Nei borghi antichi la storia è vita - Lazionauta

PROVINCIA
DI ROMA
Vittorio Emiliani
Pino Coscetta
Nei borghi antichi
la storia è vita
Foto
Filippo Coscetta

PROVINCIA
DI ROMA
Presidente
Nicola Zingaretti
Assessore Politiche del Territorio
e Tutela Ambientale
Michele Civita
Consigliere provinciale con delega
alla Valorizzazione dei Centri Storici
Giuseppe Lobefaro
Organizzazione e realizzazione
del progetto
Associazione Culturale
Isola dei Ragazzi
Campagna radiofonica
Agenzia Area
Ideazione e testi
Vittorio Emiliani e Pino Coscetta
Fotografie
Filippo Coscetta
Progetto grafico
Effeci

Provincia di Roma
Vittorio Emiliani
Pino Coscetta
Nei borghi antichi
la storia è vita
Foto
Filippo Coscetta

Indice>>>>
Nicola Zingaretti...........................
Prefazione
Giuseppe Lobefaro.........................
Rivivere il borgo, oggi
Vittorio Emiliani..........................
Trenta centri, mille storie
Pino Coscetta.................................
Affile............................................
Allumiere.....................................
Anguillara Sabazia......................
Anticoli Corrado........................
Arsoli............................................
Artena.........................................
Camerata Nuova........................
Canale Monterano.....................
Carpineto Romano.....................
Castel Madama...........................
Castel San Pietro Romano........
Cervara di Roma........................
Gorga...........................................
Magliano Romano......................
Manziana.....................................
Marano Equo..............................
Mazzano Romano......................
Monte Compatri........................
Montelanico................................
Olevano Romano.......................
Pisoniano.....................................
Ponzano Romano.......................
Rocca Canterano........................
Rocca di Cave.............................
Rocca Priora...............................
Sant'Oreste..................................
Saracinesco..................................
Segni.............................................
Tolfa.............................................
Torrita Tiberina..........................
Biografie
pag. 9
pag. 11
pag. 13
pag. 35
pag. 36
pag. 46
pag. 56
pag. 64
pag. 74
pag. 86
pag. 98
pag. 108
pag. 118
pag. 130
pag. 140
pag. 150
pag. 162
pag. 172
pag. 178
pag. 188
pag. 196
pag. 206
pag. 218
pag. 226
pag. 236
pag. 242
pag. 252
pag. 262
pag. 272
pag. 282
pag. 288
pag. 296
pag. 306
pag. 314

6
1. Affile
2. Allumiere
3. Anguillara Sabazia
4. Anticoli Corrado
5. Arsoli
6. Artena
7. Camerata Nuova
8. Canale Monterano
9. Carpineto Romano
10. Castel Madama
11. Castel San Pietro Romano
12. Cervara di Roma
13. Gorga
14. Magliano Romano
15. Manziana
16. Marano Equo
17. Mazzano Romano
18. Monte Compatri
19. Montelanico
20. Olevano Romano
21. Pisoniano
22. Ponzano Romano
23. Rocca Canterano
24. Rocca di Cave
25. Rocca Priora
26. Sant'Oreste
27. Saracinesco
28. Segni
29. Tolfa
30. Torrita Tiberina
Provincia di Viterbo

Provincia di Rieti
Provincia di Latina
Provincia dell’Aquila
Provincia di Frosinone
Cartina base del Sistema Informativo Geografico della Provincia di Roma
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Cervara di Roma

“ …Un viaggio alla scoperta della bellezza di questo territorio. Perché la
bellezza non va solo conosciuta e contemplata. Va anche svelata, coltivata,
protetta. Penso alla bellezza di decine e decine di borghi e centri
storici, all’incredibile varietà di paesaggi, alla presenza di aree verdi e
parchi naturali, alla naturale attrattiva del litorale romano. E penso
all’opportunità di sviluppo che da tutto questo può derivare. Parlare di
“bellezza” può sembrare una facile suggestione. Ma è questo il compito
di una buona amministrazione: valorizzare la bellezza e le potenzialità
ancora inespresse del proprio territorio. Un compito assolutamente
concreto e misurabile.
Nicola Zingaretti
(Presidente della Provincia di Roma)
”
Dal discorso di insediamento
in Consiglio Provinciale
15.05.2008
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Arsoli

Dal borgo
al mondo
di Giuseppe Lobefaro
IComuni della Provincia di Roma non potevano non essere egemonizzati
da un capoluogo così “pesante”, storicamente e politicamente.
Per questo l’Amministrazione Provinciale oggi, la Capitale
Metropolitana domani, hanno fra i primi compiti quello di riequilibrare
tale rapporto. Ma, per svolgere meglio questa funzione essenziale,
hanno davvero bisogno di attuare uno dei detti più incisivi di Luigi
Einaudi, grande economista e primo presidente della Repubblica:
“Conoscere per deliberare”.
Conoscere i Comuni della provincia romana, a cominciare da quelli più
periferici, per lo più collinari e montani (come i primi 30 che abbiamo
visitato), vuol dire raccogliere i dati fondamentali per disegnare la loro
identità: storica, culturale, socio-economica, urbanistica, ambientale.
Identità quanto mai importante oggi che siamo sempre più proiettati in
una dimensione europea, internazionale, planetaria. Per la stessa Roma
non è facile e però, guardando alle sue tradizioni cosmopolite, ci si
riesce. Per questi Comuni è più difficile e però non meno necessario.
Non per rinchiudersi poi in una identità provinciale o, addirittura,
municipale, ma per stare meglio “nel mondo”. Dal borgo al mondo.
Globale e Locale, Glocal. Grazie anche alle tecnologie in continuo
sviluppo che dal più piccolo di questi Comuni consentono di navigare
in internet facendo il giro del pianeta. E magari di telelavorare, di dar
corso da casa, dall’alto di quelle antiche mura, a occupazioni redditizie.
Come stanno facendo coppie, gruppi, cooperative di giovani dai borghi
dell’Italia appenninica, senza più dover emigrare nelle sempre meno
vivibili aree metropolitane. Magari promuovendo e vendendo così i
prodotti tipici delle nostre colline e montagne tanto apprezzati nelle
nostre grandi città e all’estero: vino e olio d’oliva di qualità, salumi pregiati,
paste artigianali, conserve e composte di frutta biologica, formaggi
genuini, erbe officinali, ecc.
Già oggi questi borghi – se ben conservati e restaurati – sono apprezzati
come residenze. Lo sarebbero di più se il sistema dei trasporti collettivi
dell’area romana fosse capillare ed efficiente. Già oggi questi borghi
e i loro paesaggi sono apprezzati come luoghi di turismo naturalistico-
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culturale e di soggiorno prolungato. Tutelare con attenzione il patrimonio
di centri storici, rocche, abbazie, santuari, torri, e naturalmente di
boschi italici, castagneti, uliveti e vigneti, non farli invadere dal cemento
e dall’asfalto, vuol dire dare basi serie alla riqualificazione e al rilancio di
queste comunità, dalla Tolfa ai laghi settentrionali, alle valli del Tevere e
dell’Aniene, ai Monti Simbruini, ai Castelli, ai Monti Lepini. Fare sì che
nei borghi antichi la storia torni ad essere vita quotidiana è una impresa
entusiasmante.

Rivivere il borgo, oggi
di Vittorio Emiliani
Sarà stato il 1970. Eravamo impegnati in una campagna di rilevamento
dei centri storici, delle torri, dei castelli, delle chiese, delle abbazie,
dei boschi, dei dialetti, degli strumenti musicali antichi, del folklore e
altro ancora sull’Appennino bolognese. Una sera nella piazza del paese
di Enzo Biagi, discutevamo dei risultati di quel censimento a tappeto
operato risalendo la valle del Reno. C’era molta gente. Ad un certo
punto ad una ricercatrice scappò detto: “E poi queste case di sasso sono
tanto carine…” Si alzò un anziano del paese, emigrato a Bologna e tornato
lassù per le vacanze, che ribatté: “Saranno carine per voi di città. A
noi ricordano la fame, il freddo, le malattie patite lì dentro. Preferiamo
le case nuove dei geometri”. In piazza scese un certo imbarazzo. Che si
accrebbe quando un altro borghigiano, stavolta stanziale, enunciò questa
sua verità: “E’ come per le castagne: per voi cittadini sono buone. A
noi fanno venire la nausea perché ci ricordano i tempi in cui mangiavamo
solo castagne: pasta con la farina di castagne, pane di castagne e
magari di ghiande, focacce e torte di castagne, il castagnaccio, un po’
d’erba e quasi nient’altro”.
Avevamo ragione noi e avevano ragione loro. Quel patrimonio di borghi
e di boschi, magari di castagneti, dell’Appennino andava sicuramente
tutelato e non stravolto o manomesso. Ma bisognava farlo con attenzione,
con sagacia, dotando di servizi igienici, di riscaldamento e di altro
ancora quelle case di sasso altrimenti assai poco vivibili. Problemi che si
sono posti lungo tutta la dorsale appenninica dove tanta storia è passata
e dove, dagli anni ’50 in qua, lo spopolamento, l’abbandono è stato
biblico. Con tanti ex contadini, taglialegna, boscaioli, muratori, artigiani
finiti a popolare quartieri spesso “per murati vivi”, diceva sempre
Antonio Cederna, delle periferie metropolitane, a cominciare da quelle
romane.
Oggi il vento sembra essere girato. Ciò che negli anni ’70 pensavano (e
pativano) gli ultimi abitanti rimasti su quelle colline e montagne, non lo
pensano più, o quasi più, quanti risiedono oggi in quegli stessi borghi.
Lo abbiamo constatato nel realizzare questa prima indagine-campione
su 30 suoi Comuni, promossa dalla Provincia di Roma. Ci siamo resi via
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via conto che tale ricerca andava incontro ad una domanda che nasce e
sale dagli stessi residenti, a volte sparuti, di questi antichi abitati, per lo
più cinti da mura: essi vogliono essere più conosciuti, più apprezzati, più
considerati. Perché in questi borghi, in queste cittadine di collina e di
montagna la storia è stata vita per secoli e secoli ed oggi, laddove, per
decenni, hanno regnato l’abbandono e la fuga, la storia torna ad essere
vita e fra i residenti vecchi e nuovi riemerge e si rafforza una sorta di
“orgoglio borghigiano”, un senso forte di appartenenza. Sentimenti che
ci fanno pensare (o illudere? spero di no) che il peggio sia passato e che
sia già cominciato un nuovo ciclo vitale.
Per decenni, dopo l’Unità d’Italia, su queste alture della Provincia di
Roma, che vanno dalla Maremma laziale alla zona settentrionale dei
laghi, ai Monti Simbruini e Prenestini, ai Castelli e ai Monti Lepini, la
popolazione ha “tenuto”. Fra il 1871 e il 1911 un solo Comune di questi
trenta ha perso abitanti, una decina in tutto per la verità: Gorga sceso da
972 a 961. Nel mezzo secolo successivo hanno visto crescere la loro
popolazione i Comuni più vicini a Roma come Anguillara Sabazia,
Artena, Rocca Priora, Monte Compatri, Segni, Castel Madama, Olevano
Romano, ecc. Per contro hanno conosciuto uno spopolamento sempre
più accentuato i Comuni più alti e più lontani: Anticoli Corrado,
Saracinesco, Castel San Pietro Romano, Marano Equo, Rocca
Canterano, Cervara di Roma, Camerata Nuova. Una divaricazione
accentuatasi nell’ultimo mezzo secolo portando, ad esempio, a quasi
19.000 gli abitanti di Anguillara Sabazia, a 14.000 quelli di Artena, a
12.000 quelli di Rocca Priora seguita da Monte Compatri (10.424).
Mentre a poche centinaia, addirittura fra i 480 e i 165, si riducevano i
residenti di Cervara, Camerata Nuova, Rocca di Cave, Rocca Canterano
e, da ultimo, Saracinesco. Con problemi di crescita, quindi di sviluppo
edilizio eccessivo e disordinato, di traffico e di parcheggi, di servizi
sociali i primi verso i quali si è diretta l’emigrazione di giovani coppie, di
stranieri in possesso di un primo reddito, che nell’area di Roma non
trovavano case a prezzi o a fitti sostenibili. Con problemi di impoverimento,
di invecchiamento della popolazione, di sopravvivenza i secondi
peraltro circondati da una natura presso che intatta e quindi meta stagionale
per molti romani.
Ecco, i punti focali del nostro primo lavoro di rilevamento fotografico
e documentale sono questi: 1) diventare tutti più consapevoli – gli abitanti
vecchi e nuovi, i residenti anche stagionali e naturalmente i politici
– dello straordinario valore di questi territori collinari e montani, di

questi paesaggi così diversi fra loro, di questi borghi e città storiche che
formano una trama unica forse al mondo; 2) sulla base di questa
accresciuta consapevolezza studiare e realizzare una pianificazione territoriale
e paesaggistica che difenda tale patrimonio insidiato dalla trascuratezza,
dalla disattenzione, dalla speculazione edilizia e non solo (si
pensi, per esempio, alle cave, legali e abusive, o allo scasso e all’inquinamento
dei corsi d’acqua); 3) studiare e realizzare finalmente una politica
dei trasporti degna di una regione europea avanzata e che non continui
a poggiare sull’uso indiscriminato del mezzo privato o comunque di una
motorizzazione spinta all’eccesso. Pochi sanno che nel rapporto
auto/abitanti l’Italia batte sonoramente tutte le nazioni di più antico
sviluppo industriale e terziario dove le auto sono, a volte, di un 30 per
cento inferiori di numero alle nostre. Mentre noi risultiamo, all’opposto,
ultimi per rete ferroviaria, soprattutto per quella minore che costituisce
invece la leva fondamentale di ogni buona politica urbanistica. I collegamenti
su rotaia di Roma col suo intorno, a parte il raddoppio della linea
per Viterbo fino a Cesano, sono vecchi e deboli, a volte inesistenti. Al
contrario nelle stazioni delle maggiori città tedesche – tutte, tranne
Berlino (dove si sono riunificate due capitali), tenute sul milione di abitanti
o poco oltre – i trasporti su ferro nazionali, regionali, locali e cittadini
sono perfettamente integrati, su diversi livelli. Con un sistema ferroviario
che serve così la città-regione in modo capillare, ad Amburgo
come a Monaco di Baviera, al nord come al sud.
Il primo punto è dunque divenire tutti quanti più consapevoli delle ricchezze
ereditate dal passato, vicino e lontano, spesso remoto, per studiare
insieme come conservarlo, tutelarlo e valorizzarlo meglio. Facendo
anzitutto circolare le notizie, i dati di fatto, le opportunità. Siamo nella
Provincia di Roma la quale appare la più omogenea, in fondo, in una
regione come il Lazio costruita invece a tavolino negli anni ’20 del ‘900.
La Provincia di Roma corrisponde infatti, largamente, a quella che storicamente
è stata l’area di Roma stessa. La cui opulenza in antico era tale
per cui ville e castelli di famiglie nobiliari e cardinalizie andavano oltre,
soprattutto a nord, verso la Tuscia, questi confini oggi provinciali.
Crediamo che fare il punto – come abbiamo cominciato a fare con
questi primi 30 Comuni – sul patrimonio di centri storici, anzitutto, sia
decisamente utile per il futuro, nel breve e nel medio periodo.
Ma questo discorso dobbiamo collocarlo nel contesto regionale e
nazionale. E’ un dato ricorrente nel patrimonio, in sé straordinario, del
nostro Paese: sono ben 22.000, secondo un’ancora recente indagine
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Istat i centri storici di ogni dimensione, da Roma a Cervara di Roma. Di
essi circa 900 sono i più importanti, quasi sempre di una bellezza,
nonostante tutto, da stordire, circa 6.850 quelli minori (non per la loro
attrattiva spesso formidabile, da Ariccia a Pienza, da Sabbioneta a
Martina Franca) e ben 15.000 i nuclei abitati che sono frazioni, villaggi,
borghetti, nuclei isolati, ecc. La maggior parte di tali insediamenti abitativi
si trova nell’Italia del Nord (circa il 62 per cento) poiché soprattutto
Lombardia e Piemonte registrano, dal Medio Evo, moltissimi
Comuni e quindi una autentica “polverizzazione” degli insediamenti residenziali.
Non solo: sono pure due regioni prealpine e alpine dove i
micro-Comuni risultano nettamente prevalenti. Il più piccolo Comune
d’Italia, Morterone con appena 33 abitanti, si trova a più di 1000 metri
di altitudine in provincia di Lecco. Tuttavia anche in pianura vi sono
Comuni di poche decine di abitanti, per esempio Maccastorna in
provincia di Lodi: 69, di cui 14 immigrati. Un grande capitale, sino a ieri
integro, costituito dal “palinsesto” che legava il paesaggio, per lo più
agrario e agro-silvo-pastorale, e gli abitati antichi, grandi, medi, piccoli e
minimi. Di essi almeno un migliaio di straordinaria bellezza. Una rete
preziosa di centri che risalgono agli Etruschi, ai Greci e ai Romani (ben
2.684 Comuni hanno questa origine, mentre altri 4.164 risultano fondati
fra l’800 dopo Cristo e il 1300)
Eppure in Italia il dibattito sulla conservazione, sulla tutela attiva di
questo tesoro diffuso appare ora flebile e arretrato. E invece, proprio nel
Bel Paese o in quanto resta di esso, non possiamo e non dobbiamo assolutamente
rassegnarci a tanta rovina, frutto della più incolta speculazione,
di una finta modernità, in realtà tutta affaristica, ma, qualche
volta, frutto anche di pura imbecillità, comunque di una visione dissipatrice
di quel patrimonio di tutti rappresentato dall’ambiente e dalla
storia. Una nuova barbarie.
Purtroppo questo capitale lo abbiamo in parte dissipato nel ‘900 e continuiamo
ad impoverirlo. Nonostante che la popolazione italiana cresca
ormai poco e soltanto per immigrazione. Nonostante che lo stock di
abitazioni sia enormemente aumentato (oltre 130 milioni di vani), sia
pure nel modo più squilibrato. Nonostante che gli alloggi vuoti o precariamente
utilizzati siano centinaia e centinaia di migliaia, soltanto a
Roma 185.000 (e non si tratta unicamente di seconde o terze case). Una
duplice dissipazione. Da una parte, constatiamo di continuo che le città
edificate fino agli anni 20-30 del Novecento sono sempre meno abitate
in modo stabile, con numerosi vuoti o con utilizzazioni saltuarie, maga-

i molto redditizie come le camere o i letti dati in affitto a studenti universitari
fuori sede.
Dall’altra, tocchiamo con mano una crescita continua di nuovi quartieri,
di centri commerciali, di multisala, di vere e proprie “cattedrali dell’iperconsumo”,
che condannano gli italiani a spostarsi di continuo in automobile
e che agiscono pesantemente sulle stesse città vecchie che così
perdono di continuo negozi (alimentari anzitutto), sale cinematografiche,
e altro. Entrando in una sorta di cortocircuito che produce, alla
fine, un generale black-out. Ma con alcuni dati in controtendenza rispetto
a 20-30 anni fa: la montagna si spopola ancora ma assai poco, la collina
tende a ripopolarsi, aumenta peraltro il pendolarismo automobilistico
(i treni locali sono purtroppo sporchi, lenti e con poche corse).
Nel 2003 il Censis fondato e presieduto da Giuseppe De Rita ha svolto
una interessante indagine campionaria sulla considerazione che hanno
gli italiani del cosiddetto patrimonio storico minore, quello in cui rientrano
i borghi storici dei quali ci stiamo occupando. Il primo dato che
salta agli occhi è questo: gli italiani, in generale, amano i centri antichi,
anche quelli minori, c’è una maggioranza di loro che li ha visitati, spesso
o a volte. Soprattutto nel Centro, cioè fra Toscana, Marche, Umbria
e Lazio. Toscani, marchigiani, umbri e laziali hanno visitato i piccoli centri
antichi “spesso” (29,4 per cento) o “a volte” (37,6 per cento). Una
certa quota di loro vi ha soggiornato soprattutto negli agriturismo
(risorsa crescente purché siano legati ad aziende agricole vere), in
alberghi ricavati da edifici storici o in alloggi di proprietà. Altro dato
importante per i sindaci e per gli amministratori di questi nostri borghi
della Provincia di Roma: un 36 per cento degli intervistati risponde di sì
in modo incondizionato alla prospettiva di soggiornare in un edificio
storico (“Una opportunità che cercherei comunque di cogliere”).
Naturalmente la propensione ad “abitare la storia”, come ormai si dice,
cresce col crescere del reddito e soprattutto dell’istruzione.
Per l’acquisto di un immobile collocato in un edificio storico i più positivi
sono i giovani che dicono senz’altro di sì al 61,6 per cento. Una
quota che diminuisce col crescere dell’età: gli anziani sono quelli che
ricordano case antiche ricche di disagi, piene di spifferi gelati, umide,
non risanate. Importante: soltanto una percentuale minima, neppure il
5 per cento degli intervistati, giudica negativamente la possibilità di
acquistare un alloggio antico “per via dei vincoli che inevitabilmente
graverebbero sull’immobile”. Anche questo concorre a sfatare radicati
luoghi comuni dimostrando che l’italiano medio si è evoluto. Gli italiani
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più desiderosi di “abitare la storia” sono quelli delle regioni del Centro
in cui ricade il Lazio e del Mezzogiorno.
Ma perché essi ritengono che lo Stato, le Regioni, i Comuni o le
Province debbano investire maggiori somme nel recupero/restauro dei
centri storici minori? La stragrande maggioranza di essi, addirittura
l’85,5 per cento, risponde di sì “perché rappresenta una ricchezza
nazionale”. Di più: una percentuale molto elevata, il 52 per cento, pensa
che i vincoli delle Soprintendenze competenti debbano essere “identici
a quelli apposti sulle opere di maggior valore”. Anni fa non sarebbe successo.
Per decenni gli italiani consideravano importanti soltanto i “monumenti”,
anzi i “grandi monumenti” e ritenevano che i proprietari di
edifici antichi di tipo “popolare” potessero fare i loro comodi, abbattendoli,
sventrandoli, stravolgendoli. Fra l’altro, circa un 1/3 degli interrogati
si spinge a dire che l’opera di controllo delle Soprintendenze è
adeguata o che dovrebbe essere anche più rigorosa al fine di impedire
“comportamenti scorretti”. Tutto ciò fa capire che, malgrado tutto, una
cultura della tutela ha fatto passi avanti.
Noi ci auguriamo che gli abitanti di questi 30 Comuni della Provincia
di Roma (circa 75.000 agli ultimi rilevamenti) e i loro amministratori si
rendano meglio conto, vedendo ora le fotografie dei loro borghi e centri
storici, leggendo la documentazione storica e antropologica, di aver
ereditato un patrimonio storico-artistico e paesaggistico quasi sempre di
prim’ordine e che tutelarlo in modo adeguato, arrestarne il degrado
(quando c’è), recuperarlo soprattutto a fini residenziali (come prima casa
anzitutto) sia fondamentale. Per sé, per la propria famiglia, per gli altri.
Perché questi centri sono stati creati nei secoli davvero a misura d’uomo
e, una volta dotati di servizi moderni (in modo sobrio), possono
davvero essere abitati con agio e soddisfazione. Insomma, siamo convinti
che sia diventata inattuale la risposta data a noi, nel ’70, al paese di
Enzo Biagi sull’Appennino bolognese da quell’anziano sulle case di
sasso ricordate soprattutto per il freddo, la fame, le malattie. Per non
parlare delle castagne tornate ad essere “buone”, per tutti, con una
infinità di sagre paesane.
Nel Lazio sono tanti i siti archeologici che, almeno in parte, ci ricordano
le origini dei suoi 378 Comuni e delle numerose loro frazioni. La ricerca
condotta nel 1996 da Daniela Primicerio (2) ci dice che essi sono ben
457 fra necropoli, ville, mausolei, sepolcreti, anfiteatri, ipogei, mura, ecc.
mentre i musei archeologici o misti (archeologia e arte) risultano sulla
novantina nella regione. Ovvio che in essa Roma faccia la parte del

leone, e però anche nel territorio esterno alla capitale vi sono molte tracce
di quei remoti insediamenti storici e numerosi musei attrezzati. Erano
allora oltre 200 i siti o i monumenti archeologici della Provincia escludendo
ovviamente quelli romani che nel ‘96 risultavano (e sono sicuramente
aumentati) 148. Nei 30 Comuni interessati a questa ricerca ritroviamo
questo elenco interessante, oggi da allargare tuttavia:
Allumiere: resti di un abitato proto-villanoviano (prima età del ferro) e
necropoli.
Anguillara Sabazia: resti di ville romane.
Artena: mura ciclopiche e ruderi di ville romane.
Canale Monterano: necropoli.
Montecompatri: area archeologica di Gabii e necropoli dell’età del ferro.
Rocca di Papa: Necropoli di San Lorenzo Vecchio.
Segni: area archeologica di Signia, Mura, Acropoli, Tempio e Cisterna.
Tolfa: area archeologica etrusca Grotte Pinza, Area etrusca di Monte
Pizzone; Area etrusca di Pian Cisterna; Area etrusco-romana
Bagnarello; Necropoli di Ferrone; Necropoli di Pian Conserva;
Necropoli di Pian Li Santi; Necropoli di San Pietro; Resti delle Terme
di Stigliano; Resti di Santuario; Viadotto del Ponte del Diavolo presso
Stigliano; Villa Romana.
Ma altri ritrovamenti sono avvenuti in questi ultimi anni. Aggiungerei i
tratti di mura pre-romane ad Affile, i ruderi di ville romane nella già citata
Artena, le vasche termali e i ruderi di ville romane a Marano Equo, i
resti di case romane pure a Pisoniano. A Gabii (Osteria dell’Osa), nel
Comune di Monte Compatri sulla Via Prenestina, è stata portata alla
luce una vera e propria città reale - ne ha scritto un maestro dell’archeologia
come Mario Torelli (3) - poi rapidamente decaduta. La leggenda
vuole che il pastore Faustolo mandasse a studiare i gemelli Romolo e
Remo da lui raccolti sulla riva del Tevere proprio a Gabii. Coincidenza
interessante: proprio a Gabii sulla via Prenestina è stato ritrovato nel
1990 un vaso arcaico con una scritta in lingua greca e, secondo Adriano
La Regina che lo presentò all’epoca, esso dimostra che la lingua greca
arrivava a Roma anche da est e non soltanto dalle colonie campane.
Mi sono dilungato per dimostrare con qualche esempio quanto ricca sia
stata e sia la trama dei centri urbani ed extra-urbani o degli insediamenti
di primigenie tribù nell’intorno di Roma. Un patrimonio di valore
eccezionale che le ricerche sono destinate ad incrementare (se verranno,
s’intende, debitamente finanziate proteggendo poi in modo adeguato gli
scavi) e che deve stare a cuore agli amministratori provinciali e comunali
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poiché da lì viene la nostra storia, sovente ancora da raccontare, e da lì
possono venire i benefici di un turismo culturale, interno e ancor più
internazionale, che rappresenta una delle maggiori risorse, se ben organizzato,
per il prossimo futuro.
Pochi sanno che l’uomo di Neanderthal popolava diffusamente le fertili
colline del comprensorio dei Castelli e che tribù dedite alla caccia e alla
pastorizia si sono insediate stabilmente nelle valli del Tevere e
dell’Aniene, sui primi contrafforti dei Castelli, alla Tolfa (si veda infatti
il numero dei siti presenti), a Monte Ravello e così via. Mentre i primi
Latini occupano il territorio che va da Castel Gandolfo, Albano e
Grottaferrata a Monte Compatri così ricca di storia. Del resto nell’ultimo
mezzo secolo gli studi e gli scavi hanno consentito di dare il giusto
rilievo all’influenza diretta del patriziato etrusco nella costruzione e gestione
dell’Urbs romana con alcuni re di origine tarquinate.
In effetti nei territori che stiamo esaminando e che abbiamo fotografato
e documentato s’incrociano, convivono o confliggono per poi
fondersi gradualmente, nel tempo, popolazioni assai diverse per origine,
cultura, costumi, tradizioni. Le invasioni barbariche con gli eserciti diretti
al cuore di Roma, l’impaludamento delle campagne susseguente all’abbandono
delle colture (a cominciare dal mitico Agro romano, fino al
mar Tirreno) e quindi malattie endemiche come la malaria, consigliano
agli abitanti dell’intorno di Roma di attestarsi in alto e di creare borghi
fortificati. Anche così nascono o rinascono quei centri che ancor oggi
vediamo cinti da alte mura. Che servono a proteggersi dalle invasioni di
popoli del Nord e dei Saraceni penetrati dal mare verso l’interno prima
dell’anno 1000. Le stesse mura borghigiane, poi serviranno (quando
serviranno) da difesa nelle guerre sanguinose combattute fra le famiglie
più potenti di Roma o fra il papato e i signori ad esso alleati e altri eserciti
stranieri calati in Italia.
Ma sono tante le storie che ci raccontano questi centri storici della
Provincia di Roma. Essi fanno poi tutt’uno con un paesaggio di coltivi,
di ultimi ulivi, poi di castagneti verso l’alto e infine col bosco italico
vario e ricco di essenze. Pino Coscetta ha redatto schede ampie, diffuse
e molto curate su ognuno dei “nostri” Comuni che troverete di seguito
in ordine alfabetico. Qui andiamo in rapido volo dal Nord-Ovest alto
sul Tirreno della Maritima (poi Maremma, laziale) fino al Sud-Est dei
Castelli e dei Monti Lepini.
Allumiere dal nome che mescola l’allume e le miniere conosce insediamenti
preistorici sul 2000 a.C. e dell’età del bronzo, ma è con gli

Etruschi che si afferma fra il Colle di Mezzo e la Bandita Grande per
giungere alle fattorie rurali e alle rustiche ville romane. I suoi monti
risultano tanto ricchi di flora e di fauna (ci vivono il gatto selvatico e la
martora, il nibbio reale e il raro capo vaccaio, e vi è tornato, o rimasto,
il lupo) da meritare la creazione di un’area protetta di livello regionale.
Tolfa è già viva nella prima età villanoviana che precede l’insediamento
degli Etruschi: ci sono infatti, prima delle tombe colorate di questi ultimi,
quelle a tumulo coi muraglioni a secco dei loro predecessori. Coi
Romani tanto intelligenti da sfruttare a fondo, più razionalmente, quegli
insediamenti minerari e “industriali”. Il territorio dell’auspicato Parco
naturale della Tolfa affacciato sul mare parte dalla macchia mediterranea
odorosa di mirti, corbezzoli, allori per giungere al bosco vero e proprio.
Ma vi sono interessanti oliveti, vigneti, coltivazioni e pascoli per bestiame
brado della rustica razza maremmana che, dagli esami recenti del
Dna effettuati qui e in Anatolia, gli Etruschi si sarebbero portati da
quelle terre lontane migrando verso Occidente.
Andando a est, verso i laghi, ecco Canale Monterano: qui hanno lasciato
tracce (raschiatoi, selci lavorate, asce primitive) progenitori remoti.
Poi, Etruschi e Romani. Al tempo delle invasioni dette barbariche, dei
Longobardi in specie, che dentro queste mura gli abitanti fuggiti dalle
insicure campagne tirano su case, chiese, palazzi, al punto da meritarsi
la sede vescovile. In questo Comune è stata opportunamente creata la
Riserva Naturale Regionale di Monterano, oltre mille ettari di area protetta
tra i monti quasi intatti della Tolfa e i monti Sabatini, ricca di torrenti
e di flora particolare, come le orchidee spontanee per una trentina
di varietà.
A Manziana ci sono tutte le attrattive dell’Appennino: la pietra antica, il
Lapis Anitianus, una selva sacra (il Bosco di Macchia Grande) e la
“Caldara” fumante, misteriosa e suggestiva, oltre a pascoli popolati di
manzi ben nutriti. Anche qui Etruschi e poi Romani. Ma il sito proprio
di Manziana rimonta al Medio Evo, al 1234 allorché viene riconosciuto
il Castrum Sanctae Pupae che papa Niccolò IV attribuirà all’Arcispedale
di Santo Spirito in Saxia ad un passo da San Pietro, meta dei pellegrini
francigeni. Siamo già in una zona ambita dalla speculazione edilizia e
l’ultimo lembo della Sylva Manthiana di oltre 500 ettari va difeso in ogni
modo (ci sono erbe rarissime) insieme alla Caldara già riconosciuta quale
“monumento naturale”.
Sul Lago di Bracciano e vicino a quello intatto di Martignano sorge
Anguillara Sabazia sulle cui sponde ci fu un villaggio remoto, almeno
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5500 anni prima dell’era volgare. Ma c’è una Villa Angularia di epoca
romana (I secolo a.C.) i cui resti testimoniano del nome e della prima
vita comunitaria di questo centro diventato una cittadina per la copiosa
immigrazione dall’area romana, con tutti i pericoli che ne conseguono
per l’integrità del paesaggio a difesa del quale si batté una donna straordinaria,
Angela Zucconi (Terni 1914-Anguillara 2000), già alta dirigente
dell’Olivetti a Ivrea, direttrice di quei servizi sociali d’avanguardia, e fondatrice
nel 1980 del trimestrale “La Tribuna del Lago” protagonista di
campagne memorabili. Quanto mai utili e necessarie, anche oggi. Ad
Angela Zucconi è intitolata la Biblioteca Comunale di Anguillara
Sabazia. Tutt’intorno il Parco regionale dei laghi di Bracciano e
Martignano, nato fra mille polemiche per gli appetiti incessanti di
costruttori e cacciatori. Esso ricomprende anche le alture già montagnose
incombenti sui laghi con estesi boschi di castagni, di faggi e di
querce. Uno dei paesaggi più belli della Provincia di Roma, e non solo.
Nella sub-regione caratterizzata dal passaggio della consolare Via
Flaminia ecco, venendo da ovest, Magliano Romano terra dei Falisci,
guerrieri e contadini, coi quali i Romani hanno rapporti difficili. Gli
sviluppi sono soprattutto medioevali e sono al solito travagliati, fino a
regalare a questo orgoglioso Comune la denominazione di Magliano
Pecorareccio durata fino al 1907. Come tutti i centri storici posti su di
una grande via di comunicazione Magliano Romano sconta invasioni,
scorrerie (anche saracene), massacri. Esso rientra nel Parco Regionale di
Vejo caratterizzato da zone di pascolo fra le più ridenti. Il Parco, ricco
di boschi termofili ospita lecci e roverelle, poi aceri, cerri, carpini neri e
bianchi, ornielli e altre numerose essenze. Da curare e conservare con la
massima attenzione.
Leggermente più a nord si offre Mazzano in pieno corso del fiume
Treja, che nasce dal Monte Lagusiello sopra il Lago di Bracciano e confluisce
poi nel Tevere. Vicina a Vejo, Mazzano partecipa di quella grande
civiltà etrusca che tanti reperti e capolavori ha portato al Museo Etrusco
di Villa Giulia Roma (si pensi soltanto all’Apollo e all’Hermes di Vejo).
Zona di pascoli e di coltivi, viene potenziata dai Longobardi e poi da
varie famiglie patrizie. Il suo centro storico fruisce dell’ambiente circostante
protetto dal Parco regionale della Valle del Treja creato nel
1982 ed esteso per un migliaia di ettari. Qui la vegetazione si fa fluviale,
con ontani, salici bianchi e rossi monumentali, pioppi neri o pioppi
“lombardi”, alti e sottili (si ritrovano infatti soltanto qui e in Lombardia,
gli inglesi li hanno “importati” secoli fa col nome di “lombard poplar”,

