
44 _ L. Menegazzi, Disegni
di Giovanni Marchiori, “Arte
Veneta”, XIII-XIV, 1959-1960, p.
152, fig. 198.
45 _ Menegazzi 1959-1960,
pp. 150-151
46 _ Giusta l’opinione di
A. Craievich, “Avendo l’arte
sua per fine principalissimo il
diletto”: note su alcuni disegni
di Francesco Algarotti, “Arte
Veneta”, 60, 2003, pp. 172,
173; si vedano in particolare
le teste riprodotte nelle figg.
8 e 11. Sulle acqueforti si veda
da ultimo A. Craievich, Scheda
in Giambattista Tiepolo “il
miglior pittore di Venezia”,
catalogo della mostra, Codroipo
(villa Manin di Passariano,
15 dicembre 2012-7 aprile
2013), a cura di G. Bergamini,
A. Craievich, F. Pedrocco,
Passariano Codroipo 2012, pp.
234-235, n. 28 a-g.
47 _ Ivi, p. 173.
48 _ F. Algarotti, Saggio
sopra la pittura, Livorno 1774,
pp. 43, 46.
49 _ “Antologia Romana”, IV,
1778, febbraio, XXXIV, p. 269.
il cui volto, com’è stato osservato, sembra riconducibile
a quello dell’Antinoo della Collezione Grimani [37] .
Ci troviamo di fronte a figure teatrali, senza magniloquenza,
di una perfezione immacolata, chiuse in un
armoniosissimo profilo e animate da un raffinatissimo
gioco di superfici, affini a certi nobilissimi personaggi
tiepoleschi quali si possono ammirare negli affreschi di
villa Cordellina a Montecchio Maggiore [38] .
La manifestazione di un gusto classicista
più rigoroso in Marchiori è legata al rapporto con
Francesco Algarotti, altra figura di intellettuale cosmopolita,
amico carissimo di Anton Maria Zanetti il
Vecchio [39] , in atto sin dal 1740. Nell’anno in cui veniva
stampato il primo volume di Delle antiche statue greche
e romane, Algarotti e il fratello Bonomo commissionarono
allo scultore quattro statue di divinità
classiche e un gruppo raffigurante Annibale che giura
eterno odio ai Romani per la loro villa a Carpenedo di
Mestre; opere che lo scultore condusse con uno stile
antichizzante molto personale [40] . I due fratelli richiesero
poi a Marchiori un busto di Saffo, ora conservato
a Providence insieme all’originale piedistallo ligneo
decorato da Giambattista Crosato, che dello scultore
fu amico (fig. 7) [41] . Quest’opera di dimensioni contenute
è un autentico capolavoro, un’opera ispirata, racchiusa
in un panneggio a fitte pieghe curvilinee tendente
all’astrazione geometrica, mentre il volto, finemente
cesellato, è connotato da un’espressione patetica
prettamente settecentesca. L’ovale è incorniciato
da ciocche di capelli inanellati che sembrano riprendere,
volutamente, l’acconciatura dell’antica e austera
Musa che decorava il palazzo veneziano degli Algarotti
[42]
, simile ad altre statue greche conservate nello
Statuario pubblico. L’alta qualità del busto di Saffo si
ritrova ancora in due inediti Sacerdoti antichi, firmati
da Marchiori (fig. 8), che ornano il parco del castello di
Vaux-le-Vicomte, ove giunsero nel secondo Ottocento
attraverso il mercato antiquario. Le due opere in pietra
tenera furono in verità eseguite per la nobile Chiara
Pisani Moretta, intenta nei primi anni Quaranta a rinnovare
il giardino del vecchio palazzo di famiglia a Este
con il proposito di riunirvi “i più rinomati scalpelli
dello stato Veneto, per arricchirlo di buone Statue, e
d’altri diversi lavori” [43] . L’appartenenza al disperso
ciclo scultoreo dei Pisani trova conferma nei disegni
dell’album di collezione privata, noto sin dal 1960, ove
appaiono le riproduzioni di opere di Marchiori eseguite
per vari committenti, tra cui anche la Pomona
del console Joseph Smith con l’indicazione “fù spedita
a Londra” [44] . Due dei disegni dell’album, recanti la
scritta “in Ca’ Pisani in Este” e la data “1743”, riproducono
infatti la stessa figura, fornendone l’uno la fronte
e l’altro il retro, corrispondente, in ogni particolare,
al Sacerdote che porta sulla spalla la testa recisa di un
animale mentre stringe ancora nella mano la lunga
lama sacrificale [45] . Le due statue denotano un’accuratezza
di intaglio di rara finitezza, a riprova che il
genere della scultura da giardino, tipicamente veneto,
non era affatto considerato meno degno di cura della
scultura in marmo. La testa del Sacerdote, la cui lunga
barba ripropone il motivo delle ciocche inanellate di
Saffo, trova un suggestivo parallelo negli studi grafici
di Francesco Algarotti raffiguranti mascheroni,
profili maschili e muliebri desunti da esempi antichi
come monete e gemme, approntati nei primi mesi del
1744 per visualizzare idee e teorie che andava elaborando
mentre si trovava in contatto con Giambattista
Tiepolo [46] . Queste prove grafiche sono state giustamente
quali frammenti del dialogo culturale intercorso
in quel tempo con il pittore che Algarotti sommergeva
di consigli e proposte nell’intento di “interferire’
il più possibile nell’attività del giovane amico” [47] .
Tale dialogo culturale dovette evidentemente coinvolgere
anche Marchiori, come le statue da giardino di
Chiara Pisani sembrano dimostrare. Torna alla mente a
riguardo un breve passaggio tratto dal Saggio sopra la
pittura di Francesco Algarotti, ove riecheggiano i probabili
contenuti dei colloqui intercorsi con Marchiori
riguardanti l’importanza di studiare le sculture greche:
“rimangono ancora come uno esempio non solo di giusta
simmetria, ma di grandiosità nelle parti, di decoro
e di contrasto nelle attitudini, di nobiltà nel carattere;
ne rimangono insomma come il paragone di ogni
genere, e lo specchio della bellezza”, quindi “il giovane
non potrà mai considerar le greche statue, qualunque
carattere od età ne figurino, che non ci scorga in lor
nuova bellezza” [48] . Il 2 gennaio del 1778 Giovanni
Marchiori moriva, ne dava notizia nel febbraio l’“Antologia
Romana” definendolo “uno de’ migliori artefici
del presente secolo, per il disegno, panneggiamenti, e
delicatezza di scalpello” [49] . L’anno successivo Canova
partiva per Roma.
262 —GENERI E TEMI —
— SCULTURA VENEZIANA DEL SETTECENTO. II ATTO — 263
MAUREEN
CASSIDY-GEIGER
durante i regni di Augusto II (1697-1733) e Augusto III
(1733-1763), elettori di Sassonia, che divennero anche
re eletti (ovvero non ereditari) di Polonia. Mentre alcuni
di questi doni rappresentavano una forma di ringraziamento
nei confronti di chi aveva ospitato Friedrich
Christian (1722-1763), principe della corona di Sassonia
che soggiornò a Venezia per sei mesi tra il 1739 e il 1740,
rimangono purtroppo per lo più avvolti nel mistero i
motivi dei doni in porcellana di Meissen antecedenti e
successivi a questa circostanza [3] .
MANIFATTURA MEISSEN
Tazza e piattino con stemma
Gradenigo, particolare.
Trieste, collezione Giovanni
Lokar
1 _ Per esempio, Elbflorenz:
Italienische Präsenz in Dresden
16.-19. Jahrhundert, a cura
di B. Marx, Dresden 2000; e
Venedig – Dresden / Begegnung
zweier Kulturstädte, a cura di B.
Marx e A. Henning, Dresden-
Leipzig 2010. Anche P. Kerber,
Eyewitness Views / Making
History in Eighteenth-Century
Europe, Los Angeles 2017.
2 _ Artisti, musicisti, medici,
segretari, cuochi e droghieri
provenienti dai vari Stati italiani
trovavano abitualmente impiego
presso la corte di Dresda.
3 _ Fragile Diplomacy /
Meissen Porcelain for European
Courts, ca. 1710-63, catalogo
della mostra (New York, The
Bard Graduate Center for
Studies in the Decorative Arts,
Design, and Culture) a cura di
M. Cassidy-Geiger, New Haven
2017. Per quanto riguarda il
tour del principe in Italia, cfr.
M. Cassidy-Geiger, Die Grande
Kur 1738-1740 / The Grand
Cure 1738-1740 (brochure
esposizione Dresda, 2018) e
comtedelusace.wordpress.com.
GENERI
E TEMI
F R AGI L I D ON I
PER L A
SERENISSIMA:
SERVIZI ARALDICI
DI M EISSEN
PER IL PATRIZIATO
VENEZIANO
Le relazioni culturali e artistiche
intercorse tra la corte reale di Sassonia e gli Stati
italiani a partire dal Rinascimento fino a tutto il XVIII
secolo sono da tempo oggetto di interesse e studio tra
accademici e storici dell’arte a Dresda e in altre nazioni
[1]
. Traendo spunto dalle opere d’arte e dagli archivi che
sono sopravvissuti fino a oggi, Venezia rappresentava
un punto di passaggio obbligato per le persone, i prodotti
alimentari, le manifatture commerciali e i doni
che si spostavano regolarmente tra Dresda da un lato e
lo Stato pontificio e il Regno di Napoli dall’altro [2] . La
Serenissima fu anche destinataria di almeno una dozzina
di ricchi servizi realizzati in fragile porcellana di Meissen
La Real Fabbrica di Porcellane (Königliche
Porzellan-Manufaktur) dello stato principesco di
Sassonia, nell’attuale Germania, venne fondata ufficialmente
nel 1710 all’interno del castello di Meissen, nei
pressi di Dresda. Ancora attiva ai giorni odierni come
Manifattura statale di porcellane (Staatliche Porzellan-
Manifaktur), la fabbrica e gli oggetti ivi prodotti da trecento
anni sono noti colloquialmente come “Meissen”.
Manifattura di grande prestigio paragonabile all’Opificio
delle pietre dure dei Medici o alla Manifattura dei
Gobelins dei re francesi, la porcellana di Meissen fu un
tesoro nazionale che funse principalmente da mezzo
di rappresentanza per la decorazione delle residenze
reali e divenne rapidamente il dono diplomatico per
eccellenza della corte sassone, sostituendo gli oggetti
di serpentino levigato proveniente dalle cave locali.
Meissen fu la prima fabbrica in Europa a produrre la
porcellana a pasta dura secondo procedimenti simili a
quelli noti in Cina e Giappone, ispirando così la fondazione
di simili manifatture in tutta Europa, tra cui le
celebri Vezzi (1720-27) e Cozzi (1764-1804) a Venezia.
Sin dall’avvio dell’azienda, il dono standard di
porcellane Meissen era rappresentato da un servizio da
tè, caffè o cioccolata. Nel tempo, e grazie ai miglioramenti
della tecnologia, vennero introdotti anche
serie di vasi e servizi da tavola degni di nota. Le forme
della gamma iniziale prendevano spunto dagli oggetti
in metalli preziosi, da porcellane e lacche asiatiche e
da piccole sculture di zucchero, avorio e bronzo presenti
nelle collezioni reali di Dresda. I cosiddetti
“modellatori” avevano il compito di ideare e realizzare
gli stampi delle forme di porcellana che venivano
poi invetriate e decorate da pittori esperti in colori a
smalto, dove ogni passaggio richiedeva poi la cottura
—FRAGILI DONI PER LA SERENISSIMA — 265
in forno. La base di porcellana bianca invetriata era
come una tela per dipinti in miniatura impreziositi da
cornici dorate. La decorazione di un servizio o di una
serie era uniforme per tutti i pezzi che li componevano,
garantendo così armonia e completezza. Molti
dei doni di Meissen presentavano lo stemma della
persona cui erano indirizzati, un grande favore per lo
studioso moderno. La maggior parte degli oggetti di
Meissen dotati di stemma sono pertanto da considerarsi,
originariamente, doni.
Se si esclude il pregio artistico dell’oggetto, la porcellana
di Meissen non aveva valore intrinseco, e fu proprio
questa sua naturale mancanza di valore, così come
la sua fragilità, che permise la sopravvivenza, fino al XX
secolo, di numerosi esemplari nella stessa casa o città in
cui erano giunti come dono, solitamente in perfette condizioni.
Dopo essere stati consegnati, gli oggetti in porcellana
erano subito destinati al magazzino, o altrimenti
a luoghi nascosti e protetti della casa, dove rimasero per
generazioni, la loro storia perduta fino all’età moderna,
quando i servizi araldici iniziarono a fare la loro comparsa
sul mercato o a essere esposti nei musei. L’interesse
per questi oggetti di porcellana, che fungono anche da
rappresentazione storica, venne definitivamente sancito
nel 2007, con l’esposizione Fragile Diplomacy: Meissen
porcelain for European Courts, ca. 1710-63 [4] .
Ogni servizio da caffè, tè o cioccolata che veniva
donato era un insieme standard composto da una caffettiera,
cioccolatiera o teiera, da un barattolo per il tè,
da una zuccheriera, da una waste bowl, da almeno sei
tazze da tè (rispettivamente con o senza manico) con
piattino, e forse da un paio di tazze per la cioccolata
(fig. 1). Pertanto, ogni pezzo singolo giunto sino a oggi
era in origine parte di un servizio molto più vasto. I
doni in porcellana di Meissen venivano accuratamente
riposti in cassette di legno e trasportati all’estero in
scatole regalo legate in cuoio (“Futteral”), realizzate da
specialisti sassoni che disponevano gli interni adattandoli
ai singoli pezzi, imbottendo e foderando gli spazi
vuoti con seta e guarnizioni in oro (fig. 2). Non si sa
con esattezza se queste scatole contenessero effettivamente
i servizi durante il trasporto, ma erano sicuramente
una parte integrante del dono nel momento in
cui era consegnato. Per esempio, nel resoconto pubblico
della visita del 1741 dell’ambasciatore straordinario
spagnolo Cristóbal Gregorio Portocarrero, conte di
Montijo, a Dresda, il ricchissimo servizio Meissen che
ricevette in dono fu portato nelle sue stanze durante
la sua assenza, tolto dall’imballo di viaggio e disposto
in scatole e cestini su ogni superficie disponibile,
pavimento compreso, per fargli una sorpresa [5] . Non
vi furono deroghe all’uso di presentare piccoli oggetti
preziosi, come tabacchiere e boîtes â portrait (gioielli
contenenti ritratti in miniatura), allo stesso destinatario
nel corso di un’udienza pubblica con il re. I doni
diplomatici più tradizionali e di grande valore sono
tuttavia raramente sopravvissuti fino ai giorni nostri, in
quanto venduti rapidamente oppure modificati o fusi
in seguito. Per contro, la porcellana rappresentava un
omaggio ausiliario e un oggetto di identità nazionale
che, per la complessità del trasporto, del disimballo e
dell’esposizione era consegnato in sede privata.
FIG. 1
MANIFATTURA DI MEISSEN
Servizio da tè, caffè e
cioccolata con lo stemma della
famiglia Contarini. Monaco,
Bayerisches Nationalmuseum
4 _ Fragile Diplomacy 2017.
5 _ “Er fuhr sodann
nach-Hause, und behielt den
Ceremonien-Meister bey sich
zur Tafel. Als sie von derselben
aufstunden, und zusammen
aus dem Speise-Gemach in
sein Zimmer trate, ward er auf
die angenehmste Weise von
der Welt überrascht, da er den
ganzen Fußboden mit einem
völligen Tafel-Aufsatz für 30.
Personen, von ausbündigschönem
Sächsischen Porcellan,
nicht weniger alle Tische und
Schranke mit Caffée- Thée-
Choccolade- und Camin-
Aufsatzen, ebenfalls von dem
kostbarsten hiesigen auf
Miniatur-Art gemahlten und
reich vergüldeten Porcellan,
verschiedener Gattung
vorgestellet, fand. Dieses
Königliche Präsent erweckte
bey demselben, weniger wegen
des Werths, welcher sich auf
etliche tausend Rthlr. belief,
als vielmehr dieserwegen ein
vollkommenes Vergnügen,
weil er selbst ein so grosser
Kenner und ausserordentlicher
Liebhaber des Porcellans
ist, und überdi . . . unserm
Sächsischen, vor allen andern
in der Welt, den Vorzug
beyzulegen pfleget.” Sächs.
Hof- und Staats-Calender
(1742): n.p. [Poi andò a casa, e
tenne con sé a tavola il Maestro
di Cerimonie. Quando si
alzarono e si recarono insieme
dalla sala da pranzo nella sua
camera, rimase piacevolmente
sorpreso scoprendo che tutto
il pavimento era coperto da un
intero servizio da tavola per
trenta persone, di porcellana
di Sassonia straordinariamente
bella, per non parlare di tutti
i tavoli e tutte le credenze
coperti di servizi da caffè,
tè e cioccolata e da vasi da
camino, tutti nella più preziosa
porcellana locale dipinta
con miniature di vario stile
e riccamente dorata. Questo
regalo reale suscitò nella stessa
persona grandissimo piacere,
non tanto per il suo valore, che
ammontava a diverse migliaia
di Reichstaler, ma soprattutto
perché è grande conoscitore e
appassionato di porcellana, e in
particolare preferisce la nostra
porcellana sassone a qualsiasi
altra varietà al mondo].
6 _ Come riportato da
Giulio Contarini in una
relazione ufficiale: “Primo
dover del nostro officio era
quegli d’esponere in nome
publico al Principe le più
affettuose congratulazioni
convenienti allo accoglimento
d’un ospite tanto illustre, e
così si è fatto. Toccato essendo
a me Contarini di rilevargli
nei termini più abbondanti la
consolazione della Republica
al di lui arrivo accresciuto dalla
grata memoria d’aver accolto
FIG. 2
MANIFATTURA DI MEISSEN
Servizio da tè, caffè e
cioccolata con lo stemma
della famiglia Correr, nella
sua scatola di presentazione
originale. Collezione privata
FIG. 3
PIETRO LONGHI
Il principe della corona
Friedrich Christian viene
accolto al confine della
Repubblica di Venezia.
Varsavia, Castello reale
Il matrimonio della principessa sassone Maria
Amalia con Carlo VII, re di Napoli (in seguito re Carlo
III di Spagna), nel 1738, e il Grand Tour compiuto dal di
lei fratello in Italia dal 1738 al 1740 indussero un flusso
costante di doni in porcellana di Meissen verso Napoli,
Roma, Firenze e Venezia. La corrispondenza diplomatica
conservata nell’Archivio di Stato di Dresda, scritta
in francese – l’allora lingua di corte –, documenta il
viaggio dei carri trainati da cavalli o buoi lungo le strade
postali che correvano da Dresda a Palmanova attraversando
il territorio austriaco. Al trasporto erano assegnati
anche scorte militari e corrieri speciali. Questi
ultimi erano artisti, rappresentanti della manifattura di
Meissen o servitori di corte che avrebbero poi dovuto
disimballare, disporre in modo artistico e presentare
formalmente il dono da parte del re. Avevano anche il
compito di riportare al sovrano le reazioni del destinatario.
Sebbene la fabbrica di Meissen detenga un archivio
storico, sono scarne le documentazioni sui doni di
porcellana che giunsero a Venezia. Fortunatamente, la
corrispondenza diplomatica a Dresda offre informazioni
di grande rilievo.
La maggior parte degli oggetti in porcellana
di Meissen inviati a Venezia può essere datata al 1740
circa e reca gli stemmi delle famiglie che ospitarono
Friedrich Christian – o che interagirono in qualche
modo con lui – durante il suo soggiorno veneziano dal
21 dicembre 1739 all’11 giugno 1740. Il principe venne
accolto sulla “Terrafirma” da quattro giovani delegati
che sarebbero stati per lui compagni e guide: Zuan
Alvise I Mocenigo, Giulio Contarini, Piero Correr e
Andrea Querini (fig. 3) [6] . Le stesse famiglie avevano
accompagnato anche suo padre e, prima ancora, suo
nonno nei loro soggiorni veneziani durante il Grand
Tour . Com’era avvenuto per sua sorella, suo padre e
suo nonno, il principe ricevette come tradizionali doni
veneziani un trionfo da tavola in vetro di Murano e
cestini traboccanti di pesce fresco; oggi non v’è traccia
a Dresda dell’opera in vetro.
I doni in porcellana di Meissen per Venezia
furono commissionati attraverso lo scambio di corrispondenza
tra il primo ministro conte Brühl e Joseph
Anton Gabaleon, conte di Wackerbarth-Salmour,
maggiordomo di palazzo del principe. Uno scambio
epistolare del febbraio 1740 riguardava lo stemma
araldico dei Mocenigo-Corner, richiesto per la decorazione
e prontamente fornito a Brühl, il quale a sua
volta inviò il campione ai pittori di Meissen. Alvise IV
Mocenigo e Pisana Corner ospitarono ufficialmente il
principe, anche se in realtà il ragazzo si stabilì sull’altra
riva del canale, a Ca’ Foscari. La famiglia Mocenigo
aveva accolto in passato anche il padre del principe, e di
conseguenza ricevette i doni più preziosi e importanti:
una serie di sette vasi e un servizio unico da tè, caffè e
cioccolata, composto da ventiquattro pezzi (figg. 4, 5
a,b). Ogni elemento del servizio di porcellana era decorato
con gli stemmi inquartati Mocenigo e Corner che
fluttuavano sopra paesaggi terrestri e marini finemente
smaltati, realizzati da Bonaventura Gottlieb Hauer e
aiuti. Le vedute smaltate erano ispirate a incisioni di
proprietà della manifattura di Meissen. I vasi Meissen
erano in genere riservati alle famiglie reali, pertanto il
266 —GENERI E TEMI —
—FRAGILI DONI PER LA SERENISSIMA — 267
dono di un insieme tanto eccezionale a una famiglia
di rango dogale era la testimonianza della particolare
considerazione che i reali di Sassonia riservavano
a questi nobili veneziani. I dipinti miniaturizzati che
ornano tutti gli elementi del dono sono inoltre paragonabili
per qualità e stile a quelli di un servizio Meissen
donato al re e alla regina di Francia nel 1737-41; ciò
sottolinea ulteriormente la stima riservata da Augusto
III ai Mocenigo-Corner. Il tessuto che incornicia le
cartouches, reso con un broccato particolarmente elaborato,
potrebbe riprendere il motivo su cui poggiava
lo stemma fornito a Meissen, e andato perduto.
Per contro, i servizi preparati per i deputati
del principe sono piuttosto semplici: ogni elemento è
decorato con uno stemma in posizione centrale e qualche
ramo di fiori dipinto oppure con una minima smaltatura
del bordo (cfr. figg. 1, 2; catt. VI.16-18). Poiché
i doni di Meissen non furono pronti in tempo per la
partenza del principe, nel giugno 1740, si procedette
con l’acquisto di gioielli in loco per alcune famiglie che
avrebbero ospitato il giovane, mentre ogni delegato
ricevette una boîte â portrait spedita con corriere da
Dresda. L’eventuale arrivo delle porcellane di Meissen
a Venezia non è invece documentato.
Il principe risiedette a Ca’ Foscari, la cui famiglia
ricevette in dono un servizio in porcellana di Meissen
recante il suo stemma e belle miniature dipinte (catt.
VI.31-32). Sono noti anche servizi simili con gli stemmi
araldici dei Morosini (catt. VI.14-15), Pisani Corner (catt.
VI.21-22), Diedo (cat. VI.28) e Gradenigo (catt. VI.33-
35), tutte famiglie citate nei diari del viaggio principesco
in Italia, sebbene le porcellane siano diversamente
datate –1740-45 circa – per motivi stilistici o in base
ai marchi incisi o dorati apposti sul fondo [8] . In un
caso, la data “1743” era incorporata nella decorazione
smaltata su parti del servizio Meissen donato a Piero
Andrea Capello quando fece tappa a Dresda durante
il viaggio per Londra, dove nel gennaio 1744 avrebbe
assunto un incarico diplomatico (cat. VI.13). Capello
aveva cenato con il principe a Venezia nel 1740.
Lo stile decorativo dei primi servizi araldici
veneziani in porcellana di Meissen li data al 1725 circa;
per esempio, lo stemma della famiglia Contarini compare
su parti di un servizio con classici motivi Meissen
di chinoiserie risalente alla metà degli anni venti del
XVIII secolo (fig. 6). Altri servizi dello stesso periodo
recano gli stemmi delle famiglie Grimani (cat. VI.30)
e Da Lezze (catt. VI.25-26). Piero Grimani e Andrea
Da Lezze erano entrambi diplomatici di alto rango.
Le ricerche di questi primi doni nella corrispondenza
diplomatica di Dresda non hanno dato alcun risultato.
Non si sono ancora compresi invece alcuni
doni in porcellana di Meissen inviati a Venezia intorno
al 1750, per esempio quelli recanti gli stemmi dei Da
Ponte (cat. VI.19) e Pisani-Gambara (catt. VI.23-24).
La corrispondenza diplomatica tra il rappresentante
di Sassonia a Venezia, Pietro Minelli, e il conte Brühl
nel periodo 1746-56 riferisce di opere d’arte, musicisti,
tessuti e cioccolato, diretti a Dresda. In cambio, vennero
spediti a Venezia oggetti in porcellana di Meissen
e altri manufatti di produzione sassone, in quanto la
Sassonia era alla ricerca di nuove opportunità commerciali
in Italia attraverso il Veneto [9] . Dopo il periodo in
FIG. 4
MANIFATTURA DI MEISSEN
Parti di un servizio da tè,
caffè e cioccolata con lo
stemma Mocenigo e Corner.
Collezione privata
altre volte sotto lo stesso
nome il Conte di Lusazia, ed in
questa istessa città, l’Augusta
Persona della Maestà di suo
Padre, e da quella più fresca
ancora, di aver pratticate le
più cospicue dimostrazioni
d’onore all’occasione del
passaggio per i Publici Stati,
seguito nell’anno scorso della
Regina delle due Sicilie sua
sorella; soggiungendo infine,
che come le comissioni nostre
erano quelle d’assistere a S. M.
R. E. in maniera corrispondente
all’antica amicizia, ed alla
perfetta estimazione del Senato
per l’Augusta Casa di Sassonia,
così niente s’ommetterebbe da
noi per ben essequirle co la più
accurata attenzione”; Biblioteca
del Museo Correr Venezia,
Cod. Cicogna 1248, Officii
d’Ambassatori in Coleggio e
giurisdizion del Friuli, fols.
21–24v.
7 _ Il principe, come suo
padre e suo nonno, posò
per Rosalba Carriera, il cui
inventario dimostra che
possedeva tazze e piattini di
porcellana, forse alcuni pezzi
dono di Meissen; cfr. L. Moretti,
Rosalba Carriera: l’inventario
dei suoi beni e alcune minuzie
marginali, “Arte Veneta”, 68,
2011, pp. 308-319, in particolare
p. 315, courtesy di Francesca
Stopper e Alberto Craievich.
8 _ I diari sono trascritti
e pubblicati online:
comtedelusace.wordpress.com.
In base ai diari, Vincenzo Maria
Diedo (1699-1753) fu vescovo di
Torcello e Murano.
9 _ È stato suggerito che
le manifatture sassoni fossero
destinate al Fondaco dei
Tedeschi a Venezia; cfr. E. Dal
Carlo, Doni Diplomatici di
Federico Cristiano di Sassonia
ai Nobili Veneziani, “Studi
Veneziani”, N.S., LXVI, 2012, pp.
377-393, in particolare p. 381,
nota 10.
10 _ Sächsisches
Hauptstaatsarchiv Dresden,
10026, Geh. Kab. 2815/1, fol.
306.
11 _ Sächsisches
Hauptstaatsarchiv Dresden,
10026, Geh. Kab., Loc.
2813 – 2818 che contiene la
corrispondenza diplomatica
tra Dresda e l’agente sassone
a Venezia per gli anni 1748-68
con numerosi riferimenti a
questioni commerciali e fiscali.
12 _ È dubbia l’autenticità
del vassoio in porcellana
di Meissen con lo stemma
dei Pisani dominato dal
corno dogale, conservato a
Ca’ Rezzonico, Museo del
Settecento veneziano (inv. Cl. V,
n. 21); la stessa veduta di Piazza
San Marco è visibile su un’alzata
con lo stemma dei Barbarigo,
andata perduta (G. Lorenzetti,
L. Planiscig, La collezione dei
conti Donà dalle Rose a Venezia,
Venezia 1934, tav. XCII, fig. 237).
FIG. 5a
MANIFATTURA DI MEISSEN
Vasi con lo stemma
Mocenigo e Corner.
Collezione privata
FIG. 5b
MANIFATTURA DI MEISSEN
Vasi con lo stemma
Mocenigo e Corner.
Collezione privata
FIG. 6
MANIFATTURA DI MEISSEN
Ciotola da tè e piattino con
lo stemma della famiglia
Contarini.
Collezione privata
cui gli scambi vennero interrotti per via della Guerra
dei sette anni (1756-63), aumentò l’opportunità di doni
in porcellana per il Collegio dei Savi (“gratificatinos
secretes et petits presents ne Porcelaine”) in cambio di
regole doganali meno restrittive [10] . Ovviamente questo
materiale d’archivio garantisce una conoscenza più
ampia e studi più approfonditi [11] . Un ultimo punto
da considerare: destinatarie dei doni in porcellana di
Meissen furono le famiglie nobili veneziane, e mai il
doge, sottolineando così la gerarchia di potere nella
Repubblica [12] .
268 —GENERI E TEMI —
—FRAGILI DONI PER LA SERENISSIMA — 269
FRANCESCA
STOPPER
FIG. 1
VETRERIA DI GIUSEPPE
BRIATI
Lampadario, particolare.
Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento
veneziano
1 _ G. Boesen, Venetianske
Glas På Rosenborg / I vetri
veneziani del Castello di
Rosenborg, Kobenhavn 1960,
p. 49; R. Barovier Mentasti, La
vetraria veneziana, in Storia di
Venezia, Temi. L’arte, II, Roma
1995, p. 895; L. Urban, Banchetti
veneziani dal Rinascimento al
1797, San Vito di Cadore 2007,
pp. 85-87.
2 _ P. Zecchin, I “deseri” di
cristallo a Venezia nel Settecento,
“Journal of glass studies”, 46,
2004, p. 163.
3 _ Ivi, p. 159.
4 _ C. Alberici, Il Mobile
Veneto, Milano 1980, p. 186.
5 _ Venezia, Archivio di
Stato, Savio Cassier, reg. 61,
Regali di Medaglie, e Collane
d’Oro a Ministri Esteri. Si veda:
P. Voltolina, La storia di Venezia
attraverso le medaglie, III,
Venezia 1998.
GENERI
E TEMI
L E A RT I
DECOR AT I V E
Nel corso del Settecento
la Serenissima organizzò straordinarie cerimonie per
accogliere principi e sovrani in visita alla città. Oltre
alla regata e al banchetto, il cerimoniale prevedeva doni
quanto mai ricercati, che la Repubblica destinava ai suoi
ospiti per impressionarli. A Federico IV re di Danimarca
e Norvegia, giunto a Venezia alla fine del 1708, furono
offerti “molti preziosi vetri”, “tanti quanti occorrono per
un servizio [...], che siano piatti piccoli o grandi o altri
fornimenti” [1] . Nel 1752 furono inviati, invece, alle autorità
turche due deseri “a giardino con perter di verdura
tutto di cristallo all’ultima moda” lavorati da Giuseppe
Briati [2] . Qualche anno dopo, vennero presentati
all’Ambasciatore straordinario del re delle Due Sicilie un
trionfo da tavola in vetro, acquistato dalla manifattura
Toninotto, e “frutti di cera [di] varie sorti” modellati da
Giovanni Battista Talamini [3] . Nel 1760 la Repubblica
donava alla moglie dell’Arciduca d’Austria un salotto in
vetro, composto da “un gran specchio, un tavolino, otto
careghe fatte di cristallo finissimo di colore azzurro” [4] .
Per gli ambasciatori stranieri e i loro segretari, infine, il
Senato veneziano era solito commissionare ai più valenti
orefici medaglie d’oro con collane [5] .
Sono solo alcuni dei numerosi doni diplomatici
ordinati dalla Serenissima ai suoi artigiani nel
corso del XVIII secolo; ma la lista potrebbe continuare.
Vetri, cere, mobili, oreficerie: nel dimostrare la sua ricchezza,
il governo veneziano si affidava all’abilità delle
sue manifatture. Si tratta di operazioni assai costose,
annotate scrupolosamente nei registri delle magistrature
del Savio Cassier e degli Ufficiali alle Rason
vecchie, che la Repubblica si sobbarcava non solo per
abbagliare i suoi ospiti, ma anche in segno di alleanza
e amicizia. Tuttavia attraverso questi documenti noi
abbiamo il metro di giudizio dei contemporanei sulle
arti, un censimento della produzione d’élite dello stato
e informazioni sugli artigiani che servivano ufficialmente
la Serenissima [6] . Nonostante la pittura veneziana
avesse raggiunto nel Settecento un’importanza
internazionale, il governo non incaricava i suoi artisti di
dipingere quadri da donare, come non li impegnava in
grandi commissioni pubbliche; ma consegnava oggetti
di lusso, che esprimevano l’identità “nazionale” (come
il vetro), e che erano della massima qualità artistica [7] .
Agli autori di queste originali manifatture va
riconosciuto il talento, le eccellenti capacità tecniche,
ma alle volte anche un carattere caparbio e determinato.
Tra questi va menzionato Giuseppe Briati, che,
sentendosi minacciato dalla rivalità degli altri vetrai
muranesi, ottenne il permesso di aprire una fabbrica a
Venezia, sebbene fin dal XIII secolo le fornaci fossero
state concentrate a Murano per allontanare dalla città
il pericolo di incendi. Egli inoltre disattese le concessioni
accordategli dalla Serenissima nel 1736, producendo
anche bicchieri e bottiglie, come si evince dalle
carte dei Pisani di San Polo [8] . Vi erano poi Pasquale
Antonibon e Geminiano Cozzi, che per tutta l’esistenza
furono aperti rivali: si accusarono reciprocamente
di spionaggio, concorrenza sleale e sabotaggio.
Al contrario, dei marangoni abbiamo scarsissime
notizie [9] . Eppure, come già metteva in luce Giuseppe
Morazzoni – pioniere delle arti decorative italiane –,
— LE ARTI DECORATIVE — 271
l’arte del mobilio ha dato un contributo fondamentale
al Rococò veneziano e ha goduto di una fortuna collezionistica
strabiliante nel corso del Novecento [10] .
In tralice si è appena espresso uno dei pilastri
dell’arte del secolo dei Lumi: la centralità delle arti
decorative. Mobili, stucchi, specchi, porcellane, argenti
e vetri sono valorizzati al massimo, come mai prima
d’allora. In linea con quanto avveniva a Parigi, centro
creatore e propulsore del Rococò, acquistano grande
importanza gli allestimenti degli interni, così che decorazione
e arredamento sono concepiti in modo assolutamente
unitario [11] . Anche Venezia, fin dal primo
decennio del secolo, risente dell’influenza dei dettami
del gusto d’oltralpe, come testimonia la lettera fittizia
indirizzata alla Marchesa N.N. apparsa sulla “Galleria di
Minerva” nel 1708, in cui si descrive l’arredo di palazzo
Manin in occasione di un matrimonio particolarmente
sfarzoso. Nella rassegna degli ambienti, il corrispondente
veneziano si sofferma a descrivere la “Stanza della
Primavera”, rivestita di “un finissimo damasco tutto
lavorato a fiori naturali in campo bianco” e decorata
con “bianchissime [...] sedie con fiori naturali seminati
dall’Arte con un ordine di attentissima negligenza”. Un
giardino di seta, che avrebbe suscitato nella Marchesa
l’esclamazione “Cela se pouroit faire à Paris” [12] .
Si diffondono nuove idee di forme, incentrate
sulla linea ondulata, sulla voluta a “C” e a “S”, e di
motivi ornamentali, ispirati alla conchiglia fratta, in cui
si fondono elementi astratti e naturalistici, oppure che
riflettono il gusto per l’esotico. Questi cambiamenti,
che come vedremo hanno vivificato l’arte veneziana di
un secolo, sono trasversali tra le diverse arti decorative,
ragion per cui sono state riunite in un’unica trattazione.
Per favorire lo sviluppo delle attività manifatturiere,
la Serenissima adottò una politica affine a quella
promossa nella Francia seicentesca da Jean-Baptiste
Colbert, che riconosceva nel commercio la sorgente
delle finanze. Venezia non era uno stato assolutistico,
non esistevano manifatture statali promosse e finanziate
direttamente da un sovrano. Poteva però contare
sul patriziato, che rivaleggiava nello sfarzo e nel lusso
dei suoi palazzi, interessati nel corso del secolo da interventi
di rinnovamento e decorazione. Prioritario per il
governo veneziano era promuovere il mercato interno,
sia per convogliare il flusso di denaro generato da queste
commissioni verso i beni prodotti nella Dominante,
arginando al contempo la richiesta di articoli di lusso
stranieri; sia per attirare i visitatori forestieri: la città
era una tappa privilegiata del Grand Tour. A tal fine la
Serenissima adottò provvedimenti di carattere protezionistico
e disciplinò le Arti con nuove regole. Vietò
l’importazione di lavorazioni estere, riservò alle manifatture
locali privilegi, esenzioni o sovvenzioni in modo
da favorirne lo sviluppo, combattere la concorrenza
straniera ed evitare il declino delle attività commerciali.
In tal modo, non sempre con esiti fortunati, riuscì a promuovere
le arti, che nel corso del secolo diedero vita a
una nuova fase artistica, quella Rococò.
È il caso del vetro, il cui primato europeo era
stato messo in crisi, fin dall’ultimo trentennio del XVII
secolo, dalla concorrenza internazionale, in particolare
inglese, e dal cristallo boemo. Per porre un argine
a questa situazione, il governo veneziano proibì l’introduzione
dei prodotti d’oltralpe, intraprese una politica
di riorganizzazione dell’Arte e impose ai suoi artigiani
di migliorare la qualità dei manufatti. A risollevarne le
sorti, Giuseppe Briati (1686-1772), uno dei più abili e
innovativi produttori di vetro, che riuscì a perfezionare
a livello tecnico ed estetico la lavorazione di cristalli “ad
uso di Boemia”, tanto da ottenere fin dal 1736 un privilegio
per la loro fabbricazione [13] . In occasione della Sensa
del 1743 espose “Lumiere e chiocche magnifiche [...]
Dessert, bicchiere, specchi” e “un burò ossia armadio
alla francese, composto tutto intero di cristallo
che è cosa veramente reale” [14] . Nella varietà
di manufatti prodotti, che spaziavano dai mobili
agli oggetti più minuti, si distinguono per originalità
e pregio i due Reliquiari eseguiti nel 1755 per
la chiesa del Redentore di Venezia [15] (cat. VI.93).
Animati da fiori policromi, resi in maniera naturalistica,
sembrano la risposta veneziana all’esuberante Rococò
delle chiese bavaresi.
Tuttavia il nome di Briati è indissolubilmente
legato ai lampadari centrali, detti in dialetto veneziano
ciocche, che egli seppe innovare, rivestendo gli elementi
strutturali in metallo con inserti cavi, oblunghi e globulari
di vetro. Essi si caratterizzavano per molteplici
bracci, che potevano svilupparsi secondo un andamento
serpentinato, o essere decorati da festoni, foglie e fiori
policromi, come nell’esemplare a venti fiamme su due
ordini di Ca’ Rezzonico (fig. 1). Oltre alle ciocche, che
ebbero ampia fortuna – da venir ancor oggi copiate in
6 _ Si veda anche R. Vitale
D’Alberton, Gli ultimi artigiani
della Repubblica, “Studi
Veneziani”, LIX, 2010, pp.
577-648.
7 _ Sui doni diplomatici,
quali parte integrante della
politica europea in età
moderna, cfr. M. Cassidy-
Geiger, Porcelain and Prestige:
Princely Gifts and “White
Gold” from Meissen, in Fragile
Diplomacy. Meissen Porcelain
for European Courts ca. 1710-63,
catalogo della mostra (New
York, The Bard Graduate Center
for Studies in the Decorative
Arts, Design and Culture) a
cura di M. Cassidy-Geiger, New
Haven 2007, pp. 3-23.
8 _ M. Ansaldi, in I Pisani
Moretta. Storia e collezionismo,
catalogo della mostra (Venezia,
Ca’ Rezzonico, Museo del
Settecento veneziano) a cura
di A. Craievich, Crocetta del
Montello 2015, pp. 138-142,
cat. 31.
9 _ M. De Vincenti,
S. Guerriero, Intagliatori e
scultura lignea nel Settecento a
Venezia, in Con il legno e con
l’oro. La Venezia artigiana degli
intagliatori, battiloro e doratori,
a cura di G. Caniato, Verona
2009, p. 153.
10 _ Egli si dedicò a tutte
le manifestazioni dell’arte
veneziana settecentesca, eccetto
gli argenti e gli stucchi. Sul
mobilio, cfr. G. Morazzoni, Il
mobile veneziano del Settecento,
a cura di S. Levy, 2 voll., Milano
1964. Su Morazzoni, cfr. E.
Colle, Le arti decorative del
Settecento italiano e gli studi
di Maria Accascina e Giuseppe
Morazzoni, in Storia, critica e
tutela dell’arte nel Novecento.
Un’esperienza siciliana a
confronto con il dibattito
nazionale, Atti del Convegno
Internazionale di Studi
(Palermo-Erice, 14-17 giugno
2006) a cura di M.C. Di Natale,
Caltanissetta 2007, pp. 155-160.
11 _ H. Bauer, H. Sedelmayr,
Rococò, in Enciclopedia
Universale dell’Arte, XI, Venezia-
Roma 1963, ad vocem; A. Mariuz,
Interni rococò, in Lezioni di
Storia dell’Arte. Dal trionfo del
barocco all’età romantica, Milano
2003, pp. 108-133.
12 _ “Galleria di Minerva”,
Parte IV, 1708, pp. 83-85, in
A. Mariuz, G. Pavanello, I
palazzi veneziani: la grande
decorazione. Dalla magnificenza
all’eleganza rococò, in Venezia.
L’arte nei secoli, a cura di G.
Romanelli, II, Udine 1997, pp.
610-611.
