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ANNALI DELLA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

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<strong>ANNALI</strong> <strong>DELLA</strong> <strong>FACOLTÀ</strong><br />

<strong>DI</strong> <strong>LETTERE</strong> E <strong>FILOSOFIA</strong><br />

DELL’UNIVERSITÀ <strong>DI</strong> CAGLIARI<br />

NUOVA SERIE XXII (VOL. LIX) - 2004<br />

UNIVERSITÀ <strong>DI</strong> CAGLIARI<br />

2005


<strong>ANNALI</strong> <strong>DELLA</strong> <strong>FACOLTÀ</strong><br />

<strong>DI</strong> <strong>LETTERE</strong> E <strong>FILOSOFIA</strong><br />

DELL’UNIVERSITÀ <strong>DI</strong> CAGLIARI<br />

NUOVA SERIE XXII (VOL. LIX) - 2004<br />

SOMMARIO<br />

SILVIO SCHIRRU, La tradizione paremiografica nelle commedie di Menandro —<br />

ROBERTO CORONEO, Scultura in Sardegna dal VII al IX secolo — ALBERTO<br />

VIR<strong>DI</strong>S, Gli affreschi di San Pietro a Galtellì. Una proposta di datazione —<br />

MARCELLO TANCA, Marx e la geografia — CINELLU DANILA, I pionieri del<br />

ritualismo — FRANCESCO ATZENI, Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica<br />

e cultura nella crisi dello Stato liberale — SUSANNA SITZIA, Nietzsche e l’Orfismo<br />

nella poetica di Dino Campana — LUCA LECIS, Il secondo dopoguerra in Germania.<br />

La Chiesa cattolica ed il processo di rinascita democratica — MARIA<br />

BARBARA SPANU, Sapienza poetica e razón-poética. Osservazioni sul concetto<br />

di ragione in Giambattista Vico e María Zambrano — MARIA TERESA<br />

MARCIALIS, Esistenzialismo e idealismo Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

— GIAN LUCA SANNA, Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il<br />

criterio della “libera scelta soggettiva” — MARIA PIA LAI GUAITA, LAURA<br />

LEPORI, MICHELA PIRAS, Le Politiche per la Famiglia e le proposte legislative<br />

dei “nidi” — ALESSANDRA GUIGONI, Saperi e pratiche barbaricine sul<br />

Solanum tuberosum — IGNAZIO MACCHIARELLA, La voce a quattro: appunti<br />

sul canto ad accordo in Sardegna — ANTONIO LOI, Lassù sulle montagne dei<br />

sardi — FABIO PARASCANDOLO, Territori rurali e sostenibilità nel processo di<br />

costruzione della Sardegna turistica — PINELLA DESSÌ, Turismo, ambiente e<br />

politica nell’epoca della globalizzazione.<br />

E<strong>DI</strong>ZIONI<br />

AV<br />

CAGLIARI - 2005


Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta in qualsiasi forma a stampa,<br />

fotocopia, microfilm o altri sistemi senza il permesso dell’Autore o dell’Editore<br />

E<strong>DI</strong>ZIONI<br />

AV<br />

E<strong>DI</strong>ZIONI<br />

AV<br />

© Cagliari - 2005<br />

© Copyright 2005 - Edizioni AV di Antonino Valveri<br />

Via Pasubio n. 22/A, 29<br />

09122 Cagliari - Italia<br />

web: www.edizioniav.it<br />

e-mail: edizioniav@edizioniav.it<br />

Progetto grafico - Edizioni AV - Cagliari<br />

Fotocomposizione - Alessandro Valveri<br />

Stampa e allestimento - PRESS COLOR - QUARTU S. ELENA


SILVIO SCHIRRU<br />

LA TRA<strong>DI</strong>ZIONE PAREMIOGRAFICA<br />

NELLE COMME<strong>DI</strong>E <strong>DI</strong> MENANDRO<br />

SOMMARIO: 1. I proverbi. – 1.1. Formule introduttive. – 1.2. Struttura logica. –<br />

1.3. Proprietà formali dei proverbi. – 1.4. Contenuto dei proverbi. – 2. Le<br />

sentenze. – 2.1. Proprietà formali delle sentenze. – 2.2. Contenuto delle<br />

sentenze.<br />

Espressioni proverbiali di varia natura sono presenti in ogni genere<br />

della tradizione letteraria greca. Il loro scopo principale è quello<br />

di veicolare, in maniera verbalmente più economica ed efficace rispetto<br />

ad altre categorie espressive, la cosiddetta saggezza popolare,<br />

ovvero quell’insieme di norme e precetti (riguardanti diversi ambiti<br />

dell’esistenza) che dovrebbero regolare, o per lo meno indirizzare, la<br />

vita dei membri della società che ha prodotto quei proverbi.<br />

Sebbene si tratti di un genere universalmente noto e nonostante<br />

le raccolte di proverbi siano numerose ( 1 ), poche sono le riflessioni<br />

teoriche sull’espressione proverbiale in quanto testo letterario provvisto<br />

di peculiari caratteristiche di forma e contenuto ( 2 ). La stessa<br />

( 1 ) Tra le più recenti segnalo Der erste Teil der fünften Athos - Sammlung griechischer<br />

Sprichwörter, hrsg. von M. Spyridonidou-Skarsouli, Berlin-New York<br />

1995; M. TZIATZI-PAPAGIANNI, Die Sprüche der Sieben Weisen - Zwei byzantinische<br />

Sammlungen, Stuttgart-Leipzig 1994; Zenobii Athoi Proverbia, ed. W. Bühler,<br />

Göttingen 1982 (vol. IV), 1987 (vol. I), 1999 (vol. V); R. TOSI, Dizionario delle<br />

sentenze greche e latine, Milano 1991. È naturalmente imprescindibile il Corpus<br />

Paroemiographorum Graecorum, edd. E.L. Leutsch et F.G. Schneidewin, Göttingen<br />

1839 (vol. I), 1851 (vol. II).<br />

( 2 ) Per quanto riguarda la letteratura greca, secondo Kindstrand (p. 71) non esiste<br />

neppure una definizione efficace di “proverbio” precedente a quella di Basilio Magno<br />

di Cesarea, Homilia 13: In Principum Proverbiorum 2 (= PG, 31 col. 388 b-c):<br />

to; tw`n paroimiw`n o[noma ejpi; tw`n dhmodestevrwn lovgwn para; toi`~ e[xwqen


6<br />

SILVIO SCHIRRU<br />

definizione di proverbio o sentenza è tutt’altro che univoca ( 3 ).<br />

È pertanto importante premettere che per proverbio (paroimiva) si<br />

intende qui ( 4 ) un’espressione linguistica breve, contenente un precetto<br />

derivato dal cosiddetto “senso comune”, avente una forma definita<br />

e popolarmente nota. La sentenza (gnwvmh), espressione affine, si distingue<br />

dal proverbio principalmente per il fatto di non essere comunemente<br />

nota e perché dotata di minore valore didascalico: mentre la<br />

paroimiva esprime di per sé un insegnamento di portata “universale”,<br />

a prescindere dal tessuto testuale ed extra-testuale nel quale è collocato,<br />

la gnwvmh è una constatazione o una riflessione legata ad una situazione<br />

particolare ed è solo suscettibile di acquisire valore proverbiale se<br />

riproposta in un contesto diverso. In sostanza il valore “universale”<br />

della sentenza è strettamente vincolato alla sua collocazione effettiva e<br />

concreta: può essere considerata espressione proverbiale, ma, se estrapolata<br />

dal testo originario, tende a perdere tale valore ( 5 ).<br />

tevtaktai, kai; ejpi; tw`n ejn tai`~ oJdoi`~ laloumevnwn, wJ~ ta; pollav: oi\mo~ ga;r<br />

par∆ ajutoi`~ hJ oJdo;~ ojnomavzetai, o{qen kai; th;n paroimivan wJrivzonto, rJh` ma<br />

parovdion tetrimmevnon ejn th`/ crhv/sei tw`n pollw`n, kai; ajpo; ojlivgwn ejpi;<br />

pleivona o{moia metalefqh`nai dunavmenon. Para; de; hJmi`n paroimiva ejsti; lo;go~<br />

wjfevlimo~, met∆ ejpikruvyew~ metriva~ ejkdedomevno~, polu; me;n to; ajutovqen<br />

crhvsimon perievcwn, pollh;n de; kai; ejn tw`/ bavqei th;n diavnoian sugkaluvptwn.<br />

Kindstrand (p. 72) ipotizza che l’assenza di opere teoriche sulla letteratura<br />

paremiografica sia dovuta al fatto che retori e filosofi, per esempio, fossero<br />

diffidenti nei confronti di una categoria espressiva utilizzata soprattutto dagli<br />

incolti e cita a sostegno un passo di Aristotele relativo all’utilizzo delle gnw`mai<br />

(Rhet. 2.21.15, p. 1395a32-b3): e[cousi dæ eij~ tou;~ lovgou~ bohvqeian megavlhn<br />

mivan me;n dia; th;n fortikovthta tw`n ajkroatw`n· caivrousi ga;r ejavn ti~ kaqovlou<br />

levgwn ejpituvch/ tw`n doxw`n a}~ ejkei`noi kata; mevro~ e[cousin.<br />

( 3 )CIRESE 1969 (p. 1 ss.) mostra come sia difficile persino trovare due dizionari<br />

che concordino fra loro nel definire cosa sia un proverbio. Lo stesso CIRESE 1972<br />

aggiunge (p. 1 ss.): «[...] possiamo dire che ci sono stati sostanzialmente due modi di dichiarare<br />

che cosa sia quel particolare ‘genere’ di espressioni che diciamo proverbi. Il primo<br />

modo, diretto ed esplicito, è quello delle cosiddette definizioni; il secondo, implicito<br />

e ‘di fatto’, è costituito dal contenuto effettivo delle raccolte. [...] Nulla esclude, in linea<br />

di principio, che possa esserci perfetta coincidenza tra definizioni e raccolte [...]. Nella<br />

realtà, tuttavia, le cose vanno altrimenti: al punto che la prima difficoltà in cui ci si<br />

imbatte studiando i proverbi è proprio quella di stabilire (sia pure in linea preliminare<br />

ma con un minimo di precisione) di che cosa ci si stia occupando [...]».<br />

( 4 ) Le definizioni di proverbio (paroimiva) e sentenza (gnwvmh) qui utilizzate<br />

derivano dall’impostazione teorica degli studi di STRÖMBERG, CIRESE 1969, CIRESE<br />

1972, KINDSTRAND e RUSSO.<br />

( 5 ) La diversa cura formale che Menandro riserva alle due tipologie espressive<br />

contribuisce a chiarire le differenze esistenti, all’interno della produzione dell’autore,<br />

tra l’una e l’altra categoria, come verrà messo in evidenza più avanti.


La tradizione paremiografica nelle commedie di Menandro<br />

Il legame con la realtà quotidiana proprio della tradizione paremiografica<br />

fa sì che tracce di essa si ritrovino frequentemente nella<br />

commedia, dall’Antica alla Nuova, che è forse il genere letterario più<br />

vicino a una raffigurazione “mimetica” della realtà. In particolare,<br />

nell’opera di Menandro, la tradizione paremiografica ricorre spesso e<br />

appare regolata da alcune norme o, quanto meno, da caratteristiche<br />

ricorrenti, che investono tanto il significante quanto il significato<br />

dell’espressione utilizzata dal comico.<br />

1. I proverbi<br />

1.1. Formule introduttive. – Nelle commedie menandree ( 6 ) il<br />

proverbio è talvolta introdotto da una formula che ne denuncia<br />

esplicitamente l’appartenenza al genere paremiografico. Tali formule<br />

sono di quattro tipi. La più comune è to; legovmenon, che compare,<br />

per esempio ( 7 ), in:<br />

Asp. 372 s. to; g]a;r legovmenon tai`~ ajlhqeivai~ “luvko~ / c]anw;n<br />

a[peisi dia; kenh`~”.<br />

Misum. 15 to; d[h; legovm]enon, oujde; kuniv, ma; tou`~ qe]ouv~.<br />

Sam. 11 to; legov]menon dh; tou`to, tw`n pollw`n ti~ w[n.<br />

Chera fr. 405 K.-A. to; legovmenon tou`tæ e[sti nu`n, / ta[nw kavtw,<br />

fasivn, ta; kavtw dæ a[nw.<br />

In tre casi, senza che vi sia alcuna differenza di senso, la locuzione<br />

è to; tou` lovgou:<br />

Dysc. 633 s. Povseidon, i{na to; tou` lovgou pavqw, / ejn tw`/ frevati<br />

kuni; mavcwmai;<br />

Misum. 566 ss. ejpi; pa`sin aj[gaq]oi`~, tou`to dh; to; tou` lovgou<br />

Misum. 704 u|~ o[rei, to; tou` lovgou.<br />

Per due volte, il termine con cui ci si riferisce all’espressione proverbiale<br />

è rJh`ma e, curiosamente, in entrambi i casi viene citato il<br />

medesimo proverbio ( 8 ):<br />

Asp. 189 ss. Smikrivnh, pavnu moi dokei` / to; rJh`ma tou`t∆ ei\naiv ti<br />

memerimnhmevnon / to; “gnw`qi sautovn”.<br />

( 6 ) Le commedie e i frammenti di Menandro sono citati secondo l’edizione di<br />

W.G. Arnott o, quando ciò non sia possibile, secondo quella di R. KASSEL e C.<br />

AUSTIN.<br />

( 7 ) L’espressione (nel senso di “detto proverbiale”) compare anche in: Phasma 17;<br />

Ploc. fr. 296, 8 K.-A.; Fab. Inc. fr. 460 K.-A.<br />

( 8 ) Esiste un parallelo anche in Philem. fr. 139 K.-A., in cui ricorrono tanto il<br />

detto gnw`qi sautovn quanto il termine rJh`ma ad esso riferito.<br />

7


8<br />

SILVIO SCHIRRU<br />

Hipp. fr. 193, 3 ss. K.-A. ajll∆ ejkei`no~ rJh`mav ti / ejfqevgxat∆ oujde;n<br />

ejmferev~, ma; to;n Diva, / tw/ ` gnw`qi sautovn<br />

Una sola volta compare in Menandro il termine paroimiva ( 9 ):<br />

Dis exap. 27 ss. p[i]qan[euomevn]h ga;r pauvsetai / o{tan] pot∆<br />

ai[sqhta[i, to; th`~ pa]roimiva~, / nekrw`/] levgousa [mu`qon.<br />

Naturalmente sono assai frequenti i casi in cui il proverbio è menzionato<br />

da solo, privo di qualsivoglia segnale. Alcuni esempi ( 10 ):<br />

Epitr. 252 ejn nukti; boulh;n<br />

Epitr. 283 ss. eij kai; badivzwn eu|ren a{m∆ ejmoi; tau`ta k[ai; / h\n<br />

koino;~ ÔErmh`~, to; me;n a]n ou|to~ e[lab[en a[n, / to; d∆ ejgwv:<br />

Misum. 696 (= Psophod. fr. 418 K.–A.) o[no~ luvra~<br />

Anatith. fr. 31 K.-A. ∆Aravbion a\r∆ ejgw; kekivnhk∆ a[ggelon<br />

1.2. Struttura logica. – Ogni espressione proverbiale è riconducibile<br />

a una struttura logico-sintattica di base la quale, variata soltanto<br />

nei suoi elementi accessori, si ritrova immutata in tutti i proverbi e<br />

le sentenze dello stesso tipo ( 11 ). Il riconoscimento di simili strutture<br />

è, ovviamente, subordinato alla conoscenza e alla comprensione della<br />

forma completa del proverbio che si intende analizzare: laddove il<br />

senso dell’espressione non sia chiaro, è infatti impossibile individuare<br />

il nesso logico alla base della metafora espressa dal proverbio. In<br />

Menandro, sebbene i proverbi, per via della loro larga diffusione, siano<br />

spesso citati soltanto parzialmente (il pubblico era comunque in<br />

grado di cogliere il riferimento), è tuttavia possibile, in alcuni casi,<br />

riconoscere e definire tali strutture.<br />

Una struttura ben identificabile è quella esemplificata dal proverbio<br />

in Asp. 372 s. to; g]a;r legovmenon tai`~ ajlhqeivai~ “luvko~ /<br />

c]anw;n a[peisi dia; kenh`~.” Tralasciando, infatti, la formula introduttiva<br />

to; ga;r legovmenon tai`~ ajlhqeivai~, il proverbio vero e proprio,<br />

luvko~ / canw;n a[peisi dia; kenh`~, permette di riconoscere<br />

uno schema “xRa > xR 1 b”. Il soggetto della proposizione, il lupo (in-<br />

( 9 ) Non compaiono invece, nell’accezione di “proverbio” o “detto”, i termini<br />

ai\no~ e mu`qo~, che hanno tale significato in: palaio;~ ai\no~ Eur. fr. 508 Nauck;<br />

ai\nov~ qhn levgetaiv ti~ ‘e[ba poka; tau`ro~ ajn∆ u{lan’ Theocr. Id. 14,43; trigevrwn<br />

mu`qo~ tavde fwnei`, Aesch. Choeph. 314; cfr. LSJ p. 40 e 1151.<br />

( 10 ) Impossibile, in questa sede, fare un elenco completo dei passi, numerosi<br />

tanto nelle commedie relativamente integre quanto nei frammenti. Per questi ultimi,<br />

ovviamente, non sempre possiamo essere certi che l’assenza di formule introduttive<br />

non sia da imputare a una lacuna nella tradizione.<br />

( 11 ) L’analisi della struttura logica delle espressioni proverbiali è condotta sulla<br />

base di CIRESE 1969.


La tradizione paremiografica nelle commedie di Menandro<br />

dicato con la lettera x), compie l’azione R (spalanca cioè le fauci, cerca<br />

di procacciarsi una preda) essendo in una condizione iniziale a<br />

(qui sottintesa: avendo la bocca già piena); successivamente il medesimo<br />

soggetto x compie l’azione R 1 , si allontana, se ne va, trovandosi<br />

in una condizione differente da quella iniziale, quella di essere senza<br />

preda, a bocca vuota, o asciutta (condizione indicata con la lettera b).<br />

Tale tipologia proverbiale designa una situazione in cui un soggetto<br />

subisce, per motivazioni esterne o interiori, un mutamento di condizione<br />

rispetto allo stato iniziale. Nel caso specifico il riferimento è alla<br />

favola del lupo che, tenendo già fra i denti un pezzo di carne e vedendo<br />

se stesso riflesso sull’acqua, tenta di azzannare quello che ritiene un<br />

proprio simile per ottenere anche il cibo dell’altro, restando, ovviamente,<br />

a digiuno, dato che aprendo la bocca ha invece perso anche la<br />

propria preda ( 12 ). Chi troppo vuole nulla stringe, insomma.<br />

La medesima struttura può essere identificata in Epitr. fr. 5 ejpevpasa<br />

/ ejpi; to; tavrico~ a{la~ ( 13 ). Anche in questo caso al medesimo<br />

( 12 ) L’espressione è inserita alla fine di una sequenza scenica che muove dai<br />

tentativi dell’avido Smicrine di sposare la giovane nipote, in seguito alla notizia<br />

(che poi si rivelerà falsa) che il fratello maggiore di costei, Cleostrato, sarebbe perito<br />

in guerra. La ragazza è difatti latrice di una cospicua eredità, costituita dai tesori<br />

conquistati dallo stesso Cleostrato. Il servo Davo, per evitare che la ragazza, innamorata<br />

di Cherea, sia costretta a maritarsi col vecchio, orchestra allora un inganno:<br />

a Smicrine viene fatto credere che anche suo fratello Cherestrato abbia<br />

perso la vita in seguito all’immenso dolore per la scomparsa di Cleostrato. La figlia<br />

di Cherestrato, a questo punto, diviene per Smicrine una “preda” più appetitosa,<br />

dato che, a parità di grado di parentela, dispone di una dote maggiore. Così Smicrine,<br />

credendo scomparso Cherestrato e lasciando che Cherea sposi la sorella di<br />

Cleostrato, sarà simile al lupo della fiaba, dato che alla fine avrà perso entrambe le<br />

spose e le relative doti. TOSI (p. 411) mette il proverbio in relazione con Aes. 163<br />

Hausrath, in cui un lupo affamato sente una vecchia minacciare un bambino di<br />

darlo in pasto al lupo, se non smetterà di piangere; il lupo attende invano il pasto,<br />

finché non è costretto ad andarsene sconsolato, avendo capito che la vecchia non<br />

darà seguito alla minaccia.<br />

( 13 ) Il contesto, a grandi linee, è il seguente: Carisio, durante una festa, ha<br />

abusato di Panfila. Mentre ciò accadeva, però, la ragazza riusciva a strappargli dal<br />

dito un anello. Il caso vuole che, in seguito, i due si incontrino nuovamente ma<br />

non si riconoscano, e finiscano per giunta con lo sposarsi. Mentre il marito è assente,<br />

Panfila dà alla luce un bimbo, frutto della violenza di quella notte. Decide<br />

di non tenerlo e lo fa esporre insieme ad alcuni oggetti, fra cui l’anello, che in seguito<br />

possano permetterne il riconoscimento. Carisio viene a sapere del bambino<br />

e, ritenendosi tradito dalla moglie, la abbandona e inizia a frequentare Abrotono,<br />

un’etera. Alla fine però tutto si appianerà, perché, grazie alla prova costituita dall’anello,<br />

l’equivoco verrà chiarito. Secondo ARNOTT I, p. 392 ss. il frammento in<br />

esame potrebbe collocarsi nella scena di apertura, quando Onesimo, servo di Carisio,<br />

descrive la reazione del padrone, venuto a conoscenza della nascita del bambino.<br />

9


10<br />

SILVIO SCHIRRU<br />

soggetto x (Onesimo?) può essere dapprima attribuita un’azione R in<br />

relazione a un oggetto a (azione che non possiamo desumere dal contesto,<br />

troppo frammentario) e quindi, in un accostamento metaforico,<br />

l’azione R1 (spargere il sale) in relazione a un oggetto b (il pesce salato).<br />

Sia Gomme-Sandbach ( 14 ) che Arnott ( 15 ) si dicono convinti che il<br />

proverbio alluda fondamentalmente al peggiorare di una situazione<br />

già negativa, o comunque al provocare dei danni ( 16 ). Si potrebbero<br />

citare espressioni corrispondenti quali rigirare il coltello nella piaga,<br />

piovere sul bagnato o, per mantenere il legame semantico col sale, spargere<br />

sale sulle ferite aperte. Arnott, del resto, traduce il passo utilizzando<br />

un altro proverbio, più familiare ad un lettore moderno, che esprime<br />

il medesimo concetto, e cioè I have really added fuel to the fire.<br />

Altra struttura è “xRa = xRb”, che si registra per esempio in Dis<br />

exap. 27 ss. p[i]qan[euomevn]h ga;r pauvsetai / o{tan] potæ ai[sqhta[i,<br />

to; th`~ pa]roimiva~, / nekrw` /] levgousa [mu`qon. Per un ipotetico soggetto<br />

x ( 17 ), compiere l’azione R (dire qualcosa) a un oggetto a (a te nel<br />

( 14 )GOMME-SANDBACH, p. 293.<br />

( 15 )ARNOTT I, p. 392 ss.<br />

( 16 ) L’ipotesi dei due studiosi si basa sul fatto che spargere sale su qualcosa che<br />

è già abbondantemente salata è un’azione non soltanto inutile, ma anzi dannosa,<br />

perché rende il cibo immangiabile: tavrico~, infatti, è un termine che designa carne<br />

o, più spesso, pesce conservati sotto sale, o comunque disidratati, ad esempio<br />

tramite essiccamento o affumicamento (cfr. LSJ, p. 1758 s. e s. v. tavrico~; suppl.<br />

p. 290). Si tratta di un tipo di alimento cui sovente si allude nelle commedie di<br />

Aristofane (Ach. 967 e 1101, Eq. 1247, Ra. 558, Vesp. 491, frr. 347 e 639 K.-A.) e<br />

che viene usato anche come metafora di individuo stupido, in analogia ai nostri<br />

stoccafisso o baccalà (cfr. e.g. Arist. fr. 207 K.-A.). In Athen. III 119E-F sono citati<br />

vari proverbi (tra cui anche quello in esame) in cui compare il termine tavrico~.<br />

( 17 ) Per ricostruire la trama del Di;~ ejxapatw`n, di cui ci è pervenuto un frammento<br />

molto esiguo, bisogna basarsi sull’adattamento di Plauto, le Bacchides. Nell’opera<br />

plautina Mnesiloco crede che la donna che ama, l’etera Bacchide, lo tradisca<br />

con l’amico Pistoclero: equivoco generato dal fatto che Pistoclero ha effettivamente<br />

una relazione con una donna di nome Bacchide, che però è la sorella, omonima,<br />

dell’amante di Mnesiloco. Ritenendosi dunque tradito dalla propria donna<br />

e dal migliore amico, Mnesiloco si abbandona a un accorato quanto umoristico<br />

monologo nel quale alterna bellicosi intenti di rivalsa verso l’etera e ammissioni di<br />

impotenza, avvinto com’è dall’amore per lei. E quando, nelle sue fantasie, la donna<br />

giunge a chiedergli perdono per il tradimento e a tentare di conquistarlo nuovamente<br />

con le sue arti seduttorie, egli si prende una rivincita rifiutando sdegnosamente<br />

Bacchide e dichiarando che le avances della ragazza avranno su di lui lo<br />

stesso effetto che si otterrebbe raccontando storie a un morto. In Menandro il contesto<br />

doveva essere pressappoco lo stesso: l’amante “tradito” ha nome Sostrato,<br />

l’amico “fedifrago” è Mosco e delle due etere non siamo in grado di ricostruire il<br />

nome.


La tradizione paremiografica nelle commedie di Menandro<br />

nostro passo) equivale, essendo altrettanto inutile, a dire quella stessa<br />

cosa (compiendo quindi la stessa azione R) a un morto (oggetto b) ( 18 ).<br />

Un’altra tipologia è quella che può essere sintetizzata dalla formula<br />

“xRa / yRb”, di cui un esempio è costituito da Misum. 696<br />

o[no~ luvra~. ( 19 ) In questo caso la medesima azione (R) è messa in<br />

relazione a due soggetti (x/y) e a due oggetti (a/b) diversi. Più precisamente,<br />

considerando il contesto ( 20 ), viene istituito un parallelo<br />

tra il personaggio di Demea e il proverbiale asino, indifferente al<br />

suono della lira ( 21 ).<br />

Ancora, possiamo citare lo schema “xRa / yRa”, esemplificato da<br />

Dysc. 949 h\n d∆ wJsperei; ∆~ a[mmon foroivh~. La struttura logica presenta<br />

qui ( 22 ) il soggetto espresso x (i convitati) beve/assorbe (azione<br />

R) tanto vino (oggetto a) quanto un diverso soggetto y (la sabbia) farebbe<br />

(azione R) con lo stesso liquido (oggetto a). In altre parole,<br />

( 18 ) Un proverbio molto simile è o[nw/ ti;~ e[lege mu`qon: oJ de; ta; w\ta ejkivnei<br />

(cfr. Zenob. Vulg. V, 42; Diogen. VII, 30; Greg. Cypr. III, 30 e cod. M. IV, 67;<br />

Apost. XII, 81; Phot. II p. 20 Naber; Suda o 393 Adler).<br />

( 19 ) Il proverbio è caro a Menandro, che lo utilizzava anche nel Yofodehv~ (fr. 418<br />

K.-A.), stando alle testimonianze di Suda o 391 Adler e Phot. II p. 18 Naber, che<br />

riportano anche la forma strutturalmente completa dell’espressione proverbiale:<br />

o[no~ luvra~ h[koue kai; savlpiggo~ u|~ (per la quale si vedano, con ajkouvwn al<br />

posto di h[koue, Macar. VI, 38 e Apost. XII, 91a). Ma cfr. anche Eupol. fr. 279<br />

K.-A. o[no~ ajkroa`/ savlpiggo~; Crat. fr. 247 K.-A. o[noi d∆ajpwtevrw kavqhntai<br />

th`~ luvra~; Luc. Ind. 4 o[no~ luvra~ ajkouvei~ kinw`n ta; w\ta; Phaedr. App. 12.<br />

( 20 ) Trasonide è un soldato, tornato dalla guerra con una serva di nome Crateia<br />

come bottino. È innamorato di lei, ma si rende conto che la ragazza lo odia e lo<br />

respinge. Si viene a sapere che tale odio è suscitato dall’avere essa creduto di riconoscere,<br />

tra le armi del padrone, quella che apparteneva al defunto fratello di lei,<br />

così da dedurne che ad ucciderlo sia stato Trasonide. Purtroppo lo stato gravemente<br />

lacunoso del testo impedisce di farsi un’idea precisa dell’esatto svolgimento<br />

degli avvenimenti fino al passo in esame, una scena del IV atto in cui Geta racconta<br />

come Demea, padre di Crateia, da lei informato del presunto assassinio del figlio<br />

da parte di Trasonide, si sia dimostrato assolutamente impassibile di fronte<br />

alle richieste di Trasonide di prendere la ragazza in moglie, e si sia dunque comportato<br />

come l’asino quando ascolta la lira.<br />

( 21 ) L’accostamento di asino e lira si basa sull’opposizione ossimorica dei concetti<br />

che rappresentano: ignoranza o rozzezza (l’asino) e cultura o raffinatezza (la<br />

lira). Cfr., con strumento diverso (l’aulo), Plut. Sept. Sap. 150 D-F.<br />

( 22 ) Siamo alla fine della commedia, e il cuoco Sicone descrive i festeggiamenti<br />

che hanno avuto luogo in occasione del duplice matrimonio che chiude l’opera.<br />

Per descrivere la quantità spropositata di vino che sarebbe stata ingurgitata dai<br />

convitati, Sicone fa ricorso a una metafora: era come versare (il vino) sulla sabbia.<br />

La lettura wJsperei; ∆~ si deve a C. Diano (wsperei~ è il testo tràdito dal papiro<br />

Bodmer (B)), ed era accolta già in SANDBACH 1990, p. 90.<br />

11


12<br />

SILVIO SCHIRRU<br />

mentre il contesto rimane inalterato, viene stabilito un parallelismo<br />

tra l’azione compiuta da un primo soggetto e la stessa azione compiuta<br />

da un secondo soggetto.<br />

È anche presente ( 23 ) un proverbio cosiddetto di preferenza ( 24 )<br />

(il cui schema è meglio A di B, come nel nostro meglio un uovo oggi<br />

che una gallina domani): Dysc. 811s. pollw`/ de; krei`ttovvn ejstin<br />

ejmfanh;~ fivlo~ / h] plou`to~ ajfanhv~, o}n su; katoruvxa~ e[cei~ ( 25 ).<br />

1.3. Proprietà formali dei proverbi. – Nei proverbi che Menandro<br />

utilizza è possibile riscontrare con una certa regolarità, oltre che<br />

strutture logiche, espedienti fonici e ritmici: allitterazione, assonanza,<br />

chiasmo e riduzione del proverbio ad unità metrica ( 26 ). Alcuni<br />

esempi:<br />

Asp. 372 s. to; g]a;r legovmenon tai`~ ajlhqeivai~ “luvko~ / c]anw;n<br />

a[peisi dia; kenh`~.”<br />

Le componenti del proverbio ( 27 ) sono disposte secondo una struttura<br />

chiastica:<br />

luvko~ (soggetto) canw;n (predicato attributivo)<br />

a[peisi (predicato verbale) dia; kenh`~ (complemento di modo)<br />

Il predicato chiude la prima proposizione e apre la seconda e i due<br />

predicati sono incorniciati rispettivamente dal soggetto e dal complemento.<br />

Tale struttura permette di evidenziare il parallelismo (o l’opposizione)<br />

tra il predicato attributivo canw;n e il complemento dia;<br />

kenh`~, e questo esalta l’efficacia esemplare e mnemonica del proverbio.<br />

Dal punto di vista fonico è interessante rilevare che i due elementi<br />

sui quali si focalizza l’attenzione, ovvero quelli che determinano la<br />

differenza tra la condizione di partenza e quella di arrivo sancendo di<br />

( 23 ) La panoramica qui fornita delle possibili strutture logiche presenti in Menandro<br />

non è, naturalmente, esaustiva: soprattutto per quanto riguarda i contesti<br />

frammentari, come detto sopra, è spesso difficile ricondurre il proverbio a uno<br />

schema logico coerente, specie quando il significato stesso dell’espressione è oscuro.<br />

( 24 ) Cfr. CIRESE 1979.<br />

( 25 ) Per questo proverbio vedi infra.<br />

( 26 ) Tali fenomeni sono presenti in maggiore quantità nelle sentenze, come si<br />

vedrà in seguito.<br />

( 27 ) Per questo proverbio cfr. Aristoph. fr. 350 K.-A.; Eub. fr. 14, 11 K.-A.;<br />

Euphr. fr. 1, 30 s. K.-A.


La tradizione paremiografica nelle commedie di Menandro<br />

fatto l’insegnamento morale del proverbio, canw;n e (dia;) kenh`~,<br />

sono non soltanto allitteranti (la differenza è solo tra velare aspirata e<br />

velare non aspirata) ma anche omofoni, dal momento che entrambi i<br />

termini sono bisillabici e le consonanti iniziali e interne di ogni sillaba<br />

sono dello stesso tipo, nonché metricamente equivalenti, trattandosi<br />

di due giambi. Le due parole risultano dunque ritmicamente simili:<br />

caratteristica che, considerando la sostanziale antitesi semantica, dà<br />

luogo ad una paronomasia, tale da accentuare la conclusione “ad effetto”<br />

dell’asserzione e, quindi, il suo valore didascalico.<br />

Dysc. 811 s. pollw` / de; krei`ttovn ejstin ejmfanh;~ fivlo~ / h] plou`to~<br />

ajfanhv~, o}n su; katoruvxa~ e[cei~. Il proverbio presenta una doppia<br />

struttura chiastica. Il primo chiasmo è quello originato dalla posizione,<br />

all’interno dei due versi, dei due elementi focali, ejmfanh;~ fivlo~ /<br />

plou`to~ ajfanhv~:<br />

pollw`/ de; krei`ttovn ejstin ejmfanh;~ fivlo~<br />

h] plou`to~ ajfanhv~ o}n su; katoruvxa~ e[cei~<br />

ma ve n’è anche un altro, causato, all’interno della coppia ejmfanh;~<br />

fivlo~ / plou`to~ ajfanhv~, dallo scambio di posizione aggettivo-sostantivo/sostantivo-aggettivo.<br />

I due concetti cardine sono posti in<br />

evidenza, oltre che da questo duplice parallelismo, anche dalla loro<br />

collocazione metrica: ejmfanh;~ fivlo~ occupa la parte finale del verso,<br />

una posizione di per sé rilevante, ed è racchiuso tra la cesura eftemimere<br />

e la fine del verso; h] plou`to~ ajfanhv~ si trova invece ad inizio<br />

verso. La formulazione di questo proverbio di preferenza, inoltre,<br />

è esattamente di due versi, e costituisce pertanto un’unità metrica<br />

a sé stante.<br />

Sam. 11 to; legov]menon dh; tou`to, tw`n pollw`n ti~ w[n. Fonicamente<br />

possiamo notare un’insistenza sul suono o e l’allitterazione del<br />

suono t iniziale, mentre dal punto di vista metrico constatiamo ancora<br />

come Menandro conferisca al proverbio la forma di un monovstico~<br />

(qui con l’ausilio della formula to; legovmenon dh; tou`to).<br />

Ancora un monovstico~ abbiamo in Sycion. fr. 8: kakh; me;n o[yi~,<br />

ejn de; deivlaiai frevne~ (si notino peraltro l’allitterazione in d e la<br />

sequenza di suoni vocalici iniziali in e di ejn de; deivlaiai).<br />

1.4. Contenuto dei proverbi. – Esistono, fra i proverbi di Menandro,<br />

alcune categorie privilegiate. Tra queste spicca quella dei detti<br />

riconducibili al patrimonio favolistico o comunque popolare, che<br />

chiama in causa animali. Oltre agli esempi già citati (Asp. 372 s.;<br />

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14<br />

SILVIO SCHIRRU<br />

Dysc. 633 s.; Misum. 15, 696 e 704), abbiamo ancora:<br />

Enchir. fr. 6 uJpe;r o[nou skia`~<br />

Colax fr. 6 e Imbrioi fr. 192 K.-A. bou`~ Kuvprio~<br />

Eunuch. fr. 148 K.-A. luvkou pterav<br />

Ploc. fr. 296 v. 8 K.-A. o[no~ ejn piqhvkoi~, tou`to dh; to; legovmenon<br />

Ploc. fr. 309 K.-A. trugovno~ lalivstero~ ( 28 )<br />

Fab. Inc. fr. 880 K.-A. ojrnivqwn gavla ( 29 )<br />

Non è sempre agevole ricostruire il senso e l’origine di simili proverbi:<br />

talvolta si può interpretare l’espressione sulla base di testimonianze<br />

paraletterarie, ma altre volte a chiarire il significato del proverbio<br />

contribuisce solo ed esclusivamente la testimonianza dell’autore<br />

che lo cita. Nel caso di Colax, fr. 6, per esempio, il passo è testimoniato<br />

da Zenob. II, 72: bou`~ Kuvprio~, i[son tw`/ “skatofavgo~<br />

ei\”. levgontai ga;r oiJ bove~ ejn Kuvprw/ skatofagei`n. mevmnhtai<br />

tauvth~ (scil. th`~ paroimiva~) Mevnandro~ ejn Kovlaki. L’espressione<br />

equivarrebbe dunque a “sei un divoratore di sterco”, abitudine che<br />

veniva attribuita ai bovini di Cipro ( 30 ). Si tratta, in sostanza, di una<br />

variante del termine skatofavgo~, insulto utilizzato in altre commedie<br />

menandree ( 31 ).<br />

Passando ad un’altra categoria, Menandro ama talvolta inserire<br />

espressioni proverbiali in contesti in cui esse possano acquisire un<br />

valore drammaturgico, facendosi latrici di significati ulteriori (magari<br />

a fini comici) rispetto a quello letterale e caratterizzando in maniera<br />

specifica il linguaggio dei personaggi. Un ottimo esempio è il già<br />

citato, Dysc. 811 s. pollw`/ de; krei`ttovn ejstin ejmfanh;~ fivlo~ / h]<br />

plou`to~ ajfanhv~, o}n su; katoruvxa~ e[cei~, in cui Sostrato, nel tentativo<br />

di persuadere il padre a dare la propria figlia in moglie a Gorgia,<br />

non può far altro che ricorrere a un discorso molto concreto,<br />

trattando l’amicizia alla stregua di una merce. La battuta di Sostrato<br />

risulta infatti la parodia di un’espressione tratta dal linguaggio giuridico,<br />

perché Menandro gioca sul doppio significato dell’opposizione<br />

( 28 ) Cfr. il proverbio lalivstero~ celidovno~ in Macar. V, 49 e l’espressione<br />

tw`n celidovnwn [...] lalivstero~ in Theophr. Char. 7, 9.<br />

( 29 ) Cfr. Aristoph. Av. 734 e 1673; Vesp. 508; Eup. fr. 411 K.-A.; Mnesim. fr. 9,<br />

2 K.-A., nonché Alex. fr. 123 K.-A, con animale diverso, ga;la lagou`.<br />

( 30 ) La bizzarra quanto improbabile dieta dei buoi di Cipro è testimoniata da<br />

Antiphan. fr. 124 K.-A., 3 ss. ejn th` / Kuvprw/ dæ ou{tw filhdei` tai`~ uJsivn, devspoq∆,<br />

w{ste skatofagei`n ajpei`rxe /to; zw`/on tou;~ de; bou`~ hjnavgkasen.<br />

( 31 ) Dysc. 488; Sam. 427 e 550; Peric. 394; Fab. inc. fr. 571 K.-A.


La tradizione paremiografica nelle commedie di Menandro<br />

semantica ejmfanhv~ / ajfanhv~ ( 32 ). Al primo livello interpretativo,<br />

quello letterale (la presenza di un amico, tanto più ejmfanhv~, è elemento<br />

positivo anche senza specificazioni), infatti, si aggiunge un<br />

secondo e più sottile livello, in quanto emfanh;~ (fanera;) oujsiva ed<br />

ajfanh;~ oujsiva sono termini tecnici del lessico giuridico ateniese in<br />

materia di beni ( 33 ).<br />

Altri esempi:<br />

Epitr. fr. 5 ejpevpasa / ejpi; to; tavrico~ a{la~, con una metafora<br />

tratta dal linguaggio culinario. Arnott fa notare come, se la sua ipotesi<br />

di collocazione del frammento in apertura di commedia fosse corretta<br />

( 34 ), avremmo qui un vivido esempio della sottile ironia menandrea,<br />

che mette in bocca (è proprio il caso di dirlo) a Onesimo, durante<br />

una conversazione col cuoco Carione, una metafora culinaria.<br />

Dysk, 633 s. Povseidon, i{na to; tou` lovgou pavqw, / ejn tw`/ frevati<br />

kuni; mavcwmai… In questo caso, la citazione menandrea è pregnante<br />

e polisemica in quanto, oltre che su un piano metaforico, è accostabile<br />

a quanto accade sulla scena anche a livello puramente letterale:<br />

Cnemone (il duvskolo~ da cui la commedia trae il titolo) è caduto<br />

davvero in un pozzo e il suo comportamento non è molto dissimile<br />

dall’abbaiare di un cane arrabbiato! ( 35 ).<br />

Theoph., fr. 5 ajpo; mhcanh`~ qeo;~ ejpefavnh~, in cui si fa invece<br />

ricorso al linguaggio teatrale ( 36 ).<br />

( 32 ) Cfr. GOMME-SANDBACH, p. 257 ed ARNOTT I, p. 319.<br />

( 33 ) La legge ateniese distingueva infatti tra proprietà visibile e proprietà nascosta:<br />

alla prima categoria appartenevano possessi tassabili quali terreni, edifici o schiavi;<br />

alla seconda potevano venire ascritti denaro contante, depositi e simili (ma non necessariamente,<br />

molto dipendeva dal fatto che il possessore fosse o meno consapevole<br />

della loro esistenza). Cfr. RE vol. I, p. 2710 s. v. ajfanh;~ oujsiva; A.R.W. HARRISON,<br />

The Law of Athens, Oxford 1968, vol. I, p. 230 s.<br />

( 34 ) Cfr. ARNOTT I, p. 392 ss.<br />

( 35 ) Per il significato del proverbio, Gomme-Sandbach rimandano (p. 232 s.) ad<br />

Apost. VII, 40: ejn frevati kunomacei`n: ejjpi; tw`n ajpofugei`n oujk ejcovntwn kai;<br />

mocqhrw`/ tini; prospalaiovntwn; a Suda e 1505 Adler ejn frevati kusi; mavcesqai;<br />

a Hesych. e 3449 Latte ejn frevati kunomacei`n; e a Zenob. III, 45 ∆En frevati<br />

kusi; mavcesqai: ejpi; tw`n mocqhrw`~ tini prospalaiovntwn kai; ajpofugei`n mh;<br />

dunamevnwn. Le origini dell’espressione sarebbero da ricercare nella favola in cui<br />

un cane, caduto in un pozzo, morde un giardiniere che cerca di liberarlo, credendo<br />

che egli sia lì per annegarlo (cfr. Aes. 148 e 169 Hausrath).<br />

( 36 ) Sarebbe interessante scoprire se, anche in questo caso, fosse presente un<br />

gioco metateatrale simile a quello proposto da Menandro nel passo precedente,<br />

ovvero una situazione che richiamasse, e non solo metaforicamente, l’artificio scenico<br />

del deus ex machina.<br />

15


16<br />

SILVIO SCHIRRU<br />

Altra tipologia di frequente utilizzo da parte di Menandro è quella<br />

dei “personaggi proverbiali”, ovvero figure storiche o universalmente<br />

note che si fanno archetipo di un vizio o, più in generale, di<br />

un atteggiamento specifico. Alcuni esempi significativi sono:<br />

Asp. 269 s. pro;~ qew`n, Melitivdh/ / lalei`n uJpeivlhfa~; ( 37 )<br />

Dysc. 683 s. aJll∆ oJ Gorgiva~ “Atla~ / h\n oujc oJ tucwvn:<br />

Colax fr. 2, 1 ss. (BIAS) kotuvla~ cwrou`n devka / ejn Kappadokiva/<br />

kovndu crusou`n, Strouqiva, / tri;~ ejpevpion mestovn g∆.<br />

(STROUQIAS) ∆Alexavndrou plevon / tou` basilevw~ pevpwka~, in<br />

cui Alessandro di Macedonia è rappresentato come il bevitore accanito<br />

per eccellenza.<br />

Asp. 230 s. ouj Spinqh`r∆, ∆Aristeivdhn d∆ e[cw ( 38 ), / uJphrevthn/<br />

divkaion:<br />

Un caso particolare è quello di Asp. 206 s. Fruvx eijmi· polla;<br />

tw`n par’ uJmi`n faivnetai / kalw`n ejmoi; pavndeina kai; touvnantivon /<br />

touvtwn, in cui, più che un personaggio, ad essere oggetto dell’ironia<br />

menandrea è piuttosto una intera etnia, quella dei Frigi. E se già la<br />

contrapposizione tra due culture ha valore proverbiale di per se stessa,<br />

in quanto espressione metonimica che implica una differenza di<br />

più ampia portata, la scelta di fare di Davo (che nella commedia si<br />

propone come personaggio saggio e animato da nobili sentimenti)<br />

un Frigio è quanto meno pregnante. In primo luogo perché rispetta<br />

un cliché comico: spesso, infatti, i Frigi sono schiavi per antonomasia<br />

( 39 ); in secondo luogo perché l’opinione che i Greci avevano dei<br />

Frigi, in generale, non era certo buona ( 40 ).<br />

( 37 ) Melitide è un personaggio proverbialmente poco sagace, come testimoniano<br />

[Luciano], Amores 53; Hom. Od. X 552; Suda, g 118 Adler.<br />

( 38 )I due nomi sono qui usati entrambi «proverbialmente»: se Aristide (generale<br />

e uomo politico dei primi anni del V sec.) era un giusto per antonomasia (cfr.<br />

Aeschin. 3, 181), Spinqhvr è ben documentato come nome di cuoco (cfr. e. g.<br />

Theop. fr. 33 K.-A.; Anth. Pal. 6, 306), mestiere che, in questo caso, simboleggia.<br />

( 39 ) Come per esempio in Ar. Vesp. 433 w\ Mivda kai; Fruvx, bohvqei deu`ro, kai;<br />

Masuntiva, / kai; lavbesqe toutoui; kai; mh; meqh`sqe mhdeniv e in Herond. 2, 37,<br />

in cui per dire il primo schiavo che incontri l’autore scrive oJ prostucw;n Fruvx.<br />

( 40 ) Si vedano ad esempio lo stesso Menandro, Aspis 233 ss. (i Frigi sono definiti<br />

buoni a nulla ed effeminati), Eur. Or. 1369-1536, Tertull. De anima 20, ma anche<br />

un proverbio citato da Suda (f 772 Adler): Fru;x ajnh;r plhgei;~ ajmeivnwn kai;<br />

diakonevstero~: ejpei; dokou`sin ajrgovteroi kai; nwcelevsteroi ei\nai oiJ Fruvge~<br />

oijkevtai (in cui si ironizza sull’indolenza e sulla “predisposizione” alla servitù dei<br />

Frigi). Un altro modo di dire è ricordato da Strabone (I 2,30): deilovteron de;agëw;<br />

Frugov~, ovvero più vigliacco di un coniglio frigio, come se i conigli, animali proverbialmente<br />

dotati di scarso coraggio, in Frigia fossero ancora più fifoni. Tosi (p. 437)


La tradizione paremiografica nelle commedie di Menandro<br />

Un discorso analogo è valido per Dysc. 604 ss., in cui a essere chiamata<br />

in causa è la categoria dei contadini attici: tou`t’ ejsti;n<br />

eijlikr[inh;~] gewrgo;~ ∆Attikov~· / pevtrai~ macovm[en]o~ quvma ferouvsai~<br />

kai; sfavkon / ojduvna~ ejpispa`[tæ, o]ujde;n ajgaqo;n lambavnwn.<br />

A questa categoria possono essere ascritti anche alcuni “proverbi”<br />

di presumibile creazione menandrea, che fanno riferimento a personaggi<br />

contemporanei, noti per qualche loro caratteristica peculiare,<br />

come Colax 203 ss. pa`~ duvnatai kakw`~ poiei`n, / a]n mh; fulavtth/. to;n<br />

sfovdr∆ ijscuro;n [ /. [.]..qen .ion ∆Astuavnak[to]~ ( 41 ) uJ[ptivou / k[a]<br />

takeimevnou, doivdu[ki .]....ta[.].[...]kai~ / t]h;n rJi`na suntriyaim..[.]m<br />

[..] ..[....]an.<br />

2. Le sentenze. – A differenza di quanto accade coi proverbi, Menandro<br />

non utilizza formule che introducano o identifichino le sentenze<br />

inserite all’interno delle sue commedie; né, del resto, le sentenze<br />

sono riconducibili a schemi ricorrenti. Lo studio delle gnw`mai,<br />

pertanto, parte dall’esame delle loro caratteristiche formali.<br />

2.1. Proprietà formali delle sentenze. – I fenomeni fonici, ritmici e<br />

logici che riscontriamo nei proverbi sono presenti anche nelle sentenze.<br />

La loro frequenza è tale, anzi, da indurre a ritenere che Menandro,<br />

quando non utilizza espressioni che lo vincolino a una forma<br />

tradizionalmente ben definita, faccia uso con maggiore insistenza<br />

di artifici formali. Ciò, presumibilmente, avviene perché la sentenza,<br />

non essendo universalmente nota, ha maggiore bisogno di accorgimenti<br />

adeguati a fissarla nella mente dello spettatore, che udiva<br />

per la prima volta, se non il singolo concetto espresso, quanto meno<br />

la specifica formulazione elaborata da Menandro.<br />

cita il proverbio sero sapiunt Phryges, verso dell’Equus Troianus (234 R. 3 ) di cui ci dà<br />

testimonianza Cicerone (Ad fam. 7, 16, 1) e di cui Festo (460, 36-462,2 Lindsay)<br />

fornisce l’eziologia: soltanto nel decimo anno di guerra, oramai stremati, i Troiani<br />

pensarono di restituire Elena agli Achei. Come dire che i Frigi, agli occhi dei Greci,<br />

non erano nemmeno troppo svegli.<br />

( 41 ) Da Ateneo (I 413ab) sappiamo che Astianatte era un pankratiasthv~ e<br />

che vinse tre volte di seguito alle Olimpiadi. Inoltre uno scolio del P. Oxy. 2655<br />

(cfr. E.G. TURNER, The Oxyrhynchus Papiri 33, 1968, pp. 9-14) ci informa che<br />

Astianatte era ricordato da diversi autori comici e che, secondo Eratostene, conquistò<br />

una delle sue vittorie nel 316. Qui è chiaramente utilizzato come esempio<br />

proverbiale di persona dalla possanza straordinaria: il senso è che persino l’avversario<br />

più temibile può essere sconfitto facilmente quando non si aspetta di essere attaccato.<br />

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18<br />

SILVIO SCHIRRU<br />

Alcuni esempi:<br />

Adelph. bæ fr. 9, 1 s. K.-A. e[rgon euJrei`n suggenh` / pevnhtov~<br />

ejstin ( 42 ). Menandro, come è noto, compose due commedie dal titolo<br />

∆Adelfoiv; la seconda, cui appartiene il passo in esame, ci è quasi<br />

completamente sconosciuta. Sappiamo però che il poeta latino<br />

Terenzio trasse spunto, per i suoi Adelphoe, proprio da quest’opera<br />

menandrea. Perciò, pur essendo la commedia terenziana un adattamento,<br />

non necessariamente fedele, si può tentare di contestualizzare<br />

il nostro passo facendo ricorso ad essa ( 43 ). La proposizione va definita<br />

sentenza e non proverbio giacché la frase, pronunciata relativamente<br />

a un contesto specifico (Sostrata la riferisce alla figlia Panfila,<br />

indigente e bisognosa di un parente) e senza che vi fosse alcuna<br />

precedente attestazione di quella stessa proposizione, formulata nella<br />

medesima forma, nella tradizione orale o letteraria, assume un valore<br />

universale: in generale si può dire che sia difficile per qualunque persona<br />

povera (che si trovi nello stesso contesto socio-culturale in cui<br />

operano i personaggi) trovare qualcuno disposto a dichiararsi suo<br />

parente e, quindi, ad aiutarla. In altri termini l’affermazione di Sostrata,<br />

sebbene formalmente inedita, è latrice di un significato riconosciuto<br />

come valido da tutti gli spettatori, perché corrispondente<br />

ad un sistema di valori in cui essi si riconoscono. L’enunciato esprime<br />

una verità propria della “saggezza popolare”, del “senso comune”.<br />

Alcuni accorgimenti ritmici e fonici fanno sì che l’attenzione<br />

del pubblico si focalizzi sulla sentenza e, in particolare, sui due elementi<br />

principali della proposizione, il concetto di arduo e l’azione di<br />

( 42 ) Il passo è citato da Stobeo (Ecl. III 10, 24 (periv ajdikiva~) p. 413 H.):<br />

Menavndrou ∆Adelfoi`~: e[rgon euJrei`n suggenh` pevnhtov~ ejstin: oujde; ei|~ gavr<br />

oJmologei` auJtw`/ proshvkein to;n bohqeiva~ tino;~ deovmenon, aijtei`sqai ga;r a{ma<br />

ti prosdoka`/.<br />

( 43 ) Eschino e Ctesifone sono due fratelli, figli del severo Demea. Ma il primo<br />

è stato adottato ed educato dal permissivo fratello di Demea, Micione, e conduce<br />

una vita scapestrata che desta il biasimo di Demea e la preoccupazione, non manifesta,<br />

di Micione. Proprio quando Eschino sembra aver messo la testa a posto e<br />

decide di sposare Panfila, una ragazza di umile condizione che aspetta un figlio da<br />

lui, si viene a sapere che il giovane ha fatto irruzione nella casa di un lenone e ne<br />

ha tratto via a forza una prostituta. La notizia giunge alle orecchie di Sostrata, madre<br />

di Panfila, la quale, indignata, volge subito il pensiero ai risvolti pratici della<br />

questione e, in previsione del matrimonio di Panfila con qualcun altro, fa subito<br />

mandare a chiamare un parente. Più o meno a questo punto della commedia menandrea<br />

doveva trovarsi la sentenza in esame, con la sconsolata constatazione che<br />

bisogna adoperarsi alacremente per procurare un parente alla ragazza, dato che<br />

trovare qualcuno disposto a dichiararsi legato a un povero da vincoli di parentela è<br />

impresa ardua.


La tradizione paremiografica nelle commedie di Menandro<br />

trovare, che acquistano maggiore significato nel momento in cui<br />

sono specificati dall’oggetto parente (scil. di un povero). La sentenza,<br />

infatti, si divide tra la fine di un verso e l’inizio del successivo, due<br />

posizioni di rilievo, dando luogo a un enjambement e concludendosi<br />

con la cesura pentemimere del secondo verso. Le due parole iniziali<br />

della sentenza, e[rgon e euJrei`n, poi, risultano assonanti (vocalismo<br />

e iniziale, consonante interna r, consonante n finale).<br />

Un esempio simile al precedente, ed anzi perfino più ricco, è dato<br />

da Asp. 20 s. stratiwvth/, Smikrivnh, swthriva~ / e[st∆ e[rgon euJrei`n<br />

provfasin, ojlevqrou d∆ eu[poron ( 44 ). In questo caso, oltre al ripetersi<br />

dell’assonanza tra e[rgon ed euJrei`n, sono compresenti diversi fenomeni.<br />

Già l’utilizzo del termine e[rgon si presta a qualche considerazione:<br />

esso è qui utilizzato in un’accezione metaforica, col senso<br />

di “compito difficile, arduo”, derivante da quello letterale di “risultato<br />

di un’azione”. “Erga, in greco, però, non sempre sono azioni<br />

qualunque: spesso sono imprese belliche ( 45 ). Come non cogliere,<br />

quindi, l’amara ironia di Davo? Questi riferisce alla salvezza, spesso<br />

difficile per chi combatte, un termine semanticamente legato al concetto<br />

di guerra, producendo pertanto un ossimoro che si configura<br />

come secondo livello interpretativo, subito dopo quello letterale: in<br />

guerra la vera impresa eroica, l’autentica prodezza non la si compie<br />

combattendo, ma riuscendo a salvarsi. Strategica e meditata risulta<br />

poi la collocazione delle parole all’interno dei due versi. L’esordio è<br />

costituito dal termine stratiwvth/: si tratta del soggetto logico, anche<br />

se non grammaticale, della frase, e come tale non solo non potrebbe<br />

essere eliminato senza che la sentenza perda completamente o quasi<br />

di significato (che sia arduo salvarsi ma facile morire, detto in generale<br />

e senza alcun riferimento a un contesto specifico, è un concetto<br />

troppo vago per risultare significativo), ma è anche posto in evidenza<br />

da Menandro all’inizio della sentenza. Va inoltre notato il perfetto<br />

parallelismo con il quale viene costruito il seguito della battuta:<br />

( 44 ) Sebbene il senso della battuta di Davo non sia in discussione, dal punto di<br />

vista testuale c’è da osservare che la grafia stratiwvth/ è emendamento di Edmonds<br />

(fr. 76a), riproposto da C. AUSTIN (cfr. Menandri Aspis et Samia, ed. C. Austin,<br />

voll. I-II, Berlin 1969-1970, ad. loc.; la congettura è stata confermata dal PSI 126,<br />

cfr. C. AUSTIN, Comicorum Graecorum Fragmenta in Papyris Reperta, Berolini et<br />

Novi Eboraci 1973, fr. 109,20.) ed accolta tanto da SANDBACH 1990 quanto da AR-<br />

NOTT. I manoscritti di Stobeo (Ecl. IV 12,6 H.) riportano però la forma stratiwvthn,<br />

mentre stratiwvth~ è la lezione del papiro Bodmer 26 (cfr. Arnott I, p. 14).<br />

( 45 )A titolo esemplificativo, LSJ citano una serie di passi, omerici (Il. 4, 175; 4,<br />

470; 4, 539; 13, 366 etc.) e non (Aristoph., Thesm. 414; Plat., Menex. 241c etc.).<br />

19


20<br />

soggetto<br />

predic. nom.<br />

(copula + sostantivo neutro)<br />

SILVIO SCHIRRU<br />

compl. di specif. (in gen.)<br />

euJrei`n provfasin e[st∆ e[rgon swthriva~<br />

(euJrei`n provfasin) (e[sti) d∆ eu[poron ojlevqrou<br />

La precisa corrispondenza degli elementi della prima metà e della<br />

seconda metà dell’enunciato aiutano lo spettatore ad assimilare<br />

l’equazione salvezza : improbabile = morte: probabile e permettono<br />

alla sentenza di essere riconoscibile come tale, essendo il parallelismo<br />

uno degli aspetti formali che conferiscono a un’espressione valore<br />

sapienziale. Dal punto di vista fonico, notiamo la presenza di due serie<br />

allitteranti, una in sibilante, stratiwvth/, Smikrivnh, swthriva~,<br />

ed una in vocale e, e[st∆ e[rgon euJrei`n [...] eu[poron.<br />

Georg. fr. 1, 4 s. kai; sukofavnth~ eujqu;~ oJ to; tribwvnion / e[cwn<br />

kalei`tai, ka]n ajdikouvmeno~ tuvch/. Il fulcro semantico della sentenza è<br />

costituito dall’opposizione tra sukofavnth~ e ajdikouvmeno~. La parola<br />

sukofavnth~ è vocabolo quasi “tecnico” della commedia greca: indicando<br />

una tipologia di persona infida, metonimicamente e metaforicamente<br />

le individua tutte. Che un povero (cioè un individuo socialmente penalizzato)<br />

venga dunque considerato un sicofante è di per sé argomento<br />

“patetico” ed emotivamente coinvolgente; diventa paradossale e causa di<br />

indignazione quando si precisa che colui che viene definito in modo negativo<br />

è in realtà l’ajdikouvmeno~, colui che ha patito l’ingiustizia. Altro<br />

concetto semanticamente importante è quello espresso da to; tribwvnion<br />

e[cwn. In questa seconda metonimia, in cui l’atto di indossare un mantellaccio<br />

significa povertà, è racchiuso tutto il senso morale della sentenza,<br />

quello più profondo: “non importa chi tu sia o come tu viva: se non<br />

puoi permetterti vesti di valore allora non potrai mai godere di prestigio<br />

sociale, di credito, di fiducia e, in definitiva, non potrai ottenere giustizia,<br />

perché non sei un cittadino come gli altri o, per meglio dire, non sei<br />

affatto un cittadino”. Se fonicamente non ci sono rilievi particolari da<br />

fare, possiamo notare che sul piano ritmico la sentenza costituisce<br />

un’unità metrica a sé stante (in questo caso due versi). Inoltre è possibile<br />

individuare una disposizione chiastica così strutturata:<br />

kai; sukofavnth~<br />

(complemento predicativo<br />

del soggetto)<br />

[eujqu;~] oJ to; tribwvnion e[cwn<br />

(predicato verbale + complemento oggetto,<br />

che però equivalgono logicamente<br />

al solo predicato nominale essere poveri)<br />

kalei`tai ka]n ajdikouvmeno~ tuvch/<br />

(predicato verbale) (prop. concessiva)


La tradizione paremiografica nelle commedie di Menandro<br />

La tabella evidenzia due tipi di parallelismo: lo schema chiastico<br />

complemento/predicato -predicato/complemento e la collocazione<br />

antitetica dei due concetti chiave: sukofavnth~ e ajdikouvmeno~. Il<br />

termine sukofavnth~ è inoltre accostato, quasi come lemma, a quella<br />

che, nell’ambito della sentenza, ne è la chiosa: sukofavnth~: oJ to;<br />

tribwvnion e[cwn.<br />

Georg. fr. 2 to; th`~ tuvch~ ga;r rJeu`ma metapivptei tacuv ( 46 ). La parola<br />

rJeu`ma, letteralmente, può essere resa con “corrente, flusso”, anche<br />

se qui il termine è evidentemente adoperato come metafora indicante<br />

un procedere di cose astratto ( 47 ). Sul piano degli espedienti fonici va<br />

messo in rilievo che la sentenza è introdotta da una serie allitterante in<br />

t (to; th`~ tuvch~) e che tuvch~ e tacuv, i due termini che con la loro<br />

contrapposizione costituiscono l’essenza dell’aforisma, sono allitteranti,<br />

assonanti e metricamente equivalenti (sequenza giambica). Tutto<br />

ciò concorre a attirare l’attenzione dell’uditorio: la sentenza (di un<br />

unico verso, quindi facilmente “proverbializzabile”) ( 48 ) viene intro-<br />

( 46 ) Come ammette lo stesso ARNOTT I (p. 104 ss.), la perdita delle scene di<br />

apertura del Gewrgov~ impedisce di farci un’idea precisa delle premesse dalle quali<br />

prende il via la narrazione. Tutto ciò che sappiamo è che, circa nove mesi prima<br />

degli eventi descritti nella commedia, un giovane ha messo incinta una donna libera.<br />

Per motivi che non sono chiari, ha fino ad ora evitato di “regolarizzare” la<br />

propria posizione. Di ritorno da un viaggio d’affari a Corinto, il ragazzo apprende<br />

che il padre gli ha combinato un matrimonio con la figlia che l’uomo ha avuto<br />

dalla seconda moglie. Sappiamo anche che la prima ragazza, quella che aspetta il<br />

bambino, è vicina di casa della famiglia del giovane, e che ha un fratello di nome<br />

Gorgia. Quest’ultimo, presumibilmente a causa della sua povertà, lavora al servizio<br />

di un certo Clineto, il gewrgov~ dal quale la commedia trae il titolo.<br />

( 47 )GOMME-SANDBACH (p. 116 s.) fanno notare come il termine rJeu`ma non<br />

abbia altre occorrenze nella Commedia Nuova, e sospettano che Menandro abbia<br />

qui volutamente creato, tramite l’utilizzo di un termine inusuale, un aforisma dall’effetto<br />

straniante. È possibile, in effetti, che qui Menandro abbia utilizzato un<br />

tecnicismo di matrice agricola per ottenere un effetto comico; è anche vero, però,<br />

che vi sono diversi esempi di rJeu`ma, nel greco classico, usato in senso metaforico<br />

(cfr. ad esempio Herodot. Hist. II 20,24, Aesch. Prom. Vinct. 139, Xenoph. Hist.<br />

Gr. IV 2,11 etc.). In ogni caso non è un termine usato casualmente, e perché ciò<br />

sia evidente Menandro lo inserisce tra la cesura pentemimere e quella eftemimere.<br />

( 48 ) La fortuna dell’aforisma menandreo è testimoniata dal gran numero di citazioni<br />

(cfr. ARNOTT I, p. 126 s.): oltre che da Stob. IV 41.28, che nomina la commedia<br />

di appartenenza, il passo è menzionato anche da Etym. M. p. 685, 38 Gaisford,<br />

da AO I 333.31 Cramer, da Schol. B Hom. D 396 Dindorf, tutti senza la<br />

citazione della commedia di Menandro, nonché da Schol. Soph. Oed. R. 1191 Papageorgios<br />

e da Schol. Eur. Or. 343 vol. I p. 135 Schwartz, che non fanno cenno<br />

nemmeno a Menandro, ma si veda pure Elias (VI sec.) nei suoi commenti a Porphyr.<br />

Isagog. e ad Aristot. Categor. in C.A.G. XVIII/1 p. 45 e 252.<br />

21


22<br />

SILVIO SCHIRRU<br />

dotta da un’allitterazione e i due termini chiave sono messi in evidenza<br />

da diversi richiami sonori. Se poi si considera anche la consueta<br />

disposizione chiastica dell’enunciato, che colloca i termini chiave<br />

in apertura e in chiusura tanto del verso quanto della sentenza,<br />

to; th`~ tuvch~ ga;r rJeu`ma<br />

(compl. di specificazione) (soggetto)<br />

metapivptei tacuv<br />

(predicato verbale) (compl. di modo)<br />

risulta praticamente inevitabile associare inconsciamente tuvch~ e tacuv,<br />

ciò che dava al pubblico l’impressione che la tuvch fosse tacei`a per<br />

sua natura immanente, intrinseca, conferendo pertanto all’espressione<br />

proverbiale anche una legittimazione e una conferma irrazionali,<br />

oltre a quelle dettate dal buon senso.<br />

2.2. Contenuto delle sentenze. – Le commedie di Menandro rappresentano<br />

un microcosmo popolato da personaggi e vicende che<br />

trovano la loro origine nel contesto storico e sociale di Atene nel periodo<br />

compreso tra la metà del IV sec. a. C. e i primi anni del III. Le<br />

violente repressioni delle rivolte tra il 303 e il 295, gli assedi tra il<br />

304 e il 296-4, le carestie fra il 320 e il 290 sono in parte causa di fenomeni<br />

che hanno sul tessuto sociale un impatto devastante: il divario<br />

sempre crescente tra ricchi e poveri, il contrasto tra gli abitanti<br />

della città e i campagnoli, la crisi economica ormai costante e un generale<br />

senso di insicurezza e instabilità, che inasprisce i conflitti sociali<br />

e generazionali ( 49 ). Le conseguenze di questo stato di cose sul<br />

teatro menandreo sono due: la prima è che il pubblico delle sue<br />

commedie è costituito in gran parte da cittadini della classe media,<br />

composta in prevalenza da quei commercianti che erano riusciti a<br />

trarre il maggior profitto dalla situazione contingente ( 50 ). La seconda<br />

è che il pubblico della Commedia Nuova si reca a teatro non più<br />

alla ricerca di un momento di riflessione politica, per quanto accompagnato<br />

dall’ironia (come avveniva con Aristofane), né di un dibatti-<br />

( 49 ) Cfr. W.G. ARNOTT, Moral Values in Menander, Philologus CXXV, 1981,<br />

pp. 215-227.<br />

( 50 ) Soprattutto dopo la costituzione censitaria del 322, allorché oltre 12.000<br />

persone vennero private della cittadinanza; tale perdita implicava il mancato ricevimento<br />

dei contributi statali, tra cui il qewrikovn, sempre che quest’ultimo ancora<br />

esistesse: cfr. GOMME-SANDBACH, p. 22 n. 1 e G. BODEI GIGLIONI, Menandro o la<br />

politica della convivenza, Como 1984, p. 15 ss.


La tradizione paremiografica nelle commedie di Menandro<br />

to su temi etici o religiosi (come nel caso della tragedia classica),<br />

bensì desideroso di evasione, di uno spettacolo che appagasse sulla<br />

scena quel bisogno di una vita serena e pacifica che era impossibile<br />

mettere in pratica nel mondo reale ( 51 ). In Menandro vengono raccontate<br />

vicende i cui protagonisti sono i suoi stessi spettatori, per<br />

quanto deformati dalla lente della finzione, che però sulla scena affrontano<br />

situazioni lontanissime dalla realtà del mondo esterno:<br />

questioni di amore e passione, di debiti e crediti, di parenti perduti e<br />

ritrovati dominano le esistenze dei personaggi e si concludono immancabilmente<br />

con la riconciliazione e l’appianamento di ogni contrasto.<br />

Ma anche a un contesto idealizzato come questo è sotteso un<br />

sistema di valori nel quale il pubblico si riconosceva e che, pur non<br />

potendo trovare applicazione nella realtà, è pienamente operante nel<br />

microcosmo menandreo, ciò che contribuiva a soddisfare nello spettatore<br />

quel desiderio di sicurezza che, fuori dal teatro, restava inappagato.<br />

In un simile contesto le espressioni proverbiali, sintesi per<br />

antonomasia del sistema di valori della società che li produce, hanno<br />

enorme importanza, giacché permettono a Menandro di alludere<br />

con pennellate brevi ed efficaci al background sociale delle sue commedie<br />

e favoriscono l’identificazione dello spettatore con la persona che<br />

calca la scena. Le sentenze esprimono il senso di caducità che investe,<br />

per l’Ateniese contemporaneo, ogni sfera dell’esistenza ( 52 ); danno<br />

voce ai conflitti sociali e alla disparità tra ricchi e poveri ( 53 ); affrontano<br />

il dramma della guerra e la rassegnazione che da esso deriva ( 54 );<br />

ma ricordano anche che è importante che l’uomo, nonostante la Sorte<br />

possa essere imprevedibile, abbia sempre una certa misura in tutto ciò<br />

che fa e tragga insegnamento anche dalle esperienze negative ( 55 ).<br />

( 51 ) Cfr. DEL CORNO 1979, p. 265 ss.<br />

( 52 ) Per esempio o}n oiJ qeoi; filou`sin, ajpoqnhv/skei nevo~ (Dis Ex. fr. 4); to;<br />

th`~ tuvch~ / a[dhlon (Asp. 248 s.); to; th`~ tuvch~ ga;r rJeu`ma metapivptei tacuv<br />

(Georg. fr. 2); povll∆ ejsti;n e[rg∆ a[pista, paidivon, tuvc]h~ (Peric. 802); tuflovn ge<br />

kai; duvsthnovn ejstin hJ Tuvch (Fab. inc. fr. 682 K.-A.).<br />

( 53 ) Alcuni esempi: oujqei;~ ejplouvthsen tacevw~ divkaio~ w[n (Colax 43);<br />

e[rgon euJrei`n suggenh` / pevnhtov~ ejstin (Adelph. b∆ fr. 9, 1 s. K.-A.); tw`n d∆<br />

aJpavntwn i[sq∆ o{ti / ptwco;~ ajdikhqeiv~ ejsti duskolwvtaton (Dysc. 295 s.);<br />

duvnatai to; ploutei`n kai; filanqrwvpou~ poiei`n (Halieus, fr. 23 K.-A.); oJ<br />

polu;~ a[krato~ ojlivg∆ ajnagkavzei fronei`n (Fab. inc. fr. 735 K.-A.).<br />

( 54 ) Con constatazioni fatalistiche del tipo stratiwvth/, Smikrivnh, swthriva~ /<br />

e[st∆ e[rgon euJrei`n provfasin, ojlevqrou d∆ eu[poron (Asp. 20 s.).<br />

( 55 ) Per esempio tw`n d∆ ajnagkaivwn levgein/pleivonæ] oujk ajndro;~ nomivzw,<br />

Dysc. 740 s.; ta; kaka; paideuvein movna / ejpivstaq∆ hJma`~ wJ~, e[oike, Dysc. 699 s.<br />

23


24<br />

Abbreviazioni bibliografiche<br />

SILVIO SCHIRRU<br />

ARNOTT (I-II-III), Menander, edited and translated by W.G. Arnott, voll. I-III,<br />

Harvard-Cambridge-London 1979-2000.<br />

CIRESE 1969 = A.M. CIRESE, Prime annotazioni per un’analisi strutturale dei proverbi,<br />

dispense del corso di Antropologia Culturale, Università di Cagliari<br />

A.A. 1968-69.<br />

CIRESE 1972 = A.M. CIRESE, I proverbi: struttura delle definizioni, in Documenti di<br />

lavoro e prepubblicazioni del Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica,<br />

Università di Urbino, numero 12 (marzo 1972), p. 1 ss.<br />

CIRESE 1979 = A.M. CIRESE, I proverbi di preferenza, Sigma (nuova serie) 2-3.<br />

DEL CORNO 1979 = D. DEL CORNO, Vita cittadina e commedia borghese, in Storia<br />

e Civiltà dei Greci, diretta da R. Bianchi Bandinelli, t. 5, Milano, pp. 265-<br />

298.<br />

EDMONDS, The Fragments of Attic Comedy, augmented, newly edited with their<br />

contexts, annotated, and completely translated into English verse by J.M.<br />

Edmonds, Leiden 1957 (vol. I), 1959 (vol. II), 1961 (vol. III).<br />

GOMME-SANDBACH = A.W. GOMME-F.H. SANDBACH, Menander, a Commentary,<br />

Oxford 1973.<br />

K.-A., Poetae Comici Graeci, ediderunt R. Kassel et C. Austin, voll. I-II-III/2-IV-<br />

V-VI/2-VII-VIII, Berolini et Novi Eboraci 1983-2001.<br />

KINDSTRAND = J.F. KINDSTRAND, The Greek Concept of Proverbs, Eranos LXXVI,<br />

1978, pp. 71-85.<br />

RUSSO = J. RUSSO, The Poetics of the ancient Greek Proverb, Journal of Folklore<br />

Research XX (Bloomington Indiana Univ. Folklore Inst.) 1983, pp. 121-<br />

130.<br />

SANDBACH 1990, Menandri Reliquiae selectae, iteratis curis nova appendice auctas<br />

recensuit F.H. Sandbach, Oxford (19721 ).<br />

STRÖMBERG = R. STRÖMBERG, Greek proverbs. A Collection of Proverbs and Proverbial<br />

Phrases which are not listed by the ancient and Byzantine Paroemiographers,<br />

Introduction, Notes, Bibliography & Indices by R.S., Goteborg<br />

1954.<br />

TOSI = R. TOSI, Dizionario delle sentenze greche e latine, Milano 1991.


ROBERTO CORONEO<br />

SCULTURA IN SARDEGNA DAL VII AL IX SECOLO<br />

La valutazione della reale incidenza dell’arte “barbarica” nei territori<br />

dell’impero romano interessati dall’insediamento di popolazioni<br />

di etnia gotica e germanica si è configurata, nella storia degli studi,<br />

come genesi di un problema critico. Le tappe sono segnate dal superamento<br />

della nozione di “decadenza” applicata tout court all’arte romana<br />

dei “bassi tempi”, dall’elaborazione del concetto di Kunstwollen applicato<br />

al tardoantico nell’ambito della Scuola di Vienna ( 1 ), dall’individuazione<br />

dell’apporto di artefici romano-barbarici, ma limitatamente<br />

al campo dell’industria artistica, e finalmente dal riconoscimento<br />

della sostanziale continuità della tradizione classica nei vari<br />

ambiti del Mediterraneo occidentale fra VII e IX secolo.<br />

Rispetto alla scultura, la disamina del problema ha coinvolto l’esatta<br />

comprensione di vasti fenomeni di espressione “astratta” ( 2 ). Questi<br />

interessano ambiti sia occidentali sia orientali e sono motivati anzitutto<br />

da un rifiuto della rappresentazione iconica che ha radici profonde<br />

nell’iconografia cristiana dei primi secoli ( 3 ). Allo stesso tempo, il ricorso<br />

a un repertorio geometrico si spiega col fatto che resta l’unico<br />

praticabile con sicurezza nel momento della crisi dei sistemi di trasmissione<br />

della cultura e dunque delle produzioni tradizionali basate<br />

sulla continuità tecnico-formale all’interno della bottega.<br />

È quanto si verifica in ambito italico centro-settentrionale a partire<br />

dalla soglia cronologica del VII secolo. Si tratta di una terra du-<br />

( 1 )A. RIEGL, Problemi di stile [1893], Milano 1963; A. RIEGL, Industria artistica<br />

tardoromana [1901], Firenze 1953.<br />

( 2 ) R. BIANCHI BAN<strong>DI</strong>NELLI, Organicità e astrazione, Milano 1956.<br />

( 3 ) E. KITZINGER, Il culto delle immagini, L’arte bizantina dal cristianesimo delle<br />

origini all’Iconoclastia [1976], Firenze 1992.


26<br />

ROBERTO CORONEO<br />

ramente provata dai continui saccheggi a opera degli eserciti contrapposti<br />

nella guerra greco-gotica, nonché dall’epidemia di peste<br />

alla metà del VI secolo, e quindi dal totale disastro dei preesistenti<br />

assetti demografici, sociali ed economici a seguito della conquista<br />

longobarda del 568. L’evento, epocale per la storia d’Italia in genere,<br />

determina in campo artistico soluzioni di continuità del sostrato<br />

mediterraneo tardoantico. La frattura non avviene però nel senso<br />

dell’immissione di specifici contenuti figurativi di ascendenza germanica<br />

( 4 ). Si registra piuttosto una lenta e graduale trasformazione<br />

dei tipi classici, sottoposti a modifiche locali. Queste non riflettono<br />

più l’adeguamento ai prototipi d’importazione, bensì processi imitativi<br />

dei modelli “antichi” di età tardoromana o tardoantica. Si configura<br />

così quella dialettica di “tradizione” e “mutazioni”, peculiare<br />

della scultura altomedievale ( 5 ).<br />

La dinamica è verificabile anche in Sardegna, dove un gruppo di<br />

capitelli di produzione locale, collocabili fra il VII e il IX secolo, permette<br />

di constatare la rielaborazione di modelli del V-VI secolo e la<br />

loro rielaborazione secondo una logica formale del tutto originale e innovativa.<br />

I parallelismi riscontrabili con analoghi esemplari d’area italica,<br />

africana o costantinopolitana non implicano reali contatti con<br />

ambiti artistici extraisolani ma risultano semplicemente da simili processi<br />

di “mutazione” dei dati di comune sostrato tardoantico.<br />

Sant’Antioco, collezione Biggio<br />

Nella collezione Biggio di Sant’Antioco sono custoditi tre capitelli<br />

pseudocorinzi ( 6 ), la cui provenienza è sconosciuta. Tuttavia l’inquadramento<br />

nell’ambito territoriale sulcitano è verosimile sulla<br />

base degli altri materiali confluiti nella raccolta privata, eterogenei<br />

ma in massima parte riferibili a contesti preistorici, fenicio-punici,<br />

( 4 ) G. HASELOFF, I principi mediterranei dell’arte barbarica, in Il passaggio dall’antichità<br />

al medioevo in Occidente, IX Settimana di studio del Centro Italiano di<br />

Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1962, pp. 477-496; G. HASELOFF, Gli stili artistici<br />

altomedievali, Firenze 1989.<br />

( 5 ) A.M. ROMANINI, Tradizione e mutazioni nella cultura figurativa precarolingia,<br />

in La cultura antica nell’Occidente latino dal VII all’XI secolo, XXII Settimana<br />

di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1975, pp. 759-<br />

798; A.M. ROMANINI, Il concetto di classico e l’arte medievale, in “Romanobarbarica”,<br />

I, 1976, pp. 203-241; A.M. ROMANINI, Scultura nella Langobardia major:<br />

questioni storiografiche, in “Arte medievale”, II serie, V, n. 1, 1991, pp. 1-30.<br />

( 6 ) R. CORONEO, La cultura artistica, in Ai confini dell’impero. Storia, arte e archeologia<br />

della Sardegna bizantina, Cagliari, 2002, p. 263, sch. e fig. 23.


Scultura in Sardegna dal VII al IX secolo<br />

romani e medievali di Sant’Antioco o centri limitrofi. Due capitelli<br />

sono in marmo, il terzo in calcare.<br />

Il primo capitello (h cm 20,5, abaco cm 17, ø cm 13) presenta<br />

quattro foglie lisce dalla punta fortemente ripiegata, con calice interposto<br />

che oltrepassa un doppio collarino mediano e dirama con i<br />

caulicoli arricciolati sotto gli angoli dell’abaco (fig. 1). Il secondo<br />

capitello (h cm 20, abaco cm 20, ø cm 13) ha corona di otto foglie lisce<br />

dalla punta ripiegata; nella parte superiore si colloca un clipeo che<br />

ospita un elemento forse vegetale (fig. 2). Il terzo capitello (h cm 32,<br />

abaco cm 32, ø cm 15) è il più interessante. Ha corona di quattro<br />

foglie lisce, accompagnate dai caulicoli e come sovrapposte ad altrettante<br />

che vanno ad inserirsi sotto gli angoli dell’abaco. Le foglie<br />

sono distanziate così da permettere l’inserimento di un grande apice<br />

gigliato desinente da una piccola losanga, in una faccia (fig. 3), e di<br />

croci latine gemmate a bracci patenti, nelle altre due facce (fig. 4),<br />

mentre la terza è rovinata. Dai cantoni superiori delle croci fuoriescono<br />

i piccioli che solo in un caso conservano la foglia cuoriforme<br />

forse presente in origine anche negli altri.<br />

I tre capitelli derivano dal tipo corinzio a foglie lisce, sottoposto a<br />

particolari modifiche che si registrano frequentemente in ambito<br />

mediterraneo ed europeo fra il VII e l’VIII secolo. È un periodo in<br />

cui da un lato è avvertibile la continuità dei modelli classici, dall’altro<br />

non si sono ancora prodotti fenomeni di abbandono della tradizione<br />

tecnico-formale del V-VI secolo e la conseguente imitazione<br />

dell’“antico”, necessaria nei secoli successivi.<br />

I primi due capitelli risultano prossimi per volumetria al tipo “cubico”<br />

del IX-X secolo, mentre il secondo capitello appare più originale, in<br />

ragione del clipeo che ne occupa la parte superiore. Il primo e il terzo<br />

sono simili a un esemplare pseudocorinzio del Museo del Sannio a Benevento,<br />

ascritto agli ultimi decenni del VII secolo ( 7 ). Quest’ultimo ha<br />

quattro foglie angolari, ognuna delle quali si sovrappone a un’altra<br />

(come nel terzo capitello di Sant’Antioco), fra cui si inserisce un calice<br />

con analogo collarino mediano e caulicoli a voluta (come nel secondo).<br />

Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”<br />

Nel Museo Nazionale “G.A. Sanna” di Sassari è custodito un capitello<br />

pseudocorinzio in marmo, nel quale quattro foglie lisce si saldano<br />

alla base e dirigono le punte verso gli angoli dell’abaco, con bugna<br />

( 7 ) M. ROTILI, Corpus della scultura altomedievale, V, La diocesi di Benevento,<br />

Spoleto 1966, p. 52, sch. e fig. 34.<br />

27


28<br />

ROBERTO CORONEO<br />

centrale sotto cui si dispone una foglia cuoriforme con picciolo nascente<br />

dalle foglie (fig. 5). Secondo Roberto Caprara ( 8 ), il capitello<br />

proviene dalla distrutta chiesa di San Lorenzo a Sassari e “le foglie costolate<br />

angolari trovano confronti stringenti in manufatti del IX secolo,<br />

ma si trovano già nel VII in area dalmata e microasiatica”. Marisa<br />

Porcu Gaias ( 9 ) precisa la provenienza dagli scavi nell’area del villaggio<br />

di Quiterone, non lontano da San Pietro di Silki, in cui sorgeva la<br />

chiesa di San Lorenzo, e amplia l’arco di datazione fra il VII e l’XI secolo,<br />

successivamente ristretta fra il VII e l’VIII secolo ( 10 ).<br />

Nel capitello sassarese l’evoluzione del capitello corinzio a quattro<br />

foglie angolari raggiunge un alto stadio di semplificazione sintetica<br />

e si discosta volumetricamente dal tipo del V-VI secolo per le<br />

proporzioni basse e larghe. Queste si osservano in esemplari di Maktar<br />

in Tunisia, pseudocorinzi a quattro larghe foglie lisce, probabilmente<br />

del VII secolo ( 11 ), e di Brescia, ascritti all’VIII secolo, pseudocorinzi<br />

con foglie lisce sotto gli angoli dell’abaco e caulicoli lunghi<br />

ed esili fra i quali si inserisce la croce, nel San Faustino maggiore,<br />

nella Santa Maria maggiore, nel San Pietro in Oliveto ( 12 ).<br />

Porto Torres, basilica di San Gavino<br />

Sulla prima colonna sudest del corpo est della basilica di San Gavino<br />

a Porto Torres, ricostruita nell’XI secolo, è reimpiegato un capitello<br />

pseudocorinzio in marmo (fig. 6). Probabilmente deriva dalla<br />

totale rilavorazione di un esemplare classico, trasformato a due corone<br />

di foglie d’acanto assai schematizzate, con sottili incisioni lineari<br />

che suggeriscono le nervature, e sovrapposte in modo da lasciare fra<br />

le coppie appena lo spazio necessario a un alto ed esile caulicolo verticale<br />

che arricciola le estremità contrapposte generando una gemma<br />

( 8 ) R. CAPRARA, Tarda Antichità e Medioevo, in Il Museo Sanna in Sassari, Cinisello<br />

Balsamo 1986, pp. 172, 174, fig. 253.<br />

( 9 )M. PORCU GAIAS, Sassari, Storia architettonica e urbanistica dalle origini al<br />

’600, Nuoro 1996, pp. 11, 15, sch. e fig. 8.<br />

( 10 ) R. CORONEO, La cultura artistica cit., pp. 263-264, sch. e fig. 24.<br />

( 11 )P. PENSABENE, La decorazione architettonica, l’impiego del marmo e l’importazione<br />

di manufatti orientali a Roma, in Italia e in Africa (II-VI d.C.), in Società romana<br />

e impero tardoantico, III, Le merci e gli insediamenti, Roma-Bari 1986, pp. 408-<br />

409, figg. 50 c (basilica di Hildeguns), 50d (“Schola Iuvenum”).<br />

( 12 ) G. PANAZZA-A. TAGLIAFERRI, Corpus della scultura altomedievale, III, La<br />

Diocesi di Brescia, Spoleto 1966, p. 30, sch. e fig. 9 (San Faustino), pp. 32-35,<br />

sch. e figg. 11-12 (Santa Maria), pp. 226-227, sch. 242, fig. 251 (San Pietro).


Scultura in Sardegna dal VII al IX secolo<br />

o fiore romboidale. Raffaello Delogu ( 13 ) lo ritenne eseguito ad hoc<br />

per la fabbrica dell’XI secolo, seguito da Renata Serra ( 14 ) e da Maria<br />

Paola Dettori ( 15 ). Fernanda Poli ( 16 ) ne ha suggerito l’ascrizione all’VIII-IX<br />

secolo, sulla base di riscontri con coevi capitelli nel Museo<br />

Civico di Modena e nelle chiese di Santa Prassede a Roma, San<br />

Zeno a Bardolino, Santa Maria d’Aurona a Milano, Santa Maria assunta<br />

ad Aquileia, e del rimando al pluteo della chiesa di Sant’Afra a<br />

Brescia, nonché al ciborio di San Giorgio di Valpolicella.<br />

La foglia è simile – nella sagoma vegetale e nell’estrema semplificazione<br />

lineare delle nervature – a quelle in un capitello a stampella del<br />

Museo del Sannio a Benevento, ascritto al IX secolo ( 17 ). Esili caulicoli<br />

dalle estremità arricciolate si collocano tra le foglie d’acanto assai<br />

semplificate in uno dei capitelli del ciborio di Sant’Eleucadio nella<br />

chiesa di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, innalzato sotto l’arcivescovo<br />

Valerio agli inizi del IX secolo ( 18 ). Il caulicolo desinente con<br />

trifoglio “ad alabarda” si inserisce tra foglie lisce angolari in un capitello<br />

del Museo Nazionale di Lucca, collocato tra l’VIII e il X secolo ( 19 ).<br />

Villasor, Piazza e Casa comunale<br />

A Villasor si conservano due capitelli pseudoionici in marmo, che<br />

si differenziano solo per minime varianti. Il primo sormonta la colonna<br />

crucigera nota come sa cruxi de cunventu. Il secondo fu estratto nel<br />

1979 dal muro di una vecchia casa del centro storico ( 20 ). Per entram-<br />

( 13 ) R. DELOGU, L’architettura del Medioevo in Sardegna, Roma 1953, p. 87,<br />

tav. LXIc.<br />

( 14 ) R. SERRA, Italia romanica, X, La Sardegna, Milano 1989, p. 212, fig. 89.<br />

( 15 ) M.P. DETTORI, Contributo alla ricerca sull’arte dell’Alto Medioevo nel Nord<br />

Sardegna, in “Studi Sardi”, XXXI, 1994-98, p. 343.<br />

( 16 ) F. POLI, La basilica di San Gavino a Porto Torres, La storia e le vicende architettoniche,<br />

Sassari 1997, pp. 165-167, fig. 67. Cfr. inoltre R. CORONEO, La cultura<br />

artistica cit., p. 264, sch. e fig. 25.<br />

( 17 ) M. ROTILI, Corpus cit., pp. 63-64, sch. e fig. 50.<br />

( 18 ) P. ANGIOLINI MARTINELLI, “Corpus” della scultura paleocristiana bizantina<br />

ed altomedioevale di Ravenna, I, Altari, amboni, cibori, cornici, plutei con figure di<br />

animali e con intrecci, transenne e frammenti vari, Roma 1968, pp. 36-37, sch. e<br />

fig. 34.<br />

( 19 ) I. BELLI BARSALI, Corpus della scultura altomedievale, I, La Diocesi di Lucca,<br />

Spoleto 1959, p. 41, sch. 38, tav. XX.<br />

( 20 ) F. VIR<strong>DI</strong>S, Considerazioni storiche su: La chiesa bizantina di S. Maria di<br />

Gippi (Villasor), Villasor 1996, p. 12, nota 39, p. 28, figg. 7-8.<br />

29


30<br />

ROBERTO CORONEO<br />

bi il luogo di provenienza può essere solo per via ipotetica individuato<br />

nei ruderi della chiesa in territorio di Villasor o del confinante paese<br />

di Decimoputzu, dai quali furono prelevati nell’Ottocento marmi epigrafici<br />

( 21 ). Le volute del rocchetto si espandono frontalmente con<br />

palmette che si contrappongono lasciando, nel secondo, appena lo<br />

spazio per un motivo di risulta che sale a occupare la bugna centrale<br />

dell’abaco. L’echino è occupato dal kyma ionico a tre ovoli alternati a<br />

lancette capovolte. Nel primo capitello la resa scultorea dei motivi appare<br />

più schematica rispetto al secondo, che presenta in aggiunta un<br />

nastro intrecciato a due capi triplici con bottoni centrali, nel balteo laterale<br />

del rocchetto accompagnandone gli andamenti curvilinei.<br />

Giuseppe Nieddu ( 22 ) ne ha evidenziato la derivazione dal tipo<br />

ionico tardoromano, del quale si mantiene la “salda struttura di<br />

ascendenza ‘classica’, con i vari elementi decorativi quasi ‘enfatizzati’<br />

da una trattazione che ne rivela la produzione in età tarda”. Quest’ultima<br />

viene proposta all’VIII-IX secolo sulla base di confronti<br />

con sculture del Museo Bellomo di Siracusa, ascritte al IX secolo, e<br />

del Palazzo Antonelli di Roma, collocate nel X secolo. Un capitello<br />

pseudoionico del Museo del Sannio a Benevento, ascritto all’VIII-IX<br />

secolo ( 23 ), presenta gli stessi rapporti volumetrici e il motivo a ovoli<br />

che si inserisce sotto l’abaco con volute a palmetta identiche a quelle<br />

che si vedono negli esemplari di Villasor ( 24 ).<br />

Decimoputzu, casa privata<br />

In una casa privata di Decimoputzu, a breve distanza dalla parrocchiale<br />

di Santa Maria delle Grazie, si trova un capitello pseudoionico<br />

in calcare. Non si conoscono le circostanze di rinvenimento. La<br />

lavorazione interessa solo due facce contigue, mentre le altre sono lisce.<br />

Nel kalathos dal collarino basale partono verso l’alto due listelli<br />

nastriformi “a S” che in ogni faccia si contrappongono simmetricamente,<br />

fondendosi al centro in un apice gigliato e generando le volute<br />

angolari, dopo esser passati sotto un collarino mediano a fascia<br />

tripartita (fig. 7). Non è facile appurare se si tratti del frammento di<br />

( 21 ) R. CORONEO, Scultura mediobizantina in Sardegna, Nuoro 2000, pp. 65-69.<br />

( 22 ) G. NIEDDU, Capitelli di epoca alto-medioevale della Sardegna meridionale,<br />

in Studi di archeologia e antichità, I, “Quaderni della Soprintendenza Archeologica<br />

per le province di Cagliari e Oristano”, n. 3, 1986, pp. 69-75, 77, figg. 1-4.<br />

( 23 ) M. ROTILI, Corpus cit., pp. 58-59, sch. e fig. 43.<br />

( 24 ) Cfr. inoltre R. CORONEO, La cultura artistica cit., pp. 264-265, sch. e fig. 26.


Scultura in Sardegna dal VII al IX secolo<br />

un capitello, oppure se il dimezzamento sia originario, come proposto<br />

da Stefano Basciu ( 25 ), che ne ipotizza il raccordo ad altro elemento<br />

architettonico non precisabile e ne sottolinea il carattere di<br />

unicum nella scultura altomedievale in Sardegna.<br />

L’impossibilità di osservare in diretta il manufatto impedisce di<br />

fugare i dubbi circa la sua esecuzione in età postmedievale. L’esemplare<br />

mantiene comunque un’impostazione fedele al tipo classico,<br />

sebbene l’accentuazione dimensionale delle volute angolari produca<br />

un anomalo sviluppo dell’abaco, che accenna a una conformazione<br />

cubica. Anche nel kalathos si rileva una marcata geometrizzazione,<br />

tanto che la derivazione dal capitello ionico risulta a stento riconoscibile.<br />

Le volute si sono ravvicinate, eliminando l’echino a ovoli; resta<br />

però il collarino mediano. I girali d’acanto contrapposti – come<br />

in un capitello ionico reimpiegato nella Grande Moschea di Kairouan,<br />

ascritto al II secolo a.C. ( 26 ), e in un capitello della collezione<br />

Marino Cao di Cagliari, accostato a esemplari nordafricani e ascritto<br />

alla fine del II-inizi del III secolo ( 27 ) – appaiono rielaborati nel motivo<br />

cuoriforme che inscrive l’apice gigliato.<br />

Analoghi risultati sono verificabili nella transizione dal tipo pseudocorinzio<br />

del VI-VII secolo a quello del IX-XI secolo ( 28 ), ad esempio<br />

nel confronto tra i capitelli di colonnine del chiostro della basilica<br />

di San Francesco a Ravenna, ascritti alla prima metà del VI secolo,<br />

e due del Museo Nazionale di Ravenna, dubitativamente collocati<br />

l’uno nel VI-VII e l’altro nel VII-VIII secolo ( 29 ). In particolare<br />

quest’ultimo mostra la tendenza alla fusione delle foglie in direzione<br />

di un autonomo motivo centrale cuoriforme, come nel capitello di<br />

Decimoputzu ( 30 ).<br />

( 25 ) S. BASCIU, La chiesa di San Giorgio a Decimoputzu, tra fascino e mistero,<br />

Cagliari 1997, pp. 78-80, sch. e fig. 8.<br />

( 26 ) N. HARRAZI, Chapiteaux de la grande Mosquée de Kairouan, I-II, Tunis<br />

1982, pp. 36-37, sch. e fig. 3.<br />

( 27 ) G. NIEDDU, La decorazione architettonica della Sardegna romana, Oristano<br />

1992, pp. 54-55, sch. e fig. 23.<br />

( 28 ) E. VERGNOLLE, Chapiteaux corinthisants de France et d’Italie (IXe-XIe siècles),<br />

in Romanico padano, Romanico europeo, Atti del convegno, Parma 1982, pp. 339-350.<br />

( 29 ) R. OLIVIERI FARIOLI, “Corpus” della scultura paleocristiana bizantina ed altomedioevale<br />

di Ravenna, III, La scultura architettonica, Basi, capitelli, pietre d’imposta,<br />

pilastri e pilastrini, plutei, pulvini, Roma 1969, p. 51, sch. 90, fig. 89 (San<br />

Francesco), sch. 91-92, figg. 90-91 (Museo Nazionale).<br />

( 30 ) Cfr. inoltre R. CORONEO, La cultura artistica cit., p. 265, sch. e fig. 27.<br />

31


32<br />

ROBERTO CORONEO<br />

Sant’Antioco, collezione Biggio e catacombe; Iglesias, collezione comunale<br />

“Pistis Corsi”<br />

Rispetto agli esemplari precedenti, appaiono decisamente innovativi<br />

i capitelli “cubici” con croce, probabilmente destinati a sormontare colonnine<br />

di un ciborio della seconda metà del X secolo, già nella chiesa<br />

di Sant’Antioco. Sono identici fra loro e tutti in marmo. Uno, integro<br />

(h cm 28,5, abaco cm 14, ø cm 10), si trova nella locale collezione Biggio<br />

( 31 ). Un altro, frammentario, è murato nel vano di passaggio dalla<br />

“cripta” alle catacombe ( 32 ). Un terzo, integro, è a Iglesias nella collezione<br />

comunale “Pistis Corsi” ( 33 ). Gli esemplari integri si configurano<br />

a due volumi distinti: dal collarino della parte inferiore, troncoconica,<br />

si sviluppano quattro foglie lisce, che svasando vanno a toccare con le<br />

punte gli spigoli del cubo superiore, saldandosi con il listello che riquadra<br />

le facce frontali, ospitanti croci greche con gemma centrale (fig. 8).<br />

I capitelli sono caratterizzati non solo dalla conformazione “cubica”<br />

che li apparenta ad analoghi esemplari d’area italo-settentrionale fra il<br />

VII e l’XI secolo, ma anche dalla tipologia della croce greca a bracci patenti,<br />

che trova riscontri significativi a partire dal IX secolo per affiancarsi,<br />

nella seconda metà del X, alla forma a bracci potenziati.<br />

Tra la metà del IX e la metà dell’XI secolo, analoghi capitelli pseudocorinzi<br />

di tipo “cubico” ( 34 ) rappresentano una forte continuità con<br />

i tipi del V-VI secolo e al contempo nuove sintesi, caratterizzati come<br />

sono da un’accentuata semplificazione dei volumi costitutivi, cubico<br />

nella metà superiore, cilindrico nell’inferiore. Gli esemplari di San-<br />

( 31 ) R. CORONEO, Frammenti scultorei dal VI all’XI secolo, in L. PORRU, R. SERRA,<br />

R. CORONEO, Sant’Antioco, Le Catacombe, La Chiesa Martyrium, I frammenti scultorei,<br />

Cagliari 1989, p. 136, sch. e fig. 3; R. SERRA, Status quaestionis sul santuario<br />

alto medioevale di Sant’Antioco nell’isola omonima (Cagliari), in Carbonia e il Sulcis,<br />

Archeologia e territorio, Oristano 1995, p. 410, fig. 3; R. CORONEO, Scultura<br />

mediobizantina cit., p. 255, fig. 14.1; P.G. SPANU, Martyria Sardiniae, I santuari<br />

dei martiri sardi, Oristano 2000, pp. 93-94, fig. 40; R. CORONEO, La cultura artistica<br />

cit., p. 270, sch. e fig. 35.<br />

( 32 ) A. TARAMELLI, S. Antioco – Esplorazione delle catacombe sulcitane di Sant’Antioco<br />

e di altri ipogei cristiani, in “Notizie degli Scavi di Antichità comunicate<br />

alla R. Accademia dei Lincei”, 1921, p. 153, fig. 8; R. CORONEO, Frammenti scultorei<br />

cit., p. 136, sch. e fig. 4; P.B. SERRA, Tombe a camera in muratura con volta a botte<br />

nei cimiteri altomedievali della Sardegna, in Le sepolture in Sardegna dal IV al VII<br />

secolo, IV convegno sull’archeologia tardoromana e medievale, Oristano 1990, p. 148;<br />

R. CORONEO, Scultura mediobizantina cit., p. 243, sch. e fig. 13.12.<br />

( 33 ) La collezione Pistis-Corsi e il patrimonio archeologico del Comune di Iglesias,<br />

catalogo della mostra, Iglesias 2001, pp. 16-17, fig. 9.4.<br />

( 34 ) E. VERGNOLLE, Chapiteaux cit., pp. 341, 344-345, 347, figg. 4, 11, 13, 19.


Scultura in Sardegna dal VII al IX secolo<br />

t’Antioco appaiono in stretta connessione con un capitello “cubico” di<br />

area longobarda settentrionale, proveniente dal San Giovanni in Borgo<br />

e oggi nel Museo Civico di Pavia, ascritto al VII-VIII secolo ( 35 ),<br />

singolarmente affine anche per l’inserto di analoga croce nelle facce<br />

del cubo, come in un capitello del Museo Archeologico di Aquileia,<br />

collocato nel IX secolo ( 36 ). Simili croci greche (con listello marginale,<br />

però non gemmate) si vedono in una colonnina del IX-X secolo custodita<br />

a Pavia nella villa Franchi Maggi ( 37 ) e nella fitta trama geometrica<br />

di un pluteo marmoreo della Procuratoria della basilica di San<br />

Marco, riferito a bottega veneziana dell’XI secolo ( 38 ).<br />

Porto Torres, Antiquarium Turritano<br />

Nei depositi dell’Antiquarium Turritano si conservano due frammenti<br />

d’una stessa transenna in marmo, recuperati in circostanze e<br />

tempi diversi. Il primo (cm 20 x 15 x 3) fu recuperato nel 1963 in<br />

un saggio di scavo all’esterno della basilica ( 39 ). Un altro frammento<br />

è stato ritrovato nell’area del Banco di Sardegna, sempre a Porto<br />

Torres, negli scavi del 1982-83 ( 40 ). Non è possibile chiarire il motivo<br />

della differente dislocazione dei frammenti, che derivano comunque<br />

dalla stessa transenna, da riferire all’arredo liturgico d’una delle<br />

basiliche di San Gavino precedenti la fabbrica dell’XI secolo. Per la<br />

transenna si reimpiegò una lastra con epigrafe latina, parzialmente<br />

leggibile nel verso dei frammenti ( 41 ). Nel recto, la cornice marginale<br />

( 35 ) D. RICCI, Capitello in marmo da San Giovanni in Borgo a Pavia, in I Longobardi,<br />

catalogo della mostra, Milano 1990, pp. 305-306, sch. e fig. VII.7.<br />

( 36 ) A. TAGLIAFERRI, Corpus della scultura altomedievale, X, Le Diocesi di Aquileia<br />

e Grado, Spoleto 1981, p. 160, sch. e fig. 216.<br />

( 37 ) G. PANAZZA, Lapidi e sculture paleocristiane e preromaniche di Pavia, Torino<br />

1953, pp. 289-290, sch. 132, tav. CXXV.<br />

( 38 ) A. IACOBINI, in Omaggio a San Marco, Tesori dall’Europa, catalogo della<br />

mostra, Milano 1994, pp. 264-265, sch. e fig. 132.<br />

( 39 ) G. MAETZKE, Monte Agellu, Le origini della basilica di San Gavino di Porto<br />

Torres secondo le testimonianze archeologiche, Sassari 1989, pp. 19, 29-30, 68, nota 13,<br />

figg. 7-8.<br />

( 40 ) D. ROVINA, Turris Libisonis: strutture romane ed altomedievali nell’area della<br />

sede del Banco di Sardegna, in Materiali per una topografia urbana, Status quaestionis<br />

e nuove acquisizioni, V Convegno sull’archeologia tardoromana e medievale in<br />

Sardegna, Oristano 1995, pp. 154-155, fig. 15.<br />

( 41 ) A.M. CORDA, Le iscrizioni cristiane della Sardegna anteriori al VII secolo,<br />

Città del Vaticano 1999, pp. 212-213, sch. e figg. TUR022.<br />

33


34<br />

ROBERTO CORONEO<br />

ribatte una fascia non traforata, con tralcio a girali abitato da una<br />

colomba, e divisa mediante un listello dal campo interno occupato<br />

da croci a bracci uguali, mentre nello spazio di risulta si inserisce<br />

una mezza rosetta a losanga (fig. 9). I bracci della croce, desinenti da<br />

gemma centrale, sono dati da trifogli con punte esterne arricciolate e<br />

contrapposte, che chiudono i fori ai quattro cantoni. Il decoro prevedeva<br />

l’inserto di volatili (una pavoncella?) anche nelle maglie romboidali<br />

risultanti dall’iterazione della croce.<br />

L’ascrizione all’VIII-IX secolo – proposta da Guglielmo Maetzke ( 42 ),<br />

condivisa dal Fernanda Poli ( 43 ) e ritardata al pieno IX secolo da Antonio<br />

Maria Corda ( 44 ) – è stata considerata invece troppo bassa da Maria<br />

Paola Dettori ( 45 ), sulla base della tecnica esecutiva caratterizzata dalla<br />

morbidezza del rilievo, con rimando a sculture del Museo Nazionale di<br />

Ravenna: il frammento di ambone con colomba, ascritto al terzo quarto<br />

del VI secolo ( 46 ), e “come lontano modello aulico” la transenna proveniente<br />

da San Vitale ( 47 ) o da San Michele in Africisco ( 48 ), datata alla<br />

metà del VI secolo. In effetti, la logica compositiva di quest’ultima è la<br />

stessa che governa l’ornato della transenna di Porto Torres. Inoltre, non<br />

solo alla colomba nel frammento di ambone del Museo Nazionale, ma<br />

anche alle piatte sagome di volatili nelle formelle quadrate d’altri amboni<br />

ravennati – nel duomo e nel Museo Arcivescovile ( 49 ), riferibili ai vescovi<br />

Agnello (557-570) e Mariniano (596-597) – rimandano gli uccelli<br />

nella transenna di Porto Torres.<br />

Il rilievo di quest’ultima tradisce però una certa difficoltà di trattamento<br />

organico del motivo a girali, specie nella sommarietà degli<br />

elementi vegetali alla diramazione e alle estremità libere dei tralci,<br />

che spinge a confermare la datazione tarda, al pari della forma della<br />

croce a testate arricciolate. Per la tipologia della croce valgono i confronti<br />

con la lastra epigrafica della chiesa di Sant’Agata al Monte di<br />

( 42 ) G. MAETZKE, Monte Agellu cit.<br />

( 43 ) F. POLI, La basilica cit., pp. 180, 182, fig. 78.<br />

( 44 ) A.M. CORDA, Le iscrizioni cit.<br />

( 45 ) M.P. DETTORI, Contributo cit., pp. 350-352, sch. 13, fig. 7.<br />

( 46 ) P. ANGIOLINI MARTINELLI, “Corpus” cit., p. 29, sch. e fig. 25.<br />

( 47 ) P. ANGIOLINI MARTINELLI, “Corpus” cit., p. 74, sch. e fig. 126.<br />

( 48 ) R. FARIOLI CAMPANATI, La cultura artistica nelle regioni bizantine d’Italia<br />

dal VI all’XI secolo, in I Bizantini in Italia, Milano 1982, p. 176, sch. 26, fig. 83.<br />

( 49 ) P. ANGIOLINI MARTINELLI, “Corpus” cit., pp. 28-30, sch. e fig. 24 (duomo),<br />

sch. e fig. 26 (Museo Arcivescovile).


Scultura in Sardegna dal VII al IX secolo<br />

Pavia, ascritta all’VIII secolo ( 50 ); con un pilastrino e una cornice<br />

dall’abbazia di Borgo San Dalmazzo, nel Museo Civico di Cuneo, della<br />

metà dell’VIII secolo ( 51 ); con i plutei dell’antica cattedrale di Ventimiglia<br />

e del Musée Borély di Marsiglia e con un pilastrino del San<br />

Paragorio di Noli, collocati nel terzo quarto dell’VIII secolo ( 52 ); infine<br />

con un pilastrino del Museo Arcivescovile di Ravenna, ascritto<br />

alla fine dell’VIII-inizi del IX secolo ( 53 ).<br />

Sembra trattarsi di un prodotto d’importazione, databile fra l’VIII e<br />

il IX secolo ( 54 ). Il quadro dei referenti artistici implica la possibile derivazione<br />

dalle botteghe localizzate nell’arco provenzale, ligure e padano<br />

di irradiazione dei cantieri attivi nelle cave alpine, soprattutto nelle<br />

Marittime. Chiarirne la presenza a Porto Torres non è agevole, stanti<br />

le parziali informazioni di contesto storico che è possibile oggi ricavare<br />

dalla complessa stratigrafia del sito di San Gavino. Come conclusione<br />

provvisoria è possibile trarne soltanto l’indizio di stretti rapporti con<br />

ambiti ecclesiastici di cultura “latina” carolingia, in parallelo o anche<br />

in contrasto con le indicazioni “greche” imperiali che emanavano da<br />

Cagliari e da centri del meridione sardo più organicamente in contatto<br />

con ambiti o centri di irradiazione della cultura costantinopolitana.<br />

Oristano, cattedrale di Santa Maria assunta<br />

Nella cattedrale di Santa Maria Assunta a Oristano si trovano tre<br />

frammenti marmorei (max cm 12,7 x 47 x 18) di un pluteo che venne<br />

tagliato a strisce, poi riutilizzate faccia a vista per formare il basamento<br />

novecentesco della statua della Madonna del Rimedio (metà<br />

del XIV secolo) nella cappella omonima o del Santissimo ( 55 ). Entro<br />

( 50 ) D. RICCI, Frammenti di lastra in marmo dalla chiesa di Sant’Agata al Monte,<br />

Pavia, in I Longobardi cit., pp. 310-311, sch. e fig. VII.15.<br />

( 51 ) S. CASARTELLI NOVELLI, Corpus della scultura altomedievale, VI, La Diocesi<br />

di Torino, Spoleto 1974, pp. 63-65, sch. e figg. 6-7.<br />

( 52 ) S. CASARTELLI NOVELLI, Confini e bottega “provinciale” delle Marittime nel<br />

divenire della scultura longobarda dai primi del secolo VIII all’anno 774, in “Storia<br />

dell’Arte”, n. 32, 1978, pp. 20-21, figg. 55, 58, 61.<br />

( 53 ) P. ANGIOLINI MARTINELLI, “Corpus” cit., pp. 46-47, sch. e fig. 50.<br />

( 54 ) R. CORONEO, San Gavino di Porto Torres: recenti studi e nuove acquisizioni,<br />

in “Studi Sardi”, XXXI, 1994-98, pp. 397-398; R. CORONEO, La cultura artistica<br />

cit., p. 266, sch. e fig. 29.<br />

( 55 ) R. CORONEO, Per la conoscenza della scultura altomedioevale e romanica ad<br />

Oristano, in “Biblioteca Francescana Sarda”, II, 1988, pp. 90-91, 103, fig. 9; R.<br />

CORONEO, La cultura artistica cit., p. 267, sch. e fig. 30.<br />

35


36<br />

ROBERTO CORONEO<br />

girali fitomorfi geometrizzati sin quasi alla forma del cerchio perfetto,<br />

racemi bisolcati portano foglie trilobate che si configurano come<br />

apici gigliati (fig. 10).<br />

I confronti riportano puntualmente alla scultura di arredo liturgico<br />

presbiteriale delle chiese di Roma nel IX secolo, sebbene non esista,<br />

in nessuno degli esemplari romani, una così spiccata tendenza<br />

alla regolarizzazione del tralcio secondo forme geometriche. In particolare,<br />

il racemo bisolcato con apice gigliato all’interno del girale si<br />

osserva in un frammento di pluteo nel San Giovanni in Laterano,<br />

ascritto al secondo quarto del IX secolo ( 56 ), nello stipite reimpiegato<br />

in un portale della chiesa di San Saba, ascritto alla metà del IX secolo<br />

( 57 ), nel frammento di pilastrino del palazzo comunale di Amelia,<br />

ascritto al IX secolo ( 58 ).<br />

Il pluteo oristanese, di probabile importazione romana, costituisce<br />

un’ulteriore, e anche in questo caso problematica, conferma della<br />

pluralità di provenienze che nell’IX secolo sembra contraddistinguere,<br />

come fenomeno nuovo, il quadro della scultura in Sardegna, fors’anche<br />

attestando una rinnovata azione della Chiesa di Roma, volta<br />

a rinsaldare il suo ruolo storico mai venuto meno nell’isola.<br />

( 56 ) A. MELUCCO VACCARO, Corpus della scultura altomedievale, VIII, La Diocesi<br />

di Roma, III, La II Regione ecclesiastica, Spoleto 1974, p. 113, sch. e fig. 46.<br />

( 57 ) M. TRINCI CECCHELLI, Corpus della scultura altomedievale, VII, La Diocesi<br />

di Roma, IV, La I Regione ecclesiastica, Spoleto 1976, p. 152, sch. e fig. 128.<br />

( 58 ) G. BERTELLI, Corpus della scultura altomedievale, XII, Le Diocesi di Amelia,<br />

Narni e Otricoli, Spoleto, 1985, p. 115, sch. e fig. 40.


Scultura in Sardegna dal VII al IX secolo<br />

1 2<br />

3 4<br />

1. Sant’Antioco, collezione Biggio, capitello pseudocorinzio (foto Roberto Coroneo).<br />

2. Sant’Antioco, collezione Biggio, capitello pseudocorinzio (foto R. Coroneo).<br />

3-4. Sant’Antioco, collezione Biggio, capitello pseudocorinzio (foto R. Coroneo).<br />

5. Sassari, Museo Nazionale “G.A. Sanna”, capitello pseudocorinzio (foto Marisa<br />

Porcu Gaias).<br />

6. Porto Torres, basilica di San Gavino, capitello pseudocorinzio (foto R. Coroneo).<br />

7. Decimoputzu, casa privata, capitello pseudoionico (foto Stefano Basciu).<br />

8. Sant’Antioco, collezione Biggio, capitello cubico (foto Oscar Savio).<br />

9. Porto Torres, Antiquarium Turritano, frammento di transenna (foto Maria Paola<br />

Dettori).<br />

10. Oristano, cattedrale di Santa Maria, frammento di pluteo (foto R. Coroneo).<br />

37


38<br />

ROBERTO CORONEO<br />

5 6<br />

7<br />

9 10<br />

8


ALBERTO VIR<strong>DI</strong>S<br />

GLI AFFRESCHI <strong>DI</strong> SAN PIETRO A GALTELLÌ.<br />

UNA PROPOSTA <strong>DI</strong> DATAZIONE<br />

Il ciclo pittorico di San Pietro a Galtellì, recentemente scoperto<br />

sotto lo strato di intonaco che lo ricopriva e che per secoli l’aveva tenuto<br />

celato alla vista, costituisce un episodio importantissimo nell’ambito<br />

degli studi sulla pittura romanica in Sardegna. Permette infatti<br />

di far uscire dal suo isolamento un’altra grande testimonianza<br />

della pittura murale medievale fino a poco più di un decennio fa<br />

considerata come l’unica nell’isola: gli affreschi nell’abside dell’abbazia<br />

della Santissima Trinità di Saccargia.<br />

Il ciclo pittorico interessa le pareti della navata centrale e della<br />

controfacciata. Presenta un’organizzazione delle scene su due registri<br />

sovrapposti con storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, rispettivamente<br />

nella parete destra e sinistra, guardando verso l’abside. La<br />

controfacciata ospita una rappresentazione del Giudizio Universale.<br />

Alcuni lacerti pittorici lasciano ipotizzare che nella navata la decorazione<br />

continuasse in un terzo registro esteso fino al livello del pavimento.<br />

Inoltre non è da escludere l’ipotesi che anche l’abside e l’arco<br />

frontale presentassero originariamente una decorazione dipinta di<br />

cui, però, oggi non è rimasta alcuna traccia poiché sia la zona presbiteriale<br />

sia l’abside sono state ricostruite in età moderna, nell’ambito<br />

di un intervento di risistemazione architettonica della chiesa ( 1 ).<br />

Gli affreschi galtellinesi, liberati dagli intonaci e successivamente<br />

restaurati, sono stati oggetto di alcuni studi preliminari di Renata<br />

Serra ( 2 ) che ne mise in luce il legame con l’area culturale umbro-la-<br />

( 1 ) Cfr. A. CAMBEDDA, L’architettura militare e religiosa a Galtellì dal Medioevo<br />

all’Ottocento, Nuoro 1995, pp. 55-97.<br />

( 2 ) R. SERRA, La pittura medievale in Sardegna, in C. BERTELLI (cur.), La pittura<br />

in Italia. L’altomedioevo, Milano 1994, pp. 321-326; R. SERRA, Pittura medievale<br />

in Sardegna tra Saccargia e Galtellì, in S. MARCONI (cur.), Scritti e immagini in


40<br />

ALBERTO VIR<strong>DI</strong>S<br />

ziale e rilevò la presenza di influenze orientali, dovute a prototipi<br />

«forse mediati da Venezia» ( 3 ), e di «agganci con l’ambiente nordico,<br />

attraverso l’asse stabilitosi agli inizi del XIII secolo fra Venezia e<br />

Roma», riservandosi comunque di precisare tali riferimenti sulla<br />

base di analisi più approfondite.<br />

La studiosa rilevò, inoltre, forti legami con il ciclo pittorico di<br />

Saccargia, intravedendo una possibile paternità comune fra i due cicli<br />

pittorici sardi sulla base di alcune analogie rilevabili nella presenza,<br />

in entrambi i casi, di simili fasce decorative marcapiano e di simili<br />

motivi ornamentali, oltre che, soprattutto, del caratteristico<br />

“pallio bicolore” nelle vesti dei personaggi dipinti. Si tratta di una<br />

veste a due colori, derivata probabilmente da un fraintendimento,<br />

da parte dei pittori medievali, nell’interpretazione di questo tipo di<br />

indumento. La sua presenza, rilevata per la prima volta da Pietro<br />

Toesca nel 1929 ( 4 ), rappresenta una cifra caratteristica della pittura<br />

sviluppatasi nell’area umbro-romana fra l’XI secolo e la fine del XII.<br />

Il ciclo pittorico galtellinese presenta, comunque, diversi aspetti<br />

da chiarire: sia “interni”, legati ad una migliore focalizzazione delle<br />

pitture stesse, ancora da inquadrare nei loro elementi formali, stilistici<br />

ed iconografici, sia “esterni”, legati ad una migliore definizione<br />

della vicenda delle “due cattedrali”, da intendersi l’una come l’edificio<br />

che ospita gli affreschi, intitolato a San Pietro (l’unica che realmente<br />

rivestì il ruolo di cattedrale a Galtellì), e l’altra come l’edificio<br />

antistante, incompiuto (oggi ospita il camposanto del paese), più<br />

probabilmente una cattedrale progettata e mai ultimata ( 5 ).<br />

onore di Corrado Maltese, Roma 1997, pp. 413-422; R. SERRA, In figura Christi. Storie<br />

della salvezza nella pittura e nella scultura romaniche in Sardegna, in F. ATZENI, T.<br />

CABIZZOSU (cur.), Studi in onore di Ottorino Pietro Alberti, Cagliari 1998, pp. 121-<br />

141; R. SERRA, Gli affreschi romanici della chiesa di San Nicola di Trullas a Semestene,<br />

in A.C. QUINTAVALLE (cur.), Medioevo: i modelli, Atti del Convegno Internazionale di<br />

Studi, Parma, 27 settembre-1 ottobre 1999, Milano 2002, pp. 581-591; R. CORO-<br />

NEO-R. SERRA, Sardegna preromanica e romanica, Milano 2004, pp. 196-201.<br />

( 3 ) R. SERRA, Pittura medievale in Sardegna tra Saccargia e Galtellì, cit., p. 417.<br />

( 4 ) P. TOESCA, Miniature romane dei secoli XI e XII. Bibbie miniate, in «Rivista<br />

dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte», I (1929), pp. 69-96.<br />

( 5 ) Per approfondimenti relativi alla questione delle due cattedrali e alle vicende<br />

architettoniche dei due edifici cfr. R. CORONEO, Architettura romanica in Sardegna:<br />

schede bibliografiche, in «Archivio Storico Sardo», XL (1999), pp. 225-249;<br />

cfr. anche A. CAMBEDDA, L’architettura militare e religiosa a Galtellì, cit., da considerare<br />

però con cautela per quanto riguarda le ipotesi sulle fasi di utilizzo delle<br />

due cattedrali e per quanto riguarda la proposta cronologica per la “cattedrale incompiuta”,<br />

datata in maniera impropria post XIII secolo, sulla base di non ben cir-


Gli affreschi di San Pietro a Galtellì. Una proposta di datazione<br />

Rinviando ad un successivo contributo l’analisi approfondita degli<br />

aspetti tecnico-formali e iconografici degli affreschi, intendo porre qui<br />

l’accento sul dato storico che emerge dall’analisi del ciclo pittorico,<br />

analizzando il contesto all’interno del quale quest’opera è maturata, al<br />

fine di stabilire una collocazione cronologica delle pitture quanto più<br />

precisa possibile, per sottrarle così alle datazioni vaghe e oscillanti, cui<br />

spesso le pitture medievali vanno incontro. Ritengo che un lavoro<br />

orientato in tal senso sia importante perché fornisce un appiglio cronologico<br />

valido e più sicuro anche per gli affreschi di Saccargia, da riconsiderare<br />

in parallelo a quelli di Galtellì ( 6 ), e consente di delineare<br />

una prima, embrionale linea evolutiva della pittura romanica sarda, da<br />

integrarsi con le nuove recenti acquisizioni ( 7 ).<br />

Un tentativo di inquadramento storico degli affreschi, volto a ricercare<br />

nella documentazione medievale eventuali testimonianze, dirette<br />

o indirette, della committenza o della realizzazione del ciclo,<br />

può essere condotto operando un criterio di “selezione cronologica”,<br />

realizzabile solo sulla base dell’analisi storico-artistica, dal momento<br />

che non esistono elementi esterni di datazione quali un’iscrizione dipinta<br />

o graffita sulla parete, recante una data, né tanto meno ne fornisce<br />

l’architettura della chiesa.<br />

I primi studi suggerivano una parentela degli affreschi galtellinesi<br />

con la produzione pittorica dell’area umbro-romana fra la metà del XII<br />

secolo e l’inizio del XIII (cicli di San Giovanni a Porta Latina a Roma e<br />

di San Pietro in Valle a Ferentillo). Anche una prima analisi iconografica<br />

permette di evidenziare tali affinità, in particolare nella presenza di<br />

un programma iconografico analogo a quello dell’antica basilica vaticana,<br />

caratterizzato dalla presenza di scene che illustrano il racconto dell’Antico<br />

e del Nuovo Testamento su due pareti affrontate. Un programma<br />

iconografico simile, che riprenderebbe volutamente una decorazione<br />

risalente in gran parte all’età tardoantica (terzo quarto del IV secolo) ( 8 ),<br />

costanziati raffronti con le architetture cistercensi sarde duecentesche delle chiese<br />

di Santa Maria di Corte presso Sindia e di Santa Maria di Paulis in agro di Uri.<br />

( 6 ) R. SERRA, La pittura medievale in Sardegna, cit., p. 323; R. SERRA, Pittura<br />

medievale in Sardegna tra Saccargia e Galtellì, cit., p. 417.<br />

( 7 ) Per quanto riguarda la pittura romanica sarda spiccano gli affreschi recentemente<br />

scoperti nella chiesa relativa al monastero camaldolese di San Nicola di<br />

Trullas; cfr. R. SERRA, In figura Christi. Storie della salvezza nella pittura e nella<br />

scultura romaniche in Sardegna, cit.; R. SERRA, Gli affreschi romanici della chiesa di<br />

San Nicola di Trullas a Semestene, cit.<br />

( 8 ) Per quanto riguarda la ricostruzione della decorazione pittorica dell’antica<br />

basilica vaticana si veda l’opera di Stephan Waetzoldt che nel 1964 pubblicò un mo-<br />

41


42<br />

ALBERTO VIR<strong>DI</strong>S<br />

venne rielaborato, oltre che a Galtellì, anche in diversi altri cicli pittorici<br />

dell’area umbro-romana risalenti allo stesso periodo già chiamato<br />

in causa ( 9 ).<br />

Questi due elementi incrociati, derivanti dall’analisi formale e<br />

iconografica, permettono di stabilire una base per la rilettura del ciclo<br />

pittorico. L’indagine storica permette di trovare delle conferme a<br />

questi dati di partenza, facendo maggior luce non solo sull’opera pittorica<br />

in sé, ma anche su un particolare e delicato periodo di snodo<br />

per la storia del giudicato di Gallura, entro i cui confini si trovava in<br />

età medievale Galtellì con la sua diocesi. Si tratta di un momento<br />

storico che troverebbe un suggello proprio nella realizzazione degli<br />

affreschi e nei significati che questi ultimi veicolavano, mostrando<br />

così come spesso la storia dell’arte possa valersi sia della storia per<br />

fare luce sull’arte, sia dell’arte per fare luce sulla storia.<br />

La politica di papa Innocenzo III e i rapporti intessuti con la famiglia<br />

giudicale di Gallura<br />

Nonostante la cronica scarsità di fonti relative al giudicato di<br />

Gallura (in particolar modo per quanto riguarda i secoli anteriori al<br />

XIII) si può comunque delineare per il periodo in questione (metà<br />

del XII-inizio del XIII secolo) un panorama preciso, grazie anche al<br />

recente studio di Corrado Zedda, che ha fornito diversi dati utili alla<br />

ricostruzione storica ( 10 ). Il giudicato di Gallura, rispetto agli altri<br />

tre dell’isola, è quello per il quale minore è la documentazione e, di<br />

numentale lavoro in cui riuniva tutte le copie degli affreschi e dei mosaici romani<br />

medievali, includendo pertanto anche cicli non più esistenti e venendo così a creare<br />

un corpus fondamentale, tuttora ampiamente utilizzato dagli studiosi; cfr. S. WAET-<br />

ZOLDT, Die Kopien des 17 Jarhunderts nach Mosaiken und Wandmalereien in Rom,<br />

Wien-München 1964; G. GRIMAL<strong>DI</strong>, Descrizione della Basilica antica di San Pietro in<br />

Vaticano, a cura di Reto Niggl, Città del Vaticano 1972; H.L. KESSLER, L’antica Basilica<br />

di S. Pietro come fonte e ispirazione per la decorazione delle chiese medioevali, in<br />

M. ANDALORO, A. GHIDOLI, A. IACOBINI, S. ROMANO, A. TOMEI (cur.) Fragmenta<br />

Picta, Roma 1989, pp. 45-64; H.L. KESSLER, «Caput et speculum omnium ecclesiarum»:<br />

old St. Peter’s church decoration in Medieval Latium, in W. TRONZO (cur.), Italian<br />

church decoration, Bologna-Baltimore 1989, pp. 119-146.<br />

( 9 ) Cfr. W. TRONZO, The Prestige of St.Peter’s: Observations on the Function of<br />

Monumental Narrative Cycles in Italy, in «Studies in the History of Art», XVI<br />

(1985), pp. 93-112; M. ANDALORO-S. ROMANO, Arte e iconografia a Roma. Dal<br />

Tardoantico alla fine del Medioevo, Milano 2000; H.L. KESSLER, L’oratorio di San<br />

Tommaso Becket, in G. GIAMMARIA (cur.), Un universo di simboli. Gli affreschi della<br />

cripta nella cattedrale di Anagni, Roma 2001, pp. 93-103.<br />

( 10 ) C. ZEDDA, Le città della Gallura medioevale. Commerci, società e istituzioni,<br />

Cagliari 2003.


Gli affreschi di San Pietro a Galtellì. Una proposta di datazione<br />

conseguenza, la quantità di informazioni a disposizione, almeno fino<br />

agli ultimi anni di vita del regno. Esso venne controllato dai Pisani,<br />

dapprima indirettamente, lasciando in piedi le istituzioni tramite<br />

l’insediamento sul trono giudicale di alcuni esponenti di una delle<br />

famiglie pisane più in vista, quella dei Visconti, e successivamente in<br />

maniera diretta, occupando i territori dell’ormai ex regno di Gallura<br />

che finì per diventare un possedimento oltremarino del Comune tirrenico.<br />

Lo studio di Corrado Zedda ha permesso di ampliare le nostre<br />

conoscenze sulla storia di questo giudicato, soprattutto per quanto<br />

riguarda alcuni aspetti dell’economia, con la messa a fuoco di un<br />

concetto-chiave: l’importanza strategica rivestita dalla Gallura nell’ambito<br />

delle rotte mediterranee battute da Pisa, che trovò negli<br />

scali galluresi (in particolare in quello di Orosei, gestito, almeno fin<br />

dal 1173, da un funzionario statale, il maiore de portu) un prezioso<br />

punto d’appoggio. Bisogna dire, però, che la più grande quantità di<br />

dati emersi dalle ricerche d’archivio riguarda i secoli XIV-XV, cioè<br />

l’età post-giudicale. Neanche l’analisi dei rapporti con Pisa, con la<br />

quale è più che probabile immaginare dei contatti anche dal punto<br />

di vista culturale e artistico (del resto ampiamente testimoniati già<br />

da alcuni secoli in tutta la Sardegna, specialmente per quanto riguarda<br />

l’architettura ecclesiastica) forniscono delle chiarificazioni in merito.<br />

È appurata anche per quanto riguarda il giudicato di Gallura<br />

un’alleanza mercantile con Pisa, stipulata nel 1131 dal giudice Comita<br />

Spanu e mai più abbandonata, ma gli anni che qui interessano,<br />

compresi fra i secoli XII e XIII, sono caratterizzati da forti contrasti<br />

e risultano pertanto difficili da interpretare in relazione ad una politica<br />

culturale. Un aiuto senz’altro maggiore viene fornito dall’analisi<br />

dei documenti relativi ai rapporti fra il giudicato di Gallura e la Santa<br />

Sede, in quegli anni rappresentata al suo massimo livello da papa<br />

Innocenzo III (1198-1216).<br />

È un altro recente studio, questa volta di Mauro G. Sanna ( 11 ), a<br />

fornirci maggiori delucidazioni sui rapporti fra la Sardegna e il papato,<br />

grazie anche alla diffusione di alcuni documenti, recentemente scoperti<br />

e pubblicati ( 12 ), rinvenuti sotto forma di minute presso l’Archivio<br />

Capitolare di Anagni. La documentazione ricopre solamente quindici<br />

( 11 ) M.G. SANNA (cur.), Innocenzo III e la Sardegna, Cagliari 2003.<br />

( 12 ) A. MERCANTINI, Nulli ergo omnino hominum... Testimonianze pontificie ad<br />

Anagni, in «Latium», XVII (2000), pp. 5-103.<br />

43


44<br />

ALBERTO VIR<strong>DI</strong>S<br />

dei diciannove anni del pontificato di Innocenzo III. Il gruppo più<br />

consistente riguarda gli anni centrali, quelli dal 1202 al 1208 (53 documenti<br />

in tutto, pari al 75% dei documenti totali). Dall’analisi di<br />

questi documenti, composti da lettere corredate di datazione topica, si<br />

può evincere che l’epistolario “sardo” di Innocenzo III doveva essere<br />

molto più ampio di quello pervenutoci. Si fa riferimento ad altre lettere<br />

inviate o ricevute, inerenti la politica della Sardegna (è stato calcolato<br />

un totale di 147 documenti, includendo anche quelli non pervenutici<br />

materialmente ma noti per via indiretta). La documentazione innocenziana<br />

costituisce la maggioranza assoluta delle fonti riguardanti<br />

la Sardegna disponibili per quel periodo ed è pertanto una fonte preziosissima,<br />

la cui importanza travalica, come si vedrà tra breve, l’ambito<br />

specifico della storia della Chiesa.<br />

Uno degli assi portanti della politica innocenziana era costituito<br />

dalla volontà di ampliare territorialmente il potere pontificio e dall’affermazione<br />

della sua superiorità su quello imperiale, sulla base di<br />

una concezione teocratica del mondo, che nella pratica veniva svolta<br />

per mezzo della cosiddetta politica “delle ricuperazioni”, consistente<br />

nel “recuperare” quei territori che il papato voleva porre sotto la sua<br />

influenza in maniera diretta, rivendicandoli a proprio titolo con varie<br />

denominazioni ( 13 ) e a partire da differenti basi giuridiche. È<br />

possibile che, come base per i suoi vantati diritti sull’isola, Innocenzo<br />

III pensasse alle donazioni di età carolingia, così come fece per<br />

l’Esarcato e i possedimenti di Matilde di Canossa. Tuttavia il papa<br />

non lo dichiarò mai apertamente ed è possibile che i vaghi riferimenti<br />

a donazioni imperiali avvenute in anni lontani si inserissero<br />

all’interno di una tradizione plurisecolare che nel suo complesso formava<br />

la base giuridica delle rivendicazioni pontificie ( 14 ). Questo<br />

modo di agire, finalizzato a garantire una più solida base al Patrimonio<br />

di San Pietro, trovò applicazione nell’Italia centrale, dove Innocenzo<br />

III seppe approfittare del crollo del potere imperiale, dopo la<br />

morte di Enrico VI, «per riesumare le antiche pretese del papato, che<br />

( 13 ) Come ricorda M.G. Sanna, il papato, ancora agli inizi del XIII secolo non<br />

aveva elaborato una terminologia specifica che distinguesse i territori sotto il suo<br />

diretto potere temporale da quelli in cui vantava invece dei diritti di sovranità feudale<br />

o di protettorato. tuttavia si può notare in generale che nei documenti ritornano<br />

spesso denominazioni quali patrimonium o proprietas, per indicare i primi,<br />

oppure terre temporaliter subiecte, per indicare i secondi. Cfr. M.G. SANNA (cur.),<br />

Innocenzo III e la Sardegna, cit., p. XLIX, n. 113.<br />

( 14 ) È improbabile, comunque, che si rifacesse alla donazione di Costantino,<br />

da lui quasi mai menzionata nelle sue rivendicazioni, dal momento che non ebbe<br />

mai valenza come fondamento giuridico della sua politica territoriale. Ivi, p. LI.


Gli affreschi di San Pietro a Galtellì. Una proposta di datazione<br />

furono estese dal Lazio alle Marche, al Ducato di Spoleto, e alla Tuscia»<br />

( 15 ).<br />

Anche la Sardegna entrò ben presto nelle mire pontificie. Innocenzo<br />

si riallacciò alla politica di alcuni suoi predecessori, Alessandro<br />

III e Lucio III, i quali in almeno due occasioni (nel 1165 e nel<br />

1183) cercarono di opporsi alle ingerenze di Pisani e Genovesi all’interno<br />

della politica giudicale sarda, ritenendole troppo pericolose,<br />

anche perché talvolta avallate dall’Impero, e reagirono ricordando<br />

alle parti in causa l’appartenenza dell’isola al Patrimonio di San<br />

Pietro. Ciò che però contraddistinse l’operato di Innocenzo III da<br />

quello dei suoi predecessori fu «la costante energia con la quale rivendicò<br />

e cercò di rendere concreti i suoi diritti di signore feudale, e<br />

nessuno, né l’imperatore, né Pisa, né Genova, né gli stessi giudici<br />

opposero mai resistenza giuridica alle sue pretese» ( 16 ).<br />

I primi contatti fra Innocenzo III e la Sardegna sono documentati<br />

fin dal 1198, suo primo anno di pontificato, in cui il pontefice riconfermò<br />

i privilegi di cui l’arcivescovo di Pisa godeva fin dal 1138.<br />

Non molto tempo dopo, forti contrasti con Pisa finiranno per rovesciare<br />

quell’alleanza durata per gran parte del XII secolo. Fra il 1198<br />

e il 1200 morì il giudice di Gallura, Barisone, e il marchese di Massa,<br />

Guglielmo, giudice di Cagliari con il nome dinastico di Salusio<br />

IV, alleato dei Pisani, decise di invadere il giudicato di Gallura rapendo<br />

Odolina, moglie del giudice, e la figlia Elena, minorenne e<br />

portatrice di titolo, per destinarla al matrimonio con il cognato, Guglielmo<br />

Malaspina, e poter così controllare anche il giudicato di<br />

Gallura. Questi eventi non sfuggirono certo all’attenzione di Innocenzo<br />

III che decise in breve di agire in maniera concreta per arginare<br />

il potere di Pisa in Sardegna e, viceversa, aumentare quello del papato,<br />

sancendo così la fine di quelli che sono stati definiti gli “anni<br />

d’oro” della legazia di Pisa in Sardegna ( 17 ).<br />

Il primo strumento del quale il papa si servì fu la scelta di un alleato<br />

fra i regnanti dell’isola, che individuò nel giudice di Torres Comita<br />

de Lacon-Gunale, a sua volta in cerca di protezione politica<br />

dalla minaccia rappresentata da Guglielmo di Massa, che minacciava<br />

da vicino il giudicato di Torres. A questa scelta, Innocenzo abbinò<br />

( 15 ) W. MALECZEK, Innocenzo III (s.v.), in Enciclopedia dei Papi, vol. II (2000).<br />

( 16 ) M.G. SANNA (cur.), Innocenzo III e la Sardegna, cit., p. LII.<br />

( 17 ) Cfr. R. TURTAS, L’arcivescovo di Pisa legato pontificio e primate in Sardegna<br />

nei secoli XI-XIII, in Nel IX Centenario della Metropoli ecclesiastica di Pisa. Atti del<br />

Convegno di studi, 7-8 maggio 1992, Pisa 1995, pp. 183-233.<br />

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46<br />

ALBERTO VIR<strong>DI</strong>S<br />

quella di un controllo più diretto nello stesso giudicato turritano,<br />

tramite l’invio di un suo uomo di fiducia, Biagio, che ricoprisse la<br />

carica di arcivescovo di Torres, a partire dal 1203, bocciando la proposta<br />

avanzata dall’arcivescovo pisano Ubaldo e facendo svolgere di<br />

fatto, a Biagio, «tutte le funzioni consuetudinariamente spettanti<br />

sino ad allora al legato pontificio, l’arcivescovo di Pisa» ( 18 ). Biagio<br />

di Torres rappresentava, insomma, la longa manus di Innocenzo III<br />

sulla Sardegna. Queste decisioni produssero subito dei risultati, dal<br />

momento che, già nello stesso anno 1203, in settembre, Guglielmo<br />

di Massa rinunciò a concretizzare il suo progetto di dare in moglie<br />

l’erede al trono di Gallura a un suo cognato, di modo che Elena potesse<br />

sposare una persona gradita al pontefice.<br />

Ma l’azione di Innocenzo non si esaurì. Il secondo strumento utilizzato<br />

dal papa per estendere il proprio controllo sull’isola era rappresentato<br />

da un documento, affidato all’arcivescovo Biagio, che conteneva<br />

un «format specifico da far firmare ai giudici, che si sarebbero legati<br />

così alla Sede apostolica con un atto feudo-vassallatico» ( 19 ). Quest’ultima<br />

strategia rappresenta il salto di qualità operato da Innocenzo<br />

III nelle sue rivendicazioni di sovranità sulla Sardegna rispetto a<br />

quanto era mai stato fatto dai pontefici precedenti. Innocenzo fu<br />

però più morbido nei confronti del giudice di Cagliari Guglielmo di<br />

Massa, poiché voleva evitare a tutti i costi uno scontro diretto, temendone<br />

la forza militare. Fu più risoluto, invece, nei confronti dell’arcivescovo<br />

di Pisa con il quale insorsero forti attriti, che il papa risolse<br />

togliendogli non solo la legazia sull’isola (ovverosia il titolo di<br />

legato per la Santa Sede in Sardegna) e i titoli primaziali, ma forse<br />

anche il titolo arcivescovile.<br />

Il terzo, importantissimo, strumento di controllo utilizzato da Innocenzo<br />

III è rappresentato dalla politica matrimoniale, ovverosia<br />

dalle pressioni esercitate per far sì che uomini di sua fiducia, tramite<br />

un matrimonio con esponenti delle case regnanti locali, arrivassero<br />

ad occupare posizioni-chiave per il controllo della politica dell’isola.<br />

Politica certo non nuova, in quanto ampiamente praticata da Pisani<br />

e Genovesi che già all’epoca ricoprivano le cariche di giudici. Si è accennato<br />

al problema di successione dinastica nel regno di Gallura attorno<br />

all’anno 1200, quando, morto il giudice Barisone, rimaneva<br />

sola e senza marito la giovane figlia portatrice di titolo, Elena.<br />

Chiunque l’avesse sposata, avrebbe pertanto occupato il trono gallu-<br />

( 18 ) Cfr. M.G. SANNA (cur.), Innocenzo III e la Sardegna, cit., p. LV.<br />

( 19 ) Ivi, p. LVII.


