12 amabili - Richard & Piggle
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Due fratelli in affidamento:<br />
modificazioni dei loro ambienti<br />
e trasformazioni interne<br />
BARBARA AMABILI, MARCELLA GRIFFO<br />
In questo articolo si intende riportare il percorso terapeutico di due fratelli<br />
giunti a un affidamento familiare all’età di sei e sette anni. Manuele 1 , il maggiore,<br />
ha svolto una psicoterapia triennale e, poco dopo la sua conclusione, il fratello Paolo 2<br />
ha iniziato una terza esperienza analitica che, finalmente stabile, prosegue ancora.<br />
L’interesse di questo caso risiede nella terapia quasi parallela dei due fratelli<br />
che ha consentito di rilevare i vissuti di entrambi impegnati nella elaborazione<br />
di un cambiamento catastrofico. È stato possibile inoltre incontrare, da parte delle<br />
terapeute, sia le persone affidatarie che i genitori naturali e osservare e accogliere<br />
le dinamiche e l’influenza reciproca di questi due poli alle prese con l’affido.<br />
È la figlia, studentessa universitaria, a proporre alla madre, insegnante<br />
alle superiori, e al padre, militare di carriera, l’idea dell’affidamento, accolta<br />
con entusiasmo da un appello fatto in una riunione parrocchiale.<br />
Vedremo come le persone affidatarie diventeranno per la famiglia naturale<br />
un valido sostegno attraverso delicate pressioni orientate verso una funzione<br />
genitoriale più adeguata. La conoscenza più articolata tra i due nuclei<br />
ha permesso agli affidatari un contatto emotivo più profondo con la storia e le<br />
gravi problematiche dei bambini e, quelle valenze normative, che avevano fortemente<br />
caratterizzato l’inizio del rapporto, ora, non invadono più il campo.<br />
Manuele, la sua famiglia e le persone affidatarie: primi movimenti<br />
Entrambi i genitori dei bambini, Nora e Gino, presentano dei disturbi:<br />
la schizofrenia della madre viene diagnosticata a ridosso della depressione<br />
1La psicoterapia di Manuele è stata svolta dalla Dott.ssa Amabili presso il Servizio Territoriale.<br />
2La psicoterapia di Paolo è stata svolta dalla Dott.ssa Griffo in ambito privato.<br />
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64 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento<br />
post partum sofferta dopo la nascita di Paolo. Il padre presenta problemi<br />
nella gestione degli impulsi: rigido, autoritario, praticherà degli esorcismi<br />
alla moglie, “posseduta dal male!”, angosciata dalla persecutorietà della<br />
figura del diavolo.<br />
Quando i bambini hanno quattro e tre anni, viene segnalato ai Servizi<br />
Sociali lo stato di incuria ed abbandono in cui vivono: vengono visti soli, sul<br />
balcone, per quasi tutto il giorno.<br />
Alla confusione patologica della propria casa si sostituiscono le rigide<br />
regole dell’Istituto in cui vivranno per due anni. La mamma subisce dei ricoveri<br />
ed è tuttora in carico presso il Dipartimento di Salute Mentale.<br />
Gli affidatari, che si faranno chiamare Zio Remo e Zia Lina, si attivano<br />
subito per Paolo, che presenta un disturbo generalizzato dello sviluppo con<br />
tratti autistici e poco dopo chiedono un aiuto anche per Manuele che li fa<br />
avvicinare con difficoltà alla sua sofferenza: “si tiene tutto dentro! Non<br />
accetta coccole, vuole mostrarsi forte, senza bisogni, poi la sera piange ma si<br />
rifiuta di parlarne”, dicono.<br />
Manuele, che ha un bel viso dai tratti mediterranei, con occhi molto<br />
espressivi e grandi, non alto e un po’ cicciottello, si presenta a me con fare<br />
ossequioso; quasi privo di spontaneità, risulta continuamente alle prese con<br />
l’imbrigliamento della sua vitalità emotiva. Mi osserva molto, mi scruta<br />
anzi, è desideroso di essere accolto, cerca fiducia ma si difende dal rapporto<br />
con una serie di scuse e permessi: “posso usare la matita?”, “posso fare una<br />
domanda…, come ti chiami?”, “scusa, scusa!” dice preoccupato, quando l’angolo<br />
del suo foglio ha coperto appena il mio.<br />
Il bambino si impegna in un’opera incessante di filtraggio dei propri contenuti<br />
emotivi che si muovono in un’area compiacente dove elementi di onnipotenza<br />
e di idealizzazione erigono barricate contro sentimenti di vuoto, di<br />
perdita, di disorientamento. Il bisogno di controllare la situazione, di perlustrare<br />