13 _ Sul vetro nel Settecento
e, in particolare, su Giuseppe
Briati: R. Gallo, Giuseppe Briati
e l’arte del vetro a Murano nel
XVIII secolo, Venezia 1953;
R. Barovier Mentasti, Il vetro
veneziano, Milano 1982, pp. 137-
178; L. Zecchin, Vetro e vetrai di
Murano: studi sulla storia del
vetro, 3 voll., Venezia 1987-1990,
II, 69, 72; Barovier Mentasti
1995, pp. 891-902; P. Zecchin,
Giuseppe Briati, il più famoso
vetraio veneziano del Settecento,
“Journal of glass studies”, 53,
2011, pp. 161-175.
14 _ F. Stefani, Memorie per
servire all’istoria della inclita
città di Venezia, “Archivio
Veneto”, XXIX, 1885, pp.
130-131.
15 _ La datazione è stata
desunta dai Notatori di Pietro
Gradenigo, che li ricorda come
“rara Manifattura, degna al
certo di essere ammirata”
(Venezia, Biblioteca del Museo
Correr, Mss. Gradenigo Dolfin,
67, III, c. 26r, già in Gallo 1953,
pp. 44-45).
16 _ Cfr. L. Urban, Teatri
in tavola. Ossia “trionfi” sulle
tavole dogali, “Studi Veneziani”,
N.S., XXV, 1993, 169-216.
17 _ Urban 1993, pp. 181-182;
R. Vitale D’Alberton, I giardini
di cera della Serenissima. Gio.
Batta Talamini, un originale
ceroplasta nella Venezia del
Settecento, “Studi Veneziani”,
N.S., L, 2005, pp. 301-337.
18 _ Ivi, p. 308.
19 _ Zecchin 1987-1990, I, pp.
195-199; II, pp. 189-193; III, p.
334; Barovier Mentasti 1995, pp.
895-898. Cfr. anche C. Tonini,
I lattimi veneziani smaltati
del XVIII secolo e i rapporti
iconografici con le incisioni,
“Journal of glass studies”, 49,
2007, pp. 127-142.
20 _ Sulla manifattura Vezzi,
si veda il saggio di Marcella
Ansaldi in catalogo.
infinite varianti –, la manifattura Briati era famosa per
i deseri, ossia i trionfi da tavola, fino ad allora lavorati
in pasta di zucchero, stucco e cera [16] . Come scenografie
miniaturizzate, composte da figure ed elementi
architettonici, erano articolati in modo da rappresentare
scene di caccia o di teatro, argomenti mitologici,
biblici, avvenimenti d’attualità o giardini all’italiana.
Esclusivamente decorativi, i trionfi in vetro erano una
produzione tutta veneziana e affascinavano i contemporanei
per la trasparenza e la fragilità del materiale.
Tra le manifatture che più rappresentavano la
Serenissima, forse l’episodio più originale riguarda le
cere, che insieme ai deseri contribuivano allo sfarzo dei
banchetti. Sino a questo momento la cera, oltre alle
fasi ideative della scultura, era stata adottata in ambito
devozionale, funerario, nella ritrattistica encomiastica
e negli studi anatomici. A Venezia, nel Settecento, si
ricorreva a questo materiale anche per ricreare artificiosamente
la natura. In questa singolare attività si
distinse Giovanni Battista Talamini (1700-60), che
riuscì a rendere la cera duttile e resistente e, grazie
all’uso del colore, seppe modellare frutti, piante, fiori
e animali di varie specie, in modo naturalistico [17] .
Ricercate in Oriente e Occidente, le sue opere erano
lavorate anche “in foggia di chichara, di tazza, o di
vaso” che, stando alle fonti, potevano contenere
liquidi [18] . Purtroppo gran parte delle sue opere è
andata perduta, tuttavia possiamo farci un’idea della
sua abilità grazie al rilievo della Scena campestre
(cat. VI.92), in cui egli reinterpreta quel gusto pastorale
elaborato da Giambattista Piazzetta attorno alla metà
del Settecento, che si ritrova in altre manifestazioni
artistiche, come nelle porcellane di Geminiano Cozzi.
All’insegna dell’imitazione, vi era un altro prodotto
tipico della Venezia settecentesca: il vetro lattimo
[19] . Chiamato così per l’aspetto bianco latteo, che
perfettamente opaco ben si adattava a riprodurre la
porcellana, esso si impose tra le attività manifatturiere
della Serenissima verso il terzo decennio del secolo, in
concomitanza con la chiusura della fabbrica di porcellana
Vezzi [20] , e non a caso venne incoraggiato dalla
Repubblica per ragioni economiche. Protagoniste: le fornaci
muranesi di Daniele Miotti, specializzato in soffiati
di lattimo ornati a smalto con motivi floreali, uccelli e
scene figurate, e dei fratelli Bertolini, che nel 1739 ottennero
un privilegio decennale, poi rinnovato fino al 1758,
per i “lavori di nuova invenzione [...] che imitano le porcellane”
decorati a oro lucido e opaco. I vetri lattimi non
solo simulavano l’“oro bianco”, ma ne adottavano anche
le forme e le tipologie decorative, come mostrano le
tazze con piattino raffiguranti cineserie in monocromo
rosso e oro (catt.VI. 79-82).
Anche altre arti segnarono l’epoca aurea della
città lagunare. Esse si svilupparono in seguito a cambiamenti
che investirono le esigenze dell’abitare e del
vivere moderno. Parole d’ordine: convenance, ossia
destinazione, comfort e piacevolezza. Esse contraddistinsero
gli allestimenti degli interni – la preferenza
era accordata a stanze più intime per la vita socievole –
e in particolare il mobilio, che mai come ora presenta
un’infinita varietà di forme: ricchissime sono infatti le
varianti delle sedie o dei tavoli [21] .
Anche il mondo della cucina fu investito da
novità: si preferirono pietanze da sapori e consistenze
delicate, si moltiplicò il numero delle portate e le porzioni
furono ridotte. Queste trasformazioni comportarono
lo sviluppo di suppellettili dalle nuove forme per
accompagnare il pasto, rese eleganti da decorazioni e
dorature. E inoltre, furono introdotte, in Europa, le
bevande coloniali: il tè, il caffè e il cioccolato, che stimolarono
a loro volta la creazione di nuovi recipienti.
La vita sociale si trasforma: la tavola diviene
luogo di scambio di idee e del confronto dialettico e
le sue suppellettili strumenti essenziali di quella che è
stata definita la “civiltà della conversazione” [22] .
Specchio delle abitudini settecentesche, come si
è rilevato, è il Ricevimento in palazzo Grassi, affrescato
alle pareti dello scalone da Michelangelo Morlaiter. Vi
è raffigurata la società veneziana “nei gesti che più la
seducevano”; tra questi si inscena il rito del caffè [23] .
Due servitori in livrea – il primo con un’imponente
cogoma in argento sopra a un’alzata, l’altro con un vassoio,
anch’esso d’argento, su cui poggiano tazze di porcellana
–, interrompono il loro veloce movimento per
accondiscendere alla richiesta di una dama.
Nel nostro immaginario la caffettiera è l’oggetto
“iconico” dell’oreficeria profana settecentesca, forse
anche per la fortuna che ebbe a livello collezionistico nel
Novecento. Gli orefici veneziani produssero caffettiere
di diverse proporzioni, lisce o decorate da nervature, con
andamento torsionale o meno, il manico ligneo sagomato,
il coperchio sormontato da un bottone, una pigna
272 —GENERI E TEMI —
— LE ARTI DECORATIVE — 273
o da foglioline e il becco liscio o ornato da modanature.
Dalla linea sobria ed elegante, la selezione di caffettiere
presentata in mostra illustra la fortuna di un modello,
declinato in minime varianti (catt. VI.85-90), che venne
adottato anche nella produzione di maioliche. In linea
con quella tendenza che prediligeva l’accordo stilistico
tra gli arredi, nervature impreziosivano anche cioccolatiere,
zuccheriere, acquamanili, bacili, candelieri, enfatizzando
la singolare capacità di irraggiamento, la lucentezza
e il potere riflettente del metallo.
Quali fossero le tipologie degli argenti da tavola
diffusi all’epoca, lo deduciamo più dai documenti che
dalle suppellettili oggi conservatisi: il valore del loro
stesso materiale è stato uno dei principali motivi
della loro dispersione e distruzione. Nelle carte della
famiglia Corner, ad esempio, si elenca vasellame d’argento
per la tavola, come piatti tondi e ovali di diverse
misure e per le più varie destinazioni, sottocoppe,
fruttiere, vassoi, zuccheriere, caffettiere, un servizio
da tè dorato, posate, sortù, una brocca e un portabottiglie.
Ma ad arricchire l’arredo domestico vi erano
anche argenterie per l’illuminazione, acquasantiere da
appendere accanto al letto, cornici, uno scaldapiedi,
un piccolo mantice, oggetti per la toeletta, accessori
per l’abbigliamento, argenti da scrittoio e volumi rilegati
entro coperte preziose [24] .
Venezia poteva vantare numerose botteghe
orafe, che, aggiornando il loro repertorio di forme
e ornati alla moda corrente, seppero dar vita a una
vivace stagione artistica. Dalle soluzioni tardobarocche
dell’avvio del secolo si passò ai motivi desunti
dalle arabesques di Jean Bérain il Vecchio, fino alla linguistica
rococò, che a Venezia perdurò sino alla fine
del secolo. Questo stile si diffuse curiosamente quasi
solo nell’argenteria a carattere sacro. Il Reliquiario del
beato Gregorio Barbarigo, eseguito dalla bottega al
San Lorenzo Giustinian, ben illustra questa tendenza:
volute contrapposte, conchiglie fratte ed elementi
desunti dal repertorio delle onde e delle spume marine
trasmettono la loro forma irregolare alla struttura del
reliquiario a urna [25] . Tale vocabolario ornamentale
ebbe il suo miglior interprete in Angelo Scarabello
(1712-95), argentiere nato a Este ma con bottega
nella vicina Padova, di cui si presenta un servizio di
Cartegloria (cat. VI.91) [26] . Apprezzato già dai contemporanei
per aver portato a termine le ante degli armadi
della cappella delle Reliquie nella basilica del Santo a
Padova, eseguì cornici in argento per i ritratti di papa
Clemente XIII Rezzonico e del doge Marco Foscarini,
nonché il superbo paliotto d’altare per la collegiata
di Sant’Eufemia di Rovigno d’Istria, suo capo d’opera.
Con la sua bottega all’insegna dell’Angelo, lavorò
fino alla fine del secolo suppellettili liturgiche in cui la
rocaille si propaga dappertutto.
Ma è nella porcellana che il Rococò trova la
sua più felice espressione. Fragile, preziosa e brillante,
essa incarna più d’ogni altro materiale lo spirito
di un’epoca [27] . Ogni sorta di manufatto era eseguito
in porcellana: dal vasellame (servizi da tavola, tè, caffè
e cioccolata), agli specchi, ai pomoli di bastone, alle
tabacchiere, ai gruppi plastici.
Dopo Meissen e Vienna, la terza città europea ad
avere una manifattura, elemento di prestigio, fu Venezia
che vide susseguirsi, nel corso del secolo, ben tre fabbriche,
di volta in volta appoggiate e promosse dal Senato.
La prima, fondata da Francesco Vezzi, fu attiva soltanto
dal 1720 al 1727 e a essa seguì, dopo pressappoco
un trentennio, quella dei coniugi sassoni Nathaniel
Friedrich e Maria Dorothea Hewelcke [28] . Scappati
dalla Guerra dei sette anni, si rifugiarono nel 1757 a
Udine, dove avviarono una manifattura di porcellana
grazie a una privativa e all’esenzione dei dazi dispensate
loro dal governo veneziano, a condizione che i loro
manufatti fossero marcati da una “V” in rilievo, chiara
allusione a Venezia. Nel 1761 si trasferirono in laguna,
dove trapiantarono la loro attività, che nonostante la
partecipazione di nuovi finanziatori (tra cui l’imprenditore
Geminiano Cozzi) fallì nell’agosto del 1763. È
l’anno in cui fu eseguito il medaglione con il Ritratto di
Giuseppe Ximenes d’Aragona (Londra, British Museum)
da Fortunato Tolerazzi, l’unica opera della manifattura
a mostrare sicurezza nella resa plastica [29] . Al contrario,
i pochi oggetti usciti dalla fabbrica Hewelcke hanno “la
freschezza, l’ingenuità e il fascino degli oggetti primitivi
con quelle figurine appena abbozzate o quei spontanei
decori floreali” [30] , come mostrano il vasellame e le statuine
esposte (catt. VI.38-45).
Le sventurate vicende dei coniugi sassoni si
intrecciarono con quelle della fabbrica Antonibon di
Nove, celebre per le sue maioliche, che nel 1763 aveva
richiesto ai Cinque Savi alla Mercanzia di poter produrre
anche porcellana. A essa si sovrappose poi, non
21 _ A. Schönberger, H.
Soehner, Il Rococò. Arte e civiltà
del secolo XVIII, Milano 1960,
p. 50.
22 _ M. Ansaldi, A.
Craievich, Un’àncora rosso
ferro, in Geminiano Cozzi e le
sue porcellane, catalogo della
mostra (Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento
veneziano) a cura di M. Ansaldi,
A. Craievich, Crocetta del
Montello 2016, pp. 11-17, in
part. 12-13.
23 _ G. Pavanello, Le
decorazioni di Palazzo Grassi
dal Settecento al Novecento, in
G. Romanelli, G. Pavanello,
Palazzo Grassi. Storia
architettura decorazioni
dell’ultimo palazzo veneziano,
Venezia 1986, pp. 117-193.
24 _ F. Stopper, La bottega
al San Lorenzo Giustinian.
“Orefici di primo credito, e
fama” tra Venezia, Roma e
Gerusalemme, “Ricche Minere”,
4, 2015, pp. 47-48.
25 _ Ivi, pp. 53-55.
26 _ Id., in Dizionario
Biografico degli Italiani, 91,
Roma 2018, pp. 302-305.
27 _ Bauer, Sedelmayr 1963.
28 _ Cfr. E. Dal Carlo,
Fabbricatori di porcellane
nello Stato veneto. I coniugi
Hewelcke, in Porcellane
italiane dalla collezione Lokar
/ Italian Porcelain in the
Lokar collection, a cura di A.
d’Agliano, Cinisello Balsamo
2013, pp. 56-63, con bibliografia
precedente; C. Campanella, A.
Moore Valeri, Cozzi e Ximenes
in un incartamento inedito
sulla “Fabbrica di porcellane a
Venezia”, “Faenza. Bollettino
del Museo Internazionale delle
Ceramiche in Faenza”, CII, 2,
2016, pp. 69-98.
29 _ Campanella, Moore
Valeri 2016.
30 _ F. Stazzi, Le porcellane
veneziane di Geminiano e
Vincenzo Cozzi, Venezia 1982,
p. 24.
31 _ Cfr. Geminiano Cozzi e
le sue porcellane 2016.
32 _ C. de Brosses, Viaggio in
Italia. Lettere familiari, Roma-
Bari 1973, p. 106.
33 _ Cfr. H. Williams,
Turquerie. An Eighteenth-
Century European Fantasy,
London 2014, p. 184. La
statuina qui esposta (cat. XX)
faceva coppia con un’altra
ora nella collezione Giannetti
(L. Melegatti, in Ceramiche
della collezione Gianetti, II,
Porcellane italiane europee e
orientali, Saronno 2000, pp.
156-157).
34 _ G. Pavanello, Vendramin
e Foscarini ai Carmini, gemelli
da dividere: magnificenze ed
esotismi intorno a una stanza
in maiolica, “Arte Veneta”, 66,
2009, pp. 102-135.
35 _ Cfr. P. Marini, La
manifattura Antonibon di Nove,
in La ceramica nel Veneto. La
Terraferma dal XIII al XVIII
secolo, a cura di G. Ericani,
P. Marini, Verona 1990, pp.
277-305; La ceramica degli
Antonibon, a cura di G. Ericani,
P. Marini, N. Stringa, Milano
1990.
senza discordie e rivalità, il terzo capitolo della porcellana
a Venezia, che vide come protagonista il modenese
Geminiano Cozzi (1728-98). Egli si affermò sul
mercato grazie al privilegio dell’esclusiva ottenuto dal
Senato nel 1765, ad altri sussidi e a un’intelligente strategia
commerciale [31] .
Marcate con un’àncora rossa, le opere della manifattura
Cozzi si caratterizzano per un vasto repertorio
ornamentale (catt. VI.46-71). Se da una parte replicava i
modelli adottati dalle manifatture di Meissen e Sèvres,
declinati in modo autonomo, dall’altra sperimentava
motivi originali. Tra questi ultimi vi è il decoro a bersò,
che raffigura giardini all’italiana con pergole, parterre,
architetture verdi. Influenzato dalla produzione incisoria
coeva, come la raccolta Delle delicie del fiume Brenta
espresse ne’ palazzi e casini sopra le sue sponde... (1750-56)
di Gianfrancesco Costa, nonché dai giardini delle ville
venete dell’epoca, questo ornato ebbe grande successo:
rispecchiava l’amore per la campagna e per la vita in villa,
cui la società veneziana settecentesca, ossia la principale
clientela di Cozzi, non sapeva sottrarsi. Esso fu applicato
a servizi da tavola, da tè e da caffè, in cui ciascun pezzo
era dissimile all’altro. Affine a questo decoro vi era quello
a paesetto, caratterizzato da paesaggi con case, alberi,
rovine, mulini, corsi d’acqua e templi.
Nelle opere della manifattura Cozzi trovano spazio
il mondo pastorale dei quadri di genere di Giambattista
Piazzetta, il capriccio, i paesaggi di Francesco Zuccarelli,
come quelli dipinti in rosso ferro nel Servizio reale di Ca’
Rezzonico, oppure la pittura di Paolo Veronese, come
nell’elaborato piatto in monocromo rosso raffigurante al
centro il Ratto d’Europa, quasi una guida per immagini di
Palazzo Ducale.
Nel repertorio della manifattura non mancano
raffinati decori rococò, come nella Caffettiera della collezione
Lokar, in cui l’ornato a rilievo, se da una parte
risente dell’influsso di Meissen, dall’altra evoca soluzioni
adottate nella pittura coeva da Andrea Urbani a
Noventa Padovana. Nel catalogo dei motivi naturalistici,
floreali e geometrici rientrano quelli, definiti nell’inventario
di fabbrica in dialetto veneziano, Blò raggi d’oro,
Feston e cadena, ma anche i più semplici a Striche o a
puntini, che sembrano echeggiare soluzioni dei tessuti
coevi e che, al nostro occhio, appaiono incredibilmente
moderni. Altri decori raffiguravano scene galanti
e personaggi della commedia dell’arte, attingevano alla
mitologia o proponevano immagini in trompe l’œil,
come le carte da gioco.
La manifattura Cozzi seppe aggiornare continuamente
le forme e i decori dei suoi lavori in base al
mutare del gusto, ma anche adattarsi alla diversa clientela
cui si rivolgeva. Accanto a manufatti di lusso eseguiti
per la Serenissima o per il patriziato veneziano
– come il Servizio Grimani –, produceva porcellane di
minor valore con decori essenziali, ancorché eleganti,
destinate all’uso delle botteghe da caffè, che a Venezia
erano assai numerose e sempre affollate, stando alle
parole di Charles de Brosses [32] .
L’amore per l’esotico si declinava nelle turqueries,
nel fascino per il mondo ottomano, soggetto che
grazie alla diffusione di incisioni, tratte dai disegni di
Jean-Etienne Liothard e dai dipinti di Jean-Baptiste
Vanmour, si diffuse in tutta Europa, Venezia compresa.
Rosalba Carriera dipinse Felicita Sartori in costume
turco, i fratelli Guardi copiarono le invenzioni della
Recueil Ferriol e, sulla scorta dell’esempio di Meissen,
la manifattura Hewelcke incluse questo tema nella
produzione di piccole figure [33] .
Anche le civiltà dell’Estremo Oriente erano
oggetto di fascino e curiosità, tanto da diventare un
soggetto di moda e uno degli aspetti più significativi
dell’arte rococò. Oltre alla porcellana, fino ad allora
prodotta solo in Cina e Giappone, l’interesse europeo
per l’Oriente portò a un’interpretazione fantastica dei
motivi desunti da quel mondo lontano, che passa sotto
il nome di chinoiserie.
Questo gusto si diffuse a Venezia fin dalla
fine del Seicento, ma nel secolo successivo dilagò in
ogni ambito delle arti figurative. Nei palazzi nobiliari
erano dedicati interi ambienti alla cineseria, come nel
mezzanino di palazzo Vendramin ai Carmini, dove le
pareti presentano fantasticherie orientali dipinte in
oro su piastrelle bianche in maiolica [34] . Ed è proprio
nella maiolica e nella porcellana che questi motivi trovarono
la loro più felice applicazione, come mostra il
vasellame con decoro a paesini cinesi della manifattura
Antonibon di Nove, caratterizzato da ponticelli
con costruzioni d’ispirazione orientale, rami fioriti e
fogliati, cipressi, uccelli e cinesini (catt. VI.72-75) [35] .
Anche la manifattura Cozzi non fu insensibile a questa
moda sia nelle suppellettili da tavola che nei gruppi
plastici, qui esemplificati dai Pagò (o Magot), figure
274 —GENERI E TEMI —
— LE ARTI DECORATIVE — 275
di divinità cinesi corpulente, molto amate in Europa
come mostra La colazione del mattino di François
Boucher (Parigi, Musée du Louvre) [36] .
La passione per l’Oriente si manifestava anche
in un altro materiale esotico: la lacca, apprezzata per
la sua lucentezza, i colori vivaci o delicati [37] . Fin dagli
ultimi decenni del Seicento – come ricorda il viaggiatore
francese Maximilian Misson –, il suo successo fu
enorme a Venezia, dove in mancanza di un’importazione
diretta si diede vita a un’attività imitativa che
trovò il suo sbocco in ogni campo delle arti decorative:
dai mobili a vassoi, scrigni, cornici di specchi, guantiere,
tavolini da gioco e servizi da toletta.
Quanto al mobilio, si tratta della tipologia più
ricercata e innovativa della Venezia settecentesca, che
non poteva contare su legni pregiati e ricche decorazioni
a rilievo in bronzo dorato, com’era di moda a Parigi. I
depentori, artigiani abili in verniciature e dorature, vennero
chiamati a rispondere a questa nuova richiesta:
adottarono una resina naturale, la sandracca, che conferiva
brillante trasparenza e impermeabilità ai manufatti.
Dapprima con questa tecnica vennero riprodotti esclusivamente
motivi orientali, poi dalla metà del secolo
vennero introdotte anche tematiche arcadico-pastorali
e decorazioni floreali dai colori vivaci.
È proprio in alcuni squisiti fornimenti, eseguiti
negli ultimi decenni del secolo e provenienti da
palazzo Calbo Crotta (ora conservati a Ca’ Rezzonico),
che si rivela la vera anima del Rococò veneziano [38] .
Si tratta ddei salotti in lacca gialla-rossa e verde-gialla con
decorazioni floreali e del Salotto verde, in cui su fondo
laccato in verde cupo va in scena il favoloso mondo del
Catai: pagode, ombrelli, salici, ciliegi e figurine di orientali,
inquadrati da riccioli di cornici rocaille, festoni e
intagli floreali sono resi a rilievo in pastiglia dorata.
Quanto alla forma, anche il mobilio veneziano
risente dell’influenza francese: la linea curva si insinua
in poltroncine, consoles, specchiere, guéridons, cassettoni,
cantonali e comodini, che assumono forme bombate
e rastremate verso il basso con piedini arcuati. Alle
volte è illeggiadrito da trafori e ornati, quali nervature,
foglie, mascheroni, nastri, cartigli, riccioli e conchiglie
sfrangiate a rilievo, già visto in altre manifestazioni
artistiche, oppure è decorato da inserti vitrei.
Nel mobilio tuttavia sembra riproporsi
quella dicotomia che esiste nella pittura coeva tra
la ritrattistica ufficiale e quella privata di Rosalba
Carriera. Accanto agli arredi finora descritti, vi erano
quelli da parata, eseguiti per precise esigenze di rappresentanza,
rivestiti in foglia d’oro e caratterizzati da
elaborati intagli, che trovano la massima espressione
nel Fornimento Renier, la cui datazione ancora oggi si
rimpalla tra il quarto e l’ottavo decennio del secolo [39] .
La grande richiesta di manufatti in lacca portò
allo sviluppo della cosiddetta “lacca povera”, un procedimento
semplice e immediato in cui il disegno
dipinto e laccato, che decorava le superfici del mobile o
dell’oggetto è sostituito da ritagli di calcografie e xilografie,
poi colorate e ricoperte da vernici trasparenti.
La produzione incisoria a Venezia nel Settecento era
fecondissima: dalle stamperie di Giuseppe Wagner e
Teodoro Viero e ancor più dalla calcografia Remondini
di Bassano uscivano incisioni e vignette con le più varie
raffigurazioni – magari tratte da idee di artisti importanti,
quali Marco Ricci, Jacopo Amigoni, Giuseppe
Zais e Francesco Zuccarelli – da ritagliare e usare per
la decorazione di mobili e suppellettili.
Sono queste le arti decorative che contribuirono
a dare un preciso volto alla Venezia settecentesca.
Nell’impossibilità di approfondire adeguatamente
i protagonisti di questa stagione e di togliere
dall’oscurità i nomi di quelli ancora nell’ombra, vale la
pena soffermarsi sulle relazioni tra le arti e sulla divisione
esistente tra il creatore, l’ideatore di un’opera e
l’esecutore. Si è detto dell’importanza delle incisioni,
che hanno fornito un repertorio quanto mai vario
di immagini da tradurre di volta in volta su porcellane
o da applicare su mobili e suppellettili [40] ; ma
esse potevano essere riprodotte anche su maioliche e
vetri lattimi. È il caso dei Piatti con vedute di Venezia,
tratte dalle incisioni Le fabriche et vedute di Venetia di
Luca Carlevarijs o da quelle di Antonio Visentini da
Canaletto, come negli esemplari esposti (catt. VI.83-
84). Souvenir ante litteram, vennero acquistati – sotto
forma di tre servizi identici da ventiquattro piatti ciascuno
– dal collezionista e antiquario inglese Horace
Walpole, da John Chute e da Henry Clinton, conte di
Lincoln e futuro duca di Newcastle, durante il loro
soggiorno a Venezia nel 1741. I tre non si limitarono ad
acquistare lattimi, con le vedute della città, soggetto
privilegiato dai forestieri, ma, seguendo la moda corrente,
si fecero ritrarre da Rosalba Carriera [41] .
36 _ Sull’argomento, cfr.
D. Kisluk-Grosheide, The
Reign of Magots and Pagods,
“Metropolitan Museum
Journal”, 73, 2002, pp. 177-197.
37 _ A. Rispoli Fabris, L’arte
della lacca, Milano 1974; C.
Santini, Le lacche dei veneziani.
Oggetti d’uso quotidiano nella
Venezia del Settecento, Modena
2003.
38 _ F. Pedrocco, L’arte
veneziane del Settecento, in
’700 veneziano. Capolavori da
Ca’ Rezzonico, catalogo della
mostra (Roma, Palazzo Venezia)
a cura di F. Pedrocco, Venezia
1998, pp. 110-113.
39 _ A. González Palacios, Il
Tempio del gusto, Milano 1986,
pp. 333-341 (cfr. Id., Vittorio
Cini: il gusto, la decorazione, le
opere d’arte, in La Galleria di
Palazzo Cini. Dipinti, sculture,
oggetti d’arte, a cura di A.
Bacchi, A. De Marchi, Venezia
2016, pp. 349-350); C. Santini,
Mille mobili veneti, III, Venezia,
Modena 2002, pp. 158-159.
40 _ C. Lo Giudice, La
fortuna delle invenzioni di
Amigoni, Zocchi e Zuccarelli
nelle arti decorative, “Ricche
Minere”, 7, 2017, pp. 101-119.
41 _ Nel catalogo di vendita
dei beni di Horace Walpole si
ricordano gli schizzi dei ritratti
dei tre viaggiatori (Strawberry
Hill Sale Catalogue, 1842, 21st
day, p. 207, lot. 1). Cfr. B. Sani,
Rosalba Carriera 1673-1757.
Maestra del pastello nell’Europa
ancien régime, Torino 2007, pp.
340, 347, 355-356, catt. 388,
397, 410.
FIG. 2
MANIFATTURA VENEZIANA
Porta laccata, particolare.
Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento
veneziano
FIG. 3
FRANCESCO GUARDI
Progetto per motivo
ornamentale, particolare.
Venezia, Museo Correr,
Gabinetto dei disegni e delle
stampe
42 _ Stefani 1885, p. 130.
43 _ M. De Vincenti, Storia
del “fondo di bottega” di
Giovanni Maria Morlaiter nel
Museo del Settecento Veneziano
di Ca’ Rezzonico, “Bollettino
dei Musei Civici Veneziani”,
ser. III, 6, 2010, pp. 6-77, in
particolare catt. 24, 56.
44 _ Cfr. M. Ansaldi, Figure
singole e gruppi, in Geminiano
Cozzi 2016, p. 301.
45 _ D. D’Anza, in Francesco
Guardi. 1712-1793, catalogo
della mostra (Venezia, Museo
Correr) a cura di A. Craievich, F.
Pedrocco, Ginevra-Milano 2012,
p. 282, cat. 115.
All’ideazione di opere decorative parteciparono
anche grandi artisti fornendo disegni, bozzetti
o modelli. È il caso dello scultore veneziano
Antonio Corradini (1668-1752), che fu incaricato dalla
Repubblica di sovraintendere alla decorazione plastica
dell’ultimo Bucintoro. Dopo la sua partenza per
Vienna, assunse il ruolo di “scultore ufficiale” della
Serenissima Antonio Gai (1686-1769), che progettò
il Reliquiario a urna del santo doge Pietro Orseolo e il
Cancello bronzeo per la Loggetta di San Marco, alla cui
esecuzione contribuirono anche i suoi figli Francesco
e Giovani Maria. Ma che fu anche autore dell’Allegoria
di Venezia, bozzetto in terracotta che trova dei paralleli
nelle porcellane della manifattura Cozzi: in linea con la
poetica rococò il monumento sembra farsi soprammobile
(catt. VI.11-12). Che Gai avesse una consuetudine
con la scultura in piccolo formato lo suggerisce inoltre
Girolamo Zanetti che ricorda un trionfo da tavola raffigurante
“la Sagra Istoria di Giuditta, ed Oloferne con
molti Padiglioni Torri Arme ed altro, tutto assai ben
fatto”, presentato dall’artista in occasione della Sensa
del 1743 [42] . Anche Gian Maria Morlaiter (1699-1781)
impiegò il proprio talento nel modellare bozzetti per
opere decorative, come i “segnali” lignei processionali,
che potevano venir eseguiti in legno intagliato, dorato
o dipinto e, eccezionalmente, in argento o impreziositi
con madreperla [43] . E che dire di alcune terre crude
appartenenti al fondo della sua bottega dalle dimensioni
così affini a statuette di porcellana [44] ?
La scultura non fu la sola a essere in rapporto
con le arti decorative. Nel 1746 Giambattista Tiepolo
(1696-1770) presentava un modello per l’insegna processionale
della Scuola Grande dei Carmini (New York,
The Pierpont Morgan Library & Museum), poi non
eseguito. Francesco Guardi (1712-93) e Giambattista
Piranesi (1720-78) furono autori di splendidi progetti
decorativi per interni rococò: soffitti, sopraporte o
particolari ornamentali, come il disegno con un nastro
e un ramo fiorito che si intrecciano – soluzione che
evoca motivi presenti nei tessuti, nelle porcellane e
nelle carte silografate dell’epoca (cat. VI.96, fig. 3) [45] .
Entrambi disegnarono anche bissone allestite per
le celebrazioni in onore di ospiti illustri. Guardi trascorse
la sua vita a Venezia e divenne uno degli ultimi
cantori della stagione rococò; Piranesi invece si trasferì
a Roma. Stessa sorte toccò ad Antonio Canova.
Filippo Tagliolini, invece, abbandonata la fabbrica
Cozzi e dopo un’esperienza viennese, migrò a Napoli
introducendo il biscuit nella manifattura della Real
Fabrica. Anche l’incisore Giovanni Volpato, trasferitosi
nell’Urbe, avrebbe dato vita a un’analoga produzione.
Fossero rimasti a Venezia, questa storia, forse,
sarebbe stata diversa.
276 —GENERI E TEMI —
— LE ARTI DECORATIVE — 277
GIORGIO
MARINI
ANTONIO CANAL DETTO
CANALETTO
Veduta immaginaria di
Venezia, particolare
in VEDUTE Altre prese da
i Luoghi altre ideate DA
ANTONIO CANAL […]
GENERI
E TEMI
L’I NC I S ION E :
GL I A N N I
QUARANTA
La misura dell’effettiva
centralità dell’incisione nella cultura figurativa veneziana
del Settecento ci viene offerta – come improvviso
scarto dalla linea, apparentemente continua, di
un graduale fenomeno evolutivo – da quell’autentica
esplosione della produzione calcografica che, a partire
dagli anni intorno al 1740, la vede invadere rapidamente
tutti gli ambiti produttivi. Non c’è quasi artista
a Venezia che non provi allora a misurarsi, anche solo
per diletto o alla ricerca di personali sperimentazioni,
con gli strumenti del bulino e dell’acquaforte, con le
complesse combinazioni degli acidi e delle morsure,
per non dire del sogno di dar nuova vita all’antica tecnica
del chiaroscuro xilografico in cui si cimentava
Anton Maria Zanetti di Girolamo proprio all’aprirsi
del quinto decennio.
La chiara percezione che tale pratica sia stata
di fatto l’elemento unificante tra tutti i livelli della
gerarchia artistica del tempo, adottata dai più modesti
professionisti della traduzione calcografica così come
dai massimi peintres-graveurs dell’epoca, emergeva già
nella mostra seminale dedicata agli Incisori veneti del
Settecento, con cui Rodolfo Pallucchini inaugurava,
quasi ottant’anni fa, la storiografia moderna sull’argomento,
nell’estate del 1941. Vi si riconosceva quindi,
come dato acquisito, che “la produzione incisoria del
Settecento veneziano […] è stata fecondissima, come
in nessun altro momento della storia delle arti figurative
italiane. In questo senso essa è venuta coerentemente
affiancando la pittura contemporanea: soprattutto
è stata l’affermazione di un periodo della cultura
italiana prodigiosamente ricco, fecondo, aperto
a tutte le curiosità. A Venezia incidevano grandi artisti,
dei quali almeno tre o quattro sono tra i massimi
nomi dell’incisione italiana, una moltitudine di professionisti,
a cui facevano seguito dilettanti, arruolati
nelle stesse file dell’alta società, dall’Algarotti al conte
Almorò Pisani”. Ipotesi queste che hanno poi portato
alla convinzione ormai assimilata di un ruolo tutt’altro
che ancillare, ma anzi cardine, dell’incisione anche
per la maturazione del percorso stilistico degli stessi
artisti eponimi della pittura veneziana del secolo: da
Canaletto a Marieschi, da Fontebasso ai Tiepolo.
Certamente alimentata pure da motivazioni
imprenditoriali, nella più chiara coscienza delle capacità
di diffusione offerta alle immagini moltiplicate
dalle stampe, quell’accelerazione inferta alla produzione
incisoria nel corso degli anni Quaranta ebbe a
che fare certamente con lo specifico rapporto tra il
momento creativo delle opere – che comunque implicava
una filiera tecnica allargata ai loro aspetti editoriali
e di stampa –, e le dinamiche di diffusione e commercializzazione
presso un pubblico in continuo aumento.
Indagarne le possibili ragioni, quali la prossimità con
l’industria del libro – di cui Venezia era ancora tra le
capitali europee, e vedeva il fiorire di alcuni grandi
editori-committenti – il ruolo di facile sintesi repertoriale
sul versante delle vedute urbane, il supporto al
crescente collezionismo e alla documentazione, o la
redditività rispetto a nuovi mercati in espansione, non
può esaurire motivazioni ben più intrinseche alla poetica
dei singoli artisti, come la possibilità di riformulare
i propri stili e metodi nella trasposizione illuminante e
nella sintesi, concettuale e operativa, del segno inciso.
— , L’INCISIONE: GLI ANNI QUARANTA — 279
FIG. 1
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Giovane seduto e appoggiato
su un vaso
in VARJ CAPRICCI […]
Prospectus Celebriores (1742), lucidissimo campionario
visivo delle emergenze architettoniche e degli
spazi urbani salienti del panorama veneziano. E
ancora, tra capriccio e veduta, verso quel medesimo
1742-43 si collocano pure le prime otto acqueforti
giovanili di Bernardo Bellotto, in una serie di piccoli
soggetti di rovina direttamente riflessi da quelli dello
zio Canaletto, ma segnati da una grafia più inquieta,
che conserva l’accento aspro e immediato dell’esecuzione
di getto. Esse testimoniano di un’intima empatia
con lo stile e la visione canalettiani, che il giovane
Bellotto riuscì a far propri in una misura sorprendentemente
prossima all’assimilazione e quasi al plagio,
a ridosso peraltro della immediata volontà di autonomia
che avrebbe portato alla brusca rottura dei
rapporti famigliari da parte del bizzarro nipote,
intorno al 1743.
Tra vedutismo e capriccio architettonico si
colloca anche, giusto in quel giro d’anni, la discontinua
produzione acquafortistica di Giovanfancesco
Costa, in cui a una prima serie di pittoresche incisioni
a tema rovinistico – Rovine d’archi templi terme
anfiteatri sepolcri et altri edifizzi sul gusto antico, riferibili
al periodo intorno al 1743 – seguirono a breve
illustrazioni di trattati prospettici e architettonici, e
quindi la più celebre serie di oltre centotrenta tavole
delle Delicie del fiume Brenta, luminosi reportage della
civiltà della villa veneta, presentata come ideale sintesi
tra buongoverno sociale e natura ordinata. La
loro effettiva esecuzione, da porsi tra il 1745 e il 1747,
esclude che la genuina freschezza dello stile grafico
di Costa possa essersi ispirato a quello, certo personalissimo,
delle acqueforti canalettiane, verosimilmente
note nella seconda metà degli anni Quaranta
solo nell’ambito ristretto di una cerchia di collezionisti
e conoscitori. Con singolare coincidenza, e sempre
lungo il versante di gusto per il capriccio rovinistico,
all’insegna di un revival per l’evocativo paesaggismo di
Marco Ricci, il ticinese Davide Antonio Fossati pubblicava
nel 1743, con dedica a Francesco Algarotti,
ventiquattro paesaggi tratti da originali ricceschi
allora conservati nelle collezioni di Smith e di Zanetti,
importanti per qualità tecnica, che riusciva a trasporre
con singolare scioltezza di segno i caratteri stilistici
Così, la ricerca di un nuovo esercizio espressivo
nel suo maggior intento di resa della luce deve
aver guidato Canaletto verso la rimeditazione del proprio
repertorio pittorico nell’astrazione assoluta di un
sistema binario di bianchi e di neri, che conferiscono
alle sue acqueforti insuperati riflessi d’argento. Forse
stimolato dal successo della prima serie di vedute
del Canal Grande, in cui Antonio Visentini aveva
tradotto in luminosissime incisioni le riprese canalettiane
nel Prospectus Magnis Canalis Venetiarum
(1735), il suo interesse per le tecniche incisorie vede
la rapida definizione di un linguaggio grafico senza
confronti, caratterizzato da una prodigiosa mobilità
del tratteggio e dalla capacità di dar valore semantico
anche ai bianchi del foglio. Senza un tirocinio
apparente, questo stile trova la sua formulazione
compiuta già in quella Veduta fantastica di Venezia
datata al 1741, da assumersi come termine medio
nell’evoluzione della sua attività d’incisore, mentre
la dedica della serie al console Smith, sotto il titolo
emblematico di Vedute Altre prese da i luoghi altre
ideate, fissa al 1744 la data post quem per l’edizione.
Un album già nella biblioteca del celebre conoscitore
Anton Maria Zanetti, ora ai musei di Berlino, offre la
testimonianza più antica della sequenza delle trentatré
acqueforti, incise tra il 1740 e il 1745 e disposte
secondo un itinerario coerente tra vedute topograficamente
realistiche, altre ideate, o altre ancora, più
esplicitamente partecipi dei caratteri del “capriccio”,
che dall’immediato entroterra veneziano si inoltrano
lungo la riviera del Brenta e fino a Padova.
Se quello di Canaletto è un percorso stilistico
autonomo, certo esso si viene a collocare in
corrispondenza di una straordinaria e accelerata
fioritura calcografica che accomuna in realtà molti
artisti a Venezia, inaugurata sul fronte della veduta
urbana dalla serie dei Magnificentiores Selectioresque
Urbis Venetiarum Prospectus (1741), in cui Michele
Marieschi trasponeva all’acquaforte, all’insegna di
un’esasperata dilatazione prospettica, il repertorio
delle proprie riprese scenografiche della città.
E in un’incalzante sequenza di iniziative editoriali sul
versante vedutistico, Antonio Visentini avrebbe di lì
a poco fatto seguire le tavole dell’Urbis Venetiarum
FIG.2
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Due maghi e un bambino
in Scherzi da Fantasia […]
280 —GENERI E TEMI —
— , L’INCISIONE: GLI ANNI QUARANTA — 281
peculiari delle tempere originali. Così come, proprio
agli stessi anni, si tende a riferire la raccolta di quarantadue
paesaggi d’après Marco Ricci pubblicata dal
bellunese Giuliano Giampiccoli, impresa grafica nel
cui corredo di figure va riconosciuto l’esordio acquafortistico
di Giambattista Tiepolo.
Della geniale assimilazione linguistica del segno
rembrandtiano da parte di Tiepolo ci dà conto invece,
ma sempre in quello stretto giro d’anni fecondissimi,
la serie dei dieci Capricci, pubblicati per la prima volta
nel 1742, in appendice al secondo volume dei chiaroscuri
xilografici di Anton Maria Zanetti, e realizzati
verosimilmente nell’arco di pochi mesi, tra il 1740 e il
1741. La loro compattezza tecnica e stilistica verrà in
seguito dissolta da Giambattista nell’approfondimento
delle soluzioni compositive delle visioni abbacinanti e
arcane degli Scherzi di fantasia, che restano un mistero
sostanzialmente ancora non risolto sotto il profilo del
significato più profondo e delle loro destinazioni. Di
certo, la forza suggestiva di un singolare linguaggio
grafico, che si affida a un tessuto di segni tremuli e
fluenti e a una sensibilità particolarissima per la luce,
ne fa uno degli esiti più alti di tutta l’incisione italiana
del Settecento, mentre svela al contempo la complessità
delle sue fonti, che radicano profondamente nella
migliore tradizione incisoria del secolo precedente.