Gli affreschi di San Pietro a Galtellì. Una proposta di datazione<br />

rese in qualità di giudice. Ovvio, perciò, lo scatenarsi degli interessamenti<br />

e delle rivalità reciproche fra i regnanti sardi e della penisola.<br />

Per cercare di sfruttare questa ingarbugliata situazione a proprio<br />

vantaggio, Innocenzo si mosse dapprima con grande cautela, tastando<br />

il terreno per evitare di imporre la propria autorità in una maniera<br />

troppo brusca che avrebbe causato il malcontento di tutte le parti<br />

in causa. Già dal 1203, anno in cui invia in Sardegna Biagio, scrive<br />

ai giudici sardi al fine di indurli a prestare giuramento di fedeltà al<br />

nuovo arcivescovo di Torres, ricordando loro, al contempo, che la<br />

Sardegna è sottoposta alla Sede apostolica sia spiritualmente sia temporalmente.<br />

Affida, inoltre, a Biagio il compito di informare i giudici<br />

sardi sulle sue intenzioni riguardo al futuro matrimonio di Elena<br />

di Gallura ( 20 ).<br />

Contemporaneamente, tanto Guglielmo Malaspina, cognato del<br />

giudice di Cagliari Guglielmo di Massa (successivamente ritiratosi),<br />

quanto Ithocor, fratello del giudice di Torres, Comita, avevano<br />

avanzato proposte di matrimonio nei confronti di Elena di Gallura.<br />

Innocenzo, dal canto suo, cerca prima di tutto di non scontentare<br />

nessuno. Tenta di appianare i contenziosi fra i giudicati confinanti<br />

di Torres e di Gallura per questioni territoriali e afferma di cercare,<br />

per la successione al trono di Gallura, una soluzione che non turbi<br />

l’ordine politico-istituzionale dell’isola, riuscendo allo stesso tempo<br />

a far desistere dalle loro intenzioni tanto Ithocor, poiché legato ad<br />

Elena da un rapporto di stretta parentela, quanto Guglielmo Malaspina.<br />

Elena, dal canto suo, assicura ad Innocenzo III di volersi rimettere<br />

alle sue decisioni per quanto riguarda il proprio matrimonio ( 21 ). A<br />

questo punto, nel 1204, Innocenzo decide di esporsi più apertamente.<br />

Anzitutto scrive ad Elena, alla madre Odolina, all’arcivescovo di<br />

Cagliari, Ricco, molto vicino all’arcivescovo di Pisa, e ai vescovi e<br />

nobili della Gallura. Ricorda loro che il defunto giudice gallurese<br />

aveva deciso, in punto di morte, di affidare la sua terra alla tutela papale.<br />

Li informa del fatto che si sta occupando in prima persona della<br />

questione del matrimonio di Elena di Gallura, al fine di trovare<br />

una persona gradita a tutti i giudici dell’isola. Chiede più volte che il<br />

vescovo di Civita venga inviato a Roma per prendere accordi in merito<br />

alla questione.<br />

È singolare come di lì a poco, nella documentazione, questo vescovo<br />

di Civita scompaia (probabilmente non incontrò mai il papa)<br />

( 20 ) Ivi, docc. 31-32.<br />

( 21 ) Ivi, doc. *43.<br />

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48<br />

ALBERTO VIR<strong>DI</strong>S<br />

per lasciare spazio al vescovo di Galtellì, Magister ( 22 ), del quale si<br />

richiede, in una lettera inviata il 14 marzo del 1206 all’arcivescovo<br />

di Pisa, Ubaldo, la scarcerazione immediata. I Pisani, a quanto si<br />

evince, avevano imprigionato il vescovo galtellinese per impedirgli<br />

di recarsi dal pontefice. Innocenzo fa inoltre pressione affinché Magister<br />

venga confermato vescovo di Galtellì nonostante fosse di natali<br />

illegittimi. Evidentemente quest’ultimo venne preferito al vescovo<br />

di Civita, da parte di Innocenzo III, in vista della successiva e decisiva<br />

mossa del pontefice: la proposta ad Elena di Gallura di contrarre<br />

matrimonio con un suo cugino, Trasmondo di Segni ( 23 ).<br />

Nel 1206, sempre tramite la persona di Magister, vescovo di Galtellì,<br />

Elena invia al pontefice un giuramento matrimoniale, avallato<br />

dalla madre, a favore del cugino del papa, ed esorta Innocenzo III ad<br />

inviare costui in Sardegna al fine di portare a termine le nozze, in un<br />

clima politico che, almeno per quanto riguarda l’isola, sembrava pacificato.<br />

Innocenzo si decise perciò ad inviare Trasmondo in Gallura,<br />

dopo aver ringraziato tutti gli altri giudici per la devozione e la<br />

fede dimostratagli. Trasmondo giunse in Sardegna, ma Elena decise<br />

all’ultimo momento di rinunciare a quel matrimonio adducendo<br />

scuse che nascondevano molto probabilmente le pressioni del pisano<br />

Lamberto Visconti. Quest’ultimo avanzò la sua proposta di matrimonio<br />

riuscendo nell’intento e scatenando la violenta reazione del<br />

pontefice il quale, venuto a sapere a cose fatte del matrimonio di<br />

Elena di Gallura con il nobile pisano, entro la fine del 1206, scomunicò<br />

sia Lamberto sia Elena sia la madre di lei, Odolina.<br />

Importa sottolineare, oltre al sicuro legame fra il giudicato di Gallura<br />

e la Santa Sede, anche il rapporto che si instaurò fra Innocenzo<br />

III e il vescovo di Galtellì, che ad un certo momento venne preferito a<br />

quello di Civita, tanto da diventare il suo diretto intermediario, per<br />

gestire una faccenda così delicata dalla quale gli equilibri politici della<br />

Sardegna potevano risultare mutati in favore della Santa Sede. È un<br />

fatto ancor più notevole se si pensa che Innocenzo aveva già nell’isola i<br />

suoi uomini di fiducia, da lui direttamente inviati, primo fra tutti l’arcivescovo<br />

di Torres, il quale, sia pur da più lontano, avrebbe potuto<br />

seguire comunque la vicenda. Non sono note, peraltro, le vicende di<br />

Magister di Galtellì negli anni precedenti e seguenti a quelli qui esa-<br />

( 22 ) «Magister» secondo Raimondo Turtas potrebbe indicare tanto il nome<br />

proprio del vescovo, quanto un suo titolo. Cfr. R. TURTAS, Storia della Chiesa in<br />

Sardegna. Dalle Origini al Duemila, Roma 1999, p. 831.<br />

( 23 ) Cfr. M.G. SANNA (cur.), Innocenzo III e la Sardegna, cit., docc. *79 e seguenti.


Gli affreschi di San Pietro a Galtellì. Una proposta di datazione<br />

minati, di cui è rimasta traccia nella documentazione. Non sappiamo,<br />

cioè, se fosse stato anch’egli inviato a Galtellì dietro nomina papale<br />

e quali fossero i rapporti instauratisi con Innocenzo III negli<br />

anni precedenti a quelli qui richiamati.<br />

La politica culturale di Innocenzo III<br />

In quest’ottica è immaginabile la politica culturale che Innocenzo<br />

avrebbe potuto perseguire, in Sardegna come altrove: una politica<br />

tesa a ribadire l’autorità sovrana della Chiesa romana nel mondo, sopra<br />

qualsiasi forma di potere laico, in maniera sicura e pacata. Un<br />

esempio del riflesso che poté avere nell’arte è riscontrabile negli affreschi<br />

della chiesa di San Silvestro a Tivoli. La datazione, a lungo<br />

dibattuta dagli studiosi, è stata di recente ( 24 ) precisata tra la fine del<br />

XII e l’inizio del XIII secolo, anni del pontificato di Innocenzo III.<br />

Le storie dipinte nel registro inferiore dell’abside sono tratte dalla<br />

cosiddetta Leggenda di San Silvestro o di Costantino (stilisticamente<br />

lontane, così come le altre presenti nell’abside e nella parete absidale,<br />

dalle pitture di Galtellì, nonostante la vicinanza cronologica) e<br />

sono basate non tanto sulla redazione del «teocratico Constitutum<br />

Costantini, ma del più moderato Actus Silvestri» ( 25 ), espressione di<br />

una più salda e pacata attestazione di autorità da parte pontificia, da<br />

ritenersi consona alla politica culturale di Innocenzo III.<br />

Pertanto ci si può domandare: quale occasione migliore che non<br />

la realizzazione di un ciclo di affreschi all’interno di una cattedrale si<br />

sarebbe mai potuta dare, per rendere palese a tutti il progetto di affermazione<br />

della supremazia della Chiesa sul potere laico, perseguito<br />

da Innocenzo III anche in Sardegna? Nel caso specifico di Galtellì,<br />

inoltre, la realizzazione degli affreschi avrebbe esplicitato, fra l’altro,<br />

la supremazia sulla Gallura vantata dalla Chiesa in anni di grandi<br />

controversie. Un ciclo di affreschi aveva inoltre il pregio di risultare<br />

immediatamente visibile a tutti, compresi tanto gli uomini di Chiesa<br />

quanto la grande massa dei semplici fedeli illitterati.<br />

Risulta utile, a questo punto, una breve digressione sul ruolo che<br />

un ciclo pittorico monumentale di carattere religioso rivestiva nel Medioevo<br />

e di come questo ruolo venisse inteso dagli uomini di cultura<br />

medievali, che lasciarono illuminanti riflessioni in proposito. Come<br />

sostiene Hélène Toubert, infatti, «dispiegandosi sulla superficie conti-<br />

( 24 ) Cfr. E. PARLATO-S. ROMANO, Roma e il Lazio. Il Romanico, Milano 2001,<br />

pp. 227-233.<br />

( 25 ) Ivi, p. 230.<br />

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50<br />

ALBERTO VIR<strong>DI</strong>S<br />

nua e leggibile dell’abside e delle pareti delle navate, la pittura murale<br />

non aveva subìto nessuna interruzione a partire dall’antichità cristiana,<br />

utilizzava dunque un repertorio di segni familiari ai fedeli, era favorita<br />

da finalità pedagogiche [...] e, per adottare termini spesso ripresi<br />

di Gregorio Magno, [era] particolarmente adatta a dispiegare le immagini<br />

della Bibbia sotto gli occhi degli illitterati» ( 26 ).<br />

Già dai primi secoli del cristianesimo la patristica assegnava alla<br />

pittura una missione catechetica, più importante ancora rispetto a<br />

quella di garantire lo splendore della casa di Dio ( 27 ). Ciò era possibile<br />

perché la pittura, forte di una tradizione plurisecolare, «è dotata<br />

di un repertorio di segni che si evolvono all’interno di un linguaggio<br />

iconografico consueto ai fedeli» ( 28 ). Dall’età paleocristiana in poi,<br />

diversi scritti attestano questa funzione fondamentale della pittura.<br />

Fra i più antichi è quello di San Gregorio di Nissa, del IV secolo, secondo<br />

cui la pittura, muta sulla parete, parla al fedele, rivelando<br />

così, oltre alla sua bellezza, anche la sua utilità. Un’altra notissima<br />

riflessione, cui già si è fatto riferimento in queste pagine, è contenuta<br />

nella IX lettera di Gregorio Magno in cui viene detto che «quanti<br />

non sanno leggere possano almeno leggere visualmente sui muri<br />

(della chiesa) quanto non sono in grado di leggere nei libri» ( 29 ).<br />

Emblematica è la posizione di Walafrido Strabone, teologo e abate<br />

della Reichenau nel IX secolo, che, analogamente a quanto detto da<br />

Gregorio Magno, affermò che la pittura è in qualche modo «la letteratura<br />

dell’illetterato» ( 30 ). È significativo anche il parere di Beda il<br />

Venerabile, il quale afferma che le pitture della storia sacra non mirano<br />

solo ad adornare le chiese, ma anche ad istruire coloro che le<br />

contemplano. Analoghe considerazioni vennero riprese, in tempi<br />

posteriori e più vicini allo sviluppo della cultura romanica nell’Occidente<br />

europeo, durante il sinodo di Arras del 1025 in cui si raccomanda<br />

agli illetterati di contemplare per mezzo delle composizioni<br />

pittoriche quanto non sono in grado di vedere per mezzo della scrittura.<br />

Dall’insieme dei dati (e il regesto potrebbe continuare a lungo) si<br />

evince quale fosse il ruolo svolto dalle pitture nel Medioevo e, di con-<br />

( 26 ) H. TOUBERT, Un’arte orientata. Riforma gregoriana e iconografia, Milano<br />

2001, p. 14.<br />

( 27 ) Cfr. R. OURSEL, La pittura romanica, Milano 1980.<br />

( 28 ) H. TOUBERT, Un’arte orientata. Riforma gregoriana e iconografia, cit., p. 336.<br />

( 29 ) Citato in traduzione italiana in R. OURSEL, La pittura romanica, cit., p. 353.<br />

( 30 ) Ibidem.


Gli affreschi di San Pietro a Galtellì. Una proposta di datazione<br />

seguenza, quale portata potesse avere il messaggio da esse veicolato,<br />

una volta giunto sotto gli occhi di un’intera comunità davanti alla<br />

quale queste immagini così cariche di suggestione non potevano passare<br />

inosservate. Va da sé, perciò, che un ciclo di affreschi avrebbe<br />

potuto avere non solo una funzione strettamente catechetica, ma anche<br />

un’altra funzione, sempre didascalica, ma rivolta anche, magari<br />

in sottofondo, ad illustrare argomenti o situazioni attuali che potevano<br />

essere colte altrettanto bene da chi le osservava. Ciò è tanto più<br />

valido se si pensa che dietro alla realizzazione dei cicli pittorici stavano<br />

i committenti, molto spesso uomini di Chiesa, che istruivano e<br />

guidavano la composizione delle pitture (non dal punto di vista tecnico,<br />

ovviamente), che sovente risultano ricche di allusioni teologiche<br />

o filosofiche.<br />

Proposte di datazione<br />

È possibile proporre ora una datazione e un committente per il<br />

ciclo di affreschi della cattedrale galtellinese di San Pietro. La datazione<br />

generica agli anni tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo,<br />

formulata unicamente in base all’analisi storico-artistica, sottoposta<br />

al vaglio di un’indagine di tipo storico sulla base dei documenti editi<br />

fino a questo momento, permette di precisare maggiormente i dati<br />

iniziali. Si può giungere così a formulare un’ipotesi circa le vicende<br />

che portarono alla realizzazione del ciclo pittorico di Galtellì. Quanto<br />

verrà di seguito ipotizzato non trova esplicita conferma nelle fonti<br />

storiche. Pertanto l’ipotesi resta tale, fino al momento in cui dovesse<br />

venire alla luce un documento di qualsiasi natura, che permetta di<br />

precisare univocamente la datazione ed, eventualmente, il committente<br />

degli affreschi.<br />

Sempre in relazione al panorama storico-politico del giudicato di<br />

Gallura all’inizio del XIII secolo, è possibile che proprio negli anni<br />

in cui più intensi erano i rapporti fra la Santa Sede e la Gallura, ovverosia<br />

negli anni in cui si stava concordando – e appariva ormai sicuro<br />

– il matrimonio di Elena con Trasmondo (1204-maggio 1206),<br />

se non anche da prima, Innocenzo III abbia finanziato, dietro richiesta<br />

del vescovo, sollecitasse e finanziasse la realizzazione degli affreschi<br />

nella cattedrale di Galtellì. All’epoca questa era retta dal vescovo<br />

Magister, suo uomo di fiducia – preferito al vescovo di Civita nel<br />

gestire la trattativa per il matrimonio, nel corso della quale fu il tramite<br />

fra la famiglia giudicale e il papa – che molto probabilmente<br />

guidò la realizzazione delle pitture. Egli dovette applicare alcune direttive<br />

pontificie generali nel campo della politica culturale e curare<br />

quella parte del “messaggio politico” che gli affreschi veicolavano,<br />

51


52<br />

ALBERTO VIR<strong>DI</strong>S<br />

impossibile a realizzarsi da parte delle maestranze in maniera autonoma,<br />

senza una guida che le indirizzasse. È anche possibile che in<br />

questa circostanza siano stati chiamati a Galtellì alcuni maestri romani<br />

o laziali con il loro seguito, aggiornati ai modi pittorici allora<br />

correnti a Roma. Sono quelli che trovano espressione, per esempio,<br />

nella chiesa di San Giovanni a Porta Latina, in cui si assiste ad un’altra<br />

replica del programma decorativo della basilica vaticana.<br />

Se si è nel vero, le pitture non potrebbero essere datate più tardi<br />

della metà del 1206, quando i rapporti fra la Santa Sede da una parte<br />

e il giudicato di Gallura e Pisa dall’altra precipitarono bruscamente<br />

a causa del mancato adempimento del giuramento di matrimonio<br />

da parte di Elena di Gallura, fatto, questo, che procurò a lei e alla<br />

madre la scomunica papale. Gli anni compresi fra il 1206 e il 1209<br />

furono molto duri per il giudicato sardo, invaso dalle forze congiunte<br />

del giudicato di Torres e dei Genovesi che costrinsero alla fuga il<br />

neogiudice Lamberto Visconti. Non furono anni, insomma, da ritenersi<br />

favorevoli alla creazione di un clima in cui potessero svilupparsi<br />

le imprese artistiche (quantomeno da un punto di vista economico).<br />

Potremmo pertanto recuperare un termine ante quem al 1206.<br />

Al contrario, fu negli anni fra il 1198 e il 1206 che Innocenzo III<br />

cercò di applicare alla Sardegna quella sua politica volta a sancire la<br />

supremazia della Chiesa su ogni forma di potere laico, tramite il recupero<br />

di quelle terre che la Santa Sede riteneva rientrassero a vario<br />

titolo sotto la sua influenza diretta. Per fare ciò si rivolse inizialmente<br />

a quella parte dell’isola su cui era più facile fare leva, cioè al giudicato<br />

di Gallura, dal momento che, pur mantenendo intatte le sue<br />

strutture amministrative interne e quindi la sua autonomia governativa,<br />

dal punto di vista dell’amministrazione ecclesiastica – ed è noto<br />

quale peso avesse tale organizzazione nella politica medievale – era<br />

stata suddivisa in due diocesi non costituenti una provincia ecclesiastica<br />

autonoma. Le due diocesi galluresi, Civita e Galtellì, furono<br />

sottoposte, inizialmente, alla diretta autorità della Santa Sede e, dal<br />

1138 in poi, a quella di Pisa, dietro concessione papale.<br />

In questo contesto risulta evidente la ferma risoluzione di Innocenzo<br />

III ad aumentare il potere e l’influenza del papato in Gallura,<br />

per poi estenderlo al resto dell’isola, a danno dello strapotere assunto<br />

negli anni da Pisa, il cui arcivescovo amministrava le diocesi galluresi<br />

solo grazie ad una concessione papale. Pertanto è legittimo ipotizzare<br />

che, oltre ad intromettersi nella politica interna del giudicato e<br />

a sfruttare come “arma di sfondamento” la politica matrimoniale,<br />

nel modo che si è visto, il papa abbia favorito e avallato la realizzazione<br />

di un ciclo di affreschi nella cattedrale retta dal suo alleato


Gli affreschi di San Pietro a Galtellì. Una proposta di datazione<br />

Magister. Il fine era quello di rendere noto tanto ai fedeli illitterati,<br />

quanto agli uomini di cultura, essenzialmente uomini di Chiesa,<br />

quale fosse il messaggio politico che veniva da Roma e che doveva<br />

essere esplicitato a tutti.<br />

Fra i tanti destinatari degli affreschi, poteva esserci anche l’arcivescovo<br />

di Pisa, Ubaldo, che periodicamente si recava in visita pastorale<br />

presso le diocesi galluresi, e che in quegli anni era in forte attrito<br />

con il pontefice proprio per motivi di supremazia territoriale. Innocenzo<br />

III intendeva pertanto completare quanto stava facendo contemporaneamente<br />

con altri mezzi, anche favorendo la realizzazione di<br />

un’opera grandiosa, destinata a rimanere impressa a lungo negli occhi<br />

di chi vi si trovava a stretto contatto. Si trattava, insomma, di dare il<br />

giusto risalto ad un’opera da lui ritenuta di fondamentale importanza<br />

(non la supremazia su Pisa in Gallura, ma la supremazia della<br />

Chiesa su ogni cosa), per la quale non si sarebbe potuto scegliere un<br />

migliore “amplificatore” che un ciclo di affreschi di stretta osservanza<br />

romana.<br />

Occorre ricordare qui che la cattedrale, in origine probabilmente<br />

mononavata, doveva fare certo un’impressione ben diversa da quella<br />

che se ne trae oggi anche perché doveva essere completamente ricoperta<br />

di affreschi, anche nell’abside e nell’intera navata, dove la decorazione<br />

si estendeva probabilmente fino all’altezza del pavimento.<br />

Ci si potrebbe chiedere a questo punto quali mai potessero essere gli<br />

elementi che, in un ciclo di affreschi raffigurante il racconto biblico<br />

del Vecchio e del Nuovo Testamento, lasciassero trasparire una sorta<br />

di proclama politico del pontefice. La risposta potrebbe essere nell’analisi<br />

operata da Herbert Kessler sui cicli pittorici che ripresero il<br />

modello iconografico della basilica vaticana di San Pietro, una delle<br />

principali sedi del pontefice, e per molti versi, l’essenza stessa della<br />

Cristianità e della Chiesa che quella Cristianità presiedeva e indirizzava.<br />

«Copiare il programma decorativo [della basilica di San Pietro],<br />

perciò, equivaleva a creare un legame con l’apostolo e con la<br />

basilica costantiniana che accoglieva la sua tomba» ( 31 ).<br />

Sussistono, a questo punto, pochi dubbi su quale poteva essere il<br />

proposito che stava dietro alla scelta di un modello compositivo come<br />

quello adottato a Galtellì e in diversi altri cicli pittorici. Creare un legame<br />

immediatamente visibile con la basilica simbolo del potere ecclesiastico<br />

significava anche stabilire un legame “positivo” con le idee<br />

diffuse dalla Chiesa che venivano propagandate in quegli anni. Copia-<br />

( 31 ) H.L. KESSLER, L’antica Basilica di S. Pietro come fonte e ispirazione per la<br />

decorazione delle chiese medioevali, cit., p. 62.<br />

53


54<br />

ALBERTO VIR<strong>DI</strong>S<br />

re, reinterpretando, il programma decorativo della basilica di San<br />

Pietro a Roma significava, insomma, apporre una sorta di marchio<br />

di fabbrica sull’edificio stesso che ospitava gli affreschi. Equivaleva a<br />

un sigillo che testimoniasse la filiazione di un’opera artistica da un<br />

modello importantissimo per tutta la Cristianità e immediatamente<br />

riconoscibile dalla gran massa dei fedeli che, probabilmente, poteva<br />

conoscere, sia pure parzialmente e indirettamente, la decorazione<br />

della basilica più importante per tutti i Cristiani, meta di continui<br />

pellegrinaggi da tutta Europa e quindi, anche dalla Sardegna.<br />

Ancora Kessler fornisce un altro elemento utile a sostenere questa<br />

teoria che vede Galtellì come l’ennesimo tassello di un mosaico, per<br />

lo più già composto, le cui tessere, però, sono sparse un po’ ovunque.<br />

Ricorda Kessler che «le chiese di Tuscania, Ferentillo e San Pietro<br />

in Vineis ad Anagni sono dedicate all’apostolo, come anche San<br />

Piero a Grado presso Pisa» ( 32 ) e, aggiungerei, come anche San Pietro<br />

a Galtellì. «Il ricorso al sistema decorativo delle due basiliche»<br />

(San Pietro e San Paolo fuori le mura a Roma) e anche la dedica all’apostolo<br />

Pietro, guida della prima Chiesa cristiana, venivano usati<br />

«per legittimare nuove fondazioni e il culto di nuovi santi» ( 33 ),<br />

come nell’oratorio di San Tommaso Becket ad Anagni, dove il santo<br />

titolare venne “ufficialmente” integrato fra le schiere dei santi, o<br />

come in Santa Maria immacolata a Ceri, dove serviva a creare una<br />

cornice adeguata per la chiesa funeraria di uno dei primi papi, San<br />

Felice.<br />

È plausibile, per quanto non dimostrabile, che a Galtellì, come<br />

probabilmente nella basilica vaticana, fosse presente, al termine delle<br />

storie del Nuovo Testamento, un piccolo ciclo con storie di San Pietro<br />

(a Roma nel transetto, a Galtellì nel registro inferiore della parete<br />

sinistra o nell’arco frontale, dato che mancava il transetto). Il ciclo<br />

petriano doveva enfatizzare maggiormente il legame con Roma e con<br />

l’apostolo titolare della chiesa, divenuto l’emblema stesso, se vogliamo,<br />

di un potere ecclesiastico ormai ben assestato, all’inizio del XIII<br />

secolo, ma al quale il papato faceva sempre ricorso nei momenti in cui<br />

voleva ribadirlo ( 34 ). Non sarebbe poi così difficile pensare che l’originaria<br />

intitolazione della chiesa galtellinese a San Pietro, che un’epigra-<br />

( 32 ) Ibidem.<br />

( 33 ) Ibidem.<br />

( 34 ) Una situazione simile, che vede la presenza di un piccolo ciclo con storie<br />

di San Pietro nel transetto, è attestata a Marcellina nella chiesa di Santa Maria in<br />

Monte Dominici e a Tuscania nella cattedrale di San Pietro.


Gli affreschi di San Pietro a Galtellì. Una proposta di datazione<br />

fe dichiarava risalente all’anno 1090, derivasse da una volontà pontificia<br />

di stabilire un legame diretto, anche a livello nominale, con la Santa<br />

Sede, dalla quale la diocesi di Galtellì, negli anni immediatamente<br />

successivi alla sua istituzione, dipendeva. Non ci sono prove per stabilire<br />

l’attendibilità dell’epigrafe galtellinese, ormai perduta ( 35 ). Inoltre,<br />

qualora si potesse dimostrarne la credibilità, c’è da dire che alla data<br />

cui fa riferimento, il 1090, Galtellì non era ancora sede di diocesi e<br />

pertanto non si può sapere da dove (o per volontà di chi) traesse origine<br />

l’intitolazione della chiesa, che a quel tempo doveva essere semplicemente<br />

la parrocchiale di un’anonima villa della Sardegna.<br />

Quanto fin qui affermato non deve far pensare a un ciclo di affreschi<br />

“calato dall’alto” per volontà pontificia. Infatti il programma<br />

iconografico generale fu deciso probabilmente dal vescovo, esso fu<br />

inoltre realizzato da maestranze che avevano una sensibilità forse pur<br />

sempre più vicina a quella popolare, a quella del semplice fedele che<br />

si recava in chiesa per pregare, piuttosto che a quella degli ambienti<br />

curiali vicini al vescovo o al pontefice. E questo è un dato tanto più<br />

importante se messo in relazione con quella funzione catechetica che<br />

dagli affreschi ci si aspettava e che troverà spazio in tutti quegli<br />

aspetti narrativi inseriti dai frescanti nelle pitture, allo scopo di rendere<br />

più accessibile la fruizione delle stesse, e che si può riscontrare<br />

nell’inserimento di diversi dettagli tratti dal racconto dei vangeli<br />

apocrifi, dettagli magari diffusi nei “libri di motivi” ( 36 ) che circolavano<br />

fra le diverse botteghe dell’epoca.<br />

La realizzazione del ciclo pittorico affrescato nella cattedrale di<br />

Galtellì, pertanto, non deve essere considerata semplicemente il frutto<br />

della volontà di dare una rinfrescata decorativa necessaria ad abbellire<br />

una chiesa repentinamente assurta al rango di cattedrale,<br />

dopo l’istituzione della diocesi, ma come l’applicazione puntuale di<br />

un programma politico, tradotto visivamente in maniera da risultare<br />

fruibile alla vista, e in maniera da non far perdere ovviamente tutte<br />

le funzioni che, come si è visto, erano affidate alla pittura murale più<br />

ancora che alla scultura o ad altre forme artistiche. In primo luogo<br />

quella catechetica, dal momento che si tratta pur sempre di un ciclo<br />

di affreschi che illustra il racconto biblico del Nuovo e del Vecchio<br />

( 35 ) P.M. Marcello ritiene priva di fondamento la notizia del ritrovamento della<br />

lapide. Cfr. P.M. MARCELLO, La diocesi di Galtellì, in R. MENNE (cur.), Pacificazione<br />

e comunione. Atti del Bicentenario della Diocesi di Nuoro (1779-1979), Sassari<br />

1983, p. 124.<br />

( 36 ) Per il significato di tale definizione, cfr. E. KITZINGER, Il Duomo di Monreale.<br />

I mosaici delle navate, Palermo 1960, p. 64.<br />

55


56<br />

ALBERTO VIR<strong>DI</strong>S<br />

Testamento e non certo la glorificazione di un Pontefice ancora in<br />

vita o della Chiesa in se stessa.<br />

Sempre in rapporto alla situazione politica del tempo e agli aspetti<br />

della sensibilità popolare, è possibile pensare che Innocenzo III<br />

progettasse una celebrazione del matrimonio nella cattedrale galtellinese,<br />

sotto la guida del vescovo Magister, suo alleato, che avrebbe<br />

officiato le nozze in un’aula che rispondeva, sotto l’aspetto decorativo,<br />

se non sotto quello delle forme architettoniche, a quella magnificenza<br />

di cui la Chiesa romana si faceva portatrice, fortemente voluta<br />

da Innocenzo III. Un evento del genere, che fu prossimo a realizzarsi<br />

ma sfumò per un soffio, avrebbe fatto di sicuro una grande impressione<br />

nella popolazione galtellinese e in tutta quella della bassa Gallura<br />

che periodicamente doveva recarsi nella cattedrale per le feste<br />

religiose o altri momenti liturgici.<br />

In conclusione, si può pensare ad una committenza da parte del vescovo<br />

Magister, che potrebbe aver progettato e seguito la decorazione<br />

della “sua” cattedrale, in anni che sarebbe prudente porre fra il 1198 e il<br />

1206. Il primo termine è una data utile per pensare alla diffusione dello<br />

stile monumentale romano di San Giovanni a Porta Latina, oltre ad essere<br />

la data dell’insediamento di papa Innocenzo III, al quale si deve<br />

forse la nomina del vescovo di Galtellì. Il 1206 rappresenta un termine<br />

ante quem molto probabile, dal momento che, al di là della vicenda delle<br />

nozze fallite fra Elena di Gallura e Trasmondo di Segni (che fu però<br />

anche la causa scatenante di quanto si verificherà poi), a partire da quella<br />

data, la situazione interna del giudicato di Gallura precipitò, in seguito<br />

alle invasioni esterne (da parte del giudicato di Torres e da parte di<br />

Genova) e ai contrasti fra il papato e Pisa, che aveva posto un suo<br />

uomo, Lamberto Visconti, alla guida del giudicato sardo.<br />

D’altro canto sarebbe a mio avviso improponibile pensare per gli<br />

affreschi ad una datazione più tarda, in un momento posteriore al periodo<br />

fra il 1210 e il 1220, in cui si può pensare ad una lenta stabilizzazione<br />

della complicata situazione che si era venuta a creare fra le<br />

grandi potenze sarde e italiane anche a proposito della Gallura. È impossibile<br />

pensare ad una data così bassa, perché a quell’epoca il giudicato<br />

gallurese era sotto il completo controllo dei Pisani, e la realizzazione<br />

di un ciclo di affreschi in quel periodo avrebbe risentito maggiormente<br />

dei modi dell’arte pisana che a quell’epoca mostrava i segni<br />

di un forte legame con la cultura bizantina ( 37 ), legato alle conseguen-<br />

( 37 ) Cfr. M. BURRESI-A. CALECA, Le croci dipinte, Pisa 1993; A. CALECA, La pittura<br />

in Toscana, in C. BERTELLI (cur.), Pittura in Italia. L’altomedioevo, cit., pp. 163-<br />

179.


Gli affreschi di San Pietro a Galtellì. Una proposta di datazione<br />

ze della quarta Crociata, del 1204. Modi del tutto assenti a Galtellì,<br />

dove del resto mancano anche quelli della coeva arte umbro-romana,<br />

che in quegli anni mostrava i segni della diffusione di stilemi bizantini<br />

originati dalla diffusione dei modi presenti nei mosaici siciliani<br />

di Monreale. Pensare ad una data così avanzata all’interno del<br />

secolo XIII significherebbe, pertanto, avallare un anacronismo o, se<br />

vogliamo, un fenomeno di forte attardamento stilistico, a mio avviso<br />

non sostenibile.<br />

57


MARCELLO TANCA<br />

MARX E LA GEOGRAFIA<br />

SOMMARIO: 1. Geografia e marxismo: una polemica. – 2. Marx e il determinismo<br />

geografico. – 3. Marx e la globalizzazione. – 4. Geografia e ideologia. – 5.<br />

Conclusioni.<br />

Mentre quindi da un lato il capitale deve tendere<br />

ad abbattere ogni ostacolo locale che si frappone<br />

al traffico, ossia allo scambio, e a conquistare la<br />

terra intera come suo mercato, dall’altro esso tende<br />

ad annullare lo spazio per mezzo del tempo.<br />

Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica<br />

dell’economia politica, V, 438, 9<br />

1. Geografia e marxismo: una polemica. – La questione dei rapporti<br />

tra marxismo ( 1 ) e geografia, tuttora aperta, rappresenta un vero e proprio<br />

“nodo scoperto” che ha dato vita ad una polemica dai toni spesso<br />

accesi, in cui sostanzialmente si possono distinguere due differenti posizioni:<br />

da una parte gli studiosi, a dire la verità un numero piuttosto<br />

esiguo, che hanno sostenuto un interesse esplicito da parte di Marx<br />

per problemi e tematiche di natura geografica o più generalmente spaziale<br />

e, quindi, hanno affermato una certa congruità tra marxismo e<br />

geografia; dall’altra coloro, praticamente la maggioranza, che hanno<br />

negato un’attenzione, in Marx, per questo ambito di ricerca. La questione<br />

tuttavia è più complessa di quanto non sembri a prima vista: fra<br />

questi ultimi, infatti, bisogna distinguere tra il parere di chi ritiene<br />

che, al di là di qualche spunto più o meno generico, non si possa in al-<br />

( 1 ) D’ora in poi useremo come se fossero sinonimi le espressioni: marxismo,<br />

materialismo storico, pensiero di Marx, ecc. per indicare genericamente un determinato<br />

corpus di teorie e modelli di analisi e dando quindi per scontate le diverse<br />

sfumature di significato.


60<br />

MARCELLO TANCA<br />

cun modo costruire una teoria geografica “marxista” proprio in ragione<br />

del disinteresse di Marx per la dimensione spaziale dei fenomeni; e<br />

quella di chi, invece, afferma che è possibile ricavare, seppur indirettamente,<br />

oltre che spunti occasionali, preziose indicazioni e strumenti di<br />

analisi validi anche per la geografia – allo stesso modo in cui, ad es., da<br />

Marx si può trarre un’analisi della società sebbene egli non fosse in<br />

senso stretto un sociologo ( 2 ).<br />

Uno dei primi documenti di questa polemica, che ne contiene<br />

tutti gli elementi essenziali, è rappresentato dal tentativo di coniugare<br />

il materialismo storico e l’antropogeografia di Ratzel compiuto<br />

nel 1924 da Engelbert Graf nel saggio Geografia e concezione materialistica<br />

della storia ( 3 ). Tipicamente, egli apre il suo scritto con la<br />

constatazione del disinteresse di Marx nei confronti del (si faccia<br />

caso alla formula) «problema geografico dei rapporti tra spazio terrestre<br />

e sviluppo delle culture». Le osservazioni sparse che emergono<br />

dalle opere di Marx sono soltanto, spiega Graf, spunti isolati nei<br />

quali si può riconoscere peraltro l’eredità di Ritter ( 4 ), e attestano un<br />

disinteresse per la geografia, in particolar modo per questioni geopolitiche.<br />

Marx, continua Graf con una formula che farà strada e che<br />

ritroveremo anche in altri studiosi,<br />

non era portato a vedere e pensare in termini geografici, essendo egli una<br />

sintesi di filosofo, di economo-politico, di politico rivoluzionario.<br />

Più fruttuoso appare al confronto il rapporto di Engels, al punto<br />

che l’autore sostiene addirittura che<br />

( 2 )M. QUAINI, Marxismo e geografia, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 44.<br />

Del resto la sociologia come scienza autonoma e istituzionalizzata sarebbe sorta,<br />

pur tra mille difficoltà, solo negli ultimi decenni del XIX sec., cfr. W. LEPENIES, Le<br />

tre culture. Sociologia tra letteratura e scienza, Bologna, Il Mulino 1987.<br />

( 3 )E. GRAF, Geografia e concezione materialistica della storia, a cura di Francesco<br />

Micelli, Milano, Cesviet 1977. Apparso nel volume Der Lebendige Marxismus<br />

[Il marxismo vivente] dedicato a Karl Kautsky, uomo di punta dell’ortodossia<br />

marxista tedesca, è rivolto polemicamente contro la Geopolitk di Haushofer. Su<br />

Haushofer, cfr. F. FARINELLI, Jugend ohne Erdkunde: la natura della Geopolitk, in<br />

ID., I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso geografico in età moderna,<br />

Firenze, La Nuova Italia 1992, pp. 235-249.<br />

( 4 )È noto che Marx seguì per qualche tempo a Berlino le lezioni di Ritter.<br />

Cfr. H. CAPEL, Filosofia e scienza nella geografia contemporanea, a cura di Angelo<br />

Turco, Unicopli, Milano 1987, p. 24; Guglielmo Scaramellini, Geografia umana<br />

ed economica: ipotesi di lavoro e percorsi di ricerca, in AA.VV., Aspetti e problemi della<br />

geografia, a cura di Giacomo Corna Pellegrini, Settimo Milanese, Marzorati<br />

1987, 2/2, pp. 169-170.


Marx e la geografia<br />

quella vena geografica che si riscontra in numerosi passi del Capitale e in<br />

altri scritti di Marx va ricondotta direttamente a Engels o almeno indirettamente<br />

al suo influsso. Marx di per sé era troppo poco critico di fronte ai<br />

problemi geografici e talvolta si è fatto riprendere dal suo amico ( 5 ).<br />

Al di là del diverso peso nei due pensatori, il ruolo della geografia<br />

nel materialismo storico non va né trascurato né sottovalutato: «la<br />

scienza geografica» ha giocato «una parte notevole» nella formazione<br />

della stessa concezione materialistica della storia ( 6 ). A corredo di<br />

questo giudizio, si pensi che non è raro trovare negli scritti di Marx,<br />

così come nella sua corrispondenza con Engels, materiali ed indicazioni<br />

di letture a carattere geografico: relazioni di viaggiatori ed<br />

esploratori, testi di geologia e di storia agraria, letteratura geografica<br />

sui paesi orientali, ecc., non da ultimo è difficile che egli non conoscesse<br />

le Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel nelle quali venivano<br />

esposte le basi geografiche della storia mondiale ( 7 ).<br />

Nella restante parte del suo scritto, che c’interessa meno, Graf si<br />

impegna nel tentativo, si è detto, di conciliare la concezione materialistica<br />

con l’antropogeografia ratzeliana – impresa che fra l’altro<br />

verrà aspramente bocciata dal Wittfogel, già di per sé fortemente critico<br />

nei confronti di Ratzel ( 8 ). Marx ed Engels hanno sostituito alla<br />

teleologia hegeliana uno studio scientifico della storia e alla nozione<br />

di fine la spiegazione causale, riconoscendo al tempo stesso l’assoluta<br />

originalità e irripetibilità degli eventi: ogni avvenimento storico accade<br />

una sola volta e non può ripetersi perché cambia ogni volta la<br />

combinazione specifica in cui si trovano e interagiscono individui e<br />

ambiente, tecnica e forme di associazione ( 9 ). L’antropogeografia,<br />

«quella parte della geografia che si occupa dei rapporti tra gli uomini<br />

e l’ambiente geografico», cioè del modo in cui i fattori geografici influiscono<br />

sulla storia, deve fare propri questi principi. Il suo limite<br />

( 5 ) E. GRAF, Geografia e concezione materialistica della storia, cit., p. 11. Che<br />

cosa intenda Graf con l’ultima frase è presto detto: Marx raccomandava in una<br />

lettera del 1866 ad Engels la lettura di uno scritto di Tremaux sulle basi geologiche<br />

delle nazionalità, ricevendone una risposta negativa (si tratta di una questione<br />

che affronteremo in maniera più dettagliata nel § 2, infra).<br />

( 6 ) Ivi, p. 13.<br />

( 7 )P. ROSSI, Storia universale e geografia in Hegel, Firenze, Sansoni 1975.<br />

( 8 ) F. MICELLI, Introduzione, in E. Graf, Geografia e concezione materialistica<br />

della storia, cit., p. 10.<br />

( 9 ) E. GRAF, Geografia e concezione materialistica della storia, cit., pp. 14-15.<br />

61


62<br />

MARCELLO TANCA<br />

fondamentale consiste infatti nella mancanza di un metodo che assicuri<br />

ad essa carattere scientifico e sistematico, non ideologico ma autonomo<br />

rispetto agli interessi politici: l’antropogeografia è «quasi sempre<br />

una scienza politica, cioè uno strumento nelle mani di chi detiene il<br />

potere», come dimostra il caso dell’imperialismo tedesco ( 10 ). Questo<br />

metodo col quale essa va integrata è quello specifico del materialismo<br />

storico:<br />

La diversa società economica con il suo potenziale economico, sociale e<br />

ideologico è dunque quella che determina il rapporto degli uomini verso<br />

l’ambiente geografico e viceversa; la società economica è la grandezza variabile<br />

con la cui analisi dobbiamo cominciare se vogliamo giungere a validi<br />

risultati antropogeografici ( 11 ).<br />

Ma un vero e proprio dibattito su geografia e marxismo doveva<br />

accendersi con particolare veemenza solo in anni a noi più vicini,<br />

vale a dire verso la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 e oltre, generato<br />

in parte dal malcontento nei confronti della cosiddetta “geografia<br />

quantitativa”. L’insoddisfazione degli studiosi statunitensi per il paradigma<br />

quantitativo diede vita ad un indirizzo di ricerca fortemente<br />

critico verso la geografia tradizionale, la «geografia radicale» ( 12 ). In<br />

America si pubblica la rivista «Antipode» su cui scrivono, tra gli altri,<br />

D. Harvey e G. Olsson. In particolare, due sono i punti che vengono<br />

posti in discussione con maggiore insistenza: la chiusura e l’arretratezza<br />

epistemologica della geografia, vale a dire l’assenza di una<br />

seria riflessione sui fondamenti teorici della disciplina; e il suo ruolo<br />

“normalizzante” cioè conservatore e l’approccio in genere scarsamente<br />

critico, se non apologetico, nei confronti dell’esistente (la società,<br />

il potere). È evidente che non si tratta in realtà che di due sfumature<br />

diverse dello stesso problema di fondo, la questione del senso<br />

del sapere geografico, in cui il secondo aspetto dipende dal primo,<br />

perché la mancanza tanto di una preliminare teoria dello spazio<br />

quanto della coscienza dei presupposti della geografia, spesso assunti<br />

acriticamente o, peggio, in maniera irriflessa, è alla base dell’atteggiamento<br />

poco incisivo del geografo sulla realtà che lo circonda.<br />

( 10 ) Ivi, pp. 18-19.<br />

( 11 ) Ivi, p. 27.<br />

( 12 ) H. Capel, Filosofia e scienza nella geografia contemporanea, cit., p. 243. Già<br />

dieci anni prima questi temi erano stati anticipati in diversi scritti da Lucio Gambi<br />

e raccolti in Una geografia per la storia, Torino, Einaudi 1973.


Marx e la geografia<br />

Nella prima metà degli anni ’70 «geografia radicale» diventa sinonimo<br />

di «geografia marxista»: si individua nel paradigma marxista la<br />

possibilità di trovare gli strumenti concettualmente più adatti per<br />

una rappresentazione più soddisfacente, non meramente apologetica,<br />

del mondo contemporaneo, e questo anche da autori non strettamente<br />

marxisti ( 13 ). Nel frattempo anche l’Europa si affiancava al dibattito,<br />

in parte sulla scia dei geografi d’oltreoceano, in parte per ragioni<br />

che risiedevano in una tradizione culturale di lungo corso.<br />

Non va dimenticato, però, che questi fermenti sarebbero probabilmente<br />

rimasti lettera morta oppure avrebbero avuto una eco minore<br />

se i geografi non si fossero drammaticamente trovati di fronte a tutta<br />

una serie di nuovi problemi sociali, politici, economici, ecologici:<br />

sono gli anni, ricordiamolo, della guerra in Vietnam, dei movimenti<br />

studenteschi, della crisi energetica, ecc. e in cui grande seguito hanno,<br />

ad es., le idee della “Scuola di Francoforte” ( 14 ).<br />

Nel 1976 in Francia nasce, per iniziativa di Yves Lacoste, autore<br />

di Geografia del sottosviluppo (1965) e di Crisi della geografia, geografia<br />

della crisi (1976) ( 15 ), la rivista «Hérodote», mentre un’altra rivista,<br />

«L’Espace Géographique» prende progressivamente le distanze<br />

dall’iniziale impostazione quantitativa (vi collaborano gli italiani L.<br />

Gambi e G. Dematteis); in Germania nasce «Roter Globus» [Globo<br />

rosso], in Italia si pubblica «Hérodote Italia» diretta da M. Quaini<br />

con un’impostazione più accentuatamente marxista rispetto alla versione<br />

francese ( 16 ), ecc.<br />

La geografia un contributo di Lacoste del 1973 (pubblicato in Italia<br />

due anni dopo) ad un’opera collettiva dedicata (non è un caso)<br />

alla filosofia delle scienze sociali ( 17 ) costituisce in quegli anni un<br />

vero e proprio “manifesto” del disagio provato dagli studiosi più<br />

( 13 )G. DEMATTEIS, La nascita dell’indirizzo marxista nella ricerca geografica italiana,<br />

in AA.VV. (AGEI), La ricerca geografica in Italia 1960-1980, a cura di Giacomo<br />

Corna-Pellegrini e Carlo Brusa, Varese, Ask 1980, p. 782.<br />

( 14 ) Ivi, pp. 782 e 788.<br />

( 15 )Y. LACOSTE, Geografia del sottosviluppo, Milano, Il Saggiatore 1965; Crisi<br />

della geografia, geografia della crisi, a cura di Pasquale Coppola, Milano, Angeli<br />

1977 (ma il titolo originale era più esplicito: La géographie, ça sert, d’abord, à faire<br />

la guerre, La geografia serve, prima di tutto, a fare la guerra).<br />

( 16 ) G. DEMATTEIS, La nascita dell’indirizzo marxista nella ricerca geografica italiana,<br />

cit., p. 784.<br />

( 17 )Y. LACOSTE, La geografia, in AA.VV., Storia della filosofia, a cura di Francois<br />

Chatelet, Milano, Rizzoli 1975, VII: La filosofia delle scienze sociali (dal 1860 ai<br />

nostri giorni), pp. 161-201.<br />

63


64<br />

MARCELLO TANCA<br />

consapevoli. Un disagio che, lo ripetiamo, è duplice, perché riguarda<br />

sia l’aspetto teorico della geografia che il suo rapporto con la società<br />

e le sue trasformazioni, e che ritroviamo puntualmente sintetizzato<br />

nelle parole dello studioso francese: teorizzazione ridotta al minimo<br />

indispensabile, scarsa propensione per i problemi teorici, rifiuto della<br />

riflessione epistemologica ( 18 ), caratterizzano la “geografia dei professori”<br />

(l’espressione è dello stesso Lacoste) ossia un sapere che, proprio<br />

a causa di questa carenza, di cui fra l’altro la maggior parte degli<br />

studiosi sembra inconsapevole, che fa di essa, nella migliore delle<br />

ipotesi, una giustapposizione di «elementi […] presi a prestito dalle<br />

altre discipline», è visto dagli specialisti delle altre discipline nonché<br />

dai filosofi con indifferenza se non trattata con una punta di sufficienza:<br />

È come se attorno alla geografia si fosse costituita una sorta di congiura del<br />

silenzio. I filosofi non sono peraltro i soli responsabili di questo stato di<br />

cose. Gli specialisti delle discipline “utilizzate” dai geografi sono stati altrettanto<br />

discreti […]. Questo isolamento della geografia e dei geografi,<br />

che fino a questi ultimi tempi non se ne sono preoccupati eccessivamente,<br />

contrasta con l’importanza che nozioni, immagini e clichés eminentemente<br />

geografici hanno nell’apparato concettuale di numerose discipline ( 19 ).<br />

La situazione, aggravata dell’inconsapevolezza da parte dello stessi<br />

geografi delle loro carenze, si riflette poi nell’atteggiamento passivo e<br />

nella funzione ideologica della materia che essi coltivano: la geografia<br />

è guardata con indifferenza dalle scienze alle quali attinge a piene<br />

mani ed è incalzata dalla rapida avanzata della “geografia spettacolo”<br />

diffusa dai mass-media, la quale «fornisce», a suo modo, «una certa<br />

rappresentazione del mondo attuale»:<br />

A costo di appesantirne i tratti fino a renderli grottescamente caricaturali, e<br />

sapendo che dovremo in seguito sfumare e correggere il quadro così abbozzato,<br />

possiamo ritenere che la funzione ideologica della geografia dei professori<br />

sia stata soprattutto quella di nascondere il carattere eminentemente<br />

politico dei fenomeni geografici. La funzione che essa svolge contribuisce a<br />

dissimulare il ruolo delle strutture economiche e sociali e il ruolo del potere<br />

politico nell’organizzazione dello spazio, nelle forme di differenziazione<br />

che vi si sviluppano, nei rapporti che si stabiliscono tra gli uomini e la “na-<br />

( 18 ) Ivi, p. 162.<br />

( 19 ) Ivi, p. 167.


Marx e la geografia<br />

tura” […]. Questo smantellamento del ragionamento geografico ha trovato<br />

espressione per molto tempo nel modo più tipico nei manuali scolastici destinati<br />

alla massa dei futuri cittadini, determinando atteggiamenti negativi<br />

la cui funzione ideologica è considerevole: “La geografia: non c’è nulla da<br />

capire, ci vuole solo memoria…” (sic). Ora, lo spazio in cui non ci sarebbe<br />

nulla da capire è politico ( 20 ).<br />

I geografi, spiega Lacoste, appaiono al tempo stesso mistificatori<br />

e mistificati, perché la loro reticenza, il rifiuto di tematizzare in maniera<br />

esplicita il carattere politico dello spazio riflette l’interesse, da<br />

parte del potere, a mantenere non problematica la nozione di spazio,<br />

e quindi a perpetuare una certa immagine che la società ha di sé. Il<br />

marxismo può in qualche modo rappresentare una via di uscita da<br />

questa situazione di stallo? A questo proposito Lacoste appare cauto:<br />

da una parte è innegabile l’apporto positivo del marxismo nel risvegliare<br />

dal loro “sonno dogmatico” i geografi e condurli all’analisi di<br />

fenomeni come l’inquinamento, la crisi urbana, il colonialismo,<br />

ecc., dall’altra, però, vi è nello stesso Marx un silenzio non facilmente<br />

spiegabile ma certamente gravido di conseguenze:<br />

Marx organizza costantemente il suo ragionamento in riferimento alla storia,<br />

che viene ad esserne riorganizzata, mentre si dimostra del tutto indifferente<br />

ai problemi dello spazio [...], l’essenziale dell’argomentazione marxiana,<br />

fa riferimento al tempo e non allo spazio ( 21 ).<br />

La «disarticolazione tra la problematica marxista e le forme della<br />

differenziazione spaziale» è tanto più grave se si pensa che i problemi<br />

cui vanno incontro le moderne istituzioni umane, sono per certi versi<br />

incomprensibili se si prescinde dalla loro dimensione geografica ( 22 ).<br />

Più sfumati i toni con cui Massimo Quaini affronta le stesse tematiche<br />

in Marxismo e geografia (1974). Anche qui il punto di partenza<br />

è dato dalla diagnosi della “crisi della geografia”, ossia della<br />

presa di coscienza della sua «disorganicità e sostanziale carenza di logica<br />

e rigore scientifico», del suo isolamento nel dibattito epistemologico<br />

contemporaneo, del carattere insieme caotico e apologetico<br />

della rappresentazione che essa offre della realtà ( 23 ). Di qui la neces-<br />

( 20 ) Ivi, p. 195.<br />

( 21 ) Ivi, p. 198.<br />

( 22 ) Ivi, p. 199.<br />

( 23 ) M. QUAINI, Marxismo e geografia, cit., pp. 2-3.<br />

65


66<br />

MARCELLO TANCA<br />

sità di recuperare, fra le altre, l’esperienza teorica del marxismo, anche<br />

se a prima vista Quaini sembra non discostarsi troppo dalla valutazione<br />

di Lacoste:<br />

Sarebbe assurdo voler riconoscere nei fondatori del materialismo storico<br />

dei precursori della geografia […]. Operazioni di questo tipo non sono<br />

giustificate sul piano storico-filologico né per Marx né per contemporanei<br />

di Marx.<br />

Tuttavia aggiunge, con parole che ci danno immediatamente lo<br />

spirito della sua lettura:<br />

Marx non è dunque un geografo (così come non è uno storico né un sociologo),<br />

ma nel marxismo, così come c’è una teoria della storia e un’analisi<br />

della società, c’è anche una geografia ( 24 ).<br />

Quaini si dice convinto, poco dopo, che nel marxismo oltre a «innumerevoli<br />

spunti di ricerca» si trovino «anche una teoria della geografia<br />

e dei limiti delle concezioni e fattori geografici» e che nella critica<br />

di Marx agli economisti politici sia contenuta la «strumentazione<br />

logica» di cui la geografia è sprovvista e della cui assenza paga ogni<br />

giorno le conseguenze. Se è vero, infatti, che generalmente parlando,<br />

al capitalismo corrisponde una certa organizzazione territoriale ( 25 ),<br />

più nello specifico se c’è un tratto che accomuna gli economisti politici<br />

criticati da Marx nei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia<br />

politica e i geografi appartenenti all’ortodossia accademica (i “professori”<br />

di Lacoste), è che essi sono «abituati ad esorcizzare le profonde<br />

contraddizioni della realtà» che studiano, e il carattere acritico e tautologico<br />

delle loro analisi ( 26 ). Gli economisti politici dei tempi di Marx<br />

e gli odierni geografi accademici cadrebbero insomma negli stessi errori:<br />

il primo, credere ingenuamente che l’analisi possa fare a meno<br />

della teoria (pensiamo a Vidal de la Blache); il secondo, accontentarsi<br />

di un approccio fondamentalmente descrittivo (cioè acritico); il terzo,<br />

infine, il non saper o il non voler andare oltre il livello di una semplice<br />

descrizione significa far uso di nozioni e di categorie concettuali molto<br />

( 24 ) Ivi, p. 44.<br />

( 25 ) Ivi, pp. 13-14.<br />

( 26 ) «Attraverso simili procedimenti tautologici passa l’eternizzazione dei modi<br />

di produzione storicamente determinati, passa cioè l’apologia dei processi economici e<br />

territoriali del modo di produzione capitalistico», M. QUAINI, Marxismo e geografia,<br />

cit., p. 5 (corsivi dell’autore).


Marx e la geografia<br />

vaghe, generalissime: vedi, ad es., il concetto astratto di paesaggio spogliato<br />

delle sue peculiarità storiche concrete ( 27 ).<br />

Un altro punto su cui la riflessione marxiana può rivelarsi estremamente<br />

proficua per il geografo è quello del determinismo. Il materialismo<br />

storico, avverte Quaini, «non ammette […] alcuna “base”,<br />

naturale o economica che sia, come sfera antecedente alla mediazione<br />

interumana» ( 28 ). Come vedremo meglio nel prossimo paragrafo,<br />

Marx non considera separatamente dimensione spaziale e dimensione<br />

temporale, natura e storia, territorio e società, ecc. ma concepisce<br />

tutti questi termini nell’unità dialettica delle loro interazioni ( 29 ).<br />

Questo inoltre rende possibile superare l’antinomia determinismopossibilismo<br />

che costituisce uno dei temi più dibattuti della teoria<br />

geografica ( 30 ). Proprio perché nel materialismo storico lo spazio<br />

non è sacrificato al tempo, in quanto entrambi rappresentano nel<br />

pensiero di Marx componenti insopprimibili della realtà, l’apporto<br />

che il marxismo può offrire alla riflessione teorica del geografo è<br />

quantomeno proficuo, considerevole, come Quaini dimostra nel suo<br />

lavoro con analisi puntuali e particolareggiate dei testi di Marx e di<br />

altri studiosi su cui non possiamo soffermarci ma alle quali rimandiamo.<br />

L’analisi di Quaini, condotta con perizia ed equilibrio si pone<br />

dunque in controtendenza rispetto a quelle del Graf e (soprattutto)<br />

di Lacoste poiché recuperando in Marx la dimensione spaziale e,<br />

quindi, una geografia più o meno implicita individua nel marxismo<br />

quel nucleo teorico di cui i geografi possono avvalersi per superare la<br />

crisi nella quale riversano.<br />

Di particolare interesse ci sembra il dibattito lanciato in quegli<br />

anni dalla rivista francese «L’Espace Géographique» la quale, come<br />

abbiamo accennato, da un iniziale orientamento quantitativo si era<br />

orientata verso il recupero di tematiche marxiste. Ad intervenire per<br />

primo sulla spinosa questione dell’apporto del marxismo allo studio<br />

( 27 ) Ivi, p. 11. Di qui tutta una serie di tautologie, che stabiliscono, ad es., che<br />

certe condizioni naturali (la vicinanza del mare) sono più favorevoli di altre ai fini<br />

di un determinato scopo economico, per poi dichiarare che quello scopo si realizza<br />

più facilmente là dove sono presenti quelle condizioni naturali, ecc. Cfr. K. MARX,<br />

Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), a cura di<br />

Giorgio Backhaus, Torino, Einaudi 1976, p. 5.<br />

( 28 ) M. QUAINI, Marxismo e geografia, cit., pp. 14-15.<br />

( 29 ) Ivi, p. 36 ss.<br />

( 30 ) Ivi, p. 14.<br />

67


68<br />

MARCELLO TANCA<br />

dello spazio è Paul Claval ( 31 ), il quale parla di rottura epistemologica<br />

(per Quaini era “crisi”) a proposito del rifiuto dei geografi marxisti dei<br />

procedimenti adottati fino a quel momento dagli studiosi borghesi. La<br />

parola d’ordine dei geografi, osserva l’autore, è «costruire la nuova<br />

scienza dello spazio» ( 32 ). Si tratta tuttavia di rispondere ad un quesito<br />

che non può essere lasciato in sospeso se ci si vuole valere dell’apparato<br />

teorico del marxismo in geografia: in breve, stabilire se in Marx c’è,<br />

implicita o meno, una geografia (Quaini) oppure se egli trascura completamente<br />

la componente spaziale dei fenomeni (Graf, Lacoste). La<br />

via seguita da Claval si situa a metà strada tra queste alternative.<br />

Si può parlare di un Marx geografo? Non necessariamente [«Pas<br />

nécessairement»] è la risposta di Claval ( 33 ). La conoscenza precisa<br />

della maggior parte dei paesi di cui Marx disponeva si era nutrita,<br />

secondo il costume dell’epoca, di «memorie e racconti, giornali di<br />

viaggio o relazioni di esploratori», e le sue opere testimoniano il desiderio<br />

di «basare l’analisi sui fatti i più possibilmente rappresentativi<br />

delle differenti tappe dell’evoluzione dell’umanità». Egli vede un<br />

legame tra la disposizione [ordonnance] geografica del mondo (il<br />

ruolo dello spazio) e la vita sociale, tra i «cambiamenti radicali nell’occupazione<br />

dello spazio» e «la successione dei modi di produzione»<br />

( 34 ). Ciò rende la sua teoria sociale anche una teoria geografica:<br />

C’è dunque in Marx una geografia ante litteram, una geografia insolitamente<br />

moderna nella misura in cui evita le trappole del determinismo,<br />

pone l’accento sulle successioni di tecniche e disposizioni spaziali e va al<br />

cuore dei contrasti essenziali in materia di distribuzione considerando<br />

come fondamentali le coppie città-campagna, centro-periferia ( 35 ).<br />

Ciò nonostante, nelle ultime opere, ed in particolar modo nel<br />

Capitale, la prospettiva geografica si riduce considerevolmente:<br />

l’analisi “scientifica” (più rigorosa, più sistematica) del modo di produzione<br />

capitalistico implica nell’ultimo Marx un livello di astrazione<br />

logica che mette in secondo piano i processi che si sviluppano<br />

nello spazio e nel tempo; geografia e storia intese concretamente<br />

( 31 )P. CLAVAL, Le marxisme et l’espace, in «L’Espace Géographique», III<br />

(1977), pp. 145-164.<br />

( 32 ) Ivi, p. 147.<br />

( 33 ) Ibidem.<br />

( 34 ) Ivi, p. 149.<br />

( 35 ) Ibidem.


Marx e la geografia<br />

scompaiono perché diventano superflue. Lo schema astratto, spiega<br />

Claval, presenta «una certa disposizione di fatti nello spazio e nel<br />

tempo» ma questo modello logico generale al tempo stesso deve valere<br />

«per ogni situazione particolare» che a quello schema deve essere<br />

confrontata:<br />

Il prezzo da pagare sul piano scientifico è elevato: Marx si trova costretto a<br />

occultare ciò che lo spazio e la durata possono rivelare di radicalmente<br />

nuovo. La scienza di Marx si svolge in un tempo in cui tutti gli apporti<br />

sono già classificati o prevedibili e in uno spazio che può rientrare in una<br />

teoria che ignora l’estensione ( 36 ).<br />

A causa di questi limiti (relativi, come abbiamo detto, soprattutto<br />

al Capitale) il contributo del marxismo alla riflessione geografica<br />

può essere definito paradossale, contraddittorio: la comprensione<br />

[appréhension] della realtà spaziale che si trova nelle opere di Marx,<br />

in particolar modo nelle prime, riflette una larghezza di vedute che<br />

mancava alla maggior parte dei suoi contemporanei, anche a coloro<br />

che stavano creando la geografia umana: egli si è reso conto che i fatti<br />

di distribuzione [faits de répartition] sono legati alla vita sociale e<br />

ha capito che i rapporti sociali e quindi i modi di produzione condizionano<br />

l’architettura spaziale e le sue trasformazioni ( 37 ). D’altra<br />

parte, però, Marx non mantiene tutto quello che promette e questa<br />

sua «geografia potenzialmente molto moderna» rimane alla resa dei<br />

conti lettera morta per una ragione ben precisa: se si assume che lo<br />

spazio è un prodotto sociale, allora le sue proprietà sono tutte deducibili<br />

dalla logica che sta alla base delle dinamiche della società (cioè<br />

i modi di produzione). Una volta che si sia afferrata questa logica,<br />

non c’è più niente da aggiungere:<br />

È difficile costruire una scienza spaziale in un sistema la cui logica elimina lo<br />

spazio […], senza una revisione profonda [déchirante] dei suoi presupposti<br />

metodologici, il marxismo resterà per molto tempo inadatto a proporre una<br />

ristrutturazione soddisfacente del campo della nostra disciplina ( 38 ).<br />

Le conclusioni di Claval, pur espresse con una certa cautela, non<br />

potevano non suscitare la reazione di quanti indirizzavano la loro ri-<br />

( 36 ) Ivi, p. 156.<br />

( 37 ) Ivi, pp. 162-63.<br />

( 38 ) Ivi, p. 164. Per una discussione di questo punto, rimandiamo alle conclusioni<br />

del § 3, infra.<br />

69


70<br />

MARCELLO TANCA<br />

cerca verso una più accentuata integrazione, per non dire fusione, tra<br />

geografia e marxismo. È questo il caso del «collettivo di ricercatori di<br />

Bordeaux» la cui risposta apparve sullo stesso numero della rivista ( 39 ).<br />

I geografi di Bordeaux si dicono convinti che il pensiero di Marx tenga<br />

conto della dimensione spaziale non solo nelle opere giovanili ma<br />

anche nel Capitale – il che era escluso da Claval. In quest’opera Marx<br />

ha individuato i rapporti tra il capitalismo e l’annullamento-omogeneizzazione<br />

degli spazi (delle distanze) e del tempo (della durata necessaria<br />

per percorrere le distanze), l’allargamento dei mercati e, non da<br />

ultimo, la nascita del mercato mondiale, in pratica l’insieme dei fenomeni<br />

che noi oggi chiamiamo globalizzazione ( 40 ).<br />

In polemica con Claval, questi autori aggiungono che non si può<br />

cogliere la dinamica di uno spazio indipendentemente dalla dinamica<br />

della società che lo occupa ( 41 ), così come non si può credere ad un<br />

progetto scientifico che non sia anche un progetto sociale ( 42 ). Di qui<br />

il descrittivismo acritico di tanta geografia, il suo intreccio col «sistema<br />

dominante», l’ostilità e anzi la censura dei geografi accademici nei<br />

confronti del marxismo, che si spiegano col «rifiuto sistematico di integrare<br />

l’analisi dello spazio e delle sue trasformazioni nell’evoluzione<br />

delle formazioni economiche e sociali studiate» ( 43 ). Certo, questi studiosi<br />

non si nascondono la difficoltà di integrare lo spazio e la durata<br />

nei loro lavori, e ammettono che le stesse questioni formulate erano<br />

già state poste da Marx e dai suoi continuatori senza che nessuno di<br />

essi trovasse delle risposte; il che si spiega col fatto che finora sono pochi<br />

gli autori che si sono dedicati a questo genere di ricerche. È in virtù<br />

del suo carattere rivoluzionario che il marxismo può arrecare alla<br />

geografia risultati interessanti sul piano epistemologico ( 44 ).<br />

( 39 ) Collectif de chercheurs de Bordeaux, A propos de l’article de P. Claval “Le<br />

marxisme et l’espace“, in «L’Espace Géographique», III (1977), pp. 165-177.<br />

( 40 ) Ivi, pp. 166 e 170.<br />

( 41 ) Ivi, pp. 168-69. Nozioni come quelle di centro e periferia «diventano prive<br />

di senso se si fa astrazione dai rapporti sociali che esistono al tempo stesso al<br />

centro e alla periferia», ivi, p. 173.<br />

( 42 ) Ivi, p. 172.<br />

( 43 ) Ivi, p. 175.<br />

( 44 ) Ibidem. Nella sua breve replica – Quelques réflexions complémentaires sur Le<br />

marxisme et l’espace, in «L’Espace Géographique, IV (1978), pp. 279-80 – Paul<br />

Claval preciserà alcuni punti del suo pensiero, che nella sostanza riconferma. Le<br />

ragioni delle «inibizioni spaziali del marxismo» sono da ricercare nel carattere stesso<br />

del pensiero di Marx: definire lo spazio un prodotto della formazione sociale


Marx e la geografia<br />

Al termine di questa rassegna, che non pretende affatto di aver<br />

esaurito l’argomento (il nostro obiettivo non era prendere in esame<br />

tutta la letteratura sul tema bensì, più semplicemente, fissare alcuni<br />

punti-chiave) possiamo tentare di trarre qualche conclusione, per<br />

quanto provvisoria. Al di là delle diverse risposte date al quesito sul<br />

peso e la fecondità dell’apporto che il marxismo potesse dare alla geografia,<br />

ciò che accomunava questi contributi era l’insoddisfazione<br />

per una certa geografia accademica, la consapevolezza del suo deficit<br />

epistemologico e della sua irrilevanza pratica con tutte le conseguenze<br />

che questo comportava ( 45 ).<br />

Abbiamo visto come, oltre alla questione di base (Marx e la geografia)<br />

ne siano emerse altre ad essa strettamente collegate: il determinismo<br />

geografico, il ruolo del mercato globale nella rappresentazione<br />

geografica dello spazio, il carattere ideologico dello stesso sapere<br />

geografico e dell’immagine della realtà che esso veicola. L’analisi<br />

del rapporto tra il pensiero di Marx e queste tematiche sarà l’argomento<br />

dei paragrafi successivi i quali saranno ordinati secondo un livello<br />

crescente di astrazione.<br />

2. Marx e il determinismo geografico. – Nell’Ideologia tedesca, scritta<br />

da Marx insieme ad Engels, troviamo a breve distanza due frasi molto<br />

simili. La prima dice che «non è la coscienza che determina la vita [degli<br />

uomini], ma la vita che determina la coscienza»; la seconda, che «le<br />

circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano<br />

le circostanze» ( 46 ). Anche chi conosca solo superficialmente il nucleo<br />

teorico del materialismo storico sa che cosa si intende per “vita” e “circostanze”:<br />

una determinata forma di produzione materiale ( 47 ). Ora,<br />

come spiega lo stesso Marx nei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia<br />

politica, ogni produzione (la “produzione in generale” non<br />

rende secondaria e quindi superflua qualsiasi analisi di tipo spaziale. È vero che<br />

«l’occultamento dello spazio voluto da Marx non impedisce di utilizzare di straforo<br />

le categorie spaziali», ma per arrivare allo spazio si dovrà pur sempre passare per<br />

i modi di produzione e la loro logica interna: «l’eliminazione dello spazio costituisce<br />

un sotterfugio che invalida totalmente la costruzione marxiana» (ivi, p. 280).<br />

( 45 ) «Fare cultura è impegnarsi per la società» scriveva nel 1973 L. GAMBI, in<br />

Una geografia per la storia, cit., p. VIII.<br />

( 46 ) K. MARX-F. ENGELS, L’Ideologia tedesca, a cura di Fausto Codino, Roma,<br />

Editori Riuniti 1958, pp. 23 e 34-35.<br />

( 47 ) In quanto ciò che gli uomini sono dipende dalle «condizioni materiali della<br />

produzione», ivi, p. 17.<br />

71


72<br />

MARCELLO TANCA<br />

è infatti che un’astrazione) è l’appropriazione della natura da parte<br />

dell’uomo in quanto membro di una società ( 48 ). Questa appropriazione,<br />

però, non è stata sempre quale noi la conosciamo e, al di là dei<br />

tratti in comune, ha attraversato diverse fasi che nel loro insieme compongono<br />

una serie coerente di forme di relazione. Non considerare<br />

quest’aspetto significa eternizzare la natura, cadendo all’incirca nello<br />

stesso errore di Feuerbach, il quale vedeva «soltanto fabbriche e macchine<br />

a Manchester, dove un secolo fa erano solo filatoi e telai a<br />

mano» o scopriva «soltanto pascoli e paludi nella campagna di Roma,<br />

dove al tempo di Augusto non avrebbe trovato altro che vigneti e ville<br />

di capitalisti romani» ( 49 ). La produzione materiale non è sempre stata<br />

uguale a se stessa: una prima distinzione di base che si può fare,<br />

ad es., è quella tra l’economia preborghese e l’economia borghese e,<br />

poiché ad un certo rapporto uomo-natura corrisponde il rapporto<br />

uomo-uomo, tra la società preborghese e quella borghese (o precapitalistica<br />

e capitalistica). La differenza tra questi due momenti riguarda<br />

il rapporto tra “produzione materiale della vita” e “natura”. Il<br />

mondo preborghese è in qualche maniera ancora dipendente dalla<br />

natura, vedi le società precapitalistiche in cui proprietà fondiaria e<br />

agricoltura rappresentano la base dell’ordinamento sociale. Marx<br />

parla di vera e propria «idolatria» verso la natura, di unità e di dipendenza<br />

dell’uomo nei suoi confronti. Tutto questo viene meno<br />

con l’avvento della borghesia, di cui Marx ed Engels riconoscono nel<br />

Manifesto il carattere “rivoluzionario”, tale cioè da distruggere e<br />

spazzare via le condizioni di vita feudale, i vecchi «rapporti stabili e<br />

irrigiditi», imprimere un ritmo del tutto inedito alla produzione e<br />

via dicendo ( 50 ). La società borghese ha rotto il vincolo di dipendenza<br />

in modo tale che trasformazione della natura e autonomia dell’uomo<br />

dalla natura sono diventate un’unica cosa. Il rovesciamento del<br />

rapporto di dipendenza (prima l’uomo è dominato, poi domina) di<br />

cui parla Marx adombra forse una forma di determinismo geografico?<br />

Non si tratta in fin dei conti della riproposizione dello schema<br />

hegeliano (l’uomo libero si è reso autonomo da una natura non ec-<br />

( 48 ) K. MARX, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., p. 10.<br />

( 49 ) K. MARX-F. ENGELS, L’Ideologia tedesca, cit., p. 40. Marx usa spesso indifferentemente<br />

come sinonimi i termini: natura, materia, materiale dell’attività<br />

umana, cosa naturale, mondo sensibile, terra, momenti oggettivi di esistenza del<br />

lavoro, e via dicendo. Cfr. A. SCHMIDT, Il concetto di natura in Marx, Laterza, Bari<br />

1969, pp. 22-25.<br />

( 50 ) K. MARX-F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, a cura di Emma Cantimori<br />

Mezzomonti, prefaz. di Lucio Colletti, Roma-Bari, Laterza 1985, pp. 85-87.


Marx e la geografia<br />

cessivamente invadente) ( 51 )riadattato per l’occasione da un punto<br />

di vista materialistico? Nel Capitale leggiamo che<br />

una natura troppo prodiga tiene l’uomo per mano come si tiene un bambino<br />

per le dande, e non fa dello sviluppo dell’uomo una necessità naturale.<br />

La madrepatria del capitale non è il clima tropicale con la sua vegetazione<br />

lussureggiante, ma la zona temperata ( 52 ).<br />

e non è difficile trovare in queste parole, anche a livello terminologico,<br />

l’eco della tesi hegeliana della limitazione dell’ambito geografico<br />

della storia del mondo ( 53 ): Hegel parlava di una natura “troppo forte”,<br />

Marx dice “troppo prodiga”; Hegel indicava nella zona temperata<br />

il teatro della storia mondiale, Marx localizza nella zona temperata<br />

la patria del capitalismo ossia del dominio dell’uomo sulla natura.<br />

Siamo di fronte a quella che Quaini definisce ( 54 ) una spiegazione<br />

geografica deterministica del sorgere della produzione capitalistica?<br />

La risposta è negativa per la semplice ragione che Marx non è Hegel.<br />

Hegel, da questo punto di vista, considerava astrattamente natura<br />

e spirito, geografia e storia, rapporto uomo-natura e rapporto uomouomo,<br />

produzione materiale e produzione di idee, ecc. come se si<br />

trattasse di due “cose” diverse e separate. Per Marx, invece, tutte<br />

queste coppie di termini non designano delle antitesi, bensì delle<br />

unità dialettiche: natura storica e storia naturale sono espressioni che<br />

si equivalgono ( 55 ). In altre parole, l’impostazione marxiana conside-<br />

( 51 ) Come è noto, per Hegel natura e storia si contrappongono in quanto la prima<br />

non è che pura accidentalità mentre la seconda è il processo complessivo in cui la Ragione<br />

divina, essenza della realtà, si manifesta nel mondo: l’uomo greco è libero poiché<br />

si è reso autonomo nei confronti della natura; viceversa l’uomo africano, ancora del<br />

tutto “naturale”, inconsapevole di sé, fermo alla sfera dei sensi non può dirsi libero.<br />

( 52 )K. MARX, Il Capitale. Critica dell’economia politica, a cura di Delio Cantimori,<br />

Roma, Editori Riuniti 1964, I, 2, p. 277.<br />

( 53 ) Hegel aveva dichiarato nelle Lezioni sulla filosofia della storia che l’uomo<br />

può divenire libero laddove la natura non è «troppo potente». L’ingresso dei popoli<br />

nella storia universale pertanto è legato alla possibilità di svincolarsi dalla natura<br />

– possibilità che risiede, in definitiva, nella natura stessa; G.W.F. HEGEL, Lezioni<br />

sulla filosofia della storia, a cura di G. Bonacina e L. Sichirollo, Roma-Bari,<br />

Laterza 2003, pp. 70-71. Per le origini medievali di questa teoria si rinvia a<br />

W.G.L. RANDLES, Dalla terra piatta al globo terrestre. Una mutazione epistemologica<br />

rapida (1480-1520), Firenze, Sansoni 1986.<br />

( 54 ) M. QUAINI, Marxismo e geografia, cit., p. 47.<br />

( 55 ) K. MARX-F. ENGELS, L’Ideologia tedesca, cit., p. 40; K. MARX, Manoscritti<br />

economico-filosofici, in ID., Opere filosofiche giovanili, a cura di Galvano della Vol-<br />

73


74<br />

MARCELLO TANCA<br />

ra da subito la natura non come un’entità astratta, metafisica, prima,<br />

ma come una categoria storica e sociale: «Non l’astratto della materia<br />

– ha osservato uno studioso – bensì il concreto della prassi sociale è il<br />

vero oggetto e il punto di partenza della teoria materialistica» ( 56 ).<br />

L’uomo non è solo un essere naturale, sensibile e corporeo (come<br />

voleva Feuerbach) né è solo autocoscienza, spirito, pensiero (come<br />

credeva Hegel). Nell’indissolubilità della loro unità risiede uno dei<br />

capisaldi del materialismo storico.<br />

La conseguenza immediata di questo legame è che per Marx la<br />

natura non determina di per sé l’assetto della società. Al massimo,<br />

può fornire solo la possibilità e non la realtà ( 57 ): le relazioni sociali,<br />

che non vanno mai concepite in maniera unidirezionale, sono insieme<br />

e nello stesso momento rapporti tra uomo e natura e rapporti tra<br />

uomini. L’assetto della società è il risultato di processi interni, immanenti<br />

alla società stessa:<br />

La natura non produce da una parte possessori di denaro o di merci e dall’altra<br />

puri e semplici possessori della propria forza lavorativa. Questo rapporto<br />

non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto<br />

sociale che sia comune a tutti i periodi della storia ( 58 ).<br />

Marx nega con chiarezza in questo passo del Capitale che la natura<br />

abbia un ruolo nel configurarsi dei rapporti sociali. Egli è consapevole<br />

del fatto che, semmai, è vero il contrario, che cioè non esiste<br />

una natura “pura”, “incontaminata” che preceda la storia. Qualcosa<br />

del genere non è mai esistito: «il mondo sensibile» (pensiamo ad es.,<br />

ad un qualsiasi paesaggio geografico) non è che «il prodotto dell’industria<br />

e delle condizioni sociali», della territorializzazione, vale a dire<br />

è un prodotto storico, il risultato dell’attività di tutta una serie di generazioni,<br />

ciascuna delle quali si è appoggiata sulle spalle della precedente, ne<br />

ha ulteriormente perfezionato l’industria e le relazioni e ne ha modificato<br />

l’ordinamento sociale in base ai mutati bisogni.<br />

pe, Roma, Editori Riuniti 1969, p. 233. Cfr. Lucio Colletti, Il marxismo e Hegel,<br />

Laterza, Bari 1969.<br />

( 56 ) A. SCHMIDT, Il concetto di natura in Marx, cit., p. 35.<br />

( 57 ) K. MARX, Il Capitale, cit., I, 2, p. 228: «Le condizioni naturali favorevoli<br />

forniscono sempre soltanto la possibilità, mai la realtà del pluslavoro e quindi del<br />

plusvalore e del plusprodotto».<br />

( 58 ) Ivi, I, 1, p. 186 (corsivi di Marx).


Marx e la geografia<br />

Gli esempi addotti da Marx per corredare la sua tesi ci sembrano<br />

importanti, significativi: il ciliegio, come quasi tutti gli alberi da frutta,<br />

è stato trapiantato in certe zone (ad es. in Germania) da pochi secoli<br />

grazie al commercio ( 59 ); la pecora e il cane, così come li conosciamo<br />

noi, sono senza dubbio prodotti di un processo storico che li ha<br />

trasformati in animali domestici; nella campagna romana dove un<br />

tempo esistevano vigneti ora troviamo solo pascoli e paludi ( 60 ); la<br />

stessa fertilità del suolo «non è una qualità così naturale come si potrebbe<br />

credere» ma è connessa ai rapporti sociali ( 61 ), ecc. Una natura<br />

separata e indipendente dall’uomo, vale a dire una natura sempre<br />

uguale a se stessa (una geografia senza storia), ammesso che sia esistita,<br />

non è più quella, conclude, nella quale noi viviamo «salvo forse in<br />

qualche isola corallina australiana di nuova formazione» ( 62 ).<br />

È innegabile che nell’opera di Marx (come negli scritti di tanti<br />

autori) si possano rintracciare accenni, frasi, ecc. passibili di essere<br />

interpretati in chiave deterministica: come quando in una lettera ad<br />

Engels egli parla in termini positivi dell’opera di P. Tremaux, Origine<br />

et transformations de l’homme et des autres êtres (1865) e delle sue<br />

tesi sulle basi geologiche dei caratteri nazionali ( 63 ). Ma non si tratta<br />

appunto che di accenni sparsi contro i quali si possono richiamare<br />

altrettanti passi nei quali emerge un punto di vista decisamente opposto.<br />

Vedi il caso in cui il filosofo nega con decisione in una lettera<br />

a Kugelmann che le leggi naturali siano direttamente applicabili ai<br />

rapporti sociali, con il conseguente rifiuto quindi del darwinismo<br />

sociale, cioè dell’applicazione ideologica della “lotta per la sopravvi-<br />

( 59 ) E, perciò, continua Marx nell’Ideologia tedesca, «soltanto grazie a questa<br />

azione di una determinata società in un determinato tempo esso fu offerto alla<br />

“certezza sensibile”», cit., p. 40.<br />

( 60 ) Ivi, pp. 70 e 40.<br />

( 61 )K. MARX, Miseria della filosofia, Roma, Editori Riuniti 1971, p. 56. Vedi il<br />

Gourou: «non bisogna dimenticare che sono le tecniche che contano: il coltivatore<br />

ha ricercato i suoli che convenivano alla sua tecnica; credere soltanto in relazioni<br />

semplici e dirette tra la qualità “oggettiva” dei suoli e i fatti di geografia umana significa<br />

condannarsi a non comprendere i paesaggi, la ripartizione delle densità di<br />

popolazione, quella dei livelli di civiltà»; P. GOUROU, Per una geografia umana, a<br />

cura di G. Ferro, Milano, Mursia 1984, p. 78; «Tecniche adeguate possono dare ai<br />

suoli poveri una fertilità che non avevano nel loro stato naturale», ivi, p. 79.<br />

( 62 )K. MARX-F. ENGELS, L’Ideologia tedesca, cit., p. 41.<br />

( 63 ) M. QUAINI, Marxismo e geografia, cit., pp. 47-48. Quaini definisce l’atteggiamento<br />

di Marx in questa lettera un «residuo di hegelismo». Di fronte alle obiezioni<br />

di Engels, alla fine Marx ammette che Tremaux non prende in considerazione<br />

«eventuali modificazioni storiche di questa influenza» (del suolo sugli uomini).<br />

75


76<br />

MARCELLO TANCA<br />

venza” alla storia che riconduce quest’ultima a leggi naturali, giustificandone<br />

le ingiustizie; vedi il passo dei Lineamenti in cui esclude<br />

che la società sia da considerare come risultato delle proprietà naturali<br />

delle cose; o, ancora, il sarcasmo nell’Ideologia tedesca contro il<br />

culto romantico della natura definito una serie di «sfoghi del cuore»,<br />

che si rivela fra l’altro ottimo antidoto contro le esagerazioni di<br />

quelli che Massimo Quaini chiama gli odierni «ecologi populisti e<br />

reazionari» ( 64 ).<br />

In ultima analisi, non si può parlare di un vero e proprio determinismo<br />

geografico in Marx, quale ad es., abbiamo visto in Hegel:<br />

proprio perché la natura (la geografia) non è solo la “base” della storia,<br />

ossia qualcosa di completamente diverso, e di separato da essa,<br />

ma entrambe rappresentano due aspetti imprescindibili della stessa<br />

realtà. La natura non viene “prima” della storia, né la storia precede<br />

la natura: una geografia per la storia è, al tempo stesso, anche una<br />

storia per la geografia.<br />

3. Marx e la globalizzazione. – Nelle pagine precedenti abbiamo<br />

accennato ad un fenomeno strettamente collegato alla geografia e<br />

che addirittura sembra metterne in crisi le categorie tradizionali, ovvero<br />

la globalizzazione. Marx critico della globalizzazione e dei suoi<br />

effetti sul modo di vivere e di rappresentarsi lo spazio? Cerchiamo di<br />

vedere se questa tesi è legittima, visto che questo fenomeno è diventato<br />

ormai una sorta di grande scatolone, un contenitore in cui<br />

ognuno ripone quel che gli pare ( 65 ). Questa è probabilmente una<br />

conseguenza del suo carattere insieme attuale e storico, del suo essere<br />

cioè qualcosa che ci tocca da vicino e che al tempo stesso affonda le<br />

sue radici nel passato. Per dirla con Massimo Quaini, “globalizzazione”<br />

non è che «un nome nuovo per dire una realtà vecchia» ( 66 ).<br />

( 64 ) Ivi, p. 144. Ci sembra pertinente il richiamo del Gourou quando scrive<br />

che «il rispetto totale (o quasi) della foresta naturale si realizza solo nelle regioni<br />

poco popolate, e la cui popolazione si trova ancora allo stadio dell’economia di<br />

raccolta» (Per una geografia umana, cit., p. 96) o che «un esempio di isolamento<br />

perfetto è dato dalle isole che, prima delle grandi navigazioni, non erano state popolate»,<br />

ivi, p. 104.<br />

( 65 )M. NEVE, Itinerari nella geografia contemporanea, Roma, Carocci 2004, p. 18.<br />

( 66 )M. QUAINI, La mongolfiera di Humboldt. Dialoghi sulla geografia ovvero sul piacere<br />

di cercare sulla Luna la scienza che non c’è, Reggio Emilia, Diabasis 2002, p. 322.<br />

Da una parte, nota Luciano Gallino in Globalizzazione e disuguaglianze (Roma-<br />

Bari, Laterza 2001), quando si parla di globalizzazione ci si riferisce al fatto che


Marx e la geografia<br />

In questa accezione si assume peraltro che la globalizzazione sia un<br />

fenomeno o una serie di fenomeni che hanno origine in campo economico<br />

(l’economia di mercato): l’allargamento dello spazio materiale e<br />

dello spazio immateriale del mercato. Da una parte la nascita di un<br />

vero e proprio mercato mondiale il cui spazio fisico, a furia di allargarsi<br />

ha finito per coincidere con il globo ( 67 ); dall’altra l’ingresso nel mercato,<br />

che diviene universale, di attività, bisogni, comportamenti e cose<br />

che fino ad ieri ne erano rigorosamente esclusi ( 68 ). Il mercato è di conseguenza<br />

ad un tempo mondiale e universale, e si estende su uno spazio<br />

tanto materiale quanto immateriale. La globalizzazione, in sostanza, potrebbe<br />

essere definita un’ipertrofia dell’economia che da “parte” diventa<br />

“tutto” e ingloba in sé tutti gli altri aspetti e settori della realtà umana.<br />

Questa visione, tuttavia, lascia insoddisfatti diversi autori i quali ritengono<br />

rappresenti solo un aspetto, una parte dell’intero quadro ( 69 ).<br />

“Globalizzazione” indicherà allora il punto di approdo, per così dire, di<br />

una serie di processi che agiscono a differenti livelli e che quindi vanno<br />

ad aggiungersi e a confondersi con quelli di ordine economico.<br />

Detto questo, occorre vedere se e in che modo è possibile trovare<br />

in Marx la consapevolezza di questi processi e se egli attribuisce all’aspetto<br />

materiale, per usare la sua terminologia, un ruolo fondamentale<br />

nella loro evoluzione. Infine, ci interessa sapere se si limita a<br />

darne una descrizione puramente economica o se invece è possibile<br />

dedurre dalle sue premesse conseguenze attinenti alla geografia.<br />

Nell’Ideologia tedesca Marx coglie molto bene lo stretto legame esistente<br />

fra la nascita del mercato mondiale e la trasformazione della storia<br />

in storia universale (il che significa anche trasformazione della geografia<br />

in geografia universale, vale a dire nascita della geopolitica), due<br />

fenomeni che si svolgono simultaneamente, che sono cioè contemporanei,<br />

o quasi ( 70 ). Dipendenza e concorrenza universali, essenza del<br />

mercato mondiale, sono possibili solo in un contesto storico e geogra-<br />

«negli ultimi decenni del Novecento lo spazio del mercato sembra aver raggiunto i<br />

confini demografici e territoriali del mondo (onde il sinonimo, preferito dagli studiosi<br />

francesi, di mondializzazione)», dall’altra, non si può non riconoscere che «il<br />

mercato-mondo è in sviluppo da oltre quattro secoli» (ivi, p. 23).<br />

( 67 ) Per cui due produttori, spiega Gallino, di cui uno sta a Tolosa o a Dublino<br />

e l’altro a Giacarta e che offrono un prodotto dello stesso tipo, sono in competizione<br />

tra loro, Globalizzazione e disuguaglianze, cit., p. XV.<br />

( 68 ) Vedi il caso dell’educazione, della salute, della previdenza sociale, persino<br />

del genoma brevettato di piante ed animali.<br />

( 69 ) M. NEVE, Itinerari nella geografia contemporanea, cit., p. 18.<br />

( 70 ) K. MARX-F. ENGELS, L’Ideologia tedesca, cit., pp. 33, 42-43, 57.<br />

77


78<br />

MARCELLO TANCA<br />

fico in cui «ogni nazione civilizzata» dipende dal «mondo intero»;<br />

d’altra parte, la storia universale non è il prodotto di un «fantasma<br />

metafisico» (chiara allusione allo spirito hegeliano) ma «un fatto assolutamente<br />

materiale, dimostrabile empiricamente». Non è possibile<br />

comprendere storia e geografia universali slegandoli dagli aspetti<br />

materiali, ossia dal ruolo del mercato mondiale, ma la base materiale<br />

(l’economia, la produzione, il mercato mondiale) a sua volta ha senso<br />

in un contesto spazio-temporale che si presenta come “universale”.<br />

Uno sviluppo di questo tema lo troviamo nel Manifesto del partito<br />

comunista. Anche qui la natura cosmopolita della storia e della<br />

geografia universali va di pari passo con l’allargamento dello spazio<br />

fisico del mercato:<br />

La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa crearono alla<br />

sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della<br />

Cina, la colonizzazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento<br />

dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla<br />

navigazione, all’industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò<br />

impressero un rapido sviluppo all’elemento rivoluzionario entro la società<br />

feudale in disgregazione […]. La grande industria ha creato quel mercato<br />

mondiale, ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato<br />

mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione,<br />

alle comunicazioni per via di terra ( 71 ).<br />

In questo passo ci sembra evidente come la globalizzazione possa<br />

dirsi un processo che non ha cause univoche, un processo cioè al quale<br />

scoperte geografiche e sviluppo dell’industria hanno concorso in ugual<br />

misura. Le scoperte geografiche hanno spalancato nuovi scenari al<br />

mercato mondiale ma, al tempo stesso, il mercato mondiale ha incrementato<br />

le scoperte geografiche. Tutto ciò produce dei cambiamenti<br />

sui modi di rapportarsi allo spazio e di vivere le distanze? Marx ed Engels<br />

aggiungono che in seguito a ciò, si dissolvono tutti i rapporti stabili<br />

e irrigiditi, si volatilizza ogni cosa che si credeva duratura, gli uomini<br />

sono costretti a guardare «con occhio disincantato la propria posizione<br />

e i propri reciproci rapporti» ( 72 ). Ai vecchi bisogni ne subentrano<br />

degli altri, i quali per essere soddisfatti «esigono i prodotti dei<br />

paesi e dei climi più lontani» ( 73 ). Ancora, vengono meno l’«antica au-<br />

( 71 ) K. MARX-F. ENGELS, Manifesto del partito comunista, cit., pp. 84-85.<br />

( 72 ) Ivi, p. 87.<br />

( 73 ) Ivi, p. 88.


Marx e la geografia<br />

tosufficienza» e l’isolamento locale e delle nazioni, subentrano lo<br />

scambio e l’interdipendenza reciproca, cioè universale, e questo sia per<br />

quanto attiene la produzione materiale che quella intellettuale. Non<br />

c’è muraglia cinese che tenga, leggiamo nel Manifesto, di fronte all’avanzata<br />

del mercato mondiale: «Il bisogno di uno smercio sempre<br />

più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il<br />

globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire<br />

le sue basi, dappertutto deve creare relazioni» ( 74 ).<br />

Al di là dei nomi che si possono dare a questo processo (mercato<br />

mondiale, storia e geografia universale, globalizzazione, mondializzazione,<br />

occidentalizzazione del mondo) Marx sottolinea come esso<br />

abbia livellato la faccia della terra e reso dipendente la campagna<br />

dalla città, l’oriente dall’occidente, il sud dal nord, permettendo al<br />

tempo stesso di pensare e rappresentare il mondo in maniera riduttiva<br />

senza che ciò appaia palesemente riduttivo. Il capitalismo occidentale,<br />

infatti, ha creato «un mondo a propria immagine e somiglianza»<br />

( 75 ). La globalizzazione riduce il mondo ad un’unica immagine<br />

– fissa, come ha osservato fra gli altri Quaini, in un’immagine<br />

rigida, definitiva, interamente pianificata e unidimensionale ciò di<br />

cui, per la sua stessa natura pluridimensionale, non si può fornire<br />

una descrizione “ultima” che pretenda di essere esaustiva ( 76 ).<br />

Ma quali sono le conseguenze sulla rappresentazione dello spazio?<br />

Alcuni li abbiamo già anticipati: quando Marx afferma che gli uomini<br />

guardano con disincanto alla «propria posizione» e ai «rapporti reciproci»<br />

e sono costretti ad un’interdipendenza reciproca, vuol dire<br />

che è mutato il significato che essi tradizionalmente attribuivano alle<br />

distanze. La circolazione delle merci, leggiamo nei Lineamenti, richiedeva<br />

di dover fare i conti con spazio e tempo, cioè con la distanza<br />

e la durata ( 77 ). In pratica, come nota Zygmunt Bauman rifacendosi<br />

proprio a Marx, “lontano” voleva dire “molto tempo” e “vicino”<br />

invece “subito”: lo spazio-distanza era qualcosa che si poteva attraversare<br />

in un dato tempo, il tempo-durata ciò che serviva per attraversare<br />

uno spazio ( 78 ). Ma il mercato mondiale, nota Marx, non<br />

( 74 ) Ivi, p. 87.<br />

( 75 ) Ivi, p. 89.<br />

( 76 ) M. QUAINI, La mongolfiera di Humboldt, cit., p. 73 ss., p. 147 ss.<br />

( 77 ) K. MARX, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit.,<br />

pp. 375 e 521.<br />

( 78 )Z. BAUMAN, Modernità liquida, a cura di Sergio Minucci, Roma-Bari, Laterza<br />

2002, p. 123.<br />

79


80<br />

MARCELLO TANCA<br />

può permettersi costi troppo elevati: «Ogni limite si presenta come<br />

un ostacolo da superare». Occorre arrivare prima degli altri, essere<br />

più veloci: e il primo ostacolo è costituito proprio dal «momento<br />

spaziale». Abbattere le «barriere esterne» vuol dire quindi convertire<br />

lo spazio in tempo, la distanza in durata o, meglio, nella frazione di<br />

tempo più breve possibile ( 79 ). Come osserva ancora Bauman, sviluppando<br />

queste analisi di Marx, tutte le parti dello spazio devono<br />

poter essere raggiunte “all’istante”: la distanza va annullata, “lontano”<br />

non significa più “molto tempo” ed è anzi irrilevante che qualcosa<br />

si trovi “vicino” o “lontano” da noi, visto che il “tempo di percorrenza”<br />

è indifferentemente lo stesso (l’istantaneità) ( 80 ). Marx ha<br />

riconosciuto questa tendenza del capitalismo ad abbattere la resistenza<br />

dello spazio (non a caso egli adopera termini come limite,<br />

ostacolo, barriera) fino ad annullarla del tutto, privando i luoghi<br />

della loro identità specifica. Ciò che conta, non è tanto la lontananza<br />

del mercato, ma la velocità (la quantità di tempo) con cui esso<br />

viene raggiunto ( 81 ). D’altronde in un contesto globale, in cui tutto<br />

è mercato, non ha più senso ragionare in termini di distanza (vicinolontano):<br />

Mentre quindi da un lato il capitale deve tendere ad abbattere ogni ostacolo<br />

locale che si frappone al traffico, ossia allo scambio, e a conquistare la<br />

terra intera come suo mercato, dall’altro esso tende ad annullare lo spazio<br />

per mezzo del tempo; ossia a ridurre al minimo il tempo che costa il movimento<br />

da un luogo all’altro. Quanto più il capitale è sviluppato, quanto<br />

più è quindi esteso il mercato sul quale circola e che costituisce la traiettoria<br />

spaziale della sua circolazione, tanto più esso tende al tempo stesso a<br />

estendere maggiormente il mercato nello spazio e ad annullare maggiormente<br />

lo spazio attraverso il tempo ( 82 ).<br />

La circostanza, rilevata da Paul Claval, per cui nelle ultime opere<br />

Marx sembra quasi dimenticarsi della dimensione spaziale, si spiega<br />

a questo punto con le conclusioni che egli trae negli scritti che abbiamo<br />

esaminato e appare come un effetto dell’annullamento delle<br />

distanze messo in opera dall’ampliarsi dell’orizzonte storico-geogra-<br />

( 79 ) K. MARX, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit.,<br />

p. 521 ss.<br />

( 80 ) Z. BAUMAN, Modernità liquida, cit., p. 133.<br />

( 81 ) K. MARX, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, cit., p. 525.<br />

( 82 ) Ivi, pp. 527-528.


Marx e la geografia<br />

fico e dalla rapida espansione del mercato mondiale, in realtà due<br />

aspetti della stessa vicenda. Marx mostra davvero di essersi reso conto<br />

che lo spazio veniva progressivamente svuotato di senso, livellato,<br />

e che diventava completamente indifferente la collocazione spaziale,<br />

il fatto di trovarsi in questo o in quel luogo. Alla luce della globalizzazione<br />

ci sembra pertanto di poter affermare che non è la logica del<br />

sistema di Marx che elimina lo spazio, come si è creduto, ma quella<br />

dei meccanismi che egli analizza. La dimensione spaziale scompare<br />

dall’analisi marxiana del capitalismo proprio perché è il capitalismo,<br />

per primo, ad occultarla rendendola insignificante.<br />

4. Geografia e ideologia. – Il compito che Marx assegna ad una<br />

scienza sociale critica, è stato scritto, non consiste nel riprodurre «il<br />

modo in cui le relazioni “appaiono” a coloro che vi partecipano» ma<br />

«nel confrontarsi con l’arcano del feticismo della merce» ( 83 ). Anche la<br />

geografia, in quanto scienza sociale, se vuole porsi come sapere “critico”<br />

(consapevole dei propri presupposti teorici e tale da non accontentarsi<br />

di una visione meramente apologetica della realtà), deve<br />

fare i conti col proprio feticcio: lo spazio. Parafrasando il noto passo<br />

del Capitale si potrebbe pertanto dire che a prima vista lo spazio<br />

sembra una cosa ovvia finché è «valore d’uso», cioè è spazio vissuto,<br />

ma ad un’attenta indagine si rivela invece «imbrogliatissima» e piena<br />

di sottigliezze, così che quella che appariva come una «cosa sensibile<br />

e ordinaria» si trasforma in una «cosa sensibilmente sovrasensibile»,<br />

cioè sociale.<br />

In altre parole lo spazio, esattamente come la “forma merce”, ha<br />

un suo «arcano» che lo rende un «feticcio», facendolo apparire non<br />

come un prodotto sociale, fatto dagli uomini (quale effettivamente<br />

è), bensì come qualcosa di «sensibile», ossia di naturale, e di «ovvio»,<br />

un dato aproblematico il quale, proprio in virtù di queste caratteristiche,<br />

non richiede di essere messo in discussione. Il feticismo consisterà<br />

nell’identificare un certo ordine spaziale, una determinata organizzazione<br />

dello spazio, fatta dagli uomini, con l’ordine naturale<br />

delle cose ( 84 ). Al § 2 abbiamo visto Marx biasimare Feuerbach perché<br />

scambiava certe forme d’uso e di organizzazione dello spazio storicamente<br />

e socialmente determinate per una descrizione o immagine<br />

della terra quando assumeva il «mondo sensibile» come un dato<br />

( 83 )D. FRISBY, Frammenti di modernità, Bologna, Il Mulino 1992, p. 37.<br />

( 84 ) G. DEMATTEIS, Le metafore della Terra. La geografia umana tra mito e scienza,<br />

Milano, Feltrinelli 1985, p. 25.<br />

81


82<br />

MARCELLO TANCA<br />

solo naturale, privo di storia – quindi di identità. In casi come questo<br />

rapporti storico-sociali (tra persone) appaiono rovesciati come<br />

rapporti oggettivo-naturali (tra cose) e un prodotto dell’attività<br />

umana, l’organizzazione dello spazio viene concepito come se fosse<br />

qualcosa di fondamentalmente diverso dai prodotti umani:<br />

Quel che qui assume per gli uomini la forma di una fantasmagoria di un<br />

rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini<br />

stessi ( 85 ).<br />

Anche qui Marx sta parlando della merce; ma, si badi, quest’ultima<br />

è una “forma” (il tema è l’«arcano della forma di merce»), vale a dire è<br />

insieme un esempio e una metafora del processo di produzione di simulacri<br />

della realtà – il che rende possibile concepire il modo in cui<br />

nell’immagine del mondo fornita dalla rappresentazione geografica<br />

l’ordine spaziale appare non come dato a posteriori, fatto dagli uomini,<br />

bensì a priori, fatto dalle cose, come un’applicazione insieme esemplare e<br />

metaforica della teoria del feticismo-reificazione, cioè del modo in cui<br />

un prodotto umano assume un grado di esistenza autonoma e indipendente<br />

dal suo produttore al punto tale che questi ne dimentica<br />

l’origine: «tale forma, come uno specchio» o, anche, come una carta ( 86 ),<br />

«restituisce agli uomini – continua Marx – l’immagine dei caratteri<br />

sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi<br />

dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di<br />

quelle cose» ( 87 ). Giuseppe Dematteis ha messo in luce la circolarità<br />

cui soggiace quella rappresentazione geografica che fa dello spazio un<br />

feticcio e pertanto confonde ciò che rappresenta col rappresentato:<br />

l’ordine umano-artificiale (mentale, operativo, politico, cartografico)<br />

viene rovesciato in un ordine naturale-ontologico. Questo rovescia-<br />

( 85 ) K. MARX, Il Capitale, cit., I, 1, p. 104. Il feticismo-reificazione fa apparire<br />

in maniera capovolta i «rapporti immediatamente sociali fra persone […] come<br />

rapporti di cose fra persone e rapporti sociali fra cose», ivi, p. 105. Cfr. P.L. BERGER-<br />

T. LUCKMANN, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino 1995, p. 128.<br />

( 86 ) M. QUAINI, La mongolfiera di Humboldt, cit., p. 186: «Anche la carta, in<br />

quanto immagine del mondo, partecipa a questa fantasmagoria, anzi ne è l’espressione<br />

più immediata e letterale». Cfr. anche F. FARINELLI, I segni del mondo, cit., p. 192:<br />

«è alla logica dello sviluppo capitalistico che la carta topografica ha sottomesso la<br />

figurazione della Terra, e il geografo non ha fatto altro che assolutizzare in procedimento<br />

“scientifico” tale logica» e p. 188: «L’arcano della forma topografica è,<br />

alla lettera, ciò che Marx chiama “l’arcano della forma di merce”», ossia una forma<br />

reificata della realtà.<br />

( 87 ) K. MARX, Il Capitale, cit., I, 1, p. 104.


Marx e la geografia<br />

mento, però, non avviene solo da un punto di vista mentale, teorico o<br />

concettuale (Feuerbach che vede paludi là dove un tempo erano vigneti);<br />

ma esce confermato e rafforzato dalla pratica quotidiana che lo<br />

realizza concretamente trasformandolo in realtà naturale immodificabile<br />

(là dove sono paludi non possono esserci vigneti). La rappresentazione<br />

geografica è vera perché sarà realizzata. Un situazione storicamente<br />

data (palude o vigneto) diventa veramente – ed è evidente il valore<br />

ideologico di questa operazione – una situazione naturale, “geograficamente”<br />

ineccepibile, contro cui l’uomo non può nulla ( 88 ).<br />

5. Conclusioni. – Nei paragrafi precedenti abbiamo cercato di<br />

mostrare come Marx fornisca alla geografia alcune preziose indicazioni<br />

sul piano epistemologico.<br />

In primo luogo, il rapporto tra uomo e ambiente, fattori antropici<br />

e fattori fisici può configurarsi in termini deterministici solo qualora<br />

i due ambiti vengano concepiti astrattamente. L’uomo e la natura<br />

per Marx non sono mai due “cose” separate; dimensione sociale<br />

e dimensione materiale si rimandano a vicenda, sempre. Il paesaggio<br />

è sì prima di tutto una cosa sensibile, che si vede, ma al tempo stesso<br />

anche il risultato di un processo storico di territorializzazione, di<br />

cause cioè che non si vedono ( 89 ). Non è il «mondo sensibile» che<br />

produce determinate condizioni sociali, semmai è vero il contrario.<br />

Pertanto non basta fermarsi alla sola descrizione dello spazio della<br />

visione, alla sola dimensione spaziale, pena la caduta in tautologie e<br />

affermazioni deterministiche.<br />

In secondo luogo, Marx ha compreso non solo che non è possibile<br />

creare un mercato mondiale se non si piega la resistenza opposta dallo<br />

spazio e non si trasforma la distanza in durata, lo spazio nel tempo,<br />

ma anche che questa trasformazione, annullando lo spazio, livella la<br />

faccia della terra, riducendo il mondo ad un’unica immagine.<br />

( 88 ) Sempre secondo Dematteis, è proprio questa l’essenza del determinismo<br />

geografico, il quale «non consiste tanto nella pretesa di considerare i fatti sociali<br />

come “effetti” di “cause” naturali» quanto «nell’occultamento dell’origine soggettiva<br />

(anche se collettiva e non certo arbitraria) del concetto di “spazio geografico”,<br />

nella sua conseguente oggettivazione come entità reale e nella trasformazione dell’ordine<br />

soggettivo della rappresentazione nell’ordine naturale delle cose rappresentate»;<br />

G. DEMATTEIS, Alla ricerca di un senso nella costruzione degli oggetti geografici,<br />

in «Geografia nelle scuole. Rivista dell’associazione italiana insegnanti di<br />

geografia», 2, marzo-aprile 1990, p. 93.<br />

( 89 ) Cfr. L. GAMBI, Critica ai concetti geografici di paesaggio umano, in ID., Una<br />

geografia per la storia, cit., pp. 148-174.<br />

83


84<br />

MARCELLO TANCA<br />

Sviluppando in tal senso il discorso marxiano possiamo pertanto<br />

affermare (siamo arrivati al terzo punto) che la globalizzazione, che<br />

riduce il mondo ad un’unica immagine, e il feticismo geografico,<br />

che trasforma quell’immagine in qualche cosa di reale, sono due facce<br />

dello stesso fenomeno o, se si preferisce, i due differenti livelli<br />

(materiale-operativo e teorico) in cui esso si sviluppa. Se è vero che il<br />

mondo è un’immagine, “criticare l’immagine del mondo”, cioè il<br />

modo in cui la geografia rappresenta la realtà, vuol dire due cose fondamentali:<br />

la prima, recuperare la consapevolezza del suo carattere<br />

di rappresentazione, di immagine, di descrizione possibile che non<br />

esaurisce la possibilità di descrizione; inoltre mettere in discussione<br />

una rappresentazione geografica significa mettere in discussione la<br />

realtà materiale (sociale, politica) cui quella rappresentazione rimanda,<br />

individuarne i limiti e le contraddizioni vuol dire individuare i<br />

limiti e le contraddizioni reali che stanno alla base di quella rappresentazione<br />

e senza le quali questa sarebbe impensabile.<br />

Fintanto che non si avrà pienamente la coscienza del modo in cui<br />

il codice della rappresentazione cioè «le regole mentali con cui costruiamo<br />

le nostre immagini geografiche del mondo» (Dematteis)<br />

prendono il posto della realtà rappresentata, la geografia non potrà<br />

affermarsi marxianamente come sapere critico.


CINELLU DANILA<br />

I PIONIERI DEL RITUALISMO<br />

SOMMARIO: 1. W. Robertson Smith. – 1.1. La religione in funzione del gruppo. –<br />

1.2. Il pasto sacramentale secondo la prospettiva totemica. – 2. James G.<br />

Frazer. – 2.1. Le divergenze dalla teoria smithiana. – 2.2 I cardini dell’ellenismo<br />

antropologico. – 3. Jane E. Harrison. – 3.1. Fra vitalismo e conscience<br />

collective. – 3.2. Il primo studio su Dioniso adolescente. – 3.3. Il pasto sacramentale<br />

secondo la prospettiva animatista. – 3.4. Eniautos-Daimon. –<br />

3.5. Dromenon e Legomenon. – 4. Conclusioni.<br />

Attraverso il tema trattato in questo articolo, l’approccio ritualista<br />

al fenomeno religioso, si vorrebbe proporre una sorta di revisione<br />

riguardo alla consueta percezione dell’antropologia evoluzionista<br />

britannica come dominata dall’epistemologia di E.B. Tylor. Si pensa<br />

che tale revisione trovi fondamento in una discussione relativa al<br />

mito-ritualismo (laddove per “teorie mito-ritualiste” si intende designare<br />

quelle teorie che auspicano un accostamento alla religione che<br />

tratti il mito ed il rituale come elementi interdipendenti). Eleggendo<br />

il mito-ritualismo come un nucleo tematico estrapolato dall’intero<br />

contesto dell’antropologia vittoriana non soltanto è possibile cogliere<br />

salienti sfumature teoriche in seno alla stessa, ma anche apprezzare<br />

una quasi sconosciuta maturità funzionalista raggiunta nel primo<br />

Novecento. In realtà, nel presente articolo un raffronto con i più<br />

importanti studiosi che in età vittoriana si occuparono della mitopoiesi<br />

è ridotto ai minimi termini. La ragione è che si è ritenuto opportuno<br />

costruire un discorso unitario focalizzando l’attenzione su un<br />

preciso periodo (1889-1912) e su Cambridge, dove i tre studiosi<br />

presi in esame (W. Robertson Smith, J.G. Frazer e J.E. Harrison)<br />

operarono. In relazione ad un motivo nevralgico quale quello del<br />

“dio morente” (su cui si impernia la teoria ritualista sulla religione)<br />

sono state trattate nei primi due capitoli due prospettive dissonanti:


86<br />

DANILA CINELLU<br />

la sociologica del semitista Robertson Smith e la cosiddetta Vegetation<br />

Theory del classicista-antropologo Frazer. Nel lavoro della classicista<br />

Harrison (oggetto di analisi della terza parte) il tema del “dio<br />

morente” greco (Dioniso) viene affrontato, per competenze proprie<br />

di un’antichista ed un particolare interesse per fermenti intellettuali<br />

contemporanei, secondo una prospettiva sociologica di matrice smithiana<br />

applicata ai riti di ricorrenza stagionale. Sulla base di una sintesi<br />

fra la teoria sociale della religione e quella frazeriana ed una loro<br />

rielaborazione, il contributo della Harrison risiede nell’aver postulato<br />

che in antichità il culto della natura ed il culto della società fossero<br />

legati da un rapporto speculare.<br />

1. W. Robertson Smith. – Con The Religion of the Semites (1889)<br />

Robertson Smith, nel quadro del sapere vittoriano, lanciava un approccio<br />

diametralmente opposto a quello di carattere “intellettualistico”<br />

in relazione agli studi sull’origine della religione. Com’è noto,<br />

il termine “intellettualismo” indica in sé il sunto delle accuse di cui<br />

fu vittima Tylor, la cui ipotesi centrale era volta a dimostrare che<br />

l’evoluzione culturale fosse da attribuire all’introspezione individuale.<br />

Dall’angolatura proposta da Robertson Smith, la taccia di “intellettualismo”<br />

può essere estesa anche al tipo di analisi condotta dal<br />

maggior esponente di mitologia comparata Friederich Max Müller.<br />

D’altronde, la differenza fra uomo mitopoietico come poeta (così lo<br />

vedeva Müller) e uomo mitopoietico come filosofo (così lo vedeva<br />

Tylor) è irrilevante; entrambi, in un modo o nell’altro, andavano<br />

alla ricerca di concetti astratti per esprimere il proprio senso di infinito.<br />

Scopo di Robertson Smith è invece dimostrare che nella realtà<br />

religiosa il credo occupa una posizione di secondo piano nella misura<br />

in cui il soggetto del pensiero religioso non è l’individuo, bensì la<br />

comunità. Secondo la prospettiva che egli proponeva l’antica realtà<br />

religiosa ruotava attorno alla pratica, al rituale, e non dunque, attorno<br />

alla credenza, al mito. Col ritualismo smithiano si apriva un fondamentale<br />

capitolo negli studi di religione comparata. In effetti, le<br />

stesse fondamentali opere dei componenti della cosiddetta “Scuola<br />

antropologica di Cambridge” (prima fra tutte The Golden Bough di<br />

Frazer) difficilmente sarebbero venute alla luce senza il contributo<br />

teorico di The Religion of the Semites.<br />

1.1. La religione in funzione del gruppo. – Nell’esaminare le teorie<br />

di Robertson Smith si deve, innanzitutto, tener conto del fatto che<br />

egli “prima ancora che un antropologo sociale, era uno studioso del-


I pionieri del ritualismo<br />

l’Antico Testamento” (Dei, 1998: 39) e che, come allievo del giurista<br />

scozzese J. F. McLennan, sosteneva il cosiddetto higher criticism<br />

di cui il pioniere fu, nel XVII secolo, Spinoza. Come sostenitore della<br />

critica storica al testo sacro, Smith attribuiva una grande importanza<br />

alla dimensione sociale, intendendo probabilmente mettere in<br />

risalto la distorsione interpretativa di cui risentivano le teorie su miti<br />

e leggende dei “selvaggi” formulate da studiosi che nacquero e vissero<br />

in paesi protestanti come l’Inghilterra e la Germania (cfr. Ackerman,<br />

1991: 43). Alla ordinaria chiave di lettura ‘psicologica’, in breve,<br />

egli contrappone quella secondo cui l’antica religione era “primarily<br />

a matter of things done, not things believed” (Ibidem: 41).<br />

Ai fini della comprensione del metodo di indagine che caratterizza<br />

The Religion of the Semites è necessario perdere di vista il “filosofo<br />

selvaggio” tyloriano che nella sua solitudine mentale popola il mondo<br />

di dei. L’uomo religioso smithiano è piuttosto un uomo ‘determinato’<br />

dal contesto in cui nasce, cioè dalla famiglia e dalla società.<br />

Uno dei concetti chiave dell’epistemologia smithiana è la sacralità<br />

del gruppo di appartenenza. In altri termini, l’oggetto di culto era la<br />

comunità e gli dei rappresentavano la proiezione dell’ordine sociale.<br />

Tale sacralità diviene tangibile alla luce dell’approccio evoluzionista.<br />

Da buon evoluzionista Robertson Smith sceglie come primo parametro<br />

di valutazione l’istituzione meno articolata quale quella tribale.<br />

Attraverso l’accostamento ad una realtà così ‘semplice’ si capisce<br />

che il concetto di “unità politica” si identifica con quello di “unità<br />

religiosa” nella misura in cui a far da perno sia al senso di dovere che<br />

alla devozione sono, fondamentalmente, i legami di sangue. Insistendo<br />

sulla natura sociale del fenomeno religioso, si riesuma, con<br />

Robertson Smith, il termine pietas nella sua accezione virgiliana. In<br />

un tale contesto, cioè, il singolo è considerato pio nel momento in<br />

cui le sue azioni valorizzano il suo stesso essere membro di un tutto,<br />

poiché “Religion did not exist for the saving of souls but for the preservation<br />

and welfare of society”(TRS: 29).<br />

L’assunto per cui la divinità è la proiezione dell’ordine sociale<br />

viene poi corroborato mettendo in evidenza che il rapporto di forza<br />

fra la stessa divinità e coloro che la venerano è espresso attraverso la<br />

terminologia denotante la relazione sociale più significativa, quella<br />

padre-figlio. L’aspetto morale dell’antica religione si concentra proprio<br />

sulla reciprocità degli obblighi che dipendono dall’unione biologica,<br />

“the parent protecting and nourishing the child, while the<br />

child owes obedience and service to his parent” (TRS: 41). Che poi<br />

il concetto di pietas consista nel “dover fare” e non nel “dover credere”<br />

viene sottolineato a fortiori laddove l’oggetto del discorso, in ter-<br />

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88<br />

DANILA CINELLU<br />

mini sociali, non è più la primitiva realtà tribale ma quella monarchica.<br />

Del supporto filologico Robertson Smith si giova in quest’occasione<br />

a favore del suo ‘materialismo’ religioso sottolinenando che<br />

“both in the political and in the religious sphere, the designation<br />

‘abd, ‘ebed, ‘servant’, is strictly correlated with the verb abad, ‘to do<br />

service, homage, or religious worship’” (TRS: 69). È grazie alle sue<br />

competenze linguistiche per quel che concerne il mondo semitico<br />

che Smith arriva a segnalare che il servizio reso al dio consisteva in<br />

un’azione materiale, il sacrificio (cfr.TRS: 69, nota 1).<br />

Considerando dunque la pregnanza etico-religiosa del ruolo rivestito<br />

dalle relazioni di parentela e di “sangue” negli antichissimi sistemi<br />

politici, si è potuto riscontrare quanto per Robertson Smith “alla base<br />

dell’atteggiamento religioso non vi è […] la pura speculazione sui fatti<br />

della natura,ma un’esperienza di partecipazione sociale di grande intensità<br />

emotiva” (Dei, 1998: 133). Secondo la prospettiva sociale, perciò,<br />

il credo è relegato ad una posizione di secondo piano poiché esso<br />

esercita “no binding force on the worshippers” (TRS: 17).<br />

1.2. Il pasto sacramentale secondo la prospettiva totemica. – Un<br />

punto suscettibile di critica risiede nel fatto che parte dell’argomentazione<br />

smithiana poggia sulla teoria animistica. L’originalità di<br />

Smith consiste nel non aver alterato il significato di “animismo” in<br />

senso stretto; ma a quella che è una “broad philosophy of nature,<br />

early and crude indeed, but thoughtful, consistent and quite really<br />

and seriously meant” (Tylor, 1871: I, 285, cit. in Ackerman, 1991:<br />

39), egli contrappone un pensiero analogico che non si fonda su<br />

un’argomentazione logica; bensì da esso traspare l’assenza della demarcazione<br />

fra la facoltà razionale e quella immaginativa (cfr. TRS:<br />

86). È importante rimarcare che attraverso tale sfrondamento dell’accezione<br />

intellettualistica di “animismo”, Roberston Smith tentava<br />

di rispondere a fondamentali quesiti che egli stesso si poneva riguardo<br />

alla fondazione dell’istituzione del banchetto sacramentale.<br />

Partendo dal presupposto che i precetti fondamentali che facevano<br />

da perno a tale momento aggregativo erano la fratellanza e l’alleanza,<br />

Robertson Smith postula che il sacrificio (che necessariamente aveva<br />

luogo prima del pasto sacramentale) possa essere assunto come veicolo<br />

di inferenza di un supposto pensiero totemico. Se, dunque, la<br />

teoria pionieristica dell’antropologo scozzese trova la sua ragion<br />

d’essere nella dimostrazione che il sacrificio totemico sta alla base<br />

della mitologia, si può comprendere la sua vitale necessità di ricostruire<br />

i presupposti che hanno determinato l’esistenza di un’epoca<br />

caratterizzata dallo stesso pensiero totemico. E tali presupposti an-


I pionieri del ritualismo<br />

drebbero ricercati proprio in quello stadio di pensiero in cui il raziocinio<br />

non era ancora subentrato al pensiero analogico (di cui l’esperienza<br />

del sogno era, come si sa, la causa) che portava l’individuo ad<br />

ascrivere alle presenze fisiche da cui era circondato dei poteri soprannaturali.<br />

Indagare in una tale supposta era significa per il semitista<br />

corroborare quel principale assunto teorico secondo cui il fenomeno<br />

religioso verte intorno al gruppo di appartenza; in altre parole,<br />

l’oggetto di venerazione altro non sono che i legami affettivi e sociali.<br />

Discorde rispetto alla formula lucreziana, “Primus in orbe deos fecit<br />

timor”, ripresa dall’orientalista E. Renan, Smith ritiene che il<br />

principio della religione sia la benevolenza verso una presenza con<br />

cui si ha familiarità. La religione nasce cioè come amorevole riverenza,<br />

non per timore reverenziale:<br />

It is not with a vague fear of unknown powers, but with a loving reverence<br />

for known gods who are knit to their worhippers by strong bonds of kinship,<br />

that religion in the only true sense of the word begins. (TRS: 54-55).<br />

Come già sottolineato, secondo il concetto di religione presentato<br />

in The Religion of the Semites, a regolare il grado di pietas di un individuo<br />

è il determinismo sociale. Eppure, attraverso un ulteriore<br />

viaggio a ritroso verso quella che presumibilmente era la prima concezione<br />

di “luogo sacro”, Robertson Smith segnala che le divinità<br />

nascono a causa del determinismo geografico. Trascorrendo un periodo<br />

accanto ai beduini, e calandosi nei panni dei loro progenitori,<br />

Robertson Smith stabilisce che in un’area caratterizzata da estrema<br />

aridità un’oasi, per esempio, poteva essere considerata una teofania.<br />

Grazie dunque alla sua esperienza personale l’antropologo sostiene<br />

che “the activity power and dominion of the gods were conceived as<br />

bounded by certain local limits” (TRS: 92). Il tratto distintivo delle<br />

divinità non è dunque concepito come ubiquità; il loro potere anzi è<br />

confinato a luoghi accoglienti e di conseguenza abitabili. Si noterà<br />

che per quel riguarda l’analisi della relazione uomo-animale, il concetto<br />

di “luogo sacro” gioca un ruolo di fondamentale importanza<br />

proprio perché permette l’adozione della nozione di “totemismo”<br />

(introdotta in antropologia da McLennan nel 1869) nel contesto teorico<br />

di cui i nomadi semiti sono protagonisti. In realtà, non è a caso<br />

che tale adozione ha luogo. L’interpretazione smithiana trova infatti<br />

riscontro nella dicotomia presente nel mondo religioso arabo fra jinn<br />

e dei. Se il senso di terrore è, secondo Robertson Smith, causato nell’uomo<br />

primitivo da creature sovraumane (che compiono cioè azioni<br />

che non rientrano nelle capacità fisiche umane), quando frequentare<br />

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DANILA CINELLU<br />

determinati luoghi diviene una consuetudine, le stesse creature che vi<br />

abitano, senza perdere i loro tratti soprannaturali, passano dalla condizione<br />

di demoni, cioè di entità che hanno “no friendly or stated relations<br />

with men” (TRS: 120) a quella di divinità.<br />

Nel momento in cui si esamina l’evento su cui si fonda la teoria<br />

ritualista -il pasto sacrificale- non deve sfuggire all’attenzione il fatto<br />

che la concezione teriomorfica della divinità implichi una rilevante<br />

estensione del concetto di kinship. Nel prendere in esame il pasto totemico<br />

come evento religioso per eccellenza, viene ulteriormente<br />

messa in risalto “the general rule that the circle of religion and of<br />

kinship were originally identical” (TRS: 275). In questo senso, il sacrificio<br />

non è, come per Tylor, un “sacrificio dono” perpetrato per<br />

ingraziarsi una temuta divinità; esso “è piuttosto una sorta di originario<br />

atto morale, una fondazione della socialità” (Dei, 1998: 42). Il<br />

banchetto comunitario era comunque di regola periodico. La vittima<br />

designata, l’animale-totem, poiché sacro, era ordinariamente<br />

protetto da tabu; di conseguenza, soltanto in occasioni solenni la tribù<br />

poteva ucciderlo e cibarsene. Se da una parte la commensalità periodica<br />

evidenzia l’aspetto etico dell’uccisione di un proprio consanguineo,<br />

il sacrificio è in sé un atto empio, una sorta d’infrazione. È<br />

necessario perciò che l’atto sacrificale avvenga sotto la sanzione collettiva<br />

“so that whatever responsibility it involves may be equally distributed<br />

over the whole clan.” (TRS: 285).<br />

La fondatezza della teoria ‘totemico-ritualista’ viene illustrata attraverso<br />

il rimando ai noti bouphonia che ricorrevano annualmente<br />

nell’Attica. La peculiarità di questo rituale estrapolato da un contesto<br />

di ‘alto’ paganesimo consiste nell’aspetto conservativo della messa<br />

in scena. Che l’“uccisione del bue” (questo è, grossomodo, il significato<br />

di bouphonia) fosse considerato un atto empio, è testimoniato,<br />

secondo Robertson Smith, da una sorta di ‘scaricabarile’ a catena<br />

della colpa da parte dei partecipanti all’atto. Il ritualismo smithiano<br />

vuole che nella leggenda che si presta come spiegazione dei<br />

bouphonia sia insita la dimostrazione che del rituale fosse ormai andata<br />

perduta la valenza etica. L’analisi della realtà religiosa da un<br />

punto di vista sociale condotta da Robertson Smith tende insomma<br />

a definire il mito come una spiegazione a posteriori del rito; mentre<br />

soltanto da quest’ultimo si possono inferire gli antichi principi religiosi<br />

che regolavano l’azione sacrificale:<br />

Of course the legend as such has no value; it is derived from the ritual, and<br />

not vice versa; but the ritual itself shows clearly that the slaughter was<br />

viewed as a murder, and that it was felt to be necessary, not only to go


I pionieri del ritualismo<br />

through the form of throwing the guilt on the knife, but to distribute the<br />

responsibility as widely as possible [...] Here, therefore, we have a wellmarked<br />

case of the principle that sacrifice is not to be excused except by<br />

the participation of the whole community. (TRS: 305).<br />

2. James G. Frazer. – Per quanto James G. Frazer fosse uno studioso<br />

di classicità di vasta erudizione, egli non nutriva nei confronti<br />

dell’antichità un interesse puramente filologico e, non indifferente<br />

rispetto ai fermenti intellettuali della sua stessa epoca, accolse con<br />

entusiasmo i frutti della nascente disciplina antropologica. La concreta<br />

iniziazione ad essa si compì nel 1885, quando Robertson Smith gli offrì<br />

l’occasione di scrivere per l’Enciclopaedia Britannica due saggi di<br />

carattere antropologico: Taboo e Totemism.<br />

È comunque attraverso l’accostamento all’opera a cui la notorietà<br />

di Frazer è più legata, The Golden Bough, che il contributo da lui<br />

dato agli studi di religione comparata potrà essere discusso. La portata<br />

enciclopedica dell’opera rende difficoltoso tirare le fila del discorso<br />

per quanto riguarda la posizione di Frazer sul fenomeno mitologico.<br />

Ma che la prospettiva ritualista sia dominante si può illustrare<br />

ricordando che la sua stesura ebbe un preciso starting point.<br />

Dal 1885, infatti, Frazer continuò a scrivere degli articoli di carattere<br />

folklorico su occorrenze relative all’area greco-romana, quando riscontrò<br />

in una di esse, l’esecuzione del sacerdote di Nemi allo scadere<br />

di un determinato periodo, la plausibilità delle idee smithiane riguardo<br />

all’uccisione del dio.<br />

2.1. Le divergenze dalla teoria smithiana. – Non perdendo di vista<br />

il tema dell’articolo di partenza, The Golden Bough può essere compreso<br />

nella sua totalità. Come lo stesso Frazer sottolinea nell’introduzione<br />

all’editio maior, la peculiarità della sua analisi consiste nell’aver<br />

utilizzato il tema del “dio morente” come motivo collante dell’intera<br />

opera (cfr. Frazer, 1955, PARTE I, I: vii-viii). Per quel che riguarda<br />

il tema del “dio morente” le speculazioni frazeriane sull’origine<br />

della religione potrebbero essere considerate di derivazione smithiana.<br />

Ma la ricostruzione dell’essenza del ritualismo di Frazer non<br />

deve essere imperniata sulla scelta tematica, bensì sulla posizione teorica.<br />

Le divergenze teoriche fra Robertson Smith e Frazer possono<br />

d’altronde essere comprese tenendo a mente che i due studiosi, pur<br />

concordi sull’“uniformismo”, non condividevano l’area di specializzazione<br />

geografica e culturale. Se Robertson Smith postulava un<br />

‘ecumenismo’ totemico-ritualista a partire dalle ricerche da egli stes-<br />

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92<br />

DANILA CINELLU<br />

so condotte in un’area desertica, Frazer, in qualità di specialista della<br />

realtà greco-romana, interpretava la ricorrenza del sacrificio del rappresentante<br />

antropomorfico o teriomorfico della divinità come un<br />

elemento integrante di un supposto ancestrale culto della vegetazione<br />

indo-europeo. Si può sintetizzare la divergenza di opinioni fra i<br />

due padri del ritualismo nel soffermarsi sui bouphonia attici. Frazer,<br />

rigettando l’assunzione teorica smithiana per cui i bouphonia sono il<br />

corrispettivo greco di un rituale di cui il tratto distintivo è l’uccisione<br />

del “divine totem-brethren god” (Ackerman, 1991: 43) vi identificava<br />

l’espressione pratica di un Life-Cult di tipo proto-dionisiaco.<br />

Esaminando gli intenti dell’analisi di Frazer è necessario porre<br />

l’accento sul fatto che non soltanto egli si occupò di questo peculiare<br />

rito poiché rimandava al mito di un dio morente come il locale Dioniso,<br />

ma in special modo poiché esso poteva essere letto attraverso<br />

una comparazione con le performances stagionali delle popolazioni<br />

rurali europee studiate dal folklorista tedesco W. Mannhardt. Dagli<br />

studi di quest’ultimo dipende lo sfrondamento del mito da parte di<br />

Frazer. Grazie a Mannhardt, infatti, che aveva messo insieme e classificato<br />

un considerevole numero di riti e costumi dei “selvaggi contemporanei”<br />

d’Europa, Frazer si convinse che quello del fieldwork<br />

fosse il metodo più scientifico per fornire “the fullest and most trustworthy<br />

evidence we possess as to the primitive religion of the Aryans”<br />

(Frazer PARTE I, I: xii). L’aspetto interessante del contributo<br />

apportato da Mannhardt è che non soltanto egli constatò che le cerimonie<br />

stagionali fossero di carattere magico, atte ad assicurare fertilità,<br />

ma anche che da lui Frazer prese a prestito il concetto di “spirito<br />

della vegetazione”. D’altro canto, l’ossatura ritualista di The Golden<br />

Bough meglio si capisce alla luce del tributo nei confronti dello<br />

studioso di religione vedica H. Oldenberg. Dopo la lettura di Die<br />

Religion des Veda, nella prefazione del 1900, Frazer aggiunge il tassello<br />

fondamentale per la propria argomentazione. La congenialità<br />

della nuova lettura consiste nell’aver fornito il pretesto per ‘incastonare’<br />

l’“intellettualismo” tyloriano nel contesto in cui i “primitivi<br />

contemporanei” dell’area ariana sono i protagonisti . Sulla scia di<br />

Oldenberg e Tylor, infatti, “I believe that in evolution of thought,<br />

magic, as representing a lower intellectual stratum, has probably<br />

everywhere preceded religion” (Frazer, 1955, PARTE I, I: xx).<br />

Si rileva sommariamente che, per via dell’interazione fra i dati<br />

concernenti il folklore rurale europeo e la teoria introspettiva, Frazer<br />

assume la magia come religione primitiva. Il fatto che i riti magici<br />

non abbiano un corrispettivo mitologico dimostrerebbe che il rituale<br />

abbia cronologicamente preceduto il mito.


