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Il Latino del diritto Ha suscitato clamore mediatico l’incidente in cui è incorso David Cameron, che -durante un’intervista nel notissimo programma di Letterman- si è trovato in grave imbarazzo per non avere saputo tradurre il sintagma latino Magna Charta che, come è noto (o dovrebbe essere noto a tutti) indica, con la più precisa denominazione di Magna Charta Libertatum, lo statuto inglese (ciò che rende ancora più grave la figuraccia del leader conservatore del Regno Unito), la cui promulgazione, avvenuta il 15 giugno 1215, fu imposta dai feudatari al re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra. Composta di sessanta capitoli, il documento accoglieva le richieste baronali: dopo una premessa generale, relativa alla libertà e alla inviolabilità della Chiesa e dei cittadini, nonché le libertà e le consuetudini delle città, dei borghi e dei porti, la Magna Charta regolava i conflitti feudali, conferendo particolari prerogative al ceto baronale. La parte seguente si occupava della magistratura, sia centrale che locale (in particolare, la “Court of common” venne insediata definitivamente a Westminster), dei diritti dei proprietari terrieri e della di- Ma non erano infallibili? Non sono in alcun modo contrario all’utilizzo di metodi scientifici nell’ambito delle indagini penali:auspico anzi che la Giustizia sia sempre più attrezzata ed efficiente nel contrasto al crimine. Mi ha tuttavia da sempre infastidito – e non poco- una certa spocchia da parte dei cultori ed utilizzatori di simile approccio investigativo accompagnata da un conseguente atteggiamento di sufficienza nei confronti dei metodi tradizionali. 8 sciplina e relativa regolamentazione degli scambi commerciali. Coerentemente con lo spirito del documento, esso conteneva –nella parte centrale- disposizioni fortemente limitative del potere del re, come la creazione di una commissione di 25 feudatari che avevano il compito di imporre al sovrano il rispetto della Carta. Proprio per questo, il re Giovanni ottenne dal Papa, a cui aveva assicurato protezione e fedeltà, una bolla che annullava le disposizioni dello Statuto, la cui efficacia fu ribadita dopo la morte del sovrano dal consiglio che assunse il potere in luogo dell’ancora minorenne successore Enrico III. Negli anni successivi, la Charta Libertatum fu notevolmente ridimensionata attraverso la limitazione dell’eccessivo potere acquisito dai feudatari e l’introduzione di disposizioni più favorevoli alla corona, assumendo, nell’anno 1125, l’aspetto definitivo. L’episodio di cronaca, che ha coinvolto il primo ministro inglese offre la favorevole opportunità di rivalutare l’importanza della lingua latina non solo per l’uomo di stato, ma anche per il giurista, non già come Fiuto investigativo, saper porre domande giuste a testimoni o spettatori di un reato parevano essere nel dire di questi soloni del nuovo corso-almeno fino a qualche tempo fa- solo vecchi arnesi destinati ad essere fatalmente spazzati via da provette ed affini. D’altronde alcuni brillanti risultati ottenuti grazie a questa sorta di “Rivoluzione Copernicana” nelle inchieste,sembravano costituire un riscontro oggettivo a tale tesi. mero strumento di citazione dotta, ma quale diretta testimonianza che la formazione dell’avvocato non possa prescindere dallo studio e dalla conoscenza delle origini storiche, quindi risalenti al diritto romano, dei principi dell’ordinamento che regolano la vita dei consociati. Nonostante le recenti riforme degli ordinamenti universitari, orientate in direzione opposta, solo attraverso la conoscenza dell’ordinamento giuridico che ha regolato la vita dei Romani in tredici secoli di storia, dalla fondazione di Roma alla morte dell’imperatore Giustiniano, il moderno operatore del diritto potrà, dunque, veramente apprezzare e comprendere il contenuto delle disposizioni normative che egli deve compulsare quotidianamente nell’esercizio della propria attività, anche evitando le frequenti figuracce nell’utilizzo, spesso in modo erroneo o addirittura a sproposito, di espressioni quali, ad esempio, periculum in mora, iura novit curia, iudex a quo, iudex ad quem o res iudicata senza comprenderne appieno il significato ad esse sotteso. FedeRiCo peRgaMi Confesso di essermi sentito, a quel punto, un emarginando passatista,dato che proprio non riuscivo a scacciare dalla testa, nonostante le evidenze in contrario, una certa perplessità nei confronti del trionfalismo e della celebrazione riservati,con grande eco presso i mezzi di comunicazione, alle “tute bianche” ed ai loro avveniristici strumenti. In seguito sono però arrivati solenni naufragi processuali delle indagini basate