il campo al fine di evitare l’imprevedibile o ammortare il contatto con<br />
l’imprevisto è massiccio. Questa iniziale rigidità organizzata e solida si contrappone<br />
alla configurazione frammentata del fratello più piccolo che appare<br />
come immerso in un caos interno, confuso, scoordinato, poco consistente,<br />
desideroso di slanciarsi nel rapporto ma privo di capacità relazionale. Quanto<br />
è ritratto e sospettoso l’uno, tanto è debordante ed indifferenziato l’altro.<br />
Manuele è sempre molto attento alle possibili variazioni del mio stato<br />
d’animo, mi chiede, spesso ad inizio seduta, se io sia arrabbiata o triste,<br />
lasciandomi alle prese con le sue proiezioni e con il faticoso lavoro che deve<br />
aver comportato l’affinamento della strategia atta alla congrua percezione<br />
dell’umore della madre e delle possibili eruzioni di aggressività del padre.<br />
Chiede rassicurazione circa la continuità del lavoro terapeutico e dell’affidamento:<br />
l’angoscia relativa alla eventuale ripetizione del trauma,<br />
catastrofe ipotetica sempre in agguato è tamponata, all’inizio, da continui<br />
interrogativi, “e se devo andare via pure dagli zii?”, “ma noi due per quanto<br />
tempo ci vedremo ancora?…”<br />
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L’adattamento ambientale ai suoi bisogni era stato inattendibile e privo di<br />
stabilità fino ad arrivare al crollo, alla disgregazione totale, anche fisica, della<br />
sua famiglia. Tornare ad avere delle speranze costituiva un tragitto di difficile<br />
percorribilità. Manuele si difende anche con il corpo dall’andare in pezzi, arriva<br />
sempre con un atteggiamento compassato, cammina come se avesse un’armatura,<br />
quasi a comprimere carichi di rabbia insostenibili che, senza la certezza<br />
di una sopravvivenza emotivo relazionale, rimangono imbrigliati, indigeriti: la<br />
madre lo aveva lasciato, il padre non l’aveva tenuto, non aveva potuto fare<br />
esperienza di una restituzione, di una metabolizzazione dei suoi vissuti.<br />
All’inizio, la coppia affidataria, ma soprattutto la signora, era molto<br />
orientata verso la figura genitoriale normativa, “devono imparare a non bere<br />
attaccati alla bottiglia, a non girare per casa scalzi, a scrivere tutti i compiti<br />
sul diario, ad essere educati!”.<br />
Elementi controtransferali mi avvicinavano alle esperienze emotive del<br />
bambino: ricordo la rabbia delusiva provata quando venni a conoscenza<br />
della negata uscita al cinema a causa dei compiti non completati. Lo zio<br />
Remo, anche se poco in sintonia con la scelta della moglie, vi accompagnò<br />
solo Paolo, mentre Manuele rimase a casa con lei a studiare.<br />
Dopo qualche tempo, la signora si convinse che Manuele avesse un<br />
disturbo di apprendimento, “testato” anche dalla figlia, studentessa logopedista.<br />
La divergente lettura delle accennate difficoltà di attenzione che le<br />
veniva restituita, anche dalle insegnanti, non la sollevavano e non è stato<br />
facile raggiungere una percezione altra delle difficoltà del bambino ad essere<br />
“attento come si deve!”.<br />
La coppia chiedeva al Servizio di non essere lasciata sola nel compito di<br />
cui si era fatta carico, esprimeva le difficoltà che incontrava, faceva partecipi<br />
gli operatori dei suoi entusiasmi, ma la proposta di avere incontri strutturati<br />
non è stata mai accolta. Comunque alcune posizioni della signora persero<br />
rigidità, si poterono condividere anche elementi conflittuali lasciati più<br />
liberi e fu possibile analizzare alcuni elementi di disillusione relativi all’esperienza<br />
affidataria.<br />
La dedizione dei coniugi affidatari verso i bambini permise al padre di<br />
poter nutrire fiducia verso una famiglia così diversa dalla sua, che nel frattempo<br />
aveva fatto esperienza della separazione, improvvisa e drammatica,<br />
della coppia. Pochi mesi dopo l’affidamento, egli rimase infatti solo ad occuparsi,<br />
nei week-end, dei bambini, poiché la moglie, “donnaccia ingrata che<br />
in mia assenza lasciava che la casa fosse frequentata da uomini!”, fu scacciata<br />
nei peggiori modi.<br />
Zio Remo e zia Lina facevano delicate ma precise richieste al papà,<br />
attenti a non urtare la sua suscettibilità, circa l’attivazione di una sufficiente<br />
preoccupazione e cura nei giorni della convivenza con i figli: ricordo<br />