ma sono in origine i nostri pioppi “neri” tiberini).
Verso oriente sotto le pendici del “monte sacro”, il Soratte (“Vides ut
alta stet nive candidum Soracte”, canta Orazio), il Comune di
Sant’Oreste nei cui confini rientra la montagna coperta di boschi e
boscaglie ben visibile da Roma. Luogo di culto dei Sabini, dei Falisci, dei
Capeni, degli Etruschi e infine dei Romani (il dio adorato è Soranus
Apollo). Poi tanti eremiti, ovviamente. Terra di monasteri infatti a cavallo
dell’anno Mille e più tardi. Nella Riserva Naturale del Monte
Soratte, ricco di Patriarchi della Natura, cioè di alberi plurisecolari, si rintracciano
carpini neri, aceri minori, lecci, terebinti che celano eremi e
abbazie.
Torrita Tiberina, in antico Torrita, deriva il suo nome dalle torri di avvistamento
e di difesa alte sul Tevere lungo la Via Flaminia. Si parla di un
“Fundus Turritulae” nell’VIII secolo dell’era volgare. Quindi dopo
Roma (ci sono ville romane in località Celli), uno sviluppo medioevale,
al tempo di Carlomanno e di papa Zaccaria. Qui siamo vicini ad una
delle oasi naturalistiche e storiche fra le più belle d’Italia: la Riserva
Naturale Tevere-Farfa di ben 700 ettari, una delle zone umide più
importanti del Paese dove cresco pioppi bianchi, salici bianchi e rossi,
giunchi, roverelle e sostano aironi cinerini, garzette, svassi maggiori,
folaghe, germani, gallinelle d’acqua. Dove è di stanza il raro falco di
palude.
Più a nord, Ponzano Romano si affaccia dalle alture del Monte Soratte
sulla sottostante valle del Tevere dove, un tempo, sorgeva un importante
porto fluviale in località Portovecchio. I primi abitatori si portano in alto
per sfuggire a invasioni ed epidemie, prima che si insedino sulla riva
destra gli Etruschi e sull’opposta sponda i Sabini. Fino a quando i
Romani non li spossessano entrambi. Più tardi Ponzano e la sua vita
dipenderanno dall’influenza che avrà l’Abbazia di Sant’Andrea in
Flumine poi inglobata fra i beni della potentissima Abbazia di Farfa.
Anche qui ambiente e paesaggio sono quelli, davvero straordinari (e
purtroppo spesso minacciati dall’espansione ininterrotta di Roma) fra la
montagna e il corso del Tevere.
Con Castel San Pietro Romano si va sui Monti Prenestini. Centro storico
e castello notissimi perché sono stati il set cinematografico di film
popolarissimi come “Pane, amore e fantasia” e seguenti. Le origini ci
rimandano al Paoleolitico, ma è con la fine dell’Impero Romano che il
Castrum Sancti Petri emerge come tale divenendo luogo fortificato di
difesa contro le invasioni barbariche. Feudo dei Colonna, ne segue tutte
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le traversie nelle lotte con vari pontefici romani. L’ambiente naturale è
quello del bosco della Valle delle Cannuccete, dal 1995 “monumento
naturale”. Un'area costituita da rocce sedimentarie di origine marina,
calcari e calcari-marmosi, su cui si sono disposti, con discontinuità
areale, prodotti vulcanici. Nella Valle delle Cannuccete il lembo di bosco
superstite ha conosciuto poche alterazioni, attorno ad un sistema di sorgenti
utilizzato in epoca romana. Il bosco è caratterizzato da roverelle,
cerri, carpini, tigli ed aceri. Nei fossi vive la salamandrina dagli occhiali.
Più a est Rocca di Cave: un abitato che preesiste alla Rocca fatta costruire
dai Benedettini per sbarrare il passo nell’850 d.C. ai Saraceni e che
potenzia le difese murarie. L’ambiente storico è proprio quello del
Medio Evo romano di periferia, rustico e orgoglioso. Tutt’attorno
boschi e sottoboschi, lungo il Sentiero della Scogliera Corallina di Valle
Cupa (qui nella protostoria c’era il mare), un autentico museo a cielo
aperto con rocce calcaree ricche di fossili marini, che studiosi di ogni
Paese sono venuti ad analizzare.
Più a levante ancora, Olevano Romano, arroccato un tempo sulle sue
mura ciclopiche di cui restano taluni tratti fra le case del primo terrazzamento
del paese in salita verso Monte Celeste. Anche Olevano rientra
fra i beni posseduti dai monaci benedettini, in questo caso da quelli di
Subiaco. Stupendi i panorami dall’alto di Olevano Romano tante volte
ritratti dai pittori stranieri in particolare dal grande Jean-Baptiste Camille
Corot. Rinomato anche il suo vino rosso, un “Cesanese” doc, che un
tempo nelle osterie romane si spillava direttamente dalle botti. Famosa
la Serpentara, secolare bosco di querce, anch’esso andato per l’Europa
coi disegni di Gustave Dorè per la dantesca “Commedia”.
Ecco Affile che presenta mura pre-romane erette quale difese verso
Ernici ed Equi, poi inglobati da Roma. L’impianto del borgo, in parte
insediato sul castrum romano, è medioevale legato alle lotte fra famiglie
di cardinali e di papi. Paese sempre insofferente al giogo papalino, Affile
accoglie anche Garibaldi nel 1849. Anche qui troviamo le essenze
tipiche dell’antico bosco italico e cioè farnie, querce, roverelle, lecci alle
quali si uniscono piante da frutto come il nocciolo. In un ambiente dei
più belli di questo Appennino, con l’”orrido” del Pertuso dove si getta
il torrente Carpine.
Il viaggio sui Prenestini termina, a levante, a Pisoniano, alta su di un
colle, dalla romana famiglia di Lucio Calpurnio Pisone una villa del
quale è stata identificata nel sito archeologico. Il Comune ebbe nel 2004
dalla Provincia di Roma uno dei Premi “Antonio Cederna” per la cura

con cui era tenuto il centro storico, per il singolare Museo della Canapa,
che dava conto in modo attento di una importante tradizione locale, e
per il progetto “Archelogia e handicap”.
A Castel Madama, poco sopra Tivoli, chiuso dai monti Tiburtini ad est,
dai Lucretili a nord e dai Prenestini a sud, ha inizio un altro itinerario,
verso i Simbruini. La Madama è sempre lei, quella di Villa Madama a
Roma, Margherita d’Asburgo sovrana illuminata che anche qui dimorò
nel ‘500. Un nome quindi “recente” rispetto alla storia plurisecolare dell’insediamento.
Fa da spartiacque fra la valle dell’Aniene e quella del torrente
Empiglione. Nei suoi corsi d’acqua abitano specie rare come
l’Ululone dal ventre giallo e la Lampreda.
Più a nord compare Saracinesco il più minuscolo e il meno popolato dei
Comuni visitati dal nostro rilevamento. Ha sfiorato i 900 residenti nel
1911, oggi è sui 170. Il nome racconta dell’origine altomediovale, cioè
della sua fondazione ad opera di un gruppo di Saraceni scampati alla
sconfitta del 915, stanchi di vagare e insediatisi su questi monti sopra la
valle dell’Aniene a circa 900 metri. E’ contornato da boschi e pascoli
con faggete e quercete, e quindi cinghiali, volpi, istrici, tassi, faine, e i
grandi rapaci come la poiana, talora l’aquila.
Sempre nell’area della grande abbazia di Subiaco si erge Anticoli
Corrado, di origine romana, poi feudo degli Antiochia da cui Anticoli.
Nel secolo XIII è stato aggiunto Corrado in omaggio al figlio e successore
di Federico di Antiochia, signore della città. Uno dei centri storici
più belli e visitati della provincia romana, ben presto scoperto da pittori
importanti, da Corot a Kokoschka e da poeti come Raphael Alberti,
tanto da guadagnarsi il titolo di “paese degli artisti e delle modelle”. Alto
sulla Valle dell’Aniene e in vista dei Monti Ruffi è caratterizzato da una
vegetazione ricca di essenze pregiate e di selvaggina d’ogni genere, una
zona di grande tranquillità e frescura.
Se Saracinesco è il meno popolato dei Comuni che stiamo visitando,
Marano Equo è quello dal territorio più ridotto. Luogo di acque dove
sono state ritrovate antiche mura e vasche termali di epoca romana. Ma
soprattutto la località dalla quale scaturisce la famosa Acqua Marcia
definita da Plinio “carissima aquarum omnium” e “dono degli Dei per
Roma”. In effetti da qui prendeva direttamente le acque e il nome il
terzo acquedotto di Roma antica. Una pietra miliare attestante la sua distanza
da Roma è stata ritrovata nel ‘600 nell’alveo dell’Aniene. Due le
riserve naturali di Marano Equo (in ricordo degli Equi): la riserva delle
Foci dello Stella e della laguna in cui si versa e quella della Valle Canal
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Novo.
A Rocca Canterano la storia documentabile comincia poco dopo l’anno
mille ed è legata all’abate francese Uberto di Subiaco, il quale ordina qui
la costruzione di una fortificazione per contrastare Landone di Civitella,
un tiranno, forse campano, scomunicato con Ildemondo dal papa nel
1081. Uno dei centri storici più pregevoli fra questi monti coperti interamente
da boschi di lecci, di roverelle, più in basso di castagni e soprattutto
dal carpino nero. Nella fauna entrano anche cervi e caprioli, mentre
in cielo si alzano il nibbio bruno, la poiana, il gheppio e lo sparviero.
Siamo al più alto fra i Comuni di quest’area così verde e montagnosa:
Cervara infatti sta a 1100 metri di altitudine ed è avvolto nel più completo
silenzio perché le sue stradine tutte a scalette sono così erte che
nessun mezzo motorizzato può inerpicarvisi. Anch’esso, come Anticoli
Corrado, ha avuto ospiti importanti, come il poeta spagnolo Raphael
Alberti esule dalla natia Spagna durante il franchismo. Il primo documento
riguardante questo abitato singolare è datato 21 agosto 883 ed è
l’atto di donazione del “mons qui vocatur Cervarius” all’Abbazia, allora
dominante, di Subiaco. Il centro storico è caratterizzato dalla Scalinata
degli Artisti, una delle tante che salgono verso l’alto. Cervara si apre sul
Parco regionale dei Simbruini, trentamila ettari al confine fra Lazio e
Abruzzo. Dove ricompare anche il lupo e qualche volta l’orso marsicano.
Altro paese benedettino è la vicina Arsoli la cui storia comincia con un
convento fortificato dell’Ordine benedettino, che diventa quindi castello
dei Passamonti, degli Zambeccari e poi dei romani principi Massimo.
Oggi ha il nome di Castello Massimo con alcune sale affrescate dai
fratelli Zuccari. Anche l’ambiente e il paesaggio circostante sono
davvero belli, con boschi e selve che si alternano a radure, coltivazioni e
pascoli. La catena dei Simbruini inizia tra Arsoli ed Oricola, sullo spartiacque
tra la valle dell'Aniene ed il lago del Turano.
Principali vette, i Monti Calvo (1591 metri) che domina i campi carsici
del Livata e di Campaegli, Autore (1855 metri) e poi, al di là della profonda
incisione della valle del Simbrivio che sale da Vallepietra al
Santuario della SS.Trinità, le maggiori elevazioni dei Monti Tarino (1961
m), Cotento (2014 m) che domina Campo Staffi e Viperella (1836 m).
In pieno Parco regionale dei Simbruini (dal latino Sub Imbribus, sotto
le piogge) costituito con grande fatica nel 1997 fra forti polemiche, zona
anche carsica, pochissimo popolata dove si sono girati tanti “Western
all’italiana”, sorge Camerata Nuova paese del tutto nuovo costruito a

partire dal 1859 dopo che un disastroso incendio aveva quasi totalmente
incenerito l’antica Camerata, un bel centro storico, col castello, a 1.220
metri di altitudine. Qui si trova la fauna tipica del vicino Abruzzo, due
branchi di lupi e qualche orso marsicano, ma anche aquile oltre alle
poiane e ai falchi così frequenti sull’Appennino.
Ultima tappa verso sud-est: l’area dei Castelli anzitutto, gli antichi Colli
Albani. Di cui fanno parte due dei “nostri” Comuni: Monte Compatri e
Rocca Priora, il centro storico più alto dei Castelli Romani, coi suoi 768
metri, della zona ricompresa nel Parco regionale dei Castelli istituito nel
1984 fra non poche difficoltà e dibattiti essendo già la zona, purtroppo,
altamente urbanizzata e quindi compromessa rispetto a quella che nel
‘600 era considerato il miglior rifugio dalla “cattiva aria” dell’Agro
divenuto malarico. Monte Compatri risale ai guerrieri Labicani. Poggia
su suoi cinque borghi uno dei quali, Borgo Ghetto, coincide con l’abitato
più tradizionale. Posta sulla Via Labicana ha subìto, dopo la fine
dell’Impero romano, tanti assalti distruttivi, primo fra tutti per violenza
quello dei Saraceni. Il paesaggio è quello tipico dei Castelli Romani:
uliveti, vigneti, castagneti e, più in alto, sul Monte Salomone, il classico
bosco italico che diventa, più in basso, macchia mediterranea.
Rocca Priora è il più alto, il più fresco e d’inverno, spesso, il più nevoso
dei Comuni dei Castelli (celebri in antico le sue “neviere” e frequentato
il santuario della Madonna della Neve). Viene dal medioevale Castrum
Arcis Perjuriae edificato su di una antica città degli Equi e poi dei
Romani. Posizione strategica per avere il controllo dell’area di Tuscolo.
Il paesaggio era un tempo caratterizzato da estese faggete di cui rimangono
alcuni lembi, sostituite dai castagneti. In ciò che resta delle antiche
foreste è ricomparso il lupo e sono presenti il tasso e l’istrice. Nella
Macchia della Faiola fu tristemente celebre nell’800 la banda di grassatori
che faceva capo al bandito Gasperone o Gasbarrone.
Con Artena si va verso i Monti Lepini e si incontra una cittadina
popolosa il cui centri storico cinto da mura è rimasto uno dei più singolari.
Nel senso che nessun mezzo motorizzato può risalire le sue strade
e stradine, percorribili, con le merci, soltanto da uomini e muli, come
secoli fa. Come quando si chiamava Montefortino, Monsfortinum. Ci
sono resti di una comunità preromana e vi sono ruderi di ville di epoca
romana. Artena è passata alla storia con la famiglia Borghese. Prima lo
spregiudicatissimo cardinal Scipione (creatore della magnifica Galleria
Borghese a Roma), poi Camillo che proprio qui sposa la splendida, e
infedele, Paolina Bonaparte. L’affaccio sui Monti Lepini è dei più belli,
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un paesaggio di vaste faggete verdeggianti e di rigogliosi querceti.
Ancor più a sud-est si alza, sulla media collina, Montelanico, da
Methellanicus dalla famiglia dei Metelli. Del borgo si hanno notizie nel
Medio Evo e sono notizie di continue contese fra potere ecclesiastico e
potere laico, a colpi di Bolle papali e di spade sguainate. Dal punto di
vista paesaggistico e ambientale, in una zona caratterizzata dal Monte
Lupone, è significativa l’Oasi di Montelanico, istituita negli anni ‘60.
Estesa per circa 3.000 ettari, si sviluppa fra i Comuni di Carpineto
Romano, Montelanico, Segni. Da anni tuttavia il Consiglio Nazionale
delle Ricerche, la Società Botanica Italiana, numerose associazioni ambientaliste
e la stessa XIII Comunità Montana dei Monti Lepini chiedono
la creazione di un Parco Naturale Regionale. Oltre alla presenza di
qualche lupo è stata rilevata anche quella del Gatto Selvatico (Felis silvestris)
e della martora (Martes martes). Da questo altopiano ricco di
castagneti si scende poi verso l’Oasi di Ninfa nella tenuta dei Caetani e
verso il Tirreno, dove i pastori si dirigevano a piedi per le antiche vie
della “mena delle pecore”.
A Segni i resti delle mura ciclopiche parlano di origini risalenti a
Tarquinio il Superbo. Le porte di accesso, come la Porta Saracena,
richiamano uno stile etrusco. Ma tante altre sono le testimonianze di
Roma, a cominciare dall’Acropoli con la chiesa di San Pietro edificata su
di un tempio pagano. Non a caso c’è qui un importante museo archeologico
dove sono esposti i risultati delle campagne di scavo. Il paesaggio
circostante è quello descritto poco fa per la confinante Montelanico
sotto il dominante Monte Lupone.
Nella vicina Gorga, che già ha forti parentele con la vicina Ciociaria, a
cominciare dall’antica tradizione della pastorizia, sono state scoperte
due necropoli di età imperiale, una delle quali nell’Orto dei Frati presso
la chiesa extra-moenia di San Domenico. Un borgo aggraziato anche per
la posizione alta e soleggiata. Di cui si comincia a parlare nel 1088 in
connessione ai tenimenti di Anagni, con una dipendenza alla lunga
insostenibile dal monastero e dal Comune di Villamagna, contro il quale
i gorgani si ribellano rendendosi autonomi. Nel paesaggio gorgano si
staglia verso l’alto il bosco di faggi, querce e aceri. Terreno fortemente
carsico con “inghiottitoi” e grotte, come quella di San Marino.
L’ultima tappa di questo rapido viaggio fra questi 30 Comuni, per lo più
alto collinari e montani, della Provincia di Roma è, a sud-est, Carpineto
Romano. Dal suo nome si evince che il carpino è il re di questi boschi
dei Monti Lepini. Un borgo, Karpineta, che s’ingrossa con la fuga verso

l’alto di popolazioni vessate dalle continue invasioni. Diventato famoso
per aver dato i natali a Vincenzo Gioacchino Pecci nato nel 1810 da una
tipica famiglia dell’aristocrazia di campagna, eletto quale Leone XIII nel
1878, papa storicamente importante votato a rompere l’isolamento al
quale il predecessore, Pio IX, aveva condannato la Chiesa. Fra le sue 86
encicliche, una è rimasta nella storia: la Rerum Novarum (1891), con la
quale vengono definite le linee di fondo della dottrina sociale della
Chiesa e si prepara l’ingresso dei cattolici nella politica italiana. Splendidi
anche qui i paesaggi con l’acero rosso a macchiare i verdi dei carpini e
dei lecci, con un’idea di Parco che per ora non decolla.
Un patrimonio dunque, questo della parte più alta della Provincia di
Roma, che va meglio difeso continuando nella ricerca storica, anzitutto
in quella archeologica che può dar luogo a nuove scoperte e sorprese,
nella ricerca archivistica (di qui l’importanza di conservare bene e rendere
fruibili gli archivi, quelli comunali e gli altri parrocchiali e vescovili),
proseguendo nella ricerca su dialetti, usi, tradizioni, pubblicando i
risultati di tali studi per farli conoscere alle generazioni più giovani in
modo da accrescere l’orgoglio di essere cittadini di centri minori e però
ricchi di storia e di beni artistici e paesaggistici. Nel mondo globalizzato
è indispensabile riscoprire e rivalorizzare i caratteri dell’identità locale,
regionale e nazionale (da noi così sfaccettata e composita). Non per
rinchiudersi in essa. Sarebbe vecchio provincialismo o ammuffito
municipalismo. Ma, al contrario, per affrontare in modo più consapevole
le sfide della globalizzazione, per non finire omologati e annegati in
modelli e in stili di vita che ci sono del tutto estranei. Dobbiamo sapere
meglio da “dove veniamo” e “chi siamo” anche per un altro motivo: il
nostro Paese è diventato “importatore” di braccia e di giovani da
“esportatore” di manodopera che era: si calcola che siano stati oltre 30
milioni gli italiani emigrati dall’Unità agli anni ’70 del Novecento, con
punte di 7-800.000 negli anni prima del 1915. Gli stranieri, indispensabili
alla nostra economia, sono ormai più di 4 milioni e mezzo, assai
numerosi anche nel Lazio e nelle aree esterne Provincia di Roma (dove
trovano casa più facilmente oltre tutto, a Ponzano sono già il 17 per
cento dei residenti). Tutto ciò pone seri problemi di integrazione o
anche di coabitazione fra etnie tanto diverse per provenienza, cultura,
religione spesso, costumi di vita. Essere più consapevoli della propria
identità consente di affrontare anche tali questioni in modo meno incerto
e meno inquieto, con la serenità di chi sa da dove viene e come si è
formata la società, la comunità nella quale è cresciuto e vive. Ha pien-
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amente ragione Giuseppe De Rita quando afferma che nei centri medi
e minori questi processi risultano meno drammatici che nelle grandi
aree metropolitane, soprattutto nelle disagiate e disservite periferie
urbane più immediate e degradate.
Molto di tali processi di integrazione o di convivenza si gioca sul terreno
della cultura e della scuola primaria dove i figli degli immigrati sono
ormai numerosi, in qualche caso i più numerosi. Formarli alla storia
antica e contemporanea della Nazione italiana, a quella delle regioni e
dei piccoli centri in cui sono destinati a crescere diventa quindi fondamentale
per rendere queste acculturazioni meno difficili e provvisorie.
La metropoli poi tende ad “esportare” nelle campagne e nei suoi centri
anche le peggiori abitudini: l’immondizia sui bordi delle strade, le auto
inservibili abbandonate qua e là, l’incuria verso tutto ciò che è bene pubblico,
servizio pubblico, utilità pubblica. Si insinua così nelle campagne
e nei suoi borghi tradizionali una sottocultura che non è né urbana né
rurale, una sorta di “meticciato” che impasta emarginazione, violenza,
ghettizzazione, degradazione morale e sociale (4).
Il Comune può, anzi deve essere l’elemento essenziale di questa nuova
Italia regionale e locale. Non lasciato solo ovviamente, come dal versante
governativo spesso avviene. Ma reso responsabile e dotato dei
mezzi necessari per un autentico ridisegno della società a livello di base,
in una dimensione intercomunale. In questo discorso si inseriscono gli
altri punti indicati all’inizio fra quelli strategici e cioè: a) la tutela attiva,
il recupero, il restauro a fini residenziali anzitutto inquadrati nel paesaggio,
in questi casi collinare e montano; b) una politica dei trasporti collettivi
di respiro metropolitano e regionale, nell’area di Roma monca e
insufficiente.
Lo strumento fondamentale di riferimento, paesaggistico e territoriali,
dovrebbero essere, in base alla legge Galasso del 1985 e in base al
Codice per il Paesaggio Urbani (rivisto dai ministri Buttiglione e Rutelli),
i piani paesaggistici regionali. Purtroppo la situazione laziale non è stata,
e non è, delle migliori nell’uno e nell’altro caso. Allo stesso modo anche
gli strumenti urbanistici comunali non sempre risultano adeguati. Invece
questi borghi, queste città murate possono venire meglio conservate e
quindi fruite, e però ci vogliono prescrizioni più precise, per esempio sui
materiali da usare, e più tempestive. Cercando di evitare lo spettacolo
sconsolante di paesaggi che, a quanti si affacciano dalle mura, non
offrono alcun “bel vedere”, ma i cubi e cubetti bianchi di una villettopoli
disordinata e irrazionale che porta arrogantemente in campagna i guai e

i guasti della peggiori periferie urbane.
1 – CENSIS- Paesaggio e beni culturali per la valorizzazione del territorio,
Numero 11, novembre 2003.
2 – Daniela Primicerio: Dossier archeologia, Quaderni del Circolo Rosselli, 1994.
Aggiornato al 1996 e riprodotto ne “I beni archeologici in Italia”, a cura di
Vittorio Emiliani e dell’Ufficio Studi del TCI, 1997.
3 – Mario Torelli: “Così 2500 anni fa Roma punì la città ribelle”, “Repubblica”,
30 luglio 2010.
4 – Cfr. l’introduzione del sociologo Tullio Tentori al volume collettaneo “Italia
rurale”, a cura di Corrado Barberis, Laterza, 1988, con uno scritto dell’economista
Giovanni Cannata e mio sul travagliato Parco dei Simbruini (“Un sistema fragile”).
Fra i rilevamenti dei beni culturali spiccano l’esperienza realizzata dalla
Soprintendenza alle Gallerie di Bologna (Cesare Gnudi, poi Andrea Emiliani)
nelle Valli del Reno, del Santerno, ecc. riportata nei Diari di lavoro a partire dal
1969 e i Manuali del Territorio (Val Nerina, Spoleto, Terni, ecc.) promossi dalla
Terni, presidente Gian Lupo Osti, coordinati da Bruno Toscano,1977 e segg. Altre
indagini sull’architettura rurale a cura di Marina Foschi in Romagna, con prefazione
di Lucio Gambi. Infine straordinario repertorio sull’Alta Valle del Tevere
a cura di Edoardo Detti, realizzato dagli arch.Gian Franco Di Pietro e Giovanni
Fanelli, EPT di Arezzo.
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Monterano, la chisa
di San Bonaventura
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Cervara di Roma,
‘Notturno per Cervara’

Trenta centri
mille storie
di Pino Coscetta
Trenta Comuni da raccontare con le parole e le immagini. Un viaggio
materiale lungo tre mesi, tra l’autunno e l’incipiente inverno, che si
trasforma in un simbolico viaggio nel tempo passato, nella storia, nelle
tradizioni, nei dialetti, nella cucina locale, nelle curiosità, nelle tante cose
da vedere, dai castelli alle semplici case passando attraverso le struggenti
architetture di chiese, conventi, mura ciclopiche e cinte murarie che
hanno resistito agli attacchi degli invasori e alle ingiurie del tempo.
Parole e immagini che in simbiosi, raccontano l’esistente e l’esistito. Un
viaggio alla scoperta di trenta realtà profondamente diverse tra loro.
Trenta centri diversi, ‘unici’ ma al tempo stesso uguali, caratterizzati da
un comune denominatore che li unisce: l’amore per la conservazione e
l’orgoglio per l’appartenenza.
L’altra bella scoperta è rappresentata dall’interesse dei giovani verso il
proprio paese e ciò che rappresenta. Qualcosa di più e di diverso del
vecchio e superato campanilismo muove un profondo desiderio del fare,
del collaborare, dell’essere presenti e attivi per il bene comune. Basta la
presenza del fotografo per formare capannello, proporre scorci, lanciare
idee, chiedere la dovuta attenzione per gli angoli dimenticati dalle
‘cartoline istituzionali’. Anche gli amministratori, sindaci, assessori, consiglieri
e dipendenti comunali hanno fornito la più ampia collaborazione
alla realizzazione delle schede che seguono mettendo a disposizione
esperienze, ricordi personali, progetti, speranze, documenti e pubblicazioni.
Li ringraziamo per averci fatto scoprire una provincia viva, attiva
e piena di cose da vedere. Trenta occasioni da non perdere.
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Affile>>>>>
Lo skyline di Affile all’ora del tramonto

La storia
Le prime notizie certe dell’esistenza di Affile risalgono al primo secolo
dopo Cristo e si devono a Frontino che cita il territorio tra le centurie
affidate a privati in virtù della legge del 133 a.C. L’altra storia, quella
scritta dagli archeologi, parla di mura preromane poste a confine tra
Ernici ed Equi che sarebbero state erette dai primi antenati degli attuali
affilani. Soltanto più tardi, arrivano i romani che, secondo costume,
inglobano il territorio rispettando usi e costumi delle popolazioni esistenti
a patto che la fedeltà verso Roma non venga mai meno. L’Affile,
per così dire romana, si doveva trovare nella zona orientale del paese
dove oggi si apre piazza San Sebastiano. Presso la chiesa di San Pietro
sono stati riportati alla luce tratti di mura e una cisterna romana. Sullo
stesso sito, nel X secolo, sorgono le chiese di Sant’Angelo supra cisternam
e Santa Maria di Affile. A questo punto, ma siamo già oltre l’anno
Mille, spunta il nome del ‘castrum’ dell’Affile medievale, quella citata nel
1013 tra i possedimenti di Ildemondo di Affile, capostipite della famiglia
del futuro papa Alessandro IV, i cui discendenti detengono il feudo
fino al 1109, quando papa Pasquale II lo conquista con la forza, costringendo
Ildemondo e i suoi a riparare nella più sicura Ponza (l’attuale
Arcinazzo Romano), lasciando la cittadina in balia dell’esercito papalino
guidato dallo stesso papa e dall’abate di Subiaco i quali, dopo un primo
impulso di mettere a ferro e fuoco l’abitato, rinunciano alla scellerata
impresa rendendosi conto che distrutte le case sarebbe venuta giù anche
la cinta di difesa.
Il papa conquistatore cede il feudo all’abate del monastero di Santa
Scolastica di Subiaco, ma l’abile e potente Ildemondo contratta una resa
che gli consente di mantenere, in buona sostanza, potere e beni sui feudi
di Affile e Ponza. L’abbazia rientra nella piena proprietà del feudo soltanto
nel 1176 e la conserva per gran parte del medioevo. A quel periodo
risalgono la torre di Affile e la chiesa di Santa Maria, databili attorno
al XIII secolo. In quel periodo i componenti l’Universitas di Affile, tengono
le loro riunioni nella piazza antistante la chiesa di Santa Felicita,
Agorà ideale per decidere le sorti del paese, ma anche centro sociale e
religioso.
Nell’anno 1759 Affile è l’epicentro di un violento terremoto. A quell’evento
luttuoso è legato il culto della Madonna del Giglio. Un culto
fino a poco tempo fa affidato alla sola tradizione orale ma oggi, grazie
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al ritrovamento di una cronaca di quei terribili giorni, sostenuto da
prova documentale. Scrive l’anonimo estensore: ‘Brevis Notitia ne vetusta
Imagine SS.mae Mariae Virginis ne Lilio Cuius aedicula jacet extra moenia
Oppidi Aphilarum in via del Pozzico. Anno nostrae Reparatae Salutis millesimo
septingentesimo quinquagesimo nono ...’ Ovvero: ‘Breve racconto sulla antica
immagine di Maria Vergine Santissima del Giglio, la cui cappella giace al
di fuori delle mura del castro di Affile, in via del Pozzico. Nell’anno della
nostra riacquistata Salvezza 1759…’ E prosegue: ‘il giorno 3 di agosto,
minacciando un terribile sussulto di terremoto, ripetutosi per tre volte, di distruggere
dalle fondamenta il castro di Affile, gli abitanti, oppressi dal terrore e fuggenti via
nottetempo dalle case per evitare il rischio dei crolli, avevano quasi abbandonato ogni
speranza..’. A questo punto s’innesta il cosiddetto miracolo della
Madonna del Giglio. Gli abitanti in fuga arrivano davanti ad un’edicola
della Madonna posta fuori le mura del paese e, disperati, invocano salvezza.
Sotto l’immagine della Vergine si trova un mazzo di gigli, secchi
e riarsi che, davanti alla gente in preghiera, riacquistano freschezza e turgore.
A rafforzare l’idea del miracolo -sempre secondo il racconto dell’ignoto
cronista- subentra la subitanea guarigione di una giovanetta sordomuta
che all’istante riacquista parola e udito. A memoria di quel miracolo
e della restituita fiducia, gli abitanti decidono di erigere una cappellina
al centro del paese, e proclamano la Madonna del Giglio compatrona
di Affile assieme a Santa Felicita. La cappella, così come oggi la vediamo,
fu eretta tre anni dopo il sisma, nel 1762, con i fondi della comunità
e benedetta dal Vicario, cinquantuno anni dopo, il 30 luglio del 1813.
La rivoluzione francese porta anche da queste parti un vento di moderata
libertà e fratellanza. Si pianta il simbolico albero di Maggio, circola
qualche berretto frigio, ma molti comuni sono diffidenti verso il cambiamento.
Affile, invece, abbraccia l’idea rivoluzionaria e subisce l’attacco
dei papalini che tra il 5 giugno e il 16 luglio del 1799, riportano l’ordine
e restaurano il governo pontificio.
Prima del periodo napoleonico, e della conseguente abolizione dei diritti
feudali, Affile passa, sempre attraverso il papato di turno, a due nobili
famiglie romane, gli Altieri e i Braschi. Il 22 aprile del 1849, durante la
breve parentesi della Repubblica Romana, arriva ad Affile anche
Giuseppe Garibaldi accolto con grandi feste e un bicchiere di ‘cesanese’.
Gli affilani che mal digeriscono le imposizioni del papa re, il 17 settembre
del 1870, tre giorni prima della ‘breccia’ di Porta Pia, issano al
centro della piazza il tricolore anticipando, sia pur di poco, l’annessione
al Regno d’Italia.