Senza dubbio, la prodigiosa valenza evocativa di una
tale tecnica sarà d’influsso per tutti gli artisti di quella
generazione, a iniziare dal luminoso catalogo acquafortistico
del figlio Giandomenico, che pure esordisce
in quegli anni, e fino alle prove estemporanee di artisti
dilettanti come il conte Francesco Algarotti, che proprio
alla metà del quinto decennio, all’epoca dei suoi
più stretti rapporti con gli artisti veneziani in qualità
di agente per la Galleria di Dresda, si esercitava in vellutati
griffonages su stagno di aperta derivazione tiepolesca.
Se per la datazione degli Scherzi sappiamo
che dovettero essere realizzati tutti entro gli anni
Cinquanta del secolo – benché in gran parte concepiti
nel fatidico decennio precedente – il loro enigma
narrativo e spirituale rimane sostanzialmente insondabile,
chiuso in un mondo di metafore incentrate su
temi di ermetismo, di chiromanzia, di riti magici. Un
mondo di disfacimento e trasformazione, evocato da
FIG. 3
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
Veduta immaginaria di
Venezia
in VEDUTE Altre prese da
i Luoghi altre ideate DA
ANTONIO CANAL […]
1 _ Per un approfondimento
dell’argomento si rimanda a:
Gli incisori veneti del Settecento,
catalogo della mostra (Venezia,
teatro del “Ridotto”) a cura di
R. Pallucchini, Venezia 1941; Da
Carlevarijs ai Tiepolo: incisori
veneti e friulani del Settecento,
catalogo della mostra (Gorizia,
Musei provinciali, Palazzo
Attems; Venezia, Museo Correr)
a cura di D. Succi, Venezia
1983; Une Venise imaginaire.
Architectures, vues et scènes
capricieuses dans la gravure
vénitienne du XVIII e siècle,
catalogo della mostra (Ginevra,
Cabinet des Estampes) a cura di
R. M. Mason, Genève 1991; R.
Bromberg, Canaletto’s etchings,
San Francisco 1993; G. Marini,
L’incisione nel Seicento e nel
Settecento, in Storia di Venezia.
Temi, II: L’Arte, a cura di R.
Pallucchini, Roma 1995, pp.
521-555; G. Marini, Paesaggio,
capriccio, veduta. Mercato e
diffusione delle immagini tra
Venezia e Roma alla metà
del Settecento, in Nolli, Vasi,
Piranesi. Immagine di Roma
antica e moderna, catalogo della
mostra a cura di M. Bevilacqua,
Roma 2004, pp. 49-55; J.
Rutgers, The dating of Tiepolo’s
Capricci and Scherzi, “Print
Quarterly”, XXIII, 2006, 3, pp.
254-263; Ch. Rümelin, Remarks
on Giambattista Tiepolo’s
Scherzi, “Print Quarterly”,
XXVIII, 2011, 3, pp. 322-326;
D. Succi, La Serenissima nello
specchio di rame. Splendore
di una civiltà figurativa del
Settecento; l’opera completa dei
grandi maestri veneti, 2 voll.,
Castelfranco Veneto, 2013; A.
Griffiths, The Tiepolo family
publishing enterprise, in Venezia
Settecento. Studi in memoria
di Alessandro Bettagno, a cura
di B.A. Kowalczyk, Milano
2015, pp. 209-215; M. Matile,
Della grafica veneziana. Das
Zeitalter Anton Maria Zanettis
(1680-1767), Petersberg 2016;
G. Marini, Laurent Cars,
Joseph Wagner, Charles-Joseph
Flipart: le radici francesi
dell’incisione di traduzione
a Venezia nel Settecento, in
“Invenit et delineavit”. La
stampa di traduzione tra Italia
e Francia dal XVI al XIX secolo,
a cura di F. Mariano e V. Meyer,
“Horti Hesperidum. Studi
di storia del collezionismo e
della storiografia artistica”,
XIV, 2017, 2, pp. 315-346;
La vita come opera d’arte,
Anton Maria Zanetti e le
sue collezioni, catalogo della
mostra (Venezia, Museo del
Settecento veneziano) a cura
di A. Craievich, Crocetta del
Montello 2018; C. Lo Giudice,
Joseph Wagner. Maestro
dell’incisione nella Venezia del
Settecento, Sommacampagna
2018.
FIG. 4
ANTONIO CANAL detto
CANALETTO
Il portico con la lanterna
in VEDUTE Altre prese da
i Luoghi altre ideate DA
ANTONIO CANAL […]
rilievi antichi, ossa, crani, animali, che affascineranno
certamente anche la produzione giovanile di Piranesi.
Non a caso, infatti, quest’ultima appare segnata
da una matrice veneta che non deriva solamente dalla
prima educazione architettonica ricevuta da Piranesi
presso lo zio Matteo Lucchesi e Giovanni Scalfarotto,
dall’amicizia con Temanza, dall’alunnato presso Carlo
Zucchi nell’incisione e Giuseppe Valeriani per il disegno
scenografico, ma pure da un’intima vocazione
al capriccio, declinato con una sensibilità visiva tutta
lagunare. Ormai indagate le dinamiche del suo iniziale
pendolarismo tra Venezia e Roma, fin oltre la metà
degli anni Quaranta, risulta ora più agevole riconoscere
in Piranesi l’influsso delle contemporanee incisioni
di Tiepolo – plausibili responsabili della rapida
maturazione del linguaggio compositivo piranesiano
verso le commistioni di antico e d’Arcadia dei grandi
Grotteschi (1747-49) – e della singolare produzione
acquafortistica a soggetto paesistico e di veduta a cui
in quegli stessi anni si stava dedicando Canaletto. E
l’apparente contraddizione si risolve proprio in rapporto
a questo non estesissimo corpus incisorio canalettiano,
che fissa “la libertà dell’aria nella luce della
carta” con una felicità sino ad allora impensata. Del
resto, il definitivo rientro a Roma di Piranesi dopo
il secondo soggiorno a Venezia, nel settembre 1747,
fu reso possibile proprio dal mercato delle stampe,
su richiesta dell’editore tedesco Joseph Wagner, che
dal 1739 si era stabilito nella città lagunare dopo gli
esordi londinesi al seguito di Jacopo Amigoni. Iniziata
a Rialto, e trasferita poi in Merzaria a San Zulian, la
Calcografia Wagneriana avrebbe in seguito assunto un
ruolo fondamentale a Venezia come attivissimo fulcro
della locale produzione incisoria di traduzione, diffondendo
in tutta Europa il tipico linguaggio grafico della
Serenissima tramite tutta una generazione d’incisori
formatisi nella sua bottega. È possibile dunque che,
giusto in corrispondenza con la costituzione formale
della società d’impresa con Amigoni, nel 1747, Wagner
abbia pensato di inaugurare nuovi orizzonti commerciali
coinvolgendo proprio Piranesi che, secondo il suo
biografo Legrand, portò con sé a Roma un campionario
di stampe del valore di cinquecento ducati ricevuto
in conto vendita dall’editore, capitale con cui poté iniziare
con successo la propria carriera romana. È significativo
dunque che Piranesi, proprio nel corso di quel
decennio cardine per la stampa d’arte a Venezia, si sia
venuto a porre a Roma – e, da qui, rivolto poi a tutto
il mondo di allora – come l’ideale ambasciatore della
più originale produzione incisoria veneta. E questa, a
sua volta, non poteva non riflettere gli esiti della contiguità
concettuale di paesaggio, capriccio e veduta, trasfigurati
in un linguaggio grafico intriso nella speciale
fenomenologia della luce lagunare [1] .
282 —GENERI E TEMI —
— , L’INCISIONE: GLI ANNI QUARANTA — 283
CLAUDIA
CROSERA
FIG. 1
GIOVANNI CATTINI da
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Bossuet ispirato dalla Fede
e dalla Verità, in Jacques
Bénigne Bossuet, Œuvres,
Venezia 1736, antiporta, vol. I.
Venezia, Museo Correr,
Biblioteca
1 _ Lettere di Apostolo Zeno ...
3, Venezia 1752, p. 310.
2 _ Per Anton Maria Zanetti,
oltre al cammeo dedicato
all’erudito da Francis Haskell:
Mecenati e pittori. Studio sui
rapporti tra arte e società
italiana nell’età barocca, Firenze
1966 (ed. 1985), pp. 519-526, si
veda il recente catalogo della
mostra La vita come opera
d’arte, catalogo della mostra
(Venezia, Ca’ Rezzonico) a cura
di A. Craievich, Venezia 2018.
3 _ Sull’attività di
promozione culturale del
console Smith si veda il recente
contributo di B. Alfonzetti,
Le committenze del console
Smith e il sapere architettonico
(Algarotti, Arrighi-Landini,
Conti, Poleni), in Diplomazia
e comunicazione letteraria nel
secolo XVIII. Gran Bretagna
e Italia, Atti del Convegno
Internazionale di studi
(Modena, 21-23 maggio 2015) a
cura di F. Fedi e D. Tongiorgi,
Roma 2017, pp. 203-220.
4 _ Sulla figura di Algarotti
cfr. Haskell 1966 (ed. 1985), pp.
GENERI
E TEMI
L’EDITORIA
“Mi è tuttavia più caro
avere i libri, che i quattrini. Di questi ogni poco mi
basta: là dove di quelli sono insaziabile”: così scriveva
Apostolo Zeno da Vienna, il 31 gennaio 1722, al marchese
Giovanni Poleni di Padova [1] . Un piacere inappagabile
di possedere libri che il letterato condivideva
con molti degli amatori veneziani e stranieri presenti
in città in quel tempo come Anton Maria Zanetti il
Vecchio [2] , il console inglese residente a Venezia
Joseph Smith [3] e il Conte Francesco Algarotti [4] ,
che, oltre a possedere fornitissime biblioteche [5] ,
furono tra i promotori di alcune delle più importanti
imprese editoriali del secolo [6] .
Il modello di riferimento per la produzione
di volumi prestigiosi e riccamente illustrati è sicuramente
Parigi, centro nevralgico dell’editoria di lusso
in cui, a partire dal terzo decennio del secolo, con
l’affermarsi del linguaggio rococò, si assiste al fiorire
di un nuovo interesse per il libro d’arte, destinato a
un pubblico esclusivo, caratterizzato da uno sfarzoso
corredo iconografico, da una raffinata veste tipografica
e dalla leggera grazia della mise en page [7] . Questa
innovazione si deve principalmente alla presenza di
tre illuminati conoscitori, impegnati, in questi anni,
in importanti progetti editoriali: il banchiere Pierre
Crozat, il collezionista conte di Caylus e il mercante
di stampe Pierre-Jean Mariette [8] , che avevano intessuto
stretti legami di amicizia con alcuni dei più illustri
artisti e mecenati veneziani [9] .
La città lagunare si era dimostrata, in questi
stessi decenni, un terreno particolarmente fertile per
lo sviluppo dell’editoria illustrata: si trattava, infatti,
di un ambiente colto, aperto alle novità e agli scambi
culturali con i maggiori centri d’Europa. Venezia inizia
a elaborare progetti editoriali complessi e raffinati
con finalità celebrative, diventando così il maggiore
centro di produzione dell’editoria di lusso dei primi
decenni del XVIII secolo [10] .
La complessa realtà culturale sottesa alla nascita
e alla diffusione del progetto-libro – che prevedeva la
contemporanea presenza di mecenati, collezionisti,
bibliofili e consulenti culturali, disegnatori e incisori,
accanto a editori e stampatori, considerati dei veri e
propri “imprenditori del libro” – favorisce la produzione
di splendide e sontuose edizioni, frutto spesso
di un consistente impegno economico [11] , caratterizzate
da una lunga gestazione, da un’accurata fase preparatoria,
dal felice connubio tra il testo scritto e un
apparato illustrativo di altissima qualità, dall’impaginato
raffinato ed elegante e da complessi rapporti tra
committente-ideatore, artista-esecutore e stampatore.
Alcune delle pubblicazioni più interessanti
del secolo sono, infatti, sicuramente il frutto di riusciti
sodalizi di tipo artistico, come quelli tra l’editore
Albrizzi, Giambattista Piazzetta e l’incisore Andrea
Zucchi [12] , o di tipo commerciale, come quelli tra l’editore
Giambattista Pasquali e il console britannico
a Venezia Joseph Smith, o di Antonio Zatta con il
ricco mercante e collezionista e console di Augusta
Amedeo Svajer e il pittore Pietro Antonio Novelli [13] .
Tra i maggiori editori veneziani che si dedicavano
alla produzione di volumi illustrati in edizione
di lusso, si ricordano quindi l’Albrizzi, il Pasquali e
lo Zatta [14] .
— L’EDITORIA — 285
Giambattista Albrizzi, collezionista di opere
d’arte e di libri in contatto con il più aggiornato mercato
editoriale europeo, pubblica nel corso dell’Età
dei lumi opere di aristocratica eleganza come le
Œuvres del Bossuet con le illustrazioni di Giambattista
Tiepolo e di Giambattista Piazzetta (figg. 1, 2), in dieci
tomi editi a partire dal 1736 fino al 1757 [15] , e, nel 1745,
il volume in folio della Gerusalemme Liberata sempre
illustrato da Piazzetta, considerato uno dei capolavori
della stampa veneziana settecentesca (fig. 3) [16] .
“Grossissimo è ancora il commercio de’ libri, i quali
d’ordinario si vendono a discretissimo prezzo”, ricordava
Thomas Salmon, “e taluni de’ nostri Stampatori
son giunti in questi ultimi tempi colla nitidezza della
carta, colla pulitezza de’ caratteri, e cogli ornamenti di
bellissimi intagli in rame ad uguagliare le più magnifiche
Edizioni oltramontane, facendo fra le altre molto
onore alle Stampe veneziane la superba Edizione in
foglio della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso,
fatta nell’anno 1745 da Gio: Battista Albrizzi colle
figure di Gio: Battista Piazzetta. Tutte le altre arti sì
liberali che meccaniche fioriscono quivi a maraviglia
pittori, scultori, architetti, intagliatori ritrovano in
copia, e forse i più eccellenti di tutta l’Italia”.
Anche dalla stamperia di Giambattista Pasquali
escono edizioni lussuose riccamente decorate: tra le
numerose si ricordano la Dactyliotheca Smithiana
con le illustrazioni di Giambattista Brustolon datata
1767 e i diciassette volumi delle Opere del Goldoni con
le vignette di Pietro Antonio Novelli usciti tra il 1761
e il 1780 [17] .
Dai torchi dell’editore Zatta, forse il più
moderno dei tre, a partire dalla metà del secolo,
escono alcuni importanti classici della letteratura
italiana: tra quelli di maggior rilievo si ricordano i
volumi de Le rime di Francesco Petrarca del 1756, alla
cui decorazione collaborano tra gli altri Francesco
Fontebasso e l’incisore Giambattista Brustolon; i tre
volumi della Divina Commedia di Dante, editi tra 1757
e 1758, con un centinaio di tavole, cornici e finalini a
opera di un’équipe di artisti tra cui Gaspare Diziani,
Francesco Fontebasso e Jacopo Guarana tra gli inventori
e Bartolomeo Crivellari, Giuliano Giampiccoli e
Giacomo Leonardis tra gli incisori [18] .
L’aspetto forse più interessante e al contempo
innovativo dell’editoria veneziana della prima metà
del XVIII secolo è dato dal fatto che molti tra i più
illustri pittori, disegnatori e incisori del tempo dedicavano
parte delle loro attività alla produzione di
materiali per l’editoria, sia per i veri e propri libri di
lusso, sia per pubblicazioni d’occasione [19] , libretti
d’opera, album e raccolte di incisioni e, talvolta, persino
per biglietti da visita e volantini pubblicitari
[20]
. Diventa consueto allora, tra le pagine stampate
nel Settecento, imbattersi nei nomi di Giambattista
Tiepolo, Giambattista Piazzetta, Luca Carlevarijs,
Antonio Balestra, Francesco Zugno, Francesco
Fontebasso, Gaspare Diziani, Gaetano Zompini e
Pietro Antonio Novelli in qualità di ideatori e disegnatori
di raffinate e complesse composizioni che
poi, dalle mani di alcuni tra più esperti calcografi del
tempo, venivano tradotte in segni incisi [21] .
E così, mentre i dettagliatissimi fogli di
Tiepolo [22] per lo più a matita nera che l’artista realizza
fin dalla sua prima giovinezza, coerentemente
con la sua poetica, si allontanano dalla tradizionale
impostazione tardoseicentesca, scegliendo un punto
di vista nuovo, un differente taglio delle inquadrature,
dando maggiore risalto agli effetti della luce, quelli di
Balestra “non cercano di suggerire il tratto dell’incisore,
come accade sovente in Tiepolo. Sono invece
disegni a penna e acquerello, spesso anche piuttosto
arruffati”, dei “veri e propri ’dipinti in miniatura’,
incastonati tra le pagine di un libro, come certe antiporte
del maestro, tanto più suggestive quanto maggiore
il formato del libro” [23] .
Ma il pittore che, nella Venezia del Settecento,
più di ogni altro aveva lavorato per il mondo dell’editoria
era sicuramente Giambattista Piazzetta: egli,
nel corso di tutta la sua esistenza, aveva fornito all’Albrizzi,
amico ed editore di fiducia, un gran numero di
disegni, per lo più a matita rossa, per alcune tra le sue
più importanti imprese tipografiche [24] . Ed è così che
la Gerusalemme Liberata del Tasso, uscita a Venezia
nel 1745, si riempie di eleganti cornici e fregi rococò,
capilettera istoriati e fantasiose vignette raffiguranti
movimentate scenette pastorali [25] .
L’ultimo grande artista attivo per il mondo
dell’editoria è stato Piero Antonio Novelli, che “per
quasi mezzo secolo non ha fatto altro che disegnare
antiporte, frontespizi, tavole, vignette e finali d’ogni
genere, non rifiutando la propria collaborazione
527-547 e M. Magrini, Anton
Maria Zanetti il vecchio a
Francesco Algarotti: due veneziani
“cittadini” europei, “Arte Veneta”,
73, 2016, pp. 227-231.
5 _ Tra queste, una delle più
ricche di preziosi volumi era
sicuramente quella di Zanetti,
come ricorda in una sua missiva
al conte Giacomo Carrara
il critico d’arte bergamasco
Francesco Maria Tassi: “Vado
spesse volte dal signor Antonio
Zanetti, il quale possiede cose
rarissime di disegni, stampe,
medaglie, cammei ed altre
pietre intagliate, ed ha una
raccolta di libri spettanti alle
belle arti del disegno che non si
può vedere cose più belle”.
6 _ M. Magrini, Giambattista
Tiepolo e i suoi contemporanei,
in Lettere artistiche del
Settecento veneziano, Vicenza
2002, pp. 253, n. 101. È stato
di recente pubblicato da Anna
Bozena Kowalczyk (Il “prezioso”
manoscritto della collezione
Bettagno: l’”Indice” della della
biblioteca di Anton Maria
Zanetti, in Venezia Settecento.
Studi in memoria di Alessandro
Bettagno, a cura di A.B.
Kowalczyk, Cinisello Balsamo
2015, pp. 31-36).
7_ Tra i più celebri pittori
che si dedicano all’illustrazione
libraria in Francia si ricordano
François Boucher, autore nel
1735 di trentatré invenzioni per
le Œuvres di Molière e Jean-
Honoré Fragonard con una serie
di disegni per i racconti di Jean
de la Fontaine.
8 _ È proprio grazie al loro
illuminato mecenatismo che,
tra il 1729 e il 1742, vennero
pubblicati i due volumi del
Recueil d’Estampes d’après
les plus beaux tableaux, et
d’après les plus beaux desseins
qui sont en France dans le
Cabinet du Roy et dans celui de
Monseigneur le duc d’Orléans,
et dans d’autres Cabinets (I vol.
1729, II vol. 1742). La portata
innovativa di questa impresa
anche sull’arte veneziana coeva
è sottolineata per la prima
volta da Francis Haskell nel suo
fondamentale contributo sulla
difficile nascita del libro d’arte
(La difficile nascita del libro
d’arte, in Le metamorfosi del
gusto. Studi su arte e pubblico
nel XVIII e XIX secolo, Torino
1989, pp. 502-103).).
9 _ Holloway (French Rococo
book illustration, London
1969) ricorda alcuni dei suoi
maggiori protagonisti: Jean
Baptiste Oudry, autore delle
Contes di La Fontaine, incise
da Charles-Nicolas Cochin
(cfr. C. Michel, Charles-Nicolas
Cochin et le livre illustré au
XVIIIe siècle. Avec un catalogue
raisonné des livres illustrés par
Cochin 1735-1790, Genève 1987
e Id., Charles-Nicolas Cochin et
l’art des lumières, Roma 1993),
Hubert-François Bourguignon
detto Gravelot e per finire
Charles Eisen.
10 _ Haskell 1966 (ed.
1985), pp. 506-526. Dopo il
pioneristico studio di Giuseppe
Morazzoni che risale al lontano
1943 intitolato Il libro illustrato
veneziano del Settecento
(Milano) e l’insostituibile tomo
dedicato all’editoria veneziana
del Settecento di Mario Infelise
uscito nel 1989, negli ultimi
decenni l’argomento è stato
oggetto di nuovo interesse da
parte degli studi. In particolare,
è stata data grande attenzione
all’attività di illustratori di
libri di molti artisti veneziani
nel corso di tutto il secolo nel
catalogo della mostra tenuta
a Padova, dal titolo Tiepolo.
Piazzetta. Novelli, Crocetta del
Montello 2012.
11 _ La pubblicazione di
volumi di lusso – in genere di
grandi dimensioni e spesso
divisi in più tomi – prevedeva
ingenti spese di esecuzione
e di stampa, presupponendo
finanziatori o sottoscrittori
che le coprissero, almeno in
parte. In caso di mancanza di
fondi si poteva ricorrere alle
FIG.2
GIOVANNI CATTINI da
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Il trionfo della Fede e della
Sapienza sulle Eresie, in
Jacques Bénigne Bossuet,
Œuvres, Venezia 1738,
antiporta, vol. III. Venezia,
Museo Correr, Biblioteca
anche per pochissimi soggetti” [26] . Di lui si ricordano
le linee accademiche e classicheggianti delle centinaia
di disegni realizzati per alcuni dei più importanti
testi letterari e teatrali della seconda metà del
secolo, dalla Gerusalemme Liberata stampata presso
Antonio Groppo tra 1760 e 1761 alle Commedie del
Goldoni, incise da Antonio Baratti e pubblicate tra
1760 e 1764 presso il Pasquali, all’Orlando Furioso di
Ariosto stampato da Zatta nel 1772, fino ai quarantaquattro
tomi con le Opere teatrali del Goldoni uscite
dai torchi di Zatta tra 1788 e 1795, con più di seicento
illustrazioni [27] .
Molte informazioni relative alla complessa
genesi di questo genere di prestigiosi libri riccamente
illustrati si potevano ricavare dalle dediche ad apertura
dei volumi [28] , dagli epistolari di eruditi, letterati,
storiografi e conoscitori, e dalle pubblicazioni
periodiche di argomento letterario, come ad esempio
“La Galleria di Minerva”, un giornale attivo dal 1696
al 1717, edito dall’Albrizzi, con il quale collaborava
Apostolo Zeno, in cui comparivano notizie sia nazionali
che internazionali, recensioni di edizioni rare e
soprattutto pubblicità delle più importanti nuove
imprese editoriali degli inizi del nuovo secolo [29] .
Tra i motivi della fortuna dell’industria editoriale
del Settecento lagunare, oltre alla presenza di un
gran numero di famosi artisti attivi nel settore dell’illustrazione
libraria, si aggiungeva una legislazione
286 —GENERI E TEMI —
— L’EDITORIA — 287
moderna che mirava a proteggere le pubblicazioni
locali dall’invasione dei testi foresti e dal plagio
attraverso il privilegio – cioè nel diritto esclusivo di
stampa –, garantendo così il lavoro degli stampatori
e dei librai che si dedicavano alla produzione e alla
distribuzione di libri illustrati di pregio [30] .
Fondamentale era stato inoltre il contributo
della fitta schiera di calcografi, sia incisori-traduttori
che utilizzavano e interpretavano disegni altrui,
sia peintres-graveurs, cioè artisti che traducevano in
stampe le loro idee originali, perché, come ricordava
Rodoldo Pallucchini introducendo un’epocale mostra
sulla storia dell’incisione a Venezia, “la produzione incisoria
del Settecento veneziano, ce lo documenta l’abate
Giannantonio Moschini nel suo abbozzo storico, è stata
fecondissima come in nessun altro momento della storia
delle arti figurative italiane” [31] . E mentre alcuni incisori
di traduzione attivissimi per il mondo dell’editoria
ancora continuavano a usare esclusivamente il bulino,
come Marco Pitteri – per il quale “era cosa mirabile
il vedere raggiunti sì vivi effetti di contorno e di chiaro-scuro,
ad onta che non cavasse il rame che con un
sol taglio. Egli non fece giammai uso dell’acqua forte”
–, altri invece avevano accolto la novità della commistione
delle tecniche del bulino e dell’acquaforte, giunta
in Italia grazie all’arrivo a Venezia, alla fine del terzo
decennio, di Joseph Wagner. Fu proprio l’incisore tedesco
che, tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo,
a detta di Anton Maria Zanetti il Giovane, “portò in
Venezia la bella maniera d’intagliare in rame con acqua
forte e bulino, svegliata e perfezionata già in Francia dal
celebre Audran”, ed è “perciò benemerito d’aver quivi
introdotta una maniera così applaudita; e d’aver fatti
molti degni discepoli” [32] , dando vita a una delle botteghe
calcografiche più operose del tempo, anche grazie
al sodalizio con Jacopo Amigoni, che lo mise in contatto
con i maggiori connoisseurs attivi a Venezia, come
Anton Maria Zanetti e il console Smith, con i quali collabora
fornendo incisioni per i loro più importanti progetti
editoriali [33] .
FIG. 3
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Apollo e le Muse, in Torquato
Tasso, La Gerusalemme
liberata, Venezia 1745.
Venezia, Museo Correr,
Biblioteca
sottoscrizioni, generalmente
promosse da librai ed editori:
si tratta di una sorta di
finanziamento attraverso
il quale si coinvolgevano
preventivamente nelle iniziative
editoriali gli illustri destinatari,
che, prenotando i volumi,
stipulavano una garanzia di
sicuro acquisto.
12 _ Sul rapporto Albrizzi-
Piazzetta, in una lettera di
Francesco Algarotti ad Heinrich
Bruhl si legge: “J’ai donné les
100 sequins à Monsieur Albrizzi,
libraire de ce païs-ci, le seul
homme qui puisse tirer quelque
chose de ce peintre habile et
bizarre”, cfr. Magrini in Lettere
artistiche 2002, I, n. 33, p. 107.
13 _ Infelise 1985, pp. 162-170.
14 _ Haskell 1966 (ed.
1985), pp. 509 e ss. Tra i più
importanti editori e stampatori
che a Venezia si occupavano
di libri d’arte si ricordano
Girolamo Albrizzi con i due figli
Almorò e Giovanni Battista,
Giambattista Pasquali e Antonio
Zatta (Infelise 1989, pp. 9-39).
15 _ Piazzetta aveva
realizzato per le Œuvres del
Bossuet (1736-1757) circa un
centinaio di disegni – oggi
conservati per la maggior parte
alla Biblioteca Reale di Torino
e alla Fondazione Giorgio Cini
di Venezia – incisi da Giovanni
Cattini in primis e da almeno
una decina di altri intagliatori
tra cui Carlo Orsolini, Marco
Pitteri e Bartolomeo Crivellari,
solo per ricordarne alcuni. Cfr.
Haskell 1966 (ed. 1985), pp. 510-
511 e Ton in Tiepolo. Piazzetta.
Novelli 2012, pp. 158-161.
16 _ T. Salmon, Lo stato
presente di tutti i paesi, e popoli
del mondo (Venezia 1731-1766),
Volume XX, parte 1, p. 83.
Haskell 1966 (ed. 1985), pp. 511-
512; Ton in Tiepolo. Piazzetta.
Novelli 2012, pp. 168-173.
17 _ Per il Pasquali si veda
Haskell 1966 (ed. 1985), pp.
513-515. Sui due volumi della
Dactyliotheca Smithiana, cfr.
Crosera in Tiepolo. Piazzetta.
Novelli 2012, pp. 408-411;
sull’edizione di Giambattista
Pasquali delle Commedie di
Carlo Goldoni, cfr. Stopper in
Tiepolo. Piazzetta. Novelli 2012,
pp. 264-268.
18 _ Per le edizioni Zatta,
cfr. il Catalogo dei libri latini
e italiani che trovansi vendibili
nel negozio di Antonio Zatta
e figli, libraj e stampatori di
Venezia, Venezia 1791; Haskell
1966 (ed. 1985), pp. 515-517.
In particolare, per le Rime del
Petrarca si vedano Lo Giudice in
Tiepolo, Piazzetta, Novelli 2012,
pp. 204-207, e per le edizioni
della Commedia dantesca,
Ibidem, pp. 208-213.
19 _ Per le pubblicazioni
d’occasione del Settecento a
Venezia si veda A. Pettoello,
Libri illustrati veneziani del
Settecento. Le pubblicazioni
d’occasione, Venezia 2005.
20 _ Si ricordano alcuni rari
esempi superstiti di progetti per
fogli pubblicitari di Giambattista
Tiepolo di Pietro Antonio Novelli
(A. Craievich, Maestri e botteghe
nella Venezia del Settecento,
catalogo della mostra (Crema,
Centro Culturale Sant’Agostino)
a cura di F. Magani, F. Pedrocco,
Milano 2002, pp. 48-49), di
Giambattista Piazzetta (D. Ton. in
Tiepolo. Piazzetta. Novelli 2012,
pp. 153, 189).
21 _ Molti disegni per le
illustrazioni librarie, che
un tempo si riteneva essere
rari esempi superstiti di una
procedura che li destinava
al sacrificio nelle botteghe
degli incisori, in realtà
sono sopravvissuti come
testimonianza dell’intenso
sforzo inventivo di pittori che
spesso, durante la loro carriera,
si dedicavano anche a questo
ambito: cfr. D. Ton, in Tiepolo,
Piazzetta, Novelli 2012, pp. 15-31.
22 _ Sull’attività di Tiepolo
per l’editoria si vedano F.
Pedrocco, Giambattista
Tiepolo illustratore di libri, in
Giambattista Tiepolo il segno e
l’enigma, catalogo della mostra
(Gorizia, Castello) a cura di D.
L’innovazione più importante del libro illustrato
veneziano del Settecento, rispetto alle pubblicazioni
del secolo precedente, è data dal fatto che le edizioni
diventano più ricche grazie alla scelta di carte più
preziose, di una migliore qualità di stampa mediante
l’utilizzo di caratteri più eleganti e ariosi, di una più
studiata impaginazione, di una maggiore quantità e
qualità di illustrazioni. Aumenta il numero delle edizioni
di altissima qualità e di grande impegno: si
ristampavano opere già edite oppure si pubblicavano
testi nuovi di argomento storico, scientifico, teatrale o
letterario, nei quali la maestosità dei vecchi fregi tipografici
lasciava il posto alla grazia e alla leggerezza delle
decorazioni calcografiche, a bulino e ad acquaforte. Si
assiste così a una vera e propria esplosione e frantumazione
dell’illustrazione, che irrompe, con le grandiose
antiporte, i solenni ritratti, le iniziali istoriate, le
eleganti vignette e i leggiadri finalini, in tutti i meandri
del libro di lusso. Le illustrazioni quindi, che ad
eccezione di alcuni casi avevano funzione didascalica,
FIG. 4
ROBERT VAN AUDENARD
Ercole indica la strada verso i
templi della Virtù e dell’Onore
a un giovane della famiglia
Barbarigo, in Numismata
virorum illustrium ex
Barbadica gente, Padova 1732,
antiporta. Venezia, Museo
Correr, Biblioteca
venivano utilizzate per visualizzare i contenuti del
libro ed enfatizzarne i valori, per rendere più appetibile
la lettura del testo o per arricchirlo di significati
ulteriori, diventando parte integrante, si potrebbe dire
irrinunciabile, dell’“oggetto-libro”. Lo si nota in prima
istanza nei cataloghi delle opere d’arte – talvolta anche
redatti con finalità commerciali – che anche a Venezia
iniziavano a essere concepiti su modello della colossale
impresa editoriale del Recueil d’estampes iniziata
nel 1720 da Pierre Crozat, come i due tomi del Gran
Teatro delle Pitture e Prospettive di Venezia, stampati
nello stesso anno, nei quali, come ricorda Moschini:
“gl’intagli sono, per la maggior parte, di Andrea Zucchi
veneziano il vecchio, e di Domenico Rossetti, con disegni
di Silvestro Manaigo, e alcuni di Giambattista
Tiepolo, avendo costui assai per tempo cominciato i
suoi studi dalle opere de’ più sublimi maestri, e spezialmente
da quelle di Paolo Veronese” [34] .
Spesso quindi, i sontuosi ritratti ad apertura dei
volumi, le composizioni allegoriche che animavano le
288 —GENERI E TEMI —
— L’EDITORIA — 289
complesse antiporte, le animate scenette che facevano
capolino tra le pagine scritte, diventavano uno strumento
comunicativo molto più efficace e diretto del
testo, soprattutto nei libri concepiti con finalità celebrativa,
come accade ad esempio in uno dei primi esempi
di volumi illustrati di pregio apparsi nel Veneto del XVIII
secolo: i Numismata virorum illustrium ex Barbadica
gente, volume in folio stampato a Padova nel 1732, ma
veneziano tout court, che celebra le glorie della illustre
famiglia Barbarigo attraverso le medaglie (fig. 4) [35] .
Accanto a questi, tra le pagine più felici dell’editoria
veneziana settecentesca, si ricordano anche
libri didattici, libri ecclesiastici, libri celebrativi, testi
teatrali [36] ; e ancora le Guide, gli Atlanti [37] , o i classici
della letteratura [38] , gli album di vedute, i libri di viaggio
[39] e i cataloghi illustrati delle raccolte di antichità
e d’arte. A questo ultimo genere di libri di tema antiquario
appartengono alcune pubblicazioni, come ad
esempio quella che Zanetti dedica allo statuario marciano
intitolata Delle antiche statue greche e romane
del 1740-43 (fig. 5) [40] ; la Dactyliotheca Zanettiana,
catalogo delle gemme antiche e dei cammei della
raccolta di Anton Maria Zanetti del 1750 (fig. 6) [41] ,
e la Dactyliotheca Smithiana, volume dedicato alla
analoga collezione del console britannico a Venezia
Joseph Smith del 1767 [42] , che può essere considerato,
a tutti gli effetti, uno degli ultimi grandiosi progetti
editoriali di una Venezia che presagiva già l’inizio di
un lento ma inesorabile crepuscolo. Le glorie dell’editoria
lagunare saranno, infatti, ben presto destinate
a dissolversi: nella seconda metà del secolo si iniziano
ad avvertire i primi sentori di una crisi dovuta in parte
all’aumento del potere delle stamperie di terraferma
– prime tra tutte quella dei Remondini di Bassano
– e in parte al crollo del mercato del libro religioso
che aveva determinato l’improvviso venir meno di
una delle maggiori fonti di guadagno per le stamperie
veneziane. Dopo il 1760, due tra i maggiori editori
di opere di alta qualità appaiono in pieno declino: per
l’Albrizzi inizia un periodo di grandi difficoltà finanziarie
e anche il Pasquali, a causa della rottura del
sodalizio con il console Smith, è costretto ad abbandonare
il genere dell’editoria illustrata di lusso per
mancanza di mezzi economici [43] .
Ma forse l’elemento che più determinò la fine
di questa era fu la diminuzione, rispetto alla prima
metà del Settecento, di importanti progetti e di
influenti mecenati in grado ancora di concepire idee
grandiose, come annota Giannantonio Moschini a
chiosa della sua storia dell’incisione veneziana: “è per
altro verissima cosa, che presentemente cessarono
tante di quelle occasioni che teneano in movimento
tante mani e tanti bulini” [44] .
Succi, Treviso 198, pp. 64-76, e il
recente contributo di D. Ton, in
Tiepolo, Piazzetta, Novelli 2012,
pp. 60-106.
23 _ Sull’attività del pittore
per l’editoria si veda inoltre A.
Tomezzoli, in Ivi, pp. 110-114
e ss. e il recente contributo di
Giorgio Marini nel catalogo della
mostra a lui dedicata: G. Marini,
Il microcosmo aggraziato:
disegni per l’editoria, in Antonio
Balestra, nel segno della grazia,
catalogo della mostra (Verona,
Museo di Castelvecchio) a cura
di A. Tomezzoli, Verona 2016,
pp. 101-114.
24 _ Il sodalizio con
l’editore, iniziato nel 1736 con
l’invenzione di un centinaio
di disegni per le Œuvres di
Jacques Benigne Bossuet, sarà
proficuo e duraturo: cfr. G. B.
Piazzetta. Disegni-Incisioni-
Libri-Manoscritti, catalogo della
mostra (Venezia, Fondazione
Giorgio Cini) a cura di A.
Bettagno, Vicenza 1983, passim
e da ultimo Ton, in Tiepolo.
Piazzetta. Novelli 2012, pp. 20-
25, 152-165, 168-175; Apolloni,
in Ibidem, pp. 166-167, 176-193.
25 _ Lo stesso Albrizzi
sottolineava la bellezza delle
illustrazioni “tutte di vario
disegno, delineate dal celebre
Pittor Piazzetta, ed intagliate
in rame da’ più valenti Incisori.
Di questa impresa resteranno
soddisfatti non solo i Poeti, ma
i Pittori ancora, e gli Scultori;
e spero che tanti e sì fini
ornamenti non sieno mai stati
più veduti in libro alcuno” (Ton,
in Tiepolo. Piazzetta. Novelli
2012, p. 23).
26 _ Morazzoni 1943, p. 184.
27 _ A. Sponchiado, in
Tiepolo. Piazzetta. Novelli 2012,
pp. 258-262, 274-277, 282-290,
294-299, 302-303; cfr. inoltre F.
Stopper, in Ibidem, pp. 264-273,
FIG. 5
FELICITA SARTORI da
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Minerva che rende omaggio
a Venezia, in Delle antiche
statue, Venezia 1740,
antiporta. Venezia, Museo
Correr, Biblioteca
FIG. 6
Le gemme antiche di Anton
Maria Zanetti di Girolamo,
Venezia 1750, frontespizio.
Venezia, Museo Correr,
Biblioteca
278-281, 292-293, 300-301.
28 _ Sulle forme, significati
e tipologie di dedica si veda M.
Paoli, La dedica. Storia di una
strategia editoriale, Lucca 2009,
passim.
29 _ Sulla rivista cfr. D.
Levi, L. Tongiorgi Tomasi,
Testo e immagine in una rivista
veneziana tra Sei e Settecento:
La galleria di Minerva,
“Annali della Scuola Normale
Superiore di Pisa, classe di
lettere e filosofia”, ser. III, XX,
1990, pp. 186-210; C. Griggio,
“La Galleria di Minerva” e
Venezia: “la più saggia, la più
giusta, la più forte di tutte le
Repubbliche”, “Cahiers d’études
romanes”, 12, 2005, pp. 13-24.
Cfr. inoltre R. Gorian, Testo e
immagine nei periodici antichi.
Le testate politiche veneziane
(XVII-XVIII secolo), in Storia per
parole e per immagini, a cura di
U. Rozzo, M. Gabriele, Udine
2006, pp. 267-299, pp. 267-299.
30 _ Come ricorda
Morazzoni (1943, p. 55), infatti,
nel 1697 a Venezia si contavano
ventisette stamperie; questo
numero era arrivato, nel giro di
quasi quarant’anni a triplicarsi
arrivando a novantaquattro
nel 1735, per poi diminuire
nuovamente fino ad arrivare a
cinquantasette a fine secolo.
31 _ Pallucchini 1941, p. 9.
32 _ A.M. Zanetti, Della
pittura veneziana e delle opere
pubbliche de’ veneziani maestri
libri V, Venezia 1771, p. 547.
33 _ C. Lo Giudice, Joseph
Wagner. Maestro dell’incisione
nella Venezia del Settecento,
Sommacampagna 2018, pp. 35-36.
34 _ G. Moschini,
Dell’incisione in Venezia,
pubblicata a cura della Regia
Accademia di Belle Arti di
Venezia, Venezia 1924, p. 56.
Altri importanti tomi riferibili a
questo genere furono stampati
solo molto più tardi: si pensi
agli Studi di pittura di Piazzetta
nel 1760 (Apolloni, in Tiepolo.
Piazzetta. Novelli 2012, pp. 179-
180), al Compendio delle Vite de’
Pittori di Alessandro Longhi del
1762 (Apolloni, in Ibidem, pp.
372-374) e alla Raccolta di cento
e dodeci quadri… incisi da Pietro
Monaco, del 1763 (Apolloni, in
Ibidem pp. 376-378).
35 _ C. Crosera, Passione
numismatica: editoria, arti e
collezionismo a Venezia nel Sei
e Settecento, tesi di dottorato di
ricerca in storia dell’arte presso
la Scuola Dottorale in Scienze
Umanistiche dell’Università degli
Studi di Trieste, indirizzo storico
e storico-artistico (XXII ciclo),
Trieste 2010, pp. 70-77, 261-265;
e Les Numismata virorum
illustrium ex Barbadica gente
(Padoue, 1732), in Les médailles de
Louis XIV et leur livre, a cura di Y.
Loskoutoff, Mont-Saint-Aignan
2016, pp. 403-419.
36 _ Tra i testi teatrali che
ebbero grandissima diffusione in
tutta Europa si devono ricordare
innanzitutto le commedie di
Goldoni edite da Pasquali e da
Zatta in più edizioni tra gli anni
Sessanta e l’ultimo decennio
del Settecento. Cfr. Stopper
in Tiepolo. Piazzetta. Novelli
2012, pp. 264-268 e 269-273;
Sponchiado, in Ibidem, pp.
262-263.
37 _ Per gli Atlanti cfr. M.
Magliani, in Tiepolo. Piazzetta.
Novelli 2012 pp. 449-452.
38 _ Per i testi letterari cfr. M.
Magliani, Letteratura per figure,
in Tiepolo. Piazzetta. Novelli
2012, pp. 196-202.
39 _ Accanto alle vedute del
Carlevarijs si aggiungevano
quelle di Michele Marieschi
(Magnificentiores selectioresque
urbis Venetiarum prospectus del
1741) di Canaletto e Visentini
(Urbis Venetiarum prospectus
celebriores del 1742) e di
Canaletto (Vedute altre prese dai
luoghi altre ideate da Antonio
Canal del 1744).