le apprensioni che suscitavano in noi tutti le inadeguatezze paterne, la<br />
gestione delle vacanze o i suoi sonni pomeridiani che lasciavano Manuele e<br />
Paolo senza presa, senza tenuta.<br />
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Così si cominciarono ad usare le lenzuola, il pigiama non fu più solo<br />
un optional, l’uso della doccia divenne più frequente, l’alimentazione<br />
perse il rituale dell’abboffata confusiva e in caso di virus intestinale si riuscì<br />
a far rispettare esclusione di salsicce o cioccolata. Poi si tentò di allargare<br />
la sensibilità verso aspetti meno legati a bisogni concreti e piccoli<br />
movimenti si avvertirono: gli incontri, all’inizio proibiti fra madre e figli,<br />
non furono più osteggiati dal padre e, a volte, in accordo con lui, erano gli<br />
stessi “zii” ad accompagnare i bambini dalla mamma, in casa della nonna<br />
materna.<br />
Manuele soffrì per la separazione dei genitori e per la rarità degli incontri<br />
con la madre, era un dolore quasi muto, anche il ricordo dei maltrattamenti<br />
che la mamma subiva, non solo verbali, lo abbatteva. Non poteva permettersi<br />
però di negare un po’ di ragione al padre per averla esclusa dalla<br />
sua vita: non poteva perdere chi ancora riusciva a tenerlo.<br />
Il bambino, fisicamente, somigliava molto al padre e forse ciò costituiva<br />
una sorta di rinforzo della differenza, che questi evidenziava, tra il versante<br />
psicopatologico della famiglia, mamma e Paolo e l’area sana, padre e<br />
Manuele. Il figlio, come il genitore, si muoveva come ben piantato a terra,<br />
non zompettante o sfuggente come il fratello. Mentre Paolo pareva camminare<br />
su un pavimento completamente dissestato, Manuele sembrava poggiare<br />
deciso il piede solo su quelle mattonelle che già in passato aveva sentito<br />
più sicure!<br />
Il fallimento ambientale diviene disastroso se si verifica negli stadi precoci<br />
della dipendenza assoluta (Winnicott, 1958), epoca in cui Paolo fu spinto<br />
verso un mondo di confusione, verso la patologia grave. Manuele invece ha<br />
potuto fare esperienza di una mamma ancora in grado di adattarsi, seppure<br />
con difficoltà, ai bisogni del figlio, ha potuto cioè registrare la perdita di qualcosa<br />
di sufficientemente buono e percepire, con il suo grado di sviluppo e di<br />
organizzazione, come traumatica l’esperienza deprivante.<br />
Il bambino aveva verso il fratello un atteggiamento ambivalente: lo<br />
respingeva infastidito dal suo ritardo e dal suo mondo caotico o, premuroso,<br />
lo accoglieva proteggendolo anche da attacchi esterni. Le conquiste di Paolo,<br />
che sembravano rinforzare l’elemento affettivo della coppia fraterna, erano<br />
comunicate con orgoglio, che Paolo riconoscesse tutte le lettere dell’alfabeto<br />
significava poter finalmente condividere piccole spinte verso la organizzazione,<br />
l’acquisizione, la scoperta.<br />
All’inizio della terapia Manuele si poteva avvicinare all’esperienza dell’istituzionalizzazione<br />
solo attraverso elementi idealizzanti “… mio padre ha<br />
speso trecento milioni per farci stare in istituto”, o di negazione “… stavamo<br />
bene là!”. Più tardi emersero contenuti depressivi “… non giocavo con nessuno,<br />
non avevo amici”, o rabbiosi “… odiavo la suora che dava le botte a<br />
Paolo perché faceva la pipì a letto”. Gradualmente aveva potuto contattare<br />
aree concernenti il vuoto, la mancanza, il dolore, la nostalgia, dando l’avvio<br />
ad un processo di integrazione che poteva aiutarlo anche nella espressione<br />
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dei suoi stati emotivi più autentici. L’elemento narrativo sul tema era tuttavia<br />
sporadico, si difendeva molto da quegli stati di angoscia verso i quali<br />
sentivo di dover usare una delicatezza estrema così come succedeva quando<br />
ci si avvicinava ai problemi familiari, alla madre, al disturbo.<br />
La graduale nascita della spontaneità, la possibile conclusione<br />
Con Manuele si disegnava, non molto però, ricordo il primo disegno: un<br />
violento acquazzone si abbatte su un bambino con un ombrello non in grado<br />
di fornire un completo riparo. Si giocava con le carte di Pokemon o Dragonball,<br />
a nascondino, a dadi. Poi arrivarono le storie inventate, il gioco della<br />
rappresentazione, ma l’interesse maggiore era per i giochi con la palla: il calcio<br />