I pionieri del ritualismo<br />

2.2 I cardini dell’ellenismo antropologico. – È noto che Frazer destabilizzò<br />

l’idilliaca immagine dell’antichità classica sottoponendola<br />

al vaglio del metodo comparativo e, dunque, accostando per supposta<br />

“legge della similarità” (la quale consiste nel leggere azioni affini<br />

come il risultato di affini motivazioni) la sfera cultuale greco-latina<br />

alle macabre usanze dei “selvaggi contemporanei”. È necessario, allo<br />

stesso tempo, ribadire che la “primitivizzazione” del mondo classico<br />

si concretizza per comparazione di dati all’interno dell’area geografica<br />

europea. L’intento di Frazer è divellere ‘dal basso’ l’austerità delle<br />

rappresentazioni ieratiche del periodo classico dimostrando che esse<br />

sono spiegabili per il tramite delle rappresentazioni demotiche assunte<br />

come “sopravvivenze” della religione primitiva.<br />

Per arrivare ad una chiara ipotesi ‘ellenico-antropologica’, Frazer<br />

ha inoltre tentato di ricostruire una tappa fondamentale nell’evoluzione<br />

del pensiero religioso, considerandola un elemento non isolabile<br />

rispetto alle motivazioni che hanno determinato un processo<br />

evolutivo dal punto di vista sociale. Attraverso una interessante<br />

“dottrina della incarnazione”, egli arriva a conciliare due contrastanti<br />

scuole di pensiero in materia mitologica: quella evemerista (sostenuta<br />

dall’antichista William Ridgeway, che operava presso il<br />

Newnham College di Cambridge) e quella secondo cui le divinità<br />

sono rappresentazioni in forma antropomorfica delle manifestazioni<br />

della natura (cfr. Frazer, 1955, PARTE VI: 385). Con tale dottrina, a<br />

governare la scena è appunto il motivo del “dio morente”. Arriviamo<br />

al punto con il sunto proposto da Mary Douglas:<br />

La teoria di Frazer sosteneva che tutte le religioni tendono a deificare i re e<br />

a far morire i propri dei come vittime sacrificali; tutto indica che il mondo<br />

sarà rinnovato dall’atto rituale di uccisione del re. (Douglas, 1990: xvii).<br />

Il presupposto fondamentale di tale atto rituale è che, data la credenza<br />

in un rapporto simpatetico fra lo spirito della natura ed il monarca,<br />

fosse ritenuto necessario recidere la vita di quest’ultimo prima<br />

che il suo stesso spirito fosse soggetto all’invecchiamento e, quindi,<br />

al declino. Attorno all’atto sacrificale di cui il dio-monarca è vittima<br />

si impernia quella “teoria vegetale” che vede nella mitologia un’elaborazione<br />

secondaria rispetto al rito. Il mito, in altri termini, sovrapposto<br />

a quella primigenia modalità di pensiero per cui l’induzione<br />

di fertilità dipendeva da operazioni di magia mimetica e simpatica,<br />

per il critico dotato di conoscenze antropologiche perde le connotazioni<br />

di un’espressione artistica, acquistando quelle di un veicolo<br />

di inferenza delle pratiche di un passato immemorabile:<br />

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DANILA CINELLU<br />

Cerimonies often die out while myths survive, and thus we are left to infer<br />

the dead cerimony from the living myth. (Frazer, 1955, PARTE VI: 374).<br />

3. Jane E. Harrison. – Relativamente a quelle parti di The Golden<br />

Bough dedicate al mito ed al dramma greco, si sa che presso i classicisti<br />

“L’approccio di Frazer creò diffidenza e irritazione” (Dei, 1998: 321).<br />

I più illustri studiosi che a Cambridge si affrettarono a difendere<br />

il baluardo dell’approccio testuale e archeologico all’antichità classica<br />

furono rispettivamente A.W. Verrall e W. Ridgeway. D’altro canto,<br />

nel contesto di una controversia intramurale che caratterizzò<br />

l’ambiente accademico cantabrigense per circa un ventennio, gli interessi<br />

e la preparazione della classicista Jane E. Harrison funsero da<br />

‘conciliatori degli opposti’. Nelle sue opere più importanti, infatti,<br />

archeologia, letteratura e antropologia non figureranno come compartimenti-stagni.<br />

In realtà, al nome della Harrison è legato un importante<br />

primato; quello di aver lanciato con Mythology and Monuments<br />

of Ancient Athens (1890) la teoria relativa all’anteriorità del<br />

rito rispetto al mito sulla base di competenze fino ad allora soltanto<br />

filologiche e archeologiche. È interessante dunque sapere che Mythology<br />

and Monuments non soltanto fu pubblicato nello stesso anno<br />

della prima edizione di The Golden Bough, ma soprattutto che neanche<br />

Robertson Smith ebbe un ruolo formativo nel pensiero della<br />

Harrison dal momento in cui essa si trovava in Grecia per gran parte<br />

del tempo in cui ebbero luogo le conferenze pubblicate come The<br />

Religion of the Semites (cfr. Ackerman, 1991: 84-85). Pur debitrice a<br />

Ridgeway e Verrall per parte della sua formazione archeologica e critico-letteraria,<br />

con la seconda importante pubblicazione, Prolegomena<br />

to the Study of Greek Religion (1903), la Harrison rielaborò la teoria<br />

esposta in Mythology and Monuments sulla scorta della lettura della<br />

religione pre-omerica suggerita dalla rivisitazione frazeriana degli<br />

studi di Mannhardt.<br />

3.1. Fra vitalismo e conscience collective. – La notorietà di Jane<br />

Harrison è maggiormente legata a Themis (1912), un libro che sarebbe<br />

dovuto essere la seconda edizione di Prolegomena che “malgrado<br />

il ricorso alle categorie antropologiche, era diventato immediatamente<br />

un libro di testo all’Università di Cambridge” (Scalera Mc-<br />

Clintock, 1996: ix). Un accostamento a Themis richiede comunque<br />

un piccolo preambolo che prenda in considerazione degli eventi determinanti<br />

che ebbero luogo fra una pubblicazione e l’altra. In breve,<br />

al 1905 risale l’inizio del sodalizio intellettuale fra la Harrison,


I pionieri del ritualismo<br />

G. Murray e F. Cornford; nelle ultime pagine di The Religion of Ancient<br />

Greece, comparso in quell’anno, la Harrison aveva stilato un<br />

programma che prevedeva che Cornford si sarebbe occupato del rapporto<br />

fra religione e filosofia antica e Murray della nascita della letteratura<br />

greca sulla base dei dati di carattere religioso.<br />

Ebbene, fu Murray, con The Rise of the Greek Epic (1907), a suggerirle<br />

“quanto tardo e razionalizzante fosse il compromesso rappresentato<br />

dagli Olimpi” (Th.: 7). In verità, a concorrere all’entusiasmo<br />

per tale punto di vista fu per la Harrison la lettura di L’évolution<br />

créatrice (1906) del filosofo francese H. Bergson. Nonostante Bergson,<br />

nell’ambito della discussione relativa alle due componenti della<br />

coscienza (l’intelligenza e l’intuizione) non faccia riferimento al ruolo<br />

rivestito dalla religione, la Harrison gli è debitrice poiché l’introduzione<br />

del concetto di durée permetteva “la ‘visualizzazione’ dell’abisso<br />

che separa le divinità misteriche dagli dei olimpici” (Scalera<br />

McClintock, 1996: xii). Il valore del concetto di durée nell’esame<br />

della religione greca si spiega nel mettere in rilievo esplicitamente il<br />

tratto distintivo delle divinità misteriche ed implicitamente quello<br />

delle divinità olimpiche: se le prime sono la personificazione della<br />

“vita che è una, indivisibile e tuttavia senza sosta mutatesi” (Th.: 8),<br />

le seconde rappresentano una sterile immutabilità. È di estrema rilevanza<br />

leggere nell’accostamento alla speculazione filosofica di Bergson<br />

un distanziamento rispetto all’epistemologia dell’antropologia<br />

vittoriana, quella di E.B. Tylor, ed una particolare vicinanza alle posizioni<br />

teoriche di Robertson Smith. Un allineamento all’‘anti-soggettivismo’<br />

smithiano si riscontra nell’esame che la Harrison propone<br />

sul pensiero totemico. Si tratta di una rivisitazione che pare valorizzare<br />

una sorta di ‘slancio vitale’ socializzato:<br />

Il totemismo ci appare impensabile perché non è razionale […] Stupidamente<br />

pensiamo che opinioni e giudizi umani si fondino sull’osservazione<br />

o sulla ragione. È esattamente il contrario; credenze di ogni specie, almeno<br />

nei primi stadi dell’evoluzione, vengono prima dell’esperienza e dell’osservazione<br />

e sono dovute alla suggestione. (Th.: 166).<br />

Si constata dunque che per la Harrison una definizione completa<br />

del termine “religione” può essere: emozione sentita collettivamente.<br />

La pubblicazione di Themis fu accolta tiepidamente da parte dei<br />

maggiori esponenti dell’Année Sociologique a causa della tentata conciliazione<br />

fra sociologia durkheimiana e filosofia bergsoniana (cfr.<br />

Scalera McClintock, 1996: ix). Non soltanto, d’altro canto, bisogna<br />

sottolineare quanto negli scritti del sociologo francese la Harrison<br />

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DANILA CINELLU<br />

avesse trovato un rafforzamento della teoria smithiana dal momento<br />

in cui “secondo Durkheim, l’idea di ‘dio’ è piuttosto una forma di<br />

adorazione della società” e “l’elemento sacro rappresentava il culto<br />

della vita collettiva” (Harris, 1990: 247); ma che inoltre le sue speculazioni<br />

furono motivate da una importante scoperta archeologica:<br />

“il ritrovamento a Palaikastro dell’Inno dei Cureti” (Th.: 10).<br />

Quale valore assume la sintesi fra il pensiero di Bergson e quello di<br />

Durkheim nell’ambito di uno studio relativo alle origini della religione<br />

greca può essere così spiegato: se da una parte, il concetto di<br />

durée si presta da solo a descrivere come caratteristica fondamentale<br />

del dio misterico per eccellenza, Dioniso, le molteplici manifestazioni<br />

del suo essere, è lo stesso dato assodato sulla stessa religione bacchica<br />

dall’altra – il suo consistere nella dottrina dell’unione e comunione<br />

col dio- che induce la Harrison ad avvalersi della teoria sociologica<br />

della religione sottolineando infatti che “la religione bacchica<br />

si basa sull’emozione collettiva del thiasos. Il suo dio è la proiezione<br />

dell’unità del gruppo” (Th.: 83). Stabilita l’analogia fra il ‘canonico’<br />

Dioniso ed il Kouros dell’inno di recente scoperto come personificazione<br />

del gruppo, vi è un’altra peculiare somiglianza su cui la Harrison<br />

fonda una inedita teoria. L’autrice richiama prima l’attenzione<br />

sull’appellativo con cui il Kouros viene invocato – Megistos Kouros<br />

(cfr. Th.: 42)- e poi, sempre nell’ambito della comparazione, essa ricorre<br />

alla parola chiave “funzionario” mentre descrive il rapporto di<br />

forza fra Dioniso ed il suo seguito (cfr. Th.: 43). È così possibile<br />

scorgere un ribaltamento di prospettiva in seno allo stesso approccio<br />

di carattere sociologico. Se con l’accostamento a Durkheim lo scopo<br />

della Harrison consiste nel rendere merito alle intuizioni di Robertson<br />

Smith, con l’applicazione della nozione di conscience collective<br />

alla religione greca originaria si mette in luce quanto lo stesso antropologo<br />

scozzese sia rimasto intrappolato ne “l’antico errore intellettualistico<br />

in tutto il suo splendore” (Th.: 593). In effetti, “al tempo<br />

in cui Robertson Smith scriveva,” dice la Harrison, “il dio era concepito<br />

come un essere che esisteva indipendentemente dalla comunità”<br />

(Th.: 61); quello di Robertson Smith non sarebbe il “dio primitivo”<br />

poiché con la vita vissuta non ha alcun legame. Dal canto suo, la<br />

Harrison ritiene che proprio nella religione dionisiaca possa essere<br />

letta la genesi umana della divinità. Eleggendo il dio misterico greco<br />

come il prototipo di tutte le divinità ‘compiute’, la studiosa vuole<br />

mettere in rilievo che egli è “un capo umano, un éxarkos” (Th.: 83).<br />

3.2. Il primo studio su Dioniso adolescente. – Si è constatato che,<br />

attraverso la sintesi fra il pensiero di Bergson e quello di Durkheim,


I pionieri del ritualismo<br />

la Harrison tratta la componente emozionale come governante il<br />

culto misterico ed il culto della collettività in genere. È logico, d’altro<br />

canto, che per una antichista l’approccio in chiave sociologica si<br />

intersechi con dei problemi di carattere filologico. Non appena l’Inno<br />

dei Cureti fu riportato alla luce, l’occorrenza della parola Kouros<br />

con l’iniziale maiuscola indicava un concetto di sacralità che rischiava<br />

di ribaltare le acquisizioni ormai date per scontate. “Se non c’è<br />

niente di sacro in un Kouros,” si prefigge la Harrison, “dobbiamo<br />

scoprire che cosa ne determinò la sacralità” (Th.: 51). Nel solco del<br />

metodo comparativo e a favore della sua analisi in chiave sociologica,<br />

la studiosa si sofferma sulla descrizione dei malvagi riti di cui vittima<br />

era un bambino riportata da Clemente Alessandrino. Tali riti<br />

sono invece per la Harrison “così umani e sociali che ancora oggi<br />

una considerevole parte dell’umanità pensa bene di praticare riti<br />

analoghi” (Th.: 45).<br />

Affinché si possa partecipare appieno all’interpretazione della nostra<br />

autrice, si deve volgere lo sguardo verso l’influenza che essa subì<br />

da parte di I riti di passaggio (1909) dell’etnologo belga A. Van Gennep.<br />

Sulla base di una comparazione di cui l’oggetto sono i riti adolescenziali,<br />

scopo della Harrison è far risaltare che quella Grecia tanto<br />

evoluta tentò di ‘imbalsamare’ il mito in consonanza con la propria<br />

impalcatura socio-culturale, ma fallì nel ripulirlo da elementi<br />

dell’antica realtà tribale che, prima o poi, avrebbero portato alla luce<br />

un passato di cui la stessa civiltà ellenica non lasciò memoria. È eloquente,<br />

per esempio, il commento applicato ai vv. 523-529 delle<br />

Baccanti di Euripide, dove la Harrison si sofferma sulla portata della<br />

parola “Ditirambo” quando essa designa l’epiteto di Bacco:<br />

[…] il coro lancia il proprio supremo appello a Tebe di non respingere il<br />

culto del dio. E canta la storia della sua miracolosa doppia nascita da cui<br />

sarebbe derivato l’epiteto ditirambo: dio dalla Doppia Porta. (Th.: 66-67).<br />

Le due varianti mitologiche –la rinascita di Bacco dalla coscia del<br />

padre (ricordata da Euripide) ed il nascondimento di Zeus infante<br />

da parte dei Cureti (presente nell’Inno)- verranno dunque conciliate<br />

sulla base del ruolo fondamentale attribuito al rito di cui il motivo è<br />

il passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza. È però in riferimento<br />

alla seconda variante mitologica che l’applicazione del ‘canovaccio’<br />

di Van Gennep sembra essere più tangibile:<br />

1. La fase preliminare consiste nel separare Zeus da Rea.<br />

2. La fase liminare è rappresentata dal nascondimento nel bosco per<br />

settimane o mesi da parte dei Cureti.<br />

97


98<br />

DANILA CINELLU<br />

3. Nella fase postliminare “la sua anima”, quella del Kouros (adolescente<br />

in senso specializzato), “è congregazionalizzata” (Th.: 84).<br />

3.3. Il pasto sacramentale secondo la prospettiva animatista. – Attraverso<br />

l’approccio sociologico alla realtà greca, la Harrison, nel determinare<br />

che dietro il mito della seconda nascita si celi un “primitivo”<br />

rito di iniziazione tribale, rivede in maniera critica la stessa concezione<br />

di “mistero” sottolineandone il suo valore “intensamente sociale,<br />

normativo e assolutamente sacro” (Th.: 69). Si deve dunque<br />

tenere a mente che lo stesso prendere in esame antichi riti selettivi va<br />

di pari passo con uno studio sulle origini sociali della religione greca.<br />

Un presupposto fondamentale questo che la Harrison applica alla<br />

sua analisi della seconda iniziazione curetica. Il rito in questione è il<br />

banchetto di carne cruda (dais omophagos) che ricorreva a Creta<br />

quando un Kouros doveva essere consacrato come un Backos. Si può<br />

dedurre che la Harrison, accostandosi a questo peculiare rito voglia<br />

rinviare alla pregnante descrizione fornita da Robertson Smith sul<br />

sacrificio del cammello praticato dagli arabi. Sulla scorta di Robertson<br />

Smith, l’antichista richiama l’attenzione sull’essenza ‘etico-teologica’<br />

tangibile nei pasti sacrificali che, come scriveva il semitista,<br />

“have the rudest and most visibly primitive character” (TRS: 338).<br />

Tuttavia, calandosi anch’essa nei panni di quei “selvaggi” che istituirono<br />

il sacramento, la Harrison, a differenza di Robertson Smith,<br />

non attribuisce alla benevolenza dovuta al contatto quotidiano il<br />

ruolo fondativo della stessa cerimonia. Il suo scopo consiste nell’obliterare<br />

le connotazioni teologiche ancora insite nel ritualismo<br />

smithiano. Jane Harrison “elimina il dio e lascia sulla scena solo<br />

l’uomo e la sua vittima, chi mangia e chi viene mangiato. Ridotto a<br />

questa forma-base il sacrificio diviene l’atto di appropriazione della<br />

forza vitale dell’animale dilaniato” (Scalera McClintock, 1996: xv,<br />

nota 24). Il punto è che sebbene la Harrison sfrutti la teoria totemica<br />

per l’importanza che essa stessa attribuisce alla componente emozionale,<br />

entrando nello specifico della dais essa riscontra nell’animatismo<br />

(teoria esposta nel 1900) di Robert Marett un’epistemologia<br />

che risponda alla necessità di studiare il sostrato che ha generato<br />

quelle stesse credenze definite come “totemiche”. L’impronta di Marett<br />

è infatti ben visibile laddove la Harrison descrive gli effetti dati<br />

dall’omofagia; l’accento viene posto sul fatto che colui che, in comunione<br />

col suo gruppo, si cibava di carne cruda “sapeva che il suo<br />

mana si era accresciuto” (Th.: 183-184).<br />

Eppure, trattare dell’istituzione della dais significa tener conto di<br />

un periodo-margine in cui “la fede nell’esistenza di forze non animi-


I pionieri del ritualismo<br />

ste” (Harris, 1990: 246) sta sfociando nella fede totemica; cioè, di<br />

un periodo in cui la credenza in entità personali sta iniziando a<br />

prendere forma. L’attenzione viene dunque richiamata sulla vittima<br />

scelta per il banchetto rituale. Partendo dal presupposto che il mana<br />

sia una concentrazione di forze, si può capire che il toro (che era evidentemente<br />

l’animale più possente esistente a Creta o nell’Attica,<br />

dove avevano luogo i noti bouphonia) acquisiva sacralità poiché “è<br />

come se il mana si fosse incarnato in lui” (Th.: 201). Così come Robertson<br />

Smith aveva trapiantato la nozione di “totemismo” nell’area<br />

semitica, la Harrison trapianta in quella greca un concetto come<br />

mana poiché il campo semantico che esso ricopre riconduce a quel<br />

misticismo da cui gli olimpi, prodotti della ragione, si sono allontanati<br />

per sempre. Nel mondo greco tale concetto, uscendo dalla sfera<br />

prettamente umana, equivarrebbe all’imperativo del rapimento estatico<br />

dionisiaco: la ‘consustanzialità’. La dais è, in altre parole,<br />

un’operazione di tipo metetico poiché appropriarsi del mana del<br />

toro significa entrare in comunione con lo stesso; l’intento è far parte<br />

di un’unica essenza.<br />

3.4. Eniautos-Daimon. – Nei paragrafi precedenti il discorso si è<br />

sviluppato tenendo conto dell’argomento indicato nel sottotitolo di<br />

Themis: uno studio sulle origini sociali della religione greca. In modo<br />

da poter riscontrare in quale misura quest’opera abbia rappresentato<br />

un punto di svolta in seno allo stesso apparato ritualista britannico,<br />

è stato necessario esaminarla facendo riferimento alle influenze che<br />

la Harrison subì da parte di fermenti intellettuali che non riguardavano<br />

l’Inghilterra in senso stretto. Tuttavia, ciò che ha fatto di Themis<br />

un testo straordinariamente innovativo è stata la coniazione del<br />

termine composto Eniautos-Daimon. Una coniazione alla luce della<br />

quale si riscontra la sintesi fra la teoria sociologica e la “teoria vegetale”<br />

frazeriana. Soprattutto per quanto riguarda quest’ultima, è<br />

noto che Themis rappresenta un approfondimento del tema portante<br />

di Prolegomena: i culti ctonii.<br />

Nel prendere in esame il termine Eniautos-Daimon ci si accosta a<br />

quello che è stato il contributo speciale da parte della Harrison in relazione<br />

al motivo nevralgico che aveva mobilitato quei classicisti che<br />

passarono alla storia come i componenti della Cambridge School:<br />

“che il dramma ha avuto origine non da una creazione estetica<br />

‘pura’, ma da riti magici di fertilità e di rinnovamento, praticati nel<br />

quadro del culto di un ‘dio morente’” (Dei, 1998: 324). Deve essere<br />

ricordato che sebbene in Mythology and Monuments l’autrice avesse<br />

determinato la priorità del rito rispetto al mito, fu soltanto dopo la<br />

99


100<br />

DANILA CINELLU<br />

lettura di The Golden Bough che essa iniziò a dare il giusto peso ai<br />

riti della fertilità. “Frazer, seguendo Mannhardt,” ricorda la Harrison,<br />

“ci ha dato «lo spirito dell’albero», «lo spirito della vegetazione»,<br />

e l’uso di questi termini ha incalcolabilmente allargato il nostro<br />

orizzonte” (Th.: 13). Eppure, nel giustificare la coniazione di<br />

un’espressione inesistente presso gli stessi greci, Jane Harrison, considerando<br />

insufficientemente comprensivi i concetti utilizzati da<br />

Frazer, rende nota la necessità di “cercare un’espressione che non includesse<br />

solo la vegetazione, ma l’intero processo di decadenza, morte<br />

e resurrezione” (Th.: 13). Il focus su “processo” invita a prendere<br />

in esame il primo termine costituente la parola composta: eniautos.<br />

In realtà, non è in gioco una pura e semplice preferenza da parte della<br />

nostra antichista. Lo scacco ai termini adoperati da Mannhardt<br />

prima e da Frazer poi si cela nel ritornello del frammento dell’Inno<br />

dei Cureti. Analizzandolo, prima la Harrison segnala che “il Kouros<br />

è invitato a venire a Dikte «per l’Anno»”, e poi chiarifica, “Ma va attentamente<br />

valutato che l’«anno» per cui il Kouros è «invitato a venire»<br />

e «allevato» non è un etos ma un eniautos.” (Th.: 233). La sfera<br />

semantica ricoperta dal termine eniautos è quella che indica il momento<br />

di svolta dell’anno; in altre parole, non indica, come l’etos,<br />

l’anno, ma “sarebbe l’«eccoci qui di nuovo» incarnato” (Th.: 234,<br />

nota 69).<br />

È questo uno dei frangenti in cui maggiormente spicca la sintesi<br />

fra “teoria vegetale” e prospettiva funzionalista. In piena indagine<br />

sui riti della fertilità, la Harrison ne indaga il loro rapporto speculare<br />

con i riti di iniziazione tribale. Nella festa di Capodanno essa riscontra<br />

la compressione di due categorie rituali:<br />

L’eniautos era dunque il momento cardine di svolta dell’anno, era a un<br />

tempo ene kai nea (giorno vecchio e nuovo). Un tale giorno per il pensiero<br />

antico doveva essere marcato da rites de passage […] Erano riti di Chiusura<br />

e di Apertura, di Sonno e Risveglio, di Morte e Resurrezione. Si uccideva<br />

l’Anno Vecchio e si faceva entrare il Nuovo. A tali riti era naturale, anzi<br />

necessario, invitare il Kouros. (Th.: 235).<br />

È interessante inoltre che nel riflettersi di un Life-Cult con un rite<br />

de passage, la Harrison abbia letto la priorità della struttura sociale di<br />

tipo matriarcale. Il fatto è che l’Inno dei Cureti entra nuovamente in<br />

collisione con la tradizione dal momento in cui non vi è la minima<br />

menzione di Gaia. Qualcosa mai valutato viene indicato dall’ultimo<br />

verso del frammento, dove il Kouros viene sollecitato con queste parole:<br />

salta per i nostri giovani cittadini e per la splendida Themis. In


I pionieri del ritualismo<br />

effetti, l’occorrenza di “Themis” in un tale contesto è tutt’altro che<br />

tipica. Ma, seguendo Esiodo, la Harrison risolve la perplessità:<br />

“Themis è la madre delle Ore” (Th.: 623).<br />

Lo stesso titolo che la Harrison diede al suo capolavoro è atto a<br />

sottolineare che per l’uomo primitivo il diritto e lo stato di natura<br />

erano compressi nella stessa figura di Themis. Nell’analisi della Harrison<br />

viene rivalutata la concezione di “Madre Terra” come una nozione<br />

in cui è proiettata la sacralità del sistema sociale più arcaico:<br />

quello tribale, in cui a regolare il Doom collettivo era la figura della<br />

donna, in cui la donna “regola i modi di accesso al sociale” (Scalera<br />

McClintock, 1996: xix).<br />

In sintesi, la ricorrenza di eniautos nell’Inno rinvenuto sta ad indicare<br />

quanto l’immaginario dell’uomo fosse, all’alba della storia,<br />

colpito dal risveglio della natura in primavera. Ma quello che più è<br />

interessante è la chiave di lettura sociologica che lo stesso Inno offre<br />

in rapporto al ditirambo (o dromenon di primavera a cui si fa risalire<br />

l’origine della tragedia). Il ditirambo è una rappresentazione collettiva<br />

attraverso cui si cristallizzerà il sacro: le “figure divine della Madre<br />

e del Figlio” (Th.: 257).<br />

Prendendo ora in esame il secondo termine costituente la parola<br />

composta Eniautos-Daimon, ancor più sarà evidente quanto il discorso<br />

relativo al rito della fertilità graviti sulla nozione di conscience<br />

collective.<br />

Già in Prolegomena la studiosa chiamava “demone” la proiezione<br />

delle nostre passioni selvagge (cfr. Ackerman, 1991: 109). In Themis,<br />

tale concetto viene ripreso e rielaborato mettendo in evidenza<br />

che il daimon è il prodotto di uno stato emozionale collettivo che “si<br />

focalizza sulle risorse alimentari” (Th.: 321).<br />

Slittando sul versante di un lavoro genetico dal punto di vista critico-letterario,<br />

in La nascita della tragedia di Nietzsche, vi è “a passage<br />

especially striking in its forshadowing of the Cambridge thesis of<br />

ritual origins for the form of Greek tragedy” (Ackerman, 1991: 98).<br />

Il passo in questione è quello in cui Nietzsche afferma che Dioniso è<br />

il prototipo degli eroi tragici (cfr. Nietsche, 2002: 71). Si può avere<br />

pertanto la certezza che la Harrison abbia in mente Nietzsche quando<br />

si chiede in quale misura il demone della fertilità (come protagonista<br />

del dromenon di primavera) e gli eroi tragici siano così strettamente<br />

legati (cfr. Th.: 322). Prendendo in considerazione poi il fatto<br />

che nel dramma l’elemento-eroe diventerà dominante, l’autrice si<br />

sposta per necessità sul versante storico in modo da poter esaminare<br />

i requisiti richiesti ad un eroe. Essa sceglie Cecrope, il più antico<br />

eroe attico, e seguendo gli evemeristi, ne ricostruisce le gesta. Ma sfi-<br />

101


102<br />

DANILA CINELLU<br />

dando gli stessi evemeristi, mette in evidenza il fatto che Cecrope<br />

“aveva una coda di serpente” (Th.: 323). In effetti, il serpente, attributo<br />

dello stesso eroe, era un elemento costante nel rituale dionisiaco.<br />

Il punto è che per Jane Harrison la presenza del serpente non<br />

aveva valenza in relazione alla fecondità in senso stretto. A sostegno<br />

di un’ipotesi funzionalista ed evoluzionista allo stesso tempo, essa ritiene<br />

che il serpente fosse sopravvissuto come fossile dell’era totemica.<br />

Postulando che la credenza nella reincarnazione fosse una “quasi<br />

imprescindibile componente del totemismo” (Th.: 334), la Harrison<br />

ci pone davanti al fatto che il serpente “bestia inquietante che entra<br />

ed esce dalle cavità della terra, che scivola tra le tombe” (Th.: 330),<br />

rappresenta la vita eterna; e poiché l’uomo divinizza la propria stirpe,<br />

il serpente è sacro come una sorta di nume tutelare della stessa.<br />

3.5. Dromenon e Legomenon. – Il particolare approccio all’arte<br />

drammatica dell’antica Grecia fece della Harrison una ritualista. In<br />

modo conciso essa afferma che “Ciò che i dromena dell’Eniautos-Daimon<br />

diedero al dramma attico fu […] la forma rituale” (Th.: 405).<br />

Resta da specificare che per la Harrison parlare della priorità del<br />

dromenon rispetto al dramma è una cosa; asserire che il rito precede<br />

il mito è tutt’altra. Rito e mito, per quel che concerne la sfera religiosa,<br />

sono sincronici e complementari: il mito sarebbe “il corrispettivo<br />

detto dell’azione rituale, la cosa agita”, è “to legomenon opposto<br />

o relato a to dromenon” (Th.: 399). Il mito-ritualismo della Harrison<br />

porta insomma a constatare quanto il pensiero di Robertson Smith<br />

fosse poco materialistico. Il noto semitista non riuscì infatti a ridurre<br />

il mito allo status di una pura e semplice “cosa detta”; come conclude<br />

la Harrison, “per Robertson Smith un mito era l’equivalente antico<br />

dell’odiato dogma, con l’unica differenza di non essere protetto<br />

da sanzioni” (Th.: 400).<br />

4. Conclusioni. – Nel tirare le fila dell’argomento trattato e nel rivederne<br />

i motivi essenziali, si vorrebbe affrontare un problema di carattere<br />

terminologico. Da un punto di vista generale, non vi è una<br />

netta demarcazione fra il campo semantico ricoperto dal termine<br />

mito-ritualismo e quello ricoperto dal termine ritualismo. D’altro<br />

canto, essi si escludono mutuamente a seconda degli aspetti che si<br />

intende valorizzare degli studi di ogni singolo autore.<br />

Partendo da Robertson Smith, non è errato definirlo un “mito-ritualista”<br />

se si considera la sua opera come la prima ad essersi occupata<br />

del mito in relazione al rito. Il termine ritualismo è tuttavia più


I pionieri del ritualismo<br />

consono nella misura in cui si evidenzia che, per la stessa fondamentale<br />

teoria smithiana, la mitopoiesi è un’elaborazione secondaria rispetto<br />

alla condotta. Per quanto riguarda Frazer, di mito-ritualismo<br />

si potrebbe parlare laddove si prendessero in esame quelle parti della<br />

sua opera dove il mito ed il rito vengono analizzati come elementi di<br />

una religione ‘compiuta’ in cui il mito aveva la funzione di libretto<br />

per le stesse cerimonie. Ma, come si è in precedenza sottolineato, la<br />

posizione di Frazer è, a tutti gli effetti, ritualista nella misura in cui<br />

egli tratta i fenomeni artistico-religiosi della Grecia ormai arrivata<br />

all’apice della sua civiltà come i diretti discendenti di rituali popolari<br />

di carattere magico. Il ritualismo della Harrison è invece duplice. Da<br />

una parte perché, applicando l’ottica sociologica, essa individua nelle<br />

rappresentazioni collettive la proiezione della divinità; dall’altra<br />

perché, similmente a Frazer, ritiene che il dramma attico abbia avuto<br />

origine dai dromena della fertilità. Mentre l’accezione di “teoria<br />

mito-ritualista” sembra più appropriata qualora si prenda in considerazione<br />

la postulazione relativa alla sincronia e complementarità<br />

di mito e rituale.<br />

Bibliografia<br />

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VAN GENNEP A. - 1981 I riti di passaggio, Torino, Boringhieri (ed. or. 1909).<br />

Abbreviazioni<br />

TRS The Religion of the Semites.<br />

Th. Themis. Uno studio sulle origini sociali della religione greca.


FRANCESCO ATZENI<br />

TRA SAR<strong>DI</strong>SMO E FASCISMO.<br />

INTELLETTUALI, POLITICA E CULTURA<br />

NELLA CRISI DELLO STATO LIBERALE<br />

Il quadro culturale sardo del periodo successivo alla prima guerra<br />

mondiale è caratterizzato dall’emergere di correnti ideologiche e culturali<br />

di diversa origine, ma soprattutto da nuove spinte ideali e politiche,<br />

maturate nel periodo prebellico, durante la guerra e nel dopoguerra,<br />

che portano all’accentuarsi delle rivendicazioni autonomistiche,<br />

allo sviluppo del movimento degli ex combattenti, del regionalismo<br />

e del sardismo ( 1 ), la cui influenza si manifesterà sia nel campo<br />

politico, sia in quello culturale. Il combattentismo soprattutto, come<br />

movimento politico e come ideologia, rappresenterà un nuovo modo<br />

di intendere la partecipazione politica e l’identità nazionale e, attraverso<br />

la politicizzazione dei ceti intellettuali e delle masse popolari, mirerà<br />

a creare una stretta relazione tra identità nazionale realtà regionali e<br />

identità regionali, soprattutto nelle sue manifestazioni politicamente<br />

più mature, come il sardismo, acquistando una forte valenza ideale e<br />

culturale, oltre che politica. Il dibattito ideologico, politico e culturale<br />

si radicalizza per iniziativa di molti intellettuali, spesso giovani, che<br />

nella loro collaborazione ai periodici e alle riviste pubblicate in questi<br />

anni, e spesso da loro fondate e dirette, si pongono l’obiettivo di av-<br />

( 1 ) Sulla situazione politica del dopoguerra, che, anche per la rilevanza assunta<br />

dal movimento degli ex combattenti sardi e dal Partito sardo d’azione, è uno degli<br />

aspetti maggiormente approfonditi dalla storiografia, v. S. SECHI, Dopoguerra e fascismo<br />

in Sardegna. Il movimento autonomistico nella crisi dello Stato liberale (1918-<br />

1926), Fondazione Einaudi, Torino 1969; G. SOTGIU, Storia della Sardegna dalla<br />

grande guerra al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1990; L. NIEDDU, Dal combattentismo<br />

al fascismo in Sardegna, presentazione di F. Catalano, Milano, Vangelista,<br />

1979; M. BRIGAGLIA, La Sardegna dall’età giolittiana al fascismo, in Storia d’Italia.<br />

Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, a cura di L. Berlinguer e A. Mattone, Einaudi,<br />

Torino 1998, pp. 499-629.


106<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

viare un vasta mobilitazione dell’opinione pubblica, dei gruppi intellettuali<br />

e dei ceti popolari per realizzare un processo riformatore, destinato<br />

a segnare una svolta nella realtà del dopoguerra, a portare al<br />

superamento del vecchio ordine, al rinnovamento della politica e della<br />

cultura. Ciò che caratterizza l’azione di questi intellettuali è la diffusa<br />

carica contestatrice contro il parlamentarismo e la classe dirigente liberale<br />

e l’obiettivo di recuperare e valorizzare quelle spinte al rinnovamento<br />

che potevano permettere ai sardi di rinnovare la vita dell’isola e<br />

di rivalutarne il patrimonio culturale e spirituale. Si tratta di idee, motivazioni,<br />

aspettative, di cui gli intellettuali si fanno portavoce, che<br />

provengono da matrici ideologiche diverse e che perciò saranno destinate<br />

ad avere differenti esiti politici, in quanto, per la loro non omogeneità,<br />

e talora ambivalenza, finiranno per essere fatte proprie successivamente<br />

dal fascismo ( 2 ), nel momento in cui si porrà come erede<br />

del patrimonio ideale e politico delle nuove correnti emerse nel dopoguerra,<br />

del combattentismo e del sardismo. Il panorama editoriale risulta<br />

caratterizzato dalla pubblicazione di periodici e riviste attraverso<br />

i quali emergono vari intellettuali, tra gli altri Filiberto Farci, Egidio<br />

Pilia, Umberto Cao, Sebastiano Deledda, Raimondo Carta Raspi, che<br />

costituiscono figure di riferimento per una più approfondita conoscenza<br />

delle dinamiche culturali e politiche del periodo. Sono di questi<br />

anni periodici come la «Rivista sarda» (mensile politico, economico,<br />

letterario e artistico, fondato a Roma nel gennaio 1919 da Pantaleo<br />

Ledda e Giovanni Russino, e pubblicatosi fino al 1923), «Sardissima»<br />

(Cagliari, 1920, rassegna mensile di lettere, politica, economia,<br />

fondata da Filiberto Farci ed Egidio Pilia), «La Regione» (Cagliari,<br />

1922 e 1925, diretta da Sebastiano Deledda), nei quali, accanto alla<br />

stampa del combattentismo e a quella popolare e socialista ( 3 ), questi<br />

intellettuali pongono con forza il problema dell’arretratezza politica,<br />

sociale e culturale dell’isola e del suo superamento, valorizzando le<br />

nuove forze morali e culturali emerse nel dopoguerra, che si pongono<br />

l’obiettivo di scuotere e rinnovare la vita civile e politica sarda.<br />

( 2 ) Cfr. E. GENTILE, Combattentismo e fascismo nell’Italia del dopoguerra, in Il<br />

sardo-fascismo fra politica, cultura, economia, a cura di S. Cubeddu, Cagliari 1993,<br />

pp. 13-23. Sugli aspetti nazionali v. i lavori di E. GENTILE, Le origini dell’ideologia<br />

fascista, Laterza, Bari 1975, e Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al<br />

fascismo, Laterza, Roma-Bari 2002.<br />

( 3 ) Sulla stampa del periodo v. in particolare L. PISANO, Stampa e società in<br />

Sardegna dalla grande guerra alla istituzione della Regione autonoma, Milano, Angeli,<br />

1986; cfr. inoltre G. FOIS-E. PILIA, I giornali sardi (1900-1940). Catalogo,<br />

prefazione di L. Berlinguer, Della Torre, Cagliari 1976.


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

Le correnti culturali che caratterizzano il dibattito che si sviluppa<br />

nel dopoguerra sono la continuazione ideale della battaglia culturale<br />

e di rinnovamento di cui avevano inteso farsi portavoce alcune riviste,<br />

schierate su posizioni politiche e ideologiche differenti, comparse<br />

prima e durante la guerra mondiale, che affrontano il tema della<br />

questione sarda in riferimento all’isolamento della Sardegna, ai rapporti<br />

dell’isola con lo Stato e della società isolana con quella nazionale,<br />

alle responsabilità politiche della classe dirigente, alle scelte di<br />

politica economica. Loro scopo è mobilitare l’opinione pubblica sul<br />

tema della questione sarda, ma affrontando il problema regionale<br />

con un approccio nuovo e su posizioni di antagonismo e di opposizione<br />

alle scelte della classe politica.<br />

Alcune di queste riviste vengono pubblicate fuori dall’isola con<br />

l’obiettivo di inserire il problema regionale e la questione sarda nel<br />

più ampio dibattito nazionale.<br />

107<br />

Questa rivista è l’ultimo indice della crisi che commuove l’intera isola nei<br />

primi anni del secolo nuovo: la crisi è complessa, ma benefica; la risoluzione<br />

potrà esserne più o meno rapida ma sarà certamente fortunata per la<br />

gente e per il paese. Anche questa crisi attuale ha in sé i germi dei malanni<br />

secolari: ma oggi le rinnovate energie della stirpe e la illuminata coscienza<br />

dei tesori naturali soffocano ogni maligno germe, mentre s’agitano e fremono<br />

i fattori del rinascimento. L’evoluzione della vita sarda mostra oggi –<br />

in quest’ora di commossa transizione – aspetti sempre varii e fenomeni talvolta<br />

antitetici. La conoscenza della vera vita sarda nuova ed antica s’impone<br />

oggi più necessaria che mai a tutti gli italiani: e noi vogliamo contribuire<br />

a diffondere questa conoscenza entro ogni confine ed oltre ogni confine.<br />

I maggiori problemi dell’avvenire di Sardegna debbon essere altamente discussi<br />

perché lo Stato sia finalmente indotto a contribuire senza avarizia<br />

alla fortuna di un’isola cui natura donò ogni bellezza ed ogni ricchezza: e<br />

noi vogliamo stimolar discussioni ed invocar provvedimenti con voce che<br />

l’unanime consenso dei Sardi alla nostra iniziativa rende sicura e fiera.<br />

Con questo parole «Sardegna» si presenta ai lettori nel gennaio<br />

1914 ( 4 ), dando inizio ad un’esperienza che è da considerare tra le<br />

più interessanti del periodo prebellico. Alla rivista del giovanissimo<br />

Attilio Deffenu collaborano intellettuali, politici, letterati e artisti di<br />

diversa formazione, alcuni dei quali animeranno anche il dibattito<br />

( 4 ) «Sardegna», n. 1, gennaio 1914. Il primo numero della rivista (di cui uscirono<br />

quattro fascicoli, per un totale di 288 pagine, dal gennaio al giugno 1914)<br />

uscì a Tempio, gli altri a Milano.


108<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

politico e la vita culturale del dopoguerra. Ma soprattutto la rivista<br />

«è il frutto più maturo dell’esperienza politica e della riflessione di<br />

Attilio Deffenu», che «senza nessuna concessione al “sardismo” e al<br />

“regionalismo piagnone” del suo tempo», inserisce l’analisi del problema<br />

isolano in un contesto più ampio, suggerendone la soluzione<br />

in una strategia che deve riguardare tutta la nazione, con un «mutamento<br />

profondo e totale nei rapporti fra lo Stato e le regioni italiane,<br />

e in particolare quelle del Meridione», necessario per rompere<br />

quella che chiama «disunità nazionale» ( 5 ). Il riscatto e il progresso<br />

economico dell’isola vengono visti da Deffenu in una nuova prospettiva,<br />

non attraverso provvedimenti speciali, ma attraverso la via<br />

dello sviluppo capitalistico, per cui denuncia la «cappa di piombo<br />

del sistema protettivo» che agisce nel senso di «impedire o d’allontanare<br />

il sorgere della vaticinata era capitalistica dell’Isola» e si pronuncia<br />

contro le leggi speciali a favore del Mezzogiorno e delle isole,<br />

che, sostiene, sono «una mistificazione, un espediente dilatorio» di<br />

cui il governo si serve «per impedire o allontanare – concedendo favori<br />

particolari a determinate provincie – quelle riforme di carattere<br />

generale che avrebbero assicurato a tutto il Mezzogiorno le condizioni<br />

normali del suo naturale, graduale, autonomo sviluppo» ( 6 ).<br />

Visto in un contesto nazionale, il problema del riscatto delle regioni<br />

meridionali e dell’isola passa attraverso il rinnovamento della<br />

linea politica di approccio al problema meridionale e all’arretratezza<br />

del Sud. Le argomentazioni riprendono valutazioni delle correnti<br />

d’opinione di sinistra (inadeguatezza delle leggi, insufficienza degli<br />

stanziamenti, mancata realizzazione e attuazione delle disposizioni<br />

previste), ma includono soprattutto una valutazione negativa sul<br />

complesso della politica economica seguita. Ciò che emerge è il problema<br />

dell’elaborazione di un nuovo approccio al problema isolano,<br />

anticipando, «con l’intuizione di una prospettiva organizzativa, con<br />

( 5 ) Cfr. M.B. [M. BRIGAGLIA], Presentazione, in Sardegna. La rivista di Attilio<br />

Deffenu, a cura di M. Brigaglia, Sassari 1976, p. XI. Su Deffenu cfr. M. BRIGA-<br />

GLIA, Per un profilo biografico del giovane Deffenu, ibidem (ora ripreso in L. MAR-<br />

ROCU-M. BRIGAGLIA, La perdita del Regno. Intellettuali e costruzione dell’identità<br />

sarda tra Ottocento e Novecento, Editori Riuniti, Roma 1995, pp. 152-171); cfr.<br />

inoltre L. DEL PIANO, Attilio Deffenu e la rivista «Sardegna», Sassari 1963. Nato a<br />

Nuoro il 28 dicembre 1890, morto sul Piave il 16 giugno 1918, Deffenu compì<br />

gli studi ginnasiali e liceali a Nuoro e a Sassari. A Pisa, dove si laureò in leggi, maturò<br />

le sue posizioni politiche vicine al sindacalismo rivoluzionario, legandosi al<br />

gruppo milanese di Alceste De Ambris.<br />

( 6 ) A.D., Postilla a S. Spina, Luci ed ombre nella questione sarda, in «Sardegna»,<br />

n. 3-4, marzo-aprile 1914.


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

una nuova formulazione di regionalismo, con l’obiettivo della valorizzazione<br />

delle potenzialità regionali, posizioni politiche che emergeranno<br />

nel dopoguerra e che saranno un caposaldo del movimento<br />

autonomista e regionalista e del sardismo» ( 7 ).<br />

«Azione», che si pubblica a Roma a partire dal marzo 1914, chiede<br />

giustizia per la Sardegna, la quale, sostiene, «non chiede favori o privilegi»,<br />

ma «pretende soltanto che nel regime attuale si affermi, come<br />

base suprema, il principio da lungo tempo calpestato dell’equa ripartizione<br />

delle forze nazionali» ( 8 ). Il settimanale si caratterizza, come<br />

molti fogli del periodo, per la forte contestazione nei confronti della<br />

rappresentanza parlamentare sarda, giudicando i deputati «deboli e<br />

fiacchi, nella maggioranza inadatti all’alta funzione legislativa» ( 9 );<br />

quello della polemica, spesso molto aspra, nei confronti della classe dirigente<br />

liberale sarà un motivo largamente presente nei fogli di questo<br />

periodo e del dopoguerra. A Roma si pubblica nel 1915 anche «Pro<br />

Sardegna», che sostiene la necessità di provvedimenti speciali per l’isola,<br />

condividendo l’azione politica seguita e concentrando la sua attenzione<br />

soprattutto sui problemi economici e, in particolare, sull’opera<br />

di colonizzazione e di bonifica idraulica e agraria, che potevano portare<br />

alla redenzione dell’isola e della sua popolazione ( 10 ).<br />

Con l’obiettivo di affrontare i problemi della questione sarda in<br />

termini nuovi nasce nel dicembre 1917, fondato da Giuseppe Musio<br />

e Egidio Pilia, «Il Popolo sardo» ( 11 ). Critica della classe politica liberale,<br />

volontà di agire per la rinascita dell’isola e per il suo riscatto e rivendicazione<br />

di un nuovo ruolo da attribuire ai sardi, nel campo delle<br />

iniziative politiche ed economiche, per far sì che essi divengano i veri<br />

artefici del rinnovamento dell’isola, caratterizzano la linea di questo<br />

settimanale, che svolgerà un ruolo fondamentale nel cruciale momento<br />

di passaggio dalla guerra al dopoguerra. Tra i suoi animatori e collaboratori,<br />

accanto al Musio e al Pilia, sono da ricordare Filiberto Far-<br />

( 7 ) F. ATZENI, Riformismo e modernizzazione. Classe dirigente e questione sarda<br />

tra Ottocento e Novecento, Franco Angeli, Milano 2000, p. 273.<br />

( 8 ) Cfr. Prologo, in «Azione!», 21 marzo 1914. Settimanale, le sue pubblicazioni<br />

cessano nel dicembre dello stesso anno.<br />

( 9 ) Cfr. Decadenza del parlamentarismo, in «Azione!», 4 aprile 1914.<br />

( 10 ) Cfr. «Pro Sardegna», 1° giugno 1915, 15 gennaio 1916. Sulla legislazione<br />

speciale v., in particolare, F. ATZENI, Riformismo e modernizzazione, cit.<br />

( 11 ) Il giornale fu pubblicato dal dicembre 1917 all’ottobre 1919. Su di esso v.<br />

M.C. DENTONI, Il Popolo sardo, in «Archivio sardo del movimento operaio, contadino<br />

e autonomistico», quaderno n. 11-13, 1980, pp. 409-412.<br />

109


110<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

ci, Michele Saba, il magistrato ed economista Giovanni Maria Lei<br />

Spano (che vi pubblica numerosi articoli di carattere economico) ( 12 ),<br />

Umberto Cao; è suo l’opuscolo Per l’autonomia ( 13 ), che segnerà il rilancio<br />

del dibattito autonomistico, cui il Cao darà un importante contributo<br />

sulle colonne del giornale. Farci ricorderà, dopo la caduta del<br />

fascismo, il clima ideale e politico nel quale si era sviluppata l’esperienza<br />

del settimanale in un lungo articolo pubblicato sul rinato organo<br />

del Partito sardo d’azione, «Il Solco», nel marzo 1945 ( 14 ).<br />

Giornale creato da un gruppo di intellettuali indipendenti – pugnace manipolo<br />

di antesignani, vera pattuglia di punta – che avevano chiara conoscenza<br />

delle umilianti condizioni in cui l’isola giaceva, prosternata tra la sistematica<br />

dimenticanza dei governanti e la supina acquiescenza della rappresentanza<br />

politica sarda: giornale animosamente battagliero, di inconfondibile<br />

impronta, che si proponeva di suscitare un vasto movimento di masse<br />

per ricondurre la Sardegna alla riscossa. Non sterile rivolta ideale era il<br />

suo programma, ma fattiva affermazione realistica. Bisognava portare in<br />

primo piano l’isola, sottraendola alla soggezione dei vecchi parlamentari<br />

sardi, che, pur essendo uomini di non comune intelletto affermatisi nelle<br />

libere professioni o nell’esercizio di alte cariche amministrative, non sapevano<br />

difendere i vitali interessi, il prestigio, la dignità, rassegnati a una<br />

piatta politica rinunciataria. Bisognava far risorgere l’isola nella pienezza<br />

dei suoi mezzi, scuotendola dal lungo letargo, imporla – volenti o no i politicanti<br />

smemorati di Roma – alla attenzione di tutta la nazione, recarla<br />

allo stesso livello delle altre più fortunate regioni italiane. Spalancare le finestre,<br />

bisognava, agli affiliati di una nuova germinale primavera umana,<br />

suscitatrice di idee e di energie nuove: creare una coscienza politica sarda,<br />

rendere consapevoli anche le più umili classi delle giuste rivendicazioni che<br />

la Sardegna poteva pretendere. Questo voleva e sosteneva il «Popolo Sardo».<br />

Sciolto da ogni vincolo di soggezione, non asservito a nessuna camarilla<br />

e conventicola regionale, attingeva le sue risorse e i suoi mezzi esclusivamente<br />

alla borsa dei redattori: perfettamente libero, quindi, puro, rettilineo,<br />

che poteva guardare dritto negli occhi agli avversari, che diceva pane<br />

( 12 ) Il Lei Spano, fondatore e presidente dell’Associazione economica sarda,<br />

svolge un ruolo di primo piano nel dibattito economico e politico del dopoguerra,<br />

grazie anche alla sua opera La Sardegna economica di guerra (Sassari 1919), che costituirà<br />

un fondamentale punto di riferimento per le correnti regionaliste del dopoguerra.<br />

Il Lei Spano è anche autore del volume La questione sarda, con prefazione<br />

di Luigi Einaudi, Torino 1922.<br />

( 13 ) Cfr. Y.K. (Umberto Cao), Per l’autonomia, Cagliari 1918.<br />

( 14 ) F. FARCI, L’antesignano dell’autonomia, in «Il Solco», 18 marzo 1945.


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

111<br />

al pane e vino al vino, che irrompeva a passo di carica nella stagnante grigia<br />

vita politica isolana, senza preoccuparsi se suscitava il gracidare dei ranocchi<br />

della palude turbati nel loro ottuso quieto vivere. Giornale di pensiero<br />

e di battaglia, animato da un ardente spirito di sardità, che non era il risultato<br />

di comode razzie in altri giornali, ma che scaturiva dal cervello e dal<br />

cuore dei suoi scrittori, pronti sempre all’assalto e alla zuffa per sostenere<br />

un principio di libertà e di giustizia, per difendere un’idea nobile e bella<br />

[…]. Il giornale divenne in breve l’antesignano del divenire politico isolano.<br />

Interpretò il sentimento e la passione di tutta la Sardegna: e tutta la<br />

Sardegna gli si serrò intorno e lo seguì con fede, come dimostrò, poi, nel<br />

1919, il responso delle urne, che fu una clamorosa affermazione del programma<br />

propugnato dal giornale. Si iniziò così, per opera del «Popolo Sardo»,<br />

quel rinnovamento politico e sociale dell’isola che costituì il preludio<br />

del movimento sardista. Fu appunto dalle sue colonne che praticamente<br />

germogliò la concezione autonomistica, che poi doveva formare il caposaldo<br />

programmatico del Partito sardo d’azione […]<br />

A queste pubblicazioni si affiancano, come una continuazione<br />

ideale, vari giornali e periodici del dopoguerra.<br />

La «Rivista sarda» (1919-1923) nasce con lo scopo di reclamare giustizia<br />

per la Sardegna e promuovere il suo rinnovamento economico,<br />

sociale, politico e culturale ( 15 ). «Sorta per la tutela degli interessi isolani<br />

trascurati e vilipesi», la rivista dichiara di volersi mettere «decisamente<br />

all’avanguardia del movimento regionale sardo per reclamare una<br />

immediata soluzione di tutte le questioni vitali» ( 16 ). «Libero periodico<br />

agitatore di idee, suscitatore di energie, creatore di forze vive, capaci di<br />

contribuire ad un sano rinnovamento della nostra isola», questo secondo<br />

Pantaleo Ledda il carattere della rivista, come scrive ad un anno dall’inizio<br />

della sua pubblicazione: mediante il concorso delle menti più<br />

elevate, sarde e non sarde, politici, economisti, sociologi, letterati e<br />

artisti, essa si propone di svolgere il suo programma «presentando<br />

una degna produzione letteraria ed artistica, assecondando il benefico<br />

movimento cooperativistico […], trattando ampiamente i problemi<br />

sardi, incitando i poteri costituiti alla soluzione integrale e immediata<br />

di essi» ( 17 ). Come altri fogli del periodo, pur dichiarandosi estranea<br />

alle lotte personali, la rivista intende comunque «tenere un atteggiamento<br />

di battaglia contro l’Italia ufficiale, che tiene la regione in un<br />

( 15 ) «Rivista sarda», n. 1, gennaio 1919.<br />

( 16 ) «Rivista sarda», n. 2, marzo-aprile 1919.<br />

( 17 ) «Rivista sarda», n. 1, gennaio 1920.


112<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

deplorevole abbandono» ( 18 ). I suoi redattori si pongono anche l’obiettivo<br />

di operare per superare il secolare «isolamento intellettuale» della<br />

Sardegna, scrivendo che la rivista «pure essendo sardissima nello spirito<br />

è anche italiana», per cui deve inserirsi nel più vasto circuito nazionale,<br />

aprendosi alla collaborazione anche di non sardi. Alla rivista collaborano<br />

politici, intellettuali, letterati, come Arrigo Solmi, Paolo Orano,<br />

Filippo Garavetti, Antonio Luigi Are, Filiberto Farci, Pasquale<br />

Marica, Raffa Garzia, Salvator Ruju, Filippo Addis, Edoardo Fenu,<br />

Stefano Susini, Salvatore Cambosu; in essa vengono pubblicate novelle<br />

di Grazia Deledda e poesie di Mercede Mundula, disegni e incisioni<br />

di artisti sardi, come Remo Branca, Mario Delitala, Carmelo Floris,<br />

Filippo Figari, Federico Melis, Felice Melis Marini, Melkiorre Melis<br />

(cui a partire dal numero speciale di Natale-Capodanno 1919-1920<br />

verrà affidata la direzione della parte artistica della rivista), e artisti non<br />

sardi, come Duilio Cambellotti e Romeo Berardi. La rivista sostiene la<br />

nuova generazione di intellettuali e politici emersi nella vita sociale e<br />

culturale dell’isola, «auspica un significativo ricambio della classe politica,<br />

in sintonia con quella vasta corrente d’opinione pubblica che, in<br />

nome di un rinnovamento politico e culturale dell’isola, finirà per riconoscersi,<br />

almeno parzialmente, nel movimento dei combattenti e di rivendicazione<br />

regionalista» ( 19 ), ed è certamente una delle espressioni<br />

più interessanti di quel «sardismo culturale» che caratterizza il dibattito<br />

culturale e ideologico animato dagli intellettuali del dopoguerra.<br />

«Sardissima» (1920) è promossa da due intellettuali che ricoprono<br />

un ruolo di primo piano nel movimento regionalista e autonomista,<br />

Filiberto Farci ed Egidio Pilia ( 20 ).<br />

( 18 ) «Rivista sarda», n. 5, maggio-giugno 1920.<br />

( 19 ) Cfr. F. ATZENI, Politica e cultura nelle riviste del ventennio, in F. ATZENI-L.<br />

DEL PIANO, Intellettuali e politici tra sardismo e fascismo, Cuec, Cagliari 1993, p. 14.<br />

Sulla rivista v. inoltre M.D. PICCIAU, Tra combattentismo e fascismo. Cultura artistica<br />

e problemi dell’identità nella «Rivista sarda» (1919-1923), in «Quaderni bolotanesi»,<br />

n. 26, 2000, pp. 77-86.<br />

( 20 ) Su E. Pilia v. F. FARCI, Un costruttore dell’autonomia sarda. E. Pilia, in «Il<br />

Shardana», a. II, n. 7-8, luglio-agosto 1947; G. CONTU, Egidio Pilia. Il padre dimenticato<br />

dello Statuto autonomo sardo, in «Quaderni bolotanesi», n. 28, 2002, pp. 29-<br />

39; ID., L’opera di Egidio Pilia, in ID., Il federalismo in Sardegna, Altair, Cagliari<br />

1982. Nato a Loceri (Nuoro), in Ogliastra, il 22 ottobre 1888, compì gli studi tra<br />

Lanusei (capoluogo del circondario) e Cagliari, dove seguì gli studi liceali e si laureò<br />

nel 1912 in Giurisprudenza; nel 1919 si laureò in Filosofia a Roma. Insegnò al<br />

liceo Dettori di Cagliari, ma dopo la sua presa di distanza dal fascismo fu trasferito<br />

a Melfi (Potenza). Lasciato l’insegnamento, si dedicò all’attività forense presso<br />

il tribunale di Lanusei. Morì a Roma il 25 luglio 1938.


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

Animatore, con altri intellettuali, tra il 1917 e il 1919, del «Popolo<br />

sardo», Pilia è, nel dopoguerra, tra gli esponenti e gli ideologi più importanti<br />

del movimento regionalista e del Partito sardo d’azione (di<br />

cui entra a far parte del direttorio alla fondazione), partecipando inoltre<br />

attivamente alla vita del partito e collaborando assiduamente al suo<br />

organo di stampa, «Il Solco». È suo l’opuscolo L’autonomia sarda.<br />

Basi, limiti, forme (Cagliari 1920) ( 21 ), che rappresenta il primo tentativo,<br />

anche se ancora embrionale, di dare un corpo giuridico all’autonomia<br />

sarda e in cui prospetta un regime autonomistico per<br />

l’isola basato su un consiglio regionale elettivo dotato di potere legislativo<br />

e su un commissario civile di nomina parlamentare con poteri<br />

esecutivi ( 22 ). Studioso di storia del pensiero politico ( 23 ), politicamente<br />

vicino a Paolo Orano, Pilia, come Orano, finirà per avvicinarsi<br />

progressivamente al fascismo, cui aderirà nel febbraio 1923 con un<br />

primo gruppo di dirigenti del movimento dei combattenti e del Partito<br />

sardo d’azione, collaborando inoltre al nuovo organo del fascismo<br />

sardo, «Il Giornale di Sardegna». Allontanatosi progressivamente dal<br />

fascismo, Pilia svolgerà in seguito un ruolo politico marginale e si dedicherà<br />

ai suoi studi storici e letterari, collaborando al «Nuraghe» di<br />

Raimondo Carta Raspi, cui era legato da profonda amicizia.<br />

Anche Filiberto Farci ( 24 ) è una figura di intellettuale che emerge<br />

nel clima di rinnovamento culturale e politico che caratterizza il do-<br />

113<br />

( 21 )A questo opuscolo farà seguire l’anno successivo L’autonomia doganale,<br />

Cagliari 1921.<br />

( 22 ) E. PILIA, L’autonomia sarda..., cit., p. 19 ss., nonché S. SECHI, Dopoguerra<br />

e fascismo..., cit., p. 209.<br />

( 23 ) Tra i lavori pubblicati in questi anni dal Pilia possiamo ricordare Il pensiero<br />

filosofico di Domenico Alberto Azuni, Cagliari 1920; Carlo Buragna. Poeta e filosofo<br />

del secolo XVII, Cagliari 1922; La dottrina del tirannicidio in Lucifero cagliaritano,<br />

Cagliari 1923; La dottrina politica di Domenico Alberto Azuni, Cagliari 1923.<br />

Tra le sue opere filosofiche sono da ricordare La polemica Gioberti-Tuveri (1924) e<br />

il volume Lucifero da Cagliari e le filosofia sarda medievale (1929). Si interessò anche<br />

di letteratura sarda, pubblicando il volume La letteratura narrativa sarda in<br />

Sardegna. Il romanzo e la novella (1926).<br />

( 24 ) Nato a Seui (Nuoro) nel 1882, Farci compì gli studi liceali a Cagliari,<br />

dove si laureò in leggi. Per motivi di lavoro si trasferì a Torino e a Napoli, dove<br />

nel 1916 si laureò in Lettere. Insegnò a Pavia e a Cagliari, ma dopo l’instaurazione<br />

del regime lasciò l’insegnamento per dedicarsi interamente alla narrativa, che coltivò<br />

fino alla morte nel 1965. Sul Farci v. G. CONTU, Filiberto Farci, politico e<br />

scrittore, in «Quaderni bolotanesi», n. 27, 2001, pp. 81-94, e, con particolare riguardo<br />

alla sua attività letteraria, G. MARCI, Narrativa sarda del Novecento. Immagini<br />

e sentimento dell’identità, Cuec, Cagliari 1991, pp. 77-83.


114<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

poguerra. Collabora al «Popolo sardo», concentrandosi soprattutto<br />

su temi economici. Legato da amicizia a Emilio Lussu e Camillo<br />

Bellieni, milita nel movimento dei combattenti e nel Partito sardo<br />

d’azione, del quale partecipa al congresso di fondazione ad Oristano<br />

nel 1921. A queste idealità Farci rimane fedele nel momento in cui<br />

altri esponenti del movimento regionalista e sardista come il Pilia,<br />

col quale aveva condiviso tante battaglie per l’autonomia ed esperienze<br />

giornalistiche, confluiranno nel 1923 nel fascismo, assumendo<br />

una posizione critica verso il fascismo e la fusione e, negli anni<br />

successivi, abbandonando la sua partecipazione alla vita politica per<br />

dedicarsi alla produzione narrativa; collabora anche al «Nuraghe» del<br />

Carta Raspi. Nel secondo dopoguerra parteciperà nuovamente alla<br />

vita politica nelle file del ricostituito Partito sardo d’azione.<br />

I redattori di «Sardissima» scrivono che la rivista vuole essere<br />

un grido di battaglia e di riscossa: monito agli ignavi, incitamento alla gioventù<br />

di Sardegna e a chi in una Sardegna civilissima e liberissima ripone il<br />

migliore suo sogno, il più vivo fremito del suo spirito. È un’affermazione<br />

veemente di sardità, la nostra, che ci schiude il pensiero e le anime a quel<br />

rinnovamento sardo che è meta suprema della nostra insonne battaglia e<br />

che dev’essere impeto di ascesa e di gloria per tutta la stirpe nostra antica,<br />

indomabilmente fissa nella volontà di rinnovarsi e di innalzarsi.<br />

Gli obiettivi: «sottrarre la Sardegna alla perpetua minorità cui la<br />

vorrebbero inchiodata i mestatori e i barattieri di Montecitorio nella<br />

valutazione dei valori nazionali: innalzare la Sardegna, dimostrarne<br />

la piena sufficienza a vivere come organismo autonomo». I redattori<br />

della rivista scrivono di volere che la Sardegna<br />

ormai palesatasi e affermatasi in ogni contingenza la parte più sana della<br />

compagine nazionale – sia portata allo stesso livello delle altre regioni<br />

d’Italia: nella cultura, nelle garanzie politiche e amministrative, nell’organismo<br />

economico, nello sviluppo agrario, armentizio e industriale, nell’istruzione,<br />

nelle comunicazioni marittime e stradali, nelle bonifiche e nell’irrigazione.<br />

La Sardegna non dev’essere più nel concetto dei governanti la<br />

Cenerentola perpetua, trascurata e disprezzata: non dev’essere ritenuta solo<br />

il vasto serbatoio delle risorse naturali e umane a cui il governo possa attingere<br />

a suo piacimento, senza scrupoli e senza limiti, in ogni ora della vita<br />

nazionale. La Sardegna dev’essere prima di tutto Sardegna, poi che l’Italia<br />

le è irreducibilmente matrigna. E dev’essere grande e salda: senza ritrosie,<br />

con alta e serena fronte: grande quale i valori morali incommensurabili della<br />

sua razza le danno diritto di essere. Sardegna rispettata e temuta, Sarde-


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

115<br />

gna giovane, agile, fervida, animata sempre di spirito d’iniziativa e di conquista.<br />

E deve marciare subito alla riscossa e deve – se i governanti si ostineranno<br />

nella loro cecità e sordità secolare – farsi giustizia da sé, buttando<br />

giù, con una scrollata, il basto e diventando alfine veramente padrona di<br />

sé, veramente libera di marciare per la sua via.<br />

I redattori della rivista sostengono di voler «sardamente pensare,<br />

sardamente operare con coscienza d’italiani. Sardissimi vogliamo essere<br />

in ogni manifestazione dello spirito e della mente» e dichiarano<br />

di proporsi l’obiettivo di superare «il torpore antico: scuotere – con<br />

un gesto di risolutezza virile – la cenere grigia dell’oblio» che sovrasta<br />

l’isola. A questa lotta devono unirsi «i giovani e quelli che alimentano<br />

nel cuore la fiamma di una grande idealità sarda, plasmata<br />

al di sopra di ogni concezione gretta di classe e di individui, di fazioni<br />

di partiti e di sette cementati da compromessi e da rinunce».<br />

La Sardegna è ormai matura all’azione. Deve lottare: difendersi, preservarsi<br />

dalla lue dissolvitrice che contamina gli organismi politici europei ed affrancarsi<br />

dall’asservimento ai despoti d’oltre mare che la vogliono sempre sotto il<br />

loro calcagno in una vituperosa servitù: deve finalmente rifulgere nella sua<br />

vera e intera bellezza con tutte le sue energie, con tutte le sue risorse inestinguibili,<br />

in conspetto al mondo, in piena luce meridiana, finalmente eretta<br />

fuori dell’ombra secolare in cui giacque fin ora, finalmente staccata dalla<br />

gente d’oltre mare che affoga nell’affarismo e nella corruttela dei torbidi patteggiamenti,<br />

nella lordura degli appetiti scatenati da mire egoistiche e nella<br />

gazzarra demagogica. Questa è la fiamma sacra che noi non dobbiamo mai<br />

lasciare estinguere, ma dobbiamo sempre alimentare nel nostro spirito: la<br />

fiamma del gran sogno sardo di libertà e di resurrezione ( 25 ).<br />

«La Regione» (1922 e 1925) è una rivista che si inserisce a pieno titolo<br />

nel movimento politico-culturale regionalista. Viene diretta, con<br />

Raffaele Di Tucci ed Ernesto Concas, da Sebastiano Deledda ( 26 ),<br />

( 25 ) Alere flammam!, in «Sardissima», n. 1, 1 luglio 1920, pp. 1-2.<br />

( 26 ) Sebastiano Deledda, nato a Lula (Nuoro) il 28 agosto 1890, partecipò alla<br />

guerra nelle file della Brigata Sassari. Conseguita le lauree in Giurisprudenza e in<br />

Lettere, insegnò a Nuoro, Tempio e Cagliari, nell’Istituto magistrale. Nel 1930 fu<br />

nominato preside dell’Istituto magistrale di Sassari; fu poi trasferito a Cagliari,<br />

dove diresse per molti anni l’Istituto magistrale. Appassionato studioso di storia<br />

sarda dell’800, Deledda si dedicò allo studio del giornalismo risorgimentale, di<br />

Gioberti, G.M. Dettori e Carlo Cattaneo, del periodo rivoluzionario della fine del<br />

’700, della Corsica. Morì a Cagliari il 13 agosto 1963. Sul Deledda v. il necrolo-


116<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

che, come Pilia e Farci, è una emblematica figura di quella generazione<br />

di intellettuali che nel dopoguerra si riconoscono e militano<br />

nel movimento autonomista e aderiscono al sardismo. Come il Pilia,<br />

Deledda appartiene inoltre a quella generazione di intellettuali che<br />

aderiranno al fascismo, ma mirando a salvaguardare spinte e idealità<br />

culturali che li avevano portati a riconoscersi nel movimento regionalista<br />

e sardista; ma, mentre Pilia si allontanerà dal fascismo, Deledda<br />

durante il ventennio svolgerà un’intensa attività di organizzatore<br />

di cultura e sarà redattore della principale rivista fascista sarda,<br />

«Mediterranea». Come Deledda anche Di Tucci e Concas aderiranno<br />

al fascismo e collaboreranno a periodici e riviste fasciste e faranno<br />

parte della redazione di «Mediterranea» ( 27 ).<br />

Organo di cultura e propaganda, «La Regione», scrivono i suoi<br />

redattori,<br />

si propone un compito d’importanza fondamentale: vincere l’accorata solitudine<br />

della nostra insularità, portando nelle correnti di pensiero italiano<br />

gli elementi più belli della vita spirituale sarda. […] Il punto centrale del<br />

nostro movimento culturale è, pertanto, problema di sardità, di educazione<br />

e di elevazione regionalistica; interpretazione, cioè, e intelligenza dei fatti<br />

sociali e delle propensioni spirituali più significative, che debbono o possono<br />

determinare la rinascita della Sardegna.<br />

Suo fine è operare per la rinascita della Sardegna attraverso una<br />

profonda educazione regionalistica, inserendo la cultura sarda in<br />

quella italiana, ma rivendicando all’isola anche il ruolo di luogo di<br />

incontro tra le varie culture mediterranee. Si legge nel programma<br />

della rivista ( 28 ):<br />

L’Isola, che un pensatore hegeliano del secolo scorso si è compiaciuto rappresentare<br />

quale centro di civiltà mediterranea e come punto d’incontro di<br />

tutte le correnti ideali di tre continenti, è stata, pur troppo, quasi totalmente<br />

fuori dal processo formativo degli Stati moderni, dai grandi contra-<br />

gio di C. Sole in «Archivio storico sardo», XXIX (1964), pp. 410-411; v. inoltre di<br />

F. AD<strong>DI</strong>S, Sebastiano Deledda e la sua opera, in «La Nuova Sardegna», 15, 16, 17,<br />

18, 19 e 20 dicembre 1964; su di lui v., in particolare, F. ATZENI, Politica e cultura<br />

nelle riviste del ventennio, cit.<br />

( 27 ) Cfr. F. ATZENI, Politica e cultura nelle riviste del ventennio, cit.<br />

( 28 ) Cfr. Programma, in «La Regione», n. 1, agosto 1922, pp. 1-2. La prima serie<br />

della rivista uscì dall’agosto al dicembre 1922.


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

117<br />

sti politici e dalle egemonie parlamentari della Penisola, o, il che non è<br />

meno grave, dal movimento culturale della nazione; ignorata e fraintesa da<br />

molti di quelli che rappresentavano, talvolta, in sommo grado, le tendenze<br />

formative della coscienza italiana.<br />

La rivista si pone dunque l’obiettivo di analizzare, con una impostazione<br />

idealistica, i problemi più importanti dell’isola, «considerata<br />

non come semplice rappresentazione geografica o antropica, ma<br />

come centro di forze morali, cioè come una bella e originalissima totalità<br />

spirituale». Ciò che si prefigge è rimarcare la specificità della<br />

sua storia, metterne in rilievo i tratti caratteristici della cultura, analizzarne<br />

le tradizioni di pensiero, letterarie e storiche, valorizzarne le<br />

forme di espressione culturale, recuperarle, farle conoscere ad un<br />

pubblico più vasto.<br />

Alla prima serie della rivista collaborano intellettuali di diversa<br />

formazione, quali Egidio Pilia, Damiano Filia, Luigi Falchi, Dionigi<br />

Scano ( 29 ), ma tutti uniti, nel loro impegno di studiosi, nella riscoperta<br />

e nella rivalutazione della storia e della cultura dell’isola.<br />

( 29 ) Tra gli altri collaboratori della rivista possiamo ricordare Arrigo Solmi,<br />

Gioele Solari, Enrico Besta, Grazia Deledda, Paolo Orano, Agostino Lanzillo,<br />

Alessandro Levi, Natale Addamiano, Carlo Aru, Liborio Azzolina, Luigi Bianco,<br />

Luigi Camboni, Pietro Casu, Lionello De Lisi, Francesco Ercole, Luigi Falchi, Filippo<br />

Figari, Ferdinando Martini, Giovanni Antonio Mura, Salvator Ruju, Antonio<br />

Scano, Dionigi Scano, Guido Scano, Antonio Taramelli. Il Pilia vi pubblicò<br />

recensioni e alcuni articoli sulla cultura sarda, tra cui uno dedicato al periodo della<br />

«Rinascenza sarda» ed un altro al pensatore e poeta sardo del ’600 Carlo Buragna<br />

(cfr. i nn. 1 e 3, agosto e ottobre 1922); D. Filia un articolo sugli echi giobertiani<br />

in Sardegna (agosto 1922); vi collaborarono inoltre scrittori e poeti come Pietro<br />

Casu, Antioco Mura, Giovanni Antonio Mura, Stefano Susini.<br />

Nel primo numero della rivista Deledda dedica un breve articolo agli studi sull’opera<br />

di Sebastiano Satta, nel quale, della poesia del Satta, esalta l’aspetto artistico,<br />

ma soprattutto la denuncia del malessere sociale dell’isola e la valenza etica e<br />

politica; linea di lettura fatta propria da molti intellettuali del dopoguerra e rimasta<br />

parte integrante del loro bagaglio ideologico e culturale. Cfr. S. DELEDDA, Bibliografia<br />

Sattiana, in «La Regione», n. 1, agosto 1922, pp. 44-47. Scrive Deledda<br />

che nei Canti barbaricini il Satta si manifesta soprattutto come «un assertore, un<br />

prigioniero di sardità», che egli «pensò d’incanalare nelle correnti spirituali italiane,<br />

senza, per altro, perder di vista il contenuto sovranamente regionalistico della<br />

sua poesia». I Canti barbaricini rispecchiano «le condizioni della Sardegna negli<br />

ultimi decenni dell’Ottocento, allorché, mancando alle istituzioni dell’Italia ufficiale<br />

la virtù dell’azione saggia e costante, il diritto era senza difesa il cittadino<br />

s’ergeva vindice della propria libertà», per cui, secondo Deledda, «in tale sfacelo<br />

dell’idea accentratrice dello Stato le attività più belle della stirpe si svilivano, determinando<br />

quell’odio e quella ribellione, onde sgorgò, non di rado, la cupe poesia<br />

del Satta, la cui voce costituisce un tremendo atto di accusa contro l’incuria


118<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

Per molti intellettuali che avevano militato nel movimento regionalista<br />

e autonomista e spesso aderito al Partito sardo d’azione, o simpatizzato<br />

per essi, un momento di scelta culturale e politica è rappresentato<br />

dalla «fusione» tra sardisti e fascisti avvenuta nei primi mesi<br />

del 1923, grazie all’azione di mediazione e di inglobamento nel fascismo<br />

di larghe frange di quadri e militanti del combattentismo e del<br />

sardismo portata avanti dal prefetto di Cagliari Asclepia Gandolfo.<br />

Gandolfo è indubbiamente favorito da una base culturale e ideale di<br />

riferimento comune, quale è il combattentismo, e dalla spinta al rinnovamento<br />

della politica (e della classe politica), che è il tratto caratteristico<br />

che accompagna nel dopoguerra il dibattito politico. È inoltre<br />

favorito dall’incontro con esponenti di punta del combattentismo e<br />

del Partito sardo d’azione, quali Paolo Pili e Antonio Putzolu, ed altri<br />

esponenti, che sono più sensibili a recepire l’ipotesi di una prospettiva<br />

di rinnovamento politico dell’isola attraverso il fascismo, preservando<br />

idealità e obiettivi del movimento regionalista e del sardismo, in aperta<br />

e ben presto frontale contrapposizione con l’ala politicamente intransigente<br />

del sardismo, che rivendicherà la continuità con le idealità<br />

delle battaglie politiche del dopoguerra in una contrapposizione ideologica<br />

e politica intransigente al fascismo autoritario e antidemocratico<br />

e negatore dell’autogoverno dell’isola, e che avrà tra i suoi esponenti<br />

più rappresentativi personalità quali Camillo Bellieni, Emilio Lussu,<br />

Francesco Fancello, Pietro Mastino, che nella lotta contro il fascismo<br />

individueranno la strada della difesa della democrazia, delle idealità di<br />

rinnovamento democratico e di rinascita dell’isola, delle rivendicazioni<br />

regionaliste e autonomiste che di questo rinnovamento erano state<br />

alla base dopo la prima guerra mondiale.<br />

Con la «fusione» si apre una fase della storia sarda del primo dopoguerra<br />

caratterizzata dalla presenza nel fascismo sardo di nuovi<br />

quadri dirigenti provenienti dal sardismo, che si propongono di influire<br />

sulla politica del governo nei confronti dell’isola, secondo la linea<br />

del programma rivendicativo del dopoguerra ( 30 ). Pili, Putzolu e<br />

della Terza Italia, incapace a frenare il moto della decadenza con un sistema di ordinamenti,<br />

le cui forze direttive si accentravano nella sacra trinità del curato, del<br />

carabiniere e dell’esattore delle imposte». S. Satta dunque «esprime nella sua prima<br />

forma poetica la tragedia e le inquietudini di quello scorcio di secolo» e le sue<br />

poesie «sono strettamente legate al clima storico della Sardegna».<br />

( 30 ) Sul ruolo svolto, nel campo socio-economico, in quello culturale e in<br />

quello politico, dagli ex sardisti oltre i lavori di S. SECHI (Dopoguerra e fascismo...,<br />

cit.), L. NIEDDU (Dal combattentismo..., cit.), G. SOTGIU (Storia della Sardegna...,<br />

cit.), L. PISANO (Stampa e società in Sardegna nel primo dopoguerra..., cit.), L. MAR-


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

il gruppo degli ex sardisti confluiti nel fascismo mettono in rilievo i<br />

punti di convergenza tra il programma del movimento degli ex combattenti<br />

e del Partito sardo d’azione con quello del fascismo, in primo<br />

luogo la contestazione dei vecchi partiti e la lotta contro le clientele<br />

e i gruppi di potere, e si pongono l’obiettivo di realizzare un rinnovamento<br />

della politica isolana, combattendo la vecchia classe politica<br />

e creando una nuova classe dirigente formata da ex combattenti<br />

e sardisti, che avrebbe rinnovato il fascismo e realizzato i provvedimenti<br />

necessari alla rinascita economica e sociale della Sardegna.<br />

Scrive Paolo Pili, principale artefice della fusione, ricordando le ragioni<br />

ideologiche e politiche dell’adesione dei sardisti al fascismo:<br />

119<br />

Noi entriamo nel fascismo con piena coscienza; nell’interno del partito lotteremo<br />

per fare ottenere alla Sardegna quelle provvidenze che il Partito sardo<br />

d’azione ha sempre propugnato e siamo sicuri che la nostra voce verrà<br />

ascoltata perché il fascismo dimostra, come noi, di volere la distruzione<br />

delle consorterie, l’elevazione del popolo, la rinascita delle forze economiche<br />

e sociali del paese, la giustizia per tutte le regioni e quindi anche per la<br />

Sardegna ( 31 ).<br />

Secondo i nuovi dirigenti del fascismo la fusione doveva portare a<br />

«sardizzare» il fascismo. Essi si propongono di realizzare i punti programmatici<br />

del combattentismo sardo, del movimento regionalista e<br />

del sardismo, di ereditarne l’obiettivo di rigenerazione culturale, di<br />

lotta contro le vecchie consorterie, di rinnovamento politico e di trasformazione<br />

economico-sociale.<br />

Rinnovamento della politica, difesa degli interessi isolani e collegamento<br />

con le esperienze precedenti del combattentismo vengono<br />

ribaditi nell’articolo programmatico del nuovo giornale del fascismo<br />

sardo, pubblicato a partire dal settembre 1923, «Il Giornale di Sardegna»,<br />

organo della nuova dirigenza sardo-fascista.<br />

ROCU, Il ventennio fascista, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna,<br />

cit., v. F. ATZENI, Politica e cultura nelle riviste del ventennio, cit. e Il sardo-fascismo<br />

fra politica, cultura, economia, cit. Sulle iniziative economico-sociali del sardo-fascismo<br />

v. di L. ORTU, Il «sardofascismo» nelle carte di Paolo Pili. Contributo<br />

per una storia della questione sarda, in «Archivio storico sardo», vol. XXXVI, 1989,<br />

pp. 293-337; di F. MANCONI-G. MELIS, Sardofascismo e cooperazione: il caso della<br />

FEDLAC (1924-1930), in «Archivio sardo del movimento operaio, contadino e<br />

autonomistico», n. 8-10, dicembre 1977, pp. 203-234, e Una esperienza di cooperazione<br />

nella Sardegna fascista, in Il movimento cooperativo nella storia d’Italia<br />

(1854-1975), Feltrinelli, Milano 1979, pp. 555-567.<br />

( 31 ) Cfr. P. PILI, Grande cronaca, minima storia, Cagliari 1946, pp. 165-166.


120<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

I redattori del giornale sostengono che quella iniziata con la fusione<br />

rappresenta un’ora storica per la Sardegna, fino ad allora vissuta «troppo<br />

lontana dalla vita politica nazionale». Era stata la guerra che aveva<br />

«fulminato la disattenzione della classe dirigente italiana» col prodigioso<br />

apparire di questo «popolo silenzioso, eroico e tenace sui campi di<br />

battaglia», e che «con impeto gagliardo», fatto maturo dall’esperienza<br />

della guerra, dopo aver «ritrovato nella trincea lo spirito unitario della<br />

sua volontà regionale, chiedeva imperiosamente la sua parte di diritto<br />

al governo della Nazione». Il combattentismo sardo aveva rappresentato<br />

«la prima vittoria dello spirito di una nuova Italia contro il nittismo<br />

allora imperante, e il primo tentativo della Sardegna di darsi una coscienza<br />

ed una civiltà politica». Quel primo tentativo, sostengono,<br />

«dopo esitanze ed equivoci», è divenuto «realtà in atto nell’azione fascista,<br />

che ha raccolto, in una unica volontà, tutte le forze giovani dell’Isola,<br />

quelle che si erano talvolta smarrite nel tortuoso labirinto degli<br />

astrattismi sterili e le cui apparenti antitesi bastò a colmare ciò che, al<br />

di sopra di ogni dottrina e di ogni errore, ha riunito i giovani d’Italia»<br />

nel movimento fascista. Quel primo tentativo di «dare una coscienza<br />

politica alla regione sarda» può, per i nuovi dirigenti fascisti, «divenire<br />

realtà concreta, quando sui municipi delle due principali città sorelle<br />

dell’isola, già simboli di discordie, sventola il gagliardetto fascista, a significare<br />

che la nostra vita politica, oltre le piccole miserie e le piccole<br />

fazioni, si va inquadrando in una consapevole e organica unità regionale<br />

nel grande quadro della vita politica nazionale» ( 32 ). Cementare<br />

l’ideologia sardista nel fascismo questo l’obiettivo: «il sardismo […] è<br />

un fenomeno intimo in tutti i sardi, un particolare modo di sentire e di<br />

reagire, una impronta indelebile stampata nella stirpe che abita la nostra<br />

terra»; ed è stato il sardismo che ha rappresentato «la prima rivolta<br />

spirituale sarda contro le oligarchie politiche dell’antico regime» ed è su<br />

questo punto che viene individuato il «punto di interferenza fra sardismo<br />

e fascismo»: «l’affermazione di una propria autonomia come partito<br />

distinto ed opposto a tutti gli altri partiti, privi di un contenuto attivo,<br />

il proposito di tutto rifare con nuovi concetti, con nuovi uomini,<br />

concetti e uomini tratti da una nuova etica sociale» ( 33 ). Noi, ricorderà<br />

Paolo Pili in Grande cronaca, minima storia, motivando la sua adesione<br />

e quella degli altri sardisti al fascismo, «entrammo nel fascismo come<br />

massa di manovra» per «condurlo ad appoggiare in Sardegna le nostre<br />

( 32 ) Cfr. L’ora del fascismo sardo, in «Il Giornale di Sardegna», 1 settembre 1923.<br />

( 33 ) Fante di picche, Fascismo sardo, in «Il Giornale di Sardegna», 22 novembre<br />

1923.


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

iniziative rivolte a togliere l’economia sarda dal giogo del monopolismo<br />

e ad ottenere dallo Stato tutti i mezzi necessari per la esecuzione delle<br />

opere utili per il miglioramento generale dell’isola» ( 34 ).<br />

Queste motivazioni politiche e ideologiche che collegano idealmente<br />

combattentismo e sardismo, nel contesto di una visione nazionale<br />

della questione sarda, saranno sostenute anche da periodici come<br />

la «Rivista sarda», che, nata nel dopoguerra con lo scopo di promuovere<br />

il rinnovamento dell’isola, ancora nel 1923 sostiene come proprio<br />

fine quello di esaminare e discutere i principali problemi sardi,<br />

«presentandoli come problemi nazionali», di «accrescere nei giovani il<br />

culto delle patrie memorie e destare un soffio vivificatore di cultura<br />

locale», di promuovere e rilanciare gli studi delle tradizioni popolari,<br />

«che costituiscono il sottosuolo della storia isolana» ( 35 ). Dopo aver<br />

sostenuto la nuova generazione di intellettuali e di politici emersi nell’immediato<br />

dopoguerra ed essersi riconosciuta nel movimento di rivendicazione<br />

regionalista, si avvicinerà progressivamente e poi aderirà<br />

al fascismo, di cui il combattentismo e il sardismo saranno considerati<br />

precursori. La rivista sostiene nel 1923 la fusione tra Partito sardo<br />

d’azione e fascismo, giudicandola «indice di profonda maturità e<br />

di incrollabile fede»; per i suoi redattori essa «vuol significare che la<br />

Sardegna, dissipati gli equivoci che ingenerarono opportunistici confusionismi,<br />

intende precisare i suoi rapporti col Governo, nel quale<br />

riconosce la volontà decisa di affrontare nella sua interezza il problema<br />

sardo» ( 36 ). L’adesione a questo programma è esplicito: «La Rivista<br />

Sarda», sostiene che «non declina dal suo proposito di diventare<br />

una forza agile e viva, la corrente liquida che nutrisca e unisca le migliori<br />

cellule del corpo regionale sardo», e dichiara che «si troverà al<br />

primo posto di combattimento e seguirà quanto più attentamente<br />

possibile il movimento industriale, culturale ed economico dell’Isola»,<br />

rilevando che occorre «creare il Fascio sardo dei nostri interessi consacrato<br />

dal crisma della nostra Italianità» ( 37 ).<br />

Un periodico che esprime pienamente l’orientamento culturale di<br />

molti intellettuali che aderiscono al fascismo, ma nei quali sono ancora<br />

largamente presenti i temi che erano stati al centro della battaglia<br />

regionalista e sardista e che avevano caratterizzato il dibattito<br />

politico-ideologico del primo dopoguerra, è il settimanale «Batta-<br />

( 34 ) Cfr. P. PILI, Grande cronaca, minima storia..., cit., p. 6.<br />

( 35 ) «Rivista sarda», n. 1, luglio 1923.<br />

( 36 ) Ibidem.<br />

( 37 ) «Rivista sarda», n. 5, dicembre 1923-gennaio 1924.<br />

121


122<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

glia» (luglio 1924-febbraio 1925). È emblematico che la testata del<br />

giornale si fregi da un lato del fascio e dall’altro dello stemma dei<br />

quattro mori, simbolo del movimento regionalista e sardista. Si legge<br />

nell’articolo di presentazione ( 38 ):<br />

Siamo tutti combattenti giunti al fascismo – come etica e come partito politico<br />

– su vie diverse, da origini ben distinte. Ma l’origine non conta, poiché<br />

l’ora presente ci trova uniti saldamente dall’orgoglio di appartenere ad un<br />

partito che, sia pure attraverso errori, ha potuto salvare l’Italia dalla inettitudine<br />

di una vecchia classe dirigente e dalla instaurazione di reggimenti non<br />

consentanei alla psicologia ed alle necessità degli italiani [...]. Siamo gli ortodossi<br />

del fascismo [...]. Crediamo nella necessità di cementare l’unione sacra<br />

dei combattenti di Sardegna e ad essa mireremo [...]. Su di noi influirà sopra<br />

tutto il nostro pensiero che non è avulso dalla realtà, ma anzi la rivive sensualmente,<br />

appassionatamente, realisticamente. Per ottenere che cosa? La<br />

meta è precisa e raggiungibile. Vogliamo una Sardegna grande quanto può esserlo<br />

in una Italia che abbia raggiunto la sua possibile grandezza: gli uomini<br />

singoli devono dare alle collettività quanto di meglio essi sanno esprimere.<br />

Perciò i gagliardetti della nostra battaglia correranno tutti i campi... [per]<br />

giungere dove mirano i propositi di rigenerazione della nostra piccola Patria<br />

[...]. Ci proponiamo anche di risvegliare e possibilmente organizzare, con seria<br />

e non pedantesca disciplina, ogni manifestazione artistica, letteraria, sociale<br />

in genere. Creare e condurre cioè un movimento umanistico sardo,<br />

base principale sulla quale ogni possibilità ricostruttrice morale e materiale<br />

deve necessariamente poggiare.<br />

«Battaglia» esprime totale adesione al fascismo, ma nel contempo<br />

i suoi collaboratori collocano tra i punti più qualificanti del programma<br />

del giornale l’esame del «problema sardo», che, sostengono,<br />

può trovare soluzione nell’ambito del fascismo e attraverso una presa<br />

di coscienza da parte dei sardi delle loro potenzialità e della propria<br />

forza. Si legge in «Battaglia» ( 39 ):<br />

Per noi il problema sardo è, ad un tempo, spirituale ed economico, non<br />

soltanto l’uno o l’altro. È un problema di forza. Abbiamo dichiarata la nostra<br />

ortodossia rispetto al fascismo: un atto di fede espresso insieme dallo<br />

spirito e dal raziocinio, dalla convinzione che il fascismo non solo non sia<br />

un ostacolo alle fortune della Sardegna, ma che anzi il problema sardo pos-<br />

( 38 ) Presentazione, in «Battaglia», n. 1, 7 luglio 1924.<br />

( 39 ) Preparazione, in «Battaglia», n. 5, 4 agosto 1924.


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

123<br />

sa essere risolto fascisticamente. Dalla convinzione cioè – perfettamente<br />

maturata – che la dottrina e la pratica del fascismo non richiedano affatto<br />

alcuna rinunzia a noi sardi, che la seguiamo e la pratichiamo, come sardi;<br />

come uomini che rappresentano una qualsiasi parte della nazione nei problemi<br />

nazionali, che rappresentano – invece – una parte ben definita e caratteristica<br />

della nazione nei problemi nazionali. Nulla di contraddittorio<br />

in ciò, rispetto al fascismo: nessuna rinunzia rispetto al sardismo come movimento<br />

di giusta valutazione di noi stessi, e soltanto come tale.<br />

Diretto prima da Evaristo Canu e poi da Raffaele Contu, a «Battaglia»<br />

collaborano Ernesto Concas, Vitale Cao, Enrico Endrich, Filippo<br />

Figari, Mario Fornaciari, Salvatore Manconi, Sebastiano Deledda<br />

( 40 ) ed esponenti che avevano aderito al fascismo dopo la loro<br />

militanza nel combattentismo e nel sardismo.<br />

Agli inizi del 1925 compare una nuova serie de «La Regione» ( 41 ),<br />

diretta da Sebastiano Deledda e Raffaele Di Tucci, che intende riprendere<br />

il programma di valorizzazione della cultura, delle tradizioni<br />

letterarie e della storia isolane, che era stato alla base della prima<br />

serie della rivista.<br />

Il primo numero contiene un ampio saggio del Deledda sulla questione<br />

sarda ( 42 ), nel quale viene effettuata una rapida rassegna di politici<br />

e pensatori dell’800 che avevano affrontato il «problema sardo»<br />

(Domenico Alberto Azuni, Alberto La Marmora, il Baudi Di Vesme,<br />

Carlo Cattaneo, Mazzini, Cavour, Giovanni Siotto Pintor, Giorgio<br />

( 40 ) Nato come periodico politico, «Battaglia» assume anche una certa funzione<br />

di rivista culturale, ospitando vari articoli di storia, arte, critica letteraria, recensioni,<br />

segnalazioni bibliografiche, avvalendosi della collaborazione di Raffaele<br />

Di Tucci, Antonio Taramelli, Antonio Boi, oltre che di Ernesto Concas e di Sebastiano<br />

Deledda. Su «Battaglia» Deledda pubblicò un articolo su Giovanni Maria<br />

Dettori, una nota bio-bibliografica su Domenico Alberto Azuni e un articolo critico-bibliografico<br />

su Sebastiano Satta, che è di un certo interesse, perché Deledda vi<br />

riprende un tema, quello della difesa della validità dell’opera sattiana come espressione<br />

di «sardità», di «regionalismo», cara al Deledda. Cfr. S. DELEDDA, Sattiana,<br />

in «Battaglia», 11 agosto 1924. Viene pubblicato anche un lungo saggio del Deledda<br />

sulla questione sarda tratto dalla nuova serie de «La Regione». Cfr. S. DE-<br />

LEDDA, Il problema sardo, ibidem, 23 febbraio 1925.<br />

( 41 ) Della nuova serie uscirono solo alcuni numeri, dal gennaio all’aprile 1925.<br />

Tra i collaboratori della seconda serie, accanto a quelli della prima serie, figurano:<br />

Filippo Addis, Filippo Asquer, Guido Bustico, Umberto Cao, Francesco Ciusa,<br />

Pietro Maria Cossu, Antonio Falchi, Francesco Loriga, Giosuè Maliandi, Ferdinando<br />

Martini, Sebastiano Pola.<br />

( 42 ) Cfr. S. DELEDDA, La questione sarda, in «La Regione», n. 1, gennaio-febbraio<br />

1925, pp. 48-52.


124<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

Asproni, Giovanni Battista Tuveri, Floriano Del Zio). Secondo Deledda<br />

è al Del Zio, lucano, insegnante nel 1862 di filosofia razionale<br />

nel Liceo S. Teresa di Cagliari, che deve essere attribuito il merito<br />

«di aver inserito la vita spirituale della Sardegna nella circolazione del<br />

pensiero italiano, nell’orbita, cioè, di quelle nuove idee che a Napoli si<br />

erano aquetate nella speculazione filosofica degli hegeliani» ( 43 ) e di<br />

aver indicato che la vera natura del problema sardo non era «solo<br />

problema di vita economica, ma, sopra tutto, di vita morale». Il problema,<br />

sostiene Deledda, va ripresentato come tale, «superando il solito<br />

cliché che, quasi per abbellire l’estetica dell’ambiente, s’è costituito<br />

negli ultimi decenni di stracca vita politica isolana».<br />

Non si vuole qui negare – precisa – l’influenza dei fattori economici nello<br />

svolgimento storico del popolo sardo. Ma, d’altra parte, chi nell’esame di<br />

una questione complessa, com’è la questione sarda, s’attarda dietro orme<br />

della tradizione, compie per lo meno, un’opera innegabilmente e fatalmente<br />

nociva ed irreale, perché non segue l’evoluzione di quegli elementi storici,<br />

che sono a base di ogni ragionevole progresso.<br />

Se il problema della rinascita sarda era stato in precedenza inteso<br />

come opere pubbliche e di interventi infrastrutturali nelle campagne,<br />

nel settore viario e di sistemazione idraulica, questi erano stati<br />

in parte realizzati, ma il problema sardo era rimasto «sempre imponente<br />

ed assillante», perché doveva essere impostato diversamente,<br />

«cioè come problema spirituale». Secondo Deledda «la Sardegna<br />

come Regione storicamente definita, come elemento costitutivo della<br />

vita nazionale, non è un concetto puramente naturalistico, cioè<br />

fatto naturale, antropologico e etnografico, ma è una magnifica realtà<br />

spirituale, una realtà storica».<br />

«Le Regione» ospita oltre vari articoli del Deledda ( 44 ), scritti di<br />

critica letteraria di Luigi Falchi, di storia di Raffaele Di Tucci e di<br />

( 43 ) La figura del Del Zio ed il ruolo da lui svolto nell’ambiente culturale sardo<br />

della metà dell’Ottocento erano stati, alcuni anni prima, studiati e messi in rilievo<br />

da Gioele Solari, del quale cfr. Floriano Del Zio a Cagliari (1862-65) e l’introduzione<br />

dell’hegelismo in Sardegna, in «Archivio storico sardo», vol. XIII, 1921.<br />

Sulla figura del Solari e sul ruolo da lui svolto nel campo degli studi nell’isola agli<br />

inizi del Novecento v. di A. CONTU, Questione sarda e filosofia del diritto in Gioele<br />

Solari, Giappichelli, Torino 1993.<br />

( 44 ) Nel numero del marzo-aprile 1925, in una nota da attribuirsi con molta<br />

probabilità allo stesso Deledda, viene affrontata, da un punto di vista regionalistico,<br />

la riforma scolastica Gentile, che, vi si legge, «segna la prima e più notevole affermazione<br />

regionalistica nel campo della coltura e della scuola italiana, perché ha


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

Mario Canepa, novelle, poesie, mentre Umberto Cao, che dopo la<br />

sua adesione al fascismo, nel 1924, mirerà ad operare una saldatura<br />

culturale tra sardismo e fascismo, vi pubblica l’articolo La significazione<br />

storica del fascismo in Sardegna ( 45 ).<br />

Umberto Cao, esponente di primo piano del mondo culturale e<br />

politico sardo del periodo, è una figura emblematica di intellettuale<br />

e politico che attraverso l’esperienza autonomistica e sardista approda<br />

al fascismo ( 46 ). Era stato suo l’opuscolo del maggio 1918, Per<br />

l’autonomia, che aveva segnato il rilancio del dibattito autonomistico.<br />

Ad esso il Cao dà un importante contributo nel dopoguerra diventando<br />

un esponente di punta del movimento regionalista e autonomista.<br />

Fin dalla sua costituzione (aprile 1921) è uno dei maggiori<br />

leader e ideologo del Partito sardo d’azione. Nel 1921 viene eletto<br />

deputato (con Pietro Mastino, Paolo Orano e Emilio Lussu) nelle liste<br />

del Partito sardo d’azione e nella vita parlamentare e politica si<br />

distingue per le battaglie a favore dell’isola, della democrazia e dell’autonomismo.<br />

Candidato con Emilio Lussu, Pietro Mastino e Camillo<br />

Bellieni nella lista sardista per le elezioni del 1924 (nelle quali<br />

saranno eletti Lussu e Mastino), Cao farà successivamente atto di<br />

adesione al fascismo nel novembre 1924, dopo la promulgazione<br />

della legge del «miliardo», che considererà «un atto di giustizia storica<br />

per la Sardegna», in grado di permettere dieci anni di «febbrile la-<br />

125<br />

armonizzato la scuola con la vita regionale, trasformando, secondo le varie necessità<br />

ed esigenze storiche, tutta quella legislazione scolastica che aveva reso gl’istituti<br />

d’istruzione uniformi, indifferenziati, aregionali, livellatori e costrutti a serie quasi<br />

per meccanica regolamentazione. Essa ha permesso la organizzazione autonoma<br />

delle istituzioni di coltura; ha creato i provveditorati regionali; ha introdotto tra le<br />

materie di insegnamento il dialetto; ha prescritto lo studio della storia e della geografia<br />

regionale; ha valorizzato, insomma, tutti quegli elementi culturali (tradizioni<br />

artistiche, folkloristiche, agiografiche etc.) che sono l’humus da cui un popolo<br />

trae le forme e l’essenza del proprio vivere». Cfr. Problemi di cultura. Aspetti regionalistici<br />

della riforma Gentile, in «La Regione», n. 2, marzo-aprile 1925, pp. 49-51.<br />

( 45 ) U. CAO, La significazione storica del fascismo in Sardegna, in «La Regione»,<br />

n. 3-4, maggio-agosto 1925.<br />

( 46 ) Umberto Cao (Cagliari, 1871-1959) fu, nell’età giolittiana, il leader della<br />

corrente democratico radicale cagliaritana. Docente di Diritto penale presso<br />

l’Università di Cagliari, svolse un’intensissima attività di giornalista e di pubblicista<br />

a partire dagli inizi del ’900: a Cagliari diresse il quotidiano «Il Paese» (1905-<br />

1907), che fu il principale foglio di opposizione antiliberale della città di quegli<br />

anni. Sulla sua attività giornalistica v. L. PISANO, Stampa e società in Sardegna dall’Unità<br />

all’età giolittiana, Guanda, Milano 1977; F. ATZENI, I repubblicani in Sardegna.<br />

Dalla fondazione del PRI alla grande guerra, prefazione di G. Spadolini, Ed.<br />

Archivio Trimestrale, Roma 1988.


126<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

voro di rinnovamento e di ricostruzione» e l’avvio di un’intensa opera<br />

di profonda trasformazione e di modernizzazione dell’isola ( 47 ). In<br />

seguito collaborerà assiduamente al «Giornale di Sardegna» e all’«Unione<br />

sarda» e parteciperà alla vita culturale e degli organi dirigenti<br />

del fascismo in provincia di Cagliari.<br />

Nella vita culturale degli anni venti e trenta un altro intellettuale<br />

che svolge un importante ruolo sia come studioso, sia come organizzatore<br />

di cultura è Raimondo Carta Raspi ( 48 ). Rientrato in Sardegna<br />

nell’autunno del 1922, dopo aver lasciato l’incarico di redattore<br />

del «Nuovo giornale» di Firenze, e stabilitosi a Cagliari, esponente di<br />

primo piano di quel «sardismo culturale» che è tratto caratteristico<br />

di molti intellettuali del periodo, di diversa formazione ideologica e<br />

militanza politica, Carta Raspi (che politicamente è vicino al Partito<br />

sardo d’azione) si impegna per realizzare un grande progetto culturale<br />

ed editoriale con la creazione della fondazione «Il Nuraghe», che<br />

comprendeva la rivista omonima, una libreria, una biblioteca circolante,<br />

una bottega d’arte e una casa editrice. Sia la rivista «Il Nuraghe»,<br />

sia la casa editrice e le altre iniziative si pongono l’obiettivo di<br />

favorire l’incremento dell’istruzione popolare, la diffusione della cultura<br />

e la valorizzazione della tradizione storica e letteraria sarda, dando<br />

spazio e rilievo agli autori sardi ed alle principali espressioni della<br />

cultura isolana. L’iniziativa acquisterà una rilevanza indubbia nel<br />

quadro della cultura sarda del periodo e riuscirà a dare un importante<br />

contributo nel campo degli studi storici e letterari ( 49 ).<br />

La rivista «Il Nuraghe», che si pubblica dal febbraio 1923, cioè<br />

nel momento in cui si realizza la fusione tra sardisti e fascismo, si<br />

differenzia dalle riviste coeve sia per la durata (sette anni, fino al<br />

gennaio 1930), sia per il carattere esclusivamente letterario e culturale,<br />

sia per l’ampiezza delle tematiche e degli interessi. Le caratteri-<br />

( 47 ) Cfr. «Il Giornale di Sardegna», 8 novembre 1924.<br />

( 48 ) Nato a Oristano nel 1893, nel 1920 a Firenze consegue la laurea in Scienze<br />

sociali; morì ad Oristano nel 1965.<br />

( 49 ) Cfr. F. ATZENI, Politica e cultura nelle riviste del ventennio, cit.; G. CONTU,<br />

L’opera di Raimondo Carta Raspi negli anni del sardofascismo, in Il sardo-fascismo<br />

fra politica, cultura, economia, cit., pp. 217-226; ID., Raimondo Carta Raspi e gli<br />

anni difficili del primo «Nuraghe», in «Quaderni bolotanesi», n. 26, 2000, pp.13-31;<br />

M.D. PICCIAU, Le radici perdute. Cultura artistica e identità nella rivista «Il Nuraghe»<br />

(1923-1929), ibidem, n. 22, 1996, pp. 123-148; T. OLIVARI, Iniziative editoriali in<br />

Sardegna tra «sardismo» e «sardo-fascismo», in A. GIGLI MARCHETTI e L. FINOCCHI (a<br />

cura di), Stampa e piccola editoria tra le due guerre, Franco Angeli, Milano 1997,<br />

pp. 313-336; G. PIRODDA, L’attività letteraria tra Otto e Novecento, in Storia d’Italia.<br />

Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, cit., pp. 1102-1108.


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

stiche iniziali di rivista prevalentemente letteraria, mantenute inalterate<br />

per tutto l’arco della sua pubblicazione, fanno del «Nuraghe» un<br />

punto di riferimento per intellettuali antifascisti o afascisti e, più in<br />

generale, per autori e artisti sardi, che danno al loro lavoro intellettuale<br />

un indirizzo prevalentemente culturale. Questo carattere sia della rivista,<br />

sia delle altre iniziative del Carta Raspi fa sì che alla rivista e alla<br />

casa editrice collaborino alcuni noti esponenti dell’antifascismo sardo,<br />

come Gonario Pinna, Michele Saba, Camillo Bellieni (principale<br />

ideologo del sardismo) ( 50 ), Egidio Pilia (esponente di spicco del movimento<br />

autonomistico e ideologo del Partito sardo d’azione, passato<br />

nel 1923 al fascismo, da cui in seguito si allontanerà) ( 51 ), ma anche<br />

altri esponenti della vita culturale sarda, dei quali molti collaboreranno<br />

anche alle iniziative culturali fasciste, ed in particolare alla rivista<br />

«Mediterranea», come Ettore Pais, Paolo Orano, Dionigi Scano, Damiano<br />

Filia, Antonio Scano, Agostino Saba, Salvator Ruju, Luigi<br />

Caocci, Carlo Aru, l’archeologo Antonio Taramelli, critici come Liborio<br />

Azzolina e Luigi Falchi, pubblicisti come Pasquale Marica e<br />

Giuseppe Musio, noti autori sardi come Pietro Casu, Filiberto Farci,<br />

Filippo Addis, Giovanni Antonio Mura, Stefano Susini, poeti dialettali<br />

come Antioco Casula (Montanaru), Gavino Pes, Pietro Cherchi,<br />

Gavino Leo, Giuseppe Mereu, Paolo Mossa e altri.<br />

L’intensa attività di studioso e di organizzatore di cultura svolta<br />

dal Carta Raspi si inserisce, in una prospettiva culturale «sardista»,<br />

all’interno di quel vasto movimento di recupero dell’identità della<br />

Sardegna, ricco di valenze culturali e politiche, che si prefigge lo scopo<br />

di rilanciare la cultura sarda e di esaltare i momenti e le figure<br />

più significative della storia isolana. La casa editrice stampa opere di<br />

importanti storici ( 52 ), di autori di teatro dialettale, di poeti, roman-<br />

127<br />

( 50 ) C. BELLIENI, Emilio Lussu, Il Nuraghe, Cagliari 1924; Attilio Deffenu e il<br />

socialismo in Sardegna, Il Nuraghe, Cagliari 1925; La Sardegna e i sardi nella civiltà<br />

del mondo antico, Il Nuraghe, Cagliari, vol. I, 1928, vol. II, 1931; Eleonora d’Arborea,<br />

Cagliari, Il Nuraghe, 1929.<br />

( 51 ) Del Pilia furono pubblicati uno studio su Gian Francesco Fara e le origini<br />

della storiografia sarda, un altro dedicato al dibattito politico-ideologico nell’età risorgimentale,<br />

La dottrina della sovranità nella polemica Gioberti-Tuveri (Cagliari<br />

1924), un profilo di Gian Paolo Marat (Cagliari, 1924), un ampio lavoro sulla letteratura<br />

sarda, La letteratura narrativa in Sardegna. Il romanzo e la novella (Cagliari<br />

1926) e uno studio su Lucifero di Cagliari e la filosofia medioevale (Cagliari 1929).<br />

( 52 ) Nel 1923-25 furono ripubblicati dalla Casa editrice Il Nuraghe due fondamentali<br />

opere della storia sarda, nate nel clima di risveglio culturale della prima<br />

metà dell’Ottocento, la Storia di Sardegna (Torino 1825-1827) del barone Giuseppe<br />

Manno, in cinque volumi, e il Compendio di storia di Sardegna (Cagliari


128<br />

FRANCESCO ATZENI<br />

zieri, biografie di noti uomini politici e di cultura, lavori sulla storia<br />

dell’arte e sulle tradizioni popolari. Un preciso impegno culturale regionalista<br />

si coglie nel rilievo dato sia sulla rivista, sia dalla casa editrice<br />

alle varie espressioni letterarie ed alla poesia sarda ed, in particolare,<br />

a Sebastiano Satta, il poeta della «sardità», il cantore della<br />

Sardegna ( 53 ). Vengono pubblicati romanzi storici di autori sardi dell’Ottocento<br />

( 54 ), nel 1928 la traduzione della fondamentale opera di<br />

Max Leopold Wagner, La vita rustica in Sardegna rispecchiata nella<br />

sua lingua (pubblicata in Germania nel 1921), libri di viaggiatori<br />

dell’Ottocento ( 55 ). Lo stesso Carta Raspi, autore di alcune opere di<br />

ricerca storica ( 56 ), è con Camillo Bellieni, uno degli autori che con<br />

coerenza culturale collega la tradizione del «sardismo culturale» col<br />

«sardismo politico» del primo dopoguerra.<br />

Mentre «Il Nuraghe» e le iniziative editoriali collegate, come le<br />

altre iniziative del Carta Raspi, si muovono in una prospettiva culturale<br />

«sardista», anche con una precisa valenza politica, non fascista, a<br />

metà degli anni venti vari intellettuali, in primo piano Sebastiano<br />

1855) di Pietro Martini; vennero inoltre ripubblicati i notissimi articoli di Giuseppe<br />

Mazzini La Sardegna, scritti nel 1861, e l’inno Su patriotu sardu a sos feudatarios,<br />

l’inno delle rivolta antifeudale della fine del Settecento, di Francesco Ignazio<br />

Mannu.<br />

( 53 ) Del Satta nel 1923 furono pubblicati i Canti barbaricini, nel 1924 i Canti<br />

del salto e della tanca, nel 1925 Versi ribelli - Primo maggio, con prefazione di Vincenzo<br />

Soro, che nel 1926 pubblicava un profilo del poeta nuorese, Sebastiano Satta.<br />

L’uomo, l’opera (Il Nuraghe, Cagliari 1926); al Satta inoltre, nel 1924, nel decimo<br />

anniversario della morte, fu dedicato un numero speciale de «Il Nuraghe».<br />

( 54 ) Tra il 1924 e il 1928 uscirono tre romanzi storici di autori sardi dell’Ottocento,<br />

Leonardo Alagon di Pietro Carboni, La bella di Cabras di Enrico Costa e<br />

Casa Corniola di Ottone Bacaredda.<br />

( 55 ) Tra il 1926 e il 1928 comparve la traduzione completa, in quattro volumi,<br />

ad opera di Valentino Martelli, del Viaggio in Sardegna di Alberto La Marmora;<br />

nel 1930-31, nella collana «Alla scoperta della Sardegna. Collezione di viaggi», furono<br />

ripubblicati alcuni libri di viaggiatori dell’Ottocento: G. VUILLIER, Le isole<br />

dimenticate. La Sardegna (Cagliari 1930), di E. DOMENECH, Pastori e banditi (Cagliari<br />

1930) e di A.C. PASQUIN VALERY, Viaggio in Sardegna (Cagliari 1931), tradotti<br />

e commentati dallo stesso Carta Raspi.<br />

( 56 ) Tra il 1933 e il 1938 uscirono vari volumi storici: Castelli medioevali di<br />

Sardegna (Cagliari 1933), Mariano IV Conte del Goceano. Visconte di Bas. Giudice<br />

d’Arborea (Cagliari 1934), La Sardegna nell’Alto Medioevo (Cagliari 1935), Ugone<br />

III d’Arborea e le due ambasciate di Luigi I d’Anjou (Cagliari 1936). Pubblicò inoltre,<br />

nel 1937, con ampie introduzioni, il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado<br />

e il Condaghe di San Nicola di Trullas. Del 1938-40 sono Le classi sociali nella<br />

Sardegna medioevale e L’economia della Sardegna medioevale. Scambi e prezzi.


Tra sardismo e fascismo. Intellettuali, politica e cultura nella crisi dello Stato liberale<br />

Deledda, che collaborano alle riviste fasciste e che poi daranno vita<br />

alla più importante realizzazione fascista nel campo culturale, la rivista<br />

«Mediterranea» (1927-1935), si porranno l’obiettivo di realizzare<br />

un’operazione politico-culturale di saldatura del sardismo col fascismo.<br />

«Mediterranea», in particolare, in sintonia con l’istituto di cui<br />

fu organo, l’Ente di cultura e di educazione della Sardegna, che dal<br />

1926 opererà nel campo dell’organizzazione della cultura in concorrenza<br />

con la Fondazione Il Nuraghe del Carta Raspi, si porrà l’obiettivo<br />

di recuperare, valorizzare, divulgare le tradizioni culturali sarde,<br />

sostenere e favorire gli studi storici e letterari, costituire un punto di<br />

riferimento per gli autori e gli artisti sardi, secondo una chiave di<br />

lettura che considera la cultura regionale parte essenziale e integrante<br />

di un’unitaria cultura nazionale; nella rivista vengono così riproposte<br />

linee interpretative maturate precedentemente, e in particolare<br />

nel clima di rilancio del dibattito culturale e politico del dopoguerra,<br />

e si esprime un intenso lavoro culturale, anche di alto livello, di<br />

ricerca e di divulgazione culturale ( 57 ). «Mediterranea» cioè, che si<br />

pubblica in pieno regime e sotto l’egida delle autorità fasciste, e in<br />

particolare del suo principale esponente, il deputato Antonio Putzolu,<br />

che ne è promotore e direttore, rappresenta emblematicamente<br />

una tappa nell’evoluzione culturale di molti intellettuali, che si sono<br />

riconosciuti in quel regionalismo e «sardismo culturale» che ha caratterizzato<br />

la linea culturale di recupero e di salvaguardia della storia<br />

e della cultura tradizionale sarda, che si è sviluppata tra ’800 e<br />

’900 e nel dopoguerra, ma che ora intendono integrare questa linea<br />

culturale nel fascismo, inserendola nel contesto di una adesione totale<br />

alla politica culturale, interna ed estera del regime, anche nei suoi<br />

rapporti con le altre espressioni di vita culturale, ma insistendo quasi<br />

esclusivamente su un discorso di regionalismo e «sardismo culturale»,<br />

senza più valorizzarne le valenze politiche, che invece erano state<br />

parte integrante del dibattito del dopoguerra e che si erano poi compiutamente<br />

espresse nel «sardismo politico».<br />

( 57 ) Su «Mediterranea» cfr. F. ATZENI, Politica e cultura nelle riviste del ventennio,<br />

cit.<br />

129


SUSANNA SITZIA<br />

NIETZSCHE E L’ORFISMO<br />

NELLA POETICA <strong>DI</strong> <strong>DI</strong>NO CAMPANA<br />

SOMMARIO: 1. Figure della Malinconia. – 2. Le donne e la lontananza. – 3. “Mediterraneizzare<br />

la musica”. – 4. Apollo e Dioniso. – 5. La maschera. – 6. Dioniso<br />

Zagreo.<br />

Intorno al titolo del canzoniere di Campana, Canti Orfici ( 1 ), e<br />

specialmente riguardo all’aggettivo, cifra enigmatica del libro, si è<br />

originato un dibattito critico ancora acceso. Accostabile a quello<br />

simbolista ma nuovo nelle componenti cubiste ed espressioniste e<br />

per il sostrato filosofico nietzschiano che lo sostanzia, l’orfismo della<br />

poetica campaniana è rimasto finora “oscuro sul piano dei contenuti<br />

profondi” ( 2 ), mentre permangono interrogativi sui presupposti e le<br />

intenzioni di una “determinazione culturale” ( 3 ) esplicita sì, ma anche<br />

sfuggente e vaga per i molteplici richiami sottesi al più manifesto:<br />

il mito greco di Orfeo. “Orfico” letteralmente significa infatti<br />

“che è proprio di Orfeo, avente relazione con Orfeo”, e Canti Orfici<br />

vale per “i canti di Orfeo”, prima delle molte assimilazioni dell’io lirico<br />

con figure archetipiche e della mitologia sia classica che moderna.<br />

Il termine indica per estensione una “concezione dell’arte e, in<br />

particolare, della poesia intesa come atto totalmente e magicamente<br />

creativo, che, attraverso la parola portata a un’assoluta purezza lirica,<br />

fonda al tempo stesso e ordina la realtà esterna, le cose, esclusiva-<br />

( 1 )D. CAMPANA, Canti Orfici, Tipografia Ravagli, Marradi 1914.<br />

( 2 )M. DEL SERRA, Sacrificio e conoscenza: elementi di simbologia nei “Canti Orfici”,<br />

in Dino Campana nel Novecento. Il progetto e l’opera, a cura di F. Bernardini<br />

Napoletano, Officina Edizioni, Roma 1992, p. 39.<br />

( 3 )G. BONALUMI, Cultura e poesia di Campana, Vallecchi, Firenze 1953, p. 80.


132<br />

SUSANNA SITZIA<br />

mente in base all’esperienza spirituale del poeta” ( 4 ), e oltre a evocare<br />

il valore metamorfizzante del canto di Orfeo, poeta-scriba che organizza<br />

in una visione sonora, quella della parola lirica, l’esperienza<br />

mistica della creazione poetica, colloca il canzoniere nel filone orfico<br />

della poesia europea. Erano stati i poeti della stagione romantica a<br />

riscoprire la concezione della creazione poetica come compenetrazione<br />

dell’uomo con il mondo sensibile e sovrasensibile espressa dalla<br />

cultura greca nel personaggio di Orfeo, che i simbolisti predilessero<br />

poi come figura del lirico che perviene a una consapevolezza intuitiva<br />

del mondo grazie alle qualità incantatorie e divinatorie della<br />

poesia. Avvicinano il canzoniere alle poetiche simboliste le tematiche<br />

dell’evasione e del viaggio, dell’esperienza onirica e visionaria,<br />

della contrapposizione tra civiltà e naturalità, e con più evidenza la<br />

combinazione di liriche e poèmes en prose per cui Contini teorizzando<br />

la tendenza visiva della poesia campaniana registrava l’intenzione<br />

del poeta di porre se stesso come un Rimbaud italiano ( 5 ). Alcune tematiche<br />

trovano corrispondenza nelle storie mitologiche su Orfeo: la<br />

consonanza col mondo naturale, il motivo del viaggio, la ricerca dell’amata<br />

perduta e il tema della morte per smembramento, ovvero tutti<br />

i temi dei principali miti greci concernenti il cantore leggendario sono<br />

rintracciabili nei Canti, dove si afferma la sacralità “naturale” della<br />

melodia, e la sua origine negli elementi: nel “canto dell’acqua” ( 6 ), nelle<br />

“melodie della terra” ( 7 ), il poeta rileva “le risonanze del tutto”:<br />

“noi nel più semplice suono, nella più semplice armonia possiamo<br />

udire le risonanze del tutto (...) perché nella voce dell’elemento noi<br />

udiamo tutto” ( 8 ); affermazione rivelatrice anche della “totalità conoscitiva<br />

alla quale l’intensità di visione trascina Campana” ( 9 ). Si è<br />

( 4 ) Grande Dizionario della lingua italiana, Salvatore Battaglia (dopo la morte di<br />

Battaglia direzione scientifica di Giorgio Barberi Squarotti), UTET, Torino 1984.<br />

( 5 )G. CONTINI, Dino Campana, “Letteratura”, I, 1937, 4, poi in G. CONTINI,<br />

Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei,<br />

Felice Le Monnier, Firenze 1947, p. 18.<br />

( 6 )D. CAMPANA, Canti Orfici, edizione critica a cura di G. Grillo, Vallecchi,<br />

Firenze 1990 (da qui Canti Orfici), La Verna, II, Presso Campigno (26 settembre),<br />

p. 119.<br />

( 7 ) Canti Orfici, Immagini del viaggio e della montagna, p. 131.<br />

( 8 ) Storie, II, in Taccuini, abbozzi e carte varie, II, in D. CAMPANA, Opere e contributi,<br />

a cura di E. Falqui, pref. di M. Luzi, note di D. De Robertis e S. Ramat,<br />

carteggio a cura di N. Gallo, Vallecchi, Firenze 1973, p. 445.<br />

( 9 )S. RAMAT, Note a Taccuini, abbozzi e carte varie, in Opere e contributi, cit.,<br />

p. 464.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

detto che nella sua poesia il viaggio si presenta come “la forma suprema<br />

della conoscenza sensoriale e della esperienza umana” ( 10 ), che<br />

“nell’idea del viaggio” risiederebbe “il senso dell’orfismo di Campana”<br />

( 11 ); sarebbe un viaggio orfico perché avrebbe il valore di viaggio<br />

verso l’inconnu, con quel senso di ricerca “oltre i limiti dell’umano”<br />

che nel mito di Orfeo è rappresentato dalla navigazione verso la Colchide<br />

come dalla katabasis e dallo sguardo a Euridice, storie mitiche<br />

che tramandano la concezione greca della lirica come travalicazione<br />

del limite, sguardo all’insondabile.<br />

Insomma, rapportandosi a Orfeo Campana ha precisato l’aspetto<br />

conoscitivo della sua ricerca di poeta “errante dietro le larve del mistero”<br />

come ritrae se stesso ne La Notte ( 12 ). Infatti il canzoniere ha<br />

una “mobilità” costitutiva tipicamente moderna: come ha osservato<br />

Sanguineti “non è questione solo di una tematica contenutistica, di<br />

viaggi, di ritorni, di promenade ecc. di cui è piena la scrittura campaniana<br />

e con addensamento nella costruzione dell’opera: è che la<br />

scrittura assume questo andamento, si fa errabonda la sintassi, è la<br />

forma dell’erranza, dell’instabilità che organizza il discorso” ( 13 ). La<br />

nascita della poesia è rappresentata nei Canti Orfici come inseguimento<br />

e tensione amorosa, la poesia venendo ad identificarsi con una figura<br />

femminile mutevole e sfuggente, che appare, come in Giardino autunnale:<br />

“In aroma d’alloro acre languente, / Tra le statue immortali<br />

nel tramonto / Ella m’appar, presente” ( 14 ), e poi scompare e muore,<br />

come la sposa di Orfeo: “Il cuore stasera mi disse: non sai? / (...) colei<br />

che di grazia imperiale / Incantava la rosea / Freschezza dei mattini: /<br />

E tu seguivi nell’aria / La fresca incarnazione di un mattutino sogno: /<br />

(...) Certo è morta: non sai? / Era la notte / Di fiera della perfida Babele<br />

/ Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma<br />

/ (…) E me ne andavo errando senz’amore / (…) Con Lei che non<br />

è nata eppure è morta / E mi ha lasciato il cuore senz’amore” ( 15 ).<br />

133<br />

( 10 )A. ASOR ROSA, “Canti Orfici” di Dino Campana, in Letteratura italiana Einaudi,<br />

Le Opere, vol. IV. I, a cura di A. Asor Rosa, Einaudi, Torino 1995, su CDrom,<br />

p. 49.<br />

( 11 ) F. BAN<strong>DI</strong>NI, Note sulla lingua poetica di Dino Campana, in Dino Campana<br />

alla fine del secolo, a cura di A.R. Gentilini, Il Mulino, Bologna 1999, p. 49.<br />

( 12 ) Canti Orfici, La Notte, I, p. 28.<br />

( 13 )E. SANGUINETI, Testimonianza di un lettore, in Dino Campana alla fine del<br />

secolo, cit., pp. 57-58.<br />

( 14 ) Canti Orfici, Giardino autunnale (Firenze), p. 57.<br />

( 15 ) Canti Orfici, La sera di fiera, p. 80.


134<br />

SUSANNA SITZIA<br />

La derivazione dell’aggettivo “orfico”, dal latino orphicu(m), dal<br />

greco orphikós, mette in luce nel titolo del libro quel motivo della<br />

perdita che è motore narrativo della catabasi di Orfeo: il nome è<br />

“d’oscura origine, a meno che non lo si voglia considerare legato alla<br />

radice *orpho- (di orphanós “privo del padre”) e da interpretare,<br />

quindi, come ‘colui che ha perduto una persona cara’ (la sposa Euridice)”<br />

( 16 ). Ne Il più lungo giorno aveva il titolo L’Amore una scena<br />

de La Notte che sembra riproporre il topos dello sguardo a Euridice:<br />

Fu attratta verso la baracca (…) ed io seguii il suo pallore (…) Entrammo.<br />

(…) E guardammo le vedute. Tutto era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei<br />

panorami scheletrici di città. Dei morti bizzarri (...) il sussurrio delle signorine<br />

del paese attonite di quel mistero. «È così Parigi? Ecco Londra. La battaglia<br />

di Muckden». Noi guardavamo intorno (…) Tutte quelle cose viste<br />

per gli occhi magnetici delle lenti in quella luce di sogno! Immobile presso<br />

a me io la sentivo divenire lontana e straniera mentre il suo fascino si approfondiva<br />

(…) Si mosse. Ed io sentii con una punta d’amarezza tosto<br />

consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque come si segue<br />

un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri<br />

dopo lo strepito della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo<br />

( 17 ).<br />

Le immagini proiettate – “di un’irrealtà spettrale”, funeree, e<br />

però reali: la battaglia di Muckden, battaglia campale della guerra<br />

russo-giapponese del 1905, è l’unico riferimento nei Canti Orfici a<br />

un avvenimento della storia contemporanea – motivano l’allontanamento<br />

della fanciulla, simbolo di un ideale stato di purezza: “pura<br />

negli occhi e nel viso” ( 18 ), diviene straniera al poeta per la visione<br />

del “panorama scheletrico del mondo”. Per quel fortemente isolato<br />

“si mosse” e poi “la seguii dunque”, che richiama l’apparizione di<br />

Beatrice (“Amor mi mosse”) e l’ultimo verso del I canto dell’Inferno<br />

(“Allor si mosse, e io li tenni dietro”) ( 19 ), la fanciulla che si allontana<br />

è figura dell’amore e dell’anima, come Virgilio nell’Inferno dantesco<br />

è la poesia che guida e introduce il poeta alla visione dei panora-<br />

( 16 ) DELI, Dizionario etimologico della lingua italiana, di M. Cortelazzo e<br />

M.A. Cortelazzo, Zanichelli, Bologna 1999.<br />

( 17 ) Canti Orfici, La Notte, I, pp. 22-23.<br />

( 18 ) Canti Orfici, La Notte, I, p. 22.<br />

( 19 ) D. ALIGHIERI, Commedia. Inferno, a cura di E. Pasquini e A. Quaglio, Garzanti,<br />

Milano 2002: II, v. 72; I, v. 136.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

mi scheletrici: una realtà di guerra nella quale il poeta si addentra per<br />

farsene scriba, come Orfeo e Dante, acquisendone consapevolezza<br />

con l’esperienza della privazione, della solitudine e del dolore.<br />

1. Figure della Malinconia. – Al tema della perdita dell’amata è<br />

collegata nel mito la natura melanconica di Orfeo, un tratto psicologico<br />

attinente all’aspetto di Orfeo come filosofo che negli Orfici<br />

compare in riferimento sia all’io lirico che alle figure femminili che<br />

popolano il canzoniere. Una postura accomuna il poeta alle donne<br />

dei suoi Canti sotto il segno della malinconia: attingendo a un simbolismo<br />

iconologico forse derivato dal libro saturnino di Baudelaire<br />

oltre che dalle arti figurative, Campana raffigura “visivamente” la<br />

malinconia ( 20 ): questo segno è il capo chino, tra i più diretti rinvii<br />

alla sfera del melanconico ( 21 ): “Oh! ricordo!: ero giovine, la mano<br />

non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia<br />

e di stanchezza” ( 22 ). Campana riprende una similitudine virgiliana<br />

che esprime la condizione di solitudine tipica del canto di Orfeo –<br />

“come all’ombra di un pioppo un afflitto usignolo / lamenta i piccoli<br />

perduti, che un crudele aratore / spiandoli sottrasse implumi dal<br />

nido: piange / nella notte e immobile su un ramo rinnova il canto, /<br />

e per ampio spazio riempie i luoghi di mesti lamenti” ( 23 ) – in questo<br />

brano de La Verna che fa pensare alla posa della Melancholia I di<br />

Dürer: “Un usignolo canta tra i rami del noce. (…) Il noce è davanti<br />

alla finestra della mia stanza. Di notte sembra raccogliere tutta l’ombra<br />

e curvare le cupe foglie canore come una messe di canti sul tronco<br />

lattiginoso quasi umano (…) Mi piace dai balconi guardare la<br />

campagna deserta abitata da alberi sparsi, anima della solitudine for-<br />

135<br />

( 20 ) Per Jacobbi “il meglio dell’opera campaniana si ritrova in quei passi dove<br />

l’orfismo non teorico ma istintivo dell’autore (...) si esprime al livello esistenziale<br />

della malinconia e della violenza”: R. JACOBBI, Invito alla lettura di Dino Campana,<br />

Milano, Mursia 1976, p. 50.<br />

( 21 )R. KLIBANSKY-E. PANOFSKY-F. SAXL, Saturno e la melanconia. Studi di storia<br />

della filosofia naturale, religione e arte, Einaudi, Torino 1983.<br />

( 22 ) Canti Orfici, La Notte, I, p. 28. Cfr. Il Russo: “una testa spasmodica (...)<br />

Curvo sull’orlo della stufa scriveva febbrilmente (…) Febbrile, curva sull’orlo della<br />

stufa la testa barbuta scriveva (…) Curvo, sull’orlo della stufa la testa barbuta, il russo<br />

scriveva, scriveva, scriveva ...” Canti Orfici, pp. 240-243; qui e di seguito tranne<br />

dove diversamente indicato il corsivo è nel testo.<br />

( 23 )VIRGILIO, Georgiche, intr. di A. La Penna, tr. di L. Canali, BUR, Milano<br />

2000, 8ª ed., IV, vv. 511-515, p. 349.


136<br />

SUSANNA SITZIA<br />

giata di vento. Oggi che il cielo e il paesaggio erano così dolci dopo<br />

la pioggia pensavo alle signorine di Maupassant e di Jammes chine<br />

l’ovale pallido sulla tapezzeria memore e sulle stampe” ( 24 ). Nella poesia<br />

simbolista come nel mito di Orfeo correlato al malinconico si<br />

scorge il desiderio di un universale perduto; il pensiero di “una più<br />

vasta patria” ( 25 ) nello spazio onirico di Pampa si accompagna al sentimento<br />

melanconico come nel “poema della malinconia e dell’esilio”<br />

( 26 ) di Baudelaire, Il cigno ( 27 ) (“alla malinconia più profonda<br />

dell’errante un richiamo: ... dalle criniere dell’erbe scosse come alla<br />

malinconia più profonda dell’eterno errante per la Pampa riscossa<br />

come un richiamo che fuggiva lugubre”) ( 28 ). In Dualismo il poeta si<br />

dice attratto dal magnetismo del capo chino di una Lei che per Contini<br />

è come la Chimera “l’ipostasi di una giustificazione della sua<br />

fuga” ( 29 ), e in Scirocco la malinconia appare nella forma di una visione<br />

maestosa – “una grande linea che apparve passò: una grandiosa, virginea<br />

testa reclina d’ancella mossa di un passo giovine non domo alla cadenza,<br />

offrendo il contorno della mascella rosea e forte e a tratti la<br />

luce obliqua dell’occhio nero al disopra dell’omero servile, del braccio,<br />

onusti di giovinezza: muta” ( 30 ). La Chimera, “proiezione di un desiderio<br />

al tempo stesso insopprimibile e inattingibile” ( 31 ) e simbolo<br />

della poesia, ha una “china eburnea / Fronte”, e il poeta dice il proprio<br />

anelito motivato dalla ricerca dello stagliarsi in cielo della Chimera<br />

nella sua attitudine malinconica: “Ma per il vergine capo / Reclino, io<br />

poeta notturno / Vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo” ( 32 ). Al-<br />

( 24 ) Canti Orfici, La Verna, II, Monte Filetto, 25 Settembre, pp. 116-117; corsivo<br />

nostro.<br />

( 25 ) Canti Orfici, Pampa, p. 233.<br />

( 26 )J. STAROBINSKI, La malinconia allo specchio, pref. di Y. Bonnefoy, a cura di<br />

D. De Agostani, Garzanti, Milano 1990, pp. 40-41.<br />

( 27 ) “La figura chinata è innanzitutto l’essere – lontano, immaginario – verso il<br />

quale si volta il pensiero dell’‘io lirico’. E la figura china, Andromaca, è essa stessa<br />

abitata dal pensiero che rimembra un paese perduto”. STAROBINSKI, op. cit., p. 40.<br />

( 28 ) Canti Orfici, Pampa, p. 230.<br />

( 29 ) “E ancora il magnetismo di quando voi chinaste il capo (…) mi attira non<br />

ostante il tempo ancora verso di voi!” Canti Orfici, Dualismo (Lettera aperta a Manuelita<br />

Etchegarray), pp. 185-186. CONTINI, op. cit., p. 26.<br />

( 30 ) Canti Orfici, Scirocco (Bologna), p. 264; corsivo nostro.<br />

( 31 )ASOR ROSA, op. cit., p. 43.<br />

( 32 ) Canti Orfici, La Chimera, p. 51; corsivo nostro.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

lusivo al melanconico è anche il pallido viso della Chimera la cui epifania<br />

“è tutta improntata su una gamma di bianchi” ( 33 ): la “fanciulla<br />

esangue” dai “mitici pallori” ha un’“eburnea / Fronte” ( 34 ), ne La<br />

Notte è “una forma pallida come un sogno” ( 35 ): è il “Pallido amor degli<br />

erranti” ( 36 ). Che la malinconia fosse lo stato d’animo più appropriato<br />

alla creazione poetica era opinione di Leopardi che la riteneva<br />

anche “amica della verità” ( 37 ), come per Campana la melanconica<br />

“antica amica, l’eterna Chimera” ( 38 ) è “suora de la Gioconda” ( 39 ),<br />

l’angelo della Vergine delle rocce nel cui sorriso egli vedeva “tutta l’ermetica<br />

creazione” ( 40 ); e il malinconico rientra nella poetica leopardiana<br />

dell’indefinito e del vago, la poetica dell’infinito: “La malinconia,<br />

il sentimentale moderno ec., perciò appunto sono così dolci,<br />

perché immergono l’animo in un abisso di pensieri indeterminati<br />

de’ quali non sa vedere il fondo né i contorni” ( 41 ). Per Asor Rosa la<br />

notte campaniana “in quanto rappresenta, per così dire, un fisiologico<br />

‘sfondamento’ del campo visivo e dei limiti della percezione, viene<br />

a confinare strettamente con la nozione di ‘infinito’” ( 42 ). Nel poe-<br />

137<br />

( 33 ) C. GALIMBERTI, Dino Campana, Milano, Mursia 1967, p. 69.<br />

( 34 ) Canti Orfici, La Chimera, p. 51.<br />

( 35 ) Canti Orfici, La Notte, II, p. 35.<br />

( 36 ) Canti Orfici: La Notte, III, p. 41; La Speranza (sul torrente notturno), p. 62.<br />

( 37 ) “Non è propria de’ tempi nostri altra poesia che la malinconica (…) Se<br />

v’ha oggi qualche vero poeta, se questo sente mai veramente qualche ispirazione di<br />

poesia, e va poetando seco stesso, o prende a scrivere sopra qualunque soggetto, da<br />

qualunque causa nasca detta ispirazione, essa è certamente malinconica, e il tuono<br />

che il poeta piglia naturalmente o seco stesso o con gli altri nel seguir questa ispirazione<br />

(e senza ispirazione non v’è poesia degna di questo nome) è il malinconico”.<br />

“Vero è purtroppo che astrattamente parlando, l’amica della verità, la luce<br />

per discoprirla, la meno soggetta ad errare è la malinconia”. G. LEOPAR<strong>DI</strong>, Zibaldone,<br />

edizione integrale diretta da L. Felici, premessa di E. Trevi, GTE Newton,<br />

Roma 1997: 3976, p. 792; 1691, p. 373.<br />

( 38 ) Canti Orfici, La Notte, II, p. 35.<br />

( 39 ) Canti Orfici, La Chimera, p. 51.<br />

( 40 ) “L’enigma del mondo (…) se lo vedeva raffigurato nel sorriso ‘ambiguo,<br />

beffardo’ dell’angelo della ‘Vergine delle Rocce’ di Leonardo nella Galleria Nazionale<br />

di Londra. Sorriso? No, piega enigmatica delle labbra di tutta l’ermetica creazione,<br />

là, davanti, immediata, espressa”. M. BEJOR, Dino Campana a Bologna 1911-<br />

1916, Società Tipografica Editrice, Bagnacavallo (Ravenna) 1943, pp. 34-35.<br />

( 41 )LEOPAR<strong>DI</strong>, Zibaldone, cit., 170, p. 71.<br />

( 42 )ASOR ROSA, op. cit., p. 39.


138<br />

SUSANNA SITZIA<br />

ma La Notte, dove “bianche cariatidi di un cielo artificiale” hanno<br />

“il viso poggiato alla palma” ( 43 ) e una matrona compare con tecnica<br />

cinematografica nella postura tipica delle raffigurazioni della malinconia<br />

(“In fondo avanti posava nello sfarzo di un’ottomana rossa il<br />

gomito reggendo la testa, poggiava il gomito reggendo la testa una<br />

matrona”) ( 44 ) è ricordata la scultura michelangiolesca della Notte di<br />

cui il poeta ne La Verna dirà la “posa arcana” ( 45 ). Nella poesia di<br />

Campana, come si dice alla fine degli Orfici, è tutto arcanamente illustrato<br />

nell’apparenza sovrumana delle statue superbe ( 46 ): come la “statua<br />

della fortuna” che in una redazione di Crepuscolo mediterraneo<br />

“piega mollemente il capo versando la cornucopia” ( 47 ) così è la Notte<br />

di Michelangelo, china “sotto il peso di tutto il sogno umano” ( 48 ). Le<br />

quattro Ore del giorno della Cappella medicea “dipingono il quadruplice<br />

aspetto della vita terrena come condizione di sofferenza<br />

concreta”, illustrano “le varie influenze conturbanti e deprimenti cui<br />

l’anima umana è soggetta finché vive in un corpo composto di quattro<br />

principi ‘materiali’. Per i neoplatonici, e specialmente per Michelangelo,<br />

emotivamente incapace di produrre una figure realmente<br />

lieta o realmente serena, le condizioni ‘sanguigna’ e ‘flemmatica’<br />

differiscono da quella ‘collerica’ e da quella ‘malinconica’, ma non<br />

sono affatto più felici di esse. Un osservatore contemporaneo che conoscesse<br />

la teoria secondo la quale il male della malinconia può essere<br />

causato da ciascuno dei quattro umori, compreso quello sanguigno,<br />

avrebbe potuto interpretare le Quattro Ore del giorno come<br />

paradigmi della melancholia ex sanguine, melancholia ex phlegmate,<br />

melancholia ex cholera rubra, e melancholia ex cholera nigra” ( 49 ). Con<br />

riferimento anche al pensiero della morte, alla caducità delle cose, il<br />

simbolismo del capo chino è il segno della componente filosofica<br />

della poesia di Campana: “Che le figure dell’Alba e del Giorno, del<br />

Crepuscolo e della Notte abbiano primariamente l’intento di desi-<br />

( 43 ) Canti Orfici, La Notte, II, p. 35.<br />

( 44 ) Canti Orfici, La Notte, I, p. 24.<br />

( 45 ) Canti Orfici, La Verna, I, 22 settembre (La Verna), p. 109.<br />

( 46 ) Canti Orfici, Genova, p. 287.<br />

( 47 )D. CAMPANA, Fascicolo marradese inedito, a cura di F. Ravagli, Giunti, Firenze<br />

1972. Citiamo da Canti Orfici, p. 271.<br />

( 48 ) Canti Orfici, La Notte, I, p. 19 ; La Verna, I, p. 110.<br />

( 49 )E. PANOFSKI, Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del rinascimento,<br />

intr. di G. Previtali, tr. di R. Pedio, Einaudi, Torino 1975, p. 285.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

gnare la potenza distruttiva del tempo è evidenziato dalla stessa parola<br />

di Michelangelo: “il Dì e la Notte parlano, e dicono: ‘Noi abbiamo<br />

col nostro veloce corso condotto alla morte il Duca Giuliano’,<br />

nonché dall’asserzione del Condivi che il Giorno e la Notte dovevano<br />

simboleggiare, insieme, il Tempo che consuma il Tutto” ( 50 ).<br />

139<br />

Chi le taciturne porte / Guarda che la Notte / Ha aperte sull’infinito? /<br />

Chinan l’ore: col Sogno vanito / China la pallida Sorte ... Per l’amor dei<br />

poeti, porte / Aperte de la morte / Su l’infinito! / Per l’amor dei poeti /<br />

Principessa il mio sogno vanito / Nei gorghi della Sorte! ( 51 ).<br />

È una poesia filosofica quella di Campana: l’orfismo di Campana,<br />

si sa, acquisisce significazioni dalle teorie di Friedrich Nietzsche ch’era<br />

“il suo filosofo” ( 52 ). Fin dagli anni Sessanta “una serie di analisi e di<br />

sicure deduzioni critiche” di Bonifazi da cui Galimberti ricavava la<br />

certezza che “per mediazione nietzschiana Campana attinse un senso<br />

‘orfico’ dell’esistenza” ( 53 ), hanno chiarito che “il pensiero di Campana<br />

ha la sua base fondamentale nell’estetica e in genere nella filosofia<br />

di Nietzsche” ( 54 ). Le due epigrafi de Il più lungo giorno consentono di<br />

fissare alla fine del ’13, quando Campana affidò il manoscritto alla direzione<br />

di “Lacerba” che lo smarrì per non più restituirlo all’autore<br />

(ma si può ipotizzare anche l’inizio del 13, quando Campana “aveva<br />

già in tasca gran parte del manoscritto”) ( 55 ), il termine ante quem della<br />

lettura di Così parlò Zarathustra e della Gaia Scienza. La prima epigrafe<br />

de Il più lungo giorno – “E come puro spirito varca il ponte” ( 56 )<br />

– esemplare del pensiero di Nietzsche e una delle più rappresentative<br />

della filosofia in poesia dello Zarathustra, seguita come ne Il più lungo<br />

giorno dal nome Federico Nietzsche, compare anche nel Taccuinet-<br />

( 50 )PANOFSKI, op. cit., p. 283.<br />

( 51 ) Canti Orfici, La Speranza (sul torrente notturno), p. 62.<br />

( 52 )F. RAVAGLI, Dino Campana e i goliardi del suo tempo, Marzocco, Firenze<br />

1942, p. 79.<br />

( 53 )GALIMBERTI, op. cit., p. 85.<br />

( 54 )N. BONIFAZI, Dino Campana, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1964, p. 21.<br />

( 55 )RAVAGLI, op. cit., p. 87.<br />

( 56 ) “Amo colui che non ritiene per sè stesso una sola goccia di spirito, ma<br />

vuol essere interamente lo spirito della propria virtù: in tal guisa egli varca, quale<br />

spirito, il ponte”. F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno,<br />

4. ed. interamente rifatta sulla versione della prima da R.G., Fratelli Bocca,<br />

Torino 1915, p. 12.


140<br />

SUSANNA SITZIA<br />

to faentino ( 57 ): anche lì “ha probabilmente significato di inaugurazione”<br />

( 58 ), trovandosi in testa al foglio all’interno della copertina e<br />

scritta nella stessa direzione seguita per la prima prosa, Faenza, dove si<br />

avvertono echi della teoria estetica nietzschiana sul dionisiaco come<br />

musica e danza e sulla liberazione del dionisiaco in immagini apollinee:<br />

“. Pure<br />

non mi nascondo che è per il senso di liberazione che mi da questo<br />

simbolismo naturalistico che io amo Faenza come m’inebria la Spagna”<br />

( 59 ). La seconda epigrafe de Il più lungo giorno – “L’incesso e il<br />

passo dei vostri pensieri tradiscono la vostra origine” – è parte dell’aforisma<br />

282 della Gaia Scienza, L’andatura: “Ci sono maniere dello spirito<br />

con cui anche grandi spiriti tradiscono la loro origine plebea o semiplebea:<br />

– sono specialmente l’andatura e il passo dei loro pensieri<br />

che fanno i traditori: essi non sanno camminare. Anche Napoleone,<br />

con suo sommo rincrescimento, non sapeva incedere in maniera principesca<br />

e «legittima», nelle occasioni in cui in realtà occorreva saperlo<br />

fare, come nelle grandi processioni per l’incoronazione e simili: anche<br />

allora egli era sempre e solo il comandante di una colonna – fiero e<br />

precipitoso insieme e consapevolissimo di ciò. Si ha qualcosa per cui<br />

ridere a vedere questi scrittori che fanno frusciare intorno a sé i drappeggi<br />

del periodo: vogliono così nascondere i loro piedi” ( 60 ). L’aforisma<br />

esprime una considerazione d’ordine stilistico, ma non solo: per<br />

Nietzsche “l’autore geniale non si rivela soltanto nella semplicità e determinatezza<br />

dell’espressione: il suo eccesso di forza giuoca con i suoi<br />

contenuti, anche quando questi sono pericolosi e difficili. Nessuno va<br />

con passo fermo per una via sconosciuta e interrotta da mille precipizi:<br />

ma il genio corre agile e con salti temerari o eleganti per un tale sentiero,<br />

schernendo un’accurata e timorosa precauzione dei passi” ( 61 ).<br />

( 57 )D. CAMPANA, Taccuinetto faentino, a cura di D. De Robertis, pref. di E.<br />

Falqui, Vallecchi, Firenze 1960, XXV, p. 69.<br />

( 58 )DE ROBERTIS, Note a Taccuinetto faentino, cit., p. 69.<br />

( 59 ) Faenza, in Taccuinetto faentino, cit., I, p. 25.<br />

( 60 )F. NIETZSCHE, La gaia scienza. Idilli di Messina, intr. e tr. di S. Giametta,<br />

BUR, Milano 2000, libro IV, 282, p. 258. Cfr. la traduzione di A. Cippico (“l’incesso<br />

ed il passo dei loro pensieri”) in La Gaia Scienza, Fratelli Bocca, Torino<br />

1905, p. 159.<br />

( 61 )F. NIETZSCHE, Considerazioni inattuali, I, David Strauss. L’uomo di fede e<br />

lo scrittore, versione di S. Giametta, in La nascita della tragedia Considerazioni<br />

inattuali, I-III, versioni di S. Giametta e M. Montinari, Adelphi, Milano 1982, 3ª<br />

ed., p. 230.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

Nietzsche scrive che il suo piede “esige dalla musica soprattutto le estasi<br />

che sono insite nella buona andatura, nel buon passo di marcia,<br />

nella buona danza” ( 62 ) e che “soltanto i pensieri nati camminando<br />

hanno valore” ( 63 ). Di Nietzsche Campana ha scritto che “la susseguenza<br />

dei suoi pensieri è assolutamente barbara (…) In ciò unicamente<br />

nell’originalità barbaramente balzante e irrompente dei suoi<br />

pensieri sta la sua forza di sovvertimento”, che tutto in lui anela alla<br />

distruzione ( 64 ): quando scrive del “passo di danza del satiro” ( 65 ) o<br />

che “le strade suonano al martellare sordo dei passi” ( 66 ), manifesta il<br />

carattere rivoluzionario del proprio linguaggio poetico e insieme del<br />

pensiero alla base della sua poesia, sulla scia della lezione nietzschiana<br />

su Come si filosofa col martello ( 67 ), sottotitolo del Crepuscolo degli<br />

idoli a cui allude anche Bejor dicendo che Campana “creava martellando<br />

al ritmo” ( 68 ). Nella prima poesia del Quaderno Campana riprende<br />

“un passo dell’Ecce Homo di Nietzsche sugli effetti deleteri<br />

esercitati dalla cucina tedesca sulla volontà di vivere” ( 69 ):“Un dopopranzo,<br />

sdraiato sull’erba / Pieno di cibi e di languore, anch’io / Alla<br />

donna insaziata e battagliera, / E ben lontana, / Avrei fatto dei versi<br />

deliziosi: / Mi rose e avvelenò fin dall’infanzia / Una cucina perfida<br />

141<br />

( 62 )F. NIETZSCHE, Nietzsche contra Wagner. Documenti processuali di uno psicologo,<br />

versione di F. MASINI, in Il caso Wagner Crepuscolo degli idoli L’anticristo Ecce<br />

homo Nietzsche contra Wagner, versioni di F. Masini e di R. Calasso, Adelphi, Milano<br />

1986, 3ª ed., Dove io muovo obiezioni, p. 391.<br />

( 63 )F. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli. Come si filosofa col martello, versione<br />

di F. Masini, in Il caso Wagner Crepuscolo degli idoli L’anticristo Ecce Homo Nietzsche<br />

contra Wagner, cit., Sentenze e frecce, 34, p. 59.<br />

( 64 ) Il secondo stadio dello spirito…, in Taccuini, abbozzi e carte varie, II, in<br />

Opere e contributi, cit., p. 446. “Conosco il piacere del distruggere in misura della<br />

mia forza di distruzione, – nell’una e nell’altra cosa obbedisco alla mia natura dionisiaca,<br />

che non riesce a distinguere tra il fare e il dire sì. Io sono il primo immoralista:<br />

perché io sono il distruttore par excellence”. F. NIETZSCHE, Ecce Homo. Come si diventa<br />

ciò che si è, versione di R. Calasso, in Il caso Wagner Crepuscolo degli idoli L’anticristo<br />

Ecce Homo Nietzsche contra Wagner, cit., Perché io sono un destino, 2, p. 376.<br />

( 65 ) Canti Orfici, Faenza, p. 170.<br />

( 66 ) Specie di serenata agra e falsa e melodrammatica, in Quaderno, in Opere e<br />

contributi, cit., p. 315.<br />

( 67 ) “Battere qui una buona volta problemi con il martello (...) quale delizia<br />

(...) per me vecchio psicologo e incantatore; per il quale proprio quel che vorrebbe<br />

starsene in silenzio, deve gridar forte”. NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 52.<br />

( 68 )BEJOR, op. cit., p. 24.<br />

( 69 ) M. DEL SERRA, Dino Campana, La Nuova Italia, Firenze 1985, rist., p. 57.


142<br />

SUSANNA SITZIA<br />

e nefanda / Il gusto fine” ( 70 ). In quel capitolo di Ecce Homo Nietzsche<br />

racconta di aver “fino alla piena maturità (…) mangiato sempre<br />

e solamente male”: impersonalmente, disinteressatamente, altruisticamente,<br />

“alla salute dei cuochi e degli altri compagni di Cristo”:<br />

“Quando studiavo Schopenhauer per la prima volta (1865), per<br />

esempio, io negavo molto seriamente la mia ‘volontà di vita’ per<br />

mezzo della cucina di Lipsia. Ma la cucina tedesca in genere – cosa<br />

mai non ha sulla coscienza!” ( 71 ) Critico verso la propria formazione<br />

culturale giovanile, l’autore del Quaderno già condivide la critica anticristiana<br />

di Nietzsche, la sua filosofia distruttrice dei vecchi idoli<br />

(“Idolo, nel mio sangue di cristiano / Io sento la vertigine colare /<br />

Idolo, il fuoco della distruzione / Mi prende”; “il pensiero sceso nell’inferno<br />

/ Ne bevve fiamme tanto portentose / Che di contro alla<br />

morte ed agli dei / Sublime gittò il carro del destino”) ( 72 ) e dei più<br />

decrepiti, quelli della cultura moderna: “È il bisogno della morte /<br />

Perché su tutto chiamo distruzione? / Ci pensavo nel porto questa<br />

sera / Nel porto enorme carico di navi / (…) Oh avere un cielo nuovo,<br />

un cielo puro / Dal sangue d’angioli ambigui / Senza le zuccherine<br />

lacrime di Maria / Un cielo metallico ardente di vertigine / Senza<br />

i miasmi putridi dei poeti e delle fanciulle / (...) un cielo dove / Frati<br />

e poeti non abbiano fatto / La tana come i vermi”( 73 ).<br />

Questi versi del Quaderno hanno accenti non dissimili da quelli dei<br />

frammenti dell’ultimo Campana: pensiamo al celebre “Letteratura nazionale<br />

/ Industria del cadavere / Si salvi chi può” che conclude il<br />

frammento sulla rigovernatura delle lettere ( 74 ); al Decrepito cielo: “Decrepito<br />

cielo, padre nobile di tutta la letteratura nazionale chi meglio<br />

di te ha espresso la grazia e il dolore di tutta la poesia italiana?” ( 75 ). È<br />

( 70 ) Il tempo miserabile consumi, in Quaderno, in Opere e contributi, cit., p. 297.<br />

( 71 )NIETZSCHE, Ecce Homo, cit., Perché sono così accorto, p. 287.<br />

( 72 ) Quaderno, in Opere e contributi, cit.: Spada barbarica, p. 299; La creazione,<br />

p. 327.<br />

( 73 ) Ho scritto. Si chiuse in una grotta, in Quaderno, in Opere e contributi, cit.,<br />

pp. 346-347. “Non c’è realtà, non c’è «idealità» che in questo scritto non venga<br />

toccata (– toccata: che prudente eufemismo!…). Non solo gli idoli eterni, anche i<br />

recentissimi, e perciò i più decrepiti. Per esempio le «idee moderne»”. NIETZSCHE,<br />

Ecce Homo, cit., Crepuscolo degli idoli, p. 364.<br />

( 74 ) San Francesco, delicatezza…, in Taccuini, abbozzi e carte varie, II, in Opere<br />

e contributi, cit., p. 431.<br />

( 75 ) Decrepito cielo, in Taccuini, abbozzi e carte varie, II, in Opere e contributi,<br />

cit., p. 435.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

del ’16 quest’aforisma delle Storie: “L’arte è espressione. Ciò farebbe<br />

supporre una realtà. L’Italia è come fu sempre: teologica” ( 76 ).<br />

2. Le donne e la lontananza. – Bejor racconta che Campana lo<br />

“esortava a meditare su un pensiero tratto dalla ‘Gaia Scienza’: ‘Le<br />

donne e la loro influenza sulla lontananza’”: Ravagli ha fatto conoscere<br />

l’autografo che riporta la traduzione di Antonio Cippico – Torino<br />

– Bocca, 1905 di quel brano ricopiato da Campana per Bejor<br />

nella sala di lettura dell’Università di Bologna ( 77 ):<br />

143<br />

Le donne e la loro influenza sulla lontananza. Ho io ancora orecchi? O sono<br />

io, forse, soltanto un orecchio e nulla più? Eccomi nel mezzo dell’incendio<br />

vastissimo dell’onda, le cui bianche vampe insorgono lingueggiando ai miei<br />

piedi; da ogni parte io odo rugghiare, minacciare, gridare e strillare, mentre<br />

nell’ime profondità il vecchio Scuotitore della terra canta la sua melodia,<br />

sorda come il muggito di un toro: egli scande un tale ritmo di terremoto,<br />

quasi ad accompagnare il suo canto, che pure agli spiriti tempestosi di queste<br />

rocce trema il cuore nel petto sconvolto. Indi, subitamente quasi nato<br />

dal Nulla, sulla porta di questo infernale labirinto, alla distanza di poche<br />

braccia soltanto, appare una grande Nave con spiegate le vele, silenziosamente<br />

procedendo, simile a fantasma. Oh la superba spettrale bellezza!<br />

Con quale fascino m’afferra! Come? Tutta la quiete forse e tutto il silenzio<br />

del mondo vi sono imbarcati? O forse la mia felicità istessa v’è assisa sul<br />

cassero tranquillo, il mio Io più felice, il mio secondo Io reso eterno? Non<br />

ancora morto e tuttavia non più vivo? Quale uno spirituale essere intermedio,<br />

silenzioso contemplativo labile oscillante? Simile alla nave la quale<br />

come una mostruosa farfalla, scorre con le sue bianche vele sul mare tenebroso!<br />

Sì! Scorrere sopra la vita! Questo è, e sarebbe necessario! – Ma mi<br />

sembra che il grande frastuono mi abbia mio malgrado condotto a fantasticare!<br />

Ogni grande frastuono fa sì che noi riponiamo la nostra felicità nel silenzio<br />

e nella lontananza. Se un uomo si trovi nel mezzo del suo frastuono,<br />

nel mezzo del tempestoso tumulto dei suoi progetti e delle sue rinunce,<br />

scorge a volte alcuni esseri tranquilli e fascinatori passare sopra di lui<br />

ond’egli ne invidia sì la felicità che la ritiratezza: – questi esseri sono LE<br />

DONNE. Egli quasi pensa che presso a queste abiti il suo Io migliore, che<br />

pure la più fragorosa tempesta s’accheti in un silenzio mortale, presso a<br />

queste oasi tranquille, e che la Vita stessa divenga un Sogno de la Vita. Ep-<br />

( 76 ) Storie, I, in Taccuini, abbozzi e carte varie, II, in Opere e contributi, cit., p. 441.<br />

( 77 )BEJOR, op. cit., pp. 26-27. Cfr. RAVAGLI, op. cit., pp. 78-79.


