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10 vallini - Richard & Piggle

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Dall’entusiasmo appassionato degli inizi<br />

ad una fiducia moderata:<br />

note da una esperienza di lavoro<br />

nei Servizi territoriali con le famiglie affidatarie<br />

LUCIA VALLINI<br />

“Il processo di sviluppo descritto in questo saggio è stato un processo<br />

di evoluzione a partire da stadi primitivi... Ma nulla di ciò che abbiamo<br />

detto o diremo, ne fa un processo di evoluzione verso qualcosa.”<br />

T. S. Kuhn (1962)<br />

Ho ritrovato queste parole del pensiero di Kuhn dai miei studi universitari<br />

perché mi sembrano ben rappresentare un aspetto di fondo della mia<br />

esperienza professionale in tema di affidamento all’interno dei Servizi sociosanitari<br />

territoriali, e cioè il senso di un processo conoscitivo e istituzionale;<br />

un percorso che ha avuto bisogno di tempo e che è partito da stadi primitivi<br />

– così forse potrei definire gli inizi di questa esperienza – e che evolve, si trasforma,<br />

ma non verso qualcosa di definito, uno stato finale, una risposta, una<br />

verità, piuttosto principalmente realizzando una esperienza di conoscenza<br />

approfondimento problematizzazione, in questo senso di cambiamento, ma<br />

anche un percorso esperienziale personale così come è contenuto nel titolo,<br />

un titolo venuto di getto, che si è composto dentro di me quasi cogliendomi<br />

di sorpresa per come mi è sembrato condensare il senso affettivo e professionale<br />

della mia esperienza nell’area della genitorialità affidataria.<br />

Le pre-condizioni<br />

Gli stadi primitivi sono rappresentati dalla mancanza di una rete integrata<br />

di servizi per l’Infanzia e la Famiglia (parliamo del 1990-91), ma<br />

anche dalla mancanza di una cultura, di un pensiero sulla genitorialità<br />

nella gente come nelle Istituzioni e l’avvio del percorso, come sempre, è<br />

stato possibile quando si è realizzato un ambiente / terreno fertile e una<br />

combinazione germinativa.<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 2009


170 L. Vallini: Dall’entusiasmo appassionato degli inizi ad una fiducia moderata<br />

Una riorganizzazione strutturale nell’assetto dei Servizi sociali e sanitari<br />

presso i quali lavoravo portò nuovi impulsi e risorse, ed anche un assistente<br />

sociale con funzioni di Dirigente, incaricato di organizzare e promuovere iniziative<br />

e servizi nell’area della tutela dei diritti e della risposta al disagio dei bambini<br />

e delle famiglie, col quale si è realizzato un incontro davvero costruttivo.<br />

Ci ha avvicinato un certo modo di guardare ai bambini e ai loro genitori,<br />

di pensare il disagio e la sofferenza dei figli in stretta connessione con<br />

la qualità delle relazioni affettive genitoriali, così come la genitorialità<br />

come un processo maturativo dell’individuo già adulto e della coppia coniugale.<br />

E ci ha avvicinato anche la convinzione che a questi temi bisogna<br />

guardare con la necessaria crudezza, senza troppi sentimentalismi, facili<br />

quanto lontani dall’esperienza vissuta di ognuno.<br />

“L’amore di una madre è una cosa molto informe. C’è in esso una sfumatura<br />

di senso del possesso, perfino di avidità, vi sono anche generosità,<br />

sensazione del proprio potere e umiltà. Ma il sentimentalismo è completamente<br />

assente: è una cosa che le madri rifiutano” (Winnicott, 1949, p. 92).<br />

L’esperienza di lavoro sul campo, nelle situazioni di disagio infantile –<br />

dagli stati di trascuratezza al maltrattamento ai problemi di emarginazione<br />