era la sua passione e a me piaceva giocare quelle partite, teatro ogni volta<br />
di tensioni, di metabolizzazione della rabbia, di esplosioni di gioia, ricche di<br />
elementi trasformativi. Negli intervalli, dalla protesta verso il mio cercare<br />
riposo, quasi gli ricordasse la persa presa emotiva della madre, passava alla<br />
postuma ricontestazione di alcuni falli, o al replay dei suoi migliori goal a<br />
cui seguiva la mia attesa valorizzazione; più in là cominciò ad usare il riposo<br />
tra i due tempi per parlare un po’ delle sue cose.<br />
Con il passare del tempo Manuele nutriva sempre più fiducia nel rapporto,<br />
sicuro della sua solidità, si faceva meno coartato, più libero nell’espressione<br />
di sé, la rabbia poteva circolare senza la paura paralizzante di<br />
ritorsioni. Si esercitava negli attacchi soprattutto con me, poco con gli affidatari,<br />
con il fratello, con le insegnanti, appena con il padre, mai con la<br />
mamma, percepita incapace di poter reggere ulteriori danneggiamenti.<br />
Il gioco del calcio, la sfida che cercava spesso provocatoriamente, sembravano<br />
usati per digerire elementi tossici. Al bisogno imperioso dell’onnipotenza,<br />
del trionfo sull’oggetto, del disprezzo, si alternavano ammirazione<br />
per alcuni miei tocchi o desiderio di riparazione per gli attacchi assestati. Il<br />
suo essere “tosto”, il mettermi alla prova si alternava a crolli improvvisi per<br />
falli inattesi. Si accasciava a terra, sofferente, con la richiesta silente di soccorrerlo<br />
e così io mi attivavo per rianimarlo, fasciarlo, aiutarlo a rialzarsi e<br />
a riportarlo nuovamente al gioco senza più dolore. Qualche mio commento<br />
sembrava appena sfiorarlo, “per fortuna che c’è questa stanza, dove Manuele<br />
si può liberare di tutta la rabbia che tiene dentro con tanta fatica! Qua si può<br />
anche morire di dolore e poi godersi il ritornare a sentirsi vivo. Forse è successo<br />
un po’ così quando mamma è stata male e hai sentito crollare tutto,<br />
adesso invece le cose vanno un po’ meglio…”. “Va be’…va be’, giochiamo dai”<br />
sorvolava Manuele.<br />
Piano piano la scena del colpo improvviso che stramazza al suolo e che<br />
richiede un immediato soccorso non fu più necessario rappresentarla.<br />
Poteva ora parlarmi dei suoi danni subiti e sentirmi disponibile alla cura<br />
anche attraverso l’uso della parola.<br />
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A volte dovevo prendere al volo una pallina da tennis che partiva da<br />
slanci violenti, in altre l’andirivieni della palletta assumeva un rilassato<br />
ritmo lento in cui era possibile sperimentare una sorta di tranquilla fiducia<br />
relativa alla corrispondenza e alla reciprocità.<br />
La grandiosità perdeva i suoi tratti imperiosi, si facevano spazio sentimenti<br />
di condivisione, confidava le sue pene d’amore, partecipava i suoi<br />
innamoramenti e mi chiedeva di mantenere il segreto, che, rispondevo, oltre<br />
me, poteva essere conosciuto solo dalle mura della stanza. Come il fratello,<br />
Manuele era molto sensibile al tradimento (il padre accompagnò i figli in<br />
Istituto con la scusa di portarli a fare una gita).<br />
Le magliette, che in seduta diventavano zuppe di sudore o sporche di<br />
colore, a volte erano motivo di preoccupazione, quasi portassero, indelebili,<br />
i segni di un cambiamento, di un movimento interno non più coartato ma più<br />
spontaneo. Anche il corpo era meno contratto, la sua espressione si faceva<br />
più libera. Verso la fine giocava a calcio in canottiera, poteva spogliarsi<br />
senza rischiare di contattare la più assoluta vulnerabilità, senza corazza<br />
non arrivava più la certezza del crollo, all’inizio era persino intollerabile<br />
togliersi la giacca a vento.<br />
Lo sentivo più fortificato, più libero, a scuola la situazione era buona, il<br />
falso sé non si stagliava più nello scenario dei suoi rapporti, gli aspetti più<br />
primitivi, prima nascosti ed esclusi dalla terapia erano stati espressi, il<br />
dolore aveva trovato uno spazio e un luogo in cui essere metabolizzato. La<br />
tolleranza alla frustrazione era cresciuta, nelle nostre partite la sconfitta<br />
poteva essere accettata senza generare automaticamente rabbia e risentimento,<br />
la rivincita poteva persino essere rimandata alla seduta seguente.<br />
Quell’anno avrebbe finito la quinta, “…in prima media voglio andarci da<br />