40 _ Crosera, in La vita come
opera d’arte 2018, pp. 262-275. Tra
le imprese editoriali finanziate da
Zanetti, oltre a quelle dedicate
allo statuario marciano e alla sua
collezione di gemme, si ricorda
l’impresa delle Arti che vanno
per via con l’incisore Gaetano
Zompini, una pubblicazione
di genere dedicata alla serie di
mestieri ambulanti nella Venezia
del Settecento. Per una recente
disamina su questa pubblicazione
cfr. Craievich, in La vita come
opera d’arte 2018, pp. 292-295.
41 _ La stessa cura e
attenzione all’andamento dei
lavori e alla qualità delle incisioni,
Zanetti la dedica anche alle fasi
preparatorie del catalogo delle
gemme antiche e dei cammei
della sua raccolta, la cosiddetta
Dactyliotheca Zanettiana
(Crosera 2010, pp. 306-309;
Crosera, in Tiepolo. Piazzetta.
Novelli 2012, pp. 400-403).
42 _ Tra questi si
annoverano sia i libri d’arte
con finalità celebrativa
destinati a essere usati come
strenna da parte di famiglie
aristocratiche desiderose
di pubblicare i cataloghi
delle proprie collezioni, sia
volumi dall’esplicita finalità
commerciale, come cataloghi di
vendita di collezioni destinate a
essere immesse sul mercato. La
Dactyliotheca Smithiana esce
presso la stamperia Pasquali nel
1767, proprio l’anno della morte
dello Zanetti. Alla realizzazione
del catalogo della raccolta
Smith, dedicata a Giorgio III,
avevano collaborato l’erudito
fiorentino Anton Francesco
Gori per la redazione dei testi,
Anton Maria Zanetti il Giovane
per l’esecuzione dei disegni
e il bellunese Giambattista
Brustolon per -gli intagli.
43 _ Infelise 1989, pp. 275-338.
44 _ Moschini 1924, p. 188.
290 —GENERI E TEMI —
— L’EDITORIA — 291
CAT.VI.01
FRANCESCO BERTOS
Allegoria della Vendemmia
Bronzo con tracce di doratura, h 110 cm
Torino, Musei Reali, Palazzo Reale, inv. 2604 DC
Bibliografia _ Viancini 1994, p. 150; Avery 2008,
p. 222, cat. 118.
CAT.VI.02
FRANCESCO BERTOS
Allegoria della Guerra
Bronzo con tracce di doratura, h 110 cm
Torino, Musei Reali, Palazzo Reale, inv. 2569 DC
Bibliografia _ Viancini 1994, p. 150; Avery 2008, p.
222, cat. 119.
292 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 293
CAT.VI.04
ANTONIO TARSIA
Bacco ebbro con piccolo satiro
Marmo, cm 63,5×102×41 (inclusa la base)
Iscrizioni: retro della base rocciosa ANT.o TARSIA
Londra, Victoria and Albert Museum, inv. A 138-1956
Bibliografia _ Honour 1960, p. 28; Pope-Hennessy
1964, pp. 666-667; Semenzato 1966, pp. 43, 109; Raggio
1968, p. 105; De Vincenti 1996, pp. 52, 56 nota 58 (con
identificazione della commissione Manin); Zanuso 2000,
p. 791; Honour 2001, pp. 68, 287 nota 8; Klemenčič
2013, pp. 20-21, 182 nota 64.
CAT.VI.05
PIETRO BARATTA
Galatea
Marmo, cm 73,5×104×39 (inclusa la base)
Londra, Victoria and Albert Museum, inv. A 139-1956
CAT.VI.03
ANTONIO GAI
Busto ritratto del Bailo Giovanni Emo
Marmo, h 36 cm
Brun Fine Art
Bibliografia _ Honour 1960, p. 28 (come Antonio
Tarsia); Pope-Hennessy 1964, pp. 666-667 (come
Antonio Tarsia); Semenzato 1966, pp. 43, 109 (come
Antonio Tarsia); Raggio 1968, p. 105 (come Antonio
Tarsia); De Vincenti 1996, pp. 52, 56 nota 58 (con
attribuzione a Pietro Baratta e identificazione della
commissione Manin); Klemenčič 2000, p. 691;
Honour 2001, pp. 68, 287 nota 8; Klemenčič 2013,
pp. 20-21, 182 nota 64.
Bibliografia _ Benuzzi 2012-2013, pp. 60, 106-107;
Guerriero, in Éblouissante Venise 2019, p. 244, cat. 2.
294 —GENERI E TEMI —
CAT.VI.06
GIUSEPPE TORRETTI
Democrito
Marmo, h 60 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. XXV, n. 102
CAT.VI.07
GIUSEPPE TORRETTI
Eraclito
Marmo, h 60 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. XXV, n. 141
CAT.VI.08
ANTONIO CORRADINI
Busto di velata
Marmo, 54×40×20 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. XXV, n. 1089
Bibliografia _ Guerriero 2002, p. 87.
Bibliografia _ Guerriero 2002, p. 87.
Bibliografia _ Wengraf, in The Glory 1994, p. 447, cat.
58; Pedrocco, in Venezia! 2002, p. 310, cat. 225.
296 —GENERI E TEMI —
CAT.VI.09
GIOVANNI MARIA MORLAITER
Putti che giocano
Terracotta, 67×39 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. XXVII, n. 496
Bibliografia _ De Vincenti 2011a, p. 19, cat. 20.
CAT.VI.10
GIOVANNI MARIA MORLAITER
Mosè
Terracotta, h 62,5 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. XXVII, n. 462
Bibliografia _ De Vincenti 2011a, pp. 20-21, cat. 22.
CAT.VI.11
ANTONIO GAI
Allegoria di Venezia
Terracotta, h 20 cm
Collezione privata (per cortesia di Carlo Orsi
Antichità, Milano)
Bibliografia _ Guerriero 2010, p. 210; Benuzzi 2012-
2013, pp. 60, 106-107; Ansaldi 2016, p. 301; Guerriero, in
Éblouissante Venise 2018, pp. 22, 244, cat. 2.
CAT.VI.12
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Allegoria di Venezia
Porcellana, h 30 cm
Marca: assente
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016, pp.
363-364, cat. 148.
298 —GENERI E TEMI —
CAT.VI.13
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Cappello
Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 8,5 cm;
piattino ø 13,4 cm
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228;
Dal Carlo 2012, pp. 381-382.
CAT.VI.16
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Querini
Porcellana, tazza h 7,4 cm, ø 7 cm;
piattino ø 13,4 cm
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 223;
Dal Carlo 2012, pp. 378-379.
CAT.VI.14
MANIFATTURA DI MEISSEN
Ciotola, tazza e piattino con stemma Morosini
Porcellana, tazza h 6,8 cm, ø 6,5 cm; piattino ø 13 cm
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 225;
Dal Carlo 2012, p. 383.
CAT.VI.17
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza a campana e piattino con stemma Querini
Porcellana, tazza h 7,4 cm, ø 7 cm;
piattino ø 13,4 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 223;
Dal Carlo 2012, pp. 378-379.
CAT.VI.15
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino (due esemplari) con stemma
Morosini
Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 8,2 cm;
piattino ø 13,2 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 225; Dal
Carlo 2012, p. 383.
CAT.VI.18
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Querini
Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 8,5 cm,
piattino ø 13,4 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 223;
Dal Carlo 2012, pp. 378-379.
300 —GENERI E TEMI —
CAT.VI.19
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Da Ponte
Porcellana, tazza h 7,5 cm, ø 7 cm; piattino ø 13,5 cm
Trieste, collezione Giovanni Lokar
CAT.VI.20
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Pisani Corner
Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 7,7 cm; piattino
ø 13,5 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228.
CAT.VI.21
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza da brodo con stemma Pisani Corner
Porcellana, h 12 cm, ø 16 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228.
CAT.VI.22
MANIFATTURA DI MEISSEN
Zuccheriera con stemma Pisani Corner
Porcellana, h 7,5 cm
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228.
CAT.VI.23
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Pisani Gambara
Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 7 cm; piattino ø 13,7 cm
Trieste, collezione Giovanni Lokar
CAT.VI.24
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Pisani Gambara
Porcellana, tazza h 4,8 cm, ø 7 cm; piattino ø 13,7 cm
Collezione privata
CAT.VI.25
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Da Lezze
Porcellana, tazza h 4,5 cm; ø 7,7 cm; piattino ø 13 cm
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 212.
CAT.VI.26
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Da Lezze
(due esemplari)
Porcellana, tazza h 4,5 cm, ø 7,7 cm; piattino ø 13 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 212.
— CATALOGO DELLE OPERE — 303
CAT.VI.31
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Foscari
Porcellana, tazza h 4,7 cm, ø 7,6 cm;
piattino ø 13,2 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 225;
Dal Carlo 2012, pp. 383-384.
CAT.VI.32
MANIFATTURA DI MEISSEN
Vassoio con stemma Foscari
Porcellana, 4×18×13 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 225;
Dal Carlo 2012, pp. 383-384.
CAT.VI.27
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Diedo
Porcellana, tazza h 4,2 cm, ø 7,3 cm; piattino ø 12 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228.
CAT.VI.28
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Diedo
Porcellana, tazza h 4,2 cm, ø 7,3 cm; piattino ø 12 cm
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 228.
CAT.VI.29
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Foscari
Porcellana, tazza h 4,7 cm, ø 7,6 cm; piattino
ø 13,2 cm
Trieste, collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 225; Dal
Carlo 2012, pp. 383-384.
CAT.VI.30
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza e piattino con stemma Grimani
Porcellana, tazza h 4,5 cm, ø 7,5 cm;
piattino ø 12,5 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Cassidy-Geiger 2007b, p. 212; Dal
Carlo 2012, pp. 381-382.
304 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 305
CAT.VI.36
VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE
Lattiera
Porcellana, h 8 cm
Marca: V incisa sotto la base
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, collezione Nani Mocenigo Le Gallais,
inv. HL0211
Bibliografia _ Stringa, in Le porcellane di Marino
2014, pp. 21-22, cat. 5, con bibliografia precedente.
CAT.VI.37
VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE
CAT.VI.33
MANIFATTURA DI MEISSEN
Tazza a campana e piattino con stemma Gradenigo
Porcellana, tazza h 7,4 cm, ø 7,5 cm; piattino ø 13 cm
Collezione privata
Bibliografia _ Ceramiche 1995, pp. 262-263;
Cassidy-Geiger 2007b, p. 228; Dal Carlo 2012, p. 382.
CAT.VI.34
MANIFATTURA DI MEISSEN
Zuccheriera con stemma Gradenigo
Porcellana, h 12 cm, ø 10,5 cm
Bibliografia _ Ceramiche 1995, pp. 262-263; Cassidy-
Geiger 2007b, p. 228; Dal Carlo 2012, p. 382.
CAT.VI.35
MANIFATTURA DI MEISSEN
Servizio Gradenigo (caffettiera, scodella, tre tazze
con piattino)
Porcellana, caffettiera h 15 cm; scodella ø 15 cm;
tazza h 4,3 cm; piattino ø 13 cm
Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento veneziano,
Cl. V, n. 605
Caffettiera
Porcellana, h 10,6 cm
Marca: V incisa sotto la base
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, collezione Nani Mocenigo Le Gallais,
inv. HL0213
Bibliografia _ Stringa, in Le porcellane di Marino
2014, pp. 21-22, cat. 6, con bibliografia precedente.
Bibliografia _ Ceramiche 1995, pp. 262-263;
Cassidy-Geiger 2007b, p. 228; Dal Carlo 2012, p. 382.
CAT.VI.38
CAT.VI.39
CAT.VI.40
VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE
VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE
VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE
Caffettiera
Porcellana, h 10,8 cm
Marca: V incisa e dipinta in rosso
Vicenza, collezione privata
Lattiera
Porcellana, h 8 cm
Marca: V incisa e dipinta in rosso
Vicenza, collezione privata
Caffettiera
Porcellana, h 13 cm
Marca: V incisa e dipinta in bruno,×incisa
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Stazzi 1964, tav. XVI; Mottola Molfino
1976, p. 24, fig. 97.
Bibliografia _ Mottola Molfino 1976, p. 24.
Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013,
pp. 64-65.
306 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 307
CAT.VI.41
VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE
Pappagallo
Porcellana, h 9,5 cm
Marca: V rilevata in rosso sulla base
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Stazzi 1964, tav. XVIII; Mottola
Molfino 1976, p. 24.
CAT.VI.42
VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE
Cani in lotta
Porcellana, h 9,5 cm
Marca: V rilevata in rosso sulla base
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Stazzi 1964, tav. XVIII; Mottola
Molfino 1976, fig. 104; Bonatesta Galbusera,
in La porcellana di Venezia 1998, p. 33, cat. 20.
CAT.VI.43
VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE
Figura di Turco
Porcellana, h. 13,5 cm
Marca: V rilevata in rosso sulla base
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Melegati, in Ceramiche 2000,
pp. 156-157; Dal Carlo 2013, pp. 59-61.
CAT.VI.44
VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE
Satiro che regge un cuore
Porcellana, h 20 cm
Marca: V in rilievo sulla base
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ Genova, Cambi Aste, 13 giugno 2017,
lotto 196.
CAT.VI.45
VENEZIA, MANIFATTURA HEWELCKE
Gruppo di figure
Porcellana, h 12,5 cm
Marca: V incisa sulla base
Collezione privata
308 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 309
CAT.VI.47
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Caffettiera
Porcellana, h 22 cm
Marca: nessuna
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013, pp.
74-75, cat. 26; Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016, pp.
116-119, cat. 135, con bibliografia precedente.
CAT.VI.48
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Caffettiera
Porcellana, h 23,8 cm
Marca: àncora rossa
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013, pp.
80-81, cat. 30; Lukacs, Montanari, in Geminiano Cozzi
2016, pp. 280-282, cat. 20, con bibliografia precedente.
CAT.VI.49
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Caffettiera
Porcellana, h 24 cm
Marca: àncora rossa
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Lukacs, Montanari, in Geminiano
Cozzi 2016, pp. 280-281, cat. 19, con bibliografia
precedente.
CAT.VI.46
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Piatto
Porcellana, ø 23,5 cm
Marca: àncora oro
Iscrizioni: F. Cozzi 1780; S.B.F.
Londra, Victoria and Albert Museum, inv. C.1369-
1924
Bibliografia _ Mottola Molfino 1976, fig. 118; Guardi,
Tiepolo and Canaletto 1985, p. 35, cat. 54; Craievich
2016, p. 18.
CAT.VI.50
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Caffettiera
Porcellana, h 17,5 cm
Marca: àncora rossa
Trieste, collezione Giovanni Lokar
Bibliografia _ d’Agliano, in Porcellane 2013, p. 90,
cat. 38; Dal Carlo, in Geminiano Cozzi 2016,
pp. 213, 215, cat. 94, con bibliografia precedente.
310 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 311
CAT.VI.51
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Zuccheriera
Porcellana, h 8 cm
Marca: àncora rossa
Collezione privata
CAT.VI.52
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Tazza con ansa e piattino (quattro esemplari)
Porcellana, tazza h 6 cm; piattino ø 12,3 cm
Marca: ancora rossa
Collezione privata
CAT.VI.53
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Teiera
Porcellana, h 11, 5 cm
Marca: àncora rossa
Collezione privata
Bibliografia _ Stazzi 1981, p. 203, tav. VI; Bonatesta
Galbusera, in La porcellana di Venezia 1998, p. 47, cat.
47; M. Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016, pp. 255-256,
cat. 2.
Bibliografia _ Bonatesta Galbusera, in La porcellana
di Venezia 1998, p. 47, cat. 47; d’Agliano 2010, p. 282,
cat. 315; Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016, pp. 255-256,
cat. 3.
Bibliografia _ Bonatesta Galbusera, in La porcellana
di Venezia 1998, pp. 45-46, cat. 46; d’Agliano 2010,
p. 218, cat. 313; Debomy 2013, pp. 274-275; Bolli, in
Geminiano Cozzi 2016, pp. 107-110, cat. 102.
CAT.VI.54
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Tazza e piattino (due esemplari)
Porcellana, tazza h 6,8 cm; piattino ø 12,5 cm
Marca: àncora rossa
Collezione privata
Bibliografia _ Debomy 2013, pp. 274-275; Bolli, in
Geminiano Cozzi 2016, pp. 107-110, cat. 104.
CAT.VI.55
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Piatto
Porcellana, ø 20,2 cm
Marca: àncora rossa
Collezione privata
Bibliografia _ Barbantini 1936, tav. LXXIV, fig. 217;
Stazzi 1964, p. 60, tav. XIX; Bolli, in Geminiano Cozzi
2016, pp. 107-110, cat. 107.
312 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 313
CAT.VI.56
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Cioccolatiera
Porcellana, h 18 cm
Marca: àncora rossa
Collezione privata
Bibliografia _ Bonatesta Galbusera, in La porcellana
di Venezia 1998, p. 37, cat. 27; Melegati, in Il cioccolato
2008, p. 199; d’Agliano 2010, pp. 282-283, cat. 316;
Favilla, Rugolo 2011, p. 160; Dal Carlo, in Geminiano
Cozzi 2016, pp. 214-215, cat. 95.
CAT.VI.57
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Caffettiera
Porcellana, h 24,5 cm
Marca: àncora rossa
Collezione privata
Bibliografia _ Bolli, in Geminiano
Cozzi 2016, pp. 90-91, cat. 51.
CAT.VI.58
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Caffettiera
Porcellana, h 21,5 cm
Marca: àncora rossa
Collezione privata
Bibliografia _ Bolli, in Geminiano
Cozzi 2016, pp. 92-93, cat. 56.
CAT.VI.59
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Servizio con decoro a feston e cadena
Tazza con ansa e piattino
Porcellana, tazza h 7 cm; piattino ø 12,4 cm
Marca: àncora rossa
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl.V, n. 603
Due tazze e piattino
Porcellana, tazza h 4 cm; piattino ø 12 cm
Marca: àncora rossa
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, nn. 603, 114, 475, 761
Bibliografia _ Bolli, in Geminiano Cozzi 2016, pp. 91,
93-94, catt. 55, 59-61.
CAT.VI.60
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Servizio con decoro a bersò
Porta tè
Porcellana, h 13,5 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, n. 444
Teiera
Porcellana, h 14 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, n. 445
Cremierina
Porcellana, h 6 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento veneziano, inv.
Cl. V, n. 627
Caffettiera
Porcellana, h 14 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, n. 446
Zuccheriera
Porcellana, h 11,5 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. IV, n. 47
Tazza e piattino (otto esemplari)
Porcellana, tazza h 5 cm; piattino ø 13,5 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv.Cl. V, nn. 450-453
Bibliografia _ Marchetto, in Geminiano Cozzi
2016, pp. 246-248, catt. 32-36, 39.
— CATALOGO DELLE OPERE — 315
CAT.VI.65
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Servizio reale
Caffettiera
Porcellana, h 23 cm
Marca: àncora rossa
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, n. 824
Teiera
Porcellana, h 10,5 cm
Marca: àncora rossa
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, n. 738
Porta tè
Porcellana, h 9,5 cm
Marca: àncora rossa
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, n. 825
Tazza e piattino
Porcellana, tazza h 4 cm; piattino ø 12,9 cm
Marca: àncora rossa
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, inv. Cl. V, n. 737
Bibliografia _ Barbantini 1936 p. 33, Morazzoni
1960, I, tav. 36; Mottola Molfino 1976, catt.
109-112; Stazzi 1981, p. 190; Bonatesta Galbusera,
in La porcellana di Venezia 1998, catt. 36-37, 44-45;
Geminiano Cozzi 2016, pp. 272-274, catt. 1-4.
CAT.VI.61
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Caffettiera
Porcellana, h 22 cm
Marca: àncora rossa
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Morazzoni 1960, I, tav. 41a; Mottola
Molfino 1976, tav. XIV, fig. 141; Bolli, in Geminiano
Cozzi 2016, pp. 103-107, cat. 97.
CAT.VI.63
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Bricco
Porcellana, h 10 cm
Marca: àncora rossa
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Bolli, in Geminiano Cozzi 2016, pp.
103-108, cat. 98.
CAT.VI.62
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Tazza
Porcellana, h 4,5 cm
Marca: ancora rossa; “U” incussa
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Bolli, in Geminiano Cozzi 2016, pp.
103-108, cat. 100.
CAT.VI.64
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Piatto
Porcellana, ø 21,6 cm
Marca: ancora rossa
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Morazzoni 1960, I, tav. 41b; Stazzi
1981, p. 230, fig. 41; Bolli, in Geminiano Cozzi 2016, pp.
103-108, cat. 99.
CAT.VI.66
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Caffettiera
Porcellana, h 12 cm
Marca: àncora rossa
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Stazzi 1981, p. 211, tav. XXXII.
CAT.VI.66bis
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Caffettiera
Porcellana, h 21,3 cm
Marca: àncora rossa
Iscrizioni: V V Li Macharoni sulla bandiera
Londra, Victoria and Albert Museum, inv.
C.83&A-1928
Bibliografia _ Lane 1963, p. 42, tav. 41; Commedia
dell’arte 2001, p. 266, cat. 273; Geminiano Cozzi 2016,
p. 15.
316 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 317
CAT.VI.67
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Gruppo con contadini in festa
Porcellana, h 23 cm
Marca: assente
Collezione privata
Bibliografia _ Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016, pp.
322, 324, cat. 56, con bibliografia precedente.
CAT.VI.68
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Gruppo di putti con aquila
Porcellana, h 14 cm
Marca: assente
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016,
pp. 333-334, cat. 81.
CAT.VI.69
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Pagò
Porcellana, h 16 cm
Marca: assente
Iscrizioni: Venecia in rosso
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Stazzi 1964, p. 59, fig. 45; Ansaldi,
in Geminiano Cozzi 2016, pp. 358-359, cat. 135, con
bibliografia precedente.
CAT.VI.70
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Coppia di Pagò
Porcellana, h 12,5 cm
Marca: assente
Vicenza, collezione privata
CAT.VI.71
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Pagò
Porcellana, h 16 cm
Marca: assente
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Ansaldi, in Geminiano Cozzi 2016,
pp. 359, 361, cat. 137.
318 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 319
CAT.VI.74
NOVE, MANIFATTURA ANTONIBON
Piatto (due esemplari)
Maiolica, ø 24 cm
Vicenza, collezione privata
CAT.VI.75
NOVE, MANIFATTURA ANTONIBON
Servizio (due caffettiere, due teiere e una tazza)
Maiolica, caffettiera grande h 27,5 cm; caffettiera
piccola h 20 cm; teiere h 15,5 cm; tazza h 7,5 cm
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ La ceramica degli Antonibon 1990,
pp. 72-73.
CAT.VI.72
NOVE, MANIFATTURA ANTONIBON
Vassoio
Maiolica, 36×45 cm
Vicenza, collezione privata
CAT.VI.73
NOVE, MANIFATTURA ANTONIBON
Vassoio
Maiolica, 36,5×45,5 cm
Vicenza, collezione privata
320 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 321
CAT.VI.76
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Piatto (due esemplari)
Maiolica, ø 24,2 cm
Vicenza, collezione privata
CAT.VI.77
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Piatto ovale (due esemplari)
Maiolica, 31,7×37 cm
Vicenza, collezione privata
CAT.VI.78
VENEZIA, MANIFATTURA COZZI
Piatto
Maiolica, 19,9×27 cm
Vicenza, collezione privata
CAT.VI.79
MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI O DEI BERTOLINI
Tazza (due esemplari)
Vetro lattimo, h 7,6 cm
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano, collezione Nani Mocenigo Le Gallais,
inv. HL0068, HL0069
Bibliografia _ Squarcina, Rusca, in Le porcellane
di Marino 2014, pp. 52-53, cat. 80, con bibliografia
precedente.
CAT.VI.80
MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI O DEI BERTOLINI
Tazza
Vetro lattimo, h 7,5 cm
Vicenza, collezione privata
Bibliografia _ Bonatesta Galbusera, in La porcellana
di Venezia 1998, p. 33, cat. 19.
CAT.VI.81
MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI O DEI BERTOLINI
Tazza e piattino
Vetro lattimo, tazza h 7,5 cm; piattino ø 12 cm
Collezione privata
CAT.VI.82
MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI O DEI BERTOLINI
Tazza e piattino
Vetro lattimo, tazza h 7,5 cm; piattino ø 12 cm
Collezione privata
— CATALOGO DELLE OPERE — 323
CAT.VI.83
MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI
Piatto
Vetro lattimo, ø 22,5 cm
Londra, Victoria and Albert Museum, Transferred
from the Museum of Practical Geology, Jermyn
Street, inv. 5272-1901
Bibliografia _ Horace Walpole’s Strawberry Hill 2009,
p. 334, cat. 247, con bibliografia precedente.
CAT.VI.84
MURANO, VETRERIA DEI MIOTTI
Piatto
Vetro lattimo, ø 22,5 cm
Londra, Victoria and Albert Museum, Wilfred
Buckley Collection, inv. C.185-1936
Bibliografia _ Horace Walpole’s Strawberry Hill 2009,
p. 334, cat. 248; Barovier Mentasti, Tonini 2013, cat. 61,
con bibliografia precedente.
324 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 325
CAT.VI.88
BOTTEGA VENEZIANA
Caffettiera
Argento, h 33,5 cm
Punzoni: contrassegno della città di Venezia;
marchio dell’ufficiale di Zecca Zuanne Cottini (Pazzi
1992, I, p. 145, n. 452)
Collezione privata
Bibliografia _ Favilla, Rugolo 2011, p. 81.
CAT.VI.89
BOTTEGA VENEZIANA
Caffettiera
Argento, h 26,5 cm
Punzoni: contrassegno della città di Venezia;
marchio dell’ufficiale di Zecca Zuanne Cottini (Pazzi
1992, I, p. 145, n. 452)
Iscrizioni: lettera C incisa
Collezione privata
CAT.VI.90
BOTTEGA VENEZIANA
CAT.VI.85
BOTTEGA VENEZIANA
Caffettiera
Argento, h 31 cm
Punzoni: contrassegno della città di Venezia;
marchio dell’ufficiale di Zecca Zuanne Cottini (Pazzi
1992, I, p. 145, n. 452)
Iscrizioni: lettere BC incise
Vicenza, collezione privata
CAT.VI.86
BOTTEGA VENEZIANA - OREFICE A• T
Caffettiera
Argento, h 29 cm
Punzoni: contrassegno della città di Venezia;
marchio d’autore composto dalle lettere AT
inframezzate da un punto entro comparto bilobato
(Pazzi 1992, I, p. 69, n. 65)
CAT.VI.87
BOTTEGA VENEZIANA
Caffettiera
Argento, h 21,5 cm
Punzoni: contrassegno della città
di Venezia; marchio d’autore poco leggibile
composto dalle lettere ZC
Caffettiera
Argento, h 20 cm
Punzoni: contrassegno della città di Venezia;
marchio dell’ufficiale di Zecca lettere MG
inframezzate da due stelline (Pazzi 1992, I, p. 114,
n. 287)
Iscrizioni: lettere F:A incise
Collezione privata
BOTTEGA VENEZIANA
BOTTEGA VENEZIANA
Caffettiera
Argento, h 27,2 cm
Punzoni: contrassegno della città di Venezia;
marchio dell’ufficiale di Zecca Zuanne Premuda
(Pazzi 1992, I, p. 150, n. 479)
Iscrizioni: lettere NC incise
Caffettiera
Argento, h. 19 cm
Punzoni: contrassegno della città di Venezia;
marchio dell’ufficiale di Zecca lettere MG
inframezzate da due stelline (Pazzi 1992, I,
p. 114, n. 287)
Vicenza, collezione privata
Vicenza, collezione privata
326 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 327
CAT.VI.91
ANGELO SCARABELLO
Tre carteglorie
Argento sbalzato, cesellato e dorato, cartagloria
centrale 81×108×6 cm; cartegloria laterali 69×50×8
cm; 69×50×6 cm
Punzoni: contrassegno dell’ufficiale di Zecca
Marc’Antonio Bellotto (Pazzi 1992, II, p. 48); marchio
d’autore di Angelo Scarabello e della sua bottega
all’Angelo (Pazzi 1992, II, p. 49)
Collezione privata
Bibliografia _ Cavalli 2012, pp. 178-180.
328 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 329
CAT.VI.92
GIOVANNI BATTISTA TALAMINI
Scena agreste
Altorilievo in cera policroma in cornice lignea nera,
20,5×4,5 cm
Venezia, Museo Correr, inv. Cl. XX, n. 7
Bibliografia _ Vitale d’Alberton 2005, p. 308, fig. 5;
Vitale d’Alberton, in Le cere 2012, pp. 26-27, cat. 6.
CAT.VI.93
MURANO, VETRERIA DI GIUSEPPE BRIATI
Reliquiario
Vetro policromo, h. 76 cm
Venezia, chiesa del Redentore
Bibliografia _ A. Gasparetto, in Mille anni di arte
1982, p. 182, cat. 302; Save Venice 2011, p. 421; Zecchin
2011, pp. 170-171.
330 —GENERI E TEMI —
CAT.VI.94
GIAMBATTISTA TIEPOLO
Insegna di Francesco Zancarelli
Matita nera, 240×158 mm
Londra, The British Museum, inv. 1872,1012.3318
Bibliografia _ Giambattista Tiepolo 1989, pp. 28-29;
Aikema 1998, p. 269, fig. 22; Craievich 2002, p. 49, fig.
13; Pavanello 2011, p. 50, fig. 41.
CAT.VI.95
PIETRO ANTONIO NOVELLI
Studio per l’insegna di Francesco Zappella
Penna e inchiostro nero, acquerello bruno e grigio,
167×125 mm
Parigi, Fondation Custodia, Collection Frits Lugt,
inv. n. 1981-T.9
Bibliografia _ Byam Shaw, in Disegni veneti 1981, pp.
89-90, cat. 105; Craievich 2002, p. 49, fig. 12.
CAT.VI.96
GIAMBATTISTA PIRANESI
Studio per pannello decorativo
Penna e inchiostro bruno, su gesso nero,
quadrettatura a grafite, 288×282 mm
New York, The Morgan Library & Museum, Bequest
of Junius S. Morgan and gift of Henry S. Morgan,
inv. 1966.11:13
Bibliografia _ Stampfle 1978, cat. 13.
332 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 333
CAT.VI.97
GIAMBATTISTA PIRANESI
Gli scheletri
Incisione, 390×545 mm
Venezia, collezione privata
Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 20; Wilton-Ely 1994,
cat. 21; Ficacci 2001, cat. 105.
CAT.VI.99
GIAMBATTISTA PIRANESI
La tomba di Nerone
Incisione, 390×545 mm
Venezia, collezione privata
Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 22; Wilton-Ely 1994,
cat. 23; Ficacci 2001, cat. 107.
CAT.VI.98
GIAMBATTISTA PIRANESI
L’arco trionfale
Incisione, 395×550 mm
Venezia, collezione privata
Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 21; Wilton-Ely 1994,
cat. 22; Ficacci 2001, cat. 106.
CAT.VI.100
GIAMBATTISTA PIRANESI
La targa monumentale
Incisione, 395×545 mm
Venezia, collezione privata
Bibliografia _ Focillon 1964, cat. 23; Wilton-Ely 1994,
cat. 24; Ficacci 2001, cat. 108.
334 —GENERI E TEMI —
— CATALOGO DELLE OPERE — 335
L A F I N E
DEL SECOLO
ALBERTO
CRAIEVICH
FIG. 1
FRANCESCO GUARDI
Festa della Sensa, in Piazza
San Marco, particolare.
Lisbona, Calouste Gulbenkian
Museum
Per la bibliografia di riferimento
sull’artista si rimanda a Venezia
attraverso gli occhi di Guardi,
in Francesco Guardi 1712-1793,
catalogo della mostra (Venezia,
Museo Correr) a cura di A.
Craievich, F. Pedrocco, Milano
2012.
1 _ A. Mariuz, Pietro Longhi:
“un’originale maniera…”,
in Pietro Longhi, catalogo
della mostra (Venezia, Museo
Correr) a cura di A. Mariuz, G.
Pavanello, G. Romanelli, Milano
1993, p. 31.
2 _ F. Montecuccoli Degli Erri,
in F. Pedrocco, F. Montecuccoli
Degli Erri, Antonio Guardi,
Milano 1992, pp. 14-40.
3 _ M. Ferro, Fraterna, in
Dizionario del diritto comune
e veneto, V, Venezia 1779, pp.
1764-1778, ad vocem.
LA FINE
DEL SECOLO
F R A NCESCO
GUARDI
Francesco Guardi è oggi
considerato l’ultimo protagonista della pittura veneziana
e uno degli artisti più originali di tutto il Settecento.
Tuttavia, è una fama che probabilmente né egli stesso
né i suoi contemporanei si sarebbero mai aspettati:
il suo, infatti, è stato un successo postumo che trova
pochi confronti nella storia dell’arte e che rappresenta
una delle vicende più affascinanti della storia del gusto.
A rendere ancora più avvincente la sua parabola
artistica è il fatto che raggiunse gli esiti figurativi per cui
è giustamente annoverato fra i grandi solo in tarda età,
attraverso un percorso tortuoso, scaleno, “per salti piuttosto
che per gradi”, a voler citare un passo dedicato da
Adriano Mariuz a Pietro Longhi, pittore che per certi
aspetti segue un’evoluzione analoga [1] .
Tuttavia, mentre Longhi dopo aver circoscritto
il proprio campo d’azione si assesta su un tema ben
definito che poi replica fino allo sfinimento, in Guardi
continuano invece a celarsi più anime che convivono
quasi fino alla morte, giustificando una delle più controverse
vicende critiche del Novecento.
L’artista nasce a Venezia il 5 ottobre 1712, quarto
di cinque figli. Il padre Domenico, originario della trentina
Val di Sole, fu pittore per niente brillante, prima a
Vienna poi a Venezia, dove sarebbe morto nel 1716, a
soli trentotto anni. A quanto ci è dato sapere fu soprattutto
un copista, attivo almeno negli ultimi anni della sua
vita per i fratelli Giovanni Benedetto e Giovanni Paolo
Giovanelli, patrizi veneziani [2] . Tale rapporto di patronato
proseguì anche per i figli che, probabilmente, ne ereditarono
l’atelier: il primogenito Giovanni Antonio (1699-
1760), che si sarebbe firmato sempre come Antonio, il
più giovane Nicolò (1715-1786), sulla cui attività di pittore
purtroppo sappiamo ben poco, e, appunto, il nostro
Francesco. Nessuno, all’interno di questa bottega a conduzione
familiare, sarà in grado di raggiungere in vita, se
non il successo, almeno una certa agiatezza. Le note spese
dei Giovanelli e poi del maresciallo von der Schulenburg,
con cui i Guardi avrebbero stretto in seguito un analogo
rapporto di lavoro, ci parlano di una quotidianità senz’altro
umile, se non proprio miserevole (le cifre pagate per
i loro dipinti sono assai modeste). Lo stesso Francesco
non si sarebbe mai scrollato di dosso questa condizione.
Ancora nel 1804, Pietro Edwards – che lo conosceva bene
– avrebbe scritto a proposito di lui, in una memorabile
lettera ad Antonio Canova: “Ella sa però che questo pittore
lavorava per la pagnotta giornaliera”.
Il primo riferimento, pur deduttivo, alla sua
attività di pittore risale al 19 dicembre 1731, quando
Giovanni Benedetto Giovanelli lascia in eredità al suo
agente Antonio de’ Caroli copie di quadri “delli fratelli
Guardi”.
Sappiamo inoltre che i fratelli dovevano essere
molto legati, visto che sarebbero vissuti in fraterna [3]
– termine che nel diritto veneto indicava la convivenza
tra fratelli e la comunione dei beni – fino al 12 febbraio
1761 quando, un anno dopo la morte di Antonio, Nicolò
e Francesco chiedono la divisione dei beni. Nell’atto
i due ricordano che “dalla loro pupillar età in amorosa
fraterna unione respettivamente sostenendosi col
mezzo dell’esercitio della pittura da loro egualmente
proffessata, mediante la quale ricconoscono la loro sussistenza
e quel pocco che s’attrovano respettivamente
avere e possedere” [4] . Non si fa esplicita menzione del
— FRANCESCO GUARDI — 339
fratello maggiore, morto l’anno prima, ma è plausibile
aspettarsi che fosse egli il legante del gruppo, alla cui
scomparsa il patto viene sciolto dai due più giovani.
Ci fosse o meno una bottega comune esemplificata su
quella fraterna (su cui molto si è dibattuto), oggi ci è
noto un nutrito gruppo di quadri di storia, in gran parte
copie da dipinti, anche celebri, che etichettiamo sotto il
nome “Guardi”. La distinzione delle varie mani in base
a semplici elementi stilistici è stata a lungo un raffinato
esercizio di attribuzionismo: si tratta della famosa
querelle guardesca che culmina con la mostra curata
da Pietro Zampetti a Palazzo Grassi nel 1965, dove il
dibattito sull’assegnazione delle opere a Francesco o ad
Antonio tocca il suo vertice. Nonostante non vi siano
ormai più dubbi sull’autore delle Storie di Tobiolo della
chiesa dell’Angelo Raffaele di Venezia, ancora oggi sono
numerosi i dipinti su cui il parere non è unanime (e sui
quali in seguito si è aggiunta anche l’opzione Nicolò).
Sappiamo, tuttavia, che Francesco proseguirà
per tutta la sua carriera a cimentarsi come pittore di storia
con esiti non sempre brillanti ma senz’altro originali.
Purtroppo non è possibile datare con certezza le opere
di questo primo periodo. I pochi punti fermi recano una
cronologia già avanzata, come le due tavole del John and
Mable Ringling Museum of Art di Sarasota, raffiguranti
la Fede e la Speranza, che un tempo recavano la firma di
Francesco e la data 1747, rimossa durante un restauro
eseguito nel 1949.
Come si è visto, l’esordio di Francesco è nel
campo della pittura di storia, il genere più alto, ma nel
suo aspetto più umile: il copista. Solo nel pieno della
maturità, indicativamente verso i quarant’anni, egli
si allontana dalla tradizione familiare alla ricerca di
nuove strade. Si potrebbe dire che incominci a osservare
Venezia dal suo interno, cogliendo l’originalità della
“nuova maniera” di Longhi, che verso la metà del secolo
stava riscuotendo grande successo. I pochi esempi noti
in questo campo come il Ridotto (cat. I.03) e il Parlatorio
delle monache (oggi di Ca’ Rezzonico) sono dipinti da
antologia, che “fanno letteratura”. Vi ritroviamo tutti gli
elementi familiari dell’atmosfera del Settecento veneziano:
la maschera, la coppia di amanti, la vita spensierata,
il dettaglio aneddotico. Li possiamo ritrovare composti
in maniera così indovinata e coinvolgente solo
in un’altra opera, a sua volta splendidamente isolata: i
Giocatori al Ridotto di Johann Heinrich Tischbein, compiuto,
a sua volta, verso la metà del secolo (cat. I.02).
Egli sceglie, quindi, una declinazione mondana,
galante, della pittura di costume e si concentra, salvo
poche eccezioni, sulle Mascherate, sintonizzandosi così
sulla stessa lunghezza d’onda di quelle stampe a uso turistico
che Charles Joseph Flipart e Alessandro Longhi
stavano tirando dalle invenzioni di Pietro. È il gusto del
Divertissement de Venise, come recita l’intitolazione di
una stampa, più tarda, di Giovanni Volpato, dall’iscrizione
eloquente: “Caffè, maschere, danze e la sincera
FIG. 2
FRANCESCO GUARDI
Insegna dell’Arte dei Coroneri.
Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo
del Settecento veneziano
4 _ L. Moretti, La vicenda
umana di Francesco Guardi, in
Francesco Guardi 2012, p. 18.
5 _ G. Marini, in Giovanni
Volpato 1735-1803, a cura di G.
Marini, Bassano del Grappa
1988, p. 70, cat. 39.
6 _ P. Biagi, Sull’incisione e
sul Piranesi, Venezia 1820 (cit. in
A. Bettagno, Piranesi. Incisioni-
Rami-Legature-Architetture,
catalogo della mostra (Venezia,
Fondazione Giorgio Cini).
7 _ Cfr F. Russell, Guardi and
the English tourist, “Burlington
Magazine”, CXXXVIII, 1114,
January 1996, pp. 4-11; C.
Beddington, Le prime vedute di
Francesco Guardi, in Francesco
Guardi 2012, pp. 95-98.
8 _ Anche Canaletto eseguì
in età giovanile alcune riprese
delle isole della laguna, ma il
loro carattere non potrebbe
essere più diverso.
amicizia d’amor fida seguace, sono i piacer che in libertade
e pace gode l’alma città che all’Adria impera” [5] .
Alla base di questa decisione si riconosce un
motivo concreto: la ricerca di una nicchia professionale
ancora libera che gli consenta di intercettare il pubblico
straniero, dando così una svolta alla propria carriera,
come aveva provato qualche anno prima, nella stessa direzione,
anche Giovambattista Piranesi, di cui ci è rimasto
il disegno con Maschere a uno spettacolo di burattini della
Kunsthalle di Amburgo che tradisce un analogo intento.
Tuttavia, si tratta ancora una volta di una falsa
partenza. Il loro numero è limitato, una dozzina di
dipinti, circostanza che rivela come il tentativo di
Francesco non sia andato a buon fine. Accanto a questi
capolavori egli continua in attività modeste, che rasentano
per la loro tipologia il valore artigianale, come l’Arte
dei Coroneri (1750) (fig. 2), dove tuttavia sono ben riconoscibili
le sue straordinarie doti esecutive. Fa caso a sé il
Convegno diplomatico di Ca’ Rezzonico, dove il pittore è
chiamato, per la prima volta, a registrare un avvenimento
realmente accaduto: il trattato commerciale stipulato a
L’Aia il 27 agosto 1753 fra il Regno di Napoli e Olanda,
su commissione, forse, di Giuseppe Finocchietti Fauloni.
Queste poche opere non hanno un seguito.
Mentre Piranesi è costretto “ad andare esule da Venezia
sua patria per non aver potuto ottenere nemmeno un
impieguccio” [6] , Guardi ci sorprende di nuovo, scarta
d’improvviso e sceglie un’altra via, più battuta ma in
gran voga: il vedutismo.
Il suo esordio in questo campo è stato, di nuovo,
uno degli argomenti filologici più dibattuti dagli studi
sia per la cronologia sia per la consistenza del corpus da
riferire a questo momento. Oggi, questa virata è circoscritta
in maniera abbastanza attendibile verso la metà
degli anni Cinquanta.