– imponeva di mettere lo sguardo e la mente in quell’area dell’esperienza<br />

umana tradizionalmente difesa dentro la privacy della famiglia, con l’obiettivo<br />

di promuovere comprensione e conoscenza dei fenomeni anziché<br />

atteggiamenti moralistici sostanzialmente evacuativi, di far crescere attenzione<br />

e sensibilità verso questi temi e, perché no, anche la disponibilità ad<br />

avvicinarsi di più (l’ipotesi di ricorrere all’Istituto dell’Affidamento cadeva<br />

ogni volta rovinosamente di fronte al deserto delle disponibilità).<br />

Iniziammo un lavoro intenso e capillare di incontri, conferenze, spazi<br />

di confronto e dibattito (nelle scuole con genitori ed insegnanti, nelle Sale<br />

Consiliari dei Comuni con la popolazione e le associazioni), teso a far crescere<br />

nel territorio e nelle istituzioni una cultura ed un pensiero sulla genitorialità<br />

come processo maturativo che rende la coppia capace di fare spazio<br />

ad un terzo e di farsi usare dal processo di sviluppo con tutto il proprio<br />

bagaglio affettivo di fantasie desideri aspettative fantasmi; ed una riflessione<br />

sui figli non come possesso (tutti i figli in realtà sono “in affidamento”)<br />

ma come soggetti dotati di bisogni e di diritti verso i quali ripensare e<br />

riconoscere la genitorialità come un impegno di responsabilità e presenza,<br />

contributo fondante per la crescita personale.<br />

Del resto è proprio da questo modo di intendere il processo di crescita<br />

dell’essere umano, come una interrelazione continua e complessa di aspetti<br />

costituzionali / affettivo relazionali / esperenziali, che deriva la necessità<br />

e le indicazioni per / di un Istituto come quello dell’Affidamento etero familiare;<br />

e questa è stata la cornice del nostro pensiero di operatori del servizio,<br />

consapevoli che quando ci si occupa di questi ambiti non è come insegnare<br />

qualcosa che è così e basta, come dice Winnicott “... non ci sono istruzioni<br />

da prendere così come sono e alla fine l’unico consiglio che vi si potrà<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 2009


L. Vallini: Dall’entusiasmo appassionato degli inizi ad una fiducia moderata 171<br />

dare sarà quello di fare come vi sentite. L’unica cosa è che voi possiate arricchirvi<br />

conoscendo altre situazioni simili a quella in cui vi trovate e anche<br />

che siate in grado di poter capire sempre meglio ciò che state facendo e perché<br />

lo fate”. (Winnicott, 1950, p. 35).<br />

Accanto al lavoro di sensibilizzazione decidemmo poi di proporre la<br />

costituzione di un gruppo mensile per genitori adottivi e affidatari, come<br />

spazio – tempo di contenimento, confronto, elaborazione delle esperienze<br />

personali, un accompagnare ma anche un entrare dentro l’esperienza là<br />

dove questa è già realtà.<br />

Il gruppo dei genitori<br />

Si optò per un accesso al gruppo facoltativo e non vincolante, riservato<br />

alle coppie che già stavano facendo l’esperienza dell’adozione e/o dell’affidamento,<br />

alle quali venivano spediti gli inviti come informazione circa questa<br />

occasione di incontro e confronto, che ognuno poteva liberamente scegliere<br />

di cogliere oppure no.<br />

La risposta ci sembrò convincente, non tanto per il numero quanto<br />

soprattutto per la frequenza dei genitori che divenne subito assidua e<br />

costante, ampliandosi sempre di più negli anni. Quando poi, di lì a poco,<br />

abbiamo avuto una sede nel costituito “Centro Bambini e Famiglie” si è<br />

potuto prevedere la disponibilità di un educatore e delle strutture del<br />

Centro per estendere l’invito anche ai bambini.<br />

Questo, secondo me, è stato un passaggio significativo e vivificamente<br />

per i lavori del gruppo: la presenza concreta dei bambini nel loro andare e<br />

venire dalle attività di gioco alla stanza dove gli adulti stavano insieme a<br />

parlare, se pure rendeva più movimentata la situazione, e a tratti un po’<br />

frammentato il discorso dei grandi, costituiva però anche una esperienza in<br />

