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09 colarossi - Richard & Piggle

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192 P. C. Verde: Aggressività, violenza e sviluppo emozionale in infanzia e adolescenza<br />

Genitorialità naturale e affidataria:<br />

tra desiderio e bisogno<br />

RITA COLAROSSI<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 20<strong>09</strong><br />

“Il bambino è pronto ad allucinare il capezzolo<br />

nel momento in cui la madre è pronta a darglielo”.<br />

D. W. Winnicott (1968)<br />

Questo pensiero di Winnicott, sulla sincronia tra bisogno (del bambino)<br />

e desiderio (della madre) di soddisfarlo, offre spunti per molteplici riflessioni<br />

sul rapporto tra bambino e adulti con funzioni genitoriali.<br />

Il desiderio, da un punto di vista evolutivo, è successivo alla percezione<br />

del bisogno e può essere percepito soltanto dopo che l’individuo ha potuto sentirsi<br />

soddisfatto nei suoi “bisogni primari” che hanno massimamente a che<br />

fare con la sopravvivenza e con l’acquietamento del dolore, in una fase in cui<br />

l’infante dipende totalmente dall’ambiente che si prende cura di lui, e le sue<br />

sorti molto dipenderanno dalla modalità e dalla sollecitudine di queste cure.<br />

Il desiderio quindi ha a che fare con le attività di pensiero, dell’illusione<br />

e della creatività: “Tramite la magia del desiderio si può dire che il lattante<br />

ha l’illusione di un potere creativo magico”. (Winnicott, 1968, p. 122).<br />

Penso che nella difficile vicenda dell’affido la buona riuscita dell’accoglienza<br />

stia in quel delicato incontro e riuscito dosaggio tra offerta e richiesta<br />

e cioè tra desiderio e bisogno, e mi riferisco al “bisogno del bambino di<br />

ricevere cure” e al “desiderio dell’adulto di poter accudire”.<br />

Gli adulti, sia singolarmente che in coppia, che offrono ospitalità e cure<br />

ad un bambino che non è nato da loro, si predispongono ad avere un ruolo<br />

che può essere assimilato all’atteggiamento metaforico mentale di “buona<br />

balia”, e questo, anche quando si tratti di un adolescente. Infatti il loro<br />

ruolo implica dedizione al massimo livello (come l’essenzialità del buon<br />

latte di una nutrice) con la consapevolezza di non essere mai genitori, nonostante<br />

l’elevato grado di coinvolgimento di sentimenti che fanno crescere il<br />

bambino assieme al latte, e quindi di non avere, giuridicamente, alcun potere<br />

decisionale.<br />

Un breve stralcio da una terapia di una coppia affidataria:


R. Colarossi: Genitorialità naturale e affidataria: tra desiderio e bisogno 163<br />

Durante una seduta, la Signora si lamentava che il ragazzo non telefonava<br />

e non avvertiva dei ritardi e il marito aggiunse: “Ma in fondo sono convinto<br />

che Raul ci usi come mucche da mungere”.<br />

Mi sembrò una simbologia perfetta per una coppia affidataria come<br />

loro, con un grande desiderio (e non bisogno) di dare cure amorevoli ad un<br />

ragazzo tanto bisognoso.<br />

Il bisogno dell’adulto<br />

Sappiamo come sia importante trovare nelle figure genitoriali il “desiderio”<br />

a colmare i “bisogni” del bambino. Se viceversa, come in alcuni casi<br />

avviene, la motivazione corrisponde ad una realtà interna legata ai bisogni<br />

dell’adulto, saranno questi a dominare la scena dell’affido a scapito del<br />

bambino, anche se spesso inconsapevolmente.<br />

Può trattarsi del bisogno di riempire vuoti affettivi mai colmati, come<br />

nei casi di persone sole o senza figli, oppure vuoti venutisi a creare con l’assenza<br />

di un figlio, come un lutto non elaborato o, come molto frequentemente<br />

si verifica, per la maggiore età dei figli, i quali, anche se vivono ancora<br />