sulla mera scienza, previi fieri “litigi” tra luminari tradotti in corpose e contrastanti relazioni. In sintesi: per efferati e sconvolgenti fatti di sangue non si è giunti all’individuazione dei colpevoli. Non voglio affermare che si sarebbe pervenuti ad un opposto risultato se, in luogo di reazioni chimiche e simili, si fosse fatto ricorso all’acume dei “vecchi” marescialli o commissari, ma ritengo che simili sconsolanti esiti debbano indurre almeno a più di una riflessione. Provo peraltro un certo ritegno ad esporre le mie in quanto temo di scadere nel predicatorio, senza essere dotato di autorevolezza (anche) in questo senso o essere incline a tale atteggiamento. Dato però che debbo pur dire come la penso, supero la, spero compresa, ritrosia. Ritengo che soprattutto la scienza necessiti di essere accompagnata da una dote assai spesso dimenticata e persino oggetto se non proprio di dileggio,almeno di raffinata ed arrogante canzonatura: l’umiltà. Non per niente si parla (o si parlava) di “umiltà scientifica” proprio per indicare il corretto approccio a scoperte e metodologie di tal genere. Le sconfitte,anche se numerose, significative e cocenti, non debbono certo portare ad una reazione opposta e cioè a considerare la scienza medesima incompatibile con un corretto cammino di indagine. Merita invece di essere negletta, perché nociva, la propalata convinzione “infallibilista” che non porta a nulla, se non, in definitiva ed in molti casi all’insuccesso della Giustizia. Vale la pena di pensare secondo me, per “fare un salto”nella letteratura e nella cinematografia, che personaggi come Maigret e il dimesso tenente Colombo,non erano affatto sprovveduti nei confronti dei delinquenti, anche se con macchinari e liquidi di contrasto sicuramente se la sarebbero cavata male, anzi malissimo. enRiCo RigaMonti L’inammissibilità dell’appello Nello scorso mese di Luglio si è svolto un importante convegno a Milano, dal titolo “L’inammissibilità dell’appello: la redazione e la valutazione dei motivi tra norme e prassi”. Il convegno introdotto dal Dott. Giovanni Canzio, Presidente della Corte d’Appello di Milano, ha visto la partecipazione del Dott. Luigi Domenico Cerqua, Presidente della V Sezione della Corte d’Appello di Milano e dell’Avv. Prof. Emanuele Fragasso jr, professore di procedura penale presso l’Università degli Studi di Padova; moderatore l’Avv. Salvatore Scuto, Presidente della Camera Penale di Milano. L’intento del convegno è stato quello di illustrare lo stato dell’arte su un istituto del diritto processuale penale di vecchia data ma di relativamente nuova applicazione: l’inammissibilità dell’appello prevista dal combinato disposto degli artt. 581 e 591 c.p.p. Il dott. Canzio ha delineato i caratteri principali dell’appello come mezzo di impugnazione parzialmente devolutivo, attraverso cui le parti chiedono al giudice ad quem di operare un controllo su una decisione di primo grado che ritengono viziata per motivi di fatto o di diritto. Il giudizio di appello viene visto dall’ordinamento giuridico italiano come strumento di controllo e non come un nuovo giudizio: a conferma di ciò, esso non presuppone necessariamente una nuova istruzione dibattimentale, la quale ha carattere di eccezionalità (art. 603 c.p.p), bensì è un procedimento di natura cartolare: il giudice “legge” gli atti probatori del giudizio di primo grado nei limiti delle richieste e dei motivi degli appellanti, senza, di regola, assumere nuove prove. Chiara, pertanto, la natura dell’appello come mezzo di impugnazione parzialmente devolutivo: il giudice ha la medesima ampiezza di poteri decisori che caratterizza il giudice di prime cure, ma la cognizione di merito è limitata dai motivi di impugnazione. Di qui l’importanza di redigere un atto di appello che indichi, ai sensi dell’art. 581 c.p.p, “a) i capi o i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione b) le richieste c) i motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”. La devoluzione al giudice ad quem deve pertanto avvenire per capi e punti e deve essere motivata. In base all’art. 591 c.p.p., nel caso in cui l’atto di appello non indichi le ragioni in fatto e in diritto dell’impugnazione, riferite a determinati capi e punti della sentenza impugnata, il Giudice di secondo grado pronuncerà un’ordinanza di inammissibilità. L’inammissibilità è dichiarata con ordinanza pronunciata de plano anche d’ufficio, motivata e ricorribile per Cassazione Il giudice, quando pronuncia l’inammissibilità dell’impugnazione, dispone l’esecuzione del provvedimento impugnato. Il Prof. Fragasso jr ha spiegato in modo analitico i requisiti di ammissibilità dell’impugnazione delineati dall’art. 581 lett. a) e c) c.p.p. Ribadita la natura del giudizio di appello come giudizio di controllo di quanto deliberato nel primo grado di giudizio, e non come nuovo giudizio di merito, egli ha sottolineato come l’attività di controllo del giudice ad quem sia ontologicamente connessa all’iniziativa di parte, alla quale spetta di indicare al Giudice di appello i capi e i punti della sentenza di cui chiede il controllo e la conseguente riforma. Secondo l’art 581 c.p.p., nell’atto di appello si devono indicare, a pena di inammissibilità: lett. a) “i capi O * i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione”; ciò significa, ad esempio, impugnare il capo della sentenza che verte sulla responsabilità sotto il profilo, (punto) dell’elemento soggettivo del reato, o dell’antigiuridicità della condotta. Il Prof. Fragasso ha posto l’attenzione della platea sulla “O” di tipo non disgiuntivo che si legge nella norma in questione, 9
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