presa diretta del lavoro di crescere come del lavoro di genitori.<br />

Era chiara fin dall’inizio la problematicità di tenere insieme due esperienze<br />

certo molto affini, ma anche profondamente diverse, come l’affidamento<br />

e l’adozione; e per di più la realtà degli affidamenti in corso era<br />

numericamente molto inferiore a quella delle adozioni e stentava a decollare<br />

anche per la scarsa disponibilità di risorse umane (famiglie, coppie,<br />

singles disponibili). La maggior parte degli affidi in corso erano affidamenti<br />

familiari, il che voleva dire nel nostro territorio per lo più figli di tossicodipendenti<br />

affidati ai nonni, in genere nonni materni: una realtà nella<br />

realtà, esperienze fuori controllo se non nel momento in cui diventavano<br />

esplicitamente problematiche (fallimenti scolastici, tendenze antisociali,<br />

conflittualità adolescenziale...), perché tutte dentro quella cultura del figlio<br />

sangue del mio sangue, dunque prima di tutto appartenente alla famiglia,<br />

per definizione ritenuta abile; cultura assai lontana dal nostro modo di<br />

intendere i bisogni di un bambino che cresce, e che cosa vuol dire “una suf-<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 2009


172 L. Vallini: Dall’entusiasmo appassionato degli inizi ad una fiducia moderata<br />

ficiente capacità genitoriale”, ma ancora molto presente allora nella operatività<br />

dei Tribunali per minorenni.<br />

Quando abbiamo avuto le risorse per costituire uno spazio specifico,<br />

differenziato per i genitori affidatari, il gruppo era fortemente sbilanciato<br />

in questo senso, e questo condizionava non poco il suo funzionamento.<br />

Proprio in quanto meno tenute, meno lavorate dai servizi, queste situazioni<br />

riversavano nel gruppo una concretezza di fatti, di realtà (es. il ritorno dal<br />

carcere del genitore tossicodipendente, oppure la decisione della Comunità<br />

terapeutica che è arrivato il tempo per il genitore ex tossicodipendente di<br />

riprendersi i figli), difficilmente elaborabili in quella sede, anche se c’era<br />

comunque un effetto di contenimento, come dimostrato dalla diminuzione<br />

di “agiti”, dal minore deterioramento delle dinamiche familiari, da una<br />

diversa capacità di contatto e di uso dei/con i Servizi.<br />

L’esperienza del gruppo, un luogo e un tempo, per parlare insieme, sentirsi<br />

ascoltati ma anche confrontarsi con le impressioni degli altri, con la loro<br />

solidarietà ed il loro punto di vista, è una occasione arricchente e potenzialmente<br />

trasformativa dell’esperienza personale anche se certo da sola non<br />

basta. È un’altra strada – accanto a quella di un lavoro più personale e privato<br />

– per dialogare in un modo non solo di testa con ciò che si sente, si vive,<br />

si pensa. Nell’esperienza del ripetersi degli incontri si crea una sorta di<br />

familiarità sufficientemente intima, da fornire secondo me quel terreno fertile,<br />

l’ambiente mentale necessario proprio per quel lavoro di confronto/integrazione<br />

fra le motivazioni iniziali, spesso di testa, e l’esperienza dal vivo che<br />

diventa sempre una esperienza di pancia; come mi sono trovata spesso ad<br />

osservare non senza un certo stupore, di fronte alla passione, alla partecipazione,<br />

alla sofferenza che si mobilitano comunque nei vissuti dei genitori<br />

affidatari rispetto alle vicende, ai fatti, ai comportamenti dei figli affidati.<br />