Fra i punti fermi di questo momento si annoverano:
una tela di collezione privata raffigurante la Festa
del Giovedì Grasso, datata 1758; due dipinti già nella
Collezione Henle e l’Albero Genealogico della famiglia
Giovanelli, un tempo nella collezione di Vittorio Cini
a Venezia. Soprattutto, le vedute realizzate per alcuni
nobili inglesi impegnati nel Grand Tour: Sir Brook
Bridges, John Montagu e Richard Milles, tutti a Venezia
fra il 1758 e il 1760. Molti di questi quadri sono firmati,
segno che il loro autore doveva essere orgoglioso dei
risultati ottenuti, oppure, semplicemente, che cercava
di promuoversi presso coloro che li avrebbero visti in
Inghilterra.
Si tratta di opere ben diverse da quelle eseguite
nella maturità e che lo hanno reso così celebre.
Ci troviamo di fronte, infatti, a dipinti dai toni schiariti
realizzati con una pennellata liquida e ferma. I profili
e gli elementi architettonici degli edifici sono invece
delineati con esili tocchi di nero, mentre le minuscole
figure, specie quelle dei gondolieri incurvati sul remo,
assumono una caratteristica forma stilizzata e asciutta.
Nell’insieme queste prime vedute rivelano un aspetto
scabro ed essenziale all’interno del quale le architetture,
con le proporzioni accentuate in altezza, presentano
uno slancio verticale ancora incerto ma evidente [7] .
Come ha osservato Francis Russell, l’analisi delle dimensioni
delle tele compiute da Guardi in questi primi
anni rivela un approccio commerciale a questo genere,
usando formati standard e mantenendo il consueto
metodo di lavoro: si impossessa dei prototipi iconografici
della ricca produzione incisoria lagunare e ne presenta
una versione “a colori”. Sono opere di secondo
piano se confrontate a quelle degli altri vedutisti, eppure
sono riscaldate da una personale vitalità esecutiva e da
un gamma cromatica niente affatto usuale.
Tuttavia, se egli si fosse assestato sugli esiti stilistici
che oggi riconosciamo in queste prime opere e che
nel 1764 incontrarono il favore di Pietro Gradenigo nel
famoso passo dei Notatori, Guardi sarebbe stato un gregario,
avviato a una carriera non dissimile da quella di
altri pittori “prospettici” coevi.
L’indicazione evidente che la sua sensibilità sia di
una caratura ben diversa di quella di un comprimario si
avverte in alcune tele che hanno per soggetto la laguna e
le sue isole. La novità di queste inquadrature è accentuata
proprio dal fatto che Guardi si mostra di solito privo d’indipendenza
nell’individuare lo spunto compositivo [8] . Si
tratta di opere veramente originali dove, all’interno di un
ampio taglio panoramico, predominano distese di acqua
e di cielo (vi si riconosce un’anticipazione delle tarde
Vedute lagunari). Esse danno l’impressione del virtuoso
che sta accordando lo strumento alla prova generale.
Una di queste, acquisita recentemente dall’Ashmolean
Museum di Oxford, può essere annoverata fra i capolavori
di questo momento (cat. V.20).
Progressivamente, anche nel suo consueto
modus operandi è percepibile, in controluce, il profilo
340 —LA FINE DEL SECOLO —
— FRANCESCO GUARDI — 341
di una personalità intrigante. Il suo confronto con
la fonte figurativa diviene sempre meno univoco o
banale. In una sorta di corpo a corpo con il prototipo
egli smonta i vari dettagli, incrociando citazioni provenienti
da stampe diverse. La composizione originaria è
un blocco d’argilla che egli rimodella liberamente; una
sorta di base musicale che gli dà la necessaria sicurezza
per lanciare il proprio assolo. Il punto di rottura in
questo confronto con gli esempi della pittura contemporanea
è nella serie delle Solennità dogali, desunta
dalle stampe incise da Giovanni Battista Brustolon su
disegni di Canaletto (catt. V.08-09) [9] . In queste tele,
pur preservando un’estrema fedeltà ai prototipi – tale
da rasentare il plagio –, Guardi ci appare riconoscibile
e indipendente. La serie, celeberrima, ha sempre rappresentato
la pietra angolare del confronto stilistico
fra Canaletto e Guardi, sulla quale si basa la consueta
contrapposizione fra i due: da una parte l’originalità
dell’invenzione e dall’altra il valore interpretativo;
oppure la prodigiosa sicurezza di segno del primo e la
pennellata indisciplinata, allusiva, del secondo.
Francesco riprende apparentemente in modo
fedele i prototipi, offrendone però una traduzione così
personale da trasformare la sua versione in un’opera
pienamente autonoma. L’effetto non è ottenuto solo
dalla nervosa vibrazione luministica che egli imprime
alle scene originarie in bianco e nero, ma anche da
alcuni accorgimenti che ne scompaginano la struttura.
Egli, infatti, altera liberamente la disposizione dei vari
gruppi figurativi, modificando o inventando di sana
pianta personaggi (come rivelano alcuni specifici studi
per Macchiette del Museo Correr) e inverte i rapporti
proporzionali fra figure e architettura con intenzione di
dilatare lo spazio.
Infine, trasforma in rigogliosi ed esuberanti
motivi rococò tutti i dettagli ornamentali originari,
dai soffitti cinquecenteschi di Palazzo Ducale fino alle
imbarcazioni che compaiono nella tela con L’Arrivo del
Bucintoro a San Nicolò del Lido. Esemplare al riguardo
il confronto fra l’imbarcazione presente nella stampa
e quella realizzata da Guardi dove il segno rigoroso,
“allucciolato”, del prototipo viene frantumato in brulicanti
tocchi nervosi, mentre le divise dei rematori diventano
sgargianti e fantasiosi abiti da commedia dell’arte.
Si potrebbe pensare a un diversivo, a un espediente di
mestiere per mascherare il modello; l’operazione di
Francesco, piuttosto, è analoga a quella che si incontra
nell’architettura del Rococò bavarese, dove il paradigma
berniniano viene smontato e riproposto in modo giocoso,
“svestito” della propria autorità.
A una data successiva alle Solennità dogali risalgono
invece le vedute della piazza di San Marco durante
la Festa della Sensa, con una platea marciana quanto
mai inconsueta, diventata essa stessa un capriccio architettonico
(fig. 1).
Con il tempo il suo stile si fa sempre più allusivo:
le proporzioni fra i vari elementi sono liberamente
sfalsate, la struttura prospettica diventa elastica e si
deforma alterando arbitrariamente le proporzioni fra le
varie parti. Le vedute presentano l’elemento architettonico
“compresso”, fino a divenire una semplice linea di
demarcazione fra il cielo e l’acqua. Sono questi ultimi a
conquistare lo spazio principale della tela, al cui interno
le figure e le imbarcazioni sono macchie di colore, un
rapido scarabocchio bianco o un punto nero fissato con
un segno tremolante. Contemporaneamente, presenta
inquadrature inedite della città e della laguna, estranee
alla consueta iconografia del Grand Tour: il Canale
della Giudecca con la punta di Santa Marta, il Rio dei
Mendicanti, l’Isola di San Michele o di San Cristoforo, il
Forte di Sant’Andrea. Se in queste opere Guardi è ancora
vincolato da un soggetto effettivo, nei Capricci egli può
esprimere liberamente la propria personalità. Anche in
questo genere, particolarmente amato nel Settecento,
non si accontenta di fare un collage con elementi reali e
di fantasia, secondo la definizione di Francesco Algarotti.
Egli trasporta queste composizioni nella laguna dedicando
la sua attenzione a edifici fatiscenti, accostandoli a
irriconoscibili rovine antiche che hanno perso ogni connotato
classico. Sono dipinti sempre più minuscoli, “a
volte eseguiti su una tavola poco più grande di una scatola
di fiammiferi, con luccicanti incantesimi di rovine
sulle isole della laguna o con un salone senza tetto sullo
sfondo di un cielo azzurro e bianco, percorso da brezze.
Questi quadri, una volta racchiusi nelle delicate cornici
dorate del tempo, dovevano apparire più ninnoli che veri
e propri dipinti” [10] .
È stato giustamente osservato che queste opere
rivelano affinità con il gusto per il “picturesque” diffuso
in Francia e Inghilterra [11] , ma “il suo atteggiamento
verso Venezia non è né romantico né sentimentale.
Non sottolinea mai la luccicante nobiltà di Venezia per
9 _ La serie è custodita quasi
nella sua totalità presso il Musée
du Louvre, a eccezione del
Trasporto del doge in pozzetto
nella Piazza di San Marco,
ora al Musée de Grenoble, e
del Doge presentato al popolo
nella basilica di San Marco,
conservato presso i Musées
d’Art e d’Historie di Bruxelles.
10 _ M. Levey, Painting in
Eighteenth Century Venice,
London 1959, p. 101.
11 _ Cfr. B. Aikema, Francesco
Guardi, il “picturesque” e il
mito di Venezia, in I Guardi.
Vedute, capricci, feste, disegni
e “quadri turcheschi”, a cura di
A. Bettagno, Venezia 2002, pp.
17-29.
12 _ Levey 1959, p. 103.
13 _ A. Mariuz, Giandomenico
Tiepolo, Venezia 1971, p. 82.
14 _ F. Haskell, Francesco
Guardi as vedutista and some
of his patrons, “Journal of
the Warburg and Courtauld
Institutes”, XXIII, 1960, pp.
256-278; Lettere artistiche del
Settecento veneziano, I, a cura
di A. Bettagno, M. Magrini,
Vicenza 2002 p. 476.
15 _ Haskell 1960, p. 275;
Disegni antichi del Museo Correr
di Venezia, III (Galimberti-
Guardi), a cura di T. Pignatti,
Vicenza 1983, cat. 543.
16 _ R. Lauber, Il mercante
vende ai britannici un migliaio
di opere; e al residente taglia
un Tiepolo, “Venezia Altrove.
Almanacco della presenza
veneziana nel mondo”, 10, 2011,
pp.115-144.
17 _ Haskell 1960, p. 275.
18 _ Su Francesco
Guardi pittore di feste e
cerimonie si rimanda a C.
Friedrichs, Francesco Guardi
– Venezianische feste und
Zeremonien. Die Inszenierung
der Republik in Festen und
Bildern, Berlin 2006.
farne la città di sogno di Turner; la sua Venezia è un po’
sciatta, asimmetrica, ora nobile, ora squallida. Sembra
che egli esprima una nuova consapevolezza degli elementi
atmosferici e concordi con Constable quando
questi rievoca la migliore lezione ricevuta: “Ricorda
che luce e ombra non restano mai immobili”. Tuttavia
in Guardi l’amore per il movimento, per i toni pallidi e
i cieli luminosi non deriva dal naturalismo ma dall’accentuato
Rococò del suo secolo, con la passione per la
leggerezza, l’eleganza, la grazia” [12] .
È in queste opere che Guardi intraprende una
strada antitetica rispetto al generale orientamento della
pittura veneziana, del resto già in ritardo nel contesto europeo.
Mentre in seno alla neonata accademia ci si orienta
verso un classicismo più ingessato che rigoroso, Francesco
accelera in senso opposto, accentuando i caratteri decorativi
della sua pittura incurante di quanto avviene
attorno a lui. Dal punto di vista promozionale è una scelta
suicida che lo taglia fuori da ogni possibile contatto
con la committenza aristocratica o con i viaggiatori
che facevano tappa in città, ormai educati al “buon
gusto” formato sull’antico. Nondimeno, come il nipote
Giandomenico Tiepolo, è grazie a questa marginalità
che egli può raggiungere esiti così sorprendenti:
“il suo credito presso i contemporanei è quello
di un buon artigiano; per questo egli può godere di una
libertà espressiva vietata agli engagés” [13] .
Vi è tuttavia un segmento della clientela in grado
di assecondare questa svolta. È stato Francis Haskell, in
un saggio insuperato, a dare la fisionomia dei clienti di
Francesco Guardi, ricostruendone i valori estetici e il
milieu culturale che ci aiuta a scoprire “in che modo gli sia
riuscito di procedere nel suo cammino solitario” [14] . Le
loro preferenze artistiche sono delineate in modo calzante
da una lettera, purtroppo anonima, indirizzata al pittore,
che egli riutilizzò per uno schizzo conservato al Museo
Correr: “Misura esatta di questa carta. Una vedutina del
Sig.r Franc.o Guardi che rappresenti la piazza e Procuratie
di S. Marco, una seconda che rappresenti S. Giorgio con
fabricche, e vista di laguna. Chi la desidera vuol prezzo
discreto, e lo amerà più di tocco forte, che finite. La desidera
abbondanti di figurine piene di tocco” [15] .
I nomi non sono quelli altisonanti del patriziato
veneziano; si chiamano Giacomo della Lena, Gianmaria
Sasso, Giovanni Vianelli, padre Giuseppe Toninotto (un
vero estimatore del vedutismo in generale), oppure il
canonico Giovanni Vianelli, il più compiaciuto dello stile
guardesco, e, soprattutto John Strange, per il quale realizza
un gruppo straordinario di opere (cat. VII.02) [16] .
Sono personaggi, oggi ben noti agli studiosi, attivi come
mediatori, agenti di vendita e orgogliosi collezionisti
dotati però di fortune modeste. È in questo mondo di
mezzo, fatto di affari più meno leciti e popolato da figure
immuni da ogni regola, che si annidano gli estimatori di
una pittura votata al primato dell’esecuzione e del virtuosismo,
al di là di ogni canone teorico.
Questo gusto tardivo, e forse proprio per questo
distillato in purezza fino al suo dissolvimento, appartiene
anche ad alcune figure di estrazione sociale ben diversa
rispetto alle precedenti come Giacomo Massimiliano di
Collalto e, soprattutto, il marchese Francesco Albergati
Capacelli che, in una celebre orazione tenuta all’Accademia
di Venezia nel 1784, esalta tutte quelle qualità che
riconosciamo nell’arte di Francesco e che sono in netto
contrasto con quanto l’Accademia stessa rappresentava:
“Guai se come pur troppo la stucchevole pedanteria
ha in tante guise corrotta e deturpata la letteratura italiana,
si dovesse anche nelle bell’arti vedere primeggiare
i cavillosi, i pedanti, i nudi e inutili precettisti” [17] .
Tanto l’anonimo acquirente delle due vedutine
quanto Albergati Capacelli non consideravano
Guardi un “alternativo” oppure un pittore d’avanguardia.
Anzi, proprio in quelle opere riconoscevano l’arte
rococò che probabilmente avevano amato in giovinezza,
e di cui Guardi appariva l’estremo interprete. Sebbene
ormai bandito dalle arti maggiori, questo stile sopravvive,
prossimo all’estinzione, nelle arti decorative. È in
questo contesto, per il quale non a caso Guardi compie
in tarda età straordinari studi preparatori, che egli ci
appare meno isolato.
Di quanto questi risultati formali fossero però
inattuali al di fuori di questa cerchia ristretta lo si
deduce abbastanza chiaramente dal completo silenzio
delle fonti contemporanee, condizionate dalla nuova
strada maestra del gusto.
Francesco Guardi è anche l’ultimo a immortalare
le feste e le cerimonie che si svolgevano nella
Serenissima. Va precisato, tuttavia, che gran parte della
sua produzione in questo campo non è legata a fatti
specifici né presenta composizioni originali; ancora
una volta egli si limita a perpetuare un genere in forme
e modi ormai codificati dai predecessori [18] . Secondo il
342 —LA FINE DEL SECOLO —
— FRANCESCO GUARDI — 343
suo tipico modus operandi si serve di modelli grafici preesistenti,
rielaborandoli in modo più o meno libero, ma
sempre personalizzati dalle sue inconfondibili doti esecutive
(cat. VII.03-04).
Esiste un gruppo di vedute tarde che presenta
un’inquadratura autonoma della Regata sul Canal
Grande (un campo più stretto, centrato sul Ponte di
Rialto con il palazzo Dolfin Manin in risalto), ma anche
in questo caso è difficile riconoscervi avvenimenti puntuali.
Infatti, nelle varie versioni compaiono le medesime
“peote” e “bissone” (alcune progettate dallo stesso
Guardi), assieme ad altre copiate da stampe di epoche
diverse. Fanno eccezione due esemplari dove sono riconoscibili
le imbarcazioni da parata create per la regata in
onore dell’imperatore Leopoldo II avvenuta il 2 aprile
1791. Tuttavia in entrambe le opere, come ha osservato
Dario Succi, la mano del figlio Giacomo è evidente [19] .
Le prime autentiche registrazioni di fatti contemporanei
sono assai tarde. È il 1782 e l’artista, ormai
settantenne, ha la sua grande occasione per mettersi in
luce: fra il 18 e il 25 gennaio soggiornano a Venezia i granduchi
Paolo Petrovič Romanov, erede al trono e futuro
imperatore della Russia, e sua moglie Sofia Dorotea di
Württemberg. La coppia viaggiava “in incognito” con il
titolo di conti del Nord; tuttavia, al loro arrivo in città,
ampiamente preannunciato, la Serenissima organizzò
fastose cerimonie. La loro permanenza viene scandita
giornalmente da appositi festeggiamenti, descritti in
modo dettagliato sia da cronache letterarie sia da numerose
incisioni. Non è noto con esattezza il numero delle
tele che Guardi eseguì per questo evento. È plausibile
che a ogni manifestazione del cerimoniale corrispondesse
uno specifico dipinto. A oggi, è stato possibile risalire
a sette scene, di cui quelle sicuramente identificabili
sono Il concerto delle dame al casino dei Filarmonici e
La sfilata dei carri allegorici nella piazza di San Marco
[20]
. Tutti i dipinti oggi conosciuti sono tratti da incisioni
coeve che Francesco rielabora con il suo segno inconfondibile;
fa eccezione Il concerto delle dame al casino
dei Filarmonici: semplicemente uno dei capolavori di
Guardi. Non è possibile stabilire con certezza il committente
dell’impresa. Tradizionalmente si ritiene che si
sia trattato di un incarico ufficiale da parte del governo,
presumibilmente nella figura di Pietro Edwards, ispettore
alle pubbliche pitture. Più di recente è stato proposto
di identificare il promotore dell’iniziativa in Pano
(Panafidios) Maruzzi, ricco mercante greco la cui famiglia
si era trasferita in città da due generazioni, e che dal
1768 era console di Russia in città [21] .
Ci sono invece informazioni più precise in
merito all’esecuzione dei dipinti che commemorano la
visita a Venezia di papa Pio VI, che si svolse solo pochi
mesi dopo, fra il 15 e 19 maggio. In questo caso, i documenti
attestano come Edwards avesse commissionato
al pittore, per conto dello Stato, quattro scene raffiguranti
altrettante funzioni relative al soggiorno del
FIG. 5
FRANCESCO GUARDI
La regata sul canale della
Giudecca.
Monaco di Baviera, Alte
Pinakothek
19 _ D. Succi, Francesco
Guardi, Milano 1993, pp.
128-131.
20 _ A. Morassi, Guardi. I
dipinti, Venezia 1973, catt. 255-
260; A. Craievich, in Francesco
Guardi 2012, pp. 183-227 (con
bibliografia precedente).
21 _ Cfr. S.O. Androsov,
Russkie zakazciki I italinskie
khudozniki (Committenti
russi e artisti italiani), San
Pietroburgo 2003, pp. 183-244
(in russo).
22 _ J. Byam Shaw, Some
Guardi Drawings Rediscovered,
“Master Drawings”, XV, 1, 1977,
p. 10.
23 _ J. Starobinski,
L’invention de la liberté, Genève
1964 (edizione italiana Milano
2006, p. 25).
24 _ A. Mariuz, Interni
rococò, in Lezioni di Storia
dell’Arte. Dal trionfo del barocco
all’età romantica, Milano 2003,
p. 133. Sulle nozze Polignac da
ultimo Id., Entrées solennelles
et cérémonies nuptiales: les
commanditaires français de
Carlevarijs, Canaletto, Guardi,
in Venise en France, Paris 2004,
pp. 94-97.
pontefice. Le indicazioni erano dettagliate e severe;
l’artista si impegnava a prendere le vedute dal vivo (non
da stampe, si potrebbe aggiungere) e di seguire tutte
le istruzioni del committente sulla collocazione delle
figure e sull’aspetto delle scene. Le tele sarebbero state
poi consegnate e pagate il 24 dicembre di quello stesso
anno. Tuttavia, al momento di ricevere il compenso,
il pittore si impegnava nuovamente ad “eseguire le
piccole ulteriori alterazioni desiderate da esso signor
Edwards”, segno che, nonostante le ferree disposizioni,
vi fossero ancora dei miglioramenti da fare.
Esistono due serie complete dedicate alla visita di Pio
VI che differiscono lievemente di formato (circa 15 cm
in altezza e in larghezza) e presentano minute differenze
nella disposizione dei personaggi e nella stesura
(la suite di formato maggiore presenta un’esecuzione
più definita e composta rispetto all’altra). Entrambe
però sono significativamente più piccole rispetto alle
misure indicate nel documento. Vi sono invece numerose
versioni integrali o parziali dell’ultima scena, raffigurante
Pio VI benedice la folla nel campo dei Santi
Giovanni e Paolo, non tutte autografe e alcune presumibilmente
copie successive [22] .
Diverso è il carattere dell’ultima richiesta. Non
si tratta di una cerimonia pubblica ma un evento mondano:
le nozze fra Armand-Jules-Marie-Héraclius de
Polignac e Idalie Johanna van Neukirchen, avvenuto il
6 settembre 1790 nella villa Gradenigo a Carpenedo.
La commissione non pare sia andata a buon fine ma,
stando ai magnifici studi preparatori del Gabinetto dei
disegni e delle stampe del Museo Correr, i dipinti avrebbero
dovuto rappresentare il Matrimonio e il Banchetto
nuziale (catt. VII.25-26). L’avvenimento fu una delle
ultime malinconiche fiammate dell’Ancien Régime; lo
sposo infatti era il figlio di émigrés che avevano abbandonato
la Francia subito dopo la presa della Bastiglia e
avevano avuto un ruolo centrale e assai discusso nella
corte di Luigi XVI: il duca Jules de Polignac e sua moglie
Yolande Martine Gabrielle de Polastron, la celebre amica
e confidente della regina Maria Antonietta. I modelli,
fatto insolito per Guardi, sono rifiniti con acquerelli
colorati, circostanza che dona loro un’innaturale bidimensionalità,
quasi fossero un paravento giapponese o
una pittura su seta, con i quali condividono la medesima
leggerezza e fragile grazia. Nella scena del Banchetto il
pittore ha raggiunto un esito di semplice perfezione.
“Le ultime feste trascritte da Guardi – il matrimonio
del figlio del duca di Polignac – prendono un aspetto
lieve come ragnatela: nel cerimoniale del banchetto, le
sedie hanno una vita propria, ironica e piena di grazia;
la disposizione spaziata, regolare, involontariamente
simboleggia l’imperiosa puerilità dell’etichetta aristocratica,
la quale separa quegli stessi che raduna” [23] . In
quest’occasione, per circostanze che potremmo definire
casuali, alcuni protagonisti della corte francese, ormai
spazzati via dalla storia, incrociano le loro strade con
l’ultimo, isolato, interprete del Rococò europeo. Poche
volte come in questo caso le circostanze portano a
caricare un’opera d’arte, per di più incompiuta, di una
valenza storica e culturale così forte. Come ha osservato
Adriano Mariuz, “il disegno mi sembra il più struggente
addio a una civiltà, a un modo di vita, allo stile artistico
che quella civiltà aveva promosso e coltivato. In una sala
di impronta neoclassica, scandita da colonne, i convitati,
ridotti a una traccia, appena un tocco di colore, siedono
intorno a un tavolo enorme imbandito di niente.
All’inizio ho accennato a farfalle che imitano il comportamento
degli esseri umani; qui assistiamo a una metamorfosi
inversa e ben più sorprendente: esseri umani
sono diventati essi stessi lievi, policromi ed effimeri
come farfalle” [24] .
Gli ultimi avvenimenti contemporanei immortalati
da Francesco Guardi sono però di tutt’altro tenore.
Egli assume la veste di cronista per l’ultima volta, non per
un mecenate ma per propria ispirazione. Il suo sguardo
si sofferma su alcuni fatti di cronaca e su eventi naturali
straordinari che registra con incuriosita partecipazione:
il 16 aprile 1784 il volo del pallone aerostatico costruito
dal procuratore Francesco Pesaro; la gelata della laguna
nell’inverno del 1788-89, l’incendio del magazzino degli
oli a San Marcuola il 28 novembre 1789, oppure la nuova
facciata del teatro La Fenice, eseguito pochi mesi prima
della morte (il teatro è ultimato nell’aprile del 1792).
Ancora una volta la sua naturale attitudine all’interpretazione
fantasiosa e inedita del dato reale gli consente
di captare gli aspetti più originali e transitori di Venezia,
soffermandosi – per la prima volta – sulla concreta
attualità e diventando, così, inavvertitamente moderno.
344 —LA FINE DEL SECOLO —
— FRANCESCO GUARDI — 345
DANIELE
D’ANZA
FIG. 1
GIANDOMENICO TIEPOLO
La partenza di Pulcinella.
Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento
veneziano
1 _ A Ca’ Rezzonico si
conserva il suo ritratto a pastello
(67x54 cm, inv. Cl. I, n. 1211)
eseguito dall’altro figlio pittore,
Lorenzo Tiepolo.
2 _ J. Starobinski, 1789. I sogni
e gli incubi della ragione, Milano
2010, pp. 25-31.
3 _ Starobinski 2010, p. 29.
4 _ A. Morassi, Giambattista
e Domenico Tiepolo alla Villa
Valmarana, “Le arti”, 4, 1941, p.
271; A. Mariuz, Giandomenico
Tiepolo, Venezia 1971, pp. 30-35.
5 _ S. Loire, in Tiepolo. Ironia
e comico, catalogo della mostra
(Venezia, Fondazione Giorgio
Cini) a cura di A. Mariuz, G.
Pavanello, Venezia 2004, pp.
146-148.
LA FINE
DEL SECOLO
L A
PROPENSIONE
AL “GENERE” DI
GIANDOMENICO
TIEPOLO
Insieme a Francesco
Guardi, Giandomenico Tiepolo è considerato l’ultimo
rappresentante di quella civiltà artistica che
fu il Settecento veneziano. I due peraltro risultano
parenti poiché la madre, Cecilia Guardi, era sorella
di Francesco [1] . Entrambi, inoltre, fanno in tempo
ad assistere ad alcuni eventi che cambiarono irrimediabilmente
la configurazione politica e culturale
dell’Occidente. Morto nel 1793, Guardi ha modo di
venire a conoscenza della Costituzione degli Stati
Uniti d’America, dell’abbattimento, a colpi di ghigliottina,
della monarchia francese e di comprendere
che ormai il nuovo indirizzo stilistico, a lui estraneo,
il Neoclassicismo – stile che a Venezia aveva orientato
il progetto della facciata del Nuovo Teatro alla Fenice
–, si stava irrimediabilmente imponendo in Italia e in
Europa. Dal canto suo Giandomenico, il cui decesso
si data al 1804, deve accettare la caduta, senza colpo
ferire, della Repubblica veneziana, occorsa nel 1797,
e condividere quel senso di smarrimento diffuso tra
i cattolici a seguito della notizia della morte di Pio
VI, nell’agosto del 1799, vittima e prigioniero della
Rivoluzione francese.
La figura di Giandomenico Tiepolo assume pertanto
la fisionomia dell’artista sopravvissuto a quella
civiltà che, a fianco del padre, aveva largamente celebrato.
Non a caso, Starobinski gli riconosce il ruolo di
mitografo favoloso della finis Venetiae, colui che seppe
far scomparire l’eternità [2] . Quell’eternità tante volte
raccontata attraverso miti e allegorie e che negli ultimi
anni di vita lascia posto a raffigurazioni grafiche di scene
familiari di vita veneziana, la cui condotta in chiave realistica
appare innervata da un visione caricaturale: vi traspira
“una eleganza gioiosa e un riso desolato” [3] .
Gran parte della propria esistenza Tiepolo la
trascorre a fianco del padre; è sempre con lui, anche
a Madrid, dove il genitore si spegne. Fin dal principio
quindi, la sua poetica si sostanzia sotto l’egida paterna,
differenziandosene nella resa autonoma di alcune
figure di complemento.
Durante gli anni trascorsi a Würzburg, oltre
ad assistere il maestro nella realizzazione di uno dei
più alti capolavori del Settecento europeo – l’enorme
affresco dello scalone monumentale della Residenz
–, il pittore vive un periodo di felicità creativa, licenziando
opere in proprio, in cui il distacco dai modi
paterni appare sensibile [4] . Al rientro in patria e prima
della partenza alla volta della Spagna, egli matura l’inclinazione
per la pittura di genere, affrescando le pareti
della foresteria di villa Valmarana, nei pressi di Vicenza.
Qui, tra l’altro, ha modo di sondare per la prima volta
il terreno che lo porterà anni dopo alla realizzazione
del celebre Mondo Novo, affrescato su una parete
della villa di famiglia a Zianigo e oggi a Ca’ Rezzonico
(fig. 2). A queste date e comunque prima del trasferimento
a Madrid nel 1762 – insieme al padre e al
fratello minore Lorenzo –, Giandomenico esegue
le sue prime scene di carnevale, tra cui la coppia con
Il minuetto e Il ciarlatano ora al Louvre (catt. VII.05-
06), ma un tempo proprietà di Francesco Algarotti [5] .
— LA PROPENSIONE AL “GENERE” DI GIANDOMENICO TIEPOLO — 347
Sono opere in cui l’artista contrappone al macrocosmo
degli affreschi decorativi “il microcosmo lucente
delle sue evocazioni di vita contemporanea”, in un
rovesciamento ironico dell’universo paterno. Motivi
resi con linguaggio spedito, tale da conferire alle composizioni,
almeno nei risultati più felici, “un tono di
improvvisazione giornalistica” [6] : la folla mascherata
e oziosa, resa con stile corsivo, “si accalca in giardini
di villa o per le strade di paesi in festa, in un’ora del
giorno che doppia a terra le forme in ombre lunghe
e distorte. Dame lievi si mescolano alla canaglia, fanciulle
si travestono da vecchi, e le bautte ambigue
parodiano gli spettri. E’ una labile schiuma umana, il
fastigio estroso di una civiltà convinta che altro bene
non vi è se non la felicità che riesce a cogliere su questa
terra. Il tempo scorre veloce; ogni occasione perciò
diventa pretesto di gioco, ogni luogo un palcoscenico”
[7] . La narrazione tende qui, evidentemente, al
sarcasmo, lambendo il grottesco, con i passi di danza
dei due ballerini del Minuetto scanditi dal ritmo frenetico
imposto dall’orchestrina compressa su una
pedana a destra. Tra i numerosi spettatori che affollano
la scena si scorgono, inoltre, quelle maschere bizzarre
dagli sguardi salaci, che ritorneranno più avanti
nelle composizioni riservate a Pulcinella, personaggio
peraltro già presente in queste raffigurazioni, seppur
calato in ruoli ancora marginali.
Tale svolta tematica, più consona forse al suo
temperamento, che predilige la rappresentazione
caricaturale dei contemporanei, è in qualche misura
anticipata da quei personaggi secondari, fortemente
caratterizzati, stipati in molte stazioni di quella Via
Crucis eseguita in gioventù per l’Oratorio veneziano
del Crocefisso annesso alla chiesa di San Polo. Tele, pur
connesse con le opere del padre, ma in cui affiora una
sensibilità diversa, indugiante sulla folla che, indifferente,
si accalca attorno al Cristo [8] .
In Spagna i Tiepolo celebrarono da un lato la
monarchia, avvalendosi del consueto materiale iconologico
codificato da quella civiltà costituitasi nell’età
barocca, dall’altro assecondarono ulteriori committenze
pubbliche e private. In questo torno di tempo,
come precisato da Mariuz, Giandomenico licenzia
altre scene di “genere”, tra cui il Burchiello del
Kunsthistorisches Museum di Vienna (cat. VII.07), raffigurazione
di un momento di vita quotidiana riservato
all’imbarcazione che, tramite il fiume Brenta, collegava
Venezia a Padova. Si trattava di una tipica imbarcazione
veneziana per trasporto passeggeri, con grande
cabina in legno. Giacomo Casanova vi salì per il suo
primo viaggio all’età di nove anni, nel 1734, quando
venne accompagnato dalla madre, dall’abate Alvise
Grimani e dal poeta erotico Giorgio Baffo a Padova,
al fine di iniziare gli studi grammaticali [9] , mentre
Carlo Goldoni, alle stesse date in cui Giandomenico
eseguiva la sua versione pittorica, gli riservò un componimento,
in cui si legge: “Gera in barca da Padoa,
o sia Burchiello, / che va via per la Brenta ogni mattina”,
aggiungendovi una poetica descrizione di quella
“folta compagnia de Zente varia [...] de caratteri vari
una misianza” [10] , placidamente raffigurata da Tiepolo
figlio nel dipinto viennese.
La morte del padre, occorsa il 27 marzo 1770,
spinge Giandomenico al rientro in patria, mentre il fratello
Lorenzo decide per la permanenza in terra iberica,
dove si stavano imponendo le istanze razionalistiche
e quindi classicistiche, del nuovo indirizzo stilistico.
Indirizzo che in laguna a queste date attecchiva soprattutto
in architettura e nella relativa trattatistica, quella
di Tommaso Temanza, Francesco Milizia e Andrea
Memmo [11] . Tale linea classicistica presupponeva una
volontà di moralizzazione nel campo dell’arte, di cui
si ribadiva la funzione educatrice. Per Giandomenico,
però, “l’aggiornamento in direzione di tale classicismo
programmatico si risolse solo in un ulteriore irrigidimento
delle forme di ascendenza paterna e nell’adozione
di schemi compositivi scolasticamente semplificati,
nel vano proposito di esprimere la serietà della
Storia” [12] . A questo spirito si sarebbero forse dovute
orientare le due composizioni della National Gallery di
Londra raffiguranti I greci costruiscono il cavallo di legno
e I troiani trascinano in città il cavallo (cat. V.38), in cui
invece persistono quei movimenti svelti, da operetta,
più consoni al gusto precedente.
Al rientro fra le lagune, Giandomenico Tiepolo
viene nominato membro della locale Accademia
di Pittura e la sua opera prosegue ricalcando lo stile
sublime della tradizione paterna. Lo attestano i lavori
condotti negli anni Settanta e Ottanta in palazzo
Valmarana-Franco di Vicenza, sul soffitto della parrocchiale
di Casale sul Sile o in quello della chiesa veneziana
di San Lio; e ancora in palazzo Contarini Dal
6 _ A. Mariuz, Giandomenico
Tiepolo, Venezia 1971, p. 42.
7 _ Ivi, p. 70.
8 _ Ivi, p. 22.
9 _ G. Casanova, Storia
della mia vita (titolo originale
dell’edizione critica Histoire de
ma vie, Wiesbaden-Paris 1960-
62), a cura di P. Chiara,
F. Roncoroni, II ed., Milano,
1989, voll. 3; I, pp. 28-29.
10 _ C. Goldoni, Il Burchiello
di Padova in occasione delle
nozze di sua Eccellenza il Sig.
Alvise Priuli e la Nobil donna
Lucrezia Manin, in Delli
componimenti diversi di Carlo
Goldoni avvocato veneto, tomo 1,
Venezia 1764, p. 184.
11 _ S. Pasquali, Scrivere di
architettura intorno al 1780:
Andrea Memmo e Francesco
Milizia tra il Veneto e Roma,
“Zeitenblicke”, 2, n. 3, 2003,
pp. 3-27; cfr. Rössler, saggio in
catalogo.
12 _ Mariuz 1971, p. 76.
FIG. 2
GIANDOMENICO TIEPOLO
Il Mondo Novo.
Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento
veneziano
13 _ “Il sudato lavoro di Gian
Domenico Tiepolo, accolto al
suo nascere da un generale coro
di consentimenti e lodi, ebbe
però avverso destino: giacché
nel giro di ottant’anni circa,
sotto la critica inesorabile degli
uomini e l’azione dissolvitrice
del tempo, andò a totale rovina.
Ed anche il ricordo scomparve:
infatti nel 1866 nello spazio da
esso occupato prese posto un
affresco del pittore genovese
Giuseppe Isola” (S. Rebaudi,
L’affresco di Gian Domenico
Tiepolo nel soffitto della gran sala
del Palazzo Ducale in Genova,
“Giornale storico e letterario
della Liguria”, XVI, II, 1940, pp.
63-71 [69-70]).
14 _ “Nuova Veneta Gazzetta”,
20 marzo 1762, riportato in
F. Haskell, Mecenati e pittori,
Firenze 1966, p. 389.
15 _ G. Fogolari, L’Accademia
veneziana di pittura e scoltura
del Settecento, “L’arte”,
1913, pp. 270-272. Per un
approfondimento: L’Accademia
di Belle Arti di Venezia. Il
Settecento, a cura di G. Pavanello,
I-II, Crocetta del Montello 2015.
16 _ F. Montecuccoli degli
Zaffo alla Misericordia, sempre a Venezia, e il grande
affresco nel soffitto del Salone di Palazzo Ducale a
Genova, commissionatogli nel 1784 [13] . Tutti incarichi
la cui finalità decorativa induce il pittore a riprendere
temi e stilemi paterni, in pieno contrasto con la poetica
neoclassica allora dominante. I risultati non sono
tra i più felici e le opere sembrano decretare il tramonto
di quella stagione grandiosamente celebrativa
segnata dal genio di Giambattista Tiepolo. In questi
ultimi esempi, infatti, si affacciano di continuo citazioni
da opere precedenti, disorganizzate però in una
visione spaziale meno unitaria e trionfale.
Fino all’ultimo, si direbbe, ma senza troppa
convinzione, Giandomenico cerca di perpetrare le
adusate indicazioni del padre, al tempo raccolte da un
suo contemporaneo: “Ho udito dire dal Signor Tiepolo
stesso [...] che li Pittori devono procurare di riuscire
nelle opere grandi, cioè in quelle che possono piacere
alli Signori Nobili, e ricchi, perché questi fanno la fortuna
de’ Professori, e non già l’altra gente, la quale non
può comprare Quadri di molto valore. Quindi è che
la mente del Pittore deve sempre tendere al Sublime,
all’Eroico, alla Perfezione” [14] .
In virtù soprattutto del ruolo di erede artistico
dell’illustre genitore, nel 1783 egli è nominato presidente
dell’Accademia veneziana, carica che terrà per
tre anni. Nonostante ciò il suo distacco dall’ambiente
artistico ufficiale è ormai inesorabile, anche in virtù
di fastidiose diatribe familiari. Lo certifica la lettera
inviata il 12 ottobre 1788, dalla sua proprietà di Zianigo,
al cancelliere dell’Accademia Vincenzo Nodari, dove, ai
ringraziamenti per l’invito a ricoprire il ruolo di maestro,
seguono le scuse di non poter accettare causa sfavorevoli
circostanze domestiche [15] .
L’armonia familiare dei Tiepolo viene infatti a
sgretolarsi subito dopo la morte di Giambattista, con
la figlia che reclama più di quanto le è stato assegnato
tramite dote, accusando madre e fratelli di iniquità
nella distribuzione degli ingenti beni accumulati dalla
famiglia in gran parte dopo il suo matrimonio. A leggere
i relativi documenti d’archivio, si ritrovano tutte
le componenti di una saga familiare dei tempi nostri.
La madre altera dedita al gioco d’azzardo, il figlio primogenito
più incline all’isolamento che alla conciliazione,
il fratello all’estero che non per questo rinuncia
a reclamare ciò che gli spetta, l’altro fratello, prete, a
cui ci si affida alla bisogna per cercare di mantenere
un certo decoro nella disputa economica e, per l’appunto,
la sorella ingrata, Elena, sposata con Iseppo
Marco Bardese nel 1745. Istigata forse dal consorte,
la donna reclamava quindi un cospicuo adeguamento
della dote iniziale, e ciò nonostante fosse stata ugualmente
inserita dal padre nel proprio testamento e in
posizione paritaria agli altri fratelli. A Venezia, peraltro,
per antica tradizione, la figlia sposata, che aveva ricevuto
una dote adeguata, rinunciava implicitamente al
348 —LA FINE DEL SECOLO —
— LA PROPENSIONE AL “GENERE” DI GIANDOMENICO TIEPOLO — 349
resto dell’eredità, mentre i fratelli rimasti insieme nella
stessa casa possedevano in comune il resto dei beni [16] .
Nondimeno, come visto, la donna fece notificare una
“estragiudiziale” ai fratelli che avevano seguito il padre
in Spagna, nonché alla madre e al terzo fratello, don
Giuseppe, chiedendo conto, ai primi, “del denaro ed
effetti del padre esistenti a Madrid al tempo della sua
morte”, mentre alla madre e al fratello prelato “contestava
addirittura il maneggio del denaro che essi
avevano curato durante gli anni di assenza del padre,
e ne chiedeva il rendiconto” [17] . Contestazioni a cui
seguirono le risposte piccate di Giandomenico e della
madre Cecilia (fig. 3) [18] . Su quest’ultima però permangono
alcuni dubbi, alimentati da quella diceria che
circolava insistente nella Parigi dell’Ottocento, ossia
che la moglie del grande Tiepolo avrebbe sacrificato
al vizio del gioco gran parte dei gioielli di famiglia [19] .
Voce che sembra trovare conferma nell’analisi dell’inventario
dei beni stilato alla sua morte nel 1779, in cui
non figurano più i gioielli inviatele in dono dal marito
direttamente dalla Spagna e nemmeno quelli assegnatele
a seguito della vertenza giudiziaria suddetta. Non
a caso, i figli Giandomenico e Giuseppe preferirono
accettare l’eredità materna con beneficio d’inventario,
preoccupati di ritrovarsi a far fronte a situazioni debitorie
a loro sconosciute [20] .
Insomma, dopo aver assistito il padre per
mezza Europa e averlo diligentemente affiancato e
coadiuvato nella messa in scena di sontuose allegorie
celebranti pel tramite della mitologia, casate e famiglie
nobiliari, Giandomenico, al suo rientro, si trova
invischiato in una sgradevole lite successoria che lo
costringe a frequentare avvocati e a portarsi, giocoforza,
a più riprese davanti al notaio, insieme a tutti gli
altri membri della famiglia.
Frattanto, nel 1776, si era sposato con
Margherita Moscheni [21] , e anche in questo caso gli
sviluppi della relazione dovettero assumere contorni
da telenovela. L’intermediario al loro matrimonio
fu Ferdinando Tonioli, imparentatosi poi con il pittore
a seguito delle nozze contratte con una cugina
della Moscheni. Tonioli, successivamente, si attivò
come mediatore nella compravendita di opere di
Giambattista ancora in disponibilità della famiglia.