in casa sono comunque autonomi.<br />

A volte le persone sono mosse dal bisogno di riparazione verso parti<br />

infantili neglette e sofferenti, della propria storia. In altri casi prendersi cura<br />

di un bambino corrisponde al desiderio di recuperare ed eventualmente riparare,<br />

un maternage ai propri figli, sentito come fallimentare, o verso il quale<br />

sono stati accumulati sensi di colpa, riconoscendone lacune ed errori.<br />

In questo contesto mi sembra pertinente una breve sintesi di un caso<br />

clinico molto emblematico per il quale ho effettuato una psicoterapia di<br />

sostegno alla signora affidataria.<br />

La signora Elena, molto motivata con fiducia e sicurezza, ha preso in<br />

affido il bambino, che chiamerò Mario, al quale ha dedicato molto tempo e<br />

attenzioni e si è fatta carico di una psicoterapia per lui, per una sindrome<br />

piuttosto seria di tipo psicotico. Purtroppo dopo due anni tutta la famiglia<br />

era in crisi, l’affidataria non ce la faceva più a sostenere il bambino e ha cercato<br />

per sé un aiuto psicoterapeutico.<br />

Al momento dell’attivazione dell’affido, Elena aveva pensato di non essere<br />

più necessaria ai suoi figli sentendoli ormai cresciuti e autonomi. La maggiore,<br />

studentessa universitaria, era andata all’estero con una borsa di studio,<br />

ma poi era tornata a casa, in crisi con la laurea e con il proprio futuro; il minore,<br />

all’ultimo anno di liceo, aveva superato con grandi difficoltà gli esami e non<br />

riusciva a fare una scelta per l’università e per il suo futuro. Tutti erano irascibili<br />

e se la prendevano con Mario per il tempo e la fatica che richiedeva, per<br />

la sua mancanza di autonomia e per i pasticci che combinava. Tutti, incluso il<br />

marito da cui, già al momento dell’affido, si stava separando, attribuivano alla<br />

Signora Elena la responsabilità di aver preso in affidamento il ragazzo.<br />

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Durante la psicoterapia, piuttosto lunga e complessa, è stato possibile<br />

per lei riconoscere l’idealizzazione che aveva sostenuto il suo gesto, riparativo<br />

di proprie parti infantili neglette e danneggiate, e capire come il bambino<br />

fosse stato funzionale a distoglierla da complesse problematiche relative all’elaborazione<br />

del cambiamento di rapporto con i figli e alla elaborazione della<br />

separazione concreta dal marito. Il graduale affiorare di tali consapevolezze<br />

ha coinciso con il ridimensionamento delle aspettative sulle proprie capacità<br />

riparative, determinando un calo della sua disponibilità e tolleranza verso le<br />

richieste di Mario, richieste che lei chiamava provocazioni. Ad esempio andava<br />

su tutte le furie quando lui manifestava nostalgia e attaccamento per i<br />

suoi genitori e li lodava o giustificava, oppure nei momenti in cui le si affiancava<br />

cercando un muto contatto fisico. Con il tempo è emerso dalla storia del<br />

bambino, che la madre lo teneva a volte a stretto contatto, in nudità, al limite<br />

dell’incesto, ma questa informazione restava per Elena soltanto a livello<br />

cognitivo e non ce la faceva ad empatizzare con Mario, anzi, entrava in competizione<br />

sovrapponendo i propri ricordi infantili di carezze molli del nonno<br />

ubriaco che lei aveva il compito di riportare a casa dall’osteria.<br />

Poter elaborare il gioco di sovrapposizione di identità tra lei e Mario e la<br />

proiezione che lei faceva dei propri oggetti interni persecutori sul bambino,<br />

nel tentativo di tenerli sotto controllo, l’ha portata a capire come avesse scelto<br />

questo affido per rievocare e rimettere alla prova meccanismi perversiseduttivi<br />

e solo separandosi da lui concretamente ha potuto accettare i propri<br />

limiti e ridurre fortemente il suo desiderio di onnipotenza e di controllo.<br />