La famiglia: integrità psicosomatica/intrusione/estraneità<br />

L’esperienza ci conferma che le buone intenzioni e l’amore non bastano,<br />

quando poi l’altro, il diverso, l’estraneo entrano dentro davvero; qui è la<br />

pancia che entra in gioco, nel senso di emozioni, sensazioni, affetti viscerali<br />

che risuonano e vengono inaspettatamente mobilitati.<br />

L’organo trapiantato ha bisogno di essere amato sì, ma soprattutto di<br />

essere riconosciuto e accolto come diverso e altro: non qualcosa che prende<br />

il posto dell’originario cancellandone la memoria, ma qualcosa che arriva in<br />

soccorso, accompagna e sostiene tutta l’esperienza di ciò che non c’è o che si<br />

sta cercando. Un lavoro psichico fondamentale e necessario perché si realizzi<br />

una capacità vera di accogliere e integrare ma anche di operare e mantenere<br />

adeguate differenziazioni, per esempio fra estraneo e intruso, come<br />

sottolinea Moroncini nel suo bell’articolo “Tecnica dei trapianti e cultura<br />

dell’ospitalità” (2002).<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 2009


L. Vallini: Dall’entusiasmo appassionato degli inizi ad una fiducia moderata 173<br />

“Il fatto che con il trapianto parti di un altro entrino nel corpo costituisce<br />

una difficoltà che necessita di tempo per essere metabolizzata. Il tempo<br />

dell’atto chirurgico del trapianto è veloce, quello dell’accettazione lento”.<br />

(Ferruta, 2002, p. 88).<br />

Mi sembra che, con le dovute differenze e cautele, questa immagine del<br />

trapianto possa costituire una sorta di metafora di ciò che succede e si<br />

mobilita nell’esperienza di una genitorialità diversa: la famiglia è un gruppo<br />

(organismo) che include dentro di sé elementi differenti che conservano<br />

distinzione e individualità, ma che funziona anche come unità autonoma;<br />

ciò che permette lo svolgersi di questa funzione – dice Anzieu (1976, p. 53)<br />

– è: “...la dimensione dello spazio psichico fra gli individui che ne fanno<br />

parte, che istituisce un sentimento di libertà favorevole agli scambi e alla<br />

costruzione di una temporalità storica”.<br />

Diventare genitori è comunque una esperienza che tocca affetti emozioni<br />

fantasmi molto intimi e profondi, potenzialmente perturbanti, e una<br />

genitorialità diversa è un po’ come consentire la perforazione dell’unità,<br />

l’intrusione concreta di un altro, sovente (data l’età dei bambini) un altro<br />

che come un organo presenta un alto grado di strutturazione, ed è importante<br />

domandarsi quanto l’estraneo – intruso è percepito come qualcosa che<br />

agisce su, o su cui si deve agire, e quanto invece come elemento che interagisce<br />

sinergicamente (voglio dire che ci si deve preparare ad un processo<br />

non immediato e con vaste risonanze in tutto il sistema).<br />

Ci vogliono spazio e tempo per il divenire dei processi di metabolizzazione<br />

di fronte all’esperienza di penetrazione e intrusione dell’integrità psicosomatica<br />

del soggetto trapiantato, e lo strumento gruppale risulta essere<br />

una risorsa molto utile per la costituzione di un ambiente mentale atto alla<br />

nascita di un pensiero onirico, di una possibilità di pensare/rappresentare<br />

l’impensabile.<br />

L’esperienza di questi anni di lavoro mi ha portato a ritenere che non<br />

ci sono affatto soluzioni semplici, e ancor meno risposte precostituite, o<br />

indicazioni manualistiche, anche se mi sembra aver evidenziato l’importanza<br />

di alcuni elementi: per esempio l’importanza di un lavoro coraggioso<br />

di riconoscimento e consapevolezza dei bisogni e della ricerca che si esprimono<br />

con il desiderio di adottare o prendere in affidamento un figlio, non<br />

perché ci sia bisogno di genitori “selezionati”, perfetti e/o ideali ma piuttosto<br />

in quanto il quando, come, perché nascono questa idea e questo progetto<br />

costituiscono il terreno da arare-dissodare perché diventi davvero una<br />

base sufficientemente fertile per una buona semina.<br />

E non è importante solo il da dove si parte (le motivazioni all’affidamento<br />