La chiesa di Santa Maria
al Belvedere
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I colori del centro storico

Da vedere
La chiesa di Santa Felicita, ora parrocchiale, è citata nelle decime solo
a partire dal XIV secolo, quando sulla sua piazza si riuniva l’Universitas
di Affile e la chiesa stessa era al centro del ‘castro’, medievale. Volendo
seguire lo sviluppo urbanistico del paese, il riferimento non può che partire
dalle tre chiese simbolo: la paleocristiana San Pietro, la medievale
Santa Maria e la tardomedievale Santa Felicita. Intorno a queste tre chiese
e ai loro periodi si svolge lo sviluppo urbanistico, ma anche sociopolitico,
di Affile. Per tornare alla parrocchiale nel 1827 subisce una
prima radicale trasformazione con l’aggiunta di una navata, sulla destra
della chiesa, con la relativa cappella di Santa Felicita dove, sotto l’altare,
è collocata l’urna con le reliquie della Santa. Nella chiesa, fino agli anni
‘50 dello scorso secolo, esisteva un organo del famoso ‘maestro organaro’
Cesare Catarinozzi che in uno sciagurato tentativo di smontaggio
andò pressoché distrutto. Oggi un comitato si sta adoperando per realizzare
una ‘copia d’epoca’ del famoso organo Catarinozzi.
Organo della chiesa di Santa Felicita. L’organo di Santa Maria in Via
Lata, a Roma, è opera di un geniale ‘maestro organaro’ di Affile, Cesare
Catarinozzi, esponente di una delle due famiglie di ‘organari’ (l’altra era
quella degli Spadari), che da questo piccolo centro hanno portato la loro
arte in tante chiese dell’Italia centrale. Oltre Roma, anche a Napoli, a
Cassino e Anagni, hanno conosciuto il genio di questi poderosi maestri,
altissimi artigiani di questi strumenti per musica sacra, così bravi nel
creare unici armonici suoni tanto che, ancora oggi, esiste il termine
‘Registro Principale Catarinozzi’. Il nome dei Catarinozi (Giuseppe,
Cesare, Giovanni e Cesare II), sta all’organo come Stradivari sta al violino.
L’altro genio delle sacre armonie, lo Spadari, potrebbe essere il
Guarneri del Gesù dell’organaria affilana. Il Comitato per la copia
d’epoca del famoso organo Catarinozzi, oltre alla ricostruzione dell’organo
di Affile, si ‘prefigge di fare un catalogo degli strumenti rimanenti
in Italia, catalogo che si articolerà in una sezione fotografica, una
sezione descrittiva e tecnica, ed una sezione fonica con registrazione su
cassetta dei campioni timbrici di tutto il materiale e strumenti esistenti e
reperiti’. Un’opera meritoria e un contributo alla conoscenza di questa
importante branca della musica.
La chiesa di San Pietro, nel vecchio cimitero, certamente la chiesa più
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antica del paese, si trova sull’omonimo colle e risale all’epoca paleocristiana.
Fondata sui basamenti di un tempio pagano, citata per la prima
volta da Gregorio Magno, la versione giunta a noi, frutto di molti rifacimenti,
è databile intorno al XV secolo. Molto interessanti gli affreschi,
in particolare quello raffigurante il primo miracolo di San Benedetto (la
balia del Santo era di Affile ed è raffigurata accanto a San Benedetto col
Vaglio rotto e il castro di Affile sullo sfondo), ma anche gli altri, una
Natività, una Deposizione dalla Croce e una Madonna col Bambino,
non sono da meno. Gli affreschi, attribuiti ad un ignoto maestro umbro,
sono datati 1473.
La chiesa di Santa Maria. Le prime notizie certe su questa chiesa risalgono
al 1005, ma la sua attuale struttura è frutto di due successivi interventi,
il primo nel XIII secolo, il secondo nel XVI, per accrescerne la
capienza allungando l’aula che ancora oggi appare fuori asse. Un recente
restauro operato dalla Soprintendenza alle Belle Arti del Lazio, ha
messo in luce alcuni affreschi, databili al XIV sec., coperti da successivi
affreschi del XVI e XVII secolo. Sopra l’altare maggiore un affresco
raffigurante la Madonna con il Bambino circondata da angeli e, in basso,
i componenti di una confraternita, poi alcuni frati. In basso a sinistra è
emerso il particolare di un precedente affresco raffigurante una santa
con la palma del martirio. L’estradosso dell’arco ospita scene della vita
di Maria. La chiesa è utilizzata principalmente per matrimoni e, per la
sua eccezionale acustica, è sede di prove della corale di Affile.
La chiesa di San Rocco. Deliziosa cappellina cinquecentesca, ad aula
rettangolare con soffitto a volta a botte, situata all’angolo di Piazza San
Sebastiano, conserva sulla parete di fondo un bell’affresco mirabilmente
restaurato dalle Belle Arti nel 1978, di autore ignoto ma databile intorno
al 1500.
Le Mura Poligonali. La continua espansione del borgo murato, rende
difficile la collocazione della prima cinta muraria che, comunque, sdovrebbe
corrispondere col complesso di case di via della Torre. Le
costruzioni poste sul ciglio del precipizio erano sicuramente il primo
baluardo di difesa al quale si accede da una porta interna all’attuale Porta
della Valle. Lo stesso campanile di Santa Felicita, eretto verso il 1176,
doveva far parte dell’antica cinta murata. La crescita demografica, tra il
1500 e il 1600, porta a nuove costruzioni che, addossate alle preceden-

ti, spostano più a valle la prima fascia del borgo murato. La Porta della
Valle, infatti, risale al XIV secolo mentre l’avancorpo della chiesa di
Santa Felicita è posteriore al 1615.
L’ambiente
Il patrimonio verde dei monti e delle campagne affilane è dominato da
farnia e roverella, querce e lecci nelle aree più assolate, poi olmi, ornelli
e noccioli che si alternano secondo altitudine e peculiarità del territorio.
Nelle radure essenze arboree tra le più varie, poi frutti di bosco e funghi
secondo stagione. La fauna è altrettanto varia, dallo scoiattolo nero
al ghiro, dall’istrice alla lepre. Quindi cinghiali, volpi, tassi, martore e
faine. Nel cielo volteggiano le poiane, i gheppi, il falco pellegrino e, tra
i volatili notturni, gufi, allocchi e barbagianni. Ma il meglio del meglio la
natura ce lo offre ai confini con il territorio di Roiate dove le acque del
torrente Carpine spariscono nell’inghiottitoio del ‘Pertuso’. Un orrido
profondo e misterioso, una bocca semicircolare scavata dalle acque nella
roccia sprofonda nelle viscere della terra per circa duecento metri, in un
susseguirsi di grotte vaste o bassissime, per riaffiorare nella parte opposta
della collina dove il Carpine durante le piene si getta con fragore
nella valle sottostante.
Feste e Sagre
Gennaio: festa di Sant’Antonio Abate.
Febbraio-Marzo: festa della donna.
Marzo: sagra della polenta e ‘degli zasicchi’.
Venerdì Santo: processione del Cristo Morto.
Maggio-Giugno: processione per il ritorno dei pellegrini dal Santuario
della Santissima Trinità.
Giugno: infiorata del Corpus Domini.
Luglio: festa del Martirio dei figli di Santa Felicita.
Agosto Affilano: prima domenica di agosto: Sagra della Madonna del
Giglio a ricordo del miracolo avvenuto nel 1759. Nel corso del mese
altre iniziative dell’Agosto Affilano.
Settembre: prima domenica Sagra del Cesanese.
Ottobre: seconda settimana, Sagra del ‘Fallone’.
Novembre: il 23 Festa patronale di Santa Felicita. Messa, processione,
fuochi d’artificio e spettacoli vari.
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Piatti tipici
‘Fallone’: pizza di granturco cotta sulla pietra, accompagnata da verdure
e salsicce saltate in padella. Nel corso della sagra è offerta gratis a tutti
gli ospiti.
Fettuccine fatte in casa: Si tratta della classica pasta all’uovo, condita
a piacere col sugo di funghi o di cinghiale.
‘Sagnozzi’: pasta lavorata con sola acqua e farina, tagliata a ‘sagne’ e
condita con sugo aglio olio peperoncino e pomodoro.
Polenta alla cacciatora: polenta condita con sugo di cinghiale o di altra
cacciagione.
Da Roma
Auto: si prende la A24 Roma-L’Aquila fino al casello Vicovaro-
Mandela, poi si percorre la Tiburtina per Anticoli Corrado fino alla
biforcazione per la Sublacense, che si percorre per 23 Km.
Autobus: autolinea Cotral. www.cotralspa.it.
I link
http://www.affile.org
http://www.provincia.roma.it/

Autunno al piccolo belvedere
di Affile
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Allumiere>>>>>
In attesa del ‘Palio’

La storia
Prima di Roma e ancor prima degli Etruschi, il territorio di Allumiere
(e dei monti della Tolfa in generale), è frequentato da abili cacciatori
e pazienti cercatori di tuberi e bacche. Testimonianze in tal senso ci
vengono da piccoli insediamenti preistorici (databili intorno ai 2000
anni a.C.) che restituiscono utensili in pietra e reperti dell’Età del bronzo
legati alla cultura Protovillanoviana. La presenza degli Etruschi, invece,
è comprovata dalle necropoli di Colle di Mezzo e di Bandita Grande,
risalenti tra il VII e il IV secolo a.C. Il periodo romano, da parte sua, è
certificato dai resti di ville rustiche che ci parlano di un’economia basata
prevalentemente sull’agricoltura.
Il lento dissolvimento dell’impero romano, le calate dei barbari, ma
ancor di più le incursioni saracene, segnano gli anni che precedono la
fine del primo millennio. Le incursioni, i lutti causati dalle razzie, l’assenza
di regole e certezze, in quegli anni di confusi ideali, rilanciano gli anacoreti,
gli eremi e, a seguire, un diffuso monachesimo accompagnato da
una febbrile attività edilizia a carattere religioso. Da alcune fonti del
1157 si apprende della presenza del Beato Agostino nel santuario della
Trinità di Allumiere e nell’oratorio della Madonna delle Grazie, dal quale
proviene l’affresco di Sant’Agostino conservato nel Museo Civico e
un’antica lapide in caratteri gotici che si credeva fosse andata distrutta
durante i bombardamenti di Civitavecchia. Una descrizione di questa
lapide si deve al vescovo Palazzi di Corneto (l’attuale Tarquinia), il quale,
nel 1667, parla dell’epigrafe posta dagli agostiniani all’esterno dell’oratorio,
vicino all’acquasantiera, che inizia così: ‘Vetustissimum Monachorum
Eremitarum Coenobium…’. Recentemente da un deposito della chiesa
matrice Santa Maria di Civitavecchia, tra i marmi salvati dalle devastazioni
belliche, è rispuntata l’epigrafe parzialmente citata dal vescovo
Palazzi. L’iscrizione tradotta dal latino certifica: ‘ E’ esistito qui un antichissimo
cenobio di monaci eremiti, che ebbe il nome dalla vicina città di Centocelle e dal
vicino santuario di Santa Severella, nel quale il Beato Agostino prima di far ritorno
in Africa dimorò qualche tempo con quei servi di Dio e ai quali tracciò quelle
norme di vita in comune che vanno sotto il nome di Seconda Regola’. Dunque il
Beato Agostino, stando a quanto riportato dalla lapide, proprio qui nel
territorio di Allumiere, detta e prescrive la Seconda Regola degli
Agostiniani. L’opera dei monaci riporta ordine e, a livello storico, offre
riscontri: la lapide agostiniana certifica la vetustà del sacello-santuario di
Santa Severella che è una delle prime chiese riutilizzate nell’impresa del-
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l’allume e dal 1460 è indicata anche nei documenti ecclesiastici sul sito
dove oggi sorge l’antico borgo della Farnesiana.
La vera ricchezza e soprattutto la sua nascita ‘anagrafica’, Allumiere la
conosce, infatti, soltanto intorno alla seconda metà del 1400 con la scoperta
dei giacimenti di alunite, il minerale dal quale si ricava l’allume di
rocca, un elemento basilare per la lavorazione di pellame e tessuti. La
domanda di allume e lo sfruttamento intensivo dei giacimenti portarono
alla realizzazione di un acquedotto, di una fabbrica per la trasformazione
del prodotto e la creazione di un villaggio minerario chiamato ‘Le
Allumiere’, si devono all’opera di Agostino Chigi il quale, tra il 1500 e il
1520, anticipando i principi che avrebbero guidato la nascita della civiltà
industriale, realizza sul posto un complesso a ciclo completo, dall’estrazione
al prodotto finito, creando anche un villaggio per i minatori
e per le loro famiglie. Così nasce Allumiere.
Per trovare qualche esempio simile bisogna arrivare alla fine del 1700
con le seterie della borbonica Colonia di San Leucio, alla seconda metà
del 1800 con diversi villaggi tra Piemonte e Lombardia nati sulle fortune
di nuove industrie e, più vicino ai nostri giorni, il caso di Ivrea e del
villaggio Olivetti, replicato al Sud presso lo stabilimento di Pozzuoli e in
quello del materano, dove Olivetti impone che nel suo villaggio destinato
agli operai-contadini ci sia posto anche per le stalle dei loro animali.
Nel 1578 l’appalto per l’estrazione dell’alunite passa alla famiglia Olgiati
che, per prima cosa, potenzia l’idea urbanistica di Agostino Chigi realizzando
nuove abitazioni per i minatori e costruendo gli edifici pubblici
come il Palazzo Camerale nel 1580 e la chiesa Camerale nel 1608. Il villaggio
sopravvive alle miniere di alunite, alla crisi ottocentesca e riesce,
infine nei primi anni del 1800, ad affrancarsi, dall’amministrazione del
comune di Tolfa divenendo comune autonomo.
Da vedere
Il Museo-Palazzo della Reverenda Camera Apostolica. Costruito
intorno al 1580 per volontà di Gregorio XIII, come sede degli uffici
amministrativi legati alle attività delle miniere di allume, lo splendido
palazzo ospita il Museo civico Adolfo Klitsche de La Grange, fondato
da Edoardo Toti nel 1956. Al di la della semplice funzione espositiva
(peraltro ricca di circa 4.000 reperti, dei quali solo 1.500 esposti), la
caratteristica peculiare del museo è quella di proporsi come area museale
dell’ambiente e Centro di documentazione del patrimonio preistorico

e naturalistico dell’intero territorio tolfetano. Con chiari intenti didattici
e solido rigore scientifico l’allestimento offre un puntuale spaccato della
storia del territorio attraverso una ricca documentazione archeologica,
paleontologica, naturalistica e, soprattutto, mineraria di questo centro
famoso, soprattutto, per le sue cave di alunite.
‘Il Fabbricone’ di via Roma rappresenta l’esempio architettonico tipico
del primo sviluppo urbanistico di Allumiere, la tipologia principe
delle case dei minatori che ancora agli inizi del 1800 lavorano all’estrazione
dell’alunite. Il lungo edificio risale al 1826.
Santuario di Cibona. Anche questo santuario, deve la sua origine ad
Agostino Chigi, il quale per sua devozione alla Vergine Maria, agli inizi
del XVI secolo, fa dipingere in una nicchia alle falde della cava, l’immagine
della Vergine, che dal nome della selva chiamano Madonna di
Cibona, Il santuario, in effetti viene realizzato alla metà del 1600 dall’architetto
Domenico Castelli, detto ‘il Fontanino’. L’affresco , tagliato
dallo stesso architetto, è traslato nella nuova chiesa il 16 giugno del 1647.
Eremo della Trinità. A circa due chilometri dal centro abitato si trovano
i resti dell’eremo più antico della zona (viene citato in un documento
del 1243) che continua ad ospitare asceti fino al 1818 quando anche
l’ultimo eremita lo abbandona.
Santuario della Madonna delle Grazie. Anche questo santuario deve
la sua origine alla presenza delle miniere di alunite presso una delle quali
viene edificato su una preesistente cappella cinquecentesca nei primi
anni del 1700. A metà del 1800 viene acquistato dal Comune di
Allumiere che nel corso degli anni lo restaura e ristruttura più volte.
Ampliato fin dal 1954, diviene infine Santuario Diocesano. In questo
eremo, come riportato da una lapide recentemente ritrovata, il Beato
Agostino detta la Seconda Regola degli Agostiniani e inizia a scrivere il
‘De Trinitate’.
Chiesa di Maria Assunta. La chiesa camerale, dedicata a Maria
Assunta, sorge al posto di una cappella, per volere degli Oliati nel 1608.
Le due navate laterali sono state aggiunte nel 1857.
Chiesa della Farnesiana. A circa dieci chilometri da Allumiere, quasi
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in completo abbandono, resistono i resti della Chiesa Farnesiana realizzata
nel periodo degli Olgiati nei pressi di un piccolo mulino.
Villa Romana della Fontanaccia. Ad una quindicina di minuti da
Allumiere, in località Fontanaccia, è stata portata alla luce una villa
romana risalente tra il I e il VI secolo dopo Cristo. Il complesso articolato
su quattro terrazzamenti comprende una parte rustica, una residenziale
e un’altra riservata esclusivamente alla produzione.
Le contrade
Le contrade storiche di Allumiere sono sei: Burò, Ghetto. La Bianca,
Nona, Polveriera, Sant’Antonio. Nomi quasi tutti legati alle miniere.
Burò: dal francese ‘bureau’, retaggio della gestione transalpina
dell’Ottocento, prende nome dal luogo in cui erano gli uffici della direzione
delle miniere.
Ghetto: a differenza di quanto potrebbe sembrare non si riferisce all’enclave
dove a quei tempi, a sera, sono rinchiusi i ‘Giudei’, ma è frutto
della contrazione di ‘Borghetto’, il primo nucleo abitato dai minatori di
Allumiere.
La Bianca: Deve il nome al colore dell’allume, è la prima zona dove,
intorno al 1462, si aprono le prime cave.
Nona: così chiamata per la somiglianza delle costruzioni con la ‘Nona’
di Civitavecchia da dove, probabilmente, provengono i minatori che
l’abitano per primi.
Polveriera: toponimo inequivocabile della zona che ospita la torre polveriera
dove si conserva l’esplosivo per le mine.
Sant’Antonio: Deve il nome all’edicola sacra presente nella contrada
dedicata al santo.
Il ‘Palio delle Contrade’
con la corsa dei somari
L’appuntamento è ogni anno per il terzo fine settimana di agosto, quando
i rappresentanti dei sei rioni di Allumiere danno vita al caratteristico
‘Palio delle contrade’ che, oltre alla corsa di 24 ciuchini (quattro per
rione), propone sfilate in costumi cinquecenteschi, giocolieri, sbandieratori,
fuochi artificiali, canti e suoni fino a notte fonda.

L’apertura della gabbie
per il ‘Palio delle Contrade’
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L’orologio sulla torretta del Museo

L’ambiente
I monti della Tolfa, secolari custodi di un ambiente incontaminato,
offrono scenari unici nel loro complesso, tanto da rappresentare una
rarità, non soltanto per il Lazio ma per l’Italia intera. Il territorio di
Allumiere, caratterizzato dalle cave, è anche geloso custode di tradizioni,
agricole, silvicole e pastorali che hanno il merito di mantenere un
rapporto equilibrato tra uomo e ambiente. Macchia mediterranea,’faggete
depresse’ (così chiamate perchè nate ad altitudini inferiori a quelle
abituali), e boschi di latifoglie si alternano a coltivi, oliveti, vigneti e
sconfinati pascoli, regno dei ‘butteri’ della Maremma laziale. La flora è
davvero unica; tra i fiori spiccano le orchidee spontanee, alcune tanto
belle quanto rare. A livello arboreo un particolare cenno lo merita la
Faggeta che si estende su un’area di circa 100 ettari, dove i faggi prevalgono
su cerri, carpini e castagni.
La fauna presente è tra le più ricche della regione: dal cinghiale al lupo,
dall’istrice al tasso, dalla lepre alle volpi, dalle donnole alle faine e via
citando. La cartina di tornasole delle tante specie presenti è data dal più
alto numero di rapaci che volteggiano nei cieli tolfetani: falchi d’ogni
tipo, dal ‘pecchiaiolo’ al ‘pellegrino’, poiane, aquile e avvoltoi (anche il
capovaccaio e il biancone), e tra i predatori notturni, civette, gufi e allocchi
trovano, qui, l’ambiente ideale che garantisce la catena alimentare e
regola la vita sui monti della Tolfa.
L’auspicato Parco Naturale
I monti della Tolfa ospitano un gran numero di varietà di piante, anche
poco diffuse sull’Appennino, ed una ricca fauna selvatica con esemplari
davvero particolari, come il gatto selvatico, la lontra e il lupo.
L’istituzione di un Parco Naturale o di una riserva regionale consentirebbe
la salvaguardia di una delle zone più belle e selvagge dell’intera
regione, minacciata da colate di cemento, brutture e sfregi di varia natura
che già oggi offendono un paesaggio davvero unico nel suo genere.
Al momento l’amministrazione ha istituito la difesa di un’ampia zona
biologica nei boschi circostanti, un primo passo verso l’auspicato Parco
Naturale.
Feste e sagre
Gennaio: il 17 festa di Sant’Antonio Abate. Corsa di cavalli, giochi e
spettacolo pirotecnico.
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Febbraio: ‘Carnevale allumierasco’ con carri allegorici.
Periodo pasquale: ‘Venerdì Santo’, processione del Cristo Morto.
Maggio: Primavera in Maremma. Merca dei vitelli e gare di butteri a
cavallo.
Luglio: concerti, spettacoli e stand gastronomici.
Agosto: il 15 festa di Maria Vergine Assunta in Cielo, patrona di
Allumiere con processione e spettacolo pirotecnico.
Il terzo fine settimana di Agosto ‘Palio delle Contrade’ con sfilata storica
in costume e corsa dei somari.
Settembre: il giorno 8 Festa della Madonna delle Grazie. Processioni di
pellegrini provenienti dai paesi limitrofi sino al Santuario. Iniziative culturali
e sportive.
Ottobre-Novembre: ‘Sagra della castagna e del pane giallo’. Festa della
Merca in zona Cesi della Vacchereccia. Spettacoli e degustazione della
carne biologica maremmana.
Dicembre: ‘Presepe vivente’ per tutto il periodo natalizio e la notte tra
il 23 ed il 24 dicembre in collaborazione con l’Associazione musicale
lungo le vie del Paese viene rappresentata La Pastorella.
Piatti tipici
Acqua cotta e mentucciata, sono caratterizzati dalle classiche fette di
pane di grano duro, presente in tutte e due le ricette, dall’eccellente olio
d’oliva locale, dal peperoncino, dalle patate e dalle altre verdure legate
(specialmente per l’acqua cotta) alla stagionalità. La mentucciata, come
dice il nome, ha come ingrediente principe la saporita mentuccia selvatica
dei monti della Tolfa.
‘Cipollata’. Olio, cipolla, pomodorini, acqua, sale, pecorino grattugiato
e pane di grano duro, sono gli ingredienti che rendono unico questo
piatto che si inserisce a buon diritto nel filone dell’acqua cotta e della
mentucciata.
Pane di Allumiere. Preperato con semola rimacinata di grano duro,
acqua e lievito naturale senza aggiunta di sale, presenta forma a pagnotta
od a filone e pasta interna gialla. La cottura avviene con legna di castagno.

Da Roma
Auto: autostrada Roma-Civitavecchia (A12). Venendo da Roma si percorre
l’Autostrada uscendo a Civitavecchia nord e si prosegue in direzione
Allumiere.
Autobus: gli orari e le tratte per raggiungere il comune di Allumiere tramite
mezzi di trasporto pubblici possono essere scaricati gratuitamente
direttamente dal sito ufficiale della Cotral: www.cotralspa.it.
Treno: non essendo il comune di Allumiere direttamente dotato di stazione
ferroviaria, si può tramite il servizio ferroviario raggiungere
Civitavecchia e da qui proseguire per Allumiere.
Connettiti al wifi gratuito
di Allumiere
Municipio
Piazza della Repubblica 1
I link
http://www.allumiere.org/
http://www.provincia.roma.it/
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Anguillara
Sabazia>>>>>
Anguillara Sabazia: i cigni del lido

La storia
Un villaggio di sponda risalente a 5500 anni a.C. (uno dei più antichi
dell’Europa occidentale), ha ospitato in località ‘La Marmotta’ i
primi ‘anguillarini’ della storia. Di certo, però, gli attuali abitanti di
Anguillara Sabazia non conservano nel loro Dna i mattoncini di quei
neolitici frequentatori, né quelli della ‘Gens Claudia’ che, bontà sua, nel
territorio ha dispensato a piene mani ben altri ‘mattoncini’ sotto forma
di sontuose costruzioni distribuite in tre zone del comprensorio: il complesso
dell’Acqua Claudia, la storica Via Clodia e le cosiddette Mura di
Santo Stefano.
Ad una villa romana inglobata tra le case del Vicolo della Grondarella,
secondo alcuni studiosi locali, si deve il nome di Anguillara Sabazia. I
resti della villa definita ‘Angularia’, risalgono al primo secolo avanti
Cristo e, secondo gli stessi studiosi, appartiene alla matrona romana
Rutilia Polla. Nel vicolo parzialmente coperto a volta di botte, in realtà
è presente una porzione di muro romano in opus reticolatum appartenente
ad una villa romana che però, secondo altri storici del territorio,
non fa parte della villa di Rutilia Polla che invece viene eretta nello spazio
oggi occupato dalla chiesa della Collegiata. Sta di fatto che la villa del
Vicolo della Grondarella, nel suo complesso, occupa il promontorio
cosiddetto ‘Angularium’ che avrebbe dato il nome alla villa e alla città.
Gli Anguillara, feudatari per secoli del tenimento, avrebbero a loro volta
acquisito il nome dalla città e non viceversa, come altre correnti di pensiero
sostengono a lungo nel corso dei secoli passati.
Ecco, l’origine vera di Anguillara Sabazia, parte proprio da quelle ville,
dall’opus reticolatum del Vicolo della Grondarella, dalla villa della
matrona romana Rutilia Polla, da quei mattoni, dai resti delle strutture
romane sulle quali gli anguillarini dell’XI secolo edificano il borgo primigenio.
Risale proprio all’XI secolo l’atto di nascita di Anguillara che
esiste sotto forma di un preciso documento prelatizio nell’archivio di
Santa Maria in Trastevere, datato 2 luglio 1020, nel quale per la prima
volta si parla di Castrum Angularia e di alcuni affittuari locali per uso di
pesca, concessi direttamente dalla Camera Apostolica che cura i beni di
San Pietro.
La famiglia degli Anguillara che per secoli gestisce il feudo, ha il suo
capostipite in Raimone degli Anguillara ma la sua più alta espressione in
Orso, figlio di Francesco dell’Anguillara e Costanza Orsini, il quale, grazie
alle sue indubbie capacità politiche e ad un buon matrimonio con
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una delle Principesse Colonna, riesce ad inserire gli Anguillara nel novero
delle famiglie nobili romane e, cosa ancor più importante, in assenza
del Papa che ha trasferito la sede ad Avignone, gestisce il potere sulla
piazza di Roma trascurando il suo stesso feudo. Orso, nel giorno di
Pasqua del 1341, nella sua veste di Senatore, incorona in Campidoglio,
come Poeta laureato, Francesco Petrarca che poi ospita nel suo castello
di Capranica.
Uno dei figli di Orso, Everso II, sposato con Francesca Orsini, torna ad
occuparsi di Anguillara. La sua gestione, tirannica e disonesta, e peggio
ancora quella del figlio Francesco, costringe il Papa ad intervenire
togliendogli il potere, riportando i territori sotto il controllo della
Camera Apostolica, segregando il giovane despota Francesco nelle
segrete di Castel Sant’Angelo. Sul finire del 1500 il feudo passa a
Virginio Orsini dal quale, grazie ad un esborso di 55.000 scudi, succedono
ai Conti di Anguillara. Per la stessa somma, non a caso, il Papa
Alessandro VI Borgia, acquista il territorio di Anguillara che torna in
possesso degli Orsini soltanto con la salita di Papa Giulio II al soglio di
Pietro e a questa famiglia rimane fino al 1539 quando un altro Papa,
Paolo III, se lo riprende togliendolo a Gentil Virginio II. I passaggi di
mano non finiscono qui, anzi s’infittiscono vedendo al potere, dopo la
morte di Gentil Virgilio, Francesco Orsini che cede la contea a Paolo
Giordano Orsino, celebre capitano di ventura ma anche avveduto uomo
di potere ‘padre’ dello Statuto di Anguillara. Intanto la contea nel 1560
diventa ducato e gli Orsini continuano ad esserne ‘signori’ fin quando a
causa di un dissesto economico vendono il ducato al marchese
Francesco del Grillo che, a sua volta, nel tempo, lo cede agli Odescalchi
i quali, dopo circa un secolo e mezzo passano la mano ai Duchi Doria
Eboli d’Angri. Due anni dopo la Breccia di Porta Pia, Anguillara cambia
nome diventando Anguillara Sabazia, finalmente Comune autonomo.
Da vedere
Palazzo Orsini, oggi sede del Municipio, è inserito in un complesso
fortificato, formato da un torrione con bastioni angolari collegati al
muro di cinta e da un altro bastione circolare. Al suo interno è conservato
un ciclo di affreschi, attribuiti alla scuola di Raffaello, realizzati tra
il 1535 e il 1539 che ornano la stanza della loggia, una sala contigua e il
salone principale.

La Porta all’interno del centro
storico di Anguillara Sabazia
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Il complesso di San Francesco, chiesa più convento, è realizzato
secondo l’architettura essenziale privilegiata dalla regola del poverello di
Assisi: navata unica, presbiterio a pianta quadrata con volta a crociera.
Sulle pareti affreschi di Domenico Velandi, discepolo di Lorenzo da
Viterbo. Il convento si svolge attorno al chiostro al centro del quale,
come costume, è sistemato il pozzo.
Collegiata di Santa Maria Assunta. La chiesa, nota come ‘la
Collegiata’, insiste su di una precedente struttura cinquecentesca a tre
navate che a sua volta è stata realizzata su un altro edificio religioso.
Restaurata a più riprese dal 1700 al 1765, per esigenze di spazio alle due
navate è aggiunta una terza. I lavori si protraggono per un trentennio
ma alla fine torna alla luce ricalcando in buona sostanza la struttura cinquecentesca
con due navate aggiunte. Al suo interno si trovano un pregevole
organo settecentesco restaurato di recente, opera di Domenico
Alari (pronipote di Giacomo, capostipite di una famiglia lodigiana di
organari, famosi anche per gli organi di Santa Maria Maggiore a Roma),
una tela d’altare attribuita a Girolamo Muziano e un quadro cinquecentesco
raffigurante la Madonna di Rocca Maggiore, probabilmente ridipinta.
Museo Storico della civiltà contadina e cultura popolare ‘Augusto
Montori’, sistemato all’interno del Castello Orsini, rappresenta uno
spaccato del mondo pastorale, rurale e ittico di Anguillara Sabazia dagli
inizi del Novecento. Gli attrezzi da lavoro, i macchinari, gli utensili
domestici, i documenti e le fotografie esposte provengono da spontanee
donazioni di famiglie anguillarine che hanno permesso l’allestimento
delle tre sale espositive grazie all’opera dell’associazione culturale
‘Sabate’.
Il Polo museale neolitico o della piroga neolitica è stato realizzato
in località ‘La Marmotta’, dove, nel 1989, è stato portato alla luce uno
tra i più antichi villaggi neolitici di sponda dell’intera Europa
Occidentale. Il villaggio giaceva sotto il limo a 8 metri di profondità e a
360 metri dalla riva del lago. La piroga, rotta in due parti, lunga 9,50
metri, è stata rinvenuta a 12 metri di profondità.
Il Museo Storico dell’Aeronautica Militare si trova a pochi chilometri
da Anguillara, a Vigna di Valle. Nei suoi 4 grandi hangar si possono

ammirare numerosi velivoli storici, le uniformi degli avieri dagli inizi del
volo ad oggi, documenti di grande interesse, cartelloni didattici esplicativi,
modellini delle macchine volanti di Leonardo e, nello shop, ogni
sorta d’oggettistica legata all’arma azzurra.
I siti archeologici
Il complesso dell’Acqua Claudia, distribuito su un emiciclo di circa
90 metri, comprende un’esedra e due ninfei alimentati dalle grandi
cisterne costruite a monte. E’ databile intorno al I secolo avanti Cristo.
La ‘Via Clodia’, seguendo il classico metodo di conquista dei romani
‘prima la strada, poi tutto il resto’ è stata realizzata poco più di duecento
anni prima del suddetto complesso dell’Acqua Claudia, tra la fine del
III secolo e gli inizi del II a.C. per unire Roma alla parte nord-occidentale
dell’Etruria. Non a caso il tracciato segue una più antica via etrusca
allargata e lastricata dai romani che in questo campo non hanno rivali.
Dell’antica Via Clodia è stato individuato ed è ben visibile un tratto di
circa 250 metri, largo 4 metri e mezzo, tra le località Cancelli e Riserva
di Valle Facciano.
Le Mura di Santo Stefano, terzo complesso di questi importanti resti
romani, databile attorno alla seconda metà del II secolo dopo Cristo, è
uno dei monumenti meglio conservati tra quelli presenti in tutto il comprensorio
sabatino, L’area presenta una struttura principale, una cisterna
quadrangolare e resti di una chiesa risalente all’anno Mille. Le epidemie
di colera del 1856 e del 1867, portano alla trasformazione dell’intero
complesso in cimitero dei colerosi.
L’ambiente
Il Parco Regionale di Bracciano e Martignano, in termini di tempo
è l’ultimo nato tra i parchi del Lazio. I due laghi, da soli, con 6000 ettari
di superficie, coprono il 40% dell’intero parco che comprende i comuni
di Bracciano, Trevignano, Anguillara Sabazia e l’agro del comune di
Martignano. I colli che circondano i due laghi presentano pascoli, coltivi
e boschi con faggeti, castagneti e querceti centenari.
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Feste e sagre
Gennaio: Sant’Antonio Abate, processione con la benedizione degli
animali.
Febbraio: festa di San Biagio, patrono di Anguillara Sabazia; Sagra del
Broccoletto; Carnevale anguillarese.
Marzo: ‘Festa di Primavera’.
Maggio. ‘Fieranguillara’: Mostra mercato dell’agricoltura e della campagna.
1° Maggio. ‘Festa dei lavoratori’.
Giugno: festa dell’Immacolata Concezione; Infiorata del Corpus
Domini.
Luglio: ‘Sagra del pesce’. Sagra della Ciambella. Mercatino in Piazza del
Molo. Fuochi artificiali sul lago.
Agosto: ‘Estate Insieme’. Sailing contest. Mercatino. Spettacoli musicali
e di arte varia.
Settembre: nel corso del primo e secondo fine settimana, si tengono la
festa della Madonna delle Grazie e Palio di San Biagio con il corteo storico
in costume, l’esibizione di sbandieratori e tamburini.
Dicembre: il ‘Natale anguillarino’ è caratterizzato dal Presepe subacqueo
e dalla Mostra mercato delle arti antiche e nuove.
Piatti tipici
Anguilla al peperoncino: Anguilla tagliata a listarelle e cotta al forno
con un misto di sedano, cipolla, limone e peperoncino precedentemente
saltati in padella. A cottura ultimata, cospargere con pecorino fresco.
Broccoletti. La gastronomia locale, legata al frutto della pesca, non vive
di solo pesce. Una verdura in particolare è diventata il simbolo di
Anguillara: i broccoletti. A loro, tra l’altro, è dedicata l’importante sagra
‘Broccoletti in Piazza’.
‘Taccalacci ai broccoletti e sarciccia’. Impasto ammassato con sola
acqua e farina, cotto in acqua e condito con broccoletti e salsiccia ripassati
in padella.