solo a scuola, a piedi!”.<br />
Prima di Pasqua presi la decisione di comunicare la fine della psicoterapia<br />
per luglio. Forse incoraggiata ad aver fiducia anche da Manuele che<br />
mi aveva chiesto, qualche volta e non reattivamente, per quanto tempo ci<br />
saremmo ancora visti. Eravamo lontani dal vissuto abbandonico che aveva<br />
caratterizzato le prime “vacanze-sparizioni”: avevano questa valenza le<br />
separazioni all’inizio.<br />
Sentivo di poterlo lasciare, il Servizio era una garanzia, avrebbe continuato<br />
a monitorare la situazione e sembra che grosse problematiche finora non<br />
siano emerse. Certo mi preoccupa un po’ l’adolescenza di questo ragazzino.<br />
Come troveranno posizione in lui gli elementi del trauma, come si ridefiniranno<br />
le situazioni disagiate che lo circondano? Come si risolverà l’affidamento?<br />
La terapia di Paolo<br />
Nel costruire la mia relazione terapeutica con Paolo, mi sono resa da<br />
subito conto delle grosse difficoltà di interazione: tutto è conoscibile, ma<br />
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niente è raggiungibile, il familiare si mescola al non-familiare, i confini dentro-fuori<br />
sono labili e confusi, difficilmente riesco a stabilire con lui un contatto,<br />
evita ogni mio tentativo di comunicare, interpretare, annulla ogni<br />
forma di pensiero.<br />
Sin dall’inizio del percorso analitico avverto una strana sensazione: ha<br />
lo sguardo assente, come se lui non ci fosse, un bambino privo di emotività<br />
che non lascia trasparire, né dalle sue parole né dai suoi gesti, nessuna emozione,<br />
nessun desiderio.<br />
Tutto intorno a lui sembra essere statico, l’unico movimento è scandito<br />
dalla regolarità delle azioni della vita quotidiana: alzarsi, andare a scuola,<br />
mangiare e dormire, che si ripetono inesorabili sempre allo stesso modo.<br />
Le sue parole non comunicano, i suoi movimenti sono confusi, agitati,<br />
incontenibili, un continuo saltellare, correre dietro una pallina di<br />
gomma che sembra essere tutto il suo mondo ma che, nello stesso tempo,<br />
rappresenta per noi l’unica modalità di contatto e di apertura verso l’<br />
esterno.<br />
Pur avendo strutturato, nel setting, la scatola dei giochi, Paolo non<br />
mostra alcun interesse per essa, i vari oggetti presenti sembrano non<br />
avere nessun significato, quella sua assenza di capacità di elaborare, a<br />
livello di pensiero, vissuti psichici inconsci, si traduce in un dominio dell’azione<br />
che ripropone, nel continuare a giocare a calcio, anche durante i<br />
nostri incontri.<br />
È stata proprio una pallina, infatti, la sua compagna di giochi, sin da<br />
quando era nella culla, dove veniva lasciato per ore, senza contatto umano,<br />
vista la grave patologia psichica della madre e l’assenza continua del padre.<br />
Così Paolo è cresciuto da solo, probabilmente fantasticando una realtà<br />
altra, che giustifica, forse, la presenza in seduta di alcuni ritiri, accompagnati<br />
da un dialogo personalizzato, in cui la realtà esterna, in questo caso la<br />
terapeuta, viene esclusa, senza nessuna possibilità di interazione.<br />
La richiesta di un intervento e sostegno psicologico si attiva proprio<br />
quando Paolo inizia l’inserimento a scuola, ma le sue difficoltà di stare in un<br />
luogo e in una relazione hanno fatto sì che sin dall’inizio, abbia trasformato<br />
il setting in una vera palestra, dove esercitarsi a fare goal; lui era l’unico protagonista<br />
ed imitare i calciatori più bravi e maldestri era l’obiettivo principale<br />
“ecco il tiro alla Totti o alla Maldini…”, ma mai un tiro alla Paolo visto<br />
che, quando l’ho conosciuto, sembrava privo di una propria struttura di personalità.<br />
Ho dovuto così imparare i nomi dei vari calciatori, cercando di distinguerli<br />
a seconda della squadra, ma più di tutto ho dovuto imparare a giocare<br />
a calcio, nel mio tentativo di reggere i suoi colpi ma anche reggere lui, con la<br />
sua sistematica ripetitività.<br />
Accanto al gioco del calcio veniva fuori anche una personalità grandiosa<br />
di Paolo, dove il corpo (mi mostrava parti fisiche) veniva esaltato a scudo di<br />
una personalità più fragile ed indifesa.<br />
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La seduta in realtà iniziava e finiva nella sala d’attesa, dove chiedeva a<br />