– i traumi del bambino) ma anche il come si procede nel viaggio,<br />

come ci si può attrezzare di volta in volta per far fronte alle esperienze che<br />

il viaggio propone...<br />

Non esistono genitori, famiglie giusti, sani, maturi; il giusto – sano –<br />

maturo sono equilibri da conquistare ogni volta, e forse l’unico strumento<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 2009


174 L. Vallini: Dall’entusiasmo appassionato degli inizi ad una fiducia moderata<br />

davvero importante è la disposizione a mettersi in gioco, a risuonare con<br />

l’altro ed anche con se stessi, non perché certi di avere risposte e soluzioni<br />

ma piuttosto perché non troppo spaventati di doverne costruire – trovare<br />

ogni volta di nuove e appropriate.<br />

L’Affido non è una soluzione che basta da sé; non è una pasticca che<br />

una volta ingerita farà il suo lavoro senza che noi dobbiamo occuparcene<br />

più di tanto; l’azione terapeutica dell’affido è un processo che ha bisogno di<br />

essere “accudito”: accompagnato, sostenuto, promosso. C’è bisogno di tanta<br />

cura e di tanto lavoro intorno e dentro una situazione di affidamento.<br />

Forse queste considerazioni possono risuonare un po’ pessimistiche,<br />

personalmente le sento più vicine ad un processo di disillusione: dall’entusiasmo<br />

appassionato... ad una fiducia moderata... nel potere riparativo<br />

delle relazioni, nella trasformabilità dei vissuti, nelle potenzialità taumaturgiche<br />

di una sufficientemente buona genitorialità.<br />

... una storia<br />

Sulla scia di queste considerazioni e con la storia dei sigg. G. vorrei cercare<br />

di mettere a fuoco un altro aspetto, che credo non sia affatto infrequente<br />

nelle esperienze di affidamento prolungato, e che riguarda certe<br />

situazioni che definirei di stallo, nelle quali il blocco evolutivo, la stagnazione<br />

delle esperienze sia per i genitori affidatari che per un sano processo<br />

maturativo dei bambini, certo si possono ricondurre al passato, ma anche<br />

nascono lì, ora, in quella dinamica familiare ed in quella relazione affidataria...<br />

Mi chiedo se in questi casi la tendenza ad attribuire tutto o quasi<br />

tutto al prima del bambino, alle esperienze traumatiche subite, alle distorsioni<br />

relazionali e morali vissute nella famiglia naturale, non possa costituire<br />

uma massiccia manovra difensiva che colloca in un altrove qualcosa<br />

che invece sta proprio qui, ora, e che nasce dagli incontri-incastri relazionali<br />

attuali.<br />

Conosco i signori G. quando si rivolgono all’ambulatorio dell’Unità<br />

Operativa di Psicologia per una consultazione psicodiagnostica relativa a L.<br />

la maggiore delle due sorelline che da qualche tempo sono state loro affidate,<br />

e che presenta difficoltà scolastiche (frequenta la 5° elementare). Al<br />

primo appuntamento si presentano la madre affidataria e L., una ragazzina<br />

di <strong>10</strong> anni, pubere, evidentemente obesa, con l’aria timida e impacciata.<br />

In questa prima consultazione lascio che la madre affidataria mi accenni<br />

solo a grandi linee alle vicende dell’affidamento, imputando la genericità<br />

del suo discorso a un aspetto di delicatezza e tatto data la presenza di L.,<br />

anche se mi annoto nella mente la necessità di approfondire la qualità del<br />

dialogo fra loro su questo tema (quanto c’è di taciuto o non dicibile fra<br />

loro?). Osservo anche come diventi molto più precisa e dettagliata nel<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 2009