Da Roma:
Auto: Statale Cassia verso Monterosi, Campagnano seguendo le indicazioni
per Anguillara. Seguire la Cassia per la via Baccianese, deviando
poi a destra seguendo le indicazioni stradali per Anguillara Sabazia.
Treno: Anguillara Sabazia è sulla tratta Verona Viterbo, servita da treni
veloci che partono da Roma dalla stazione Ostiense.
Autobus: servizio Cotral: www.cotralspa.it.
Connettiti al wifi gratuito
di Anguillara Sabazia
Bar ‘The Scorpion’
Via Reginaldo Belloni
PIT esterno PIT
Via Reginaldo Belloni
Tennis club Vigna di valle
Via Comunale Del Lago
Agriturismo Zugarelli
Via Di San Francesco
I link
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Anticoli
Corrado>>>>>
L’interno del Museo
di Anticoli Corrado

La storia
a un giorno verranno altri critici e vedranno nella mia opera quello che molti
‘Moggi non vedono… Continuo sempre a vivere tra il garofano e la spada. Ieri
sono andato ad Anticoli Corrado, che si affaccia sulle alture della Valle
dell’Aniene’. Così scrive in un frammento delle ‘Canzoni dell’Alta Valle
dellp’Aniene’ il poeta Raphael Alberti, uno tra i tanti ospiti illustri di
questo antico presepe, arroccato su uno sperone roccioso alle pendici
dei Monti Ruffi, chiamato Anticoli Corrado.
Conosciuto come ‘il paese dei pittori e delle modelle’, Anticoli Corrado
è più ricco di storia di quanto possa apparire. Dagli albori dell’uomo
nella Valle dell’Aniene ai nostri giorni non è passato secolo senza che
qualcosa di rilevante abbia mutato, nel bene e nel male, il territorio anticolano.
Le stesse origini del nome ‘Antikuis’, presente in un’iscrizione
greca del VII secolo su una lapide rinvenuta fuori Porta Pinciana, a
Roma, fa pensare ad un sito già allora considerato storico, almeno per
vetustà. La lapide con la scritta ‘Fundus Anticu(l)is’, è l’elenco dei beni
di proprietà del monastero romano di Sant’Erasmo al Celio. Come giustamente
riportato da Tullio De Mauro e Raffaella Petrilli nel capitolo
‘Storia civile e linguistica’ del volume ‘Un paese immaginario, Articoli
Corrado’ (scritto a più mani per il Poligrafico dello Stato), ‘…casali o
chiese situate in quel luogo chiamato Anticuus continuano a comparire
negli elenchi dei possedimenti e delle donazioni fatte al monastero di
Farfa, uno dei più grandi e potenti, insieme a Subiaco, di tutto il Lazio
medievale’.
A sostegno di quanto sostenuto dai due studiosi, potrebbe bastare una
bolla papale dell’Anno 817, promulgata da papa Stefano V. Il nuovo
papa, figlio di un patrizio romano chiamato Adriano, cardinale ai
Santissimi Coronati esordisce con una ‘miracolosa’ vicenda: subito dopo
l’elezione, avvenuta all’unanimità in virtù della grazia e dell’impegno
dimostrato dal nuovo papa nei confronti del popolo romano e dell’Agro
(a quei tempi flagellati da una persistente siccità, dalle cavallette e dalla
carestia), è ben vista dalla popolazione e, come si vede, propiziata dagli
eventi. Narrano le cronache che al momento di lasciare i Santissimi
Coronati per raggiungere la vicina Basilica Laterana, su Roma e
sull’Agro, a ciel sereno, si scatena un violento nubifragio che distrugge
le cavallette, mette fine alla siccità e fuga la carestia. Un miracolo della
natura. Papa Stefano, per il popolo, è il papa giusto.
Per la storia di Anticoli Corrado è, più semplicemente, il papa della Bolla
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Il portale e l’interno
della chiesa di San Pietro

che conferma tra le proprietà del monastero di Sant’Andrea in Flumine
di Ponzano Romano, un ‘casalicum qui nominatur Anticuus’. In un altro
manoscritto, il Regesto Sublacense dell’XI secolo, conservato nella
biblioteca di Santa Scolastica a Subiaco, in margine ad una donazione del
Duca e Console Cesario a favore dell’Abate Stefano, al rigo 14 del Folio
9, si legge ‘il fundum vocatur Anticulu’. Un altro documento databile
intorno al 997, usa per la prima volta il termine ‘castellum qui appellatur
Anticulum’. La genesi del nome, da ‘Antikuis’ ad Anticuus ed infine
Anticulum, appare dunque inconfutabile. La seconda parte del suo
nome, Anticoli la deve ad una delle famiglie più potenti che lo ha avuto
in feudo: gli Antiochia. Discendente diretto degli Hohenstaufen, il nobile
casato di Federico Barbarossa, Federico d’Antiochia, figlio naturale
del Barbarossa, sposa Maria, figlia di Giovanni Conti di Poli. Nel contratto
di matrimonio, Giovanni Conti di Poli, concede allo sposo la contea
d’Alba in Abruzzo e tre castelli: Saracinesco, Rocca dei Murri e
Anticoli. Il primo figlio della coppia è chiamato Corrado e, in suo omaggio,
viene aggiunto al toponimo Anticoli il nome di Corrado il quale, per
linea diretta, è nipote di Federico Barbarossa e cugino del celeberrimo
Corradino di Svevia che, non a caso, alla vigilia della fatale battaglia di
Tagliacozzo, è ospite degli Antiochia ad Anticoli Corrado.
Sempre per intervento papale, dagli Antiochia, il feudo passa prima ai
Principi Colonna, poi ai Barberini, nuovamente ai Colonna, quindi per
asse ereditario agli Sciarra Colonna ed infine ai Colonna di Paliano che
lo detengono a lungo.
Nel 1700 la scure papale si abbatte sui Baroni restii a pagare le gabelle
pontificie. Per Anticoli, direttamente sui principi Colonna di Paliano. A
farne le spese, tanto per cambiare, è il popolo di Anticoli Corrado sul
quale i feudatari di turno scaricano il peso del ‘Taglione’ imposto
dall’Apostolico Visitatore monsignor Fisimbo Marabottini,
La pressione fiscale unita ad una carestia senza precedenti, svuota
Anticoli Corrado e le sue campagne: in quarant’anni, dal 1742 al 1782,
la popolazione passa da 1118 abitanti a 498 ‘anime’. Per avvicinarsi ai
livelli del 1742 bisogna aspettare l’800 e i primi del ‘900, punta massima
il 1911 con 2.061 abitanti. Il censimento del 2001 ha fatto registrare 977
residenti, 12 in più del 1701.
Al di la dei numeri squisitamente anagrafici, Anticoli Corrado tra il 1800
e la seconda metà del 1900, a livello culturale conosce un periodo d’oro.
Grandi pittori come Nino Costa e molti dei XXV della Campagna
Romana, ma anche artisti stranieri come il francese Corot, il danese
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Gioco di riflessi sull’acqua
della fontana di Arturo Martini

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Bredal, lo svizzero Stuckelberg, lo spagnolo Barbasàn. A fine ‘800 arrivano
Giulio Aristide Sartorio e Adolfo De Carolis che sposa l’anticolana
Lina Ciucci. Nel ‘900 è la volta di Pietro Gaudenzi, da Genova,
Ferruccio Ferrazzi (romano acquisito ma originario della vicina Castel
Madama), Nino Bertoletti, Angelo Zanelli, lo scultore statunitense
Maurice Sterne, la pittrice lettone Elisabetta Kaehlbrandt, il grande
Oscar Kokoschka, l’americano Creo e tanti altri artisti. Tra poeti e uomini
di lettere uno per tutti: Raphael Alberti.
Nel 1935 ad Anticoli Corrado si contano 55 studi di pittori. Tanto fermento
influenza anche i locali. Accade per Orazio Amato, figlio del farmacista
Michele, Margherita Toppi, Pasquarosa Marcelli e Giovanni
Ciucci e altri. Il meglio lo raccolgono modelli e modelle, gente del popolo,
contadini, boscaioli, artigiani e casalinghe che diventano ‘modelli di
studio’ e garantiscono ad Anticoli Corrado, l’appellativo di ‘paese degli
artisti e delle modelle’.
Da vedere
La chiesa di San Pietro, è una chiesetta piccolina, risalente all’XI secolo,
che conserva al suo interno affreschi databili dal ‘200 al ‘600, un bel
pavimento a mosaico cosmatesco inserito al centro di una ben restaurata
pavimentazione in cotto antico. L’impianto, ad aula rettangolare absidata,
a sinistra dell’altare maggiore presenta una cappella dedicata alla
Madonna e, a destra, un’altra dedicata a Gesù; nelle vele, residui di affreschi
appena accennati. Tre travature a sesto acuto danno gran garbo al
complesso facendolo sembrare più grande di quanto in realtà non è.
Due plutei, poco distanti tra loro, uno cosmatesco e l’altro di più semplice
struttura, dividono l’officiante dai fedeli. Altri affreschi bellissimi,
come dicevamo poco sopra, ornano questo autentico gioiello medievale,
affreschi che il grande critico d’arte Federico Zeri definisce ‘…un
riflesso di Piero della Francesca’. Non è poca cosa.
Museo d’Arte Moderna. Palazzetto Brancaccio, donato al Comune dal
principe Marcantonio Brancaccio, dopo i restauri finanziati dalla
Regione Lazio e dalla Provincia di Roma fin dagli anni ‘80, eseguiti dall’architetto
Sergio Rappino, da Palazzo Baronale è diventato sede del
Museo d’Arte Moderna che, oltre ad accogliere le opere donate dai pittori
che hanno operato in Anticoli Corrado, ospita interessanti mostre
di arte contemporanea. Nei tre piani di questo splendido museo di pri-

missimo ordine di artisti del calibro di Giulio Aristide Sartorio, Emilio
Greco, Oscar Kokoschka, Andrea Spadini, Orazio Amato, Ferruccio
Ferrazzi, Raphael Alberti e tantissimi altri. Da solo vale un viaggio in
questo bellissimo e ben curato paese.
Palazzo Brancaccio/Gaudenzi. Il complesso che ospita il Museo di
Arte Moderna, una volta era un tutt’uno con l’attiguo Palazzo Gaudenzi.
Agli inizi del secolo scorso la famiglia Gaudenzi acquista dai Veroli la
parte di palazzo che quest’ultimi hanno in precedenza acquistato dai
Brancaccio. Da allora il palazzo, seppur unito fisicamente, risulta diviso
in due distinte proprietà dando vita così da una parte a Palazzo
Gaudenzi e dall’altra, all’originario Palazzo Brancaccio.
La fontana di Arturo Martini, sulla piazza delle Ville, cuore pulsante
di Anticoli Corrado, dà corpo alla piazza e, con la sua ‘scalinata’ a spirale,
invita a girarle intorno, a guardarla, ad apprezzarne le linee pulite e
ispirate che, superando la mera funzione terrena di fontana civica, ne
fanno una grande opera d’arte. Sulle sue acque, quietamente mobili, si
specchiano la piazza, i palazzi che la circondano e il cielo, formando
nell’acqua un caleidoscopio di immagini, una sorta di video-installazione
‘ante litteram’ gestita dalla natura e arricchita dall’ambiente circostante.
L’Ambiente
Sono tre i tipi di paesaggio che caratterizzano l’Agro di Anticoli
Corrado: il fiume Aniene, l’omonima valle e i Monti Ruffi. Il fiume
Aniene, nascosto da una fitta vegetazione fatta di alti pioppi, salici, carpini,
aceri e ricche siepi dove trova rifugio il veloce Martin Pescatore,
nelle sue acque, a queste latitudini ancora pulite, ospita due pregiate specie
di trote: la Fario e l’Arcobaleno. A far compagnia alle trote ci sono
le anguille e qualche Barbo. Il fiume, che accoglie le acque di torrenti e
fossi locali, segue il sinuoso andamento della Valle alla quale dà il nome
e, in ultima analisi, gran parte di vita. Dal fiume, infatti, nasce la rigogliosità
delle terre circostanti, caratterizzate da canneti, boschetti, orti,
prati e coltivi. Una tavolozza di verdi diversi che nascondono lo stesso
fiume alla vista degli escursionisti che, comunque, prima ancora di
vederlo ne sentono il suono limpido e cristallino più della stessa acqua
che possono scorgere affacciandosi sulle rive, tra le siepi e i canneti che
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per lunghi tratti lo accompagnano.
I Monti Ruffi, da parte loro, per altezza non reggono il confronto con i
poco distanti cugini abruzzesi, il picco più alto è quello di Costasole che
vanta 1251 metri sul livello del mare. A ruota segue il Monte Rufo
(1124) chiamato anche Monte Roffo e, nella parte di Sud-Est Monte
Scrima. Nel suo complesso la montagna anticolana ha il pregio d’essere
poco battuta dall’uomo e quindi, tolti i periodi di caccia, zona tranquilla
per la fauna locale che è costituita essenzialmente da cinghiali, tassi,
volpi, faine, martore, scoiattoli, ricci, istrici e altri animali di piccola
taglia. Nel cielo falchi e poiane si alternano merli, fringuelli, passeri e tra
gli stagionali, tordi, tortore e storni.
Piatti tipici
‘Cazzaregli’. Pasta ammassata con farina di grano e granturco. Condita
con un sugo leggero di pomodoro, aglio, olio e peperoncino.
‘Pizze fritte’. Focaccine fritte nell’olio, molto basse, realizzate in due
versioni: dolce o salata.
‘Ciambelle all’anice’. Le classiche ciambelle all’anice che accompagnano
un buon bicchiere di vino locale per chiudere in dolcezza un lauto
pasto.
Olio d’oliva. Vanto della Sabina, l’olio extravergine dell’Agro di
Anticoli Corrado (ricco di oliveti), non teme confronti ed è possibile
acquistarlo anche presso i numerosi frantoi locali.
Feste e Sagre
Gennaio: ‘Presepe vivente’.
Febbraio: sfilata di carri allegorici per il Carnevale.
Venerdì Santo: rievocazione della Via Crucis.
Luglio-settembre: ‘Estate anticolana’.
15 agosto: Maria Santissima Assunta, con la processione dell’inchinata.
Settembre: festeggiamenti della Madonna del Giglio e di San Rocco.
23 dicembre: festa di Santa Vittoria, patrona del paese.
25 dicembre: la Natività e le feste natalizie.
Curiosità
Nel 1969 Anticoli Corrado è stato scelto dal regista Stanley Kramer
come location per girare il film ‘Il segreto di Santa Vittoria’, con un cast

internazionale composto da attori italiani e stranieri, tra i quali Anna
Magnani, Anthony Quinn, Virna Lisi, Renato Rascel e Giancarlo
Giannini.
Da Roma
Auto: prendere l’autostrada A24 Roma-L’Aquila in direzione
dell’Aquila. Uscita al casello Vicovaro-Mandela.
Treno: linea Roma-Sulmona. Partenza da Roma Tiburtina fino alla stazione
di Vicovaro Mandela. Bus navetta per Anticoli Corrado.
Autobus: con autolinee Cotral Roma-Arsoli o Roma-Subiaco. Partenza
da Metro Ponte Mammolo. www.cotralspa.it.
Connettiti al wifi gratuito
di Anticoli Corrado
Museo di arte Civica e
Contemporanea
Piazza Santa Vittoria 1
Ristorante "Al vecchio
Mulino"
Piazza delle Ville
I link
http://www.anticoli-corrado.it/
http://www.provincia.roma.it/
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Arsoli>>>>>
Arsoli e la Valle dell’Aniene
sotto la nebbia

La Storia
ile, tu uccidi un uomo morto’, la storica frase pronunciata da
‘VFrancesco Ferrucci nei confronti di Fabrizio Maramaldo sulle
scale di casa Battistini a Gavinana, è ascoltata, molto probabilmente, da
un arsolano che a Gavinana combatte al fianco del Ferrucci: Amico
Passamonti d’Arsoli, professione condottiero; lo stesso che durante la
battaglia di Magliano dei Marsi accetta la sfida a singolar tenzone di
Scipione Colonna e lo uccide. Ed è sempre lui, il 17 febbraio del 1508,
affiancato dall’Abate di Farfa, che entra a Roma, sorprende gli ultimi
Lanzichenecchi che stanno portando a termine il famoso ‘sacco’ e li
massacra tutti. La fine di Amico d’Arsoli è legata a seimila ducati; tanto,
infatti, paga Marzio Colonna per ‘comperare’ da Carlo V il prigioniero
e consumare l’ingiusta vendetta per la morte del cugino Scipione il
quale, come direbbe Andreotti, sfidando a duello uno più forte di lui, ‘se
l’era andata a cercare’. A ricordo delle gesta del condottiero arsolano
ogni anno, a giugno, ad Arsoli si svolge ‘Il Palio dell’Amico’, con sbandieratori,
arcieri, duellanti e folcloristico corteo storico. Su tutta questa
storia e sull’intero abitato di Arsoli domina, possente, la mole del castello
dei Principi Massimo.
Eretto come convento fortificato dai Benedettini nell’XI secolo, il
castello viene acquisito dai Passamonti, poi dalla famiglia Zambeccari
ed infine, nel 1574, acquistato dai Principi Massimo, come riporta un’apposita
scritta nell’armeria del castello, su suggerimento di San Filippo
Neri, allora non ancora Santo ma padre spirituale dei Massimo che, a
futura memoria, fanno imprimere l’epigrafe: ‘DIVI FILIPPI NERI
CONSILIUM / FELICITATEM / DEDIT ET SERVAVIT’. In effetti
‘Pippo bbono’, come lo chiamano a Roma, consiglia l’acquisto del
castello a Fabrizio Massimo per il figlio Paolo il quale, cagionevole di
salute, può così beneficiare dell’aria salutare di Arsoli. Purtroppo Paolo
non arriva a goderne, muore ed entra nella storia con il suo temporaneo
ritorno in vita nel momento stesso in cui Filippo Neri entra nella sua
stanza. ‘Pippo bbono’ parla a lungo con il redivivo, lo confessa, lo assolve
dai suoi peccati e, alla fine, lascia che renda l’anima ai Santi. E’ uno
dei miracoli decisivi per il processo di beatificazione del futuro San
Filippo Neri, nel corso del quale i Principi Massimo si dimostrano testimoni
fondamentali.
L’arrivo dei Principi, fa conoscere ad Arsoli e agli arsolani il più profondo
significato della parola Rinascimento. Fabrizio Massimo, come i suoi
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Dietro le piante
spunta il murales

successori, si rivela feudatario magnanimo e lungimirante. Restaura chiese
avvalendosi dell’opera di un architetto di grido, Giacomo Della
Porta; dà il via a notevoli migliorie nel castello chiamando lo stesso
Della Porta e pittori del calibro dei fratelli Zuccari (Marco Benefial
verrà chiamato dai successori), nello stesso castello apre una farmacia
ancora oggi esistente, edifica un acquedotto per portare l’acqua in paese,
apre cantieri e fabbriche. In breve, dà lavoro. E ai lavoratori ‘regala’ le
corporazioni dei mestieri. Da Principe illuminato, poi, decide di dotare
Arsoli di uno Statuto moderno ed efficiente. Anche in questa occasione,
come si usa dire, non si fa guardare dietro, affidando nel 1579 l’incarico
al giureconsulto Luca Peto, revisore degli Statuti di Roma.
Dimostrando poi un rispetto verso la popolazione (a quei tempi poco
usuale), affianca all’illustre giureconsulto un elemento locale, Carlo Belli,
che è delegato espressamente dalla comunità nel corso di un’assemblea
tenuta nella chiesa di San Lorenzo.
Nel 1653, favorito dalla rinuncia dei fratelli maggiori Angelo e Filippo,
Fabrizio Massimo diventa ‘Signore di Arsoli’, dimostrandosi anche lui
prodigo nei confronti degli arsolani. Appena tre anni dopo l’acquisizione
del feudo, Fabrizio Massimo si trova ad affrontare la terribile pestilenza
del 1656 che colpisce Roma e si propaga per tutto il Lazio. Arsoli
ne resta decimata. Il Principe interviene dispensando aiuti ma la popolazione
è falcidiata dal morbo. Nel 1660, il Principe Fabrizio, a ricordo
di quella terribile pestilenza fa murare una lapide sul muro della vecchia
canonica dove ancora oggi si legge: Alessandro VII sommo pontefice/
Fabritio de Massimi Barone romano Signore d’Arsoli/ doppo cento
vinti nove anni cioè dal MDXXVII nel quale la peste/ così atrocemente
incrudelì in Arsoli che lasciò quasi vote d’habitatori/ tutte le case l’anno
poi MDCLVI della nostra redentione/ vivendo gli habitatori non
tanto per la salubrità dell’aere quanto/ per la clemenza de padroni felicissimi
di novo facendo fiera/ stragge la crudele pestilenza in Roma, et
in altri luoghi con vicini/ portata dal fato in questa terra d’Arsoli con
tanta violenza/ accese il fuoco del suo contagioso morbo,che in brevissimo
spatio/ di due mesi soli cioè dalli XXIIII di luglio sino alli XXIIII
di settembre/ estinse quasi tutti gli abitanti perché di novecento ne rapì/
sette cento cinquanta cinque/ onde per avvertimento e per cautela de
posteri è stata lasciata/ questa memoria l’anno della nostra salute
MDCLX.
Dall’avvento dei Massimo (tolta una parentesi tra il 1700 quando il
castello è venduto ai Zambeccari e i primi del 1800 quando viene riac-
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quistato dai Massimo), la storia di Arsoli viaggia di pari passo con quella
della nobile famiglia che, nel bene e nel male, si fa carico di tutto:
pestilenze, carestie, scorrerie di Briganti (sul finire del 1500 la Banda di
Marco Sciarra assedia il castello ma fallisce l’impresa), carboneria, periodo
napoleonico, restaurazione, caduta dello Stato della Chiesa, Unità
d’Italia e due Guerre Mondiali, l’ultima delle quali porta Arsoli sulle
pagine dei libri di storia per la poco edificante fuga dei Savoia i quali,
lasciato Umberto - il Re di Maggio - al Quirinale, vengono ospitati nel
castello dei Massimo per pernottare prima di riprendere il viaggio verso
Pescara e Ortona a Mare dove li attende la corvetta Baionetta che fa
rotta verso l’Egitto, prima tappa dell’esilio di Vittorio Emanuele III.
Da vedere
Il Castello Massimo, nasce come convento fortificato intorno all’anno
Mille per ospitare la comunità dei Benedettini provenienti dalla casa
madre di Subiaco. I monaci, dopo circa 200 anni, vendono la struttura
fortificata ai Passamonti che conferiscono al maniero un aspetto meno
conventuale e più guerresco. Nel 1536 i Passamonti cedono il castello
all’emergente famiglia Zambeccari che, a causa di un tracollo finanziario,
nel 1574 vende a sua volta ai Principi Massimo.
All’interno del castello, ricchi mobili del Cinquecento, preziose pitture
della famiglia Massimo, una splendida sala d’armi, una cappella ingentilita
da un protiro gotico e da una decorazione cosmatesca. Di rara bellezza
sono le sale affrescate dai fratelli Zuccari e quella del Benefial,
dedicata ai Fasti dei Massimo, tutte due al piano nobile dove si apre un
sontuoso giardino all’italiana che introduce al vasto parco dove, circondata
da alti pini, al sommo di una fonte, si trova la statua di Roma che
ornava Villa Massimo nella capitale.
La chiesa Parrocchiale, dedicata al Santissimo Salvatore, d’origine
medievale ma ricostruita da Giacomo Porta nel 1574, conserva al suo
interno una copia della Sacra Sindone realizzata nel 1635 e un dipinto
raffigurante Nostra Signora di Guadalupe, donata ai Massimo da un
gesuita messicano nel 1790. L’altare maggiore ospita una bella tela attribuita
al Domenichino, raffigurante la Trasfigurazione; sul lato destro del
presbiterio ‘La caduta sotto la Croce’ con Gesù in primo piano, la
Madonna e alcuni soldati a cavallo. Sul lato sinistro una ‘Flagellazione’.
Un’altra tela a tutto sesto (a lunetta) del Benefial raffigura San Filippo

Uno scorcio del castello
dei Principi Massimo
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Neri e Paolo Massimo nel momento del famoso miracolo. Tra le altre
opere presenti al suo interno meritano un cenno la tela della Cappella di
San Pietro, raffigurante l’apostolo; la monumentale macchina processionale
contenente l’immagine della Madonna di Guadalupe, compatrona
di Arsoli; il Pulpito ligneo settecentesco con lo stemma dei Massimo;
l’altra macchina processionale con la statua di Sant’Antonio Abate; e,
infine, la tela raffigurante la ‘Madonna del Rosario’ nell’omonima
Cappella. A sinistra della chiesa, murata sulla parete della vecchia canonica,
una lapide fatta apporre da Fabrizio Massimo nel 1660, ricorda la
terribile peste di quattro anni prima che ad Arsoli fece un’ecatombe: dei
900 abitanti se ne salvarono soltanto 145.
La chiesa di San Bartolomeo annessa all’omonimo convento, risale al
1574 ma, nel corso dei secoli ha conosciuto diversi restauri, alcuni radicali,
come quello deciso e finanziato dal francescano Giuseppe Aymon
che l’appesantisce con fregi barocchi. Nell’altare maggiore il Martirio di
San Bartolomeo, opera del pittore romano Vincenzo Milione, datata
1774; la pala è sovrastata da un medaglione di più antica fattura. Molto
bella la tela del Morani (1929) raffigurante San Francesco. Sopra l’ingresso
della chiesa, un vecchio organo a canne.
Il Palazzo Comunale, ex convento di San Bartolomeo, fa corpo unico
con l’omonima chiesa. Ristrutturato più volte nel corso dei secoli, conserva
in quella che per anni è stata l’aula consiliare un dipinto di
Alessandro Morani del 1912, ‘Incipit vita nova’ e un sipario di
Frununangeli del 1910. Recentemente l’aula è stata ripristinata a teatro e
la sala Consiliare è stata trasferita al piano superiore.
La chiesa di San Lorenzo, in cima a Borgo San Rocco (oggi in restauro),
per la sua vastità è proposta dal Vescovo di Tivoli come Parrocchiale
ma alla fine non se ne fece nulla. In questa chiesa avvenne la famosa riunione
nel corso della quale la popolazione di Arsoli scelse Carlo Belli
come proprio delegato per la stesura dello Statuto di Arsoli. Sulla tela
d’altare il Martirio di San Lorenzo. Gli attuali restauri hanno riportato
alla luce interessanti affreschi.
La Cappella di San Rocco, piccolo ma importante scrigno d’arte
situato nell’omonimo Borgo, conserva un ciclo di affreschi di un ignoto
pittore sublacense vissuto tra il quattro e il cinquecento chiamato,

grazie a questi dipinti, ‘Il Maestro di Arsoli’. Critici e studiosi hanno
dibattuto l’attribuzione dei dipinti della chiesetta di San Rocco legandola
all’attività di Desiderio da Subiaco ma altre correnti di pensiero, guidate
dalla professoressa Paola Nardecchia che ha dedicato approfonditi
studi a questi dipinti, ritengono che l’autore del ciclo di San Rocco sia
di molto superiore per qualità e stile del sublacense Desiderio. Gli affreschi
di San Rocco rappresentano sulla parete frontale la Crocifissione,
sulle pareti laterali la Vergine e i Santi, sulla volta i quattro Evangelisti
con i rispettivi simboli.
L’ex asilo San Filippo Neri, commissionato dalla principessa
Francesca Lucchesi Palli, in Massimo, è realizzato nel 1874 dall’architetto
Fontana. La nobildonna, per finanziare in proprio i lavori dell’asilo da
donare alla città di Arsoli, vende tutte le sue gioie. Nel corso dell’ultima
guerra è utilizzato come ospedale militare tedesco. Oggi ospita il Centro
di documentazione delle Arti e Tradizioni Popolari.
I murales del centro storico, alcuni dei quali veramente belli, ornano
alcuni angoli del paese. Gli autori sono quasi tutti artisti locali che, con
le loro composizioni, hanno voluto rendere omaggio ad Arsoli e ai suoi
ospiti. Di particolare bellezza un agricoltore con il suo somaro spunta
vicino alla porta di una casa e si perde tra le foglie delle piante, il bastone
dello spazzolone, una scopa e lo straccio da terra, simbiosi perfetta
tra la casa e la composizione artistica divenuta parte integrante del
caseggiato.
L’ambiente
Per definire l’ambiente che circola Arsoli basta leggere i toponimi di
alcuni sentieri e dei luoghi dove il verde domina su tutto: Pian
dell’Acero, oppure, il sentiero del ruscello Bagnatore. Boschi e radure
contendono il passo a coltivi e pascoli. Le montagne vicine offrono faggete,
castagneti, boschi misti frequentati dai lupi e anche da qualche orso
che sconfina dai vicini monti d’Abruzzo. Un patrimonio ambientale
pressoché incontaminato consente escursioni davvero uniche. Tra i percorsi
naturalisti consigliati, scelti tra quelli di difficoltà media, meritano
un cenno il Percorso delle Are, gli slarghi dove si trebbiava il grano con
i cavalli, il Sentiero del Pozzo del diavolo, lungo il corso del torrente
Bagnatore, e il Sentiero delle Macchie, una bella passeggiata tra i boschi
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che separano Arsoli da Cervara di Roma e Riofreddo.
Feste e Sagre
Gennaio
6: la ‘Befana dei bambini’.
17: festa di Sant’Antonio Abate. Segue la benedizione degli animali e la
distribuzione delle ciambelle della fratellanza.
Febbraio
‘Carnevale arsolano’: maschere, castagnole, frappe e ‘ciammellette fritte’.
Marzo/Aprile
Venerdì Santo: Sacra rappresentazione della Passione.
‘Festa della Primavera’ con la ‘Sagra della Pizzafritta’. Gastronomia locale,
musica e antichi mestieri.
Maggio
Ultima domenica del mese ‘Fiera di San Filippo’. Mostra mercato di
merci varie, bestiame e prodotti dell’artigianato.
‘Festa della Santissima Trinità’. Pellegrinaggio a piedi al santuario del
Monte Autore.
Giugno
‘Festa del Corpus Domini’ con infiorata per le strade.
Ultimo fine settimana del mese, Palio dell’Amico. Rievocazione medievale
delle gesta del condottiero Amico d’Arsoli.
Agosto
Mezz’agosto, Festa di Maria Santissima Assunta con processione
dell’Inchinata.
16: festa di San Rocco.
24: festa di San Bartolomeo, Patrono di Arsoli e annessa Fiera. Mostra
mercato di merci, bestiame e prodotti artigianali.
28 e 29: festa di Nostra Signora di Guadalupe, Compatrona di Arsoli.
Settembre
Settimana dell’arte e del folklore. Annesse Sagra della Fagiolina
Arsolana e Rassegna gastronomica.
Ottobre
Ultima domenica del mese: ‘Fiera di Santa Incoronata’. Mostra mercato
di merci, bestiame e prodotti dell’artigianato.
Dicembre
12: festa di Nostra signora di Guadalupe.

Dal 24: iniziative e manifestazioni natalizie. Presepi all’aperto.
26: ‘Ju pressepio nostro’ Rappresentazione vivente della Natività.
Piatti tipici
Ciammelle della fratellanza: ciambellone realizzato con farina, uova,
latte, olio di oliva, semi di anice, lievitato e biscottato in acqua bollente,
poi cotto al forno a legna. E’ il dolce che ogni confraternita dona ai confratelli
nel giorno della festa del Santo. Peso e grandezza sono stabiliti
dagli antichi statuti. Il donarla e riceverla è segno di fratellanza ed amicizia.
Ciciarchiole: E’ una zuppa di fagioli con pasta fresca fatta in casa e
tagliata a quadrucci. La ‘Sagra delle ciciarchiole e della fagiolina arsolana’
si svolge la terza settimana di agosto o la prima di settembre.
Cillitti co’ j’agliu: pasta con farina di grano, acqua e poco albume di
uovo, tagliata molto stretta, larghezza e spessore si equivalgono; condita
con sugo fatto con olio, aglio, pomodoro; è servita sulla spianatoia o
su piatti di legno di forma rettangolare chiamate ‘scifette’.
Frascaregli: si fanno cuocendo in acqua la farina di grano ridotta in
granelli; serviti nella spianatoia come la polenta, sono conditi con sugo
a base di aglio, olio e pomodoro.
Frittegli de patane: si ottengono con impasto di farina, patate schiacciate,
uva passita, zucchero e rhum, tagliate a losanghe e fritte in olio
bollente. Solitamente venivano preparati per la vigilia di Natale insieme
a ‘fritteglia cogli broccoli’ e ‘frittegli cogliu baccalà’.
Tisichelle: dolcetti gustosi e delicati ottenuti battendo uova, zucchero,
qualche seme d’anice e pochissima farina. L’impasto preso a cucchiai e
deposto in teglie si cuoce al forno ed assume una forma rotonda e
schiacciata
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Da Roma
Auto: prendere l’autostrada A24 Roma-L’Aquila in direzione dell’Aquila.
Uscita al casello Vicovaro-Mandela. Proseguendo per altri 10 km sulla
Statale Tiburtina fino ad Arsoli
Treno: linea Roma-Sulmona con partenza da Roma Tiburtina.
Autobus: con autolinee Cotral Roma-Arsoli o Roma-Subiaco. Partenza da
Metro Ponte Mammolo. www.cotralspa.it.
Connettiti al wifi gratuito
di Arsoli
Municipio
P.za Martiri Antifascisti 1
Polizia Municipale
Via Cesare Battisti
I link
http://www.comunediarsoli.rm.it/
http://www.prolocodiarsoli.it/
http://www.provincia.roma.it/

Una veduta panoramica del Castello
dei Principi Massimo
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Artena>>>>>
La teoria di muli con la spesa
per gli abitanti del centro storico

La storia
Arrivi sull’ultima piazza raggiungibile in macchina, a due passi dal
Municipio e dai palazzi nobili di Artena, e trovi ad accoglierti un
nutrito gruppo di muli e asinelli che, con i basti carichi di ogni ben di
Dio (acqua minerale, vino, detersivi, pacchi di pasta, zucchero, sale e
quant’altro), si apprestano a fare le consegne alle case del borgo antico,
abbarbicate lungo i fianchi dell’acropoli di Artena, praticamente irraggiungibili
da altri mezzi di trasporto. Oggi come cento, cinquecento,
mille anni fa. Artena, probabilmente, è l’unico paese che conserva ancora
vivo e funzionale, il mestiere del mulattiere. E, per fortuna, non solo
quello. Dalla piazza in su, tolti alcuni brevi tratti, praticamente non ci
sono più strade, solo scale, tante scale da far invidia a Cervara di Roma
che di scale se ne intende. Questa faccenda delle scale, se da un lato
penalizza gli abitanti del centro storico, dall’altro contribuisce a mantenerne
pressoché inalterato il tessuto urbano che, proprio grazie a questa
sua peculiarità, è diventato un ‘unicum’, una rarità meritevole, come
direbbe Giorgio Manganelli, di ‘meditate meditazioni’.
Vivere nel centro storico di Artena non è semplice ma sicuramente
appagante. Qui la vita scorre lenta, come il passo imposto dalle pendenze
che obbligano a frequenti soste, momenti di meditazione, appunto,
che diventano inviti alla scoperta: ogni angolo ha la sua peculiare caratteristica,
ogni casa un segno della storia passata. Cartelli, che sembrano
strategicamente sistemati dall’amministrazione comunale nei punti dove
il fiato diventa più corto e la sosta quasi obbligata, ci spiegano che quei
due palazzi là sotto, simboli del potere, temporale e non, furono fatti
costruire da due Principi, i Massimo e i Colonna, poi restaurati e unificati
da un Cardinale, rampollo di una famiglia che ha fatto storia:
Scipione Borghese. Un altro cartello, a quel punto del percorso davvero
provvidenziale, spiega che la Chiesa di Santa Croce risale a poco dopo
l’anno Mille ma di quei tempi ha conservato ben poco. Così, cartello
dopo cartello, scalinata dopo scalinata, schivando i ‘ricordini’ lasciati
dalla teoria di muli e asinelli che in veste di ‘cascherini’ fanno su e giù
più volte al giorno, passa davanti agli occhi la storia di Artena, il ‘Paese
dei briganti’ come veniva chiamato nell’Ottocento e come ancora oggi
viene ricordato con malcelato orgoglio dagli anziani che, seduti sui
muretti dei terrazzamenti posti al limitare di improvvisi slarghi e inaspettate
piazze, sono la testimonianza vivente di come il tempo, quassù,
sia regolato da altri ritmi: decisamente lenti, culturalmente annosi, filo-
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soficamente ineluttabili.
La storia gelosamente custodita tra le mura del centro storico, viene da
lontano. Si parla di Guerre Puniche, come dire, III-II secolo avanti
Cristo. A quel periodo, infatti, risalgono le mura poligonali che difendono
l’Arce sul cui nome, per secoli, si sono accapigliati gli storici: per
alcuni Ecetra, per altri Artena, per altri ancora Foretum o Fortinum. E
qui ci avviciniamo a concretezze storiche, documentate, perché da
Fortinum si arriva prima a Monsfortinum e poi a Montefortino, nome
che Artena porta dal medioevo all’Ottocento e che, orgogliosamente,
ancora oggi campeggia un po’ ovunque, in corsivo, sotto il toponimo
ufficiale: Artena Montefortino.
Il territorio di Artena già Montefortino, ha restituito solide testimonianze
d’epoca romana, cisterne, resti di ville, pozzi e apposite lapidi che i
romani disseminano secondo costume un po’ ovunque e parlano dell’interesse
di Roma verso questo centro così ben munito e strategicamente
posizionato sulla strada della Campania Felix, un chiodo fisso per gli
ultimi Re di Roma e la prima borghesia Repubblicana, proiettati verso la
conquista del sud.
Il lungo periodo romano e il declino dell’Impero, portano prima alle
scorrerie dei barbari poi all’avvento delle Signorie. Passato il temuto
anno Mille, Monsfortinum diviene feudo dei Conti del Tuscolo che già
nel XIII secolo passano la mano ai Conti di Segni, avveduti sodali del
papato, i quali ne detengono le sorti fino al 1495 quando, Carlo VIII lo
espugna e lo consegna a Prospero Colonna che lo detiene fino al 1523
anno in cui, papa Adriano VI, Adriaan Florenszoon Boeyens, ultimo
papa straniero fino all’elezione di Karol Wojtyla, glielo toglie. Il breve
papato di Adriano VI, durato soltanto un anno, fa si che i Colonna tornino
in possesso del feudo di Monsfortinum diventato ormai stabilmente
Montefortino.
Le solite lotte di casta, legate all’avvicendarsi al soglio di Pietro di rappresentanti
di famiglie avverse ai Principi Colonna, portano a tre consecutive
distruzioni e altrettante caparbie riedificazioni di Montefortino: la
prima per mano di Clemente VII, dei Medici, nel 1526, la seconda operata
da Paolo II, dei Farnese, nel 1543 e l’ultima consumata da Paolo IV,
dei Carafa, nel 1557. Due anni dopo il paese torna ai Colonna e conosce,
per la prima volta nella sua storia, una gestione tutta al femminile
per mano di Orinzia, Virginia, Porzia, Claudia, e Tuzia Colonna. Il successivo
rampollo Colonna maschio, Marzio, si dimostra pessimo amministratore
tanto da trovarsi nella condizione di vendere il feudo nel 1615