La decisione fu forse presa per far fronte alla mutata
situazione professionale di Giandomenico, che ormai,
a partire dagli anni Novanta, non era più remunerativa.
Al tal fine Tonioli tenne rapporti epistolari con Antonio
FIG. 3
LORENZO TIEPOLO
Ritratto di Cecilia Guardi.
Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento
veneziano
FIG. 4
GIANDOMENICO TIEPOLO
Passeggiata a tre.
Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento
veneziano
Erri, Giambattista Tiepolo e la
sua famiglia. Nuove pagine di
vita privata, “Ateneo Veneto”,
CLXXXI, 32, 1994, pp. 7-42 [19].
Si veda anche G. Munerati, La
famiglia dei Tiepolo a Mirano,
in sedici atti notarili inediti.
Settembre 1762 – Agosto 1778,
Milano 1992.
17 _ Ivi, p. 21.
18 _ Domenico dimostrò che
le disponibilità economiche
maturate in Spagna furono
riservate al funerale e ad
altre spese e di come lui e
il fratello fossero semmai
creditori verso l’asse ereditario
di quanto dovuto attingere
personalmente alle rispettive
borse per far fronte alle richieste
dei creditori. Più velenosa la
risposta della madre Cecila, che
rimproverava alla “fortunata
coerede”, a suo tempo “dotata
dal padre in vita, soccorsa quasi
del continuo dall’amore della
madre e beneficata anche in
morte dal testamento paterno”,
la richiesta di render conto
addirittura “a giornata” del
maneggio dei capitali e degli
investimenti effettuati con le
somme spedite dal padre alla
madre durante il soggiorno
madrileno. D’altra parte, come
ricorda Cecilia, l’indicazione
di affidare al figlio prelato
l’amministrazione delle sostanze
familiari in sua assenza fu presa
dallo stesso Giambattista prima
della partenza per la Spagna
(Montecuccoli degli Erri 1994,
pp. 21-22).
19 _ P. Molmenti,
Giambattista Tiepolo. La sua vita
e le sue opere, Milano 1909, p. 31.
20 _ Montecuccoli degli Erri
1994, p. 26.
21 _ G.M. Urbani de Gheltof,
Tiepolo e la sua famiglia: note e
documenti inediti, Venezia 1879,
pp. 20-29.
22 _ A. Mariuz, Giandomenico
Tiepolo nelle lettere di
Ferdinando Tonioli, in G.
Pavanello, Canova collezionista
di Tiepolo, Monfalcone 1996,
p. 81.
23 _ Mariuz 1996, p. 82. Le
vendite cominciarono subito
dopo la morte di Giandomenico
e Canova, grazie a Tonioli,
se ne avvantaggiò. I Bardese
si sbarazzarono della villa di
Zianigo, dove Giandomenico
aveva lasciato capolavori ad
affresco ora a Ca’ Rezzonico, nel
1826. Appena vent’anni dopo
decisero di liquidare le reliquie
estreme dell’eredità Tiepolo,
perlopiù stampe e disegni,
cedendoli verosimilmente a
qualche antiquario che poi
decise di metterli in vendita a
Parigi (La vendita Tiepolo. Parigi
1845, a cura di G. Pavanello,
Venezia 2013).
24 _ Mariuz 1996, p. 82.
25 _ Morassi 1941, p. 266.
26 _ La tragedia di Antonio
Foscarini di Giambattista
Niccolini presa in esame da
Giovambatista Gaspari giuntavi
un’aringa inedita di Marco
Foscarini, Venezia 1827, p. 189.
Canova, che allora si stava imponendo quale esponente
di spicco del nuovo stile neoclassico. La trattativa però
non fu semplice poiché a Giandomenico riluttava l’idea
di privarsi a buon mercato delle opere del padre.
Tale atteggiamento, evidentemente, non trovava concorde
Tonioli, desideroso di concludere un accordo, e
che per questo, senza mezzi termini, lo definì in una
lettera “minchione di prima linea” [22] .
Di conseguenza, la morte del pittore, occorsa il
3 marzo 1804, fu prontamente annunciata da Tonioli a
Canova, precisando come ora “sarà più facile trattare”.
Non solo, egli si fece latore presso l’illustre scultore di
una richiesta obiettivamente singolare, ossia informarsi
“se una vedova (senza le licenze da Roma) possi sposare
un figlio della sorella del suo defunto marito” [23] .
Si stava infatti preparando il matrimonio tra Margherita
Moscheni e il nipote del pittore, Giambattista Bardese,
figlio di Elena, accolto in casa dallo zio dopo essere
rimasto orfano di madre. Le missive di Tonioli a Canova
evidenziano la difficoltà di rapporti tra Giandomenico e
la sua più giovane sposa. A tal proposito in un’altra lettera
si legge: “Voi siete uomo di mondo. Questa signora
ha sposato un vecchio, e a dire il vero è stata sacrificata
fino al presente, perché era bensì un buon uomo;
ma pieno di pregiudizi”. Una complicità tra la vedova
e il nipote che dovette forse stringersi ben prima della
morte di Giandomenico, tanto che Mariuz, commentando
le parole di Tonioli, è indotto a cogliere un possibile
significato autobiografico in una delle scene ad
affresco oggi a Ca’ Rezzonico – ma un tempo nella villa
dei Tiepolo a Zianigo, località non troppo distante da
Venezia –, la cosiddetta Passeggiata a tre (fig. 4), “con
la dama al centro, a braccio di un uomo anziano e di un
giovane, il quale ci sogguarda di sopra la spalla con una
punta di malizia” [24] .
Le ultime incursioni del pittore nel campo
dell’affresco monumentale, per lungo tempo una specialità
di famiglia, tradiscono formule stanche e ripetitive,
che lo relegano inevitabilmente ai margini del
coevo circuito di committenze. Gli ultimi anni di vita,
Giandomenico li trascorre perciò ritirato, illustrando
una serie di fogli con scene di vita quotidiana. Sempre
per diletto personale prosegue ad affrescare le sale
della propria villa a Zianigo, tra cui figura il rinomato
Mondo Novo, concluso nel 1791 [25] , due anni dopo la
caduta della monarchia francese.
In vecchiaia, quindi, egli esegue a Zianigo
alcuni affreschi con scene di vita quotidiana e illustra
una serie di fogli di medesimo tema (figg. 1-2, 4), molti
dei quali datati 1791: lo stesso anno d’esecuzione riportato
nel Mondo Novo. Sono scene di genere aneddotico
tratte con spirito fresco e arguto, di contenuto
apparentemente disimpegnato, che fissano un’immagine
caricaturale della società veneziana coeva. In
alcune si è indotti a cogliere riferimenti biografici: la
Scena dell’avvocato (cat. VII.23), ad esempio, considerate
le traversie legali vissute in seno alla famiglia,
potrebbe essere intesa quale trasposizione scherzosa
di una realtà direttamente esperita dal pittore. A ogni
modo, egli riversa in queste prove grafiche gli umori
più intimi, cordiali e ironici della propria ispirazione
realistica, non immune da una sottile e talvolta acre
vena malinconica, presaga del crollo drammatico di
una civiltà millenaria.
Crollo prontamente occorso qualche anno
dopo, quando il 12 maggio 1797 il patriziato veneziano
assiste inerme alla fine della Serenissima.
Giandomenico si ritrova quindi circondato dalle
macerie dell’aristocrazia che fu, in un umore politico e
sociale travolto da nuovi valori. In questo clima di rassegnato
decadimento, egli inizia a percorre la via che
lo porta alla genesi della sua ultima fatica, l’album di
disegni dal titolo Divertimenti per li regazzi.
Che a Venezia la situazione politica e sociale
fosse critica, lo rilevava già Marco Foscarini nel marzo
1762, due mesi prima di venir eletto doge, quando
in un memorabile discorso in Maggior Consiglio,
affermò: “Molte disuguaglianze, el savemo tutti, passa
fra i nobili” [26] . Disuguaglianze che, allo scadere del
Settecento, coinvolgevano circa i due terzi degli aventi
diritto di rappresentanza nel Maggior Consiglio, classificati
come appartenenti alle famiglie nobili “povere”.
Tale situazione incise nella vita politica lagunare, poiché
i nullatenenti, che non riuscirono mai a strappare
alle famiglie “ricche” e “mezzane” la loro posizione di
privilegio politico, per mezzo del voto contribuirono
a rendere la Repubblica incapace di attuare le riforme
necessarie, paralizzando le sue istituzioni, conservando
una miriade di cariche inutili, vere e proprie
sinecure, continuando ad alimentare la beneficenza
statale a favore delle loro famiglie. Come è stato dimostrato,
i patrizi “plebei” non vivevano per lo Stato,
350 —LA FINE DEL SECOLO —
— LA PROPENSIONE AL “GENERE” DI GIANDOMENICO TIEPOLO — 351
giustificando in tal modo i loro privilegi politici, bensì
a spese dello Stato, e quindi contribuivano a privare
della sua legittimità il governo aristocratico, dissuadendo
anche chi era mosso da finalità più nobili. Per
questo, non tutti i patrizi appartenenti a Case vecchie
e ricche consideravano come il più alto onore quello di
servire la patria, e chi se ne occupava si accontentava di
occasionali elezioni all’uno o all’altro ufficio [27] .
A tal proposito, una figura centrale del
Settecento veneziano fu Andrea Memmo. Iniziato alla
massoneria da Giacomo Casanova, venne assistito
nell’educazione letteraria e artistica dal frate Carlo
Lodoli, di cui perpetrò la biografia intellettuale: suo il
merito d’aver trasformato a Padova una palude malsana
nel Prato della Valle. Nel 1785, il nobiluomo viene eletto
Procuratore di San Marco, la più alta dignità della
Repubblica dopo quella del Doge. Se da un lato però
questo patrizio veneziano serviva la patria e si dedicava
allo studio e all’investigazione delle questioni economiche
e sociali del tempo, dall’altro non rinunciava a un’esistenza
spensierata e gaudente. Lo stesso Memmo, in
una lettera inviata all’amico Casanova nel 1788, esplicita
il proprio disinteresse al “ragionar co’ nostri politici” e
a “conviver con gli uomini di lettere”, preferendo spassarsela
“col bel sesso”. La missiva, in cui il Procuratore
tradisce la preferenza per una vita epicurea, potrebbe
peraltro ben figurare quale canovaccio comico-sentimentale
di un’opera vaudeville del tempo.
Frattanto io m’occupo tutto il giorno, senza che
m’avanzi tempo giammai, e nelle ore della sera,
che non posso e non amo di riscaldarmi la testa
e gli occhi applicando, me la passo con le vecchie
amabili amiche, e colle giovani ancor più amabili,
belle pazze, che pur se tutto non mi concedono
ancor mi danno molto. Ho dovuto dir jeri
ad un mio amico certa verità che mi scappo, ieri
vedete a questi 60 anni e che mi chiese come avevo
passate le prime ore della sera!... Fui prima da
una bella per fare la pace, e come sembrommi ben
avviata, corsi dopo da un’altra che mi vedeva alla
stessa ora a far baruffa, mentre non potrei se non
cambiar ore per divertirmi con due. M’è necessario
il sollievo, e come non gioco, non compro
più alcuna cosa che mi diletti, non posso soffrire
il ragionar co’ nostri politici, e niente potendo
più studiare, conviver con gli uomini di lettere,
secondo l’istinto, la consuetudine e la stessa mia
inattendibile fortuna, me la passo col bel sesso.
Se vedeste Casanova quali belle ragazze sortirono
in questo Mondetto dopo che ne siete partito! Mi
compatireste se a poco a poco le tento tutte per
riuscir con alcuna, senza però mai perder né il
mio sonno, né il mio appetito. [28]
Con la stessa intonazione da viveur Memmo,
sempre a Casanova, confida di non riuscire a tagliare
“una inutile corrispondenza con venti donne di paesi
diversi, che tutte vogliono farmi credere d’esser di me
incessantemente innamorate” [29] .
In queste righe si condensa lo spirito di una
civiltà, quella veneziana di secondo Settecento, che si
riflette nei libretti d’opera licenziati proprio in quegli
anni da Lorenzo da Ponte – altro illustre esponente
di quella cultura – per la celebre trilogia di Mozart:
Le Nozze di Figaro, andate in scena nel 1786, il Don
Giovanni del 1787 e soprattutto il Così fan tutte del
1790. Narrazioni permeate d’una atmosfera tra l’ironico
e il licenzioso, che nella variazione del medium
si ritrova nei disegni e in alcuni affreschi di Zianigo
che Giandomenico andava ideando in quegli stessi
anni [30] .
Opere in cui il pittore interpreta beffardamente lo
spettacolo offertogli dall’umanità contemporanea, di cui
non sempre condivide la condotta: “un’umanità presa da
smanie d’evasione, stolida e svagata, che sembra vivere nel
tempo di un’eterna vacanza” [31] . Come notato da Morassi
già nel 1941, tali composizioni sono “senz’ombra di dubbio,
tra i più corrosivi documenti d’una società in disfacimento,
che trovano riscontro, d’altronde, anche nelle
satire di Parini, del Gozzi, e in particolare nei ’pamphlets’
della ’Frusta letteraria’ del Baretti: caricature d’uno spirito
acuto che notava causticamente i segni dell’interiore
rovina d’una società ormai infrollita” [32] .
Significativamente, il suo ultimo lavoro, l’album
Divertimento per li regazzi, sembra condotto dall’anziano
pittore soprattutto per piacere personale. Mosso
da nuova e genuina carica d’investigazione e interpretazione
della realtà contemporanea, egli genera una
silloge di disegni, centoquattro, tutta incentrata sull’esistenza
quotidiana di una delle maschere più celebri
della commedia dell’arte, Pulcinella. Ne scaturisce “il
27 _ V. Hunecke, Il corpo
aristocratico, in Storia di
Venezia. L’ultima fase della
Serenissima, VIII, Roma 1997.
pp. 361-364.
28 _ P. Molmenti, Epistolari
Veneziani del secolo XVIII,
Palermo 1914 [ed. Venezia 2005,
p. 114].
29 _ Molmenti 1914 [2005,
p.112]
30 _ M. Guiotto, Vicende
storiche e restauro della “villa
Tiepolo” a Zianigo di Mirano,
“Ateneo Veneto”, 14, 1976,
pp. 7-26; C.B. Tiozzo, Sul
fondo del cassone. Mirano e il
mistero dell’eredità dei Tiepolo,
Padova 1998; Satiri, Centauri e
Pulcinelli. Gli affreschi restaurati
di Giandomenico Tiepolo
conservati a Ca’ Rezzonico,
catalogo della mostra (Venezia,
Museo Correr) a cura di F.
Pedrocco, Venezia 2000.
31 _ Mariuz 1996, pp. 77-83.
32 _ Morassi 1941, pp. 280-
281.
33 _ Mariuz 1996, p. 79.
34 _ A. Gealt, Domenico
Tiepolo. I disegni di Pulcinella,
Milano 1986, p. 15. Di
provenienza incerta, l’album fu
battuto a Londra da Sotheby’s
nel luglio del 1920. Acquistato
da un mercante londinese, fu poi
venduto a un mercante parigino,
Richard Owen, che espose
l’intera serie al Musée des Arts
Décoratifs nel 1921, traendone
profitto alienando a gruppi
i vari disegni. Uno di questi
fu acquistato da una signora
Rotschild, Brinsley Ford ne
prese dodici, Léon e Paul Suzor
ne ottennero undici, mentre
alcuni andarono al museo di
Cleveland grazie all’intuizione
del suo direttore Henry Sayles
Francis (sei, più tre successivi,
oggi sono nove), altri furono
preda di intelligenti direttori di
musei americani.
35 _ Sui rapporti tra i
Pulcinella di Giambattista
e quelli di Giandomenico si
veda G. Knox, Pulcinella in
Arcadia, in Tiepolo ironia e
comico, catalogo della mostra
(Venezia, Fondazione Giorgio
Cini) a cura di A. Mariuz, G.
Pavanello, Venezia 2004, pp.
97-99; per un approfondimento
sulla genesi e sviluppo di questa
maschera: Pulcinella e le arti
dal Cinquecento al Novecento, a
cura di F. Carmelo Greco, Napoli
1990.
36 _ Mariuz 1971, pp. 85-89.
Si veda anche G. Pavanello,
“Tutta la vita, dal principio alla
fine, è una comica assurdità”,
ovvero “il segreto di Pulcinella”,
in Tiepolo ironia e comico 2004,
pp. 15-53.
37 _ A. Gealt, Domenico
Tiepolo. I disegni di Pulcinella,
Milano 1986, p. 17. La serie
di disegni fu in precedenza
pubblicata in A. Gealt, M.
Vetrocq, Domenico Tiepolo’s
Punchinello drawings, catalogo
della mostra (Indiana University
Art Museum), Bloomington
1979. Su questo argomento, si
veda inoltre P. Fehl, A Farewell
to Jokes: The Last Capricci of
Giovanni Domenico Tiepolo
and the Tradition of Irony in
Painting, “Critical Inquiry”, V,
1978/1979, pp. 761-791; G. Knox,
Domenico Tiepolo’s Punchiello
Drawings. Satire, or Labor of
Love?, “Satire in the Eighteenth
Century”, New York-Londra
1984, pp. 124-126; G. Knox,
The Punchinello Drawings of
Giambattista Tiepolo, “Studi
di storia dell’arte in onore di
Michelangelo Muraro”, a cura
di D. Rosand, Venezia 1984, pp.
439-446; A. Mariuz, I disegni
di Pulcinella di Giandomenico
Tiepolo, “Arte Veneta”, 40,
1986, pp. 265-273; A. Gealt,
Divertimento per li regazzi, in
Tiepolo ironia e comico 2004,
pp. 183-188; e più in generale
J. Byam Shaw, The Drawings of
Domenico Tiepolo, London 1962.
38 _ Gealt 1986, p. 15.
più avvincente documentario sulla società veneziana al
suo crepuscolo, in cui umorismo e malinconia si combinano
con una inesauribile capacità d’osservazione” [33] .
Riprendendo una maschera a lui ben nota, poiché
già utilizzata dal padre in alcuni famosi disegni, la
sottrae dal suo cliché di maschera oziosa e gaudente
– ancora presente negli ultimi affreschi eseguiti nella
villa di Zianigo –, predisponendone un nuovo sviluppo
iconografico, più consono a quel clima di rassegnato
decadimento politico e sociale, in cui stava operando.
Il Divertimento si qualifica come la biografia più
ampia e conosciuta di Pulcinella e non a caso l’inizio di
questo suo ultimo lavoro è stato datato al 1797, anno
in cui si concluse la storia secolare della Serenissima
Repubblica veneziana. L’incipit, peraltro, appare fortemente
significativo con il titolo inscritto sul fianco
di un sarcofago [34] .
La raffigurazione di episodi significativi della
vita quotidiana di Pulcinella (catt. VII.08-21), dalla
nascita alla morte, sembra dettata dall’esigenza di
sgretolare, con ironia affettuosa, la struttura portante
dell’ormai decaduta Repubblica. La narrazione, letta
con il senno di poi, acquista significati profondi, riflessi
in quella maschera codificata da Giandomenico, che
nella sua forma bizzarra, col nasone prominente, fissa
in modo efficace un’espressione comica [35] .
È stato notato come l’indicazione del titolo
“per li regazzi” abbia un sottinteso polemico: forse una
confessione indiretta dello stato di isolamento dell’artista,
ormai ai margini della scena artistica, e di come
il termine Divertimento sembri utilizzato nella sua
accezione di vocabolo musicale [36] . Tiepolo, in effetti,
intona un mondo che vive in parallelo a quello degli
uomini, talvolta mescolandovisi con estrema naturalezza.
Lo scherzo e la satira sguaiata, peculiarità di
Pulcinella, tendono però a sublimarsi in questi disegni
in una più ricercata compostezza d’atteggiamenti,
quasi un’evoluzione del personaggio, da una visione
istintuale e lasciva a una più riflessiva consapevolezza.
L’Album, oggi smembrato, si presta a diversi
piani di lettura, con rinvii alla situazione contingente
del pittore, non sempre comprensibili. Un’esegesi
approfondita è stata condotta da Gealt, che precisa
come l’artista racconti “una storia ramificata che comprende
intime scene di famiglia e avventure esotiche.
La diversità di situazioni raffigurate è possibile soltanto
grazie a questo personaggio simile, ma non identico, a
persone reali. Egli può infatti avere una famiglia senza
forzare la logica del racconto. Allo stesso tempo, sempre
senza forzature, può incontrare centauri ed altre
creature mitiche. Può essere un uomo qualunque o
essere stravagante” [37] . Una maschera dagli atteggiamenti
sempre più prossimi a quella realtà che non
riesce mai a riprodurre esattamente e, in questa prospettiva,
“la sua emulazione dell’esperienza umana
assume una nuova dimensione. Servendosi di un succedaneo
così simile e al tempo stesso così diverso da
noi, Giandomenico non ci racconta solo la storia di
Pulcinella, ma anche la nostra” [38] . Il passaggio da una
civiltà all’altra è quindi compiuto.
352 —LA FINE DEL SECOLO —
— LA PROPENSIONE AL “GENERE” DI GIANDOMENICO TIEPOLO — 353
GIUSEPPE
PAVANELLO
prediletto Giuseppe Angeli. Efficace silloge sarà la raccolta
d’incisioni incluse negli Studj di Pittura, pubblicato,
postumo, nel 1760: un volume inteso per “servire
come di scuola ad ognuno”, con scelta di immagini
realizzate da Marco Pitteri e, a solo contorno, da
Francesco Bartolozzi, tratte da opere del maestro. Con
il risultato che il giovane allievo frenava la sua vena
immaginativa per concentrare la sua attenzione su un
modello prefissato uguale per tutti.
FIG. 1
ANTONIO CANOVA
Dedalo e Icaro.
Venezia, Museo Correr
1 _ C.-N. Cochin, Voyage
d’Italie ou Recueil de notes sur
les ouvrages de peinture et de
sculpture, qu’on voit dan les
principales villes d’Italie, Paris
1769.
2 _ V. Barzoni, Lettera sopra
il Monumento di Angelo Emo
scolpito da Canova, Venezia
1795.
4 _ V. Barzoni, Lettera sopra
la Psiche modellata da Canova,
Venezia 1795.
5 _ J.G. Seume, Spaziergang
nach Syrakus im Jahre 1802,
Braunschweig-Leipzig 1803
(edizione italiana L’Italia a piedi
1802, a cura di A. Romagnoli,
Milano 1973).
LA FINE
DEL SECOLO
C A NOVA E
IL GUSTO
NEOCLASSICO
Giusto alla metà del
secolo viene istituita l’Accademia di “Scoltura, Pittura
et Architettura” e Alessandro Longhi esegue per il
Compendio delle vite de’ pittori veneziani istorici più
rinomati del presente secolo, apparso nel 1762, i ritratti
dei maggiori artisti. Ritratti, dunque: esigenza di dare
le immagini dei protagonisti della scena pittorica
veneziana, come una rassegna esemplare della maggiore
scuola pittorica europea: un intento, potremmo
dire, nello spirito dell’Encyclopédie.
L’istituzione dell’Accademia è di per sé indicativa
di una mutata concezione del fare artistico: si
passa dall’apprendistato di bottega a una didattica
normativa. Viene nominato direttore Piazzetta, che
tanta importanza aveva attribuito allo studio del nudo
– cardine dell’insegnamento accademico – da formare
una specifica scuola affidandone la direzione all’allievo
Si è scritto in apertura di Venezia ’700:
Immaginazione / Osservazione . Verso la fine del secolo
un terzo incomodo viene a interferire: è lo studio
dell’Antico, anticamera del Neoclassicismo. Il grande
esperto d’arte Anton Maria Zanetti il Giovane, nel suo
volume Della pittura veneziana e delle opere pubbliche
dei veneziani maestri, pubblicato nel 1771, auspica l’avvento
di un’arte che comunichi all’intelletto e al cuore,
fondata sul “bello semplice e vero”. A conclusione dell’opera,
rivolge ai giovani artisti l’invito a studiare la scultura
classica, sia pure nei calchi in gesso raccolti da
Filippo Farsetti nel suo palazzo sul Canal Grande: e ciò
allo scopo di apprendere “da quelle erudite forme come
rendasi col buon disegno la natura istessa bella compiutamente
e perfetta”, ma “conservando purità e leggiadria
pellegrina, che singolarmente caratterizzano la
vera eleganza”, per “poter poi passare con fondamento
e sicurezza a’ studii più sciolti e vivaci, che sono l’onor
maggiore della scuola nostra, e de’ Maestri di essa, veramente
signori dell’artifizio e della pronta esecuzione”.
Dunque, è dallo studio della statuaria classica
che potrà giungere quel rinnovamento che i tempi
impongono, e si potrà così competere con i colleghi
delle altre scuole d’Italia.
A ca’ Farsetti si celebrava – ed era una novità
per l’ambiente veneziano – il primato della scultura, in
grave situazione di crisi rispetto alla pittura. E se n’era
accorto un osservatore attento come Charles-Nicolas
Cochin, che annotava nel taccuino del suo Voyage d’Italie:
“on dir qui l’usage de l’école Vénitienne est de mettre
le pinceau à la main de leurs élèves, puisqu’en commençent
leurs études. Ce qu’ semble plus le confermer,
c’est la rareté des sculpteurs forni de cette école” [1] .
Gli auspici di una rinascita della scuola veneziana
si concreteranno nell’opera di un allievo dell’Accademia
proveniente dal contado trevigiano, subito fatto
— CANOVA E IL GUSTO NEOCLASSICO — 355
FIG. 2
GIAMBATTISTA PIAZZETTA
Studi di figura, incisione di
Marco Pitteri
FIG. 3
ANTONIO CANOVA
Monumento per Tiziano.
Possagno, Museo Canova
FIG. 4
ANTONIO CANOVA
Stele dell’ammiraglio
Angelo Emo.
Venezia, Museo Storico
Navale
Frari (1790-1795), mentre, poco dopo, il Senato Veneto
richiede un Monumento alla memoria dell’ammiraglio
Angelo Emo, morto nel 1792, da collocare in Palazzo
Ducale. Incarichi, entrambi, di forte significato simbolico:
il più grande artista veneto vivente è chiamato a
celebrare, da una parte, il massimo pittore veneto del
passato, dall’altra l’ultimo eroe della Repubblica, nella
prospettiva di un estremo rilancio di un mito perdurato
per secoli. Sono gli esempi del classicismo a suggerire
le forme delle nuove opere, secondo lo spirito dell’imitazione
degli antichi postulata da Winckelmann.
I modellini del Monumento per Tiziano, distribuiti
fra la Gipsoteca di Possagno e le Gallerie dell’Accademia,
rivelano l’inesausto sperimentare di Canova.
Dapprima il sarcofago addossato a una piramide con
figure afflitte (fig. 3). Poi, l’intuizione: eliminare quell’inutile
oggetto facendo diventare la piramide stessa
sepolcro, grazie all’apertura di un varco verso il quale
si dirigono, in mesta processione, le Arti.
Nasce così la concezione moderna della scultura
funeraria, che troverà esito in marmo nel Monumento
di Maria Cristina d’Austria (Vienna, Augustinerkirche).
Non più esaltazione del defunto, ma compianto:
afflizione per la perdita di una persona cara. Nel caso
di Tiziano, un confratello delle Arti veneziane.
Non sarà mai realizzato, purtroppo, quell’omaggio
al massimo pittore, mentre la Stele Emo
verrà portata a termine, ma collocata, con disappunto
di Canova, all’Arsenale (fig. 4). Celebrazione
sì, ma riprendendo il motivo della stele classica, con
il busto dell’ammiraglio incoronato dal genio della
Nautica, mentre la Fama scrive sul cippo “Angelo Emo
Immortale”: figure alate di sublime bellezza, tanto da
richiamare le creature angeliche tiepolesche.
“La tua grand’anima è ravvivata da un raggio di
luce che illuminò il secolo di Pericle, e che fu tanto propizia
ai tuoi Padri, agli Scultori della Grecia”, si poteva
scrivere allora [2] . Ancora un marmo giungeva in contemporanea
a Venezia: la statua di Psiche, inizialmente
prevista quale dono per Girolamo Zulian. Si accasava
nella più bella casa del momento: il palazzo del conte
Giuseppe Mangilli sul Canal Grande ai Santi Apostoli,
già dimora del console Joseph Smith, decorato da Pier
Antonio Novelli, Giambattista Canal, David Rossi, e
arredato da Giannantonio Selva. Era un insieme perfetto,
con pochi riscontri in Europa!
oggetto di premure da parte del patriziato, Antonio
Canova. Quale prova per un concorso, copierà nel 1775
il gesso dei Lottatori, ricavato dal marmo degli Uffizi.
Nelle sue prime statue – Euridice e Orfeo –,
concepite in coppia per il giardino di villa Falier ai
Pradazzi di Asolo, l’artista si cimenta nel nudo, base
dell’insegnamento accademico, ma inedita è una così
appassionata espressione degli affetti.
Subito dopo, nel 1777, il procuratore Pietro Vettor
Pisani commissionerà all’artista il gruppo di Dedalo e
Icaro (Venezia, Museo Correr), giocato sul contrapposto
tra la naturalistica figura del vecchio e l’idealizzato
giovane Icaro, in cui per la prima volta scompare ogni
residuo di gusto tardobarocco (fig. 1). Nasce un artista
moderno, che ha saputo aggiornarsi rapidamente sulle
istanze del razionalismo illuminista. Un passo dell’Encyclopédie,
divulgata nel veneziano Dizionario delle arti
e de’ mestieri (XV, 1773), sembra esser stato letto con
attenzione dal giovane Canova: la scultura è “particolarmente
nemica di quelle attitudini sforzate, che la Natura
disapprova e rigetta”, come pure “è nemica de’ contrasti
troppo ricercati nella composizione, come nella distribuzione
affettata dell’ombre e de’ lumi”.
Osservazione, si potrebbe dire, piuttosto che
Immaginazione. Il gruppo venne presentato nel 1779
alla Fiera della Sensa. Già l’Orfeo due anni prima aveva
riscosso, nella medesima circostanza, un inaspettato
successo, esaltato come opera che rinverdiva i fasti della
scultura veneziana cinquecentesca. Ora si riconosce che
è nata una nuova stagione per l’arte veneziana. Ma sarà a
Roma che quel giovane, non ancora ventiduenne ma già
ammesso, in deroga allo statuto, all’Accademia, dovrà
indirizzarsi, al fine di perfezionare la sua formazione
studiando soprattutto la statuaria classica.
Un viaggio di studio si trasformerà in un soggiorno
prolungatosi per tutta la vita.
Ma negli anni a seguire c’è qualcuno che cerca
di legare a Venezia colui che ormai è celebrato come
il primo scultore d’Europa. Girolamo Zulian, già
protettore dell’artista quand’era ambasciatore della
Serenissima nell’Urbe, commissiona all’artista un
Monumento per Tiziano, da erigere nella basilica dei
356 —LA FINE DEL SECOLO —
— CANOVA E IL GUSTO NEOCLASSICO — 357
Psiche è la prima opera di Canova di soggetto
“grazioso” che si può vedere in Patria (ora a Brema,
Kunsthalle). Un delirio d’entusiasmo ne conseguirà e
finalmente i veneziani potevano venire a conoscenza
delle esaltate, levigatissime lavorazioni del marmo:
qualità di esiti già acclamata universalmente, da cui
scaturisce quell’effetto di illusione in cui si coniugano
osservazione e astrazione.
Il clima che si percepisce? Ecco, di nuovo, un
testo di Vittore Barzoni: “Era notte quando mi sono
affacciato alla stanza di Psiche… Quale momento! In
mezzo a due fiaccole accese, ho veduta brillar nell’aria
una figura angelica: […] e ’l mio cuore fu preso da
quella spezie d’incanto, che la beltà sparge su tutto
ciò che la circonda. […] Le mosse delle mani, tutte
le loro inflessioni sono piene d’una grazia spontanea
che attrae, e d’una sì verace naturalezza che provoca
a baciarle. […] Psiche, io ti veggo e sento la tua presenza”.
Quindi, il finale: “Come Pimmalione innanzi
all’opera delle sue mani, io sono assorto dinanzi a te,
ed invoco al par di lui il fuoco sacro di Prometeo, che
scenda sulla tua fronte e ti dia la vita” [3] .
Si ha qui un cenno dell’ambiente predisposto
per accogliere quel marmo, ancor oggi sulla sua base
originale tonda fregiata di un festone di fiori, e l’indicazione
dell’ora scelta per la visita. Come consigliava lo
stesso Canova: uno spazio apposito, con illuminazione
zenitale per la luce naturale, quindi fiaccole per le visite
notturne: le più idonee, secondo l’artista, per cogliere
le finezze dello scalpello. E già abbiamo elencati motivi
destinati a diventare ’incollati’, per così dire, ai marmi
canoviani: grazia e naturalezza congiunte, l’evocazione
del mito di Pigmalione e Galatea, dare vita ai sassi!
Per la Stele Emo il Senato, invece di corrispondere
un pagamento, delibererà di riconoscere all’artista
una pensione vitalizia, rinnovando fasti rinascimentali.
Ma, in questo caso, soprattutto per tenere lo scultore
legato alla madrepatria.
Niente di più diverso da quanto fanno Francesco
Guardi (scomparso nel 1793) e Giandomenico Tiepolo
(che morirà nel 1804). Eppure, Canova cerca accanitamente
di impossessarsi di dipinti e disegni di
Giambattista Tiepolo e riesce ad avere nella propria collezione
una decina di modelletti e centinaia di disegni,
ammirati per “fantasia” e “grazia”, secondo le sue stesse
parole (lettera a Selva del 31 marzo 1804). Davvero, le
imprevedibilità del gusto.
Si è fatto cenno a casa Mangilli. Patriziato e
nobili di terraferma, a gara, rinnovano sui modelli del
classicismo di fine secolo gli interni delle loro dimore.
A gara, si è detto. E davvero si assiste a manifestazioni
numerose e qualificate, senz’altro di livello europeo,
che fanno degli anni di fine Settecento uno dei periodi
più rimarchevoli dell’arte veneta, grazie a pittori come
FIG. 5
GIAMBATTISTA CANAL,
DAVID ROSSI
Decorazione di soffitto con
Bacco e Arianna.
Venezia, palazzo Mangilli
ai Santi Apostoli
FIG. 6
COSTANTINO CEDINI,
DAVID ROSSI
Decorazione di sopraporta
con lira sorretta da figure
femminili.
Venezia, palazzo Berlendis
a Santa Margherita
Costantino Cedini, Pier Antonio Novelli, Giambattista
Mengardi, e pure Jacopo Guarana; gli ornatisti David
Rossi e Paolo Guidolini, lo stesso Giuseppe Bernardino
Bison; stuccatori come Giuseppe Castelli. La committenza
è variata: si va dal patriziato di antico (Querini
Stampalia, Pisani Moretta) e nuovo lignaggio (Sandi,
Manin, Gambara, Sangiantoffetti, Berlendis), a nobili
di Terraferma (il conte Giuseppe Mangilli) a ricchi borghesi
(Girolamo Manfrin).
Lo stesso ultimo doge, Ludovico Manin,
ordina l’ammodernamento del suo palazzo presso San
Salvador, chiamando l’architetto Selva, reduce dalla
costruzione del teatro La Fenice, il quale proprio allo
scadere del secolo riceveva l’elogio di Canova: “Voi siete
un vero artista non solo nell’architettura, ma anche
negli ornamenti, e conoscete assai bene le altre arti
ancora” (lettera del 15 febbraio 1800). Possono bastare
un paio d’immagini per dar conto di cos’è stato questo
momento straordinario della pittura veneziana: un
soffitto di palazzo Mangilli con Bacco e Arianna entro
un ovale attorniato da ornati in monocromo e Giochi
di putti – opera di Giambattista Canal e David Rossi –,
quindi l’inserto decorativo in una sopraporta di palazzo
Berlendis a Santa Margherita – ancora David Rossi,
assieme a Costantino Cedini –: anche in un edificio
‘minore’ entra la nuova sensibilità fatta di colte citazioni
dall’Antico, di simmetrie, di astrazione (figg. 5, 6).
Importanza particolare assume la presenza del
cammeo, che sigla con la sua cifra colta tanti piani
decorativi, al punto che Saverio Bettinelli lo indica nei
Discorsi su le Belle Arti (1793) quale emblema della sensibilità
classicistica di fine secolo, esaltando “la purità
de’ contorni, e la correttezza ed eleganza del disegno,
e la varietà dell’espressione, e le mirabili invenzioni con
l’esecuzione del par mirabile”.
Sempre, Canova è il punto di riferimento. Allo
scadere del secolo Venezia viene ‘invasa’ da gessi originali
e da calchi di sue opere. In particolare, bassorilievi
con le vicende degli ultimi istanti della vita di Socrate,
martire ‘laico’, dei poemi omerici, dell’Eneide, nei quali
si viene ad affermare il nuovo stile narrativo dell’età
neoclassica. E il giorno della cerimonia dell’“Ingresso”
del procuratore di San Marco Antonio Cappello il 5
settembre 1796, appena l’anno precedente la fine della
Serenissima, era dato ammirare quelle opere nell’appartamento
di Stato alle Procuratie Nuove: come un
parallelo moderno della Galleria Farsetti e, come quella,
“aperta agli amatori del Disegno”. Accanto ai bassorilievi,
i gessi dell’Amorino e, soprattutto, del gruppo
di Venere e Adone (fig. 7). Mai si erano viste creazioni
così originali, in cui la civiltà greca è evocata attraverso
forme di apollinea chiarezza: un altro mondo, e non
solo per l’ambiente lagunare. Pur da Roma, la civiltà
artistica veneziana continuava a imporsi all’Europa!
Varie creazioni artistiche vengono a contrapporsi
nel momento della caduta della Serenissima. Nei
mesi del Governo democratico – maggio-ottobre 1797
– e subito dopo, all’inizio della dominazione abitualmente
definita “austriaca”, meglio imperiale.
La propaganda antiaristocratica alla ricerca
del consenso popolare faceva eseguire da Francesco
Gallimberti una singolare serie di disegni, incisi da
Giovanni De Pian, al fine di rendere di pubblico dominio
il regime carcerario della defunta Serenissima, già
entrato nel mito negativo di Venezia, di cui le nostre
stampe sono l’incunabolo figurativo (cat. VII.30). Lo
scopo era illustrare le “Carceri sotterracquee della aristocratica
triumvirale, dette Pozzi, fatte demolire dalla
Municipalità provvisoria di Venezia il 25 marzo 1797”,
appena tredici giorni dopo le ‘dimissioni’ del governo
aristocratico: carceri che tante fantasie avevano alimentato,
specie dopo la rocambolesca fuga di Casanova
dai Piombi, sino a essere identificate con il dispotico
sistema di controllo dei “Tre Capi” del Consiglio dei
Dieci, condannato già dalla storiografia illuminista.
Per la prima volta, dopo tante raffigurazioni di
fantasia – prime, le Carceri di Piranesi – si potevano
vedere luoghi “veri” (poco importa che nel 1797 vi fossero
ospitati soltanto sette reclusi), estremamente angusti,
resi con effetti di orrido, come scene di un romanzo
gotico enfatizzate dalla tecnica dell’acquatinta.
Caduta della Repubblica Serenissima.
Conseguenza immediata: spoliazione capillare di capolavori,
trasferiti a Parigi, a partire dal Leone della Piazzetta
e dai Cavalli di San Marco, quindi dipinti a non finire
(parecchi mai restituiti, a partire dai soffitti di Palazzo
Ducale alle Nozze di Cana di San Giorgio Maggiore: il
Veronese che si deve andar ad ammirare al Louvre).
Giandomenico Tiepolo e Canova reagiscono
a quel traumatico evento con opere singolari e differenti.
Giandomenico risuscitando i fantasmi dell’antica
commedia italica nei Pulcinella affrescati nella sua casa
358 —LA FINE DEL SECOLO —
— CANOVA E IL GUSTO NEOCLASSICO — 359
FIG. 7
ANTONIO CANOVA
Venere e Adone.
Possagno, Museo Canova
del Monumento funerario di Francesco Pesaro per un
cenotafio che si doveva erigere nella basilica di San
Marco (cat. VII.31). Fine della Serenissima, si è detto.
Ecco qui, per la prima volta dopo tante rappresentazioni
glorificanti, la personificazione di Venezia stessa
afflitta, colta nel gesto di asciugarsi le lacrime presso
il sarcofago del figlio coraggioso, procuratore di San
Marco, fieramente antifrancese, rifugiatosi a Vienna e
quindi tornato quale rappresentante imperiale. E per
la fronte del sarcofago, cosa si sceglie di raffigurare?
Le genti venete che supplicano le Parche di non recidere
il filo della vita di Francesco Pesaro: soggetto che
non occorre commentare. Ma quanta libertà esprime!
Governati e governanti inscindibilmente connessi:
com’era, fra l’altro, nella tradizione della Serenissima.
Siamo alle origini del mito ottocentesco della
fine di Venezia, che troverà subito espressione nei versi
di Lord Byron: “di tredici secoli di ricchezza e di gloria,
non rimangono che ceneri e pianto”.
Ma non è ancor finita. Proprio nel momento
di passaggio al nuovo secolo giunge a Venezia il
marmo dell’Ebe, che va ad accasarsi presso Giuseppe
Vivante Albrizzi, ricco ebreo convertito che riuscì a
impadronirsene vincendo un’agguerrita concorrenza
(statua ora a Berlino, Neue Nationalgalerie). In tempi
poco lieti, si poteva ammirare un’immagine di serenità
e di grazia: altro capolavoro nel genere “delicato
e gentile”, giudicata “l’opera dell’eterna giovinezza” da
Johann Gottfried Seume quando la vide nel 1802 [4] .
Se n’era dato subito l’annuncio nelle “Notizie
del Mondo” del 13 gennaio 1800, pubblicando il testo
di una lettera di Antonio d’Este, direttore dello studio
canoviano a Roma, indirizzata a Giannantonio Selva:
Voi fra venti giorni vedrete la bella Ebe, e vedrete
se l’arte ha potuto fare di più nei tempi più felici
della Grecia. Il marmo è trasformato in varie bellezze,
in una fisionomia più che divina, in una
carne fresca, che appunto ricorda l’età di 14 anni,
in una mussolina, il di cui meccanismo non ha
esempio nell’antichità, in somma in un moto
generale, in un tutto, che in verità sorprende. [...]
godete con me, che sono stato stromento di salvare
un monumento per la nostra Patria.
di campagna a Zianigo: un no deciso e inappellabile al
verbo neoclassico, alle sue idealità; Canova dipingendo
nel “ritiro” di Possagno, “in angustiis”, l’enorme pala con
il Compianto di Cristo (quasi cinque metri di altezza:
fig. 8). Basti riportare l’iscrizione che campeggia in
basso: “In segno di attaccamento per la Patria / Antonio
Canova dipingeva / Possagno 1799”. Neppure questa si
può dire frutto riconoscibile del movimento artistico di
moda: le ’etichette’ non funzionano sempre.