L. Vallini: Dall’entusiasmo appassionato degli inizi ad una fiducia moderata 175<br />

descrivere le difficoltà scolastiche: L. è indietro negli apprendimenti, è<br />

molto timida e introversa, inibita e passiva; è obbediente ed accetta di impegnarsi<br />

nello studio ma appare confusa e del tutto non autosufficiente. A<br />

scuola è piuttosto isolata, non ha legato con nessuno in particolare, e del<br />

resto la situazione non è facile: lei è arrivata questo anno, in V elementare,<br />

con la benevolenza di tutti colpiti dalla sua storia che – se pur conosciuta a<br />

grandi linee – mobilita sentimenti di compassione e disponibilità, ma che<br />

ancor più la rende estranea. Non è facile, L. ha paura di sbagliare e così...<br />

com’è nel suo stile... aspetta. Anche qui ora con me L. mantiene un atteggiamento<br />

silenzioso e passivo, ogni tentativo di renderla più partecipe, di<br />

interessarsi alle sue opinioni riguardo a ciò che la madre affidataria sta<br />

dicendo la trovano come impreparata, vuota e confusa.<br />

I sigg. G. sono una famiglia di ceto medio, con due figli già grandi ma<br />

sempre in casa: la primogenita laureanda in medicina, descritta come<br />

determinata e strutturata in questo progetto professionale, fidanzata con<br />

un uomo più grande di lei, medico specialista con una professione già avviata;<br />

il secondogenito anche lui studente universitario un po’ a rilento, lavora<br />

e allo stesso tempo fa esami, appare ancora in cerca di una propria<br />

dimensione e più in difficoltà rispetto ad un processo maturativo di differenziazione<br />

e autonomia dalla famiglia. La coppia non mi sembra molto<br />

disponibile ad approfondire il discorso dell’affidamento: l’esperienza va<br />

bene, soprattutto con la piccola che ha 5 anni ed è molto affettuosa, cerca<br />

sempre le coccole e vuole stare in braccio. Anche con L. va bene, se non fosse<br />

per il problema della scuola, e poi anche questo suo essere così chiusa e taciturna,<br />

è sempre d’accordo su tutto, ma non prende mai una iniziativa; si è<br />

legata molto con la loro figlia con la quale a volte si confida, aspetta con<br />

ansia il suo rientro a casa dall’Università e la ammira molto.<br />

Sanno che è stata proprio una confidenza di L. alla sua maestra a far<br />

precipitare la situazione, determinando la decisione del Servizio Sociale di<br />

allontanare le due bambine dalla famiglia d’origine, nonostante gli interventi<br />

di assistenza domiciliare già in corso. Le bambine sono state “prelevate”<br />

un giorno all’uscita dalla scuola e portate in un Istituto di Suore... poi<br />

sono arrivati loro...<br />

Da quel periodo ho perso di vista i Sigg. G., fin quando 5-6 anni dopo<br />

sono “ricomparsi” al Gruppo dei Genitori Affidatari.<br />

Sono contenta di rivederli, anche se penso/temo che il motivo di questo<br />

ritorno forse sarà dovuto a qualcosa che non va bene: una certa mestizia<br />

nello sguardo di lei sembra confermare questo mio pensiero; lui è come al<br />

solito più sereno, anche se la sua presenza stessa potrebbe preludere a<br />

qualcosa di serio.<br />

Partecipano silenziosi e rispettosi degli altri nel gruppo, mentre io mi chiedo<br />

quando e se daranno voce ai loro pensieri e a ciò che li ha portati qui oggi.<br />

È la signora G. che si inserisce in questo discorso, totalmente schierata<br />

dalla parte degli adulti: genitori esauriti e delusi dalla continua scon-<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 2009


176 L. Vallini: Dall’entusiasmo appassionato degli inizi ad una fiducia moderata<br />

tentezza e insoddisfazione per questi figli, e feriti nella immagine di sé<br />

come genitori oblativi, compensativi di tutte le mancanze, i vuoti, le dissonanze<br />

della situazione naturale.<br />

La riconosco nel suo modo di parlare controllato e composto, quasi un<br />

fotografare una situazione senza poterla penetrare/interpretare così che tutto<br />

pare nascere dal niente, all’improvviso, del tutto inaspettato e inspiegabile.<br />