Un suggestivo scorcio di Artena
in via Principe Amedeo
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al Cardinale Scipione Borghese (mecenate delle arti e protettore del
Bernini), che segna la svolta politica, sociale ed economica di
Montefortino. Sotto l’illuminata amministrazione del Cardinale si realizza
l’ampia Piazza della Vittoria (da dove partono i muli alla scalata del
centro storico), prende vita la scenografica Porta Maggiore, nota come
l’Arco Borghese, si apre la Via Nuova e la Via del Borgo, ma soprattutto
il Cardinale, mostrando illuminata lungimiranza, fa aprire l’Hostaria,
il primo albergo-ristorante di Montefortino, dove oggi ha sede l’Asilo
San Marco. La vocazione turistica di Artena, probabilmente nasce da lì
e, forse non a caso, sulla prima rampa di scale apre le sue porte un ristorante
che offre la tipica cucina locale. Anche il completamento del
Palazzo Borghese è opera del Cardinale che lo lascia, insieme al resto del
feudo, a Marc’Antonio Borghese.
Il periodo napoleonico è segnato dallo sposalizio di Camillo Borghese
con Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone, immortalata del Canova
nella memorabile statua della ‘Venere vincitrice’ esposta alla Galleria
Borghese di Roma. Paolina, ripudiata nel 1814 dal marito, continua la
sua vita dissipata passando da un amante all’altro fino a quando, malata
di sifilide, nel 1824, Camillo Borghese spinto dal papa Leone XII, l’accoglie
nuovamente a palazzo dove, devastata dal male, si spegne l’anno
dopo. Nel 1849, arriva a Montefortino Giuseppe Garibaldi il quale,
come testimoniano le lapidi sparse nei paesi circostanti, deve aver battuto
la zona palmo a palmo. La caduta dello Stato della Chiesa, conseguente
alla breccia di Porta Pia, e l’avvento del Regno d’Italia non cambia
la vita di Montefortino ma ne cambia il nome che, con Regio
Decreto del 13 febbraio 1873, n° 1272, in omaggio alle origini Volsche,
ritorna Artena. Il Palazzo Borghese di Artena è restaurato nel 1960 da
Daria Wassilievna, moglie di Juno Valerio Borghese, comandante della
X Mas. L’ultimo illustre Borghese vissuto a lungo nel palazzo di Artena
è quello Scipione Borghese che in coppia con il giornalista Luigi Barzini,
a bordo dell’Itala, compie il mitico ‘raid’ Pechino-Parigi.
Da vedere
Palazzo Borghese. L’importante edificio ha acquisito la sua forma
attuale nella prima metà del 1600. Secondo la leggenda, Gian Lorenzo
Bernini, chiamato a ristrutturare il palazzo, ne rimane così colpito da
realizzare, in uno dei saloni, un caminetto che raffigura un grande volto
umano dall’espressione stupita. Tra i cimeli del palazzo, spicca la vasca

La casa in vendita sulla piazzetta
dei gatti neri
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in rame ed ottone, appartenuta a Paolina Borghese, sorella di Napoleone
Bonaparte, moglie di Camillo Borghese, che posa per la celebre statua
del Canova conservata al Museo di Valle Giulia a Roma. Si dice che la
bella e chiacchierata Paolina s’immerga in questa vasca piena di latte
d’asina per lunghi bagni di bellezza. Il soffitto della galleria, è affrescato
a grottesche simili a quelli presenti alla Domus Aurea.
Mura ciclopiche. Nella zona conosciuta come Piano della Civita, si
trovano i resti delle mura ciclopiche della città preromana. Le antiche
fortificazioni risalgono alla metà del VII sec. a.C. e si sviluppano continuamente
fino IV - III sec. a.C. nel corso dei quali il centro è sottoposto
ad una grande pianificazione romana, testimoniata dai reperti portati
alla luce dagli scavi archeologici negli ultimi anni. Le mura devono
garantire il controllo e la difesa di questa postazione strategica all’imbocco
della valle del Sacco, di fondamentale importanza per l’espansione
romana verso il sud del paese.
Chiesa di Santa Maria delle Letizie. Non si hanno notizie certe sull’anno
di costruzione di questo Santuario ma, secondo alcuni storici
locali, la sua fondazione risale al tempo delle invasioni barbariche. Tra
gli anni 600 e 800, prima del fatidico Anno Mille. Verso la fine del diciassettesimo
secolo ospita la statua della Madonna delle Grazie, icona sacra
alla quale il popolo di Artena è fortemente devoto e da allora, ogni anno,
si tiene una processione in onore di questa Sacra effige.
Chiesa di Santa Croce. Ricostruita nel 1659 su una preesistente chiesa
della quale non si hanno notizie certe sull’origine, la costruzione in
stile barocco si deve all’architetto Domenico Terzago su incarico del
Principe Giovan Battista Borghese. La chiesa, oltre all’altare maggiore,
conta sei cappelle. La possente facciata con tre portali è incorniciata ai
lati da due campanili a torre. Le due porte laterali sono sormontate da
due riquadri di marmi cosmateschi recuperati dalla vecchia chiesa e
genialmente sistemate sulla facciata dallo steso Terzago. Al suo interno
un’Annunciazione di Paolo Giovanni di Loreto, una Maddalena di
Filippo Luzzi, una copia su rame del quadro del Salvatore e della
Vergine Assunta, di Girolamo Siciliante di Sermoneta e un bell’affresco
recentemente riportato alla luce, raffigurante l’Ultima Cena.
Chiesa di Santo Stefano Protomartire. Situata nel bel mezzo di

Artena, questa chiesa spicca per la levità delle bifore che ornano il suo
campanile databili tra il 1200 e il 1300. Quasi distrutta da un violento
incendio nel 1557, la chiesa è lasciata nel più completo abbandono fino
a quando Camilla Orsini Borghese, moglie di Marc’Antonio, ne ordina
il restauro. La facciata seicentesca che mal si accoppia con il trecentesco
campanile, è frutto di quel restauro.
Chiesa del Rosario. Voluta da donna Orinzia Colonna all’inizio del
Borgo, la chiesa è consacrata nel 1591. Realizzata a croce latina, ospita
undici altari ornati con pitture secentesche. Sull’altare maggiore un quadro
del XVI secolo, recentemente restaurato, raffigurante la Madonna
del Rosario. Tra le altre opere si segnalano per qualità, uno splendido
ciclo di affreschi, il San Francesco d’Assisi opera di Orazio Zecca, pittore
locale del XVII secolo, e una bella statua lignea raffigurante la
Maddalena, patrona del paese, fatta scolpire nel 1598 da don Pompeo
Pompa.
Convento Santa Maria di Gesù. Costruito nel 1629 su incarico del
Cardinale Scipione Borghese, il convento è diventato una delle principali
chiese di Artena. Sull’altare maggiore un dipinto attribuito al Vanenti,
raffigurante il Santissimo Nome di Gesu, la Beata Vergine e Sant’Anna.
Allo stesso Manenti, sono attribuiti il Sant’Antonio Abate e il
Sant’Antonio da Padova, nonché quello di Santa Chiara e Santa
Elisabetta del Portogallo. Dietro l’altare maggiore si trova il quadro del
Crocefisso, opera di Padre Bernardo da Digione. L’organo a canne conservato
in questa chiesa è l’unico presente ad Artena. Il convento è stato
sede di due scuole, una di teologia per i religiosi, e l’altra di filosofia per
i secolari. Rilevante è la presenza di una ricca biblioteca, fondata dal teologo
e filosofo Padre Gerolamo da Montefortino. Caratteristico è anche
il chiostro, riquadrato con sette archi per ogni lato e decorato nelle nicchie
da pitture risalenti al 1640. Al centro si trova un’antica cisterna circondata
da un giardino ornamentale.
L’ambiente
Nella parte bassa dell’abitato il verde più ‘nobile’ è rappresentato dal
Parco Borghese dove una rigogliosa vegetazione si offre a quanti lo scelgono
per una passeggiata. Nella parte alta del centro storico, a margine
di piccoli coltivi e oliveti, si affaccia il bosco che fa da anticamera al
93

Il mulattiere-cascherino lascia
Piazza della Vittoria

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Parco dei Monti Lepini. Si tratta di un bosco misto, con zone di faggeta
che si alternano, secondo altitudine, a querce, lecci e roverelle, con
esemplari di tasso, acero di monte, farnia e qualche tiglio. Rigogliosi coltivi
caratterizzano la campagna di Artena.
La zona di Via Giulianello (contrada che partecipa al famoso Palio), particolarmente
vocata all’allevamento ovino e all’arte dei ‘boattieri’, negli
anni ‘50 contava ben 35 ‘vette’ di buoi da aratro e, ancora oggi, vanta più
di tremila pecore. Rigogliosi gli oliveti che caratterizzano la campagna
circostante così cantata dai ‘contradaioli’:
An dò comenza sta via
la zona è infreddolita
ma cuando taffatti alla Grazia,
vidi na panoramica ‘nfinita
Se vede luccicà io mare
L’aria cambia è tutta nara cosa
Io sole non tè lassa mai d’estate
La sera quando se restregnevano le regna
era nà cosa favolosa!
Vino presutto e caso
Cici fasoi e polenta:
Costà abbondanza
nisciuna creatura te faceva pena
te lo voglio proprio di
Tu si la più bella campagna d’Artena.
Feste e Sagre
Gennaio: festa di Sant’Antonio Abate. Apertura del carnevale e sfilata
di carri allegorici.
Maggio: festa della Madonna delle Grazie. Il sabato si svolge la solenne
processione in onore della Madonna, con la sfilata degli stendardi e
dei Cristi infiorati.
Giugno: panatenee, concerti, canto corale, sfilata di majorettes.
Luglio. Festa patronale di Santa Maria Maddalena. Ai solenni festeggiamenti
in onore della santa fa seguito la Fiera espositiva.
Agosto: ‘Palio delle Contrade’. Corteo in costume, giochi tradizionali e
piatti tipici locali.
Settembre: nel mese di settembre si svolgono diverse feste sia sacre che
laiche: quelle di Sant’Egidio, della Madonna del Buon Consiglio, della

Madonna di Lourdes, del Nome di Maria e, infine, la ‘Festa de
Montefortino’.
‘Incontri di Fine Estate’. Annuale sagra della polenta. Assegnazione
del ‘Premio Medusa’, riconoscimento a personaggi della cultura, dello
sport e dell’arte.
Piatti tipici
Gnocchi longhi. Non si tratta di gnocchi ma di una pasta dalla forma
allungata ottenuta dall’impasto di farina e uova, bollita e condita con il
pomodoro.
Sagna a patacca. E’ una pasta ammassata con acqua e farina, tagliata
irregolare, generalmente utilizzata per la minestra di fagioli.
Frascategli. Una sorta di polenta fatta con la farina di grano tenero.
Pizzotti. Biscotti natalizi a base di miele e nocciole.
Pangiallo. E’ la classica torta natalizia, realizzata con miele, nocciole,
noci, cacao, noce moscata e cannella.
Da Roma
Auto: autostrada del Sole in direzione Napoli. Uscita Valmontone, poi
proseguire per 5 chilometri.
Treno: dalla stazione Termini prendere il treno per Cassino, Frosinone
o Napoli, scendere a Valmontone; da qui partono i bus navetta che arrivano
nella piazza principale di Artena.
Bus: dalla fermata Anagnina di Roma prendere l’autobus per Colleferro
che conduce fino ad Artena.
Connettiti al wifi gratuito
di Artena
Biblioteca Comunale
Via 1° Maggio,20
I link
http://www.comune.artena.rm.it/
hh/index.php
http://www.provincia.roma.it/
97

98
Camerata
Nuova>>>>>
Il garbato palazzo Liberty
sulla piazza di Camerata Nuova

La storia
atto di nascita di Camerata Nuova, anno 1859, è legato a quello di
L’ morte dell’altra Camerata, quella ‘vecchia’, che è restata lassù, bruciata
in cima al monte ma, al tempo stesso, presente e viva nelle menti
degli abitanti d’oggi. I ‘cameratani’, così si chiamano gli abitanti di
Camerata Nuova, ormai si sono abituati agli 850 metri d’altitudine del
nuovo paese ma, idealmente, si sentono ancora lassù, a 1220 metri sul
livello del mare tra i ruderi delle case dove affondano le loro radici più
antiche. La fine della vecchia Camerata è legata ad una ‘braciolata’ finita
male. Il 9 gennaio 1859, Antonio Callesi, affittuario dell’ultima casa
situata nel punto più basso dell’abitato, esagera con la legna del camino
che, sovralimentato, prende fuoco propagando le fiamme al tetto costituito
come tutti gli altri tetti di Camerata, da assi di faggio stagionato. Il
forte vento di maestrale che sferza il monte, di tetto in tetto, porta le
fiamme in tutto il borgo murato. In poche ore otto secoli di storia vanno
in fumo.
Gli abitanti guidati dal sacerdote e sostenuti dai soccorritori accorsi in
aiuto dai centri vicini, tentano di domare l’incendio poi, rendendosi
conto che tutto è perduto, cercano di salvare il salvabile e abbandonano
il paese in fiamme. Il dramma si consuma sotto gli occhi dei soccorritori
arrivati da Rocca di Botte e da Cervara; tra loro c’è un pittore svizzero,
August Weckersser, ospite di Cervara che dalla tragedia trae ispirazione
per un quadro: ‘Brand im Sabinergebirge’ (Incendio nei monti della
Sabina), conservato in Svizzera nel Museo di Ognissanti di
Schaffhausen, unica oleografica testimonianza della fine di Camerata
‘vecchia’. Nel dipinto, Camerata brucia in lontananza mentre, in primo
piano, l’esodo di donne, bambini, montanari sopraffatti dalla fatica, a
destra un sacerdote che conforta gli sfollati, sulla sinistra due donne che
espongono sotto la croce della Passione un bambino miracolosamente
salvato dalle fiamme. Poi un cane, qualche pecora e le poche masserizie
salvate dalle fiamme, completa la composizione dando il senso pieno
della tragedia che si sta consumando. Così è morta Camerata.
E così è rinata. Il primo tentativo di una diaspora, che prevede la dispersione
delle famiglie tra Rocca di Botte, Cervara e altri centri vicini, fallisce
per la ferma volontà della popolazione che non vuol saperne di
abbandonare le proprie terre. Il papa Pio IX comprende e, bonariamente,
elargisce trecento scudi d’oro della sua cassa privata ‘ai diletti figli della
Camerata, così duramente provati’. Ma non si limita all’elargizione; per rico-
99

100
struire il paese ex novo invia sul posto un giovane valente ingegnere di
successo, Angelo Alvarez de Castro, trent’anni, molto attivo nella provincia,
che in breve tempo sviluppa un piano urbanistico moderno e
funzionale: una piazza al centro sulla quale si affacciano la chiesa, la casa
comunale, la gendarmeria pontificia e dalla quale si dipartono, seguendo
cardo e decumano, strade parallele e intersecanti lungo le quali si
dipanano le case della nuova città. Tante belle cose, ma la popolazione
rifiuta di abbandonare quel che resta di Camerata. Soltanto in pochi
accettano l’ipotesi della città nuova. Inizia un braccio di ferro tra le autorità
vaticane e i cameratani riottosi che dura altri due anni, al termine dei
quali, nel 1863, iniziano i lavori di costruzione di Camerata Nuova che
s’inaugura il 20 settembre del 1868. Due anni precisi prima della ‘Breccia
di Porta Pia’ e quasi dieci dal devastante incendio.
Tracciato il piano e costruiti i primi edifici pubblici, chiesa, caserma e
comune, cominciano a nascere anche le prime case sui lotti scelti da chi
accetta la nuova città. Considerando che la costruzione degli edifici pubblici
ha impegnato la maggior parte dei fondi previsti, ai privati che
devono costruirsi la casa in proprio, rimangono le briciole. Scarni contributi
che costringono a fare di necessità virtù. Il giovane ingegner
Alvarez de Castro -coadiuvato dai capimastri chiamati a realizzare il progetto
e appoggiato da quanti hanno scelto la città nuova- per risparmiare
sui costi e al tempo stesso conservare pezzi di storia della città vecchia,
prevede l’utilizzo di pietre lavorate, principalmente portali, davanzali
e cornici di finestre delle case bruciate, da murare nelle nuove case.
La brillante decisione, anticipatrice del moderno ‘riuso’, regala agli abitanti
di allora l’emozione di portarsi nella nuova casa le parti nobili di
quella vecchia e a quelli di oggi, l’orgoglio di aver comunque ereditato e
preservato una parte di storia della Camerata che fu. Capita così, girando
per Camerata Nuova, di imbattersi in splendidi portali bugnati che si
aprono su modeste abitazioni, in garbatissime finestre cinquecentesche
sulla facciata di un palazzo che denuncia passate ricchezze e fa gli onori
di casa all’entrata del paese, oppure in solidi portali medievali dagli archi
a tutto sesto, chiare allusioni della presenza di una poderosa masseria
oggi declassata a stalla. Pezzi di storia, granitici ricordi che da soli bastano
a farci capire quanto fosse bella la ‘vecchia’ Camerata e a stringerci
solidali con chi, dopo l’incendio, puntava i piedi per restare lassù, tra la
storia, a quota 1220 metri sul livello del mare.
In effetti, per molti anni dopo la nascita di Camerata Nuova, molta
gente continua ad abitare nelle case riattate alla meglio nella Camerata

‘vecchia’. La testimonianza di questo stato di cose, di questi abitanti che
si ostinano a vivere tra le case distrutte, si trova a Roma nell’archivio storico
del Club Alpino Italiano e, come nel caso del pittore svizzero,
August Weckersser, anche questa è documentata da un pittore, Enrico
Coleman, il ‘Capoccetta’ dei ‘XXV della campagna romana’, che in un
libro, manoscritto e riccamente illustrato, dedicato ad un’escursione sui
Simbruini e ascensione del Gran Sasso d’Italia, effettuata dal 12 al 15
aprile 1881, alle pagine 17, 18, 19 e 20 parla del passaggio per
Camposecco e ne traccia uno schizzo, poi della discesa a Camerata ‘vecchia’
che disegna e descrive così: ‘E’ questo un piccolo paese sulla cima d’uno
scoglio a 1218 metri sul mare. Venti anni fa s’incendiò, ed ora non vi rimangono
che pochi abitanti e delle stalle pel bestiame (…) la maggior parte degli abitanti si
sono trasportati un 400 metri più in basso, a Camerata Nuova che hanno fabbricato
di pianta e che fa l’effetto di un paese composto di quelle casette di legno che si
danno ai bambini per giocattoli. (…) Frattanto ricominciò a piovere e riparatici sotto
un arco della chiesa diroccata, la scena era veramente lugubre. Le nuvole salendo e
scendendo danzavano una ridda infernale, oscurandoci il panorama e tutto intorno
rumoreggiava il tuono. In un angolo dell’arco, in una buca, vari crani e stinchi di
antichi cameratani, aggiungevano allegria alla scena. (…) riprendemmo la discesa e
giungemmo sotto una pioggia torrenziale a Camerata Nuova ultima tappa del giorno.
Domandammo di un oste e ci fu additato un certo Giuseppe Mestici (…) Intanto
che si preparava uscimmo fuori, avendo cessata la pioggia e rimanemmo letteralmente
a bocca aperta allo strano e meraviglioso spettacolo che ci si presentò di qui
Camerata vecchia, paese in cui un’ora prima eravamo ‘discesi’. La sua forma si
potrebbe quasi paragonare ad un fiasco cui erasi spezzato irregolarmente il collo;
quando poi più tardi ci vedemmo sorgere dietro la luna, la scena era proprio degna
della matita di Dorè’. Ma è dalla matita del Coleman che scaturisce il disegno
di Camerata ‘vecchia’ sul cucuzzolo della montagna e, in basso a
destra un fiasco irregolarmente sbeccato che fa il verso al paese diroccato.
Poesia, pura poesia.
La storia che marca il Dna gli attuali cameratani, parte dall’Anno Mille
e, come spesso accade a quei tempi, si materializza negli atti di un donativo
che il Conte dei Marsi Rainaldo da Celano, ‘Signore di Carsoli’,
figlio del Conte Berardo da Celano, elargisce all’Abbazia di Subiaco e,
come tale, viene riportato nel ‘Regesto Sublacense’.
Terra di frontiera, tra lo Stato della Chiesa e il Regno delle due Sicilie,
Camerata rappresenta un buon posto dove rifugiarsi in caso di problemi
con la giustizia dell’uno o dell’altro Stato. Le liti di confine tra i due
Stati segnano a lungo la storia di questo territorio che, come non bastas-
101

Gli splendidi portali in pietra
dell’antica masseria

104
se, dal 1500 al 1800 è terra di scorrerie dei vari briganti, dal famigerato
Marco Sciarra a Scarpalegia . Nasce così la nomea della ‘città dei briganti’
e, di conseguenza, il sospetto che il famoso incendio scaturito da una
‘braciolata’ non andata a buon fine, sia stato in realtà appiccato dolosamente
da chi aveva interesse a porre fine a questa sorta di ‘porto franco’
difficilmente controllabile e potenzialmente pericoloso. Sulla fine di
Camerata ‘vecchia’, le correnti di pensiero sono ancora divise tra i sostenitori
della tragica ‘braciolata’ (che rievocano con una riuscita sagra), e i
fautori dell’incendio ‘politico’, mai provato ma neppure escluso.
Da vedere
La chiesa Parrocchiale di Santa Maria Assunta, costruita nel 1860
per espresso volere di Pio IX, realizzata in stile neoclassico, presenta una
facciata delimitata da due costoloni laterali e diseguali, un rosone dai
vetri policromi e mal ridotti in alto al centro, un vasto portale di legno
che si apre su un’unica navata. All’interno sono presenti tre altari; quello
maggiore è dominato da una bella tela di scuola senese raffigurante
l’Ascensione in cielo della Vergine. Il meglio, a livello artistico, è rappresentato
dalla statua lignea di Sant’Antonio, salvata dall’incendio della
città vecchia e venerata, oggi come allora. dai cameratani. Interessante
anche una Pietà in peperino di autore ignoto.
I ruderi di Camerata ‘vecchia’, sono un’attrazione turistica da non
mancare. Lassù, tra quelle pietre antiche, affondano le ‘radici’ degli
attuali cameratani che, ancora oggi, sono molto legati al vecchio paese e
a quello che, sia a livello storico che affettivo, rappresenta. Per i turisti i
resti di Camerata ‘vecchia’ sono semplicemente ruderi messi lì, morte
testimonianze di uno dei tanti paesi fantasma da visitare con morbosa
attenzione. Per gli abitanti di Camerata Nuova, invece, il grande altare
maggiore e l’arco a tutto sesto, uniche forme architettoniche compiute
rimaste in piedi tra le mura sbrecciate, è ancora la chiesa di Santa Maria
che è morta con il resto del paese ma, come quello, continua a vivere nel
ricordo della gente.
Il Santuario della Madonna delle Grazie, situato poco distante dal
paese vecchio, è sopravvissuto all’incendio ed ha rappresentato il primo
rifugio sicuro per gli abitanti scampati alla distruzione di Camerata.
Fondata nel 1626 e più volte restaurata, anche recentemente, la chiesa

Santuario accoglie ogni anno, il giorno di Pasquetta, un seguitissimo pellegrinaggio
che, a funzioni concluse, si tramuta in scampagnata corale
con pranzo di pasquetta da consumare all’aperto.
L’ambiente
Il territorio di Camerata Nuova rappresenta l’estremo lembo di terra a
Nord del Parco Regionale dei Monti Simbruini che, sviluppandosi a
cavallo tra le province di Roma e Frosinone per un’estensione di circa
30.000 ettari, presenta una varietà di natura protetta davvero eccezionale.
Grandi faggete popolano le quote che vanno dai 900 ai 1900 metri,
alternandosi a lecci, querce, roverelle, sorbi dell’uccellatore, aceri montani,
frassini e altre specie arboree tipiche della zona. Tra i mammiferi
che abitano queste zone, primeggiano cinghiali, caprioli, cervi e il principe
dei predatori, il lupo, presente con due branchi ben individuati. E’
segnalato qualche raro orso marsicano, più che altro di passaggio, poi
tanti uccelli, più di cento specie, dodici delle quali rappresentati da rapaci
diurni e notturni come aquile, poiane, falchi, allocchi, gufi e civette.
Feste e Sagre
Gennaio: la domenica successiva al 17 ‘Sagra della Braciola’.
Pasquetta: festa della Madonna delle Grazie, riti religiosi seguiti da una
corale scampagnata con il pranzo di Pasquetta all’aperto.
Agosto: ‘Estate Cameratana’, nella quindicina a cavallo di mezz’agosto.
Settembre: dalla domenica successiva all’8 si celebrano le feste patronali
di Maria Santissima della Pietà e di Sant’Antonio Abate.
Particolarmente suggestiva la processione della vigilia con fiaccolata e la
caratteristica ‘Asta deji attrizzi’, stendardi, crocioni e macchine approntati
per la processione.
Ottobre: ultima domenica del mese ‘Sagra della salsiccia’.
Piatti Tipici
Ravioli in agrodolce. Ravioli ripieni di ricotta mantecata con liquore e
zucchero. Conditi con sugo di pomodoro.
Pizza sbattuta. La pizza pasquale per eccellenza.
Pangiallo. Dolce natalizio che poco si discosta dal Pangiallo della Valle
105

106
dell’Aniene.
Prodotti tipici. Carni biologiche, Castrato e Formaggi.
Curiosità
Il cinema a Camerata Nuova. Mescal, il ‘rude’ bandito messicano
protagonista di ‘Lo chiamavano Trinità’, viene ancora qui, si siede al bar
dove campeggiano le foto di scena con Bud Spencer e Terence Hill,
scambia quattro chiacchiere con gli amici di Camerata Nuova poi, contento,
se ne torna a Roma. Quelle foto degli anni ‘70, scattate a
Camposecco, rappresentano l’epopea dello ‘spaghetti western’ e, al
tempo stesso, la rivincita di Camerata Nuova che, grazie al successo del
primo film e al seguito ‘…continuavano a chiamarlo Trinità’, diventa il
luogo ‘cult’ del western all’italiana, il posto da visitare che richiama
schiere di appassionati, ma anche semplici curiosi, alla ricerca della valle
dove Mescal viene abbattuto a suon di schiaffi dal granitico Bud
Spencer. Per farla breve, il turismo cinematografico, oggi tanto decantato,
è nato in questo paesino di frontiera posto ai confini con l’Abruzzo
più crudo che c’è.
Gli ‘Arcari’ di Camerata Nuova. Tra le tradizioni dell’artigianato
cameratese, quella degli ‘Arcari’ è sicuramente la più famosa. Le ‘Arche’
costruite dai ‘Mastri Arcari’ di Camerata non conoscono né chiodi né
viti; le assicelle di faggio vengono incastrate tra loro e, di conseguenza,
si possono montare e smontare senza alcun problema. Alcuni scritti parlano
delle arche di Camerata fin dal 1700 ma, probabilmente, l’arte degli
Arcari di Camerata Nuova (e di quella ‘vecchia’) risale al medioevo.

Da Roma
Auto: autostrada A24 Roma - L’Aquila uscita Carsoli-Oricola.
Proseguire sulla Statale 27, fino a Camerata Nuova.
Autobus: autolinee Cotral, dal capolinea di Rebibbia. www.cotralspa.it.
Treno: Roma-Pescara a Termini o Tiburtina. Scendere alla stazione di
Carsoli e proseguire con bus navetta Cotral.
Connettiti al wifi gratuito
di Camerata Nuova
Municipio
Piazza Roma,6
I link
http://www.provincia.roma.it/istituzionale/schede/comuni/camerata-nuova
http://www.cameratanuova.com/
http://www.provincia.roma.it/
107

108
Canale
Monterano>>>>>
La fontana originale del Bernini
sulla piazza di Canale Monterano

La storia
Gli uomini delle caverne sapevano scegliere i luoghi migliori dove
mettere su famiglia e favorire lo sviluppo dell’intera tribù. Nel territorio
di Canale Monterano, l’oculatezza di quelle lontane scelte, testimoniata
ancora oggi da numerose caverne, naturali o laboriosamente
scavate dall’uomo, affiora lungo il corso del torrente Lenta o nell’impervia
Greppa del Falco, un po’ scomoda ma facilmente difendibile dall’assalto
delle fiere e, ancor più, dai cacciatori di tribù ostili. Tracce di quelle
antiche presenze, sotto forma di raschiatoi, schegge di selce, primordiali
asce di pietra lavorata, ci parlano di insediamenti lontani nel tempo
almeno duemila anni avanti Cristo. A quelle culture appenniniche,
ampiamente diffuse sui monti Sabatini fino alla Tolfa e al mare, appartengono
i primi uomini del monteranese.
Di altre culture, raffinatissime, si orna la storia dell’etrusca Monterano,
oggi lievissima città morta, ma allora viva, ricca, spumeggiante e soprattutto
inespugnabile dall’alto della sua rocca tufacea sulla quale gli
Etruschi prima e gli Altieri poi, si esprimono al meglio delle loro possibilità.
I segni della civiltà Etrusca si trovano appena fuori l’abitato, poi
sull’altopiano della Palombara fino a Pozzo Tufo e al Colle della
Bandita, sotto forma di necropoli, con una serie di sepolture di vari
periodi che consentono una lettura a tutto tondo, sociale ma anche economica,
della comunità etrusca monteranese. Sepolture come indicatori
sociali: le prime, appena fuori l’abitato, semplici e spartane, denotano
sobrietà e scarsità di mezzi; le più lontane dall’abitato, invece, ricche e
raffinate ci offrono lo spaccato di una società se non opulenta certamente
benestante, la terza fascia di tombe, nuovamente a ridosso dell’abitato,
già denunciano la decadenza di un popolo messo in crisi dall’espansione
romana che, con la via Clodia, favorisce il braccianese,
Manziana e Oriolo, tagliando fuori Monterano e il suo territorio, salvo
costituire qualche colonia agricola e villaggi rurali sparsi serviti dalla
‘Selciatella’, strada di raccordo con la più importante Via Clodia, ma non
sufficiente a garantire lo sviluppo dell’antico centro Etrusco.
La fortuna di Monterano, paradossalmente, nasce dalle invasioni barbariche,
in special modo quelle Longobarde, che costringono gli abitanti
dei villaggi sparsi (compreso Forum Clodii che aveva contribuito a spopolarla),
a chiudersi in una Monterano murata che fortificano con opere
di difesa, ne ampliano le dimore, costruiscono edifici di culto, sistemano
strade e, cosa più importante, l’elevano a sede vescovile al posto del-
109

110
l’ormai abbandonata Forum Clodii.
Ma la vera epoca d’oro Monterano la conosce intorno alla metà del
Seicento, grazie al munifico intervento della potente famiglia Altieri che
per rilanciare il caratteristico centro divenuto suo feudo, scomoda addirittura
Gian Lorenzo Bernini il quale, per Monterano, progetta la chiesa
e il convento di San Bonaventura, la facciata del Palazzo Ducale con la
celebre Fontana del Bernini diventata simbolo della cittadina e, ancora
oggi, sistemata sulla piazza del Comune di Canale Monterano, fa una
gran figura. Cento anni o poco più di grascia poi, prima la malaria e
quindi le truppe d’invasione francesi, svuotano nuovamente il paese che
viene abbandonato per i più salubri siti di Canale e Montevirginio.
Canale Monterano, è fondato, sul finire del ‘500 da famiglie di monteranesi
e da boscaioli umbri e toscani giunti sul posto per disboscare parte
del territorio recuperando nuove e più ricche terre da destinare all’agricoltura.
Il disboscamento e il conseguente trasporto a valle del legname
da luogo ad un profondo canale ai lati del quale sorgono le prime abitazioni
(originariamente capanne ma poi solide case in muratura) che formano
l’ossatura del nascente borgo e che, con la logica dei semplici,
viene ovviamente chiamato Canale. Quel cinquecentesco canale è l’attuale
Corso della Repubblica, principale via di Canale, divenuto nel
1861, con l’Unità d’Italia, Canale Monterano.
Montevirginio, invece, in origine si chiama Monte Sassano e cambia
nome in onore del cardinale Virginio Orsini, frate e munifico benefattore
che impone al padre, Duca di Bracciano, di edificare il convento e
al fratello di dotare con una cospicua somma di denaro i Carmelitani
Scalzi che lo gestiscono e tramutano in una laboriosa azienda agricola in
grado di dare lavoro a molti abitanti del posto, braccianti e operai i quali,
rimasti senza casa per far posto al complesso monastico danno vita ad
un nuovo abitato costruito poco più in alto del convento stesso. Dallo
stesso convento traggono buoni guadagni attraverso i lavori dei campi
nelle tenute gestite dai frati, dal lavoro nella cava di pietra e da quello
prestato nella fornace di laterizi, realizzata sempre dai Carmelitani.
Da vedere
La ‘città morta’ di Monterano. L’antico abitato torna a vivere nel
1995, quando il Comune decide di avviare un sistematico programma di
restauro conservativo che permette il recupero del Palazzo Ducale, della
chiesa di San Rocco, della facciata della chiesa di San Bonaventura, del