Riconoscendo che non era in grado di interagire con un bambino così<br />

fortemente bisognoso, essendo arrivata alla scadenza dei primi quattro<br />

anni, quando le hanno proposto un rinnovo dell’impegno, ha deciso di interrompere<br />

l’affido. La signora Elena aveva compreso che il suo ruolo di affidataria<br />

era stato mosso dai suoi bisogni pregressi e per questo non poteva<br />

andare incontro ai bisogni del bambino.<br />

Aveva giocato un ruolo anche il bisogno di ripristinare o mantenere<br />

statico l’assetto familiare che invece era in evoluzione.<br />

Il bisogno di avere un bambino<br />

per recuperare la genitorialità mancata<br />

È abbastanza frequente trovare, specialmente tra gli affidatari, quelle<br />

coppie che mosse dal desiderio di fare i genitori, chiedono bambini in affidamento,<br />

non avendo figli propri.<br />

Con l’attuale calo del tasso di natalità, si cerca di capire quali siano le<br />

cause di sterilità, spesso puramente psicologiche, tanto che molte coppie, non<br />

appena ottengono una adozione o un affido, diventano genitori biologici.<br />

Forse sono meno conosciute le motivazioni di quelle coppie o persone<br />

che dichiaratamente e precocemente hanno scelto di non avere figli.<br />

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Possono essere spinte da ragioni di tipo sociale o religioso, comunque da<br />

sentimenti altruistici e da desideri umanitari, a porre, in un certo senso,<br />

rimedio laddove la società o qualcun altro ha fallito.<br />

Avendo avuto in terapia diverse coppie di questo tipo, ho potuto riflettere<br />

sui loro vissuti e sulle loro storie.<br />

In alcuni casi ho pensato che la coppia non avesse abbastanza fiducia<br />

nelle proprie risorse procreative e difensivamente si fosse alleata nel progetto<br />

di adozione o affidamento proprio per evitare quello che essi percepivano<br />

come rischio di fallimento: la procreazione e l’educazione di un figlio.<br />

Si tratta di persone che forse sono rimaste legate ad un edipo non ben<br />

risolto, con figure genitoriali interne idealizzate, e con una certa resistenza<br />

a prendere atto delle proprie carenze infantili e quindi dei limiti dei loro<br />

stessi genitori.<br />

Quando una coppia si incontra e condivide l’esperienza dell’affidamento<br />

sulla base delle loro sofferenze precoci, può anche accadere che il ruolo<br />

genitoriale sembri efficacemente svolto. I due coniugi a volte riescono a<br />

rinforzarsi e solidificare la loro alleanza riparativa delle sofferenze di altri<br />

bambini. Tuttavia dobbiamo tener presente che la loro è una collusione<br />

basata sull’evitamento delle problematiche relative alla sessualità matura,<br />

che probabilmente farà emergere problemi nel momento dell’adolescenza<br />

del bambino affidato. Una sessualità che vivono come esibita in modo sfrontato<br />

e pericoloso, e con la quale essi non vogliono confrontarsi.<br />

Ciò che era stato accantonato, allora riemerge riproposto dal giovane di<br />

cui si sono presi cura, e la vicenda dell’affido sarà a rischio di fallimento.<br />

Può accadere che la coppia mantenga una rigida alleanza contro l’adolescente<br />

rifiutandolo affettivamente e talvolta allontanandolo concretamente;<br />

oppure un’altra possibile scelta dei coniugi è la loro separazione, con<br />

risvolti difficili da accettare per l’adolescente in affidamento.<br />

Come esempio riporto una breve sintesi di un caso clinico:<br />

Molti anni fa i signori B erano una coppia che aveva deciso di percorrere<br />

la strada dell’affidamento. Avevano già tenuto per periodi abbastanza<br />

brevi, e anche in contemporanea, diversi bambini, finché avevano accolto<br />

una bambina di 5 anni, Gioia, che in seguito mi portarono per una psicoterapia.<br />