144<br />

SUSANNA SITZIA<br />

pure, eppure! O mio nobile sognatore, anche sulla nave più bella c’è rumore<br />

e frastuono e AHIMÈ! Un bel miserevole frastuono! L’incanto e l’influenza<br />

potente delle donne è per dirla nell’eloquio dei filosofi, un’influenza<br />

nella lontananza, un’actio in distans: ma per ciò si richiede, dapprima e<br />

sopra tutto della distanza ( 78 ).<br />

L’incidenza sulla poetica campaniana di questo brano si avverte<br />

in Genova e nei poemi di ambientazione marina degli Orfici (nell’inquieto<br />

mare notturno del Viaggio a Montevideo per esempio: “Andavamo<br />

andavamo, per giorni e per giorni: le navi / Gravi di vele molli di<br />

caldi soffi incontro passavano lente: / Sì presso di sul cassero a noi ne appariva<br />

bronzina / Una fanciulla della razza nuova, / Occhi lucenti e le<br />

vesti al vento!”) ( 79 ) e del Quaderno, che suoneranno assimilabili sul<br />

piano delle parole chiave – sogno, nave, silenzio, lontananza…: “Agogno<br />

/ La nebbia ed il silenzio in un gran porto. / In un gran porto<br />

pien di vele lievi / Pronte a salpar per l’orizzonte azzurro / Dolci ondulando,<br />

mentre che il sussurro / Del vento passa con accordi brevi. /<br />

E quegli accordi il vento se li porta / Lontani sopra il mare sconosciuto.<br />

/ Sogno (…)” ( 80 ) – anche a chi non s’inoltrasse nel simbolismo de<br />

Le donne e la loro influenza sulla lontananza, che illustra la teoria estetica<br />

nietzschiana: dalla fase dionisiaca in cui domina il suono, al momento<br />

in cui con la liberazione della musica in immagine l’arte scorre<br />

sul mare della vita, dei pensieri e delle sensazioni dell’artista, che a<br />

quel punto “riposa nella tranquilla bonaccia della contemplazione<br />

apollinea” ( 81 ). Sono i termini schopenhaueriani rivisitati nella Nascita<br />

della tragedia, quelli del brano sull’actio in distans:<br />

Apollo (…) secondo la sua radice è il ‘risplendente’, la divinità della luce (…)<br />

Il suo occhio deve essere ‘solare’ (…) spira da esso la solennità della bella parvenza.<br />

E così potrebbe valere per Apollo, in un senso eccentrico, ciò che<br />

Schopenhauer dice dell’uomo irretito nel velo di Maia (Mondo come volontà e<br />

rappresentazione, I): «Come sul mare in furia che, sconfinato da ogni parte,<br />

solleva e sprofonda ululando montagne d’onde, un navigante siede su un<br />

battello, confidando nella debole imbarcazione; così l’individuo sta placida-<br />

( 78 ) Gaia Scienza, libro II, 60, Le donne e la loro influenza sulla lontananza,<br />

dalla trascrizione dell’autografo in RAVAGLI, op. cit., pp. 80-81.<br />

( 79 ) Canti Orfici, Viaggio a Montevideo, p. 144.<br />

( 80 ) Poesia facile, in Quaderno, in Opere e contributi, cit., p. 310.<br />

( 81 )F. NIETZSCHE, La nascita della tragedia. Ovvero grecità e pessimismo, versione<br />

di S. Giametta, in La nascita della tragedia Considerazioni inattuali, cit., 6, p. 49.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

145<br />

mente in mezzo a un mondo di affanni, appoggiandosi e confidando nel<br />

principium individuationis». (…)Nello stesso luogo Schopenhauer ci ha descritto<br />

l’immenso orrore che afferra l’uomo, quando improvvisamente perde<br />

la fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, in quanto il principio di<br />

ragione sembra soffrire un’eccezione in qualcuna delle sue configurazioni. Se<br />

a questo orrore aggiungiamo l’estatico rapimento che, per la stessa violazione<br />

del principium individuationis, sale dall’intima profondità dell’uomo, anzi<br />

della natura, riusciamo a gettare uno sguardo sull’essenza del dionisiaco, a cui<br />

ci accostiamo di più ancora attraverso l’analogia con l’ebbrezza ( 82 ).<br />

Riferimenti all’estetica nietzschiana e a Gaia Scienza 60 sono evidenti<br />

nella prima parte di Sorga la larva d’antico sogno: – “Ridente<br />

(…) / Incedi ingenua ardita / Agile come vela” – e in quella finale, dov’è<br />

descritta la componente dionisiaca della poesia e Apollo con il suo<br />

nietzschiano occhio solare: “Scuotevasi il mare profondo / Caldo ambiguo<br />

il silenzio sullo sfondo / Le navi inermi drizzavansi in balzi / Terrifici<br />

al cielo / Allucinate di aurora / Elettrica inumana, risplendente /<br />

A la poppa nell’occhio incandescente. / (…) Mi sperda con te o nave,<br />

/ Nave che soffri e vegli / Coll’occhio disumano / E al destino lontano<br />

/ Sempre sopra del vano ondeggiare tu pensi…” ( 83 ) Già ai tempi della<br />

composizione del Quaderno per Campana il mondo diviene leggero<br />

nelle mani di una Donna genovese, figura emersa dal mare che è un<br />

fantasma, come in Gaia Scienza 60 l’apparizione di una nave lontana:<br />

“Tu mi portasti un po’ d’alga marina / Nei tuoi capelli, ed un odor di<br />

vento, / Che è corso di lontano e giunge grave / D’ardore, era nel tuo<br />

corpo bronzino: / – Oh la divina / Semplicità delle tue forme snelle –<br />

/ Non amore non spasimo, un fantasma, / Un’ombra della necessità<br />

che vaga / Serena e ineluttabile per l’anima / E la discioglie in gioia, in<br />

incanto serena / Perché per l’infinito lo scirocco / Se la possa portare. /<br />

Come è piccolo il mondo e leggero nelle tue mani!” ( 84 ).<br />

3. “Mediterraneizzare la musica”. – In occasione del convegno<br />

Dino Campana alla fine del secolo si è detto che il paragrafo 60 citato<br />

( 82 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., I, pp. 23-24.<br />

( 83 ) Sorga la larva di antico sogno, in Taccuini, abbozzi e carte varie, I, in Opere<br />

e contributi, cit., pp. 378-379. L’occhio solare di Apollo con l’immagine della nave<br />

anche in Batte botte: “Ne la nave / Che si scuote, / Con le navi che percuote / Di<br />

un’aurora / Sulla prora / Splende un occhio / Incandescente”. Canti Orfici, p. 153.<br />

( 84 ) Donna genovese, in Quaderno, in Opere e contributi, cit., p. 311.


146<br />

SUSANNA SITZIA<br />

ne Il secondo stadio dello spirito è “il punto di contatto filologicamente<br />

più forte tra Campana e Nietzsche (e come tale è stato interpretato<br />

da tutti i critici: Bonifazi, Galimberti, Del Serra, Ceragioli)” ( 85 ).<br />

Il secondo stadio dello spirito è un appunto teorico che ripercorre alcune<br />

convinzioni nietzschiane per cui l’arte è un supplemento metafisico<br />

della realtà di natura: presupposto schopenhaueriano dai quali eccessi<br />

Nietzsche rifugge e mette in guardia (per esempio in Gaia Scienza 60)<br />

parlando di un pericolo ascetico-contemplativo, mistico. Giustapposte<br />

citazioni costituiscono gran parte del frammento, che presuppone<br />

un’analisi del pensiero nietzschiano sulla musica di Wagner in relazione<br />

alla filosofia di Schopenhauer e pertanto la conoscenza degli scritti<br />

polemici di Nietzsche contra Wagner. Campana aveva una conoscenza<br />

sicura e ossessiva di Nietzsche ( 86 ), che più di un indizio nelle carte<br />

campaniane suggerisce oggi di considerare estesa non solo a Nascita<br />

della tragedia, Gaia Scienza e Così parlò Zarathustra, dove andrebbe ricercato<br />

il legame con Nietzsche secondo una prospettiva d’indagine<br />

che si è affermata con la linea di demarcazione, alternativa rispetto alla<br />

teoria di un Nietzsche filtrato da D’Annunzio ( 87 ), tracciata da Bonifazi<br />

tra Campana, “toccato soprattutto dalla estetica nietzschiana e dall’angoscia<br />

dell’eterno ritorno”, e D’Annunzio, che “dimostra di conoscere<br />

meglio l’ultimo Nietzsche, quello di Al di là del bene e del male e<br />

della Volontà di potenza” ( 88 ). Campana intenta un processo al nietzschianesimo<br />

di D’Annunzio ( 89 ), chiamando Nietzsche a testimone<br />

della supremazia culturale della Francia e dell’arte mediterranea ( 90 );<br />

mi riferisco ad una lettera a Prezzolini del ’15, dalla quale cito:<br />

( 85 )M.A. BAZZOCCHI, Mitobiografia?, in Dino Campana alla fine del secolo, cit.,<br />

p. 85.<br />

( 86 )E. MONTALE, Sulla poesia di Campana, “L’Italia che scrive”, a. XXV, n. 9-<br />

10, Roma, settembre-ottobre 1942, ora in E. MONTALE, Sulla poesia, a cura di G.<br />

Zampa, Mondadori, Milano 1997, p. 257.<br />

( 87 ) Poeti italiani del Novecento, a cura di P.V. MENGALDO, Mondadori, Milano<br />

1981, Dino Campana, p. 277.<br />

( 88 )BONIFAZI, op. cit., p. 64.<br />

( 89 )BONIFAZI, op. cit., p. 61.<br />

( 90 ) Cfr. D. CAMPANA, Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti<br />

inediti e rari, a cura di G. Cacho Millet, ESI, Napoli 1985: Campana a Boine<br />

(t. p. gennaio 1916) LXXVI, p. 133 – “(…) demain la France existera encore<br />

c’est elle qui éritera de nous. Mediterranea ars”; Campana a Cecchi (t. p. 2 maggio<br />

1916) CI., p. 169 – “Cardarelli mi scrive: crede in una gaia scienza: lui beato.<br />

Confido che lui ed altri ed altri più di me sapranno amare quel fantasma soleggiato<br />

di felicità che credetti intravvedere molto tempo fa laggiù sul mediterraneo”.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

147<br />

(…) il vecchio spirito aristocratico francese minaccia di riprendere il sopravvento<br />

e di mettersi di nuovo a capo della cultura europea come fu sempre,<br />

anche per testimonianza dei tedeschi (Nietzsche). Se questo fatto avvenisse,<br />

se questa coltura che noi adoriamo tornasse io le confesso che darei sul momento<br />

senza esitare la vita. Viva dunque la grande Francia. Questo presentimento<br />

appare in tutti i grandi tedeschi. Ricordi le ultime parole di Beetoven<br />

(sic): Nel Sud della Francia, laggiù, laggiù. Era l’ideale della musica, dell’arte<br />

mediterranea che Nietzsche presentì e credè di trovare in Bizet. E questo presentimento<br />

si verificherà certamente perché Nietzsche e Beetoven (sic) erano<br />

dei genii. Viva dunque la Francia. E chi, modestia a parte, comprende queste<br />

cose da noi? cioè le integra e le risente non le violenta colla animalità del parvenu?<br />

Ci dondoliamo sulle anche come l’Italia nelle poesie di D’Annunzio<br />

che, poveraccio, dell’Europa moderna non capisce proprio nulla. Che pietà<br />

vedere la grande cultura in certe mani mezzane. Ma se solamente si traducessero<br />

gli articoli umoristici che in Francia si sono scritti su D’Annunzio si<br />

avrebbe una lezione di buon gusto utilissima per noi che siamo fino alla gola<br />

nell’enfasi meridionale. Ed anche e più che altrove in Toscana che della semplicità<br />

e del buon gusto è stata sempre maestra in Italia e altrove ( 91 ).<br />

Come è noto, nel Caso Wagner alla musica wagneriana Nietzsche<br />

contrappone scherzosamente ( 92 ) la Carmen di Bizet, secondo il motto:<br />

“il faut méditerraniser la musique” ( 93 ). A questo proposito Campana<br />

aveva esposto a Soffici il progetto di una sintesi di elementi<br />

nordici e latini, per Asor Rosa una fusione “tra le due componenti<br />

più vigili e avanzate della cultura europea contemporanea, ossia la<br />

civilisation francese con la Kultur tedesca, – esprit con Geist (…) poesia<br />

con filosofia, arte con vita” ( 94 ): “Credo che si potrebbe fare una<br />

fusione tra la Svizzera sassone dello spirito in cui Nietzsche scrisse che si<br />

era rifugiato Schumann e la religiosità della maternità, del lavoro e<br />

dell’amore così divinamente espressa dal nostro dolce e severo Se-<br />

Cecchi nel marzo 1916 scrive a Campana di aver corretto il proprio giudizio affrettato<br />

sui Canti Orfici: “Allora io ero restato preso e sviato da parti, nel libro, come<br />

«La Notte» etc. e non avevo visto bene la parte dirò così luminosa e mediterranea”;<br />

LXXXIV, p. 145.<br />

( 91 ) Campana a Prezzolini (Marradi, 4 ottobre 1915), in Souvenir d’un pendu,<br />

cit., XLV, p. 98.<br />

( 92 )NIETZSCHE, Prefazione a Il caso Wagner. Un problema per amatori di musica,<br />

versione di F. Masini, in Il caso Wagner Crepuscolo degli idoli L’anticristo Ecce<br />

Homo Nietzsche contra Wagner, cit., p. 5.<br />

( 93 )NIETZSCHE, Il caso Wagner, cit., p. 10.<br />

( 94 )ASOR ROSA, op. cit., p. 18.


148<br />

SUSANNA SITZIA<br />

gantini, e che già si trova in Millet (…) Se una nuova civiltà latina<br />

dovrà esistere, essa dovrà assimilare la Kultur. La Francia da sola<br />

non ci è riuscita, essa è stata sommersa nella cultura tedesca, nella<br />

difformità che non è riuscita a forgiare, e anche noi in Italia siamo<br />

stati vittime di questa débâcle, e proprio nel momento in cui una<br />

nuova cultura poteva formarsi in Italia dove non esiste finora altro<br />

che una Kultur universitaria” ( 95 ). Precisi rimandi testuali attestano<br />

la familiarità del marradese con Al di là del bene e del male, dove per<br />

significare che Schumann “non era ormai nient’altro che un avvenimento<br />

tedesco nella musica” Nietzsche scrive che “si era rifugiato<br />

nella «Svizzera sassone» della propria anima” ( 96 ). Schumann non era<br />

più “un avvenimento europeo, al pari di Beethoven”, come in misura<br />

ancora maggiore era stato Mozart, con Schumann “la musica tedesca<br />

fu minacciata dal maggiore dei pericoli, quello di cessar d’essere<br />

l’espressione dell’anima europea, diventando una fantasticheria nazionale”<br />

( 97 ). La musica europea dell’avvenire risulta invece dalla sintesi<br />

di nordico e latino, come quella di Dante nell’interpretazione fissata<br />

da Campana in questo breve e famoso frammento: “È il carillon<br />

d’una torre gotica. Anche Dante nel V canto ebbe questa fantasia cavalleresca<br />

che trionfa dell’inferno latino. Come sempre la poesia di<br />

Dante risulta dalla lotta tra il nordico e il latino...” ( 98 ).<br />

Posto che qualcuno ami il sud come io lo amo, cioè (...) come un’incontenibile<br />

pienezza e trasfigurazione solare, dilatantesi sopra un’esistenza sovrana<br />

e colma di fede in se stessa: ebbene un tale uomo imparerà a stare un<br />

po’ in guardia dinanzi alla musica tedesca (…) Ove quest’uomo del sud,<br />

tale non per nascita, sibbene per fede, sogni un avvenire della musica, egli<br />

deve sognare anche una redenzione della musica dal nord e avere nell’orecchio<br />

il preludio di una musica più profonda, più possente, forse più malvagia<br />

e misteriosa, una musica sovratedesca che non smuore, non avvizzisce,<br />

non trascolora allo spettacolo del ceruleo voluttuoso mare e della mediter-<br />

( 95 ) Campana a Soffici (Ginevra, 12 maggio 1915), in Souvenir d’un pendu,<br />

cit., XXX, pp. 83-84; corsivo nostro.<br />

( 96 )NIETZSCHE, Al di là del bene e del male. Preludio d’una filosofia dell’avvenire,<br />

nota introduttiva di G. Colli, tr. Di F. Masini, Adelphi, Milano 1977, Popoli e<br />

patrie, 245, p. 159.<br />

( 97 )NIETZSCHE, Al di là del bene e del male. Preludio d’una filosofia dell’avvenire,<br />

versione di E. Weisel, Fratelli Bocca, Torino 1902, 2ª ed., Popoli e patrie, 245,<br />

p. 174.<br />

( 98 ) È il carillon..., in Taccuini, abbozzi e carte varie, I, in Opere e contributi,<br />

cit., p. 430.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

149<br />

ranea chiarità del cielo, come accade a ogni musica tedesca (…) Potrei immaginarmi<br />

una musica la cui più rara magia consistesse nel non saper più<br />

nulla del bene e del male, e soltanto una qualche nostalgia di navigatore,<br />

una qualche ombra dorata, una qualche fievole dolcezza trascorrerebbero<br />

qua e là su di essa: un’arte che da estreme lontananze vedesse fuggire verso<br />

di sé i colori di un mondo morale divenuto incomprensibile (…) ( 99 ).<br />

Del brano di Al di là del bene e del male intitolato Popoli e patrie recano<br />

traccia le riflessioni del poeta sullo “stadio prolungato nel giorno”,<br />

sull’arte crepuscolare dov’è “profondamente dolce la voce dell’organetto,<br />

la canzone di nostalgia del marinaio”, cui si riallacciano i versi<br />

con una qualche ombra dorata di Prosa in poesia: “Un verde bizantino<br />

/ Sopra un occhio dorato / Descrivo le lastre a quadri / Dell’isola<br />

Maddalena (...) / Per scale di granito / Un organetto che sona (…) La<br />

casa è di granito / E sona l’organetto (…) Nel rantolo dell’ancora (…)<br />

Coll’ombra dell’occhio dorato / L’abete che riparte / Con cingoli di<br />

carene / Dell’ancora portandosi / Solo il segnale la sera” ( 100 ). L’arte<br />

mediterranea è un incontro di opposti stati artistici: in una pagina del<br />

Taccuinetto faentino Campana compendia così la struttura del suo<br />

canzoniere: “Parte prima del libro i notturni e il libro finisce nel Più<br />

chiaro giorno di Genova e la discussione sull’arte mediterranea” ( 101 ).<br />

Genova, che nel titolo de Il più lungo giorno – Il canto di Genova. Preludii<br />

mediterranei – richiamava il sottotitolo di Al di là del bene e del<br />

male e l’idea di arte mediterranea discussa in quell’opera, è invasa di<br />

“luce mediterranea” ( 102 ): una luce che coincide con la poesia, come<br />

suggerisce l’identificazione tra luce e poesia istituita nel canzoniere,<br />

come anche il confronto con la redazione del Quaderno, “combaciante<br />

con Genova quasi in tutto” ( 103 ): “La poesia mediterranea / S’arronda<br />

in pietra di cenere” ( 104 ). Filosofica e mediterranea la poesia di Campana<br />

si presenta fin dalla dichiarazione iniziale: la voce dotta scelta dal<br />

poeta per qualificare i suoi Canti deriva dal greco orphikós, una parola<br />

( 99 )NIETZSCHE, Al di là del bene e del male, tr. di MASINI, op. cit., Popoli e patrie,<br />

255, pp. 170-171.<br />

( 100 ) Prosa in poesia, in Taccuini, abbozzi e carte varie, I, in Opere e contributi,<br />

cit., p. 395.<br />

( 101 ) Taccuinetto faentino, cit., XXII, p. 66.<br />

( 102 ) Canti Orfici, Genova, p. 290.<br />

( 103 )RAMAT, Note al “Quaderno”, in Opere e contributi, cit., p. 370.<br />

( 104 ) Spiaggia, spiaggia, in Quaderno, in Opere e contributi, cit., p. 351.


150<br />

SUSANNA SITZIA<br />

di origine oscura ma che in Grecia era usata per indicare un pensiero<br />

filosofico e una prassi cultuale specifici: un movimento misterico facente<br />

capo all’Orfeo leggendario che ha avuto origine “nel dominio<br />

della religiosità mediterranea” ( 105 ). Poiché “dal tardo VI secolo a. C.,<br />

fino alla fine dell’antichità, quello di Orfeo fu il nome favorito per poemi<br />

pseudepigrafi di natura religiosa, metafisica o esoterica” ( 106 ) e<br />

“l’unione tra la religione e una speculazione semifilosofica fu caratteristica<br />

degli Orfici” ( 107 ), si può immaginare che Campana riferendosi<br />

nel titolo alla tradizione orfica abbia voluto affermare il valore sacrale<br />

della parola poetica, e il contenuto filosofico dei Canti. La risposta<br />

data dal poeta alla cerchia di goliardi che lo interrogava sul significato<br />

dell’aggettivo – “Orfici? Perché? La parola non ci parve chiara. E<br />

Campana disse allora di Orfeo, di misteri orfici, di potenza dionisiaca,<br />

di miti cosmici” ( 108 ) – prova di una relazione instaurata dall’autore<br />

tra il titolo del libro e i Misteri Orfici, neppure isolata se si affianca a<br />

quella di Pariani che forse esprimeva però una sua congettura dicendo<br />

che il titolo “richiama il culto del mitico Orfeo e dei suoi seguaci” ( 109 )<br />

– invita a una lettura del canzoniere che indaghi le analogie tra i suoi<br />

contenuti e la tradizione orfica dell’antichità: il richiamo a quel filone<br />

della letteratura e del pensiero antichi non è infatti esterno, avulso dai<br />

contenuti della poesia; al contrario, la cifra orfica del libro introduce<br />

al suo simbolismo, a contenuti filosofici dissimulati attraverso il richiamo<br />

a Orfeo e, come ci dice Ravagli, ai Misteri Orfici e a Dioniso.<br />

4. Apollo e Dioniso. – Nel 1805 aveva segnato “una svolta negli studi<br />

orfici” ( 110 ) l’edizione dei frammenti orfici curata da Gottfried Hermann:<br />

Orphica; erano seguiti nel 1829 Aglaophamus di Lobeck, criti-<br />

( 105 )M. UNTERSTEINER, La fisiologia del mito, Boringhieri, Torino 1991, p. 39.<br />

( 106 ) M.L. WEST, I poemi orfici, tr. di M. Tortorelli Ghidini, Loffredo, Napoli<br />

1993, p. 17.<br />

( 107 )E. ROHDE, Psiche. Fede nell’immortalità presso i Greci, pref. di G. Pugliese<br />

Carratelli, tr. di E. Codignola e di A. Oberdorfer, Laterza, Roma-Bari 1989, 2ª<br />

ed., p. 447.<br />

( 108 )RAVAGLI, op. cit., p. 127.<br />

( 109 )C. PARIANI, Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo<br />

Boncinelli scultore, Vallecchi, Firenze 1938, ora in C. PARIANI, Vita non romanzata<br />

di Dino Campana, Ponte alle Grazie, a cura di T. Giannotti, Firenze 1994, p. 75.<br />

( 110 ) G. COLLI, La sapienza greca, Adelphi, Milano 1995, I, 3ª ed. (da qui Colli),<br />

p. 32.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

cato da Nietzsche per l’interpretazione delle feste dionisiache ( 111 ), e<br />

nel 1885 Orphica, di Abel. Contribuirono a una nuova ricezione del<br />

personaggio di Orfeo alcuni studi di storia del pensiero religioso greco<br />

antico come Psiche, di Erwin Rohde, per anni interlocutore di Nietzsche.<br />

La diffusa spiegazione di Rohde sulla riforma operata dall’Orfismo<br />

all’interno del Dionisismo con la divulgazione di alcuni aspetti relativi<br />

alla religione misterica orfica, anche quella fantasiosa del fortunatissimo<br />

I grandi iniziati di Shuré, e molto più la teoria nietzschiana<br />

sull’origine misterica della tragedia, poterono spostare sul versante del<br />

dio dell’eccesso il personaggio di Orfeo, che fino ad allora l’arte aveva<br />

prediletto come il figlio del dio Apollo, il figlio della misura. Nella figura<br />

originaria di Orfeo Campana, partito da premesse nietzschiane,<br />

ha individuato i simboli di un’arte alla quale aspirava: Orfeo è la figura<br />

archetipica che più incarna quello che Nietzsche considera “il fenomeno<br />

più importante di tutta la lirica antica”: “L’unione, anzi l’identità,<br />

considerata dappertutto naturale, del lirico con il musicista” ( 112 ). Se<br />

l’Orfeo agamos dei Canti e la trasposizione plastica del sentimento malinconico<br />

denotano un’orfismo vicino a quello baudelairiano, di Nerval<br />

e di Verlaine, quest’ultimo “il maestro di Campana per la poesia”<br />

come Nietzsche lo era “per la filosofia” ( 113 ), l’Orfeo filosofo e fondatore<br />

dei Misteri discende a Campana dalla poesia greca e latina, dove il<br />

personaggio è caratterizzato in conseguenza del suo legame con l’Orfismo<br />

( 114 ). Nella figura originaria del citaredo Orfeo Campana individua<br />

i simboli di un’arte dalla sensibilità neo-greca, quella per lui della<br />

“vera poesia italiana moderna” ( 115 ), ispirata alla teoria nietzschiana<br />

151<br />

( 111 )NIETZSCHE, Crepuscolo degli idoli, cit., Quel che devo agli antichi, 4, pp. 158-<br />

159.<br />

( 112 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 5, p. 41.<br />

( 113 ) “I due ch’egli riconosceva, senza dichiararlo, ma da come s’esprimeva, maestri<br />

erano Nietzsche per la filosofia, Verlaine per la poesia”: BEJOR, op. cit., p. 25.<br />

( 114 ) Nel canto di Orfeo sull’origine del mondo nelle Argonautiche di Apollonio<br />

Rodio, che per West si rifaceva alla Teogonia di Eudemo (cit., pp. 138-139),<br />

“reminescenze empedoclee si mescolano ai temi orfici”. COLLI, Commento a 4 (B<br />

16), p. 408. Virgilio chiamerà Orfeo hiereus quando ad Enea apparirà per primo<br />

tra i beati “perché l’escatologia orfico-dionisiaca, che intesse tutta l’elaborazione<br />

virgiliana della catabasi di Enea (…) lo considerava fondatore delle comunità degl’iniziati<br />

e quindi introduttore alla felicità elisia”. E. PARATORE, Commento a<br />

VIRGILIO, Eneide, tr. di L. Canali, commento di E. Paratore adattato da M. Beck,<br />

Mondadori, Milano 2000, 10ª rist., p. 629.<br />

( 115 )A proposito della poesia Dianora di Luisa Giaconi: Campana a Novaro,<br />

in Souvenir d’un pendu, cit., C, pp. 166-168.


152<br />

SUSANNA SITZIA<br />

sull’arte tragica greca. Orfeo nella leggenda è “figlio in senso proprio di<br />

Apollo” ( 116 ) e l’aurea lira ( 117 ) che tradizionalmente lo accompagna ribadisce<br />

la natura apollinea della sua arte, ma Orfeo “storicamente”,<br />

come fondatore di un movimento misterico che aveva Dioniso come<br />

principale divinità, è il sacerdote e cantore di Dioniso, al culto del<br />

quale l’Orfismo associava gli insegnamenti di Apollo: le pratiche catartiche<br />

della vita orfica. Come scrive Eliade “la figura di Orfeo sorge sotto<br />

i segni congiunti di Apollo e Dioniso, e anche l’orfismo si svilupperà<br />

nella medesima direzione” ( 118 ). Là dove Nietzsche individua “il culmine<br />

tanto dei fini artistici apollinei quanto di quelli dionisiaci” e<br />

l’apice della creazione artistica nel “legame di fratellanza fra Apollo e<br />

Dioniso” ( 119 ) si comprende come la definizione orfica del libro ne descriva<br />

innanzitutto la peculiarità stilistica: la “poesia europea musicale<br />

colorita” ( 120 ) di Campana è una poesia nietzschianamente europea,<br />

insieme dionisiaca e apollinea: dove la musica di Dioniso s’incrocia nel<br />

sogno delle arti figurative di Apollo. Nell’estetica nietzschiana è stata<br />

individuata fin dagli anni Cinquanta “la principale fonte di suggestione<br />

dell’arte campaniana” ( 121 ), e nel libretto di Bejor si diceva appunto<br />

che per Campana fu decisiva, molto più dell’idea dell’eterno ritorno, la<br />

“rivelata distinzione dell’origine dell’arte” ( 122 ). Nei suoi scritti sull’arte<br />

tragica Nietzsche teorizza che la Grecia avesse raggiunto nella tragedia<br />

i suoi più alti risultati artistici grazie alla compresenza di quelli che<br />

“rappresentano nel dominio dell’arte dei contrari stilistici” ( 123 ): la<br />

( 116 ) Scoli a Pindaro, 313°; Colli 4 (B 10).<br />

( 117 )PINDARO, fr. 139; Colli 4 (A 3). “Da Apollo giunse poi il sonatore di lira,<br />

padre dei canti, Orfeo molto lodato”: PINDARO, Pitiche 4, 176-177; 4 (A 4) Colli.<br />

( 118 ) M. ELIADE, Storia delle credenze e delle idee religiose, Sansoni, Firenze<br />

1980, II, p. 187.<br />

( 119 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 24, p. 156.<br />

( 120 ) “Ricordando la propria attività letteraria affermò essersi prefisso di creare<br />

«una poesia europea musicale colorita»”. PARIANI, op. cit., p. 31.<br />

( 121 ) L’aspetto nietzschiano era stato indicato da Mario Petrucciani nel “processo<br />

antinomico che drammatizza la sensualità”: “I due momenti ugualmente validi della<br />

sua condizione poetica, definibile, se fosse lecito (e sforzando i termini) con le<br />

espressioni usate da Nietzsche: spirito apollineo e spirito dionisiaco”. “Canti Orfici”.<br />

Appunti per un saggio su Dino Campana, Gismondi, Roma 1955, pp. 7-10.<br />

( 122 )BEJOR, op. cit., p. 26.<br />

( 123 )NIETZSCHE, La visione dionisiaca del mondo, in Scritti dal 1870 al 1873, in<br />

La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, versioni di G.<br />

Colli, Adelphi, Milano 1973, p. 49.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

musica e le arti figurative, associati rispettivamente alle divinità Dioniso<br />

e Apollo. Creuzer, che “per primo ha attirato lo sguardo sulla coppia<br />

Apollo-Dioniso”, nel suo Symbolik und Mythologie del 1819 “parlava<br />

di una conciliazione attraverso l’orfismo (e la sua ipotesi rimarrebbe<br />

la più difendibile)” ( 124 ): il lavoro di Creuzer, fondamentale per<br />

l’elaborazione della teoria nietzschiana sulla tragedia, è stata forse la<br />

base scientifica per l’operazione culturale campaniana di “gettare un<br />

ponte” tra l’antica tradizione orfica e l’estetica nietzschiana. Aveva<br />

scritto nel suo Taccuinetto: “Il valore dell’arte non sta nel motivo ma<br />

nel collegamento e quindi nel punto di fusione si ha la grande arte: e la<br />

grande arte come la grande vita non è che un ponte di passaggio” ( 125 ):<br />

l’Orfismo è una forma mimetica che veicola contenuti nietzschiani.<br />

Colli individua un nesso tra l’interpretazione nietzschiana della tragedia<br />

e la poesia orfica: “(...) come Nietzsche afferma che nella tragedia<br />

l’eccitazione e l’ebbrezza estatica di Dioniso si scaricano in un mondo<br />

apollineo di immagini, nelle apparenze di Apollo in cui si oggettiva<br />

Dioniso, così nella poesia orfica possiamo ritrovare un analogo rapporto<br />

tra contenuto dionisiaco e forma apollinea. Difatti la poesia di Orfeo<br />

è in primo luogo il canto di Apollo, cioè espressione, apparenza, musica<br />

e parola, ma il suo contenuto è – attraverso la passione di Dioniso –<br />

il mistero di Dioniso. Si deve dire anzi che il richiamo ad Apollo e a<br />

Dioniso, nel caso della poesia orfica, è chiaramente imposto dalle fonti<br />

antiche, non è il frutto di un’interpretazione, mentre altrettanto non<br />

può dirsi a proposito della tragedia (almeno rispetto ad Apollo)” ( 126 ).<br />

Testimonia Bejor che il titolo del libro di Campana esprime una concezione<br />

elitaria dell’arte, che combina materia dionisiaca e forma apollinea:<br />

“L’‘apollineo’ ed il ‘dionisiaco’ sembravano i due momenti stessi<br />

del suo pendolare vivere poetico: in quelli fiso, creava martellando al<br />

ritmo: dionisiaca la materia, apollinea la forma: serena l’opera compiuta.<br />

Si sentiva iniziato ad una espressione d’arte superiore; non accessibile<br />

ai comuni poeti: ‘Canti Orfici’. Nel ‘dionisiaco’: orchestra della<br />

natura, si lanciava a perdersi; e pazzamente talvolta smaniava, prima di<br />

dar fuori, purificati, la sua opera, il suo pensiero” ( 127 ). Iniziazione a<br />

153<br />

( 124 )COLLI, op. cit., p. 24.<br />

( 125 ) Taccuinetto faentino, cit., I, p. 25. Cfr. Così parlò Zarathustra: “Ciò che è<br />

grande nell’uomo, è l’essere egli un ponte e non già una meta: ciò che è da pregiare<br />

nell’uomo, è l’essere egli una transizione ed una distruzione”. Op. cit., Prefazione<br />

di Zarathustra, p. 12.<br />

( 126 )COLLI, op. cit., p. 38; corsivo nostro.<br />

( 127 )BEJOR, op. cit., p. 24; corsivo nostro.


154<br />

SUSANNA SITZIA<br />

un’espressione d’arte derivata a Campana dalla lettura della Nascita<br />

della tragedia, avvenuta senz’altro nel periodo precedente la composizione<br />

de Il più lungo giorno, dove l’explicit “Dionisos, Dionisos, Dionisos”<br />

( 128 ) di una lirica che non comparirà negli Orfici mostra un<br />

Campana già sensibilizzato a un tema che pur percorrendo l’intera<br />

opera nietzschiana è centrale nella Nascita della tragedia. La lettura<br />

de La Nascita della tragedia può farsi risalire almeno al ’12: all’otto<br />

dicembre di quell’anno risale la pubblicazione su “Il Papiro” di quella<br />

che Campana nel gennaio ’14 definirà “la più vecchia la più ingenua”<br />

( 129 ) delle sue poesie: il binomio voluttà e Dolore, la combinazione<br />

che per Nietzsche descrive la spiritualità artistica della Grecia<br />

d’epoca tragica, compare insieme ai termini-chiave dell’estetica<br />

nietzschiana – melodia e sogno – riferiti all’ideale estetico delineato in<br />

questa figura che anche per la compresenza di aspetti diversi è detta<br />

Chimera: “(…) Oh! per il tuo ignoto poema / Di voluttà e di Dolore<br />

/ Musica fanciulla esangue, / Segnato di linea di sangue / Nel cerchio<br />

delle labbra sinuose / Regina de la melodia. / (…) Oggi una fiamma<br />

pallida / Entro i capelli viventi / Sul Suo profondo pallore / O Estate<br />

che ardi nei cieli / Tu accendi pel suo corpo eburneo: / A la regina<br />

dei sogni che appare nei suoi vaghi veli” ( 130 ). La melodia nietzschianamente<br />

è la componente dionisiaca della poesia, e il sogno lo stato<br />

artistico apollineo, e la Chimera è “regina della melodia” e “regina<br />

dei sogni”: dunque già nel ’12 Campana delinea il suo ideale estetico<br />

come confluenza di dionisiaco e apollineo.<br />

5. La maschera. – Nell’interpretazione nietzschiana la maschera è<br />

la forma con cui Apollo comunica il contenuto simbolico dionisiaco,<br />

il velario che scherma dalla folgorante intuizione del dolore. Nel<br />

manoscritto de Il più lungo giorno Campana dice che le figure della<br />

sua poesia appaiono come una maschera, rivelando la natura tragica<br />

delle sue creature fantastiche: “E ancora ogni volto cui risero gli occhi<br />

a fior del sogno – ogni volto tra fragili rime sparito ghirlanda<br />

( 128 )D. CAMPANA, Il più lungo giorno, vol. I: riproduzione anastatica del manoscritto,<br />

vol. II: testo critico a cura di D. De Robertis, pref. di E. Falqui, Roma, Archivi<br />

di Arte e Cultura dell’Età moderna, Vallecchi, Firenze 1973, Giro d’Italia in<br />

bicicletta (I° arrivato al traguardo di Marradi), p. 104.<br />

( 129 ) Campana a Prezzolini (Marradi, 6 gennaio 1914) in Souvenir d’un pendu,<br />

cit., VI, p. 56.<br />

( 130 ) Montagna - La Chimera, “Papiro”, 8 dicembre 1912, in RAVAGLI, op. cit.,<br />

p. 89.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

d’amori notturni appare una maschera che fatua brilla e fluttua e già si<br />

cela al mio sgomento” ( 131 ). La maschera rimanda all’arte tragica greca<br />

e alla figura di Dioniso che ha nella maschera il suo simbolo più significativo<br />

( 132 ); nel suo fluttuare ricorda un personaggio tragico che<br />

compare nei Canti Orfici: Ofelia ( 133 ), il simbolismo del cui destino<br />

nella Nascita della tragedia è messo in relazione con “la saggezza del<br />

dio silvestre Sileno” ( 134 ). L’espressione “ogni volto cui risero gli occhi<br />

a fior del sogno” corrisponde al momento apollineo, in cui l’idea si<br />

concreta visivamente, in immagine; l’apparire di questi molteplici<br />

volti come una maschera ne rivela la natura dionisiaca: natura dionisiaca<br />

che si rivela nel momento in cui ogni volto è “sparito tra fragili<br />

rime”, quindi quando è raggiunto con la musica quell’“annientamento<br />

del mondo visibile dell’illusione” che per Nietzsche determina<br />

nell’artista “un appagamento ancora maggiore” di quello dato dal<br />

“piacere totale per l’illusione e la contemplazione” ( 135 ). La molteplicità<br />

della maschera e il suo movimento alludono alla concezione<br />

nietzschiana di arte intesa come la buona volontà di apparenza ( 136 ).<br />

Campana ha colto il messaggio nietzschiano e qui ne ha esplicitato<br />

un contenuto importante: è il concetto dell’“autonomia del simbolico,<br />

della maschera come produzione di simboli non funzionalizzati a<br />

sorreggere una determinata configurazione della finzione canonizzata<br />

in verità” ( 137 ). Il fluttuare indica il movimento dell’immagine, e<br />

155<br />

( 131 ) Il più lungo giorno, cit., La notte mistica dell’amore e del dolore, III, pp. 34-<br />

35. Cfr. Taccuinetto faentino, cit., XX, pp. 62-63.<br />

( 132 ) “Il travolgente avvento del dio e la sua indeclinabile presenza hanno trovato<br />

un simbolo da cui traspare l’enigma della sua duplicità, e con esso la sua frenesia:<br />

la maschera”. W.F. OTTO, Dioniso. Mito e culto, tr. di A. Ferretti Calenda,<br />

Il Melangolo, Genova 1990, p. 92.<br />

( 133 ) La sera di fiera, p. 80; Faenza, p. 169; La giornata di un nevrastenico (Bologna),<br />

p. 203. Sul personaggio di Ofelia nei Canti Orfici – già messo in relazione<br />

con “il senso terrestre, nietzschiano, della vita” (A. CAPODAGLIO, La via di Campana,<br />

Salentina, Galatina 1975, p. 44) – BONIFAZI, op. cit., pp. 46-47 e ASOR ROSA,<br />

op. cit., p. 55. Cfr. A. RIMBAUD, Ophélie : “Sur l’onde calme et noir (…) La blanche<br />

Ophélia flotte comme un grand lys, / Flotte très lentement, couchée en ses<br />

longs voiles...” Poésies, in Opere, tr. e cura di I. Margoni, Feltrinelli, Milano 1993,<br />

p. 34.<br />

( 134 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 7, p. 56.<br />

( 135 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 24, p. 157.<br />

( 136 )NIETZSCHE, Gaia Scienza, cit., 107, p. 104.<br />

( 137 )G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione,<br />

Bompiani, Milano 1974, p. 140.


156<br />

SUSANNA SITZIA<br />

afferma l’acquisizione della lezione nietzschiana sulla buona volontà<br />

di apparenza: un’apparenza che non fissa, come nel mondo della ratio,<br />

l’immagine come aspetto parziale, e per questo menzognero, dell’esistente,<br />

ma che coincide – e la sua mutevolezza, il suo movimento<br />

e la sua molteplicità costitutiva lo rivelano – con la multiforme<br />

essenza dionisiaca: il fluttuare della maschera indica l’avvenuto superamento<br />

di quell’“irrigidimento della finzione in verità” ( 138 ), caratterizzante<br />

la decadenza. Lo spunto offerto dal manoscritto degli Orfici<br />

ci permette di guardare alle figure della poesia campaniana nella<br />

loro piena valenza di simbolo: il movimento è la dimensione di queste<br />

maschere tragiche, le figure che percorrono i Canti mostrano nella<br />

loro mobilità l’adesione al progetto nietzschiano di arte come buona<br />

volontà di maschera. Nel finale della seconda parte de La Notte<br />

Campana proclama la riviviscenza nella propria creazione delle “potenze<br />

tutte” dell’arte dell’apparenza:<br />

Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano<br />

come gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in<br />

un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare.<br />

Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non<br />

era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti<br />

chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare<br />

ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra<br />

bellezza? ( 139 ).<br />

Sogno ed ebbrezza sono i termini coi quali Nietzsche indica gli stati<br />

fisiologici delle arti associate ad Apollo e Dioniso: il sogno è l’aspetto<br />

apollineo (figurativo) dell’arte poetica, che ora è ridesto e trionfale in<br />

tutte le sue potenze perché scaturisce dalla melodia, componente dionisiaca<br />

della poesia. Il sogno cadenzato proclama la riviviscenza del valore<br />

simbolico delle immagini, correlato all’elemento dinamico della musica<br />

che determina il dinamismo delle forme. Anche in un componimento<br />

del Quaderno, Une femme qui passe, è il “ritmo del passo” a<br />

scandire il sogno: “Andava. La vita s’apriva / Agli occhi profondi e sereni?<br />

/ Andava lasciando un mistero / Di sogni avverati ch’è folle sognare<br />

per noi / Solenne ed assorto il ritmo del passo / Scandeva il suo<br />

sogno / Solenne ritmico assorto / Passò. Di tra il chiasso / Di carri balzanti<br />

e tonanti serena è sparita / Il cuore or la segue per una via infini-<br />

( 138 )VATTIMO, op. cit., p. 71.<br />

( 139 ) Canti Orfici, La Notte, II, p. 39.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

ta / Per dove da canto a l’amore fiorisce l’idea. / Ma pallido cerchia la<br />

vita un lontano orizzonte” ( 140 ). L’ideale estetico che il poeta delinea<br />

in questa figura qui passe si configura come compresenza di dionisiaco<br />

e apollineo. È il passo a scandire il sogno, come ne La Notte, dove il<br />

mondo si compone in un sogno cadenzato per la melodia scaturita dal<br />

vagare degli spettri; il movimento delle figure, delle apparenze, coincide<br />

con l’elemento musicale: l’essenza del dionisiaco, musica e danza,<br />

rappresentata nei carri “balzanti e tonanti”, a segnare il carattere mutevole,<br />

simbolico e musicale, di movimento, della poesia in fuga ( 141 ) di<br />

Campana: celebre definizione interpretata da Del Serra nel senso appunto<br />

di una fuga “dalla fissazione oggettuale univoca delle immagini<br />

stesse (…) una tensione verso una libertà sempre ulteriore di associazione<br />

e trasformazione analogica” ( 142 ). “Vaghe creature”, figure errabonde,<br />

incedono negli Orfici con “passo melodioso, smorzato nella cadenza<br />

lieve ed uguale”: musica e danza sostanziano le figure della poesia<br />

di Campana che hanno i visi illuminati da una “fugace chiarità<br />

perlacea” ( 143 ): sono la trasposizione plastica della melodia.<br />

Il trionfo di una sintesi delle due componenti della poesia si ha nell’ultimo<br />

poema degli Orfici (I strofa): “(…) dai segreti / Dedali uscìi:<br />

sorgeva un torreggiare / Bianco nell’aria: innumeri dal mare / Parvero<br />

i bianchi sogni dei mattini / Lontano dileguando incatenare / Come un<br />

ignoto turbine di suono. / Tra le vele di spuma udica il suono” ( 144 ).<br />

“I bianchi sogni dei mattini” corrispondono alla componente figurativa:<br />

sono le immagini create dal poeta e qui rievocate nel modo tipico<br />

campaniano della visione: nella loro visibilità plastica in atto di smateriarsi.<br />

L’accostamento del colore bianco al sogno rimanda al mondo<br />

della creazione apollinea: il bianco rimanda infatti al marmo delle statue,<br />

alla scultura che è l’arte di Apollo per eccellenza, e il sogno è la dimensione<br />

in cui l’artista apollineo realizza le proprie creazioni: l’arte<br />

apollinea è per Nietzsche un giuoco con il sogno ( 145 ). Questo spiega anche<br />

la gamma di bianchi del “pallido amor degli erranti”, la Principessa<br />

dei sogni ( 146 ): nella Chimera, “forma pallida come un sogno uscito<br />

( 140 ) Une femme qui passe, in Quaderno, in Opere e contributi, cit., p. 328.<br />

( 141 )MONTALE, op. cit., p. 252.<br />

( 142 )DEL SERRA, op. cit., pp. 23-24.<br />

( 143 ) Canti Orfici, Scirocco (Bologna), pp. 263-264; corsivo nostro.<br />

( 144 ) Canti Orfici, Genova, p. 287.<br />

( 145 )NIETZSCHE, La visione dionisiaca del mondo, cit., I, p. 49.<br />

( 146 ) Canti Orfici, La Speranza (sul torrente notturno), p. 62.<br />

157


158<br />

SUSANNA SITZIA<br />

dagli innumerevoli sogni dell’ombra” ( 147 ), Campana rappresenta una<br />

delle “innumerevoli illusioni della bella apparenza” ( 148 ). I “bianchi sogni”<br />

di Genova sono concretizzazioni dell’idea in immagine; solo nel<br />

momento in cui iniziano a dileguarsi, a svanire, incatenano la musica,<br />

“un ignoto turbine di suono”: proprio come in quel passo de Il più<br />

lungo giorno “ogni volto cui risero gli occhi a fior del sogno”, cioè l’apparenza<br />

che soddisfaceva il “piacere totale per l’illusione e la contemplazione”<br />

( 149 ), appariva come maschera rivelando la sua natura dionisiaca<br />

quando “tra fragili rime”, cioè nel momento in cui aveva prevalso<br />

la musica, era “sparito”: la musica oltrepassa l’apparenza, “il mondo<br />

visibile dell’illusione” è stato nietzschianamente annientato ( 150 ). Così<br />

accadeva per Nietzsche nella tragedia: che la natura simbolica celata<br />

dai confini della bella apparenza venisse compresa nel momento in cui<br />

l’apparenza della maschera veniva oltrepassata, svaniva. L’estetica<br />

nietzschiana e la filosofia dello Zarathustra si fondono in quest’aforisma<br />

di Campana dove appare, come ha visto Bonifazi, l’idea dell’eterno<br />

ritorno ( 151 ), che Campana congiunge alla teoria nietzschiana sul<br />

fenomeno degli stati artistici dionisiaci: “Nel giro del ritorno eterno<br />

vertiginoso l’immagine muore immediatamente” ( 152 ).<br />

Campana accenna alla nuova arte teorizzata da Nietzsche in una<br />

lettera del maggio 1913 alla direzione di “Lacerba”, una delle riviste in<br />

cui trovava diffusione il pensiero di Nietzsche: “Ma se voi avete un<br />

qualsiasi bisogno di creazione non sentite che monta attorno a voi<br />

l’energia primordiale di cui inossare i vostri fantasmi?” ( 153 ). I fantasmi<br />

sono le apparenze, le immagini, e l’energia primordiale corrisponde al<br />

dionisiaco nietzschiano. Con un attacco tipicamente nietzschiano ( 154 )<br />

Campana scrive: “La vostra speranza sia: fondare l’alta coltura italia-<br />

( 147 ) Canti Orfici, La Notte, II, p. 35.<br />

( 148 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 25, p. 162.<br />

( 149 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 24, p. 157.<br />

( 150 ) Ivi. Ne La Notte è una “melodia invisibile” a scaturire dal vagare degli<br />

spettri: Canti Orfici, La Notte, II, p. 39.<br />

( 151 )BONIFAZI, op. cit., p. 39.<br />

( 152 ) Storie, II, in Taccuini, abbozzi e carte varie, II, in Opere e contributi, cit.,<br />

p. 444.<br />

( 153 ) Campana a Papini (Genova, maggio 1913), in Souvenir d’un pendu, cit.,<br />

IV, p. 53.<br />

( 154 ) Ricalca quello di Zarathustra: “La vostra speranza si chiami: «Possa io far<br />

nascere il superuomo»”. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, cit., Di donnicciuole<br />

vecchie e giovani, p. 61.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

na. Fondarla sul violento groviglio delle forze nelle città elettriche<br />

sul groviglio delle selvagge anime del popolo, del vero popolo” ( 155 ).<br />

La considerazione delle selvagge anime del popolo come base per la rinascita<br />

dell’arte è fondamentale nell’estetica di Nietzsche, che nel<br />

canto popolare individua l’origine della tragedia: è dal canto popolare<br />

che “sono sorte appunto l’intera poesia e l’intera musica dell’antichità”<br />

( 156 ). Il canto popolare per Nietzsche è “prima d’ogni altra cosa<br />

uno specchio musicale del mondo, una melodia primordiale, che cerca<br />

poi per sé un’apparenza di sogno parallela e la esprime nella poesia”,<br />

rappresenta cioè quella confluenza tra arti apollinee e dionisiache su<br />

cui fondava le sue speranze di rinascita dell’arte: “Ma cos’è il canto<br />

popolare in antitesi all’epos interamente apollineo? Cos’altro se non il<br />

perpetuum vestigium di un’unione dell’apollineo e del dionisiaco?” ( 157 )<br />

Del canto popolare “sostrato e presupposto” furono le “correnti dionisiache”<br />

( 158 ) e quello spirito caratterizzante le feste del dio considerato<br />

da Nietzsche la “culla del dramma” ( 159 ): per il filosofo tedesco dal<br />

canto innalzato a Dioniso dai festanti avrebbe avuto origine il coro<br />

tragico, e il coro in Nietzsche è “l’elemento che continua a tenere unita<br />

la tragedia nella sua forma storica (i drammi di Eschilo, Sofocle ed<br />

Euripide) con la sua forma primigenia” ( 160 ). Il canto popolare è la<br />

manifestazione artistica in cui per Nietzsche sussiste il rapporto “fra<br />

poesia e musica, fra parola e suono: la parola, l’immagine, il concetto<br />

cercano un’espressione analoga alla musica e subiscono poi in sé la<br />

violenza della musica”: è “nella poesia del canto popolare” che il linguaggio<br />

è “teso al massimo per imitare la musica” ( 161 ). Considerando<br />

versi come questi di Campana – “la melodia di lontani canti sperduti /<br />

Correva le vene de la città mediterranea” ( 162 ) – fino ai suoi ultimi<br />

(pensiamo alle diverse elaborazioni del poema dedicato a Novaro ( 163 ),<br />

( 155 ) Campana a Papini (Genova, maggio 1913), in Souvenir d’un pendu, cit.,<br />

IV, p. 53.<br />

( 156 )NIETZSCHE, Il dramma musicale greco, in Scritti dal 1870 al 1873, cit., p. 21.<br />

( 157 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 6, p. 46.<br />

( 158 ) Ivi.<br />

( 159 )NIETZSCHE, Il dramma musicale greco, cit., p. 12.<br />

( 160 )C. GENTILI, Nietzsche, Il Mulino, Bologna 2001, p. 70.<br />

( 161 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 6, p. 47.<br />

( 162 ) O siciliana proterva opulenta matrona, in Taccuini, abbozzi e carte varie, I,<br />

in Opere e contributi, cit., p. 386.<br />

( 163 ) A Mario Novaro, in Versi sparsi, in Opere e contributi, cit., pp. 287-288.<br />

159


160<br />

SUSANNA SITZIA<br />

“una poesia nazionale che continua in un rude canto popolare” ( 164 ),<br />

che piacque a Cardarelli per la sua “andatura popolare” ( 165 ) e di cui<br />

non sarebbero sfuggiti a Montale i “toni corali e popolareschi”) ( 166 )<br />

si può affermare che l’idea nietzschiana della poesia che ha le proprie<br />

radici nel canto popolare permanga e si consolidi nel pensiero e nella<br />

poetica del marradese, che nella lettera a “Lacerba” parla di “un’arte<br />

veramente nuova” ( 167 ), di un progetto culturale derivato dalla teoria<br />

nietzschiana sulla nascita / rinascita dell’arte dallo spirito vitale delle<br />

selvagge anime del popolo. Nel maggio 1913 Campana è persuaso dalla<br />

tesi elaborata da Nietzsche, del coro tragico come sviluppo del<br />

canto popolare originatosi nelle feste dionisiache, alla base dell’esortazione<br />

a fondare l’alta coltura italiana sul groviglio delle anime selvagge<br />

del vero popolo. Questa lettera a “Lacerba” si deve confrontare col<br />

paragrafo 23 della Nascita della tragedia, dove Nietzsche descrive<br />

l’eternamente affamato uomo senza miti e poi dice: “Tutte le nostre<br />

speranze tendono per contro con desiderio ardente verso quella visione<br />

secondo cui, sotto questa vita civilizzata che oscilla inquietamente<br />

in su e in giù e sotto le convulsioni culturali, si cela una forza antichissima,<br />

magnifica e intimamente sana, che si muove invero potentemente<br />

solo in momenti straordinari, per poi ritornare a sognare in attesa<br />

di un futuro risveglio” ( 168 ). Così come l’aforisma delle Storie –<br />

“Il popolo d’Italia non canta più. Non vi sembra questa la più grande<br />

sciagura nazionale?” ( 169 ) – la lettera del ’13 meglio si comprende<br />

alla luce dell’affermazione nietzschiana che “ogni periodo riccamente<br />

produttivo di canti popolari è stato insieme sospinto nel modo più<br />

forte da correnti dionisiache, che noi dobbiamo sempre considerare<br />

( 164 ) Campana a Cecchi (t. p. Lastra a Signa, 8 aprile 1916), in Souvenir d’un<br />

pendu, cit., XC, p. 154.<br />

( 165 ) “La tua ultima cosa sulla Riviera mi piace molto – quell’andatura popolare<br />

che gli hai dato è di un effetto molto melodioso e pieno di carattere”. Cardarelli<br />

a Campana (t. p. 19 maggio 1916), in Souvenir d’un pendu, cit., CVI, p. 173.<br />

( 166 )MONTALE, op. cit., p. 256.<br />

( 167 ) Campana a Papini (Genova, maggio 1913), in Souvenir d’un pendu, cit.,<br />

IV, p. 54.<br />

( 168 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 23, pp. 152-153. Cfr. O l’anima<br />

vivente delle cose: “Anima oscura del mondo / Son le tue forme molteplici / Che<br />

tratte dal sonno alla vita / Ora avviluppano il mondo”; in Quaderno, in Opere e<br />

contributi, cit., p. 334.<br />

( 169 ) Storie, I, in Taccuini, abbozzi e carte varie, II, in Opere e contributi, cit.,<br />

p. 442.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

come sostrato e presupposto del canto popolare” ( 170 ). Campana, che<br />

nella successiva lettera a Papini, firmandosi “uomo dei boschi” ( 171 ) riprende<br />

l’espressione di “uomo silvestre” usata da Nietzsche per<br />

l’“immagine primigenia dell’uomo”, il Satiro ( 172 ), si sente pienamente<br />

coinvolto dal progetto nietzschiano di partire dallo spirito della musica<br />

per creare la nuova arte. Nelle sue creazioni poetiche l’idea della melodia<br />

che nasce dalle selvagge anime del popolo è spesso resa con immagini<br />

che specificano questa natura “selvaggia” – Dioniso infatti “al tempo<br />

stesso si chiama ‘il selvaggio’” ( 173 ) – come natura dionisiaca: nella<br />

lirica dov’è nominato Dioniso la parola catastrofe rimanda all’arte tragica<br />

greca e l’immagine di una “turba in caccia” è evocativa delle feste<br />

dionisiache e della musica che da lì si innalzava:<br />

161<br />

Dall’alta ripida china precipite / Come movente nel caos d’un turbine /<br />

Come un movente grido del turbine / Come il nocchiero del cuore insaziato.<br />

/ Bolgia di roccia alpestre: grida di turbe rideste / Vita primeva di turbe<br />

in ebbrezze: / Un bronzeo corpo dal turbine / Si dona alla terra con lancio<br />

leggero. / Oscilla di vertigine il silenzio dentro la muta catastrofe di rocce<br />

ardente d’intorno. / Tu balzi anelante fuggente fuggente nel palpito indomo<br />

/ Un grido fremente dai mille che rugge e scompare con te / Balza una<br />

turba in caccia si snoda s’annoda una turba / Vola una turba in caccia Dionisos<br />

Dionisos Dionisos ( 174 ).<br />

L’immagine della “turba in caccia” corrisponde a quella delle<br />

“turbe che si agitano selvaggiamente, mascherate da Satiri e da Sileni”<br />

descritte anche da Nietzsche in corsa “nei campi e nelle foreste,<br />

ai primi inizi del dramma” ( 175 ). Le grida rimandano all’idea nietzschiana<br />

della musica dionisiaca: melodie incantate in cui si articolava<br />

“tutto l’eccesso della natura (…) in gioia, dolore e conoscenza, fino al<br />

grido lacerante” ( 176 ): così Nietzsche descrive il “demonico canto po-<br />

( 170 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 6, p. 46.<br />

( 171 ) Campana a Papini (t. p. Marradi, 23 dicembre 1913), in Souvenir d’un<br />

pendu, cit., V, p. 55.<br />

( 172 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 8, p. 56.<br />

( 173 )NIETZSCHE, un appunto per Nascita della tragedia, 10, in Note alla Nascita<br />

della tragedia, cit., p. 511.<br />

( 174 ) Il più lungo giorno, cit., Giro d’Italia in bicicletta (I° arrivato al traguardo<br />

di Marradi), pp. 103-104.<br />

( 175 )NIETZSCHE, Il dramma musicale greco, cit., p. 12.<br />

( 176 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 4, p. 37.


162<br />

SUSANNA SITZIA<br />

polare” ( 177 ), un eccesso che si manifestava nella simulazione della<br />

caccia con cui “l’homme des bois”, come Campana nel ’15 continuava<br />

a firmarsi ( 178 ), esprime l’enthusiasmós, l’istinto vitale da cui poté<br />

originarsi l’arte tragica greca, rappresentando nella turba il tiaso di<br />

Dioniso e il coro tragico, per Nietzsche nient’altro che un’evoluzione<br />

della festante massa dionisiaca. Come nella tragedia greca il coro<br />

si esprimeva per Nietzsche con un’unica voce, la voce di “un enorme<br />

individuo, dotato di polmoni soprannaturali” ( 179 ), così per Campana<br />

la nuova arte si esprime in “un grido fremente dai mille”, in un<br />

“movente grido del turbine”, in un coro che negli Orfici “è<br />

incantato”e “vive per miriadi di faville” ( 180 ), sposandosi come<br />

espressione di spiritualità dionisiaca al coro tragico greco. Un’impressione<br />

vaga e indeterminata ( 181 ) è generata nei Canti Orfici da canti<br />

corali, femminili o di fanciulli, che rendono manifesto il legame instaurato<br />

da Campana tra la propria poesia e la tragedia greca. Egli<br />

inaugura infatti la seconda parte de La Notte con l’immagine dionisiaca<br />

della corsa rituale alla montagna, un canto composito (“Salivano<br />

voci e voci e canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro<br />

dell’ombra ardente, al colle al colle”) ( 182 ) caratterizzato da un<br />

( 177 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 4, p. 38.<br />

( 178 ) Campana a Papini (t. p. Marradi, 4 luglio 1915) in Souvenir d’un pendu,<br />

cit., XXXII, p. 86.<br />

( 179 ) “Sebbene il coro sia formato da una pluralità di persone, esso tuttavia non<br />

rappresenta musicalmente una massa, bensì soltanto un enorme individuo, dotato di<br />

polmoni soprannaturali”. NIETZSCHE, Il dramma musicale greco, cit., p. 17.<br />

( 180 ) Canti Orfici, Immagini del viaggio e della montagna, p. 133. Cfr. NIETZ-<br />

SCHE: “L’incantesimo dionisiaco-musicale del dormiente sprizza ora intorno a sé<br />

come faville d’immagini, poesie liriche, che nel loro dispiegamento più alto si chiamano<br />

tragedie e ditirambi drammatici”. Nascita della tragedia, cit., 5, pp. 42-43.<br />

( 181 ) “Il bello e il grande ha bisogno dell’indefinito, e questo indefinito non si<br />

poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine. (…) Le massime<br />

di giustizia, di virtù, di eroismo, di compassione, d’amor patrio sonavano negli<br />

antichi drammi sulle bocche del coro, cioè di una moltitudine indefinita, e<br />

spesso innominata, giacché il poeta non dichiarava in alcun modo di quali persone<br />

s’intendesse composto il suo coro. Esse erano espresse in versi lirici, questi si cantavano,<br />

ed erano accompagnati dalla musica degl’istrumenti. Tutte queste circostanze<br />

(…) quale altra impressione potevano produrre, se non un’impressione<br />

vaga e indeterminata, e quindi tutta grande, tutta bella, tutta poetica?” LEOPAR<strong>DI</strong>,<br />

Zibaldone, cit., 2804-5, p. 557.<br />

( 182 ) Canti Orfici, La Notte, II, p. 34. Cfr. EURIPIDE: “Andate baccanti, / andate<br />

baccanti (…) cantate Dioniso al suono cupo dei timpani, evoè, / celebrate il dio<br />

del grido, / con voci e clamori di Frigia, / quando il sacro flauto soffio sonoro /


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

movimento ascensionale come in Giardino autunnale (“E dal fondo<br />

silenzio come un coro / Tenero e grandioso / Sorge ed anela in alto al<br />

mio balcone”) ( 183 ) e nel secondo poema in prosa, la narrazione in<br />

forma di diario dell’ascesa alla montagna, La Verna: “E, mentre il<br />

tempo fuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di un triplice<br />

coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confini dorati della<br />

notte dall’eco che nel seno petroso le rifondeva allungate, perdute.<br />

(...) Il canto breve: le tre fanciulle avevano espresso disperatamente<br />

nella cadenza millenaria la loro pena breve ed oscura e si erano taciute<br />

nella notte!” ( 184 ) In Immagini del viaggio e della montagna,<br />

dopo la “fine del pellegrinaggio” ( 185 ), si ripresenta il motivo dionisiaco<br />

della corsa: il canto è chiamato “bacchico”, e siamo in uno dei<br />

momenti più lirici del canzoniere: “(…) la massa degli scorridori / Si<br />

scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuori / Balzano: e grida ed oltrevarca i<br />

ponti. / E dalle altezze agli infiniti albori / Vigili, calan trepidi pei<br />

monti, / Tremuli e vaghi nelle vive fonti, / Gli echi dei nostri due<br />

sommessi cuori... / Hanno varcato in lunga teoria: / Nell’aria non so<br />

qual bacchico canto / Salgono” ( 186 ).<br />

Nella sezione incipitaria de La Notte il canto corale sorge da uno<br />

scenario denso di simboli riferibili a un contesto dionisiaco: nella dimensione<br />

trasfigurante del ricordo “una vecchia città” si presenta nell’“Agosto<br />

torrido” con le sue creature misteriose – “sagome nere di zingari<br />

mobili e silenziose sulla riva”, “tra il barbaglio lontano di un canneto<br />

lontane forme ignude di adolescenti” ( 187 ) – come rievocazione di<br />

scenario mitico, echeggiando le adunanze che attorno a fiumi e paludi<br />

celebravano sacri riti. La palude da cui sorge il primo canto corale degli<br />

Orfici, una “nenia primordiale”, ha un valore simbolico dionisiaco<br />

con il quale è sancito il legame tra i Canti Orfici e la tragedia greca: il<br />

più antico dei santuari di Dioniso ad Atene ( 188 ), per gli Ateniesi “il più<br />

freme alle sacre canzoni, / che accompagnano le donne / al monte, al monte”.<br />

Baccanti, a cura di G. Guidorizzi, Marsilio, Venezia 1989, vv. 152 ss., p. 71.<br />

( 183 ) Canti Orfici, Giardino autunnale (Firenze), p. 57; corsivo nostro.<br />

( 184 ) Canti Orfici, La Verna, I, Castagno, 17 Settembre, p. 102; corsivo nostro.<br />

( 185 ) Canti Orfici, La Verna, II, Presso Marradi (ottobre), p. 124; corsivo nostro.<br />

( 186 ) Canti Orfici, Immagini del viaggio e della montagna, p. 132.<br />

( 187 ) Canti Orfici, La Notte, I, p. 11.<br />

( 188 ) H. JEANMAIRE, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, tr. di G. Glaesser,<br />

appendice e aggiornamento bibliografico di F. Jesi, Einaudi, Torino 1972, p. 43.<br />

163


164<br />

SUSANNA SITZIA<br />

sacro fra quelli consacrati a Dioniso” ( 189 ), era la cappella di un Dioniso<br />

conosciuto come “Limnaios”, cioè Dioniso “alla palude”; il luogo in<br />

cui se ne celebrava il culto era chiamato Limnaion, un’area localizzata<br />

“presso un’antica palude prosciugata” da alcuni messa in relazione con<br />

la zona dove si tenevano le gare prima che venissero eretti i teatri ( 190 ).<br />

Le figure che si profilano su questo scenario non sono “la più miserabile<br />

umanità possibile per un nietzschiano, zingari ed ebrei” ( 191 ), “una<br />

realtà umana degradata” ( 192 ), corrispondono invece a “quegli straordinari<br />

cortei dionisiaci errabondi” ( 193 ) da cui per Nietzsche ha avuto origine<br />

la tragedia, prefigurando il tema princeps dell’opera: l’erranza,<br />

l’assenza di una patria che accomuna gli zingari al vecchio dalla barba giudaica,<br />

quest’ultimo forse figura dell’Ebreo Errante e ritratto di un satiro<br />

o di Dioniso stesso nel tipo della raffigurazione barbuta. “Il viaggio dell’iniziazione”<br />

non comincia da una realtà miserabile, dal fango della palude,<br />

dalla misera esistenza dolorosa dell’uomo ( 194 ) ma con il ricordo, con la<br />

ricostruzione immaginifica di un tempo dei primordi, di una ritualità<br />

tramite la quale il poeta connota la propria catabasi come esperienza dionisiaca.<br />

Per Jeanmaire “qualunque possa essere l’ubicazione esatta del<br />

vecchio santuario del Limnaion, è certo che l’appellativo del dio rimanda<br />

ad un luogo paludoso, prosciugato o meno”: s’ipotizza che “Dioniso, dio<br />

apportatore dell’umidità e del rinnovamento provocato dall’umidità, e<br />

emissario dell’aldilà, venisse anche evocato tra le brume fluttuanti sulle<br />

paludi le quali sono anche le bocche del mondo infero” ( 195 ). Le limnai<br />

di Dioniso erano “una porta dell’Ade” ( 196 ). Il fiume impaludato in magre<br />

stagnazioni plumbee, il canneto, l’acqua morta e la palude afona ( 197 )<br />

dell’incipit corrispondono alla nera melma e all’orrido canneto di Cocito,<br />

all’infausta palude dall’onda morta ( 198 ) che risuona dei canti di Or-<br />

( 189 )K. KERÉNYI, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, a cura di M. Kerényi,<br />

tr. di L. Del Corno, Adelphi, Milano 1998, 3ª ed., p. 272.<br />

( 190 )JEANMAIRE, op. cit., p. 42 ss.<br />

( 191 )N. BONIFAZI, Note a D. CAMPANA, Canti Orfici, commento di N. Bonifazi,<br />

Garzanti, Milano 1989, p. 128.<br />

( 192 )F. STARA, L’incanto orfico. Saggio su Dino Campana, Bari, Palomar 1997,<br />

p. 120.<br />

( 193 )NIETZSCHE, Il dramma musicale greco, cit., p. 12; corsivo nostro.<br />

( 194 )BONIFAZI, op. cit., p. 128.<br />

( 195 )JEANMAIRE, op. cit., p. 48.<br />

( 196 )KERÉNYI, op. cit., p. 271.<br />

( 197 ) Canti Orfici, La Notte, I, pp. 11-12.<br />

( 198 )VIRGILIO, Georgiche, cit., IV, vv. 478, 479, p. 345.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

feo quando compie la sua catabasi nel finale delle Georgiche di Virgilio:<br />

similmente ha inizio il viaggio del poeta degli Orfici nel labirinto della<br />

memoria, con squarci visionari come quello che nelle scene successive<br />

farà emergere figure baudelairiane da vera apertura del mundus (“Dei<br />

vecchi, delle forme oblique ossute e mute, si accalcavano spingendosi<br />

coi gomiti perforanti, terribili nella gran luce”) ( 199 ). La prima scena<br />

degli Orfici si conclude con un canto corale di zingare che opera una<br />

sospensione del corso del tempo aprendo la via per il soggetto poetico ad<br />

una visione altra, introspettiva, del mondo, attuata con la creazione attraverso<br />

la memoria – ed è in quest’aspetto della poetica di Campana<br />

che più si vede la continuità con quella leopardiana della ricordanza e il<br />

legame con l’escatologia orfica, che ruota attorno alla personificazione<br />

divina del Ricordo, Mnemosyne – del Grande Tempo, un tempo sacro<br />

di cui le “zingare” sono le restauratrici: “(...) e a un tratto dal mezzo<br />

dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia<br />

primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso” ( 200 ).<br />

Il recupero del mito è parte del progetto di rivoluzione dell’arte<br />

esposto da Nietzsche nella Nascita della tragedia. L’aura mitica che circonda<br />

le creature del canzoniere campaniano, che si stagliano su scenari<br />

naturali o di città “dove il mito si cova” ( 201 ), investe anche il soggetto<br />

poetante, il cui romanzo di vita è narrato in frammenti, per scorci,<br />

e dislocato in una plurima realtà geografica: uno spazio franto,<br />

quello del canzoniere e quello geografico, dove l’io lirico è immerso in<br />

una traslazione interrotta da poche soste e torna sulla scena per eclissarsi<br />

e ritornare con le sembianze di una nuova immagine simbolica:<br />

Faust e l’Ulisse foscoliano, il Russo e Regolo, mimesi dell’io poetante<br />

o suoi doppi nei Canti Orfici sono, come Orfeo, figure tragiche ed<br />

eroiche, ed è il delinearsi di un destino di ricerca e lotta esistenziale ad<br />

accomunare il protagonista del libro agli eroi tragici. Come ha osservato<br />

Ramat “il costruire una figura come ricalco od eco di altra figura<br />

già depositata (eternata) in icona, in mito, serve ad autenticare al massimo<br />

grado una condizione interiore, una circostanza del vissuto, autobiografica”<br />

( 202 ). Su una Piazza Sarzano percorsa da “un’ebbrezza<br />

zarathustriana” ( 203 ) e dalle “ritmiche cadenze mediterranee” rimbalza<br />

165<br />

( 199 ) Canti Orfici, La Notte, I, p. 14.<br />

( 200 ) Canti Orfici, La Notte, I, p. 13.<br />

( 201 ) Canti Orfici, Crepuscolo mediterraneo, p. 271.<br />

( 202 ) S. RAMAT, Qualche nota per “La Chimera”, in Dino Campana alla fine del<br />

secolo, cit., p. 31.<br />

( 203 )MONTALE, op. cit., p. 257.


166<br />

SUSANNA SITZIA<br />

un ritmico strido che annuncia la parusia di un “fanciullo a sbalzi che<br />

fugge melodiosamente” ( 204 ), tratteggiato col ricordo del fanciullo fuggevole<br />

che “s’allontana melodiosamente” nell’Alcyone ( 205 ).<br />

6. Dioniso Zagreo. – L’immagine archetipica del fanciullo, qui<br />

l’anima danzante di cui Campana annota che è “l’imagine, la forma<br />

della gioventù latina” ( 206 ), chiude il canzoniere nella frase tratta dal<br />

Song of Myself di Walt Whitman: “They were all torn / and cover’d /<br />

with the boy’s / blood”. Al significato di tragedia che Campana ha<br />

dato al libro nella frase in tedesco, “La tragedia dell’ultimo germano<br />

in Italia”, che nella prima edizione compare tra parentesi nel frontespizio,<br />

come sottotitolo, corrisponde una natura tragica risultante a<br />

livello narratologico dalla vicenda del protagonista che si conclude<br />

nel sangue. Fra “i continui errori” che rendevano il testo secondo<br />

Campana irriconoscibile ( 207 ) nell’edizione Vallecchi ( 208 ) dovette<br />

perciò spiacere all’autore non poco l’omissione delle ultime parole,<br />

la cui importanza sottolineava in una lettera a Cecchi, dove le definiva<br />

“le uniche importanti del libro” ( 209 ).<br />

Il canzoniere, come è ormai acquisito alla tradizione critica, ha<br />

un disegno compositivo non casuale, una struttura che necessita di<br />

tutte le sue parti per poter funzionare, per avere un senso: Luzi lo ha<br />

definito “il libro più libro” del Novecento ( 210 ) e Asor Rosa ha rimarcato<br />

che “l’ipotesi che va messa alla base di ogni corretta lettura<br />

dei Canti Orfici è che questa ‘raccolta’ è da concepirsi alla maniera di<br />

( 204 ) Canti Orfici, Piazza Sarzano, pp. 281-282.<br />

( 205 )G. D’ANNUNZIO, Alcyone, a cura di F. Roncoroni, Mondadori, Milano<br />

1995, Il fanciullo, vv. 252 e 282, pp. 134-135.<br />

( 206 ) Taccuinetto faentino, cit., I, pp. 22-23.<br />

( 207 ) “In qualche momento di tranquillità potei notare i continui errori del testo<br />

che è così irriconoscibile. Vi ànno pure aggiunto poesie di lezione fantastica.<br />

Non sono più in grado di occuparmi di studi letterari, pure vedendo che il testo<br />

va così perduto”. Campana al fratello Manlio (Castel Pulci, 2 giugno 1930), in<br />

Souvenir d’un pendu, cit., CLXXXI, p. 243.<br />

( 208 )D. CAMPANA, Canti orfici e altre liriche, pref. di B. Binazzi, Vallecchi, Firenze<br />

1928.<br />

( 209 ) Campana a Cecchi (Marradi, marzo 1916), in Souvenir d’un pendu, cit.<br />

LXXXIII, p. 141.<br />

( 210 ) M. LUZI, Al di qua e al di là dell’elegia, pref. a Opere e contributi, cit.,<br />

p. VIII.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

un ‘libro’, pensato, progettato e realizzato come tale” ( 211 ). La<br />

chiusa dei Canti Orfici, versi in inglese che Campana ricavò da Lives<br />

of grass, non può essere omessa perché costituisce degli Orfici la<br />

conclusione, considerata dall’autore assai esplicativa per asserirne<br />

l’importanza addirittura unica. Questi versi sono stati intesi come<br />

un richiamo alla morte di Orfeo, avvenuta “secondo la tradizione<br />

più diffusa e più tenace” ( 212 ) per mano delle seguaci di Dioniso:<br />

per Ceragioli per esempio “l’assassinio del poeta innocente a conclusione<br />

di canti che si definiscono orfici potrebbe richiamarsi alla<br />

morte di Orfeo sbranato dalle menadi” ( 213 ). Poiché l’opera letteraria<br />

più antica su questo tema era una tragedia di Eschilo, non sarà<br />

inutile ricordare che “il solo libro” che Campana desiderava avere<br />

nel ’16, stando a una lettera di Sibilla Aleramo che chiede a Cecchi<br />

di inviarlo a Campana, era “un Eschilo (…) nell’edizione di<br />

Oxford (non può sopportare le traduzioni francesi)” ( 214 ). Il mito<br />

della morte di Orfeo alla fine dei Canti di Campana potrebbe essere<br />

inerente, come il titolo, a quella conciliazione tra Apollo e Dioniso<br />

realizzata nel movimento misterico orfico, intesa nietzschianamente<br />

sul piano estetico. Con They il poeta intenderebbe le figure<br />

del canzoniere, paragonate alle baccanti: alle baccanti potrebbe essersi<br />

ispirato per “la turba delle signorine” dal viso “inconsciamente<br />

feroce” ( 215 ), per le “figure femminili, avvolte in pellicce” ( 216 )<br />

che in caccia attraversano Bologna ( 217 ), e quelle figure del mito<br />

s’indovinano nelle “perfide fanciulle brune mediterranee” che nella<br />

penultima prosa del libro, Crepuscolo mediterraneo, “bisbigliano all’orecchio<br />

al riparo delle ali teatrali e pare fuggano cacciate verso<br />

167<br />

( 211 )ASOR ROSA, op. cit., p. 28.<br />

( 212 ) Dizionario dei miti letterari, a cura di P. BRUNEL, ed. italiana a cura di G.<br />

Gavetta, Bompiani, Milano 1995, p. 519.<br />

( 213 ) In D. CAMPANA, Canti Orfici, intr. e commento di F. Ceragioli, BUR, Milano<br />

1997, n. ed., p. 15. Ma già GALIMBERTI, op. cit., p. 47 – “parole che Campana<br />

ricavò da Whitman (...) certo riconoscendo, nel ranger fanciullo del Song of myself,<br />

Orfeo che si reincarna come vittima espiatoria”.<br />

( 214 ) Aleramo a Cecchi, Pisa, 25 ottobre 1916, in S. ALERAMO-D. CAMPANA,<br />

Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918, a cura di B. Conti, Feltrinelli, Milano<br />

2000, p. 78.<br />

( 215 ) Canti Orfici, Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), p. 186.<br />

( 216 ) Canti Orfici, La giornata di un nevrastenico (Bologna), p. 201. Il nome<br />

Bassarides significa “portatrici di pelle di volpe”.<br />

( 217 ) Canti Orfici, La giornata di un nevrastenico (Bologna), p. 202.


168<br />

SUSANNA SITZIA<br />

qualche inferno” ( 218 ). Erranti figure della poesia quindi, quelle dell’immagine<br />

finale dei Canti: zingare/baccanti, come nomade è il poeta<br />

nelle sue molteplici incarnazioni nel canzoniere, la cui epigrafe “tradusse<br />

così: «Erano tutti stracciati e coperti col sangue del fanciullo»” ( 219 ).<br />

La morte di Orfeo, la morte per smembramento in genere, è innanzitutto<br />

una morte dionisiaca, perché corrisponde alla pratica cultuale<br />

dionisiaca dello diasparagmós, “un sacrificio per laceramento collettivo<br />

della vittima” ( 220 ). Molti hanno visto negli animali immolati a Dioniso<br />

una personificazione del dio, che nell’antichità veniva rappresentato<br />

dagli stessi animali che gli si sacrificavano ( 221 ). Nel caso dello<br />

smembramento di vittime umane, “poiché esse subivano la stessa<br />

morte del loro dio – secondo Frazer – è ragionevole supporre che ne<br />

fossero la personificazione”; per Frazer quest’interpretazione si applica<br />

anche alla morte di Orfeo: “la leggenda secondo cui il tracio Orfeo fu<br />

sbranato dalle baccanti, sembra indicare che anche lui impersonasse il<br />

dio di cui subì la sorte” ( 222 ). Di un’identificazione dell’io poetante<br />

con Dioniso ha parlato Del Serra, che ha visto come “il doppio esemplare<br />

di Campana-Orfeo è il Campana-Dioniso sacrificato, la cui figura<br />

balza da molti testi degli Orfici, a partire dalle celebre epigrafe whitmaniana”<br />

( 223 ), e Zanetti ha rapportato i Canti Orfici a uno dei Greek<br />

Studies di Pater, quello dedicato a Dioniso, dove si parla della letteratura<br />

orfica “al cui centro si colloca lo smembramento di un fanciullo<br />

divino” ( 224 ): ma finora si è appena intravisto il progetto campaniano<br />

di riscoperta del mondo religioso mediterraneo alla luce delle conside-<br />

( 218 ) Canti Orfici, Crepuscolo mediterraneo, p. 274.<br />

( 219 )PARIANI, op. cit., p. 61.<br />

( 220 )JEANMAIRE, op. cit., p. 176.<br />

( 221 ) All’omofagia rituale di una capra corrispondeva un Dioniso Melanaigis,<br />

del capretto un Dioniso Kemelios, al sacrificio del toro facevano riscontro invocazioni<br />

delle sue seguaci perché si manifestasse in quella forma (Euripide, Baccanti,<br />

cit., v. 99). JEANMAIRE, op. cit., p. 251.<br />

( 222 ) J.G. FRAZER, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, tr. di N. Rosati<br />

Bizzotto, Newton, Roma 1992, p. 431. Nel mito “molte altre persone smembrate<br />

sono connesse con Dioniso – ricorda West – i suoi nemici o rivali (Penteo,<br />

Licurgo, Atteone), oppure i neonati fatti a pezzi dalle Menadi furenti”, op. cit.,<br />

p. 158.<br />

( 223 )DEL SERRA, Sacrificio e conoscenza: elementi di simbologia nei “Canti Orfici”,<br />

in Dino Campana nel Novecento, cit., p. 40.<br />

( 224 )G. ZANETTI, Campana e il mondo delle immagini, in Dino Campana alla<br />

fine del secolo, cit., p. 156.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

razioni nietzschiane sull’origine misterica della tragedia. La coerenza<br />

tra il titolo del libro e il finale sorprende: la morte per smembramento<br />

è una morte orfica, e non solo perché Orfeo muore di quella morte ma<br />

perché in seno a quella comunità intellettuale riunitasi sotto il suo<br />

nome fu elaborato in forma poetica un mito sulla morte per smembramento<br />

di Dioniso: un mito antropogonico contenuto nei poemi teogonici<br />

orfici e tramandato dai neoplatonici, che citano brani della Teogonia<br />

rapsodica, che deriva quella materia mitica dalla Teogonia di Eudemo<br />

( 225 ); nella Teogonia di Eudemo è Notte il primo principio dell’Universo,<br />

e si era già ipotizzato che l’inizio dei Canti Orfici col poema<br />

La Notte potesse non essere alieno dallo schema cosmologico riportato<br />

in quell’opera dell’antichità ( 226 ). Questo mito dello smembramento<br />

di Dioniso, che nel mito della morte di Orfeo si ripeteva, è il<br />

“mito centrale della poesia orfica” ( 227 ). Nella lettera dove commenta<br />

il finale dei Canti Campana scrive: “Se vivo o morto lei si occuperà<br />

ancora di me la prego di non dimenticare le ultime parole They were<br />

all torn and covered with the boy’s blood che sono le uniche importanti<br />

del libro. La citazione è di Walt Whitman che adoro nel Song of Myself<br />

quando parla della cattura del flour of the race of rangers” ( 228 ). Nella<br />

canzone di Whitman i versi concludono la storia di un ragazzo ucciso<br />

a tradimento insieme ad altri hunters, tutti della “race of rangers”, cioè<br />

“la razza dei cacciatori”: ricordando che il boy della poesia di Whitman<br />

è un cacciatore catturato, Campana ha svelato il referente mitico<br />

di quell’immagine conclusiva: il mito orfico sullo smembramento di<br />

Dioniso. Il Dioniso che viene smembrato fanciullo infatti ha il nome<br />

di Dioniso Zagreo: scrive Jeanmaire che “l’etimologia di Zagreo come<br />

‘il Grande Cacciatore’ fu già familiare agli antichi; tutto sommato,<br />

essa resta anche la più verosimile” ( 229 ). Nella lirica de Il più lungo<br />

( 225 )WEST, op. cit., p. 151.<br />

( 226 )E. CITRO, Sbarbaro e Campana. Lo sguardo e la visione, Il Melangolo, Genova<br />

1994, p. 56.<br />

( 227 )COLLI, op. cit., p. 405.<br />

( 228 ) Campana a Cecchi (Marradi, marzo 1916), in Souvenir d’un pendu, cit.,<br />

LXXXIII, pp. 141-142.<br />

( 229 ) Lo studioso nota come nelle Baccanti di Euripide Dioniso venga chiamato<br />

“con una insistenza voluta, il capo aizzatore della muta e il Signore della caccia.<br />

In particolare questo titolo, Anax agreus, che s’incontra nel verso 1192, richiama<br />

alla mente, per una consonanza che non può essere fortuita, il nome di Zagreo”.<br />

JEANMAIRE, op. cit., p. 272. Anche per OTTO Zagreus significa “il gran cacciatore”<br />

(op. cit., p. 200), come già per ROHDE, op. cit., p. 447.<br />

169


170<br />

SUSANNA SITZIA<br />

giorno in cui è invocato Dioniso è descritta una scena di caccia, il<br />

che prova l’interesse per quest’aspetto del mito di Dioniso, collegabile<br />

al nome che assume dopo la sua lacerazione: “Balza una turba in<br />

caccia si snoda s’annoda una turba / Vola una turba in caccia Dionisos<br />

Dionisos Dionisos” ( 230 ). Il Quaderno presenta una soluzione<br />

narrativa simile a quella dei Canti Orfici, concludendosi così l’ultima<br />

lirica: “Fuggisti nell’onda di grido fremente, col cuore dei mille<br />

con te. / Come di fiera in caccia di dietro ti vola una turba” ( 231 ). È<br />

verosimile intendere la raccomandazione fatta a Cecchi come suggerimento<br />

del mito orfico alla base di quella sua ultima identificazione:<br />

Dioniso Zagreo, il dio fanciullo, il “Gran Cacciatore”, il Dioniso<br />

smembrato che Campana pone come identificazione ultima, e quindi<br />

in posizione forte, del soggetto poetico. La mimesi col Dioniso<br />

orfico spiega non solo il titolo del canzoniere, giustificato dalla materia<br />

mitica che il discorso poetico organizza, ma anche la definizione<br />

del canzoniere come “tragedia”: lo smembramento che accomuna<br />

Orfeo a Dioniso Zagreo è la chiave del collegamento tra il significato<br />

“orfico” e “tragico” attribuito da Campana ai propri Canti e la teoria<br />

sull’arte tragica di Nietzsche. È nota la relazione tra Dioniso e la<br />

tragedia: le rappresentazioni teatrali si svolgevano in occasione delle<br />

feste dionisiache ad Atene e, secondo Nietzsche, l’arte tragica avrebbe<br />

avuto origine nelle manifestazioni che costituivano le celebrazioni<br />

del dio. Nella visione nietzschiana del processo creativo tragico Dioniso<br />

da una parte rende possibile l’illusione apollinea, l’incantamento,<br />

tramite la melodia, dall’altra incarna egli stesso quella verità che<br />

la maschera tragica cela: per il filosofo tedesco è proprio questo dio<br />

dei misteri, Dioniso Zagreo, a celarsi dietro ognuna delle maschere<br />

tragiche elleniche:<br />

È tradizione incontestabile che la tragedia greca, nella sua forma più antica,<br />

aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso, e che per molto tempo l’unico<br />

eroe presente in scena fu appunto Dioniso. Con la stessa sicurezza peraltro<br />

si può affermare che fino a Euripide Dioniso non cessò mai di essere l’eroe<br />

tragico, e che tutte le figure famose della scena greca, Prometeo, Edipo, eccetera,<br />

sono soltanto maschere di quell’eroe originario. (…) Ma per servirci<br />

della terminologia di Platone, sulle figure tragiche della scena ellenica si<br />

( 230 ) Il più lungo giorno, cit., Giro d’Italia in bicicletta (I° arrivato al traguardo<br />

di Marradi), p. 104.<br />

( 231 ) Dall’alto giù per la china ripida, in Quaderno, in Opere e contributi, cit.,<br />

p. 355.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

171<br />

potrebbe all’incirca parlare così: l’unico Dioniso veramente reale appare in<br />

una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe in lotta, ed è per così<br />

dire preso nella rete della volontà individuale. (…) Ma in verità quell’eroe<br />

è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che sperimenta in sé i dolori<br />

dell’individuazione, e di cui mirabili miti narrano come da fanciullo fosse<br />

fatto a pezzi dai Titani e come poi in questo stato venisse venerato come<br />

Zagreus ( 232 ).<br />

Nietzsche non attribuisce l’invenzione di questi meravigliosi miti<br />

agli scrittori Orfici e forse dagli Orfici il mito sullo smembramento<br />

di Dioniso fu infatti solo messo per iscritto ( 233 ), ma il Dioniso<br />

smembrato è il Dioniso della mitologia orfica e Nietzsche scrive che<br />

con “i grotteschi geroglifici” delle loro pratiche i misteri orfici vogliono<br />

accennare al medesimo scopo per cui in quei secoli sono sorte la<br />

tragedia e la filosofia ( 234 ). Sicuramente “la leggenda di Zagreo sbranato<br />

dai Titani, già stata trattata poeticamente da Onomacrito, rimase<br />

argomento caro ai poemi orfici didascalici” ( 235 ) e il nome Zagreus<br />

è “connesso con il mito di Dioniso orfico” ( 236 ): è stato anzi ritenuto<br />

probabile che il collegamento tra Zagreus, divinità di origine<br />

forse cretese ( 237 ), e Dioniso sia avvenuto “per influenza orfica” ( 238 ).<br />

Dobbiamo pertanto guardare a quel mito come al punto focale dell’incontro<br />

tra l’orfismo di Campana e la teoria estetica di Nietzsche. Il<br />

nesso tra il significato di tragedia dato al canzoniere col sottotitolo e il<br />

colophon – ha detto molto bene Asor Rosa – è “autobiografico certo<br />

( 232 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 10, pp. 71-72.<br />

( 233 ) Per gli elementi che lo caratterizzano come mito iniziatico puberale questo<br />

mito sarebbe perfino anteriore a Dioniso: un mito esplicativo di una prassi cerimoniale<br />

di cui si sarebbero perse le tracce se non la si fosse associata a Dioniso, il<br />

dio fanciullo. JEANMAIRE, op. cit., p. 388.<br />

( 234 )NIETZSCHE, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, versione di G. Colli,<br />

op. cit., p. 274. Nietzsche degli Orfici scrive che, “estremamente singolari” come<br />

Talete, “possedevano in un grado ancora maggiore di Talete la capacità di cogliere<br />

le astrazioni e di pensare in modo non plastico: costoro tuttavia riuscirono soltanto<br />

a esprimere tali astrazioni in forma di allegoria”. Ivi, p. 283.<br />

( 235 )ROHDE, op. cit., p. 449.<br />

( 236 )KERÉNYI, op. cit., p. 95.<br />

( 237 ) Per Pugliese Carratelli “il punto fermo è che Zagreus è un dio (o un<br />

‘eroe’) cretese” (G. PUGLIESE CARRATELLI, Da Cadmo a Orfeo. Contributi alla storia<br />

civile e religiosa d’Occidente, Il Mulino, Bologna 1990, p. 394). Cfr. EURIPIDE, Cretesi,<br />

fr. 3; 4 (A 15) Colli.<br />

( 238 )COLLI, op. cit., p. 391.


172<br />

SUSANNA SITZIA<br />

(...) ma anche filosofico, cosmico”, e che “l’inserimento del colophon è<br />

una delle tante chiavi iniziatiche di lettura sparse nel testo” ( 239 ). La<br />

morte per smembramento di Zagreus è interpretata nella Nascita della<br />

tragedia, dove “il mito orfico del Dioniso smembrato viene riletto<br />

alla luce della formula schopenhaueriana del principium individuationis<br />

e sullo sfondo della distinzione tra volontà in sé e volontà determinata”<br />

( 240 ). Dioniso Zagreo è il dio che prova su di sé i dolori<br />

dell’individuazione, “la vera e propria sofferenza dionisiaca” è rappresentata<br />

nel mito della morte per smembramento di Dioniso<br />

“come una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco” ( 241 ). Il principium<br />

individuationis, di cui Apollo può essere definito “la magnifica<br />

immagine divina” per il fatto che “l’incrollabile fiducia in quel principium<br />

e il placido acquietarsi di colui che da esso è dominato, hanno<br />

trovato in lui la loro espressione più sublime” ( 242 ), è rappresentato<br />

nell’immagine del Dioniso fatto a pezzi come “la fonte e la causa prima<br />

di ogni sofferenza”: lo smembramento rappresenta lo stato di individuazione<br />

come “la vera e propria sofferenza dionisiaca” ( 243 ). È tramite<br />

l’“interprete di sogni Apollo” ( 244 ) che nella tragedia Dioniso,<br />

“preso nella rete della volontà individuale” ( 245 ), appare con “epica<br />

determinatezza e chiarezza” ( 246 ). Campana, ponendo quei versi<br />

come epilogo della tragedia che ha cantato s’identifica nel fanciullo<br />

in sangue: “Zagreus è il Dioniso presso i poeti” ( 247 ) e Campana<br />

vede se stesso come “l’alchimista supremo che del dolore ha fatto<br />

sangue” ( 248 ). Nella rappresentazione di sé come molteplicità, attuata<br />

attraverso le numerose oggettivazioni, Campana rappresenta la frantumazione<br />

dell’essere; nell’identificazione finale con Zagreus, che<br />

nell’economia complessiva degli Orfici è data dalla rappresentazione<br />

dell’essere franto in molteplici figure, il poeta s’identifica però con<br />

( 239 )ASOR ROSA, op. cit., p. 37.<br />

( 240 )GENTILI, op. cit., p. 60.<br />

( 241 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 10, p. 72.<br />

( 242 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 1, p. 24.<br />

( 243 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 10, p. 72.<br />

( 244 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 10, pp. 71-72.<br />

( 245 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 10, p. 71.<br />

( 246 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 10, p. 72.<br />

( 247 )CALLIMACO, fr. 43, 117; 4 (B 14) Colli.<br />

( 248 ) Campana a Papini, in Souvenir d’un pendu, cit., VIII, p. 58.


Nietzsche e l’Orfismo nella poetica di Dino Campana<br />

l’unità originaria, di cui lo smembramento rappresenta la dolorosa<br />

mancanza ma a cui lo smembramento prelude: perché è in questa<br />

totale identificazione col dio che si manifesta la misteriosa riunificazione<br />

dell’uomo all’originaria unità naturale. Come l’iniziato ai Misteri<br />

descritto da Nietzsche nel momento dell’esaltazione dionisiaca<br />

“sente se stesso come dio (…) si aggira in estasi e in alto, così come<br />

in sogno vide aggirarsi gli dei” ( 249 ), così Campana nell’identificazione<br />

con Zagreus comunica il raggiungimento di quel “totale oblio di<br />

sé” caratterizzante gli stati artistici dionisiaci: la rottura del principium<br />

individuationis, il momento della liberazione dai confini dell’io<br />

che è tra i più grandi aneliti dell’io lirico degli Orfici. Ricorre ne La<br />

Notte, dove l’oblio è magnificato nell’immagine orfica del lago, eternato<br />

per il suo concedere altissima quiete anche da Leopardi ch’era<br />

ricorso anch’egli all’immagine delle membra divise ( 250 ). Nella trasfigurazione<br />

del sentimento di lacerazione in immagine rappresentato<br />

per Nietzsche nel mito di Zagreo, nasce e si realizza il mito tragico:<br />

con le arti apollinee il sentimento dionisiaco, esprimibile come musica<br />

e interpretato come uno specchio della pluralità dell’esistente,<br />

viene trasfuso in un’apparenza: in questa realizzazione simbolica della<br />

melodia in immagine è possibile la “conciliazione con la realtà”<br />

quale per Nietzsche si espresse nell’arte tragica greca. Con il mito della<br />

morte per smembramento di Dioniso e la nascita degli uomini e del<br />

nuovo Dioniso ( 251 ) ha termine la serie delle narrazioni mitiche nelle<br />

Teogonie orfiche. I Canti Orfici, poesia “Chimera” che sgorga dalle<br />

sorgenti di una natura pluriforme, finiscono nell’orrore medusèo di<br />

una concezione dionisiaca del mondo, sublimato in un’immagine<br />

173<br />

( 249 )NIETZSCHE, La nascita della tragedia, cit., 1, p. 26.<br />

( 250 ) “Laghi, lassù tra gli scogli chiare gore vegliate dal sorriso del sogno, le<br />

chiare gore i laghi estatici dell’oblio che tu Leonardo fingevi”. Canti Orfici, La<br />

Notte, I, p. 29. “Talor m’assido in solitaria parte, / Sopra un rialto, al margine<br />

d’un lago / Di taciturne piante incoronato. (...) Tien quelle rive altissima quiete; /<br />

Ond’io quasi me stesso e ‘l mondo obblìo / Sedendo immoto; e già mi par che<br />

sciolte / Giaccian le membra mie, né spirto o senso / Più le commuova, e lor quiete<br />

antica / Co’ silenzi del loco si confonda”. G. LEOPAR<strong>DI</strong>, La vita solitaria, canto<br />

XV. dei Canti, rist. della riproduzione in facsimile della I ed. Fiorentina (1831)<br />

dei Canti del Conte G. Leopardi, con una «Identità dell’opera» di D. De Robertis,<br />

Le Lettere, Firenze 1997, p. 106.<br />

( 251 ) “Dioniso infatti, quando ebbe posto l’immagine nello specchio, a quella<br />

tenne dietro, e così fu frantumato nel tutto. Ma Apollo lo raccoglie assieme e lo riconduce<br />

alla vita, essendo dio purificatore e veramente salvatore di Dioniso, e per<br />

questo viene celebrato come Dionisodote”. OLIMPIODORO, Commento al Fedone di<br />

Platone, 67c; 4 (B 40) b Colli.


174<br />

SUSANNA SITZIA<br />

apollinea del mondo del sogno. In “un appunto di estetica” ( 252 ) del<br />

suo taccuino di poeta Campana, poeta orfico, poeta insieme cioè del<br />

sogno e dell’ebbrezza, ha scritto: “Nel fuggire la stretta oppressione<br />

dei contrari si crea l’arte” ( 253 ). Dioniso e Apollo “rappresentano nel<br />

dominio dell’arte dei contrari stilistici” ( 254 ) e “Orfeo stesso è la figura<br />

mitica inventata dai Greci per dare volto alla grande contraddizione,<br />

al paradosso della polarità e dell’unità tra i due dèi”: Orfeo<br />

“esprime la loro unione e perisce straziato dalla loro lotta” ( 255 ).<br />

( 252 )DE ROBERTIS, op. cit., p. 42.<br />

( 253 ) Taccuinetto faentino, cit., VII, p. 40.<br />

( 254 )NIETZSCHE, La visione dionisiaca del mondo, I, cit., p. 49.<br />

( 255 ) COLLI, op. cit., pp. 38-39.


LUCA LECIS<br />

IL SECONDO DOPOGUERRA IN GERMANIA.<br />

LA CHIESA CATTOLICA ED IL PROCESSO<br />

<strong>DI</strong> RINASCITA DEMOCRATICA<br />

1. La fine del secondo conflitto mondiale, con l’affermazione degli<br />

Stati Uniti e dell’Unione Sovietica come nuove potenze mondiali<br />

e l’eclissi delle potenze europee, Inghilterra, Germania e Francia, segna<br />

in Europa un radicale cambiamento nei rapporti internazionali,<br />

sconvolgendo, nel contesto del nuovo ordine mondiale, il panorama<br />

socio politico del vecchio continente. Riguardo alla Germania il<br />

crollo del Terzo Reich determina profonde conseguenze in campo<br />

politico, ridefinendone il ruolo internazionale ( 1 ). Militarmente annientata,<br />

la Germania perde la sua indipendenza e viene sottoposta<br />

ad un regime di occupazione ( 2 ). Ma la situazione della Germania<br />

come nazione assumeva connotati particolari, peraltro già emersi<br />

( 1 ) Sulla realtà politico-sociale tedesca del dopoguerra possiamo contare su diversi<br />

studi. Cfr. E. COLLOTTI, Il problema tedesco e le due Germanie, in M. FIRPO, N.<br />

TRANFAGLIA (a cura di), La Storia, vol. IX, tomo IV, Utet, Torino 1986, pp. 597-<br />

635; ID., Dalle due Germanie alla Germania unita, Einaudi, Torino 1992; ID.,<br />

Questione tedesca: le due Germanie nel secondo dopoguerra, in N. TRANFAGLIA (a<br />

cura di), «Il mondo contemporaneo». Storia d’Europa, vol. II, La Nuova Italia, Firenze<br />

1980, pp. 826-846; E. NOLTE, Deutschland und der Kalte Krieg, Piper Verlag,<br />

München, 1974. Si vedano inoltre i lavori di carattere generale di K.D. BRA-<br />

CHER-T. ESCHENBURG-J.C. FEST-E. JÄCKEL (a cura di), Geschichte der Bundesrepublik<br />

Deutschland, Deutsche Verlags-Anstalt-Brockhaus, Stuttgart 1981; di W.<br />

BENZ (a cura di), Die Bundesrepublik Deutschlands. Geschichte in vier Bänden,<br />

Fisher Taschenbuch Verlag, Frankfurt am Main 1989; di A. MISSIROLI, La questione<br />

tedesca. Le due Germanie dalla divisione all’unità 1945-1990, Ponte delle Grazie,<br />

Firenze 1993; di F. BERTINI-A. MISSIROLI, La Germania divisa 1945-1990,<br />

Giunti, Firenze 1994.<br />

( 2 ) Cfr. W. LOTH, The Division of the World 1941-1955, Routledge, London<br />

1988; cfr. inoltre A. HILLGRUBER, Europa in der Weltpolitik der Nachkriegszeit<br />

1945-1963, Richard Oldenburg Verlag, München 1993.


176<br />

LUCA LECIS<br />

chiaramente durante gli incontri di Yalta e di Potsdam ( 3 ), tenuti<br />

dalle potenze alleate al fine di ridefinire l’assetto politico mondiale.<br />

La Germania rappresentava un esempio emblematico di una indivisibile<br />

ambivalenza, nemico sconfitto, ma anche forza politica ed economica<br />

fra le più importanti dell’area centro occidentale.<br />

Con il crollo del regime hitleriano il futuro della Germania rimaneva<br />

indissolubilmente legato alle decisioni che gli Alleati avrebbero<br />

preso sia in riferimento al problema territoriale, con una ridefinizione<br />

dei suoi confini, sia su quello politico-economico ( 4 ). È anche<br />

vero che la posizione delle potenze vincitrici era differenziata. Se, infatti,<br />

gli Stati Uniti erano intenzionati a infliggere una punizione<br />

alla Germania, resasi responsabile della guerra, attraverso un’opera<br />

di denazificazione delle strutture della società, nello stesso tempo<br />

erano interessati nel lungo termine a rendere nuovamente il paese<br />

una potenza economica integrata con gli altri paesi europei, tale da<br />

costituire una barriera da opporre all’Unione Sovietica, che si era<br />

espansa minacciosamente in tutta l’Europa centrorientale. Ecco perché,<br />

secondo la prospettiva statunitense, le riparazioni imposte alla<br />

Germania non dovevano risultare eccessivamente onerose: esse<br />

avrebbero infatti potuto condurre da un lato all’indebolimento della<br />

Germania (con una conseguente negativa ripercussione sulle esportazioni<br />

dei prodotti americani), esponendola inoltre sul fronte interno<br />

al pericolo di una possibile avanzata delle sinistre, dall’altro al<br />

rafforzamento dell’Unione Sovietica, che avrebbe potuto accelerare la<br />

sua ricostruzione proprio grazie alle riparazioni ( 5 ). L’imposizione di<br />

riparazioni troppo elevate avrebbe inoltre rallentato la ripresa dell’economia<br />

tedesca, costringendo il Dipartimento del Tesoro americano a<br />

proseguire per molti anni il finanziamento della sua ricostruzione ( 6 ).<br />

( 3 ) Gli atti della Conferenza di Yalta, pubblicati in un volume speciale della<br />

serie annuale della rivista del Dipartimento di Stato Foreign Relations of the United<br />

States, documentano secondo Elena Aga Rossi gli sforzi compiuti dall’amministrazione<br />

Truman, ed in particolare dal suo consigliere personale George Esley, per la<br />

difesa degli accordi raggiunti a Yalta, v. E. AGA ROSSI, Gli Stati Uniti e le origini<br />

della guerra fredda, Il Mulino, Bologna 1984.<br />

( 4 ) Per le diverse problematiche riguardanti la Germania si veda, fra gli altri, il<br />

lavoro di L. CARACCIOLO, Alba di guerra fredda, Laterza, Roma-Bari 1986.<br />

( 5 ) Per un quadro dettagliato della strategia americana adottata in Germania<br />

nel secondo dopoguerra cfr. J. e G. KOLKO, I limiti della potenza americana. Gli<br />

Stati Uniti nel mondo dal 1945 al 1954, Einaudi, Torino 1975, pp. 141-172.<br />

( 6 ) Sulla politica economica americana in sostegno ai partners europei attuata<br />

attraverso l’ERP, European Recovery Programme e il Piano Marshall, con riferi-


Il secondo dopoguerra in Germania.<br />

Un risarcimento contenuto e una riduzione minima della produzione<br />

industriale avrebbero al contrario contribuito ad una rapida ripresa<br />

della Germania, possibile grazie alla ricchezza di materie prime del<br />

paese e al potenziale del suo apparato industriale. La rinascita economica<br />

era una condizione necessaria perché potessero essere pagate le<br />

riparazioni di guerra, senza contare che la stessa ripresa dell’economia<br />

europea appariva indissolubilmente legata a quella della Germania.<br />

Il progetto statunitense di ridefinizione dell’assetto economico tedesco<br />

non trovava tuttavia un consenso unanime fra gli alleati. La<br />

Francia soprattutto era la maggiore sostenitrice di una linea punitiva<br />

verso i tedeschi e, in questo senso, sin dal 1945 cercò di impedire<br />

qualsiasi iniziativa volta «ad una amministrazione politica ed economica<br />

unificata delle quattro potenze» ( 7 ). La posizione francese, appoggiata<br />

dall’Unione Sovietica, derivava dal timore che il vicino tedesco<br />

potesse, in un prossimo futuro, costituire per essa una nuova<br />

minaccia ( 8 ). Per queste ragioni la Francia riteneva inammissibili le<br />

misure proposte dagli Stati Uniti, che miravano alla creazione di<br />

un’amministrazione tedesca centralizzata e finalizzata alla fornitura<br />

alla Germania di tutti i mezzi necessari per un rapido rilancio della<br />

propria economia. La Francia adottò quindi una tattica ostruzionistica<br />

esercitando ripetutamente il diritto di veto in seno al Consiglio<br />

alleato di controllo per bloccare ogni risoluzione sulla Germania ritenuta<br />

troppo blanda. Poiché le risoluzioni adottate dal Consiglio<br />

delle quattro potenze dovevano essere approvate all’unanimità, la<br />

Francia poté impedire de facto l’attuazione di parte degli accordi siglati<br />

a Potsdam ( 9 ). Sin dal 1945 la Francia era andata opponendosi<br />

fermamente non solo ad una ricostruzione economica della Germania,<br />

ma ne aveva anche favorito lo smembramento. De Gaulle prima<br />

177<br />

mento alla Germania, la bibliografia è molto ampia; a titolo esemplicativo v. H.C.<br />

MAIER, German recovery and the Deutschland 1948-1952, Bonn 1969; U. DANIEL,<br />

Dollardiplomatie in Europa, Marschallplan, Kalter Krieg und US-Außenwirtschaftspolitik<br />

1945-1952, Düsseldorf 1982; E. AGA ROSSI (a cura di), Il Piano Marshall e<br />

l’Europa, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1983.<br />

( 7 ) J. e G. KOLKO, I limiti della potenza americana…, cit., p. 148.<br />

( 8 ) La vicinanza delle posizioni francesi con quelle sovietiche in molte delle questioni<br />

internazionali, prima fra tutte la sorte della Germania, aveva portato De Gaulle<br />

e Stalin a siglare un patto di amicizia e di non aggressione. Cfr. G.H. SOUTOU, La<br />

sécurité de la France dans l’après-guerre, in M. VAÏSSE-P. MÈLANDRI (a cura di), La<br />

France et l’OTAN 1946-1996, Ed. Complexe, Paris 1996.<br />

( 9 ) Per questi aspetti cfr. J. GIMBEL, The Origins of the Marshall Plan, California<br />

University Press, Stanford 1976.


178<br />

LUCA LECIS<br />

e Bidault poi si opposero alla riunificazione politica della Germania,<br />

chiedendone il disarmo permanente e forti limitazioni produttive<br />

nell’industria pesante. Ad incrinare i rapporti fra gli alleati della coalizione<br />

antifascista contribuirono in maniera determinante proprio i<br />

francesi, preoccupati che la creazione di un’autorità centrale tedesca<br />

potesse controllare il bacino carbo-siderurgico della Ruhr costituendo,<br />

in prospettiva futura, un pericolo per l’economia della Francia.<br />

Le rivendicazioni su questa regione, inoltre, aumentavano la tensione,<br />

giacché l’Urss, secondo la Francia, avrebbe potuto accrescere la<br />

propria influenza sulla Germania e costituire così una seria minaccia<br />

alla propria sicurezza. L’intento di Parigi era quello di staccare le regioni<br />

della Renania e della Ruhr dalla Germania per porle sotto un<br />

controllo internazionale permanente; poco importava che questo<br />

avrebbe significato bloccare qualsiasi politica finalizzata a ristabilire<br />

una possibile unità tedesca. Come ha osservato Richard Thilenius «la<br />

scarsa propensione delle Potenze occidentali a concedere ai sovietici<br />

una partecipazione al controllo sulla Ruhr doveva contribuire in misura<br />

cospicua alla divisione della Germania» ( 10 ). Lo smembramento della<br />

Germania appariva dunque ai francesi come l’unico mezzo efficace<br />

per annullare ogni minaccia futura ( 11 ). Per questo motivo il governo<br />

di Parigi non riconobbe la validità degli accordi della conferenza di<br />

Potsdam, in quanto stipulati senza la partecipazione della Francia,<br />

preferendo lasciare decidere autonomamente ad ogni singola potenza<br />

occupante la politica da attuare nella propria zona di controllo ( 12 ).<br />

Al superamento dell’ostruzionismo francese puntavano americani<br />

e inglesi. Per l’Inghilterra l’unificazione economica centralizzata tedesca<br />

era indispensabile per poter progressivamente diminuire gli<br />

( 10 ) R. THILENIUS, Die Teilung Deutschland, Rowohlt, Hamburg 1957, p. 122.<br />

( 11 )I rappresentati francesi nella Commissione di controllo si opposero inoltre<br />

sia alla formazione di partiti e sindacati organizzati su base nazionale, sia alla costituzione<br />

di un’amministrazione centrale tedesca, peraltro prevista dagli accordi di<br />

Potsdam, avente il compito di coordinare le diverse attività nel campo dei trasporti,<br />

dell’energia e dell’apparato burocratico, per un riavvio autonomo della società<br />

in Germania. La politica di occupazione della Francia fu diretta ad uno sfruttamento<br />

economico sistematico della zona di occupazione ad essa assegnata; sfruttamento<br />

giustificato come un legittimo indennizzo per le perdite subite durante la<br />

guerra e accompagnato da un’operazione, appoggiata dalla macchina propagandistica<br />

francese, volta ad un’assimilazione culturale. Su queste problematiche si veda G.<br />

MAMMARELLA, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 88 ss.;<br />

E. COLLOTTI, Storia delle due Germanie 1945-1968, Einaudi, Torino 1968, p. 82 ss.<br />

( 12 ) H. ABOSCH, La Germania senza miracolo. Da Hitler ad Adenauer, Mondadori,<br />

Milano 1963, p. 26.


Il secondo dopoguerra in Germania.<br />

enormi stanziamenti economici erogati da Londra per la gestione<br />

della zona britannica, pari al doppio della spesa affrontata dagli Stati<br />

Uniti che peraltro amministravano una zona territorialmente maggiore<br />

( 13 ). Nonostante le divergenze vi era un elemento comune che<br />

univa i tre alleati occidentali: il clima di «guerra fredda» li accomunava<br />

nell’interesse di consolidare la Germania nella prospettiva di<br />

realizzare un argine all’avanzata sovietica ( 14 ).<br />

La politica d’occupazione interalleata in Germania era stata elaborata<br />

in maniera tale da ridimensionare di fatto la capacità produttiva<br />

dei grandi comparti industriali delle grandi imprese nazionali<br />

(considerate complici del nazionalsocialismo) per rendere impossibile<br />

alla Germania di ricostituire la sua potenza militare. In questo<br />

contesto si inserisce l’iniziativa intrapresa nel marzo del 1946 dal governo<br />

laburista inglese che, approvando il Level of Industry Plan per<br />

la Germania, fissava «interventi di smantellamento e smembramento»<br />

tali da «ridurre le dimensioni dell’economia tedesca al di sotto<br />

del livello di quella britannica e francese» ( 15 ).<br />

2. Il secondo dopoguerra è un periodo che riveste una notevole<br />

importanza anche per ciò che concerne lo studio delle problematiche<br />

socio-religiose nell’area tedesca, una zona geografica che nella<br />

storia europea ha ricoperto un ruolo di primissimo piano per la peculiarità<br />

di essere un paese in cui convivono due differenti confessioni<br />

religiose, quella cattolica e quella evangelica. Una zona di frontiera<br />

strategica dunque in un arco temporale in cui si andava delineando<br />

una contrapposizione politica ed ideologica del mondo diviso in<br />

due blocchi contrapposti: gli Stati Uniti e l’Europa Occidentale da<br />

una parte, Unione Sovietica ed Europa Orientale dall’altra.<br />

In Germania, alla fine degli anni Trenta, la popolazione cattolica<br />

era per lo più concentrata nelle regioni occidentali, soprattutto in<br />

( 13 ) Per un’interpretazione complessiva della politica statunitense nella Germania<br />

del dopoguerra e, più in generale, nell’Europa orientale cfr. E. MARK, American<br />

Policy toward Eastern Europe and the origins of the Cold War, 1941-1946. An<br />

Alternative Interpretation, in «Journal of American History», settembre 1981.<br />

( 14 ) Sulle vicende e sulle implicazioni della guerra fredda in Europa cfr. A.<br />

GAMBINO, Le conseguenze della seconda guerra mondiale, l’Europa da Yalta a Praga,<br />

Laterza, Bari 1972; E. <strong>DI</strong> NOLFO, Storia delle relazioni internazionali (1918-1992),<br />

Laterza, Roma-Bari 1994; M.P. LEFFLER, D.S. PAINTER, Origins of the cold war: an<br />

international history, London-New York, Routledge 1994; S. GREENWOOD, Britain<br />

and the Cold War 1945-1991, Mac Millian, London 2000.<br />

( 15 ) G. CORNI, Storia della Germania. Da Bismarck alla riunificazione, Il Saggiatore,<br />

Milano 1999, p. 334.<br />

179


180<br />

LUCA LECIS<br />

Renania ed in Westfalia, ed in quelle meridionali del paese, principalmente<br />

in Baviera; la regione bavarese, fra i diversi Länder, era<br />

quella in cui i cattolici costituivano la maggioranza religiosa ( 16 ).<br />

Gli sconvolgimenti causati dalla guerra stravolsero anche il quadro<br />

della geografia religiosa. Molteplici furono i fattori che contribuirono<br />

a questa profonda trasformazione: in primo luogo la divisione del Paese<br />

(prima solamente provvisoria e poi di fatto definitiva), che provocò<br />

un flusso migratorio di oltre cinque milioni di profughi in fuga dall’Est<br />

della Germania, occupato dall’Armata rossa ( 17 ): la quasi totalità<br />

dei profughi era di fede cattolica. Essi cercavano rifugio all’Ovest,<br />

fuggendo dalle regioni situate oltre l’Oder-Neiße, che gli accordi di<br />

Potsdam avevano assegnato ad altri paesi come contropartita territoriale<br />

per bilanciare le perdite e le distruzioni inflitte dall’esercito tedesco<br />

(le zone che si spopolarono furono soprattutto i Sudeti tedeschi,<br />

divenuti parte integrante dello Stato cecoslovacco, e la regione<br />

della Slesia, inglobata nello Stato polacco) ( 18 ).<br />

Nella concessione alla Polonia dei territori tedeschi dell’est e nella<br />

spartizione alleata quadripartita, la Chiesa cattolica tedesca perse<br />

ben tre diocesi (su un totale di 25) e ne vide altre geograficamente<br />

divise in seguito alla ridefinizione dei confini imposti dall’occupazione<br />

delle potenze alleate ( 19 ).<br />

La diaspora che interessò alcuni milioni di cattolici tedeschi creò<br />

innumerevoli difficoltà: oltre ai problemi di carattere organizzativo e<br />

materiale (legati al reperimento di mezzi di sostentamento, peraltro<br />

già insufficienti per gli stessi tedeschi che risiedevano nella parte occidentale<br />

del paese) si poneva anche il problema di garantire ai profughi<br />

una adeguata assistenza religiosa (e ciò comportava il reperi-<br />

( 16 ) Sul cattolicesimo in Germania nel Novecento si veda la monumentale<br />

opera dello storico del cattolicesimo tedesco R. MORSEY, Aus dem deutschen Katholizismus<br />

des 19. und 20. Jahrhunderts, Matthias-Grünewald Verlag, Mainz 1973-<br />

1984; cfr. inoltre M. BEN<strong>DI</strong>SCIOLI, Pensiero e vita religiosa nella Germania del Novecento,<br />

Morcelliana, Brescia 2001.<br />

( 17 ) Sull’incidenza sul piano religioso dei movimenti di popolazioni dovuti alle<br />

conseguenze della guerra rimane un punto di riferimento essenziale, seppur datato,<br />

l’esauriente lavoro analitico statistico di W. MENGES, Wandel und Auflösung der<br />

Konfessionszonen, in E. LEMBERG-F. ED<strong>DI</strong>NG (a cura di), Die Vertriebenen in Westdeutschland,<br />

Kiel 1959.<br />

( 18 ) Cfr. K. SCHATZ, Zwischen Säkularisation und Zweiten Vatikanum. Der Weg<br />

des deutschen Katholizismus im 19. und 20. Jahrhundert, Josef Knecht Verlag,<br />

Frankfurt Am Main, 1986.<br />

( 19 ) Cfr. K. FOSTER, Katholizismus und Kirche. Zum Weg des deutsches Katholizismus<br />

nach 1945, Echter Verlag, Würzburg 1965.


Il secondo dopoguerra in Germania.<br />

mento di strutture ricettive e la disponibilità di un apparato ecclesiale<br />

che nel 1945 soffriva di forti carenze numeriche in seguito alle<br />

perdite fra il clero, causate anche dalle persecuzioni naziste). Si avvertiva<br />

inoltre l’esigenza di assicurare l’inserimento dei profughi nelle<br />

nuove realtà locali: un problema di non facile soluzione considerando,<br />

almeno nel primo periodo, lo scarso gradimento dei rifugiati<br />

e la diffidenza con la quale essi venivano accolti nelle aree nelle quali<br />

giunsero a stanziarsi.<br />

La conseguenza principale della migrazione interna fu che nella<br />

Germania dell’ovest, la futura Repubblica Federale Tedesca, si ebbe<br />

un sostanziale equilibrio fra le due confessioni religiose: la popolazione,<br />

secondo i dati statistici relativi al 1950, si riconosceva nella<br />

Chiesa evangelica per il 51,2%, mentre si professava appartenente<br />

alla Chiesa cattolica il 45,2% dei tedeschi occidentali ( 20 ).<br />

Questo equilibrio contribuì a creare una situazione nuova rispetto<br />

alla precedente tradizione della Germania, concorrendo alla realizzazione<br />

di una compenetrazione religiosa e politica tra le due<br />

maggiori confessioni religiose esistenti, e determinando un rimescolamento<br />

della popolazione che porterà alla formazione di nuovi partiti<br />

politici interconfessionali ( 21 ). L’esempio più evidente di questa<br />

aggregazione sarà offerto dall’amalgama politico venutosi a creare<br />

con la formazione della Christliche Demokratische Union (CDU),<br />

l’unione democratico-cristiana ( 22 ). Il rafforzamento del peso e dell’influenza<br />

della Chiesa cattolica in Germania derivò dal crollo dei<br />

vecchi miti ed ideali politici, dall’incertezza dell’occupazione alleata<br />

e dalla prospettiva dell’incombente divisione. Il profondo sentimento<br />

religioso che è possibile scorgere in quei primi anni del secondo<br />

181<br />

( 20 ) Statistisches Jahrbuch für die Bundesrepublik Deutschland 1958, p. 41.<br />

( 21 ) Nel 1933, quando il Reich si trova ancora unito, prima cioè delle modifiche<br />

territoriali volute dal regime nazionalsocialista, la ripartizione confessionale<br />

della popolazione tedesca registrava una netta prevalenza del protestantesimo con<br />

una percentuale pari al 62,6%, mentre i cattolici erano il 32,5%. Per l’analisi di<br />

questi dati cfr. A. BURGER, Religionszugehörigkeit und soziales Verhalten. Untersuchungen<br />

und Statistiken der neuren Zeit in Deutschland, Vandenhoeck&Ruprecht,<br />

Göttingen 1964, p. 327.<br />

( 22 ) La letteratura generale sulla CDU-CSU è molto vasta, basti ricordare, fra<br />

gli altri, i due principali storici vicini al partito, R. BARZEL, Die deutschen Parteien,<br />

Geldern, Schaffrath 1952; E. DEUERLEIN, CDU-CSU 1945-1957. Beiträge zur Zeitgeschichte,<br />

Köln 1957. Cfr. inoltre J. ROVAN, Le Catholicisme politique en Allemagne,<br />

Edition du Seuil, Paris 1956 (in particolare il cap. VIII) e H. OBERREUTHER-A.<br />

MINTZEL (a cura di), Parteien in der Bundesrepublik Deutschland, Leske & Budrich<br />

Verlag, Opladen 1992.


182<br />

LUCA LECIS<br />

dopoguerra era ascrivibile, come sottolinea Collotti, «ad un diffuso<br />

smarrimento politico e morale» ( 23 ). Nella sfera religiosa si ebbe un<br />

recupero autentico dei valori cari al cattolicesimo tedesco, con<br />

un’accentuazione dell’impegno civile e politico. È nel secondo dopoguerra<br />

inoltre che la Chiesa cattolica tedesca ed i cattolici militanti<br />

conoscono una controtendenza politica, dopo le pericolose sbandate<br />

in senso nazionalista degli anni precedenti ( 24 ), quando si era<br />

assistito, da parte del mondo cattolico, ad una apertura e ad una<br />

convergenza, almeno iniziale, alle idee del nazismo ( 25 ).<br />

La stipulazione del Concordato fra Santa Sede e Germania hitleriana<br />

era stata uno dei segnali più evidenti di questa convergenza di interessi,<br />

in difesa della tradizione cristiana tedesca e nella lotta contro il<br />

bolscevismo, il socialismo e il liberalismo di stampo giudaico ( 26 ). Sebbene<br />

il Concordato siglasse la scomparsa di un cattolicesimo politico<br />

autonomo, esso suscitò l’impressione, o meglio, come suggerisce il<br />

Lönne, «l’illusione che tra la Chiesa cattolica e lo stato nazionalsocialista<br />

fosse stato trovato un modus vivendi tale da rendere possibile anche<br />

ai cattolici l’integrazione nel nascente stato nazionalsocialista» ( 27 ).<br />

( 23 ) E. COLLOTTI, Storia delle due Germanie, cit., p. 571.<br />

( 24 ) Per un’analisi del cattolicesimo politico in Germania prima e dopo il conflitto<br />

mondiale si rinvia all’opera del Lönne. Cfr. K.E. LÖNNE, Il cattolicesimo politico<br />

nel XIX e XX secolo, Il Mulino, Bologna 1991.<br />

( 25 ) Per la politica del partito del Centro in Germania negli anni trenta cfr. R.<br />

MORSEY (a cura di), Von Windhorst bis Adenauer. Ausgewählte Aufsätze zu Politik,<br />

Verwaltung und politischen Katholizismus im 19. und 20. Jahrhundert, Schöningh<br />

Verlag, Paderborn-München-Wien-Zürich 1997. Nel 1933, alla vigilia delle elezioni<br />

del Bundestag, Ludwig Kaas, alla guida del Centro, lanciò un accorato appello<br />

ai cattolici tedeschi affinché si creassero i presupposti per una convergenza<br />

politica unitaria in grado di poter affrontare la situazione di grave emergenza che<br />

si viveva in Germania. Quando poi Hitler venne nominato Cancelliere il Centro<br />

si disse pronto a votare la fiducia al suo Governo, sebbene avesse posto alcune<br />

condizioni per concedere il voto in sede parlamentare. E questo perché, malgrado il<br />

partito cattolico non fosse uscito sconfitto dalle elezioni, esso doveva comunque tenere<br />

presente la realtà del paese e seguire al tempo stesso le direttive politiche di<br />

Windhorst, che aveva esplicitamente esortato i quadri del partito ad un accordo con<br />

i nazionalsocialisti, nonostante egli stesso fosse uno dei primi esponenti di partito ad<br />

avere più di un dubbio sul governo di Hitler. Cfr. W. SPAEL, La Germania cattolica<br />

nel XX secolo 1890-1945, Edizioni Cinque Lune, Roma 1974, pp. 366-367.<br />

( 26 ) Cfr. L. VOLK, Das Reichskonkordat vom 20. Juli 1933. Von den Ansätzen in<br />

der Weimar Republik bis zur Ratifizierung am 10. September 1933, Matthias Grünewald<br />

Verlag, Mainz 1972.<br />

( 27 ) K.E. LÖNNE, Gli inizi dei partiti democratico-cristiani in Germania, Italia e<br />

Francia dopo il 1943-1945, in «Concilium», n. 5, 1987, p. 27.


Il secondo dopoguerra in Germania.<br />

Tuttavia, nonostante gli accordi concordatari, i nazionalsocialisti scatenarono<br />

con mezzi diversi e con differente asprezza una lotta contro<br />

la Chiesa ed il cattolicesimo, che portò numerosi cattolici ad assumere<br />

un atteggiamento interiore di netta opposizione ( 28 ).<br />

Anche all’interno delle gerarchie ecclesiastiche venne meno il<br />

comportamento accondiscendente e le incaute e spesso compromettenti<br />

posizioni iniziali si tramutarono in un atteggiamento di cautela<br />

e talvolta di opposizione e resistenza, anche se non formalmente e<br />

pubblicamente non espresso ( 29 ). Tale comportamento, sebbene sia<br />

divenuto politicamente attivo o addirittura militante solo in pochi e<br />

particolari casi ( 30 ), rappresentò, in questa sua caratterizzazione di<br />

distacco spirituale dal nazionalsocialismo, un importante fattore di<br />

autoconservazione per vari settori del mondo cattolico. Alla caduta<br />

del regime questo atteggiamento offrì una condizione fondamentale<br />

per un concreto contributo dei cattolici al riassetto politico e democratico<br />

del paese, anche se durante la guerra l’episcopato tedesco<br />

( 28 ) Infatti una volta garantitosi il Governo ed il pieno potere il regime nazionalsocialista<br />

adottò delle misure restrittive sulla libertà di stampa che portarono<br />

alla progressiva chiusura dei giornali che non si allineavano alla politica governativa.<br />

In prima linea vi erano le riviste cattoliche che non ebbero vita facile; per non<br />

essere liquidate molte preferirono abbandonare il campo politico e sociale per “rifugiarsi”<br />

in quello strettamente religioso. Particolari attenzioni il regime nazista rivolse<br />

ai giornali parrocchiali, che a causa della loro natura e diffusione (raggiungevano<br />

infatti in maniera capillare quasi tutte le famiglie, sebbene la distribuzione<br />

rimanesse a livello locale) ottenevano un largo consenso popolare. Cfr. W. SPAEL,<br />

La Germania cattolica…, cit., p. 412.<br />

( 29 ) Come osserva Miccoli, che esprime una valutazione fortemente critica dell’atteggiamento<br />

della Santa Sede e della sua politica nei confronti del Nazismo,<br />

questo silenzio venne da molti considerato come un tacito accordo raggiunto dalla<br />

Chiesa cattolica con il regime hitleriano, giacché alla politica vaticana era chiaramente<br />

connessa, in maniera indissociabile, la posizione della Chiesa tedesca. Cfr.<br />

G. MICCOLI, Sulle relazioni fra Santa Sede e Terzo Reich, Olschki, Firenze 1965; e<br />

ID., I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Rizzoli, Milano 2000.<br />

( 30 ) Per la persecuzione dei sacerdoti durante il Nazismo si veda H. VON HEHL<br />

(a cura di), Priester unter Hitlers Terror. Eine biographische und statistische Erhebung,<br />

3 Bd., Ferdinand Schöningh, Paderborn-München 1996. Inoltre cfr. B. POLL, Quellen<br />

und Darstellungen zur Geschichte des deutschen Katholizismus, in «Historisches<br />

Jahrbuch», n. 73, 1953, pp. 183-190. Scriveva il Poll: «die Gesamtzahl der Menschen,<br />

die um der Glaubens und Gewissenfreiheit unter dem Nationalismus starben (…)<br />

ist schwer feststellbar (…) In Dachau starben rund 1000 Priest, der Mehrzahl nach polnische,<br />

in Orianeburg-Sachsenhausen etwa 400 Priester. Am Ende des Krieges befanden<br />

sich in Dachau rund 250 (in ganzen 450) deutsche und österreichische Priester und<br />

etwa 60 evangelische Geistliche». Per i movimenti clandestini di ispirazione cattolica<br />

occorre ricordare l’attività svolta dal sacerdote Friedrich Muckermann da lui descritta<br />

nell’opera autobiografica, F. MUCKERMANN, Der deutsche Weg, Zürich 1946.<br />

183


184<br />

LUCA LECIS<br />

aveva celebrato le vittorie ottenute dalle armate germaniche in Polonia<br />

come «vittorie divine» e avesse salutato l’invasione dell’Unione<br />

Sovietica come una crociata dell’Occidente contro il «sistema giudaico<br />

bolscevico» ( 31 ).<br />

All’indomani della disfatta bellica, in una realtà caratterizzata da<br />

gravi devastazioni morali e materiali, con il paese smembrato in<br />

quattro zone di occupazione, le forze antinaziste di opposizione (i<br />

partiti democratici e le diverse organizzazioni sciolte dai nazisti,<br />

come i sindacati) faticarono a riacquistare un proprio spazio sotto la<br />

vigile, e spesso non particolarmente benevola, tutela delle forze di<br />

occupazione. Nella sconfitta i vincitori politici furono le Chiese, che<br />

non dovettero operare per la ricostruzione delle proprie strutture organizzative,<br />

in quanto, nonostante le persecuzioni subite, le loro organizzazioni<br />

erano riuscite a sopravvivere, uscendo pressoché intatte<br />

dal regime e dalla guerra; per quanto riguarda la Chiesa protestante<br />

questo era stato possibile anche grazie ad un più diffuso adeguamento<br />

al regime ( 32 ).<br />

La Chiesa cattolica non soltanto si sentì, in un certo qual modo,<br />

dalla parte dei vincitori, ma fu trattata e apprezzata in questo senso<br />

sia dagli alleati, che dalla popolazione, e considerata un baluardo di<br />

libertà. Di conseguenza nei nuovi Länder le Chiese, cattolica ed<br />

evangelica, poterono assicurarsi «una posizione di rilievo e garantirsi<br />

un’influenza considerevole sulla realtà politica» ( 33 ).<br />

Le forze di occupazione trovarono nelle Chiese tedesche i loro più<br />

importanti alleati, disposte a collaborare per assicurare l’assistenza sociale<br />

della popolazione; esse erano inoltre considerate dagli americani<br />

elementi insostituibili nel processo di denazificazione della società tedesca<br />

( 34 ). Non stupisce perciò che nel vuoto politico del dopoguerra i<br />

responsabili militari delle potenze vincitrici considerassero i vescovi ed<br />

( 31 ) Sulle posizioni assunte dall’episcopato tedesco nel periodo bellico cfr. L.<br />

VOLK (a cura di), Akten Deutscher Bischöfe über die Lage der Kirche 1933-1945,<br />

Matthias-Grünewald Verlag, Mainz 1985.<br />

( 32 ) Per maggiori dettagli sull’adesione della Chiesa evangelica al nazismo si<br />

veda C. VOLLNHALS, Evangelische Kirche und Entnazifizierung 1945-1949. Die Last<br />

der nationalsozialistischen Vergangenheit, München 1989. Un ulteriore contributo,<br />

che approfondisce le dinamiche dei rapporti fra Chiese tedesche e nazismo v. E. è<br />

in KLEE, Persilscheine und falsche Pässe. Wie die Kirchen den Nazis halfen, Fischer<br />

Verlag, Frankfurt am Main 1991.<br />

( 33 ) J. NEUMANN, Il ruolo della Chiesa ufficiale nella Repubblica federale tedesca,<br />

in «Concilium», n. 7, 1982, p. 87.<br />

( 34 ) J. DEGEN, Diakonie und Restauration. Kritik am sozialen Protestantismus in<br />

des Bundesrepublik Deutschland, Neuwied, Darmstadt 1975, p. 24.


Il secondo dopoguerra in Germania.<br />

i vertici ecclesiastici della Chiesa cattolica come interlocutori privilegiati<br />

e che, in molti casi, procedessero alla nomina di esponenti ecclesiastici<br />

alla carica di borgomastri.<br />

La tendenza in atto nelle chiese locali era di agire in campo politico<br />

ed amministrativo. Questa spinta, consolidatasi per il prestigio<br />

di cui la Chiesa cattolica godeva dopo la fine della guerra, contribuì<br />

a rendere l’episcopato e l’organizzazione religiosa protagonisti essenziali<br />

della vita sociale e politica della Germania del secondo dopoguerra.<br />

Una documentazione di questa presenza è data dagli atti dell’episcopato.<br />

Il numero dei documenti pastorali elaborati dai vescovi<br />

cattolici tedeschi dopo la seconda guerra mondiale è estremamente<br />

ampio ( 35 ). Solamente per ciò che concerne il lasso di tempo che va<br />

dal 1945 al 1963 sono stati elaborati più di tremila comunicati vescovili,<br />

di varia natura ed interesse: di questi circa un sesto è dedicato<br />

ai delicati rapporti fra Chiesa cattolica, società e Stato in Germania<br />

( 36 ).<br />

Al centro delle prese di posizione pubbliche dei vescovi si ritrovano<br />

gli argomenti cui tradizionalmente le gerarchie hanno rivolto il<br />

proprio interesse: la moralità, la santità dell’istituzione familiare,<br />

l’indispensabile funzione della scuola confessionale. Questi temi,<br />

cardine degli interessi dell’episcopato tedesco, vengono propagandati<br />

con tenacia, tanto da essere considerati dalla conferenza episcopale<br />

tedesca un banco di prova in base al quale gli elettori cattolici dovevano<br />

giudicare i parlamentari. Nel 1947, in un documento pastorale<br />

collettivo, l’episcopato tedesco scriveva che dai parlamentari beneficiari<br />

del voto cattolico ci si attendeva «un impegno coraggioso a difesa<br />

delle istanze della Chiesa» ( 37 ).<br />

L’anno seguente, in un altro importante documento collettivo,<br />

l’episcopato tedesco sottolineava che le basi su cui si sarebbe dovuto<br />

poggiare il nuovo Stato tedesco dovevano rispecchiare i valori cristiani<br />

sia riguardo ai diritti «inviolabili delle persone, o dei doveri<br />

nei confronti della comunità, della difesa della famiglia e della santità<br />

del matrimonio», sia a quelli che riguardavano «la vita del bambi-<br />

185<br />

( 35 ) Cfr. W. LÖHR (a cura di), Hinterbriefe und Ansprachen zu Gesellschaft und<br />

Politik 1945-1949, Echter Verlag, Würzburg 1985.<br />

( 36 ) Per uno studio organico della documentazione pastorale dell’episcopato<br />

tedesco cfr. W. LÖHR, Staat und Gesellschaft in bischöflichen Verlautbarungen<br />

1945-1963, in A. Rauscher (a cura di), Katholizismus, Rechtsethik und Demokratiediskussion<br />

1945-1963, Schöningh, Paderborn 1981, pp. 99-121.<br />

( 37 ) Lettera pastorale dei vescovi tedeschi del 23 febbraio 1947, in Amtsblatt<br />

Rottenburg, 19 (1947), p. 23.


186<br />

LUCA LECIS<br />

no, o del diritto che per natura spetta ai genitori all’educazione», ribadendo<br />

inoltre che «la conservazione dei diritti e delle libertà della<br />

chiesa» sarebbe dovuta essere «di importanza fondamentale per l’organizzazione<br />

della vita cristiana nello stato». I tedeschi che attraverso<br />

il proprio voto avrebbero scelto i politici destinati a dare forma alla<br />

costituzione dello stato sarebbero dovuti essere «consapevoli di questa<br />

loro responsabilità», e la classe politica emersa dalle consultazioni<br />

aveva «il sacro dovere di comportarsi in tutto e per tutto secondo i<br />

principi di Cristo» ( 38 ).<br />

Il periodo successivo al 1945 segna dunque in Germania il rafforzamento<br />

della presenza della Chiesa cattolica, delle strutture associative<br />

e dei partiti d’ispirazione cattolica nella vita politica e sociale del<br />

Paese.<br />

Come in Italia, quando dopo l’8 settembre del 1943 la Chiesa cattolica<br />

svolse una funzione di supplenza in presenza dello sfacelo dell’autorità<br />

statale, anche in Germania le Chiese appaiono nel primo periodo<br />

postbellico le uniche istituzioni in grado di rappresentare punti<br />

di riferimento per larghi strati della popolazione ( 39 ). Le Chiese svolsero<br />

un ruolo fondamentale nell’orientamento spirituale di un popolo<br />

prostrato dalla lunga guerra e dalle enormi devastazioni da essa causate<br />

e che si mostrava incerto sul futuro del proprio paese.<br />

Il rafforzarsi dell’identità religiosa nel dopoguerra rappresentò un<br />

chiaro sintomo della ricerca di nuove prospettive ideali e politiche.<br />

Il prestigio della Chiesa cattolica in particolare non solo era rimasto<br />

intatto, ma crebbe, anche perché ad essa venne risparmiato il dramma<br />

della scissione che colpì il protestantesimo in seguito alla divisione<br />

della Germania.<br />

La Chiesa cattolica, in Germania come in Italia, fu in grado di<br />

esprimere, grazie alla sua rete associativa laicale, una classe dirigente<br />

capace di colmare il vuoto politico e istituzionale che si era creato.<br />

La mobilitazione delle strutture ecclesiastiche e delle forme associative<br />

di azione cattolica riceve un nuovo impulso durante gli anni della<br />

guerra fredda dalla condizione imposta alla Chiesa nei paesi dell’Est<br />

europeo inglobati nel sistema sovietico. Nel giro di cinque anni dalla<br />

fine del conflitto metà delle terre cattoliche orientali risultano perdute<br />

per la Chiesa di Roma, quando tutta la parte centro-orientale<br />

( 38 ) Lettera pastorale dei vescovi tedeschi del 26 agosto 1948, in Amtsblatt Rottenburg,<br />

19 (1947), pp. 113-116.<br />

( 39 ) Cfr. A. RICCAR<strong>DI</strong>, Il «partito romano» nel secondo dopoguerra (1945-1954),<br />

Morcelliana, Brescia 1983. Cfr. inoltre E. FATTORINI, I cattolici tedeschi dall’intransigenza<br />

alla modernità (1870-1953), Morcelliana, Brescia 1997.