Il Palazzo Ducale con la copia
del Leone del Bernini
111

112
campanile della Cattedrale, della Porta e della Via Gratella e, infine, dei
bastioni settentrionali. Dal canto suo, la Provincia di Roma, ha già provveduto
negli anni ‘80, al recupero e al restauro delle arcate dell’acquedotto.
Copie fedelmente riprodotte della fontana ottagonale e della statua
del leone, i cui originali sono conservati a Canale Monterano, sono
state ricollocate dove le ha previste il Bernini: la fontana in Piazza
Bonaventura e il leone sulla scenografica fontana che orna il lato principale
del Palazzo Ducale.
L’Eremo di Montevirginio, a pianta rettangolare, ospita le celle dei
Padri Carmelitani, la Chiesa con la Sagrestia ed il Coro; sull’ala opposta,
unica a due livelli, al piano inferiore, la cucina, il refettorio, la sala
Capitolare, la foresteria e i servizi, al piano superiore le stanze di religiosi
non sacerdoti. Una grande corte interna svolge la funzione di chiostro
non porticato che, situato di un metro più in basso dal corridoio, è
impreziosito al centro da una fontana poligonale circondata da aiuole,
alberi e camminamenti. La chiesa, costruita sul lato opposto rispetto
all’entrata dell’eremo, è a navata unica senza cappelle laterali. Sull’altare
una tela del VII secolo, opera di Fra Luca di Nivelle, raffigura la
‘Presentazione di Maria al Tempio’, alla quale è dedicata la chiesa stessa.
Palazzo comunale. Il sobrio palazzotto che ospita il Municipio, in
Piazza del Campo, merita una visita se non altro per ammirare l’originale
scultura berniniana del leone e la prospiciente fontana ottagonale,
tutte e due salvate dal saccheggio che negli anni ‘50 dello scorso secolo
stava definitivamente spogliando la ‘città morta’ di Monterano.
Santa Maria Assunta, edificata dall’architetto Mattia de’ Rossi, seguendo
un progetto berniniano, conserva una statua lignea della Madonna,
proveniente anch’essa, come la fontana e il Leone del Bernini, dal vecchio
paese.
L’Oratorio è la prima chiesetta costruita dai padri fondatori del paese,
lungo il canale che già allora rappresentava il corso principale del borgo.
All’interno un interessante affresco cinquecentesco raffigurante i misteri
del Rosario. Ora è adibita a Sacrario dei caduti.
Necropoli Etrusche. Il territorio di Canale Monterano ospita un’estesa
necropoli fin da appena fuori l’abitato. Le tombe più importanti,

però, si trovano sull’altopiano della Palombara e proseguono seguendo
un’antica strada etrusca che porta in località Pozzo Tufo. Tra le necropoli
della zona, la più ricca è senza dubbio quella che si trova sul colle
della Bandita dove si possono ammirare due tombe, utilizzate in passato
dai pastori e dai contadini come riparo in caso di temporali, conosciute
per questo come il Grottino della Bandita e Grotta Tabacco. Sempre
sulla provinciale che da Canale Monterano porta a Tolfa, si incontrano
i resti di un abitato etrusco e relativa necropoli detta del Ferrone, importante
per la tipologia delle singole tombe e per i corredi funebri recuperati.
Sempre al Ferrone sono emersi pochi avanzi di una rustica villa del
basso impero.
L’ambiente
La Riserva Naturale Regionale Monterano, si sviluppa su circa
1.085 ettari occupando tutto il settore centrale e occidentale del territorio
comunale di Canale Monterano. L’area protetta, compresa tra i
monti della Tolfa e i monti Sabatini, è ricca di forre tufacee, piccoli
canyon scavati dai torrenti nel corso dei millenni che oggi accolgono
preziosi ecosistemi e, per la fauna, rappresentano corridoi naturali per
transitare in piena sicurezza da un territorio all’altro. La flora presenta
una fitta vegetazione formata da noccioli selvatici, carpini, cerri, castagni,
querce e altri alberi di alto fusto, con un sottobosco ricco di roveti,
pungitopi, agrifogli, vitalbe, edere, falaschi e felci. Nei pratoni mantenuti
a pascolo sul Monte Angiano fioriscono più di trenta specie d’orchidee
spontanee, alcune delle quali ritenute dai botanici delle vere rarità.
Ai piedi della vecchia Monterano, nei pressi del torrente Bilione, dopo
le cascatelle di Diosilla, una sorgente d’acque sulfuree con polle alimentate
dai gas provenienti dal sottosuolo, ricordano il carattere vulcanico
di queste terre.
Curiosità
Terme di Stigliano. Plinio il vecchio nelle sue memorie narra che alle
legioni romane di ritorno dall’Egitto, era tassativamente proibito entrare
a Roma se prima non si erano purificate nelle acque termali di
Stigliano. Basterebbe questo per lanciare alla grande le Terme di
Stigliano, per i romani ‘Termae Stygyane’, per accostarle ai potenti poteri
magici che attribuiscono alle acque della palude Stygia. Il successo
113

La chiesa di San Bonaventura, del Bernini,
a Monterano

116
delle acque di Stigliano, con alti e bassi, si ripete nel medioevo e in epoca
moderna. Oggi che le Terme sono tornate di moda, Stigliano può contare
su un complesso termale di tutto rispetto.
Feste e Sagre
Gennaio: la Befana distribuisce regali e dolci ai bambini.
La domenica più vicina al 17 gennaio: Sant’Antonio Abate. Processione
aperta dai Butteri a cavallo. Al termine la benedizione degli animali.
25 Aprile e 1° Maggio: ‘Monterano vive’: la scampagnata fuori porta.
Fine Maggio: ‘Riarto dei Butteri’: tradizionale festa maremmana in
località Torara.
Fine Giugno: Torneo degli anelli. Prove di abilità a cavallo organizzati
dall’Associazione Butteri in località Fontana.
Luglio/Agosto: festeggiamenti in onore di San Bartolomeo e Santa
Calepodia.
Settembre: festa di Sant’Egidio Abate, Patrono di Montevirginio. Stand
gastronomici, giochi, concerti.
25 Settembre: festa delle donne per la Madonna del Soccorso.
Dicembre: ‘Sagra del vino e dell’olio novello’.
25 Dicembre: inaugurazione dei Presepi allestiti dalle Contrade.
Il Palio delle Contrade
Noto anche come la ‘Corsa del Bigonzo’, si svolge ad agosto ed è corso
dalle sei contrade cittadine: Carriola, Centro, Castagno, Casenove,
Montevirginio e Stigliano. La contrada vincente vince il Palio che consiste
in un artistico drappo di seta e una scultura di bronzo che, come la
coppa del mondo, passa di mano ad ogni edizione. La corsa si sviluppa
lungo i 130 metri del corso cittadino che ogni equipaggio, formato da
quattro barellieri più una riserva, deve percorrere trasportando un
bigonzo incastrato nella barella. Fino al 2001 nel bigonzo trovava posto
un bambino chiamato ‘il fantino’, ma da allora per motivi di sicurezza,
e con buona pace dei nostalgici duri e puri, il bambino non c’è più. La
corsa si svolge in batterie da due e, dopo un ripescaggio, semifinali e
finale per stabilire la contrada vincente.
Piatti tipici
Pane di canale Monterano. Le pagnotte di forma rettangolare, che
hanno una crosta sottile e mollica di colore chiaro, sono prodotte con

farina di grano tenero e semola di grano duro, acqua, lievito naturale e
senza sale. Ottime consumate con formaggi e salumi.
Da Roma
Auto: prendere la Cassia ‘Bis’ fino a Cesano. Proseguire sulla Via
Braccianese fino a Manziana; poi girare al bivio per Canale Monterano.
In alternativa, da via Aurelia, proseguire per Cerveteri, Bracciano,
Manziana e poi per Canale Monterano.
In treno: linea ferroviaria Roma-Viterbo dalla stazione Ostiense fino
alla stazione di Manziana-Canale Monterano; poi autobus locali.
Autobus: linea Cotral Roma Saxa Rubra-Allumiere (direzione via
Braccianese): www.cotralspa.it.
Connettiti al wifi gratuito
di Canale Monterano
Municipio
Piazza del Campo 9
Uffici Comunali
Piazza Tubingen
I link
http://www.comune.canalemonterano.rm.it/
http://www.monterano.it/
http://www.provincia.roma.it/
117

118
Carpineto
Romano>>>>>>
Carpineto Romano, l’orologio
della Torre Aldobrandina

La storia
La leggenda vuole che Carpineto debba il nome a Carpeto Silvio,
discendente di Enea, e fondatore del paese nel 923 avanti Cristo. Più
avvedute e caute ricerche attribuiscono il toponimo alla folta presenza
dei Carpini nei fitti boschi locali, lungo le pendici dei Monti Lepini. Non
a caso il centro abitato sorge all’estremità di una montagnola chiamata
‘La Foresta’. Su questo monte carsico dalle modeste dimensioni, ma che
geologicamente va considerato un gigante, si aprono numerose caverne
che qui chiamano ‘Ousi’, dove soggiornano i primi ‘carpinetani’ dell’Età
della pietra, parenti stretti dell’Uomo del Circeo che vive in una caverna
con vista mare distante da qui, in linea d’aria, una quarantina di chilometri.
Quegli antichi progenitori lasciano testimonianze sotto forma di
raschiatoi, amigdale, lame litiche e altre preistoriche ‘suppellettili’.
La storia di Carpineto, quella più ‘vicina’ testimoniata dai ruderi ma non
scritta, risale alla colonia romana che, poco prima del dissolvimento
dell’Impero, intorno al IV secolo dopo Cristo, abita queste zone lasciando
segni ben più corposi e databili dei cavernicoli abitatori degli ‘Ousi’.
Poi arrivano i barbari che con le loro invasioni contribuiscono al consolidamento
del borgo murato, primo nucleo abitativo di Carpineto. La
storia documentata da scritture inoppugnabili, ci dice che nel 1077 il
paese è di proprietà di un certo ‘Raynerius, anagnino’, che regala al
monastero di Villamagna (già residenza romana di imperatori), ‘il castello
di Karpineta’: il documento porta la data ‘12 delle calende di settembre’,
ovvero 21 agosto del 1077. Più in la nel tempo, nel 1299 una Bolla
di Bonifacio VIII indica Carpineto come bene della basilica di San
Giovanni in Laterano. Bene basilicale che poi si appresta a girare al nipote
Pietro Caetani, suscitando le ire dei Conti Annibaldeschi di Ceccano
e dei Colonna.
Alla morte del pontefice reso famoso dallo ‘schiaffo di Anagni’,
Carpineto conosce continui passaggi di mano passando dalle signorie di
Anagni a quelle di Segni. A farne le spese, come sempre, i carpinetani.
Di contro, da tutti questi passaggi di mano, il paese, sotto il profilo
architettonico, comincia a crescere. Non si tratta più, o non soltanto, di
edilizia di difesa o da incastellamento, ma case e palazzi dalle forme di
più compiuta rinascenza. Gli anni del 1500 si dimostrano più prodighi
di quelli che li hanno preceduti. Nascono gli Statuti Comunitari; i
Colonna e gli Orsini si disputano il territorio ma, come terzi, arrivano
gli Aldobrandini che, con Donna Olimpia, danno corpo al Ducato
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120
annettendo a Carpineto, Gavignano, Gorga, Montelanico e Maenza. E’
di quel periodo l’edificazione del convento di San Pietro.
Gli apparentamenti tra gli Aldobrandini, i Pamphilj e i Borghese portano
benessere e ricchezza nel nuovo Ducato ma innescano anche tenzoni
che rivivono nel ‘Pallio della Carriera di Donna Olimpia
Aldobrandini’, rievocazione storica che da anni anima l’estate carpinetana.
Al di la delle vicende rievocate dal ‘Pallio’, la storia reale di Carpineto
continua. Il paese nel corso dell’Ottocento conosce il brigantaggio ma
registra anche la nascita del suo figlio più famoso: Gioacchino Vincenzo
Pecci, nato a Carpineto il 2 marzo del 1810 e diventato papa Leone XIII
nel conclave del 1878. L’ascesa al soglio di Pietro di papa Pecci, porta
fama e ricchezza a Carpineto sotto forma interventi pubblici da una
parte e di benemerenze dall’altra. Leone XIII, successore di Pio IX, è il
primo papa eletto dopo la Breccia di Porta Pia, come dire il primo papa
dopo la caduta dello Stato della Chiesa. E’ anche il papa della povera
gente, dei lavoratori, che ‘protegge’ con l’enciclica ‘Rerum Novarum’ e,
indirettamente, l’ideologo di un partito cristiano. E’ anche il primo papa
‘filmato’ da una cinepresa e il primo ad incidere su un disco le preghiere
e l’Apostolica benedizione Urbi et Orbi grazie all’invenzione del
fonografo. Eletto da Cardinali che lo credono di malferma salute, si rivela
il terzo pontificato più lungo nella storia dei papi. Tra le mura leonine
circola una battuta: ‘Credevamo di eleggere un Santo Padre, abbiamo eletto
un Padre Eterno’. Muore il 20 luglio del 1903, dopo 25 anni di pontificato.
Con Leone XIII papa, Carpineto conosce un forte sviluppo urbanistico,
ma anche culturale. Nascono il primo asilo e la prima scuola femminile,
arriva l’illuminazione cittadina e l’acquedotto. Con l’acqua in
paese non potevano mancare le fontane, due, che il papa commissiona
a Michele Tripisciano, scultore siciliano, giovane ma già accademico di
San Luca.
Da vedere
La chiesa di Sant’Agostino risale al 1100, ed è ascritta all’opera dei
Cavalieri Templari. In perfetto stile gotico i due portali, quello principale
e quello laterale, riportano all’epoca dei cavalieri del Tempio. Una
trave che sovrastava l’altare maggiore con su scolpita la scritta ‘Frater
magister Prato hoc opus fecit fieri MC’, conferma la vetustà di questa
chiesa. In gotico-romanico anche l’interno a croce latina. Nel corso dei
secoli la struttura ha subito diversi restauri e rifacimenti non sempre

ispettosi del preesistente, alcuni addirittura mutilanti, come quello che
ha visto l’abbattimento di un affresco attribuito a Pietro Cavallini esponente
della scuola romana del XIII secolo. Molto belli, invece, gli affreschi
del pittore pontificio Tito Troja, originario di Arcinazzo Romano,
che aveva studio in Borgo Santo Spirito, a due passi dal Vaticano, e fu
incaricato per l’opera di Carpineto dallo stesso Leone XIII.
Decisamente interessante la statuina calcarea in bassorilievo, quattrocentesca,
raffigurante Sant’Antonio Abate, e di grande effetto il contrasto
tra il sobrio soffitto a travoni con il delicato merletto delle pitture
murali a motivi geometrici e vegetali su modello medievale, realizzati da
Ludovico Grillotti su disegni del Solimena.
La chiesa di San Pietro e il suo Caravaggio. La chiesa con l’annesso
convento dei Minori riformati, furono edificati nel 1610 su commissione
del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, e feudatario
di Carpineto. Nel convento si conserva ancora l’appartamento del
cardinale. Al suo interno la chiesa custodisce interessanti opere d’arte,
una di queste, un ‘San Francesco in meditazione’, manca all’appello da
una ventina d’anni. Tutto inizia nel 1968 quando la storica dell’arte
Maria Luisa Brugnoli, attribuendo la tela al Caravaggio, dà il via agli
approfondimenti che, alla fine, richiedono il trasporto dell’opera a
Roma per i restauri e gli studi che portano alla certezza: il ‘San
Francesco in meditazione’ di Carpineto Romano è opera del Caravaggio.
Da quel momento la tela non ha più fatto ritorno alla sua sede naturale.
Per riaverla il sindaco Quirino Briganti ha intrapreso una vera crociata
e, alla fine, è riuscito nell’intento: dal 5 al 15 settembre del 2010, in occasione
del bicentenario della nascita di papa Leone XIII, il dipinto ha
fatto ritorno a Carpineto Romano dove è rimasto esposto per dieci giorni.
Il Caravaggio avrebbe dipinto l’opera quando, in fuga da Roma, si
ferma per un certo periodo nei feudi dei Colonna di Zagarolo, Preneste,
Castel San Pietro Romano e Paliano. Tornando alle opere conservate
nella chiesa, si elevano per qualità le tele di Diego da Tavello
(l’Immacolata), Simon Vouet (le stimmate di San Francesco), un crocefisso
ligneo di Stefano da Piazza Armerina e un affresco a tempera di
Ludovico Grillotti.
Chiesa di San Sebastiano. La chiesetta rurale è legata al ricordo di
papa Leone XIII dal restauro che il papa vuole promuovere nel 1903,
ultimo atto d’amore verso la sua città natale, prima di morire. La festa di
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San Sebastiano ha luogo nella terza domenica di gennaio quando tutto
il quartiere ‘deglio Lago’ (la zona che circonda Piazza Leone XIII), organizza
i festeggiamenti al posto dei Pecci che, nei tempi andati, aprivano
qui il carnevale distribuendo melati e frappe.
La chiesa San Leone Magno, merita una particolare attenzione per
due specifiche opere che ospita al suo interno: una pietà in marmo bianco
opera dello scultore polacco Sosnowski, e la complessa pittura del
catino, dedicata alla Madonna del Rosario, ma dominata dalla presenza,
sia simbolica che materiale, di Leone XIII: il dipinto riporta i titoli di
alcune encicliche leoniane, accanto alla Madonna col Bambino sono raffigurati
San Gioacchino (nome del papa), a sinistra, inginocchiato lo
stesso pontefice, a destra San Giuseppe di cui Leone era devotissimo e,
infine San Leone Magno, al quale la chiesa è dedicata. La chiesa, neoclassica,
è opera dell’architetto Francesco Fontana.
La chiesa Collegiata, dedicata a San Giovanni Battista e a San
Giovanni Evangelista, iniziata nel 1753 e terminata nel 1772 custodisce
al suo interno una statua marmorea di Leone XIII di Giuseppe
Lucchetti e, sulla destra, una lapide a ricordo di tutti i benefici concessi
da Leone XIII a Carpineto. L’organo, che ha un suono tutto particolare,
è stato offerto dallo stesso pontefice. Una campana d’epoca medievale,
proveniente dall’Abbazia di Santo Stefano di Valvisciolo, fusa nel
1247 a Carpineto dal Maestro Raynerio, è conservata in sacrestia. I pennacchi
della cupola opera di Virginio Monti, raffigurano i Santi
Agostino, Francesco d’Assisi, Rocco e Antonio da Padova.
Chiesa di San Giacomo. La parte più scenografica di questa chiesa è
senza dubbio il portale cinquecentesco impreziosito da un merletto di
sculture dedicate ai cicli e ai lavori dei campi. La Canonica di San
Giacomo, nell’omonima via, ospita un particolare Museo, il
‘Simulacrum’, una raccolta di oggetti Sacri provenienti da altre chiese, ex
voto delle vittime dei briganti, calchi di pontefici, reliquari, ex voto, busti
argentei, suppellettili e vasi sacri, carteglorie e tanti altre opere d’arte di
artigianato sacro anche locale.
Santuario rurale dell’Annunziata. Più che una semplice chiesetta di
campagna, è un piccolo santuario reso ‘artisticamente’ grande dalla volta
decorata con festoni, putti e figure antropomorfe, dall’accademico di

Un suggestivo scorcio
del centro storico
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San Luca Gaetano Nenci. Testimone di passate scampagnate, la chiesetta
viene eretta su un terreno donato da Luigi Pecci, padre del futuro
papa. In precedenza si trovava accanto al fontanile.
Chiesa di Santa Maria del Popolo. “Il popolo di Carpineto dalla
sapiente e onnipotente grandezza di Dio, liberato dalla peste dell’aria
per intercessione della Beata Vergine Maria in onore della quale fondò
questa basilica, con l’aiuto dei benefattori e a spese proprie - 1483 - Sisto
IV”. Questa targa rappresenta l’atto di nascita di Santa Maria del Popolo
la cui prima pietra, però, è posta almeno duecento anni prima. Il portico
a cinque fornici (tre frontali e due laterali) e ancor di più il portale in
Gotico fiorito ci fanno capire subito di che pasta sia fatta questa squisita
chiesa che prelude al convento delle suore Sacramentine. Sul muretto
che circonda il porticato, è presente il segno della ‘Triplice cinta’ che
legherebbe la chiesa ai Cavalieri del Tempio.
Sui capitelli dei pilastri della facciata, figurano una testa di cavallo e una
di cammello. Sotto il timpano piano, si può ammirare una croce orientale
basiliana, anche questa ricollegabile a decorazioni medievali. Sul
portale si trovano una Madonna con il Bambino e, in una nicchia laterale,
un’altra Madonna attribuita a Mino da Fiesole. La chiesa, al suo
interno conserva alcuni affreschi ben restaurati, uno di questi generosamente
attribuito a Filippino Lippi raffigura la Madonna del Rosario con
i quindici Misteri. E’ di soggetto biblico, invece, l’affresco che orna la
tribuna, sicura opera del Cingolani, allievo prediletto del Gagliardi. Un
Crocefisso ligneo e un San Rocco sono ospitati nelle omonime cappelle
laterali, frutto di un precedente restauro che muta l’assetto della navata.
Splendide le finestre medievali e l’acquasantiera in pietra locale.
Chiesa di San Michele Arcangelo. Nella parte più antica di Carpineto
Romano, cuore vitale del primo centro abitato, si ergono la Torre
Aldobrandina e il campanile della chiesa di San Michele (già
Sant’Angelo). Concepita ad unica navata come Santa Maria del Popolo,
e con questa condivide anche l’intrusione di due altari laterali. Oggi è di
nuovo in restauro. A questa chiesa appartiene la famosa tela della
‘Flagellazione’, attribuita a Giulio Romano. Molto bello l’affresco della
Cappella dell’Assunta, XVI secolo, d’autore ignoto.
Chiesa di San Nicola. La chiesa, in Via La Rosa, è sede permanente
della mostra sui Cimeli di Leone XIII, acquisiti per donazioni e recenti

acquisti. Fastosi abiti pontificali, fasce, stole, bastoni, occhiali, importanti
documenti, stampe d’epoca ed altri cimeli documentano la vita del
pontefice di Carpineto Romano. Tra i ‘pezzi’ più pregiati la penna con
la quale Leone XIII firmò nel 1891 la famosa enciclica ‘Rerum
Novarum’.
Chiesa di San Giovanni Evangelista. Sede della confraternita del
Santissimo Sacramento, la chiesa, restaurata al tempo di Leone XIII su
progetto di Antonio Fontana, appartiene con la canonica al Monastero
Carmelitano di Sant’Anna. Al suo interno conserva interessanti affreschi,
come quelli dell’abside, dovuti all’opera di Virgilio Monti, raffigurante
la Madonna in trono circondata dagli Apostoli della Chiesa.
Palazzo Pecci, casa natale di Leone XIII. Le poderose mura e le minuscole
finestre che caratterizzano Palazzo Pecci, fanno presumere che la
stessa costruzione facesse parte del castello o, quantomeno, della cinta
murata del maniero di Giovanni Conti che, come alcuni documenti provano,
‘abitava la quarta parte di Carpineto’. Il palazzo, cinquecentesco,
presenta due ingressi, uno in via Castello, l’altro, il principale, sotto il
portico al ‘Montano’. Una scalinata in pietra locale porta da una parte al
vestibolo e alle sale di rappresentanza, dall’altra al giardino pensile. Nella
cappella di famiglia dove fu battezzato Leone XIII, trovano posto reliquie
dei Santi canonizzati durante il suo lungo papato. Tra gli oggetti
conservati nel palazzo, incuriosisce il fucile da caccia del papa con relativi
acciarino e pietra focaia.
Torre Aldobrandini. Strategicamente sistemata sull’estremo sperone
del paese, la rocca del castello medioevale, oggi fa da torre di guardia al
museo ‘Reggia dei Volsci’; ai suoi piedi, accoglie il monumento all’emigrazione
realizzato nel 2007 dallo scultore Alessandro Kokocinski e le
antiche essenze del Giardino Barocco con secolari siepi di bosso, alloro,
pitosforo, lavanda ed erba ‘zappo’, realizzato dal Comune di Carpineto
in collaborazione con la Provincia di Roma.
Il Museo ‘Reggia dei Volsci’, ospitato nel palazzo dei Conti di
Ceccano che, nel 1599, lo cedono agli Aldobrandini, nel corso dei secoli
ha conosciuto diverse manomissioni. Restaurato e profondamente
modificato, ha perduto l’originale caratteristica di fortilizio a favore di
un’architettura residenziale, meno guerresca ma sicuramente più como-
125

Le case medievali
di Corso Vittorio Emanuele

128
da. Le opere conservate nelle sale del Museo ‘Reggia dei Volsci’ offrono
un fedele spaccato del territorio attraverso l’intelligente collocazione
musiva della vita quotidiana, della natura circostante, della cultura e dei
personaggi che hanno contribuito a far grande questo centro dei Monti
Lepini. In breve, questo è un museo che si pone a metà strada tra museo
delle opere d’arte e il museo territoriale. Nove sezioni, ben strutturate,
danno vita ad un percorso virtuoso che, attraverso altrettante sale, illustra
la storia (anche quella quotidiana) di Carpineto Romano e del suo
territorio. Il Museo con i nuovi adeguati sistemi di sicurezza è pronto ad
accogliere il ritorno del ‘suo’ Caravaggio.
Il Museo Agropastorale ‘Le capanne’, fa rivivere la civiltà contadina
delle popolazioni del territorio lepino, ponendo all’attenzione dei visitatori
oltre 500 strumenti di lavoro, tutti originali e funzionanti, utilizzati
dagli agricoltori, dagli allevatori e dai pastori. Una ‘capanna tonna’ (a
pianta circolare e copertura conica) è stata ricostruita come quelle originali.
Così come lo ‘stazzo’, diviso per esigenze espositive, in quindici settori,
ripropone il luogo deputato per il lavoro quotidiano dei pastori.
L’ambiente
Tra il verde delle faggete spicca l’acero rosso che rompe, con prepotenza,
altri verdi più intensi o più garbati che indicano specie diverse, querce,
lecci e poi carpini, tanti carpini da dare il nome all’intero paese. Al
limitar del bosco ampi pascoli che gli allevatori di qui chiamano ‘cese’,
ricchi di erbe che mutano, così come gli alberi, secondo le quote altimetriche.
Alle pendici dei Lepini, sulle prime sassose propaggini dei monti,
spicca il verde-argento degli ulivi. Poi una macchia mediterranea che,
con la campagna circostante, accoglie diverse specie di animali così suddivisi
da un censimento: 41 tipi di mammiferi, 10 di anfibi, 17 di rettili,
133 di uccelli nidificanti. In breve, cinghiali, volpi istrici, rane, raganelle
rospi e salamandre, serpenti vari e qualche vipera, poi falchi, poiane,
allocchi, gufi, e un altro centinaio di tipi di volatili. C’è di che farne un
Parco, che in molti chiedono ma che, per il momento, resta un parco di
carta.
Feste e Sagre
Il ‘Pallio della Carriera’ è una rievocazione storica dedicata alla figura

di Donna Olimpia Aldobrandini che trasforma in Ducato il feudo di
Carpineto portandolo al centro degli interessi della potente famiglia e a
conoscenza di quanti, a quei tempi, non ancora ne apprezzano i pregi.
Al ‘Pallio’ partecipano i sette rioni di Carpineto, ognuno dei quali nei
dieci giorni che precedono la ‘disfida’ aprono le rispettive ‘Hostarie’
dove servono piatti locali e vino a volontà. La parola ‘carriera’, o corsa
sfrenata dei berberi del carnevale romano, è sufficiente a far capire
come si svolge il ‘Pallio’: i cavalieri che una volta si sfidavano in gare
equestri nell’abitato, oggi si contendono la corsa dell’anello su un campo
di gara allestito sul terreno dello stadio cittadino.
Piatti tipici
Gnocchi a coda de ‘soreca’. Si tratta di una pasta ammassata con
acqua e farina, lavorata a spaghettoni tipo ‘strozzapreti’ e poi conditi con
ragù di cinghiale.
Polenta con spuntature. E’ la classica polenta, ma condita con un
ricco sugo guarnito da altrettanto saporite spuntature di maiale.
‘Ntortalicchi’. Sono ciambellette fritte ottenute da un impasto di patate,
uvetta sultanina, farina e lievito.
Da Roma
Auto: autostrada Roma-Napoli uscita Colleferro. Bus navetta fino a
Carpineto Romano.
Autobus: autolinee Cotral. www.cotralspa.it.
Treno: linea Roma-Napoli (via Cassino-Frosinone), scendere alla
Stazione di Colleferro e proseguire in autobus.
Connettiti al wifi gratuito
di Carpineto Romano
Municipio
P.zza Regina Margherita
Uffici Comunali
Via G. Matteotti 58
Centro Anziani
Via G. Matteotti
I link
http://www.carpinetoromano.it/
http://www.provincia.roma.it/
129

130
Castel
Madama>>>>>>
Castel Madama,
le mura del Castello Orsini

La storia
Corsi e ricorsi scandiscono la storia di Castel Madama fin da quando
si chiamava Castel Sant’Angelo. Nel quarto volume del ‘Giornale
arcadico di scienze lettere ed arti’, edito in Roma nel 1819, in riferimento
alle cronache cinquecentesche, alla pagina 296, si legge: ‘Fino all’anno
1529, niuno de’ castelli vicini aveva ricusato di pagare la Gabella del Passo, che
Tivoli esigeva da molti secoli. Gli abitanti di Castel Sant’Angelo, protetti dalla casa
Medici osarono di negarlo. I tiburtini si fecero ragione con le armi, ed avendo commesso
delle rappresaglie contro gli arditi vicini li ridussero al dovere. Col pretesto di
un breve di leone X, fecero i castellani nel 1535 un altro tentativo di sottrarsi al
Dazio…’. La cronaca cinquecentesca sulla Gabella del Passo legata alla
famigerata Porta Adriana (passo obbligato verso Roma, mutata dai
Tiburtini in porta daziaria e per questa ragione è più volte attaccata e
data alle fiamme dai castellani), prosegue riportando i motivi che hanno
spinto il pontefice Leone X, secondogenito di Lorenzo de’ Medici e
Clarice Orsini, a concedere l’esenzione del Passo ai castellani prodighi
di ricchi rifornimenti, le famose ‘grasce’, riservati dagli abitanti di Castel
Sant’Angelo alla corte papalina e alla città di Roma.
Il 7 luglio del 2010 si materializza, dopo poco meno di cinquecento
anni, il ricorso storico. Dal sito ufficiale del Comune si apprende: Titolo
‘Pedaggio autostradale. La protesta del sindaco contro la nuova Gabella del Passo’.
Testo: ‘Castel Madama, 7 lug. 2010 (Ufficio stampa Comune di Castel Madama)
- Aumentano le distanze tra Castel Madama e la Capitale. I quaranta chilometri
che quotidianamente sono costretti a percorrere i pendolari che devono recarsi a Roma
per studio o lavoro costano cari. Gli aumenti entrati in vigore lo scorso primo luglio
stanno penalizzando pesantemente i cittadini castellani, che si sentono discriminati e
danneggiati. Il pedaggio autostradale è aumentato di cinquanta centesimi, il che significa
un euro di spesa in più al giorno calcolando andata e ritorno. Il Sindaco di
Castel Madama ha accolto le proteste dei cittadini ed ha scritto al Presidente della
Repubblica, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della Camera e
del Senato e ai Presidenti dei Gruppi Parlamentari. «Ritengo importante che il legislatore
conosca l’impatto delle proprie scelte sui cittadini» spiega Giuseppe Salinetti
nella lettera. «Le disposizioni contenute nel comma 2 dell’art. 15 del D.L. n.
78/2010 - scrive il Sindaco - sono un accanimento contro gli studenti o i lavoratori
che, per squilibri territoriali e per un insufficiente servizio di trasporto pubblico,
sono costretti a recarsi a scuola o al lavoro con i propri mezzi, spendendo quasi un
quinto di quanto guadagnano e passando in fila sull’A24 tre ore al giorno della propria
vita». Insomma, dopo cinque secoli Castel Madama torna a lottare contro quel
131

132
La ‘lanterna’ della chiesa
Parrocchiale

la che viene definita la nuova Gabella del Passo’. Proteste e ricorsi al Tar da
parte della Provincia, portano al momentaneo blocco del provvedimento
che è riproposto e nuovamente approvato dal Governo Berlusconi
innescando il secondo ricorso al Tar da parte della Provincia di Roma.
All’odiata e più volte devastata Porta daziaria di Tivoli si è sostituito il
casello autostradale di Roma Est, ma la sostanza non cambia. Ogni pendolare
per la nuova ‘Gabella del Passo’ è costretto a pagare ogni anno
dai 600 agi 800 euro in più sul già pesante costo del pedaggio. Il braccio
di ferro continua.
L’altra storia, quella cristallizzata dai secoli, affonda le radici nella leggenda
legata alla fondazione di Tivoli da parte di Tiburio e dei suoi fratelli
che, dopo Tivoli, intorno al 1215 avanti Cristo, favorisce la nascita
di Saxula, Varia, Silicon ed Empulum; quest’ultima cambia il nome in
Castel Apollonium, poi, ancor più in là nei secoli, in Castel Sant’angelo.
Nel 1538, in omaggio alla munifica feudataria Margarita d’Austria,
diventa definitivamente Castel Madama.
La romana Empulum appartiene alla ‘gens Anicia’, stirpe di Santi, i cui
rappresentanti più noti alla storia sono tre: quel Placido Anicio al quale
apparve il simbolo di Cristo tra le corna del cervo al quale stava dando
la caccia sulla Mentorella (vicenda che lo porta ad abbracciare il
Cristianesimo, a cambiare nome facendosi chiamare Eustachio e, infine,
al martirio e alla santità), Silvia Anicia (anche lei diventa Santa) e suo
figlio Gregorio Magno, prima papa e poi anche lui Santo.
Il periodo più tormentato per il futuro Castel Madama, è quello compreso
tra il medioevo e il Cinquecento, segnato da continue guerre, carestie,
pestilenze e ogni genere di privazioni che si trovano ad affrontare
varie generazioni della famiglia Orsini, feudataria di quelle terre fino al
1520, anno della morte di Alfonsina Orsini, moglie di Pietro de’ Medici.
L’epoca d’oro, di contro, è quella legata all’illuminata gestione di
‘Madama Margarita’, vedova di Alessandro de’ Medici, che sposa
Ottavio Farnese, mette al mondo Alessandro (il Farnese della celeberrima
battaglia di Lepanto), e si adopera con impegno all’amministrazione
del territorio che, sotto la sua gestione, vive un pieno e ricco
Rinascimento. Con la morte di Margherita Castel Madama e il suo territorio
restano ai Farnese fino a quando, nel 1636, Ranuccio II cede il
feudo al marchese Alessandro Pallavicino il quale, a dispetto degli scettici,
riesce a non far rimpiangere i Farnese. Castel Madama cresce a tal
punto da richiedere la costruzione di un nuovo quartiere che sorge fuori
le mura e, con giusta logica, per distinguerlo dal Castelluccio margheri-
133