L’episodio più drammatico nella storia dell’umanità
d’Occidente viene scelto dall’artista quale unica
possibilità per esprimere l’angoscia del momento.
Dispiace che quel dipinto non possa essere presente, per
ovvie ragioni, in mostra – gli affreschi di Giandomenico
si potrà andare a vederli a Ca’ Rezzonico –, ma lo dobbiamo
evocare qui, altrimenti non si può comprendere
cos’è avvenuto nel mondo delle arti veneziane e venete
allo scadere di un secolo che si è voluto aprire con il
soffitto di palazzo Mocenigo dipinto da Sebastiano Ricci
nel saggio Venezia ’700: Immaginazione / Osservazione.
Quanta ricchezza nella mente di Canova,
quanta imprevedibilità. Tragico e sublime si compenetrano,
sotto il segno dell’episodio che doveva essere la
fine di tutto. Lo accerta un cielo plumbeo nel quale
appare, come un fantasma, il Padreterno.
Quindi la schiera delle figure angeliche, che sembrano
trasposte dalla Deposizione di Cristo dipinta da
Giotto agli Scrovegni, altrettanto disperate. Su tutto,
s’impone il dolore cupo dei personaggi, mentre il cadavere
di Cristo sul cataletto riprende il Socrate morto di
uno dei bassorilievi modellati in gesso: il martire ’laico’
precede, in questo caso, la figura del Salvatore, in un
rovesciamento della trasposizione dal sacro al profano.
Canova sorprende, si è detto. Non è finita.
In contemporanea, sollecitato da un ex patrizio,
Giuseppe Priuli, plasma in cera nel 1799 il modellino
FIG. 8
ANTONIO CANOVA
Compianto di Cristo.
Possagno, Tempio
360 —LA FINE DEL SECOLO —
— CANOVA E IL GUSTO NEOCLASSICO — 361
CAT.VII.01
FRANCESCO GUARDI
Il Canal Grande con le chiese di Santa Lucia e Santa
Maria di Nazareth
Olio su tela, 48×78 cm
Madrid, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, inv.
174 (1934.6)
Bibliografia _ Morassi 1973, pp. 249, 419, cat. 585;
Rossi Bortolatto 1974, p. 123, cat. 547; Magrini, in
Francesco Guardi 1993, pp. 138-139, cat. 46; Museo
Thyssen-Bornemisza 2009, pp. 508-509; D’ Anza, in
Francesco Guardi 2012, p. 277, cat. 107, con bibliografia
precedente.
362 —LA FINE DEL SECOLO —
— CATALOGO DELLE OPERE — 363
CAT.VII.03
FRANCESCO GUARDI
Festa della Sensa in Piazza San Marco
Olio su tela, 61× 91 cm
Lisbona, Calouste Gulbenkian Museum, inv. n. 390
Bibliografia _ Morassi 1973, I, pp. 188, 361-362,
cat. 277, II, fig. 307; Rossi Bortolatto 1974, cat. 500;
Muraro 1993, pp. 28-31, 95-96, cat. 7; Succi 1993,
pp. 90-92, fig. 84; Beddington, in Venice: Canaletto
2010, pp. 134, 188, cat. 59.
CAT.VII.02
FRANCESCO GUARDI
Veduta del giardino di palazzo Surian
Olio su tela, 48×78 cm
Chicago, The Art Institute, Gift of Marion and Max
Ascoli Fund, inv. 1991.112
Bibliografia _ Morassi 1973, pp. 436-437, cat. 680,
fig. 635; Succi 1993, pp. 98-103; Lauber 2011, pp. 123-
124; D’Anza, in Francesco Guardi 2012, p. 281, cat. 114.
364 —LA FINE DEL SECOLO —
CAT.VII.04
FRANCESCO GUARDI
Regata sul Canal Grande
Olio su tela, 61×91 cm
Lisbona, Calouste Gulbenkian Museum, inv. n. 391
Bibliografia _ Morassi 1973, I, pp. 202, 366-367,
cat. 299, II, fig. 326; Rossi Bortolatto 1974, cat. 513;
Muraro 1993, pp. 36-39, 98-99, cat. 9; Succi 1993, p. 90,
fig. 85; Beddington, in Venice: Canaletto 2010, pp. 134,
188, cat. 60.
366 —LA FINE DEL SECOLO —
— CATALOGO DELLE OPERE — 367
CAT.VII.05
GIANDOMENICO TIEPOLO
Il ciarlatano
Olio su tela, 81×105 cm
Parigi, Musée du Louvre, Département des
Peintures, inv. RF 1938-99
Bibliografia _ Mariuz 1971, pp. 44, 50, 131-132,
fig. 84-85; Rosenberg, in Venise au dix-huitième siècle
1971, pp. 174-176, cat. 283; Pallucchini 1995, II,
pp. 562-565; Loire, in Tiepolo 2004, pp. 146-149,
cat. 95; Loire 2017, pp. 342-348, con bibliografia
precedente.
CAT.VII.06
GIANDOMENICO TIEPOLO
Il minuetto
Olio su tela, 81×105 cm
Parigi, Musée du Louvre, Département des
Peintures, inv. RF 1938-10
Bibliografia _ Mariuz 1971, pp. 44, 50, 131-132, fig.
84-85; Rosenberg, in Venise au dix-huitième siècle 1971,
pp. 174-176, cat. 282; Pallucchini 1995, II, pp. 562-565;
Loire, in Tiepolo 2004, pp. 146-149, cat. 96; Loire 2017,
pp. 342-348, con bibliografia precedente.
— CATALOGO DELLE OPERE — 369
CAT.VII.07
GIANDOMENICO TIEPOLO
Il burchiello
Olio su tela, 38×78,3 cm
Vienna, Kunsthistorisches Museum, Picture Gallery,
inv. GG 6424
Bibliografia _ Mariuz 1971, pp. 70, 150, fig. 190;
Knox 1980, p. 324; Mariuz, in The Glory 1994, p. 508,
cat. 236; Mariuz, Magrini, in Splendori Settecento 1995,
p. 386, cat. 100, con bibliografia precedente; Loisel, in
Éblouissante Venise 2018, p. 248, cat. 142.
370 —LA FINE DEL SECOLO —
— CATALOGO DELLE OPERE — 371
CAT.VII.08
GIANDOMENICO TIEPOLO
Pulcinella impara a camminare
Penna inchiostro bruno, acquerello bruno su gesso
nero, 293×413 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF121
Bibliografia _ Byam Shaw 1962 p. 92, fig. 85; Vetrocq,
in Domenico Tiepolo’s Pulchinello 1979, n. s 25; Gealt
1986, cat. 16; Giandomenico Tiepolo 1996, p. 244, cat. 11;
Gealt, in Tiepolo 2004, p. 197, cat. 128, con bibliografia
precedente.
CAT.VII.10
GIANDOMENICO TIEPOLO
Pulcinella e il granchio gigante
Penna e inchiostro bruno, acquerello bruno su gesso
nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, RBF123
Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s
Pulchinello 1979, n. s 34; Gealt 1986, cat. 27;
Giandomenico Tiepolo 1996, p. 244, cat. 23; Russell
1998, p. 172; Gealt, in Tiepolo 2004, p. 197, cat. 131,
con bibliografia precedente.
CAT.VII.09
GIANDOMENICO TIEPOLO
Il padre di Pulcinella nasce da un uovo di tacchino
Penna e inchiostro bruno e acquerello bruno su
gesso nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF120
Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s
Pulchinello 1979, n. s 1; Knox 1984, pp. 127, 144; Gealt
1986, cat. 2; Knox, in Giandomenico Tiepolo 1996, p.
244, cat. 1; Gealt, in Tiepolo 2004, pp. 191-192, cat. 125,
con bibliografia precedente.
CAT.VII.11
GIANDOMENICO TIEPOLO
Pulcinella rapito dall’aquila
Penna, inchiostro bruno e acquerello bruno su gesso
nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF127
Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s
Pulchinello 1979, n. s 65; Gealt 1986, cat. 58;
Giandomenico Tiepolo 1996, p. 245, cat. 47; Gealt,
in Tiepolo 2004, p. 202, cat. 138, con bibliografia
precedente.
372 —LA FINE DEL SECOLO —
— CATALOGO DELLE OPERE — 373
CAT.VII.12
GIANDOMENICO TIEPOLO
La partita a volano
Penna e inchiostro bruno, acquerello bruno su gesso
nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF122
Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s
Pulchinello 1979, n. s 13; Gealt 1986, cat. 17;
Giandomenico Tiepolo 1996, p. 245, cat. 29; Russell
1998, p. 172; Gealt, in Tiepolo 2004, pp. 199-201, cat.
132, con bibliografia precedente.
CAT.VII.14
GIANDOMENICO TIEPOLO
Una famiglia di Pulcinella a colazione
Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su
gesso nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF131
Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s
Pulchinello 1979, n. s 12; Knox 1984, pp. 127, 144; Gealt
1986, cat. 22; Giandomenico Tiepolo 1996, p. 245,
cat. 86; Russell 1998, p. 172; Gealt, in Tiepolo 2004,
pp. 209-210, cat. 144, con bibliografia precedente.
CAT.VII.13
GIANDOMENICO TIEPOLO
Pulcinella fa la polenta
Penna e inchiostro bruno, acquerello bruno chiaro su
gesso nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF124
Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s
Pulchinello 1979, n. s 10; Gealt 1986, cat. 20;
Giandomenico Tiepolo 1996, p. 245, cat. 30; Russell
1998, p. 172; Gealt, in Tiepolo 2004, p. 201, cat. 133,
con bibliografia precedente.
CAT.VII.15
GIANDOMENICO TIEPOLO
La bottega del barbiere
Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su
gesso nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF129
Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s
Pulchinello 1979, n. s 4; Gealt 1986, cat. 49;
Giandomenico Tiepolo 1996, p. 245, cat. 50; Russell
1998, p. 172; Gealt, in Tiepolo 2004, p. 202, cat. 139,
con bibliografia precedente.
374 —LA FINE DEL SECOLO —
— CATALOGO DELLE OPERE — 375
CAT.VII.16
GIANDOMENICO TIEPOLO
La bottega del falegname
Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su
gesso nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF130
Bibliografia _ Mariuz 1971, fig. 34; Vetrocq, in
Domenico Tiepolo’s Pulchinello 1979, n. s 51; Knox 1984,
p. 129; Giandomenico Tiepolo 1996, p. 246, cat. 56;
Russell 1998, p. 172.
CAT.VII.18
GIANDOMENICO TIEPOLO
Il giovane Pulcinella guarda i contadini al lavoro
Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su
gesso nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF125
Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s
Pulchinello 1979, n. s 30; Gealt 1986, cat. 8;
Giandomenico Tiepolo 1996, p. 246, cat. 56; Russell
1998, p. 172.
CAT.VII.17
GIANDOMENICO TIEPOLO
Famiglia di Pulcinella sull’Aia
Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su
gesso nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF126
Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s
Pulchinello 1979, n. s 7; Gealt 1986, cat. 6; Russell 1998,
p. 172.
CAT.VII.19
GIANDOMENICO TIEPOLO
Il mercato ortofrutticolo
Penna e inchiostro bruno chiaro e acquerello su
gesso nero, 292×419 mm
Londra, From the Collection of the late Sir Brinsley
Ford, inv. RBF128
Bibliografia _ Vetrocq, in Domenico Tiepolo’s
Pulchinello 1979, n. s 47; Russell 1998, p. 172.
376 —LA FINE DEL SECOLO —
— CATALOGO DELLE OPERE — 377
CAT.VII.21
GIANDOMENICO TIEPOLO
Pulcinella prende parte al Trionfo di Flora
Penna e inchiostro marrone, coloritura marrone,
carboncino nero, 292×413 mm
New York, The Morgan Library & Museum, Gift of
Lore Heinemann, in memory of her husband, Dr.
Rudolf J. Heinemann, inv. 1997.29
Bibliografia _ Stampfle, Denison 1973, cat. 114.
CAT.VII.20
GIANDOMENICO TIEPOLO
Pulcinella cavalca un asino
Penna inchiostro bruno, coloritura marrone e ocra,
carboncino nero, 273×403 mm
New York, The Morgan Library & Museum, Gift
of Lore Heinemann, in memory of her husband,
Dr. Rudolf J. Heinemann, inv. 1997.30
Bibliografia _ Stampfle, Denison 1973, cat. 113.
378 —LA FINE DEL SECOLO —
— CATALOGO DELLE OPERE — 379
CAT.VII.22
GIANDOMENICO TIEPOLO
Dalla sarta
Penna e inchiostro marrone, coloritura marrone,
carboncino nero, 288×418 mm
New York, The Morgan Library & Museum,
Purchased as the gift of the Fellows, inv. 1967.22
Bibliografia _ Byam Shaw 1962 p. 88, fig. 68; Succi
1988, cat. 26; Giandomenico Tiepolo 2005, pp. 171, 176,
cat. 70.
CAT.VII.23
GIANDOMENICO TIEPOLO
La visita dall’avvocato
Penna e inchiostro marrone, con coloritura marrone,
carboncino nero, 287×419
New York, The Morgan Library & Museum,
Purchased as the gift of the Fellows, inv. 1967.23
Bibliografia _ Bean, Stampfle 1981, cat. 261.
CAT.VII.24
GIANDOMENICO TIEPOLO
La presentazione della fidanzata
Penna e inchiostro marrone, coloritura marrone e
grigia, carboncino nero, 287×406 mm
New York, The Morgan Library & Museum, Gift of
Lore Heinemann, in memory of her husband, Dr.
Rudolf J. Heinemann, inv. 1997.70
Bibliografia _ Pignatti 1965, p. 213, cat. 119; Stampfle,
Denison 1973, cat. 112; Mariuz, in The Glory 1994,
p. 506, cat. 227; Giandomenico Tiepolo 2005, p. 181,
cat. 75.
— CATALOGO DELLE OPERE — 381
CAT.VII.25
FRANCESCO GUARDI
Matita nera, penna inchiostro bruno, acquerelli vari,
250×455 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 1202
Bibliografia _ Morassi 1975, p. 134, cat. 116; Pignatti,
in Disegni antichi 1983, pp. 171-172, cat. 658; Bettagno,
in Francesco Guardi 1993, p. 86, cat. 22; Dorigato,
in Splendori Settecento 1995, p. 460, cat. 184, con
bibliografia precedente; Craievich, in Francesco Guardi
2012, pp. 226-227, cat. 94.
CAT.VII.26
FRANCESCO GUARDI
Banchetto per le nozze del duca di Polignac
Matita nera, penna inchiostro bruno, acquerelli vari,
275×419 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 29
Bibliografia _ Morassi 1975, p. 134, cat. 118; Pignatti,
in Disegni antichi 1983, p. 174, cat. 659; Bettagno, in
Francesco Guardi 1993, p. 88, cat. 23; Dorigato, in
Splendori Settecento 1995, pp. 460-461, cat. 185, con
bibliografia precedente; Perissa Torrini, in Il Gran
Teatro 2003, p. 418, cat. II.57; Craievich, in Francesco
Guardi 2012, p. 227, cat. 95.
CAT.VII.27
FRANCESCO GUARDI
Il teatro La Fenice
Penna inchiostro bruno, pennello inchiostro seppia,
195×254 mm
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e delle
stampe, inv. Cl. III, n. 724
Bibliografia _ Morassi 1975, p. 150, cat. 404; Pignatti,
in Disegni antichi 1983, p. 177, cat. 662; D’Anza, in
Francesco Guardi 2012, p. 285, cat. 121, con bibliografia
precedente.
382 —LA FINE DEL SECOLO —
— CATALOGO DELLE OPERE — 383
CAT.VII.28
ANTONIO CANOVA
Ecuba
Gesso, 120×266 cm
Possagno, Fondazione Canova
Bibliografia _ Bassi 1957, p. 85, cat. 56; Pavanello
1976, p. 97, cat. 61; Pavanello, in Venezia 1978, p. 69,
cat. 84.
CAT.VII.29
ANTONIO CANOVA
La morte di Priamo
Gesso, 140×245 cm
Possagno, Fondazione Canova
Bibliografia _ Bassi 1957, p. 85, cat. 38; Pavanello
1976, p. 96, cat. 56; Pavanello, in Venezia 1978, p. 69,
cat. 84; Pavanello 2017, pp. 69-77.
CAT.VII.30
FRANCESCO GALLIMBERTI, GIOVANNI DE PIAN
I pozzi e i piombi di Venezia
Carceri sotteracquee della aristocrazia triumvirale,
dette Pozzi, fatte demolire dalla Municipalità
provvisoria di Venezia li 25 maggio 1797
Iscrizioni: F. Galimberti delineò sopra luogo / Gio. de
Pian incise / Scala di Piedi 3 Veneti / N.° 1 / si vende
dal Cit.° Gio. Valerio Pasquali Librarjo rio terà
S. Marcuola
Venezia, Museo Correr, Gabinetto dei disegni e
delle stampe, inv. Serie St. Gherro 249-256
Bibliografia _ Mariuz 1991, pp. 227-230; Mariuz
2000, pp. 215-243; Pavanello 2001, p. 180, figg. 17-18.
384 —LA FINE DEL SECOLO —
CAT.VII.31
ANTONIO CANOVA
Monumento funerario a Francesco Pesaro
Cera e legno, 32×51×23 cm
Venezia, Museo Correr, Cl. XX sn.
Bibliografia _ Pavanello, in Venezia 1978, p. 88, cat.
116, con bibliografia precedente; Miggiani 1990, pp. 176-
185; Pavanello, in Antonio Canova 1992, pp. 173-174.
— CATALOGO DELLE OPERE — 387
BIBLIOGRAFIA
DELLE OPERE
ESPOSTE
A
Aikema 1996
B. Aikema, Tiepolo e la sua
cerchia. L’opera grafica. Disegni
dalle collezioni americane,
catalogo della mostra (New
York, Pierpont Morgan Library;
Cambridge [Mass.], Fogg Art
Museum), Venezia 1996
Aikema 1998
B. Aikema, Early Drawings for
Prints by Giambattista Tiepolo,
“Master Drawings”, XXXVI, 3,
1998, pp. 251-274
Aikema 2002
B. Aikema, Francesco Guardi,
il “picturesque” e il mito di
Venezia, in I Guardi. Vedute,
capricci, feste, disegni e “quadri
turcheschi”, a cura di A.
Bettagno, Venezia 2002, pp.
17-29
Aikema 2006
B. Aikema, Molinari &
Co.: riflessioni sul momento
internazionale della pittura
veneziana fra Sei e Settecento,
“Arte Veneta”, 63, 2006, pp.
203-207
Alberici 1980
C. Alberici, Il Mobile Veneto,
Milano 1980
Albrizzi 1760
G.B. Albrizzi, Memorie intorno
alla vita di Giambattista
Piazzetta, in Studj di pittura
già disegnati da Giambattista
Piazzetta ed ora con l’intaglio di
Marco Pitteri pubblicati a spese
di Giambattista Albrizzi, Venezia
1760
Alfonzetti 2017
B. Alfonzetti, Le committenze
del console Smith e il sapere
architettonico (Algarotti,
Arrighi-Landini, Conti, Poleni),
in Diplomazia e comunicazione
letteraria nel secolo XVIII.
Gran Bretagna e Italia, Atti del
Convegno Internazionale di
Studi (Modena, 21-23 maggio
2015) a cura di F. Fedi, D.
Tongiorgi, Roma 2017, pp.
203-220
Algarotti 1763
F. Algarotti, Saggio sopra la
pittura, Livorno 1763
Algarotti 1791-1794
F. Algarotti, Opere, 17 voll.,
Venezia 1791-1794
Alle glorie 1705
Alle glorie Immortali del Signor
Giuseppe Maria Mazza scultor
Celeberrimo Bolognese per il
Prodigioso Presepio di bronzo
alto piedi cinque, e largo piedi
otto, e mezzo gettato nell’Arsenal
di Venezia, e collocato nella
chiesa de R.R.P.P. Camaldolesi
dell’Eremo nell’Isola di S.
Clemente di Venezia l’anno
MDCCV, Padova 1705
Alverà Bortolotto 1981
A. Alverà Bortolotto, Storia
della ceramica a Venezia dagli
albori alla fine della Repubblica,
Firenze 1981
Androsov 1991
S.O. Androsov, Da Pietro I a
Paolo I. Mecenati russi e scultori
italiani nel XVIII secolo, in
Canova all’Ermitage. Le sculture
del museo di San Pietroburgo,
catalogo della mostra (Roma,
Palazzo Ruspoli), Venezia 1991,
pp. 27-39
Androsov 1999
S.O. Androsov, Pietro il Grande
collezionista d’arte veneta,
Venezia 1999
Androsov 2003
S.O. Androsov, Russkie zakazčiki
i ital' janskie chudožniki v XVIII
v. (Committenti russi e artisti
italiani), San Pietroburgo 2003
Androsov 2004
S.O. Androsov, Pietro il Grande
e la scultura italiana, San
Pietroburgo 2004
Aneddoti 1777
Aneddoti, “Giornale
Enciclopedico”, VII, luglio 1777
Angelieri 1745
A. Angelieri, Saggio istorico
intorno alla condizione di Este,
altra volta stampato col titolo di
Brevi Notizie ed ora in questa
seconda edizione migliorato ed
accresciuto in molte parti […],
Venezia 1745
Ansaldi 2016
M. Ansaldi, Figure singole e
gruppi, in Geminiano Cozzi e
le sue porcellane, catalogo della
mostra (Venezia, Ca’ Rezzonico,
Museo del Settecento veneziano)
a cura di M. Ansaldi, A.
Craievich, Crocetta del Montello
2016, pp. 299-301
Ansaldi, Craievich 2016
M. Ansaldi, A. Craievich,
Un’àncora rosso ferro, in
Geminiano Cozzi e le sue
porcellane, catalogo della mostra
(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo
del Settecento veneziano) a cura
di M. Ansaldi, A. Craievich,
Crocetta del Montello 2016,
pp. 11-17
“Antologia Romana” 1778
“Antologia Romana”, IV,
XXXIV, febbraio 1778
Antonio Balestra 2016
Antonio Balestra nel segno
della grazia, catalogo della
mostra (Verona, Museo di
Castelvecchio) a cura di A.
Tomezzoli, Verona 2016
Antonio Canova 1992
Antonio Canova, catalogo della
mostra (Venezia, Museo Correr;
Possagno, Gipsoteca) a cura
di G. Pavanello, G. Romanelli,
Venezia 1992
Antonio Pellegrini 1998
Antonio Pellegrini. Il maestro
Veneto del Rococò alle corti
d’Europa, catalogo della mostra
(Padova, Palazzo della Ragione)
a cura di A. Bettagno, Venezia
1998
Argenterie 1938
Argenterie settecentesche italiane
sacre e profane, catalogo della
mostra (Venezia, Galleria
Napoleonica) a cura di G.
Lorenzetti, Venezia 1938
Arte 2002
Arte al caffè. Oro bianco argenti
ed esotiche bevande, catalogo
della mostra (Bolzano, Palazzo
Mercantile) a cura di M.
Munarini, P. Pazzi, Bolzano
2002
Artemieva 1996
I. Artemieva, Un episodio del
collezionismo russo di opere di
Giambattista Tiepolo: “Il ratto
delle Sabine” dell’Ermitage,
“Arte Veneta”, 49, 1996, pp.
37-45
Artemieva 1997
I. Artemieva, I soffitti dei
Tiepolo eseguiti per la Russia,
“Arte Veneta”, 50, 1997, pp.
87-97
Avery 2008
C. Avery, The Triumph of
Motion: Francesco Bertos (1678-
1741) and the Art of Sculpture.
Catalogue Raisonné, Torino
2008
Avery, Krellig 2011
C. Avery, H. Krellig,
Feldmarschall und
Kunstsammler Matthias Johann
von der Schulenburg (1661-
1747): ein unbekannter Bestand
von Kunstwerken aus seiner
Sammlung im Besitz der Grafen
von der Schulenburg-Wolfsburg,
Wolfsburg 2011
B
Bacchi 2013
A. Bacchi, Antonio Corradini e
i Sagredo, in Il tempo e la rosa.
Scritti in onore di Loredana
Olivato, a cura di P. Artoni et
alii, Treviso 2013, pp. 130-135
Bacchi 2018
A. Bacchi, Antonio Gai, in A
Taste for Sculpture. Marble,
bronze, terracotta, ivory and
wood (15th to 20th centuries), a
cura di A. Bacchi, London 2018,
pp. 88-95
Barbier 1988
P. Barbier, The World of
Castrati: The History of
an Extraordinary Operatic
Phenomenon, London 1988
Barcham 1993
W.L. Barcham, Il “Trionfo di
Flora” di Giambattista Tiepolo:
una Primavera per Dresda, “Arte
Veneta”, 45, 1993, pp. 70-77
Barcham 2017
W. Barcham, Tiepolo’s Pictorial
Imagination Drawings for
Palazzo Clerici, New York 2017
Barovier Mentasti 1982
R. Barovier Mentasti, Il vetro
veneziano, Milano 1982
Barovier Mentasti 1995
R. Barovier Mentasti, La
vetraria veneziana, in Storia di
Venezia, Temi. L’arte, a cura di
R. Pallucchini, II, Roma 1995,
pp. 845-905
Barovier Mentasti, Tonini 2013
R. Barovier Mentasti, C. Tonini,
Fragile. Murano, chefs-d’oeuvre
de verre de la Renaissance au
XXIe siècle, catalogo della
mostra (Parigi, Musée Maillol),
Paris 2013
Barzoni 1795a
V. Barzoni, Lettera sopra il
Monumento di Angelo Emo
scolpito da Canova, Venezia 1795
Barzoni 1795b
V. Barzoni, Lettera sopra la
Psiche modellata da Canova,
Venezia 1795
Bassi 1957
E. Bassi, La Gipsoteca di
Possagno. Sculture e dipinti di
Antonio Canova, Venezia 1957
Bassi 1974
E. Bassi, Palazzi di Venezia.
Admiranda Urbis Venetae,
Venezia 1974
Bauer, Sedelmayr 1963
H. Bauer, H. Sedelmayr, Rococò,
in Enciclopedia Universale
dell’Arte, XI, Venezia-Roma
1963, ad vocem
Bean, Stampfle 1971
J. Bean, F. Stampfle, Drawings
from New York Collections,
III, The Eighteenth Century
in Italy, catalogo della mostra
(New York, The Metropolitan
Museum, The Pierpont Morgan
Library), New York 1971
Beddington 2012
C. Beddington, Le prime vedute
di Francesco Guardi, in Francesco
Guardi 1712-1793, catalogo
della mostra (Venezia, Museo
Correr) a cura di A. Craievich,
F. Pedrocco, Milano 2012, pp.
95-98
Bellotto e Canaletto 2016
Bellotto e Canaletto. Lo stupore
della luce, catalogo della mostra
(Milano, Gallerie d’Italia) a
cura B.A. Kowalczyk, Cinisello
Balsamo 2016
Benuzzi 2012-2013
F. Benuzzi, Antonio Gai
(1686-1769), tesi di dottorato,
Università Ca’ Foscari di
Venezia, a.a. 2012-2013, tutor
M. Frank
Benuzzi 2013
F. Benuzzi, Uno scultore
veneziano del Settecento e le sue
commissioni europee: l’esempio di
Antonio Gai, in La storia dell’arte
a Venezia ieri e oggi: duecento
anni di studi, Atti del Convegno
Nazionale (Venezia, Ateneo
Veneto, 5-6 novembre 2012)
a cura di X. Barral i Altet, M.
Gottardi, “Ateneo Veneto”, ser.
III, 200, 2013, pp. 343-353
Berenson 1894
B. Berenson, Venetian Painters
of the Renaissance, New York-
London 1894
Bernardo Bellotto 1990
Bernardo Bellotto. Verona e le
città europee, catalogo della
mostra (Verona, Museo di
Castelvecchio) a cura di S.
Marinelli, Milano 1990
Bernardo Bellotto 2001
Bernardo Bellotto and the
Capitals of Europe, catalogo
della mostra (Houston, Museum
of Fine Arts; Venezia, Museo
Correr) a cura di E.P. Brown,
New Haven 2001
Bertarelli 1927
A. Bertarelli, I libri italiani
figurati del Settecento: la scuola
veneta, “Emporium”, 66,
dicembre 1927, pp. 342-353
Bettagno 1966
A. Bettagno, Disegni di una
collezione veneziana del
Settecento, Venezia 1966
Bettagno 1983
A. Bettagno, In margine a una
mostra, “Notizie di Palazzo
Albani”, XII, 1-2, 1983, pp.
222-228
Biadene 1985
S. Biadene, Palazzo Pisani a
Santa Maria del Giglio, in Le
Venezie possibili. Da Palladio
a Le Corbusier, catalogo
della mostra (Venezia, Ala
Napoleonica Museo Correr) a
cura di L. Puppi, G. Romanelli,
Venezia 1985, pp. 136-137
Biagi 1820
P. Biagi, Sull’incisione e sul
Piranesi, Venezia 1820
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M.I. Biggi, Il concorso per la
Fenice 1789-1790, Venezia 1997
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Binion 1984
A. Binion, Two new
compositional studies by
Piazzetta, “Master Drawings”,
XXII, 4, 1984, pp. 431-433
Binion 1990
A. Binion, La galleria
scomparsa del maresciallo von
der Schulenburg: un mecenate
nella Venezia del Settecento,
Milano 1990
Binion 1994
A. Binion, The Piazzetta
Paradox, in The Glory of
Venice. Art in the Eighteenth
Century, catalogo della mostra
(Londra, Royal Academy of
Arts; Washington, National
Gallery of Art) a cura di J.
Martineau, A. Robinson,
London 1994, pp. 139-169
Bissone 1980
Bissone, peote e galleggianti:
addobbi e costumi per cortei e
regate, catalogo della mostra
(Venezia, Museo Correr) a cura
di G. Romanelli, F. Pedrocco,
Venezia 1980
Bleyl 1981
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genannt Canaletto:
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Hessischen Landesmuseum
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Blunt, Croft Murray 1957
A. Blunt, E. Croft Murray,
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Windsor Castle, London 1957
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Bottega 1991
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Fondazione Querini Stampalia)
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Venezia di Domenico Lovisa:
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originale. Die Zeichnungen des
Antonio Molinari. Museum
Kunst Palast Sammlung der
Kunstakademie Düsseldorf,
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Bromberg 1974
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Illustrating and Describing the
Known States, Including those
Hitherto Unrecorded, London-
New York 1974
Bromberg 1993
R. Bromberg, Canaletto’s
Etchings. Revised and Enlarged
Edition of the Catalogue
Raisonné, San Francisco 1993
Brown 1993
B.L. Brown, Giambattista
Tiepolo. Master of the Oil Sketch,
catalogo della mostra (Fort
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H.E. Browning, The Canaletto
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J. Byam Shaw, The Drawings
of Domenico Tiepolo, London
1962
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Drawings Rediscovered,
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1977, pp. 3-15
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Callegari 2016
M. Callegari, Les Numismata
virorum illustrium ex
Barbadica gente (Padoue,
1732), in Les médailles de Louis
XIV et leur livre, a cura di
Y. Loskoutoff, Mont-Saint-
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Camesasca 1974
E. Camesasca, L’opera completa
di Bellotto, Milano 1974
Campanella, Moore Valeri
2016
C. Campanella, A. Moore
Valeri, Cozzi e Ximenes in un
incartamento inedito sulla
“Fabbrica di porcellane a
Venezia”, “Faenza. Bollettino
del Museo Internazionale delle
Ceramiche in Faenza”, CII, 2,
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Camponogara 2013-2014
R. Camponogara, Il Palazzo
Venier dei Leoni. Metodi
digitali per la costruzione del
progetto non realizzato, tesi
di laurea, Università IUAV
di Venezia, a.a. 2013-2014,
relatori F. Guerra,
F. D’Agnano
Canaletto 1964
Canaletto. Giovanni Antonio
Canal 1697-1768, catalogo della
mostra (Toronto, Art Gallery;
Ottawa, National Galley of
Canada; Montreal, Musée des
Beaux-Arts) a cura di W.G.
Constable, Toronto 1964
Canaletto 1980
Canaletto. Paintings and
drawings, catalogo della
mostra (Londra, The Queen’s
Gallery) a cura di O. Millar,
C. Miller, London 1980
Canaletto 1982
Canaletto. Disegni-Dipinti-
Incisioni, catalogo della
mostra (Venezia, Fondazione
Giorgio Cini) a cura di A.
Bettagno, Venezia 1982
Canaletto 1989
Canaletto, catalogo
della mostra (New York,
Metropolitan Museum of Art)
a cura di K. Baetjer, J.G. Links,
New York 1989
Canaletto 1993
Canaletto & England, catalogo
della mostra (Birmingham, Gas
Hall Exhibition Gallery) a cura
di M. Liversidge, J. Farrington,
London 1993
Canaletto 2001
Canaletto prima maniera,
catalogo della mostra (Venezia,
Fondazione Giorgio Cini)
a cura di A. Bettagno, B.A.
Kowalczyk, Milano 2001
Canaletto 2005
Canaletto. Il trionfo della
veduta, catalogo della mostra
(Roma, Palazzo Giustiniani)
a cura di B.A. Kowalczyk,
Cinisello Balsamo 2005
Canaletto 2006
Canaletto in England. A
Venetian Artist Abroad,
1746-1755, catalogo della
mostra (New Haven, Yale
Center for British Art;
London, Dulwich Picture
Gallery) a cura di C.
Beddington, New Haven
2006
Canaletto 2008
Canaletto. Venezia e i suoi
splendori, catalogo della
mostra (Treviso, Casa dei
Carraresi) a cura di G.
Pavanello, A. Craievich,
Venezia 2008
Canaletto 2015
Canaletto. Rome, Londres,
Venise. Le triomphe de la
lumière, catalogo della
mostra (Aix-en-Provence,
Caumont centre d’art) a cura
di B.A. Kowalczyk, Issy-les-
Moulineaux 2015
Canaletto 2017
R. Razzall, L. Whitaker,
Canaletto & the Art of Venice,
catalogo della mostra (Londra,
The Queen’s Gallery), London
2017
Canaletto: Bernardo Bellotto
2014
Canaletto: Bernardo Bellotto
malt Europa, catalogo
della mostra (Monaco, Alte
Pinakothek) a cura di A.
Schumacher, München 2014
Canaletto-Brustolon 2006
Canaletto-Brustolon: le feste ducali,
catalogo della mostra (Venezia, Ca’
Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano) a cura di F. Pedrocco,
C. Tonini, Venezia 2006
Canaletto & Visentini 1986
Canaletto & Visentini, Venezia
& Londra, catalogo della mostra
(Gorizia, Castello; Venezia,
Museo d’Arte Moderna di
Ca’ Pesaro) a cura di D. Succi,
Cittadella 1986
Canaletto Guardi 2012
Canaletto Guardi: les deux maître
de Venise, catalogo della mostra
(Parigi, Musée Jacquemart-André)
a cura di B.A. Kowalczyk, N.
Sainte Fare Garnot, Paris 2012
Capolavori ritrovati 2016
Capolavori ritrovati della
collezione di Vittorio Cini,
catalogo della mostra (Venezia,
Galleria di Palazzo Cini) a cura di
L.M. Barbero, Venezia 2016
Casanova 1989
G. Casanova, Storia della mia
vita (titolo originale dell’edizione
critica Histoire de ma vie,
Wiesbaden-Paris 1960-62), a
cura di P. Chiara, F. Roncoroni, 3
voll., II edizione, Milano 1989
Cassidy-Geiger 2007a
M. Cassidy-Geiger, Porcelain and
Prestige: Princely Gifts and “White
Gold” from Meissen, in Fragile
Diplomacy. Meissen Porcelain
for European Courts ca. 1710-63,
catalogo della mostra (New York,
The Bard Graduate Center for
Studies in the Decorative Arts,
Design and Culture) a cura di
M. Cassidy-Geiger, New Haven
2007, pp. 3-23
Cassidy-Geiger 2007b
M. Cassidy-Geiger, Princeps
and Porcelain on the Grand Tour
of Italy, in Fragile diplomacy.
Meissen Porcelain for European
Courts ca. 1710-63, catalogo della
mostra (New York, The Bard
Graduate Center for Studies in
the Decorative Arts, Design and
Culture) a cura di M. Cassidy-
Geiger, New Haven 2007, pp.
209-255
Cassidy-Geiger 2018
M. Cassidy-Geiger, Die Grande
Kur 1738-1740 / The Grand
Cure 1738-1740, brochure della
mostra (Dresda, Staatliche
Kunstsammlungen Dresden),
Dresden 2018
388 — CANALETTO & VENEZIA —
— BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE ESPOSTE — 389
Catalogo 1776
[G. Selva], Catalogo dei Quadri
dei Disegni e dei Libri che
trattano dell’Arte del Disegno
della Galleria del fu Sig. Conte
Algarotti in Venezia, Venezia
1776
Catalogo dei libri 1791
Catalogo dei libri latini e
italiani che trovansi vendibili
nel negozio di Antonio Zatta
e figli, libraj e stampatori di
Venezia, Venezia 1791
Catalogue 1871
Catalogue of the Pictures at
Audley End, the Property of
Lord Braybrooke, 4 th August,
1871, 1871
Cavalli 2012
C. Cavalli, Argenti, in
Palazzo Maruzzi Ambasz,
Ponzano 2012,
pp. 178-180
Ceramiche 1995
Ceramiche del ‘600 e ‘700
dei Musei Civici di Padova,
catalogo della mostra
(Padova, Palazzo della
Ragione) a cura di D. Banzato,
M. Munarini, Venezia 1995
Ceramiche 2000
Ceramiche della collezione
Gianetti, II, Porcellane italiane
europee e orientali, Saronno
2000
Cesare 2001
C. Cesare, Gian Domenico
Bertoli (1676-1763) e la
glittica (con appendice
documentaria dal carteggio
con A. M. Zanetti), “Bollettino
del Gruppo Archeologico
Aquileiese”, 11, 2001,
pp. 64-77
Charleston 1959
R.J. Charleston, Souvenirs
of the Grand Tour: Horace
Walpole’s Venetian glass plates,
“Journal of glass studies”, 1,
1959, pp. 62-82
Chefs-d’œuvre 2004
Chefs-d’œuvre du Musée des
Beaux-Arts d’Angers
(du XIV e au XXIe siècle), a cura
di P. Le Nouëne, Paris 2004
Cicognara, Diedo, Selva 1840
L. Cicognara, A. Diedo,
G. Selva, Le fabbriche e i
monumenti più cospicui di
Venezia, Venezia 1840
Cirillo, Godi 1088
G. Cirillo, G. Godi, L’arte in villa
Pallavicino a Busseto, “Parma
nell’Arte”, fsc. unico, 1988, pp.
5-34
Clemente 2016
M. Clemente, Tommaso Rues
1636-1703: a German Sculptor
in Baroque Venice, Firenze
2016
Cochin 1769
C.-N. Cochin, Voyage d’Italie
ou Recueil de notes sur les
ouvrages de peinture et de
sculpture, qu’on voit dan les
principales villes d’Italie, Paris
1769
Cogo 1996
B. Cogo, Antonio Corradini
scultore veneziano 1688-1742,
Este 1996
Coleti 1758
N. Coleti, Monumenta ecclesiae
venetae S. Moysis, Venezia 1758
Colle 2003
E. Colle, Il mobile rococò in
Italia: arredi e decorazioni
d’interni dal 1738 al 1775,
Milano 2003
Colle 2007
E. Colle, Le arti decorative
del Settecento italiano e gli
studi di Maria Accascina e
Giuseppe Morazzoni, in Storia,
critica e tute la dell’arte nel
Novecento. Un’esperienza
siciliana a confronto con il
dibattito nazionale, Atti del
Convegno Internazionale di
Studi (Palermo-Erice, 14-17
giugno 2006) a cura di M.C. Di
Natale, Caltanissetta 2007,
pp. 155-160
Colletta 1988
T. Colletta, Vincenzo Coronelli,
cosmografo della Repubblica
veneta e gli “Atlanti di città”
tra il XVII e il XVIII secolo, in
Libro e incisione a Venezia e nel
Veneto nei secoli XVII e XVIII,
Vicenza 1988, pp. 1-32
Commedia dell’Arte 2001
Commedia dell’Arte: Fest
der Komödianten, catalogo
della mostra (Berlino,
Charlottenburg) a cura di R.
Jansen, Stuttgart 2001
Compendio delle vite 1762
Compendio delle vite de’ pittori
veneziani istorici più rinomati
del presente con suoi ritratti
tratti dal naturale, Venezia
1762
Componimenti 1955
Componimenti poetici per
le felicissime Nozze di Sue
Eccellenze il Signor Giovanni
Grimani e la Signora Catterina
Contarini, Venezia 1750, in
Tutte le opere di Carlo Goldoni,
XIII, a cura di G. Ortolani,
Milano 1955, pp. 187-188
Concina 1988
E. Concina, Il Canal Grande
nelle vedute del “Prospectus
Magni Canalis Venetiarum”
disegnate e incise da Antonio
Visentini dai dipinti di
Canaletto, Milano 1988
Constable 1929
W.G. Constable, Canaletto at
the Magnasco Society, “The
Burlington Magazine”, LV,
1929, pp. 46-50
Constable 1962
W.G. Constable, Canaletto.