Il secondo dopoguerra in Germania.<br />

dell’Europa fu incorporata nella sfera d’influenza sovietica. La Chiesa<br />

cattolica tedesca diventa una Chiesa di frontiera.<br />

Rispetto a quella evangelica la Chiesa cattolica si presentava più<br />

decisa nella rivendicazione e nella tutela dei suoi diritti. Questo dipendeva<br />

in larga misura dalla tradizione che le veniva dalle lunghe<br />

battaglie sostenute fin dai tempi del Kulturkampf sotto Bismarck. La<br />

gerarchia cattolica poté inoltre sfruttare a suo vantaggio il proprio<br />

radicamento nel tessuto sociale, favorendo l’inserimento concreto<br />

dei cattolici militanti nella sfera politica e assicurandosi una presenza<br />

politica molto più attiva rispetto a quella protestante ( 40 ).<br />

Un ruolo fondamentale in questo disegno fu svolto dal partito<br />

d’ispirazione cristiana, la CDU, che assunse un carattere nuovo nel<br />

panorama partitico della Germania del dopoguerra ( 41 ).<br />

Diversi erano gli elementi di novità che contraddistinguevano<br />

questo partito, erede politico naturale del vecchio partito di Centro.<br />

Primo elemento di novità era il fatto che per la prima volta nella vita<br />

politica tedesca si dava origine ad una formazione politica interconfessionale,<br />

che superava la barriera di quelle divisioni confessionali<br />

che nel passato avevano caratterizzato le vicende delle organizzazioni<br />

politiche tedesche di ispirazione cristiana e che avevano cristallizzato<br />

il movimento cattolico nel Zentrumspartei ( 42 ).<br />

Un secondo carattere di novità era costituito dal fatto che, una<br />

volta eliminata la preclusione confessionale, veniva meno un motivo<br />

di una possibile frattura che poteva essere appunto costituito dalle<br />

divisioni confessionali. Alla nuova formazione politica si prospettava<br />

così l’occasione di polarizzare attorno a sé il tradizionale schieramento<br />

delle forze popolari e dei ceti medi. Ed è in questo quadro che si<br />

inserisce la terza ed ultima circostanza che rese nuovo questo Partito<br />

nel contesto politico tedesco: il collegamento organico che si venne a<br />

creare fra la CDU e l’ala bavarese e regionalistica del partito, l’Unione<br />

cristiano-sociale, la Christliche Soziale Union (CSU), che, pur mantenendo<br />

una sua autonomia statutaria e politica, si federò alla CDU for-<br />

( 40 ) Cfr. E. GATZ-J. PILVOUSEK (a cura di), Chiesa e cattolicesimo in Germania<br />

(1945-2000), Edizioni Dehoniane, Bologna 2000.<br />

( 41 ) Cfr. H. MAIER, Deutscher Katholizismus nach 1945. Kirche, Gesellschaft,<br />

Geschichte, Beck Verlag, München 1964.<br />

( 42 ) Cfr. A. RAUSCHER, Der soziale und politische Katholizismus. Entwicklungslinien<br />

in Deutschland 1803-1963, Günther Olzog Verlag, München-Wien 1981; H.<br />

HÜRTEN, Kurze Geschichte des deutschen Katholizismus 1800-1960, Matthias-Grünewald<br />

Verlag, Mainz 1986; ID., Katholizismus, staatliche Neuordnung und Demokratie,<br />

Schöningh, Paderborn-Wien 1991.<br />

187


188<br />

LUCA LECIS<br />

mando con essa i cosiddetti «partiti dell’unione» (CDU-CSU). Ecco<br />

perché la nascita della CDU è stata acutamente indicata come «il<br />

prodotto della comune persecuzione subita dalle Chiese delle due<br />

confessioni ad opera del regime hitleriano» e dalla quale come reazione<br />

«trassero origine l’idea e la necessità di un fronte unico delle<br />

forze cristiane» ( 43 ). Nonostante la proclamata interconfessionalità,<br />

la corrente cattolica, strettamente legata alla Chiesa ed alle sue direttive,<br />

ebbe un peso preponderante, che le consentì di far prevalere all’interno<br />

della CDU alcune delle proprie linee programmatiche ( 44 ).<br />

Questa forte presenza della gerarchia cattolica e del cattolicesimo<br />

politico ( 45 ) portarono ad una massiccia compenetrazione dei cattolici<br />

nelle strutture politiche della repubblica tedesca ( 46 ), generando,<br />

in alcuni casi, aperte critiche data la presenza in Germania di una<br />

forte tradizione protestante ( 47 ).<br />

Le contestazioni rivolte alla Chiesa cattolica per la sua posizione<br />

così dichiaratamente vicina al partito politico della CDU-CSU provenivano<br />

anche dall’interno del cattolicesimo tedesco. Vi era, infatti,<br />

una componente minoritaria di cattolici che, auspicando un impegno<br />

da parte della Chiesa più vicino ai bisogni spirituali della società<br />

civile, faticava ad accettare le scelte programmatiche della politica<br />

governativa che andavano delineandosi all’interno del partito guidato<br />

da Konrad Adenauer ( 48 ).<br />

( 43 ) Cfr. E. COLLOTTI, Storia delle due Germani, cit., pp. 366-367.<br />

( 44 ) Sulla presenza politica dei cattolici tedeschi esistono diversi lavori che analizzano<br />

in particolare la nascita e l’evoluzione della CDU-CSU. Tra questi sono da<br />

ricordare, fra gli altri, U. SCHMIDT, Zentrum oder CDU. Politischer Katholizismus<br />

zwischen Tradition und Anpassung, Opladen, Stuttgart 1987; C. KLESSMANN, Die<br />

doppelte Staatsgründung. Deutsche Geschichte 1945-1955, Vandenhoeck & Ruprecht,<br />

Göttingen 1983.<br />

( 45 ) T.M. GAULY, Kirche und Politik in der Bundesrepublik Deutschland 1945-<br />

1976, Bouvier, Bonn 1990; T. GROSSMANN, Zwischen Kirche und Gesellschaft, Matthias-Grünewald<br />

Verlag, Mainz 1991.<br />

( 46 ) Cfr. E. FISCHER, Trennung von Staat und Kirche. Die Gefährdung der Religionsfreiheit<br />

in der Bundesrepublik, Richard Oldenburg Verlag, München 1964,<br />

p. 160 ss.<br />

( 47 )TH. SAUER-M. GRESCHAT, Katholiken und Protestanten in den Aufbaujahren<br />

der Bundesrepublik, Kohlhammer, Stuttgart 2000.<br />

( 48 ) Cfr. W. <strong>DI</strong>RKS, Ein anderer Katholizismus? Minderheiten im deutschen Corpus<br />

Catholicorum, in N. GREINACHER-H.T. RISSE (a cura di), Bilanz des deutschen<br />

Katholizismus, Matthias Grünewald Verlag, Mainz 1966, pp. 292-310; C. AMERY,<br />

La capitolazione ovvero il cattolicesimo tedesco oggi, Morcelliana, Brescia 1967. Alla<br />

predominante figura carismatica di Konrad Adenauer ed al suo ruolo politico sono


Il secondo dopoguerra in Germania.<br />

Fra questi cattolici «dissidenti», considerati dai loro avversari compagni<br />

di partito come appartenenti ad una forma di Linkskatholizismus,<br />

vi erano alcuni esponenti di spicco del mondo culturale tedesco<br />

dell’epoca, come Walter Dirks, Eugene Kogon, Carl Amery, Heinz<br />

Theo Riss, Gerd Hirschauer e, su posizioni più specifiche, anche lo<br />

scrittore Heinrich Böll. Questo gruppo utilizzò come organo di diffusione<br />

delle proprie idee, che spesso assumevano un tono aspro ed aggressivo,<br />

i «Quaderni di lavoro dei laici cattolici» (Werkhefte katholischer<br />

Laien), una rivista d’area cattolica fondata nel 1946 che contribuirà<br />

notevolmente al dibattito culturale e politico tedesco ( 49 ).<br />

3. Analizzando i primi studi di sociologia dei movimenti politici<br />

tedeschi, ripresi negli anni sessanta dalla Burger ( 50 ), emerge chiaramente<br />

come in Germania i cattolici fossero inclini a fare blocco attorno<br />

ad una forza centralizzata di partito specificatamente «cristiano»,<br />

in maniera molto più accentuata rispetto agli evangelici che apparivano<br />

più differenziati nelle loro scelte politiche.<br />

La compatta organizzazione del cattolicesimo tedesco aveva i suoi<br />

punti di forza in una rigida struttura gerarchica ed in una capillare<br />

presenza organizzativa del laicato, elementi mancanti alla Chiesa<br />

evangelica ed al movimento protestante laicale che rendevano il suo<br />

apparato ecclesiale e pastorale strutturalmente meno solido ( 51 ).<br />

Già un anno prima che nascesse la Repubblica federale tedesca la<br />

Chiesa cattolica nel 1948 istituì a Bonn un centro di collegamento<br />

per la difesa degli interessi della Chiesa cattolica, il Katholisches Büro<br />

(KB). Questo centro era per certi versi particolare, in quanto rappresentava<br />

un collegamento fra la Chiesa, nello specifico la Nunziatura<br />

Apostolica e la Segreteria della Conferenza Episcopale tedesca, ed il<br />

Governo centrale. Il Katholisches Büro disponeva di vari centri di lavoro<br />

e di commissioni incaricate di monitorare i diversi settori della<br />

vita pubblica e socio-lavorativa; manteneva inoltre stabili contatti<br />

189<br />

dedicati numerosissimi saggi ed intere collane di studi storici che hanno analizzato<br />

minuziosamente l’attività politica dello statista di Colonia. A titolo di esempio si<br />

veda H.P. SCHWARZ, Die Ära Adenauer 1949-1957, Opladen, Stuttgart-Mannheim<br />

1981-1987; N. ALTMANN, Konrad Adenauer im Kalten Krieg: Wahrnehmungen und<br />

Politik 1945-1956, Palatium Verlag, Mannheim 1993; U. VON HEHL, Adenauer<br />

und die Kirchen, Bouvier, Bonn 1999.<br />

( 49 ) K. SCHATZ, Zwischen Säkularisation und Zweiten Vatikanum…, cit., p. 306.<br />

( 50 ) A. BURGER, Religionszugehörigkeit und soziales Verhalten…, cit., p. 281.<br />

( 51 ) Cfr. L. BERGSTRAESSER, Die politische Katholizismus, Olms Verlag, Hildesheim<br />

1976.


190<br />

LUCA LECIS<br />

con le principali organizzazioni cattoliche del paese, come il Comitato<br />

Centrale dei cattolici tedeschi e la Caritas, uno dei centri socio<br />

assistenziali più importanti di tutta la Germania ( 52 ).<br />

Dotato di una struttura gerarchica forte e di una vasta organizzazione<br />

laicale, il cattolicesimo tedesco registrava, complessivamente,<br />

una presenza più radicata del protestantesimo nella società tedesca.<br />

La Conferenza episcopale tedesca, con sede a Fulda, presieduta nel<br />

dopoguerra dall’arcivescovo di Colonia, il cardinal Joseph Frings, e<br />

le numerose associazioni laicali, che facevano capo al «Comitato<br />

Centrale dei cattolici tedeschi» (Zentral Komitee der deutschen Katholiken)<br />

(ZdK) ( 53 ) (organo di coordinamento e di rappresentanza del<br />

cattolicesimo tedesco nelle diverse strutture associative, per lo più<br />

operanti nel campo dell’apostolato laicale, e strettamente collegato<br />

all’episcopato tedesco) costituivano il cardine della struttura organizzativa<br />

cattolica e gli strumenti di coordinamento dei cattolici militanti<br />

( 54 ). Compito principale del Comitato Centrale era la promozione<br />

e l’organizzazione di attività collettive, volte alla sensibilizzazione<br />

dell’opinione pubblica sulle tematiche religiose ed a far valere<br />

il peso politico che i cattolici tedeschi possedevano. In questo conteso<br />

si inseriscono i Congressi Cattolici, i Katholikentage, aspetto caratterizzante<br />

e di notevole importanza per la Chiesa cattolica tedesca.<br />

Giornate cattoliche tematiche a cadenza per lo più biennale, esse<br />

si trasformavano in grandi manifestazioni di massa, analoghe ai pel-<br />

( 52 ) Cfr. W. WÖSTE, Die Aufgaben des Katholischen Büros, in G. GORSCHENEK<br />

(a cura di), Katholiken und ihre Kirche in der Bundesrepublik Deutschland, Günther<br />

Olzog Verlag, München-Wien 1976, pp. 96-104.<br />

( 53 ) Il Comitato centrale dei cattolici tedeschi nacque alla fine degli anni sessanta<br />

dell’Ottocento. Nel 1868, durante i lavori del Katholikentag di Babemberg,<br />

si delinearono le prime linee programmatiche per un Comitato Centrale che nacque<br />

ufficialmente nel 1898 durante il Katholikentag di Krefeld. Qui si costituì un<br />

«Comitato Centrale per una riunione generale dei cattolici tedeschi». Con l’avvento<br />

del nazismo, nel 1933, vennero sospese tutte le attività pubbliche del Comitato<br />

Centrale (esso rimase parzialmente operativo in campo ecclesiale). Cfr. B. VOGEL,<br />

Das Zentralkomitee der deutschen Katholiken, die Räte des Laienapostolats und die<br />

Verbände, in G. GORSCHENEK (a cura di), Katholiken und Ihre Kirche in der Bundesrepublik<br />

Deutschland, Günther Orzlog Verlag, München-Wien 1976.<br />

( 54 ) Si legge nello Statuto dell’organizzazione: «il Comitato Centrale dei cattolici<br />

tedeschi rappresenta la confluenza, avvallata dall’autorità dei vescovi, delle forze<br />

della Chiesa cattolica in Germania operanti nell’apostolato laico. Il Comitato<br />

Centrale opera come una comunità di lavoro con piena preservazione dell’autonomia<br />

delle organizzazioni aderenti». Cfr. U. SCHARDT, Plädoyer für die Organisationen.<br />

Das Zentralkomitee der deutschen Katholiken und die Verbände, in Bilanz des<br />

deutschen Katholizismus, cit., pp. 275-291.


Il secondo dopoguerra in Germania.<br />

legrinaggi, ed erano l’espressione dell’orgoglio e della forza della<br />

Chiesa cattolica tedesca.<br />

Una delle conseguenze immediatamente avvertibili in campo politico-sociale<br />

del processo di penetrazione confessionale nella società<br />

si manifestò nell’ambito del dibattito sul tema della scuola ( 55 ). Nel<br />

1945 l’abolizione dell’ordinamento scolastico nazista si accompagnò<br />

al ripristino delle istituzioni scolastiche precedentemente liquidate<br />

ed al problema della abrogazione dei privilegi che la Chiesa cattolica<br />

aveva ottenuto grazie al Concordato del 1933. L’accordo fra Santa<br />

Sede e Germania assicurava ampie garanzie per l’istruzione religiosa<br />

e per la scuola confessionale cattolica, peraltro già sancite dalla Costituzione<br />

repubblicana di Weimar ( 56 ). Le garanzie del Concordato<br />

del 1933 furono tuttavia rimesse in discussione, in quanto siglate<br />

con il regime nazista, offrendo un pretesto agli ambienti della società<br />

più marcatamente laici e antireligiosi, per sollevare un’accanita<br />

polemica sul presunto appoggio politico che la Chiesa cattolica aveva<br />

prestato al nazismo. Le istituzioni scolastiche che già in passato<br />

avevano garantito la coesistenza e la tolleranza in campo confessionale<br />

facevano capo nella scuola pubblica a due distinti ordini di<br />

scuola: la Gemeinschaftsschule, o scuola simultanea (in cui l’insegnamento<br />

laico era accompagnato dall’istruzione religiosa separata per<br />

le due diverse confessioni) e la Bekenntnisschule, o scuola confessionale<br />

(in cui l’intero piano didattico era improntato secondo un determinato<br />

orientamento confessionale). La scuola simultanea, di<br />

norma, era preferita nelle zone della Germania in cui gli evangelici<br />

costituivano la maggioranza della popolazione, mentre la scuola<br />

confessionale veniva privilegiata nei Länder a maggioranza cattolica.<br />

La battaglia che la Chiesa cattolica condusse a favore delle scuole<br />

confessionali provocò un acceso dibattito sulla legittimità dei diritti<br />

acquisiti dalla Chiesa e ci fu anche chi, all’interno del cattolicesimo<br />

militante tedesco, come Gerd Hirschauer, uno dei redattori più assidui<br />

della rivista «Die Frankfurter Hefte», non mancò di mettere in<br />

( 55 ) Sul problema della scuola e sulle problematiche generali ad esso legate si<br />

vedano i saggi di G. SIEFER, Das Tabu der deutschen Bildungspolitik. Konfessionelle<br />

Aspekte des Schulwissens, in Bilanz des deutschen Katholiken, cit., p. 371 ss. e di H.<br />

KÜPPERS, Schulpolitik, in A. RAUSCHER (a cura di), Der soziale und politische Katholizismus<br />

Entwicklungslinien in Deutschland 1803-1963, Günther Olzog Verlag,<br />

München-Wien 1982, pp. 352-394.<br />

( 56 ) La costituzione repubblicana di Weimar aveva garantito l’istituzione di<br />

scuole pubbliche in cui l’insegnamento religioso, separato per le diverse confessioni,<br />

era accompagnato da un insegnamento laico. Cfr. C. GRISE, Staat-Schule-Kirche,<br />

in «Vierteljahrschefte für Zeitgeschichte», n. 47, 1999, p. 125 ss.<br />

191


192<br />

LUCA LECIS<br />

discussione la decisione stessa della Chiesa cattolica di difendere<br />

strenuamente la scuola confessionale ( 57 ). Emerse così una scottante<br />

controversia circa l’opportunità di creare scuole pubbliche confessionali<br />

che potessero garantire una vera formazione cristiana per sopperire<br />

alle carenze culturali e religiose che si andavano registrando tra i<br />

cattolici tedeschi. La controversia sull’istituzione di scuole confessionali<br />

costrinse il cancelliere Adenauer a rimettere la decisione in merito<br />

alla Suprema Corte federale. La decisione presa dalla Corte di<br />

Karlsruhe sarà un sostanziale compromesso, in quanto non vincolava<br />

i singoli Länder alle disposizioni concordatarie; essa di fatto costituiva<br />

un parere negativo, per cui l’episcopato tedesco dovette rassegnarsi<br />

ad accantonare il progetto di una scuola confessionale pubblica<br />

( 58 ).<br />

Negli anni Cinquanta sembra dunque svanire, per la Chiesa cattolica<br />

tedesca, la speranza, nata nell’immediato dopoguerra, di una<br />

ricostruzione della società su base cristiana. Le incertezze del cattolicesimo<br />

tedesco, impegnato in una difficile ricerca di una nuova e<br />

rinnovata collocazione nella società tedesca del tempo, non avevano<br />

comunque impedito l’accettazione dei valori cristiani nelle diverse<br />

costituzioni regionali, rivelando l’importanza della Chiesa cattolica<br />

istituzionale come una forza portante della Repubblica Federale Tedesca.<br />

( 57 ) Scriveva Hirschauer: «quale guadagno avrebbe tratto la Chiesa Cattolica,<br />

se essa nella sua dichiarazione sulla libertà di religione avesse proclamato anche<br />

che i suoi principi morali hanno valore solo in quanto siano accettati personalmente,<br />

e non imposti o favoriti con l’appoggio di mezzi coercitivi da parte dello<br />

Stato». Cfr. G. HIRSCHAUER, Der Katholizismus vor dem Risiko der Freiheit. Nachruf<br />

auf eine Konzil, München 1966, p. 179.<br />

( 58 ) E. COLLOTTI, Storia delle due Germanie, cit., p. 576 ss. Il 26 marzo 1957 si<br />

concluse il lungo processo sulla validità giuridica del Concordato intentato presso<br />

la Corte costituzionale federale. La Corte di Karlrsruhe confermava nella sentenza<br />

la validità del Concordato sul piano giuridico internazionale ma, allo stesso tempo,<br />

negava che alle sue disposizioni fossero vincolati i diversi Länder del paese. Il<br />

Governo federale, infatti, non aveva nessun mezzo per imporre loro l’osservanza<br />

degli accordi concordatari. Il materiale del dibattito sul Concordato è raccolto in<br />

un’opera di quattro volumi. Cfr. H. MÜLLER-F. GIESE (a cura di), Der Konkordatsprozess,<br />

München 1957-1959.


MARIA BARBARA SPANU<br />

SAPIENZA POETICA E RAZÓN- POÉTICA.<br />

OSSERVAZIONI SUL CONCETTO <strong>DI</strong> RAGIONE<br />

IN GIAMBATTISTA VICO E MARÍA ZAMBRANO<br />

SOMMARIO: 1. La critica al razionalismo cartesiano. – 2. Poesia e Filosofia. – 3. La<br />

metafora: cifra di ogni sapere poetico. – 4. Ragione e barbarie: dalla storia<br />

tragica alla storia etica.<br />

In un articolo dal titolo «Razón poética en Zambrano como<br />

razón radical», José Villalobos definisce Giambattista Vico e María<br />

Zambrano, «filosofi dell’Aurora» ( 1 ). Come l’aurora, pur non avendo<br />

abbandonato del tutto l’oscurità della notte, già annuncia la luce<br />

del giorno, allo stesso modo i due pensatori, pur collegandosi al loro<br />

tempo positivamente, superano le istanze della cultura in cui erano<br />

immersi ed elaborano una filosofia radicalmente nuova che nel concetto<br />

di sapienza poetica in Giambattista Vico e di razón-poética in<br />

María Zambrano, esprime l’aspetto più originale e più fecondo.<br />

Vico infatti parlerà della sapienza poetica come della scoperta più<br />

importante di una ricerca lunga e difficile ( 2 ), mentre per Zambrano<br />

il tentativo di riconciliare filosofia e poesia, superando l’antitesi sancita<br />

da Platone tra queste due forme di sapere, può rappresentare un<br />

rimedio alla crisi del razionalismo occidentale ( 3 ).<br />

( 1 )J. VILLALOBOS, La razón poética en Zambrano como razón radical, in «Cuadernos<br />

sobre Vico», n. 9-10 (1998), pp. 271-278.<br />

( 2 )G. VICO, Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni<br />

(1774), a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1980, § 34.<br />

( 3 )M. ZAMBRANO, Filosofía y poesía, Fondo de Cultura Economica, Mexico<br />

1987, [tr. it. Filosofia e Poesia, Pendragon, Bologna 1996, con un interessante introduzione<br />

di Pina de Luca].


194<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

Il motivo che spinge i due filosofi a mettere di nuovo in rapporto<br />

poesia e filosofia, è la constatazione della povertà di una ragione che<br />

pretende di escludere il legame con la vita nella sua storicità e temporalità,<br />

e con il singolo individuo nella totalità delle dimensioni<br />

che lo costituiscono, il corpo, la sensibilità, l’immaginazione e la<br />

fantasia, senza i quali la ragione non si sarebbe sviluppata, e prescindendo<br />

dai quali finisce col degenerare.<br />

La questione che in questo saggio si pone è se la sapienza poetica<br />

vichiana possa essere messa in relazione con la razón-poética di Zambrano,<br />

da un punto di vista puramente teoretico: in Zambrano infatti<br />

non ci sono riferimenti diretti a Vico, e gli studi più recenti sulle<br />

influenze vichiane nell’opera del maestro della filosofa, Josè Ortega<br />

y Gasset, fanno pensare che Ortega conoscesse solo superficialmente<br />

le opere del filosofo napoletano ( 4 ). Nel corso del lavoro si<br />

tenterà infatti di mostrare che, a partire da alcuni elementi che attraversano<br />

le riflessioni dei due pensatori (la critica al razionalismo cartesiano,<br />

la riscoperta della poesia come sapere delle origini, il rapporto<br />

tra filosofia e poesia), il concetto nuovo di ragione che Vico<br />

propone in opposizione al modello cartesiano, possiede caratteri comuni<br />

a quello che la filosofa spagnola elaborerà molti secoli dopo<br />

come risposta al razionalismo occidentale.<br />

1. La critica al razionalismo cartesiano. – Nell’ambito della critica<br />

che María Zambrano rivolge al razionalismo occidentale, Cartesio<br />

rappresenta un interlocutore privilegiato: egli è l’iniziatore di quella filosofia<br />

moderna che realizzerà la scissione definitiva della vita dalla ragione.<br />

Il tentativo di Cartesio di rifondare il sapere sull’evidenza razionale,<br />

per la filosofa spagnola, ha condotto l’uomo a rinchiudersi nella<br />

solitudine della sua coscienza, abbandonando la realtà a sé stessa.<br />

La soledad es, en realidad, la nueva evidencia. De mi existencia, ya sabía,<br />

también de mi conciencia, pero la dos cosas -una sola- se habían vivido ligadas<br />

a algo. […] el «cogito» es la proclamación de la soledad humana que<br />

( 4 )A questo proposito si veda J.M. BERMUDO, La “fortuna” de Vico en España,<br />

in «Cuadernos sobre Vico», n. 2 (1992), pp. 67-73; J.M. SEVILLA FERNÁNDEZ, La<br />

presencia de Giambattista Vico en la cultura española (II. Notas sobre su tratamiento<br />

y estudio durante el siglo XX hasta la decada de los ’70), in «Cuadernos sobre Vico»,<br />

n. 1 (1990), pp. 97-132; G. CACCIATORE, Observaciones al margen a la investigación<br />

viquiana en la España contemporánea, in «Cuadernos sobre Vico», n. 4<br />

(1994), pp. 75-81; G. CACCIATORE, Ortega e Vico, in «Bollettino del Centro di<br />

Studi Vichiani», 1989, pp. 236-246.


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

195<br />

se afirma a sí misma. [...] la nueva creencia será transparente y firme, [...]<br />

pero irá eliminando todo lo que no sea reductible a ella. [...] Descartes [...]<br />

ha operado una disociacíon, ha encontrado la conyuntura de la razón al insertarse<br />

en la vida. Y la ha librado de ella. La razón caminará más aprisa<br />

que nunca, por esta su libertad, pues libre no es el hombre sino tan sólo su<br />

conocimiento ( 5 ).<br />

Ne La confesion: género literario, polemizzando contro il sistema<br />

quale forma privilegiata per la ricerca della verità che ha dominato la<br />

filosofia occidentale, la Zambrano sostiene che l’evidenza «es el punto<br />

en que la verdad, una verdad de la mente y de la vida, se tocan» ( 6 ), in<br />

un processo in cui la verità conquista la vita penetrando al suo interno,<br />

senza farle violenza, come quello descritto da Agostino nelle<br />

Confessioni, a conclusione del quale nasce l’uomo nuovo, nella totalità<br />

di anima e corpo. Il metodo deduttivo sul quale si fonda il sistema<br />

cartesiano si contrappone alla vita nella sua singolarità e irripetibilità,<br />

inseparabile dal tempo e dalla storia, all’interno dei quali l’individuo<br />

realizza sé stesso, attraverso le scelte e le azioni che egli svolge<br />

quotidianamente, per raggiungere quella pienezza alla quale anela<br />

fin dalla nascita, ma che solo faticosamente, in un processo che si<br />

estende all’infinito, è chiamato a conquistare ( 7 ).<br />

Due secoli prima, Giambattista Vico, polemizzando contro il<br />

tipo di sapere impartito nelle Università del suo tempo, sottolineava<br />

il rischio di una sopravvalutazione della «critica», «la quale per liberare<br />

la verità genuina […] da ogni errore, […] prescrive che siano allontanati<br />

dalla mente tutti i secondi veri, ossia i verosimili, al modo<br />

stesso che si allontana la falsità» ( 8 ).<br />

Come dirà Ernesto Grassi, l’allievo di Heidegger che, nell’intento<br />

di rivalutare filosoficamente l’Umanesimo, si allontanerà dal suo<br />

maestro e si avvicinerà a Vico sino a farne uno dei punti di riferimento<br />

più importanti della sua riflessione, la «critica» contro la qua-<br />

( 5 ) M. ZAMBRANO, La confesion: género literario, Siruela, Madrid 1995, pp. 71-<br />

72, 74-75, [tr. it. La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano<br />

1997].<br />

( 6 ) Ivi, p. 67.<br />

( 7 ) «La vida umana es de tal condición que exige que el hombre viva como<br />

viajero que no se afinca en parte alguna y que todo lugar sea casi al mismo tiempo<br />

tiempo de llegada y tiempo de partida». M. ZAMBRANO, Senderos, Anthropos, Barcelona<br />

1986, p. 76.<br />

( 8 ) G. VICO, De nostri temporis studiorum ratione, in ID., Opere Filosofiche, a<br />

cura di N. Badaloni, Mondatori, Milano 1973, p. 796.


196<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

le Vico si scaglia è la filosofia elaborata da Cartesio che, contrapponendosi<br />

al dogmatismo della precedente filosofia, all’ipse dixit col<br />

quale veniva accolto l’insegnamento della tradizione, in particolare<br />

quella aristotelica, non accetta nulla che non sia razionalmente dimostrato,<br />

fuori da ogni dubbio, insomma chiaro ed evidente ( 9 ).<br />

L’evidenza rappresenta perciò quel principio primo sulla base del<br />

quale riedificare l’intero sapere. In questo modo però tutti quei «secondi<br />

veri» sui quali si fondano le singole scienze pratiche, che Vico definisce<br />

come «verosimili», in quanto «intermedi tra il vero e il falso», sono<br />

esclusi dall’edificio scientifico che Cartesio vuole costruire sulla base del<br />

proprio metodo deduttivo. Posto a fondamento della razionalità scientifica<br />

questo metodo possiede i caratteri della universalità e della necessità,<br />

è valido indipendentemente dalle caratteristiche dei singoli e dalle<br />

particolari condizioni in cui questi si trovano a vivere e a operare.<br />

Grassi, ricollegandosi a Vico, fa notare che le premesse dalle quali<br />

l’individuo muove nell’agire sono la molteplicità delle condizioni storiche,<br />

sociali, culturali nelle quali egli vive. Per questo le norme che<br />

guidano l’azione e che stanno a fondamento del vivere civile non possono<br />

essere frutto di una forma di razionalità come quella cartesiana.<br />

Per poter agire l’uomo ha bisogno di un sapere creativo che attinga ad<br />

altre facoltà, quali la fantasia, l’immaginazione, l’ingegno ( 10 ).<br />

Vico non le considera proprietà passive, ma attive, in quanto, come<br />

mostrerà nella Scienza Nuova, sono esse a produrre gli oggetti della realtà<br />

circostante; e se la fantasia è legata alla facoltà della memoria, l’ingegno<br />

è definito come «la specifica natura dell’uomo» ( 11 ). Esso si muove<br />

( 9 )E. GRASSI, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione,<br />

in ID., Vico e l’umanesimo, Guerini, Milano 1992, pp. 29-30.<br />

La rilettura che Grassi fa dell’opera di Vico è tesa a mettere in evidenza la novità<br />

e l’attualità della riflessione del pensatore napoletano. Nell’idea di una sapienza<br />

poetica e nella rivalutazione delle facoltà della fantasia, dell’immaginazione e<br />

dell’ingegno, Grassi coglie la possibilità di rivedere il concetto cartesiano di ragione<br />

e di conoscenza che non si esaurisce unicamente nel momento critico o puramente<br />

razionale, ma necessita della topica e della retorica, senza le quali l’intelletto<br />

da solo non potrebbe cogliere quei principi primi che stanno alla base del reale.<br />

( 10 ) Ivi, pp. 30-33. Sullo stesso argomento si vedano ancora E. GRASSI, Potenza<br />

dell’immagine. Rivalutazione della retorica, Milano 1989; ID., Potenza della fantasia.<br />

Per una storia del pensiero occidentale, Napoli 1990; D. PH. VERENE, La scienza della<br />

fantasia, Armando, Roma 1984; M. SANNA, “La fantasia, che è l’occhio dell’ingegno”.<br />

La questione della verità e della sua rappresentazione, in AA.VV., Vico, Guida, Napoli<br />

2001; G. CACCIATORE, Simbolo e segno in Vico. La storia tra fantasia e razionalità, in<br />

«Il pensiero», n. 1 (2002), pp. 77-89.<br />

( 11 ) G. VICO, De antiquissima italorum sapientia, in ID., Opere Filosofiche, cit.,<br />

p. 116.


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

infatti tra memoria, quale «scrigno del già stato» ( 12 ), e fantasia, al servizio<br />

del «novum» ( 13 ). La memoria infatti registra semplicemente le sensazioni<br />

del passato, mentre la fantasia le riattualizza, sotto forma di immagini,<br />

rendendole disponibili per la creazione di nuovi significati. È<br />

attraverso questa facoltà che l’uomo si rende simile a Dio creatore di<br />

ogni cosa ( 14 ). Alla base del suo potere creativo infatti, c’è la capacità di<br />

rinvenire relazioni tra cose apparentemente separate: superandone i limiti<br />

esterni, l’ingegno penetra al loro interno, ne coglie i nessi con le altre,<br />

rendendo possibile la formazione di quei concetti ( 15 ) quali «il bene,<br />

l’utile, il bello ed il turpe, capacità questa negata ai bruti» ( 16 ).<br />

Sono esse perciò a fornire quei principi primi sulla base dei quali la<br />

ragione esercita la propria capacità critica. La pretesa del razionalismo<br />

di ridurre tutta la realtà a sé, a partire da una verità prima dalla quale<br />

trarre tutte le conseguenze possibili, come la razionalità deduttiva cartesiana,<br />

non può essere frutto a sua volta di un procedimento deduttivo,<br />

ma di un’intuizione ( 17 ). «Se la razionalità è identificata col processo<br />

di chiarificazione», scriverà Ernesto Grassi, «noi siamo costretti ad ammettere<br />

che la primitiva chiarezza dei principi non è razionale» ( 18 ),<br />

questo significa che il «discorso dimostrativo» che l’epoca moderna<br />

pone alla base della conoscenza, si fonda a sua volta sul «discorso indicativo<br />

o allusivo», che crea quei principi primi ai quali il discorso dimostrativo<br />

riporta la definizione di un fenomeno ( 19 ).<br />

Vico, nel De nostri temporis studiorum ratione, sottolinea come l’errore<br />

dei «critici», seguaci di Cartesio, sia proprio quello di pensare ad uno<br />

197<br />

( 12 ) M. SANNA, “La Fantasia, che è l’occhio dell’ingegno”, cit., p. 50.<br />

( 13 ) Ibid.<br />

( 14 ) «quella facoltà, che è detta della fantasia, di rappresentare con immagini la<br />

realtà, quando produce e crea idee nuove dimostra e conferma senz’altro la sua origine<br />

divina». G. VICO, Orazioni inaugurali, in ID., Opere filosofiche, cit., pp. 708-710.<br />

«come la natura crea le cose fisiche, così l’ingegno umano da vita alle cose<br />

meccaniche, sicché come Dio è l’artefice della natura, così l’uomo è il Dio delle<br />

cose artificiali». G. VICO, De antiquissima italorum sapientia, cit., p. 116.<br />

( 15 ) M. SANNA, La “Fantasia, che è l’occhio dell’ingegno”, cit., p. 48.<br />

( 16 ) G. VICO, De antiquissima italorum sapientia, cit., p. 116.<br />

( 17 ) E. GRASSI, Filosofia critica o filosofia topica? Il dualismo di pathos e ragione,<br />

cit., p. 36.<br />

( 18 )ID., Retorica e filosofia, in ID., Vico e l’Umanesimo, cit., p. 97.<br />

( 19 ) «Tale discorso è “figurativo”, “fantastico”, e quindi, nel senso originario “teoretico”<br />

(theorein, cioè vedere). Esso è metaforico, mostra cioè qualcosa che ha un senso,<br />

[...] trasferisce un significato (metapherein) alla figura alla quale è mostrato». Ibid.


198<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

sviluppo della razionalità e del sapere scientifico prescindendo da quelle<br />

facoltà che naturalmente si sviluppano per prime nell’uomo ( 20 ). Come<br />

negli individui l’esercizio della fantasia e dell’immaginazione deve precedere<br />

quello dell’astrazione, «affinché senza fare violenza alla natura, ma<br />

lentamente, secondo le capacità e l’età si abituassero all’uso della ragione»<br />

( 21 ), così, secondo Vico, l’insegnamento della «topica» deve precedere<br />

quello della «critica», la ricerca dei luoghi, «la scoperta degli argomenti<br />

viene per natura prima del giudizio di verità» ( 22 ).<br />

Da qui la necessità di un concetto di ragione più ampio che includa<br />

la fantasia e l’immaginazione. Collocando queste facoltà al di fuori<br />

della ragione, Cartesio volta le spalle a quella realtà nella quale si costituisce<br />

la vita dell’individuo, precludendosi la possibilità di comprenderla<br />

pienamente, nella totalità delle sue manifestazioni ( 23 ).<br />

Il metodo cartesiano rappresenta quella «rettilinea e rigida regola<br />

mentale» ( 24 ) incapace di adattarsi alle diverse circostanze in cui l’individuo<br />

vive. La vita ha bisogno di una ragione che sappia penetrare nelle<br />

zone oscure della realtà, affinché possiamo comprenderne il senso,<br />

come «quella misura flessibile di Lesbo, che, lungi dal voler conformare<br />

i corpi a sé, si snodava in tutti i sensi per adattare sé stessa alle diverse<br />

forme dei corpi» ( 25 ).<br />

( 20 ) «infatti come nella vecchiaia prevale la ragione, nella gioventù prevale la fantasia;<br />

e non conviene affatto accecarla, poiché sempre è considerata come felice indizio<br />

dell’indole futura». G. VICO, De nostri temporis studiorum ratione, cit., p. 810.<br />

( 21 ) Ibid.<br />

( 22 ) Ibid.<br />

( 23 ) «E poiché oggi l’unico fine degli studi è la verità, noi studiamo la natura<br />

in quanto ci sembra certa e non osserviamo la natura umana, perché incertissima a<br />

causa dell’arbitrio. […] poiché i fatti umani, sono dominati dall’occasione e dalla<br />

scelta, che sono incertissime, e poiché a guidarle valgono per lo più la simulazione<br />

e la dissimulazione […] quelli che coltivano il puro vero difficilmente sanno servirsi<br />

dei mezzi e con maggiore difficoltà conseguire i fini». G. VICO, De nostri temporis<br />

studiorum ratione, cit., p. 808, 810.<br />

( 24 ) Ivi, p. 810.<br />

( 25 ) Ibid. Su ciò si veda anche ARISTOTELE, Etica Nicomachea, a cura di C.<br />

Mazzarelli, Rusconi, Milano 1996, II, 2, 1104a 1-9.<br />

A proposito del metodo che guida le azioni pratiche anche Aristotele nell’Etica<br />

Nicomechea afferma che «ogni discorso sulle azioni da compiere deve essere fatto<br />

in maniera approssimativa, e non con precisione rigorosa […] i discorsi si conformino<br />

alla materia di cui trattano. Nel campo delle azioni e di ciò che è utile non<br />

c’è nulla di stabile […] E se è tale la trattazione generale, precisione ancor minore<br />

ha la trattazione dei diversi tipi di casi particolari; infatti essi non cadono sotto alcuna<br />

arte ne sotto alcuna prescrizione tradizionale, ma bisogna che sia proprio chi<br />

agisce che esamina ciò che è opportuno nella determinata circostanza».


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

Il sapere matematico, che fonda l’edificio delle scienze naturali,<br />

pretende di essere quel sapere certo e indubitabile che ci permette di<br />

conoscere la realtà nella sua totalità, ma ciò che ci consegna è simile<br />

all’immagine di quel palazzo «ove nulla manca per magnificenza e<br />

comodità, onde non resta […] che mutar di posto la copiosa suppellettile<br />

o abbellire la casa di qualche lieve ornamento, secondo la<br />

moda del tempo» ( 26 ).<br />

È l’immagine di una ragione che, come dirà Zambrano, per difendersi<br />

dalla realtà costruirà attorno a sé una fortezza inespugnabile, «se<br />

echa hacia atrás y hacia adentro para mirar desde un recinto. Y […] se<br />

dispone a alzar […] un castillo» ( 27 ), «castillo de razones», nell’illusione<br />

rassicurante di preservarsi così dal continuo mutare delle cose e degli<br />

eventi, e di aver raggiunto finalmente la verità immutabile ed eterna.<br />

Per Zambrano, che invita a percorrere il cammino inverso a quello<br />

della ragione in Occidente, si tratta di abbandonare la luce di una<br />

ragione che non lascia sussistere niente altro se non sé stessa, per immergersi<br />

nell’oscurità del cuore dell’uomo e della sua storia. La filosofa,<br />

criticando il dualismo cartesiano, va alla ricerca di un concetto<br />

di verità che sappia prima di tutto fare chiarezza nel cuore dell’uomo.<br />

Questo muscolo, ricettacolo del sangue che arriva e riparte per<br />

alimentare tutto l’organismo, è la metafora di quello spazio interiore<br />

che accoglie, unisce e vivifica la ragione e le passioni, la mente e il<br />

corpo, esso costituisce la vera essenza dell’uomo ( 28 ).<br />

La ragione cartesiana, per Zambrano, costruisce un sistema di verità<br />

auto-evidenti, come gli assiomi della geometria, sulle quali fondare<br />

la realtà. Tale metodo di conoscenza, che troverà il suo apice<br />

nei grandi sistemi elaborati dall’idealismo tedesco, è incapace di cogliere<br />

la vita in tutta la sua complessità. Occorre un sapere in grado<br />

di riscattare la molteplicità delle circostanze in cui l’uomo si trova a<br />

vivere, perché come dice Ortega y Gasset la ragione deve essere «una<br />

forma de amor y también una forma de acción, la única que podemos<br />

ejercitar sin remordimiento en los días que corren» ( 29 ).<br />

Per la filosofa madrileña queste circostanze hanno a che fare prima<br />

di tutto con la sua ispanidad, cioè con l’appartenenza ad una terra, ad<br />

( 26 ) G. VICO, De nostri temporis studiorum ratione, cit., p. 802.<br />

( 27 ) M. ZAMBRANO, Claros del bosque, Seix Barral: Barcelona 1988, p. 26 [tr. it.<br />

Chiari del bosco, Feltrinelli, Milano 1991].<br />

( 28 ) Ivi, p. 63.<br />

( 29 )ID., Pensamiento y poesia en la vida española, Biblioteca Virtual Miguel de<br />

Cervantes, p. 1.<br />

199


200<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

una cultura, ad una storia, che rappresentano il punto di partenza del<br />

suo pensiero. Come scrive nell’opera Pensamiento y poesía en la vida<br />

española, la condizione tragica in cui la Spagna si trova ormai da diversi<br />

secoli, e della quale il dramma della guerra civile è solo l’ultimo atto<br />

di una storia insanguinata, si radica nel fatto che essa è divenuta un<br />

enigma a sé stessa, incapace di vivere il presente, perché ha perso memoria<br />

del proprio passato e delle proprie origini ( 30 ).<br />

La Spagna nella quale la Zambrano vive è tesa tra europeismo,<br />

imitazione passiva di tutto ciò che proveniva da un’Europa alla quale<br />

si spalancavano le porte dopo secoli di chiusura, e la ricerca di una<br />

identità che, pur non chiudendosi ad altre influenze, affondasse le<br />

radici nella propria tradizione filosofica, ma soprattutto poetica, religiosa<br />

e mistica, dalle quali la riflessione filosofica è inseparabile. La<br />

Spagna della Controriforma «encantada en su querer absoluto, se ha<br />

ido retirando de las contiendas historicas» ( 31 ), rinchiusa in sé stessa,<br />

come sfinita dallo sforzo di protendersi verso l’Assoluto, essa è andata<br />

isolandosi dal resto della storia e della cultura europea, perdendo<br />

contatto con le proprie origini, rappresentate dalla tradizione popolare<br />

del realismo spagnolo. Dalla mistica di S. Juan de la Cruz e di S.<br />

Teresa de Avila, al romanzo picaresco culminante nel Quijote di Miguel<br />

de Cervantes, al romanzo realista di Benito Perés-Galdos, questa<br />

tradizione si presenta come «una forma de conoscimiento porque es<br />

una forma de tratar con las cosas, de estar ante el mundo, es una manera<br />

de mirar al mundo admirandose sin pretender reducirle en nada<br />

[…] un estar enamorado del mundo, prendido de el, sin poderse desligar,<br />

por tanto» ( 32 ). Secondo Zambrano il realismo spagnolo contrappone<br />

ai sistemi filosofici elaborati dal pensiero occidentale, una<br />

nuova forma di ragione che la filosofa chiamerà razón-poetica.<br />

2. Poesia e Filosofia. – Il II libro della Scienza Nuova, dedicato alla<br />

Sapienza Poetica, si apre con la critica alla così detta boria dei dotti,<br />

«i quali, ciò ch’essi sanno, vogliono che sia antico quanto che ‘l<br />

( 30 )ID., Delirio e destino, cit., p. 39.<br />

«si trattava [...] di far in modo che la Spagna riprendesse a vivere [...]; la smorta<br />

continuità della Spagna della Restaurazione, una continuità “senza vita”, si era<br />

felicemente spezzata. [...] occorre ricostruire la vita spagnola, che si è trascinata in<br />

secoli di inerzia. [...] Era arrivato il momento di entrare completamente nel “nostro<br />

tempo”».<br />

( 31 ) Ivi, p. 33.<br />

( 32 ) Ivi, p. 9.


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

mondo» ( 33 ). Si tratta della pretesa di attribuire significati filosofici<br />

nascosti ai miti e alle favole delle origini, di interpretare alla luce<br />

della razionalità sviluppata le epoche passate e il sapere prodotto in<br />

esse, «per la quale come Manetone, sommo pontefice egizio, portò<br />

tutta la storia favolosa egiziaca ad una sublime teologia naturale,<br />

[…] così i filosofi greci portarono la loro alla filosofia» ( 34 ). Frutto<br />

di una tale boria è un sapere che, come dirà anche Zambrano riferendosi<br />

al cammino della razionalità occidentale ( 35 ), si è insuperbito<br />

perchè ha perso memoria delle proprie origini poetiche, dimenticando<br />

come dirà Vico, «quello da Aristotile detto particolarmente di<br />

ciascun uomo: «Nihil est in intellectu quin prius fuerit in sensu», cioè<br />

che la mente umana non intenda cosa della quale non abbia avuto<br />

alcun motivo […] da’ sensi» ( 36 ).<br />

La riflessione sui rapporti tra filosofia e poesia attraversa tutta<br />

l’opera di Vico e ne rappresenta uno degli elementi più importanti e<br />

insieme più problematici: in esso si gioca il rapporto tra fantasia e<br />

razionalità, tra sensibilità e intelletto, tra topica e critica, tra certo e<br />

vero. Come scrive Giuseppe Patella in Senso, corpo, poesia. Giambattista<br />

Vico e l’origine dell’estetica moderna, nel paragrafo intitolato Poesia<br />

e Filosofia ( 37 ), se è vero che l’analisi dei rapporti tra queste due<br />

forme di sapere non approderà ad una soluzione definitiva, tuttavia<br />

201<br />

( 33 ) G. VICO, Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni<br />

(1774), cit., § 127.<br />

( 34 ) Ivi, § 362.<br />

( 35 ) Il cammino della ragione in Europa, infatti, è stato quello di una sua progressiva<br />

assolutizzazione: «la razón en su caminar por nuestro angosto mundo de<br />

Occidente […] se ensoberbeció». M. ZAMBRANO, Pensamiento y poesía en la vida<br />

española, cit., p. 5.<br />

( 36 ) G. VICO, Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni<br />

(1774), cit., § 363.<br />

( 37 )G. PATELLA, Senso, corpo, poesia. Giambattista Vico e l’origine dell’estetica<br />

moderna, Guerini, Milano 1995, p. 126-130.<br />

Patella ci mostra come, nelle opere di Vico, accanto a giudizi che contrappongono<br />

la poesia alla filosofia, ci sono passi che attenuano questa opposizione, dove la<br />

poesia è definita come una forma di sapere autonoma che, al pari della filosofia, cerca<br />

il vero e l’universale, ma a partire dal sensibile. Per esempio, se nel De Nostri tempotis<br />

studiorum ratione Vico colloca la topica in contrapposizione alla critica, tuttavia<br />

al § VIII egli scrive: «io, infatti, non sono dell’avviso che i poeti dilettino col falso,<br />

anzi oserei affermare che essi, al pari dei filosofi, perseguano il vero. I poeti insegnano<br />

con diletto quelle stesse cose che il filosofo insegna con severità: ambedue insegnano<br />

il dovere, descrivono il costume degli uomini, incitano alla virtù e allontanano<br />

dal vizio. Ma il filosofo, che tratta coi dotti, tratta le cose concettualmente, mentre<br />

il poeta, che si rivolge alla massa, persuade per via di sublimi fatti».


202<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

è possibile affermare che in Vico c’è il tentativo di superarne, forse<br />

senza riuscirvi completamente, la contrapposizione.<br />

Questo avverrà soprattutto nella Scienza Nuova, dove Vico parlerà<br />

di una sapienza poetica, e degli universali fantastici da essa prodotti<br />

( 38 ), come della prima forma di conoscenza, in quanto sapere legato<br />

alle immagini, alle passioni, alla dimensione sensibile. Essa rappresenta<br />

lo strumento attraverso il quale gli esseri umani, «siccome<br />

[…] ch’erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime<br />

fantasie» ( 39 ), di fronte al «caos del senza nome», danno ordine alla<br />

realtà, facendosi in qualche modo creatori della realtà stessa.<br />

Secondo Zambrano, che al rapporto tra filosofia e poesia ha dedicato<br />

una delle sue opere più interessanti intitolata Filosofía y poesía,<br />

queste due forme di sapere sono andate contrapponendosi fin dalle<br />

origini. La filosofia è nata quale cura e rimedio all’inesorabile fluire<br />

delle cose nel tempo, per questo motivo il suo trionfo consiste nella<br />

determinazione della realtà come essere di fronte alle contraddittorie<br />

apparenze del mondo sensibile; la poesia invece si aggrappa alle cose<br />

nella loro unicità e irripetibilità, non rassegnandosi ad alcuna cura che<br />

in qualche modo significhi la perdita di una soltanto di esse. Tutto ciò<br />

che la ragione filosofica ha sempre considerato come altro da sé: «el<br />

movimiento, el cambio, los colores y la luz, las pasiones» ( 40 ), diviene<br />

oggetto di contemplazione da parte della poesia: essa si immerge nel<br />

mistero che la vita nasconde dentro di sé, e scruta in attesa di quella<br />

«palabra perdida» che possa svelare all’uomo un barlume della verità<br />

cui tanto anela.<br />

Il carattere di intrinseca incompiutezza che la vita dell’uomo porta<br />

con sé, per il suo tendere inesorabilmente al di là dei propri limiti ( 41 ),<br />

ha dato origine, nel corso della storia, a due differenti risposte, a cui<br />

( 38 ) Ivi, p. 128: «crediamo infatti che nel pensiero vichiano emergente soprattutto<br />

dal suo capolavoro ultimo, vi siano anche delle ragioni (e assai valide) che<br />

contribuiscono ad impostare il problema del rapporto di filosofia e poesia non<br />

tanto in termini di opposizione, di esclusione, ma piuttosto [...] come dimensione<br />

attiva, creativa, fantastica, ideale, veritativa del senso, la dimensione con cui con la<br />

dottrina degli “universali fantastici” la sensibilità si fa universalità e con la dottrina<br />

del mito il racconto fantastico si fa storia ed il “falso” poetico vero in idea».<br />

( 39 ) G. VICO, Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni<br />

(1774), cit., § 375.<br />

( 40 ) Ivi, p. 3.<br />

( 41 ) «pertenece a la contextura esencial de la vida el verse insuficente, el verse<br />

incompleta, el estar siempre en deficit». M. ZAMBRANO, Pensamiento y poesía en la<br />

vida española, p. 4.


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

corrispondono due atteggiamenti contrapposti: quella del filosofo simile<br />

all’atteggiamento di chi, posto di fronte ad un abisso, cerca affannosamente<br />

una soluzione che gli permetta di colmarlo, e quella del<br />

poeta che, consapevole dell’impossibilità dell’impresa, sta sull’orlo dell’abisso<br />

e contempla, aspettando una rivelazione che come un dono di<br />

grazia possa rispondere alla sua attesa ( 42 ).<br />

La ragione deve farsi sapere poetico recuperando l’unione con la<br />

vita, con l’enigma che essa ha rappresentato fin dall’inizio e che<br />

chiede di essere decifrato, superando la contrapposizione tra filosofia<br />

e poesia. Per Zambrano questo significa tornare a quel sapere originario<br />

che per l’uomo ha a che fare con il ricordo della propria nascita,<br />

questo essere gettati, nudi e senza difesa, in una realtà che spaventa<br />

perché si presenta opaca, confusa e incomprensibile.<br />

All’inizio l’uomo patisce la realtà, per questo il primo modo in cui<br />

si rapporta al mondo circostante è la poesia, nella forma del delirio.<br />

203<br />

In principio era il delirio, il delirio visionario del Caos e della Cieca notte.<br />

La realtà opprime e non si conosce il suo nome. […] Il primo passo necessario<br />

[…] è concretare la realtà, […] cominciare a identificarla, scoprirvi<br />

progressivamente entità, unità qualitative ( 43 ).<br />

( 42 ) Ibid.<br />

Cfr. anche M. ZAMBRANO, Filosofía y poesía, cit., p. 13. «A pesar de que en algunos<br />

mortales afortunados, poesía y pensamiento hayan podido darse al mismo tiempo<br />

y paralelamente, a pesar de que en otros más afortunados todavía, poesía y pensamiento<br />

hayan podido trabarse en una sola forma expresiva, la verdad es que pensamiento<br />

y poesía se enfrentan con toda gravedad a lo largo de nuestra cultura. Cada<br />

una de ellas quiere para sí eternamente el alma donde anida. [...] hoy poesía y pensamiento<br />

se nos aparecen como dos formas insuficientes; y se nos antojan dos mitades<br />

del hombre: el filósofo y el poeta. No se encuentra la totalidad de lo humano en la<br />

poesía. En la poesía encontramos directamente el hombre concreto, individual. En la<br />

filosofía el hombre en su historia universal, en su querer ser. La poesía es encuentro,<br />

don, hallazgo por gracia. La filosofía busca, requerimiento guiado por un metódo».<br />

Proprio in quest’opera, come scriverà Pina de Luca nell’introduzione alla traduzione<br />

italiana, «María Zambrano ripercorre il dissociarsi di questi tempi e il radicarsi<br />

di due atteggiamenti. Il filosofo nel suo volere “ciò che è permanente, identico,<br />

idea [...] abbandonò la superficie del mondo”; il poeta, invece, vi rimase “attaccato”<br />

e l’iniziale stupore divenne fedeltà alla cosa, sua materiale condivisione.<br />

[...] Il pensiero, spezzato da una volontà ordinatrice, non riconobbe più come<br />

pensiero questa sua parte che vivrà in un’eterna infanzia senza compimento». P.<br />

DE LUCA, Introduzione a Filosofia e poesia, cit., p. 12.<br />

( 43 ) M. ZAMBRANO, El hombre y lo divino, Fondo de Cultura Económica,<br />

México 1955, [tr. it. L’Uomo e il Divino, Mondatori, Milano 2001, p. 26. Di particolare<br />

interesse il saggio introduttivo di V. VITIELLO, Per una introduzione al pensiero<br />

di María Zambrano: il Sacro e la storia].


204<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

In questa condizione in cui ogni cosa era affidata all’anonimato,<br />

in questo tutto confuso e compatto, la prima azione dell’essere umano<br />

è fornire un nome che identifichi e distingua le singole cose. Nel<br />

nominarle egli in qualche modo le chiama all’essere, contribuendo a<br />

costruire quella realtà in cui si troverà ad agire. Questa attività creatrice<br />

è la prima vocazione dell’individuo.<br />

Il primo passo […] perché possa apparire uno spazio libero, […] è concretare<br />

la realtà, nel senso di cominciare a identificarla, scoprirvi entità, unità<br />

qualitative ( 44 ).<br />

Blumenberg sosterrà che la paura è ciò che anima l’uomo di fronte<br />

«all’assolutismo» di una realtà che si presenta anzitutto come priva<br />

di qualsiasi determinazione. Essa scaturisce infatti dalla «mancanza<br />

di familiarità»: ciò che è «sconosciuto non ha nome e in quanto non<br />

ha nome non può essere esorcizzato o invocato o attaccato magicamente»<br />

( 45 ). Il linguaggio rappresenta così lo strumento privilegiato<br />

che consente all’uomo di costruire un ponte tra lui e il mistero che<br />

nasconde la realtà, di entrare in rapporto con le cose, di creare un<br />

mondo ( 46 ).<br />

Le prime entità ad essere nominate furono gli dei: «non ci sono ancora<br />

“cose” né esseri in questa situazione; diventeranno visibili soltanto<br />

dopo che gli dei saranno apparsi e avranno nome e figura» ( 47 ). Finalmente<br />

l’uomo, il cui sentimento primordiale è, per Zambrano,<br />

l’angoscia di chi si sente sotto lo sguardo di un’entità indefinibile,<br />

può rivolgersi ad essa chiamandola per nome, può invocarla, offrirle<br />

sacrifici, o gridare il proprio lamento, come Giobbe. Dietro il grido<br />

disperato dell’uomo che chiede ragione della sofferenza e dell’ingiustizia,<br />

si cela la domanda più importante: quella che la vita si riveli,<br />

che riveli la sua ragione nascosta ( 48 ).<br />

Anche per Vico il primo universale fantastico ha il suo fondamento<br />

nella paura che l’uomo prova nei confronti del tuono e del fulmine,<br />

di fronte ai quali egli inizia a tremare: «così il timore fu quello<br />

( 44 ) Ivi, p. 26.<br />

( 45 )H. BLUMENBERG, Elaborazione del mito, Il Mulino, Bologna 1991, p. 59.<br />

( 46 ) «Provvedere il mondo di nomi significa dividere e classificare l’indiviso,<br />

rendere tangibile, benchè non ancora comprensibile l’inafferrabile». M. ZAMBRA-<br />

NO, L’Uomo e il Divino, cit., p. 69.<br />

( 47 ) Ivi, p. 26.<br />

( 48 ) Ivi, p. 353.


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

che finse gli dèi nel mondo» ( 49 ). Nel volgere gli occhi verso l’alto, i<br />

bestioni primordiali associano il tremore del proprio corpo a quello<br />

del cielo, che diviene così il corpo della divinità suprema, Giove,<br />

«che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuoni volesse dir loro<br />

qualche cosa» ( 50 ).<br />

Donald Philip Verene, uno dei primi, insieme a Ernesto Grassi,<br />

ad aver sottolineato l’importanza e l’attualità del concetto di sapere<br />

poetico vichiano, affermerà che alle origini della storia l’uomo si trovava<br />

di fronte ad una molteplicità e contraddittorietà di sensazioni,<br />

in cui «ogni nuova sensazione cancella affatto l’antica» ( 51 ), in una<br />

realtà che non era ancora tale perché mancavano le cose, frutto della<br />

stabilità e dell’ordine forniti dai concetti e dalle categorie universali.<br />

In questa situazione Vico, nell’indagare «come la mente arrivi […]<br />

ad avere qualcosa davanti a sé […] anziché nulla» ( 52 ), scoprirà che<br />

ciò non avviene ad opera del sillogismo, prodotto di una ragione affinata,<br />

ma per mezzo dell’universale fantastico, frutto della fantasia e<br />

dell’ingegno. Attraverso le facoltà dell’immaginazione e della memoria,<br />

gli universali fantastici rendono le cose intelligibili. I concetti<br />

che essi formano non sono però astrazioni «da un ordine empirico<br />

posseduto dalle cose singole» ( 53 ), ma creazioni della fantasia sotto la<br />

spinta di una sensazione o di una passione che produce «una interruzione<br />

del flusso» ( 54 ) fissando «una sensazione in un’immagine» ( 55 ).<br />

In una molteplicità di sensazioni che si susseguono le une alle altre,<br />

una di queste diviene «un punto di riferimento permanente» ( 56 ).<br />

Così è per la nascita del primo universale fantastico, il divino:<br />

l’individuo spaventato dal rumore del tuono si ferma, e questo rappresenta<br />

una rottura nella continuità della vita irriflessiva, spontanea<br />

del bestione, che fa scaturire il germe della coscienza ( 57 ). La paura<br />

( 49 ) G. VICO, Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni<br />

(1774), cit., § 382.<br />

( 50 ) Ivi, § 377.<br />

( 51 ) Ivi, § 703.<br />

( 52 )D. PH. VERENE, La scienza della fantasia, cit., p. 82.<br />

( 53 ) Ibid.<br />

( 54 ) Ivi, p. 83.<br />

( 55 ) Ibid.<br />

( 56 ) Ibid.<br />

( 57 ) Per Vincenzo Vitiello il timore divino fu all’origine del linguaggio. La realtà<br />

originaria è quella in cui l’oggetto non è ancora distinto dal soggetto, così il linguag-<br />

205


206<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

di Giove porta inoltre gli individui a dare un termine al loro errare<br />

da un luogo all’altro, in una situazione di promiscuità, e a rifugiarsi<br />

nelle caverne creando insediamenti stabili: «que’ giganti si ristettero<br />

dal vezzo bestiale d’andar vagando per la gran selva della terra e<br />

s’avezzarono ad un costume, tutto contrario, di stare nascosti e fermi<br />

lungo età dentro le loro grotte» ( 58 ). Questo avrà come conseguenza<br />

l’origine di quegli istituti che costituiscono il fondamento della società<br />

umana: le pratiche religiose, i primi matrimoni e le sepolture<br />

dei defunti.<br />

Alla base del pensiero, e delle prime operazioni che la mente compie<br />

per conoscere, non ci sono perciò concetti astratti, ma le sensazioni,<br />

le passioni dei primi uomini. Non potendo far uso delle capacità di<br />

astrazione, gli individui, come i bambini, istituirono rapporti di somiglianza<br />

tra ciò che era loro familiare, il proprio corpo, le proprie sensazioni,<br />

e ciò che non lo era, la realtà che li circondava.<br />

essi poeti teologi non potendo far uso dell’intendimento […] diedero sensi<br />

e passioni, come testè si è veduto a’ corpi, e vastissimi corpi quanto sono<br />

cielo, terra, mare. […] tutto va di sèguito a quella Degnità: che «l’uomo<br />

ignorante fa di sé regola dell’universo» […] Perché come la metafisica ragionata<br />

insegna che «homo intelligendo fit omnia», così questa metafisica<br />

fantastica dimostra che «homo non intelligendo fit omnia» (...) perché l’uomo<br />

con l’intendere spiega la sua mente e comprende esse cose, ma col non<br />

intendere egli fa di sé esse cose e, col transformandovisi, lo diventa ( 59 ).<br />

La differenza tra Vico e Zambrano, come mette in evidenza Vincenzo<br />

Vitiello nell’introduzione a L’Uomo e il Divino, consiste nel<br />

gio, il suono, la parola, non può essere altro rispetto alla cosa. Per questo i bestioni<br />

primordiali, secondo Vico, «parlarono scrivendo», cioè accompagnarono i balbettii<br />

iniziali da gesti corporei. Sarà la paura di fronte al rumore del cielo a dar forma alla<br />

prima realtà distinta da sé: il divino.<br />

V. VITIELLO, Tra natura e storia: l’iconologia della mente, in «Il pensiero», n. 1<br />

(2002), pp. 47-56.<br />

A proposito degli studi sull’origine del linguaggio in Vico si vedano anche: G.<br />

CANTELLI, Mente Corpo Linguaggio. Saggio sull’interpretazione vichiana del mito,<br />

Sansoni, Firenze 1986; J. TRABANT, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia<br />

di Vico, tr. it. di D. Di Cesare, Laterza, Roma-Bari 1996; ID., Parola, logos, dabar:<br />

linguaggio e verità nella filosofia di Vico, in Vico in Italia e in Germania, a cura<br />

di G. Cacciatore e G. Cantillo, Napoli 1993.<br />

( 58 ) G. VICO, Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni<br />

(1774), cit., § 388.<br />

( 59 ) Ivi, § 402, 405.


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

fatto che in Zambrano è assente l’intento di una ricostruzione storico-filologica<br />

dei primordi dell’umanità, che Vico perseguirà nella<br />

Scienza Nuova e che lo porterà alla scoperta della sapienza poetica e<br />

di una logica della fantasia come forme originarie del pensiero. Il ritorno<br />

alle origini non significa per Zambrano la ricostruzione di<br />

«una storia ideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie di<br />

tutte le nazioni» ( 60 ), ma è un invito a immergersi nel mistero che la<br />

vita porta con sé, all’interno del quale l’uomo è chiamato ad addentrarsi,<br />

consapevole che non sarà mai possibile svelarlo del tutto ( 61 ).<br />

La realtà in cui l’individuo si trova alla sua nascita si presenta per<br />

Zambrano come le bibliche acque primordiali che avvolgono ogni<br />

cosa, nelle quali l’uomo si sente immerso, e in qualche modo protetto,<br />

come l’eracliteo fuoco sacro dal quale ogni cosa scaturisce ( 62 ).<br />

Per questo «la vita umana si è sempre sentita dinanzi a qualcosa, o<br />

meglio, sotto qualcosa» ( 63 ), anche dopo la sua nascita, questo essere<br />

gettato fuori dal «grembo materno» che ci conteneva.<br />

Rispetto al delirio originario, nel quale l’uomo è troppo assorbito<br />

dalla realtà per guardarsi dentro, per potersi ritirare in un proprio<br />

spazio intimo, il pensiero filosofico nasce successivamente: con un<br />

atto di ribellione e di affermazione della propria indipendenza, l’uomo<br />

domanda ragione della propria esistenza, e non volendo più<br />

aspettare, come il poeta, che questa si riveli, cerca da solo la risposta.<br />

Ma in questa ricerca egli finisce col rinchiudersi in sé stesso, arroccandosi<br />

nella fortezza costituita dalle proprie ragioni. Anziché penetrare<br />

la vita, egli si sottrae ad essa e al mistero, incapace di sopportare<br />

il ricordo della nascita, l’esistenza di una verità che lo precede e<br />

dalla quale si sente provenire, rendendolo consapevole della propria<br />

condizione di creatura. La ragione diviene così da strumento di liberazione<br />

una nuova forma di delirio.<br />

207<br />

( 60 ) Ivi, § 7.<br />

( 61 ) «diversamente da Vico e da Hegel, la nostra autrice non va in cerca dell’argomentazione<br />

impossibile che sciolga il mistero di questa nascita, spiegandolo; accetta<br />

come tale, per contro il mistero [...] come mistero- senza pretendere di disvelarlo».<br />

V. VITIELLO, Per una introduzione al pensiero di María Zambrano: il Sacro e<br />

la storia, cit., p. XIII.<br />

( 62 ) «la realtà così come si presenta nell’uomo che non ha dubitato, nell’uomo<br />

che non ha preso coscienza [...] non è un attributo né una qualità pertinente solo<br />

a certe cose: è la realtà occulta, nascosta; [...] quel che oggi chiamiamo sacro». M.<br />

ZAMBRANO, L’Uomo e il Divino, cit., p. 28.<br />

( 63 ) Ivi, p. 27.


208<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

3. La metafora: cifra di ogni sapere poetico. – Per Zambrano la razónpoética<br />

può rappresentare il rimedio al delirio della ragione occidentale,<br />

e a quello della vita che, nell’incessante mutare che caratterizza<br />

il tempo e la storia, è sempre bisognosa di un senso che la illumini,<br />

che la riporti a quell’unità tanto anelata, senza annullare la molteplicità<br />

delle cose che la costituiscono. Per questo la metafora, che<br />

caratterizzerà la scrittura della Zambrano a partire da opere come<br />

Claros del bosque e De la aurora, ne diventa l’elemento centrale.<br />

Essa dà vita a quel parlare per immagini che ci mette in diretto<br />

contatto con il sentire originario, capace di creare rapporti sempre<br />

nuovi tra le cose, congiungendo quelle apparentemente distanti, istituendo<br />

nuovi significati, senza la pretesa di aver detto tutto. È un<br />

discorso simbolico sempre aperto alla rivelazione, perché la realtà è<br />

nascondimento, e il simbolo, come un fenditura, ci apre uno squarcio<br />

nell’oscurità della vita, dal quale è possibile intravedere un po’<br />

di luce.<br />

Per Chantal Maillard, che alla ragione-poetica in Zambrano ha<br />

dedicato un importante studio dal titolo: La creación por la metáfora,<br />

introdución a la razón-poética, l’oggetto della ragione-poetica è l’essere<br />

dell’uomo, quel «conosci te stesso» che fin dalle origini della filosofia<br />

in Grecia ha rappresentato l’imperativo al quale ogni uomo in<br />

quanto tale è chiamato a rispondere ( 64 ).<br />

La Storia è il cammino attraverso cui l’uomo ha cercato di conquistare<br />

il proprio essere «enmascarándolo, alienándolo, exponiéndolo,<br />

interiorizándolo, o aun combatiéndolo o identificándolo consigo»<br />

( 65 ). Perché la vita in generale e quella dell’uomo in particolare<br />

presenta sempre un lato oscuro, irrazionale, che deve essere portato<br />

alla luce ( 66 ).Questo è ciò che intende la Zambrano affermando che<br />

( 64 ) «un dar a conocer al hombre el sentido de su ser y de sus peculiares estructuras,<br />

un “darse a conocer” el hombre a si mismo». CH. MAILLARD, La creación por<br />

la metáfora, introdución a la razón-poética, Antrhopos, Barcelona 1992, p. 87. È<br />

l’invito che Vico nelle Orazioni inaugurali rivolgerà ai giovani, nel suo discorso di<br />

inaugurazione dell’Anno Accademico: «la conoscenza di sé stesso è per ognuno di<br />

grandissimo stimolo a completare in breve tempo l’intero complesso delle conoscenze».<br />

G. VICO, Orazioni inaugurali, in ID., Opere Filosofiche, cit., p. 708.<br />

( 65 )CH. MAILLARD, La creación por la metáfora, introdución a la razón-poética,<br />

cit., p. 21.<br />

( 66 ) «La expresión vida humana es utilizada por Zambrano atendiendo a dos<br />

perspectivas. Una corresponde al ser humano engarzado en su trascurso social e<br />

histórico; [...] la otra se refiere a todo lo irracional que porta y soporta el ser humano,<br />

todo aquello que alberga como ajeno, oscuro y remoto». Ivi, p. 25.


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

la Storia è trasformazione del sacro nel divino, «es darle luz a las tinieblas,<br />

hacerlas comprensibles» ( 67 ).<br />

Ci sono momenti nei quali l’uomo entra in contatto con la Totalità<br />

che lo precede, col sapere originario, come quell’attitudine che<br />

ha reso possibile il passaggio dal caos al cosmo, allora una verità riguardo<br />

al proprio essere gli si rivela, come avviene in quello che la filosofa<br />

chiama sueño creador. La dinamica sogno-risveglio per Zambrano<br />

riflette la ricerca che l’uomo fa del proprio essere. Egli si muove<br />

nella storia al ritmo dei propri sogni, che sono la proiezione dei<br />

propri desideri e delle proprie passioni, ma costituiscono anche la<br />

chiave di accesso privilegiata a quella realtà oscura della coscienza<br />

dove sono racchiusi i conflitti irrisolti.<br />

209<br />

En los sueños se manifestan como teoremas los lugares de la persona, los<br />

inferos de la vida personal, de donde la persona ha de salir a través del<br />

tiempo, en el ejercicio de la libertad ( 68 ).<br />

Secondo la Zambrano l’uomo della sua epoca è prigioniero del<br />

sogno di una ragione assolutizzata, che ha trasformato la realtà nella<br />

tragedia della guerra, dove gli esseri umani sembrano come spinti da<br />

una forza cieca e irrazionale che annulla ogni volontà. E mentre la<br />

vita dell’individuo si realizza nel tempo, nelle sue dimensioni di passato,<br />

presente e futuro, nelle epoche di crisi tutto si svolge come in<br />

un eterno presente che, chiudendosi alla novità del futuro e alla lezione<br />

del passato, fa sí che ogni cosa si ripeta senza possibilità di salvezza.<br />

Da questo genere di sogni l’uomo non si risveglia veramente,<br />

ma «se mantendrà, aún en la virgilia, encerrado dentro de una especie<br />

de atemporalidad, circulo magico que contiene el tiempo sucesivo<br />

sustrayendolo a la trascendencia» ( 69 ).<br />

Ci sono sogni nei quali invece il risveglio è frutto di un’azione<br />

autentica che libera il tempo in tutte le sue dimensioni, permettendo<br />

all’individuo di avvicinarsi sempre più a quella meta che ha a che<br />

fare con l’essere persona, e con la soluzione dei conflitti che gli impediscono<br />

di realizzarla. Proprio per questo la Zambrano li definisce<br />

sogni della persona, o sogni creatori.<br />

( 67 ) Ivi, p. 23.<br />

( 68 ) M. ZAMBRANO, El sueño creador, Turner, Madrid 1986, p. 65, [tr. it. Il sogno<br />

creatore, Bruno Mondadori, Milano 2002].<br />

( 69 ) Ivi, p. 65.


210<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

La acción verdadera que los sueños de la persona proponen es un despertar<br />

del íntimo fondo de la persona, ese fondo inasible desde el cual la persona<br />

es, si no una máscara, sí una figura que puede deshacerse y rehacerse; un<br />

despertar trascendente ( 70 ).<br />

Dai sogni della persona scaturisce come in un’intuizione, in una<br />

rivelazione frutto dei momenti di lucidità, una verità che illumina la<br />

vita dell’individuo perché ha a che fare col suo essere.<br />

Son los momentos creadores de la persona, cuando un suceso que le obsesiona,<br />

un enigma, se le aparece como historia completa, como melodia musical,<br />

sin interrupción; cuando elementos alejados en el tiempo y en el<br />

espacio forman una unidad de sentido ( 71 ).<br />

Per Zambrano, questo processo è simile a ciò che avviene nei momenti<br />

di creatività tipici di un’opera d’arte o del linguaggio poetico.<br />

Nella parola poetica, fecondata dal silenzio, l’individuo toglie, sebbene<br />

per un breve attimo, il velo che copre il mistero della sua vita.<br />

Son los descubrimientos cientificos, las soluciones del arte, incluido el pensamiento.<br />

Es una «presentación» como la de los sueños en que se es pasivo<br />

y al par activo. Tienen el carácter de un sueño, mas de un sueño lucido en<br />

que la persona con la integridad de la conciencia es espectadora ( 72 ).<br />

La ragione pura da sola non può cogliere la struttura intima della<br />

realtà, «no puede descender directamente a los abismos del ser» ( 73 ),<br />

alla ricerca di quell’immagine autentica cui affannosamente ogni<br />

uomo anela, attraverso le molteplici maschere che proietta avanti a<br />

sé. Per assolvere questo compito la ragione deve farsi poesia, poíesis,<br />

perché, sostiene la Maillard, l’uomo si esprime creando, e attraverso<br />

la creazione egli conquista il proprio essere, si fa, si costruisce, portando<br />

alla luce quel «ser oculto» dove si annida il patire dell’uomo.<br />

Expresión y creación unidas constituyen lo que Zambrano entiende por poíesis:<br />

unión «sagrada», «religiosa» […] por esta unión o armonización íntima,<br />

como por efecto de un espejo mágico, emerge ante el hombre la realidad de<br />

( 70 ) Ivi, p. 66.<br />

( 71 ) Ivi, p. 25.<br />

( 72 ) Ivi, p. 26.<br />

( 73 ) Ivi, p. 37.


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

su ser – su ser hecho «real» – en su mutable, efímera identidad de cada trazo,<br />

de cada instante ( 74 ).<br />

E ciò che la Zambrano ribadisce affermando che solo attraverso l’incontro<br />

tra la storia, la poesia e la filosofia, l’uomo recupera il contatto<br />

con la vita e con l’essere che gli è proprio, perché la storia «es la unificación<br />

de todos los destinos […] el lazo fundamental que le confiere<br />

unidad y determinación. Pero […] sin la poesía que rescata el profundo<br />

latido de los orígenes, sería una mera sucesión de datos faltos de<br />

sentido que, por otra parte, sin la razón permanecerían inconexos» ( 75 ).<br />

Il linguaggio poetico-metaforico agisce creando un luogo, una<br />

apertura dove sia possibile la simultaneità che la vita porta con sé: essa<br />

è insieme sogno e risveglio, ispirazione e creazione, incoscienza e coscienza,<br />

passività e azione ( 76 ). Maillard sostiene che nel linguaggio<br />

zambraniano la metafora non è solo una comparazione contratta o<br />

un’analogia, poiché «si bien ambas procuran aparentemente una aprosimaxión<br />

entre dos nociones, la comparación, al aproximarlos, reafirma<br />

la distancia que las separa, mientras que la metáfora es elemento<br />

de fusión» ( 77 ). L’originalità della metafora consiste nella creazione di<br />

nuovi significati attraverso la sovrapposizione di concetti anche molto<br />

distanti tra loro, dove la similitudine non solo non è manifesta, ma in<br />

qualche modo viene creata, inventata, e dove l’unità data dal concetto<br />

metaforico non annulla la diversità degli elementi sovrapposti ( 78 ).<br />

Così dà vita a nuove visioni del mondo, frutto di associazioni inedite,<br />

e in qualche modo ricrea la realtà, come alle origini.<br />

Questa è la logica che sta alla base anche dell’universale fantastico<br />

vichiano: quel carattere che mantiene insieme individuale e universale,<br />

unità e diversità. Come dirà Donatella Di Cesare in esso «identità e<br />

( 74 )CH. MAILLARD, La creación por la metáfora, introdución a la razón-poética,<br />

cit., p. 31.<br />

( 75 ) Ivi, p. 50.<br />

( 76 ) Ivi, p. 96.<br />

( 77 ) Ivi, p. 99.<br />

( 78 ) L’attenzione al carattere euristico della metafora, in quanto creatrice di<br />

nuovi «mondi», non solo elemento decorativo del discorso, la sua rivalutazione in<br />

campo scientifico, quando il suo ambito sembrava limitarsi a quello umanisticoletterario,<br />

è sempre più oggetto di studio da parte di semiologi, linguisti, filosofi,<br />

psicologi. Nel suo saggio la Maillard fa a questo proposito un excursus di quelle<br />

concezioni che si pongono su questa linea, aiutandoci a comprendere meglio in<br />

che modo la ragione-poetica della Zambrano è creazione attraverso la metafora. A<br />

questo proposito si veda la bibliografia presente nel testo.<br />

211


212<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

differenza rimangono sempre presenti e tra loro opposte nella conflittualità<br />

della somiglianza» ( 79 ), in un processo che è per essenza metaforico.<br />

Non è l’universale astratto, frutto di un procedimento razionale<br />

che astraendo dai particolari considera solo le qualità generali che accomunano<br />

più cose, ma un universale fantastico in cui è il particolare<br />

concreto a divenire il modello ideale delle altre realtà a lui somiglianti.<br />

I primi uomini come fanciulli del genere umano non essendo capaci di formare<br />

generi intelligibili delle cose, ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri<br />

poetici, che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come a certi<br />

modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie particolari a lui somiglianti ( 80 ).<br />

La logica della fantasia è il risultato di una intuizione, di una visione<br />

immediata e originale che mette in relazione realtà anche molto distanti<br />

tra loro. Essa non opera per analogia, ma in maniera univoca stabilisce<br />

un’identità tra le sensazioni e l’immagine ideale creata dalla fantasia.<br />

‘l principio delle vere allegorie poetiche, che alle favole davano significati<br />

univoci, non analogi, di diversi particolari compresi sotto i loro generi poetici:<br />

le quali perciò si dissero «diversiviloquia», cioè parlari comprendenti in<br />

un general concetto diverse spezie di uomini o fatti o cose ( 81 ).<br />

Tornando alle origini la ragione, per Vico come per Zambrano, si<br />

riscopre nella sua interezza, non solo sapere matematico-geometrico,<br />

ma logos poetico-metaforico, sapere creativo, capace di adattarsi al<br />

continuo mutare della realtà e di rispondere alla richiesta di senso<br />

che la vita porta sempre con sé.<br />

Attraverso la logica della fantasia, come Vico mostra nella Scienza<br />

Nuova, l’uomo infatti costruisce il suo mondo, «stabilendo relazioni (somiglianze)<br />

tra ciò di cui […] ha bisogno […], e ciò che i sensi gli dicono<br />

in ciascuna specifica situazione concreta esistente in natura» ( 82 ). È il<br />

( 79 ) D. <strong>DI</strong> CESARE, Dal tropo retorico all’universale fantastico, in Vico und die<br />

Zeichen, a cura di J. Trabant, 1995, p. 88.<br />

( 80 ) G. VICO, Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni<br />

(1774), cit., § 209.<br />

( 81 ) Ivi, § 210. Si veda a questo proposito V. GESSA KUROTSCHKA, Autocomprensione<br />

autentica. Il linguaggio dell’individualità e il diversiloquio poetico, in Etica individuale<br />

e giustizia, a cura di A. Ferrara, V. Gessa Kurotschka, S. Maffettone, Liguori,<br />

Napoli 2000.<br />

( 82 ) E. GRASSI, La priorità del senso comune e della fantasia: l’importanza filosofica<br />

di Vico oggi, cit., p. 52.


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

principio del verum ipsum factum quello che presiede a questa logica,<br />

e manifesta il fare ingegnoso dell’uomo di fronte ai propri bisogni, il<br />

primo dei quali è dare significato alla natura, come dirà ancora<br />

Grassi. Cifra di questa sapienza poetica è ancora una volta la metafora,<br />

che Vico nella Scienza Nuova definisce «la più luminosa, più necessaria<br />

e più spessa» ( 83 ) delle figure retoriche che stanno alla base<br />

della logica poetica, poiché «‘n tutte le lingue la maggior parte dell’espressioni<br />

d’intorno a cose inanimate sono fatte con trasporti del<br />

corpo umano e delle sue parti e degli umani sensi e dell’umane passioni»<br />

( 84 ).<br />

Questo farà sostenere a Jürgen Trabant che anche la metonimia e<br />

la sineddoche possono essere riconducibili a «procedimenti metaforici»:<br />

è lo stesso meccanismo che l’uomo mette in atto ingegnosamente,<br />

quello del trasporto, del traslato di significati da un corpo ad<br />

un altro, dal proprio corpo, dalle proprie passioni, agli oggetti della<br />

realtà che lo circondano.<br />

«Il conferimento di un’anima al mondo inanimato è la “metafora<br />

originaria”» ( 85 ), e questo caratterizza sia il linguaggio gestuale dei bestioni<br />

primordiali, sia la lingua degli eroi, per penetrare anche in quella<br />

che Vico chiama la lingua umana, perché la «favella poetica» «scorse<br />

per così lungo tratto dentro il tempo storico, come i grandi rapidi fiumi<br />

si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l’acque portatevi<br />

con la violenza del corso» ( 86 ). La sapienza poetica non solo è alla base<br />

di quel sapere originario che permette la formazione dei primi concetti,<br />

e insieme l’invenzione dei miti e delle favole che raccontavano la<br />

storia dei primi popoli, ma è anche lo strumento attraverso il quale gli<br />

uomini, rispondendo alle sollecitazioni di una realtà che cambia continuamente,<br />

danno vita a quei termini e a quei valori indispensabili affinché<br />

l’individuo possa orientarsi all’interno di essa ( 87 ).<br />

213<br />

( 83 ) Ivi, § 404. «si capisce come questi tre aggettivi definiscano forse meglio di<br />

ogni altra spiegazione il carattere originario, sorgivo della metafora e indichino la<br />

natura spontaneamente poetica del pensiero che le è sotteso». G. PATELLA, Senso,<br />

corpo, poesia, cit., p. 133.<br />

( 84 ) Ivi, § 405.<br />

( 85 )J. TRABANT, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, cit.,<br />

p. 75.<br />

( 86 ) G. VICO, Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni<br />

(1774), cit., § 415.<br />

( 87 ) Dietro questa affermazione c’è la condivisione di quanto scrive Trabant<br />

interpretando il discorso vichiano sulle lingue alla luce di un’ipotesi che possa far<br />

convivere insieme teoria genetica e teoria funzionalistica, «il funzionamento della


214<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

La realtà è trasformazione, metamorfosi, ecco perché é nella poesia,<br />

in quanto linguaggio fondato sulla metafora, che essa si riflette<br />

in maniera privilegiata. Nella parola poetica l’unità raggiunta non è<br />

mai definitiva, perché la verità di cui è portatrice è sempre parziale, è<br />

un approssimarsi alla verità nella sua assolutezza, che riflette così «el<br />

ritmo heterogeneo de la vida y de su misterio» ( 88 ).<br />

Come afferma ancora la Maillard la ragione-poetica è creazione dell’essere<br />

dell’uomo per mezzo della metafora, perché si realizza attraverso<br />

l’incontro/sovrapposizione di due verità: quella esistenziale, che ha a che<br />

fare con le azioni dell’individuo, che si svolgono nel tempo e nello spazio,<br />

e quella assoluta, eterna, ciò a cui l’uomo anela da sempre. Il risultato<br />

è la nascita di mondi sempre nuovi, di rappresentazioni dell’essere<br />

che sono sempre un approssimarsi all’essere autentico, che diviene così<br />

un compito da raggiungere e non una realtà già costituita. L’essere dell’uomo<br />

è quindi un «ser-haciendose» all’infinito, il cui approdo finale<br />

sarà per Zambrano la conquista della persona nella sua integralità.<br />

4. Ragione e barbarie: dalla storia tragica alla storia etica. – Sia in<br />

Vico che in Zambrano, la riflessione sulla razionalità va di pari passo<br />

con quella sulla società civile: dallo sviluppo o dalle degenerazioni della<br />

prima dipende la costruzione o il disfacimento della seconda. Tuttavia<br />

nell’ultima sezione del V libro della Scienza Nuova del 1744, il filosofo<br />

napoletano parla di due tipi di barbarie: la barbarie dei tempi<br />

eroici e quella della ragione «tutta dispiegata». Se la barbarie dei tempi<br />

eroici, si riferiva alle origini, quando l’uomo era tutto sensi e fantasia<br />

per il prevalere in lui della dimensione della corporeità, nei tempi moderni,<br />

di piena conquista della razionalità, la barbarie ritorna, ma questa<br />

volta come frutto di un intelletto eccessivamente raffinato.<br />

poiché tali popoli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altro<br />

pensare ch’alle particolari proprie utilità di ciascuno, […] come bestie immani<br />

in una somma solitudine d’animi e di voleri, non potendovi appena<br />

due convenire, seguendo ognun de’ il suo proprio piacere o capricci,- per<br />

tutto ciò vadano, con ostinatissime fazioni o disperate guerre civili, vadano<br />

semiosi umana è in effetti contrassegnato dalla contemporaneità di cenni, immagini<br />

e parole, dalla contemporaneità di indici, icone [...] dalla contemporaneità di<br />

corpi e cenni sacri, di segni di potere e poesia e dall’ordinary language». J. TRA-<br />

BANT, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, cit., p. 56.<br />

( 88 )CH. MAILLARD, La creación por la metáfora, introdución a la razón-poética,<br />

cit., p. 40.


Sapienza poetica e razón-poetica. Osservazioni sul concetto di ragione ...<br />

215<br />

a fare selve delle città, e delle selve covili d’uomini; e, ‘n cotal guisa, dentro<br />

lunghi secoli di barbarie, vadano ad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni<br />

maliziosi, che gli avvano resi fiere più immani con la barbarie<br />

della riflessione che non era stata la prima barbarie del senso ( 89 ).<br />

Con lungimiranza quasi profetica Vico vuole metterci in guardia<br />

dai rischi di una ragione che dimentica le proprie origini, il legame<br />

con il corpo, i sensi, le passioni, la cura e la guida dei quali sta a fondamento<br />

dell’agire dell’uomo.<br />

Due secoli più tardi María Zambrano vedrà, nella crisi storica che<br />

attraversa la contemporaneità dilaniata da guerre e totalitarismi, i<br />

frutti di un razionalismo esasperato. In Persona e democrazia, la<br />

Zambrano afferma che l’uomo é chiamato a conquistarsi come persona,<br />

in un processo che non è solo individuale, ma storico e sociale,<br />

perché l’uomo non è apparso sulla terra «con tutta la sua umanità<br />

pienamente realizzata» ( 90 ), il senso della storia non è altro che «la rivelazione<br />

progressiva dell’uomo» ( 91 ). Quest’opera porta significativamente<br />

il sottotitolo la storia sacrificale: da quando la ragione si è<br />

assolutizzata, erigendosi a idolo, la storia si è trasformata infatti nel<br />

perpetuarsi di un sacrificio, quello della persona stessa. In un processo<br />

inverso a quello delle origini, in cui la nascita del divino consente<br />

all’uomo la possibilità di un proprio spazio vitale, la nuova divinità,<br />

il razionalismo, anziché contribuire al raggiungimento del proprio<br />

essere da parte dell’uomo, è causa della sua divinizzazione.<br />

L’assolutizzarsi della ragione è frutto del processo di divinizzazione<br />

dell’uomo stesso, incapace di accettare la propria nascita e la propria<br />

condizione di creatura, contrassegnata dal limite e dalla finitezza,<br />

e tuttavia caratterizzata da un anelito a trascendersi infinitamente,<br />

chiamata a raggiungere la pienezza del proprio essere, ma gradatamente,<br />

nel tempo e nella storia. L’uomo ha fatto di sé un idolo e<br />

della sua ragione lo strumento di questa divinizzazione.<br />

essere uomo significa essere persona, e persona significa solitudine. […] E<br />

là in quel fondo di solitudine in cui vive ogni uomo, si guarda e si vede, e<br />

quindi si pensa. […] Il luogo dell’individuo è la società, ma il luogo della<br />

( 89 ) G. VICO, Principi di Scienza Nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni<br />

(1774), cit., § 1106.<br />

( 90 ) M. ZAMBRANO, Persona y democracia, la historia sacrifical, Siruela, Madrid<br />

1996, [tr. it. Persona e democrazia la storia sacrificale, Mondadori, Milano 2000,<br />

p. 29].<br />

( 91 ) Ibid.


216<br />

MARIA BARBARA SPANU<br />

persona è uno spazio intimo. Ed è qui […] che risiede un assoluto. […]<br />

Per quella solitudine non ancora rivelata, possiamo dissentire da ciò che ci<br />

accade e da ciò che vediamo; è lì che nascono il «no» e il «sì» davanti a ciò<br />

che ci circonda […] è qui che nasce la responsabilità, il nostro farci carico<br />

di ciò che decidiamo e facciamo, […] o troviamo già fatto ( 92 ).<br />

Per la Zambrano l’uomo deve tornare a volgere lo sguardo dentro<br />

di sé, nell’interiorità. Il sapere poetico scaturisce da questa inversione<br />

di tendenza della ragione, che dalla luce si immerge nell’oscurità<br />

delle viscere del cuore umano e della storia, penetrando in tutte le<br />

pieghe finora rimaste nascoste. Questo significa assumere responsabilmente<br />

la storia, rifiutando di accettare passivamente la vita come<br />

se fosse frutto di una necessità, del destino o della fatalità ( 93 ). Solo<br />

così la storia può cessare di essere storia sacrificale e divenire storia<br />

etica, luogo in cui non si affermi il personaggio quale «maschera tragica»<br />

sotto cui geme la persona, ma l’uomo nella totalità delle sue<br />

dimensioni.<br />

Se l’uomo occidentale getterà la sua maschera e rinuncerà a essere personaggio<br />

nella storia, sarà finalmente disponibile a scegliersi come persona. Ma<br />

non è possibile scegliere se stessi come persona, senza fare contemporaneamente<br />

la stessa scelta anche per gli altri. E gli altri sono tutti gli uomini ( 94 ).<br />

( 92 ) Ivi, p. 146.<br />

( 93 ) «L’uomo è sempre chiamato a decidere se disporsi attivamente o passivamente<br />

nei confronti della storia, se abbandonarsi al destino o subirne gli eventi sin<br />

quasi ad identificarsi con essi oppure riscattarsi e ribellarsi in qualsiasi istante». Si<br />

veda G. CACCIATORE, Maria Zambrano, La storia come “delirio” e “destino”, p. 6,<br />

manoscritto in corso di stampa. Dello stesso autore si veda anche il saggio, sempre<br />

in corso di stampa, Maria Zambrano: ragione poetica e storia.<br />

( 94 ) Ivi, p. 198.


MARIA TERESA MARCIALIS<br />

ESISTENZIALISMO E IDEALISMO<br />

GIUSEPPE MARTANO STORICO <strong>DELLA</strong> <strong>FILOSOFIA</strong> (*)<br />

SOMMARIO: 1. La storia. – 2. Lo ‘storicismo umano’. – 3. La storia della filosofia.<br />

1. La storia. – Nell’Introduzione a La conoscenza sensibile nel razionalismo<br />

moderno (da Cartesio a Baumgarten) Giuseppe Martano<br />

sottolinea con forza la sua vocazione storicistica:<br />

Al gusto di un lavoro del genere [la ricerca nella filosofia moderna di una<br />

rivalutazione del sensibile MTM] – scrive – mi spinge un residuo di ardore<br />

non sopito per lo storicismo.<br />

Ad evitare fraintendimenti o improprie sue collocazioni in storicismi<br />

di stampo idealistico precisa però subito di orientarsi<br />

per uno storicismo non di carattere metafisico, trascendentistico, o comunque<br />

metapersonalistico, ma per uno storicismo concretamente umano che,<br />

lungi da ogni acritico ritorno teologico, salvi l’azione dell’uomo dallo sconfortevole<br />

teorema esistenzialistico della solitudine angosciosamente naufragante<br />

nello sforzo di comunicazione, e le conferisca invece una fede nelle possibilità<br />

di una umana tessitura delle aspirazione e degli sforzi dei singoli ( 1 ).<br />

Sono parole importanti per intendere Martano. E non solo per la<br />

presa di distanza dalle tonalità emotive negative (lo sconforto, la so-<br />

( *) Il presente lavoro è la relazione, ampiamente riveduta, pronunciata a<br />

Roma, alla Fondazione Lelio e Lisli Basso, il 29 gennaio 2004 in occasione della<br />

commemorazione di Giuseppe Martano.<br />

( 1 ) Cfr. G. MARTANO, La conoscenza sensibile nel razionalismo moderno (da<br />

Cartesio a Baumgarten), Il Tripode, Napoli 1976 (II ed.), p. 15.


218<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

litudine, l’angoscia, il naufragio) assunte dall’esistenzialismo soprattutto<br />

tedesco, ma per la concezione della storia e, correlativamente,<br />

per l’ottica metodologica storiografica che ne traspaiono. La storia è<br />

«umana tessitura delle aspirazioni e degli sforzi dei singoli»: è pertanto<br />

un ordito unitario di trasmissione delle esperienze che rende<br />

possibile la comunicazione tra generazioni, sulla linea di un divenire<br />

comune. Essa cioè non è storia dello Spirito o della Ragione o dell’Umanità<br />

con la lettera maiuscola, situati in una dimensione trascendente,<br />

ma è storia di uomini esistenti in contesti diversi, nello<br />

spazio e nel tempo; non è neppure coacervo di individui singoli, solitariamente<br />

dispersi in una temporalità caotica e disgregata, ma è<br />

appunto «tessitura», vale a dire trama che istituisce nessi, connette<br />

rapporti: nel tempo oltreché nello spazio.<br />

La conoscenza sensibile nel razionalismo moderno è del 1958, appartiene<br />

cioè a un periodo in cui Martano ha già scritto, tra l’altro,<br />

alcune delle sue opere di storia della filosofia antica più importanti:<br />

il Numenio di Apamea (1941, 1960); il Proclo di Atene, il volume<br />

premiato dall’Accademia dei Lincei la cui prima edizione è del 1952<br />

(II ed. 1974); Due precursori del neoplatonismo (1955), e sta curando<br />

la III parte del VI volume dello Zeller-Mondolfo che uscirà nel<br />

1960. Ha anche già delineato la sua posizione teorica in opere quali<br />

Problematicità dell’esistenza del 1947 e la sta venendo via via precisando,<br />

questa posizione, nelle Considerazioni sulla persona che uscirà<br />

nel 1960. Ha già quindi dietro di sé un notevole curriculum in cui<br />

ha fatto concretamente storia ma ha anche operato scelte filosofiche<br />

ben precise schierandosi, in quella confusa fucina di idee e proposte<br />

filosofiche che ha caratterizzato il secondo dopoguerra italiano, su<br />

un versante antiidealistico, per un esistenzialismo personalistico non<br />

alieno – come si vedrà – da simpatie per una sorta di «filosofia della<br />

vita».<br />

Il parallelo svolgersi di indagine storica e riflessione teorica è una<br />

costante del percorso intellettuale di Giuseppe Martano: le due dimensioni<br />

interagiscono tra loro condizionando in qualche modo anche<br />

le scelte degli argomenti di studio storico – ad esempio l’attenzione<br />

per «il sensibile» o per la dialettica antica e il neoplatonismo o<br />

per il «sublime» o per la retorica antica e moderna – e fornendosi reciprocamente<br />

ottiche d’insieme o categorie di interpretazione, in un<br />

intreccio talvolta difficile da districare.<br />

Che di una impalcatura teorica, “forte” o “debole” che sia, la ricerca<br />

storiografica non possa fare a meno è convinzione di Martano<br />

che, ancora in una pagina di La conoscenza sensibile, dice:


Esistenzialismo e idealismo. Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

219<br />

Lo storico ha il compito di registrare, con uno sforzo di interpretazione e<br />

di immedesimazione, le note fondamentali di un’età, inquadrandola in una<br />

superiore visione della vita spirituale ( 2 ).<br />

E se l’accento posto sull’immedesimazione – accanto all’interpretazione<br />

– è riconoscimento della necessità – anche in una «registrazione»<br />

delle «note fondamentali di un’età» che può apparire asettica<br />

– di un rapporto psicologico, empatico tra lo storico e il passato, un<br />

rapporto che sembra chiamare in causa diltheyanamente la vita se<br />

non l’Erlebnis dello storico ( 3 ), il riferimento all’inquadramento «in<br />

una superiore visione della vita spirituale» definisce il compito dello<br />

storico della filosofia come elaborazione di un sostegno teorico delle<br />

filosofie studiate e loro collocazione in una visione di sfondo che<br />

conferisca ad esse senso e le giustifichi.<br />

È un motivo, questo, che ricorre in tutta l’opera di Martano e che<br />

ha il suo riscontro immediato nell’affermazione della necessità per lo<br />

storico di individuare schemi di interpretazione e criteri di lettura per<br />

ricostruire il passato: schemi che – data l’ottica antiidealistica martaniana<br />

– non possono essere né universali né trascendenti ma devono<br />

essere appunto «storici», cioè elaborati nel corso del tempo. Senonché,<br />

proprio questa «storicità» fa sorgere il problema della legittimità di<br />

una loro applicazione a un oggetto ad essi anteriore, mettendo in gioco<br />

il rapporto tra presente e passato, tra l’«orizzonte» dell’interprete e<br />

l’«orizzonte» dell’autore studiato. È, come tutti sanno, una questione<br />

centrale che si ripresenta puntualmente ad ogni storico nell’affrontare<br />

il suo lavoro; Martano la avverte con chiarezza e la risolve da un lato<br />

‘pragmaticamente’, con l’ammissione cioè dell’impossibilità di prescindere<br />

per lo storico – soprattutto per lo storico della filosofia – da<br />

strumenti storico-teorici o addirittura semantici comunque e dovun-<br />

( 2 ) Ivi, p. 27.<br />

( 3 ) Il momento dell’immedesimazione, del rivivere rimane centrale nella concezione<br />

del fare storia di Martano, il quale lo mette in luce anche in un romanzo inedito<br />

Le Tessere, in cui, tra l’altro sottolinea il ruolo dell’immaginazione-fantasia come<br />

struttura di organizzazione del materiale documentale. Cfr. p. 38 del dattiloscritto:<br />

«Io stesso mi rifarò nel ‘mosaico’ che riuscirò a comporre attraverso la mia malta, ossia<br />

attraverso il collante della mia fantasia»; p. 153: «Combaciavano sempre meglio le<br />

tessere del mio mosaico, come se, asciugandosi il legante del mio impasto di mastice<br />

e cemento, la realtà della mia visione si venisse coagulando e andasse acquistando,<br />

sempre più e meglio, una sua compattezza, e quella coloritura che l’immaginazione e<br />

la fantasia parevano aggiungerle: sempre la storia viene sorretta e baciata dalla fantasia,<br />

e rivissuta da questa»; ma cfr. p. 9; p. 39; p. 40 e passim. Devo la consultazione di<br />

questo inedito alla cortesia del dott. Giuseppe Martano junior che qui ringrazio.


220<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

que essi siano acquisiti, dall’altro facendo riferimento a una concezione<br />

della storia non solo come struttura relazionale, trama di comunicazioni,<br />

tessuto di contatti e non di esclusioni reciproche, ma anche<br />

come luogo di compenetrazione di esperienze, di fluidità esperenziale,<br />

cioè, in ultima analisi, di vita. Vediamo in dettaglio queste posizioni.<br />

In Contrarietà e dialettica nel pensiero antico (1972), a proposito<br />

del leggere il pensiero greco arcaico secondo le categorie di soggetto<br />

ed oggetto, Martano si chiede se sia possibile l’applicazione, a un periodo,<br />

«caratterizzato, sul piano speculativo, da una ingenua indistinzione<br />

di sfere e da una immediatezza sorgiva ove “parola” e “concetto”<br />

fanno un tutt’uno con la “realtà”», «degli schemi storiografici<br />

seriori predominanti», e risponde che è<br />

purtroppo inderogabilmente necessario ai fini di un discorso di tipo filosofico,<br />

[…] accettare i suggerimenti dell’indagine storiografica, coi suoi schemi,<br />

coi suoi strumenti semantici, a tutt’oggi inalienabili ( 4 ).<br />

Il ricorso a termini quali «purtroppo» e «inalienabili» a proposito<br />

dell’uso dei «suggerimenti dell’indagine storiografica», vale a dire degli<br />

schemi emersi nel lavoro storiografico, sottolinea la consapevolezza<br />

della problematicità di quest’uso e insieme della impossibilità di una<br />

soluzione teoricamente fondata ( 5 ). Proprio la necessità di strumenti<br />

euristici di lettura seppur più tardi rispetto agli autori studiati, porta<br />

Martano a tracciare una storia del pensiero antico caratterizzata dalla<br />

dialettica soggetto-oggetto: una storia che va dal rapporto di dipen-<br />

( 4 ) Cfr. Contrarietà e Dialettica nel pensiero antico. I. Dai Milesi ad Antifonte,<br />

Il Tripode, Napoli-Firenze 1972, p. 15.<br />

( 5 ) Ibidem. L’utilizzazione di questi schemi, per Martano, non deve interferire<br />

certo – né di fatto interferisce – sulla esposizione storica: costituisce soltanto uno<br />

strumento di lavoro; come sottolinea programmaticamente in La conoscenza sensibile,<br />

suo compito sarà quello di riproporre la problematica degli autori moderni<br />

sulla sensibilità «in termini storici, anche se in sede teorica abbiamo davanti alla<br />

nostra mente la dottrina moderna della conoscenza sensibile come puro stato coscienziale<br />

(p. 13)», con una precisazione che avverte della improprietà se non della<br />

pericolosità di assumere la nozione contemporanea di «sensibilità» come criterio<br />

di considerazione o, peggio, di giudizio della posizione espressa in merito. Si veda,<br />

in relazione alla sovrapposizione o presupposizione di posizioni teoriche al concreto<br />

lavoro storico, la presa di distanza, in Filosofia e storiografia sull’antico (in La<br />

cultura filosofica italiana dal 1945 al 1960, Guida Editori, Napoli 1982, pp. 287-<br />

300), dalla storiografia alla Popper «che preferisce come punto di partenza della<br />

scienza non l’osservazione ma le ‘aprioristiche concezioni audaci ed affascinanti<br />

intorno al mondo’», storiografia da cui «per il suo sano spirito di indagine, la storiografia<br />

italiana si pone agli antipodi», p. 288.


Esistenzialismo e idealismo. Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

denza del primo dal secondo al progressivo emergere dell’autonomia<br />

del soggetto e della riduzione dell’oggetto a puro termine dialetticamente<br />

contrapposto nel soggetto al soggetto stesso ( 6 ).<br />

Ma, come si diceva, a giustificazione dell’utilizzazione di queste categorie<br />

«seriori» rispetto al periodo o all’autore studiato, sta, al di là<br />

della loro utilità pragmatica, una ragione più profonda, vale a dire una<br />

precisa concezione della storia: il riconoscimento cioè del non immobilistico<br />

opporsi di pensiero a pensiero, ma dell’instaurarsi nella fluidità<br />

del divenire storico di contatti e rapporti tra pensieri e idee.<br />

221<br />

Si consideri, inoltre – dice Martano in una nota di Contrarietà e Dialettica<br />

– che già l’opposizione presentata nella drastica autenticità di termini non<br />

è sentita più ormai come un irrigidito contrassegno di due posizioni speculative,<br />

con caratteristiche esclusive, ciascuna in senso assoluto nel confronto<br />

con l’altra. Ellenismo e cristianesimo, ellenismo e visione moderna del<br />

mondo non si fronteggiano con esclusione di ogni possibilità di comunicazione,<br />

di assimilazione, di avvicinamenti: uno schema non esaurisce in sé<br />

globalmente la ricchezza varia di spunti che caratterizzano la storia di mondi<br />

culturali distanti sia nel tempo come nella visione generale della vita; e<br />

quella ricchezza di spunti consente il ritrovamento di punti di contatto, di<br />

esigenze comuni, di atteggiamenti spirituali che quelle culture distanti avvicinano<br />

e spesso assimilano in una superiore armonia di vita spirituale ( 7 ).<br />

La storia è «ricchezza varia di spunti» che convivono nella visioni del<br />

mondo più diverse; è compresenza di posizioni anche antitetiche che si<br />

sono venute via via definendo e che lo storico isola e studia come posizioni<br />

autonome e definite; la storia non è un susseguirsi, à la Spengler,<br />

di rigide civiltà singole che si contrappongono e sono prive di rapporti<br />

tra loro, ma è trasmissione di conoscenze da una civiltà all’altra ( 8 ); non<br />

( 6 ) Analoghe perplessità gli sorgono circa «l’illegittimità dell’uso moderno del<br />

termine dialettica nel pensiero antico» ma, al proposito, Martano ritiene opportuno<br />

dimostrare, anche sulla scia della Storia della logica antica di Calogero, la «vacuità di<br />

una distinzione tra logica classica e dialettica moderna», pur asserendo che «per ragione<br />

di comunicazione col lettore spesso ci serviremo di questo lessico delle distinzioni,<br />

il cui uso è per ora ancora inalienabile», cfr. Contrarietà e Dialettica…,<br />

cit., p. 17. Tuttavia, come si vedrà, per Martano la dialettica non costituisce uno<br />

schema interpretativo ma una struttura dell’esistenza e pertanto del divenire storico.<br />

( 7 ) Ivi, p. 27.<br />

( 8 ) «[…] una tesi di immobilizzazione statica dei popoli storici», dice Martano<br />

riprendendo Mondolfo, «comprometterebbe la custodia dei valori che una civiltà<br />

in tramonto porge in retaggio ad una civiltà nascente» (cfr. Contrarietà e dialettica…,<br />

cit., p. 26).


222<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

è neppure fatta da rivoluzioni o dall’improvviso emergere del nuovo,<br />

ma dalla continuità di un fluire ininterrotto da cui emerge nel tempo<br />

ciò che era prima nascosto. E allora, se la storia è ordito di relazioni,<br />

se è corrente di idee originariamente fuse tra loro, se<br />

se<br />

più che di spostamenti improvvisi e radicali di prospettiva si tratta, come<br />

assume il Mondolfo, […] di “spostamenti successivi del centro di gravità”,<br />

di “formazione di nuovi equilibri” di “produzione di cambiamenti e sviluppi”<br />

( 9 ),<br />

nell’ontologia degli antichi affiorano numerosi spunti soggettivistici, come<br />

nel dominante spirito del trascendentalismo e del psicologismo dei contemporanei<br />

frequentemente affiora l’insorgenza ontologica,<br />

è legittimo rinvenire nel periodo greco arcaico ‘soggettività’ e ‘oggettività’,<br />

o usare il termine ‘dialettica’ per descrivere la logica antica o,<br />

su un altro piano, cercare nel razionalismo moderno spunti relativi a<br />

una valutazione positiva della sensibilità, o soffermarsi sulle zone di<br />

contatto tra posizioni differenti, quelle più impermeabili alle caratterizzazioni<br />

nette e definitive, quelle in qualche modo più vicine alla<br />

pienezza del divenire storico.<br />

Proprio verso questi sfumati spazi di confine si dirige spesso l’interesse<br />

dello storico della filosofia Giuseppe Martano nella convin-<br />

( 9 ) Ivi, p. 26. Per il giudizio di Martano su Mondolfo cfr. Filosofia e storiografia<br />

sull’antico in La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1960, cit., in particolare<br />

pp. 287-88. Qui, nel riferire della metodologia storiografica di Mondolfo, Martano<br />

ne individua la specificità nella presenza di due componenti «a prima vista distanti,<br />

l’idealistica e la positivistica, le cui istanze vengono felicemente avvicinate<br />

nel convincimento che tra di esse corre un rapporto di reciproca integrabilità»;<br />

l’integrabilità risiede nel convincimento mondolfiano che «[…] accanto ad un’appassionata<br />

propensione per lo storicismo umanistico si deve porre l’indagine accorta<br />

ed attenta dello scienziato che interroga il documento, con l’ausilio di solidi<br />

strumenti filologici, e non lascia spazio all’arbitrio ermeneutico». La figura di<br />

Mondolfo si definisce nella sua collocazione nel «filone che, tra gli altri, reca i<br />

nomi di Zeller e di Diels. Dal primo egli accetta la tesi di un’impossibilità di una<br />

sistemazione definitiva, in uno col tema delle ‘aperture’ continue di una problematica<br />

sempre rinnovatesi; dall’altro la scrupolosa cautela filologica». Ed è interessante<br />

notare come entrambi i tratti caratterizzino la storiografia di Martano il quale<br />

peraltro, come si vedrà, soprattutto per quanto riguarda il tema delle «aperture»<br />

muove da premesse teoriche radicalmente differenti. Sarebbe utile, ma non costituisce<br />

oggetto di questo studio, indagare sull’eventuale influenza di Mondolfo sulla<br />

concezione storiografica di Martano.


Esistenzialismo e idealismo. Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

zione che ogni posizione contiene in nuce la posizione contraria, non<br />

tanto – o forse non solo – perché la precorre ma perché non si possono<br />

separare con una linea netta – se non da una posizione astrattamente<br />

logica – due posizioni contrarie, ad esempio il soggettivismo<br />

dall’oggettivismo, il razionalismo dall’empirismo, e via dicendo.<br />

In La conoscenza sensibile Martano lo afferma chiaramente:<br />

223<br />

in ciascuna risposta – dice – c’è in nuce una proposta speculativa nuova<br />

non ancora del tutto chiara: una proposta che attraverso un processo di<br />

lenta maturazione chiarirà i termini nuovi in cui verrà ponendosi il problema<br />

estetico per l’uomo contemporaneo.<br />

E, ad esempio, nel concreto lavoro di storico, Martano viene dimostrando<br />

la progressiva realizzazione dell’autonomia di significato<br />

che il sensibile andava assumendo come suggestivo simbolo racchiudente<br />

in sé, cripticamente, l’universale perfezione ( 10 ); fa vedere –<br />

per rimanere sempre nell’opera del 1976 – come nel rigido razionalismo<br />

di Spinoza, la cognitio per imagines e non l’astrazione giochi un<br />

ruolo importante nella conoscenza del particolare, con una posizione<br />

«gravida di futuro»; o come nella filosofia di Leibniz la «realtà<br />

inautentica oscura e confusa del mondo sensibile» contenga in realtà<br />

«la presenza di un mondo di possibilità» che «alimenta la tensione<br />

conoscitiva» dell’intelletto ( 11 ). Proprio nella trattazione di Leibniz e<br />

poi in quella di Baumgarten Martano – mediante un’analisi articolata<br />

dei testi ma anche mediante l’utilizzazione di precise categorie di<br />

tipo teorico – ripercorre la via attraverso cui l’irrazionale-sensibile<br />

diventa a poco a poco razionale, attraverso un allargamento della<br />

stessa razionalità che lo ingloba in sé e non gli si contrappone ( 12 ).<br />

( 10 ) Cfr. La conoscenza sensibile…, cit., p. 8.<br />

( 11 ) Ivi, p. 68, p. 70; ma cfr. p. 74: «Quel virtuale che finora pareva corrispondere<br />

a un irrazionale ricettacolo di imperfette copie delle essenze (Platone), a un<br />

principio di possibilà e perciò di non essere della realtà simbolica (Aristotele) a un<br />

qualche cosa di ingannevole, puramente passivo (Cartesio) e fomite di passioni<br />

(Spinoza), a un dato meccanico esteriore (Hobbes), assume un ruolo nuovo, una<br />

portata ed un valore che non aveva mai avuto: si inserisce nel quadro razionale<br />

dell’universo, diventa quella stessa razionalità, conservando soltanto una apparente<br />

veste di irrazionale immediato».<br />

( 12 ) Ivi, p. 76, dove a proposito di Leibniz dice: «La logicità si inframmezza,<br />

già essa, di momenti alogici, ossia di oscure e indistinte nozioni che si ammantano<br />

della veste di ‘virtualità’ formando la massa di tutto quanto non è perfettamente<br />

chiaro e distinto: pause irrazionali necessarie, salti nella marcia logica, questi fatti


224<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

Certo non sempre emerge con immediata chiarezza la distanza della<br />

«filosofia della storia» di Martano dalla «filosofia della storia» di impostazione<br />

genericamente idealistica: la presenza di espressioni come<br />

«in nuce» o «gravido di futuro» richiama prepotentemente alla mente<br />

la categoria di «precorrimento» di estrazione hegeliana. Ed è altrettanto<br />

vero che il recupero della «sensibilità» nell’età moderna, di cui si<br />

parla nell’opera del 1976, sembra indirizzarsi storiograficamente a una<br />

meta costituita dall’intuizione estetica crociana: e all’intuizione estetica<br />

crociana sembra assimilarsi, forse con qualche forzatura, il «sensibile»,<br />

pur definito come «stato coscienziale puro», fondo originario non<br />

logico e non empirico, (forse più vicino alla vitalità del Croce della<br />

Storia come pensiero ed azione) ( 13 ). Sono queste, però, questioni complesse,<br />

che richiederebbero uno studio analitico della lettura martaniana<br />

di Croce: uno studio che qui non ci si propone di fare.<br />

Rimane, invece, il ruolo che opere come La conoscenza sensibile o<br />

Contrarietà e dialettica o Retorica antica e “nuova retorica” rivestono<br />

non solo per le concrete analisi storiche che portano avanti ma anche<br />

per il presupposto metodologico che le sostiene: il rifiuto della<br />

rigidità di schemi consolidati in nome dell’esigenza di ricostruire<br />

nella pienezza delle sue determinazioni un preciso periodo storico.<br />

Rimane la preoccupazione di non mortificare la concretezza della realtà<br />

imponendole una astratta linea logica: una preoccupazione che,<br />

programmaticamente, Martano più volte esprime e che costituisce<br />

un suo tratto differenziante nei confronti di qualsiasi storicismo di<br />

impostazione idealistica.<br />

2. Lo ‘storicismo umano’. – Oltre questo c’è però un altro elemento<br />

importante che definisce la fisionomia intellettuale di Martano<br />

come antiidealista: è il rifiuto – cui già si è accennato – di uno «storicismo<br />

di carattere metafisico, trascendentistico, o comunque metapersonalistico»<br />

in nome di «uno storicismo concretamente uma-<br />

della vita spirituale sono in sé privi di razionalità attuale, ma hanno importanza e<br />

valore non già in quanto sono in opposizione alla ragione (empirismo) ma come<br />

custodi di un significato che è ancora nascosto, remoto».<br />

( 13 ) Ma per la presenza di Croce in La conoscenza sensibile…, cit., cfr. p. 15 in<br />

cui Martano esplicitamente dichiara di voler seguire l’esortazione formulata da Croce<br />

in Rileggendo l’Aesthetica del Baumgarten (1932) in Ultimi Saggi (1948) di «guardare<br />

indietro, di legare conoscenza e conversazione con la lunga schiera dei pensatori<br />

che nelle meditazioni e indagini sull’arte mi hanno preceduto», e cfr. poi l’Appendice<br />

dedicata a I giudizi del Croce sull’Aesthetica del Baumgarten, pp. 163-182.


Esistenzialismo e idealismo. Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

no»: concretamente umano, appunto. È questa «concretezza» che<br />

Martano non riscontra nell’idealismo: neppure in quello «immanentistico»<br />

di Spaventa e di Gentile. E per un duplice ordine di motivi:<br />

perché anche queste sono posizioni appunto idealistiche, logiche e<br />

pertanto astratte; perché si risolvono in una dimensione dogmatica.<br />

Martano lo dice chiaramente in Considerazioni sulla “persona”<br />

(1960) quando, nel discutere della dialettica e assumendola come<br />

motore ed elemento fondamentale della realtà, contro Hegel afferma<br />

di non voler collocare questa suprema «opposizione logica» su un<br />

piano ontologico e trascendente, cioè «teologico», ma di volerne,<br />

come si diceva, rinvenire una «concreta sede» ( 14 ). Non la ritrova,<br />

questa «concreta sede» né nello sforzo operato dallo Spaventa che<br />

pure indicava […] la via per battere in breccia la nuova trascendenza, che<br />

riaffiora sotto forma di meta-personalismo ( 15 )<br />

né nell’attualismo gentiliano il quale<br />

225<br />

pur rappresentando un energico tentativo di demolizione della nuova forma<br />

di trascendenza instaurata dall’hegelismo, non riesce a farci conquistare<br />

la assoluta immanenza ( 16 ).<br />

L’Atto puro appartiene ancora ad una dimensione di «trascendenza<br />

oggettivistica»: la sua purezza lo proietta su un piano metaper-<br />

( 14 ) Cfr. Considerazioni sulla “persona”, Libreria Scientifica Editrice, Napoli<br />

1960, p. 24 (il saggio in cui compaiono queste considerazioni Le due metafisiche e<br />

l’esigenza del loro superamento risale al 1949, pubblicato nella rivista “Historica”,<br />

nn. 4-5). Per il giudizio su Hegel cfr. le parole immediatamente precedenti: «L’assolutezza<br />

di codesta legge della nuova logica del concreto [quella hegeliana MTM]<br />

produce, secondo noi, una seria e profonda incrinatura nello stesso sistema hegeliano:<br />

incrinatura derivante dal fatto che Hegel sentì l’inconsapevole bisogno di irretire<br />

la sua scoperta [quella della dialettica] vivamente romantica entro gli schemi<br />

di un sistema rigidamente perfetto di concetti e di foggia tipicamente classica»: in<br />

cui, a parte il rifiuto martaniano degli schemi come costringenti e limitante il divenire,<br />

va forse sottolineata l’utilizzazione in senso tipicamente crociano delle categorie<br />

di «classico» e «romantico».<br />

( 15 ) Ivi, p. 21: «Lo sforzo operato dallo Spaventa, ed ancor più dal Gentile, di definitivamente<br />

interiorizzare ed immanentizzare il reale, non sembra tuttora riuscito. Il<br />

primo si avvide di questa evidentissima verità: che il pensiero è riflessione, è nachdenken,<br />

e che perciò esso presuppone il denken, al quale è posteriore. Cioè la logica è<br />

posteriore al logos. Se ne avvide e sentì il bisogno di porre l’identità come immediatezza.<br />

Niente presupposti all’attività logica della riflessione: logo e logica sono tutt’uno».<br />

( 16 ) Ivi, p. 25, p. 21.


226<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

sonale con gli esiti metafisici e teologici (e pertanto dogmatici) che<br />

da ciò conseguono; la possibilità di essere colto solo attraverso la<br />

mediazione del pensiero, cioè solo in quanto oggetto del pensiero<br />

stesso, lo priva di immediatezza e di dinamicità, ne vanifica cioè<br />

l’«immanenza» ( 17 ) nel senso di localizzazione-interiorizzazione nell’individuo<br />

singolo in cui Martano intende il termine.<br />

Per andare al di là di qualsiasi forma di dogmatica «trascendenza oggettivistica»<br />

bisogna andare al di là del Logo che per definizione è ancora<br />

astratto presupposto ontologico; bisogna calare cioè l’atto nel me:<br />

Se l’atto rimane ancora come qualcosa d’impersonale – dice Martano –<br />

esso è ancora metafisicità; se si identifica col me, si ha la totale immanentizzazione<br />

dell’essere. L’io come primum, l’io inteso come concreta personalità<br />

cosciente, è l’unica via di uscita dai meandri della metafisica e dell’astrattezza<br />

( 18 ).<br />

E quest’io è un dato che certo deriva la propria concretezza dalla<br />

singolarità dell’individuo ma che va assunto non come realtà empirica<br />

ma come condizione trascendentale fondante la molteplice esperienza<br />

dell’io: è «l’incondizionato esistente onnicondizionante». Come dice<br />

Martano, che qui sembra prender le distanze da qualsiasi impostazione<br />

psicologico-genetica e indicare con chiarezza l’ambito trascendentale<br />

della sua indagine:<br />

La filosofia, fino ad oggi, s’è posto il problema dell’origine della personalità.<br />

Bisogna invece ritenere che c’è una persona che condiziona trascendentalmente<br />

il problema, e non astratti presupposti ontologici della persona.<br />

La persona pone l’ontologia, non l’ente la persona ( 19 ) .<br />

È appena il caso di rilevare la matrice esistenzialistica di queste posizioni:<br />

di un esistenzialismo che non sembra ispirarsi a Heidegger o a<br />

Jaspers ( 20 ) ma, come si vedrà, fa piuttosto riferimento a Kierkegaard e<br />

( 17 ) Cfr. Problematicità dell’esistenza, cit., p. 21: «[l’atto di Gentile] rimane<br />

inafferrabile, logicamente indefinibile, perché la definizione logica, con l’implicanza<br />

del negativo, è sempre oggetto dell’io pensante».<br />

( 18 ) Ivi, pp. 21-22; ma cfr.. Considerazioni sulla “persona”), cit., p. 24.<br />

( 19 ) Cfr. Considerazioni sulla “persona”, cit., p. 25.<br />

( 20 ) Ivi, p. 46 in cui Martano prende le distanze da Heidegger e paradossalmente<br />

anche da Jaspers sia per quanto riguarda la non differenziazione della «singolarità»<br />

dalla «finitezza della persona di cui parlano i pluralisti» appiattendosi così


Esistenzialismo e idealismo. Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

soprattutto si salda al personalismo di Mounier. Fin dal 1947 Martano<br />

ha chiaramente espresso la propria adesione a un esistenzialismo<br />

personalistico: gli sembra addirittura che esso rappresenti non una<br />

frattura ma l’esito naturale di tutta la filosofia contemporanea,<br />

227<br />

protesa – come dice – verso l’eliminazione della metafisica e verso la riduzione<br />

di tutte le esigenze spirituali a motivi esclusivamente propri della mia<br />

esistenza;<br />

gli sembra, come aggiunge, che l’esistenzialismo personalistico<br />

tenti concludere quel processo evolutivo che ha strappato la filosofia dalla<br />

sua iniziale posizione di astrattezza (in cui l’uomo non si accorgeva che<br />

l’istanza metafisica, la trascendenza, l’ontologismo erano soltanto sue esigenze)<br />

per ricondurla alla concreta esistenza umana ( 21 ).<br />

Tornerò successivamente sulla visione della storia della filosofia<br />

sottesa a queste posizioni; né è mia intenzione affrontare il tema del<br />

su una concezione empirica della persona, sia per il loro ricadere in posizioni trascendentistiche:<br />

«Gli esistenzialisti, col porre la singolarità e null’altro, eludono l’implicito<br />

problema metafisico (per quanto fuori della singolarità, pongano il nulla –<br />

Heidegger – o Dio – Jaspers – cioè ancora un trascendente)». Ma su Jaspers cfr., tra<br />

l’altro, p. 36 in cui viene istituito un rapporto tra Jaspers e Kiekegaard in relazione<br />

alla spostamento dell’attenzione filosofica sul singolo. Può essere interessante vedere<br />

che anche nel romanzo inedito cui si è fatto riferimento Martano sintetizza in<br />

uno schizzo rapido il suo giudizio sull’esistenzialismo contemporaneo: «L’aut-aut<br />

di Kierkegaard, tra gli scrittori esistenzialisti posteriori non si risolveva col superamento<br />

finale del piano della religiosità, ma riapriva piuttosto i termini dell’antinomia,<br />

e mentre J.P. Sartre, Simone de Beauvoir, Albert Camus e Georges Bataille<br />

danno il via ad una concezione umanistica antispiritualistica con accentuazione dell’assurdità<br />

della vita, nella stessa Francia, da Marcel, Lavelle e Le Senne si rinnova<br />

l’apertura spiritualistica, proposta anche dalla teologia protestante di un Barth e dall’aspirazione<br />

alla trascendenza di Jaspers» (p. 133). Ma sui problemi presenti nella filosofia<br />

dell’esistenzialismo religioso francese cfr. l’Appendice a Considerazioni sulla<br />

“persona”, Il dramma attuale della coscienza religiosa francese, pp. 135-147.<br />

( 21 ) Cfr. Problematicità dell’esistenza, p. 22 . «Si deve riconoscere che l’istanza esistenzialistica,<br />

lungi dallo stabilire una frattura, si inserisce nel corso dialettico della<br />

storia del pensiero come radicale approfondimento dell’esigenza della filosofia contemporanea<br />

(l’esigenza dell’interiorizzazione) e tenta concludere quel processo evolutivo<br />

che ha strappato la filosofia dalla sua iniziale posizione di astrattezza (in cui l’uomo<br />

non si accorgeva che l’istanza metafisica, la trascendenza, l’ontologismo erano<br />

soltanto sue esigenze) per ricondurla alla concreta esistenza umana:in questa essa vive<br />

rispecchiando le innumeri prospettive del ricco, inesauribile, sempre vario orizzonte<br />

spirituale in cui l’uomo sembra che si ponga, e che invece da lui irradia, senza mai<br />

essere altro da lui, ma rimanendo sempre tutto lui ed insieme tutta la realtà».


228<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

complesso esistenzialismo di Martano, forse non del tutto alieno nel<br />

riferimento alla riflessione e alla interiorizzazione da qualche inflessione<br />

psicologistica. Mi preme ora invece richiamare l’attenzione<br />

proprio sulle caratteristiche della persona-esistenza ( 22 ), fondamento<br />

del divenire della storia e della dialettica che di questo divenire costituisce<br />

la legge e, in qualche modo, la struttura. Una persona - esistenza<br />

che viene definita come «trascendentale» ( 23 ), «sintesi a priori, nel<br />

senso di realtà prima manifestantesi attraverso opposti momenti particolari»<br />

( 24 ) che non può essere identificata con il ‘singolo’ o con<br />

l’individuo ‘finito’ tout-court, ma che si configura come implicanza<br />

di individualità e di universalità, di parte e di tutto ( 25 ), «sintesi attuale<br />

di io e non-io, spirito e natura». Questo carattere composito<br />

consente, nelle intenzioni di Martano, di<br />

sfuggire all’accusa di psicologismo che si fa all’esistenzialismo e a quella di<br />

afilosoficità, che qualificativamente vi si attribuisce accusandolo di assenza<br />

di universalità e addebitandogli lo sbocco nello psicologismo e nell’autobiografismo<br />

( 26 ).<br />

( 22 ) Cfr. al proposito Considerazioni sulla “persona” cit., al capitolo intitolato Riflessioni<br />

critiche per una fondazione del concetto di “persona”, in particolare il § 6, La<br />

persona come realtà esistenziale, p. 47 ss. Sul personalismo di Martano cfr. A. RIGO-<br />

BELLO, Tra esistenza e persona. Un contributo speculativo di Giuseppe Martano in<br />

AA.VV., Discorsi per Giuseppe Martano senior, Il Tripode, Napoli 2002, pp. 133-144;<br />

ma si veda l’articolo pubblicato sul “Mattino”, 9 novembre 2002, a un anno dalla<br />

scomparsa di Martano, da A. MASULLO, Un filosofo moderno in dialogo con gli antichi,<br />

e le molte commemorazioni tenute e scritte da Aniello Montano. Per tutte si<br />

veda: A. MONTANO, Problematicità dell’esistenza e isotemìa dei contrari nella riflessione<br />

di Giuseppe Martano, in G. CASERTANO-A. MONTANO, Giuseppe Martano, Società<br />

Nazionale Di Scienze, Lettere e Arti In Napoli, Napoli 2002, pp. 31-50.<br />

( 23 ) Ibidem; cfr. il § 7 dello stesso capitolo intitolato Trascendentalità della persona,<br />

p. 49, in cui Martano prende le distanze da Kant, oltre che dagli idealisti, affermando:<br />

«Noi genericamente definiamo trascendentale la persona nel senso che<br />

essa è la condizione prima di tutto l’essere, condizione che non si può qualificare<br />

né logica né metafisica, perché l’opposizione logica-metafisica è già della coscienza,<br />

e già nella persona che sfugge – se si vuol porre un più critico primum alla dialettica<br />

– alla stessa dialetticità».<br />

( 24 ) Cfr. Considerazioni sulla persona, p. 46.<br />

( 25 ) «La persona è implicanza o sintesi attuale di io e non-io, spirito e natura,<br />

finito ed infinito, temporale ed eterno, particolare ed universale, imperfetto e perfetto,<br />

presenza determinata hic et nunc e invocazione ad altro, realtà attuale e inesauribile<br />

possibilità, necessità e libertà, male e bene» in Considerazioni sulla persona,<br />

cit., p. 46.<br />

( 26 ) Ibidem.


Esistenzialismo e idealismo. Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

In realtà l’equilibrio di individualità e universalità nella persona<br />

appare talvolta precario; il passaggio dall’a-priori vitale-esperienziale<br />

della persona all’individuo empirico, che sente e vive psicologicamente<br />

la drammaticità dell’esistenza, non è talvolta molto nitido e<br />

rischia di scivolare in quegli esiti empirici che Martano vuole evitare.<br />

Ma seguiamo il suo discorso.<br />

In Problematicità dell’esistenza egli si sofferma sulla originaria sintesi<br />

esistenziale, definendola come «orizzonte» che è «la totalità di io<br />

e non io»: è, quest’ultima, tuttavia, una definizione «in termini idealistici»<br />

i quali sono del tutto inadeguati a descriverla; di fatto<br />

l’«inesauribile fluire dell’esistenza» è comprensibile solo in termini<br />

esperenziali, è cioè «frutto di una immediatissima esperienza fondamentale<br />

pura» in cui io e oggetto, «avvinti, avviluppati indissolubilmente,<br />

segnano, come in una danza di coribanti, ghirigori sempre<br />

nuovi». Solo in un secondo momento – precisa Martano – interviene<br />

l’atto dell’analisi logica «a scindere gli elementi dell’implicanza»,<br />

a distinguere e ad opporre irrazionale e razionale ( 27 ).<br />

L’«esperienza sintetica originaria» non può certo richiamare – se<br />

non per estrinseche similarità relative appunto al suo carattere «sintetico»<br />

– l’Assoluto di Schelling o il Dio di Jacob Boehme o quello di<br />

Meister Eckart o dei mistici tedeschi (per citare ovvi autori che vengono<br />

immediatamente in mente): il carattere ontologico-teologico e comunque<br />

trascendente di questi Assoluti e Divinità vanifica qualsiasi<br />

assimilazione ( 28 ); potrebbe essere accostata, invece, questa esperienza<br />

originaria, antepredicativa, a quella Lebenswelt che Husserl e poi Merleau<br />

Ponty pongono come a-priori del divenire dell’uomo: si tratta,<br />

ovviamente, di assonanze, di affinità che non tengono conto delle<br />

molteplici differenze e che richiederebbero una ricerca approfondita.<br />

Non di ciò peraltro, qui ci si vuole occupare quanto dei caratteri<br />

di questa «esperienza fondamentale e pura» che connota l’esistenza e<br />

condiziona la vita; Martano si sofferma a lungo sulla ricchezza del<br />

fluire esistenziale:<br />

229<br />

La mia esistenza – dice in Considerazioni sulla “persona” – si ritrova immediatamente<br />

così: come qualcosa in cui riddano mille opposizioni. La prima<br />

( 27 ) Cfr. Problematicità dell’esistenza, cit., p. 48.<br />

( 28 ) Cfr: Considerazioni sulla “persona”, cit., p. 61: «Se per orizzonte intendiamo<br />

il vasto campo della coscienza, io e non io insieme, è evidente che non ci riferiamo<br />

affatto all’io fichtiano o, tanto meno, all’assoluto schellinghiano, perché in<br />

essi vive la trascendenza tra l’Essere eterno e l’io individuale, trascendenza che a<br />

noi ripugna come ultimo residuo critico».


230<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

è quella di io e non io […] Mi sento altresì spirito e materia, anima e corpo,<br />

possibilità e necessità; conflitto tra legge morale e interesse ( 29 ).<br />

E ancora:<br />

La dialettica razionale-irrazionale sorge immediatamente sul piano della<br />

mia vita spirituale, come compresenza di pensiero e di esistenza ( 30 ).<br />

Si tratta appunto di compresenza, di polarità di ragione ed esistenza,<br />

senza che nessuno dei due poli possa pretendere ad un ruolo per<br />

così dire «primario» di presupposto ontologico giacché, come egli –<br />

proprio per evitare la ricaduta in posizioni ontologico-trascendenti<br />

(del tipo di quelle in cui sono incorsi nonostante tutto Heidegger e Jaspers,<br />

oltre che naturalmente gli idealisti) – si preoccupa di precisare:<br />

l’esistenzialismo […] considera l’esistenza come fondo irrazionale illuminabile<br />

razionalmente, senza incorrere però nell’errore di postulare un irrazionale<br />

meta-esistenziale (o meglio meta-personale) ( 31 ).<br />

È invece «sul piano della mia vita spirituale» – della mia individuale<br />

vita spirituale – che si manifesta l’antitesi tra i contrari, ed è<br />

sul piano della mia individuale vita spirituale che questa antitesi diventa<br />

problema esistenziale, si risolve cioè in problematicità di scelte.<br />

E questo comporta drammaticità, mia personale problematicità,<br />

che sento in quanto individuo particolare ed empirico:<br />

Quel che sentiamo – dice Martano – invece è che l’antinomia dialettica si<br />

risolve in problema esistenziale: la problematicità in cui ci getta l’idealismo<br />

[…] si risolve in sostanza in problema dell’esistenza, come sintesi originaria<br />

in cui l’opposizione genera una vita drammatica, che si muove problematicamente<br />

nel gioco delle antitesi ( 32 ).<br />

Il pensiero contemporaneo – dice Martano – ha indicato che la vita del<br />

pensiero è problematicità, che la logica è alimentata dall’antinomia. Qui si<br />

vuol sostenere che la drammaticità della vita spirituale s’identifica con la<br />

concreta drammaticità della persona ( 33 ).<br />

( 29 ) Cfr. Considerazioni “sulla persona”, cit., p. 28.<br />

( 30 ) Cfr. Problematicità dell’ esistenza, cit., p. 37.<br />

( 31 ) Ibidem.<br />

( 32 ) Cfr. Considerazioni sulla “persona”, cit., p. 29.<br />

( 33 ) Cfr. Problematicità dell’esistenza, cit., p. 47.


Esistenzialismo e idealismo. Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

Nel romanzo inedito Le Tessere cui già si è accennato, Martano<br />

dà consistenza ed espressione tragica alla dialettica drammatica qui<br />

teorizzata, incarnandola con vigore e passione in personaggi vivi e di<br />

essi descrivendo vicende e travagli. Ed è un passaggio – sia pur saltuario<br />

– dalla filosofia alla letteratura che non deve però stupire: uno<br />

dei tratti forse più significativi del pensiero di Martano – lo si è visto<br />

– è infatti proprio l’insoddisfazione per le astrazioni della logica in<br />

nome della concretezza della vita, della vita appunto particolare ed<br />

empirica. In Problematicità dell’esistenza, del resto, indica chiaramente<br />

la legittimità di un trascorrere della filosofia nella letteratura:<br />

231<br />

[…] I problemi nella loro universalità – dice – rimangono, le soluzioni invece<br />

conducono la filosofia alla psicologia cioè ad una storia di umane<br />

esperienze, di personali soluzioni opzionali di fronte al problema ( 34 ),<br />

in cui il rimando alla psicologia non è rimando alla scienza positiva<br />

della psicologia ma ad «una storia di umane esperienze», alla narrazione<br />

cioè del modo in cui individui concreti optano, di fronte ai<br />

problemi, per una soluzione anziché per un’altra, scelgono una possibilità<br />

anziché un’altra, in questa scelta realizzandosi, drammaticamente<br />

realizzandosi.<br />

Perciò – dice Martano – non la legge di continuità o il principio di ragion<br />

sufficiente, ma la legge di opposizione è quella che spiega la nostra esistenza.<br />

A meno che non si intenda in maniera nuova, come noi intendiamo,<br />

per principio di ragion sufficiente proprio il principio di opposizione, cioè<br />

il principio dialettico ( 35 ).<br />

Ma si tratta, come ognun vede, di un principio dialettico profondamente<br />

modificato rispetto alla tradizione idealistica: la dialettica<br />

ha perso il carattere di principio d’ordine e di razionalità per diventare<br />

principio di problematicità, di possibilità, che – lo si vedrà successivamente<br />

– non ha mete da raggiungere o sintesi da realizzare ma<br />

solo vie da percorrere, in una dimensione critica inesauribile.<br />

Kiekergaard e non Hegel è, in Problematicità dell’esistenza – ma anche<br />

in Considerazioni sulla “persona” – il referente di Martano ( 36 ).<br />

( 34 ) Ivi, p. 56.<br />

( 35 ) Ivi, p. 53.<br />

( 36 ) Ma cfr. Considerazioni sulla“persona”, cit., p. 36.


232<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

3. La storia della filosofia. – Della dialettica e della sue «avventure»<br />

Martano si occupa in tutta la sua attività di studioso.<br />

Dello sviluppo della dialettica – dall’intuizione alla teorizzazione<br />

– traccia la storia in Contrarietà e dialettica. Dai Milesi ad Antifonte<br />

del 1972, dove si propone di<br />

risalire ai primi albori della dialettica, ritrovandone le origini nella nozione<br />

di contrarietà, e di studiare l’evoluzione di questa intuizione da gioco di<br />

contrari fisici a gioco dialettico di opposizioni in sede prima fisica poi antropologica<br />

e di qui in via logica e semantica ( 37 ).<br />

E la rinviene, questa evoluzione, da Eraclito e da Alcmeone, agli<br />

Eleati e, in un’ottica diversa, a Democrito di Abdera, fino a Proclo,<br />

uno dei massimi campioni; Proclo è definito il «primo teorizzatore<br />

chiaro ed esplicito della dialettica» cioè colui che, a differenza degli<br />

altri «spiriti vivi» ancora non «risolti in teoria», conquista una «seria<br />

consapevolezza della dinamicità dialettica del reale» ( 38 ).<br />

Della dialettica, ancora, Martano denuncia gli abusi; come dice nell’Introduzione<br />

a Contrarietà e Dialettica ( 39 ), non è oggi corrente soltanto<br />

l’uso della dialettica, bensì il suo abuso: essa viene chiamata in<br />

causa in molteplici sensi: c’è una «dialettica delle cose» e una «dialettica<br />

della natura», una «dialettica della storia» e una «dialettica dei partiti»;<br />

in realtà però tutte queste accezioni e applicazioni in ambiti così<br />

diversi hanno un unico tratto in comune: quello di significare il mutamento,<br />

il divenire dai momenti in contrasto, il farsi come contrapposizione<br />

continua ed incontenibile, le differenziazioni di «momenti di ritmo».<br />

Con ciò egli fornisce una versione molto lata e generale della dialettica,<br />

versione che, riconducendola appunto al divenire per opposizioni,<br />

a «contrapposizione continua incontenibile», ne annulla il momento<br />

della realizzazione compiuta, della conclusione sintetica.<br />

In questo senso – come si diceva – Kierkegaard e non Hegel è il referente<br />

di Martano. Se è infatti vero che «la grandezza della dottrina<br />

hegeliana fu principalmente nella scoperta della legge dialettica», è pur<br />

( 37 ) Cfr. Contrarietà e dialettica…, cit., p. 11.<br />

( 37 ) Cfr. Proclo di Atene (1952) Giannini editore, Napoli 1974, p. VII. Ma<br />

Proclo è importante, per Martano, anche perché «la sua filosofia è piena, integrale<br />

[…] per quel suo accogliere in sé l’esame di tutte le esigenze spirituali»: il che è<br />

conferma insieme dell’ottica teorica di Martano attenta al recupero della pienezza<br />

esperenziale e della sua posizione storiografica tesa, appunto, al superamento degli<br />

schemi.<br />

( 39 ) Cfr. Contrarietà e dialettica…, cit., p. 9.


Esistenzialismo e idealismo. Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

vero che questa legge è divenuta astratta proprio perché «collocata in<br />

una impersonale trascendente ragione assoluta» ( 40 ): essa cioè è perfettamente<br />

coerente a quella dimensione metafisica, metapersonalistica<br />

che, come si è visto, la sottrae a qualsiasi concretezza. Tutto questo<br />

non è privo di conseguenze per lo stesso articolarsi del divenire: proprio<br />

dalla Trascendenza della Ragione, dalla realizzazione di un Assoluto<br />

definitivamente compiuto, deriva infatti la «chiusura» della dialettica.<br />

Per sua natura la dialettica prescinde da qualsiasi Assolutezza:<br />

233<br />

[…] in sostanza l’antinomia dialettica – dice Martano – non consente né<br />

l’assoluta postulazione della positività del razionale e della negatività dell’irrazionale,<br />

né l’assoluta postulazione della tesi opposta ( 41 );<br />

né l’opposizione dei contrari può per così dire «assolutizzarsi» su un<br />

piano onto-teologico pena la ricaduta «nella seduzione di una nuova<br />

forma di manicheismo» ( 42 ). Può solo sussistere in quella struttura<br />

relazionale, se non relativa, che è la persona-esistenza la cui specificità<br />

risiede nell’aprirsi all’altro, nell’istituire appunto relazioni. Come<br />

dice Martano solo la «vita concreta della persona» è «la sintesi che<br />

mantiene aperta» ( 43 ) la dialettica. È a questo punto che interviene<br />

Kierkegaard: non solo – come già si è detto – per aver sostenuto che<br />

«l’urto delle opposizioni dialettiche deve essere fondato sulla individualità<br />

dell’esistente» ( 44 ), ma soprattutto per aver teorizzato «l’esclu-<br />

( 40 ) Cfr. Considerazioni sulla “persona”, cit., p. 22; p. 36 (ma cfr. anche, tra<br />

l’altro, p. 21: «È proprio questo il caso dell’hegelismo. La trascendenza sta già nella<br />

logica alterità situata fuori del piano personale, sta già in quella logica differenziazione,<br />

che poi si trasforma in metafisica derivazione del particolare dall’universale,<br />

del temporale dall’eterno, del finito dall’infinito».<br />

( 41 ) Ivi, p. 29.<br />

( 42 ) Ivi, p. 24.<br />

( 43 ) Ivi, p. 46: «La dialettica hegeliana delle opposizioni logiche rimane sempre<br />

aperta e la sintesi è la concreta vita della persona».<br />

( 44 ) Ivi, «Il merito dell’esistenzialismo, in specie nella forma jaspersiana, è di<br />

aver sostenuto, kierkegaardianamente, che è sempre la singolarità della persona<br />

determinata nel tempo e nello spazio, l’incontro – come il Kierkegaard dice – dell’eternità<br />

e del tempo». Ma per i limiti del ’personalismo kierkegaardiano’, Cfr.<br />

Considerazioni sulla “persona”, cit., pp. 87-89: «Ai fini di un’indagine che penetri<br />

fino alla radice dell’istanza personalistica per scoprirne le esigenze, ci sembra che<br />

lo sforzo kierkegaardiano di salvare il valore della persona sia condannato a fallire,<br />

se la persona non si pone, non già come individualità invocante, ma come sintesi<br />

originaria di individualità-universalità e se la dialettica non si fa coincidere, senza<br />

alcuna accentuazione di uno dei due termini, con la persona stessa».