134
tiano, è chiamato Borgo Nuovo.
Il periodo Repubblicano e le parentesi francesi sono caratterizzati dagli
alti e bassi che condizionano l’intero Stato. L’ultimo dei Pallavicino, il
marchese Tiberi, è costretto a cedere per volere di Pio IX, i pieni poteri
e l’indipendenza alla comunità di Castel Madama.
Da vedere
Castello degli Orsini. Trecentesco edificio, rimaneggiato nel corso dei
secoli, è circondato da una cinta muraria munita di torri quadrangolari.
Iniziato nel 1308 da Riccardo e Porcello, figli di Fortebraccio Orsini, il
castello, oltre ai fondatori, ha ospitato tra le sue mura i Medici, i
Farnese, i Pallavicino e i Vulpiani, l’ultimo dei quali, l’ingegner Oreste lo
utilizza come sede dell’opera pia ‘Ottavia Vulpiani’ e, nel 1925, lo lascia
in eredità al Comune di Castel Madama. Oggi, dopo un accurato restaurato,
ospita nelle sue storiche sale il ‘Museo preistorico e protostorico
del territorio tiberino-cornicolano’ . La città murata che fa corpo unico
con il rimodernato castello è tutta un fiorire di ballatoi e antiestetiche
sporgenze create per accrescere il comfort delle case senza andare troppo
per il sottile.
Chiesa Parrocchiale di San Michele Arcangelo. Eretta dall’architetto
Pompeo Schiantarelli nel 1775, la chiesa dalla classica pianta a croce
greca, conserva diverse opere di notevole interesse, a partire dalla grande
tela d’altare raffigurante San Michele Arcangelo, dall’attribuzione
incerta, per alcuni ascritta a P. Labruzzi, per altri all’Hardtmuth, ed è la
copia del celebre dipinto omonimo del Guido Reni. All’interno della
porta laterale, in alto, tra l’altare della Madonna del Rosario e quello del
Crocefisso, la policroma maschera mortuaria di Sant’Ignazio di Loyola,
attribuita a Luigi Agricola, accademico di San Luca, sotto la quale è
murata una lapide che ricorda la pace tra i castellani e i tiburtini stipulata
nel 1548 per diretta intercessione di Sant’Ignazio. Allo stesso Agricola
è attribuita la tela dedicata a San Filippo Neri. Il restauro del 1942 restituisce
gli affreschi dei Quattro Evangelisti situati nei pennacchi della
cupola, opera del pittore Oscar Grottini che orna con festoni di fiori e
frutta, anche le quattro cappelline che contengono San Biagio, la
Vergine, San Michele e un crocifisso di scuola abruzzese. Interessante la
Via Crucis ottocentesca dipinta su tela.
L’organo ha le canne sopra il tamburo dell’entrata principale, mentre le

tastiere sono sistemate presso la balaustra di destra. La facciata, neoclassica,
ai lati del portale, presenta due nicchie con le statue di San
Giovanni Bosco e di Santa Maria Goretti.
Il Tempietto votivo di San Michele Arcangelo, sorge dove anticamente
era presente una croce di ferro, punto d’arrivo delle processioni
di diverse feste religiose. Il Tempietto, edificato nel 1873 su progetto
dell’ingegner Stanislao Mattei, è dedicato a San Michele Arcangelo al
quale la popolazione attribuisce il merito di aver preservato il paese dall’epidemia
di colera che miete vittime in tutto il circondario e nella stessa
Roma. Nel 1925 diventa Sacrario per i Caduti della Grande Guerra ai
quali si aggiungono quelli della Seconda Guerra Mondiale e le vittime
civili della barbarie nazista perpetrata il 6 giugno 1944 in località ‘Colle
Siccu’. Innalzato in stile neoclassico, il tempietto, conserva una tela del
pittore Leone Filippetti (copia del San Michele Arcangelo di Raffaello)
e lo splendido mosaico realizzato da Ferruccio Ferrazzi, nativo di Castel
Madama, dono dell’artista alla città.
San Quirico. La chiesa di San Quirico, costruita prima dell’Anno Mille,
risulta essere la più antica di Castel Madama. La datazione è confermata
due importanti documenti: l’atto di donazione di Papa Giovanni XII
datato 10 maggio 958 dove è citato il ‘Fundum Sancti Cirici’ e il
Diploma dell’imperatore Ottone dell’11 gennaio 967 che conferma il
suo beneplacito sulle terre di San Quirico. La Chiesina appare anche nel
Regesto della Chiesa Tiburtina del 10 dicembre 992, col quale il Vescovo
di Tivoli Amizzone concede, a titolo di enfiteusi fino alla terza generazione,
vari fondi, tra cui quello di San Quirico. Rimasta spoglia fino al
1500, è fatta affrescare dai Farnese che per l’occasione affidano l’incarico
ai fratelli Zuccari. L’altare maggiore è dedicato a San Quirico e a sua
madre Santa Giuditta, quello laterale al protettore dei Butteri,
Sant’Isidoro Agricola.
San Sebastiano. Com’è riportato sull’architrave della porta d’entrata, è
edificata ‘nell’Anno del Signore 1565’ per volontà di Andrea Croce,
Vescovo Tiburtino. Di modestissime dimensioni (9 metri per 18), presenta,
nella piccola abside, un delizioso piccolo affresco sul martirio di
San Sebastiano attribuito a Federico Zuccari. La chiesetta, che beneficia
della concessione dell’immunità, a quei tempi è spesso usata come sicuro
rifugio da chi ha problemi con la giustizia.
135

136
L’Ambiente
Un fiume, l’Aniene, e un suo affluente, il Fosso dell’Empiglione, caratterizzano
l’Agro di Castel Madama al pari dei vicini monti Tiburtini.
Lungo le rive dell’Aniene e del Fosso dell’Empiglione troviamo le classiche
formazioni vegetali di ripa costituite prevalentemente da pioppi
che, salendo lungo le pendici montane lasciano il posto a lussureggianti
boschi. Coltivi e pascoli fanno da raccordo tra l’ambiente fluviale della
Valle dell’Aniene e quello collinare (coperto da splendidi uliveti), che
prelude alle più impegnative altitudini dei monti che dominano la valle.
A livello faunistico sono presenti specie rare come la Lampreda, la
Salamandrina dagli occhiali, e l’Ulone ventre giallo che vivono negli
acquitrini di golena. I boschi che coronano i monti Ruffi, rappresentano
l’habitat naturale per cinghiali, volpi, faine e, a dar credito ad alcuni
sporadici avvistamenti, nei periodi più freddi, qualche lupo. Poiane e falchi
tra i rapaci diurni; civette, barbagianni e gufi tra quelli notturni, più
svariate specie di uccelli di passo e stanziali.
Feste e Sagre
Gennaio: Sant’Antonio Abate. Processione e Benedizione degli animali.
Febbraio: il ‘Carnevale castellano’, nel periodo canonico, prevede sfilate
di carri allegorici, cortei mascherati, degustazioni di frappe e castagnole,
canti, balli e partecipazione di popolo.
Il Venerdì Santo, come in altri centri, trova la sua massima espressione
nella Processione del Cristo Morto, alla quale prendono parte numerosi
figuranti in costume d’epoca (pretoriani romani a cavallo, prefiche, pie
donne, apostoli e notabili) e tre incatenati che al suono del tamburo trascinano
lungo la strada che porta ai Collicelli, le pesanti catene fissate
alle caviglie. Il Cristo Morto viene poi riaccompagnato alla chiesa di San
Michele Arcangelo.
Luglio: (secondo fine settimana). Il ‘Palio Madama Margarita’, pittoresca
rievocazione storica in onore della nobile castellana, ha luogo il
secondo fine settimana di luglio. Al corteo storico partecipano figuranti
con costumi di foggia cinquecentesca, accompagnati dai suoni di tamburi
e chiarine mentre lungo le vie cittadine sono ricreati caratteristici
angoli dedicati ai mestieri scomparsi. Nel pomeriggio della domenica, al
campo sportivo, i cavalieri si sfidano nella ‘Giostra del Saracino’. Il rione

Uno scorcio del centro storico
di Castel Madama
137

138
che supera tutte le prove con il punteggio più alto, (miglior addobbo,
corteo e contesa a cavallo), si aggiudica il titolo di ‘Rione Margarita’,
quello che primeggia sommando soltanto i punti corteo-addobbo,
acquisisce il diritto di fregiarsi del titolo di ‘Rione Nobile’.
Luglio: la ‘Sagra della pera Spadona’, si svolge la terza domenica di
luglio ma in realtà occupa più giorni con mostre d’arte, spettacoli, concerti
e mostre mercato. Un sentito omaggio alla Pera Spadona, prodotto
nato da un innesto tra un pero comune e uno selvatico, effettuato da
parte di un contadino del posto soprannominato ‘Stualetta’. La riuscita
dell’innesto ha portato alla nascita dell’ibrido che ha dato fama e ricchezza
al territorio di Castel Madama. Una varietà di questo saporito
frutto è la Pera ‘de zi Lorenzu’.
Dicembre: ‘Natale a Castel Madama’.
Piatti Tipici
‘Sagne assucche’. Pasta all’uovo lavorata a mano ed essiccata all’aria
aperta, condita a piacere con sugo di pomodoro e basilico, oppure di
carne.
‘Pisciallunghi’. La classica ‘pasta povera’ ammassata soltanto con
acqua e farina forgiata a mano fino a darle forme tonde e allungate,
come uno spaghettone rustico, condita al sugo di pomodoro e basilico;
‘Frascarei’. Anche in questo caso si tratta di pasta acqua e farina lavorata
come sopra ma a forme irregolari. Può essere consumata sia asciutta
con sugo pomodoro e basilico, sia a minestra con brodo vegetale o di
carne.
‘Pizza de turcu’. Farina di mais impastata e cotta in padella o alla brace.
Va condita con broccoletti ripassati in padella aglio e olio extravergine
d’oliva locale.
‘Pizza cresciuta’ (o Pizza di Pasqua). La preparazione di questo dolce
tradizionale richiede almeno una settimana, ovvero tutto il tempo necessario
per ammassare l’impasto ricco di uova e fargli fare una lunga lievitazione
prevista in due distinte fasi, determinanti per la buona riuscita
del prodotto. La Pizza cresciuta è il dolce tipico che accompagna la lauta
colazione di Pasqua.

Da Roma
Auto: prendere l’autostrada A24 Roma-L’Aquila in direzione
dell’Aquila. Uscita al casello Castel Madama.
Treno: linea Roma-Sulmona. Partenza da Roma Tiburtina fino a Castel
Madama. Poi bus navetta.
Autobus: con autolinee Cotral partenza da Metro Ponte Mammolo.
www.cotralspa.it.
Connettiti al wifi gratuito
di Castel Madama
Biblioteca
Corso Cavour 17
Comune
Corso Cavour 17
I link
http://www.comunedicastelmadama.it/
http://www.provincia.roma.it/
139

140
Castel San Pietro
Romano>>>>>>
Castel San Pietro Romano,
il Castello dei Colonna

La storia
Avete presente Sagliena, il ‘paese più scassato d’Italia’, come negli anni
’50 lo definisce il sindaco-fotoreporter di allora, Adolfo Porry-
Pastorel per convincere Vittorio De Sica a scegliere quell’improbabile
paese come location per girare ‘Pane amore e fantasia’? Sagliena, quel
paese ‘scassato’ che nella realtà è Castel San Pietro Romano, non c’è più.
Al suo posto è fiorito un paesino da sogno carico di storia e di cultura.
A Castel San Pietro Romano, ogni pietra è al suo posto e ogni posto ha
la sua specifica pietra, a partire dal Castello dei Principi Colonna che,
seppure abbondantemente corroso da secoli di lotte, assalti, guerre e
catastrofici decadimenti, è così ben restaurato da sembrare integro e,
soprattutto, in piena simbiosi con il paese che lo circonda. Proprio come
l’imponente maniero della vicina Rocca di Cave. Evidentemente, da
queste parti con i castelli ci sanno fare.
Il successo di ‘Pane amore e fantasia’, fa conoscere a molti registi sia il
paese che il naturale talento cinematografico dei paesani i quali, chiamati
a trasportare sullo schermo la loro vita di tutti i giorni, ignari di simbologie
isteriche, ignorano la presenza della macchina da presa e recitano
da perfetti professionisti. Così, considerando che la ‘location’ è ideale
e costa poco, il casting è lì, servito su un piatto d’argento, dopo De
Sica e la Lollobrigida per tutta la serie di ‘Pane amore e…’, arrivano Ugo
Tognazzi e Georges Wilson per ‘Il Federale’ di Luciano Salce, ancora
Tognazzi con Giovanna Ralli per ‘Liolà’, di Alessandro Blasetti, poi
Totò e ancora Vittorio De Sica per ‘I due marescialli’ di Sergio Corbucci,
quindi Peppino De Filippo con Lorella De Luca e Giovanna Ralli, in
‘Tuppe tuppe marescià’ di Carlo Ludovico Bragaglia, e per finirla qui
(ma ce ne sarebbero molti altri), Tina Pica, Sylva Koscina, Peppino De
Filippo, Paolo Stoppa e Dolores Palumbo per ‘Nonna Sabella’, regia di
Dino Risi. Scusate se è poco.
Il meritorio lavoro di recupero portato avanti dalle amministrazioni che
si sono succedute da quei lontani anni ’50, quando l’asinello ‘Barò’ portava
a spasso la ‘Bersagliera’ tra casette semidistrutte e strade sterrate
(ma non erano quelle del centro abitato, selciato dagli anni ’20, bensì
delle contrade vicine), sarebbe stato inutile senza la quotidiana collaborazione
dei ‘castellani’, (così si chiamano gli abitanti di Castel San Pietro
Romano), che ancora oggi curano con invidiabile maniacale attenzione
ogni angolo del paese. Casa per casa, pietra per pietra. Così il paese ‘più
scassato d’Italia’ è diventato un modello da seguire.
141

142
La storia di questo piccolo centro dei Monti Prenestini ha radici lontane,
anzi, lontanissime. L’uomo preistorico si stabilisce sulle pendici di
questi monti e lascia tracce della sua presenza riferite al Paleolitico superiore.
Il nome del paese, e qui siamo ancora in quella sottile terra di nessuno
che divide la storia dalla leggenda, gli viene dal fatto che proprio
qui l’Apostolo Pietro sale a predicare il Cristianesimo per contrastare il
culto della Dea Fortuna Primigenia venerata nel sottostante tempio di
Preneste. Sempre secondo la tradizione fu Costantino, imperatore cristiano,
a chiamarlo ‘Castrum Sancti Petri’. Il primo abitato, in realtà, non
è altro che l’acrocoro di Preneste, sorta poco più in basso, a mezza
costa del Monte Ginestro. Il periodo romano, quindi, accomuna Castel
San Pietro Romano alla storia della più frequentata ‘Prenestae’. Castrum
Sancti Petri, acquista una sua autonomia a seguito del dissolvimento
dell’Impero romano e alla caduta degli Dei, tra il 380 e il 392 dopo
Cristo, quando Teodosio vieta ogni espressione di culto pagano. L’antica
Preneste che vive grazie al culto della Dea Fortuna Primigenia, decade e
sale la stella di Castum Sancti Petri che, tra l’altro, con la prima fortificazione
diventa un punto strategico di difesa contro la calata delle orde
barbariche.
Il medioevo e la famiglia dei Principi Colonna, segnano il destino di
Castel San Pietro legato, come tutti i feudi dello Stato della Chiesa,
all’esito dei conclavi e alle decisioni del sempre nuovo ‘Papa Re’. I primi
sussulti di una lotta ricorrente tra la famiglia Colonna e il papato, si
hanno nel 1294 con Bonifacio VIII che dichiara decaduti i diritti di possesso
del Feudo da parte dei Principi Colonna i quali, per non esser da
meno, accusano Bonifacio di simonia adombrando anche l’illegittimità
della sua elezione a pontefice dopo la rinuncia di Celestino V, il papa del
‘gran rifiuto’ che muore, non a caso nel castello di Fumone, feudo dei
Caetani dalla cui casata è uscito Bonifacio VIII, al secolo Benedetto
Caetani. Per ritorsione il papa fa radere al suolo Colonna, Zagarolo,
Preneste e, nel 1299, la Rocca di Castel San Pietro nelle cui prigioni ha
fatto chiudere Jacopone da Todi, reo di aver parteggiato per i Colonna.
A ricordo di Jacopone, in occasione del settimo centenario della sua
morte, l’amministrazione comunale ha posto una lapide commemorativa
con un passo delle ‘Lauda’: ‘Che farai, frà Jacopone?/Sei venuto al paragone./Fosti
al Monte Palestrina,/anno e mezzo in disciplina’. Morto Bonifacio
VIII il breve papato di Benedetto XI (nove mesi), non consente ai
Colonna di ottenere giustizia. Il feudo torna nelle loro mani con il successivo
papa, Clemente V, l’avignonese Bertrand de Gouth, nel 1306. I

Colonna per prima cosa riedificano Preneste e, negli anni a seguire, risanano
la Rocca di Castel San Pietro che al successivo scasso con il papa
di turno, Adriano IV, nel 1437 viene nuovamente abbattuta, questa volta
dall’esercito capeggiato dal cardinale condottiero Giovanni Maria
Vitelleschi, braccio armato della chiesa e pupillo di papa Eugenio IV che
lo assolda proprio per combattere i Colonna.
Passano altri dieci anni, prima che i Principi Colonna possano rientrare
nelle grazie del nuovo pontefice e, di conseguenza, riappropriarsi dei
propri beni, Castel San Pietro compresa. La Rocca viene riedificata nel
1482. Oltre a Jacopone da Todi e al vescovo dei Marsi San Berardo, le
prigioni della Rocca ospitano un altro famoso personaggio: Corradino
di Svevia, prigioniero dopo la sconfitta di Tagliacozzo, in viaggio di trasferimento
verso Napoli dove sarà decapitato. In altra epoca, non meno
cruenta, tra le mura del castello è graditissimo ospite Michelangelo
Merisi da Caravaggio, in fuga da Roma dopo l’omicidio della Pallacorda.
Secondo alcune ipotesi accreditate, nel lungo inverno passato nella
Rocca, su commissione degli Aldobrandini amici dei Colonna, dipinge il
‘San Francesco in meditazione’ di Carpineto Romano, attualmente conservato
presso la Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini
a Roma.
Con il passare dei secoli, il castello perde la sua funzione difensiva e,
prima i Colonna, poi i Barberini, lo lasciano nel più completo abbandono.
Il recupero e l’amorevole restauro é cosa dei nostri tempi e, insieme
al castello, è rinato anche Castel San Pietro Romano, l’ex paese ‘più scassato
d’Italia’.
Da vedere
Chiesa di San Pietro Apostolo. Fondata, secondo la tradizione, per
volere dello stesso imperatore Costantino, a ricordo del luogo dove
l’Apostolo Pietro inizia le sue predicazioni nel Lazio, la chiesa è stata più
volte restaurata, quasi ricostruita. L’attuale forma risale al 1732 quando,
per volontà di papa Clemente XII Corsini l’architetto Nicola Michetti ne
muta radicalmente la struttura, allungando la navata e, realizzando
davanti alla facciata uno spazioso porticato. All’interno, sopra l’ingresso,
si trova l’iscrizione a ricordo di Clemente XII che ne ha sostenuto la
ristrutturazione settecentesca. La parete di sinistra ospita un fonte battesimale
dominato da una grande scultura raffigurante il battesimo di
Cristo. Segue l’altare di San Rocco, con una non usuale statua del Santo
143

Le antiche mura dell’acropoli

146
in versione giovanile, senza barba. Poi una tela della Madonna del
Rosario, l’altare del Cristo Morto e, in alto, una tribuna nobiliare gemella
di quella della parete opposta. L’altare maggiore ospita, murato a vista,
il reliquiario con i resti della Beata Margherita Colonna e, come pala d’altare,
una bella tela raffigurante San Pietro e gli Apostoli, opera di
Giacinto Gemignani. Tornando all’inizio della navata, si notano due
cippi di spoglio, romani, riadattati ad acquasantiera. Nella parete sinistra,
sempre partendo dall’entrata, si trovano, una bella statua marmorea di
San Pietro, di allievi del Bernini (il panneggio, in particolare, sarebbe
opera di Paolo Tenaglia), la Cappella del Salvatore con una bellissima
tavola, racchiusa in un tabernacolo ligneo settecentesco, dipinta sui due
lati: su un lato il Salvatore, sull’altro l’Immacolata. Segue un bel pulpito
antico sul quale spiccava un crocefisso in legno del ‘300 (ora conservato
in un posto più sicuro); infine l’altare che ospita le spoglie di un martire
cristiano, un soldato elegantemente vestito in broccato d’oro e
armato di spadino, al quale fu dato il nome di Clemente. Inizialmente i
resti si trovavano sotto l’altare maggiore. Chiude in alto l’altra tribuna
nobiliare. Sulla volta a Botte uno splendido affresco di Placido Costanzi
raffigura San Pietro che predica il Vangelo e ricaccia, quasi fuori dal
dipinto, la Dea Fortuna Primigenia. In sacrestia una bella tela seicentesca
dedicata alla Madonna del Rosario.
Chiesa di Santa Maria del Montirolo. Costruita sulla via del
Montirolo, appena fuori del paese, la chiesina ha un piccolo campanile
a vela. Notizie certe parlano di una datazione settecentesca ma, restaurata
di recente, presenta un piccolo affresco seicentesco che fa pensare
ad una datazione più lontana.
Rocca dei Colonna. Insieme alla chiesa di San Pietro, il castello dei
Colonna rappresenta il ‘clou’ delle emergenze architettoniche di Castel
San Pietro romano. D’altra parte il nome del paese la dice lunga: Castel
San Pietro. Il ‘Romano’ è una tarda aggiunta da unità d’Italia. La prima
fortificazione è databile poco prima dell’Anno Mille. Più compiute
forme le assume tra il 1100 e il 1200 quando, con i Colonna, diventa un
vero castello. Dopo le tante devastazioni, l’ultima ricostruzione risale al
1482, data certificata dall’iscrizione che ancora oggi si trova sulla torretta
del ponte che unisce il castello all’abitato: ‘Magnificus dominus
Stephanus Columna raedificat civitatem cum monte et arce
MCDLXXXII’. Eccellente l’attuale restauro.

Palazzo Mocci. Costruito in contemporanea con la nuova Chiesa di
San Pietro Apostolo intorno al 1732, appare raffigurato in un’incisione
del Vasi con la chiesa e la piazza, realizzata per la Camera Apostolica.
Committente e primo proprietario del palazzo è Cesare Stefano Mocci,
Uditore pontificio e grande amico del cardinale Lorenzo Corsini, futuro
papa Clemente XII che, una volta salito al soglio di Pietro, lo nomina
Luogotenente dell’Uditore della Camera e Giudice dei Palazzi
Apostolici.
Museo delle arti contadine. Dal 1989 il Centro Anziani di Castel San
Pietro Romano ospita il museo delle arti contadine, ‘Memoria del tempo
passato’. Al suo interno si possono ammirare gli strumenti usati dai contadini
nei campi, nelle stalle e negli stazzi. Ogni oggetto è accompagnato
dal nome (anche in dialetto) e da una succinta spiegazione dell’uso
che se ne faceva. Uno spaccato socio-culturale per non dimenticare le
proprie radici.
Monumento contro ogni guerra. Sul punto più alto di Castel San
Pietro Romano, tra il verde del giardino comunale, è stato innalzato un
monumento contro le guerre, com’è scritto sulla lapide, ‘passate e presenti’.
Una mano ignota, ma tragicamente lungimirante, ha aggiunto con
il pennarello ‘… e future’. Il monumento, il grande bossolo esploso di
un ordigno bellico incastonato nella fusione in bronzo, ricorda la tragica
fine di tre ragazzi del posto uccisi dall’esplosione di una bomba dell’ultima
guerra.
Mura poligonali. Affacciandosi dal belvedere all’ingresso del paese, lo
sguardo si perde verso la valle ma poi è attratto da un monumento orizzontale,
le mura poligonali che cingono il borgo fortificato. Alla parte
più antica, preromana, databile tra il VII e il VI secolo avanti Cristo, si
sono aggiunte nei secoli successivi altre pietre a difesa dell’abitato. Oggi
è in atto un’opera di certosino restauro che, una volta conclusa, riporterà
Castel San Pietro Romano ad essere il borgo murato dei tempi della
famiglia Colonna.
L’ambiente
Il bosco di Valle Cannucceta, dichiarata nel 1995 ‘Monumento naturale’
rappresenta il biotipo tipico della vegetazione del territorio. Tra le quer-
147

148
ce spicca per notorietà, la ‘Quercia di Pierluigi’, all’ombra della quale,
secondo la tradizione, il celeberrimo Pierluigi da Palestrina andava a
comporre le sue musiche. Oltre alle querce abbondano lecci, carpini,
roverelle, ginepri e altre specie di vegetazione locale che ospitano una
ricca fauna, compreso il ghiro lo scoiattolo e il moscardino. Poi ricci,
istrici, talpe, tassi e cinghiali. Non mancano volpi faine e donnole.
A livello geologico-ambientale è interessante la profonda dolina di Fossa
Lupara chiamata dalla gente del posto il ‘vulcano’, a causa della somiglianza
con un cratere.
Feste e Sagre
6 gennaio: festa della Epifania.
17 gennaio: (la domenica più prossima), Sant’Antonio Abate. Sfilata e
benedizione degli animali.
Febbraio: il ‘Carnevale di San Pietro Romano’. Concorso a premi per
costumi realizzati in proprio e non preconfezionati. Frappe, castagnole
e vino a volontà.
Venerdì Santo: Processione del Cristo Morto. Con canti della Passione
e fiaccolata.
Maggio: festa di San Clemente Martire.
16 agosto: festa Patronale di San Rocco.
Dicembre: ‘Natale a Castel San Pietro Romano’.
Piatti tipici
Gnocchetti a ‘coda de soreca’: Non si tratta di quelli che comunemente
chiamiamo gnocchi, ma di un tipo di pasta ammassata con sola
acqua e farina, lavorata come gli ‘strozzapreti’ e condita con sugo di
pomodoro, aglio olio e peperoncino.
Acquacotta: minestra di fagioli versata su fette di pane raffermo.
Condita con un filo d’olio extravergine locale.
‘Giglietti’: Sono degli strepitosi biscottini da inzuppare, a piacere, nel
latte o nel vino.
Pizza cresciuta: è la classica pizza pasquale lievitata e lavorata più
volte; ottima per la colazione di Pasqua.
Pizza sbattuta: soffice torta simile al Pan di Spagna.

Da Roma
Auto: A1, uscita ai caselli San Cesareo. Seguire le indicazioni per
Palestrina poi continuare in direzione Castel San Pietro Romano. A14,
uscita al casello di Tivoli in direzione di Palestrina, poi continuare come
sopra.
Autobus: Cotral partenza dalla Stazione Anagnina - Metro A. Cambio
a Palestrina per Capranica. www.cotralspa.it.
Connettiti al wifi gratuito
di Castel San Pietro Romano
Prossima installazione
I link
http://www.castelsanpietroromano.net/
http://www.provincia.roma.it/
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150
Cervara
di Roma>>>>>
Cervara di Roma, la scalea
che porta al Comune

La storia
IComuni della valle dell’Aniene hanno nel loro Dna una propensione
al record. Marano Equo, tanto per dire, è per estensione territoriale il
più piccolo Comune della Provincia di Roma. Saracinesco, da parte sua,
è il meno abitato. Cervara di Roma, con i suoi 1100 metri d’altitudine, è
il più alto. A riguardo di Cervara, poi, siamo certi che possa vantare
anche altri primati. Se qualcuno di buona volontà, si prendesse la briga
di contare tutti i gradini che accompagnano la vita quotidiana dei suoi
abitanti e degli estasiati visitatori che hanno il bene di fare la sua conoscenza,
scopriremmo che è anche il Comune della Provincia di Roma
con il maggior numero di gradini.
Già, perché a Cervara di Roma tutte le strade, i vicoli, gli sdruccioli, le
erte, gli anditi, i sottopassi e quant’altro sono formati da gradini. Cervara
è una fabbrica di gradini dove alacri mastri tagliatori di pietra, nel corso
dei secoli ne hanno creato d’ogni tipo: alti, bassi, lunghi, larghi, stretti,
curvi, garbati, scheggiati, in pietra gentile, ciottolati, in cubetti di porfido,
in lastroni sommariamente sbalzati e via descrivendo. Altro record:
a Cervara, ovviamente, le strade non conoscono né automobili né altri
mezzi motorizzati, senza il bisogno d’ordinanze municipali che abitualmente
sono richieste per la chiusura dei centri storici. Le strade di
Cervara conoscono soltanto robuste suole rinforzate da gomme antiscivolo
e solidi polpacci in grado di dominare anche le vertigini.
Detto questo sembrerebbe di trovarsi di fronte ad un ‘monumento alla
barriera architettonica’. Non è così. Cervara di Roma è un paese lieve,
carezzevole, pieno di attenzioni verso gli ospiti e, per farsi perdonare la
miriade di gradini, ha tessuto ad ogni angolo, su ogni muro, una poesia,
un disegno, una sinopia, un affresco, una scultura, un garbato accenno
alla natura circostante; come la farfalla e il ciuffo d’erba, commovente
‘trompe l’oeil’ ai lati di una finestra vera poco distante dalla chiesa matrice.
Sul fianco più impervio della montagna che ospita l’abitato, ogni pietra,
si può dire, è diventata una scultura e la montagna stessa appare
come un gigantesco studio di scultori vaccinati contro le vertigini.
Cervara è un museo a cielo aperto dedicato alla pace nel mondo. E,
quando arrivi lassù, al termine dell’ultimo gradino che porta alla sommità
della Rocca, la pace è lì, ai tuoi piedi, puoi toccarla con mano.
Cervara di Roma è il museo degli ospiti illustri che qui sono tornati semplici
cittadini, gente alla mano, simili tra i simili che, riconoscenti, hanno
voluto lasciare un tangibile segno del loro amore per questo paese per-
151

152
duto nel cielo.
Ecco, ogni opera d’arte sembra messa lì per far dimenticare i gradini,
mitigare la fatica, dimenticare gli altri gradini, quelli che mancano per
giungere in cima. Ogni opera d’arte, ogni frase, ogni poesia è un
momento di riposo per le gambe, per la mente e per gli occhi che altrimenti
resterebbero rapiti dal panorama circostante, vinti da un’inedita
sindrome di Stendhal legata alla particolare natura di questo posto che
fa scrivere a Raphael Alberti:
Cervara di Roma
vive sola, scolpita in cima
a una montagna di pietra.
E’ una scultura nel cielo,
che al cielo volerebbe
se l’aria la sostenesse.
Non so se fino a te si spingano
le rondini d’estate
lo chiedo nella valle,
nessuno me lo dice.
Sei così alta!
Salirò una sera da te
prima che venga il freddo,
a domandarlo.
Questa è Cervara. Scolpita in cima ad una montagna, dominata da un
antico maniero che il Genio ‘Incivile’, ha coperto di cemento, tanto
cemento da nasconderne la storia. Una storia che senza cedere alla
mitologia, risale a 150 anni prima dell’Anno Mille. Più precisamente
all’883, il 21 di agosto, quando ‘Cesario Dux e Consul’ dona all’Abbazia
Sublacense alcune terre e tra queste il ‘mons qui vocatur Cervaria’. Altri
storici si sbizzarriscono nel cercare paternità, più antiche o meno datate,
ma la realtà delle carte non è confutabile e certificano che i
Benedettini del Sacro Speco tengono ben salda nelle loro mani l’inespugnabile
fortezza di Cervara almeno fino al XIII secolo. Nel 1273 è occupata
da Pelagio di Jenne, monaco scismatico che per tre anni detta legge
dall’alto della Rocca, fino a quando sopraffatto dall’esercito pontificio
viene ‘fatto prigione’ come si diceva a quei tempi, e muore nelle segrete
della Rocca di Subiaco.
Che Cervara non abbia in simpatia guerrafondai e doppiogiochisti
ormai è un fatto appurato dalla storia. Nel 1592 il Vescovo Pompeo,
fidandosi di una notizia che dava per morto papa Giulio II, pensa bene

di appropriarsi del paese facendo trovare il futuro pontefice davanti al
fatto compiuto. La notizia della morte di Giulio II, però, è falsa. Di conseguenza
il redivivo papa destituisce il ‘già Vescovo’ Pompeo, gli toglie
Cervara e lo priva dei privilegi ecclesiastici. Probabilmente l’imprudente
ex porporato subisce anche altre pene, ma la storia non ne parla.
Cervara raggiunge il suo massimo splendore con Pompeo Colonna dai
primi anni del 1500 alla seconda metà del secolo. Nel 1536, l’illuminato
feudatario emana uno statuto cittadino e, cosa ancor più importante, fa
di Cervara un importante nodo della transumanza. La mena delle pecore
porta ricchezza ed il paese si trasforma, cresce intorno alla Rocca fino
a prendere le forme che ancora oggi gelosamente conserva. Passati i
fasti della transumanza e la benefica gestione dei Principi Colonna,
Cervara di Roma, come tutti i paesi di confine, è sottoposta a violenze
e a tentativi di conquista. Ci prova anche il famigerato brigante Marco
Sciarra nel 1592, ma Cervara si risolleva anche questa volta.
Caduti i feudi, caduto il Regno delle due Sicilie, caduto lo Stato della
Chiesa sepolto sotto la breccia di Porta Pia, Cervara perde la sua funzione
di paese cuscinetto, di fortezza di frontiera e, non rappresentando più
un interesse primario, decade anche lei. Decade, ma non si arrende. A
rilanciarla ci pensa la cultura. Tra i primi ospiti stranieri, agli inizi del
1800 arriva uno strano personaggio, Samuel Finley Breese Morse, pittore,
inventore e storico statunitense trasferito a Londra. Si, è proprio lui,
il padre del telegrafo elettromagnetico e dell’alfabeto Morse.
Samuel Morse dà il via ad una lunga teoria di pittori, scrittori, poeti,
scultori e umanisti vari che risalgono la valle dell’Aniene alla ricerca dell’ispirazione.
Un miracoloso passaparola che, nell’Ottocento, porta a
Cervara il tirolese Giuseppe Antonio Kock, il romano Bartolomeo
Pinelli, il francese Antoine Auguste Ernest Hébert che dipinge il celebre
quadro ‘Les Cervaroles’, il pittore tedesco August Weckersser, che assiste
all’incendio di Camerata e dalla tragedia trae ispirazione per un quadro
famoso: ‘Brand im Sabinergebirge’ (Incendio nei monti della Sabina).
Nel secolo scorso dalla vicina Anticoli Corrado e dal mondo intero arrivano
nomi illustri come Oscar Kokoschka, Luigi Pirandello, Ferruccio
Ferrazzi e, negli anni a noi più vicini poeti come Giuseppe Ungaretti,
Raphael Alberti, Elio Filippo Accrocca, Mario Lunetta e altri; tra i musicisti,
un nome per tutti: Ennio Moricone che sul muro della scalinata
degli artisti, disegna un pentagramma con le prime note di un notturno
per Cervara ‘…è una composizione che ho scritto in omaggio alla straordinaria leggerezza
di questa cittadina…’. Poi pittori, tanti pittori: da Sante Monachesi
153