tutti i presenti la loro squadra del cuore, ridendo e scherzando, in maniera<br />
indiscriminata, con persone conosciute e non, con fare pittoresco e da giullare<br />
che faceva ridere e divertire e nello stesso tempo intuire la sua assenza<br />
di confini, sia personali che sociali.<br />
Questo suo modo di essere crea seri problemi alle persone affidatarie,<br />
per loro la preoccupazione maggiore è l’ombra della patologia della madre<br />
biologica di Paolo: la schizofrenia, tanto da prendere in considerazione l’eventualità<br />
di rimandare in un istituto il piccolo Paolo e suo fratello.<br />
Paolo, nel suo bisogno di attenzione, viene da me alla ricerca di un<br />
ambiente contenitivo, di un holding che gli consenta di riordinare, ma<br />
soprattutto sviluppare, le istanze della personalità che al momento sembrano<br />
essere deficitarie, sento il suo bisogno di rapportarsi ad una figura<br />
accudente che non sia la ripetizione di quelle già sperimentate: una madre<br />
naturale schizofrenica ed un’ affidataria “militaresca”.<br />
Cambiamento interno<br />
Al ritorno in terapia, dopo la pausa estiva del primo anno, mi ritrovo di<br />
fronte un bambino diverso… molti degli atteggiamenti di grandiosità, esagerati,<br />
invadenti, sembrano essere rientrati, Paolo è più controllato. Avverto<br />
che spazio e tempo sono ormai presenti nella sua mente, infatti comincia a<br />
distinguere i giorni della settimana, corrispondenti alle sedute, secondo l’ordine<br />
preciso; così come ad avvertire la fine della seduta.<br />
Continua il gioco del calcio, ma con una variante in più: non sono più i<br />
vari giocatori delle squadre ad intrattenersi nelle nostre partite ma è “Paolo,<br />
che gioca come Vialli o Gattuso”, che si sperimenta in nuove partite, con tiri<br />
acrobatici che ripete, là dove sbaglia, ed esulta quando raggiunge l’obbiettivo,<br />
il fatidico goal.<br />
Di tanto in tanto la seduta inizia con “ieri sono andato da mamma…”<br />
fino ad allora non era mai stata menzionata, ma soprattutto è la prima volta<br />
che le sue parti affettive fanno capolino tra un’ azione e l’altra, anche se ad<br />
ogni mio tentativo di approfondire e capire il suo vissuto emotivo, la cosa<br />
viene sviata con un “… va bene… va bene…” e subito di nuovo il dominio dell’azione<br />
sul pensiero.<br />
Con questa sua modalità tangenziale inizia a parlare di sé, portandomi<br />
in seduta anche un Sé più debole, che sbaglia e che non è poi così imbattibile;<br />
durante le nostre partite, come era successo anche per il fratello, può<br />
permettersi di tollerare la frustrazione della sconfitta o di sbagliare, di<br />
uscire allo scoperto, di mostrarmi anche le sue parti più deboli, sicuro di sentirsi<br />
accettato.<br />
Il presentarmi aspetti fragili di sé, pur se ancora confusi e da riordinare,<br />
gli consente di iniziare a collegare il suo presente al passato,<br />
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con riferimenti continui alla sua infanzia; ho come la sensazione che,<br />
nel non riuscire a pensare alle proprie emozioni, sensazioni, idee e pensieri<br />
abbia bisogno di un termine di confronto con l’altro, un lavorio<br />
continuo che mi costringe a restare concentrata, per gran parte del<br />
nostro incontro.<br />
La seconda fase della terapia è caratterizzata, infatti, dalla presenza<br />
ossessiva della ripetizione continua dei nomi, fino allo sfinimento… come<br />
se non ci fosse altro di cui parlare, se non dei calciatori, delle loro squadre<br />
e goal. Nello stesso tempo inizia però ad emergere un nuovo atteggiamento<br />
nei miei confronti: sta valutando la possibilità di fidarsi di me,<br />
di potersi aprire per raccontare le sue parti più intime; più volte ci siamo<br />
ripetuti che le cose dette tra noi sono come dei “segreti”, che non possono<br />
essere detti ad altri: come si diceva, il tradimento era molto temuto da<br />
entrambi.<br />
La staticità delle sedute è tanto estenuante che il tempo sembra fermarsi<br />
e così, da parte mia, c’è un continuo guardare l’orologio, l’attesa della<br />
fine di un incontro che sembra non sopraggiungere mai, tanto da diventare<br />
interminabile.<br />
Attraverso il lavoro di interpretazione del controtransfert, inizio a<br />
notare delle modificazioni nella struttura dei nostri incontri: durante le partite,<br />
non parliamo più solo di calciatori e goal, ma anche di altri argomenti,<br />