234<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

sione di una sintesi tra i due termini antitetici in cui drammaticamente<br />

si svolge la vita» ( 45 ).<br />

Proprio di questa dialettica «aperta» Martano si serve come criterio<br />

di interpretazione del divenire storico. Lo afferma in Problematicità<br />

dell’esistenza quando rinviene nel «paradosso kierkegaardiano»,<br />

posto a fondamento dell’esistenza, «una giustificazione e un sostegno<br />

nella storia del pensiero» e pertanto un «ottimo canone metodologico<br />

per lo storico» ( 46 ). L’ultima parte del volume del 1947 è appunto<br />

dedicata a tracciare una storia del pensiero drammaticamente<br />

articolata sul contrasto tra una posizione filosofica e la posizione filosofica<br />

opposta, in un gioco di azione-reazione che non si risolve<br />

mai nel predominio definitivo di una filosofia o, come Martano<br />

dice, di un «sistema»:<br />

Tra i due termini dell’antitesi insopprimibile l’esigenza sistematica impone<br />

una scelta. Essa diventa il fondamento del sistema e consente che riaffiorando<br />

la problematicità nella costruzione del sistema stesso, essa venga elusa con<br />

una serie di pratiche opzioni successive. Ma se un pensatore muove da uno<br />

dei termini dell’antitesi […] quasi subito una reazione, che è indice della<br />

problematicità elusa, vi contrappone un pensatore o un indirizzo che muove<br />

dal termine opposto. E così la problematicità si rimanifesta nella alternativa<br />

perenne che contrappone drammaticamente sistema a sistema, l’uno muovendo<br />

dall’opzione di un polo dell’antitesi, l’altro dal polo opposto ( 47 ).<br />

La rapidità dell’esposizione e l’ansia di verificare la validità del<br />

«paradosso kierkegaardiano» come canone storiografico rendono<br />

questo schizzo di storia della filosofia un po’ meccanico e talvolta<br />

schematico: ma si tratta solo dell’esemplificazione di una metodologia,<br />

non di una trattazione storiografica nel senso pieno della parola;<br />

nella sua concreta opera di storico, pur seguendo il filo di questa<br />

dialettica aperta, Martano – come si è già visto – è attento alle zone<br />

di confine, alla presenza in una filosofia del suo contrario, alla indi-<br />

( 45 ) Cfr. Problematicità dell’esistenza, cit., p. 67: «[il paradosso kierkegaardiano]<br />

coglie vivamente, ancor più delle concezioni esistenzialistiche posteriori che<br />

accentuano uno degli elementi dell’antitesi, attenuando così la drammaticità viva<br />

dell’implicanza esistenziale, l’alternativa irresolubile – perciò paradossale – che è<br />

all’alba dell’esistenza».<br />

( 46 ) Cfr. Problematicità dell’esistenza, cit., p. 68. Su questi temi cfr. A. RIGO-<br />

BELLO, Tra esistenza e persona … in Discorsi per Giuseppe Martano, cit., pp. 136-<br />

137.<br />

( 47 ) Ibidem.


Esistenzialismo e idealismo. Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

viduazione di aspetti del pensiero per così dire rimasti «non vincenti»<br />

o oscurati da pensieri dominanti, come già si diceva a proposito<br />

di La conoscenza sensibile nel pensiero moderno.<br />

L’uso del «paradosso kierkegaardiano» come «canone metodologico<br />

per la storia del pensiero» approda ad un risultato interessante.<br />

In questo gioco in cui la sintesi è sempre provvisoria e si traduce immediatamente<br />

in una nuova tesi ( 48 ) non c’è una verità da raggiungere:<br />

c’è solo una verità da ricercare; la storicità intrinseca della ricerca<br />

e del pensiero vieta l’acquietarsi nel raggiungimento di un risultato<br />

assoluto: costituisce un «inganno fondamentale» la pretesa di<br />

pervenire ad una statica e definitiva verità; meta e ricerca si identificano.<br />

Né c’è una Verità ultima: vero e falso si contrappongono, ma<br />

nel divenire si scambiano i ruoli:<br />

235<br />

Tutto è vero e tutto è falso: il gioco sofistico dell’abderita – dice Martano – e<br />

del sofo di Leontini, ci si rivela come il serio gioco della nostra vita .<br />

Si provano sempre nuove esperienze e fra tutte se ne sussume una, con la fiducia<br />

di porsi nel giusto orizzonte che tutti gli altri superi e inveri, e che definitivamente<br />

appaghi. Invece la prova inevitabilmente si estende all’infinito.<br />

Non possiamo infatti eludere una sempre viva irrequietezza, né possiamo<br />

vincere l’instabilità dell’orizzonte ove si avvicendano, si superano, si escludono<br />

intuizioni e pensieri, immagini e concetti: ove ognuno di questi pensieri,<br />

ogni intuizione si irrigidisce per un momento solo, per essere un momento<br />

dopo rimossa ( 49 ).<br />

Sono affermazioni in qualche modo coinvolgenti: la prosa di<br />

Martano acquista tonalità letterariamente molto efficaci forse anche<br />

per la passione che pulsa dietro di essa e che deriva dalla totale identificazione<br />

con la vita e non solo con l’intelletto del suo autore.<br />

Come ha detto Aldo Masullo: «egli, coerente con la sua filosofia,<br />

sempre e soltanto nell’originarietà del vissuto cercò i motivi delle sue<br />

scelte e le ragioni della sua cultura» ( 50 ).<br />

E sono forse, queste di Problematicità dell’esistenza, le pagine più<br />

immediate e in certo modo più audaci di Martano, quelle in cui più<br />

esplicito, quasi con l’orgoglio della scoperta, si manifesta il suo ade-<br />

( 48 ) Ibidem: «L’antitesi si compone provvisoriamente in sintesi: ma solo provvisoriamente,<br />

perché il segreto della storicità del pensiero è tutto nell’immediato<br />

identificarsi di sintesi e tesi nuova».<br />

( 49 ) Ivi, p. 49; p. 50; p. 49.<br />

( 50 ) Cfr. A. MASULLO, Un filosofo moderno in dialogo con gli antichi, cit.


236<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

rire al fluire dell’esistenza, con la lucida consapevolezza delle conseguenze<br />

che da questa adesione derivano.<br />

Non sono mai, per Martano, conseguenze che portano allo scetticismo<br />

tout-court: e non solo perché l’interscambiabilità di vero e di<br />

falso non implica relativismo ma acquisizione di nuove prospettive;<br />

né perché lo scetticismo costituirebbe comunque un esito, un approdo<br />

definitivo e pertanto sarebbe contraddittorio rispetto alle premesse<br />

teoriche di Martano; né, ancora, perché anche nel libro del ’47, il<br />

richiamo alla fede, la possibilità della fede, l’apertura alla fede ( 51 ),<br />

intervengono ad evitare naufragi e, appunto, disperazioni.<br />

C’è infatti anche un’altra via di fuga dallo scetticismo: quella rappresentata<br />

dal raggiungimento di orizzonti sempre più larghi, di punti<br />

di vista sempre più sintetici, dall’affermazione sempre maggiore dello<br />

spirito critico. Il percorso dialettico infatti – ed è forse qui che si manifesta,<br />

nonostante tutto, l’eredità idealistica di Martano e il suo distacco<br />

da Kierkegaard – non è, come pure egli dice in un punto di<br />

Problematicità dell’esistenza, una danza di coribanti che disegnano ghirigori<br />

sempre nuovi; ha invece un senso, una direzione, in qualche<br />

modo una meta, anche se si tratta di una meta sui generis; ha un andamento<br />

progressivo in quanto progressiva liberazione dalla metafisica e<br />

dal dogmatismo in vista di una «immanentizzazione assoluta». Martano<br />

manifesta questa sua ottica nelle pagine introduttive di Considerazioni<br />

sulla“persona” già nelle domande che si pone; si chiede infatti<br />

In che cosa il pensiero, storicizzandosi, scopre il segno della sua maggior validità<br />

e la testimonianza di aver attinto una vetta nuova? Che cosa è che conferisce<br />

un carattere di positivo accrescimento di valore a dottrine che hanno registrato<br />

un progresso superando i limiti di precedenti posizioni? ( 52 )<br />

in cui il riconoscimento della «storicità» del pensiero non comporta<br />

una visione asettica e neutra della storia della filosofia; rende invece<br />

pressante la richiesta di un criterio in base al quale valutare del suo<br />

progresso, della sua «maggior validità», di un suo «positivo accrescimento<br />

di valore».<br />

( 51 ) Cfr. Considerazioni sulla persona, cit., p. 54: «Ed ecco realizzarsi positivamente<br />

quello che non era incluso nei limiti della mia visione: un orizzonte nuovo<br />

e positivo che mi si presenta attraverso l’invocazione a Dio».<br />

( 52 ) Cfr. Considerazioni sulla “persona”, cit., p. 5; ma cfr., tra l’altro, p. 28: «La<br />

tesi esistenzialistica, accentuata in senso personalistico, conquista soltanto così la<br />

meta immanentistica cui tende il pensiero contemporaneo».


Esistenzialismo e idealismo. Giuseppe Martano storico della filosofia<br />

Né meno esplicite in questo senso sono le risposte che egli dà a<br />

queste domande:<br />

237<br />

La risposta ad interrogativi del genere sembra non dar luogo ad equivocità:<br />

l’aspetto positivo, che indica in nuovi atteggiamenti speculativi i momenti<br />

di un razionale sviluppo, sta nella graduale conquista di criticità che ogni<br />

sistema filosofico riesce a vantare attraverso il paziente sforzo di eliminazione<br />

di residui dommatici emersi dalle precedenti costruzioni dottrinarie ( 53 ).<br />

Espressioni come «razionale sviluppo», «graduale conquista» non<br />

lasciano dubbi circa l’orientamento martaniano: non il salto tra alternative<br />

mai superate di cui parlava Kierkegaard ma la continuità progressiva<br />

tra le diverse posizioni organizza il divenire storico; non la<br />

precarietà del possibile ma la stabilità del razionale sembra reggere –<br />

nonostante tutto – la storia. C’è un percorso già tracciato nel divenire<br />

della filosofia: dal dogma alle posizioni critiche. Come dice Martano:<br />

La positività del filosofare è, dunque, nella tendenza critica. Noi non crediamo<br />

ad un progresso, ad un cammino del pensiero, se non registriamo<br />

un riuscito sforzo critico di superamento delle soluzioni insoddisfacenti dei<br />

problemi ( 54 ).<br />

E ancora:<br />

Una facile individuazione della Entwicklung-linie della storia della filosofia<br />

indicherà la via da battere oggi nello sforzo di continuare a dare colpi ai residui<br />

di dogmaticità riaffioranti negli indirizzi più significativi del pensiero<br />

contemporaneo ( 55 ).<br />

Queste le conclusioni del filosofare di Martano. E ora, una volta<br />

che – sia pur brevemente – si è cercato di individuare le ascendenze<br />

o se si vuole le persistenze di posizioni che Martano voleva accanto-<br />

( 53 ) Ibidem; ma cfr. p. 6: «È norma inderogabile del pensiero, come si può agevolmente<br />

osservare nello sviluppo storico di esso, conquistare l’ordine logico, che<br />

è primo e condizionante, attraverso un processo faticoso di indagine sul reale oggettivo.<br />

In tale processo il pensiero scopre come ultimo trovato – ultimo in sede<br />

storica – ciò che è invece il primo dato in sede ideale: ossia il pensiero percorre nel<br />

tempo in senso inverso il processo ideale, con una tensione in direzione ascensiva<br />

che va dal molteplice all’uno, dai particolari all’universale, dall’oggetto al soggetto<br />

che lo condiziona, in una parola dal dogma alle posizioni critiche».<br />

( 54 ) Ivi, p. 6.<br />

( 55 ) Ivi, p. 7.


238<br />

MARIA TERESA MARCIALIS<br />

nare, una volta che si è tentato di mettere in luce il complesso intreccio<br />

di esistenzialismo, filosofia della vita e idealismo che costituisce<br />

lo specifico del suo pensiero, conviene forse richiamare l’attenzione<br />

proprio sulla «meta» che viene additata alle filosofie: la criticità,<br />

appunto, la tendenza critica, lo sforzo critico.<br />

È una meta che in Martano trova la sua fondazione ontologica<br />

nella struttura problematica dell’esistenza, dato da cui muove il processo<br />

filosofico – come ogni altro processo – e che lo condiziona,<br />

aprendolo appunto alla problematicità. Ma anche chi non voglia presupporre<br />

o precostituire mete al filosofare, anche chi non si preoccupi<br />

di fondazioni ontologiche o trascendentali non può non apprezzare<br />

il richiamo alla criticità del filosofare: un richiamo che mantiene<br />

tutto il suo vigore anche per chi, come me, nella indagine storiografica,<br />

preferisca a ottiche diacroniche e verticali, ottiche sincroniche<br />

e orizzontali, e contrapponga alla delineazione di visioni totalizzanti<br />

il modesto lavoro artigianale di comprensione di ambiti limitati<br />

e circoscritti.


GIAN LUCA SANNA<br />

IL PROBLEMA DELL’UGUAGLIANZA IN ALFRED SCHÜTZ:<br />

IL CRITERIO <strong>DELLA</strong> «LIBERA SCELTA SOGGETTIVA»<br />

SOMMARIO: 1. Il livello sociologico della nozione di uguaglianza: il problema della<br />

concezione relativistica. – 2. L’importanza del «punto di vista soggettivo»<br />

negli atti di discriminazione. – 3. La responsabilità delle istituzioni politiche<br />

nella tutela della libera scelta soggettiva.<br />

In questo lavoro viene presa in considerazione la nozione di<br />

«uguaglianza» nella riflessione di Alfred Schütz ( 1 ), un problema affrontato<br />

dal filosofo viennese in quell’ambito della sua opera dedicato<br />

agli «studi di teoria sociale applicata» ( 2 ), ma suscettibile di importanti<br />

sviluppi sul piano filosofico, in particolar modo su quello<br />

etico. Il problema, infatti, si sviluppa su due differenti livelli di indagine:<br />

il primo è diretto a comprendere le dinamiche socio-culturali<br />

attraverso cui ogni gruppo umano fonda il proprio significato della<br />

nozione di uguaglianza, un significato che assume un valore differente<br />

a seconda del contesto sociale in cui viene originato. Il secondo,<br />

invece, pone il problema in chiave etica e opera nella direzione<br />

( 1 ) A. SCHUTZ, Equality and the Social Meaning Structure, in Collected Papers,<br />

vol. II, The Hague: Martinus Nijhoff Publishers, Dordrecht, The Netherlands<br />

1964, pp. 226-273. Il saggio compare originariamente nel 1957 in Aspects of Human<br />

Equality, Conference on Science, Philosophy, and Religion in Their Relation<br />

to the Democratic Way of Life, ed. L. Bryson, C.H. Faust, and L. Finkelstein,<br />

New York 1957. Cfr. al proposito, H.R. WAGNER, Alfred Schutz: an Intellectual<br />

Biography, University of Chicago Press, Chicago 1986, p. 341. In questo lavoro ci<br />

siamo riferiti prevalentemente all’Edizione Italiana: A. SCHUTZ, L’uguaglianza e la<br />

struttura significativa del mondo sociale, in Saggi sociologici, trad. it. di A. Izzo,<br />

UTET, Torino 1979, pp. 419-466.<br />

( 2 ) Cfr. A. SCHUTZ, Collected Papers, vol. II, cit., pp. 89-293; cfr. anche l’Edizione<br />

italiana, cit., pp. 375-466.


240<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

di un tentativo di conciliazione tra criterio della scelta soggettiva e<br />

principio universale dell’uguaglianza.<br />

Alla luce di queste prime indicazioni, possiamo osservare che la<br />

contrapposizione dei due livelli differenti di indagine presenta non<br />

poche difficoltà nella riflessione schütziana. La concezione relativistica<br />

che emerge dall’analisi sociologica, infatti, si scontra con l’esigenza<br />

di trovare princìpi etici di natura universale che possano fondare<br />

soluzioni adeguate al problema in questione. Scopo principale<br />

del lavoro sarà pertanto quello di mostrare come nella riflessione<br />

schütziana emerga una proposta etica diretta alla tutela della «libera<br />

scelta soggettiva», che viene considerata il criterio fondamentale su<br />

cui deve basarsi il principio universale dell’uguaglianza. La responsabilità<br />

che Schütz in proposito attribuisce alle istituzioni consente di<br />

mettere in luce un interesse di non secondaria importanza per il<br />

concreto coinvolgimento del potere politico nei problemi sociali,<br />

con particolare riferimento a quello delle «uguali possibilità» ( 3 ).<br />

Esamineremo, in primo luogo, quali sono per Schütz le condizioni<br />

socio-culturali di base su cui ogni gruppo sociale fonda il significato<br />

della nozione di uguaglianza. Egli individua il principale aspetto<br />

nei processi simbolici della «tipizzazione» che si sviluppano sul<br />

piano della vita quotidiana in una struttura relazionale di senso comune.<br />

Attraverso questi processi ogni gruppo sociale costituisce i<br />

propri ordini di classificazione e li organizza in ambiti diversi di «attribuzione<br />

di importanza». Gli elementi contenuti in uno specifico<br />

ambito sono incommensurabili con quelli appartenenti ad ambiti diversi:<br />

ogni «tipo», cioè, costituisce un ordine di classificazione che<br />

non è confrontabile con altri. La concezione di uguaglianza che<br />

emerge a questo livello di indagine – che Schütz riprende dalla filosofia<br />

aristotelica – ha un significato solamente «relativo» che non<br />

consente di risolvere i problemi della discriminazione e della tutela<br />

della libertà soggettiva. Occorre, pertanto, trovare nuovi strumenti<br />

che affrontino il problema dell’uguaglianza su un piano diverso da<br />

quello sociologico. Analizzeremo, a questo proposito, la categoria<br />

schütziana del «punto di vista soggettivo»; essa consente di riferire il<br />

problema dell’uguaglianza alla situazione personale in cui si trova<br />

l’individuo coinvolto in un atto di discriminazione. La condizione<br />

( 3 ) Sebbene su questo punto la critica non sia unanime, l’analisi schütziana<br />

non si limita solo a una trattazione teorica: «In Schütz – scrive ad esempio Mauro<br />

Protti – prevale una concezione del teorico estranea al coinvolgimento nella concreta<br />

attualità politica». Cfr. M. PROTTI, Alfred Schütz e i soggetti della democrazia,<br />

in Aut-Aut, n. 291-292, maggio-agosto 1999, p. 148.


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

di disuguaglianza, secondo Schütz, deve essere analizzata sul piano<br />

dell’interpretazione soggettiva e non, invece, sulla base di categorie<br />

oggettive, quali ad esempio il pregiudizio, che non consentono di superare<br />

una concezione relativistica dell’«uguaglianza».<br />

Il problema della discriminazione non può essere risolto col solo ricorso<br />

alla categoria del «punto di vista soggettivo», ma occorre che<br />

essa venga supportata da princìpi etici di natura universale che devono<br />

essere suggeriti dal potere politico. Relativamente a questo punto, prenderemo<br />

in considerazione le riflessioni etico-politiche che Schütz dedica<br />

al problema dell’uguaglianza, con attenzione particolare alla nozione<br />

di «uguali possibilità». Faremo riferimento agli studi intrapresi<br />

dalla Segreteria Generale delle Nazioni Unite nel 1949, in cui Schütz<br />

mostra concretamente come le istituzioni politiche devono intervenire<br />

sul problema della discriminazione. In questi studi emerge l’esigenza<br />

di emanare princìpi etici universali che escludano quelle forme di disuguaglianza<br />

basate su criteri non direttamente imputabili all’individuo,<br />

quali, ad esempio, la «razza» o il «sesso». Emerge, inoltre, una distinzione<br />

di non secondaria importanza fra «uguaglianza formale» e<br />

«uguaglianza reale» dei gruppi di minoranza. Secondo Schütz queste<br />

concezioni presentano il limite di ridurre il problema dell’uguaglianza<br />

a un livello solamente oggettivo e formalista che non tiene in considerazione<br />

il concreto «punto di vista soggettivo» su cui deve essere fondato<br />

il principio etico di «uguali possibilità». Ogni opportunità, infatti, viene<br />

interpretata in modo differente a seconda delle specifiche condizioni<br />

personali degli individui coinvolti. La concezione formalista di questo<br />

principio – che Schütz riscontra anche nella teoria sociale di T.<br />

Parsons – corre il rischio di identificare il soggetto con il tipo di «ruolo»<br />

che gli viene assegnato dal gruppo sociale, non tenendo conto delle<br />

sue aspirazioni e delle sue scelte di vita.<br />

1. Il livello sociologico della nozione di uguaglianza: il problema della<br />

concezione relativistica. – Il primo livello di indagine su cui Schütz sceglie<br />

di situare la riflessione sulla nozione di «uguaglianza» è il mondo<br />

della vita quotidiana. In questo ambito egli ritiene si possano comprendere<br />

le condizioni socio-culturali di base su cui ogni gruppo umano<br />

costituisce il significato di questa nozione: «Senza tali criteri – scrive<br />

Schütz – è impossibile formulare una teoria fondata dell’uguaglianza<br />

degli uomini radicata sulle uguali esigenze dell’umanità» ( 4 ). Schütz<br />

( 4 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 423.<br />

241


242<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

osserva che le scienze sociali e gli studi di antropologia culturale hanno<br />

tentato di trovare le condizioni di base dell’origine del significato<br />

di «uguaglianza», ma non sono andate oltre una mera classificazione<br />

di «motivi» e «esigenze» comuni ( 5 ). Occorrerebbe, secondo Schütz, situare<br />

il problema all’interno di un’antropologia filosofica che esamini la<br />

nozione di uguaglianza all’interno della condizione umana in generale.<br />

Egli, tuttavia, afferma di non voler «affrontare un’impresa di questo<br />

genere» ( 6 ), ma solo di limitare il suo compito a un’analisi sociologica<br />

che tenga in considerazione quei tratti universali delle realtà sociali<br />

attraverso i quali si fonda l’origine della nozione di uguaglianza.<br />

Schütz individua il principale di questi nel «take for granted», intendendo<br />

con questa espressione una condizione naturale dell’umanità<br />

per la quale ogni individuo tende a «credere» che tutto ciò che nel<br />

mondo sociale è stato eseguito «fino ad ora», continuerà ad esistere in<br />

forme uguali «fino a prova contraria»:<br />

«Dare il mondo per scontato al di là di ogni problema – scrive Schütz – implica<br />

il presupposto profondamente radicato che fino a prova contraria il mondo<br />

andrà avanti sostanzialmente nello stesso modo in cui è andato avanti finora;<br />

che ciò che è risultato valido finora continuerà a esserlo, e che tutto ciò che<br />

noi o altri come noi hanno potuto eseguire una volta con successo può essere<br />

rifatto in modo simile e condurrà a risultati sostanzialmente uguali» ( 7 ).<br />

Individuare condizioni socio-culturali universali non significa affermare<br />

che la nozione di uguaglianza venga costituita in modo<br />

identico in ogni contesto sociale. La sua struttura, infatti, può mutare<br />

da un modello culturale all’altro e «il significato che essa riveste<br />

per un particolare gruppo sociale – scrive Schütz – è come tale un<br />

elemento […] della situazione socio-culturale da esso data per scontata<br />

in ogni momento della sua storia» ( 8 ). Come ha osservato Steven<br />

Vaitkus, «in Schutz la concezione di un mondo relativamente naturale<br />

viene data per scontata dal gruppo e sedimentata storicamente<br />

attraverso un’esperienza comunemente condivisa» ( 9 ). Il mondo<br />

( 5 ) Ibid.<br />

( 6 ) Ibid.<br />

( 7 ) Ivi, p. 424.<br />

( 8 ) Ivi, p. 419.<br />

( 9 ) Cfr. S. VAITKUS, How is Society Possible? Intersubjectivity and the Fiduciary<br />

Attitude as Problems of the Social Group in Mead, Gurwitsch, and Schutz, Kluwer<br />

Academic publishers, Dordrecht [etc.] 1991, p. 82.


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

«dato per scontato» è strutturato secondo un sistema simbolico di significati<br />

attraverso cui il gruppo sociale «definisce la sua situazione»<br />

nell’ambito delle relazioni della vita quotidiana. Questa concezione<br />

viene condivisa da P.L. Berger e T. Luckmann per i quali «l’universo<br />

simbolico lega gli uomini ai loro predecessori ed ai loro successori,<br />

in una totalità significativa» ( 10 ). Schütz cita William Sumner per sostenere<br />

che ogni gruppo definisce la propria situazione attraverso la<br />

forma dell’«etnocentrismo». Questa nozione vuole indicare «quella<br />

concezione secondo la quale il gruppo cui si appartiene è il centro di<br />

tutto e tutti gli altri gruppi sono commisurati e classificati in riferimento<br />

a esso». Scrive Sumner:<br />

243<br />

«ogni gruppo considera i propri costumi come gli unici giusti, e se vede che<br />

altri gruppi hanno costumi diversi ciò suscita la sua derisione. Da queste<br />

differenze derivano obbrobriosi epiteti» ( 11 ).<br />

La concezione dell’«etnocentrismo», secondo Schütz, trova una<br />

giustificazione nella riflessione di Eric Voegelin. Occorre comprendere<br />

quale siano i motivi che spingono un gruppo sociale a strutturare se<br />

stesso come il criterio universale di classificazione di tutto il mondo<br />

circostante. Ogni gruppo, secondo Voegelin, cerca di trovare un legame<br />

fra l’ordine definito nel suo microcosmo e l’ordine universale del<br />

macrocosmo. Questo legame è reso possibile attraverso la definizione di<br />

simboli utili a interpretare e classificare un ordine di tale estensione:<br />

«L’etnocentrismo – scrive Schütz – richiede tuttavia una giustificazione.<br />

Come ha messo in luce Eric Voegelin, ogni società si considera come un<br />

mondo, un piccolo cosmo che è illuminato dall’interno e che necessita di<br />

simboli che connettano il suo ordine con l’ordine del grande cosmo» ( 12 ).<br />

( 10 ) Cfr. P.L. BERGER-T. LUCKMANN, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino,<br />

Bologna 1969, p. 146.<br />

( 11 ) Cfr. W.G. SUMNER, Folkways: A Study of the Sociological Importance of Manners,<br />

Customs, Mores, and Morals, New York 1906, p. 13. «Con la sua teoria dell’etnocentrismo<br />

– scrive Helmut Wagner – William Graham Sumner offrì a Schutz la<br />

possibilità di comprendere meglio le “ricette” culturali per trattare gli oggetti e gli<br />

esseri umani nei termini di situazioni tipizzate e, inoltre, gli suggerì la distinzione tra<br />

gruppo interno e gruppo esterno». Cfr. H.R. WAGNER, Alfred Schutz: an Intellectual<br />

Biography, cit., p. 72.<br />

( 12 ) A. SCHUTZ, Saggi sociologici, cit., p. 438. Il riferimento di Schütz è a: E.<br />

VOEGELIN, The New Science of Politcs, An Introduction, Charles R. Walgreen Foundation<br />

Lectures, Chicago 1952, p. 27 ss., p. 53 ss.


244<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

L’idea di uguaglianza è un «prodotto culturale» dei processi simbolici<br />

in atto in un dato contesto sociale. Essa definisce l’ordine universale<br />

del cosmo secondo i particolari criteri di classificazione approvati<br />

dal gruppo sociale:<br />

«[...] l’idea di uguaglianza – scrive Schütz – potrebbe essere riferita a un ordine<br />

di valori decretato da Zeus oppure potrebbe avere origine nella struttura<br />

dell’anima; potrebbe essere concepita come riflesso nell’ordine del cosmo,<br />

o come Diritto Naturale o come rivelato dalla Ragione» ( 13 ).<br />

I processi simbolici che stanno all’origine dell’idea di uguaglianza si<br />

sviluppano attraverso sistemi sociali di «tipizzazione». Questi consistono<br />

nel trascurare aspetti particolari di oggetti, fatti o eventi che sono<br />

ritenuti «irrilevanti per il problema in questione» ( 14 ). Tutti gli elementi<br />

che invece sono considerati «significativi» rientrano in uno stesso<br />

«tipo» e concorrono in modo uguale e interscambiabile a definire i<br />

termini di una data situazione sociale: «Ognuno di questi termini indica<br />

un tipo – scrive Schütz – e tutti gli individui che rientrano in tale<br />

tipo sono considerati interscambiabili in riferimento all’elemento tipizzato»<br />

( 15 ). Come ha osservato Maurice Natanson, la «tipizzazione»<br />

rappresenta per Schütz «la condizione essenziale del mondo sociale<br />

che rende possibile l’adattamento dell’individuo alle situazioni della<br />

vita quotidiana» ( 16 ). Ogni «tipizzazione» costituisce uno specifico<br />

«ambito di attribuzione di importanza». Con questa nozione Schütz<br />

intende un insieme di «tipi» che partecipano in modo simile alla solu-<br />

( 13 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 438.<br />

( 14 ) Ivi, p. 432. Come ha osservato Paolo Jedlowsky, «tipizzare» significa per<br />

Schütz ridurre la complessità della realtà sociale a un insieme di ordini di classificazione:<br />

«i “tipi” – scrive Jedlowsky – sono delle rappresentazioni della realtà, ne<br />

costituiscono una sorta di classificazione». Cfr. P. JEDLOWSKY, Il mondo in questione.<br />

Introduzione alla storia del pensiero sociologico, Carocci, Roma 1998, p. 237.<br />

( 15 )A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 432. «Per Schütz – scrive Michael Barber<br />

– il carattere sociale delle tipizzazioni è invariante e essenziale, tale che non<br />

possono esistere tipizzazioni che non riflettano l’ambiente sociale da cui hanno<br />

origine e in cui sono utilizzate». Cfr. M. BARBER, Constitution and the Sedimentation<br />

of the Social in Alfred Schutz’s Theory of Typification, Modern Schoolman, 64,<br />

1987, pp. 111-120, p. 118.<br />

( 16 ) Cfr. M. NATANSON, Anonymity. A Study in the Philosophy of Alfred Schutz,<br />

Indiana University Press, Bloomington 1986, p. 127. Per un’analisi approfondita<br />

della teoria schütziana della «tipizzazione», si veda l’articolo dello stesso NATAN-<br />

SON, Phenomenology and Typification. A Study in the Philosophy of Alfred Schutz,<br />

Social Research, 37, 1969, pp. 1-22.


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

zione di uno stesso problema ( 17 ): «Possiamo dire – scrive Schütz – che<br />

tutti questi tipi appartengono, per il fatto stesso del loro riferirsi al<br />

medesimo problema, allo stesso «ambito di attribuzione di importanza»<br />

( 18 ). Al proposito, scrive Giuseppe Riconda:<br />

245<br />

« […] il riferimento ai sistemi di rilevanza da cui l’uomo è guidato nella<br />

vita quotidiana è assunto come determinante la funzione selettiva dell’interesse<br />

all’interno della realtà predominante: in base ad esso deve potersi<br />

spiegare non solo l’organizzazione e strutturazione del mondo che tale funzione<br />

selettiva opera, ma il costituirsi di questa funzione selettiva nelle sue<br />

articolazioni concrete, com’è inscritta nel piano di azione e di vita che vengo<br />

svolgendo […]» ( 19 ).<br />

Gli elementi di un «tipo» che rientrano nello stesso ambito sono<br />

definiti omogenei. La nozione di uguaglianza può essere riferita solo<br />

al confronto fra elementi omogenei dello stesso tipo, che appartengono,<br />

cioè, a uno stesso «ambito di attribuzione di importanza»: «La<br />

trattazione dei problemi relativi all’uguaglianza e alla disuguaglianza<br />

– scrive Schütz – è spesso offuscata dal fatto che questi termini sono<br />

applicati a rapporti tra elementi eterogenei» ( 20 ). Questa considerazione<br />

pone il problema del riconoscimento del merito. Secondo<br />

Schütz i criteri di giudizio devono esulare da ogni classificazione che<br />

metta a confronto elementi appartenenti a «ambiti di attribuzione di<br />

importanza» fra loro eterogenei. L’applicazione di metri di valutazione<br />

non appartenenti allo stesso ambito pone il rischio di «incoerenze<br />

logiche e assiologiche»:<br />

( 17 ) Come ha osservato Jorge Garcìa-Gòmez, l’organizzazione degli oggetti in<br />

‘tipi’ è funzionale all’interpretazione di un problema ‘tipico’ che esige una soluzione<br />

soddisfacente. «L’oggetto è pre-riflessivamente considerato di questo o quel<br />

tipo – scrive Garcìa-Gòmez – in modo da trovare una soluzione al problema tipico<br />

in questione». Cfr. J. GARCIA-GOMEZ., Nexus, Unity, Ground: Reflections on the<br />

Foundation of Schutz’s Theory of Relevance, Man and World, 15, 1982, pp. 227-<br />

245, p. 241.<br />

( 18 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 428.<br />

( 19 ) Cfr. G. Riconda, introduzione a: A. SCHUTZ, Il problema della rilevanza.<br />

Per una fenomenologia dell’atteggiamento naturale, trad. it. a cura di Giuseppe Riconda,<br />

Rosenberg & Sellier, Torino 1975, p. XXXII. Sullo stesso problema, si<br />

veda soprattutto il saggio di: R.R. COX, Schutz’s Theory of Relevance. A Phenomenological<br />

Critique, The Hague: Martinus Nijhoff Publishers, Boston-London<br />

1978.<br />

( 20 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 432.


246<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

«[...] possiamo dire – scrive Schütz – che l’uguaglianza e la disuguaglianza<br />

sono nozioni relazionali e devono essere definite nei termini dell’ambito di<br />

attribuzione di importanza a cui esse appartengono. Solo entro ogni singolo<br />

ambito di attribuzione di importanza si possono distinguere gradi di<br />

merito e di superiorità. Inoltre ciò che è confrontabile nei termini del sistema<br />

di un singolo ambito non è confrontabile nei termini di altri sistemi, e<br />

per questa ragione l’applicazione di metri non appartenenti allo stesso ambito<br />

di attribuzione di importanza conduce a incoerenze logiche e assiologiche<br />

(morali)» ( 21 ).<br />

Schütz riporta un passo di Aristotele in cui emerge una concezione<br />

del merito che conferma le sue tesi sulla nozione di uguaglianza:<br />

«se vi fosse un suonatore di flauto migliore – scrive Aristotele – che fosse di<br />

molto inferiore per nascita e per bellezza, sebbene sia l’uno, sia l’altro di questi<br />

beni possa essere maggiore dell’arte di suonare il flauto, possa superare il<br />

suonare il flauto in rapporto superiore a quello in cui egli supera gli altri nella<br />

sua arte, tuttavia ancora a costui dovrebbe essere dato il flauto migliore, a<br />

meno che la superiorità di ricchezza e di nascita non contribuiscano a suonare<br />

il flauto in modo migliore, il che non è» ( 22 ).<br />

L’esempio proposto da Aristotele mostra che il merito viene attribuito<br />

secondo un ordine di superiorità relativo esclusivamente all’«ambito<br />

di attribuzione di importanza» sottoposto a giudizio, anche<br />

qualora si presentino beni di valore maggiore rispetto a quelli<br />

considerati: «anche se la nascita o la bellezza o la ricchezza sono beni<br />

maggiori dell’arte di suonare il flauto – scrive Schütz – la superiorità<br />

nel suonare il flauto deve ciò nonostante essere determinata nei termini<br />

dell’ambito di attribuzione di importanza a cui questa attività<br />

artistica appartiene» ( 23 ).<br />

Queste prime considerazioni mostrano una concezione dell’uguaglianza<br />

priva di ogni riferimento a princìpi assoluti e universali. I<br />

criteri di uguaglianza, secondo Schütz, sono relativi soltanto all’ambito<br />

specifico preso in considerazione. Scrive Mauro Protti:<br />

«[…] Questo impianto sta ‘dentro’ la selezione dei tratti costitutivi dell’eguaglianza<br />

come modello di riferimento […] per l’azione concertata de-<br />

( 21 ) Ivi, p. 433.<br />

( 22 )ARISTOTELE, Politica e costituzione di Atene, a cura di A. Viano, UTET,<br />

Torino 1955, 1282 b 42-b 60, pp. 154-155.<br />

( 23 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 434.


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

247<br />

gli attori sociali collocati in insiemi empirici […] le cui parti sono distribuite<br />

rispettando regole di coordinamento dell’azione non solo ‘oggettive’ ma rilevanti<br />

pragmaticamente rispetto al fine e alla verifica o all’implementazione<br />

dell’istanza di eguaglianza, che si offre comunque ‘relativa’ o contestualizzata<br />

[…]» ( 24 ).<br />

La concezione relativistica della nozione di uguaglianza non consente<br />

di attribuire giudizi di merito e superiorità all’interno di ambiti<br />

fra loro incommensurabili, in quanto «questi sono essenzialmente<br />

eterogenei» ( 25 ). I gruppi sociali molto spesso tendono a combinare<br />

elementi fra loro non omogenei, il che è fra le principali cause di disuguaglianza<br />

e discriminazione. Se ad esempio nell’ambito musicale<br />

statunitense «le Figlie della Rivoluzione Americana negano a Marian<br />

Anderson l’uso della loro sala per concerti a Washington D.C. perché<br />

è negra, tale atto sarà giustamente considerato discriminatorio» ( 26 ). Il<br />

colore della pelle, in questo caso, è un elemento eterogeneo rispetto<br />

all’arte del cantare e, pertanto, non può essere considerato un criterio<br />

di classificazione proprio di quell’ambito. «Ma – si chiede Schütz –<br />

questa affermazione in termini così generali è vera?» ( 27 ). Nel caso in<br />

questione, la discriminazione della musicista «di colore» non contraddice<br />

la teoria aristotelica dell’«uguaglianza relativa». Il tipo<br />

«nero» di cui si parla nell’esempio non è, secondo Schütz, da riferire<br />

al colore della pelle della musicista, ma al significato che esso assume<br />

nell’ambito del genere musicale:<br />

«Potrebbe Marian Anderson cantare Spirituals negri nel suo insuperabile<br />

modo – scrive Schütz – se non condividesse con i suoi compagni negri quella<br />

specifica eredità culturale, quella specifica concezione del mondo di cui gli<br />

Spirituals sono parziale espressione? Da questo angolo visuale l’appartenenza<br />

alla razza non ha qualcosa a che fare con la superiorità artistica?» ( 28 ).<br />

( 24 ) Cfr. M. PROTTI, Lo stato dell’arte su Alfred Schütz. Premessa a questi studi,<br />

in M. PROTTI (a cura di), QuotidianaMente. Studi sull’intorno teorico di Alfred<br />

Schütz, Pensa Multimedia, Lecce 2000, p. 30. Una concezione analoga è presente<br />

nell’analisi di Alberto Izzo: «Schutz – scrive Izzo – […] sostiene che l’uguaglianza<br />

può essere solo qualcosa che varia con il variare dei sistemi di attribuzione di importanza.<br />

Si tratta dunque di un concetto necessariamente relativo». Cfr. A. IZZO,<br />

introduzione a: A. SCHUTZ, Saggi sociologici, cit., p. XXXIV.<br />

( 25 ) Ivi, p. 436.<br />

( 26 ) Ivi, p. 452.<br />

( 27 ) Ibid.<br />

( 28 ) Ibid.


248<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

L’«appartenenza alla razza» rappresenta un tipo musicale – gli<br />

Spirituals – che è eterogeneo rispetto agli elementi tipici dell’ambito<br />

musicale approvato dal gruppo dominante. La musicista, pertanto,<br />

non subisce una discriminazione a causa della sua presunta estraneità<br />

rispetto all’ambito in questione, ma perché la sua arte appartiene<br />

a un tipo musicale che è diverso da quello originariamente precostituito.<br />

Nei termini di un’analisi socio-culturale, l’atto discriminatorio<br />

è “giustificato” dalla tendenza del gruppo sociale dominante a<br />

«conservare» i propri sistemi simbolici di uguaglianza. Ogni mutamento<br />

simbolico, infatti, è soggetto a particolari forme di sanzione<br />

«in quanto si suppone disturbi l’ordine del cosmo, evochi la vendetta<br />

degli dèi e porti a catastrofi a tutto il gruppo» ( 29 ). Il problema<br />

della discriminazione, tuttavia, non può essere risolto con una teoria<br />

dell’«uguaglianza relativa», «per la quale i termini «uguaglianza» e<br />

«disuguaglianza» – scrive Schütz – sono applicabili solo a elementi<br />

omogenei, cioè a elementi che appartengono allo stesso ambito di<br />

attribuzione di importanza, in quanto gli elementi eterogenei – gli<br />

elementi che appartengono ad ambiti diversi – non possono essere<br />

confrontati l’uno con l’altro» ( 30 ). Se l’analisi fosse limitata a queste<br />

considerazioni, occorrerebbe giustificare ogni atto discriminatorio e<br />

non si comprenderebbe perché alcuni individui percepiscono la loro<br />

«diversità» nei termini di «ingiustizia» e «segregazione». Schütz, a<br />

questo punto, introduce la categoria del «punto di vista soggettivo».<br />

Essa pone il problema di situare la riflessione sulla nozione di uguaglianza<br />

su un piano che non sia solamente quello sociologico. Occorre<br />

trovare, infatti, nuovi criteri di classificazione che non riducano<br />

il significato di questa nozione a forme di senso comune relative<br />

solamente al contesto sociale di ogni singolo gruppo.<br />

2. L’importanza del «punto di vista soggettivo» negli atti di discriminazione.<br />

– L’introduzione del «punto di vista soggettivo» comporta<br />

una considerazione della nozione di uguaglianza in termini problematici.<br />

Si può parlare di uguaglianza o disuguaglianza, secondo<br />

Schütz, solo in riferimento all’interpretazione soggettiva che gli individui<br />

sottoposti a discriminazione attribuiscono al significato di<br />

questi termini. Se è assente una simile interpretazione, non ha senso<br />

neppure intraprendere una riflessione su tali concetti. Schütz riporta<br />

( 29 ) Ivi, p. 438.<br />

( 30 ) Ivi, p. 451.


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti in cui si mostra<br />

che la discriminazione sussiste solo se è presente il «punto di vista<br />

soggettivo» dell’individuo «discriminato» ( 31 ). In questa sentenza il<br />

giudice Henry B. Brown sostiene che il principio di uguaglianza delle<br />

«razze» di fronte alla legge non abolisce la distinzione basata sul<br />

«colore» per ciò che concerne l’accesso ai servizi sociali: «se se ne deduce<br />

l’inferiorità – scrive il giudice Brown – ciò non avviene in ragione<br />

di qualcosa che si trova nell’atto ma solo in quanto la razza di<br />

colore sceglie di attribuire ad esso questa interpretazione» ( 32 ). Questa<br />

affermazione appare come un tentativo di giustificazione del pregiudizio<br />

razziale; essa, tuttavia, assume per Schütz un particolare interesse<br />

teorico per la riflessione sul problema della uguaglianza:<br />

249<br />

«Sarebbe facile – scrive Schütz – rifiutare questa affermazione come quel<br />

miserabile tentativo di giustificare il pregiudizio razziale che essa è, se non<br />

fosse di particolare interesse teorico […] La Corte assume la posizione secondo<br />

cui il negare alla razza di colore uguale diritto di accesso ai servizi<br />

pubblici […] non significa che gli individui inquadrati in questa tipizzazione<br />

imposta […] siano inferiori. Solo l’interpretazione di questa tipizzazione<br />

imposta nei termini dello schema di attribuzioni di importanza dello<br />

stesso gruppo tipizzato – pertanto in senso soggettivo – fa sorgere una tale<br />

conseguenza» ( 33 ).<br />

L’orientamento espresso nella sentenza non risolve il problema<br />

della discriminazione. Non è sufficiente, infatti, giustificare una disuguaglianza<br />

solo sulla base della categoria del «punto di vista soggettivo».<br />

Se ci si limitasse a ciò, come nel caso della sentenza in questione,<br />

si potrebbero giustificare tutti gli atti discriminatori col solo<br />

ricorso al significato soggettivo di una «tipizzazione». Il problema,<br />

invece, «è che la segregazione – scrive Schütz – è considerata dall’individuo<br />

un’offesa ed egli diventa sensibile nei suoi confronti» ( 34 ).<br />

( 31 ) Schütz riprende questa sentenza da uno studio di M. BERGER, Equality by<br />

Statute, New York 1952, p. 53 ss.<br />

( 32 )A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 453. Scrive Gunnar Myrdal, al proposito:<br />

«Continuo a constatare – scrive Myrdal – che questo sia più un problema dell’uomo<br />

bianco che un problema dell’uomo nero […] Il problema reale non è il nero;<br />

ma l’atteggiamento dell’uomo bianco nei confronti del nero». Cfr. G. MYRDAL, An<br />

American Dilemma, New York 1944, p. 43.<br />

( 33 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 453 (corsivo nostro).<br />

( 34 ) Ivi, p. 454.


250<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

Gli scienziati sociali e i filosofi hanno ridotto «questo complicatissimo<br />

problema» alle forme di pregiudizio del senso comune, riconoscendo<br />

in esse l’origine della «discriminazione» «e di altri mali sociali»<br />

( 35 ). Il ricorso alla categoria del «pregiudizio», secondo Schütz, «è<br />

di scarso aiuto» ( 36 ). Il pregiudizio è un sentimento negativo che appartiene<br />

solamente all’individuo che subisce una discriminazione. Il<br />

pensiero del senso comune, invece, non esperisce il pregiudizio con<br />

questo significato, ma semplicemente come un criterio di classificazione<br />

«istituzionalizzato» su cui si fondano le certezze del gruppo sociale.<br />

È poco utile, pertanto, che gli scienziati sociali e i filosofi affermino<br />

che i pregiudizi «scomparirebbero come se toccati da una<br />

mano magica non appena informassimo coloro che provocano il<br />

male che essi stanno alimentando pregiudizi» ( 37 ):<br />

«Nel pensiero del senso comune – scrive Schütz – solo gli altri hanno pregiudizi.<br />

Io non posso mai avere pregiudizi perché le mie convinzioni hanno fondamenti<br />

giusti, le mie opinioni sono date per scontate, e la mia fede nella correttezza<br />

e nella bontà dei nostri princìpi […] è infallibile» […] i pregiudizi sono<br />

essi stessi elementi dell’interpretazione del mondo sociale e anche una tra le<br />

forze principali che lo fanno funzionare. I pregiudizi sono razionalizzazioni e<br />

istituzionalizzazioni […] su cui si fonda l’autointerpretazione del gruppo» ( 38 ).<br />

Schütz sostiene che evitare il ricorso alla categoria del «pregiudizio»<br />

non significa accettare la discriminazione come un fenomeno sociale che<br />

non può essere controllato, ma piuttosto «liberarsi dal peso di ulteriori<br />

ricerche teoriche su problemi quali la discriminazione, non appena è stata<br />

invocata la formula magica: «Si tratta di pregiudizi»» ( 39 ). Egli propone<br />

una nuova «strategia» per affrontare un problema sociale ritenuto così<br />

importante. La soluzione non deve essere cercata all’interno del senso<br />

comune, ma negli atti politici di quegli individui che detengono il potere.<br />

Il «senso comune», infatti, non è in grado di risolvere le tensioni sociali<br />

senza l’intervento delle istituzioni statali o sovra-statali ( 40 ). In questi<br />

( 35 ) Ivi, p. 455.<br />

( 36 ) Ivi, p. 454.<br />

( 37 ) Ivi, p. 455.<br />

( 38 ) Ivi, pp. 454-455.<br />

( 39 ) Ibid.<br />

( 40 ) Così Nino Salomone descrive la condizione del «senso comune» in epoca<br />

post-moderna: «[…] il senso comune – scrive Salomone – non è in grado di scor-


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

termini, gli individui che sono al potere hanno una grande responsabilità<br />

etica nei confronti dei gruppi sociali che governano. Essi, infatti,<br />

possono modificare i «sistemi di tipizzazione» dei gruppi sociali di<br />

cui sono a capo attraverso l’introduzione di princìpi etici universali.<br />

La riflessione schütziana, a questo punto, si situa su un piano eticopolitico.<br />

Scrive Schütz, citando a questo proposito un passo di Aristotele:<br />

251<br />

«Ma rimane una questione – scrive Aristotele – uguaglianza o disuguaglianza<br />

di che cosa? Sorge qui una difficoltà che richiede la speculazione<br />

politica» ( 41 ).<br />

3. La responsabilità delle istituzioni politiche nella tutela della libera<br />

scelta soggettiva. – Schütz analizza due documenti redatti dalla Segreteria<br />

Generale delle Nazioni Unite nel 1949 in cui si mostra concretamente<br />

come le istituzioni debbono intervenire nei confronti del<br />

problema dell’uguaglianza ( 42 ). Nel primo di questi documenti si afferma<br />

che il concetto di uguaglianza formulato dalla Dichiarazione<br />

Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) non esclude gli ordini di<br />

classificazione fondati sui princìpi di «superiorità» e di «merito».<br />

Queste classi di differenziazione devono essere riferite a comportamenti<br />

individuali e a caratteristiche che, pur non essendo imputabili<br />

al comportamento individuale, hanno, tuttavia, un valore sociale:<br />

«[…] l’uguaglianza – scrive Schütz – non esclude due classi di differenze<br />

generalmente considerate ammissibili e giustificate: a) le differenziazioni<br />

basate sul comportamento imputabile all’individuo (esempi: industriositàpigrizia,<br />

correttezza-scorrettezza, merito-demerito) e b) le differenziazioni<br />

gere nulla. Non un “arbitro”, non “regole decifrabili”, non una realtà in base alla<br />

quale “misurare l’efficacia delle mosse dei giocatori”. […] Gli equilibri sociali vengono,<br />

sostanzialmente, dati per scontati, qualsiasi riflessione sugli stessi è al di<br />

fuori della portata della cogitazione quotidiana, e qualsiasi messaggio che si riferisca<br />

ad essi in modo problematico non penetra al di qua della pesante cortina che<br />

cela ormai il “sistema” al mondo della vita». Cfr. N. SALOMONE, Sistema sociale e<br />

mondo della vita in ambiente post-moderno: un’interpretazione fenomenologica, in in<br />

M. PROTTI (a cura di), QuotidianaMente, cit., pp. 305, 325.<br />

( 41 )ARISTOTELE, Politica e costituzione di Atene, cit., 1282 a 29-a 32, p. 154.<br />

( 42 ) Cfr. UNITED NATIONS, Memorandum of the Secretary-General on The<br />

Main Types and Causes of Discrimination and Classification of Minorities, December<br />

1949, §§ 30-32.


252<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

basate su caratteristiche individuali le quali, nonostante, non siano imputabili<br />

all’individuo hanno un valore sociale. Esempi: capacità fisiche e mentali,<br />

talento, abilità innata, ecc.» ( 43 ).<br />

Il concetto di uguaglianza che emerge dal documento esclude<br />

ogni differenziazione basata su «fattori che non sono imputabili all’individuo<br />

– scrive Schütz – e che non dovrebbero essere considerati<br />

portatori di nessun significato sociale o legale, quali il colore, la razza,<br />

o il sesso» ( 44 ). Schütz osserva che il significato del documento è<br />

di tipo etico-politico. Esso indica i criteri di differenziazione che «dovrebbero»<br />

essere universalmente approvati dai gruppi sociali per evitare<br />

atti discriminatori non moralmente giustificabili. Non si afferma<br />

che fattori come «la razza o il sesso» non hanno alcun significato<br />

sociale, «ma si premette che essi non dovrebbero averne alcuno» ( 45 ).<br />

L’intervento etico-politico sul problema della discriminazione<br />

deve concretizzarsi nella tutela delle minoranze. Tale questione è affrontata<br />

dalla Segreteria Generale delle Nazioni Unite in un secondo<br />

documento. Il principale punto che viene trattato riguarda l’analisi<br />

della «condizione di minoranza». Questa espressione viene riferita<br />

agli individui di un gruppo sociale che «hanno una comune origine<br />

etnica, condividono lingua, cultura o religione, e intendono mantenere<br />

o la loro esistenza come comunità nazionale o le loro particolari<br />

caratteristiche distintive» ( 46 ). I membri di una minoranza percepiscono<br />

il loro rapporto con il gruppo dominante secondo gradi diversi.<br />

L’intensità di questo rapporto è fondamentale per il problema<br />

dell’uguaglianza; problema che viene percepito dai gruppi minoritari<br />

in forme differenti a seconda della maggiore o minore assimilazione<br />

al gruppo maggioritario. Il documento distingue le minoranze in<br />

due tipi fondamentali. Il primo si riferisce alle «minoranze i cui<br />

membri desiderano l’uguaglianza nei confronti dei gruppi dominanti<br />

nel senso della sola non discriminazione» ( 47 ). Questo è il caso dei<br />

gruppi minoritari che tendono ad essere assimilati dal gruppo dominante<br />

e che limitano le loro aspirazioni a una condizione di «uguaglianza<br />

formale». Il secondo tipo, invece, si riferisce a quelle catego-<br />

( 43 )A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 456.<br />

( 44 ) Ibid.<br />

( 45 ) Ibid.<br />

( 46 ) Cfr. The Main Types and Causes of Discrimination, cit., § 45.<br />

( 47 ) Ivi, § 5.


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

rie di gruppi che «sentono che anche la piena realizzazione del principio<br />

della non discriminazione non li porrebbe in una posizione di<br />

reale uguaglianza – ma solo di uguaglianza formale – rispetto al<br />

gruppo dominante» ( 48 ). Gli individui del gruppo in questione percepiscono<br />

il rapporto con il gruppo maggioritario in senso negativo<br />

e per questo motivo tendono a richiedere il riconoscimento di particolari<br />

diritti che garantiscano l’integrità della loro specifica identità<br />

culturale:<br />

253<br />

«Se […] i membri di un gruppo minoritario – scrive Schütz – sentono che<br />

le regole imposte dal gruppo predominante impediscono loro di conservare<br />

le loro particolari caratteristiche distintive, o non consentono lo sviluppo<br />

delle loro aspirazioni per il futuro, il rapporto di tale gruppo con quello<br />

predominante tende a diventare sempre più difficile» ( 49 ).<br />

La distinzione delle minoranze in tipi e categorie è utile per affrontare<br />

il problema della discriminazione in modo razionale. Differenti,<br />

infatti, devono essere gli interventi da attuare nei confronti dei<br />

gruppi che mostrano una tendenza alla assimilazione rispetto a quelli<br />

che invece interpretano le «regole» imposte dal gruppo dominante<br />

nei termini di «minaccia» e «segregazione». Schütz, tuttavia, sostiene<br />

che il problema non può essere affrontato con la sola distinzione<br />

delle minoranze in tipi e categorie, ma occorre soprattutto rivolgere<br />

l’attenzione al «punto di vista» del gruppo che si trova in una situazione<br />

di «superiorità» e maggioranza. Va tenuto in considerazione,<br />

infatti, che il problema dell’uguaglianza fra gruppi minoritari e<br />

gruppi predominanti viene interpretato in forme diverse a seconda<br />

del «punto di vista» che viene assunto dall’uno o dall’altro gruppo.<br />

Quello che si trova in una condizione di superiorità tende a interpretare<br />

la nozione di uguaglianza col significato di «uguaglianza formale<br />

da concedere», nel senso, cioè, politico e giuridico: «esso – scrive<br />

Schütz – può opporsi duramente a ogni richiesta di diritti particolari»<br />

( 50 ). Il gruppo di minoranza, invece, interpreta l’«uguaglianza»<br />

nel senso della «concessione di speciali diritti quali l’uso delle loro<br />

lingue nazionali nelle scuole o nelle corti di giustizia» ( 51 ). L’atteg-<br />

( 48 ) Ibid.<br />

( 49 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 458.<br />

( 50 ) Ivi, p. 461.<br />

( 51 ) Ibid.


254<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

giamento del primo gruppo, osserva Schütz, è caratteristico del<br />

«pensiero conservatore», il secondo, invece, di quello «rivoluzionario»<br />

( 52 ). L’atteggiamento conservatore tende a realizzare il suo progetto<br />

di uguaglianza all’interno dell’ordine sociale precostituito,<br />

quello rivoluzionario, invece, attraverso la sua abolizione. Schütz riprende<br />

questa distinzione dalla filosofia sociale di George Simmel:<br />

«[…] come dice Simmel, vi è una differenza caratteristica a seconda che questo<br />

tentativo di raggiungere i valori ambiti sia da realizzare attraverso l’abolizione<br />

di ciò che egli chiama la «forma sociologica» (e che noi chiameremmo<br />

il sistema prevalente di attribuzioni di importanza e il loro ordine) o che esso<br />

sia da realizzare entro tale forma, che pertanto è mantenuta. […] Coloro che<br />

si trovano nella posizione privilegiata interpreteranno l’uguaglianza da concedere<br />

nei termini del primo, mentre coloro che mirano a ottenere l’uguaglianza<br />

la interpretano di frequente nei termini del secondo» ( 53 ).<br />

Come emerge dall’analisi di Albert Salomon, la società contemporanea<br />

tende a «diventare sempre più progressista per rimanere<br />

conservatrice» ( 54 ). Secondo Schütz, ciò significa che il crescente fenomeno<br />

della concessione dell’«uguaglianza formale» deve essere interpetato<br />

nei termini di un «tentativo riformista» che il gruppo dominante<br />

intende realizzare all’interno di un sistema sociale precostituito<br />

( 55 ). In questo modo, sostiene Salomon, i gruppi maggioritari<br />

possono limitare le tensioni che mirano all’abolizione dei loro sistemi<br />

sociali:<br />

«Lo specifico postulato della nostra scena contemporanea – scrive Salomon<br />

– consiste nell’essere progressisti per rimanere conservatori. Ci possiamo<br />

assicurare la continuità dei nostri mondi sociali e intellettuali come riformisti<br />

conservatori» ( 56 ).<br />

( 52 ) Ibid.<br />

( 53 ) Ivi, pp. 460, 461. Schütz si riferisce a: G. SIMMEL, Soziologie, Untersuchungen<br />

über die Formem der Vergesellschaftung, Leipzig 1922, p. 275.<br />

( 54 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 461.<br />

( 55 ) La concessione dell’uguaglianza in un senso solamente “formale” trova una<br />

spiegazione nei caratteri peculiari della società del Ventesimo secolo; una società –<br />

come ha osservato Stanford Lyman – «profondamente caratterizzata dalla crescente<br />

sfiducia nei confronti dell’Altro. […] ciò che Schutz definisce una crisi del Lebenswelt».<br />

Cfr. S.M. LYMAN, Animal faith, Puritanism, and the Schutz-Gurwitsch debate:<br />

A commentary, Human Studies, 14, 1991, pp. 199-206, pp. 202, 204.<br />

( 56 ) Cfr. A. SALOMON, The Tyranny of Progress, New York 1931, p. 122.


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

Il principale tipo di uguaglianza formale che il gruppo dominante<br />

tende a concedere è quello delle «uguali possibilità». Con questa categoria<br />

la società industriale stabilisce le differenze dell’ordine sociale<br />

secondo criteri di merito individuale e non su quelli che, in passato,<br />

erano fondati su «favoritismi politici e sociali». Questa concezione,<br />

secondo Schütz, è espressa nell’analisi di R.H. Tawney, in cui<br />

emerge una proposta di «riconciliazione» fra l’atteggiamento conservatore<br />

è quello rivoluzionario:<br />

255<br />

«Le disuguaglianze della società industriale – scrive Tawney – dovevano essere<br />

apprezzate, perché espressione del successo o dell’insuccesso individuali.<br />

Era così possibile detestare le disuguaglianze del diciottesimo secolo e<br />

applaudire alle disuguaglianze del diciannovesimo secolo. La distinzione<br />

tra di esse era che le prime avevano la loro origine nelle istituzioni sociali, e<br />

le seconde nei caratteri personali […] La carrière ouverte aux talents era la<br />

formula di riconciliazione (tra rivoluzionari e conservatori) che aveva rovesciato<br />

il sistema di classe del vecchio regime in Francia e fornito un soddisfacente<br />

titolo morale al sistema di classe che gli era succeduto» ( 57 ).<br />

Le considerazioni di Tawney si basano sulla Dichiarazione Francese<br />

dei Diritti dell’Uomo (1789), in cui si afferma che «Tutti sono ugualmente<br />

eleggibili a tutti gli onori, le posizioni e gli impieghi, secondo le<br />

loro diverse capacità senz’altra distinzione che quella creata dalla loro<br />

virtù e dai loro talenti» ( 58 ). Schütz sostiene che questa concezione interpreti<br />

il significato di «uguali possibilità» solo nel senso oggettivo.<br />

Come ha osservato M. Longo, «la garanzia dell’uguaglianza formale, da<br />

un punto di vista oggettivo sembra il punto d’arrivo del processo di<br />

delimitazione delle differenze» ( 59 ). Il limite di questa interpretazione si<br />

riscontra sul piano della realizzazione pratica. Come ha osservato Simmel,<br />

non è possibile realizzare una condizione di uguaglianza in cui<br />

ogni carica sia ricoperta da individui ugualmente competenti e qualificati.<br />

In ogni ordine sociale, secondo Simmel, esiste un certo numero di<br />

qualifiche che è in rapporto inversamente proporzionale con le posizioni<br />

«disponibili». Il mondo sociale, pertanto, ha necessariamente una struttura<br />

gerarchica non commisurata ai diversi gradi di competenza:<br />

( 57 ) Cfr. R.H. TAWNEY, Equality, New York 1931, p. 122. Cfr. anche la trad.<br />

it.: Eguaglianza, in Opere, a cura di F. Ferrarotti, UTET, Torino 1975, p. 626.<br />

( 58 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 463.<br />

( 59 ) Cfr. M. LONGO, La dimensione relazionale dell’uguaglianza. Un commento<br />

ad Alfred Schütz, cit., p. 178.


256<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

«[...] la nozione di uguali possibilità nel senso oggettivo, cioè di esatta corrispondenza<br />

delle qualifiche più alte per ogni determinata posizione – scrive<br />

Schütz – è impossibile; e anche qui è stato Simmel a mettere in luce<br />

questo punto. “Ogni ordine sociale, dice Simmel, richiede una gerarchia di<br />

superiorità e di subordinazione di posizioni, anche solo per motivi tecnici.<br />

Vi sono, tuttavia, sempre più persone qualificate per le posizioni superiori<br />

che non posizioni superiori. Un buon numero di operai di fabbrica potrebbero<br />

fare altrettanto bene gli imprenditori o almeno i capifabbrica; una<br />

gran quantità di soldati comuni ha qualifiche di ufficiali; vi sono molte più<br />

persone qualificate al comando che non capi di cui si ha bisogno. Il postulato<br />

secondo cui ogni talento si sviluppa liberamente, cioè trova la posizione<br />

commisurata a esso, è reso vano dalla incommensurabilità tra la quantità<br />

di competenze disponibili e il loro uso”» ( 60 ).<br />

Le considerazioni di Simmel mostrano che gli ordini di classificazione<br />

non possono assumere un significato universale. I criteri di<br />

merito, infatti, sono condizionati dalla particolare struttura di ogni<br />

sistema sociale: «Aristotele – scrive Schütz – aveva già affermato che<br />

il concetto di «merito» è diverso in ogni singola società» ( 61 ). Per evitare<br />

una condizione di «uguaglianza relativa», Schütz sostiene che le<br />

istituzioni devono riferire i precetti etico-politici al singolo individuo.<br />

Esse devono tenere in considerazione che il significato oggettivo<br />

di «uguali possibilità» non corrisponde a quello soggettivo. Come<br />

è stato osservato, Schütz propone di frequente la distinzione fra «significato<br />

oggettivo» e «significato soggettivo»:<br />

«[…] il “significato” è soggettivo – scrive Lester Embree – quando esso è il<br />

“significato” di un’azione, di una relazione o di una situazione per l’attore e<br />

oggettivo quando esso è il “significato” di un’azione, di una relazione o di<br />

una situazione per qualcun altro che è esterno rispetto all’attore» ( 62 ).<br />

( 60 ) Cfr. G. SIMMEL, Soziologie, Untersuchungen über die Formem der Vergesellschaftung,<br />

cit., p. 76.<br />

( 61 ) Schütz, al proposito, riporta un’affermazione di Aristotele: «Il merito –<br />

scrive Aristotele – è tuttavia stimato diversamente in stati diversi; nella democrazia<br />

la libertà costituisce il principio fondamentale e tutti gli uomini liberi sono considerati<br />

uguali; nell’oligarchia il principio fondamentale è la ricchezza o la nobiltà<br />

per nascita; nell’aristocrazia la virtù». Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, trad. it. di<br />

C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000, 1131 a 25 - 1131 a 29, pp. 195-197.<br />

( 62 ) Cfr. L. EMBREE, Notes on the Specification of ‘Meaning’ in Schutz, Human<br />

Studies, 14, 1991, pp. 207-218, p. 209.


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

Se riportiamo questa distinzione nell’ambito specifico del problema<br />

in questione, osserviamo che il «significato oggettivo» di pari opportunità<br />

è differente da quello soggettivo. Il primo esprime il diritto di tutti<br />

gli individui di pari qualifica e competenza ad essere eletti a ricoprire<br />

le stesse cariche. Il secondo, invece, mostra che questo diritto non è<br />

esperito in modo universale. Ogni individuo interpreta il diritto di<br />

«uguali possibilità» in modo differente a seconda del particolare significato<br />

che attribuisce alla «opportunità di autorealizzazione che gli si<br />

presenta dinanzi e che egli può scegliere – scrive Schütz – un’opportunità<br />

offertagli, una probabilità di raggiungere le sue mète nei termini della<br />

definizione personale della sua situazione nel gruppo» ( 63 ). L’individuo<br />

definisce la propria situazione nei termini dei «ruoli sociali» che<br />

sono stati imposti dal gruppo di appartenenza. Essi sono percepiti soggettivamente<br />

come un insieme di «ordini di attribuzione di importanza»<br />

che appartengono alle «scelte private» di una personalità autonoma:<br />

257<br />

«[…] nella definizione della propria situazione privata da parte dell’individuo –<br />

scrive Schütz – i vari ruoli sociali che hanno origine nelle sue molteplici partecipazioni<br />

a numerosi gruppi sono percepiti come un insieme di autotipizzazioni<br />

le quali a loro volta si organizzano in un particolare ordine privato di attribuzioni<br />

di importanza che è, naturalmente, in continuo movimento» ( 64 ).<br />

Schütz si chiede come possa l’individuo definire la propria «situazione<br />

privata» all’interno di un sistema di «tipizzazioni» e di «attribuzioni<br />

di importanza» socialmente imposto. La sua proposta è che<br />

l’individuo deve interiorizzare il modello istituzionalizzato per realizzare<br />

autonomamente i propri interessi personali. Ciò è possibile attraverso<br />

l’assunzione di un atteggiamento riflessivo che interpreti<br />

soggettivamente il significato oggettivo del sistema di ruoli definito<br />

dal gruppo sociale:<br />

«È qui presente un problema di grandissima rilevanza. Come fa il singolo<br />

membro di un gruppo – scrive Schütz – a definire la sua situazione privata<br />

entro la struttura di […] tipizzazioni e attribuzioni di importanza comuni<br />

nei termini delle quali il gruppo definisce la sua situazione? [...] l’individuo<br />

deve definire la sua situazione personale unica servendosi del modello istituzionalizzato<br />

per la realizzazione dei suoi particolari interessi personali.<br />

Ne costituisce un corollario il particolare atteggiamento che l’individuo<br />

( 63 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 464.<br />

( 64 ) Ivi, p. 447.


258<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

sceglie di adottare nei confronti del ruolo sociale che egli deve esercitare<br />

entro il gruppo. una cosa è il significato oggettivo del ruolo sociale e dell’aspettativa<br />

di ruolo così come sono definiti dal modello istituzionalizzato<br />

(diciamo l’ufficio della Presidenza degli Stati Uniti), altra cosa è il particolare<br />

modo soggettivo in cui la persona a cui tocca questo ruolo definisce la sua situazione<br />

in esso (l’interpretazione della loro missione da parte di Roosevelt,<br />

Truman, Eisenhover» ( 65 ).<br />

L’individuo non esperisce se stesso come «una persona eleggibile a<br />

un determinato ruolo sociale» ( 66 ), ma come una persona che valuta<br />

soggettivamente le possibilità oggettive che gli vengono concesse.<br />

Questa concezione mostra non poche divergenze con la teoria sociale<br />

di Talcott Parsons, che identifica interamente l’individuo con il «ruolo»<br />

che gli viene attribuito dal gruppo sociale. Egli, cioè, teorizza la<br />

concezione di un soggetto «istituzionalizzato» privo di libertà di scelta:<br />

«Il ruolo – scrive Parsons – è un settore del sistema totale di azione dell’attore<br />

individuale. Esso costituisce il punto di contatto tra il sistema di azione dell’attore<br />

individuale e il sistema sociale. L’individuo diventa allora un’unità nel senso<br />

che è composto di varie unità di azione che a loro volta sono ruoli nei rapporti<br />

in cui egli è inserito. […] Ciò che sia l’attore stesso sia gli altri si attendono<br />

che egli faccia in una determinata situazione costituisce le aspettative di tale<br />

ruolo. […] In ogni situazione specifica si ha l’istituzionalizzazione quando ogni<br />

singolo attore fa in questa situazione, e crede di dover fare, quello che gli altri<br />

attori con cui entra in rapporto credono che egli debba fare» ( 67 ).<br />

Schütz sostiene che la concezione parsonsiana del «ruolo» non<br />

tiene in considerazione il problema della scelta personale. L’individuo,<br />

infatti, non esperisce la sua esistenza nel sistema sociale solo nei<br />

termini di «aspettative di ruolo» e di «istituzionalizzazione». Egli ha<br />

la possibilità di interpretare soggettivamente la propria situazione e<br />

di scegliere liberamente quale specifico ruolo vuole ricoprire ( 68 ). La<br />

( 65 ) Ivi, pp. 446-447.<br />

( 66 ) Ivi, p. 465.<br />

( 67 ) Cfr. T. PARSONS-E. SHILS, Toward a General Theory of Action, Cambridge<br />

– Massachusetts 1951, pp. 190-191, 194.<br />

( 68 ) Come ha osservato Luigi Muzzetto, anche Parsons sostiene che i fatti sociali,<br />

a differenza di quelli naturali, implichino il riferimento al «punto di vista<br />

soggettivo». Egli, tuttavia, considera le categorie soggettive solo come strumenti di<br />

analisi di un osservatore esterno. Schütz, invece, utilizza il «punto di vista sogget-


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

distinzione del «ruolo» fra significato oggettivo e soggettivo implica<br />

conseguenze di non secondaria importanza con riguardo al problema<br />

delle «uguali possibilità»:<br />

259<br />

«Non è questa la sede – scrive Schütz – per intraprendere una discussione<br />

critica di alcune nozioni usate nello schema concettuale di Parsons […]. Sarà<br />

tuttavia utile ricordare che […] l’attore individuale sulla scena sociale fa<br />

esperienza in termini completamente diversi. […] L’uomo entro certi limiti<br />

tipizza la sua stessa situazione nel mondo sociale e i vari rapporti che egli ha<br />

con i suoi compagni e con gli oggetti culturali. […] Si può vedere subito che<br />

possibilità che sono uguali dal punto di vista oggettivo possono, e in senso<br />

stretto devono, essere disuguali nei termini delle opportunità soggettive dell’individuo<br />

particolare e viceversa. [...] Quindi anche se avesse senso presumere<br />

che uguali opportunità soggettive corrispondano a possibilità oggettivamente<br />

uguali, l’essere umano individuale valuterebbe tali opportunità nei<br />

termini delle sue personali speranze, ansie e passioni che sono solo sue» ( 69 ).<br />

Da queste considerazioni emerge che le «uguali opportunità» possono<br />

assumere il significato di «disuguaglianza» di fronte alle concrete<br />

scelte individuali: «come abbiamo appreso da Platone – scrive<br />

Schütz – […] ai disuguali gli uguali diventano disuguali» ( 70 ). Al<br />

proposito, scrive Pina Lalli:<br />

tivo» per comprendere ciò che «realmente» un individuo esperisce: «Anche Parsons<br />

– scrive Muzzetto – ritiene che una teoria dell’azione implichi l’assunzione<br />

del punto di vista soggettivo. […] l’analisi dei fatti sociali, condotta nei termini<br />

della teoria dell’azione, implica l’impiego di categorie soggettive quali fini, sentimenti,<br />

credenze, scopi ecc. riferiti a uno o più attori che rappresentano l’unità del<br />

sistema di analisi. […] il sistema dell’azione è costituito dal punto di vista soggettivo,<br />

perché organizza categorie soggettive. Ma si tratta comunque di un sistema<br />

costruito da un osservatore. […] Assumere il punto di vista soggettivo significa<br />

per Schütz […] tentare di cogliere ciò che un concreto reale attore ‘realmente<br />

esperisce’». Cfr. L. MUZZETTO, Fenomenologia, etnometodologia. Percorsi della teoria<br />

dell’azione, Franco Angeli, Milano 1997, pp. 253-254.<br />

( 69 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., pp. 425-426, 465. Come ha osservato Michael<br />

Barber, «[…] l’interpretazione di un atto passa attraverso un flusso di coscienza<br />

che distingue radicalmente l’individuale dall’altro. Di conseguenza, sussiste<br />

una inevitabile discrepanza tra i significati interpretati dall’individuo e quelli<br />

interpretati dall’altro». Cfr. M. BARBER, Alfred Schutz’s Methodology and the Paradox<br />

of the Sociology of Knowledge, Philosophy Today, 30, 1986, pp. 58-65, p. 63<br />

( 70 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 465. Schütz riporta un’affermazione di<br />

Platone: «Agli inuguali gli uguali diventano inuguali se essi non sono resi armonici<br />

dalla misura». Cfr. PLATONE, Leggi, a cura di A. Zadro, Laterza, Bari 1952, VI,<br />

757 A, p. 160.


260<br />

GIAN LUCA SANNA<br />

«I vincoli imposti dal suo interesse pratico immediato – scrive Lalli – da<br />

cui non sempre è agevole ed efficace “emanciparsi” – oppure quelli derivanti<br />

dalla distribuzione diseguale di risorse e opportunità concrete (culturali,<br />

economiche, di diversa e minore o maggiore accessibilità e fruibilità<br />

dei canali d’informazione, di reti di relazione ristrette o allargate, eccetera)<br />

sicuramente si impongono all’individuo e gli lasciano margini e occasioni<br />

di “scelta” differenziati. Il ricorso “imposto” alla routinizzazione non è<br />

uguale in tutti gli ambiti del mondo sociale né lo è per tutti gli individui o<br />

per tutti i loro ruoli» ( 71 ).<br />

Le istituzioni devono riferire i loro precetti etico-politici alla «sfera<br />

privata» della personalità individuale. L’individuo, cioè, non deve<br />

essere identificato solamente con il gruppo sociale a cui appartiene o<br />

con il ruolo che ricopre, ma deve essere considerato nella sua «personalità<br />

unica e incomunicabile»: «ciò che ogni personalità è realmente<br />

– scrive Schütz – rimane al di fuori dell’area comune. [...] È così in<br />

quanto ciò che rende una personalità unica è proprio quanto non<br />

può essere condiviso con altri» ( 72 ). L’identificazione totale dell’individuo<br />

con il gruppo di appartenenza può comportare la possibilità<br />

di una condizione personale caratterizzata da «segregazione» e «oppressione».<br />

Occorre tenere in considerazione che i tratti della personalità<br />

che l’individuo ritiene della massima rilevanza nel suo ambito<br />

privato possono essere in conflitto con gli ordini di «attribuzione di<br />

importanza» approvati dal gruppo sociale a cui egli appartiene:<br />

«È possibile – scrive Schütz – che proprio quei tratti della personalità dell’individuo<br />

che sono per lui della massima rilevanza siano irrilevanti dal<br />

punto di vista di qualsiasi sistema di attribuzioni di importanza dato per<br />

scontato dal gruppo di cui egli è membro. Ciò può condurre a conflitti all’interno<br />

della personalità che hanno prevalentemente origine nello sforzo<br />

di vivere le varie e spesso incoerenti aspettative di ruolo intrinseche all’appartenenza<br />

dell’individuo a vari gruppi sociali» ( 73 ).<br />

Da queste osservazioni emerge la proposta schütziana diretta ad<br />

affrontare il problema delle «uguali possibilità» sulla base del criterio<br />

della libera scelta soggettiva. Sebbene il «punto di vista soggettivo»<br />

( 71 ) Cfr. P. LALLI, Le arene comunicative del senso comune, ovvero “il cittadino<br />

meta-informato”, in M. PROTTI (a cura di), QuotidianaMente, cit., 205.<br />

( 72 ) A. SCHUTZ, L’uguaglianza, cit., p. 447.<br />

( 73 ) Ibid.


Il problema dell’uguaglianza in Alfred Schütz: il criterio della “libera scelta soggettiva”<br />

non possa costituire di per sé un principio universale di uguaglianza,<br />

esso è tuttavia da considerare come criterio applicativo sul quale è<br />

possibile costituire un principio di tale natura. Su questa base le istituzioni<br />

devono regolare concretamente le loro strategie di intervento<br />

in merito al problema della discriminazione e a quello della tutela<br />

delle minoranze. L’intervento politico, infatti, assume valore etico<br />

solo se all’individuo viene riconosciuta la libertà di scegliere a quale<br />

gruppo vuole appartenere e con quale ruolo egli intende «definire la<br />

propria situazione» all’interno di esso: «Tale libertà – scrive Schütz –<br />

costituisce probabilmente il significato più profondo dell’inalienabile<br />

diritto a perseguire la felicità» ( 74 ).<br />

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MARIA PIA LAI GUAITA, LAURA LEPORI ( *), MICHELA PIRAS (*)<br />

LE POLITICHE PER LA FAMIGLIA<br />

E LE PROPOSTE LEGISLATIVE DEI “NI<strong>DI</strong>”<br />

SOMMARIO: 1. Il micro-nido: significati psicologici e sociali. – 2. I mutamenti della<br />

famiglia. – 3. Le politiche per la famiglia. – 4. I provvedimenti legislativi.<br />

1. Il micro-nido: significati psicologici e sociali. – La consapevolezza<br />

dell’incidenza del rapporto genitore-figlio nella costruzione dell’identità<br />

individuale, ha portato, nel tempo e con vari tentativi, a risposte<br />

statali e private per la facilitazione di tale rapporto e delle sue<br />

modalità sin dai primi tempi della vita. Il micro-nido è una di tali risposte,<br />

sempre più diffusa nell’attuale realtà sociale. Con questa definizione<br />

si indicano quelle strutture inserite nei luoghi di lavoro<br />

delle madri e dei padri e organizzate per l’accoglienza dei loro figli<br />

neonati e per l’assistenza durante l’impegno lavorativo quotidiano.<br />

Le principali finalità di essi possono essere indicate in:<br />

– agevolazione della ripresa genitoriale del lavoro dopo l’evento<br />

nascita, con un significato palese di utilità sociale;<br />

– protezione vigile e specifica dei bisogni somato-psicologici del<br />

neonato, e contemporaneamente risposta alle ansie genitoriale<br />

nelle prime fasi di vita dei propri figli.<br />

Una personale interpretazione porta alla visione di questa struttura<br />

quale possibile fondamenta per un rapporto più partecipato tra<br />

generazioni e agevolazione di un maggiore “attaccamento” reciproco.<br />

Premesse queste importanti per la difesa di una politica familiare<br />

poggiante non solo sulla “qualità” dello stare insieme ma anche sulla<br />

sua “quantità”: è anche attraverso quest’ultima che riteniamo potersi<br />

( *) Laura Lepori, dottoressa in Scienze dell’Educazione, ha avuto il ruolo di<br />

Tutor nella Facoltà di Lettere e Filosofia nell’a.a. 2002-2003.<br />

( *) Michela Piras, dottoressa in Psicologia, ha svolto il tirocinio annuale post<br />

lauream presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dove, nell’a.a. 2002-2003 ha ricoperto<br />

il ruolo di Tutor.


266<br />

M. PIA LAI GUAITA, LAURA LEPORI, MICHELA PIRAS<br />

costruire la conoscenza profonda tra i membri e le positive dinamiche<br />

affettive che in linea generale li dovrebbero unire.<br />

Il lavoro extracasalingo sempre più diffuso anche tra le donne,<br />

porta come conseguenza, in un’alta percentuale di casi, ad un calo<br />

della “quantità”, oggi chiaramente osservabile, con conseguenze evidenti<br />

sulla qualità.<br />

GRAFICO N. 1<br />

Tasso di occupazione femminile<br />

in Italia per classi d’età lavorative<br />

1998/2002<br />

49,7 %<br />

55,2 %<br />

47,8 %<br />

25-34 ANNI 35-54 ANNI<br />

53,4 %<br />

1998<br />

2002<br />

Fonte: Istat, Rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro<br />

GRAFICO N. 2<br />

Tasso di occupazione maschile<br />

in Italia per classi d’età lavorative<br />

1998/2002<br />

Un’indagine ISTAT e CNEL, su cinquantamila donne diventate<br />

madri tra il secondo semestre del 2000 ed il primo del 2001, ha indicato<br />

che il venti per cento di esse sono rimaste a casa, sette per forza maggiore<br />

in quanto licenziate, ma le altre, il 60 per cento, hanno sentito la necessità<br />

personale di un prolungamento della vicinanza col figlio. A convalidare<br />

questa esigenza psicologica, sta anche il dato della ricerca che la<br />

motivazione per la ripresa del lavoro è, si può dire, frustrante in quanto<br />

indicata prevalentemente per “esigenze economiche”: il dato oscilla tra<br />

il 53,6 per cento del Nord ed il 46,6 per cento del Mezzogiorno. Tale<br />

bisogno psicologico alla vicinanza, dal punto di vista sociale, può essere<br />

rinforzo per la ricostruzione di un clima familiare, oggi in crisi, anche<br />

per l’eccessiva assenza genitoriale sul piano fisico innanzitutto, che nel<br />

tempo rischia di trasformarsi in lontananza psicologica; ossia non conoscenza<br />

tra generazioni e carenza costruttiva di legami significativi.<br />

Oggi il parto si può dire che rappresenta, per la maggioranza delle<br />

madri e dei padri, solo la conoscenza diretta del proprio figlio in<br />

quanto, se nel passato il nascituro nel grembo materno era “il feto”<br />

privo di connotazioni specifiche, oggi grazie agli sviluppi della scienza<br />

psicologica prenatale supportata da una tecnologia avanzata, il legame<br />

col nascituro è precoce e, in genere, emotivamente, specificamente rivolto<br />

a “quel” bambino. Un legame che dopo il taglio del cordone<br />

77 %<br />

79,5 %<br />

87,9 %<br />

25-34 ANNI 35-54 ANNI<br />

89,4 %<br />

1998<br />

2002


Le politiche per la famiglia e le proposte legislative dei “nidi”<br />

ombelicale propriamente detto subisce un altro taglio (temuto), questa<br />

volta metaforico, nel momento della ripresa del lavoro della madre<br />

e, pertanto, del primo grande distacco dopo la nascita.<br />

Questo viene, in genere, vissuto con un coinvolgimento emotivo<br />

profondo quasi doloroso dalla donna, accompagnato da elevata emotività<br />

e preoccupazione del giovane padre contemporaneo del quale, è<br />

notoria, la maggiore partecipazione, rispetto al passato, alla gestione<br />

delle pratiche neonatali di allevamento. Una partecipazione che si evidenzia<br />

nei primi tempi della paternità, quali quelli a cui abbiamo accennato,<br />

per poi magari affievolirsi soppiantata dal ritmo lavorativo<br />

sempre più coinvolgente e che finisce in breve tempo per non solo far<br />

superare questo secondo taglio ombelicale, ma per rendere esiguo il<br />

tempo da dedicare alla costruzione del rapporto con il figlio. Un fenomeno<br />

che si riscontra anche a livello femminile in altissima percentuale<br />

per l’assorbimento totalizzante nella sfera lavorativa.<br />

Impegnati studi italiani sulla famiglia (Università Cattolica di Milano,<br />

Pietro Polli Charmet, ecc.) ed esteri (F. walsh), evidenziano<br />

l’importanza individuale e sociale, della costruzione precoce e costante<br />

nel tempo del rapporto genitori e figli, e quanto nell’oggi esso venga<br />

meno, soppiantato dal prevalere dell’extra familiare. Una carenza che<br />

in famiglia si tenta di colmare con un’eccedenza di offerta di beni materiali<br />

e di consumo che tacitano certi sensi di colpa genitoriali, ma finiscono<br />

per dare al giovane una visione effimera della vita, con conseguente<br />

fragilità nell’affrontare le inevitabili frustrazioni esistenziali.<br />

La politica per la famiglia con la proposta del micro-nido, ossia<br />

dell’organizzazione di spazi nell’ambito lavorativo per accogliere i<br />

piccolissimi, potrebbe essere colta come possibilità di primo evitamento<br />

del distacco precoce dalle figure genitoriali e di agevolazione<br />

della costruzione di un dialogo tra generazioni da proseguire nelle<br />

successive fasi di crescita mediante altre esperienze. Metaforicamente<br />

il rapporto genitori figli può essere paragonato al filo di lana prodotto<br />

col fuso col suo ruotare continuo grazie al movimento impresso<br />

dalla mano di chi lo tiene, e che non deve fermarsi, pena la negativa<br />

disformità del prodotto o, addirittura, la sua rottura. La metafora<br />

vuole indicare l’importanza basilare per l’individuo, ma anche per la<br />

società, dello sforzo genitoriale continuo di dialogo con la nuova generazione.<br />

Dialogo da intendersi come vicinanza emozionale, che<br />

comprenda tra, l’altro, l’intuizione dei bisogni specialmente psicologici<br />

e lo sviluppo del senso di responsabilizzazione mediante gli stimoli<br />

per la partecipazione corale alla vita della famiglia.<br />

L’esperienza, tanto sostenuta mediante la legge e la politica, del<br />

micro-nido è una prima parte di questo “filo”: un sostegno per la ripresa<br />

collettiva di un clima familiare che oggi va affievolendosi. Un<br />

267


268<br />

M. PIA LAI GUAITA, LAURA LEPORI, MICHELA PIRAS<br />

incentivo base per proseguire con la stessa consapevolezza e presenza<br />

il rapporto con il figlio nelle fasi successive di crescita.<br />

Pertanto a tale istituzione può essere ribadito il significato di parte<br />

di un progetto riformativo della Politica per la Famiglia per l’agevolazione<br />

dello sviluppo delle relazioni familiari poggiante sulla qualità<br />

ma anche sulla quantità del tempo vissuto insieme.<br />

2. I mutamenti della famiglia. – Secondo Eugenia Scabini, studiosa<br />

della psicologia sociale della famiglia, è a partire dal 1965 che la<br />

fisiologia del nucleo famigliare (formazione, organizzazione, conclusione)<br />

ha subito eclatanti mutamenti. La diminuzione della nuzialità<br />

è stata accompagnata da altri importanti cambiamenti: l’età al matrimonio<br />

si è elevata, è aumentato il numero delle persone celibi o nubili,<br />

è cresciuta la percentuale delle così dette “famiglie di fatto” e<br />

così pure l’instabilità coniugale. Sono infatti sempre più frequenti le<br />

separazioni ed i conseguenti divorzi (Barbagli, Saraceno; 1997).<br />

Importanti mutamenti vi sono stati, in particolare, nel comportamento<br />

riproduttivo che ha portato ad una forte riduzione del tasso di<br />

natalità come è emerso in una ricerca condotta dall’ISTAT sul Servizio<br />

“Popolazione, istruzione, cultura”(Grafico n. 3). Infatti, se nel<br />

ventennio successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale si registrò<br />

un alto tasso di natalità, dopo il 1965 esso ha ripreso a diminuire,<br />

scendendo al di sotto della soglia critica di 2,1 figli per donna, anche<br />

se tale soglia viene considerata di grande significatività perché assicura<br />

l’equilibrio tra nascite e morti (Barbagli, Saraceno; 1997).<br />

1800<br />

1200<br />

GRAFICO N. 3<br />

Tasso di fecondità totale per 1000 donne<br />

tra i 15 ed i 49 anni in Italia – 1984-1996 / 1999-2000<br />

600<br />

1984<br />

1985<br />

1986<br />

1987<br />

1988<br />

1989<br />

1990<br />

1991<br />

1992<br />

1993<br />

1994<br />

1995<br />

1996<br />

1999<br />

2000<br />

0<br />

Fonte: Istat – Servizio “Popolazione, istruzione e cultura”


Le politiche per la famiglia e le proposte legislative dei “nidi”<br />

L’Italia, in particolare, rispetto a tutti i paesi occidentali è quello<br />

che si contraddistingue per il più basso numero di figli per donna;<br />

fenomeno che ha determinato il passaggio da una struttura familiare<br />

allargata (famiglia estesa tradizionale) a una struttura familiare nucleare,<br />

indicata come “famiglia moderna” (Scabini, 1995).<br />

Studiosi, psicologi, sociologi, demografi, storici ed economisti, hanno<br />

fornito varie spiegazioni ai mutamenti avvenuti nel mondo familiare.<br />

Tra queste hanno assunto particolare significatività l’interpretazione<br />

culturale e valoriale, e quella economica. Barbagli (1997) attribuisce la<br />

nascita della famiglia moderna al lento cambiamento degli orientamenti<br />

culturali e valoriali da parte della popolazione, dell’inizio del XVIII<br />

secolo. Nel tempo si è assistito al fenomeno dell’abbandono del “matrimonio<br />

per concordanza” (progettato dai genitori per motivi d’interesse<br />

economico) ed all’aumento del “matrimonio d’amore” (liberamente<br />

scelto sulla base dell’attrazione fisica, del così detto “amore” e del desiderio<br />

di stare insieme), basato sui principi dell’individualismo affettivo,<br />

della ricerca del piacere personale, sessuale ed emotivo. Tali principi,<br />

secondo Denis de Rougemont (Barbagli, Saraceno; 1997), rendono il<br />

nuovo nucleo familiare particolarmente fragile, in quanto con il tempo<br />

i sentimenti possono affievolirsi ed aprirsi alla ricerca di altre emozioni.<br />

Ancora Barbagli e Saraceno attribuiscono la nascita della famiglia nucleare<br />

al crescente rilievo assunto dal lavoro extrafamiliare della donna.<br />

La sempre maggiore diffusione del lavoro femminile extracasalingo ha<br />

certamente sfumato la suddivisione dei ruoli e dei compiti della coppia<br />

che attribuiva all’uomo l’attività esterna sociale e alla donna il carico<br />

della politica familiare, comprendente la cura dei figli e della casa.<br />

L’aumento del tasso di produttività femminile ha determinato cambiamenti<br />

significativi sul concetto stesso di matrimonio, sulla stessa scelta<br />

della maternità. Un numero crescente di donne, per esempio, rimanda<br />

il momento della nascita del primo figlio, mentre l’allevamento e l’educazione<br />

dei figli ha subito notevoli mutazioni rispetto ad un passato<br />

anche relativamente recente. L’occupazione lavorativa di entrambi i<br />

genitori ha comportato la delega sempre maggiore alle istituzioni delle<br />

prime tecniche di accudimento e di socializzazione; si è verificato così<br />

un profondo cambiamento nella percezione sociale dell’infanzia stessa<br />

e nelle pratiche di allevamento del bambino che si tende ad inserire in<br />

contesti extrafamiliari sempre più precocemente (Inghilleri, 1998).<br />

Oggi in Italia le donne che lavorano fuori casa sono circa 8 milioni;<br />

da una ricerca ISTAT sulla rilevazione delle forze di lavoro, è<br />

emerso che il tasso di occupazione femminile dal 1998 al 2002 ha subito<br />

un notevole incremento (Grafici n. 1-2). Di fronte a queste cifre<br />

e ai problemi che ne conseguono non si può non pensare all’urgenza<br />

269


270<br />

M. PIA LAI GUAITA, LAURA LEPORI, MICHELA PIRAS<br />

di risposte adeguate e, pertanto, alla realizzazione di servizi sociali idonei:<br />

quali asili nido e i così detti “micro-nidi” dei luoghi di lavoro.<br />

3. Le politiche per la famiglia. – Lo Stato, riconoscendo la necessità<br />

dei suddetti interventi, attribuisce alla famiglia il ruolo di attore principale<br />

e la partecipazione attiva anche nella fase di definizione delle<br />

politiche che la riguardano, superando così l’approccio meramente assistenziale<br />

(www.welfare.gov.it). La promozione di tale ruolo attivo ha<br />

stimolato una politica sempre più sensibile verso questi bisogni collettivi,<br />

alla realizzazione e al completamento di quelli già intrapresi; tra<br />

questi spicca l’istituzione dell’Osservatorio Nazionale sulla Famiglia.<br />

Questo appare di grande utilità per il monitoraggio delle esigenze specifiche<br />

delle diverse aree del paese, per l’organizzazione di risposte mirate<br />

e realistiche. Fanno parte dell’Osservatorio, 25 comuni rappresentativi<br />

di tutte le Regioni italiane con l’obbiettivo di costituire una<br />

rete di conoscenze e di scambio di esperienze delle politiche nazionali,<br />

regionali e locali per la famiglia (www.welfare.gov.it).<br />

Nelle così dette politiche sociali per la famiglia sono compresi: a)<br />

il sostegno alla natalità, alla genitorialità ed alle giovani coppie; b) la<br />

riforma del regime fiscale; c) la promozione degli strumenti di conciliazione<br />

tra vita professionale e responsabilità familiari; d) lo sviluppo<br />

di servizi diversificati e dislocati sul territorio, quelli per la<br />

prima infanzia, ossia asili nido e micro-nidi.<br />

Scopo primario di tali politiche sociali è quello di dare, finalmente,<br />

piena attuazione ai contenuti della Costituzione, attraverso i quali la<br />

Repubblica Italiana riconosce il diritto al lavoro (ART. 1 “L’Italia è<br />

una Repubblica democratica fondata sul lavoro”) ed il diritto alla famiglia<br />

(ART. 29 “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società<br />

naturale fondata sul matrimonio”). L’integrazione di questi fondamentali<br />

diritti è sancita dagli Art. 31 e 37 della stessa, dai quali si<br />

evince che “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento delle<br />

funzioni familiari e garantire la tutela della maternità e della paternità”<br />

(Costituzione della Repubblica Italiana, 1948).<br />

L’istituzione dei servizi della prima infanzia, come gli asili nido<br />

ed i micro-nidi nei luoghi di lavoro, sono una prima risposta all’esigenza<br />

della tutela di tali diritti.<br />

I primi asili nido, fondati da Oberlin nel 1770 a Wadersbach nei<br />

Vosgi, per far fronte alle esigenze delle donne lavoratrici e noti come<br />

“sale di custodia”, erano aziendali ad uso esclusivo delle dipendenti e<br />

garantivano che il bambino fosse ben custodito durante il lavoro<br />

materno (Santoni Rugiu, 1982).


Le politiche per la famiglia e le proposte legislative dei “nidi”<br />

4. I provvedimenti legislativi. – In Italia la Legge numero 860 del 26<br />

agosto 1950, emanata per la tutela fisica ed economica delle lavoratrici<br />

madri, sottolineava l’obbligo per i datori di lavoro di istituire asili nido.<br />

In realtà come sottolinea Rumi (citato in AA.VV., L’infanzia a scuola,<br />

1993) le disposizioni della 860 non hanno trovato per lo più una pratica<br />

attuazione. Negli anni ’50 ’60 e ’70 esisteva, una situazione di carenza<br />

di servizi per la prima infanzia gravissima, che spinse il parlamento<br />

ad emanare il 6 dicembre 1971 la Legge numero 1044, che istituiva<br />

la creazione di asili nido comunali con il concorso dello Stato. Nel<br />

comma 1 della suddetta legge si dice che “gli asili nido hanno lo scopo<br />

di provvedere alla temporanea custodia dei bambini per assicurare<br />

un’adeguata assistenza alla famiglia e facilitare l’accesso della donna al<br />

lavoro nel quadro di un completo sistema di sicurezza sociale”.<br />

L’obbiettivo principale delle proposte di legge, che disciplinano<br />

le disposizioni per la promozione di asili nido e altri similari servizi<br />

di assistenza nelle aziende e negli enti pubblici, è quindi il difendere<br />

il diritto al lavoro delle donne e degli uomini, senza che questo vada<br />

a limitare il loro altrettanto inalienabile diritto ad avere una famiglia<br />

(www.mininterno.it).<br />

L’analisi delle misure di politica sociale e fiscale adottate, a livello<br />

centrale e locale, dal Governo, dal Parlamento, dalle Regioni, dai<br />

Comuni, appaiono muoversi nella direzione:<br />

“Riordino delle funzioni socio-assistenziali” (Legge Regionale 25<br />

gennaio 1988, n. 4).<br />

L’articolo 70 comma 4 della Legge 448 del 2001 (Legge Finanziaria<br />

anno 2002), che ha istituito il fondo per gli asili nido, assegna alle regioni<br />

la competenza di ripartire le risorse finanziarie per la costruzione<br />

e la gestione di asili nido nonché di micro-nidi nei luoghi di lavoro.<br />

Per garantire forme organizzative flessibili per i micro-nidi nei<br />

luoghi di lavoro in relazione alla loro particolare struttura, la dotazione<br />

finanziaria è stata fissata in 50 milioni di euro per l’anno<br />

2002, 100 milioni di euro per l’anno 2003 e 150 milioni di euro per<br />

l’anno 2004 da suddividere tra le Regioni che a loro volta la devono<br />

ripartire tra i Comuni (Legge Finanziaria anno 2002). Inoltre, sempre<br />

nella medesima legge, è previsto che i micro-nidi, quali strutture<br />

destinate alla cura e all’accoglienza dei figli dei dipendenti, aventi<br />

una particolare flessibilità organizzativa, possono essere istituiti sia<br />

nei luoghi di lavoro privati che nell’ambito delle Amministrazioni<br />

dello Stato e degli Enti Pubblici Nazionali.<br />

I micro-nidi dovrebbero essere ubicati in una struttura interna al<br />

luogo di lavoro o nelle immediate vicinanze, al fine di garantire, secondo<br />

la normativa vigente, la facile accessibilità alla struttura da<br />

parte dei genitori.<br />

271


272<br />

M. PIA LAI GUAITA, LAURA LEPORI, MICHELA PIRAS<br />

Nella così detta Carta del servizio o Regolamento Interno sono definiti<br />

i criteri per l’accesso ai servizi del micro-nido, le modalità di funzionamento<br />

degli stessi e di partecipazione dei genitori, nonché le<br />

condizioni per facilitare le valutazioni del servizio da parte degli stessi.<br />

Particolarmente significativa, infine, è la disposizione che prevede<br />

la possibilità di dedurre dalle imposte sul reddito dei genitori e dei<br />

datori di lavoro, le spese di partecipazione alla gestione. Una disposizione<br />

che assume il significato di incentivo per la realizzazione di<br />

tali micro strutture.<br />

L’articolo 91 della Legge n. 289 del 2002 (Legge Finanziaria 2002),<br />

disciplina i finanziamenti per l’istituzione da parte dei datori di lavoro,<br />

degli asili nido riservati ai figli dei dipendenti.<br />

Particolarmente significativi sono il comma 1, con il quale, al<br />

fine di assicurare un’adeguata assistenza familiare alle lavoratrici e ai<br />

lavoratori dipendenti con prole, è istituito dall’anno 2003 il Fondo<br />

di Rotazione per il finanziamento ai datori di lavoro che realizzano,<br />

nel proprio ambito, sili nido e micro-nidi.<br />

Il decreto del 16 maggio 2003, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale<br />

del 27 agosto 2003 n.198, è volto alla definizione della concessione<br />

del finanziamento ai datori di lavoro che realizzano servizi di asili<br />

nido e micro-nidi. I finanziamenti potranno essere di 125.000 euro<br />

per gli asili nido e di 75.000 euro per i micro-nidi.<br />

5. Conclusioni. La realtà dei micro-nidi. – Molti sono ormai in Italia<br />

gli esempi di organizzazione di micro-nidi, uno fra tanti quello istituito<br />

all’interno del Dipartimento per le Pari Opportunità del Governo,<br />

nel mese di ottobre 2002, ospitante fino a sette bambini, figli dei dipendenti<br />

del Dipartimento medesimo (www.pariopportunità.gov.it).<br />

Se il principio appare interessante e degno di essere promosso<br />

non eccezionalmente e per istituzioni particolarmente privilegiate<br />

ma routinariamente, gli ostacoli spesso vengono, come sottolineano<br />

le ricerche sul campo, dall’assenza o carenza di spazi idonei all’interno<br />

delle strutture. E’ quanto si è verificato a Cagliari nella sede amministrativa<br />

centrale dell’Università. Nonostante l’ampia disponibilità<br />

del Rettore e le grandi aspettative dei lavoratori/lavoratrici in attesa<br />

e di quelle già madri e padri, la sua realizzazione non è stata<br />

possibile a causa della struttura dell’edificio e degli spazi già dedicati<br />

per le varie attività. L’esperienza cagliaritana appare emblematica anche<br />

se, a nostro avviso, non deve fermare un progetto, quello dell’offerta<br />

dei micro-nidi, di grande significatività sociale per quel suo potersi<br />

costituire un elemento di agevolazione di conoscenza tra le due


Le politiche per la famiglia e le proposte legislative dei “nidi”<br />

generazioni e premessa significativa per la costruzione di un rapporto<br />

che sviluppi il senso di famiglia, quale luogo di conoscenza, solidarietà<br />

partecipativa, crescita civile.<br />

Bibliografia<br />

AA.VV., L’infanzia a scuola. Teoria e pratica di tirocinio e metodologia didattica,<br />

Editrice Padus, Cremona, 1993.<br />

AA.VV., Gli asili nido in Italia a 10 anni dalla Legge istitutiva, in “Riforma della<br />

scuola” n. 2, pp. 2-58, 1980.<br />

BARBAGLI M., SARACENO C., Lo stato delle famiglie in Italia, Il Mulino, Bologna,<br />

1997.<br />

GATTI G., Globalizzazione e famiglia: problemi di educazione morale e di socializzazione,<br />

in “Orientamenti Pedagogici” vol. 50, n. 5, pp. 807-818, 2003.<br />

Inghilleri P., Psicologia dello sviluppo, pp. 81-83, Guerini Studio, Milano, 1998.<br />

NANNI C., L’educazione familiare nell’epoca della globalizzazione, in “Orientamenti<br />

Pedagogici” vol. 50, n. 2, pp. 241-254, 2003.<br />

PIETROPOLLI CHARMET G., Un nuovo padre. Il rapporto padre-figlio nell’adolescenza,<br />

Mondadori, Angeli, Milano, 1983.<br />

PIETROPOLLI CHARMET G., L’ adolescente nella società senza padri, Unicopli, Milano,<br />

1994.<br />

RUMI M., Tutela della maternità e dell’infanzia, in “La Pedagogia”, cit., Vol. 13,<br />

p. 372.<br />

SANTONI RUGIU A., Storia sociale dell’educazione, Principato Editore, Milano,<br />

1982.<br />

SCABINI E., Psicologia sociale della famiglia. Sviluppo dei legami e transizioni sociali,<br />

Bollati Boringhieri, Torino, 1997.<br />

TASSI R., Itinerari pedagogici dell’età moderna, Zanichelli, Bologna, 1993.<br />

WALSH F., Normal Family Processes, 1993, traduzione italiana Ciclo Vitale e Dinamiche<br />

Familiari, Franco Angeli, Milano, 1995.<br />

Altre fonti<br />

www.welfare.gov.it<br />

www.mininterno.it<br />

www.tesoro.it<br />

www.pariopportunità.gov.it<br />

273


ALESSANDRA GUIGONI<br />

SAPERI E PRATICHE BARBARICINE<br />

SUL SOLANUM TUBEROSUM<br />

Pensare alla Sardegna come ad una terra che produce ottime patate<br />

può indurre, in chi non conosce bene la storia e la cultura dell’Isola,<br />

uno sguardo incredulo o ironico, che io stessa ho sperimentato<br />

in più di un’occasione parlando di patate sarde in occasione di alcuni<br />

incontri pubblici. Troppo spesso si dimentica che l’ambiente<br />

mediterraneo può essere letto anche come un mare circondato da<br />

montagne ( 1 ), e che i monti e i loro abitanti possiedono specificità<br />

culturali di qualche importanza, che cercheremo di rappresentare<br />

raccontando il caso specifico delle comunità montane barbaricine.<br />

Sebbene l’introduzione della patata (Solanum tuberosum) in Sardegna<br />

si collochi appena verso la fine del Settecento, o addirittura al<br />

primo decennio dell’Ottocento ( 2 ), questa solanacea andina in pochi<br />

anni si conquistò un posto di rilievo nel sistema agro-alimentare della<br />

montagna sarda, che copre circa il 18,5% dell’intero territorio isolano.<br />

Verso il 1837 le patate erano già ampiamente coltivate ed utilizzate<br />

sia nell’alimentazione umana sia come mangime per gli animali,<br />

come è attestato in una Memoria della Reale Società Agraria ed Eco-<br />

( 1 ) Si veda a tale proposito F. BRAUDEL (1987: 15-36), e la definizione di Mediterraneo<br />

di Antoni Riera-Melis: «Un’ampia depressione circondata da montagne,<br />

con strette pianure litorali dove prevale un suolo scarsamente poderoso e<br />

poco fertile: uno spazio più favorevole alla pastorizia transumante che all’agricoltura<br />

permanente dei terreni» (RIERA-MELIS 2002: 3).<br />

( 2 ) Al 1805 risale la prima edizione dell’Instruzione per la coltivazione e per<br />

l’uso delle patate in Sardegna/ Instruzioni po sa coltura e po s’usu de is patatas in Sardigna<br />

in italiano e sardo campidanese, scritta dal censore Giuseppe Cossu probabilmente<br />

verso il 1785.


276<br />

ALESSANDRA GUIGONI<br />

nomica di Cagliari e nel Dizionario di Goffredo Casalis, compilato<br />

per la Sardegna da padre Vittorio Angius.<br />

«Le patate sono già ben introdotte nella Barbagia superiore, e<br />

quei popoli non solo ne tirano parte della sussistenza, ma ne fanno<br />

una vistosa vendita. Il terreno di questa e delle altre regioni è proprissimo<br />

a cotale radice e fra breve meglio conoscersene l’utile» (Angius-Casalis<br />

1971: 63).<br />

In particolare se ne registra l’ottima resa a Fonni, dove «le cipolle<br />

[…] si usano per il minestrone, che dicono e compongono di lardo,<br />

salsiccia, fagioli, patate, castagne secche, (sa pilledda) e posta con<br />

carne di bue o porco salato. La terra è ottima per le patate […] sono<br />

assai consistenti e perciò di lunga durata […] Corre voce che la decima<br />

di tal genere non sia sovente molto al di sotto li 4000 starelli»<br />

(Angius-Casalis 1971: 268).<br />

Come vedremo Fonni (il paese sardo più elevato, a 1000 metri<br />

s.l.m.) e i suoi dintorni sono da quasi due secoli centri di diffusione<br />

della coltivazione delle patate e tale tradizione si è mantenuta sino ai<br />

giorni nostri: la cooperativa ortofrutticola Gennargentu ( 3 ), un’azienda<br />

che ha un ruolo chiave sull’Isola nella produzione di patate da<br />

seme e biologiche, ha terreni e soci nel cuore della Barbagia d’Ollolai,<br />

a Gavoi e paesi limitrofi.<br />

Nella Memoria Coltivazione delle patate e loro usi particolari si<br />

menziona il successo dell’introduzione delle patate in alcuni paesi «dei<br />

più montuosi dell’isola, come p.e. Fonni, Arizzu ec., e di altri più settentrionali,<br />

come Nuoro, e di alcuni situati in pianura, come Pula, i<br />

primi dei quali sono ora talmente persuasi della preferenza che merita<br />

la patata sulle altre radici ortensi, che nel breve giro di pochi anni ne<br />

hanno esteso mirabilmente la coltivazione…» (1837: 333).<br />

La Memoria Mezzo economico per nutrire il bestiame in Sardegna<br />

di Don Pietro Pes, anch’essa pubblicata nel 1837, costituisce un documento<br />

importante sulla sperimentazione delle patate come mangime<br />

per il bestiame:<br />

«Dopo aver riconosciuto in libbre cinque il medio peso di un imbuto<br />

di fava, fissai nella metà cioè in libbre due e mezzo la somministranza<br />

corrispondente di patate, che prima feci lessare in acqua salsa,<br />

e frammischiare alla consueta paglia. La assaporarono sul bel principio<br />

un po’ schifosamente i buoi; ma siccome tenni fermo nel vietare ogni<br />

sussidiaria aggiunta di fava, che volle farsi nei primi giorni dell’esperimento<br />

dai miei servi di campagna, osservarone poscia essi stessi, che i<br />

( 3 ) Sito web della Cooperativa: http://utenti.lycos.it/fonne/patata.html (ultimo<br />

accesso 31 ottobre 2003).


Saperi e pratiche barbariche sul Solanum tuberosum<br />

buoi scernendo andavano gradatamente dalla paglia le patate piccole,<br />

o i pezzi delle grandi dimezzate per mangiarle ad una ad una, isolatamente,<br />

e terminarono per rifiutare del tutto la paglia» (Pes 1837).<br />

Nella seconda metà dell’Ottocento gli Atti della Giunta per l’inchiesta<br />

agraria, continuano a registrare la “discontinuità territoriale”<br />

della coltivazione, quasi assente nelle pianure e, al contrario, discreta<br />

nelle zone montane, inadatte o poco adatte alla coltivazione del frumento,<br />

come nel circondario di Nuoro. Nel nuorese oltre all’ottima<br />

produzione le patate appaiono integrate nella rotazione delle colture<br />

(particolare confermato dai testimoni barbaricini che ho intervistato<br />

durante la ricerca sul campo):<br />

«Ha qualche estensione, secondo il paese, la coltivazione delle patate,<br />

di cui se ne producono quintali 22.696. Il paese più rinomato è<br />

Fonni» seguito da Bitti, Ovodda, Gavoi, Mamoiada, Ollolai; inoltre:<br />

«[nella rotazione triennale] al frumento si fanno succedere le fave, e a<br />

queste si fa succedere il frumento, l’orzo e le patate» (Atti 1885: 286).<br />

Nei romanzi e nei racconti di Grazia Deledda, che abbozzano il<br />

contesto socio-economico in Sardegna a cavallo tra il XIX ed il XX<br />

secolo, le patate sono protagoniste negli orti e nelle cucine: in Cenere<br />

essere “benestanti” significa possedere (in quest’ordine nel testo) frumento,<br />

patate, castagne, uva secca, terre, case, cavallo e cane ( 4 ). Nei<br />

testi deleddiani è descritta la pataticoltura esercitata dalle donne, la<br />

notevole importanza della patata nell’alimentazione quotidiana, e<br />

infine il valore positivo che ad essa veniva attribuito.<br />

Nel Novecento sulla rivista L’Agricoltura sarda, un’importante<br />

vetrina delle concezioni e delle pratiche agro-alimentari dell’Isola, si<br />

trovano numerosi attestati della discreta coltivazione delle patate<br />

( 4 ) «La vedova raccontò: eravamo sposi da pochi mesi; eravamo benestanti, sorella<br />

cara: avevamo frumento, patate, castagne, uva secca, terre, case, cavallo e cane.<br />

Mio marito era proprietario; spesso non aveva che fare e s’annoiava. Allora diceva:<br />

“Voglio diventar negoziante; così ozioso non posso vivere, perché sono sano, forte,<br />

abile, e mentre sto in ozio mi vengono le cattive idee”. Però non avevamo capitali<br />

abbastanza perché egli potesse fare il negoziante. Allora un suo amico gli disse:<br />

“Zuanne Atonzu, vuoi prender parte ad una bardana? Si andrà in gran numero, guidati<br />

da banditi abilissimi, e si assalterà, in un paese lontano, la casa di un cavaliere<br />

che ha tre casse piene d’argenteria e di monete» (G. DELEDDA, da Cenere, capitolo I).<br />

«La casa del pastore è di pietra e di legno, e nell’ampia cucina fuma l’antico focolare<br />

di pietra, e sul fuoco di tronchi bolle una grande pentola nera. La casa del pastore<br />

è ricca; v’è legna, lardo, patate, fagiuoli. Le donne del pastore hanno lavorato tutto<br />

l’anno negli orti, irrigando i solchi, hanno raccolto le castagne e le noci nei boschi,<br />

e sgranato i fagiuoli violetti tigrati di nero. La casa è ricca, e la figliuola primogenita,<br />

grassa e rossa nel suo stretto costume di orbace, è fidanzata ad un uomo che a sua<br />

volta raccoglie molto orzo e frumento» (G. DELEDDA, Il sogno del pastore, da Novelle).<br />

277


278<br />

ALESSANDRA GUIGONI<br />

sull’isola. Inoltre nel 1935 a Como ci fu il primo e unico convegno<br />

italiano sulla patata, e uscirono gli Atti del primo Convegno nazionale<br />

per l’incremento della produzione delle patate. Non sorprende la presenza<br />

di patate sarde all’esposizione, patate considerate “indigene” e<br />

dunque nostrali, provenienti da Gavoi e da Sassari: «Sardegna -<br />

Nuoro: Patata di Gavoi (indigena); Sassari: Quarantina di Como<br />

(indigena), Francese, Patata dell’Estonia» (Atti 1935: 43).<br />

In effetti sino agli anni Trenta esistevano diverse varietà di patate<br />

indigene, che i testimoni più anziani ricordano perfettamente, e che<br />

hanno preceduto l’arrivo delle varietà olandesi e tedesche, come la<br />

famosa Tonda di Berlino, molto stimata dalle anziane orticoltrici.<br />

Sempre nel 1935 fu edito il Catasto agrario, che fotografava la situazione<br />

del quinquennio 1924-1929; in generale nel 1929 nella<br />

provincia di Cagliari (che comprendeva anche la provincia d’Oristano)<br />

la produzione di patate ammontava a circa 17.000 quintali, pochi,<br />

se si considerano ad esempio gli 879.000 quintali circa di grano<br />

duro, e i 107.000 quintali circa di pomodori. Nella provincia di<br />

Nuoro la produzione di patate era maggiormente consistente, sugli<br />

82.000 quintali, soprattutto se rapportata a quella di grano, di circa<br />

339.000 quintali.<br />

In Barbagia (ed in Gallura ed Ogliastra, altre zone di montagna<br />

rilevanti) erano soprattutto le donne a condurre la coltivazione delle<br />

patate, in orti e campi, e naturalmente ad occuparsi della preparazione<br />

degli alimenti a base di patate. Le patate venivano seminate due<br />

persino tre volte l’anno. Se ne ricavano numerosi piatti, e un pane,<br />

morbido e gustoso, differentemente denominato secondo le aree:<br />

cohone ‘un fozza, coccoi de patata, modizzosu de patata, coccoi prena.<br />

Quel pane a Gavoi si fa ancora, soprattutto in occasione di sagre<br />

e feste paesane, visto che la panificazione domestica è decisamente<br />

scemata; ad ogni modo le patate vengono ancora impiegate in numerosi<br />

piatti: in minestroni, zuppe, persino nella pasta in brodo, in<br />

frittate, frittelle e torte salate; da sole sono preparate fritte, bollite, o<br />

cotte sotto la cenere del camino.<br />

Proprio a Gavoi dal 1995 ha sede la cooperativa Gennargentu,<br />

che sta sperimentando con successo la coltura di patate da seme e<br />

biologiche con l’aiuto dell’Ersat (Ente Regionale di Sviluppo e Assistenza<br />

Tecnica in agricoltura). Il paese sorge su di un pianoro granitico,<br />

nell’appendice settentrionale del massiccio del Gennargentu;<br />

posto a circa 770 m. è circondato da boschi di querce, sugheri e castagni.<br />

Il lago artificiale di Gusana, ottenuto negli anni Sessanta imbrigliando<br />

l’acqua del fiume Taloro, è diventato una risorsa turistica,<br />

sulle cui rive sorgono alberghi e campeggi, anche se la voce prin-


Saperi e pratiche barbariche sul Solanum tuberosum<br />

cipale dell’economia è rappresentata dall’attività pastorale, legata alla<br />

produzione del formaggio pecorino “Fiore sardo”.<br />

La cooperativa, inizialmente di nove soci, è attualmente formata<br />

da 32 soci di Fonni, Gavoi, Mamoiada ed Orgosolo, paesi appartenenti<br />

alla Barbagia d’Ollolai. L’età media dei soci è di circa 40 anni;<br />

si tratta di persone che hanno fatto svariate esperienze di lavoro,<br />

molti hanno aziende zootecniche, e almeno inizialmente avevano<br />

pensato di coltivare le patate part-time, visto che il ciclo del tubero è<br />

di circa 120 gg. e parallelamente continuare l’attività pastorale ( 5 ). Alcuni<br />

di loro poi hanno scelto di dedicarsi a tempo pieno all’attività<br />

di produzione ortofrutticola, tornando a sfruttare i terreni dei nonni<br />

e dei bisnonni, e recuperando parallelamente anche i saperi locali riguardo<br />

a questo tubero, domandando aiuto a genitori e parenti anziani,<br />

soprattutto alle donne.<br />

I terreni coltivati a patate sono posti sopra i 700/800 metri, particolarmente<br />

adatti alla coltura del tubero, in quanto maggiormente al<br />

riparo dagli afidi. Ancora adesso, come un tempo, la semina più abbondante<br />

viene fatta a fine primavera, e le patate sono raccolte a fine<br />

estate, anche se negli orti familiari la semina è sovente ripetuta in<br />

autunno e all’inizio della primavera.<br />

Complessivamente i terreni non superano i dieci ettari, perché le<br />

aziende sono piuttosto piccole e a carattere prevalentemente familiare,<br />

che rendono comunque circa 200 quintali l’anno. I terreni vengono<br />

fatti ruotare, facendo succedere, ogni quattro anni, patate, leguminose,<br />

graminacee, pascolo.<br />

Il presidente della cooperativa, Giuseppe M., ricorda che sua madre<br />

gli parlava della produzione “di una volta” dei terreni di famiglia,<br />

che nel 1956 era stata di 2500 quintali, tutti raccolti a mano. E<br />

proprio partire dalla fine degli anni Cinquanta la produzione locale<br />

ha iniziato a calare, e solo dagli anni Novanta è avvenuto il riscatto<br />

dell’agricoltura sull’attività pastorale, anche se parziale e difficoltoso.<br />

Le varietà coltivate dalla cooperativa, biologiche, senza alcun trattamento<br />

fitosanitario, semplicemente irrigate con impianti a goccia,<br />

sono Kennebec, Spunta e alcune altre, a pasta soda, dura, ricercate delle<br />

industrie (e dai consumatori, che generalmente non amano le patate<br />

a polpa tenera, adatte a purea e procedimenti simili). Oltre alle patate<br />

vi è una buona produzione di fagiolini, zucchine, melanzane, pomodori<br />

e di frutta, come pere, mele, fragole.<br />

( 5 ) Anche in passato i pastori quando tornavano dalla transumanza invernale<br />

in paese, nel mese di maggio, trascorrevano l’estate anche coltivando patate, su<br />

parte dei terreni adibiti a pascolo estivo.<br />

279


280<br />

ALESSANDRA GUIGONI<br />

Le patate sarde di montagna, come vengono chiamate oggi, sono distribuite<br />

e vendute sia sull’Isola, ad esempio come patata da seme a<br />

Quartu Sant’Elena, o come patata biologica agli stabilimenti di Sanluri<br />

della Terrantica s.r.l., detentrice del marchio Crocchias, che le ha<br />

utilizzate per produrre patate fritte rigorosamente biologiche, sia altrove,<br />

come in Lombardia, all’Esselunga di Milano.<br />

Un aspetto vissuto come problematico è la limitata propensione<br />

dei giovani barbaricini a dedicarsi al settore orticolo; ciò potrebbe<br />

comportare in futuro uno scarso ricambio generazionale dei soci,<br />

che è invece vitale in progetti a lungo termine come questi.<br />

Un’altra difficoltà è data dalla distribuzione del prodotto, organizzata<br />

in modo embrionale, che naturalmente frena non poco le<br />

vendite, e di riflesso, l’incremento della produzione, oltre ai problemi<br />

derivanti dall’essere in cooperativa, per cui alcuni soci hanno lamentato<br />

problemi di collaborazione e comunicazione.<br />

In effetti le patate di Gavoi non arrivano, se non sporadicamente,<br />

nei mercati, negozi e supermercati di Cagliari, a causa della scarsa<br />

conoscenza anche da parte dei consumatori sardi del prodotto di<br />

Gavoi. Sino al secondo dopoguerra sa patata gavoesa o sa patata ‘e<br />

Fonni erano per antonomasia le patate migliori dell’Isola, ed erano<br />

ricercate dai consumatori; ora pochi le conoscono, fuori dall’area di<br />

produzione. Attualmente oltre il 60% del fabbisogno isolano è coperto<br />

dalle patate bolognesi (con o senza selenio), siciliane e corse.<br />

Spesso i giovani barbaricini od ogliastrini non sanno che in passato<br />

le loro montagne sono state intensamente coltivate, e che la cosiddetta<br />

monocoltura del pecorino, legata all’aumento dell’attività pastorale a detrimento<br />

di quella agricola è un fenomeno piuttosto recente sull’isola,<br />

mentre un tempo la montagna, oggi soprattutto usata a pascolo, era<br />

intensamente coltivata (si veda ad esempio Angioni 1989: 42).<br />

Mi è capitato tra le mani un libro recente, sulla storia di un paese<br />

ogliastrino, nel quale si passava sotto silenzio l’importanza delle patate<br />

nell’alimentazione tradizionale, e si bollava l’abitudine di mangiare le<br />

patatine con la buccia come un’usanza legata alla pura sussistenza. Parlandone<br />

con anziano testimone del luogo, questo mi ha risposto che il<br />

giovane laureato che aveva scritto il libro, peraltro nato e sempre vissuto<br />

in quel paese, non aveva capito il ruolo delle patate nell’alimentazione<br />

locale. Inoltre ignorava che le patatine piccole, novelle, fritte nel lardo<br />

o nell’olio, o bollite, con tutta la buccia sono una squisitezza, una<br />

bontà, che molti preparano ancora, e così dicendo puliva dalla terra le<br />

patate appena cavate dall’orto, che avrebbe cucinato quella sera. E ha<br />

concluso dicendo che se solo lo avesse domandato a qualche anziano<br />

del paese o avesse osservato la nonna in cucina lo avrebbe capito da sé.


Saperi e pratiche barbariche sul Solanum tuberosum<br />

La disgregazione di saperi e pratiche tradizionali, lo scollamento<br />

tra la “visione del mondo” degli anziani, e le conoscenze e rappresentazioni<br />

dei giovani, anche riguardo la tradizione, spesso ridotta<br />

ad un racconto elementare privo di senso profondo, è piuttosto marcato,<br />

così come l’allontanamento da parte delle giovani generazioni<br />

dalla terra e dai suoi mestieri ( 6 ).<br />

Lo stesso Giuseppe M. della cooperativa Gennargentu mi ha detto<br />

che il suo “tecnico” di fiducia è stata, ed è ancora, per molti versi,<br />

sua madre, ad intendere che il cerchio in qualche modo si chiude<br />

quando si ripercorrono strade già battute in passato, che occorreva<br />

solo provare a ripercorrere, per scoprirne la bontà, come nel caso<br />

della coltivazione delle patate appunto.<br />

In questo processo di recupero di saperi locali ancora vivi, ma sopiti,<br />

anche perché non compresi dalle nuove generazioni, gli anziani<br />

dovrebbero essere protagonisti di un intenso dialogo intergenerazionale<br />

per una salvaguardia concreta e reale del patrimonio colturale e<br />

culturale (diversa dalle invenzioni della tradizione a cui la pressione<br />

economica del turismo, di cui gli amministratori locali sono talvolta<br />

complici, conduce).<br />

Attualmente c’è anche allo studio un progetto che intende fornire<br />

alla patata sarda di montagna certificazioni riconosciute a livello europeo,<br />

come i marchi Dop (denominazione d’origine protetta) e/o Igt<br />

(indicazione geografica tipica). Renato T., uno dei responsabili di<br />

Agrosarda s.c.r.l., un’azienda specializzata del settore, sta lavorando in<br />

tale senso con un’altra cooperativa gavoese. Nelle intenzioni dei promotori<br />

del progetto la patata sarda di montagna diventerebbe così un<br />

prodotto legittimamente tipico e avrebbe un canale di comunicazione<br />

privilegiato con i consumatori, sempre più attenti non solo al biologico,<br />

ma anche ai prodotti di qualità e provenienza certificata ( 7 ).<br />

( 6 ) Questa situazione è naturalmente raffrontabile con molti altri contesti europei,<br />

uno su tutti quello alpino; a tale proposito si veda il concetto di ecologia dell’abbandono<br />

citato da M. Zucca (2001: 380 ss.).<br />

( 7 ) Ci si può augurare che insieme ai saperi rurali vengano salvaguardati anche<br />

i semi locali; in questo modo si salverebbero dall’estinzione diverse varietà locali di<br />

ortaggi e di frutta, che vengono ancora coltivate dagli anziani. La loro scomparsa,<br />

come è già accaduto in passato per altri prodotti agricoli, tra cui le patate, determinerebbe<br />

la totale dipendenza dei sistemi produttivi locali dalle grandi multinazionali<br />

sementiere (come l’esempio dei pomodori camone, un ibrido detenuto dalla<br />

Syngenta, ha insegnato sin troppo bene).<br />

Una legge regionale sulla biodiversità (allo stato attuale l’ultimo progetto di<br />

legge presentato risale al 1999) a protezione sia delle specie vegetali spontanee sia<br />

di quelle coltivate sarebbe perciò auspicabile.<br />

281


282<br />

ALESSANDRA GUIGONI<br />

Al tempo stesso lo sviluppo della pataticoltura potrebbe forse<br />

contribuire a rallentare il processo di spopolamento di alcuni centri<br />

dell’interno, e forse anche a rilanciare l’orticoltura specializzata, un<br />

settore, come abbiamo già detto, che grazie all’attenzione verso il<br />

biologico e il “tipico” può dare nuovo impulso al comparto agro-alimentare<br />

sardo.<br />

Bibliografia di riferimento<br />

AA.VV.<br />

1935 Atti del primo Convegno nazionale per l’incremento della produzione delle patate<br />

(Como, 29-30 settembre 1935), Como, Lito-Tipografia Commerciale<br />

A. Noseda.<br />

AA.VV.<br />

1935 Catasto agrario.Compartimento della Sardegna, Roma.<br />

ANGIONI G.<br />

1989 I pascoli erranti. Antropologia del pastore in Sardegna, Napoli, Liguori.<br />

ANGIUS V., CASALIS G.<br />

1971 Dizionario geografico-storico-statistico-commerciale degli Stati di S.M. il Re di<br />

Sardegna, edizione anastatica, Bologna, Forni (ed. orig. 1833-1837).<br />

BRAUDEL F. (a cura di)<br />

1987 Il mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Milano, Bompiani<br />

(ed. orig. 1985).<br />

DELEDDA G.<br />

Cenere, http://www.liberliber.it/biblioteca/d/deledda/ (ultimo accesso 31 ottobre<br />

2003).<br />

Novelle, http://www.bibliothecasarda.it (ultimo accesso 31 ottobre 2003).<br />

GUIGONI A.<br />

2003 Il messaggio è nel piatto: antropologia dell’alimentazione, in AA.VV., Nello<br />

stato delle cose. La luce era buona. Antropologie, Perugia, Gramma.<br />

MAMELI L.<br />

Crocchias, ovvero le patatine in busta cucinate in Sardegna, a Sanluri, in “Sardinews”,<br />

http://www.sardinews.it/n06/09bis.html (ultimo accesso 31 ottobre<br />

2003).<br />

PINTUS P.<br />

Finalmente a tavola le patate sarde. Made in Quartu, ma sono troppo poche, in “Sardinews”,<br />

http://www.sardinews.it/5_03/29.html (ultimo accesso 31 ottobre<br />

2003).


Saperi e pratiche barbariche sul Solanum tuberosum<br />

RIERA-MELIS A.<br />

2002 Il mediterraneo, crogiuolo di tradizioni alimentari, in M. MONTANARI (a<br />

cura di) Il mondo in cucina, Bari-Roma, Laterza.<br />

SALARIS F.<br />

1885 Atti della Giunta per l’inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola.<br />

Volume XIV, fascicolo I. Relazione del commissario F. Salaris sulla XII circoscrizione<br />

(Province di Sassari e Cagliari), Roma.<br />

SID<strong>DI</strong> F.<br />

2001 Oggi le patate di Sanluri fanno Crocchias in tutti i mercati, in “Sardegna<br />

economica”, n. 6.<br />

ZEDDA MACCIÒ I.<br />

1998 La montagna tra scienza, mito e realtà sociale. Il caso della Sardegna, in 3°<br />

Convegno “il Mare in basso”, 2 Ottobre 1998, Genova 1998, pp. 80-95.<br />

ZUCCA M.<br />

2001 Antropologia pratica e applicata, Salerno, Ellissi.<br />

283


IGNAZIO MACCHIARELLA<br />

LA VOCE A QUATTRO:<br />

APPUNTI SUL CANTO AD ACCORDO IN SARDEGNA<br />

SOMMARIO: 1. In accordo ma non solo: l’isola della polifonia. – 2. “Le armonie de’<br />

sardi”. – 3. «No, non chiamiamola polifonia». Note di ricerca sul campo.<br />

«Da noi è così, è sempre stato così: si canta facendo la voce a quattro.<br />

E basta!» La perentoria affermazione di tziu Michele Musio, anziano<br />

ex contadino ed ex cantore confraternale di Irgoli (Nuoro) ( 1 ), è<br />

a suo modo rivelatrice di una certa concezione della pratica del canto<br />

a più voci nella cultura tradizionale sarda. Sancendone l’assoluta<br />

preminenza, la frase sottintende, attraverso la bella definizione «la<br />

voce a quattro», un essenziale carattere di unità nella diversità manifestato<br />

da un tipo di struttura polifonica del centro-nord dell’Isola<br />

imperniata sulla concatenazione di triadi accordali. Le pagine seguenti<br />

vogliono proporre delle riflessioni su questo tipo di struttura<br />

polifonica, sul pensiero musicale che si può individuare alla base e<br />

sulla consapevolezza che ne hanno oggigiorno quanti la praticano e<br />

l’ascoltano nelle varie comunità locali ( 2 ). Esse intendono costituire<br />

( 1 ) Conosco da più di dieci anni il sig. Musio e ho raccolto più volte questo tipo<br />

di considerazioni durante varie chiacchierate, a volte anche registrate in audio o in<br />

video. Per delle notizie essenziali su di lui e sul suo ruolo determinante per la ri/nascita<br />

della polifonia religiosa nel suo paese vedi AA.VV. (cur), Irgoli. Canti liturgici di<br />

tradizione orale, compact disc e relativo libretto, Nota 2.32, Udine 2000.<br />

( 2 ) Preciso che nelle pagine seguenti utilizzerò il termine polifonia nell’accezione<br />

che essa ha nella letteratura etnomusicologica, «come una modalità espressiva basata<br />

sulla combinazione simultanea di parti distinte (vocali, strumentali o con voci e strumenti<br />

insieme) percepite e prodotte intenzionalmente nella loro differenziazione reciproca,<br />

in un assetto formale determinato» M. AGAMENNONE, Le polifonie viventi. Storia<br />

di una scoperta, procedimenti e tassonomie, in M. AGAMENNONE (cur), Polifonie. Procedimenti,<br />

tassonomie e forme: una riflessione a più voci, Il cardo, Venezia 1986, p. 5. Per


286<br />

IGNAZIO MACCHIARELLA<br />

un tassello di un lavoro di ampie dimensioni sulle pratiche polifoniche<br />

di tradizione orale della Sardegna che ho intrapreso da diversi anni<br />

nella prospettiva di un approfondito contributo monografico ( 3 ).<br />

1. In accordo ma non solo: l’isola della polifonia. – «La polifonia<br />

vocale è tra le espressioni più singolari della musica [sarda] per ricchezza<br />

di repertorio e varietà di stili» ( 4 ). In effetti cantare a più voci<br />

è una pratica decisamente diffusa nell’Isola. Anzi, in vaste aree sembrerebbe<br />

essere l’unica modalità di canto senza accompagnamento<br />

strumentale, dal momento che le forme propriamente monodiche<br />

parrebbero essere uscite dall’uso – quanto meno nelle occasioni esecutive<br />

pubbliche, nei contesti festivi, rituali e così via ( 5 ).<br />

La struttura polifonica decisamente più conosciuta e più rappresentativa<br />

è certamente quella a quattro parti con impianto di tipo armonico/verticale<br />

in falsobordone, cioè costruita su successioni di<br />

triadi complete in posizione fondamentale ( 6 ). Propria delle regioni<br />

centro settentrionali tale struttura caratterizza due tipologie esecutive<br />

assai rinomate e solitamente annoverate fra le manifestazioni più<br />

rappresentative della cultura musicale dell’Isola: il cosiddetto cantu a<br />

una panoramica sulla polifonia tradizionale in Italia e per gli altri termini tecnici usati<br />

vedi M. AGAMENNONE, S. FACCI, F. GIANNATTASIO, I procedimenti polifonici nella musica<br />

tradizionale italiana. Proposta di tassonomia generale, in M. AGAMENNONE (cur), Polifonie,<br />

cit.; I. MACCHIARELLA, Il canto a più voci di tradizione orale, in R. LEY<strong>DI</strong> (cur),<br />

Guida alla musica popolare, LIM, Lucca 1996, vol. I, pp. 43-79; S.FACCI, Polifonia, in<br />

M. AGAMENNONE ed altri, Grammatica della musica etnica, Bulzoni, Roma 1991.<br />

( 3 ) Fra i lavori più recenti I. MACCHIARELLA, “La vera tradizione siamo noi”: the a<br />

tenore song in Sardinian radio and television broadcasting, testo presentato al XIXth<br />

Esem (European Seminar in Ethnomusicology), Vienna 17-21 settembre 2003, ID.,<br />

L’attualità del cantu a traggiu di Bosa, in Bosa nella musica. Boghes a traggiu, CD<br />

Amm. Comunale di Bosa/Live Studio Cagliari, 2004, pp. 15-22. Inoltre si vedano i<br />

contributi sulla polifonia sarda proposti nell’ambito dell’International Study Group<br />

on Multipart Singing di Vienna (http://www.mdw.ac.at/emm).<br />

( 4 )P. SASSU, La musica di tradizione orale, in M. BRIGAGLIA (cur), La Sardegna,<br />

Edizioni della Torre, Cagliari 1982, vol. I, p. 145.<br />

( 5 ) Sulle forme della monodia in Sardegna vedi D. CARPITELLA, L. SOLE, P. SASSU<br />

(cur), Musica sarda, cofanetto di 3 L.P. e volume allegato, Albatros, Milano 1973; e P.<br />

SASSU, La musica di tradizione orale, cit. Rinvio ad altra sede una trattazione sulla diffusione<br />

e attualità della monodia in Sardegna. Preciso inoltre che nella prospettiva etnomusicologica<br />

canto e accompagnamento strumentale costituiscono un particolare tipo<br />

di polifonia e non una forma monodica (v. M. AGAMENNONE (cur), Polifonie, cit.<br />

( 6 ) Vedi I. MACCHIARELLA, Il falsobordone fra tradizione orale e tradizione scritta,<br />

LIM, Lucca 1995.


La voce a quattro: appunti sul canto ad accordo in Sardegna<br />

tenore e il canto religioso confraternale sovente denominato cantu a<br />

cuncordu (vedi oltre). Fortemente esclusiva (nel senso che richiede<br />

agli esecutori uno specifico iter di apprendistato) la polifonia accordale<br />

sarda viene eseguita da gruppi specializzati solamente maschili,<br />

e non contempla la possibilità del raddoppio delle parti musicali<br />

(salvo rare eccezioni) ( 7 ). Ciascuna parte vocale è caratterizzata da<br />

una specifica coloratura la quale, come e forse più che la successione<br />

accordale, costituisce il marchio di identità di ciascuna tipologia esecutiva<br />

e delle singole microculture locali: ogni bidda (paese) ha non<br />

solo il proprio repertorio di canto a tenore e/o religioso-confraternale<br />

ma ha anche – e soprattutto – un proprio timbro e colore vocale per<br />

ciascuna parte musicale. Si tratta di una caratterizzazione che è frutto<br />

dell’estrema specializzazione musicale dei cantori tradizionali che<br />

(come si vedrà più avanti) influenza l’idea stessa della pratica polifonica<br />

della cultura tradizionale dell’Isola.<br />

Meno rinomate (e poco considerate dagli stessi “addetti ai lavori”)<br />

sono le altre strutture polifoniche dell’Isola con impianto melodico/lineare,<br />

a due o più parti vocali per moto parallelo. Si tratta,<br />

brevemente, sia di modelli a due o tre parti tendenzialmente per terze<br />

parallele che vengono utilizzate nell’esecuzione di diversi repertori<br />

di tipo religioso devozionale, quali i rosari, i gozos e altri testi primo<br />

fra tutti il Deus ti salve Maria, sia di strutture a due sole parti imperniate<br />

sul bicordo di quinta che caratterizza l’accompagnamento delle<br />

gare poetiche campidanesi e in particolare del canto a muttettu ( 8 ). Il<br />

primo, l’impianto tendenzialmente per terze parallele, diffuso un po’<br />

in tutta l’Isola, è generalmente inclusivo e prevede una larga partecipazione<br />

esecutiva con l’ovvio raddoppio delle parti ciascuna delle<br />

quali può essere realizzata da un numero indefinito di cantori. Ese-<br />

( 7 ) Mi è capitato di osservare esecuzioni di canto a tenore con il raddoppio delle<br />

parti (tranne quella leader, sa boghe) ad Orgosolo, al termine di uno spuntino: i<br />

cantori mi hanno detto che si tratta di una pratica che loro ogni tanto fanno e che<br />

ha un nome preciso su mibelli ( il nome fa riferimento ad un celebre camion Fiat<br />

degli anni Sessanta che per metonimia indica il clima di scampagnata nei giorni di<br />

festa, quando si andava insieme mettendosi sul cassone). Tutte le parti vengono<br />

invece raddoppiate nelle esecuzioni contestuali del Miserere e dello Stabat Mater di<br />

Bosa, durante la processione del Venerdì Santo, una pratica questa che a detta degli<br />

stessi esecutori è di recente introduzione (v. I. MACCHIARELLA, L’attualità del<br />

cantu a traggiu di Bosa, cit., p. 19).<br />

( 8 ) Quest’ultima pratica è in realtà ben poco in uso oggi: un esempio si trova<br />

in I. MACCHIARELLA (cur), Un’antologia di documenti etnomusicologici dall’Archivio<br />

di Radio Sardegna, cofanetto di 2 compact disc e libretto allegato, Edizioni Rai/<br />

Sede regionale della Sardegna, (nell’ambito del progetto di recupero di Radio Sardegna),<br />

Cagliari, in corso di stampa, CD 1, brano 26.<br />

287


288<br />

IGNAZIO MACCHIARELLA<br />

guito da gruppi maschili o femminili o misti, prevede che lo schema<br />

della sovrapposizione di due parti per terze parallele possa allargarsi<br />

a un’altra o altre due parti (con i dovuti riscontri intervallari, dai<br />

raddoppi d’ottava fra donne e uomini, le seste fra parte superiore<br />

maschile e inferiore femminile e così via): è il caso ad esempio dell’interessante<br />

repertorio confraternale per la Settimana Santa di Cagliari,<br />

che attende uno specifico studio monografico ( 9 ). Se in generale<br />

l’emissione vocale non ha particolari specificità, vi sono alcuni<br />

casi significativi in cui l’uso di uno specifico colore combinato con il<br />

ricorso a strutture scalari costruite su microintervalli determinano<br />

varianti notevoli al modello, con effetti di grande rilievo: è il caso<br />

del magnifico rosario di Orgosolo, almeno come esso si presenta nelle<br />

registrazioni di Pietro Sassu negli anni Sessanta, una polifonia anch’essa<br />

che meriterebbe uno specifico approfondimento musicologico<br />

( 10 ).<br />

L’impianto a due voci del Campidano è invece esclusivo in quanto<br />

viene realizzato solamente da coppie di cantori maschi con una<br />

voce fortemente caratterizzata timbricamente (che in certo modo richiama<br />

la coppia contra e bassu del cantu a tenore – ma si tratta di<br />

analogie riscontrate all’ascolto che debbono essere adeguatamente<br />

approfondite) ( 11 ).<br />

Un caso a parte è costituito dalle sovrapposizioni che concludono<br />

le esecuzioni di canto a chitarra nel repertorio del cantu in re (sa serrada<br />

a boghe leada, detta anche su do – letteralmente chiusura in do)<br />

con effetti di polifonia in tuilage, nonché certe esecuzioni a parti parallele<br />

del repertorio della corsicana (significativamente il raddoppio<br />

della parte viene detto fàchere su tenore). Si tratta di passaggi di bravura<br />

in cui la sovrapposizione delle parti vocali si combina con l’impianto<br />

accordale proposto dalla chitarra (e molto spesso anche dalla<br />

fisarmonica) in una complessa struttura multiparte.<br />

( 9 ) Testimonianze di tale repertorio sono in I. MACCHIARELLA (cur), Un’antologia<br />

di documenti etnomusicologici dall’Archivio di Radio Sardegna, cit., CD 2, brani 4 e 5.<br />

( 10 ) Il rosario di Orgosolo continua ad essere ancora oggi praticato anche se ha<br />

perduto gran parte delle proprie peculiarità vocali: si confrontino ad esempio le<br />

registrazioni di Pietro Sassu contenute in D. CARPITELLA, L. SOLE, P. SASSU (cur),<br />

Musica sarda, cit. e con l’incisione contenuta in G. MAMELI, cur., Prena de grazia.<br />

Rosari in sardo cantati a Perdasdefogu, compact disc, Cuec, Cagliari 2001.<br />

( 11 ) Indicazioni su questa struttura si hanno all’interno degli studi sulla poesia<br />

improvvisata campidanese che negli ultimi anni hanno finalmente cominciato a<br />

realizzarsi: al riguardo si può partire dalle relazioni presentate al convegno Musas e<br />

Terra di Sinnai (8-12 dicembre 2004) con l’ampia introduzione di Paolo Zedda e<br />

relativa bibliografia – vedi http://www.musaseterras.it/.


La voce a quattro: appunti sul canto ad accordo in Sardegna<br />

2. “Le armonie de’ sardi”.<br />

289<br />

«Nel capo di Logodoro [i sardi] cantano i loro versi con consonanza di più<br />

voci, [...] ed è un’artifiziosa unione di voci, altre gravi, altre acute, tra loro<br />

compostamente accordate, e in quattro parti distribuite, soprano, alto, tenore,<br />

basso, opposte l’una contra l’altra con esatta misura di tempo [...]» ( 12 ).<br />

La ben nota opera dell’abate Matteo Madau del 1787 è la più antica<br />

inequivocabile attestazione dell’esistenza della pratica del canto<br />

a quattro parti nell’Isola ( 13 ). Più di mezzo secolo dopo il palermitano<br />

Nicolò Oneto in Delle cose musicali di Sardegna (1841) tenta per<br />

la prima volta di analizzare l’organizzazione armonica della polifonia<br />

sarda. Al di là delle osservazioni sullo specifico musicale, i due autori<br />

non mancano di manifestare il proprio stupore nel riscontrare che<br />

una espressione considerata prerogativa esclusiva della musica d’arte<br />

– la polifonia ad impianto armonico – venga praticata al di fuori<br />

delle accademie, dalla gente comune. Un riscontro che viene attribuito<br />

ad una “naturale propensione” ( 14 ):<br />

«[v’è] nei popoli sardi una felicissima disposizione che eglino hanno per<br />

beneficio della natura alla musica, tanto nel genere melodico, che nell’armonico<br />

[...] quando il tenore detto la voce intona il motivo della canzone o<br />

d’altro, tosto le altre voci dette tripli e tipiri che corrisponde ad un tenore<br />

autentico quasi contraltino, il contra, che corrisponde al secondo tenore ed<br />

il basso, di colpo senza veruna discordanza si mettono a cantare contemporaneamente<br />

al primo, per cui fanno delle armonie, e questi degli accordi di<br />

somma difficoltà come quelli di scendere e salire di grado diatonico le armonie<br />

perfette. Ora se questa gente idiota senza alcuna istruzione canta<br />

( 12 )M. MADAU, Le armonie de sardi, Stamperia reale, 1787, p. 25 (ed. moderna<br />

a cura di C. Lavinio, Illisso, Nuoro 1997, p. 74).<br />

( 13 ) La più antica attestazione sembra essere quelle rinvenuta da Giampaolo<br />

Mele in una lettera del 1563 (v. G. MELE, Alcune osservazioni storiche su canti e<br />

lingua in Sardina tra scrittura e oralità (il caso del Medioevo), in J. ARMANGUÉ I<br />

HERRERO, Le lingue del popolo. Contatto linguistico nella letteratura popolare del<br />

Mediterraneo occidentale, Grafica del Parteolla, 2003. Uno studio esaustivo sulle<br />

fonti storiche della polifonia attende di essere fatto: indicazioni preliminari si hanno<br />

in P. SASSU, La musica tradizionale, cit.<br />

( 14 ) Analoghe affermazioni si trovano in altre fonti ancora più indietro nel<br />

tempo che si riferiscono alla pratica vocale dei contadini e del popolo cittadino<br />

delle regioni del centro sud dell’Italia, vedi I. MACCHIARELLA Polivocalità di tradizione<br />

orale nel Rinascimento italiano: ipotesi e prospettive di ricerca in M. AGAMEN-<br />

NONE (cur), Polifonie, cit., pp. 205-238.