Giovanni Antonio Canal 1697-
1768, 2 voll., London 1962
Constable 1976
W.G. Constable, Canaletto, II
edizione rivista da J.G. Links,
Oxford 1976
Constable 1989
W.G. Constable, Canaletto, II
edizione rivista da J.G. Links,
Oxford 1989
Conticelli 1998
V. Conticelli, Ca’ Dolfin a
San Pantalon. Precisazioni
sulla committenza e sul
programma iconografico
della ‘Magnifica Sala’, in
Giambattista Tiepolo
nel terzo centenario
della nascita, Atti del
Convegno Internazionale
di Studi (Venezia, Vicenza,
Udine, Parigi, 29 ottobre-
4 novembre 1996) a cura
di L. Puppi, I, Padova 1998,
pp. 231-237
Corboz 1985
A. Corboz, Canaletto. Una
Venezia immaginaria, 2 voll.,
Milano 1985
Coronelli [1710]
V. Coronelli, Proposizioni
diverse de’ principali
architetti per il progetto di
Sant’Eustachio,
Venezia [1710]
Craievich 2002
A. Craievich, Pittura fra arte
liberale e professione: disegni,
progetti, apparati, in
Officina veneziana. Maestri
e botteghe nella Venezia del
Settecento, catalogo della
mostra (Crema, Centro
Culturale Sant’Agostino)
a cura di F. Magani,
F. Pedrocco, Cremona 2002,
pp. 35-52
Craievich 2003
A. Craievich, Antonio
Pellegrini nella chiesa
veneziana delle Eremite,
“Arte Veneta”, 60, 2003,
pp. 205- 210
Craievich 2003a
A. Craievich, “Avendo l’arte
sua per fine principalissimo il
diletto”: note su alcuni disegni
di Francesco Algarotti, “Arte
Veneta”, 60, 2003, pp. 168-185
Craievich 2005
A. Craievich, Antonio Molinari,
Soncino 2005
Craievich 2014-2015
A. Craievich, Luca Carlevarijs
per il Gran Teatro di Venezia di
Domenico Lovisa, “Bollettino
dei Musei Civici Veneziani”,
ser. III, 9-10, 2014-2015, pp.
86-88
Crosera 2000-2001
C. Crosera, Contribuito alla
storia del libro illustrato del
Settecento: i Numismata
virorum illustrium ex
Barbadica gente di Robert
van Audenaerd per il cardinal
Giovan Francesco Barbarigo,
tesi di specializzazione,
Università degli Studi di
Firenze, a.a. 2000-2001
Crosera 2008-2009
C. Crosera, Passione
numismatica: editoria, arti e
collezionismo a Venezia nel Sei
e Settecento, tesi di dottorato,
Università degli Studi di
Trieste, a.a. 2008-2009
Crosera 2018
C. Crosera, Il volume Delle
antiche statue greche e romane,
in La vita come opera d’arte.
Anton Maria Zanetti e le sue
collezioni, catalogo della mostra
(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo
del Settecento veneziano) a
cura di A. Craievich, Crocetta
del Montello 2018, pp. 263-275
Crosilla 2019
G. Crosilla, Federico Bencovich,
Soncino 2019 (in corso di
stampa)
D
Da Canal 1810
V. Da Canal, Della maniera del
dipingere moderno. Memoria di
Vincenzo da Canal P.V. ora per la
prima volta pubblicata [1735], a
cura di G. Moschini, “Mercurio
filosofico e letterario e poetico”,
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Da Carlevarijs 1983
Da Carlevarijs ai Tiepolo:
incisori veneti e friulani del
Settecento, catalogo della
mostra (Gorizia, Musei
provinciali, Palazzo Attems;
Venezia, Museo Correr) a cura
di D. Succi, Venezia 1983
d’Agliano 2010
A. d’Agliano, The Cozzi porcelain
factory in Venice, in Fascination
of fragility. Masterpieces of
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della mostra (Berlino, Museum
Ephraim-Palais) a cura di Th.
Witting, U. Pietsch, Leipzig
2010, pp. 278-284
Dal Carlo 1988
E. Dal Carlo, La porcellana
veneziana vero “antidoto contro
la decadenza”: Vezzi, Hewelcke,
Cozzi a Ca’ Rezzonico, “Ceramica
Antica”, VIII, 1988, pp. 18-33
Dal Carlo 2012
E. Dal Carlo, Doni Diplomatici
di Federico Cristiano di Sassonia
ai Nobili Veneziani, “Studi
Veneziani”, N.S., LXVI, 2012,
pp. 377-393
Dal Carlo 2013
E. Dal Carlo, Fabbricatori di
porcellane nello Stato veneto. I
coniugi Hewelcke, in Porcellane
italiane dalla collezione Lokar
/ Italian Porcelain in the Lokar
collection, a cura di A. d’Agliano,
Cinisello Balsamo 2013, pp. 56-63
Daniels 1976
J. Daniels, Sebastiano Ricci,
Hove 1976
D’Anza 2018
D. D’Anza, I Longhi di Giovanni
Grimani, in Venezia e San
Pietroburgo. Artisti, principi e
mercanti, catalogo della mostra
(Mestre, Centro Culturale
Candiani) a cura di I. Artemieva, A.
Craievich, Venezia 2018, pp. 29-35
Debomy 2013
P.L. Debomy, Tobacco leaves and
Pseudo, Lavaur 2013
de Brosses 1973
C. de Brosses, Viaggio in Italia.
Lettere familiari, Roma-Bari 1973
Deckers 2010
R. Deckers, Die Testa velata in
der Barockplastik: zur Bedeutung
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zwichen Trauer, Allegorie und
Sinnlichkeit, Münich 2010
De gouden 1991
De gouden schemer van
Venetië: een portret van de
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(Amsterdam, Historisch
Museum) a cura di D. Meijers,
‘s-Gravenhage 1991
De Grassi 1996
M. De Grassi, Libri illustrati del
Settecento Veneziano, catalogo
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Del Negro 1993
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di A. Mariuz, G. Pavanello, G.
Romanelli, Milano 1993, pp.
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Del Negro 2000
P. Del Negro, L’Accademia
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origini al 1806, in Antonio
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artistico fra Venezia, Roma e
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Del Negro 2005
P. Del Negro, La crisi del
collegio degli scultori veneziani
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Antonio Canova. La cultura
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Convegno Nazionale (Bassano
del Grappa, 25-28 settembre
2001), a cura di F. Mazzocca,
G. Venturi, Bassano del
Grappa 2005, pp. 7-23
Del Negro 2015
P. Del Negro, L’Accademia
di belle arti di Venezia dalle
origini al 1806, in L’Accademia
di belle arti di Venezia. Il
Settecento, a cura di G.
Pavanello, I, Crocetta del
Montello 2015, pp. 73-100
Delorenzi 2009-2010
P. Delorenzi, Alessandro
Longhi, pittore e incisore del
Settecento veneziano, tesi di
dottorato, Università Ca’
Foscari di Venezia, a.a. 2009-
2010, tutor S. Marinelli
Delorenzi 2016
P. Delorenzi, Una divinità nella
bottega dello scrittore. Cronache
d’arte tra Sei e Settecento dalla
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memorie di storia dell’arte”, 40,
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Delorenzi, Pizzati 2016-2017
P. Delorenzi, A. Pizzati,
Adamo, Eva ed il Guerriero.
Vicende storico-artistiche,
critiche e conservative delle
statue di Antonio Rizzo,
“Bollettino dei Musei Civici
Veneziani”, ser. III, 11-12,
2016-2017, pp. 74-110
De Lotto 2010
M.T. De Lotto, Novità su
Giovanni Marchiori e sulla Saffo
per Francesco Algarotti, “Arte
Veneta”, 67, 2010, pp. 172-182
De Vincenti 1996
M. De Vincenti, Antonio Tarsia
(1622-1739), “Venezia Arti”, 10,
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De Vincenti 1999
M. De Vincenti, Nuovi
contributi per il catalogo di
Giovanni Maria Morlaiter,
“Saggi e memorie di storia
dell’arte”, 23, 1999, pp. 31-82
De Vicenti 2002
M. De Vincenti, “Piacere ai
dotti e ai migliori”. Scultori
classicisti del primo ‘700, in La
scultura veneta del Seicento e del
Settecento. Nuovi studi, Atti della
Giornata di Studio (Venezia,
Istituto Veneto di Scienze,
Lettere e Arti, 30 novembre
2001) a cura di G. Pavanello,
Venezia 2002, pp. 221-281
De Vincenti 2003-2004
M. De Vincenti, “Compagni
nel studio”: Gaetano Susali e
Francesco Cadorin, scultori
veneziani, “Venezia Arti”, 17-18,
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De Vincenti 2010
M. De Vincenti, Giovanni
Maria Morlaiter “alter ego” di
Sebastiano Ricci in scultura,
in Sebastiano Ricci. Il trionfo
dell’invenzione nel Settecento
veneziano, catalogo della mostra
(Venezia, Fondazione Cini) a
cura di G. Pavanello, Venezia
2010, pp. 136-146
De Vincenti 2011a
M. De Vincenti, Catalogo del
“fondo di bottega” di Giovanni
Maria Morlaiter, “Bollettino dei
Musei Civici Veneziani”, ser. III,
6, 2011, pp. 12-77
De Vincenti 2011b
M. De Vincenti, Il “prodiggioso”
mausoleo dei dogi Valier ai Santi
Giovanni e Paolo, “Arte Veneta”,
68, 2011, pp. 143-163
De Vincenti 2011c
M. De Vincenti, Storia del
“fondo di bottega” di Giovanni
Maria Morlaiter nel Museo del
Settecento Veneziano di Ca’
Rezzonico, “Bollettino dei Musei
Civici Veneziani”, ser. III, 6,
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De Vincenti 2012
M. De Vincenti, Storie della vita
di San Domenico, in La Basilica
dei Santi Giovanni e Paolo.
Pantheon della Serenissima, a
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De Vincenti 2015
M. De Vincenti, Antonio
Bonazza e l’ingresso della
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della villa veneta, in Antonio
Bonazza e la scultura veneta del
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di Studi (Padova, Museo
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a cura di C. Cavalli, A. Nante,
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De Vincenti 2017
M. De Vincenti, L’Adorazione
dei Magi di Giovanni Bonazza. I
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Venezia, Milano 2017
De Vincenti, Guerriero 2008
M. De Vincenti, S. Guerriero, Per
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da Giardino, IV, “Arte Veneta”,
65, 2008, pp. 278-290
De Vincenti, Guerriero 2009
M. De Vincenti, S. Guerriero,
Intagliatori e scultura lignea
nel Settecento a Venezia, in Con
il legno e con l’oro. La Venezia
artigiana degli intagliatori,
battiloro e doratori, a cura di
G. Caniato, Verona 2009, pp.
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De Vito Battaglia 1931
S. De Vito Battaglia, Le opere
di G.B. Tiepolo nella chiesa
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Archeologia e Storia dell’arte”, 3,
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Dezallier d’Argenville 1762
A.J. Dezallier d’Argenville,
Abregé de la vie des plus fameux
peintres, Paris 1762
Disegni 1963
Disegni, incisioni e bozzetti
del Carlevarjis, catalogo della
mostra (Udine, Loggia del
Lionello; Roma, Gabinetto
Nazionale delle Stampe) a cura
di A. Rizzi, Udine 1963
Disegni 1985
Disegni dalle collezioni del
Museo Correr XV-XIX secolo,
catalogo della mostra (Venezia,
Fondazione Giorgio Cini) a cura
di G. Romanelli, T. Pignatti,
Venezia 1985
Disegni antichi 1980
Disegni antichi del Museo Correr
di Venezia, I (Aliense-Crosato), a
cura di T. Pignatti,
Venezia 1980
Disegni antichi 1981
Disegni antichi del Museo Correr
di Venezia, II (Dall’Oglio-
Fontebasso), a cura di T.
Pignatti, Venezia 1981
Disegni antichi 1983
Disegni antichi del Museo Correr
di Venezia, III (Galimberti-
Guardi), a cura di T. Pignatti,
Venezia 1983
Disegni antichi 1987
Disegni antichi del Museo Correr
di Venezia, IV (Guercino-
Longhi), a cura di T. Pignatti,
Venezia 1987
Disegni antichi 1996
Disegni antichi del Museo Correr
di Venezia, V (Loth-Rubens), a
cura di T. Pignatti,
Venezia 1996
Disegni veneti 1981
Disegni veneti della collezione
Lugt, catalogo della mostra
(Venezia, Fondazione Giorgio
Cini) a cura di J. Byam Shaw,
Venezia 1981
Disegni veneti 1988
Disegni veneti dell’Ecole des
Beaux-Arts di Parigi, catalogo
della mostra (Venezia,
Fondazione Giorgio Cini) a cura
di A. Bettagno, Vicenza 1988
Dizionario 1779
Dizionario del diritto comune e
veneto, V, Venezia 1779
Domenico Tiepolo’s Pulchinello
1979
Domenico Tiepolo’s Pulchinello
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(Bloomington, Art Museum;
Stanford, Museum of Art) a cura
di A.M. Gealt, Bloomington
1979
Drawings 1985
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(New York, Drawing Center) a
cura di T. Pignatti, G. Romanelli,
London 1985
Dreyer 1985
P. Dreyer, Vedute.
Architektonisches Capriccio
und Landschaft in der
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18. Jahrhunderts, catalogo
della mostra (Berlino,
Kupferstichkabinett), Berlin
1985
E
Éblouissante Venise 2018
Éblouissante Venise, les Arts et
l’Europe au XVIII e siècle, catalogo
della mostra (Paris, Grand Palais,
Galeries nationales) a cura di C.
Loisel, Paris 2018
Elbflorenz 1997
Elbflorenz: Italienische Präsenz in
Dresden 16.-19. Jahrhundert, Atti
del Convegno (Dresda, 30-31
maggio 1997) a cura di B. Marx,
Dresden 2000
Europäisches Rokoko 1958
Europäisches Rokoko. Kunst
und Kultur des 18. Jahrhunderts,
catalogo della mostra (Monaco
di Baviera, Residenz), München
1958
F
Fanti e denari 1989
Fanti e denari. Sei secoli di giochi
d’azzardo a Venezia, catalogo
della mostra (Venezia, Casinò
Municipale) a cura di A. Fiorin,
Venezia 1989
Fapanni 1838
F.S. Fapanni, Intorno tredici
quadri di costume veneziano
dipinti da Pietro Longhi, “Il
Vaglio”, 38, 22 settembre, 1838,
pp. 306-308
Farinati 1991
V. Farinati, Architettura e
committenza nel primo Settecento
veneziano: l’intervento di Andrea
Tirali in palazzo Priuli Manfrin a
Cannaregio (1724-1731), “Annali di
architettura”, 3, 1991, pp. 113-131
Farinati 1992
V. Farinati, Interni e architettura
nel primo Settecento veneziano:
palazzo Priuli Manfrin a
Cannaregio, “Venezia Arti”, 6,
1992, pp. 53-66
Farinati 2011
V. Farinati, La scuola di
Andrea Musalo, Andrea Tirali
e l’ampliamento settecentesco di
palazzo Priuli a Cannaregio, in
Da Longhena a Selva: un’idea
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di M. Frank, Venezia 2011, pp.
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Favaro 1975
E. Favaro, L’arte dei pittori in
Venezia e i suoi statuti, Firenze
1975
Favilla, Rugolo 2004-2005
M. Favilla, R. Rugolo, Frammenti
dalla Venezia barocca, “Atti
dell’Istituto Veneto di Scienze,
Lettere ed Arti”, CLXIII, 2004-
2005, pp. 47-138
Favilla, Rugolo 2008
M. Favilla, R. Rugolo,
Un’architettura di “scientifica
semplicità”. Tommaso Temanza e
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Favilla, Rugolo 2011
M. Favilla, R. Rugolo, Venezia
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2011
Favilla, Rugolo 2013
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Favilla, Rugolo 2016
M. Favilla, R. Rugolo, “La charité
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di Antonio Balestra tra Barocco e
Barocchetto, in Antonio Balestra
nel segno della grazia, catalogo
della mostra (Verona, Museo
di Castelvecchio) a cura di A.
Tomezzoli, Verona 2016, pp. 35-51
Federici 1803
D.M. Federici, Memorie trevigiane
sulle opere di disegno dal Mille e
Cento al Mille e Ottocento. Per
servire alla storia delle Belle Arti
d’Italia, II, Venezia 1803
Feldman 2015
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Reflections on Natures and Kinds,
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Finberg 1921
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Focillon 1964
H. Focillon, Giovanni Battista
Piranesi, Paris 1964
“Foglio di Foligno” 1721
“Foglio di Foligno”, 52, 26
dicembre 1721
“Foglio di Foligno” 1722
“Foglio di Foligno”, 41, 9 ottobre
1722
Fogolari 1913
G. Fogolari, L’Accademia
veneziana di pittura e scoltura del
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Fontana 1995
V. Fontana, Venezia:
trasformazioni delle residenze
signorili fra ’600 e ’700, in L’uso
dello spazio privato nell’età
dell’Illuminismo, a cura di G.
Simoncini, I, Firenze 1995, pp.
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Fragile Diplomacy 2007
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Porcelain for European Courts,
ca. 1710-63, catalogo della
mostra (New York, The Bard
Graduate Center for Studies in
the Decorative Arts, Design, and
Culture) a cura di M. Cassidy-
Geiger, New Haven 2007
Francesco Guardi 1993
Francesco Guardi: vedute, capricci,
feste, catalogo della mostra
(Venezia, Fondazione Giorgio
Cini) a cura di A. Bettagno,
Milano 1993
Francesco Guardi 2012
Francesco Guardi 1712-1793,
catalogo della mostra (Venezia,
Museo Correr) a cura di A.
Craievich, F. Pedrocco, Milano
2012
Frank 1996
M. Frank, Virtù e fortuna: il
mecenatismo e le committenze
artistiche della famiglia Manin
tra Friuli e Venezia nel XVII e
XVIII secolo, Venezia 1996
Freddolini 2013
F. Freddolini, Giovanni Baratta
1670 -1747. Scultura e industria
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corti d’Europa, Roma 2013
Freitas 2009
R. Freitas, An Erotic Image of
the Castrato Singer, in Italy’s
Eighteenth Century: Gender and
Culture in the Age of the Grand
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Wassing Roworth, C.M. Sana,
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C. Friedrichs, Francesco
Guardi – Venezianische feste
und Zeremonien. Die
Inszenierung der Republik
in Festen und Bildern, Berlin
2006
G
Gallo 1953
R. Gallo, Giuseppe Briati e l’arte
del vetro a Murano nel XVIII
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Garas 1971
K. Garas, Giovanni Antonio
Pellegrini in Deutchland, in Studi
in onore di Antonio Morassi,
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J. Gash, C. Beddington,
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father at Aberdeen University,
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Gealt 1986
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Gemin, Pedrocco 1993
M. Gemin, F. Pedrocco,
Giambattista Tiepolo. I dipinti.
Opera completa, Venezia 1993
Geminiano Cozzi 2016
Geminiano Cozzi e le sue
porcellane, catalogo della mostra
(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo
del Settecento veneziano) a cura di
M. Ansaldi, A. Craievich, Crocetta
del Montello 2016
G.B. Piazzetta 1983
G.B. Piazzetta. Disegni-
Incisioni-Libri-Manoscritti,
catalogo della mostra (Venezia,
Fondazione Giorgio Cini) a cura
di A. Bettagno, Vicenza 1983
Giambattista Piazzetta 1983
Giambattista Piazzetta. Il suo
tempo, la sua scuola, catalogo
della mostra (Venezia, Palazzo
Vendramin Calergi), Venezia
1983
Giambattista Tiepolo 1988
Giambattista Tiepolo. Disegni
dai Civici Musei di Storia ed Arte
di Trieste, catalogo della mostra
(Trieste, Museo Civico Sartorio)
a cura di A. Rizzi, Milano 1988
Giambattista Tiepolo 1996
Giambattista Tiepolo. 1696-1996,
catalogo della mostra (Venezia,
Ca’ Rezzonico, Museo del
Settecento veneziano; New York,
The Metropolitan Museum of
Art), Milano 1996
Giambattista Tiepolo 1998
Giambattista Tiepolo 1696-1770,
catalogo della mostra (Paris,
Musée du Petit Palais) a cura di S.
Loire, J. De Los Llanos, Paris 1998
Giambattista Tiepolo 2012
Giambattista Tiepolo “il miglior
pittore di Venezia”, catalogo
della mostra (Passariano, Villa
Manin) a cura di G. Bergamini,
A. Craievich, F. Pedrocco,
Passariano 2012
Giandomenico Tiepolo 1996
Giandomenico Tiepolo. Maestria
e gioco. Disegni dal mondo,
catalogo della mostra (Udine,
Castello) a cura di A.M. Gealt, G.
Knox, Milano 1996
Giandomenico Tiepolo 2005
Giandomenico Tiepolo. Scene di
vita quotidiana a Venezia e nella
terraferma, a cura di A.M. Gealt,
G. Knox, Venezia 2005
Giovanni Volpato 1988
Giovanni Volpato 1735-1803,
catalogo della mostra (Bassano,
Museo Civico di Bassano del
Grappa; Roma, Gabinetto
Nazionale dei Disegni e delle
Stampe) a cura di G. Marini,
Bassano del Grappa 1988
Giulia Lama 2018
Giulia Lama 1681-1747, nudi.
Opere del Gabinetto dei disegni e
delle stampe del Museo Correr di
Venezia, catalogo della mostra
(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo
del Settecento veneziano) a cura
di A. Craievich, Venezia 2018
Gli affreschi 1978
Gli affreschi nelle ville venete. Dal
Seicento all’Ottocento, testi di F.
D’Arcais, F. Zava Boccazzi, G.
Pavanello, 2 voll., Venezia 1978
Gli affreschi 2010
Gli affreschi nelle ville venete.
Il Settecento, I, a cura di G.
Pavanello, Venezia 2010
Gli incisori veneti 1941
Gli incisori veneti del Settecento,
catalogo della mostra (Venezia,
teatro del Ridotto) a cura di R.
Pallucchini, Venezia 1941
Goi 1990
P. Goi, Giuseppe Torretti nella
Cappella Manin di Udine,
“Restauro nel Friuli Venezia
Giulia”, 2, 1990, pp. 9-63
Goldoni 1764
C. Goldoni, Il Burchiello di Padova
in occasione delle nozze di sua
Eccellenza il Sig. Alvise Priuli e
la Nobil donna contessa Lucrezia
Manin, in Delli componimenti
diversi di Carlo Goldoni avvocato
veneto, I, Venezia 1764, pp. 184-
204
González-Palacios 1986
A. González-Palacios, Il Tempio
del gusto. Le arti decorative in
Italia fra classicismo e barocco. Il
Granducato di Toscana e gli stati
settentrionali, Milano 1986
González-Palacios 2016
A. González-Palacios, Vittorio
Cini: il gusto, la decorazione, le
opere d’arte, in La Galleria di
Palazzo Cini. Dipinti, sculture,
oggetti d’arte, a cura di A. Bacchi,
A. De Marchi, Venezia 2016, pp.
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Gorian 2006
R. Gorian, Testo e immagine
nei periodici antichi. Le testate
politiche veneziane (XVII-XVIII
secolo), in Storia per parole e per
immagini, a cura di U. Rozzo, M.
Gabriele, Udine 2006, pp. 267-299
Gorizia 2008
Gorizia e il Friuli tra Venezia
e Vienna. Libri illustrati del
Settecento, catalogo della mostra
(Gorizia, Castello) a cura di M. De
Grassi, Gorizia 2008
Gozzi 1761
G. Gozzi, “L’Osservatore Veneto”,
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Minerva” e Venezia: “la più
saggia, la più giusta, la più forte
di tutte le Repubbliche”, “Cahiers
d’études romanes”, 12, 2005,
pp. 13-24
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della Cappella del Rosario ai
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memorie di storia dell’arte”, 19,
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S. Guerriero, Le alterne
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La scultura veneta del Seicento
e del Settecento. Nuovi studi,
Atti della Giornata di Studio
(Venezia, Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti, 30
novembre 2001) a cura di G.
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S. Guerriero, Il collezionismo
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Seicento, a cura di L. Borean S.
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Guerriero 2009
S. Guerriero, Per un repertorio
della scultura veneta del Sei e
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di storia dell’arte”, 33, 2009, pp.
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Guerriero 2015
S. Guerriero, Antonio Corradini
a Waddesdon Manor, in Venezia
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Alessandro Bettagno,
a cura di B.A. Kowalczyk,
Cinisello Balsamo 2015,
pp. 95-101
Guerriero 2018
S. Guerriero, Sculpteurs
Vénitiens pour les cours et les
collectionneurs d’Europe, in
Éblouissante Venise, les Arts et
l’Europe au XVIII e siècle, catalogo
della mostra (Paris, Grand
Palais, Galeries nationales) a
cura di C. Loisel, Paris 2018, pp.
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H
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Hunecke 1997
V. Hunecke, Il corpo
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Il collezionismo 2009
Il collezionismo d’arte a Venezia. Il
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Il fasto e la ragione 2009
Il fasto e la ragione. Arte del
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mostra (Firenze, Galleria degli
Uffizi) a cura di C. Sisi, R. Spinelli,
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Il giovane Tiepolo 2011
Il giovane Tiepolo. La scoperta della
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Il gran teatro 2003
Il gran teatro del mondo. L’anima e
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Il libro illustrato 1955
Il libro illustrato nel Settecento a
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Il mondo di Giacomo Casanova. Un
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catalogo della mostra (Venezia, Ca’
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veneziano), Venezia 1998
Il Settecento 1929
Il Settecento italiano: catalogo
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I Pisani Moretta 2015
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Klemenčič 2005
M. Klemenčič, Antonio Corradini:
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viaggio 1600-1750: presenze foreste
in Friuli Venezia Giulia, Atti del
Convegno Nazionale (Udine,
Università di Udine; Passariano,
Villa Manin, 21-23 ottobre 2004) a
cura di M.P. Frattolin, Udine 2005,
pp. 289-304
Klemenčič 2013
M. Klemenčič, Francesco Robba
(1698-1757): a Venetian sculptor
and architect in Baroque Ljubljana,
Maribor 2013
Klemenčič 2016
M. Klemenčič, Antonio Corradini,
the Collegio dei Scultori, and Neo-
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A. Badiee Banta, London-New York
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B.A. Kowalczyk, Il “prezioso”
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Knox 1995
G. Knox, Antonio Pellegrini 1675-
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Kruglov 2007
A.V. Kruglov, “Statua marmorea
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L
La bella Italia 2011
La bella Italia, arte e identità
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L’Accademia di Belle Arti di Venezia.
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La ceramica degli Antonibon, a cura
di G. Ericani, P. Marini, N. Stringa,
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1950
La porcellana di Venezia 1998
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Vezzi, Hewelcke, Cozzi, catalogo
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Galbusera, M.A. Marchetto, F.
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L’arte di presentarsi 1985
L’arte di presentarsi. Il biglietto
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Paolo Miscatelli Mocenigo Soranzo,
catalogo della mostra (Roma,
Palazzo Braschi), Roma 1985
La tragedia 1827
La tragedia di Antonio Foscarini
di Giambattista Niccolini presa in
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giuntavi un’aringa inedita di Marco
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Lauber 2011
R. Lauber, Il mercante vende ai
britannici un migliaio di opere;
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“Venezia Altrove. Almanacco della
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10, 2011, pp. 115-144
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La vendita 2013
La vendita Tiepolo. Parigi 1845, a
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La vita 2018
La vita come opera d’arte. Anton
Maria Zanetti e le sue collezioni,
catalogo della mostra (Venezia, Ca’
Rezzonico, Museo del Settecento
veneziano) a cura di A. Craievich,
Venezia 2018
Le capitali 2007
Le capitali della festa, a cura di M.
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Le cere 2012
Le cere nelle collezioni dei Musei
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Tonini, D. Cristante, “Bollettino
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L’editoria 1984
L’editoria illustrata veneziana del
Settecento. Gli autori friulani,
catalogo della mostra (Grado) a
cura di M. De Grassi,
Udine 1984
392 — CANALETTO & VENEZIA —
— BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE ESPOSTE — 393
Le incisioni 1981
Le incisioni di Michele Marieschi
(1710-1743) vedutista veneziano,
catalogo della mostra (Gorizia,
Museo Provinciale di Palazzo
Attems) a cura di D. Succi,
Gorizia 1981
Lenzo 2012
F. Lenzo, Venezia, in Storia
dell’architettura nel Veneto: Il
Settecento, a cura di E. Kieven,
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Lenzo 2016
F. Lenzo, Oltre Palladio. La
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a cura di S. Marini, Sesto San
Giovanni 2016, pp. 26-43
Le porcellane 1936
Le porcellane di Venezia e delle
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(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo
del Settecento veneziano), a cura
di N. Barbantini, Venezia 1936
Le porcellane 2014
Le porcellane di Marino Nani
Mocenigo, catalogo della mostra
(Venezia, Ca’ Rezzonico, Museo
del Settecento veneziano) a
cura di M. Ansaldi, A. Craievich,
Verona 2014
Les dessins 1990
Les dessins vénetiens des collections
de l’École des Beaux-Arts, catalogo
della mostra (Parigi, École
Nationale Supérieure des Beaux-
Arts), Paris 1990
Les Sculptures 2006
Les Sculptures européenne du
Musée du Louvre, a cura di G.
Bresc-Bautier, Paris 2006
Lettere artistiche 2002
Lettere artistiche del Settecento
veneziano. I, a cura di A.
Bettagno, M. Magrini, Vicenza
2002
Lettere artistiche 2009
Lettere artistiche del Settecento
veneziano, 4, Owen McSwiny’s
letters 1720-1744, a cura di T.D.
Llwellyn, Venezia 2009
Lettere di Apostolo Zeno 1752
Lettere di Apostolo Zeno Cittadino
Veneziano Istorico e Poeta Cesareo,
nelle quali si contengono molte
notizie attenenti all’ Istoria
Letteraria de’ suoi tempi; e si
ragiona di Libri, d’Iscrizioni, di
Medaglie, e d’ogni genere d’erudita
Antichità, III, Venezia 1752
Levey 1959
M. Levey, Painting in Eighteenth
Century Venice, London 1959
(edizione italiana Milano 1996)
Levey 1971
M. Levey, National Gallery
Catalogues. The Seventeenth
and Eighteenth Century Italian
schools, London 1971
Levey 1973
M. Levey, The Venetian Scene,
London 1973
Levey 1986
M. Levey, Giambattista Tiepolo.
His Life and His Art, New Haven-
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Milano 1986)
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Luca Carlevarijs 1995
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i Beni Ambientali e Architettonici,
Archeologici, Artistici e Storici del
Friuli-Venezia Giulia) a cura di I.
Reale, Venezia 1995
Luca Carlevarijs 2007
Luca Carlevarijs 1663-1730. Navi
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Lucchese 2017
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Manzelli 2002
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Mariuz 1986
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Orlandi 1753
P.A. Orlandi, Abecedario pittorico
del P.R.P. Pellegrino Antonio
Orlandi bolognese contenente le
Notizie de’ Professori di Pittura,
Scoltura, ed Architettura in questa
edizione corretto e notabilmente di
nuove Notizie accresciuto da Pietro
Guarienti accademico clementino,
ed inspettore della Regia Galleria
di S.M. Federico Augusto III.
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confortate di pianto”. Antonio Canova
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alla Kunstbibliotek di Berlino (II),
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Succi 2016
D. Succi, Michele Marieschi. Opera
completa, Azzano Decimo 2016
D. Succi, Il Bucintoro nella grande
arte della Serenissima, Treviso
2017
T
Tassi 1793
F.M. Tassi, Vite de’ pittori, scultori,
architetti bergamaschi scritte dal
conte cavalier Francesco Maria
Tassi. Opera postuma, Bergamo
1793
Tassini 1879
G. Tassini, Alcuni palazzi
ed antichi edifici di Venezia
storicamente illustrati, Venezia
1879
Teste di fantasia 2006
Teste di fantasia del Settecento
veneziano, catalogo della mostra
(Venezia, Galleria di Palazzo Cini
a San Vio) a cura di R. Mangili, G.
Pavanello, Venezia 2006
Temanza 1778
T. Temanza, Vite dei più eccellenti
architetti, Venezia 1778
Temanza 1963
T. Temanza, Zibaldon (1738-1778),
a cura di N. Ivanoff, Venezia-Roma
1963
The Collections 1996
The Collections of the National
Gallery of Art Systematic
Catalogue: Italian Paintings of
the Seventeenth and Eighteenth
Centuries, a cura di D. De Grazia et
alii, Washington DC 1996
The Glory 1994
The Glory of Venice. Art in the
Eighteenth Century, catalogo della
mostra (Londra, Royal Academy of
Arts; Washington, National Gallery
of Art) a cura di J. Martineau, A.
Robinson, London 1994 (edizione
italiana Milano 1994)
Tiepolo 2004
Tiepolo. Ironia e comico, catalogo
della mostra (Venezia, Fondazione
Giorgio Cini) a cura di A. Mariuz,
G. Pavanello, Venezia 2004
Tiepolo. Piazzetta. Novelli 2012
Tiepolo. Piazzetta. Novelli.
L’incanto del libro illustrato del
Settecento veneto, catalogo della
mostra (Padova, Musei Civici agli
Eremitani, Palazzo Zuckermann)
a cura di V.C. Donvito, D. Ton,
Crocetta del Montello 2012
Toffoluti 1985
R. Toffoluti, Ca’ Venier dei Leoni,
in Terza mostra internazionale di
architettura. Progetto Venezia, II,
Milano 1985, pp. 464-467
R. Toledano, Michele Marieschi:
catalogo ragionato, II edizione,
Milano 1995
Ton 2004
D. Ton, Tiepolo e Vico: il “Trionfo
dell’Eloquenza” in palazzo Sandi,
“Arte Veneta”, 61, 2004, pp. 110-123
Ton 2009
D. Ton, Due “historie” di Gaspare
Diziani ad Ansbach, in L’impegno e la
conoscenza. Studi di storia dell’arte in
onore di Egidio Martini, a cura di F.
Pedrocco, A. Craievich, Verona 2009,
pp. 331-335
Ton 2011
D. Ton, Padova, in La pittura nel
Veneto. Il Settecento di Terraferma,
a cura di G. Pavanello, Milano
2011, pp. 15-54
Ton 2012
D. Ton, Giambattista Crosato.
Pittore del rococò europeo, Verona
2012
Tonini 2007
C. Tonini, I lattimi veneziani
smaltati del XVIII secolo e i
rapporti iconografici con le
incisioni, “Journal of glass studies”,
49, 2007, pp. 127-142
Toso 2018
V. Toso, Un abate “libero
pensatore” nella Venezia di fine
Seicento. Antonio Conti e i suoi
Sermoni presso la Congregazione
della “Fava”, tesi di dottorato,
Università Ca’ Foscari di Venezia,
2018
Toutain Quittelier 2017
V. Toutain Quittelier, Le Carnaval,
la Fortune et la Folie. La rencontre
de Paris et Venise à l’aube des
Lumières, Paris 2017
U
Une Venise imaginaire 1991
Une Venise imaginaire.
Architectures, vues et scènes
capricieuses dans la gravure
vénitienne du XVIII e siècle, catalogo
della mostra (Genève, Cabinet des
Estampes) a cura di R.M. Mason,
Genève 1991
Un Suédois 2016
Un Suédois à Paris au XVIIIe siècle.
La collection Tessin, a cura di G.
Faroult, X. Salmon, J. Trey, Paris
2016
Urban 2003
L. Urban, Teatri in tavola. Ossia
“trionfi” sulle tavole dogali, “Studi
Veneziani”, XXV, 2003, pp. 169-
216
L. Urban, Banchetti veneziani dal
Rinascimento al 1797, San Vito di
Cadore 2007
Urban 2009
L. Urban, Intagliatori e doratori
del bucintoro del Settecento, in
Con il legno e con l’oro: la Venezia
artigiana degli intagliatori,
battiloro e doratori, a cura di
G. Caniato, Verona 2009, pp.
175-186
Urbani de Gheltof 1879
G.M. Urbani de Gheltof, Tiepolo e
la sua famiglia: note e documenti
inediti, Venezia 1879
V
Valcanover 1956
F. Valcanover, Affreschi sconosciuti
di Pietro Longhi, “Paragone”, 73,
1956, pp. 21-26
Venedig-Dresden 2010
Venedig-Dresden / Begegnung
zweier Kulturstädte, a cura di
B. Marx, A. Henning, Dresden-
Leipzig 2010
Venezia 1978
Venezia nell’età di Canova 1780-
1830, catalogo della mostra
(Venezia, Museo Correr) a cura di
E. Bassi et alii, Venezia 1978
Venezia 1993
Venezia 1717 Venezia 1993
immagini a confronto, catalogo
della mostra (Venezia, Palazzo
Ducale) a cura di U. Franzoi,
M.G. Montessori, A. Bonannini,
Cinisello Balsamo 1993
Venezia! 2002
Venezia! Kunst aus venezianischen
Palästen, catalogo della mostra
(Bonn, Bundeskunsthalle) a cura
di J. Frings, Bonn 2002
Venezia Settecento 2015
Venezia Settecento. Studi in
memoria di Alessandro Bettagno,
a cura di B.A. Kowalczyk, Verona
2015
Venice 1998
Venice through Canaletto’s Eye,
catalogo della mostra (Londra,
The National Gallery; York, York
City Art Gallery; Swansea, Glynn
Vivian Art Gallery) a cura di D.
Bomford, G. Finaldi, London-
New Haven 1998
Venice 2010
Venice in the Age of Canaletto,
catalogo della mostra (Memphis
Brooks Museum of Arts) a cura di
A. Libby, M. Pacini, S. Thomas,
Memphis 2010
Venice: Canaletto and his Rivals,
catalogo della mostra (Londra,
National Gallery; Washington,
National Gallery) a cura di C.
Beddington, A. Bradley, New
Haven 2010
Venise au dix-huitième siècle
1971
Venise au dix-huitième siècle.
Peintures, dessins et grauvures des
collections francaises, catalogo
della mostra (Parigi, Orangeries
des Tuileries) a cura di M.
Laclotte, Parigi 1971
Venise, l’art 2006
Venise, l’art de la Serenissima.
Dessins des XVIIe et XVIIIe
siècle, catalogo della mostra
(Montpellier, Musée Fabre; Paris,
Musée du Louvre) a cura di C.
Loisel, Montreuil 2006
Viancini 1994
E. Viancini, Per Francesco Bertos,
“Saggi e memorie di storia
dell’arte”, 19, 1994, pp. 141-159
Visentini 1771
A. Visentini, Osservazioni di
Antonio Visentini architetto veneto
che servono di continuazione al
trattato di Teofilo Gallaccini sopra
gli errori degli architetti, Venezia
1771
Vitale D’Alberton 2005
R. Vitale D’Alberton, I giardini di
cera della Serenissima. Gio. Batta
Talamini, un originale ceroplasta
nella Venezia del Settecento,
“Studi Veneziani”, N.S., L, 2005,
pp. 301-337
Vitale D’Alberton 2010
R. Vitale D’Alberton, Gli ultimi
artigiani della Repubblica, “Studi
Veneziani”, LIX, 2010, pp. 577-
648
Vittorio Amedeo Cignaroli 2001
Vittorio Amedeo Cignaroli: un
paesaggista alla corte di Savoia
e la sua epoca, catalogo della
mostra (Torino, Museo di Arti
Decorative) a cura di A. Cottino,
Torino 2001
Voltolina 1998
P. Voltolina, La storia di Venezia
attraverso le medaglie, III, Venezia
1998
Voyages 1894
Voyages de Montesquieu, a cura di A.
de Montesquieu, I, Bordeaux 1894
W
Waagen 1838
G.F. Waagen, Kunstwerke und
Künstler in England, Berlin 1838
G.F. Waagen, Treasures of art in
Great Britain, London 1854
Walker 1973
R.J.B. Walker, Audley End,
Catalogue of Pictures in the State
Rooms, London 1973
Watson 1956
F.J.B. Watson, Wallace Collection
Catalogues: Furniture, London
1956
White 1959-1960
E.W. White, The Reharsal of an
opera, “Theatre Notebook”, XIV,
3, 1959-1960, pp. 79-90
Whistler 2004
C. Whistler, Life Drawing in
Venice from Titian to Tiepolo,
“Master Drawings”, XLII, 4, 2004,
pp. 370-396
Whistler 2015
C. Whistler, Drawing in Venice
Titian to Canaletto,
Oxford 2015
Whistler 2016
C. Whistler, Venice and drawing,
c. 1500-1800. Theory, Practice and
Collecting, New Haven 2016
Williams 2014
H. Williams, Turquerie. An
Eighteenth-Century European
Fantasy, London 2014
Wilton-Ely 1994
J. Wilton-Ely, Piranesi, Milano
1994
Z
Zamboni 1778
B.C. Zamboni, La libreria
di S.E. il N.U. signor Leopardo
Martinengo patrizio veneziano
conte di Barco, condomino di
Villanuova, feudatario di
Pavone, e signore di Clanesso,
cogli uomini illustri della
chiarissima famiglia Martinengo
umiliata al medesimo cavaliere
dalla spettabile comunità di
Calvisano, Brescia 1778
Zampetti 1969
P. Zampetti, Dal Ricci al Tiepolo.
I pittori di figura del Settecento
a Venezia, catalogo della mostra
(Venezia, Palazzo Ducale),
Venezia 1969
Zanetti 1733
A.M. Zanetti, Descrizione di tutte
le pubbliche pitture della città
di Venezia e Isole circonvicine,
Venezia 1733
A.M. Zanetti, Della pittura
veneziana e delle opere pubbliche
de’ veneziani maestri libri V,
Venezia 1771
Zanuso 2000
S. Zanuso, Antonio Tarsia, in
Scultura a Venezia da Sansovino
a Canova, a cura di A. Bacchi,
Milano 2000, ad vocem
Zava Boccazzi 1979
F. Zava Boccazzi, Pittoni, l’opera
completa, Venezia 1979
Zava Boccazzi 1983
F. Zava Boccazzi, Episodi di pittura
veneziana a Vienna nel Settecento,
in Venezia Vienna, a cura di G.
Romanelli, Milano 1983, pp. 25-88
Zava Boccazzi 1986
F. Zava Boccazzi, Residenze e
gallerie. Committenza tedesca di
pittura veneziana nel Settecento,
in Venezia e la Germania. Arte,
politica, commercio, due civiltà a
confronto, Milano 1986, pp. 171-216
Zava Boccazzi 1990
F. Zava Boccazzi, I veneti alla
galleria Conti (1704-1707), “Saggi
e memorie di storia dell’arte”, 17,
1990, pp. 107-152, 313-321
Zecchin 1987-1990
L. Zecchin, Vetro e vetrai di
Murano: studi sulla storia del vetro,
3 voll., Venezia 1987-1990
Zecchin 2004
P. Zecchin, I “deseri” di cristallo
a Venezia nel Settecento, “Journal
of glass studies”, 46, 2004, pp.
159-170
Zecchin 2011
P. Zecchin, Giuseppe Briati, il
più famoso vetraio veneziano
del Settecento, “Journal of glass
studies”, 53, 2011, pp. 161-175
Zugni Tauro 1971
A.P. Zugni Tauro, Gaspare Diziani,
Venezia 1971
398 —CANALETTO & VENEZIA —
— BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE ESPOSTE — 399
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nel mese di febbraio 2019
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