emerge un’altra caratteristica del suo modo di essere: quella di mangiare<br />
fino a sentirsi male.<br />
Come per Manuele, il cibarsi piuttosto che il nutrirsi, occupa un ruolo<br />
centrale nei loro racconti, entrambi riferiscono di pranzi domenicali luculliani,<br />
che sembravano dover colmare digiuni di ricchezza emotiva, offerti da<br />
un ambiente deprivante.<br />
Un giorno Paolo mi rivela una terrificante verità, secondo la quale la<br />
madre si è ammalata perché ha mangiato troppo durante il suo battesimo.<br />
Un’ affermazione che mi permette di dare un significato diverso al suo<br />
modo di percepire il cibo, non più solo considerato nella sua funzione di soddisfacimento<br />
primitivo, ma anche come espiazione di una colpa, un’ autopunizione<br />
per la malattia causata alla madre.<br />
Le sedute non sono più solo delle partite di calcio, ma degli incontri più<br />
elaborati, dove entrano in scena altri aspetti della sua vita: affetti, emozioni,<br />
desideri, funzioni ed elaborazioni del pensiero, elementi che si mescolano ed<br />
interagiscono con una realtà del bambino più semplice e primitiva, ma che<br />
rendono Paolo più vivo e partecipe nella relazione, non più un semplice<br />
burattino.<br />
Lentamente, la continuità della terapia, ha favorito la costruzione di<br />
uno spazio interno (il setting) ben distinguibile da uno spazio esterno (la sala<br />
d’attesa) dove è stato per lui possibile riconoscere ciò che si può portare dentro<br />
la seduta: ricordi, segreti, confessioni, parti di sé; da ciò che si può portare<br />
fuori: saluti, risate, azioni.<br />
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72 B. Amabili, M. Griffo: Due fratelli in affidamento<br />
Mentre nella fase iniziale della terapia era impossibile individuare<br />
quale era il suo stato d’animo, per cui la sua euforia faceva da copertura a<br />
stati d’angoscia intollerabili. Nell’ultimo periodo Paolo manifesta, in<br />
maniera più autentica e diretta i propri stati emotivi, in una formula che<br />
non è più imitativa, ma personale ed adeguata alle circostanze, sicuro di<br />
essere accettato, nonostante le sue debolezze e diversità.<br />
Così durante uno dei nostri incontri si mostra irritato “certo devi essere<br />
proprio arrabbiato perché non ti ho portato l’acqua… mi dispiace, hai<br />
ragione di esserlo… lo sarei anche io al posto tuo, in fondo anche l’altra volta<br />
non l’ho portata e questa volta te l’aspettavi proprio…”. Le sue grida diventano<br />
ancora più acute, il suo gioco si fa ancora più veloce… Paolo continua<br />
a non rispondermi, ma forse è la prima volta che mi sta manifestando qualcosa<br />
di più intimo, le sue emozioni sono più dirette, autentiche, riconoscibili,<br />
riesco a capire qual è il suo stato emotivo “non hai portato neanche i bicchieri”,<br />
mi risponde e continua a giocare.<br />
Ho come la sensazione che le sedute si dividano in due tempi. Una prima<br />
fase in cui Paolo mi parla di sé, delle sue emozioni (si mostra arrabbiato o<br />
felice), di sua madre e di suo padre e della sua difficoltà nel riuscire ad integrare<br />
le diversità delle due famiglie in cui vive: la famiglia naturale e la coppia<br />
affidataria, ed una seconda, dove il gioco continua nella sua nuova evoluzione,<br />
le partite sono più articolate, le regole delimitano il nostro campo<br />
d’azione, una modalità di mostrarsi, di parlare, di confidarsi si articola al<br />
gioco del calcio.<br />
Altro elemento che a mio avviso è stato indice di un cambiamento è la<br />
graduale capacità di Paolo di stare da solo in presenza dell’altro, il gioco<br />
diventa individuale, la terapeuta può venire completamente esclusa, ma non<br />
essere per questo assente.<br />
Tale capacità viene raggiunta quando si arriva ad una vera e propria<br />
maturità emotiva, tradotta nella possibilità di Paolo di dar vita ad un<br />
maggiore controllo degli impulsi, non più soggetti ad una dispersione<br />
caotica e disorganizzata, ma più diretti verso scopi specifici: guardarsi<br />
dentro.<br />
Grazie alla sua identificazione con uno dei personaggi da lui portati<br />
nella terapia, è stato possibile prendere contatto con molti dei suoi vissuti<br />
ansiogeni, il diniego sembra dominare la scena quando, durante la seduta,<br />
vengono affrontate alcune tematiche personali; pare che ciò che gli è accaduto<br />