Il problema è A. (11 anni, la più piccola delle due sorelle) che è diventata<br />

ribelle e oppositiva, provocatoria e distruttiva verso tutta la vita familiare,<br />

dalla quale si esclude e che rigetta come non corrispondente ai propri<br />

desideri. Ha delle reazioni violente e incontrollate, lancia oggetti, li rompe,<br />

ma anche si ferisce negando dolore e bisogno di cure. Al di fuori di queste<br />

vere e proprie esplosioni, A. ha un atteggiamento apatico e annoiato, sempre<br />

sdraiata sul divano davanti alla TV. Loro non sanno più che cosa fare,<br />

a questo punto non le dicono più niente, pensano davvero che l’affidamento<br />

non possa andare avanti.<br />

L’impatto di queste comunicazioni sul gruppo è forte. Dietro questo suo<br />

racconto logico e composto, quasi freddo e distaccato, si sente un dolore<br />

sordo, nascosto e assolutamente taciuto, ma che pure arriva, si rivela attraverso<br />

certe smorfie e contratture del viso, come attraverso una sorta di grigia<br />

tristezza del suo sguardo; l’intensità degli affetti in campo tocca tutti e<br />

mobilita reazioni di comprensione e solidarietà.<br />

Le tensioni e gli scontri sono soprattutto con C., la madre affidataria,<br />

alla quale A. dice sempre di no e con la quale rifiuta ogni contatto e vicinanza;<br />

con il padre va un po’ meglio, ora lui è in pensione dunque più presente<br />

e disponibile, ma spesso A. rifiuta ogni aiuto e/o proposta che lui fa<br />

per sottrarla alla sua vuota apatia. Anche gli appuntamenti con la psicologa<br />

che la segue in terapia diventano pretesti per scenate di rifiuto e di propositi<br />

espulsivi/distruttivi verso la terapia stessa ed ogni altra cosa (la palestra<br />

come la scuola, una vacanza come gli impegni, le visite alla famiglia<br />

naturale come il legame con la famiglia affidataria).<br />

Il padre O. è meno esasperato, ma altrettanto impotente e frustrato,<br />

per entrambi i membri della coppia questa esperienza sembra proprio essere<br />

diventata più grande e complessa di quanto immaginato, va a toccare<br />

aree nodali di sé e della loro relazione.<br />

La moglie è sempre stata così dice O. “anche con i nostri figlioli... lei è<br />

rigida e prescrittiva, per lei tutto diventa qualcosa di concreto da risolvere<br />

e gestire con la logica e la praticità...”. Ma con A. la situazione è diventata<br />

davvero invivibile, anche la sua terapeuta è un po’ scoraggiata: A. salta<br />

spesso le sedute, è molto silenziosa e chiusa in se stessa. Stanno pensando<br />

di rinunciare a questo affidamento, “non è vita questa”!<br />

Vorrebbe esserci solo rabbia e voglia di sollevarsi da un peso, in questa<br />

comunicazione, ma io sento anche un dolore più profondo, l’interruzione<br />

dell’affidamento non sarebbe solo il fallimento di un’esperienza, c’è in gioco<br />

molto di più.<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 2009


L. Vallini: Dall’entusiasmo appassionato degli inizi ad una fiducia moderata 177<br />

Penso che l’attenzione è ancora messa solo sui singoli separatamente,<br />

prima L. ora A., mai la coppia; d’altra parte i sigg. G. sono così difesi, così<br />

poco accessibili..., chiedono interventi per le figlie affidate, ma non possono<br />

riconoscere un bisogno proprio, né concepire la possibilità di un lavoro su di<br />

sé, sui propri vissuti, le proprie dinamiche intime come co-autori della<br />

situazione che stanno vivendo, e neppure concepire la dimensione dello spazio<br />

psichico fra individui, per la costruzione di una “temporalità storica”,<br />

per riprendere la citazione da Anzieu (1976).<br />

A. era la coccolina di casa, con lei hanno potuto vivere anche le parti<br />

più regressive e infantili. Com’è possibile, mi domando, che questo tempo<br />

non abbia potuto fornire una base diversa (per es. da quella vissuta con<br />

L.) per poter fronteggiare la complessità del vivere quotidiano e la conflittualità<br />