Gli affidatari affrontavano molto bene la situazione con un comportamento<br />

adeguato ed un buon vissuto verso i genitori di Gioia: “ci sentivamo<br />

come zii maturi che aiutavano i nipoti con la bimba”, dicevano.<br />

Le vicissitudini di questa bambina, hanno fatto in modo che io fossi in<br />

contatto con loro per molti anni avendo modo di fare molti incontri anche<br />

con la coppia.<br />

In coincidenza con l’adolescenza della ragazza, tra l’altro molto vivace,<br />

la coppia entrò in crisi e non fu possibile evitare la separazione. Soltanto in<br />

seguito a questo evento fu possibile far emergere che la loro condivisione<br />

del progetto di non volere figli propri era legata ad una carente espressio-<br />

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ne della sessualità. La signora, dopo aver incontrato un secondo partner,<br />

aveva avuto la consapevolezza, nell’ambito della propria terapia in un<br />

diverso setting, di quanto fosse stata limitata e svilita la sua vita sessuale.<br />

Alla luce di queste riflessioni è possibile capire come le funzioni genitoriali<br />

fossero state fin lì efficacemente svolte in quanto il loro progetto di<br />

prendere bambini da aiutare era frutto di una collusione a protezione di<br />

una sessualità carente di investimento libidico.<br />

Genitorialità negata con sentimenti vendicativi<br />

Ho avuto in trattamento persone in cui la scelta di non procreare, è<br />

risultata essere un atto ri rivalsa nei confronti dei propri genitori.<br />

Esiste infatti una naturale fase della vita in cui i genitori (ed è una prerogativa<br />

esclusiva del genere umano), vedendo che i loro figli sono adulti, cominciano<br />

ad avere l’aspettativa di diventare nonni. Un desiderio motivato dall’orgoglio<br />

della prosecuzione della specie, dal bisogno di conservare le peculiarità familiari,<br />

ma anche come consolazione per la imminente vecchiaia e la fine della vita.<br />

A tal proposito ha scritto Kaes “È evidente che la genitorialità trasforma<br />

i rapporti dei genitori coi propri figli e coi propri genitori, il complesso<br />

del nonno precipita e prende forma, per i nonni, per i loro figli e i loro nipoti<br />

nell’esperienza di avere dei figli che diventano a loro volta genitori ...<br />

(omissis) ... Avere dei nipoti apre il futuro alla perennità della discendenza,<br />

si tratta quindi di auto-conservazione e di narcisismo. Ma questa apertura<br />

lotta con un’ambivalenza fondamentale, in cui si mescolano desiderio di<br />

vita e desiderio di morte. (Kaes, 2005, p. 33).<br />

La negazione della genitorialità delude tali aspettative e può essere agita<br />

come una vendetta e un violento attacco nei confronti di coloro dai quali si<br />

proviene, negando loro il senso della vita passata, e la presenza nel futuro.<br />

Si tratta di un atteggiamento imputabile a gravi traumi infantili e<br />

deprivazioni, sofferenze tali per cui è ipotizzabile il meccanismo della negazione<br />

piuttosto che la rimozione o l’oblio.<br />

Il rancore verso chi ha dato la vita ed è stato vissuto e interiorizzato<br />

come responsabile delle sofferenze patite, forse non elaborabili, certamente<br />

non elaborate, mantiene il dolore ancora vivo e presente. Paradossalmente,<br />

al pari dell’invidia, il desiderio vendicativo è distruttivo soprattutto per chi<br />

lo prova. La rinuncia è una specie di automutilazione, messa in atto nell’illusione<br />

di danneggiare quel genitore.<br />

Esempio clinico:<br />

Una coppia aveva in comune grandissime sofferenze infantili a causa<br />

di genitori assai carenti per ragioni di salute, di depressione, di ristrettezze<br />

economiche e culturali. Il marito era stato molto determinato nella scelta<br />

di non voler procreare, Durante una seduta di psicoterapia aveva ricor-<br />

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dato quando, all’età di 15 anni, durante una ennesima e animatissima<br />