non è mai avvenuto e pertanto non può neanche essere elaborato.<br />
Gradualmente si sta prospettando per Paolo, nel suo dare il giusto peso<br />
alla terapia, la possibilità di curare le sue parti più deboli, non più coperte<br />
dalla sua grandiosità, ma più libere di esprimersi, anche nella sua continua<br />
preoccupazione per un corpo (e un pensiero) malato, che ora richiede di continuo<br />
il mio intervento di cura e di sostegno.<br />
Parla della madre e del padre, cerca una verità che lui non conosce ma<br />
che è pronto a percepire, nella sua mente sembrano emergere tante<br />
<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 15, 1, 2007
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domande sulla sua infanzia, di come si sono svolti gli eventi fino ad arrivare<br />
all’affidamento, perché ha dovuto lasciare i suoi genitori naturali, ed è proprio<br />
nel suo percorso di psicoterapia che forse Paolo sta cercando le sue<br />
risposte.<br />
Conclusioni<br />
Le autrici ritengono che la scelta di lasciare i due fratelli insieme nell’affido<br />
è stata positiva in quanto ha permesso a Manuele e Paolo di mantenere<br />
dentro di loro la percezione di una famiglia non completamente deflagrata.<br />
Conservare il legame fraterno ha favorito la stabilità di un’identità<br />
familiare originaria, che non ha mai perso la propria individuazione all’interno<br />
del nuovo nucleo.<br />
La compresenza ha avuto un effetto rassicurante su entrambi, ha dato<br />
un senso di continuità dell’esistere, consentendo la possibilità di un sostegno<br />
reciproco di fronte ad una realtà traumatica e ad una completamente<br />
sconosciuta.<br />
Le due psicoterapie e l’esperienza dell’affido hanno prodotto dei cambiamenti<br />
nei bambini e nelle famiglie, le reciproche trasformazioni hanno<br />
permesso un incontro, fra le persone affidatarie, Manuele e Paolo, che la<br />
famiglia originaria non ha attaccato.<br />
Anche lo sfumare delle valenze pedagogiche negli affidatari e l’accresciuta<br />
capacità genitoriale del padre hanno aiutato i bambini nel processo<br />
costitutivo del sé, gravemente messo a rischio dalla loro storia.<br />
Riassunto<br />
Le autrici ripercorrono le vicende cliniche di due fratelli affidati, all’età di<br />
sei e sette anni, ad una famiglia che presto chiede aiuto per le problematiche che<br />
incontra. Il fallimento delle cure materne e l’inadeguatezza del padre conducono<br />
verso un esperienza traumatica che lascia i bambini alle prese con l’elaborazione<br />
della deprivazione e con la ricerca di una possibile organizzazione di un mondo<br />
interno caotico e confuso. Si analizzano il tragitto psicoterapeutico, le modificazioni<br />
avvenute nei fratelli e i movimenti trasformativi delle famiglie. Tra questi<br />
due poli l’elemento terzo della psicoterapia ha funzionato anche come riferimento<br />
forte in grado di nutrire, differenziare e spingere delicatamente verso la<br />
crescita.<br />
Parole chiave: Affidamento, fallimento ambientale, falso sé, holding, gioco e comunicazione<br />
corporea.<br />
<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 15, 1, 2007
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Bibliografia<br />
Winnicott DW (1957). La capacità di essere soli. In: Sviluppo affettivo e ambiente (1965). Trad.<br />
it., Roma: Armando, 1974.<br />
Winnicott DW (1956). La preoccupazione materna primaria. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi<br />
(1958). Trad it., Firenze: Martinelli, 1975.<br />
Winnicott DW (1963). Lo sviluppo dell’individuo dalla dipendenza alla indipendenza. In: Sviluppo<br />
affettivo e ambiente (1965). Trad. it., Roma: Armando, 1974.<br />
Questo articolo costituisce una versione rivista del lavoro presentato dalle Dott.sse Amabili<br />
e Griffo nella IV Giornata SIPsIA sull’Affidamento Familiare “Due fratelli in affidamento:<br />
modificazione dei loro ambienti e trasformazioni interne”, 25 novembre 2005.<br />
Barbara Amabili, Psicologa, Psicoterapeuta, Diplomata ASNE – SIPSIA.<br />
Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence:<br />
Via Delle Colonie, <strong>12</strong>1<br />
00058 Santa Marinella, Roma<br />
Marcella Griffo, Psicologa, Diplomanda ASNE – SIPSIA.<br />
Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence:<br />
Via Enrico Fermi, 5<br />
00058 Santa Marinella, Roma<br />
<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 15, 1, 2007