del crescere? Anche con A – penso – come era per L., il discorso si<br />

è ristretto tutto nell’ambito dei buoni comportamenti... le regole... C’è<br />

qualcosa che sta fallendo ora nella funzione genitoriale, che non riesce a<br />

costituirsi come spazio e tempo trasformativo dell’esperienza; questo<br />

assetto affettivo relazionale della coppia perpetua il generarsi di situazioni<br />

esplosive, distorte e patologiche, che non possono che produrre una<br />

escalation di agiti.<br />

Sulla scia di queste impressioni/riflessioni nasce il mio pensiero di una<br />

terapia familiare come setting e strumento più idoneo per questa situazione;<br />

uno spazio ed un lavoro psichico che mentre definisce e struttura le singole<br />

individualità, focalizza l’attenzione sulla qualità e sugli stili delle relazioni<br />

e degli scambi. Un setting che prenda dentro per definizione (e non per<br />

bisogno) anche questa coppia, fornendo forse nella giusta dose la possibilità<br />

e il coraggio di guardare a se stessa e alle proprie modalità di funzionamento<br />

psichico.<br />

Ci vorrà un po’ di tempo perché questa indicazione possa essere preparata,<br />

offerta e praticata, ma alla fine va in porto. I sigg. G. sono ancora i<br />

genitori affidatari di L. e A., non certo perché la situazione sia diventata<br />

semplice o felice, ma forse perché si è potuto sostenere – garantire uno spazio<br />

per sopravvivere alle emozioni dolorose senza espellerle ... uno spazio<br />

per pensare.<br />

Riassunto<br />

Attraverso le fasi di un intenso lavoro di formazione e organizzazione di Servizi<br />

Territoriali per la Tutela del Diritto dei Bambini ad una Famiglia, l’articolo si propone<br />

di focalizzare la necessità di un lavoro di contenimento, elaborazione e sostegno<br />

di tutta l’esperienza dell’Affidamento Etero-Familiare.<br />

Viene riportata l’esperienza di lavoro con gruppi di genitori affidatari: essa non<br />

fa che confermare la grande complessità e la mancanza di soluzioni semplici nei casi<br />

di Affido, ma consente anche di maturare alcuni elementi negli affidatari affinché<br />

questo Provvedimento possa davvero esplicare tutta la propria efficacia.<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 2009


178 L. Vallini: Dall’entusiasmo appassionato degli inizi ad una fiducia moderata<br />

Parole chiave: Affidamento familiare, gruppi di famiglie affidatarie nelle istituzioni,<br />

integrazione nel corpo familiare, stallo esperienziale, patologia nella relazione.<br />

Bibliografia<br />

Anzieu D (1976). Il gruppo e l’inconscio. Trad. it., Roma: Borla, 1990.<br />

Ferruta A (2002). Uno spazio per alterità e estraneità. Riv. Psicoanalisi e Metodo, II/2002.<br />

Freud S (1919). Il Perturbante. OSF: 9. Torino: Boringhieri, 1977.<br />

Kuhn TS (1962). La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Trad. it., Torino: Einaudi, 1969.<br />

Moroncini B (2002). Tecnica dei trapianti e etica dell’ospitalità. Riv. Psicoanalisi e Metodo,<br />

II/2002.<br />

Winnicott D W (1949). Lo svezzamento. In: Il bambino e la famiglia (1957). Trad. it., Firenze:<br />

Giunti Barbera, 1973.<br />

Winnicott D W (1950). Ma come si fa a sapere che è vero? In: Bambini. Trad. it., Milano: Cortina<br />

1997.<br />

Lucia Vallini, Psicologa clinica, Psicoterapeuta, Membro Ordinario SIPsIA.<br />

Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence:<br />

Via Volterrana, 17<br />

56020 La Serra (Pisa)<br />

E-mail: lucia<strong>vallini</strong>@virgilio.it<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 2009

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