discussione il padre gli aveva urlato “Quando avrai dei figli capirai” e lui<br />

aveva risposto furibondo “Io non vorrò mai avere dei figli!”<br />

Era stato molto particolare il riemergere di questo ricordo con una carica<br />

e un patos che lo riattualizzavano nella scena della terapia.<br />

La moglie, riferendosi a sé stessa in un diverso momento della terapia<br />

aveva parlato di una “isterectomia mentale” riferendosi alla assenza di sensibilità<br />

che lei provava per il proprio utero, inteso come organo non interessato<br />

alle vicende sessuali e procreative. Questa signora aveva deciso<br />

scientemente di non volere figli e riferiva di non provare alcuna sensazione<br />

durante il ciclo mestruale, di essere diventata insensibile al desiderio sessuale,<br />

negando il proprio organo interno, come se non esistesse. Diceva di<br />

aspettarne con ansia la liberazione, essendole stata annunciata una menopausa<br />

precoce. La Signora tardivamente aveva sentito il “bisogno” di un<br />

figlio ed aveva intrapreso la difficile strada dell’affido di uno di quei bambini<br />

della Bielorussia, dopo il disastro nucleare di Chernobyl. In realtà,<br />

com’è noto, non si trattava di un vero “affidamento” e la difficoltà di tollerare<br />

ripetutamente tante separazioni aveva acutizzato in lei il dolore di non<br />

essere diventata madre.<br />

L’elaborazione della determinata e intenzionale negazione di maternità<br />

aveva portato la signora all’accostamento con la “Medea figlicida” come immagine<br />

dolorosa che nell’intento di privare della gioia dei bambini, in questo caso<br />

la propria madre, aveva distrutto il potenziale creativo che era in se stessa.<br />

È proprio seguendo il mito di Medea che viene da pensare non solo all’aspetto<br />

vendicativo, ma anche ad un paradossale atto riparativo di quelle parti<br />

infantili sofferenti, negando la vita ai figli, che non verranno mai concepiti, nell’intenzione<br />

di proteggerli dalle sofferenze e dalle brutture della vita stessa.<br />

Si tratta infatti di sofferenze patite restate vive con un’esigenza di visibilità<br />

concreta che fanno pensare alle vicende di traumi non elaborabili, e<br />

l’agito della vendetta sembra in relazione con la concretezza del trauma. E<br />

il terrore di dare ai figli soltanto destini di sofferenza o infelicità corrisponde<br />

all’altro timore di far rivivere quei genitori del passato tanto temuti.<br />

Riassunto<br />

In questo articolo ho evidenziato le difficoltà cui devono far fronte le persone che<br />

si prendono cura di bambini e ragazzi in affidamento, nell’esercitare le funzioni genitoriali<br />

nei loro confronti pur non essendo i genitori. Un difficile bilanciamento di sentimenti<br />

giocato tra l’attaccamento e il rispetto delle origini dell’affidato, tra il bisogno<br />

di avere un figlio e il desiderio di corrispondere ai suoi bisogni.<br />

Ho anche aperto una riflessione sulle motivazioni più profonde che indirizzano<br />

taluni di loro verso la decisione consapevole di non voler procreare e la relazione sussistente<br />

in questi casi, con le proprie figure genitoriali e i sentimenti rancorosi nei<br />

loro confronti<br />

<strong>Richard</strong> e <strong>Piggle</strong>, 17, 2, 20<strong>09</strong>


168 R. Colarossi: Genitorialità naturale e affidataria: tra desiderio e bisogno<br />

Parole chiave: genitorialità, bambini in affidamento, trauma, edipo, sentimento<br />

rancoroso e vendicativo.<br />

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Rita Colarossi, Psicoterapeuta, Membro Ordinario SIPsIA.<br />

Indirizzo per la corrispondenza/Address for correspondence:<br />

Via P. Venturi, 17/A<br />

00149 Roma<br />

E-mail: ritacomes@tiscali.it<br />

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