290<br />

IGNAZIO MACCHIARELLA<br />

non solo melodicamente ma ancora armonicamente intonando accordi difficili<br />

con precisione, che altro si può e si dee dedurne, se non la loro naturale<br />

disposizione per la musica?» ( 15 ).<br />

L’idea di una “naturale propensione” verso la polifonia, rinforzata<br />

dagli studi del folkloristi del XIX secolo e dagli studiosi di inizio Novecento,<br />

Gavino Gabriel e Giulio Fara su tutti ( 16 ), gode di una certa<br />

attendibilità ancor oggi e anzi è stata vieppiù avvalorata dal successo<br />

“commerciale” e dalla notorietà popolare (nel senso del termine inglese<br />

popular) che il canto a tenore e quello religioso confraternale hanno<br />

recentemente avuto a seguito del loro inserimento nel mercato della<br />

world music. Gli stessi cantori tradizionali, spesso improvvisandosi<br />

“studiosi”, presentando i loro concerti in giro per il mondo (ma anche<br />

al loro paese, chiacchierando informalmente con sos istranzos – gente<br />

di fuori) non mancano di prodursi in (fantasiose) disquisizioni sul<br />

dono di natura che permette ai sardi spontaneamente di cantare in<br />

polifonia (per tacere, poi, del variegato mondo di giornalisti ed eruditi<br />

locali che scrivono e discettano su quotidiani e periodici, radio e televisioni<br />

dell’Isola e talvolta anche del continente) ( 17 ).<br />

( 15 )N. ONETO, Memoria sopra le cose musicali di Sardegna, tipografia Monteverde,<br />

Cagliari 1841, pp. 46-47.<br />

( 16 ) Non è questa la sede per una rassegna sulle fonti storiche della polifonia sarda.<br />

Mi limito a riportare un breve estratto da una delle ultime opere di Giulio Fara,<br />

assai significativo «Di vera polifonia, ove ciascuna voce persegue una sua idea, ove<br />

può meglio sviluppare la propria personalità, io, delle altre zone etnofoniche d’Italia,<br />

non conosco. È dunque un’altra meravigliosa peculiarità della paleoetnofonia sarda.<br />

Non i soli forestieri restano colpiti di questo modo di cantare, ma gli stessi isolani<br />

che ànno senso d’arte non possono fare a meno di sostare e ascoltare. Io pure, sardo<br />

come mi trovo ad essere per discendenza, per spirito e per cuore, io, cui il costume<br />

non poteva colpire, quante volte mi sono sentito attratto, quasi obbligato<br />

ad ascoltare quel misterioso accordo di voci che parevano suscitare un mondo oramai<br />

scomparso [...] che ridestavano in me più, puro, se così posso esprimermi, il<br />

senso misterioso dell’infinito e della religione!» G. FARA, L’anima della Sardegna.<br />

La tradizione musicale, Idea, Udine 1940, p. 146. Come si vede Fara, palesando il<br />

proprio stupore per il “mistero” dei sardi che cantano ad accordo, propone una<br />

idea della polifonia sarda all’opposto della concezione della voce a quattro di tziu<br />

Michelli e di cui si parlerà più avanti: un’idea che risenta della concezione colta<br />

della “vera polifonia” come sviluppo di parti musicali autonome.<br />

( 17 ) Per avere un’idea di ciò è sufficiente dare un’occhiata ai vari siti internet che<br />

pubblicizzano i principali gruppi polifonici che si propongono per l’attività concertistica,<br />

siti spesso curati dagli stessi cantori (si può partire da http://www. indev.it/<br />

musicainsardegna/elencotenores.asp. Naturalmente la cosa non deve affatto stupire:<br />

i cantori attuali hanno di norma una scolarizzazione medio-alta, conoscono e utilizzano<br />

le tecnologie e gli strumenti di comunicazione di massa (vedi oltre).


La voce a quattro: appunti sul canto ad accordo in Sardegna<br />

In realtà, lo sviluppo degli studi sulla polifonia di tradizione orale<br />

degli ultimi decenni ha evidenziato come cantare in accordo sia una<br />

pratica diffusa in una vasta area dell’Europa centro-meridionale che<br />

si giustappone al ben più diffuso riscontro di processi di sovrapposizione<br />

di tipo melodico/orizzontale. Tutt’altro dunque che “naturale<br />

propensione”; più verisimilmente, eredità di modi di far musica lontani<br />

nel tempo, condivisi con altre culture che si affacciano sul Mediterraneo,<br />

che nel corso dei secoli sono andate fortemente e peculiarmente<br />

caratterizzandosi ciascuna a modo proprio ( 18 ).<br />

Di solito la dizione canto a tenore viene usata per indicare la più<br />

nota fra le due tipologie di polifonia ad accordi. Rinviando ad un’altra<br />

sede una approfondita analisi etnomusicologica, qui mi limito a<br />

ricordare che l’espressione definisce normalmente sia un gruppo di<br />

quattro cantori maschi organizzato in altrettante parti vocali variamente<br />

denominate a seconda dei paesi e delle parlate locali (per<br />

esempio, dalla acuta mesa boghe, boghe, contra e bassu) ( 19 ) che si<br />

muovono su un differente registro e con un suo proprio timbro, sia<br />

il risultato sonoro realizzato da tale quartetto, cioè l’esecuzione musicale<br />

a sua volta variamente articolata in repertori locali, ciascuno<br />

dei quali suddiviso in generi (cantu a seria, boghe notte, a ballu eccetera)<br />

( 20 ). Una delle quattro parti vocali, quella chiamata normalmente<br />

sa boghe (letteralmente la voce) assume sempre un ruolo leader:<br />

inizia regolarmente l’esecuzione, fissandone l’intonazione, l’andamento<br />

ritmico e il tempo, nonché la lunghezza complessiva della<br />

performance. Sa boghe è anche l’unica voce a cantare il testo verbale.<br />

291<br />

( 18 ) Alcuni appassionati studiosi sardi hanno ipotizzato una sua assai remota origine,<br />

addirittura in epoca nuragica, ma l’ipotesi è di fatto una mera fantasticheria<br />

perché non supportata da nessun attendibile dato. È invece del tutto verosimile che<br />

le vicende storiche della polifonia accordale sarda siano da riferirsi a quelle della nascita<br />

e sviluppo del falsobordone dalla seconda metà del XV secolo in poi vedi I.<br />

MACCHIARELLA, Il falsobordone fra tradizione orale e tradizione scritta, cit., e ID., Sull’origine<br />

del canto a cuncordu. Note sul repertorio di Santu Lussurgiu, Materiali didattici<br />

per gli studenti del corso di etnomusicologia della Facoltà di Lettere e Filosofia<br />

di Cagliari, A.A. 2003/04 http://www.unica.it/~dipstoge/macchiarella.htm.<br />

( 19 ) Si hanno notizie circa l’esistenza in passato di forme di canto a tenore a<br />

cinque parti (con l’aggiunta di un’ulteriore parte acuta detta sa quinta): esempio,<br />

registrato negli anni Sessanta a Lula, è documentato in I. MACCHIARELLA (cur),<br />

Un’antologia di documenti etnomusicologici dall’Archivio di Radio Sardegna, cit.,<br />

CD 1, brano 5. Tale pratica oggi non è più in uso in nessun paese.<br />

( 20 ) Una classificazione completa dei repertori e dei generi del canto a tenore è<br />

in corso di realizzazione a cura dello scrivente con la collaborazione di Sebastiano<br />

Pilosu e Marco Lutzu. Delle indicazioni di massima si hanno in A. DEPLANO, Tenores,<br />

AM&D, Cagliari 1994.


292<br />

IGNAZIO MACCHIARELLA<br />

Le altre tre parti del quartetto nell’assieme realizzano delle successioni<br />

di sillabe no-sense (bim-bam-birambambo; mba-ué-mba diverse a<br />

seconda dei paesi e dei generi di canto e così via) che hanno la funzione<br />

principale di accompagnare il canto de sa boghe. L’insieme di<br />

queste tre parti (mesa boghe, contra e bassu) viene spesso denominato<br />

cuncordu o cunsertu (in certi paese tenore) e svolge altresì la funzione<br />

di accompagnamento nelle gare della poesia improvvisata, intercalando<br />

con la realizzazione degli accordi gli interventi di ogni singolo<br />

poeta ( 21 ).<br />

La struttura armonica dell’esecuzione è rigorosamente basata sulla<br />

realizzazione di accordi completi in posizione fondamentale, con<br />

il raddoppio della tonica, che si succedono sempre per gradi diatonici<br />

intorno al primo grado, rigorosamente attraverso il moto parallelo<br />

delle parti ( 22 ). Il canto a tenore è considerato un’espressione tipica<br />

della cultura musicale di tradizione orale del centro-nord della Sardegna<br />

e viene eseguito in una settantina circa di paesi, dalla Baronia<br />

al Muntiferru. I primi etnomusicologi che l’hanno studiato l’hanno<br />

considerato come una peculiarità della cultura dei pastori di una ristretta<br />

area geografica, la Barbagia. Scrive Pietro Sassu:<br />

«il tenore deve essere considerato eminentemente musica dei pastori, [...];<br />

le sue strutture musicali sono infatti fortemente determinate dalla vita economica<br />

e sociale del pastore. [...] in bilico tra affermazione delle capacità<br />

del singolo e forte integrazione di gruppo» ( 23 ).<br />

Questa caratterizzazione oggi non è più riscontrabile dal momento<br />

che la pratica del canto a tenore, in virtù di complessi processi di trasformazione<br />

dei suoi significati culturali, viene oggi condivisa da un<br />

largo numero di uomini, giovani, adulti e anziani, di tutte le categorie<br />

sociali: non solo pastori, ma anche contadini, operai, impiegati, pro-<br />

( 21 ) Vedi B. LORTAT JACOB (cur), Polyphonies de Sardaigne, compact disc e libretto<br />

allegato, Le chant du Monde, LDX 274760, Paris 1992.<br />

( 22 ) Si tratta della successione di cui con ammirazione parla Nicolò Oneto nel<br />

passo prima citato evidenziandone la «somma difficoltà»: ciò è vero secondo le norme<br />

della grammatica musicale colta insegnata ancora oggi in Conservatorio (praticamente<br />

allo stesso modo di due secoli fa – sic!) che solo eccezionalmente e con estrema<br />

difficoltà accetta il movimento parallelo per gradi di tutte le parti (movimento di<br />

norma considerato una improprietà, un errore grave). In realtà il movimento va<br />

considerato come una delle possibilità di combinazione fra triadi che la cultura musicale<br />

sarda ha scelto come base del proprio linguaggio armonico.<br />

( 23 )P. SASSU, La musica di tradizione orale, cit., p. 146. Sulla questione vedi<br />

anche D. CARPITELLA, L. SOLE, P. SASSU, Musica sarda, cit.


La voce a quattro: appunti sul canto ad accordo in Sardegna<br />

fessionisti, avvocati e così via. Il riferimento al mondo pastorale, tuttavia,<br />

rimane sempre come un importante orizzonte simbolico.<br />

Assai efficacemente Bernard Lortat Jacob analizza la tipologia polifonica<br />

del canto a tenore come una sovrapposizione di timbri:<br />

293<br />

«Pour les chanteurs, il ne s’agit pas de conduire leurs parties dans des<br />

itinéraires indépendants – nul contrepoint ici-, mais bien de colorer un<br />

spectre unitaire et d’utiliser de multiples façon les ressources de la consonance.<br />

[...] Le tenore est donc une polyphonie fondée sur l’accord parfait qu’exécute<br />

le cuncordu et sur lequel la boghe chante un texte. Mais il n’est pas que<br />

cela, car s’il utilise systématiquement cet accord, c’est surtout pour jouer sur<br />

la couleur des sons qu’il recèle : l’harmonie consonante ne fournit qu’une<br />

base dont le chanteurs s’efforcent d’exploiter les ressources […]. Si l’accord<br />

comprend toujours les même degrés disposés de la même façon, dans tous les<br />

styles et dans toutes les formes, c’est surtout le traitement timbrique qui est<br />

au centre de la démarche esthétique des chanteurs et qui donne lieu à un<br />

véritable travail compositionnel. Bien chanter veut dire chanter juste […]<br />

mais surtout, à l’aide de techniques vocales particulières, savoir combiner au<br />

sein du chœur différentes formules vocaliques standardisées pour en tirer la<br />

plus grande richesse harmonique. En définitive, c’est par cette dernière compétence<br />

que les villages se différencient les uns des autres et que les tenores<br />

[...] s’apprécient comme il se doit» ( 24 ).<br />

L’altra grande tipologia della polifonia ad accordo della Sardegna,<br />

quella religioso-confraternale, non ha una definizione d’uso comune<br />

corrispondente a tenore. Negli ultimi anni si registra una diffusa tendenza<br />

a ricorrere al termine cuncordu o canto a cuncordu che, tradizionalmente,<br />

veniva usato solo in alcuni paesi come Santu Lussurgiu e Orosei.<br />

Una definizione altresì diffusa è coru e chida santa e fa riferimento al suo<br />

contesto esecutivo principale, i rituali della Settimana Santa.<br />

L’interesse verso questo tipo di polifonia accordale è decisamente<br />

recente. Ritenuto una sorta di degenerazione del canto ecclesiastico (e<br />

ciò soprattutto per la presenza di testi verbali in latino e di provenienza<br />

liturgica), esso, fino ad una ventina d’anni fa, veniva del tutto trascurato<br />

dagli studiosi così come dal pubblico degli “appassionati”<br />

ascoltatori del canto tradizionale, dentro e fuori l’Isola ( 25 ). Va a Pietro<br />

( 24 )B. LORTAT JACOB, En accord. Polyphonies de Sardaigne: quatre voix qui n’en<br />

font qu’une, in «Cahiers de musique traditionnelles», VI, 1993, pp. 70-77.<br />

( 25 ) Lo stesso pubblico che oggi, invece, ne va sempre più decretando uno strabiliante<br />

successo al punto che gruppi di cantori confraternali finiscono sempre più<br />

per essere coinvolti nei più disparati “progetti musicali” – come enfaticamente


294<br />

IGNAZIO MACCHIARELLA<br />

Sassu il merito di aver saputo cogliere l’importanza culturale e musicologica<br />

di questo repertorio di cui ha cominciato ad interessarsi fin dagli<br />

esordi della sua attività etnomusicologica, con la “storica” documentazione,<br />

nel 1961, del magnifico repertorio confraternale di Castelsardo,<br />

poi studiato in maniera approfondita da Bernard Lortat Jacob ( 26 ).<br />

Senza entrare nel dettaglio neanche stavolta, mi limito a ricordare<br />

che questo genere polifonico si presenta normalmente a quattro parti<br />

( 27 ), anch’esse variamente denominate a seconda dei paesi e delle<br />

parlate locali (per esempio, dall’acuto: cuntraltu – o falsittu, o mesa<br />

oghe- oghe o bogi; contra e bassu), con una disposizione sui registri vocali<br />

grosso modo analoga a quella del canto a tenore ( 28 ). Dall’analisi musicologica<br />

risulta che una delle parti, sa oghe o bogi, rappresenta una<br />

sorta di perno, di riferimento per il movimento delle altre parti vocali.<br />

L’attacco dell’esecuzione viene sempre realizzato da una sola parte<br />

(spesso in forma di lunghi frammenti melodici), a seconda dei casi sa<br />

oghe o su bassu raramente la contra, mai la parte acuta. Dopo l’attacco<br />

le quattro parti si muovono sostanzialmente in omoritmia (al di là dei<br />

ritardi e anticipi che rappresentano degli importanti espedienti espressivi),<br />

imperniandosi su sa oghe e cantando parimenti il testo verbale.<br />

Accanto ai testi di provenienza liturgica, certamente emblematici di<br />

questo tipo di polifonia, ogni repertorio locale ne presenta altri d’argomento<br />

non religioso, spesso d’argomento serio e andamento lento, in<br />

qualche caso anche destinati all’accompagnamento del ballo (per<br />

esempio sa bogi a passu del citato repertorio di Castelsardo).<br />

Di norma, la polifonia religiosa confraternale presenta successioni<br />

accordali relativamente più articolate rispetto a quelle del canto a<br />

tenore, comprendenti passaggi tipo I-V, I-IV o V-I, e così via, accor-<br />

vengono definite variegate commistioni di gruppi musicali che vanno tanto di<br />

moda – esibendosi in situazioni concertistiche ben lontane dai normali contesti<br />

esecutivi.<br />

( 26 )B. LORTAT JACOB, Canti di passione, Libreria Musicale Italiana, Lucca 1996.<br />

( 27 ) Anche in questo caso non mancano le eccezioni, prima tra tutte la cosiddetta<br />

tasja a cinque parti di Aggius e della Gallura, documentata nel passato - vedi gli<br />

esempi sonori in AA.VV. (cur), Canti liturgici di tradizione orale, cofanetto di 4 long<br />

playing e libretto, Albatros, Milano 1987 e I. MACCHIARELLA (cur), Un’antologia di<br />

documenti etnomusicologici, cit, CD 2, brano 1. Altra eccezione il repertorio a tre<br />

parti registrato a Bono da Pietro Sassu negli anni Sessanta che parrebbe anch’esso in<br />

disuso (vedi la trascrizione musicale in I. MACCHIARELLA, Il falsobordone, cit., p. 96).<br />

( 28 ) In particolare va segnalato il rapporto intervallare di quinta fra le due parti<br />

più gravi, bassu e contra, che analogamente nelle due tipologie polifoniche rappresenta<br />

una sorta di pilastro della struttura accordale (benché non manchino casi di<br />

repertori religioso confraternali in cui tali parti sono a distanza di una terza).


La voce a quattro: appunti sul canto ad accordo in Sardegna<br />

di in rivolto (oppure rapporti intervallari diversi fra le parti che determinano<br />

posizioni accordali differenti), e con possibilità di moto<br />

obliquo o contrario fra le parti.<br />

Praticata all’interno dei sodalizi confraternali e destinata all’esecuzione<br />

contestuale all’interno dei riti paraliturgici previsti per la<br />

Settimana Santa e per le altre feste religiose, nonché per l’accompagnamento<br />

delle liturgie solenni dell’anno e – in certi paesi – per altre<br />

cerimonie religiose (matrimoni, funerali eccetera) questo tipo di polifonia<br />

è diffusa in una cinquantina di paesi del centro-nord dell’Isola,<br />

dal Muntiferru fino alle località della costa settentrionale, un’area<br />

più vasta e parzialmente coincidente con quella del canto a tenore<br />

(tornerò più avanti su questo punto). Un decisivo elemento di caratterizzazione<br />

è dato ancora una volta dall’emissione vocale delle singole<br />

parti e dal timbro che risultano diversi da paese a paese (oltre<br />

che rispetto al canto a tenore). Una tendenza che si riscontra normalmente<br />

è al raggiungimento del massimo amalgama sonoro.<br />

Come scrive bene ancora una volta Bernard Lortat Jacob:<br />

295<br />

«les chanteurs ont un but, et même, pourrait-on dire, un projet esthétique<br />

qui, à chaque exécution se réalise plus ou moins bien [...] ils ne cherchent<br />

pas à associer leurs voix pour construire un large spectre, mais à exploiter<br />

au maximum les possibilités de consonances offertes par l’accord. Tout se<br />

passe comme si leur attention, autant que leur intention, étaient centrées<br />

[...] sur une bande de fréquence beaucoup plus restreinte où soudain [...]<br />

les voix se dédoublent pour en faire apparaître une autre : la quintina [...]<br />

produite par la fusion d’harmoniques dont les cycles concordent.» ( 29 ).<br />

Nella prospettiva musicologica le due tipologie polifoniche presentano<br />

molteplici motivi di differenziazione. Molto sommariamente,<br />

oltre alle diversità relative alla concatenazione accordale e alla coloratura<br />

timbrico-vocale cui si è fatto cenno in precedenza, vanno altresì<br />

ricordate quelle relative alla scansione ritmica. Il canto religioso<br />

confraternale è imperniato su note lunghe tenute, a ritmo “libero”<br />

(cioè con una scansione che non si basa sulla proporzionalità dei valori<br />

e sui consueti schemi ritmici), mentre il canto a tenore è caratterizzato<br />

da una marcata scansione con la sovrapposizione di due impianti<br />

ritmici, quello de sa boghe e quello del cunsertu (le altre tre<br />

( 29 ) B. LORTAT JACOB, En accord, cit., p. 80-81. Sul fenomeno della quintina<br />

vedi pure l’ampia analisi in B. LORTAT JACOB, Canti di passione, cit., e la simulazione<br />

multimediale curata dallo stesso studioso francese e presentata nel sito http://<br />

www.ethnomus.org.


296<br />

IGNAZIO MACCHIARELLA<br />

parti che fra di loro si muovono in omoritmia), da cui talvolta possono<br />

anche risultare effetti di poliritmia. Altre importanti differenze<br />

riguardano, ovviamente, l’articolazione dei repertori, nonché i contesti<br />

esecutivi, la formazione dei cantori e la loro costituzione in<br />

gruppi e così via, tutte questioni che in queste pagine non vengono<br />

affatto considerate per mancanza di spazio.<br />

A fronte di queste importanti differenziazioni, canto a tenore e<br />

polifonia confraternale sembrano manifestare una analoga concezione<br />

musicale di fondo data dalla logica della melodia con accompagnamento.<br />

Una logica che è quella del falsobordone, e che risulta del<br />

tutto evidente, in concreto, nel canto a tenore ma è ugualmente riscontrabile<br />

in quello religioso nel moto omoritmico di tutte le parti,<br />

sottendenti una sorta di cantus firmus di riferimento. Di fatto, le due<br />

tipologie – quanto meno all’analisi musicologica – non debbono essere<br />

considerate come in antitesi fra di loro, bensì come poli di una<br />

comune idea polifonica, magnificamente articolata in un vasto campionario<br />

di repertori locali, e si intrecciano reciprocamente sulla<br />

base di relazioni che attendono di essere studiate e qualificate.<br />

3. «No, non chiamiamola polifonia». Note di ricerca sul campo. –<br />

Bortigali, 28 ottobre 2004, sacrestia della chiesa di Santa Croce.<br />

Quattro chiacchiere tra un’esecuzione e l’altra di brani de su coru e<br />

chida santa (della settimana santa, di provenienza confraternale),<br />

qualche studiantina (brani formalmente analoghi ai brani religiosi<br />

ma con testo profano) e di alcune esecuzioni a sa seria di un gruppo<br />

a cuncordu (definizione locale del cantu a tenore – vedi oltre). Da diversi<br />

mesi con l’amico Sebastiano Pilosu, studioso torpeino, e con la<br />

collaborazione di alcuni amici del posto (Giuseppe Piras, Giovanni<br />

Ledda ed altri) abbiamo avviato in paese una sistematica attività di<br />

documentazione sui repertori polifonici del paese e sui cantori in<br />

grado di eseguirli, i gruppi cui essi normalmente danno vita, gli scenari<br />

esecutivi e così via. Si ragiona a proposito della realizzazione di<br />

un primo compact disc in cui pubblicare una selezione fra i brani già<br />

registrati. Sebastiano propone un titolo per il cd che sottoscrivo immediatamente<br />

A cuncordu. Polifonie di Bortigali. La proposta sembra<br />

raccogliere i consensi del gruppetto di cantori con cui stiamo chiacchierando.<br />

Qualche istante e la voce di Mario Carboni, contra di<br />

uno dei gruppi di cantori de chida santa, fa tacere le altre «No, non<br />

va bene la parola polifonia, proprio no. Fa venire in mente i cori polifonici<br />

alla nuoresa, e noi non facciamo polifonia, siamo diversi,<br />

noi. Noi facciamo tradizione, Miserere e Stabat Mater di Bortigali,


La voce a quattro: appunti sul canto ad accordo in Sardegna<br />

così come si sono sempre cantati a Bortigali e non ci interessa niente<br />

di tutto il resto». Tutti gli altri si uniscono all’obiezione di Mario:<br />

via la parola polifonia dal titolo!<br />

Questo piccolo aneddoto è significativo del punto di vista di gran<br />

parte dei cantori sardi che ho incontrato e conosciuto nel corso delle<br />

mie ricerche. Per loro cantare a tenore o in coru de chida santa significa<br />

fare innanzi tutto qualcosa di radicato nella cultura del paese,<br />

nella sua storia, nel microcosmo dei rapporti fra individui e gruppi,<br />

dei significati e dei valori di ogni singola comunità locale.<br />

“Noi siamo la tradizione”, “noi continuiamo la vera tradizione del<br />

canto del nostro paese” e così via sono espressioni che ho ascoltato<br />

tante e tante volte (in italiano o in sardo - ma sempre con il ricorso al<br />

termine tradizione che è un italianismo), anche in riferimento ad esecuzioni<br />

musicali le quali, con maggiore o minore evidenza, “tradizionali”<br />

non erano affatto. Di fatto l’attribuzione dell’etichetta di “tradizionale”<br />

riguarda il cantare a quattro con un certo tipo di emissione<br />

vocale – in una parola il sound – e non, nel dettaglio, quello che si<br />

canta.<br />

La maggior parte dei cantori e gruppi che conosco ha, infatti, la<br />

tendenza ad allargare il proprio repertorio, cioè l’insieme dei canti<br />

appresi direttamente per trasmissione orale. E ciò non riguarda soltanto<br />

quei gruppi che hanno una intensa attività concertistica dentro<br />

e fuori l’Isola e di incisione discografica e che dunque hanno<br />

grossi stimoli esterni a «non cantare sempre e solo le stesse cose»<br />

(come mi ha detto un giovane amico cantore di un ben noto gruppo<br />

barbaricino) ( 30 ). Anche gli altri gruppi che si muovono nel proprio<br />

ambito locale e nei normali circuiti delle rassegne e degli incontri al-<br />

( 30 ) Molto si discute sull’attività concertistica dei gruppi di canto a tenore e religioso-confraternale,<br />

attività che da un lato viene considerata come un pericoloso<br />

germe di contaminazione della “pura tradizione” (come se esistesse o si potesse parlare<br />

di una “pura e autentica tradizione”!), dall’altro viene accettata come uno strumento<br />

al passo coi tempi (e inevitabile) per “pubblicizzare” la cultura sarda fuori. La<br />

maggior parte dei gruppi che cantano in Continente ha elaborato in realtà una sorta<br />

di doppia musicalità in base agli ascoltatori: fuori dall’Isola possono anche prestarsi<br />

a qualche licenza interpretativa (chiamiamola così) per andare incontro alle esigenze<br />

del pubblico non sardo e non specialista; quando cantano in Sardegna e soprattutto<br />

al proprio paese in situazioni contestuali, tornano ad applicare rigorosamente quel<br />

controllo esecutivo proprio della tradizione (ho verificato direttamente ciò a proposito<br />

di due dei gruppi più noti, i Tenores di Bitti Remunnu e locu e Su cuncordu e su<br />

Rosariu di Santu Lussurgiu, gruppi cui sono legato da rapporti di amici da più di<br />

venti anni). La questione comunque andrebbe adeguatamente approfondita: per una<br />

introduzione alle problematiche dell’influenza della world music sulla cultura tradizione<br />

si veda F. GIANNATTASIO, Introduzione, in «EM», nuova serie, I, 2003.<br />

297


298<br />

IGNAZIO MACCHIARELLA<br />

l’interno delle feste ( 31 ), cercano, più o meno esplicitamente, qualcosa<br />

di nuovo da cantare, e non solo dei nuovi testi poetici da adattare<br />

ai modelli esecutivi locali (cosa che rientra nelle normali dinamiche<br />

della tradizione), ma anche di allargare il ventaglio delle strutture<br />

musicali o semplicemente di aggiungere qualche “nuovo passaggio”.<br />

Si tratta di una tendenza, del resto, del tutto normale considerando<br />

il nuovo status del cantore: non più il pastore o il contadino<br />

semi-analfabeta di qualche decennio fa, sfruttato dal lavoro e con<br />

poco tempo da dedicare allo stare insieme con gli altri e quindi al<br />

canto, ma l’operaio, l’impiegato, il professionista, lo studente – oltre<br />

al contadino e al pastore di oggi che lavora in condizioni ben migliori<br />

del passato – i quali investono nel canto il proprio “tempo libero”,<br />

con prove settimanali e continue occasioni di incontro che, ovviamente,<br />

alzano di molto il livello tecnico, stimolando la ricerca di novità<br />

( 32 ). Questa tendenza all’allargamento del repertorio si esplica,<br />

sostanzialmente, in due orientamenti: da un lato, la ricerca in paese,<br />

attraverso il ricordo degli anziani o la riscoperta di bobine e registrazioni<br />

degli anni Sessanta-Settanta, di brani o di passaggi accordali<br />

“andati perduti” ( 33 ); dall’altro lato mediante una sorta di “sperimentazione<br />

intuitiva”, provando a combinare diversamente gli accordi<br />

o a unire l’esecuzione vocale a qualcosa d’altro (come l’accompagnamento<br />

con l’organetto diatonico o con le launeddas, benché<br />

quest’ultimo strumento appartenga tradizionalmente a ben altra area<br />

di diffusione che quella del canto ad accordo), magari prendendo<br />

spunto dalla conoscenza di qualche altro repertorio locale ( 34 ).<br />

( 31 ) Sul sistema delle feste e sul rapporto musica e festa in Sardegna si vedano<br />

B. LORTAT JACOB, Musiche in festa, Condaghes, Cagliari 2003 e G. ANGIONI, Pane<br />

e formaggio e altre cose di Sardegna, Zonza, Cagliari 2000.<br />

( 32 ) Il miglioramento del livello tecnico del canto ad accordo risulta del tutto<br />

evidente ascoltando le registrazioni di qualche decennio fa: in diverse esecuzioni<br />

degli anni Sessanta documentate dall’Archivio Rai di Cagliari o dall’Archivio personale<br />

di Pietro Sassu (che ho avuto la fortuna di ascoltare e studiare in larga parte),<br />

ad esempio, si notano evidenti incertezze nella stessa intonazione degli accordi<br />

di base, incertezze che oggi sono ben difficile da riscontrare, almeno fra i gruppi<br />

che accettano di cantare davanti a un microfono.<br />

( 33 ) Dopo che i mass media locali avevano dato notizia della mia collaborazione<br />

al progetto di recupero dell’Archivio di Radio Sardegna (v. I. MACCHIARELLA,<br />

Un’antologia di documenti, cit.) ho ricevuto decine di telefonate da parte di cantori<br />

(ma anche di suonatori) che non conoscevo e che mi chiedevano come fare per sapere<br />

se nell’Archivio vi fossero registrazioni “antiche” del proprio paese.<br />

( 34 )I cantori ad accordo hanno mediamente una buona conoscenza degli altri<br />

repertori locali, favorita dall’enorme disponibilità di cassette e compact disc offerte


La voce a quattro: appunti sul canto ad accordo in Sardegna<br />

Al di là dei risultati ottenuti da queste operazioni, e più in generale<br />

dei meccanismi attivi di trasformazione dei repertori tradizionali – per<br />

parlare dei quali sarebbe necessario lo spazio per presentare un approfondito<br />

studio analitico quanto meno su un campione significativo di<br />

dati – aggiungere qualcosa di nuovo, in linea di principio, non viene<br />

considerato un travisamento (o un tradimento) della “tradizione”. Basta<br />

che si rispetti – rigorosamente! – il sound del paese, marchio di<br />

identità in opposizione a tutto ciò che viene da fuori (e dunque anche<br />

a polifonia in quanto termine fortemente connotato dalla connessione<br />

con la pratica esecutiva dei cori organizzati, cosiddetta “alla nuoresa”,<br />

il cui sound viene sentito come “alpino”). Così, per dire, mentre senza<br />

difficoltà si accettano e si propongono esecuzioni di canto a tenore o<br />

di brani religiosi-confraternali accompagnate dalle launeddas (benché<br />

non esista alcun elemento di continuità né notizie dell’esistenza di una<br />

pratica del genere nel passato), si mettono in discussione e si rifiutano<br />

esecuzioni presentate da gruppi formati da cantori di diversi paesi (anche<br />

vicini fra di loro) perché si tratta di per sé di sound ibridi e fuori<br />

dalla “tradizione”: ogni paese ha il proprio modo di cantare e non è<br />

possibile un intreccio fra sound diversi se non in circostanze informali,<br />

durante uno spuntino, per scherzare per divertimento (è questa, ad<br />

esempio, una delle obiezioni che vengono avanzate contro il celebre<br />

gruppo a tenore di Neoneli).<br />

Riferimento basilare di questa idea di “tradizione” è dunque la cultura<br />

del paese (sa bidda), il suo repertorio di canti (nello specifico l’insieme<br />

dei brani che hanno una precisa destinazione contestuale nel<br />

caso del repertorio religioso; certi particolari modi di cantare la poesia a<br />

sa seria e schemi di ballo considerati unici e assolutamente peculiari nel<br />

repertorio a tenore) e il suo specifico modello esecutivo (spesso definito<br />

con il termine su traggiu o sa moda). È invece considerato un riferimento<br />

troppo vago e poco significativo quello all’area geografico-culturale<br />

di appartenenza del paese (la Barbagia, la Baronia eccetera) ( 35 ).<br />

dal mercato discografico sardo dalle incisioni discografiche a carattere amatoriale e<br />

dai relativamente pochi lavori etnomusicologici che anch’esse hanno ampia circolazione<br />

(vedi I. MACCHIARELLA E S. PILOSU, Selected Bibliography of sound recording, disco<br />

editions and literature of multipart singing in Sardinia in EMM. Research Centre of<br />

European Multipart Music (http://www.mdw.ac.at/I121/html/emm/).<br />

( 35 ) In questo senso i raggruppamenti comunemente proposti nella stampa<br />

non specializzata risultano inconsistenti nella consapevolezza dei cantori oltre che<br />

dal punto di vista musicologico. È il caso ad esempio delle cinque aree del canto a<br />

tenore proposte da A. DEPLANO, Tenores, cit.: all’interno di ciascuno si hanno infatti<br />

repertori locali con differenze assai significative e relative ai diversi parametri<br />

musicali che non giustificano affatto l’inserimento in uno stesso gruppo.<br />

299


300<br />

IGNAZIO MACCHIARELLA<br />

Al repertorio e allo stile esecutivo si accompagnano in ogni bidda<br />

uno specifico vocabolario di termini musicali che va dalla denominazione<br />

stessa del quartetto e del suo risultato sonoro e delle singole parti<br />

vocali fino all’identificazione di passaggi accordali, espedienti<br />

espressi e perfino particolari sfumature della performance. Come è<br />

noto, ad esempio, la definizione tenore - cantu a tenore è propria di un<br />

gruppo di paesi fra cui Orgosolo, Bitti, Irgoli, Orune, Orosei e così<br />

via. L’analogo quartetto e risultato sonoro a Fonni, Bortigali, Orotelli<br />

vengono detti cuncordu - cantu a cuncodu, a Mamoiada ussertu, a Torpè<br />

cussertu, a Seneghe di cuntrattu, e via dicendo ( 36 ). Benché nell’uso<br />

comune tutte queste definizioni vengano considerate come dei sinonimi,<br />

la diversità terminologica sottende comunque l’idea che si tratti di<br />

manifestazioni musicali diverse. Sebbene siano espressioni che fanno<br />

parte di un insieme comune, esse vanno avvertite nella loro peculiarità.<br />

Boriccheddu, grande pesadoe (corrispondente de sa boghe) di Seneghe<br />

più o meno testualmente mi ha spiegato che anche se al suo paese<br />

si canta a quattro come a Orgosolo o a Santu Lussurgiu, il loro modo<br />

di cantare, su cantu a cuntrattu, non è un canto tenore né cantu a cuncordu<br />

(cioè religioso confraternale alla maniera di Santu Lussurgiu), è<br />

un’altra cosa, «è cantu a cuntrattu». Insomma un sottolineare la peculiarità<br />

locale sullo sfondo di un riconosciuto apparentamento di fondo,<br />

una appartenenza ad una comune radice che tuttavia deve necessariamente<br />

ammettere l’essenziale esistenza di tratti distinguibili a livello<br />

di realtà locale.<br />

Oltre a ciò, ogni paese ha dei discorsi sul cantare a quattro, sul<br />

repertorio, i testi, l’estetica del canto, i modi esecutivi, la sua importanza<br />

e così via. Discorsi spesso in forma di racconti o di aneddoti<br />

esemplari che contemplano altresì l’esistenza di una sorta di pantheon<br />

locale con le memorie dei grandi cantori e gruppi del passato ed anche<br />

– specie nel caso del canto a tenore – spiegazioni circa l’origine<br />

della tradizione ( 37 ). Discorsi e narrazioni che hanno una importan-<br />

( 36 ) Tra l’altro si hanno diversi casi di termini usati in paesi diversi per designare<br />

espressioni musicali differenti: primo fra tutti cuncordu che a seconda delle<br />

località può indicare a) un sinonimo di canto a tenore, b) l’insieme delle tre parti<br />

che accompagnano sa boghe nel canto a tenore; c) uno dei termini per indicare il<br />

quartetto e l’esecuzione musicale della polifonia religiosa-confraternale. La redazione<br />

del vocabolario completo dei termini utilizzati paese per paese rientra tra gli<br />

obiettivi del progetto citato in apertura.<br />

( 37 ) Ho raccolto decine di discussioni in cui dei cantori di località diverse affermano<br />

con convinzione che il canto a tenore sia nato realmente nel proprio paese<br />

e da lì si sia poi diffuso. A fronte della convinzione comune che il canto a tenore<br />

sia d’origine barbaricina, un gruppo di anziani cantori di Irgoli mi ha racconta-


La voce a quattro: appunti sul canto ad accordo in Sardegna<br />

za fondamentale nell’enfatizzare le specificità locali versus ciò che è al<br />

di là dei confini de sa bidda.<br />

Qualora le pratiche di canto ad accordo delle due diverse tipologie,<br />

a tenore e religioso-confraternale siano presenti in uno stesso paese<br />

(è quanto avviene per esempio a Bortigali, Orosei, Irgoli eccetera)<br />

non vengono mai viste in opposizione reciproca. Metonimicamente<br />

rappresentate rispettivamente da su zilleri, il bar, luogo di ritrovo e<br />

di incontro maschile, e dall’oratorio, luogo del sacro che non coincide<br />

con la chiesa e l’istituzione ecclesiastica, ma con delle piccole collettività,<br />

le confraternite laicali, costituite su base religiosa e con organizzazione<br />

e struttura associativa proprie, le due pratiche hanno<br />

spazi, tempi e contesti esecutivi diversi e ben distinti nella consapevolezza<br />

collettiva. Non mancano, tuttavia, degli elementi di richiamo<br />

reciproco: ad esempio a tenore vengono eseguiti gozos e canti devozionali,<br />

mentre, si è già accennato, tutti i repertori religioso-confraternali<br />

possiedono brani d’argomento profano, ottave triste, istudiantina<br />

e così via. Talvolta vi può pure essere la coincidenza di uno<br />

stesso testo verbale che nel medesimo paese viene cantato con le due<br />

maniere diverse (ad esempio a Bortigali il celeberrimo Ite bella chi ses<br />

di Paulicu Mossa). Certo, chi canta a tenore non canta i repertori religiosi<br />

e viceversa: ciascuna tipologia prevede la formazione di cantori<br />

specializzati e la loro costituzione in gruppi che assolvano alle funzioni<br />

previste dai diversi contesti entro cui sono rispettivamente<br />

chiamati ad operate (l’accompagnamento del ballo in piazza da un<br />

lato; di un rituale paraliturgico dall’altro e così via). Nella consapevolezza<br />

dei membri di una comunità locale i cantori e i gruppi sono<br />

chiaramente individuati e distinti nella loro appartenenza alla sfera<br />

di su zilleri o dell’oratorio ed è impossibile che vi sia un mescolamento<br />

fra di essi (e del resto vi sono anche delle obbiettive ragioni<br />

tecnico-musicali: come si è accennato ciascuna parte richiede uno<br />

specifico iter di apprendistato ed è altamente difficile, se non impossibile,<br />

che un singolo cantore possa adeguatamente riuscire a canta-<br />

to che il “vero tenore” è nato al loro paese e comunque in Baronia e che i pastori<br />

della Barbagia l’hanno copiato quando scendevano in pianura per la transumanza<br />

invernale delle greggi. Un pastore di Oliena, convinto che il “vero tenore” sia originario<br />

del proprio paese («prima di Orgosolo») ritiene invece che il tenore della<br />

Baronia sia stato copiato dai “canti religiosi della chiesa”, come gli avrebbe spiegato<br />

il nonno o il padre; secondo un altro appassionato cantore di Urzulei il tenore<br />

“più antico e più vero” è nato certamente nel suo paese e a Orgosolo, «lo dicono i<br />

vecchi che sono nati insieme». Frequenti altresì sono i discorsi sui “furti” di repertorio<br />

da parte di cantori di altri paesi: i miei amici de Su cuncordu e su rosariu di<br />

Santu Lussurgiu lamentano una lunga casistica al riguardo.<br />

301


302<br />

IGNAZIO MACCHIARELLA<br />

re, per dire, una contra gutturale alla maniera del tenore e la contra<br />

non gutturale del canto religioso) ( 38 ). Tuttavia, al di là delle situazioni<br />

contestuali, nelle feste e nelle occasioni di incontro di tutto il<br />

paese, accade sovente che cantori appartenenti alle due sfere esecutive<br />

si trovino insieme intrattenendosi con il cantare qualcosa, magari<br />

non brani del repertorio del proprio paese ma di altri paesi: un cantare<br />

insieme che non ha ragioni d’ordine musicale ed estetiche, ma<br />

di incontro e socializzazione reciproci ( 39 ). Insomma, più che due<br />

campi nettamente distinti (o in contrapposizione sacro/profano<br />

come vuole l’istituto ecclesiastico), canto a tenore e religioso-confraternale<br />

si presentano come due aspetti di una realtà unitaria, due dimensioni<br />

del cantare a quattro che sono parte di una “tradizione”,<br />

quella della cultura musicale de sa bidda ( 40 ).<br />

Per concludere due parole sulla definizione di «voce a quattro»<br />

presentata in apertura. L’amalgama fra le voci, il serrato impasto dei<br />

timbri diversi fra di loro ma operanti verso una fusione delle voci<br />

specifica per ciascuna delle due tipologie e per ciascun paese che si<br />

osserva dall’esterno attraverso l’analisi musicologica – e di cui si è<br />

fatto cenno nel paragrafo precedente – vengono intuitivamente avvertiti<br />

dai cantori. Ascoltatori assai raffinati in grado di percepire le<br />

minime sbavature nell’intonazione propria e degli altri – l’ascolto reciproco<br />

è fondamentale nel canto ad accordo di tradizione orale, ben<br />

diversamente da quanto avviene nella polifonia colta – essi hanno<br />

ben presente un modello di riferimento sonoro ed estetico della performance,<br />

frutto di un articolato pensiero musicale. Benché diverse<br />

fra di loro, le parti vocali vengono comunque considerate come partecipanti<br />

ad una comune espressione – è emblematico il fatto che<br />

tutte le denominazioni del quartetto di entrambe le tipologie siano<br />

al singolare e precedute dall’articolo su. Al di là del dato tecnico-esecutivo<br />

è l’idea dell’armonia dei suoni come armonia degli uomini<br />

( 38 ) Naturalmente non tengo conto dei diversi quartetti stabili di alcuni paesi<br />

(per esempio di Orosei) che nei concerti fuori dall’Isola propongono in alternanza<br />

brani di canto a tenore e di canto religioso: si tratta di recenti innovazioni anch’esse<br />

frutto delle “sirene” commerciali provenienti dal Continente.<br />

( 39 ) Come accennato i cantori hanno oggi una grande conoscenza degli altri<br />

repertori locali. Cantare, per divertirsi, alla maniera degli altri paesi (quanto i repertori<br />

più conosciuti e apprezzati come quelli di Orgosolo, Bitti, Orune, Fonni<br />

per il canto a tenore; Bosa e Santu Lussurgiu per quello religioso confraternale) è<br />

una pratica molto diffusa negli spuntini e nelle circostanze informali che ho documentato<br />

decine e decine di volte.<br />

( 40 ) Sul rapporto sacro/profano attraverso il canto in Sardegna come aspetti di<br />

una medesima realtà cfr. B. LORTAT JACOB, Canti di passione, cit.


La voce a quattro: appunti sul canto ad accordo in Sardegna<br />

che li emettono che risulta con tutta evidenza dalle discussioni con i<br />

cantori e dall’osservazione sul campo. Un’idea rappresentata efficacemente<br />

dal termine polisemico cuncordu che in maniera più profonda<br />

dell’italiano accordo, si riferisce alla relazione fra i suoni («custu<br />

tenore est cuncordu») e fra le persone («amigos cuncordos»):<br />

«Per cantare insieme prima di tutto bisogna essere veramente amici,<br />

allora sì che canti veramente bene, altrimenti è meglio che lasci stare»:<br />

mi ha detto la prima volta che abbiamo chiacchierato insieme<br />

un cantore di Orgosolo. Quattro voci diverse che, se a cuncordu, ne<br />

fanno una.<br />

303


ANTONIO LOI<br />

LASSÙ SULLE MONTAGNE DEI SAR<strong>DI</strong><br />

Come una premessa<br />

Osservando con ammirata attenzione la bella carta contenuta nel<br />

volume del Mori ( 1 ), che riporta in calce la didascalia: Lineamenti<br />

orografici e zone altimetriche della Sardegna, e quella altrettanto bella<br />

(Tav. 1 - Orografia) contenuta nel primo fascicolo dell’Atlante della<br />

Sardegna edito a cura di R. Pracchi e A. Terrosu Asole ( 2 ), e ricordando<br />

i relativi commenti, sono indotto quasi naturalmente a raffrontare<br />

quelle carte e quelle descrizioni con ‘l’esperienza’ che della<br />

geomorfologia dell’isola (in special modo l’orografia) ho maturato<br />

negli anni. Devo, comunque, chiarire che l’esperienza di cui intendo<br />

parlare è, sia quella di un geografo umano che osserva e descrive una<br />

parte rilevante dei fattori (i fatti fisici) che concorrono a disegnare i<br />

paesaggi e a costruire i territori delle regioni, sia quella di un abitante<br />

della Sardegna, cittadino di Cagliari, che si muove sul territorio<br />

portando sempre con sé la sua “cassetta degli attrezzi”. Questa contiene,<br />

variamente giustapposti, strumenti arrugginiti a causa dello<br />

scarso uso al quale sono evidentemente sottoposti (i ferri del mestiere<br />

che maneggiano con maggior competenza gli scienziati della terra),<br />

insieme ad attrezzi che, alla vista, appaiono chiaramente più<br />

spesso e meglio usati (capacità di lettura degli aspetti culturali, demografici,<br />

sociali, storici e una certa competenza nell’uso dei relativi<br />

indicatori). Tutto ciò, insieme a pregiudizi non sempre coerenti fra<br />

loro, sensibilità cittadina anche nella lettura dei territori diversi dalla<br />

( 1 )A. MORI, Sardegna, UTET, Torino 1966-1975.<br />

( 2 )R. PRACCHI, A. TERROSU ASOLE (cur.), con la direzione cartografica di M.<br />

RICCAR<strong>DI</strong>, Atlante della Sardegna, fasc. I, tav. 1 (Orografia), La Zattera, Cagliari<br />

1971, pp. 1-2.


306<br />

ANTONIO LOI<br />

città, stratificate e talora incoerenti immagini della realtà sarda accumulatesi<br />

nel corso degli anni, che ormai sono diventati numerosi.<br />

Una descrizione ‘canonica’<br />

Tutti gli studiosi della geomofologia della Sardegna pongono in<br />

evidenza la distribuzione delle emergenze orografiche in relazione alla<br />

sua conformazione complessiva ( 3 ) e individuano, su quelle che normalmente<br />

considerano prevalentemente un vasto tavolato variamente<br />

dislocato dalla tettonica, non tanto delle vere catene montuose, bensì<br />

dei «massicci a dossi per lo più arrotondati separati da altipiani e da<br />

pianure che dividono l’isola in grandi settori montuosi di diversa altezza<br />

e che si possono considerare come altrettante isole di un antico<br />

arcipelago saldate di recente da depositi marini e da espandimenti lavici<br />

terziari oppure da alluvioni quaternarie» ( 4 ). Essi inoltre rilevano<br />

puntualmente la dissemetria fra la parte orientale e quella occidentale<br />

dell’isola, essendo la prima, pur contando solo per il 27,4% della superficie<br />

dell’isola, la sede dove maggiore è stata l’attività orogenetica<br />

rispetto alla parte occidentale (il 35,7%) molto meno rilevata.<br />

In effetti, uno degli insegnamenti che ho ritenuto con maggiore immediatezza,<br />

fin dai tempi in cui ero studente di Geografia, è stato proprio<br />

quello relativo alle caratteristiche delle forme del rilievo sarde. Ho,<br />

infatti, presto imparato che in Sardegna non esistono delle vere catene,<br />

bensì sistemi o massicci montuosi variamente dislocati, ma sempre addolciti<br />

dall’erosione. Il solo sistema che potrebbe far pensare erroneamente<br />

a una catena di monti è quello che, partendo dal cono vulcanico<br />

spento del M. Ferru (m 1.060) dominante la pianura del Campidano<br />

maggiore a nord di Oristano, si collega, procedendo da Sud-Ovest a<br />

Nord-Est, ai M. i del Marghine (altezza massima nel M. Santo Padre,<br />

m 1.025), ai M. i del Goceano (altezza massima nel M. Rasu, m 1.259) e<br />

ai M. i di Alà con la cima del M. Lerno (m 1.094). La lettura delle carte,<br />

oltre a confermare l’allineamento descritto, segnala però con maggiore<br />

evidenza la vasta area centro-orientale occupata dal massiccio scistoso<br />

( 3 ) La superficie totale della Sardegna è pari a Kmq 24.089,53, comprese le isole<br />

che la circondano (le maggiori delle quali sono: Sant’Antioco, kmq 109; l’Asinara,<br />

kmq 51; San Pietro, kmq 50; La Maddalena, kmq 20; Caprera, kmq 15). Lo sviluppo<br />

costiero complessivo è di km 1.896,8 di cui 511,9 (il 27,0%) è dato dai perimetri<br />

delle isole minori. L’altezza media non supera m 334. Predomina per estensione il<br />

territorio che l’Istat definisce di collina (kmq 16.351,85, pari al 67,9%) seguito a<br />

grande distanza dal territorio di montagna (kmq 4.450, 85, pari al 18,5%) e da quello<br />

di pianura (kmq 3.286,83, pari al 13,6%).<br />

( 4 ) A. MORI, Sardegna, cit., p. 99.


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

dei M. i del Gennargentu (p ta Lamarmora, m 1.834, altezza massima<br />

della Sardegna), il massiccio granitico del M. Limbara (m 1.362) nella<br />

parte settentrionale dell’isola (Gallura) ai cui piedi sta Tempio Pausania,<br />

il M. Linas (m 1.236) e i M. i del Sulcis (con le cime più elevate del M.<br />

is Caravius, m 1.116 e di M. Maxia alto m 1.017) tutti nella parte sudoccidentale<br />

dell’isola e, infine, i monti del Sarrabus col M. Serpeddi (m<br />

1.069) e i M i . dei Sette Fratelli (m 1.023), nella cuspide sud-orientale<br />

dell’isola. Le carte segnalano anche isolati rilievi quali il massiccio vulcanico<br />

del M. Arci (m 812) che domina a Est il Campidano maggiore, il<br />

M. Corrasi (m 1.463) splendida ultima propaggine del Supramonte, ai<br />

piedi del quale sta Oliena, il M. Santa Vittoria (m 1.212) nei pressi di<br />

Esterzili, l’uno a Nord e l’altro a Sud della Barbagia dominata dai monti<br />

del Gennargentu e il M. Albo (m 1.127) spettacolare montagna calcarea<br />

che sovrasta il centro di Siniscola.<br />

Le mie montagne (sarde)<br />

Tutto molto interessante, ma se penso alle descrizioni ‘canoniche’<br />

che dell’ambiente ‘montano’ sardo hanno fatto molti geografi che mi<br />

hanno preceduto, tutte prevalentemente protese a rilevare gli aspetti<br />

‘negativi’ della realtà sarda per giustificare i malesseri delle sue popolazioni,<br />

e le confronto con la percezione che di questa ho oggi, resto decisamente<br />

sconcertato. Perciò ritengo opportuno proporre il mio<br />

modo di vedere la montagna sarda incominciando col ripercorrere<br />

l’itinerario ideale che mi ha condotto alla conoscenza dei luoghi più<br />

rilevati dell’isola, somma non algebrica di una serie di esperienze compiute<br />

dall’età più tenera a quella attuale, molto meno tenera.<br />

Sono nato a Cagliari, proprio ai piedi del M. Urpinu, piccolo rilievo<br />

che non raggiunge i 100 metri di altitudine (esattamente m 98),<br />

sempre meno coperto di vegetazione arborea (soprattutto pini). Allora<br />

questo ‘monte’ ( 5 ) segnava i limiti estremi della città verso Sud-<br />

Est, mentre attualmente è circondato da una vasta aureola di costruzioni<br />

residenziali spesso di pregio.<br />

Le montagne del Sulcis<br />

Ma questa realtà non è stata quella che mi ha ‘informato’ sul concetto<br />

di monte, perché l’età della coscienza per me è iniziata nel Sulcis dove<br />

la differenza fra pianura, collina e montagna è facilmente percepibile an-<br />

( 5 )I cagliaritani, al pari degli altri Sardi, chiamano monte i rilievi, seppur minimi,<br />

nei quali si identifica buona parte del territorio della città. Insieme a M. Urpinu,<br />

infatti, sono emergenze cittadine anche il M. Claro, il M. San Michele, Montixeddu,<br />

il M.S. Ignazio, ecc., tutti con un’altitudine analoga a quella di M. Urpinu.<br />

307


308<br />

ANTONIO LOI<br />

che dai bambini essendo la prima, insieme a una parte della seconda, il<br />

luogo dei centri abitati e delle attività agricole prevalenti, mentre le<br />

montagne, allora coperte quasi integralmente di boschi, a volte incombono<br />

sugli abitati con le loro cime più o meno arrotondate (la ‘catena’<br />

montuosa di Terraseo a Nord con M. Orri alto m 723), mentre altre<br />

volte si stagliano contro il cielo con le loro cime tabulari (M. Narcao,<br />

m 481, insieme a Mont’Essu e Corona Arrubia ancora meno elevati).<br />

Più in lontananza si dispongono ad arco aperto ad Ovest i M. i del<br />

Sulcis propriamente detti, formazioni montuose fra le quali si distinguono<br />

oltre al M. is Caravius (il più alto), anche il M. Arcosu (m 948) ( 6 )<br />

che si inarca massiccio e oscuro (per la vegetazione) in contrasto con<br />

l’azzurro del cielo e p ta Rocca Steria (m 1.009) col M. Genna Spina<br />

(m 971), monti che al tramonto del sole, specie durante l’estate, offrono<br />

agli abitanti della Valle del Rio Palmas spettacolari visioni intensamente<br />

rosate.<br />

A chi oggi si inoltra su queste montagne anche con una normale<br />

automobile, lungo quelle che un tempo erano carrarecce o mulatiere<br />

divenute più tardi strade di penetrazione, molte delle quali ancora a<br />

fondo naturale e percorse frequentemente dai mezzi delle guardie forestali,<br />

è possibile giungere fin quasi alle cime più elevate. Fra queste,<br />

particolarmente suggestive per il paesaggio che consentono di godere,<br />

sono la p. ta Sebera (m 979) dalla quale, come testimonia il Lamarmora,<br />

nelle giornate più chiare è possibile scorgere persino i rilievi che incombono<br />

sulla non lontana costa africana e il M. Nieddu (m 1.041)<br />

con il contiguo M. Tamara (m 850) dalla cui cime si può ammirare,<br />

guardando verso occidente, il suggestivo paesaggio offerto dalla vasta<br />

distesa della Valle del Rio Palmas, che si estende dai piedi di queste<br />

montagne fino al mare compreso nel Golfo di Palmas. Tutto questo<br />

spazio montuoso, che la geografia canonica ha definito persino inaccessibile,<br />

è governato soprattutto da pastori e da caprari ma anche da<br />

cacciatori, bracconieri, uccellatori e cercatori di funghi, i quali, insieme<br />

alle onnipresenti guardie e agli operai forestali ( 7 ), ‘popolano’ queste<br />

vaste aree che taluno si ostina ancora a definire naturali.<br />

( 6 ) Ormai da molti anni (1985) l’associazione ambientalista W.W.F. ha acquistato<br />

una vasta porzione nell’area dei M.i del Sulcis (prima 3.205 ha e più recentemente<br />

altri 587) nella quale ha realizzato una riserva naturale protetta denominata<br />

“Riserva naturale di M. Arcosu”, visitata annualmente da molte migliaia di escursionisti.<br />

L’associazione ha operato anche con iniziative finalizzate al ripopolamento<br />

di specie animali che nell’area erano estinte o a rischio di estinzione.<br />

( 7 ) Questi ultimi solo stagionalmente presenti come forza di contrasto contro<br />

gli incendi estivi spesso disastrosi.


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

309<br />

I monti dell’Iglesiente, del Villacidrese-Guspinese e dell’Arburese<br />

A Nord della Valle del fiume Cixerri, che unisce il Sulcis alla parte<br />

settentrionale della cuspide sud-occidentale della Sardegna, si articolano<br />

alcune aree, non definibili subregioni per la loro immaturità<br />

strutturale, tuttavia agevolmente riconoscibili per la perspicuità della<br />

loro personalità geografica. Si tratta dell’Iglesiente territorio governato<br />

da Iglesias, per lungo tempo città mineraria che, in seguito alla<br />

crisi di queste attività, va qualificandosi sempre più per le sue funzioni<br />

terziarie. Seguono il Villacidrese-Guspinese e l’Arburese che si<br />

identificano nei centri di Villacidro, Guspini e Arbus capoluoghi di<br />

comune il territorio dei quali non è ancora uscito da una condizione<br />

economica e sociale dominata dalle attività primarie, compresa quella<br />

delle miniere, ma non si è ancora chiaramente avviato verso la cultura<br />

e le attività che dal turismo traggono origine. Tuttavia, nessuna<br />

di queste realtà territoriali appare del tutto estranea alla presenza che<br />

da ogni direzione appare imponente, del M. Linas (m 1.236), anche<br />

se Iglesias si idenfica preferibilmente con la p. ta San Michele (m 906),<br />

Villacidro con i più prossimi M. Margiani (m 859) e M. Cuccureddu<br />

(m 716), Guspini e Arbus con il M. Arcuentu (m 785). Quest’ultimo<br />

è una montagna basaltica la cui notorietà, più che dalla sua altitudine<br />

sul livello del mare e dal fatto che con la sua mole costituisce<br />

il primo ‘invito’, per i venti dei quadranti settentrionali e occidentali,<br />

a incanalarsi spesso precipiti nella pianura del Campidano,<br />

deriva dall’immagine percepita da molti di quanti percorrono da<br />

Nord a Sud e viceversa la strada statale Carlo Felice. Infatti, la seghettatura<br />

dei monti che si staglia nel cielo verso occidente pare a<br />

questi disegnare l’immagine del corpo di Napoleone sul suo letto di<br />

morte ( 8 ).<br />

In ogni caso, vale a dire che si possa o no agevolmente raggiungere<br />

con un comune mezzo di trasporto anche la prossimità delle cime,<br />

nessuna di queste montagne è tanto ostile da impedire, persino a un<br />

normale abitante della città senza una particolare conoscenza dell’ambiente<br />

di montagna, di conquistarle anche in assenza di agevoli<br />

vie e mezzi di comunicazione ( 9 ).<br />

( 8 ) Più recentemente il monte è salito agli onori della cronaca perché una delle<br />

sue grotte ospita da tempo un eremita dei nostri tempi.<br />

( 9 ) Sono ormai arcinote località come quella del M. Marganai con le sue grotte<br />

nei pressi di Iglesias, di Monti Mannu nel territorio montano di Villacidro, di<br />

Perd’e Pibera in comune di Gonnosfanadiga, ecc., che, insieme ad altri siti, non<br />

rappresentano più risorse soltanto per pastori, caprai e porcari, ma anche per chi


310<br />

ANTONIO LOI<br />

La montagna in Gallura<br />

Le mie prime vacanze trascorse a Tempio Pausania, premio per la<br />

promozione ottenuta a giugno, come si diceva allora quando l’anno<br />

scolastico si concludeva a settembre con gli esami di riparazione, mi<br />

hanno permesso (a quattordici anni) di avvicinarmi, per la prima<br />

volta e senza alcun controllo parentale, ad un’altra area montuosa<br />

della Sardegna, quella della Gallura. Questa regione storica, situata<br />

nella cuspide nord-orientale della Sardegna, ostenta, insieme alla<br />

bellezza incomparabile delle coste ben note ormai a molti, anche le<br />

sue ‘serre’ granitiche di cui il M. Limbara e la ‘catena’ frastagliata<br />

che sovrasta il centro abitato di Aggius (i M. i di Aggius) costituiscono<br />

icone rappresentative della sua parte interna. L’incontro con questa<br />

realtà è stato per me molto formativo sia per gli aspetti ‘paesaggistici’<br />

sia per quelli più propriamente ‘umani’ che la Gallura propone<br />

all’attenzione non soltanto del ricercatore, ma anche del visitatore<br />

persino occasionale.<br />

Nella libertà quasi totale di spostarmi sul terreno di cui per la prima<br />

volta potevo godere, limitata soltanto dall’insufficienza dei mezzi<br />

di comunicazione ( 10 ) e dalla loro aleatorietà, ho potuto, infatti, rapportarmi<br />

con la natura e con gli uomini di questa parte della Sardegna<br />

fino ad allora, per me del tutto sconosciute. Erano particolari<br />

quelle montagne grigie sulla più elevata delle quali (il M. Limbara)<br />

ho avuto occasione di salire a bordo di un vecchissimo mezzo di trasporto<br />

partito da Tempio Pausania e giunto fino ad un certo tornante<br />

che il mezzo si dimostrò incapace di superare. Il tratto che mi separava<br />

dalla cima della montagna l’ho percorso agevolmente a piedi,<br />

sempre circondato da un mare di intensi profumi di macchia mediterraea<br />

e accompagnato dall’incessante frinire delle cicale, seguendo<br />

la strada sterrata che continuava, talora ombreggiata da giovani pini,<br />

altre volte fiancheggiata da fresche sorgenti che sgorgavano dai graniti,<br />

molto più spesso assolata testimone di una calura estiva che<br />

neppure l’altitudine riusciva a lenire sensibilmente. La conquista<br />

intenda valorizzarle con percorsi attrezzati dedicati agli escursionisti di ogni livello<br />

e con attività legate all’agriturismo che già incominciano a manifestarsi seppure<br />

ancora timidamente.<br />

( 10 ) Ricordo che nel 1955, per percorrere la distanza tra Cagliari e Tempio<br />

(circa 300 Km), furono necessarie ben otto ore, trascorse prima sul treno delle<br />

Ferrovie dello Stato (fino a Monti) e da qui, su un convoglio composto da due<br />

minuscole carrozze trainate da una sbuffante e ansimante piccola vaporiera che a<br />

fatica si arrampicava su una tortuosa strada ferrata a scartamento ridotto, fino a<br />

Tempio.


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

della cima della montagna è avvenuta subito dopo l’attraversamento<br />

del piccolo altipiano denominato Vallicciola nel quale, tra pini slanciati<br />

e abeti profumati, posato su non consueti prati verdi, si nascondeva<br />

un moderno edificio che aveva la funzione di rifugio, dotato<br />

com’era di bar e di alcune camere d’albergo destinate a pochi pioneristici<br />

turisti.<br />

Questo momento è stato per la mia formazione successiva molto<br />

importante, nonostante, o forse proprio per questo, la contradditorietà<br />

delle esperienze che andavo man mano facendo. Infatti, sulla<br />

montagna, inebriato dall’aria pura e trasparente, potevo abbracciare<br />

con la vista uno spazio vasto nel quale la natura, che si imponeva<br />

allo sguardo con le sue talora acuminate, altre volte arrotondate rocce<br />

granitiche spesso emergenti dal terreno come grandi monoliti,<br />

sembrava giocare un ruolo predominante. Tuttavia, proprio sulla<br />

cima di questa vasta superficie, dominata dal grigio delle rocce affioranti<br />

che solo sporadiche macchie di verde tentavano di attenuare, e<br />

dalla quale nelle giornate più chiare si gode l’incomparabile paesaggio<br />

che le Bocche di Bonifacio, comprese fra le coste settentrionali<br />

della Sardegna e quelle meridionali della Corsica, offrono alla vista,<br />

spuntava una selva di alberi metallici (le antenne della RAI). Un<br />

contrasto, allora più di oggi estraniante, perché inconsueto.<br />

Al geografo che sarei divenuto molto più in là nel tempo, il soggiorno<br />

a Tempio Pausania ha permesso però di scoprire anche un<br />

mondo di uomini molto diverso da quello che avevo fino ad allora<br />

conosciuto. Vale a dire, quello della città di Cagliari nella quale abitavo<br />

e frequentavo la scuola, e quello della realtà sulcitana nella quale<br />

avevo trascorso una buona parte dell’infanzia. Uomini, donne e<br />

bambini della Gallura, erano certamente sardi perché anche loro<br />

abitavano in Sardegna, ma parlavano una ‘lingua’ che sembrava in<br />

qualche modo somigliante all’italiano, anche se molti vocaboli terminavano,<br />

come per il sardo-campidanese, in ‘u’. Ma i bambini e i<br />

ragazzi facevano giochi differenti da quelli praticati nel Sud dell’isola<br />

e gli uomini, oltre ad abitare nei pochi centri sparsi sul territorio,<br />

popolavano anche la campagna, raccogliendosi in piccoli nuclei<br />

chiamati stazzi spesso circondati da boschi soprattutto di querce da<br />

sughero ( 11 ).<br />

Essi inoltre abitavano case affatto differenti da quelle del Sud. A<br />

Tempio e in gran parte della Gallura, infatti, gli edifici, fossero case<br />

piccole o grandi, a piano terra o a piani sovrapposti, fossero case ‘ric-<br />

( 11 )B. SPANO, La Gallura, in C.N.R., «Memorie di Geografia Antropica»,<br />

Roma 1958, p. 242.<br />

311


312<br />

ANTONIO LOI<br />

che’ o case ‘povere’ ( 12 ), o fossero pure chiese o edifici pubblici, allora<br />

erano sempre costruiti sovrapponendo e unendo con la malta cementizia<br />

blocchi squadrati di granito, roccia la cui ubiquità non raramente<br />

consentiva di acquistare col terreno sul quale si voleva costruire<br />

la casa, anche il materiale da costruizione che doveva essere<br />

semplicemente cavato e trasformato in loco in blocchi regolari.<br />

Oggi tutto questo non avviene spesso come una volta, perché<br />

l’estrazione del granito è diventata un’attività industriale fra le più<br />

importanti in Sardegna, che, fra l’altro, va modificando sensibilmente<br />

i paesaggi.<br />

I monti del Marghine<br />

Non appena conquistata l’indipendenza economica dalla famiglia,<br />

ho avuto l’occasione di ‘visitare’ per la prima volta i luoghi connotati<br />

dalla ‘catena’ del Marghine, che prosegue con quella dei monti<br />

del Goceano e di Alà ( 13 ). Queste montagne sembrano segnare<br />

davvero una linea di disconuinità fra la Sardegna del Capo di sotto e<br />

quella del Capo di sopra. A Sud, infatti, la ‘catena’ domina la piana<br />

di Ottana attraversata dal fiume Tirso e proiettata verso le terre basse<br />

della pianura del Campidano. Non lontano, verso Sud-Est, sta la<br />

Barbagia e i monti del Gennargentu. Oggi il Lago Omodeo alimentato<br />

dal fiume Tirso, con la sua superficie liquida notevolmente variabile<br />

a seconda delle stagioni e soprattutto a seconda delle annate<br />

più o meno piovose, caratterizza quest’area, insieme alle ciminiere<br />

del grande complesso industriale di Ottana, oggi non più fumanti, e<br />

ai capannoni che concorrono a determinare il ‘paesaggio’ dell’area<br />

industriale di Macomer. A Nord invece la ‘catena’ degrada verso le<br />

terre basse del Logudoro e del Sassarese i cui paesaggi dolcemente<br />

ondulati (L’Alvernia sarda, secondo Lamarmora) fanno sembrare il<br />

‘luogo’ davvero diverso dal resto della Sardegna. La presenza di nuraghi<br />

su tutta quest’area, inusitata per numero e per caratteristiche,<br />

talora svettanti sulle cime dei rilievi e sulle balze, altre volte decisamente<br />

‘piantati’ in pianura qualche volta in vicinanza ad altre emergenze<br />

archelogiche, testimonia efficacemente del ruolo ‘centrale’<br />

( 12 )GIULIO ANGIONI, Edilizia rurale: case ricche e case povere, in AA.VV., L’architettura<br />

popolare in Italia -SARDEGNA-, Laterza, Bari 1988.<br />

( 13 ) Sui nomi regionali delle diverse parti della Sardegna nelle varie epoche<br />

storiche e specialmente in epoca moderna si veda A. TERROSU ASOLE, La morfologia<br />

cantonale e i nomi regionali, in M. BRIGAGLIA (cur.), La Sardegna, Enciclopedia,<br />

Edizioni Della Torre, Cagliari 1982, I, pp. 29-40.


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

che, fin dalle epoche più remote, questa parte della Sardegna è stata<br />

chiamata a interpretare.<br />

Qui, comunque sia, si è svolto un momento fondamentale della<br />

mia formazione di giovane che si apprestava a diventare adulto. Ho,<br />

infatti, prima di tutto rafforzato notevolmente i legami con l’amico<br />

presso la famiglia del quale ero ospite ( 14 ), ma soprattutto mi sono<br />

trovato per la prima volta a confronto con una condizione naturale e<br />

umana (una civiltà direbbe P. Gourou) ( 15 ) davvero particolare: quella<br />

della Sardegna centrale che in gran parte si identifica nella provincia<br />

di Nuoro. Un ‘mondo decisamente diverso da quello ‘campidanese’,<br />

direbbero anche in senso vagamente dispregiativo molti ‘nuoresi’, e<br />

soprattutto altro rispetto alla città di Cagliari che, forse troppi identificano<br />

ancora con le montagne e non piuttosto con la storia delle popolazioni<br />

che le abitano e che vi hanno scolpito i segni della loro millenaria<br />

civiltà. Questa diversità si manifesta nella lingua e nelle tradizioni<br />

sociali che Pigliaru ( 16 ) e i suoi continuatori hanno forse troppo<br />

drasticamente riassunto nel “Codice barbaricino”, i cui valori sono<br />

spesso descritti come strettamente legati alle caratteristiche dell’ambiente<br />

naturale, e che invece, a mio parere, sarebbero meglio compresi<br />

se considerati come prevalentemente prodotti dalla storia, vale a dire<br />

dall’evoluzione dei rapporti sociali e dagli sviluppi delle tecniche di<br />

produzione che devono molto a quella che una visione sistemica del<br />

mondo indicherebbe come ‘ambiente esterno’. Ciò non toglie che<br />

questa parte dela Sardegna possa identificarsi anche nel ‘sustrato fisico’<br />

accidentato per la presenza di numerosi rilievi spesso coperti di vegetazione<br />

un tempo non lontano molto più lussureggiante di oggi.<br />

Di quella prima visita nella Sardegna centrale, mi sono rimaste impresse<br />

nella mente numerose immagini, tutte dai contorni molto marcati.<br />

Ricordo ancora, con invariato stupore, la precipitosa discesa dalla<br />

cima della montagna che sovrasta il centro di Silanus, di un giovane in<br />

sella ad un cavallo cavalcato a pelo, che nella sua sfrenata corsa schivava,<br />

senza apparente difficoltà, numerosi monoliti spesso giganteschi affioranti<br />

dal terreno e sfiorava con disonvoltura rami frondosi di alberi<br />

secolari, per bloccarsi improvvisamente davanti a me e al mio amico il<br />

313<br />

( 14 ) In realtà solo allora ho capito quanto forti e costruttivi della personalità<br />

possano essere gli affetti che l’amicizia fa condividere.<br />

( 15 ) P. GOUROU, Pour une géographie humaine, Flammarion, Paris, 1973; (Traduzione<br />

dal francese di M. PIA ROTA, Per una geografia umana, Mursia, Milano<br />

1978-84).<br />

( 16 ) A. PIGLIARU, Il banditismo in Sardegna: la vendetta barbaricina come ordinamento<br />

giuridico, Giuffré, Milano 1970.


314<br />

ANTONIO LOI<br />

tempo necessario per coprirci di uno sguardo indagatore (cosa fate qui?)<br />

e poi ritornare da dove era venuto, apparentemente con la stessa velocità<br />

e agilità manifestata nella discesa. E che dire di quel ‘giovane’ novantenne<br />

il quale, in sella ad un cavallo baio, insieme a un nutrito numero<br />

di effettivamente giovani cavallerizzi, percorreva chiassosamente<br />

e allegramente al galoppo la via principale del paese, reagendo con<br />

veemenza agli scarti improvvisi del cavallo che frequentemente scivolava<br />

sull’asfalto della strada resa viscida dal tempo? Era la vigilia della festa<br />

di San Lorenzo, santo patrono del paese e momento topico di tutta<br />

l’annata produttiva. La gente del posto e dei paesi vicini si incontrava<br />

per festeggiare il santo partecipando alle cerimonie religiose, ma anche<br />

‘laicamente’ e in modi diversi a seconda che si fosse pastore, contadino,<br />

artigiano, studente, ecc. Un chiassoso brusio di sottofondo si aggiungeva<br />

agli strepiti dei giovani che si esercitavano in prove di forza su macchine<br />

da luna park (prevalentemente giovani pastori); ai dialoghi concitati<br />

degli avventori dei bar impegnati in ripetute bevute che somigliavano<br />

anch’esse a lunghissime cerimonie (senza distinzione di età e di<br />

ruolo economico e sociale); ai canti dei poeti improvvisatori impegnati<br />

in gare poetiche senza fine, seguite con molta partecipazione soprattutto<br />

da adulti e anziani; ai suoni della musica moderna provenienti da<br />

un ‘moderno’ giradischi e al chiacchericcio di giovani (soprattutto studenti)<br />

riuniti in una improvvisata sala da ballo (in effetti, una piccola<br />

stanza di abitazione svuotata del povero arredo) nella quale si esibivano<br />

le coppie in appassionati “balli del mattone”, ecc. Non rari erano i litigi<br />

fra avvinazzati, specie al termine della giornata. Altri tempi! ( 17 ).<br />

In verità, è qui che ho cominicato a prendere coscienza e conoscenza<br />

delle radici più profonde della civiltà della mia terra venendo<br />

a contatto diretto, per la prima volta e in piena libertà, con i monumenti<br />

più rilevanti del nostro passato, come bettili o menhir, per<br />

noi pedras fittas, nuraghi a profusione e con altre emergenze archeologiche<br />

più recenti ma ugualmente importanti per la nostra storia,<br />

come chiese campestri talora situate a breve distanza da un nuraghe<br />

e non raramente abbandonate a se stesse, ruderi di ponti romani,<br />

ecc. Ho sperimentato, infine, l’orgoglioso attaccamento ai valori dell’agricoltura<br />

anche in questo ambiente dominato dalla pastoralità:<br />

possedere un piccolo orto-frutteto costituiva, infatti, per le famiglie<br />

quasi un privilegio anche socialmente gratificante, come tale difeso<br />

( 17 ) Altri tempi davvero! Ancora nel 1960, ho potuto, infatti, assistere per la<br />

prima e ultima volta al racconto cantato da un cantastorie il quale, con il supporto<br />

di un dipinto su tela diviso in quadri, ha dato esito a una performance artistica<br />

che sa di passato molto remoto. La storia era ovviamente d’amore e di morte.


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

strenuamente dalle ‘visite’ non gradite di quanti avrebbero dovuto<br />

solamente guardare.<br />

315<br />

Il Gennargentu<br />

Ma la montagna in Sardegna è soprattutto il Gennargentu con la<br />

sua punta più elevata (pta Lamarmora) che sovrasta una corona di relativamente<br />

alte cime di monti ( 18 ), i quali concorrono a costituire<br />

un complesso sistema la cui estensione è percepibile, nelle più fredde<br />

e chiare giornate invernali, anche dalla pianura e perfino da Cagliari,<br />

quando capita che una non molto spessa coltre di neve li ricopra.<br />

La descrizione canonica del Gennargentu sottolinea preliminarmente<br />

che la denominazione adottata dai cartografi italiani per indicare<br />

questa montagna è in realtà al plurale: “Monti del Gennargentu”.<br />

In effetti, quando si cerca di rilevarne i limiti ci si accorge che<br />

«si tratta di un vero massiccio, dai bordi grossolanamente squadrati,<br />

un bastione, o piuttosto un grosso torrione, e non una catena lunga<br />

e stretta, una grande serra […]». Tant’è che «la morfologia di dettaglio<br />

è in effetti fortemente complicata» ( 19 ).<br />

L’appellativo di M. i del Gennargentu è da riferire con certezza solo<br />

alle cime più altre, tuttavia il Pelletier ( 20 ) ritiene di dover includere<br />

nel massiccio anche i monti più alti che lo contornano a Est e a Ovest<br />

perché è relativamente facile distinguere i suoi confini soltanto a Sud e<br />

a Nord. Pertanto, il Gennargentu appare come una grande massa<br />

grossolanamente quadrata la cui lunghezza massima, da Nord a Sud e<br />

da Est a Ovest è all’incica di sedici chilometri.<br />

Il Gennargentu è anche la montagna dei Barbaricini e degli<br />

Ogliastrini, popolazioni che la letteratura degli storici descrive concordemente<br />

come discendenti dalle più antiche e persino primigenie<br />

genti della Sardegna, considerate perciò le più autenticamente sarde.<br />

È pure descritto come una montagna ‘vocata’ alla pastorizia, per<br />

molti la sola attività che, ancora oggi, l’ambiente conceda agli uomini<br />

di esercitare per procacciarsi di che vivere. Ed è, infine, l’ambiente<br />

naturale ed umano più spesso descritto dai letterati, sardi e non, i<br />

quali sottolineano immancabilmente la strettissima relazione fra le<br />

caratteristiche dell’ambiente fisico, decisamente rustiche, e quelle<br />

( 18 ) Il Bruncu Spina (m 1.829), il M. Sciusciu (m 1.823), la pta Paulinu (m<br />

1.792), il M. Spada (m 1.595), ecc.<br />

( 19 ) J. PELLETIER, Le relief de la Sardaigne, in «Revue de Géographie de Lyon »,<br />

Momoires et Documents 13, fascicolo f. s., Lyon 1960, p. 163.<br />

( 20 ) Ibidem.


316<br />

ANTONIO LOI<br />

delle popolazioni spesso definite rozze (un sinonimo di rustico) e<br />

conseguentemente arretrate. Ovviamente tutto ciò ha inesorabilmente<br />

consigliato quanti condividono una simile rappresentazione<br />

di questa parte della Sardegna ad operare per preservarla da ogni<br />

contaminazione. Questa ‘visione’ conservazionista si è tal punto imposta<br />

che lo Stato ha persino emanato una legge istitutiva di un Parco<br />

nazionale ( 21 ), fino ad oggi rimasto però solo sulla carta perché gli<br />

abitanti residenti nell’area, specialmente i pastori, non si sono riconosciuti<br />

in un progetto di trasformazione territoriale che non li ha<br />

considerati i principali costruttori dei paesaggi di quei luoghi che<br />

tutti vorrebbero valorizzare anche in termini economici.<br />

Ho conosciuto tardi questa parte della Sardegna ( 22 ), così particolare<br />

non solamente perché la più montuosa, ma anche perché popolata<br />

da genti la cui parlata (nuorese-barbaricino) è decisamente diversa<br />

da quelle usate dalle popolazioni delle altre parti dell’isola ( 23 ).<br />

Una parlata dura anche se musicale ( 24 ), che taluni, non solamente<br />

geografi ( 25 ), ma anche linguisti ( 26 ), antropologi, ecc., pongono in<br />

( 21 ) D.P.R. del 30 marzo 1998, Istituzione dell’Ente Parco nazionale del golfo di<br />

Orosei e del Gennargentu (G.U. n. 110 del 14.5.1998, Serie generale).<br />

( 22 ) In realtà, il primo contatto con la realtà nuorese e barbaricina l’ho avuto<br />

con la lettura dei romanzi di G. Deledda (La madre, Elias Portolu, Canne al vento,<br />

ecc.).<br />

( 23 ) La lingua sarda, riconosciuta come lingua minoritaria anche da una legge<br />

nazionale (legge del 15 dicembre 1999, n. 482, recante Norme in materia di tutela<br />

delle minoranze linguistiche storiche, – G.U. n. 297 del 20 dicembre 1999) e protetta<br />

da una legge regionale (legge regionale del 15 ottobre 1997, n. 26 – Promozione<br />

e valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna”), si articola in<br />

quattro parlate fondamentali: nuorese-barbaricino, logudorese, campidanese e gallurese.<br />

A queste si aggiungono il dialetto di Sassari, la parlata dell’isola linguistica<br />

catalana di Alghero e quella di origine ligure di Carloforte e Calasetta (A. SANNA,<br />

Parlate, in R. Pracchi, A. Terrosu Asole (cur.), con la direzione cartografica di M.<br />

RICCAR<strong>DI</strong>, Atlante della Sardegna, fasc. II, tav. 51, Edizioni Kappa, Roma 1971,<br />

pp. 161-162).<br />

( 24 ) Dicono, ad esempio, chelu e chentu al posto di celu e centu registrati nelle<br />

parlate della maggioranza degli altri sardi.<br />

( 25 ) Condividono questo tipo di lettura anche prestigiosi geografi di scuola<br />

sarda fra i quali si evidenzia A. Terrosu Asole, la quale si esprime in tali termini in<br />

numerosi suoi lavori.<br />

( 26 ) Vedi fra questi A. DETTORI, Sardegna, in L. SERIANNI, P. TRIFONE (cur.),<br />

Storia della lingua italiana, v. 3°, “Le altre lingue”, Einaudi Editore, Torino 1994,<br />

pp. 432-489.


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

relazione con l’asprezza dei rilievi e del clima, che caratterizza questa<br />

zona, oltre che con l’isolamento “naturale”. Una lingua “conservativa”,<br />

parlata da una popolazione lungamente rimasta isolata anche in<br />

relazione alle altre popolazioni dell’isola, caratterizzata dall’immobilismo<br />

prodotto dalla “cantonalità”, che l’avrebbe sempre posta al riparo<br />

da contaminazioni esterne.<br />

Questa è ancora una volta una ‘visione’ decisamente determinista<br />

della condizione culturale dei popoli sardi, che, se collocata nell’ambito<br />

paradigmatico della geografia vidaliana (possibilista), appare decisamente<br />

in contrasto con la sua ‘regola’ fondamentale. La geografia della<br />

“regione umanizzata”, come è risaputo, studia, infatti, i paesaggi umani<br />

come il risultato dell’interazione (dialettica) fra i fattori ambientali<br />

e quelli umani (storia, cultura, società). Nella descrizione dei paesaggi,<br />

infatti, nessuno dei due complessi di fattori (quelli ambientali e quelli<br />

umani) può essere mai dimenticato, o, viceversa, considerato determinante,<br />

perché, così facendo, si cadrebbe ineluttabilmente nel determinismo<br />

geografico che la geografia vidaliana contrasta.<br />

Nel caso specifico, quello cioè che cerca di spiegare le ragioni dei<br />

particolarismi linguistici in Sardegna, sarebbe sicuramente meglio<br />

sottolineare, insieme ai fattori fisici ( 27 ) anche e soprattutto quelli<br />

storici ( 28 ), la descrizione dei quali, purgata da ogni determinismo,<br />

racconta di una Sardegna popolata da Sardi ( 29 ), che, a dire il vero,<br />

erano di volta in volta sardo-punici, sardo-romani, sardo-bizantini,<br />

sardo-genovesi, sardo-pisani, sardo-catalano-aragonesi, sardo-spagnoli,<br />

sardo-piemontesi, sardo-italiani. Si, perché in Sardegna le civiltà<br />

che vi si sono succedute sono state sempre aperte, vale a dire, capaci di<br />

accogliere anche i valori delle civiltà con le quali la storia le ha messe<br />

così spesso in contatto. Ciò non implica che i Sardi si siano sempre<br />

appiattiti sulla cultura dei ‘dominatori’ di turno, tutt’altro ( 30 ), ma che<br />

essi sono stati sempre capaci di metabolizzarla in maniera originale e<br />

per tempi variabili per durata. Non hanno pertanto scimmiottato la<br />

317<br />

( 27 ) Che, però, devono essere storicizzati (M. QUAINI, Marxismo e geografia, La<br />

Nuova Italia, Firenze 1974.<br />

( 28 ) Che, però, devono essere naturalizzati (Ibidem).<br />

( 29 )I quali, allo stato attuale delle conoscenze scientificamente sostenibili, solo<br />

in epoche così lontane nel tempo da poter essere descritte solo ricorrendo al mito<br />

e alla favola, potrebbero e sono talvolta considerati come praticamente autoctoni.<br />

( 30 ) Il prof. Meloni (P. MELONI, La Sardegna romana, Chiarella, Sassari 1980),<br />

racconta della resistenza accanita contro la romanizzazione della Sardegna durata<br />

per più di due secoli. È pur vero però che il sardo Amsicora e suo figlio Josto, i più<br />

rappresentativi e sfortunati eroi di quella resistenza, erano di cultura cartaginese.


318<br />

ANTONIO LOI<br />

cultura dei conquistatori dei quali la lingua è sempre stata l’aspetto<br />

più appariscente, bensì se ne sono serviti esattamente come noi oggi<br />

ci serviamo della lingua italiana soprattutto per relazionarci col resto<br />

del paese, mentre fra di noi non disdegnamo di parlare la ‘nostra’<br />

lingua, specie nelle relazioni familiari e amicali. Tutto ciò, però,<br />

contrasta col senso comune e con le spiegazioni che la letteratura<br />

specifica e di divulgazione propongono, molto più propensi a trovare<br />

le ragioni delle caratteristiche “conservative” della lingua sarda e<br />

specialmente di quella parlata dai montanari, piuttosto nella geografia<br />

che nella storia.<br />

Probabilmente questa situazione ha molto da spartire anche con<br />

l’autorevole insegnamento di Dante Alighieri il quale, nel suo De vulgari<br />

eloquentia ( 31 ), alla ricerca di una lingua “aulica” nella quale riconoscere<br />

quella degli Italiani nel loro complesso, soffermandosi sulla<br />

lingua sarda usata ai suoi tempi anche presso le cancellerie dei Giudicati,<br />

dunque nell’“aula”, afferma, appunto, che i Sardi sono come le<br />

scimmie perché imitano il latino ma lo storpiano platealmente ( 32 ).<br />

Non sono un grande studioso di storia romana, ma il mio esame<br />

su quella disciplina l’ho sostenuto a suo tempo e con non poca fatica<br />

per la sua preparazione. Orbene, uno dei pochi ricordi che mi sono<br />

rimasti di quello studio ha proprio a che fare con questa remota realtà<br />

sarda, quella delle montagne, la conquista delle quali non fu agevole<br />

neppure per i Romani e ancora meno facile fu la sua completa<br />

pacificazione ( 33 ), che tuttavia fu totale e molto dolorosa per le po-<br />

( 31 ) D. ALIGHIERI, De vulgari eloquentia, I, XI, in L. BLASUCCI (cur.), Dante<br />

Alighieri. Tutte le opere, Sansoni Editore, Firenze 1965.<br />

( 32 ) Infatti egli così afferma: Quam multis varietatibus latio dissonante vulgari, decentiorem<br />

atque illustrem Ytalie venemur loquelam; et ut nostre venationi pervium callem<br />

habere possimus, perplexos frutices atque sentes prius eiciamus de silva. (trad.: In<br />

moltissime varietà diversamente suonando l’italico volgare, mettiamoci sulle tracce<br />

della più decorosa, della illustre favella d’Italia; e per poter avere sgombra la via della<br />

nostra caccia, gettiam fuori prima dalla selva i cespugli intricati ed i pruni.) L’elenco<br />

dei volgari da escludere è lungo e, iniziando da quello dei Romani, definito non volgare<br />

ma tristiloquio (non vulgare sed potius tristiloquium), Dante termina con la parlata<br />

dei Sardos etiam, qui non latii sunt, sed latiis associandi videntur, eiciamus, quoniam<br />

soli sine prorio vulgari esse videntur, gramaticam, tamquam simie homines, imitantes;<br />

nam dominus nova et domus novus locuntur. (trad.: Anche i Sardi espelliamo,<br />

che non sono Italici, ma pare doversi aggregare agli Italici, poiché soli paion privi<br />

d’un loro proprio volgare, imitando il latino come fanno degli uomini le scimmie;<br />

dicono infatti dominus nova e domus novus. (Ivi, pp. 215-216).<br />

( 33 ) Poiché è molto probabile che avesse ragione il personaggio nemico dei Romani<br />

(Calgacus) di cui Tacito riporta le parole indirizzate ai suoi compatrioti contro<br />

i Romani descritti come capaci di ogni misfatto: … ubi solitudinem faciunt,


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

polazioni locali. Ne è prova, fra le molte altre, l’importante strada<br />

romana ( 34 ), di cui rimangono ancora evidenti vestigia, che da Cagliari<br />

conduceva a quella che è oggi la città di Olbia, passando per il<br />

centro montano più elevato della Sardegna: Fonni. Dunque, anche<br />

in Barbagia i Romani portarono la loro pace, che resero più sicura<br />

distribuendo ai legionari a fine carriera i territori rimasti senza padroni.<br />

A me pare ovvio che, quando i nuovi coloni ex soldati erano<br />

di cultura contadina abbiano scelto di tornare a fare gli agricoltori<br />

preferibilmente negli spazi di pianura e di bassa e media collina,<br />

come ‘consigliavano’ le tecniche di allora, e che in montagna invece<br />

siano rimasti prevalentemente gli ex soldati di cultura pastorale, i<br />

quali trovarono conveniente accettare le proprietà che il governo<br />

concedeva loro come indennizzo per il lungo servizio militare prestato,<br />

molto vaste ma caratterizzate da maggiore rusticità. Insomma,<br />

se davvero anche la Barbagia fu completamente romanizzata, cosa<br />

che a me pare indubitabile, non c’è da meravigliarsi più di tanto che i<br />

Barbaricini parlino una lingua che assomiglia anche più delle altre lingue<br />

romanze al latino. Ma ciò non è dovuto al presunto isolamento<br />

indotto dalla presenza delle montagne, come insegnano i geografi magari<br />

ricalcando opinioni interessate di antichi autori, bensì alla coscienza,<br />

lungamente coltivata con orgoglio da queste popolazioni ( 35 )<br />

più che da altre, di appartenere a una cultura (quella romana) superiore<br />

a quelle dei dominatori succedutisi l’uno dopo l’altro una volta<br />

che l’egemonia romana era venuta meno. È, con molta probabilità,<br />

per questa ragione che anche quando questa coscienza si è attenuata<br />

fino a scomparire, le popolazioni della montagna hanno continuato<br />

a parlare la lingua dei loro avi, cioè il latino solo debolmente contaminato<br />

da linguaggi che hanno successivamente ‘suonato’ nella terra<br />

dei Sardi perché nel frattempo il feudalesimo imposto dagli iberici realizzava<br />

società ‘isolate’ dai valori dell’economia curtense. E perché meravigliarsi<br />

di ciò? Di più, perché ricorrere alla presunta capacità dei<br />

fatti fisici (in questo caso le montagne) di determinare il comportamento<br />

degli uomini organizzati in società per cercare la ragione della<br />

effettiva “conservatività” della cultura e della lingua sarda e special-<br />

319<br />

pacem appellant (PUBLIO CORNELIO TACITO, Agricola, 30), non è improbabile che<br />

anche la Sardegna, e specialmente la sua parte più irrequieta, vale a dire quella più<br />

montuosa, abbia conosciuto quel tipo di ‘pacificazione’, seppure dopo molti e gloriosi<br />

episodi resistenziali.<br />

( 34 ) Una delle quattro che congiungevano il Sud col Nord della Sardegna.<br />

( 35 )A mio parere, anche la balentia, che le popolazioni di queste parti della<br />

Sardegna ostentano, ha prevalentemente radici storiche e non geografiche.


320<br />

ANTONIO LOI<br />

mente di quella interna (nuorese-barbaricina e logudorese)? Perché<br />

non pensare invece che i discendenti dei coloni romani, anche quando<br />

il potere di Roma era cessato in favore di altri poteri, meno prestigiosi<br />

ma che si sono dimostrati capaci di sostituirlo, siano rimasti<br />

orgogliosi della loro romanità (civis romanus sum) e abbiano continuato<br />

per lunghissimo tempo a pensare, a vivere e a parlare come<br />

Romani ( 36 ), difendendo la loro civiltà, valorizzando al riguardo anche<br />

i ‘vincoli’ che l’ambiente pone? Non è forse quanto fanno da più<br />

di cinquecento anni anche i Catalani di Alghero ( 37 ), oggi minoranza<br />

linguistica ma maggioranza ai tempi del dominio spagnolo, anche<br />

senza montagne? E i Carlofortini e i Calasettani non avrebbero continuato<br />

da più di duecento anni ( 38 ) a parlare il dialetto di Pegli,<br />

poco modificato rispetto a quello parlato ai tempi della loro migrazione<br />

in Sardegna ( 39 ) se non avessero popolato un’isola e una pseudo<br />

isola? ( 40 ) È, infatti, sempre l’orgoglio di appartenere a una civiltà<br />

‘superiore’ che tutte le civiltà condividono e coltivano, ovviamente,<br />

in modi e forza diversi ( 41 ), che può portare una lingua e una cultura<br />

( 36 ) Nonostante abitassero una terra che fin dai tempi più remoti i Romani<br />

stessi indicavano come Barbaria e chiamavano i suoi abitanti col nome di Barbaricini.<br />

( 37 )I quali continuano a volersi sentire catalani anche se non possono contare<br />

su alleati naturali (mare, monti, fiumi, ecc.) per difendersi dalla completa integrazione<br />

con la cultura sarda.<br />

( 38 ) La città di Carloforte, come tutti sanno, fu fondata nel 1737 nell’isola di<br />

San Pietro, per accogliere popolazioni di origine genovese che popolavano l’isola<br />

di Tabarca presso Tunisi, da cui furono costretti a trasferirsi per sfuggire alle sempre<br />

più frequenti razzie dei musulmani.<br />

( 39 ) Qualcuno pensa, e persino scrive, che ciò sia potuto accadere perché gli<br />

abitanti di Calasetta e soprattutto quelli di Carloforte risiedono in un’isola che li<br />

tiene separati dal resto della Sardegna da cui li allontanerebbe il seppur breve tratto<br />

di mare. In realtà, solo i Carlofortini possono considerarsi abitanti di un’isola<br />

minore, raggiungibile dall’isola madre, ieri anche con piccole barche e oggi con un<br />

traghetto che impiega meno di un’ora di navigazione per unire la città di Carloforte<br />

con Portoscuso o con Calasetta. In queste condizioni si può parlare seriamente<br />

di isolamento indotto dall’insularità? Come si spiega allora che i Carlofortini<br />

navigano il mondo e occupino, specialmente a Cagliari, numerosi posti di lavoro<br />

nei ruoli intermedi, sia nell’industria dove, a detta di molti, esercitano una vera<br />

e propria egemonia, sia nella pubblica amministrazione?<br />

( 40 ) Gli uni abitano nell’Isola di San Pietro, gli altri popolano la parte più settentrionale<br />

dell’Isola di Sant’Antioco, già dal tempo dei Romani unita all’isola<br />

madre da un ponte.<br />

( 41 ) Che, nel caso degli eredi dei coloni romani aveva una qualche ragione<br />

d’essere.


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

ad essere “conservative”, non la marginalizzazione geografica provocata<br />

dalla presunta ma mai dimostrata forza segregatrice del mare,<br />

dei monti, dei fiumi, delle foreste, e persino dei deserti, caldi o freddi<br />

che siano.<br />

È, certamente, principalmente per queste ragioni che la società<br />

che caratterizza queste contrade è decisamente diversa da quella delle<br />

altre parti della Sardegna, specialmente quella delle pianure, ritenuta<br />

più disponibile alla completa integrazione perché più docili. Ma, a<br />

ben vedere, potrebbe aversi anche un’altra lettura del rapporto fra<br />

autoctoni e dominatori. Potrebbe, infatti, essere accaduto che le popolazioni<br />

di pianura sia siano più facilmente integrate con i conquistatori<br />

di turno semplicemente perché sono state assoggettate a un<br />

controllo più attento e determinato perché detentrici di valori economici<br />

(l’agricoltura produttrice di grano e altri cereali) di importanza<br />

strategica.<br />

Ma ve ne sono anche altre di ragioni che spiegano la diversità.<br />

Prima di tutto questa parte dell’isola è abitata da relativamente pochi<br />

abitanti ( 42 ) anche in relazione alla densità complessiva dell’isola,<br />

in linea con quanto accade normalmente nelle aree montuose del resto<br />

del mondo ( 43 ). Secondariamente, gli abitanti dei comuni che<br />

gravitano attorno al Gennargentu sono portatori di una civiltà che si<br />

identifica in gran parte in quella dei pastori, allevatori di pecore da<br />

latte da cui ricavare il formaggio, qui sovrani indiscussi, altrove governatori<br />

e valorizzatori di tutti gli spazi isolani sottratti all’agricoltura<br />

e alle esigenze dell’economia e della cultura cittadina o da esse<br />

ignorati. Una condizione umana che i geografi spiegano, troppo<br />

spesso sbrigativamente, come l’unica possibile, dati i presupposti<br />

ambientali ai quali gli uomini si sarebbero adattati in ogni tempo.<br />

Insomma, la montagna nuorese sarebbe stata da sempre ‘vocata’ alla<br />

( 42 ) Al Censimento del 2001 la densità di popolazione nella provincia di Nuoro,<br />

nel territorio della quale si colloca il massiccio del Gennargentu, era, infatti,<br />

pari a 37,6 ab./kmq, evidentemente molto bassa non solo se paragonata a quella<br />

registrata nella provincia di Cagliari (110,3 ab./kmq), ma anche in relazione a<br />

quella di Sassari (60,3 ab./kmq), di Oristano (58,2 ab./kmq, ab./kmq) e di quella<br />

complessiva della Sardegna (67,7 ab./kmq).<br />

( 43 ) Ma non è la montagna in sé che determina lo scarso numero di abitanti,<br />

bensì tutta una serie di convenienze, relative alle tecniche di produzione e di organizzazione,<br />

che molto più spesso fanno privilegiare la pianura e la collina. Non è,<br />

tuttavai, una regola, visto che nelle aree intertropicali sia dell’America latina (Messico,<br />

Perù, Cile, ecc.), sia dell’Africa (l’acrocoro etiopico, ecc.), le montagne sono<br />

più popolate della pianura, ovviamente per ragioni climatiche e di salubrità, come<br />

insegna P. GOUROU, Per una geografia umana, cit.<br />

321


322<br />

ANTONIO LOI<br />

pastorizia e perciò anche oggi è popolata da pastori che conducono<br />

una vita di duro lavoro, sempre lontano dalle abitazioni e dalla famiglia,<br />

costretti a una solitudine che abrutisce i corpi e gli animi ( 44 ).<br />

Ma, in effetti la pastorizia in Sardegna è ubiquitaria ( 45 ) e in montagna<br />

inoltre si è sempre praticata anche l’agricoltura seppure di sussistenza<br />

(grano, orzo, fagioli, patate, ecc.), anche se questa attività era<br />

prevalentemente riservata alle donne e, in passato, agli schiavi. È, infatti,<br />

la società che è culturalmente pastorale. Vale a dire che qui i pastori<br />

rappresentano la cultura egemone, mentre l’agricoltura è considerata<br />

un’attività secondaria se non residua, comunque socialmente<br />

“inferiore” (riservata, appunto, lungamente, alle donne e agli schiavi).<br />

Ma un’ubriacatura determinista arriva fino al punto di sostenere<br />

che in Sardegna persino il riprovevole, ma storicamente limitato ai<br />

nostri tempi, fenomeno dei rapimenti di persona sarebbe ‘indotto’<br />

dalle caratteristiche geomorfologiche della Barbagia e dell’Ogliastra<br />

dove, non essendo possibile altra attività, gli abitanti si dedicherebbero<br />

alla pastorizia, che, dato anche il clima sfavorevole, non potrebbe<br />

che essere seminomade (la transumanza). Tutto ciò farebbe del<br />

pastore un’isolato sempre a contatto con le bestie e soggetto a pericoli<br />

costanti che lo induriscono fino a renderlo crudele e insensibile<br />

al dolore umano, così come è insensibile al dolore delle bestie che<br />

rinchiude e uccide senza scrupoli, semplicemente per convenienza<br />

economica.<br />

Ho voluto verificare anche questo sillogismo determinista (montagna-pastore-rapimento<br />

di persona) che palesemente non ha alcuna validità<br />

scientifica, come sempre capita quando e se accanto alle ‘ragioni’<br />

della natura non si prendono in considerazione anche quelle della storia.<br />

Ho assegnato, pertanto una tesi di laurea proprio sulla relazione<br />

fra ambiente naturale e sequestri di persona in Sardegna. Orbene, anche<br />

facendo ricorso ai dati cortesemente forniti dal ‘povero’ ( 46 ) giudi-<br />

( 44 ) In effetti, di “vocazione” dei terreni si può parlare solo nell’ambito di<br />

un’agricoltura moderna, vale a dire, orientata verso il mercato. Come insegna P.<br />

GOUROU, Per una geografia umana, cit., infatti, in epoca premoderna contadini e<br />

pastori coltivavano dappertutto senza porsi problemi di produttività, perché la<br />

loro attività era, in gran prevalenza, orientata verso la produzione di quanto era<br />

necessario per sfamare se stessi e le rispettive famiglie (autoconsumo).<br />

( 45 ) A. LOI, M. ZACCAGNINI, Sardegna, collana «Geografia dei sistemi agricoli<br />

italiani » diretta a M.G. Grillotti, REDA, Roma 1996.<br />

( 46 ) La fine drammatica del giudice, suicidatosi proprio nei giorni successivi<br />

alla discussione della tesi di laurea di cui ho detto, nulla toglie al valore dei dati da<br />

lui pazientemente raccolti nel tribunale di cui era uno dei più eminenti operatori.


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

ce Luigi Lombardini del Tribunale di Cagliari, la tesi ha chiaramente<br />

dimostrato che i rapimenti di persona in Sardegna si sono verificati,<br />

come attività esercitata non solo fuori dai contesti della legge<br />

dello Stato ma anche di quelli fissati dal codice barbaricino, solamente<br />

dagli anni ’60 ( 47 ). In effetti, l’elenco dei condannati a causa<br />

di questo reato, contrariamente a quanto comunemente si crede, è<br />

composto da nomi di persone che raramente hanno a che fare con<br />

l’ambiente agreste della pastorizia ( 48 ). Molto più spesso i condannati<br />

sono cittadini attivi nei più diversi settori di lavoro: commercianti,<br />

vigili urbani, impiegati, venditori di automobili, ecc.<br />

Voglio, infine, discutere su un tema di ricerca caro ai geografi,<br />

tema curato ampiamente anche da altri cultori di scienze umane, soprattutto<br />

sociologi e antropologi di cui a Cagliari esiste una vera e<br />

propria scuola ( 49 ). Orbene, tutti, geografi e non, sono concordi nel<br />

riconoscere alla montagna, oltre al suo indiscutibile ruolo nella salvaguardia<br />

dei valori di civiltà subalterne per le quali ha costituito<br />

spesso un’area rifugio, anche la sua determinante funzione nel processo<br />

di sviluppo delle attività economiche. Nel caso in specie, vale a<br />

dire il rapporto fra i M. i del Gennargentu, e generalmente fra le<br />

montagne della Sardegna, e il “genere di vita” dei Barbaricini e degli<br />

Ogliastrini, ma anche delle altre popolazioni montane dell’isola, vi<br />

sarebbe una stretta dipendenza fra ambiente e civiltà umane nella<br />

quale sarebbe il primo termine (l’ambiente) ( 50 ) a dettare le regole e<br />

il secondo (le civiltà umane) a subirle. Infatti, anche e soprattutto ai<br />

Sardi di queste parti dell’isola, considerate le condizioni ambientali<br />

tanto “sfavorevoli”, per sopravvivere non sarebbe rimasta che l’op-<br />

323<br />

( 47 ) In realtà nel 1935 vi è stato in Sardegna il primo rapimento di persona<br />

(una bambina), che è stata tenuta lontano dalla famiglia solo per poche ore e subito<br />

riconsegnata senza richiesta di riscatto.<br />

( 48 ) Nei pochi casi, non più di due, si è trattato di latitanti di più o meno lunga<br />

data che hanno svolto soltanto il ruolo di guardiani dell’ostaggio.<br />

( 49 ) Che ha come capostipite il prof. E. De Martino, per un certo periodo docente<br />

a Cagliari di Storia delle religioni, ma che successivamente ha potuto contare<br />

anche sull’insegnamento del prof. G.M. Cirese che ha introdotto a Cagliari<br />

(fac. Di Lettere e Filosofia) l’Antropologia culturale e ha formato un agguerrito<br />

gruppo di antropologi sardi, oggi apprezzati docenti oltre che a Cagliari, anche in<br />

altre prestigiose università italiane.<br />

( 50 ) Vale a dire, il clima siccitoso e tanto variabile da poter essere definito persino<br />

capriccioso, la natura del suolo in gran parte impermeabile, definito talvolta<br />

persino sterile, la grande rocciosità della superficie della terra e la sua morfologia<br />

notevolmente mossa e irregolare, ecc.


324<br />

ANTONIO LOI<br />

zione della pastoralità. Questa attività, essendo esercitata in aree così<br />

impervie e inadatte per altre attività economiche, avrebbe, fra l’altro,<br />

prodotto una stirpe di uomini e di donne particolari la cui tempra<br />

sarebbe “dura come il granito”. Sicuramente uomini molto adatti a<br />

fare i soldati anche per la loro sempre dimostrata predisposizione a<br />

mantenere la parola data, in questo caso ai governi in favore dei quali<br />

in ogni guerra i Sardi hanno prestato giuramento di fedeltà, e donne<br />

molto forti nel sopportare il dolore per la perdita dei rispettivi<br />

mariti e figli. Ricordo, per inciso, che la Brigata Sassari, lungamente<br />

composta da soli Sardi, è stata ricomposta per ben due volte e che la<br />

sua bandiera è la più decorata fra tutti i reggimenti dell’esercito italiano.<br />

Quanti giovani sardi morti al servizio della Patria!<br />

Ma sul ruolo della montagna nella determinazione delle caratteristiche<br />

socio-economiche delle genti che le abitano si pensa, si dice e<br />

si scrive anche di altro. Si afferma, in particolare, che la pecora sarda<br />

sarebbe un animale rustico e poco esigente in fatto di alimentazione,<br />

seppur generoso nella produzione di latte destinata prevalentemente<br />

ai caseifici, ma sarebbe anche particolarmente sensibile alle variazioni<br />

climatiche. Poiché il clima della montagna sarda ( 51 ) è, appunto,<br />

anche notevolmente variabile, l’adozione di una pastoralità segnata<br />

dalla transumanza sarebbe stata il solo modo di superare il limite<br />

struturale di cui si è detto. Una convinzione, questa, che ha sensibilmente<br />

condizionato anche gli esiti della ricerca scientifica di molti,<br />

non solamente geografi ( 52 ).<br />

( 51 ) Il sistematore autorevole di questa ‘visione’ della realtà montana sarda è sicuramente<br />

LE LANNOU, Pastori e contadini di Sardegna, cit., il quale del fenomeno<br />

transumanza ci ha lasciato una descrizione che non esiterei a definire persino epica.<br />

( 52 ) Infatti, sul tema hanno scritto con continuità i geografi, ma soprattutto gli<br />

antropologi e i sociologi. Fra questi si distinguono gli scritti di G. ANGIONI, I pascoli<br />

erranti, Liguori Editore, Napoli 1989; di G.MURRU CORRIGA, Dalla montagna<br />

ai campidani. Famiglia e mutamento in una comunità di pastori, EDES, Cagliari,<br />

1990; ID., Maurice Le Lannou e il nomadismo dei pastori sardi, in A. LOI, M. QUAI-<br />

NI (cur.), Il Geografo alla ricerca dell’ombra perduta, Edizioni dell’Orso, Alessandria,<br />

1999; di B. MELONI, Famiglie di pastori, Rosemberg & Sellier Editori, Torino<br />

1984, ecc. Fra i geografi invece, di pastorizia e di fenomeni legati alla transumanza,<br />

in tempi relativamente recenti, si sono occupate in diverse occasioni A.<br />

LEONE, M. ZACCAGNINI, Immigrazione di pastori barbaricini e recenti trasformazioni<br />

nella valle del Cixerri (Cagliari), in «Annali della Facoltà di Magistero dell’Univ.<br />

di Cagliari», VII, III, Cagliari (1983); ID., Pastorizia e valorizzazione del territorio<br />

in alcune aree di pianura della Sardegna, in U. LEONE (cur.) La rivalorizzazione territoriale<br />

in Italia, Franco Angeli, Milano 1986, pp. 225-240; ID., L’évolution de<br />

l’élevage des moutons dans la montagne sarde, in «Bulletin de la Société Languedocienne<br />

de Géographie», 110 eme année, fasc. 3-4, Montpellier (1987), pp. 229-245.


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

Se così effettivamente stessero le cose, sarebbe stato il clima della<br />

montagna sarda, specialmente quello della stagione invernale, coi<br />

suoi freddi pungenti e con la neve le cui coltri impediscono seppure<br />

temporaneamente il pascolo delle pecore, che avrebbe da sempre costretto<br />

il pastore sardo a svernare coi suoi animali nelle parti basse<br />

della terra sarda, relativamente calde e assolate anche in inverno.<br />

Con tutto ciò che questa costrizione ha comportato per il pastore,<br />

per la sua famiglia, per le popolazioni delle terre basse le quali da molti<br />

secoli ormai lo ospitano. Per il pastore, infatti, la lontananza così<br />

prolungata dalla sua terra di origine (anche sei mesi all’anno) ( 53 )<br />

comportava l’abbandono, seppure temporaneo, di tutta una serie di<br />

certezze sia sui rapporti umani anche extrafamiliari, sia in relazione<br />

ai luoghi nei quali esercitare la sua attività lavorativa, certamente<br />

meno facilmente contrallabili di quelli di origine dove il pastore era<br />

ed è sovrano. Ma gli ha imposto anche una vera e propria complessificazione<br />

professionale e sociale che ha fatto di lui, profondo conoscitore<br />

della fisiologia e della stessa biologia dell’animale pecora, botanico<br />

competente sulla natura e qualità delle erbe e sul modo di gestire<br />

la vegetazione nel suo complesso, atleta capace di percorrere<br />

giornalmente vasti spazi spesso non poco ardui, qual è sempre stato,<br />

anche un geografo provetto in grado di leggere paesaggi e territori<br />

sui quali segnare e riconoscere percorsi e spazi geografici, e sociologo<br />

capace di stringere rapporti umani e di affari anche in ambienti diversi<br />

da quelli di origine e dunque meno conosciuti.<br />

Per quanto attiene al pastore ‘geografo’, è persino risaputa la sua<br />

capacità di individuare i luoghi più ‘adatti’, per ragioni geomorfologiche<br />

e geobotaniche, al pascolamento del proprio gregge ( 54 ). Egli<br />

inoltre come si diceva, ha dovuto imparare a segnare i percorsi che<br />

dai luoghi di origine conducevano a quelli della transumanza invernale.<br />

Questi percorsi, infatti, attraversavano terre pubbliche e private<br />

di cui egli doveva essere in grado di individuare i reggenti (autorità<br />

pubbliche o proprietari privati) coi quali stipulare, sulla parola,<br />

contratti di affittanza o permessi di pascolo temporanei. A questo<br />

punto, in soccorso del pastore ‘geografo’ si aggiungeva il pastore sociologo<br />

(e psicologo). Infatti, egli era indotto dal bisogno di far<br />

mangiare il proprio gregge tutti i giorni di tutti i mesi di tutti gli<br />

( 53 ) Lontano anche dalla famiglia che non poteva seguirlo nel suo incessante<br />

peregrinare alla ricerca di sempre nuovi pascoli.<br />

( 54 ) La sua capacità di individuare luoghi è del resto già stata rilevata anche da<br />

M. LE LANNOU, Pastori e contadini di Sardegna, cit., quando afferma che la Sardegna<br />

è una terra nella quale la densità di toponimi è fra le più rilevanti in Europa.<br />

325


326<br />

ANTONIO LOI<br />

anni, a intrattenere rapporti di affari coi maggiorenti dei paesi attraversati<br />

durante i lunghi e estenuanti spostamenti verso i terreni più<br />

bassi e più caldi e con quelli dell’area di arrivo ai quali egli si rivolgeva<br />

con sicurezza e capacità persuasiva per vedersi assicurati i permessi<br />

di pascolo. La sua scaltrezza al riguardo è nota e si fondava soprattutto<br />

sul fatto che il pastore in Sardegna era un imprenditore di se<br />

stesso che consumava parte di quanto produceva, ma, nel contempo,<br />

ricavava dalla vendita del latte, del formaggio, della carne di agnello,<br />

delle pelli e della lana somme di denaro non sempre esigue. Cosa,<br />

quest’ultima, che al contadino possessore della terra capitava molto<br />

meno di frequente. Egli, infatti, dalla lavorazione della terra ricavava<br />

prodotti alimentari anche abbondanti, che però non facilmente e<br />

con la stessa continuità potevano trasformarsi in moneta spendibile.<br />

Alla capacità persuasiva del denaro offerto ai contadini proprietari<br />

della terra in cambio dell’uso temporaneo di risorse spesso trascurate<br />

per altri usi, il pastore aggiungeva anche altre strategie tutte tese<br />

ad ottenere la continuità di tale uso. Egli, infatti, era solito omaggiare<br />

con forme di formaggio e con l’agnello a Pasqua ( 55 ) i proprietari<br />

della terra presa in affitto, coi quali, per maggior sicurezza, stringeva<br />

anche vincoli di amicizia che il comparatico generalmente rendeva<br />

più solida e definitiva. Tant’è vero che molto spesso l’amicizia fra le<br />

persone si estendeva anche alle famiglie, segnava vite intere e si tramandava<br />

addirittura di padre in figlio.<br />

Questa, però, è la parziale rappresentazione di una situazione che<br />

in Sardegna, ormai da qualche tempo, è sempre meno vera. Infatti,<br />

nonostante quanto affermato da Le Lannou, il quale a proposito delle<br />

ragioni che hanno indotto i pastori della montagna sarda alla<br />

transumanza, negava drasticamente la possibilità di ogni e qualsiasi<br />

trasformazione delle tecniche da loro elaborate e adottate, perché determinate<br />

dal clima e dalla natura del suolo ( 56 ), i cambiamenti sono<br />

stati addirittura epocali. Infatti, oggi il pastore è sempre più stanziale,<br />

non solamente nella aree di transumanza dove, acquistati i terreni<br />

( 55 ) La fornitura di una certa quantità di formaggio e dell’agnello a Pasqua, in<br />

cambio del diritto al pascolo, faceva generalmente parte delle clausole del contratto<br />

di affittanza.<br />

( 56 ) Egli, infatti, così si esprimeva al riguardo: Noi coglieremo il carattere razionale<br />

che, al loro fondo, hanno i sistemi di organizzazione rurale più arcaici e i più<br />

sorpassati: ci si scontra con inconvenienti evidentissimi quando, in nome dei progressi<br />

della tecnica, si vogliono fissare le greggi su questa o quella parte dell’area pastorale,<br />

che ha invece tutta la mobilità e tutti i capricci della steppa (M. LE LANNOU, Pâtres et<br />

paysans de la Sardaigne, Arrault, Tours 1941; (trad. it. di M. BRIGAGLIA, Pastori e<br />

contadini di Sardegna, Della Torre, Cagliari 1979).


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

prima tenuti in affittanza, ha edificato moderne strutture ricettive<br />

(ovili in muratura dotati di strutture produttive anche all’avanguardia<br />

come le mungitrici automatiche, case di residenza della famiglia<br />

molto spesso simili a ville di grandi dimensioni e di architettura tutt’altro<br />

che spontanea), ma anche nelle aree montane. Il pastore inoltre<br />

si avvicina sempre più alla pratica di attività più propriamente<br />

agricole, quali l’aratura dei terreni ( 57 ) e la loro semina a foraggi, approfittando<br />

anche proficuamente e talora anche più degli agricoltori<br />

delle infrastrutture irrigue.<br />

Ciò è avvenuto, a mio modo di vedere, fondamentalmente per due<br />

ragioni che poco hanno a che vedere col clima e con la natura dei suoli.<br />

La prima ragione è fondamentalmente di natura giuridica, anche se<br />

il contesto storico ha ugualmente una sua grande rilevanza. Nel febbraio<br />

del 1971, infatti, il Parlamento ha approvato la legge nota come<br />

Legge De Marzi Cipolla, in forza della quale, fra le altre disposizioni,<br />

gli affittuari dei terreni insieme ad altri, maturano anche il diritto di<br />

prelazione in caso di vendita dell’immobile, per di più a prezzi assai<br />

vantaggiosi per l’affittuario. Com’è facile immaginare, in una società<br />

rurale nella quale il mercato immobiliare delle terre agricole era da<br />

sempre pressoché bloccato, con questa legge è stata data anche e soprattutto<br />

ai pastori l’opportunità di entrare in possesso definitivo di<br />

fondi rurali, che prima, specialmente in pianura e bassa collina, gli era<br />

praticamente preclusa. Infatti, quando l’uso agricolo della terra è da<br />

tempo trascurato dai proprietari assenteisti o residenti altrove perché<br />

emigrati, la legge quasi costringe a vendere la terra. In queste condizioni,<br />

numerosi pastori i quali, in effetti, erano praticamente i soli capaci<br />

economicamente di acquistarla, hanno fatto valere i loro diritti e<br />

sono diventati proprietari di molti talora vasti appezzamenti di terra.<br />

Tutto ciò è avvenuto soprattutto nelle aree prima occupate solo nel<br />

periodo della transumanza (Valle del Cixerri, alta pianura del Campidano<br />

di Cagliari e di Oristano, Nurra, Sarrabus, ecc.) dove ormai numerose<br />

famiglie di pastori si sono definitivamente trasferite e stanzializzate<br />

nei modi prima succintamente descritti.<br />

La seconda ragione è ugualmente di natura giuridica, ma relativa<br />

all’attività legislativa della R.A.S. operata soprattutto dall’Assessorato<br />

che, non per niente, si definisce Assessorato dell’agricoltura e Riforma<br />

agro-pastorale. Da molti anni ormai la Regione ha, infatti, legiferato,<br />

anche in ottemperanza alle direttiva europee, con atti che ten-<br />

( 57 ) Come hanno dimostrato A. LOI e M. ZACCAGNINI, Sardegna, cit., il pastore<br />

è ricorso massicciamente anche ai vantaggi delle politiche della U.E., che attualmente<br />

premiano le attività di rimboschimento e il set aside.<br />

327


328<br />

ANTONIO LOI<br />

devano alla sedentarizzazione del pastore per indurlo ad un’attività<br />

economicamente gratificante e soprattutto irreprensibile dal punto<br />

di vista igienico-sanitario. La Riforma, in effetti, non si è ancora<br />

concretizzata come pastori, legislatori ed economisti agrari si auguravano,<br />

si è proceduto invece alla realizzazione di lotti di sperimentazione<br />

di nuove tecniche agro-pastorali che hanno avuto un certo<br />

successo specialmente in Ogliastra. Qui, infatti, anche nelle terre<br />

pubbliche sono comparse le reti antipecora, prima non concepibili<br />

specialmente in aree la cui proprietà era prevalentemente comunale.<br />

La divisione delle aree pascolative in parti diverse, si è operata per<br />

consentire il pascolo solo nelle parti del territorio interessate da una<br />

cotica erbosa sufficientemente valida, mentre, contemporaneamente<br />

ricresce l’erba nella parte in precedenza sfruttata e temporaneamente<br />

interdetta alle pecore per consentire la ricostituzione del manto erboso.<br />

Inoltre, per favorire una più rapida e abbondante crescita dell’erba,<br />

nelle aziende pastorali è comparso anche il trattore, spesso custodito<br />

in ovili costruiti in muratura (specialmente blocchetti di cemento) da<br />

cui è ormai punteggiata anche la campagna barbaricina ( 58 ). L’uso dei<br />

mangimi nei periodi climaticamente più avversi, permette inoltre al<br />

pastore di alimentare il proprio bestiame custodito negli ovili al riparo<br />

dalle intemperie anche in queste circostanze.<br />

A questo punto, a completamento di quanto finora affermato, non<br />

mi restano da fare che due riflessioni finali sul ruolo della montagna,<br />

fattore geografico da molti ritenuto determinante nella costruzione<br />

della storia della civiltà dei Sardi.<br />

È proprio vero che la montagna sarda ha avuto un ruolo determinante<br />

nella costruzione della geografia umana di queste parti dell’isola?<br />

I geografi ne sono convinti, e con loro anche altri ricercatori, non<br />

solo quelli riferibili alle scienze della terra, ma anche importanti studiosi<br />

di scienze umane. In effetti, taluno osserva e rimarca ancora, talora<br />

persino compiaciuto, quanto gli uomini della montagna sarda siano<br />

stati capaci di ‘adattarsi’ alle condizioni geomorfologiche e climatiche<br />

di questa parte di Sardegna tanto avverse.<br />

In effetti, il fatto che queste popolazioni siano state capaci di ricavare<br />

persino benessere da risorse povere e di difficile accesso (quelle<br />

della montagna), in molte altre parti del mondo trascurate e misconosciute,<br />

è senz’altro un fatto straordinario. Non dovuto però<br />

tanto alle caratteristiche delle montagne, che non sono molto diverse<br />

da quelle di altre aree analoghe del bacino del mediterraneo, bensì<br />

( 58 ) Non sempre il paesaggio rurale di queste vaste aree ne risulta beneficiato.


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

prevalentemente alla civiltà maturata nel tempo dalle popolazioni di<br />

queste aree le quali, non avendo sicuramente inventato né la cultura<br />

pastorale né, tanto meno, la tecnica della transumanza presenti da<br />

millenni in molte altre parti del mondo asiatico e africano, devono<br />

all’affinamento delle tecniche di produzione ereditate dal passato<br />

persino remoto, sostenuto anche dai modi di organizzarsi socialmente,<br />

il loro “genere di vita”. Dunque alla loro storia, perché la scelta<br />

di vivere in montagna da parte delle popolazioni di tutto il mondo,<br />

non è stata mai spontanea ( 59 ), bensì indotta da circostanze storiche<br />

che talora rendevano questa scelta preferibile ad altre. È, infatti, evidente<br />

che le montagne pongono vincoli senz’altro più rigorosi di<br />

quelli che pongono le pianure e le colline, non per niente i territori<br />

più rilevati del mondo sono molto spesso spopolati e trascurati specialmente<br />

dalle civiltà agricole, ma anche da quelle degli allevatori.<br />

Insomma, è indubbio che in montagna si stia generalmente peggio<br />

che in pianura e in collina e per questa ragione gli uomini le popolano<br />

con minore densità e frequenza. Basta, al riguardo, osservare una<br />

carta tematica sulla distribuzione della densità della popolazione nel<br />

mondo: insieme ai deserti caldi e freddi, le aree meno densamente<br />

popolate sono quasi sempre effettivamente quelle più rilevate. È evidente<br />

perciò che quando le montagne sono popolate, ciò non dipende<br />

tanto dalla loro caratteristiche più o meno vantaggiose, bensì dalle<br />

convenienze che le civiltà hanno individuato a popolarle, spinti a<br />

ciò soprattutto da necessità storiche avverse o da convenienze climatiche<br />

o sanitarie (ad esempio, la minor incidenza della malaria).<br />

Una seconda riflessione è nata spontanea in seguito a una per me<br />

particolarmente interessante visita dell’Ogliastra, effettuata alcuni<br />

anni orsono. Guidato da persone del luogo sufficientemente acculturate,<br />

ho potuto percorrere territori aspri ma mai ostili. Ho goduto<br />

inoltre di paesaggi che ancora a maggio possono talora contare anche<br />

sul bianco della neve che copre le cime più elevate del Gennargentu e<br />

che si stagliano con nettezza su cieli azzurri limpidissimi. Sull’altipiano<br />

di Villanova Strisaili le cime innevate o meno del Gennargentu si<br />

riflettono sulle acque del lago artificiale dell’Alto Flumendosa, creando<br />

suggestioni di tipo alpino. In quell’occasione ho potuto visitare, oltre<br />

a siti di particolare bellezza paesaggistica, anche alcuni ovili molti<br />

dei quali sono ancora quelli tradizionali: ricavati in spazi residui ri-<br />

( 59 )A meno che non si tratti delle popolazioni delle aree intertropicali come<br />

nel caso delle popolazioni andine e delle aree montuose dell’Africa orientale, convinte<br />

però a vivere, anche ad altitudini elevate, più da vantaggi climatici che dalle<br />

caratteristiche intrinseche dei rilievi.<br />

329


330<br />

ANTONIO LOI<br />

propongono immagini che rimandano a tempi assai remoti. Altri<br />

ovili invece, talora attive e produttive aziende gestite da pastori beneficiati<br />

dalla Riforma, sono la conferma più convincente di quanto<br />

siano determinanti, nella costruzione dei paesaggi e dei modi di vita,<br />

le tecniche di organizzazione delle società umane. Come consente la<br />

Riforma, infatti, in alcune aree dove questa è stata seppure parzialmente<br />

sperimentata, è permessa la costruzione di strutture edilizie<br />

anche nei terreni comunali, dove i pastori possono trovare riparo per<br />

se stessi, ricoverare e mungere il bestiame e, nella stagione che prevede<br />

la chiusura dei caseifici (l’estate), produrre e conservare il formaggio<br />

in condizioni igienico-sanitarie almeno accettabili. In uno di<br />

questi ovili ho incontrato un capraro di mezza età, ex pastore di pecore<br />

e aspirante allevatore anche di bovini. L’incontro con questa<br />

persona umanamente tutt’altro che straordinaria è stato per me un<br />

momento importante sia dal punto di vista umano, sia per l’arricchimento<br />

anche professionale che ne ho ricavato. Quell’incontro, infatti,<br />

ha, tra l’altro, dato inizio a una pacata riflessione sul rapporto che<br />

intercorre fra cultura alta, nel nostro caso quella espressa dalla geografia<br />

accademica, e cultura popolare, vale a dire, quella che nasce e<br />

si sviluppa nella realtà di tutti i giorni, vissuta e sperimentata dalle<br />

popolazioni, senza filtri ideologici o modelli di rappresentazione che<br />

non siano quelli condivisi da tutti.<br />

Orbene, in relazione a questa per molti versi straordinaria condizione<br />

naturale e umana della Sardegna, quella della montagna, i geografi<br />

concordemente sostengono che generi di vita, storia e società<br />

che la caratterizzano siano la naturale conseguenza del rapporto<br />

uomo-ambiente nel quale è, però, l’uomo che si adatta alle regole<br />

che l’ambiente predispone. Scarsezza e aleatorietà delle risorse fornite<br />

dai pascoli naturali avrebbero, infatti, indotto i pastori ad allevare<br />

solo il bestiame minuto e a sopportare un modo di condurre le<br />

aziende che non prevede la sedentarietà, bensì la netta separazione<br />

fra luogo di lavoro e quello della residenza della famiglia. La natura<br />

non favorevole dei terreni spesso impermeabili, caratterizzati sovente<br />

da ampi spazi di rocce affioranti, e il clima irregolare e imprevedibile,<br />

dunque, avrebbero obbligato il pastore a girovagare col suo gregge in<br />

vastissimi spazi anche lontani fra loro sempre alla ricerca dell’erba che<br />

non è mai sufficiente a sfamare gli animali o perché spunta in ritardo<br />

a seguito di estati siccitose che si prolungano persino nell’autunno<br />

astronomico, o perché inattese piogge tardo-estive l’hanno fatta nascere<br />

e seccare così presto da non consentire la maturazione di semi a<br />

sufficienza per fornire una nuova copertura erbosa. Per questo il pastore<br />

non può contare su una vera casa nel luogo di lavoro essendo


Lassù sulle montagne dei sardi<br />

questo sempre diverso, ed è dunque costretto a ripararsi solo in precari<br />

ricoveri per sé, quali capanne di frasche (le famose pinnettas),<br />

mentre gli animali stanno sempre all’aria aperta. Come tutti sanno,<br />

infine, il pastore sarebbe obbligato dai rigidi inverni barbaricini e<br />

ogliastrini a scendere in pianura (la transumanza) alla ricerca di pascolo<br />

di cui, per la ragioni suddette, non potrebbe disporre a sufficienza<br />

in montagna.<br />

Il capraro di Villagrande di cui ho prima parlato mi ha invece<br />

fornito con molta convinzione e persino con una certa amara saggezza,<br />

prodotto finale di una lunga esperienza personale, una spiegazione<br />

di questi fatti che trascura del tutto il ruolo della natura e fa risaltare<br />

invece quello della storia. Questa ha voluto, infatti, che in questa<br />

vasta parte della Sardegna le popolazioni abbiano scelto un modo<br />

di relazionarsi con le risorse naturali fondato sull’uso comune della<br />

terra, la cui gestione è da sempre guidata dai consigli comunali in<br />

molti casi possessori di buona parte del territorio comunale ( 60 ). Va<br />

da sé che in queste condizioni sono stati prevalentemente i prinzipales<br />

(i maggiorenti proprietari di greggi a volte sterminati) a dettare le<br />

regole sia a un gran numero di servi pastori, sia a un altrettanto gran<br />

numero di piccoli armentari il cui gregge solo raramente supera le<br />

cento pecore. Risulta facile, pertanto, capire le ragioni del perché il<br />

pastore barbaricino e ogliastrino ha condotto e in larga parte ancora<br />

conduce una vita in gran parte errabonda sempre alla ricerca di pascoli,<br />

costretto a vivere una buona parte della sua vita in solitudine<br />

lontano dagli affetti familiari e persino con scarsi legami col resto<br />

della società. In una terra di tutti, infatti, nessuno poteva edificare<br />

alcunché, e certamente non era nell’interesse dei prinzipales, che potevano<br />

disporre anche di non trascurabili appezzamenti di terreno in<br />

proprietà privata, legare questo o quel servo pastore a una parte sola<br />

della superficie complessiva (quella di proprietà privata) quando si<br />

poteva usufruire senza limitazioni anche dello spazio rurale comunale.<br />

Mentre era certamente nel loro interesse tenere sotto controllo le<br />

famiglie dei propri dipendenti, insieme a quelle dei pastori meno abbienti,<br />

anche per queste ragioni, raccolte in centri abitati di dimensioni<br />

talvolta non trascurabili. Tutto ciò permetteva anche ai ceti subalterni<br />

di garantirsi con uso delle risorse comuni, almeno la soprav-<br />

( 60 ) Comuni come Fonni, prima di tutto, ma anche, seppure in minor misura,<br />

Desulo, Tonara, Gavoi, Mamoiada, Orgosolo, ecc, dopo aver riscattato i feudi,<br />

non hanno aderito né allo spirito, né alla lettera delle Leggi delle chiudende e hanno<br />

mantenuto indiviso i loro territori che da sempre hanno gestito in forma comunitaria.<br />

331


332<br />

ANTONIO LOI<br />

vivenza propria e di quella dei familiari. Sono, pertanto, evidenti le<br />

ragioni che consigliano, ancora oggi, a molti di resistere a cambiamenti<br />

delle tecniche di produzione e soprattutto di quelle di organizzazione.<br />

Le tecniche tradizionali, infatti, in apparenza più arcaiche<br />

e per molti arretrate, hanno dimostrato lungamente la capacità<br />

di garantire a tutti almeno il necessario.<br />

In quanto alla transumanza, tecnica di organizzazione descritta<br />

come dettata dalle condizioni climatiche della montagna, c’è da rilevare<br />

che questa tecnica è in Sardegna patrimonio culturale esclusivo<br />

delle popolazioni barbaricine e ogliastrine, vale a dire soltanto nell’area<br />

nella quale prevale l’uso comune delle risorse rurali, mentre<br />

non è praticata dalle altre popolazioni di montagna. Ciò conferma<br />

ancora una volta che il fenomeno economico e sociale della transumanza<br />

deve essere posto in relazione ai fatti di natura umana (tecniche<br />

di organizzazione) piuttosto che essere riferito alle presunte costrizioni<br />

naturali.<br />

D’altronde, essendo quasi certo che gli uomini come tali non<br />

sono nati in montagna, ma vi sono pervenuti in tempi che talora<br />

sono talmente remoti da non permettere di risalire alle motivazioni,<br />

se il clima avesse davvero costretto i pastori, come molti ancora credono,<br />

a svernare con le loro greggi nelle terre basse dell’isola ( 61 ),<br />

questo fatto, in ultima analisi, sarebbe, comunque, da attribuire alle<br />

caratteristiche delle civiltà che hanno sfidato la montagna, per le ragioni<br />

che ci sfuggono nella loro specificità, nonostante questa fosse<br />

“non favorevole”.<br />

Questa è, seppure con altre parole e in estrema sintesi, la ‘lezione’<br />

che ho ricevuto dal capraro di Villagrande, molto meno ‘prestigioso’<br />

dei geografi come Le Lannou, Mori e i loro epigoni, ma sicuramente<br />

molto più di loro integrato nella realtà economico-sociale e culturale<br />

della sua terra.<br />

( 61 ) Cosa, questa, da escludere decisamente anche alla luce delle attuali grandi<br />

trasformazioni che stanno interessando il mondo pastorale, sempre più proiettato<br />

verso la sedentarizzazione anche nelle aree montane.


FABIO PARASCANDOLO<br />

TERRITORI RURALI E SOSTENIBILITÀ NEL PROCESSO<br />

<strong>DI</strong> COSTRUZIONE <strong>DELLA</strong> SARDEGNA TURISTICA<br />

SOMMARIO: Introduzione. – 1. Le motivazioni al turismo e le relazioni tra visitatori<br />

e abitanti. – 2. Verso un turismo sostenibile? Considerazioni sull’economia<br />

del turismo in Sardegna. – 3. Territori locali e sostenibilità: questioni<br />

di scala.<br />

Introduzione. – In questo saggio prenderemo in considerazione i<br />

rapporti intercorrenti tra attività turistiche e territori rurali della Sardegna<br />

per evidenziarne alcuni aspetti secondo noi rilevanti per un approccio<br />

geografico che si voglia sensibile alle problematiche della qualità<br />

ambientale dei luoghi ( 1 ). Premettiamo che non vi si troverà nessuna<br />

indicazione sui “numeri aggiornati” del turismo nell’isola; ci proponiamo<br />

piuttosto di entrare nel merito delle cornici socio-culturali<br />

complessive del fenomeno turistico e di fornire alcuni elementi di<br />

sfondo per la valutazione delle scelte programmatiche di settore.<br />

La gran parte della superficie regionale sarda si configura come<br />

rurale, ed è costituita da aree non interessate da vistose trasformazioni<br />

tecnologiche (urbanizzazioni, infrastrutturazioni, complessi industriali,<br />

ecc.). Le vicende di un popolamento storicamente meno intensivo<br />

rispetto al resto d’Italia e la rilevante presenza di aree incolte<br />

a destinazione zootecnica e marginalmente destinate a colture promiscue<br />

fanno sì che, in particolare nelle zone collinari e montane, il<br />

soggetto non autoctono possa facilmente provare la sensazione di<br />

trovarsi di fronte a lembi di cosiddetta «natura incontaminata». Non<br />

( 1 ) Ci concentreremo pertanto sul «momento del turismo passivo, o ricettivo,<br />

così definito tenendo conto della “pressione” esercitata sull’offerta da parte dei turisti,<br />

giunti nella meta prescelta» (P. INNOCENTI, Geografia del turismo, Carocci,<br />

Roma 1999 3 , p. 73).


334<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

a caso in anni recenti la Regione Autonoma della Sardegna, di concerto<br />

con il Ministero dell’Ambiente e l’Unione Europea, ha individuato<br />

ben 114 Siti d’Interesse Comunitario (S.I.C.) e 9 Zone a Protezione<br />

Speciale (Z.P.S.). Un cospicuo numero di aree ad elevato valore<br />

biologico e paesaggistico è così entrato a far parte del sistema di<br />

aree protette denominato «Rete europea Natura 2000».<br />

Queste rimarchevoli specificità regionali sono state colte da varie<br />

categorie di esperti. Sotto il profilo dell’economia del turismo è stato<br />

osservato che:<br />

1) la Sardegna risulta particolarmente vocata all’offerta di «beni<br />

Tradizionali-Rurali-Naturali (TRN)»;<br />

2) poiché tali beni a causa della loro natura non tecnologica non<br />

possono che riprodursi lentamente, essi finiscono col diventare<br />

via via più scarsi in rapporto alle crescenti richieste di fruizione;<br />

3) i beni TRN assumono di conseguenza la connotazione di veri<br />

e propri beni «di lusso», e quindi offrono prospettive di profitto<br />

decisamente interessanti ( 2 ).<br />

L’indicazione di fondo che si può trarre da questo tipo di argomentazioni,<br />

ampiamente riecheggiate da politici, tecnici, giornalisti<br />

e imprenditori, è che ormai tutte le aree scarsamene urbanizzate e non<br />

le sole zone costiere adibite al turismo marino-balneare sono potenzialmente<br />

entrate e vengono via via inserite in un processo di ri-territorializzazione<br />

turistica. Questo processo concerne ovviamente la<br />

promozione di prodotti concreti come le derrate agricole «tipiche»,<br />

ma investe anche aspetti culturali e simbolici del mondo rurale sardo,<br />

producendo quelle rappresentazioni collettive che lo ritengono<br />

un prezioso “giacimento” di risorse culturali e ambientali “da tutelare<br />

e valorizzare” al contempo ( 3 ).<br />

Le ricorrenti operazioni di marketing pubblicitario della Sardegna e<br />

dei suoi prodotti danno luogo a un vero e proprio effetto di realtà, ampiamente<br />

influenzato nel suo delinearsi dalle pratiche discorsive poste<br />

( 2 ) Cfr. F. PIGLIARU, Economia del turismo: crescita e qualità ambientale, in R.<br />

PACI, S. USAI (cur.), L’ultima spiaggia. Turismo, economia e sostenibilità ambientale<br />

in Sardegna, CUEC, Cagliari 2002, pp. 17-46, e pp. 22-23 in particolare.<br />

( 3 ) Vedi F. PARASCANDOLO, Natura e paesaggio. Verso un’identità progettuale?,<br />

in A. TURCO (cur.), Paesaggio. Pratiche, linguaggi, mondi, Diabasis, Bologna 2002.


Territori rurali e sostenibilità nel processo di costruzione della Sardegna turistica<br />

in essere negli ambienti istituzionali, mediatici e professionali. La riproduzione<br />

incessante di questo particolare sguardo turistico sul territorio<br />

e l’elaborazione dei corrispondenti modelli di rappresentazione<br />

dei luoghi innescano un processo semiotico e configurano uno spazio<br />

comunicativo funzionale al dispiegamento di strategie di competizione<br />

per l’accaparramento di quote del mercato turistico internazionale. In<br />

questo complesso sistema di segni in divenire, le pratiche sociali qualificabili<br />

come turistiche si nutrono di, e a loro volta ri-alimentano, una<br />

specifica produzione di immaginari territoriali, incrociandosi con le<br />

(auto)rappresentazioni identitarie delle popolazioni rurali ospitanti.<br />

Ne scaturisce una costellazione di costruzioni culturali in cui le motivazioni<br />

socio-psicologiche, i calcoli economici e il complesso di atteggiamenti<br />

condivisi nei confronti dell’Altro e dell’Altrove sono ugualmente<br />

presenti ed importanti, ed andrebbero tutti scandagliati per poter<br />

comprendere le logiche dell’agire territoriale ( 4 ) esercitato dagli attori<br />

sociali implicati. Nel paragrafo seguente formuleremo alcune riflessioni<br />

in proposito, mentre i due successivi conterranno alcune considerazioni<br />

su cosa debba secondo noi intendersi per sostenibilità dello<br />

sviluppo turistico, e su come cercare di conseguirla.<br />

1. Le motivazioni al turismo e le relazioni tra visitatori e abitanti. –<br />

Il turismo pare essere divenuto un bisogno prioritario per i consumatori<br />

che detengono il privilegio di appartenere alle fasce benestanti<br />

dell’odierna società globale. Secondo stime dell’Organizzazione<br />

Mondiale del Turismo, ben l’80% degli spostamenti turistici internazionali<br />

è appannaggio di soggetti residenti in appena venti paesi<br />

tra i più ricchi del mondo attuale. Il turismo può essere inteso come<br />

un moderno rito ricostitutivo e rigenerativo, e al pari di altre condotte<br />

rituali studiate dagli antropologi, esso inserisce chi lo esercita in un<br />

luogo e in un tempo “sospesi”, in cui le ferree regole della civiltà del<br />

lavoro sono temporaneamente abolite:<br />

335<br />

Guardando la pubblicità dell’operatore Best Tours – un tappeto rosso srotolato<br />

su una spiaggia tropicale – si capisce che il concetto è proprio quello di<br />

gestire dei bambini vogliosi e deresponsabilizzati. Tanti principini innocenti<br />

e prepotenti, che necessitano di essere accompagnati al parco giochi, una o<br />

due volte l’anno. In vacanza non abbiamo soltanto bisogno di ricaricare le<br />

pile ma anche di ricostruire un’autostima rispetto alla figura di noi stessi che<br />

( 4 ) Cfr. A. TURCO, Verso una teoria geografica della complessità, Unicopli, Milano<br />

1988.


336<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

forse meno ci piace: quella di lavoratori che faticano e inghiottono rospi per<br />

guadagnarsi il pane. L’industria turistica, una volta di più, asseconda la psicologia<br />

della pecora che per un giorno vuol essere leone, promettendo abbuffate,<br />

dormite, danze, amori, godimenti, cuccagne, trasgressioni. La cosa più<br />

vicina alle vacanze, in questo senso, è il carnevale. Dove il turista – in ragione<br />

della sua capacità di spesa – è libero e sovrano, per un tempo stabilito, prima<br />

che tornino a regnare l’ordine e la legge della produzione ( 5 ).<br />

Anche in Sardegna possiamo osservare condotte turistiche imperniate<br />

su una serie fissa di elementi rituali. Tra questi va annoverato il<br />

consumo enogastronomico di alimenti tipici, ma gli addetti ai lavori<br />

sanno bene che fatte salve alcune icone agroalimentari come pani, vini<br />

o formaggi particolari, evidenti ragioni di massimizzazione dei ritorni<br />

economici inducono i ristoratori a contenere fortemente l’apporto di<br />

prodotti e ricette specificamente locali, e quindi la varietà (e non di<br />

rado anche la genuinità) delle pietanze disponibili.<br />

Tralasciando approfondimenti sulla distribuzione dei fenomeni turistici<br />

nelle varie parti dell’isola, ci limitiamo a osservare che il modello<br />

complessivo di ricettività di gran lunga più praticato è quello marino-balneare,<br />

che si incentra su soggiorni doppiamente concentrati: nel<br />

tempo in periodi molto corti – se considerati su base annua – di utilizzazione<br />

delle attrezzature, e nello spazio in specifici insediamenti pianificati<br />

(i «villaggi vacanze») o in aggregati più o meno dispersi o compatti<br />

di «seconde case» proliferanti a ridosso delle coste o nell’immediato<br />

retroterra. Anche se il quadro complessivo delle attrezzature turistiche<br />

in strutture classificate o meno può avvalersi in sporadici casi<br />

di tipologie edilizie ben integrate all’ambiente costruito e al tessuto sociale<br />

preesistente (ad esempio nei centri storici di località come Castelsardo,<br />

Bosa o Carloforte), il grosso degli insediamenti turistici si conforma<br />

a tipologie altamente specializzate ed autosegregate: si tratta di<br />

veri e propri ghetti dorati che passano periodicamente dalla condizione<br />

di villaggi fantasma a limitati periodi di animazione festiva, nei quali la<br />

vita relazionale degli ospiti rimane di regola totalmente distinta da<br />

quella dei limitrofi residenti sardi ( 6 ).<br />

( 5 ) D. CANESTRINI, Andare a quel paese. Vademecum del turista responsabile,<br />

Feltrinelli, Milano 2001, pp. 23-24.<br />

( 6 )I caratteri strutturali degli insediamenti turistici nell’isola furono analizzati<br />

alla fine degli anni Settanta in uno studio per molti versi ancora valido: R.L. PRI-<br />

CE, Una geografia del turismo: paesaggio e insediamenti umani sulle coste della Sarde-


Territori rurali e sostenibilità nel processo di costruzione della Sardegna turistica<br />

Solo di recente sul florido tronco del turismo marino-balneare<br />

d’élite o per utenze medio-alte si vanno innestando e raccordando<br />

con discreto successo – e questo è vero in particolare per alcune aree<br />

nord-orientali – una molteplicità di nuovi rami fatti di inclusive<br />

tours e di brevi soggiorni orientati alla visita delle aree interne. Anche<br />

l’offerta turistica sarda, allineandosi in questo alle tendenze globali,<br />

comincia quindi a diversificarsi ed espandersi in campi complementari<br />

quando non alternativi al turismo balneare. Le sempre più<br />

articolate offerte che dagli anni ’80 stanno investendo il territorio<br />

regionale (agriturismo, turismo rurale, archeologico, artistico-culturale,<br />

etnico, naturalistico, d’avventura, sportivo, salutista e persino<br />

“spirituale”) rendono il quadro via via più sfaccettato, anche se bisogna<br />

ribadire che il modello economicamente trainante di frequentazione<br />

turistica continua a restare quello “smeraldino”.<br />

È noto che il marketing turistico tende a proporre un repertorio di<br />

immagini caratterizzate dalla sistematica rimozione (o anche, specularmente,<br />

dalla enfatica spettacolarizzazione) degli aspetti conflittuali o<br />

problematici concernenti le popolazioni e i territori visitati. È anche<br />

vero d’altronde che le rappresentazioni di un mondo tradizionale continuamente<br />

definito «ancora vivo e presente» alimentano un mercato in<br />

crescita. Pertanto, anche sulla produzione identitaria locale intervengono<br />

i consueti meccanismi di ottimizzazione dei prodotti commerciali:<br />

337<br />

Il turista non si interessa molto agli abitanti del paese ma, a sua insaputa, li<br />

influenza. Poiché è pronto a spendere denaro, l’autoctono cercherà di offrirgli<br />

quello che chiede (o quello che l’uno immagina che l’altro gli chiederà).<br />

Così, anche se involontariamente, il turista spinge gli autoctoni a valorizzare<br />

il “tipico”: la produzione di oggetti che si suppone si trovino nel paese, la sistemazione<br />

di edifici, di località, di feste “indigene”. Poco a poco le attività<br />

locali vengono rimpiazzate dalla vendita di souvenirs (fabbricati del resto, per<br />

ragioni di redditività, in paesi terzi); così la ricerca sfrenata del colore locale<br />

conduce, paradossalmente, all’omogeneizzazione ( 7 ).<br />

Posta com’è sotto il potente influsso della ritualità di cui si è detto,<br />

la clientela tende a conferire un particolare carattere di “sacralità” allo<br />

gna, FORMEZ, Cagliari 1983. Sui lineamenti culturali e sociali del contesto turistico<br />

isolano segnaliamo due saggi secondo noi particolarmente significativi: P.<br />

PAOLINELLI, G. SALIERNO, La carcassa del tempo. Inchiesta sulla Costa Smeralda, Antonio<br />

Pellicani Editore, Roma 1988, e B. BAN<strong>DI</strong>NU, Narciso in vacanza. Il turismo<br />

in Sardegna tra mito e storia, AM & D, Cagliari 19962 .<br />

( 7 ) T. TODOROV, Noi e gli altri, Einaudi, Torino 1991, pp. 402-403.


338<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

spazio-tempo marcato dall’esperienza turistica. Ciò rafforza nei vacanzieri<br />

l’inclinazione a raffigurarsi i luoghi frequentati alla stregua di affascinanti<br />

«paradisi incontaminati». Soprattutto chi acquista pacchetti<br />

di brevi visite nelle zone interne indulge così nel naturalizzare le manifestazioni<br />

culturali autoctone, cosicché le comunità umane lì presenti<br />

subiscono una sorta di assimilazione al paesaggio fisico.<br />

Dal canto loro, gli organizzatori delle vacanze sono i primi a fare<br />

di tutto di tutto per assecondare questo sognante immaginario. Affinché<br />

l’incantesimo turistico riesca perfettamente, nulla deve far intendere<br />

che i residenti rurali, e specialmente pastori, contadini ed altre<br />

figure locali di uomini e donne “forti” e “veri”, appartengono allo<br />

stesso mondo globalizzato dei turisti, in quanto per accedere a buona<br />

parte delle risorse vitali si relazionano come loro allo stesso genere di<br />

infrastrutture tecnologiche, economiche e istituzionali. Satta fornisce<br />

un’interessante indizio dei paradossi generati da questa situazione<br />

quando nel descrivere i «pranzi con i pastori» organizzati per i turisti<br />

nell’area di Orgosolo, meta assai battuta del turismo etnico-ambientale<br />

sardo, si sofferma sul crescente uso di bicchieri di terracotta<br />

ricoperti di sughero, e spiega: «La progressiva eliminazione della plastica<br />

è stata decisa per andare incontro alla sensibilità ambientale dei<br />

turisti. Gli orgolesi sono abituati a usare piatti e bicchieri di plastica<br />

nei pranzi in campagna, ma non i turisti, soprattutto i tedeschi» ( 8 ).<br />

D’altronde potremmo anche chiederci perché mai gli Orgolesi di<br />

oggi dovrebbero ancora usare stoviglie antiquate e non godere alla pari<br />

di tutti gli altri cittadini occidentali delle «comodità» offerte dalla società<br />

dei consumi. Nei tempi in cui i modi di vita premoderni erano<br />

ancora per vari aspetti operanti (cioè fino agli anni ’50-’60), gli abitanti<br />

delle zone interne furono giudicati economicamente miserevoli e<br />

culturalmente arretrati (ovvero «sottosviluppati») dalle élites modernizzatrici<br />

e dagli scienziati e formatori incaricati di promuoverne lo<br />

sviluppo sociale da un lato e la museificazione culturale dall’altro. E<br />

sviluppo c’è stato di certo. Se confrontate alle aree forti europee, non<br />

si può dire che le regioni e le popolazioni rurali abbiano conseguito livelli<br />

particolarmente elevati di crescita economica, e nondimeno tutto o<br />

quasi tutto è cambiato rispetto a una quarantina di anni fa. Da parecchi<br />

decenni ormai i generi di vita autoreferenziali ed autosostenibili di<br />

tutte le società rurali dell’Europa occidentale sono stati letteralmente<br />

( 8 ) G. SATTA, Turisti a Orgosolo. La Sardegna pastorale come attrazione turistica,<br />

Liguori, Napoli 2001, pp. 32-33.


Territori rurali e sostenibilità nel processo di costruzione della Sardegna turistica<br />

annientati da un tumultuoso processo di modernizzazione ( 9 ). Ma<br />

non per questo le “industrie della nostalgia” hanno smesso di riesumare i<br />

simu-lacri della vita tradizionale, affaccendandosi a realizzare eventi<br />

pseudo-etnici a beneficio dei turisti.<br />

La promozione turistica del territorio comporta dunque l’esercizio<br />

di notevoli dosi di illusionismo; il punto è che «mentre il turismo provoca<br />

dei profondi cambiamenti sociali, i miti turistici si fondano sulla<br />

dissimulazione e il diniego di tali mutamenti e sulla perpetuazione<br />

delle idee e delle immagini di ciò che si pensa esserci stato nei luoghi<br />

prima dell’arrivo del turismo» ( 10 ). Va comunque sottolineato che i<br />

processi di omologazione identitaria dei territori rurali appaiono inevitabili<br />

quando vi intervengono modelli d’uso turistico:<br />

339<br />

L’identità regionale rappresenta per quei raccoglitori di segni che sono i turisti<br />

un’attrattiva irresistibile. Il turismo è ghiotto della semantica del paesaggio<br />

che una forte regionalizzazione ha saputo produrre. Insegue le manifestazioni<br />

culinarie, i segni della sua cultura, i residui di socialità rurale,<br />

l’archeologia del suo passato, ricerca le tracce della sua specificità. […]<br />

Così, lo sviluppo turistico, nel momento in cui esalta una sua versione del<br />

regionalismo, al tempo stesso riduce la complessità regionale a figurina, a<br />

simulacro di un’entità statica, quasi compiacente agli occhi dell’osservatore.<br />

Non è un caso che nell’immaginario turistico i tocchi di regionalità appaiano<br />

spurgati dalle nefandezze dell’industrializzazione, così come dalle<br />

tracce più evidenti della modernizzazione del paesaggio ( 11 ).<br />

Non è facile per gli abitanti di località già turistiche o ancora in via<br />

di “tipizzazione” trovare oggi, incalzati come sono dai tanti problemi<br />

del mondo presente, strumenti culturali per riflettere approfonditamente<br />

sulla storia recente delle loro comunità e sulla formidabile rot-<br />

( 9 ) Abbiamo analizzato in altri nostri saggi le varie fasi della modernizzazione<br />

della società rurale sarda: a titolo introduttivo sull’argomento si veda: F. PARA-<br />

SCANDOLO, I caratteri territoriali della modernità nelle campagne sarde: un’interpretazione,<br />

in «Annali della Facoltà di Magistero», Università di Cagliari, nuova serie,<br />

vol. 18, 1995, pp. 139-186.<br />

( 10 ) D. BROWN, Des faux authentiques. Tourisme versus pèlerinage, in «Terrain»,<br />

33, sett. 1999, pp. 41-56, citaz. p. 54 (traduzione nostra). Aggiungiamo che in<br />

particolare nella Sardegna interna, abbondantemente descritta come “vergine e<br />

autentica”, il turista viene indotto a ritenere che uno stile di vita “più semplice e<br />

puro” sia tutt’ora praticato dai residenti, e non solo in passato.<br />

( 11 ) C. MINCA, Spazi effimeri. Geografia e turismo tra moderno e postmoderno,<br />

CEDAM, Padova 1996, pp. 46-47.


340<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

tura che la modernizzazione ha prodotto nei loro modi di rapportarsi<br />

alle risorse territoriali e nelle forme d’uso dei loro saperi collettivi; risorse<br />

e saperi che risultano largamente svalutati ed emarginati in<br />

quanto non più governati localmente, o tutt’al più riproposti in funzione<br />

di opportunità di reddito circoscritte a pochi nuclei domestici<br />

socialmente emergenti. È ben raro che i saperi condivisi vengano riattivati<br />

“dal basso”, sulla base di spinte partecipative per un’amministrazione<br />

sostenibile e solidale dei beni patrimoniali locali. L’aspetto cruciale<br />

è costituito dall’estrema marginalità economica in cui sono sprofondate<br />

le pratiche tradizionali rurali da quando esse sono risultate<br />

sempre meno adeguate al soddisfacimento dei bisogni materiali di<br />

base delle famiglie. Nel corso di tutto il XX° secolo le attività agricole<br />

e artigianali in genere hanno difatti subito una drammatica svalutazione<br />

rispetto a quelle industriali e, soprattutto, a quelle terziarie, Questa<br />

situazione si è inoltre notevolmente aggravata dagli anni ’60, quando<br />

l’avvento di una più intensiva modernizzazione ha portato con sé una<br />

generale espropriazione delle tradizionali modalità di accesso alle risorse<br />

vitali per le popolazioni locali. Ne è conseguito un diffuso stato<br />

di crisi occupazionale e molto spesso anche demografica per via degli<br />

esodi migratori, con vistosi e talvolta gravi fenomeni di spopolamento<br />

e invecchiamento delle comunità. E si è inoltre approfondita nel tempo<br />

la subalternità e la dipendenza delle residue pratiche agro-silvo-pastorali<br />

nei confronti di centri di potere lontani e spesso irraggiungibili<br />

(politica agricola eurocomunitaria, banche e consorzi agroindustriali,<br />

relazioni clientelari con apparati decisionali urbani).<br />

Ma a questo punto è lecito chiedersi quanto questi argomenti e le<br />

relative narrazioni in termini di storie di vita potrebbero interessare i<br />

visitatori. La risposta ci sembra ovvia: ben poco! Anzi, questo genere<br />

di discorsi potrebbe di fatto risultare perturbante per l’immaginario<br />

turistico, in quanto inevitabilmente stride con le rappresentazioni<br />

edulcorate di abitanti e località ( 12 ).<br />

Bisogna tenere conto che oggi i residenti rurali condividono lo<br />

stesso immaginario mediatico degli altri cittadini dei paesi industria-<br />

( 12 ) Sulla delicatezza delle questioni in gioco è indicativo questo ammonimento<br />

di un sociologo del turismo: «Se un rappresentante della popolazione locale si<br />

lamenta per la perduta bellezza del posto e comunica questa sua impressione a tutti<br />

i turisti che incontra, egli contribuisce a generare idee di decadenza sull’area».<br />

Così N. COSTA, L’impatto ambientale del turismo: il contributo della ricerca sociologica,<br />

in C. STROPPA (cur.) Territorio, ambiente e nuovi bisogni sociali, Liguori, Napoli<br />

1993, pp. 247-263, citaz. p. 255.


Territori rurali e sostenibilità nel processo di costruzione della Sardegna turistica<br />

lizzati, e che è per l’appunto questo repertorio globalizzato di segni e<br />

ruoli sociali e territoriali ad assegnare loro la funzione di mitici “custodi<br />

della natura e delle tradizioni”. Nel corso di un inevitabile processo<br />

di autoselezione delle pratiche discorsive più adeguate al contesto<br />

sociale inglobante, le stesse rappresentazioni identitarie, ormai etnicizzate<br />

e standardizzate, finiscono per coincidere con i folklorismi ad<br />

uso turistico. I nativi sanno bene che in fin dei conti queste raffigurazioni<br />

hanno poco a che vedere con la loro realtà ordinaria e non di<br />

rado le considerano alla stregua di un gioco, ma d’altronde non fanno<br />

che dare al turista ciò che egli chiede, o sembra chiedere loro.<br />

341<br />

La costruzione della Sardegna come oggetto antropologico procede parallelamente,<br />

e non senza interrelazioni, con la costruzione della Sardegna come<br />

oggetto turistico e come entità politica e culturale, nell’intreccio instricabile<br />

di discorsi diversi [… in cui] andrebbe ricercata la dinamica d’insieme di<br />

quella che potremmo definire l’invenzione (o la costruzione, se si preferisce)<br />

della cultura sarda. La particolare rappresentatività di un luogo, Orgosolo,<br />

e di una figura sociale, il pastore, sono situate all’interno di questo<br />

processo di “essenzializzazione” ( 13 ).<br />

D’altronde, come si può pretendere che la retorica del turismo<br />

come occasione di incontro, scambio e conoscenza tra genti diverse<br />

possa concretamente realizzarsi nella misura in cui il visitatore viaggia<br />

per svagarsi, limitandosi a cogliere quanto di pittoresco ed esotico la<br />

vacanza può offrirgli? Le vestigia e le ricostruzioni della vita tradizionale<br />

isolana non costituiscono in fondo per lui niente più che un mezzo<br />

di intrattenimento. In fin dei conti, il turista convenzionale non<br />

può ritenersi tenuto ad assumersi la responsabilità di atteggiamenti e<br />

condotte di attenzione e rispetto per quell’Altro e quell’Altrove dei cui<br />

servizi egli/ella va semplicemente usufruendo in cambio del denaro che<br />

spende, così come farebbe come con qualunque altro prodotto in vendita<br />

sul mercato, e ciò con buona pace degli edificanti ma poco verosimili<br />

discorsi sulle opportunità di reciproco arricchimento umano e interculturale<br />

dei soggetti coinvolti nelle relazioni di ospitalità.<br />

Dopo aver trovato puntualmente confermati i consueti e in fondo<br />

rassicuranti clichés sulle popolazioni e sui territori visitati, i visitatori<br />

torneranno così più o meno soddisfatti alle loro realtà ordinarie, mentre<br />

coloro che localmente si sono posti al servizio di queste operazioni<br />

di compravendita di immaginario ne avranno sì ricavato delle integra-<br />

( 13 ) G. SATTA, Turisti a Orgosolo, cit., p. 66.


342<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

zioni di reddito, ma rischiano di pagarne il prezzo sotto forma di una<br />

crescente incapacità a dare luogo a forme più sobrie, consapevoli e in<br />

fondo sincere di ospitalità e di comunicazione con l’Altro.<br />

2. Verso un turismo sostenibile? Considerazioni sull’economia del turismo<br />

in Sardegna. – Turismo responsabile o sostenibile? Il secondo<br />

non si dà senza il primo, e l’idea di fondo è comune: quella di un turismo<br />

che non aggredisca e non pregiudichi l’integrità ambientale<br />

dei territori e la dignità culturale delle popolazioni.<br />

Di regola, il turismo non si rivela innocuo per le località interessate:<br />

non meno di altre attività industriali, esso produce grandi<br />

quantitativi di rifiuti e necessita di specifiche infrastrutture ad alto<br />

impatto paesaggistico ed ecologico. In tutto il mondo, i processi di<br />

territorializzazione turistica procedono secondo sequenze ricorrenti:<br />

il progressivo affollamento delle frequentazioni tende a determinare<br />

un graduale scadimento dell’attrattività dei siti, a cui fanno seguito<br />

saturazione e declino ( 14 ). È noto che nei periodi in cui le presenze<br />

di ospiti si intensificano, la pressione delle attività turistiche può superare<br />

i limiti di carico ambientale. Come già efficacemente dimostrato<br />

da alcuni Autori, il fenomeno si è verificato in svariate località<br />

costiere sarde ( 15 ), e colpisce anche aree “impreziosite” dall’esistenza<br />

di oasi naturali, per altro in via di assai lento e controverso consolidamento<br />

vincolistico. I casi più emblematici si riscontrano in vasti<br />

litorali dei comuni di Baunei, Dorgali e Orosei. La lezione che si<br />

può trarne è che a quanto pare l’esistenza solo potenziale di «parchi<br />

di carta» ampiamente sbandierati da anni in innumerevoli cartografie<br />

pubbliche e campagne promozionali ha esercitato il voluto effetto<br />

di richiamo nei confronti dei mercati turistici: si veda per tutti il<br />

caso delle iperaffollate località costiere del fantasmatico (e forse ormai<br />

definitivamente affossato) Parco Nazionale del Gennargentu.<br />

Ormai molti tecnici ed esperti riconoscono l’esistenza di un rapporto<br />

problematico tra turismo e sostenibilità ambientale, e ammettono<br />

che occorre un intervento pubblico regolatore, poiché i soli<br />

( 14 ) La nozione di ciclo evolutivo delle località turistiche è stata inizialmente<br />

formulata da R. BUTLER, The concept of a tourist area cycle of evolution, and implications<br />

for management, in «Canadian Geographer», n. 14, 1980, pp. 5-12.<br />

( 15 ) Cfr. M. IORIO e G. SISTU, Sviluppo turistico e capacità di carico ambientale<br />

in Sardegna, in R. PACI, S. USAI (cur.), L’ultima spiaggia, cit., e CRENoS, 10°<br />

Rapporto sull’economia della Sardegna. Analisi strutturale e previsioni 2002-2004,<br />

CUEC, Cagliari 2003, pp. 72-81.


Territori rurali e sostenibilità nel processo di costruzione della Sardegna turistica<br />

meccanismi del mercato portano a uno sfruttamento eccessivo delle<br />

risorse naturali; non per questo appare chiaro se e come si possa rallentare<br />

la locomotiva dello sfruttamento turistico una volta che questa<br />

sia partita e abbia cominciato a girare sempre più velocemente.<br />

Il dato di fatto è che il turismo convenzionale tende di per sé a<br />

“consumare” le risorse naturali e storico-culturali che “valorizza”, e<br />

che afflussi turistici elevati non risultano sempre compatibili con la<br />

cura dei territori, mentre restano comunque in perfetta sintonia con<br />

i corposi interessi privati in gioco; interessi che non di rado risultano<br />

essere esterni – e in fondo confliggenti – rispetto a quelli di lungo<br />

periodo delle popolazioni locali. Ma non c’è nulla di strano in questo:<br />

tutto ciò che viene mercificato dall’economia moderna ha per<br />

sua natura vita breve, in quanto il valore d’uso dei beni non è mai<br />

considerato un fine in sé ma sempre un mero mezzo, “sacrificato”<br />

alla realizzazione di una ben precisa priorità politica e sociale: la crescente<br />

e incessante circolazione (e accumulazione) del denaro.<br />

Da questa contraddizione iniziale derivano a nostro avviso le innumerevoli<br />

ambiguità dello stile discorsivo dominante nel dibattito scientifico<br />

e istituzionale in tema di turismo. Le insistenti argomentazioni<br />

sullo sviluppo turistico come «volano della crescita economica del territorio»<br />

ambiscono difatti a “far sposare” istanze in se stesse divergenti,<br />

pretendendo così di realizzare altrettante quadrature del cerchio:<br />

per la tutela dell’ambiente …<br />

1) Servono risultati positivi … e per le prospettive del mercato.<br />

ad una crescita sostenibile …<br />

2) Bisogna puntare … che permetta di valorizzare, salvaguardandole, le risorse.<br />

conservare il capitale naturale …<br />

3) È necessario … incrementandone la produttività.<br />

le esigenze di sviluppo socio-economico …<br />

4) Vanno coniugate … con quelle di salvaguardia ambientale.<br />

Bisogna sfruttare e valorizzare le potenzialità locali …<br />

5) … rispettando l’ambiente.<br />

Tab. 1. Alcuni esempi di petizioni di principio con cui si intenderebbe rendere<br />

compatibili i sistemi artificiali con quello naturale. La fraseologia è tratta<br />

da pubblicazioni specialistiche prodotte nell’ultimo decennio in tema di<br />

valorizzazione turistica dell’ambiente in Sardegna.<br />

343


344<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

A nostro parere questo genere di affermazioni riflette appieno le<br />

istanze dominanti della programmazione economica convenzionale,<br />

poiché si richiama a una visione debole della sostenibilità ( 16 ). Ad una<br />

più cogente logica di preservazione senza se e senza ma dei sistemi<br />

ambientali viene difatti preferita, in evidente accordo con i dettami<br />

della teoria economica neoclassica, una “conservazione produttiva”<br />

del capitale naturale. Ciò comporta che i beni naturali implicati<br />

possano venire legittimamente sostituiti con i «benefici» derivanti<br />

dallo sviluppo, ovverossia con vari tipi di artefatti fabbricati dall’uomo.<br />

L’entità di questi benefici sarà ovviamente misurata in termini<br />

di crescita economica e quindi dei livelli di consumo di merci industrialmente<br />

prodotte. Il parametro chiave della sostenibilità in questo<br />

caso è di natura puramente economica, cioè reddituale e monetaria.<br />

Si prenda ad esempio la seguente argomentazione:<br />

[…] è necessaria una definizione di “sostenibilità” coerente con il punto di<br />

vista di un piccolo paese che assumiamo sia interessato esclusivamente a<br />

massimizzazre la spesa dei turisti non residenti nel lungo periodo. In altre<br />

parole, è necessaria una definizione basata su un limitato principio di equità<br />

(economica) intergenerazionale, nella quale non interessa che le generazioni<br />

future abbiano in eredità la stessa quota pro-capite di capitale naturale<br />

oggi esistente; interessa invece garantire che la redditività pro-capite della<br />

risorsa non diminuisca nel tempo. In questa definizione è quindi “sostenibile”<br />

una strategia di sviluppo turistico che permetta alla risorsa naturale di<br />

generare in futuro almeno tanto reddito quanto è capace di generarne oggi ( 17 ).<br />

Certo, i professionisti più avveduti ammettono anche che occorre<br />

«essere estremamente prudenti in materia di sviluppi turistici ad alto<br />

consumo irreversibile della risorsa ambientale» ( 18 ), ma è chiaro che<br />

questi approcci convenzionali fanno comunque leva sull’economicismo,<br />

ovvero sulla pretesa riduzionistica che un’indicatore quantitativo<br />

e macroeconomico come il PIL (nazionale o in questo caso regio-<br />

( 16 ) Sul tema dei modelli di sostenibilità forte/debole in Sardegna cfr. G. LED-<br />

DA, Aree protette e sviluppo locale. Prime indicazioni per uno schema di analisi comparativo,<br />

in G. MONDAR<strong>DI</strong>NI MORELLI (cur.), Miti della natura Mondi della cultura.<br />

Turismo, parchi e saperi locali in Sardegna, EDES, Sassari 2000, pp. 141-145 in<br />

particolare. Per un inquadramento teorico in materia si veda D.W. PEARCE, A.<br />

MARKANDYA, E. BARBIER, Progetto per un’economia verde, Il Mulino, Bologna 1991.<br />

( 17 ) F. PIGLIARU, Economia del turismo: crescita e qualità ambientale, in R. PACI,<br />

S. USAI (cur.) L’ultima spiaggia, cit., p. 25, corsivo dell’Autore.<br />

( 18 ) Ibidem, p. 27.


Territori rurali e sostenibilità nel processo di costruzione della Sardegna turistica<br />

nale) possa in ultima istanza costituire un valido indice di misura<br />

della qualità della vita o del benessere dei cittadini. È chiaro che nella<br />

misura in cui l’intera logica sistemica del vigente ordine sociale si<br />

fonda su questo per noi discutibile presupposto ( 19 ), tutti coloro che<br />

dichiaratamente o meno vi aderiscono non possono che anteporre a<br />

qualunque costo l’obiettivo «razionale» della massimizzazione della<br />

ricchezza merceologica sotto forma di produzioni, profitti e consumi<br />

a quello semplicemente ragionevole ma puntualmente disatteso di<br />

una effettiva sostenibilità sociale ed ecologica delle pratiche sociali e<br />

territoriali.<br />

Ma che ci piaccia o no, la capacità del nostro pianeta di sostenerci<br />

fornendoci risorse utili e assorbendo gli scarti e i rifiuti del nostro<br />

stile di vita ha dei limiti precisi, anche questi misurabili (questa volta<br />

dalle scienze della natura e non da quella economica), e rapportabili<br />

ai tassi di rigenerazione del capitale naturale. E quando il depauperamento<br />

del capitale naturale avviene a ritmi superiori delle sue capacità<br />

di rigenerarsi siamo in presenza di un uso insostenibile delle risorse<br />

naturali, anche se ammantiamo le relative intraprese ecomiche con<br />

le definizioni e le immagini più amabili e persuasive.<br />

Secondo noi un’economia produttivistica incentrata sul primato<br />

della redditività e indifferente o ostile a prospettive di equa distribuzione<br />

della ricchezza non può che confliggere, una volta oltrepassato<br />

un certo livello auspicabile di sviluppo tecno-economico, con l’integrità<br />

e il benessere sia dei soggetti umani nel loro complesso che dei<br />

sistemi di supporto della vita ( 20 ). Tutto ciò viene invece negato, oppure<br />

si giunge pure ad ammettere l’esistenza di non lievi problemi di<br />

incompatibilità tra capitale e lavoro o tra economia e ambiente, ma<br />

senza per questo osare di proporre o addirittura di intraprendere sostanziali<br />

cambiamenti di rotta. Eppure vale la pena di ricordare che nonostante<br />

la sua schiacciante egemonia tanto negli ambienti politici<br />

( 19 ) Sulla genesi storico-sociale dello sviluppo, ovvero dell’ideologia della crescita<br />

economica illimitata, che da almeno mezzo secolo costituisce la “pietra angolare”<br />

del vigente ordine sociale globale, si veda G. RIST, Lo sviluppo: storia di una<br />

credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1997.<br />

( 20 ) Per una definizione non economicistica su cosa debba intendersi per «sostenibilità»<br />

si veda ad esempio il saggio di M. BAGLIANI, Sulla terra in punta di piedi.<br />

Impronta ecologica e sostenibilità, in Gruppo di ricerca in didattica delle scienze<br />

naturali – Università di Torino, I volti della sostenibilità. Atti dei seminari, a cura<br />

di E. Camino, C. Ciminelli, Torino 2002, pp. 17-36.<br />

345


346<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

“di destra” che “di sinistra”, questa economia sviluppista (che per<br />

amore o per forza accetta l’inevitabilità della cosiddetta «globalizzazione»)<br />

non costituisce l’unica opzione possible. Fin dai lontani anni<br />

’70, ancor prima che venisse formulata la feconda ma per tanti versi<br />

anche ambigua nozione di «sviluppo sostenibile», vi era già chi perorava<br />

la causa di una più saggia «economia dello stato stazionario» (la<br />

steady-state economics di Daly) ( 21 ). E a maggior ragione oggi, alla<br />

luce dei sempre più accurati studi sugli insostenibili impatti dell’economia-mondo<br />

sul pianeta e sull’umanità ( 22 ), continuano a levarsi<br />

voci dissenzienti sul sistema economico corrente, e c’è chi senza<br />

mezzi termini ritiene che si debba piuttosto puntare ad una società<br />

della decrescita, conviviale invece che competitiva ( 23 ).<br />

3. Territori locali e sostenibilità: questioni di scala. – Come porre<br />

in essere un autentico turismo sostenibile in Sardegna? Secondo noi<br />

per rispondere efficacemente a questa domanda bisogna porsene innanzitutto<br />

un’altra: a quale scala territoriale va ricercata e valutata la<br />

sostenibilità dello sviluppo da tempo invocata da tutte le agenzie<br />

istituzionali?<br />

La scala globale va messa certamente in conto, poiché ci viene<br />

continuamente detto che la biosfera così come l’economia-mondo<br />

sono sistemi unici e indivisibili. Ma dobbiamo chiederci se un certo<br />

modo diffuso di “pensare globalmente” sia di per sé sufficiente. Un<br />

mondo in cui dei “livelli accettabili” di sostenibilità per le minoranze<br />

privilegiate del pianeta siano pagati dalla incessante degradazione<br />

sociale e ambientale di innumerevoli popolazioni, classi sociali e regioni-spazzatura<br />

che in molteplici modi si facciano carico delle conseguenze<br />

negative della crescente tecnificazione della biosfera è difatti<br />

perfettamente immaginabile, perché questo è già il ritratto del pianeta<br />

in cui viviamo. Il vero salto di qualità e di efficacia sta invece nell’assumere<br />

la logica della sostenibilità come costitutiva del governo di<br />

un vastissimo mosaico di sistemi territoriali locali, tanto vasto da es-<br />

( 21 ) Per un’aggiornamento sul suo punto di vista: H.E. DALY, Oltre la crescita.<br />

L’economia dello sviluppo sostenibile, Edizioni di Comunità, Torino 2001.<br />

( 22 ) Cfr. A. MASULLO, Il pianeta di tutti. Vivere nei limiti perché la terra abbia<br />

un futuro, EMI, Bologna 1998, e in prospettiva italiana G. BOLOGNA (cur.), Italia<br />

capace di futuro, WWF-EMI, Bologna 2001.<br />

( 23 ) Cfr. ad esempio M. BONAIUTI (cur.), Obiettivo decrescita, EMI, Bologna<br />

2004.


Territori rurali e sostenibilità nel processo di costruzione della Sardegna turistica<br />

sere virtualmente esteso a tutta la terra; sistemi locali che solo in questa<br />

specifica prospettiva diventano o potranno diventare col tempo<br />

auto-sostenibili ( 24 ).<br />

Bisognerebbe dunque territorializzare sistematicamente la nozione<br />

di sostenibilità, perché tutti gli accordi internazionali di tutela<br />

ecologica resteranno lettera morta se non si agirà coerentemente al<br />

livello locale (e sempre più a tutti i livelli locali, poiché ogni luogo è<br />

centro del mondo), parametrando i limiti di carico ambientale degli<br />

ecosistemi territoriali e rispettandoli di conseguenza.<br />

347<br />

È […] possibile affermare che il concetto di sostenibilità, in sostanza, deve<br />

essere definito, all’interno di compatibilità globali, in rapporto ad un dato<br />

ambiente. La sostenibilità dello sviluppo è un obiettivo che va territorializzato<br />

per poter essere concretamente conseguito, in quanto variano le capacità<br />

di carico e le potenzialità di ogni contesto locale. Ma in questo senso occorre<br />

ammettere che esisteranno più modelli locali di sostenibilità, attuabili attraverso<br />

una riformulazione dello sviluppo sulla base delle caratteristiche specifiche<br />

del territorio e degli ecosistemi locali. […] Da un punto di vista operativo<br />

il concetto di sostenibilità locale ha soprattutto il significato di mettere<br />

in relazione azioni e scelte in luoghi determinati, a una scala alla quale responsabilizzazione<br />

collettiva e individuale possano coincidere ( 25 ).<br />

Nei limiti del nostro discorso, ne deriva che qualunque utenza<br />

turistica, per quanto «alternativa», non dovrebbe superare determinate<br />

soglie di carico ambientale che andrebbero valutate caso per<br />

caso, tenendo nel debito conto anche valutazioni oggettive di natura<br />

biofisica ed ecosistemica.<br />

Qualcosa si sta timidamente muovendo su questo terreno, per<br />

esempio con l’istituzione di liste di prenotazione e la fruizione controllata<br />

di alcune spiagge particolarmente integre sotto il profilo ambientale,<br />

ma è chiaro che si tratta di misure controverse. Da un lato<br />

(secondo un punto di vista ancora diffuso) in quanto tali “complicazioni”<br />

potrebbero anche determinare lo scoraggiamento dei flussi turistici<br />

e il conseguente disappunto degli operatori del settore e del<br />

loro indotto. Dall’altro (secondo noi) in quanto viene stabilito l’inedito<br />

principio del consumo pagante dei luoghi naturali. Pur presen-<br />

( 24 ) Sulla nozione di sviluppo locale autosostenibile cfr. A. MAGNAGHI, Il progetto<br />

locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000.<br />

( 25 ) E. DANSERO, Eco-sistemi locali. Valori dell’economia e ragioni dell’ecologia in<br />

un distretto industriale tessile, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 44-45.


348<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

tando l’indubbio vantaggio di costituire un deterrente per irresponsabili<br />

e vandali, esso potrebbe condurre, in caso di eccessivi incrementi<br />

dei pedaggi, a pesanti discriminazioni sociali nella fruizione di<br />

beni pubblici che in questo modo subirebbero forme più o meno<br />

striscianti o eclatanti di privatizzazione.<br />

A monte di qualunque possibile opzione di politica ambientale da<br />

valutare o intraprendere caso per caso, sarebbe a nostro avviso opportuno<br />

far entrare decisamente in gioco l’opzione etica di una versione<br />

forte della sostenibilità ambientale, secondo la quale i beni naturali non<br />

vanno considerati in alcun modo sostituibili con quelli prodotti industrialmente.<br />

Secondo questo modo di vedere, il generico aumento del<br />

denaro circolante per effetto della commercializzazione intensiva di<br />

beni naturali e culturali locali non può compensare le comunità dei residenti<br />

(come pure l’intera comunità umana) della compromissione di<br />

tali beni, col degrado di ecosistemi ad alta biodiversità, la scomparsa<br />

di specie animali e vegetali, la diminuita disponibilità di aria e acqua<br />

pulite, di suolo agricolo e foreste, l’impermeabilizzazione eccessiva del<br />

territorio con aumento di rischi idrogeologici, l’omogeneizzazione e<br />

banalizzazione urbanistica e paesaggistica, la privatizzazione escludente<br />

di luoghi un tempo accessibili a tutti, la congestione estiva del traffico<br />

automobilistico, la perdita di qualità della vita, ecc.<br />

Tirando le somme, alla crescente rarefazione delle risorse naturali<br />

si può rispondere in due modi distinti e in linea di tendenza mutualmente<br />

esclusivi:<br />

1) disponendosi ad «ottimizzare» la compravendita dei beni naturali<br />

residui, conformandosi così alle regole di uno sfruttamento<br />

utilitaristico e competitivo (ancorché ambientalmente attento)<br />

delle risorse economiche;<br />

2) puntando a modelli solidaristici di governo del territorio, che<br />

valorizzino la condivisione (il modello degli usi civici comunitari<br />

lo insegna) e un sobrio e diffuso godimento locale dei «servizi<br />

erogati dalla natura».<br />

È chiaro però che finché resteremo irretiti dal “canto delle sirene”<br />

della crescita economica, di questa seconda possibilità non potremo<br />

darci gran conto. E invece<br />

la falsa infinità che l’idea dello sviluppo illimitato proiettava sul mondo fisico<br />

è ormai completamente disgelata nel suo carattere illusorio. E tale


Territori rurali e sostenibilità nel processo di costruzione della Sardegna turistica<br />

349<br />

nuova consapevolezza generale ha conseguenze di vasta portata. Muta radicalmente<br />

le nostre relazioni con il mondo delle cose possedibili. Mette in<br />

discussione l’intero equilibrio della appropriazione privata della ricchezza<br />

[…]. Se una risorsa si esaurisce, o un bene scompare dalla faccia della terra,<br />

il diritto dei singoli a consumarli una volta per tutte si pone sempre più<br />

apertamente in contrasto non solo con i diritti collettivi, ma, talora, con gli<br />

stessi diritti all’esistenza collettiva. Sempre meno si può essere proprietari<br />

esclusivi di qualcosa che la scarsità e la finitezza rendono sempre più acutamente<br />

patrimonio generale ( 26 ).<br />

Si tratta di questioni complesse, che chiamano in causa la riformulazione<br />

degli stessi fondamenti normativi e giuridici della nostra<br />

organizzazione sociale e territoriale. Ma quali sono le opportunità di<br />

un dibattito franco e partecipato su questi temi in società locali pesantemente<br />

estromesse dai saperi e dai poteri decisionali sulle modalità<br />

di attivazione dei loro stessi beni ambientali? Che margini di negoziazione<br />

vi sono ancora per la difesa di territori integri che diano<br />

ancora di che vivere a tutti i loro abitanti (e non solo oggi ma anche<br />

tra cinquanta o trecento anni) quando le popolazioni vivono sempre<br />

più il travaglio della sottoccupazione e della precarizzazione economica<br />

e sociale, e per ciò stesso risultano più facilmente soggette ai<br />

discutibili allettamenti di chi preme su di esse per realizzare operazioni<br />

disinvolte e destinate a soddisfare in primo luogo immediati<br />

appetiti speculativi?<br />

Non basta poi che i soldi generati dal turismo “arrivino”, perché<br />

molte sono le sperequazioni all’interno delle società locali tra chi riesce<br />

ad avvantaggiarsi delle trasformazioni turistiche e chi può solo subire<br />

gli aumenti dei prezzi di case, terreni e generi di consumo. È sempre<br />

in agguato il malessere sociale che disgrega coesione e solidarietà<br />

nelle e tra le collettività, quando l’invidia e il risentimento pubblici<br />

mòntano verso coloro che col turismo sono riusciti ad arricchirsi<br />

escludendo altri compaesani oppure, in altri casi, località vicine delle<br />

quali hanno però lungamente sfruttato i patrimoni ambientali.<br />

Per promuovere modelli sostenibili di turismo non bastano perciò<br />

mere petizioni di principio ma occorrono, quando rese possibili<br />

da favorevoli contingenze sociali e cornici istituzionali, concrete iniziative<br />

di empowerment e di autosviluppo delle comunità interessate,<br />

( 26 ) P. BEVILACQUA, Il concetto di risorsa: significati e prospettive, in «Meridiana»,<br />

n. 37, aprile 2000, pp. 13-31, citaz. p. 21.


350<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

che diano vita a tessiture sociali coerenti e coordinate di operatori<br />

locali (un esempio che va in questa direzione è la recente crescita dei<br />

bed & breakfast, e in sporadici casi persino di reti autogestite di accoglienza<br />

familiare). È infatti decisivo che ciascuna comunità locale<br />

riesca a «prendere in mano la gestione delle proprie risorse, giungendo<br />

così da una parte a contollare i relativi proventi economici, dall’altra<br />

la genuinità di ciò che viene offerto ai turisti» ( 27 ). Ma non è<br />

certo questo il caso di molte promozioni turistiche convenzionali,<br />

per quanto esse risultino accuratamente “tinte di verde”:<br />

C’è il rischio che vengano inseriti nei cataloghi, in modo spregiudicato,<br />

segmenti di turismo “responsabile” o forme analoghe, senza che corrispondano<br />

nella prassi concrete azioni, puntando sulle asimmetrie informative e<br />

sul potere organizzativo. Purtroppo, il business globalizzato si è fatto accorto<br />

e tende ad aggiungere al suo pacchetto omologato un tocco di locale<br />

folklore per alimentare l’illusione della personalizzazione. Si crea così il<br />

mito delle “nicchie di mercato” e, dunque, delle differenziazioni fittizie e<br />

devianti, favorite proprio dalla flessibilità consentita dalla new economy ( 28 ).<br />

Il turismo non dovrebbe trasformarsi in monocoltura, cioè in attività<br />

squilibrata che assume caratteri parossistici, poiché le monocolture<br />

generano dipendenza e insostenibilità, incorrendo fatalmente<br />

nella logica dei rendimenti decrescenti. Occorrerebbe perciò<br />

guardarsi da un eccesso di aspettative sul turismo, poiché per non<br />

distruggere le risorse sulla cui fruizione si basa, esso dovrebbe sempre<br />

essere subordinato a qualcosa di necessariamente più importante: la<br />

persistenza e saldezza di mondi vitali i cui equilibri socio-ecologici<br />

vanno partecipativamente riprodotti e ricostituiti.<br />

Un turismo significativo e sostenibile dovrebbe in effetti limitarsi<br />

ad un ruolo sussidiario e integrativo all’esercizio di attività umane<br />

che oggi invece si rivelano in netto declino o sono del tutto scomparse,<br />

cioè a pratiche di produzione di beni e servizi pensate e intraprese<br />

dalle comunità per le comunità, e non al servizio di esigenze loro<br />

imposte dai mercati globali ( 29 ). Attività che un tempo costituivano il<br />

( 27 ) D. CANESTRINI, Andare a quel paese, cit., p. 45.<br />

( 28 ) M.G. TOTOLA, Uno sguardo d’insieme alle nuove tendenze del turismo internazionale,<br />

in «Geotema», n. 15, 2001, pp. 121-131, citaz. p. 125.<br />

( 29 ) Concordiamo in questo senso con F. CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza,<br />

Roma-Bari 1996: le realtà sociali periferiche dell’economia mondiale dovrebbero


Territori rurali e sostenibilità nel processo di costruzione della Sardegna turistica<br />

tessuto vitale della quotidianità dei luoghi rurali, i cui assetti autocentrati<br />

sono stati sconvolti e quasi sempre dissolti da uno «sviluppo»<br />

per alcuni versi riuscito, poiché i livelli di reddito e di accesso a<br />

molti servizi si sono certo innalzati rispetto al passato, ma anche distorto<br />

ed espropriante, poiché ha prodotto modelli subalterni, consumistici<br />

e alla lunga effimeri di benessere, sgretolando le locali opportunità<br />

di prendersi cura dei territori ( 30 ).<br />

Non è solo questione di vantaggi economici e di «gestione razionale»<br />

delle risorse: si tratta di riqualificare sostenibilmente culture e identità<br />

locali, e di non farlo esclusivamente in funzione dei mutevoli gusti<br />

di un pubblico pagante. È in gioco molto di più: l’adozione comune di<br />

una appropriata cultura dei luoghi, all’insegna di una rinnovata etica della<br />

terra. Si tratta di una grande sfida collettiva che potrebbe impegnare<br />

tutti i cittadini, stabilendo nuove alleanze territoriali tra residenti urbani<br />

e rurali. I visitatori potranno davvero esperire il «valore aggiunto» di<br />

una giustamente apprezzata autenticità se invece di somministrare loro<br />

ulteriori spettacoli e coreografie si punterà alla rigenerazione sociale di<br />

attività economiche un tempo fondamentali (agricoltura familiare, edilizia<br />

vernacolare, produzioni artigianali, piccole industrie alimentari,<br />

attività commerciali a breve raggio). Queste pratiche oggi risultano<br />

pressocché smantellate perché rese «non competitive» dai processi di<br />

modernizzazione, mentre solo alcune sono state “ripescate” per ri-funzionalizzarle<br />

come produzioni «di nicchia» per clientele facoltose. I sistemi<br />

territoriali locali potrebbero invece essere nuovamente attraversati<br />

da flussi di beni eco-compatibili, ma questi ultimi per esserlo appieno<br />

dovrebbero anche venire, per quanto possibile, localmente prodotti e<br />

scambiati in ricostituiti ambiti di prossimità mediante la rivitalizzazione<br />

dei mercati regionali. Ma è anche vero che tali attività potranno<br />

ri-innervare sistemi territoriali vitali solo se questi ultimi non continueranno<br />

a essere penalizzati da uno stato che non eroga più servizi pubblici<br />

indispensabili (trasporti, scuole, ospedali, uffici, ecc.) perché li<br />

considera «improduttivi» in termini meramente aziendalistici.<br />

Un’identità locale valida e costruttiva potrà essere espressa solo<br />

da chi in luogo di sottomettersi docilmente alle ingiunzioni conformistiche<br />

di un obsoleto felicismo industriale metterà in gioco i propri<br />

351<br />

emanciparsi da quel senso di subalternità che per lungo tempo le ha portate ad autorappresentarsi<br />

unicamente in termini di patologica arretratezza, e cercare in se stesse<br />

le forze per riappropriarsi autonomamente dei propri progetti di vita.<br />

( 30 ) Cfr. ancora PARASCANDOLO, “I caratteri territoriali…”, cit.


352<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

saperi nei propri luoghi alla ricerca del senso regionale di una buona<br />

vita che non deve necessariamente coincidere con lo “sviluppo”<br />

energivoro e consumistico a tutt’oggi prospettato alle periferie rurali<br />

dai centri di comando metropolitano e globale. Sarebbe una buona<br />

occasione perché gli abitanti della cosiddetta «vera Sardegna» non siano<br />

più relegati al ruolo di attori passivi, intenti a recitare copioni che<br />

sono stati scritti da altri per loro:<br />

È ambivalente il mito turistico che pone la Sardegna come “ultimo eden”<br />

d’Europa. Il rischio è quello di ridurre l’isola a una espressione puramente<br />

naturalistica per attirare orde vandaliche in cerca di “scampoli di paradiso”.<br />

Ciò che più conta è la sua identità ambientale fondata sui caratteri paesaggistico-estetici<br />

e storico-culturali. Non si tratta di animare la natura e la<br />

cultura con il suggestivo teatrino delle apparenze ma di valutare il profondo<br />

senso dell’abitare un luogo con intensità antropologica. Anche la dimensione<br />

ludica non va vista come teatrino periferico dei piaceri alla<br />

moda: l’homo ludens è una persona integrale, ricca di umanità e capacità<br />

simbolica, ben al di là di ogni futile psicologismo dell’evasione. Sulla frivolezza<br />

turistica deve imporsi lo stile di un’austerità sarda ( 31 ).<br />

Specialmente il quadro delle pratiche regionali del settore primario<br />

andrebbe trasformato coerentemente con le osservazioni finora<br />

svolte. Sarebbe perciò necessario disincentivare la pastorizia industriale,<br />

oggi ridotta in buona parte a produrre pecorino per i mercati<br />

d’esportazione, imponendo gli usuali elementi di fragilità dei sistemi<br />

monoculturali. Serve invece un nuovo modello “bioregionale” di<br />

agricoltura, di silvicoltura e di pesca, sufficientemente remunerativo<br />

per i produttori e ricentrato sul soddisfacimento di esigenze alimentari<br />

locali. Vanno ritessuti legami diretti tra i centri urbani e i loro<br />

antichi «contadi», considerando ovviamente anche i periodici fabbisogni<br />

turistici. Bisognerebbe perciò incentivare la realizzazione di filiere<br />

corte agroalimentari, difendendosi al contempo dall’egemonia<br />

economica delle grandi imprese transnazionali e dall’imposizione di<br />

alimenti iper-industrializzati (dagli “animali pazzi” agli OGM e ad<br />

altri abusi tecnologici sul vivente). È tempo di venire a capo di una<br />

frustrante insicurezza sulla qualità e salubrità dei cibi con apposite<br />

legislazioni e politiche agricole e commerciali e di combattere gli<br />

esorbitanti ricarichi dei prezzi effettuati da intermediari che si inter-<br />

( 31 ) B. BAN<strong>DI</strong>NU, L’identità in ID., P. CHERCHI, M. PINNA, Identità cultura<br />

scuola, Domus de Janas, Selargius-CA 2003, pp. 5-110, citaz. pp. 55-56.


Territori rurali e sostenibilità nel processo di costruzione della Sardegna turistica<br />

pongono parassitariamente tra produttori e consumatori finali, ai<br />

danni di entrambi. Oggi circa l’80% del fabbisogno isolano di cibo<br />

viene importato. È un quadro davvero desolante se si pensa che ai<br />

tempi in cui la Sardegna viveva nella stagione del «sottosviluppo»,<br />

essa era nondimeno autosufficiente dal punto di vista della produzione<br />

del frumento, mentre ai nostri giorni non raggiunge la sufficienza<br />

alimentare neanche con l’olio, il vino e i prodotti ortofrutticoli.<br />

Vivere in una «natura incontaminata» da cartolina ci pare una<br />

magra consolazione se quotidianamente i sardi vengono privati della<br />

sicurezza e sovranità alimentare regionale, con i molteplici costi culturali,<br />

sociali e ambientali che questa situazione comporta e potrebbe<br />

comportare sempre più in futuro.<br />

E se una corretta valorizzazione dei territori rurali dovesse passare<br />

per la diffusione del modello dei parchi, ben vengano anch’essi, a<br />

patto però che non siano imposti “ecocraticamente” dall’alto. La<br />

questione è già stata ampiamente dibattuta, e va sottolineato che<br />

353<br />

la prospettiva dei parchi può inserirsi in un disegno di sviluppo che preveda<br />

i soggetti locali come attori protagonisti del proprio futuro. La comunità<br />

locale come soggetto politico, ossia come amministrazione comunale dei<br />

beni collettivi, è un presupposto perché l’esercizio dell’autonomia sia un<br />

fatto cosciente e diffuso, di responsabilizzazione civica, di partecipazione e<br />

di appartenenza […]. Ecco dunque che l’ipotesi di parchi appare come elemento<br />

nuovo dello sviluppo locale, in quanto fa leva sull’endogenità delle<br />

risorse complessive, superando la logica dei poli di sviluppo e delle periferie<br />

dipendenti, per un’idea di sviluppo puntiforme e autocentrato che ha nell’isola<br />

la sua metafora ( 32 ).<br />

Crediamo insomma che il «turismo alternativo» nelle aree interne<br />

non debba essere considerato di per sé intrinsecamente sostenibile, anche<br />

se ovviamente ciò non comporta che qualunque iniziativa turistica<br />

vada scoraggiata, al contrario… Le aree rurali hanno un vitale<br />

bisogno di vedere riconosciute le loro preziose funzioni ambientali<br />

per le relative società nazionali e per l’intera società-mondo, ma è<br />

decisivo il livello di consapevole e responsabile partecipazione delle<br />

popolazioni locali ad una riconversione ecologica dei loro territori.<br />

( 32 )M.L. PIGA, A proposito di parchi: quali attori sociali per quale sviluppo?, in<br />

«Quaderni Bolotanesi», n. 19, 1993; cfr. anche A. MERLER, Autonomia e insularità.<br />

La pratica dell’autonomia vissuta in Sardegna e in altre isole, in «Quaderni Bolotanesi»,<br />

n. 17, 1991.


354<br />

FABIO PARASCANDOLO<br />

Senz’altro esse non dovrebbero stare col cappello in mano nei confronti<br />

di “operatori forti” come le grandi holding immobiliari, industriali<br />

o infrastrutturali, in attesa di vedersi compromettere i loro patrimoni<br />

naturali per riceverne poche briciole in termini di ritorni<br />

economici. Ma nemmeno dovrebbero illudersi che improvvisandosi<br />

protagoniste di un turismo inteso soprattutto come proliferazione<br />

edilizia da loro stesse promossa e controllata riusciranno ad evitare le<br />

trappole di una irrimediabile compromissione e banalizzazione dei<br />

loro ambienti di vita.


PINELLA DESSÌ<br />

TURISMO, AMBIENTE E POLITICA<br />

NELL’EPOCA <strong>DELLA</strong> GLOBALIZZAZIONE<br />

SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Dal viaggio degli antichi al “turismo” dei moderni.<br />

– 3. Verso il turismo di massa. – 4. Il turismo oggi. – 5. Turismo e<br />

ambiente. – 6. Le influenze della globalizzazione. – 7. Globalizzazione e<br />

politica. – 8. Conclusioni.<br />

1. Introduzione. – Parlare di turismo oggi significa avere a che<br />

fare con un fenomeno complesso e articolato poiché con esso interferiscono<br />

aspetti della vita economica, culturale, politica e sociale.<br />

Si va in vacanza per soddisfare esigenze diverse: svagarsi, accrescere<br />

la propria cultura e la conoscenza dei luoghi e delle persone, curare<br />

determinate infermità o semplicemente rilassarsi e riposarsi. Per soddisfare<br />

queste esigenze sono sorte diverse organizzazioni (in primo<br />

luogo private) portatrici di interessi industriali e commerciali che hanno<br />

acquisito valore e dimensione sempre crescenti (basti pensare all’incidenza<br />

che la voce “turismo” ha assunto nel PIL nazionale di diversi<br />

Paesi). D’altro canto sono nate diverse problematiche, quali ad<br />

esempio la necessità di garantire che il movimento turistico non determini<br />

pericoli sotto il profilo igienico-sanitario, proteggere i luoghi<br />

contro il cosiddetto turismo di rapina nei confronti del patrimonio<br />

storico-artistico e delle bellezze naturali, salvaguardare le tradizioni dal<br />

processo di massificazione imputato alla globalizzazione, conservare<br />

l’ambiente salubre. Si potrebbero fare anche altri esempi, ma già questi<br />

fanno emergere la peculiarità delle problematiche legate al turismo.<br />

Tale peculiarità si concretizza soprattutto in una interferenza e molto<br />

spesso, nei contrasti fra i vari interessi coinvolti.<br />

Nelle pagine seguenti si cercherà di disegnare un quadro generale<br />

sul turismo, nel quale rientrano, oltre agli elementi essenziali del suo<br />

corso storico, alcuni aspetti fondamentali nello sviluppo degli attuali


356<br />

PINELLA DESSÌ<br />

rapporti sociali. Il turismo infatti, oltre ad avere un rilievo primario<br />

in ambito economico, è fortemente influenzato da importanti settori<br />

della realtà attuale, con i quali presenta diverse aree di confine e di<br />

connessioni reciproche.<br />

Il discorso sarà perciò “allargato” in primo luogo alla valutazione<br />

dell’incidenza dei temi concernenti la tutela dell’ambiente che si incrociano<br />

con il turismo cosiddetto “sostenibile” o ecocompatibile,<br />

per passare successivamente all’esame di alcuni aspetti della globalizzazione,<br />

e concludere con alcuni riferimenti all’attività dei pubblici<br />

poteri, con particolare attenzione all’ambito del potere politico.<br />

2. Dal viaggio degli antichi al “turismo” dei moderni. – La necessità<br />

di scoprire nuovi orizzonti dietro i colli che hanno fatto da sfondo<br />

alla giovane vita; il desiderio di oltrepassare la linea dell’orizzonte<br />

marino della località in cui si è cresciuti; ma anche l’istinto che guida<br />

migliaia di animali migratori verso le terre di riproduzione o<br />

quelle dal clima più temperato, rappresentano contemporaneamente<br />

qualcosa di antico e di modernissimo, un istinto ineludibile ma anche<br />

la necessità dettata dalla speranza di una vita migliore. Fare un<br />

viaggio, mettersi in movimento, vuol dire andare alla scoperta del<br />

mondo ma anche percorrendo simultaneamente la via che porta alla<br />

scoperta di se stessi facendosi guidare dalla curiosità o dal bisogno di<br />

capire, elementi da sempre presenti nelle varie culture e tradizioni.<br />

Per le popolazioni più antiche, il viaggio, oltre che da motivazioni<br />

commerciali e militari (pensiamo alle spedizioni di Ittiti, Persiani,<br />

Greci, Unni, Galli), era reso necessario dal bisogno di dare risposte<br />

al destino e all’esistenza umana. Al viaggio era anche connessa l’idea<br />

della fatica, del lavoro o della punizione destinata a segnare la vita<br />

futura: tale è il senso della cacciata dal Paradiso Terrestre nell’Antico<br />

Testamento.<br />

La storia antica del viaggio è stata scritta, in gran parte, dalle classi<br />

sociali più elevate. Nell’antica Roma del periodo compreso tra la<br />

fine del I secolo e l’inizio del successivo, i nobili si recavano regolarmente<br />

nelle ville in campagna e nelle città di mare, oppure alle terme<br />

per curare la propria salute. I latini appartenenti alle classi agiate<br />

potevano inoltre dedicare del tempo alla conoscenza di se stessi stando<br />

in otio ( 1 ), cercando di trovare la propria dimensione umana, in<br />

alternativa all’aspetto occupativo del negotium. Si può affermare che<br />

( 1 ) Per un accenno alla contrapposizione tra otium e negotium, vedi Psicologia<br />

del viaggio e del turismo, M.A. Villamira (a cura di), UTET, Torino 2001, p. 15.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

in queste forme si esprimeva tutta la mondanità di quel tempo, che<br />

diverrà, al tempo di Augusto e dei Flavi, appannaggio anche di politici,<br />

uomini di cultura e dei cosiddetti nuovi ricchi, personaggi che<br />

aspiravano a vivere una vita di agi alle spalle altrui.<br />

Nel periodo medioevale i movimenti delle persone hanno caratteri<br />

notevolmente differenti. La motivazione principale del viaggio è<br />

rappresentata dalla ricerca della propria interiorità e spiritualità. I<br />

viandanti del tempo sono pellegrini, cavalieri erranti, giullari, mercanti<br />

e crociati i cui viaggi potevano durare diversi anni in lunghi<br />

giri intorno al mondo alla ricerca dell’eccezionale e del sublime, di<br />

esperienze mitiche e grandiose. Le mete preferite erano Gerusalemme,<br />

Roma e Santiago de Compostela, dove ci si recava per vedere<br />

e adorare le reliquie, trovando ospitalità nei dintorni delle città di<br />

destinazione. Il pellegrinaggio era una pratica sia religiosa che sociale<br />

e politica, poiché «il funzionamento delle istituzioni nonché l’agire<br />

quotidiano avevano tutti un fine trascendente che era la salvezza nel<br />

Regno dei cieli» ( 2 ).<br />

Tra i pellegrinaggi cristiani un significato particolare va attribuito<br />

ai giubilei ( 3 ), che, per le dimensioni assunte, proponevano quei problemi<br />

logistici, organizzativi e commerciali che caratterizzeranno la<br />

futura industria turistica.<br />

Di questi tempi sono peraltro rimaste tracce dell’amore per il divertimento<br />

e del bel vivere: Giovanni Boccaccio ci riferisce di gite fuori<br />

porta che si praticavano le domeniche o in occasione di feste religiose<br />

e nel Decamerone ci racconta degli ozi in villa; mentre Geoffey<br />

Chaucer descrive ne I racconti di Canterbury sia l’anima religiosa che<br />

quella gioiosa e dedita al divertimento dei grandi pellegrini.<br />

Un lento rinnovamento è cominciato tra la fine del Trecento e<br />

l’inizio del Quattrocento, soprattutto in Italia, con quel processo di<br />

secolarizzazione da cui derivò, peraltro con grandissima lentezza, la<br />

separazione del lato religioso dalle altre dimensioni della vita umana.<br />

L’aspetto ludico si manifestò con la ripresa dei viaggi termali, anche<br />

da parte degli appartenenti alle classi meno abbienti, nonostante<br />

l’opposizione della Chiesa. Le terme erano considerate luoghi di<br />

peccato e dissolutezza, ed in effetti, la circostanza di soggiornare in<br />

luoghi lontani dalle abituali residenze, espressamente costruiti per<br />

l’accoglienza e un’accentuata componente di esibizionismo sociale,<br />

( 2 ) P. BATTILANI, Vacanze di pochi, vacanze di tutti, Il Mulino, Bologna 2001,<br />

p. 66.<br />

( 3 ) Ib., pp. 74-81.<br />

357


358<br />

PINELLA DESSÌ<br />

sono elementi anticipatori di quel tipo di villeggiatura di massa che<br />

si svilupperà a partire dal XVI secolo.<br />

I fermenti nel mondo della scienza, dell’arte, della letteratura e<br />

della cultura che portarono all’Umanesimo e al Rinascimento influenzarono<br />

anche il modo di viaggiare. Gli itinerari privilegiavano<br />

le maggiori città d’arte europee, in particolare quelle italiane, mete<br />

soprattutto dei giovani rampolli della nobiltà inglese che, attraverso<br />

il Grand Tour, completavano la loro educazione, la formazione culturale<br />

e rinsaldavano il prestigio e la superiorità sociale della propria<br />

classe. Con il trascorrere del tempo si aggiungono ulteriori sollecitazioni<br />

che spingevano a mettersi in movimento: il Tour diventa un<br />

vero e proprio viaggio di piacere nel corso del quale prevale l’elemento<br />

ludico, naturalistico e il divertimento. Dal Seicento poi sono<br />

anche i trentenni e i quarantenni appartenenti alla borghesia ad affiancare<br />

giovani, poeti, artisti e filosofi e ad entusiasmarsi per questo<br />

tipo di viaggi. I nobili che non viaggiavano trascorrevano il tempo<br />

libero nelle ville di campagna, impegnati in tornei di caccia, grandi<br />

mangiate e ricevimenti. Gli appartenenti alle classi sociali meno abbienti<br />

erano esclusi da tutto ciò. Non era stato cancellato infatti<br />

l’antico pregiudizio che li vedeva trascorrere il tempo libero in grandi<br />

bevute e bagordi che talvolta potevano degenerare in accoltellamenti<br />

o altri gravi fatti di sangue.<br />

Dalla seconda metà del Settecento le profonde modifiche nel<br />

mondo economico e politico legate al processo di industrializzazione<br />

avviato in Inghilterra, portarono significative trasformazioni nella<br />

vita politica, sociale, culturale e nello stesso modo di concepire i<br />

viaggi e la villeggiatura ( 4 ).<br />

Il progresso tecnologico e scientifico consentì in primo luogo<br />

l’emergere e l’affermarsi di una nuova classe, la borghesia, che per ottenere<br />

il riconoscimento dello status raggiunto, cominciava ad imitare<br />

lo stile di vita della vecchia aristocrazia. Dopo alcuni secoli di oblio,<br />

quest’ultima aveva ridato nuova vita al turismo termale in Inghilterra<br />

prima e successivamente in diverse località europee continentali. Un<br />

gran numero di sorgenti si trasformarono ben presto in località termali<br />

alla moda che si raggiungevano in maniera relativamente comoda,<br />

( 4 ) Sulle ragioni, non solo economiche, ma anche culturali e sociali, che consentirono<br />

alla Gran Bretagna di diventare luogo di nascita del turismo moderno,<br />

vedi ancora P. BATTILANI, op. cit., pp. 103-8, e, per un cenno alle motivazioni<br />

“geopolitiche” della nascita nell’isola dell’industrializzazione, vedi C. RESTA, Stato<br />

mondiale e nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani, Roma<br />

1999, p. 31 ss.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

erano molto meno costose e non necessitavano della complessa organizzazione<br />

di viaggio che accompagnava il Grand Tour, ormai caduto<br />

in declino. A partire dalla seconda metà del XIX secolo le fasce più<br />

alte del nuovo ceto sociale trovarono progressivamente sia riconoscimento<br />

del nuovo status, sia una dimensione individuale, alternativa ai<br />

dettami e ai vecchi valori della tradizione puritana, svincolata dai controlli<br />

e dall’ossequio dell’ Ancien regime. La pratica della emulazione<br />

determinava un processo di congestione cui seguiva la necessità di differenziarsi,<br />

con la ricerca di altre attività e altri luoghi. Si affermò in<br />

questo modo alla fine del secolo, soppiantando man mano il turismo<br />

termale, la nuova “moda” dei bagni di mare, inaugurati ancora una<br />

volta dall’aristocrazia inglese con l’avallo della scienza medica. Data la<br />

fredda temperatura dell’acqua, che consentiva solo immersioni di pochi<br />

minuti, la gran parte del tempo trascorreva tra passeggiate, spettacoli<br />

e giochi lontano dalla spiaggia. La funzione terapeutica e di cura<br />

attribuita al contatto con l’ambiente avviò la pratica del soggiorno in<br />

montagna che, in un primo tempo, fu consigliato nella cura di molte<br />

malattie, specialmente la tubercolosi. Successivamente, la possibilità di<br />

offrire un clima fresco per superare la calura estiva e la predisposizione<br />

di adeguate strutture ricettive trasformarono le montagne in nuovi<br />

luoghi di piacere e di vacanza. Fu la Svizzera ad affermarsi per prima,<br />

offrendo strutture per lo sport e il divertimento sulla neve. I soggiorni<br />

in montagna furono avviati ancora una volta dagli inglesi che praticavano<br />

il pattinaggio su ghiaccio, la discesa su slitta e lo sci, il cui insegnamento<br />

veniva praticato anche in apposite scuole, ma che si affermò<br />

solo con la costruzione degli impianti di risalita. Anche l’alpinismo<br />

conobbe un crescente successo, tanto che già alla fine del secolo le<br />

maggiori vette alpine erano state conquistate. Nel contempo le vacanze<br />

al mare si spostarono dalle fredde acque nordiche alle coste del Mediterraneo,<br />

che per lungo tempo erano state insalubri ed erano inoltre<br />

distanti dai luoghi di residenza dei maggiori fruitori dei bagni in acque<br />

salate. Al successo delle nuove località del turismo marino, prima<br />

in Normandia e nella Costa Azzurra, seguite dalla costiera ligure e romagnola,<br />

contribuirono vari fattori. Gli ospiti erano rappresentati<br />

fondamentalmente da un’élite internazionale che richiedeva strutture<br />

di accoglienza adeguate: grandi hotel, circoli ricreativi, strutture sportive<br />

e urbane efficienti. Queste località, nonostante l’arretratezza economica<br />

iniziale, seppero integrare al proprio interno un nuovo sistema<br />

operativo che consentì lo sviluppo di settori artigianali e commerciali<br />

garantendo una discreta prosperità.<br />

Lo sviluppo economico e tecnologico determinato dalla industrializzazione,<br />

offriva intanto anche il supporto tecnologico necessa-<br />

359


360<br />

PINELLA DESSÌ<br />

rio allo sviluppo di un moderno turismo. Nell’ambito dei trasporti<br />

fu soprattutto la ferrovia a consentire l’abbreviazione e la maggiore<br />

comodità del trasporto via terra. Nei trasporti via acqua la costruzione<br />

delle navi a vapore e il “riciclaggio” dei piroscafi, inizialmente<br />

impiegati per le grandi traversate atlantiche nel trasporto degli emigranti,<br />

introdussero il viaggio per puro piacere, da veri antesignani<br />

delle attuali crociere.<br />

Un ulteriore apporto riguardava il lato organizzativo. L’abbandono<br />

dei tutori che supportavano i grandturisti, se da un lato apriva<br />

grandi spazi alla libertà individuale, dall’altro lasciava i nuovi amanti<br />

del viaggio esposti alle incognite della realtà sociale e ambientale con<br />

cui si veniva in contatto. La soluzione del problema fu la progressiva<br />

organizzazione professionale e la diffusione delle guide stampate.<br />

L’attenzione per la natura, in particolare quella per la montagna,<br />

rese necessario l’aiuto delle guide locali, che, dopo le prime esperienze<br />

“artigianali”, acquistò la forma organizzata del Club alpino che<br />

rendeva più comodo il soggiorno con la costruzione di rifugi, fornitura<br />

di carte topografiche, apertura di nuovi sentieri. Ancora, nelle<br />

grandi strutture ricettive di lusso nascono nuove figure professionali,<br />

tra cui il maître d’hotel e il croupier. Ai viaggi di piacere si accompagnava<br />

inoltre la stampa delle prime guide turistiche ( 5 ), ancora non<br />

illustrate, ma ricche di indicazioni molto utili e perciò molto funzionali<br />

all’organizzazione di un itinerario individuale personalizzato.<br />

Nell’ultimo scorcio del secolo i ritmi e il carico del lavoro degli<br />

strati più alti della borghesia determinarono la necessità del riposo<br />

fisico e psichico, che cominciava ad essere considerato come un investimento<br />

produttivo. Si delineava così la separazione tra il tempo<br />

di lavoro e il tempo libero, che rappresentò l’elemento di vera svolta<br />

verso il turismo moderno ( 6 ), da cui l’ampliamento degli spazi del<br />

tempo libero, per cui costruire nuove strutture professionali adatte a<br />

ricevere e “servire” gli ospiti.<br />

I primi anni del XX secolo, sino al periodo immediatamente successivo<br />

al conflitto bellico, testimoniarono il grande splendore delle località<br />

turistiche più in voga del tempo, favorito dal coinvolgimento nel<br />

turismo di funzionari, dirigenti e in generale della classe medio-alta.<br />

Contemporaneamente si generalizzò il riconoscimento giuridico ad un<br />

periodo di riposo dal lavoro, se ne allungò gradualmente la durata e<br />

( 5 ) Il prototipo della guida turistica è il tedesco Baedeker, stampata già nel<br />

1827, cui seguirono il francese Joanne e l’inglese Murray.<br />

( 6 ) Per un esame della nascita e dell’ evoluzione del turismo moderno cfr. A.<br />

SAVELLI, Sociologia del turismo, Angeli, Milano 2003, pp. 74-108.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

infine, negli anni Settanta, la conquista di questo diritto divenne una<br />

meta agognata tra piccoli impiegati e lavoratori. L’incremento del turismo<br />

fu favorito, seppure in forma limitata, dall’intervento e dallo<br />

spirito di iniziativa della imprenditoria privata, cui si affiancò l’associazionismo<br />

che svolse un ruolo di primo piano nel creare l’amore per<br />

i viaggi, per la natura, per le opere artistiche e culturali e nel creare<br />

nuovi mercati. Nacquero così in tutta Europa, già alla fine del secolo<br />

precedente, diversi clubs. Il primo fu nel 1857 l’inglese Alpine Club a<br />

sostegno dell’alpinismo, cui seguirono analoghe strutture in Austria,<br />

Italia e Germania; nel 1890 nasce il Touring Club de France e pochi<br />

anni dopo l’Automobile Club e altri ancora. Ma fu soprattutto l’intervento<br />

delle istituzioni pubbliche ad accelerare lo sviluppo del settore.<br />

Quasi tutti gli Stati europei si attivarono con interventi di tipo legislativo<br />

e amministrativo a sostegno delle attività dedicate al tempo libero.<br />

Le misure adottate comprendono l’emanazione di una serie differenziata<br />

di provvedimenti che includono, ad esempio, leggi sui congedi retribuiti,<br />

sovvenzioni a favore di organizzazioni, associazioni o imprese di<br />

promozione e diffusione di attività culturali, sportive e del tempo libero,<br />

regolamentazione delle nuove professioni, avvio di un’azione diretta<br />

alla protezione della natura. Nel settore dei trasporti si agevolarono<br />

gli spostamenti con le offerte di viaggi in treno a tariffe ridotte, o con i<br />

treni speciali; si inventarono nuove forme di soggiorno come, ad esempio,<br />

il campeggio. In breve, l’azione statale intendeva coinvolgere nel<br />

progetto turistico nuove fasce di utenti, sino ad allora escluse, con il<br />

favore delle migliori condizioni economiche e politiche successive al<br />

secondo conflitto bellico.<br />

3. Verso il turismo di massa. – Alla catastrofe della guerra seguì un<br />

periodo di ricostruzione e riorganizzazione che avviò una crescita<br />

senza precedenti in ambito economico, con grosse ricadute nel settore<br />

turistico. Favorito dalla ritrovata stabilità tra gli Stati e dal crescente<br />

sviluppo dei Paesi più industrializzati, soprattutto Europa,<br />

Giappone e Stati Uniti, si affaccia sulla scena mondiale quel fenomeno<br />

chiamato turismo di massa, che attribuisce al viaggio e alle sue<br />

dimensioni una nuova fisionomia.<br />

È qui che il viaggio diventa “turismo” in senso stretto:<br />

361<br />

Per trovare la felicità bisogna fare un viaggio: è un motivo costante, dalla<br />

mitologia classica fino ai miti nuovi della storia contemporanea. Ma quello<br />

turistico ha caratteristiche proprie. Non è un andare errante nel percorso di<br />

una Odissea o nell’arcano ultra mondano di Orfeo; non ha lo spessore


362<br />

PINELLA DESSÌ<br />

drammatico di una fatica imposta dagli dèi, né l’ardire di chi viola la fissità<br />

di una legge; non è verifica di una intuizione scientifica né scoperta di un<br />

programma tecnologico. Eppure il viaggio turistico è, a suo modo e in maniera<br />

profonda, una trasgressione e un andare oltre ( 7 ).<br />

Al turismo di massa sono stati infatti attribuiti diversi significati e<br />

valenze, anche negative, nonché definizioni spesso discordanti. I primi<br />

studiosi ne individuavano gli elementi fondamentali nell’immenso<br />

numero dei viaggiatori, nell’utilizzo di strutture collettive e nell’inserimento<br />

dei vacanzieri in gruppi organizzati da apposite agenzie.<br />

Successivamente l’attenzione si è spostata sul processo di standardizzazione<br />

dell’offerta con l’introduzione dei pacchetti turistici<br />

“tutto compreso” e, infine, sulla trasformazione della vacanza in un<br />

“prodotto” di consumo come tanti altri. Si tratta di un fenomeno di<br />

dimensioni notevoli che non ha sempre prodotto gli stessi effetti<br />

nelle diverse aree geografiche. Nato negli Stati Uniti tra gli anni<br />

Venti e Trenta del secolo scorso con il favore della diffusione dell’automobile<br />

e delle ferie retribuite, si diffonde in Europa negli anni<br />

Sessanta e da qui, con la globalizzazione, si estende ai Paesi del Nord<br />

Africa, all’Asia, ai Paesi tropicali e all’Australia.<br />

L’espansione internazionale del turismo è stata favorita in misura<br />

massiccia dai progressi raggiunti nel settore dei trasporti, divenuti<br />

sempre più veloci e alla portata di un numero sempre crescente di<br />

turisti: l’automobile e l’aereo moltiplicano, rispettivamente, gli spostamenti<br />

interni e quelli all’estero. In quest’ultimo ambito la svolta<br />

nell’organizzazione fu rappresentata dai voli charter, che consentivano<br />

l’abbassamento dei prezzi con il noleggio a pieno carico di piccoli<br />

aerei. In un primo tempo vengono impiegati ex piloti militari su<br />

vecchi velivoli da guerra; il progredire della tecnologia e la costituzione<br />

di società di voli charter hanno poi consentito l’uso di aerei<br />

più grandi a prezzi competitivi. Un ulteriore vantaggio offerto da<br />

questo tipo di trasporto è stato lo sviluppo di quelle zone difficilmente<br />

raggiungibili via terra come le coste del Mediterraneo e le isole<br />

(Canarie, Baleari). Parecchie agenzie di voli charter, infine, trasformarono<br />

la loro organizzazione inserendosi nei pacchetti-vacanze<br />

con volo aereo e creando un solido legame con i tour operator. Sono<br />

questi degli organismi di produzione e commercializzazione dei cosiddetti<br />

“pacchetti di viaggi” (comprensivi dei costi del trasporto e<br />

del soggiorno in albergo), che si affiancano o assumono essi stessi la<br />

funzione intermediaria propria delle agenzie di viaggi.<br />

( 7 ) B. BAN<strong>DI</strong>NU, Narciso in vacanza, Amed, Cagliari 1996, pp. 157-8.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

Il legame societario tra i più importanti tour operator nazionali e<br />

le maggiori imprese di trasporti determinarono, negli anni Settanta,<br />

quel processo di trasformazione e concentrazione aziendale che ha<br />

visto la nascita di grossi colossi nell’impresa turistica. Paese leader in<br />

questo processo di trasformazione è ancora una volta la Gran Bretagna<br />

affiancata dalla Germania e dalla Francia.<br />

Sono anni in cui il turismo si pone al centro di diversi interessi:<br />

necessità di stabilizzare il mercato, consolidare il rapporto con la<br />

clientela, promuovere nuove iniziative e realizzare profitti anche attraverso<br />

investimenti speculativi. Alla trasformazione del turismo in<br />

un elemento di consumo inseribile all’interno del processo di produzione,<br />

si accompagna inoltre l’interesse delle imprese per il controllo<br />

dei mezzi di comunicazione favorevoli alla gestione economica del<br />

tempo libero. Ne consegue che il turismo massificato dimostra le sue<br />

carenze, la sua debolezza e le sue intrinseche contraddizioni in stretta<br />

connessione col processo di degrado del suo modello di riferimento:<br />

la società industriale. La moltiplicazione e l’ artificialità che caratterizza<br />

il “prodotto” vacanza, che si manifesta in primo luogo nella<br />

ripetizione di un modello territoriale e urbanistico uguale a se<br />

stesso, segue di pari passo la perdita della validità soggettiva della vacanza<br />

massificata. Ciò che viene a mancare in questo contesto è proprio<br />

il senso di appartenenza alla società considerata come sistema<br />

unitario e totalizzante che era alla base del turismo di massa. La progressiva<br />

fenomenologia complessuale e tecnocratica del sistema sociale<br />

non offre più, attraverso il turismo, la possibilità di seguire dei<br />

percorsi precodificati per il riconoscimento di potere e prestigio, ma<br />

al contrario, offre un semplice veicolo realizzativo di percorsi autonomi,<br />

disomogenei rispetto alle regole del suo “dover essere”.<br />

Tuttavia il turismo di massa non è stato considerato in modo<br />

unanimemente negativo. Il sociologo inglese J.Urry individua infatti<br />

in esso «il tentativo di trattare tutte le persone nella stessa maniera, e<br />

di non stabilire differenziazioni tra clienti dello stesso campo vacanze<br />

o hotel o ristorante. Di importanza centrale (…) è la convinzione<br />

che esista un comune regno di valori che unifichino le persone» ( 8 ).<br />

Esso si presenta comunque come un tratto ineludibile della società<br />

moderna, di cui riflette i caratteri peculiari propri della massificazione<br />

come fenomeno sociologico generale. Come ha osservato Burgelin,<br />

non è il turismo, ma «la massificazione ad essere vilipesa» ( 9 ).<br />

( 8 ) J. URRY, Lo sguardo del turista, Seam, Roma 2000, p. 131.<br />

( 9 ) Cfr. A. SAVELLI, op. cit., p. 210. Ma si veda anche O. BURGELIN, Le tourisme<br />

jugé, in “Communication”, n. 10, 1967, in particolare alle pp. 81-88.<br />

363


364<br />

PINELLA DESSÌ<br />

4. Il turismo oggi. – La crisi del tipo di vacanza tradizionale, identificabile<br />

ad esempio in Italia con il modello “romagnolo” ha origine<br />

complessa, che può essere riferita, in primo luogo, alla progressiva<br />

separazione delle persone dai tradizionali valori di appartenenza e<br />

alla stratificazione secondo modelli di carattere prevalentemente acquisitivo;<br />

e in secondo luogo alla razionalizzazione dell’offerta dei<br />

servizi e delle strutture turistiche, che raggiunge il suo apice con la<br />

moltiplicazione indifferenziata dei luoghi “sacri” della vacanza, rivelandone<br />

il carattere di artificialità e standardizzazione. Essi infatti<br />

sono costruiti non per soddisfare le esigenze autentiche delle persone,<br />

ma per rispondere alle necessità “inventate” dalla società industriale<br />

per compensare il senso di alienazione e destrutturazione da<br />

essa stessa indotto.<br />

Sul finire degli anni Ottanta si registra così in tutto il mondo occidentale<br />

un periodo di generale incertezza, legato alle modifiche in<br />

atto in diversi settori operativi della società. In particolare si assiste<br />

alla differenziazione e specializzazione di un gran numero di attività<br />

di alto livello, che danno origine ad un gran numero di élites funzionali,<br />

segnando allo stesso tempo la fine della contrapposizione tra<br />

borghesia e classe operaia, così come era stata tradizionalmente intesa<br />

e vissuta. Sono soprattutto le modifiche in ambito culturale e la<br />

crisi di identità legata agli sconvolgimenti, determinati – per citarne<br />

solo alcuni – dal crollo delle ideologie, dalla presa di coscienza dei<br />

limiti dello sviluppo e della crescita economica con la conseguente<br />

perdita di senso, nonché dalla limitatezza delle risorse naturali disponibili<br />

ecc., a causare il passaggio dalla società industriale a quella<br />

cosiddetta post-industriale o post-moderna. Si tratta di un passaggio<br />

che non determina una completa sostituzione della seconda alla fase<br />

precedente ma che, come tutti i fenomeni di grande respiro, non<br />

esclude la coesistenza di diverse peculiarità.<br />

La dimensione “sacra” della vacanza appartiene ora alla sfera soggettiva<br />

ed è rappresentata dalla possibilità di distinguere la propria<br />

attività e i propri percorsi, valorizzando e “interpretando” le risorse<br />

culturali e ambientali di un luogo secondo un percorso differenziato,<br />

nuovo, che consenta di riappropriarsi, fruire e godere del tempo e<br />

dello spazio. Ora ciò che importa non è «dove si va, ma cosa si fa e<br />

con chi» ( 10 ); il turismo non indica più la necessità di adeguarsi a<br />

fare quello che fanno tutti ma, al contrario, si avverte il bisogno di<br />

costruire opportunità e incontri, di creare nuovi rapporti, instaurare<br />

una “comunicazione”, nel senso di rivitalizzare le relazioni umane<br />

( 10 ) A. Savelli, op. cit., p. 248.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

stabilendo con l’Altro un rapporto gratificante. Riparte da qui la rivalutazione<br />

del contatto tra turisti e comunità locali, come elemento<br />

di scoperta e valorizzazione della cultura e delle peculiarità dei luoghi<br />

visitati, attribuendo alla vacanza opportunità e significati originali<br />

e ritrovando il senso di rassicurazione di cui si sente il bisogno<br />

quando si è lontani dal proprio ambiente, certezze e abitudini, a<br />

contatto con una realtà diversa, che non è mai del tutto familiare.<br />

Su queste premesse il turismo si profila nel presente come una dimensione<br />

in continua mutazione ed evoluzione, che impegna i professionisti<br />

del settore nella ricerca di nuove possibilità e opportunità,<br />

rivalutando le ricchezze, predisponendo supporti tecnici differenziati<br />

o inventando nuove risorse, facilitazioni, possibilità di esperienze di<br />

vita e di relazioni con l’ambiente, nel momento in cui il richiamo legato<br />

alla fama della località o all’ottimo servizio prestato non risulta<br />

più sufficiente. In questa situazione il ruolo dei privati e delle associazioni<br />

del settore gioca un ruolo di primo piano. Le loro attività<br />

spaziano dalla promozione della domanda turistica attraverso la<br />

pubblicità al miglioramento delle strutture di accoglienza che rendono<br />

più gradevoli e comodi i soggiorni, dalla creazioni di club sportivi,<br />

alla tutela delle risorse, in particolare ambientali, che costituiscono<br />

materia prima nella diffusione del turismo.<br />

Va da sé che le dimensioni assunte dal fenomeno rendono auspicabile<br />

un più incisivo intervento pubblico, non solo nella valorizzazione,<br />

incremento e tutela di risorse specifiche del turismo e delle<br />

loro potenzialità, ma soprattutto nei settori di più tradizionale e generale<br />

competenza, quali la viabilità: un efficiente sistema stradale,<br />

aeroportuale, portuale ecc. rappresentano un supporto fondamentale<br />

alle più varie attività. Analoghe considerazioni si possono fare per i<br />

servizi legati all’igiene, alla fornitura di acqua potabile, allo smaltimento<br />

dei rifiuti, fognature ecc.<br />

Le radicali modifiche nei comportamenti e nelle modalità di fruizione<br />

della vacanza, determinando un altrettanto radicale mutamento<br />

del significato e della dimensione della voce “turismo”, hanno<br />

reso ineludibile anche un diverso approccio alla osservazione scientifica<br />

del fenomeno.<br />

Con l’esclusione delle fasce di utenti per i quali la vacanza rappresenta<br />

solo un momento di riposo necessario per riacquistare le<br />

energie utili a proseguire la propria attività lavorativa (o quelle che<br />

tendono a rivivere momenti del passato con il ritorno nei luoghi<br />

d’origine o al recupero del bisogno di appartenenza ad una dimensione<br />

comunitaria, con i soggiorni in agriturismo), l’analisi delle<br />

nuove manifestazioni del turismo ha richiesto la messa a punto e<br />

365


366<br />

PINELLA DESSÌ<br />

l’uso di nuovi strumenti, essendo ora esso «qualcosa che non solo<br />

non conosciamo, ma non è più conoscibile in maniera consolidata,<br />

univoca e stabile, né globalmente né per tipologie» ( 11 ).<br />

Sinora gli studi della materia sono stati condotti essenzialmente<br />

attraverso la rilevazione statistica quantitativa delle presenze in una<br />

data località, della durata dei soggiorni, del tipo di servizi o di strutture<br />

di accoglimento scelto e ad elementi di questo tipo. Tale analisi<br />

è stata però criticata soprattutto per la limitatezza delle osservazioni<br />

e la loro inaffidabilità, poiché solo la comparazione dei dati ripetuti<br />

più volte nel tempo e riferiti a varie tipologie di elementi, consente<br />

di associare le variazioni quantitative a delle cause specifiche; inoltre<br />

un sistema così concertato non sempre si è rivelato in grado di realizzare<br />

un completo rilevamento dell’intreccio dei nuovi profili del<br />

complesso turistico, dei punti di contatto e collegamento, dei nuovi<br />

percorsi, orizzonti e attività cui si collega la nuova dimensione della<br />

vacanza.<br />

In questa prospettiva una possibile via da seguire potrebbe essere<br />

l’ampliamento delle indagini a quelle variabili rilevanti ai fini della<br />

produzione dei servizi e dei supporti alle attività turistiche, quali le tipologie<br />

dei consumi, le loro modalità di attuazione o le aree di distribuzione.<br />

Si avverte cioè la necessità di deviare le indagini dai percorsi<br />

tradizionali, che consentono esclusivamente di descrivere ciò che è già<br />

successo e hanno perciò una utilità molto limitata ai fini della costruzione<br />

di una politica turistica adeguata ai tempi. Sarebbe utile, su questa<br />

linea, seguire l’esame delle attività rilevanti ai fini del rinnovo, di<br />

una migliore fruibilità e originalità del tempo della vacanza «privilegiando<br />

le risorse che vengono a motivare ed a comporre gli itinerari,<br />

ed il loro modo di associarsi o di succedersi nel tempo (…) chiamando<br />

lo stesso utente a delineare fasi e contenuti» ( 12 ).<br />

Si tratta di un percorso sicuramente impervio, data l’assenza di<br />

metodologie che assicurino certezze, considerate la complessità del<br />

fenomeno e la sua mutevolezza, l’influenza e le interferenze di molteplici<br />

fattori che danno origine a problemi diversificati per i quali<br />

occorrono per converso risposte immediate, efficienti e concrete.<br />

Tra i contributi portati allo studio del turismo, tutt’altro che irrilevante<br />

è stato quello della psicologia ( 13 ) quale scienza del compor-<br />

( 11 ) Ib., pp. 252-3.<br />

( 12 ) Ib., p. 262.<br />

( 13 ) Su questo punto si veda R. VIR<strong>DI</strong>-A. TRAINI (a cura di), Psicologia del turismo.<br />

Turismo, salute, cultura, Armando, Roma 1990, p. 61 ss.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

tamento, con diretti interventi sui settori della progettazione, della<br />

formazione e su quello analitico.<br />

Sul piano progettuale è stata suggerita l’attribuzione di competenza<br />

ai più alti livelli ministeriali, attraverso le Commissioni di studio per<br />

l’incremento turistico, coadiuvate per l’individuazione degli elementi<br />

qualitativi, da competenti operatori del settore, quali i direttori d’albergo.<br />

Attraverso la valutazione della qualità del servizio richiesta si<br />

può risalire alle motivazioni e alle modifiche necessarie, attraverso la<br />

valutazione e il coordinamento dei dati e delle ragioni dell’esperienza,<br />

privilegiando l’informazione e l’accesso alle risorse tecnologiche e<br />

umane che consentano di scegliere le soluzioni più adatte, di realizzare<br />

il maggior numero di contatti e di cogliere le migliori occasioni.<br />

Sul piano formativo, l’alto livello della odierna domanda turistica<br />

richiede adeguate risposte professionali, in considerazione del ruolo<br />

primario assunto dal fattore umano nel determinare il successo o la<br />

caduta del proprio lavoro. La scelta di svolgere un’attività nel settore<br />

non potrà di conseguenza essere affidata a fattori occasionali o fortuiti,<br />

ma dovrà essere basata su specifiche attitudini, motivazione e<br />

preparazione, risultanti da un acculturamento tale da consentire la<br />

migliore espressione delle proprie potenzialità. È perciò auspicabile<br />

che l’improvvisazione e la scarsa attitudine siano sostituite da scelte<br />

adeguate e innovative, basate sulla competenza, flessibilità e sulla capacità<br />

di indicare soluzioni non ovvie e scontate nei tempi adeguati.<br />

Sotto il profilo operativo la psicologia si propone come consulente<br />

il cui ambito di operatività spazia dalle problematiche dell’imprenditore<br />

a quelle del turista nei vari aspetti organizzativi, nella razionalizzazione<br />

delle scelte, nel coordinamento di attività relative a settori<br />

affini o per superare eventuali conflitti.<br />

Al di là di questi aspetti però, se si tiene conto della penetrazione<br />

sempre più ampia della psicologia nella società odierna, la constatazione<br />

che essa è entrata non solo nelle fabbriche, nelle scuole, nelle carceri,<br />

nell’esercito, nelle istituzioni e in quasi tutte le altre sfere del mondo<br />

civile, non potrà che tradursi in una registrazione della sua massiccia<br />

presenza anche nel mondo turistico, soprattutto in virtù del fatto<br />

che questo è un settore particolarmente esposto ai meccanismi sottili<br />

della “psicologia della vendita” e dei marchingegni mediatici e pubblicitari<br />

che la sottendono. Bisognerà allora ricordare la forte carica antiideologica<br />

delle lezioni foucaultiane di Le pouvoire psychiatrique ( 14 )<br />

( 14 ) Si tratta delle lezioni che Foucault tenne tra il 1973 e il 1974, ora raccolte<br />

e pubblicate per la prima volta nel volume M. FOUCAULT, Le pouvoire psychiatrique,<br />

a cura di J. Lagrange, Gallimard-Seuil, Paris 2003.<br />

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368<br />

PINELLA DESSÌ<br />

per intuire come anche il mondo turistico possa prestarsi alla logica<br />

di una fisica e microfisica del potere indotta dagli interessi economici<br />

che sospingono i movimenti strutturali e costitutivi della realtà<br />

nel suo complesso. Anche il turismo, insomma, non è indenne,<br />

come quasi tutti gli altri settori dell’economia, da quella prassi intensificativa<br />

e autocostitutiva della realtà riscontrabile in tutte le sfere<br />

in cui sia necessario far funzionare la realtà come un potere.<br />

La relativa carenza delle risposte sinora fornite dalle più recenti<br />

analisi condotte nello studio del turismo rispetto alle nuove prospettive<br />

problematiche aperte dai processi di globalizzazione soprattutto<br />

nell’ambito generale dei rapporti sociali e comunicativi, ma anche in<br />

quello più specifico del rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero,<br />

inducono a considerare le riflessioni svolte in altro ambito da E.<br />

Morin e A.B. Kern: «Non si potrebbero concepire l’identità terrestre<br />

e l’antropolitica senza un pensiero capace di collegare le nozioni disgiunte<br />

e i saperi compartimentati. Le nuove conoscenze (…) non<br />

hanno alcun senso finché sono separate le une dalle altre» ( 15 ).<br />

L’analisi che il fenomeno turistico richiede in questa prospettiva,<br />

non può prescindere da un suo collegamento critico con alcuni orizzonti<br />

vitali e di senso che, come nel caso dell’ambiente, sono fondamentali<br />

per la stessa sopravvivenza del pianeta. Non meno rilevante<br />

è la connessione del turismo con la sfera della politica, per i suoi legami<br />

con la quasi totalità dei rapporti sociali, soprattutto per la sua<br />

notevole incidenza decisionale sui livelli di gestione economica e imprenditoriale<br />

del fenomeno che ne condiziona da vicino anche la<br />

tassonomia fruitoria da parte dei soggetti sociali.<br />

5. Turismo e ambiente. – La fase in cui lo sviluppo storico del turismo<br />

appariva incontrollato, soprattutto con l’avvento della massificazione,<br />

ha influito in modo decisivo sul territorio, specialmente su<br />

quello extraurbano, con la sua trasformazione in diverse direzioni,<br />

da quella culturale a quella normativa, dal profilo economico a quello<br />

fisico-paesaggistico per la costruzione di strutture abitative (in<br />

particolare seconde case e grandi insediamenti) a fruibilità concentrata<br />

in brevi periodi di tempo. Il paesaggio e il territorio “turistici”<br />

offrono così una chiara quanto desolante visione dello sfruttamento<br />

indiscriminato e tendenzialmente destinato alla loro distruzione irreversibile,<br />

che rispecchia il nuovo rapporto che il mondo moderno<br />

ha instaurato con la natura. Questa è infatti privata dei suoi caratteri<br />

( 15 ) E. MORIN-A.B. KERN, Terra-Patria, Cortina, Milano 1994, p. 167.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

più autentici in nome del progresso, della crescita economica e dello<br />

sviluppo tecnologico, ridotta a semplice appendice o oggetto inerte<br />

di manipolazione. Nel suo rapporto con il turismo, e in generale con<br />

le attività economiche produttive, la natura diventa un prodotto subordinato<br />

ai processi di sfruttamento, frazionamento, appropriazione<br />

e consumo, oggetto, insomma, da cui ci si può separare come da<br />

un qualsiasi altro «prodotto con valore di scambio universale, e con<br />

l’universale possibilità dello scambio» ( 16 ).<br />

La generalizzazione di questo processo determina la cancellazione<br />

delle differenze tra i luoghi, attraverso la manipolazione senza ritorno<br />

delle loro peculiarità geografico-paesaggistiche, con gravi conseguenze<br />

di degrado ecologico e perdita del valore simbolico legato<br />

alla specificità dei luoghi. La loro multiforme varietà e ricchezza è<br />

infatti annullata da una valutazione strumentale e omogeneizzante<br />

della spazialità, cui si collega il depauperamento di uno dei simboli<br />

della vita umana, che perde l’essenza del rapporto con la natura e<br />

con la possibilità di creare con essa relazioni di significato, rigenerazione<br />

ed equilibrio psico-fisico. Desiderare che dietro le case «torni a<br />

vedersi il mare» laddove il loro ammucchiarsi denuncia volgarità e<br />

distruzione significa in tale contesto, opporsi alla visione devastante<br />

cui il cosiddetto “sviluppo” turistico ha sottoposto il territorio e soprattutto<br />

il Sud. Nella disdicevole “vendita all’incanto” consumata a<br />

danno del territorio con un volgare e trasformatorio assalto alla modernità<br />

che ha assunto il doppio volto di “paradiso turistico” o “incubo<br />

mafioso” (l’uno complementare dell’altro), l’inserimento del<br />

nostro Sud nello sviluppo si è concretizzato come ingresso marginale<br />

nelle zone fragili e sporche della ricchezza, attraverso una effettiva<br />

prostituzione del territorio, dell’ambiente, dei luoghi pubblici e delle<br />

istituzioni, senza risparmiare naturalmente né le risorse umane né<br />

le popolazioni. Tale turismo comune a tutti i Sud del mondo manifesta<br />

in particolare due aspetti: «da un lato il sud come fuori rispetto<br />

allo sviluppo come l’ideale del vacuum della vacanza. E quindi il<br />

Mediterraneo dei club Mediterranée, i paradisi esotici in offerta speciale<br />

alle truppe del turismo di massa, un sud come fondale del mese<br />

d’aria delle ricche plebi della civiltà industriale. Dall’altro lato la<br />

vendita trasformistica delle classi dirigenti, la loro corruzione sistematica,<br />

una furbizia estorsiva più raffinata e trasformista nei gradi<br />

più alti e più violenta ed evidente nelle classi più povere» ( 17 ).<br />

( 16 ) B. BAN<strong>DI</strong>NU, op. cit., p. 57.<br />

( 17 ) F. CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 4.<br />

369


370<br />

PINELLA DESSÌ<br />

Dopo gli anni Settanta del secolo appena trascorso comincia a<br />

diffondersi la consapevolezza della necessità di controllare questo<br />

processo e si manifesta la necessità di adottare scelte pianificatorie<br />

fondate sulla salvaguardia delle risorse ambientali, su una riqualificazione<br />

del territorio e dell’ambiente all’insegna di una loro tutela e di<br />

un rapporto armonioso con essi. Ciò significa imboccare la prospettiva<br />

di un “riguardo” per il territorio che implica l’assunzione della<br />

possibilità di ri-guardare i luoghi nel duplice senso di aver riguardo<br />

per essi e di poter tornare a guardarli, cioè entrare in una dimensione<br />

«dove la bellezza torna ad essere un premio per chi l’ha cercata a<br />

lungo e non un diritto di tutti per cui basta pagare, dove la difficoltà<br />

di colmare le distanze e il tessuto delle interdizioni non sono soltanto<br />

assurde repressioni ma anche ostacoli al fanatismo del possesso e<br />

del consumo» ( 18 ).<br />

Con il grido d’allarme lanciato in maniera appassionata da R.<br />

Carson ( 19 ), le tematiche legate alla tutela ambientale fanno parte<br />

dell’idea globale per la quale la preservazione della stessa vita sulla<br />

Terra impone un ripensamento delle convinzioni profonde, etiche e<br />

filosofiche, che sono alla base dei comportamenti umani, poiché ciò<br />

«che noi pensiamo si riflette direttamente sul nostro agire e i nostri<br />

atteggiamenti odierni vanno a incidere pesantemente su cosa, e<br />

come, lasceremo in eredità ai nostri figli» ( 20 ).<br />

La necessità di una politica ambientale razionale e coordinata a livello<br />

globale è oggi resa pressante dall’avanzare dei danni determinati<br />

dall’effetto serra, dalle piogge acide, dalla rarefazione dello strato<br />

di ozono e dalla deforestazione. Di portata planetaria è anche il problema<br />

del rapporto tra attività dell’uomo e disponibilità energetica,<br />

soprattutto per le necessità dell’alta tecnologia, strettamente correlata<br />

con le problematiche del controllo delle nascite e dei consumi.<br />

Non potendo dar conto in queste pagine della vastità delle implicazioni,<br />

dei risvolti e delle conseguenze legate a tale orizzonte, ci limitiamo<br />

ad indicare brevemente le soluzioni proposte alla questione<br />

«come agire nell’uso delle risorse?».<br />

Poiché l’uso delle risorse naturali non può essere considerato gratuito,<br />

una prima regola da osservare è: “chi usa paga”. Si tratta di un<br />

principio che evidenzia il valore delle risorse naturali e della loro limitata<br />

disponibilità e la conseguente necessità di una loro “protezio-<br />

( 18 ) Ib., pp. 8-9.<br />

( 19 ) R. CARSON, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano 1962.<br />

( 20 ) P. PAGANO, Filosofia ambientale, Mattioli, Fidenza 2002, p. 10.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

ne” e “conservazione”. La protezione riguarda la tutela della natura<br />

affinché l’uomo possa goderne nei suoi aspetti “ideali”, ad esempio<br />

nella contemplazione della natura incontaminata, considerabile quasi<br />

come un’utopia, dal momento che questi spazi si vanno sempre<br />

più assottigliando a causa dell’inquinamento e dello sfruttamento<br />

sconsiderato sinora perpetrato dall’uomo.<br />

Ciò che realisticamente può essere attuata è la conservazione, cioè<br />

la tutela della natura al fine di un utilizzo saggio, attento ed equilibrato<br />

di beni materiali quali l’acqua, l’aria, i minerali, le piante eccetera.<br />

Per una buona amministrazione delle risorse è necessario che queste<br />

siano usate in modo che possano rigenerarsi e di esse possano usufruire<br />

le generazioni future, mentre quelle che non possono rigenerarsi devono<br />

essere utilizzate in modo da garantirne la maggior resa possibile ( 21 ).<br />

Ed è proprio sulla rinnovabilità delle risorse e sulla loro gestione che si<br />

basa l’idea dell’uso “sostenibile” dei beni naturali e dell’ambiente.<br />

Questo termine è stato usato per la prima volta agli inizi degli anni<br />

Ottanta e fatto proprio dal rapporto della Commissione Mondiale<br />

sull’Ambiente e lo Sviluppo, (istituita dall’ONU per lo studio dei problemi<br />

dell’ambiente a livello mondiale) conosciuto come rapporto<br />

Brundtland, dal nome del ministro norvegese che la presiedeva. Con<br />

esso si evidenziava la necessità di adottare dei sistemi economici che<br />

potessero garantire la salvaguardia dell’ambiente attraverso l’uso oculato<br />

delle risorse naturali. Si trattava di garantire uno sviluppo tale da<br />

«soddisfare le esigenze del presente senza compromettere la capacità<br />

delle generazioni future di soddisfare le loro proprie esigenze» ( 22 ) e<br />

che non danneggiasse il delicato equilibrio degli ecosistemi terrestri.<br />

La necessità di limitare lo sfruttamento, sinora sregolato, delle risorse<br />

a vantaggio delle generazioni future, è stata accolta e ad essa sono sempre<br />

più frequentemente ispirate le politiche nazionali e internazionali.<br />

La via della “sostenibilità” è considerata con favore anche dalle potenti<br />

lobbies economiche mondiali. Sotto alcuni aspetti (smaltimento dei rifiuti,<br />

riciclo dei materiali già usati, razionalizzazione dei processi produttivi)<br />

la sostenibilità è considerata una scelta valida ai fini della realizza-<br />

371<br />

( 21 ) Sulle scelte del conservazionismo vedi M. SCHMIDT <strong>DI</strong> FRIEDBERG, L’ambiguità<br />

conservazionista, in Orizzonti della Geofilosofia, a cura di L. Bonesio, Arianna,<br />

Bologna 2000, p. 103 ss., dove si evidenzia in particolare l’indeterminatezza<br />

del significato attribuito dai conservazionisti a termini quali “conservazione”, “natura”,<br />

“ambiente”, nonché l’ambiguità del riferimento alla “posterità” o alle “generazioni<br />

future”, le cui preferenze non possono essere indicate in base alle scelte<br />

delle generazioni di oggi, di cui si profila una semplice trasposizione, che non può<br />

tener conto delle variazioni delle necessità e delle preferenze del futuro.<br />

( 22 ) P. PAGANO, op. cit., p. 100.


372<br />

PINELLA DESSÌ<br />

zione di un mercato che determina nuova occupazione, consente lo sviluppo<br />

di nuove tecnologie e avvia nuove possibilità di crescita.<br />

L’equilibrio tra le esigenze della crescita economica, la tutela dell’ambiente<br />

e la composizione dei contrasti è però rimasto sulla carta, essendo<br />

il rapporto Brundtland un «capolavoro del compromesso e dell’utopia<br />

mascherata da realismo e buona volontà, di un’utopia che è<br />

tale(…)perché pretende di dare ragione a tutti (…) senza però fornire i<br />

criteri e i mezzi di una decisione reale» ( 23 ). Al di là dell’uso retorico delle<br />

parole e dei buoni proponimenti, gli obiettivi impliciti del documento<br />

indicato sono facilmente rilevabili attraverso la puntuale indicazione<br />

dei bisogni: «il bisogno della generazione presente, come anche delle generazioni<br />

future è quello della crescita economica» ( 24 ) e, riconoscendo<br />

che la sostenibilità «prima che principio di equità e parsimonia nella distribuzione<br />

dei diritti d’uso, è gestione commercialmente profittevole<br />

(…) è dunque solo nella misura in cui l’economia tende a preservare i<br />

presupposti della produzione che si può preservare la natura» ( 25 ).<br />

La realtà dei fatti ci dice che la locuzione “sviluppo sostenibile” è<br />

usata quale schermo che consente di avviare tranquillamente politiche<br />

statiche e gestionali, che poco o nulla hanno a che fare con una<br />

effettiva tutela dell’ambiente e la conservazione delle risorse naturali.<br />

Nella concreta attuazione delle politiche e dei programmi economici<br />

e gestionali, persiste pertanto un’incognita, un elemento di rischio<br />

derivanti dalla mancanza di elementi di certezza delle future conseguenze<br />

e dell’impatto che queste potranno esercitare sulla vita futura<br />

nel pianeta. Nelle attuali progettazioni si adotta il criterio per cui la<br />

mancanza di elementi conosciuti di segno negativo equivale ad una<br />

valutazione positiva, circostanza che viene rappresentata in una delle<br />

sue forme più macroscopiche nella posizione assunta dal presidente<br />

americano Bush junior a proposito dell’effetto serra.<br />

È di conseguenza sempre più urgente sottoporre i progetti ambientali,<br />

oltre che all’analisi dei costi-benefici, all’accertamento dei<br />

rischi connessi alla valutazione di impatto ambientale (VIA). Si tratta<br />

del tentativo di combinare dati, analisi fattuali e possibili future<br />

conseguenze sul territorio, con l’accettabilità sociale del valore dei<br />

progetti proposti. Si tratta peraltro di una procedura di difficile e<br />

controversa attuazione. Dopo le prime soddisfacenti versioni, questi<br />

progetti sono diventati appannaggio di tecnici ed esperti che già fan-<br />

( 23 ) N. RUSSO, Filosofia ed ecologia, Guida, Napoli 1998, p. 188.<br />

( 24 ) Ib., p. 189.<br />

( 25 ) Ib., pp. 190-1.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

no parte delle strutture di potere, che escludono certi gruppi sociali<br />

e individui dalle decisioni; le informazioni scientifiche possono non<br />

essere accessibili o comprensibili da tutti i soggetti che comunque<br />

sono i destinatari di una certa decisione; non sempre le scelte nel<br />

settore ambientale riescono ad essere separate dagli interessi di particolari<br />

élites e spesso le conseguenze negative sono caricate sulle spalle<br />

dei più deboli e poveri.<br />

Allo stato attuale non è possibile individuare delle “istruzioni per<br />

l’uso” chiare ed efficaci, soprattutto se si tiene conto dell’ampiezza<br />

delle dimensioni assunta dalle problematiche relative alla cura dell’ambiente,<br />

estese all’intero pianeta. Oggi infatti il sistema delle comunicazioni<br />

ha raggiunto efficienza ed estensioni tali per cui è possibile<br />

conoscere, cioè avere i dati in tempo reale e rielaborarli in<br />

modo da trarne in breve tempo indicazioni operative; è possibile una<br />

progettazione avanzata attraverso il confronto dei dati, dei modelli<br />

di interpretazione e delle soluzioni ed è, infine, possibile coordinare<br />

le forze per fornire a tutti gli interessati gli strumenti per agire. Pur<br />

possedendoli, la specie umana non riesce ad usare gli strumenti di<br />

gestione della crisi ambientale. Il sistema informatico è infatti soggetto<br />

a cattivo funzionamento: chiusura dei collegamenti, falsificazione<br />

dei dati o loro manipolazione in modo che cambino significato.<br />

Un esempio emblematico in questo senso è stato l’incidente nucleare<br />

alla centrale di Chernobyl.<br />

Come può accadere tutto questo? A parte gli errori involontari o<br />

gli impacci dovuti all’inesperienza, le disfunzioni corrispondono a<br />

intenzionalità precise, dirette ad ottenere specifici obiettivi economici,<br />

politici o di controllo sociale. Pur considerando che una adeguata<br />

valutazione degli interventi sull’ambiente può essere compiuta<br />

solo ex post, quando cioè tutte le variabili implicate nel progetto<br />

hanno interagito tra loro, è possibile affermare che la possibilità concreta<br />

di gestire l’ambiente oggi è subordinata non tanto al funzionamento<br />

della scienza o della tecnologia, quanto a quello dei rapporti<br />

tra gli individui, le collettività e il sistema sociale nel suo insieme. La<br />

gravità delle conseguenze indotte da questo stato di cose comporta<br />

un prezzo molto alto da pagare in quanto la salvaguardia delle risorse<br />

naturali, continuamente soggette a minacce di depauperazione e<br />

distruzione, inquinamento e degrado molto spesso irreversibile, rappresenta<br />

un elemento vitale per la sopravvivenza della stessa umanità.<br />

Da questa situazione deriva il sentimento di incertezza e spaesamento<br />

e la coscienza dell’incapacità dell’uomo di dominare la natura<br />

(pur avendo egli piegato alle proprie necessità il mondo vegetale ed<br />

essendo diventato padrone dei suoi animali), senza peraltro avere la<br />

373


374<br />

PINELLA DESSÌ<br />

capacità di «controllare la propria natura, la cui follia lo spinge a dominare<br />

la natura perdendo il controllo di se stesso» ( 26 ). Questo<br />

uomo «deve reimparare la finitezza terrestre e rinunciare al falso infinito<br />

dell’onnipotenza, per scoprirsi di fronte al vero infinito che è<br />

indicibile e inconcepibile. I suoi poteri tecnici, il suo pensiero, la sua<br />

coscienza devono ormai essere votati non a dominare ma a governare,<br />

migliorare, comprendere» ( 27 ).<br />

È auspicabile che, al di là dell’adozione di politiche cieche e dall’uso<br />

strumentale dei termini, si promuovano dei programmi capaci<br />

di mantenere la loro efficacia nel tempo, preservando valori qualitativi,<br />

in grado di rispettare un sano equilibrio tra le aspettative di chi<br />

sostiene sviluppo e crescita e quelle, spesso in contrasto, dei sostenitori<br />

dei valori ambientali e della tutela del territorio.<br />

6. Le influenze della globalizzazione. – Le osservazioni fatte sin<br />

qui sul turismo e sull’ambiente hanno inteso evidenziare le influenze<br />

esercitate su di essi da quell’insieme di eventi, processi ed eterogenee<br />

esperienze che si possono generalmente comprendere sotto il termine<br />

“globalizzazione”. Dall’ambito economico-tecnologico in cui ha<br />

avuto origine, a partire dall’ultimo ventennio dello scorso secolo,<br />

con la estensione degli scambi, dei mercati, dei capitali e dei movimenti<br />

finanziari che hanno assunto dimensione planetaria, ora questo<br />

fenomeno ha permeato di sé anche il campo politico, quello sociale<br />

e quello culturale.<br />

Con questo neologismo, oggi molto in voga, si fa riferimento a<br />

quei processi di estensione su scala mondiale degli stili di vita sociale,<br />

culturale e dei costumi, favoriti dalla tecnologia, in particolare<br />

dai sistemi di comunicazione (dai trasporti alla telematica); ma è con<br />

riferimento all’ambiente che si sperimenta concretamente la dimensione<br />

dell’estensione del fenomeno che «allarga i confini dell’occidente<br />

sino ad abbracciare la terra intera» ( 28 ). Così intesa la globalizzazione<br />

è considerata come una «dinamica (…) di unificazione delle<br />

condizioni materiali e integrazione delle culture coincidente in ultima<br />

analisi con la stessa Storia del mondo» ( 29 ).<br />

( 26 ) E. MORIN-A.B. KERN, op. cit., p. 188.<br />

( 27 ) Ib., p. 189.<br />

( 28 ) C. RESTA, Stato mondiale…, cit., p. 21.<br />

( 29 ) G. MARRAMAO, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati<br />

Boringhieri, Torino 2003, p. 13.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

Va peraltro precisato che non esiste al riguardo uniformità di posizioni.<br />

L’economista indiano Amartya Sen afferma che «la globalizzazione<br />

non è un fatto nuovo e non può essere ridotto a occidentalizzazione»<br />

( 30 ). Seguendo un percorso storico si può osservare, infatti,<br />

che attorno all’anno Mille tecnologie quali ad esempio la stampa,<br />

la polvere da sparo, l’orologio e la bussola magnetica erano conosciute<br />

in Cina; India e Paesi arabi eccellevano nelle scienze matematiche,<br />

che erano ancora sconosciute in Europa, tra i cui confini si<br />

diffusero con un processo di globalizzazione che ha seguito una direzione<br />

inversa rispetto a quella dei nostri giorni. Sul versante opposto<br />

si considera la globalizzazione come elemento di rottura con l’età<br />

moderna, tale da rendere obsolete le categorie classiche della modernità…<br />

(Stato, popolo, sovranità, nazione, centro/periferia, pubblico/<br />

privato, ecc.)» ( 31 ).<br />

Allo stato attuale non è facile stabilire se le opposte posizioni teoriche<br />

possano rappresentare due paradigmi concorrenti o se invece non<br />

possano essere oscurati e dimenticati dal sopraggiungere di nuove “verità”<br />

ed esperienze. Al di là delle teorizzazioni, i dati fattuali e le condizioni<br />

connesse al fenomeno mostrano una fitta rete di interdipendenze<br />

a livello mondiale fra parti delle società che svolgono funzioni<br />

specifiche molto influenti sul resto della collettività: diverse attività ed<br />

istituzioni economiche, finanziarie e culturali costituiscono da tempo<br />

sistemi “mondializzati”, ma molte altre non lo sono e forse potrebbero<br />

non verificarsi mai le condizioni perché questo accada.<br />

In rapporto con il locale, l’imposizione della mobilità come valore<br />

di prestigio e stratificazione sociale impoverisce il «sociale storico<br />

e la formazione delle società di lunga durata localizzate sul territorio<br />

come la famiglia e la fabbrica, e fa della deterritorializzazione il suo<br />

carattere distintivo, con il suo carico di spaesamento e di sradicamento»<br />

( 32 ). La mobilità diventa causa di disuguaglianza tra i “globali”<br />

e coloro che invece sono costretti a muoversi in condizioni di<br />

inferiorità e degradazione sociale, in una situazione aggravata dalla<br />

perdita nei luoghi della capacità di «generare e imporre significati all’esistenza»<br />

( 33 ). I membri delle élites globali istruite, nei loro fre-<br />

( 30 ) A. SEN, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002, p. 4.<br />

( 31 ) G. MARRAMAO, op. cit., pp. 13-14.<br />

( 32 ) E. FIORANI, La crisi della territorialità e dell’appartenenza in AA.VV., Orizzonti<br />

della geofilosofia, a cura di L. Bonesio, Arianna, Bologna 2000, pp. 83-4.<br />

( 33 ) Z. BAUMAN, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza,<br />

Roma-Bari 2002, p. 235 ss.<br />

375


376<br />

PINELLA DESSÌ<br />

quenti viaggi per il mondo (sia in quello reale che attraverso le “reti”<br />

di comunicazione virtuale), si incontrano e hanno rapporti interculturali<br />

esclusivi con altri appartenenti alle stesse élites, determinando<br />

quel processo di separazione, esclusione e segregazione del resto del<br />

“popolo” ( 34 ), che rappresenta un aspetto fondamentale del processo<br />

di globalizzazione. I centri nei quali vengono prodotti i significati e i<br />

valori sono oggi extraterritoriali e avulsi da vincoli locali, mentre<br />

non lo è «la stessa condizione umana che a tali valori e significati<br />

deve dar forma e senso» ( 35 ). Nella frattura tra localismi e globalismo<br />

(su cui ha inciso in modo decisivo la crisi dello Stato-nazione), sta la<br />

radice del nuovo fenomeno della xenofobia regionalistica (ci si sente<br />

più lombardi che italiani, più baschi che spagnoli, più gallesi che inglesi<br />

ecc.), che rischia di degenerare in pericolosi cortocircuiti ( 36 ).<br />

D’altro canto oggi i mezzi di comunicazione di massa giocano un<br />

ruolo fondamentale nella «produzione delle identità attuali» ( 37 ). La<br />

gran parte delle persone è cosciente della sua esclusione dallo spazio<br />

extraterritoriale globale in cui risiede l’élite culturale planetaria, di<br />

cui può avere solamente una visione virtuale sostitutiva o immaginata.<br />

«L’effetto di “extraterritorialità virtuale” si ottiene sincronizzando<br />

a livello planetario gli spostamenti dell’attenzione e gli oggetti di tali<br />

spostamenti. Milioni, centinaia di milioni di persone guardano e<br />

ammirano le stesse star del cinema o le stesse celebrità della musica<br />

pop, (…) si scagliano contro lo stesso nemico pubblico (globale),<br />

(…) e applaudono lo stesso salvatore (globale). Ciò consente loro di<br />

innalzarsi spiritualmente per un poco da quel luogo da dove non gli<br />

è permesso di spostarsi fisicamente» ( 38 ).<br />

Tra questi due estremi sta l’uomo post-moderno “medio”; egli<br />

sperimenta<br />

( 34 ) Per un approfondimento di questi temi si veda ancora G. MARRAMAO, op.<br />

cit., p. 235 ss.<br />

( 35 ) Z. BAUMAN, ib.<br />

( 36 ) In Thick and Thin. Moral Argument at Home and Abroad (1994) M. Walzer<br />

ha evidenziato alcuni paradossi emergenti in campo morale, assiologico e culturale<br />

dalla globalizzazione e dalla vittoria dell’Occidente nella Guerra Fredda: da<br />

un lato la tendenza ad affermarsi nel mondo di un universalismo «minimo» dei diritti<br />

umani, e dall’altro l’esplosione in vari luoghi di un particolarismo «massimo»<br />

di storie e tradizioni collettive etniche e nazionalistiche. Cfr. M. WALZER, Geografia<br />

della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo, Dedalo, Bari 1999.<br />

( 37 ) Z. BAUMAN, Intervista sull’identità a cura di B. Vecchi, Laterza, Roma-Bari<br />

2003, p. 97.<br />

( 38 ) Ib.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

377<br />

le complesse figure del viaggiatore che ripercorrono la trama mitica del pensiero<br />

occidentale da Gilgamesh a Odisseo, dal cavaliere al pellegrino, dal filosofo<br />

viaggiatore del moderno all’Ulisse della Dialettica dell’Illuminismo di<br />

Horkheimer e Adorno, dall’Esodo biblico al Wandered, l’esule, il marginale,<br />

dallo straniero a se stesso e al proprio luogo al transfuga dal suo stesso corpo,<br />

al nomade elettronico nello spazio immateriale, il postumano.<br />

La contemporaneità si riferisce più che a Ulisse che torna a casa, all’Esodo, al<br />

popolo d’Israele che lascia le terre del faraone. Solo le ossa di Giuseppe ritornano<br />

a Canaan e per quanto riguarda gli Israeliti che giungono nella terra<br />

promessa “non c’è nessuno a dar loro il benvenuto” (M. Walzer, 1986). È un<br />

viaggio senza terra promessa né del latte né del miele, è un viaggio dello sradicamento<br />

permanente, che ha il proprio paradigma nella fuoruscita dall’Eden,<br />

che sbarra i cancelli dell’immortalità e ci destina a un eterno peregrinare<br />

e a stare fuori dal luogo. E può diventare di sola andata, che non ha arrivo,<br />

né ritorno. Il nostro andare è infatti sempre più simile al vagare di chi si è<br />

perduto. La perdita di dimora a favore di una località nomade altera il mito<br />

del viaggio. L’esodo, che non è più il viaggio verso la terra promessa, è il<br />

viaggio orizzontale di chi sta per via ( 39 ).<br />

La figura del turista (non importa se viaggia per lavoro o per diletto)<br />

oggi deve fare i conti con la diffusa frammentazione, la deistituzionalizzazione<br />

e il soggettivismo tipici dei nostri tempi. Egli deve<br />

operare in un mondo che «è esso stesso un giocatore e dove tutti<br />

sono costretti a giocare un gioco le cui regole non durano neanche il<br />

tempo di una partita» ( 40 ).<br />

In questa situazione l’unica strategia possibile è quella di vivere<br />

giorno per giorno, non essendo possibile una programmazione di<br />

lungo periodo: «cercare non tanto di controllare (vanamente) il futuro,<br />

quanto di non ipotecarlo». Il turista si adatta e personifica perfettamente<br />

questo stato. Egli si mantiene alla giusta distanza, non facendosi<br />

influenzare da niente e da nessuno, trovandosi «come all’interno<br />

di una bolla (…) che lo protegge efficacemente dalla forza di<br />

aspirazione e dalla vischiosità dell’ambiente». È infatti pronto a rimettersi<br />

in viaggio non appena il piacere della scoperta lascia il posto<br />

alla banalità o quando si prefigurano all’orizzonte nuove e più<br />

forti esperienze e sensazioni: la mobilità è il suo “valore supremo”. Il<br />

turista viaggia senza un itinerario preconfezionato, decidendo raramente<br />

per quanto tempo fermarsi nel luogo in cui soggiorna o in<br />

quelli successivi. La sua perenne disponibilità, il turista la chiama<br />

( 39 ) E. FIORANI, ib., p. 86.<br />

( 40 ) Z. BAUMAN, Il disagio della postmodernità, B. Mondadori, Milano 2002, p. 98.


378<br />

PINELLA DESSÌ<br />

«libertà, autonomia, indipendenza, apprezzandola sopra ogni altra<br />

cosa in quanto condizione sine qua non di tutto il resto» ( 41 ).<br />

Queste caratteristiche non sono però proprie di tutti i viaggiatori.<br />

Vi sono persone che preferirebbero fare scelte diverse, se ne avessero<br />

l’opportunità. Questi individui si muovono perché<br />

vi sono stati spinti, dopo essere stati in primo luogo sradicati spiritualmente<br />

da un posto che non prometteva nulla, da una seduzione o propulsione,<br />

una forza troppo potente, e spesso misteriosa, perché le si possa resistere<br />

(…) Sono i vagabondi alla deriva (…) i rifiuti del mondo che si è dedicato<br />

ai servizi turistici (…) Il fenomeno che oggi viene acclamato come “globalizzazione”<br />

è volto a soddisfare i sogni e i desideri del turista. Ma il suo secondo<br />

effetto–un effetto collaterale, eppure inevitabile–è di trasformare<br />

molti altri in vagabondi ( 42 ).<br />

I vagabondi sono in movimento non per libera scelta, ma perché<br />

non hanno alternative, e sono spesso costretti dai residenti ad andare<br />

altrove. L’assenza di una libera scelta esclude “il fascino, il romanticismo,<br />

la promessa di avventura che rendono “turismo” la vita in<br />

cammino» ( 43 ).<br />

Turisti e vagabondi rappresentano le due diverse facce della stessa<br />

realtà globalizzata, dal momento che «la pressione per abbattere le ultime<br />

barriere al libero movimento del denaro e delle merci e delle informazioni<br />

redditizie va di pari passo con la spinta a scavare nuovi fossati<br />

e ad erigere nuovi muri (chiamati in vario modo leggi “sull’immigrazione”<br />

o sulla “nazionalità”» ( 44 ). Tra le due posizioni estreme esiste<br />

peraltro un confine sottile che le condizioni attuali di precarietà (lavoro<br />

temporaneo, andamento altalenante dei mercati e delle borse, svalutazione<br />

di specifiche capacità e professionalità) possono far oltrepassare<br />

da un momento all’altro, trasformando il turista in vagabondo.<br />

Lo spettro della possibile realizzazione di questa prospettiva riesce a<br />

rendere sopportabili le difficoltà, le rinunce e le incertezze della vita<br />

del turista: dalla impossibilità di ridurre i ritmi e modificare il proprio<br />

stile di vita, alla consapevolezza di fare opzioni obbligate da una<br />

mancanza di scelta che non sia rappresentata dal fare la vita del vagabondo.<br />

( 41 ) Ib.<br />

( 42 ) Z. BAUMAN, Dentro la globalizzazione…, cit., pp. 103-4.<br />

( 43 ) Z. BAUMAN, Il disagio…, cit., p. 103.<br />

( 44 ) Z. BAUMAN, Dentro la globalizzazione…, ib.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

Aderendo alla tesi di Bauman, si possono considerare le due figure<br />

descritte quali metafore della vita postmoderna. Non è necessario<br />

spostarsi fisicamente per considerarci tutti «viaggiatori-attraverso-lavita»<br />

e sentirci «collocati lungo un continuum a uno dei cui poli sta<br />

la figura del “turista perfetto”, e dall’altro la figura del vagabondo<br />

senza speranza» ( 45 ). La posizione occupata da ciascuno di noi è data<br />

da una sola variabile strettamente legata a tutti gli altri indici di dignità,<br />

di onori sociali, nonché alla possibilità di accedere a tutti gli<br />

altri valori socialmente apprezzati e desiderabili. Questa variabile è<br />

la libertà di scelta dei percorsi esistenziali. È infatti attraverso il grado<br />

di elaborazione di questa facoltà che viene assegnato a ciascuno il<br />

ruolo da occupare all’interno della società: «più grande è la libertà di<br />

scelta posseduta, più alta la carica occupata. Le differenziazioni sociali<br />

postmoderne si misurano con il ventaglio delle opzioni realistiche»<br />

( 46 ).<br />

7. Globalizzazione e politica. – Prima di concludere il nostro discorso<br />

è utile conoscere il ruolo svolto oggi dal settore dei rapporti<br />

sociali cui è affidato il compito di dare risposte concrete ai problemi<br />

delle persone. A questo proposito è rilevante l’influenza che la globalizzazione<br />

ha esercitato nel disegnare il nuovo panorama sociale e gli<br />

sviluppi politici, in quanto da essa deriva non un semplice ampliamento<br />

d’orizzonte (verso il globale) rispetto alle precedenti fasi della<br />

colonizzazione, internazionalizzazione, industrializzazione e modernizzazione,<br />

ma una nuova struttura e configurazione globale del<br />

mondo. Oggi la politica deve «suscitare la visione del globale-planetario<br />

– il sentimento responsabile – che può venire solo a partire dalla<br />

coscienza di assumere problemi fondamentali e globali» ( 47 ).<br />

Le trasformazioni subite dalla politica negli ultimi tempi rendono<br />

oltremodo ardua l’attuazione di tali compiti. Dal XIX secolo il suo<br />

ambito di operatività si è ampliato in maniera notevole, attraverso il<br />

legame con le questioni specifiche della vita quotidiana: dall’assistenza<br />

ai lavoratori, malati e invalidi al risarcimento dei danni causati<br />

dalle catastrofi naturali; dalla cultura al tempo libero alla gestione<br />

delle comunicazioni, la politica ha assunto la direzione dei bisogni<br />

degli individui, dei gruppi e di intere collettività. Essa non è più solo<br />

( 45 ) Z. BAUMAN, Il disagio…, cit., p. 104.<br />

( 46 ) Ib.<br />

( 47 ) E. MORIN-A.B. KERN, op. cit., p. 143.<br />

379


380<br />

PINELLA DESSÌ<br />

politica degli Stati, delle nazioni e dei popoli, ma diventa, spesso<br />

senza volerlo e senza saperlo, una politica dell’uomo. Il secolo successivo<br />

ha visto il culmine e il conseguente crollo del totalitarismo,<br />

che ha dimostrato che «se una politica può vincolare la totalità degli<br />

aspetti della vita di una società, essa non può né assumere né risolvere<br />

la totalità dei problemi umani» ( 48 ). Contemporaneamente la politica<br />

tradizionale, in seguito alle contaminazioni con l’economia, la<br />

tecnica e vari specialismi scientifici, per la necessità di comprendere<br />

e indirizzare ogni suo sforzo al buon governo, è andata snaturando il<br />

suo carattere originario. La frammentazione e separazione nella trattazione<br />

delle diverse problematiche ha parcellizzato il momento della<br />

loro analisi che, al contrario, ha una valenza multidimensionale.<br />

Di qui l’esigenza di trovare un equilibrio che consentisse alla politica<br />

una relativa autonomia rispetto ai sistemi di specializzazione. È questa<br />

la situazione che ha determinato la degenerazione della politica<br />

potenzialmente globale in un insieme di egoismi locali «perennemente<br />

in lotta, impegnati a contrattare una porzione più larga delle<br />

briciole che cadono dalla tavola imbandita dei baroni-predoni globali»<br />

( 49 ).<br />

La politica, inoltre, non può ignorare quella parte della complessa<br />

realtà umana rappresentata dall’immaginario, dai sentimenti e dal<br />

mito, che devono condurla a non chiudersi nella pura prosaicità della<br />

“società postindustriale” o del “progresso tecnico”. L’ingresso di<br />

tutte le cose umane nella politica deve darle, al contrario, un respiro<br />

antropologico. L’idea politica dell’uomo non dovrà ridurre a essa<br />

tutte le dimensioni che abbraccia: dovrà sviluppare la coscienza e la<br />

prospettiva politica, pur riconoscendo e rispettando ciò che, in esse,<br />

sfuggirebbe alla politica stessa. L’idea di politica dell’uomo conduce<br />

all’idea di politica planetaria; l’idea di politica planetaria conduce all’idea<br />

di politica dell’uomo ( 50 ). L’ampio ventaglio di collegamenti,<br />

conflittualità, incertezze, contrasti e interdipendenze cui anche la<br />

politica è oggi sottoposta soprattutto a livello planetario, è causa dell’estrema<br />

inconcludenza delle decisioni. Su queste incide ancora il<br />

crollo delle previsioni del passato, imponendo mutamenti di strategia<br />

che consentano di «correggere o abbandonare l’azione quando<br />

questa contraddice l’intenzione» ( 51 ).<br />

( 48 ) Ib., p. 142.<br />

( 49 ) Z. BAUMAN, Intervista…, cit., p. 100.<br />

( 50 ) E. MORIN-A.B. KERN, op. cit., pp. 144-5.<br />

( 51 ) Ib., p. 147.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

In questo clima di incertezza generale non è agevole indicare linee<br />

guida di sicuro effetto, per quanto non manchino alcuni orientamenti.<br />

Vi è chi afferma che le «forze globali sguinzagliate e i loro<br />

ciechi e dolorosi effetti devono essere messi sotto controllo democratico<br />

popolare e obbligati a rispettare e osservare i principi etici della<br />

coabitazione umana e della giustizia sociale» ( 52 ). Bauman non indica<br />

peraltro le istituzioni concrete per mezzo delle quali dovrebbe essere<br />

realizzato questo compito: «è di gran lunga troppo presto per<br />

fare congetture su quali forme istituzionali produrrà questa trasformazione»;<br />

ciò di cui si può essere certi è che questi organismi «dovranno<br />

dimostrare di essere capaci di innalzare la nostra identità a livello<br />

planetario, al livello dell’umanità» ( 53 ), se vogliamo evitare la<br />

dilagante insicurezza e fragilità dell’intero mondo.<br />

Per fronteggiare le difficoltà proprie dell’epoca globale Giacomo<br />

Marramao sostiene la necessità, per l’Europa, di trovare un equilibrio<br />

tra il colosso americano e quello asiatico ( 54 ). Il Vecchio Continente<br />

infatti si ritrova stretto tra due estremi: da un lato l’America,<br />

non solo potenza economico-militare-tecnologica, ma anche luogo<br />

di «crisi dell’individualismo acquisitivo», delle «politiche della differenza»<br />

e di «lotte per il riconoscimento», che concretizza la discrepanza<br />

tra «la situazione di stallo di un sistema democratico ormai divenuto<br />

macchina autoreferenziale di riproduzione delle oligarchie e<br />

il pluriverso di linguaggi e di esperienze di gruppi umani coinvolti<br />

in un mutamento di civiltà (…) che investe la gerarchia dei valori, la<br />

struttura del desiderio e la dimensione del bíos, della corporeità e<br />

della vita, in un mondo-ambiente planetario»; sul lato opposto, invece,<br />

l’Europa deve fronteggiare il continente asiatico, sinonimo di<br />

«miracolo economico» e «tigri del Pacifico», che contemporaneamente<br />

rappresenta la sfida degli «asian values», cioè di quei valori<br />

che pretendono di «spezzare l’equazione occidentale di capitalismo<br />

ed etica individualistica, fondando lo sviluppo e la produttività su<br />

strutture associative di stampo gerarchico-comunitario: sulla subordinazione<br />

degli obiettivi (e dei diritti) individuali a quelli delle entità<br />

collettive» ( 55 ). Tra questi modelli alternativi, l’Europa è chiamata<br />

a dare una propria, autonoma risposta, che dovrà fondarsi «sul trinomio<br />

costituito da un Parlamento dotato di poteri effettivi, da una<br />

( 52 ) Z. BAUMAN, ib., p. 101.<br />

( 53 ) Ib.<br />

( 54 ) G. MARRAMAO, op. cit., p. 237 ss.<br />

( 55 ) Ib., pp. 237/8.<br />

381


382<br />

PINELLA DESSÌ<br />

Commissione trasformata in esecutivo effettivo e da una Corte di<br />

Giustizia divenuta a pieno titolo Corte costituzionale». Queste istituzioni<br />

consentiranno al Vecchio Continente di «tenersi distante<br />

dalle opposte insidie del proceduralismo tecnocratico e dell’appello<br />

mitologico populistico alla sovranità e al potere costituente del Popolo,<br />

soprattutto senza mai dimenticare il monito (…) dei vecchi<br />

maestri della Teoria critica francofortese: il potere buono è solo il<br />

potere limitato» ( 56 ).<br />

In una sua recente opera, il sociologo Luciano Gallino ( 57 ) sottolinea<br />

come per una global governance capace di realizzare l’obiettivo di<br />

una efficace ed efficiente economia, con una disoccupazione limitata e<br />

una produttività adeguata alle medie necessità di benessere generale,<br />

sia necessario indurre gli organismi internazionali, quali ad esempio la<br />

Banca Mondiale, il Fondo Monetario, l’Organizzazione mondiale per<br />

il commercio e la Comunità Europea, a realizzare una «globalizzazione<br />

dal volto umano». Ma, dal momento che queste istituzioni non riescono<br />

ad attuare tale obiettivo, dovrebbero essere i cittadini, gli imprenditori,<br />

gli amministratori pubblici, i sindacati e le organizzazioni non<br />

governative ad indurli a farlo. Nei processi di globalizzazione viene infatti<br />

rilevata una «mancanza di partecipazione democratica», la quale<br />

rende necessario che la «base formata da quei cittadini del mondo per<br />

i quali la democrazia vive di partecipazione non meno che di rappresentanza,<br />

comincino a farsi sentire» ( 58 ). Partecipare facendo sentire la<br />

propria voce è peraltro solo «un primo passo», mentre «il resto, si<br />

può sperare, verrà» ( 59 ) .<br />

8. Conclusioni. – Il dramma di oggi non è tanto la tendenza alla<br />

prevaricazione dell’uomo sull’uomo (e sulla natura) quanto il depauperamento<br />

culturale generato dalla standardizzazione e dall’inadeguatezza<br />

della tecnologia che non poteva essere chiamata a colmare<br />

il vuoto della cultura. A ciò si aggiunge il diffondersi dell’individualismo,<br />

che rappresenta un elemento di frantumazione del legame sociale<br />

e della solidarietà propri delle società tradizionali. Ciò che attrae<br />

nell’individualismo è il fatto che esso appare come una libera-<br />

( 56 ) Ib., p. 241.<br />

( 57 ) L. GALLINO, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 2003,<br />

pp. 127-28.<br />

( 58 ) Ib., p. 127.<br />

( 59 ) Ib., p. 128.


Turismo, ambiente e politica nell’epoca della globalizzazione<br />

zione, un riappropriarsi del tempo e dello spazio che l’epoca della<br />

massificazione ha compresso e omologato.<br />

Nello stesso tempo le mescolanze tra le popolazioni, favorite da<br />

migrazioni, contaminazioni culturali, di civiltà, maggiori possibilità<br />

di comunicazione, oltre che da imprescindibili ragioni economiche,<br />

tracciano dei sentieri per la diffusione dell’idea della comunanza del<br />

destino dell’umanità e della necessità di considerare la continuità<br />

della vita sulla Terra come un problema globale, che richiede il superamento<br />

degli egoismi, delle incomprensioni, dei provincialismi e<br />

di tutte le forze contrarie. Come è stato autorevolmente riconosciuto<br />

«nessun progresso della scienza e delle sue applicazioni strumentale<br />

alla società creerà mai una situazione così nuova da poter fare a<br />

meno (…) di una solidarietà di base che renda possibile il sistema<br />

della convivenza civile». E la solidarietà potrà essere possibile solo attraverso<br />

il dialogo tra le culture che animano il villaggio globale,<br />

considerando che è in questa “casa” che volenti o nolenti, dobbiamo<br />

convivere. Poiché non esiste una speranza minimamente fondata che<br />

sia possibile costruire alcunché di durevole sulla violenza e la negazione<br />

dell’Altro, vale la pena che ciascuno «custodisca e coltivi<br />

l’ascolto della parola, della propria parola che giunge a farsi intendere<br />

solo nell’ascolto della parola dell’altro; ma ancora più importante<br />

è che ciascuno impari a salvaguardare il silenzio, nel quale pietra,<br />

pianta, animale, dio parlano il medesimo inaudito idioma» ( 60 ).<br />

Naturalmente è necessario considerare che come nella metà del<br />

secolo scorso l’interdipendenza planetaria si è manifestata con i due<br />

conflitti mondiali, così nel presente della globalizzazione e della<br />

mondializzazione superavanzata dei giorni nostri i progressi interplanetari<br />

sono caratterizzati dall’ineliminabile compresenza (se non<br />

proprio simultaneità) di convulsi sommovimenti bellici e nuove ondate<br />

di violenza, dal perdurante pauperismo e da movimenti socioantropologici<br />

che richiedono persino una urgente ridefinizione degli<br />

statuti teorici delle discipline che ad essi fanno riferimento come oggetti<br />

di studio e ricerca. Il residuo di felicità o dolore che accompagna<br />

tale stato di cose rende il futuro umano quanto mai aleatorio e<br />

pieno di incertezze derivate dalla complessità dalle fluttuazioni e dall’inedito<br />

rimescolamento di antagonismi e tendenze conflittuali. Il<br />

realizzarsi di possibilità e speranze inattese in cui proiettare le aspettative<br />

umane dell’oggi, resta comunque necessariamente legato alle<br />

condizioni di possibile rilettura e ridefinizione teorico-strategica del-<br />

( 60 ) C. RESTA, 10 tesi di Geofilosofia, in L’uomo e il territorio. Atti degli incontri<br />

di geofilosofia, a cura di L. Bonesio, SEB, Milano 1996, p. 15.<br />

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384<br />

PINELLA DESSÌ<br />

le situazioni “critiche”, di cui nelle pagine precedenti si è cercato di<br />

fornire una provvisoria disamina.<br />

Ma è nella disponibilità e apertura verso l’Altro, cui si è appena fatto<br />

riferimento, che è apertura linguistica e contemporaneamente coscienziale<br />

e religiosa, politica e culturale, che è riposta, attraverso la<br />

presa di coscienza delle nostre radici terrestri e del nostro destino planetario,<br />

la condizione necessaria per realizzare e civilizzare la Terra<br />

“conservandola” come la nostra propria casa. L’elaborazione di tutte le<br />

finalità terrestri deve immancabilmente passare attraverso questo radicamento<br />

e riconoscimento della nostra “identità” terrestre, intesa<br />

come condizione sociologica e antropologica in senso scientifico. È<br />

stato scritto che «ciascuno di noi viene dalla Terra, è della Terra, è sulla<br />

Terra. Appartiene alla Terra che ci appartiene» ( 61 ). Solo se non si<br />

mette tra parentesi questa appartenenza i problemi concernenti un’antropologia<br />

e una sociologia del fenomeno turistico possono essere adeguatamente<br />

analizzati ed elaborati in una prospettiva scientifica che<br />

sia simultaneamente all’altezza delle questioni imposte dal presente e<br />

dal rigore scientifico da esse richiesto. Il turismo va dunque studiato<br />

in questo nuovo orizzonte di precarietà e incertezza (proprie dell’epoca<br />

della globalizzazione) che possono però tradursi in nuove possibilità:<br />

«Là dove cresce il pericolo – ha scritto Höelderlin – cresce anche<br />

ciò che salva» ( 62 ).<br />

Vi sono buone ragioni per credere che, grazie a questa consapevolezza,<br />

tutti i nostri paesaggi fisici e mentali possano ri-configurarsi in<br />

forme e modi che permetteranno ai viaggiatori del presente e del futuro<br />

di dare alla parola “turismo” un nuovo significato.<br />

( 61 ) E. MORIN-A.B. KERN, op. cit., p. 187.<br />

( 62 ) Cit. in E. MORIN-A.B. KERN, Terra-Patria, cit., p. 193.


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Finito di stampare nel mese di luglio 2005<br />

presso lo stabilimento litotipografico<br />

PRESS COLOR – Via Beethoven, 14<br />

09045 Quartu S. Elena (CA)<br />

per conto delle Edizioni AV di Antonino Valveri<br />

Via M. De Martis, 6 – 09121 Cagliari

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