154
a Domenico Purificato e Aldo Riso, che lasciano i loro affermati nomi
accanto a quelli di tantissimi giovani talenti, firme emergenti dell’arte
moderna. Ma anche semplici persone di buona mano, che hanno voluto
lasciare un segno del loro passaggio in questo paese proteso nel cielo,
tanto caro agli ospiti quanto agli Dei.
Da vedere
Santa Maria della Visitazione. La chiesa parrocchiale di Cervara, che
si staglia maestosa sotto la Rocca, risale al 1400. Su una delle sue campane,
infatti, compare la scritta ‘fusa nel 1428 la prima volta e rifusa nel
1785 la seconda’, una maniera intelligente per risparmiare sulle spese di
fusione senza perdere la storia. Lo stile del campanile, però, fa pensare
ad una data precedente. La facciata della chiesa, a conci di pietra a vista,
risente delle tante manomissioni che si sono susseguite nel corso dei
secoli, specialmente di quella operata nell’Ottocento per accrescerne la
volumetria. Al suo interno conserva una pregevole tela attribuita a
Vincenzo Vanenti di Orvinio databile verso la prima metà del Seicento;
un altro dipinto di autore ignoto raffigurante la Madonna del Carmine
orna l’altare maggiore sotto al quale è conservato il corpo di un martire
della Chiesa, dono di Pio VI a Cervara, proveniente dalle catacombe di
San Callisto. Vicino al corpo fu trovata una lapide con sopra scritto
‘Felix’. Così, elevato alla Santità e chiamato San Felice, diviene il Santo
Patrono del paese. San Felice è festeggiato il 3 luglio.
Santa Maria della Portella, come si evince dal nome, si trova alle porte
del paese e appartiene alla tipologia delle chiese rurali, nel caso specifico,
della transumanza, istituita nel 1702 dai Gesuiti, ‘in occasione delle
sante missioni che fecero in detta terra’. In realtà la sua fondazione è più
antica: risale ai primi anni del 1500. Al suo interno una statua in terracotta
raffigurante la Madonna con il Bambino.
Il ‘Museo della Montagna: transumanti e pitturi’ si trova a mezza
strada tra il Comune e la Chiesa matrice, posizione emblematica che si
riflette anche nei contenuti del piccolo museo che vanno dai paramenti
Sacri, i reliquari, un quadro bifacciale del Salvatore, la statua della
Madonna della Visitazione, il tesoretto votivo donato dalla
Confraternita della Madonna della Portella, altri beni provenienti dalla
Collegiata e, accanto alle cose Sacre, le testimonianze laiche della vita dei

Poesie e poetiche di un paese
dedicato all’arte e alla pace nel mondo
155

156
pastori, degli agricoltori e degli artigiani, i costumi della Cervara che fu.
Schede in italiano, inglese e ‘Braille’ accompagnano le cose esposte.
La Scalinata degli Artisti, un termine sicuramente riduttivo che farebbe
pensare ad un ben definito percorso dove, da qui a lì, sono esposte
composizioni, murali, sculture ed altre opere di varia natura che abitualmente
racchiudiamo sotto la parola ‘Arte’. La Scalinata degli Artisti c’è,
effettivamente esiste ed è quella che parte dal parcheggio situato ai piedi
del paese dove c’è l’unica costruzione ad andamento orizzontale: la farmacia.
Dal primo gradino, anzi, prima del primo gradino, la Scalinata
degli Artisti inizia con un’imponente pittura murale sulla roccia che fa
da quinta al parcheggio e lascia intendere da subito che la scalinata sarà
lunga assai. Non finisce, infatti, come uno può pensare, alla piazzetta,
unico monumento piano, punto di riposo per l’occhio e per le gambe,
in quest’orgia di scalinatelle, dove, strategicamente è sistemato un bar
che rappresenta il giusto premio e la prima tappa di quella che si rivela
la vera Scalinata degli Artisti: Cervara, tutta intera.
Scalinata dopo scalinata è una continua scoperta di opere d’arte, poesie,
brani, ispirati carmi, ceramiche di sconvolgente bellezza come quella
della piazzetta, poi pitture che si mischiano agli intonaci delle case e case
che si confondono nei colori delle opere che le circondano. Anche le
targhe toponomastiche sono opere d’arte: aggraziate composizioni, garbate
vicine di casa, compagne di vita e, al tempo stesso, arredo urbano.
Arredo, certo, ma che splendido arredo. Tutta Cervara, scala dopo scala,
è un museo a cielo aperto. Uno splendido Museo che fa apparire bizzarra
l’idea stessa di dotare il paese di un Museo classico, a porte chiuse,
dove, tra mura sommariamente domestiche far rivivere mestieri e costumi
ormai spariti.
La ricchezza che verrà, la transumanza del terzo millennio, si svolge alla
rovescia, invece di scendere sale lungo le scale di questo paese pulito e
ordinato. E’ una ricchezza che ha un nome breve e illuminante: Arte.
Cervara di Roma è la casa dell’arte, una casa tutta in salita che, come per
incanto, non ti stanchi di salire e non vorresti mai più scendere. A mezza
costa, soccorre l’ospite al primo affanno, una folgorante poesia in romanesco
di Renato Merlino:
So 171 li scalini
che porteno a Cervara.
Li primi 30 è un gioco da ragazzi:
schizzi come li razzi

e vai a tutta callara!
L’artri 30 zompetti:
mò l’aria è fresca e t’accarezza er viso,
er passo è un po’ più lento ma deciso…
‘gni scalino sculetti!
Li 30 appresso sembrano più arti
e stammatina
te manca la benzina…
la fatica la scarti e la rincarti.
Ancora 30. Nun finisce mai
‘sto coso de sasso…
ogni passo un riposo
ogni riposo un passo.
Ma sai ch’è lungo assai?!
Oddio, ancora 30! Manca er fiato
e le gambe te pareno de legno
nun c’è nemmanco un fregno
che te possa aiutà. Te sei abbioccato!
Mo li 21 che ce stanno ancora
chi je la fa a salilli, è ‘na malora!
Uno scalino e un fiotto,
un fiotto e uno scalino…
Ecco… ce sei arivato e tutto un botto
er cielo è più turchino.
Giri lo sguardo verso la vallata:
e indovini ‘na visione beata!
So’ 171 li scalini,
l’hai fatti tutti e adesso a l’improvviso
te pare d’esse annato in Paradiso
L’Ambiente
Cervara è una delle porte d’ingresso al Parco Naturale Regionale dei
Monti Simbruini: 30.000 ettari di area protetta ricca di vegetazione. Vasti
querceti e ombrose faggete verdeggiano sulle rocce dei monti. Nelle
radure spunta il tasso e ai margini del bosco l’agrifoglio insieme alle altre
essenze presenti nella faggeta, o nei boschi misti dove il carpino, il cerro
e la roverella rappresentano la parte più rilevante della flora. Più raro ma
ben presente il celebre carpino nero di Cervara. In tutto il Parco, poi,
157

Alcune sculture
della ‘Montagna della Pace’

160
sono state classificate ben 35 specie di orchidee.
La fauna è molto varia. Re della foresta è il lupo e, sempre tra i canidi, è
presente la volpe. Dai vicini monti Ernici sconfina qualche orso marsicano,
animale molto schivo, difficile ma non impossibile da incontrare.
Tra i piccoli mammiferi figurano la lepre, la faina, la martora, la puzzola,
l’istrice, il tasso e qualche raro gatto selvatico, poi, di più grossa taglia,
cinghiali, caprioli e cervi. Nel cielo volteggiano poiane, sparvieri, gufi,
allocchi, coturnici e il falco Pellegrino che è l’emblema del Parco.
Area faunistica del Cervo. In località Prataglia, tra Cervara di Roma e
Campaegli, è stata attivata l’area faunistica del Cervo. Nel recinto sono
ospitati tre cervi provenienti dall’area faunistica di Vallelonga nel parco
Nazionale d’Abruzzo: un maschio di due anni, una femmina adulta ed
una femmina di due anni. Nel contempo, la direzione del Parco ha iniziato
un’operazione di ripopolamento reintroducendo dieci cervi, quattro
maschi e sei femmine, nella zona di Jenne. A questo primo nucleo
ne seguiranno altri con l’intenzione di riportare il cervo nei monti
Simbruini, da dove è scomparso più di cento anni fa.
Feste e Sagre
Corpus Domini. Come avviene in tante altre feste religiose, anche in
occasione del Corpus Domini, funzioni sacre e processioni sono affiancate
feste laiche con concerti bandistici, band giovanili, fuochi d’artificio
e spettacoli popolari.
Ballo della Mammoccia. A chiusura dell’estate agostana, tra le feste
tradizionali spicca per originalità ‘il ballo della mammoccia’ che è un’alta
pupazza di cartapesta e canne che prima viene fatta danzare e poi data
alle fiamme rievocando i riti propiziatori con i quali i popoli pagani salutavano
la fine dell’estate e l’arrivo dei primi freddi.
L’Inchinata. Ogni 14 di agosto inizia un ciclo di feste religiose per glorificare
l’Assunzione in cielo di Maria Vergine, con la suggestiva processione
dell’Inchinata.
San Rocco. Il 16 agosto, a chiusura delle festività estive, si svolge la
seguitissima processione di San Rocco che richiama a Cervara di Roma
fedeli provenienti dai paesi vicini.
Le sagre. Nel corso dell’estate hanno luogo diverse sagre legate alle tradizioni
contadine, agli antichi mestieri e alla gastronomia locale che propone
piatti e ricette ormai quasi dimenticate.

Piatti tipici
Pappardelle di Farro ai funghi porcini. I piatti tipici di Cervara non
si discostano da quelli presenti nei vicini centri della valle dell’Aniene:
Meritano un cenno particolare le gustosissime Pappardelle di Farro, nate
da un impasto d’acqua e farina con l’aggiunta di farina di farro, condite
con i funghi porcini o, fuori stagione, con sugo a piacere.
Da Roma
Auto: prendere l’autostrada A24 Roma-L’Aquila in direzione
dell’Aquila. Uscita al casello Vicovaro-Mandela. Proseguire sulla
Tiburtina fino ad Arsoli, poi per Cervara di Roma.
Treno: linea Roma-Sulmona. Partenza da Roma Tiburtina, fino alla stazione
di Arsoli. Poi bus navetta Cotral.
Autobus: con autolinee Cotral Roma-Arsoli o Roma-Subiaco. Partenza
da Metro Ponte Mammolo. www.cotralspa.it.
Connettiti al wifi gratuito
di Cervara di Roma
Municipio
Piazza Umberto I
I link
http://www.comune.cervaradiroma.r
m.it/
http://www.simbruini.it/
http://www.provincia.roma.it/
161

162
Gorga>>>>>
Gorga, il retro del Palazzo
Doria Pamphilj coperto dal cemento

La storia
Quattordici tornanti per arrivare lassù, sulla cima del costone roccioso,
alle falde del monte Volpinara dove Gorga svetta e controlla la
valle sottostante. A fare gli onori di casa, a Gorga, c’è una pastorella,
anche lei, come il paese, inerpicata lassù, in cima ad un ammasso di
rocce da dove, da centoventi anni o giù di lì, assiste bonaria e sorridente
al dipanarsi della vita quotidiana di questo piccolo borgo, avamposto
della provincia di Roma al confine con la Ciociaria. Più che un monumento,
quello della pastorella è una felice metafora, un’allusione all’aria
pura e sottile, alla semplicità francescana della vita, alla morigeratezza
dei costumi, che qui sembra aver resistito all’urto delle veline e alle tante
miserie che le circondano. La brillante idea di far accogliere l’ospite da
una pastorella è un biglietto da visita che vi dice subito con chi avete a
che fare.
La cartina di tornasole è lì, a pochi metri dalla pastorella, sulla piazza;
dentro e fuori del bar si muove lo spaccato che farebbe la felicità di un
rilevatore dell’Istat. In pochi metri quadrati è racchiusa una qualificata
rappresentanza di gorgani (così si chiamano gli abitanti di Gorga): la
madre con il bambino in braccio, il papà che fa colazione con il figlioletto
pronto per la scuola, due muratori, due tecnici dell’Enel, un professionista
in giacca e cravatta, pronto a partire verso la capitale, una
guardia municipale, un’impiegata (poi scopriremo del Comune) e una
coppia di paciosi pensionati -probabilmente marito e moglie- che, seduti
al primo sole, garantiscono la completezza dell’unità statistica. A
Gorga si vive bene, il paese è tranquillo, i figli crescono bene, gli anziani
sono rispettati e assistiti, gli operai si dibattono qui come altrove tra
non pochi problemi, la disoccupazione giovanile preoccupa, l’ordine è
garantito, la solidarietà del ‘privato’ (leggi gente) mette riparo ai limiti del
‘pubblico’ (leggi Stato), e la vita va avanti meglio che altrove. Il tutto si
desume dai discorsi dei gorgani davanti al ‘cornetto e cappuccino’, servito
da un barista-psicologo che rende superfluo il ricorso alla terapia di
gruppo.
Gorga è un bel paese, un presepe medievale costruito con secolare perizia
artigianale, dove una mano, estranea e sgarbata, ha posato nel bel
mezzo una scatola da scarpe color grigio cemento. Quello che doveva
essere il salotto buono del paese, l’argenteria di famiglia, il Palazzo
Baronale dei Doria Pamphilj, in più sede della massima rappresentanza
locale, il Municipio, è diventato un corpo estraneo all’edificato che lo
163

164
circonda. Uno sciagurato restauro degli anni ’70 dello scorso secolo, ne
ha mutato l’aspetto in maniera radicale, un po’ come la Rocca di Cervara
di Roma, coprendo le antiche mura con uno spesso strato di malta e
cemento grigio, rotto soltanto dalle finestre con gli infissi in puro alluminio
che garantiranno pure dagli spifferi ma sono un pugno nell’occhio,
un’offesa al paese che non merita questo scempio. La facciata della
dirimpettaia chiesa di Santa Maria Assunta, bella e pura nelle forme,
deve aver fatto i conti con un avanzo di malta dei ‘cementificatori’ del
Palazzo Baronale. Non si capisce come sia potuto accadere tutto questo,
bastava voltarsi e guardare la casetta di fronte, all’angolo con via della
Pace, sapientemente restaurata, verrebbe da dire rianimata, con certosina
pazienza passando la malta tra una pietra e l’altra, rinforzando la
struttura nel rispetto dell’esistente; ecco, bastava prenderla come esempio
e curare così anche il palazzo. Proprio quello che vorrebbe fare il
sindaco, Nadia Cipriani, per restituire al paese un Palazzo Baronale,
come direbbe Petrolini, ‘più grande e più bello che pria’.
Per fare un paese così garbato bisogna avere molta storia alle spalle. E a
Gorga la storia non manca anche se quella degli albori che va dai 75.000
ai 35.000 anni fa, nel ‘Musteriano’ direbbero i paleontologi, ha lasciato
poche tracce e quella a noi più ‘vicina’ dell’Eneolitica Età del bronzo,
secondo alcuni, sarebbe finita in una discarica. I resti fittili ritrovati dal
Monsignor Luigi Scialdoni, catalogati e datati dal professor Ugo Rellini,
alla morte del monsignore sono spariti. E con loro è sparita una fetta di
storia locale riferita alla vita di una tribù Volsca, i cui esponenti rappresentano
i più lontani antenati degli odierni gorgani.
Altri segni di vita si trovano presso l’Orto dei Frati e vicino alla chiesa
di San Domenico fuori le mura dove sono tornate alla luce due necropoli
e, in località Ricciali, attraverso una cisterna. Segni evidenti dell’esistenza
di un Pagus che, vista la posizione strategica, deve aver conosciuto
nel tempo, prima l’interessata presenza dei romani, poi, quando l’impero
si è dissolto, la non meno interessata esigenza d’altre genti che
hanno visto nell’acrocoro un valido baluardo contro le scorrerie dei barbari.
La prima prova provata dell’esistenza di Gorga come borgo viene da
una Bolla emanata da papa Urbano II nel 1088, con la quale stabilisce
che il ‘Castro’ di Gorga fa parte della giurisdizione di Anagni e da questo
dipende. I ‘condomini’ anagnini, così sono chiamati i proprietari terrieri
in quegli anni, nel 1151 cedono alcune terre al monastero di
Villamagna (Comune dal quale dipende Gorga) e, nel 1216 vendono la

estante parte sempre allo steso monastero che così diventa proprietario
unico del tenimento e, come tale, decide di dividere Gorga in due
‘Decarcie’ (gli attuali quartieri), superiore e inferiore, mettendo a capo
di ciascuna un Comestabile, che garantisce il patto di Vassallaggio firmato
contestualmente dalla comunità nella chiesa di San Michele
Arcangelo. La divisione corrisponderebbe agli attuali ‘Portabballe’ e
‘Portammonte’.
Nel corso del 1398, i gorgani, stanchi dei soprusi di Villamagna, assaltano
l’abitato dell’odiato comune, lo radono al suolo e si dichiarano finalmente
indipendenti. La Reverenda Camera Apostolica interviene rivendicando
la proprietà del feudo dato in gestione ai Benedettini di
Subiaco. La stessa Camera Apostolica cede il feudo alla famiglia dei marchesi
Conti che lo detengono fino al 1638 quando, morto senza figli il
marchese Baldassarre Conti, il duca Camillo Conti, vantando il diritto di
parente più prossimo s’impossessa del feudo suscitando la reazione
della contessa Cornelia Theodoli di Marsciano e della monaca Cleria
Conti dei marchesi di Gorga, la prima nonna paterna e la seconda sorella
di Baldassarre, che impugnando l’atto ritenuto arbitrario danno il via
ad una causa di fronte al Tribunale Apostolico, che dura dieci anni. Nel
1648 la marchesa di Marsciano vince la causa, entra in possesso di
Gorga e la dona al figlio Marc’Antonio.
Il nuovo feudatario si dimostra subito per quello che è, un arrogante
‘mercante di campagna’ che, acquisiti i balzelli già esistenti (compreso
quello che prevede il pagamento in natura di una gallina ogni cinque abitanti,
o fuoco), assume in prima persona la gestione del ‘Monte frumentario’,
istituzione fondamentale per i ‘mercanti di campagna’ che prevede
il prestito del grano da semina con l’obbligo di restituire, al momento
del raccolto, il doppio del grano preso in prestito (per ogni sacco di
grano da seme, due di nuovo raccolto). La gestione diretta del Monte
frumentario diventa un mezzo per l’esercizio del potere assoluto, a limite
della vita e della morte, decidendo a chi dare il seme e a chi negarlo.
Di questo potere fa largo uso il marchese di Marsciano e le proteste dei
gorgani si trovano in varie suppliche nelle quali accusano il feudatario di
‘prestare il grano a chi gli pare’. Nonostante i tanti balzelli e l’uso fazioso del
Monte frumentario, il marchese Marc’Antonio si copre di debiti a tal
punto che la Reverenda Camera Apostolica, per rientrare dei fondi dati
in garanzia, nel 1659 requisisce il feudo e lo mette nuovamente in vendita.
I nuovi feudatari sono i Pamphilj, già proprietari di Valmontone e
di altri paesi dell’agro circostante.
165

166
Le bifore e il rosone della strugente
chiesa di San Michele Arcangelo

L’avvento dei Pamphilj si dimostra finalmente favorevole agli abitanti
del piccolo centro che, con il precedente feudatario, come numero di
abitanti è sceso ai minimi storici. Per i Pamphilj Gorga non rappresenta
soltanto un ‘affare’ economico ma una proprietà di prestigio per accrescere
il ‘Bellissimo Stato’ che da anni la famiglia vuole realizzare in questa
parte del Lazio. Tanto per cominciare, il castello è completamente
ristrutturato passando da Rocca di difesa a palazzo Baronale. Al tempo
stesso le condizioni di vita dei gorgani migliorano molto. I balzelli pretesi
dai Pamphilj, sono commisurati a quanto il feudo produce e può
sostenere. Purtroppo per Gorga il casato dei Pamphilj si estingue nel
1760 per mancanza di eredi. L’ultima Pamphilj, Anna, sposa Giovanni
Doria di Genova e il feudo passa quindi ai Doria Pamphilj che hanno
interessi altrove e non dedicano a queste terre la stessa attenzione dell’originaria
famiglia Pamphilj.
L’unità d’Italia non cambia in maniera sostanziale le condizioni di vita
degli abitanti di Gorga che, come testimonia la fontana della pastorella,
continuano ad interessarsi della mena delle pecore lungo i tratturi della
transumanza, commerciano lana e formaggi, curano i raccolti delle terre
strappate alla montagna e, dall’alto della rocca, guardano laggiù, verso la
valle e oltre. Roma, al di la della pianura, è la meta della nuova transumanza
che oggi chiamiamo ‘pendolarismo’.
Da vedere
La chiesa di San Michele Arcangelo, sorge in Piazza Mazzini, di rimpetto
al Palazzo Baronale Doria Pamphilj, attuale sede del Municipio,
nella parte più elevata del paese. La facciata in stile romanico, caricata da
malta e cemento che nascondono alla vista lo stato originale, presenta
un rosoncino e due graziose bifore ai lati del portone al quale si accede
attraverso una doppia scalea laterale. L’interno a tre navate con volte a
crociera e pilastri in pietra locale, conserva una bella Croce bizantina.
La chiesa di Santa Maria Assunta in Cielo costruita sulla rupe scoscesa,
questa chiesa è caratterizzata dalla pianta circolare, dalla volta a
cupola e dal tetto a forma ottagonale. Al suo interno custodisce, due
pale del ‘700, raffiguranti una un Cristo in Croce, l’altra i santi Rocco e
Biagio.
La chiesa della Santissima Vergine del Rosario, in pieno centro del
167

168
paese, è stata edificata nel 1893 per volontà del Papa Leone XIII.
L’interno a croce greca con un braccio absidato, propone tre tele d’altare
raffiguranti la Sacra Famiglia, l’Adorazione della Vergine e la
Crocifissione. Collegata direttamente a Palazzo Cardinal Santucci è
entrata a far parte di un ambizioso progetto: diventare il punto di partenza
per la creazione di un albergo diffuso e, al tempo stesso, spazio
vitale per iniziative sociali e culturali. In tal senso l’amministrazione
comunale ne ha iniziato la ristrutturazione. All’interno del palazzo sono
conservati i volumi della biblioteca di famiglia del cardinale, un dipinto
che lo raffigura, un Cristo ‘bizantino’ e alcuni oggetti Sacri.
La Fontana della Pastorella, domina e chiude piazza Vittorio
Emanuele II, principale punto d’incontro del paese. La bella fontana,
opera dello scultore Ernesto Biondi, è stata realizzata nel 1889 con il
contributo di papa Leone XIII, originario della vicina Carpineto
Romano. In sua memoria, alla base della vasca, lo scultore ha posto
un’imponente testa leonina. Il meglio però è rappresentato dalla
Pastorella che dà il nome alla fontana, un bellissimo gruppo bronzeo
sistemato in cima ad una montagna rocciosa, raffigurante una giovane
pastorella che porta al pascolo due caprette. La scultura è stata ottimamente
restaurata nel 1989 in occasione del centenario.
Palazzo Baronale Doria Pamphilj. Se volete vedere quel che resta del
Palazzo Baronale Doria Pamphilj, varcate il portone del municipio e
guardate la bella scalinata in pietra locale, unica superstite testimonianza
di quello che fu il castello, o meglio, dell’avita residenza seicentesca
trasformata dai Pamphilj da castello a Palazzo Baronale. Tutto il resto è
stato spazzato via da una ristrutturazione dissennata negli anni ‘70 del
secolo scorso. Al momento l’amministrazione è alla ricerca di fondi per
tentare un recupero che, alla luce dello scempio, appare difficile.
L’ambiente
Il patrimonio verde del Comune di Gorga è distribuito sostanzialmente
in due fasce caratterizzate dalla diversa altitudine. Nella fascia bassa predomina
la macchia mediterranea, ricca di lecci, corbezzoli, ginepri, alberi
di giuda e diverse specie d’orchidee spontanee. La fascia alta, invece,
è il regno dei faggi, delle querce e degli aceri. Una vasta faggeta copre il
versante Nord del monte San Marino sul quale vegetano anche l’agrifo-

glio e il tasso, considerato una specie di fossile vivente, raro superstite
delle foreste scomparse con la glaciazione. Nel bosco del monte Marino
s’incontrano tassi di due tipi, come albero di notevoli dimensioni e come
arbusto.
A livello geologico il territorio di Gorga, come il resto dei Monti Lepini,
è di natura sedimentaria e quindi non è difficile trovare fossili risalenti a
150 milioni di anni fa, in pieno Mesozoico. Lungo il sentiero che da
Gorga porta al fontanile di Canai, a circa settecento metri dall’inizio
della strada sterrata, si possono trovare fossili di bivalvi a forma conica,
le ‘Rudiste’. Il terreno carsico, ricco di doline, antri, grotte e cavità più o
meno grandi, in località ‘Le Fosse’, verso la sommità del monte, offre la
possibilità di esplorare, usando estrema cautela, le grotte e gli inghiottitoi
che sfociano poi nella sottostante Grotta San Marino, a 1220 metri
di quota dove, al suo interno scaturisce la sorgente che porta l’acqua a
Gorga. La grotta è ricca di stalattiti e stalagmiti, concrezioni bianchissime
o colorate molto suggestive.
Feste e Sagre
Gennaio: festeggiamenti di Sant’Antonio Abate. Benedizione degli animali.
Nel pomeriggio, degustazione di Polenta ‘marito (caratteristico
pane giallo) e salsiccia.
Marzo/Aprile: rievocazione della Passione di Cristo;
Ultima domenica di Luglio: Festa della Montagna in località Canai.
Agosto: ‘Estate Gorgana’: per l’intero mese di Agosto si susseguono
eventi e manifestazioni che spaziano dal cinema al teatro alla musica
classica, al ballo, ai giochi popolari, ai festeggiamenti del Santo Patrono,
alle sagre tradizionali tra cui la Sagra degli ‘Gnocchitti’ e delle
‘Fregnacce’.
Dicembre: ‘Presepe Vivente’. Si rievocano nel centro storico le scene
della Natività, si riaprono le antiche botteghe, si accendono le luci delle
fiaccole, si ascolta la musica degli zampognari.
Piatti tipici
Gnocchitti lunghi: pasta fresca di sola acqua e farina. Condita con
spuntature e salsicce, con funghi porcini o galletti.
Talini: pasta sottile, tipo linguine. Tagliata corta e cotta nella minestra di
fagioli.
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170
‘Fregnacce’: fettuccine larghe e corte, ammassate senza uova. Condite
con ragù di carne o sugo a piacere.
‘Marito’: pane giallo di granturco da mangiare con la salsiccia.
Mantovana: torta tipica delle feste. Ricca d’uova e cosparsa di mandorle.
Da Roma
Auto: autostrada Roma -Napoli, uscire a Colleferro o Anagni. Seguire
poi le indicazioni locali.
Autobus: autolinee Cotral. www.cotralspa.it.
Treno: dalla stazione di Roma Termini prendere il treno in direzione di
Cassino; scendere alla stazione di Colleferro o di Anagni. Proseguire poi
con un autobus Cotral fino a Gorga.
Connettiti al wifi gratuito
di Gorga
Municipio
Piazza Mazzini ,5
I link
http://www.gorga.rm.gov.it/
http://www.osservatoriogorga.it/
http://www.provincia.roma.it/

Un vicolo del centro storico
171

172
Magliano
Romano>>>>>
La Rocca Altieri

La storia
Con un’eleganza tutta latina, i romani chiamano il territorio di
Magliano Romano, prima loro statio sulla Via Flaminia, Ager
Faliscus, ovvero terra dei Falisci, fieri guerrieri (più volte sconfitti e pur
sempre pronti ad insorgere), ma anche capaci allevatori di armenti. Nei
cosiddetti medievali secoli bui, nel Regesto di Farfa dell’Anno Domine
Mille, il toponimo perde un po’ della sua grazia diventando Mallianus
Casalis. Ma il peggio deve ancora arrivare. E non tarda. Con l’avvento
dei nuovi feudatari, spesso ricchi di sostanze ma poveri di garbo,
‘Mallianus Casalis’ diventa, con buona pace dell’eleganza latina, Magliano
Pecorareccio. Il greve toponimo, imposto per indicarne la peculiarità
armentizia, è portato dai suoi abitanti con orgoglioso decoro (e forse
con qualche velato imbarazzo), fino al 1907 quando muta nell’attuale
Magliano Romano in onore alle sue origini, che risalgono al IX-VIII
secolo a.C. quando appunto i romani lo chiamano ‘Ager Faliscus’.
Con il progressivo dissolvimento dell’Impero romano e la sua conseguente
caduta, Magliano Romano subisce, prima le calate dei barbari,
poi le incursioni dei Saraceni, che rendono ancor più povera la popolazione
già provata da morbi, carestie e spoliazioni. Intorno al 1200 si
ricompone un castrum che, nel 1241, è assaltato espugnato e distrutto
dai papalini viterbesi i quali non risparmiano neppure l’abitato sorto,
come costume, attorno alle mura del castello. La dura spedizione punitiva
è frutto di una poco avveduta scelta di campo effettuata da
Pandolfo I degli Anguillara a favore dell’Imperatore in quel frangente
avverso al Papa. Con pazienza e buona volontà, negli anni che seguono,
i sopravvissuti al massacro, in mancanza di un castello, iniziano a riedificare
il borgo sul colle del Casale, attorno alla chiesa di Sant’Arcangelo,
in parte costruita in grotta dagli eremiti che la frequentano, sperando
che la sacralità del posto garantisca la comunità da nuove scorrerie.
In effetti la Chiesa, intesa come potere temporale del ‘Papa re’, perdona
gli incolpevoli vassalli, punisce l’Anguillara e dispensa un lungo
periodo di pace, caratterizzato però da continui passaggi di mano, da un
feudatario all’altro, secondo le grazie del Papa di volta in volta regnante.
Il momento più infausto è quello vissuto, di nuovo, sotto il peso degli
Anguillara nella seconda parte del 1400, in special modo per mano di
Everso II e suo figlio Francesco, esosi, violenti e scorretti a tal punto da
costringere il Papa ad intervenire togliendo loro il potere, riportando i
territori sotto il controllo della Camera Apostolica, segregando il giova-
173

174
ne Francesco nelle segrete di Castel Sant’Angelo. Al casato degli
Anguillara (per mirati matrimoni concambi o cessioni), seguono nell’ordine
gli Orsini, i Cesi, i Borromeo e, nel 1663, i Chigi che due secoli
dopo, perduti i privilegi feudali, passano la mano alla famiglia Altieri che
acquista i fondi chigiani di Magliano Romano e ancora oggi conserva la
proprietà della Rocca.
Da vedere
La Rocca Altieri, costruita tra il XIV e il XV secolo, ha conosciuto
ampliamenti e ristrutturazioni non sempre rispettosi delle primitive
forme. Oggi è di proprietà della famiglia Altieri che l’acquista
nell’Ottocento dai Chigi insieme alle tenute circostanti. Originariamente
in posizione dominante sull’abitato, con il passare dei secoli, è stata
quasi inglobata dalle case vicine. Nelle sale si conservano antichi arredi,
ma lo stato di conservazione generale appare alquanto precario. Mura
sbrecciate, annose erbe, infissi provati dalle intemperie e vetri rotti alle
finestre, denunciano una mancanza di cura che un monumento così
importante non merita.
La chiesa (o grotte) di Sant’Arcangelo, sicuramente è la più importante
delle grotte presenti sul colle del Casale. In parte costituita da una
grotta scavata dagli eremiti, e in parte in muratura, conserva importanti
affreschi del XII secolo che poco prima dell’ultimo conflitto mondiale
vengono staccati e portati a Palazzo Venezia, a Roma, dove ancora
oggi si trovano nei depositi del museo.
Chiesa di San Giovanni (oggi dell’Assunta). Il sobrio Romanico che
caratterizza la facciata di quest’antica chiesa (nominata per la prima volta
nella bolla di papa Gregorio VII), come la Rocca, nel corso dei secoli
subisce rimaneggiamenti e passaggi di titoli. Oggi è dedicata all’Assunta.
Un felice intervento di restauro l’ha liberata dal pesante Barocco restituendola
alla sua originaria forma Romanica.
L’ambiente
Parco Regionale di Veio. L’ambiente del Parco è molto vario comprendendo
ampie zone boschive, altrettanto diffusi coltivi e pascoli, l’assetto
geomorfologico del territorio e le sue caratteristiche microclimatiche,
hanno influito sull’utilizzo agro-silvo-pastorale dei terreni. La limi-

Quattro chiacchiere davanti alla porta
di Piazza Padella
175

176
tata estensione, poi, invece di penalizzare l’area protetta la rende particolarmente
adatta alle escursioni, offrendo al visitatore la possibilità di
godere pienamente di un ambiente naturale raro, prezioso e particolare.
Ricchi boschi termofili ospitano lecci e roverelle, nei boschi misti aceri,
cerri, carpini neri e bianchi, ornielli e numerose essenze. Da un punto di
vista faunistico sono presenti faine, martore, donnole tassi, volpi, lepri
e qualche cinghiale. Biacchi, saettoni e vipere giustificano la presenza di
falchi, poiane, sparvieri e nibbi.
Feste e Sagre
Gennaio: in occasione della festa di Sant’Antonio Abate, avviene l’accensione
di un falò in piazza che si mantiene vivo per tre giorni. La festa
si conclude con la benedizione degli animali.
Aprile: nell’ultima domenica del mese si svolge la storica Sagra della
pecora per rievocare l’originaria predisposizione a pascolo del territorio.
Per l’occasione si costruisce in piazza una riproduzione fedele della
‘Capanna del Pecoraro’, dove si assiste alle varie fasi di lavorazione e trasformazione
di prodotti ottenuti con il latte ovino.
Giugno: la quarta domenica del mese, è dedicata alla Festa dei Santi
Patroni (San Giovanni Battista e Santa Pudenziana). Durante i festeggiamenti
si svolgono manifestazioni sportive, folcloristiche, il concerto
della banda cittadina, il ballo popolare in piazza e la lotteria.
Ottobre: sempre la quarta domenica del mese, Festa di Gesù Nazareno,
nel corso della quale si svolge la Sagra del Raspellone.
Piatti tipici
‘Raspelloni’: particolarissime crespelle al formaggio
‘Stringozzi’: Pasta fresca ammassata con acqua e farina. Condita con
sugo di pomodoro o sugo di carne.

Da Roma
Auto: prendere la Via Flaminia verso Sacrofano e proseguire seguendo
le indicazioni per Magliano Romano.
Autobus: Cotral (tel. 063610441). www.cotralspa.it.
Treno: linea Roma-Viterbo con partenza da Piazzale Flaminio. Alla stazione
di Morlupo prendere il pullman per Magliano Romano.
I link
http://www.comunedimaglianoromano.it/
http://www.parcodiveio.it/
http://www.provincia.roma.it/
177

178
Manziana>>>>>
Manziana, la cosiddetta
Fontana del Mascherino

La storia
Una pietra, il Lapis Anitianus, una selva, il bosco di Macchia Grande,
una landa da bolgia dantesca, la Caldara, e infine l’antica propensione
all’allevamento dei Manzi si contendono l’onore di aver dato
nome alla vetusta Manziana. Anitianus per Mantianus? Manziana come
la famosa Sylva Manthiana foresta sacra cara al dio Etrusco Manthus?
Oppure, Manthus (che per gli Etruschi era il dio degli inferi), ha qualcosa
a che vedere con l’infernale paesaggio della Caldara? E, infine,
Manziana in onore dei pregiati Manzi allevati da sempre da queste parti?
La disputa resta aperta tra le varie correnti di pensiero.
Di certo sappiamo che il territorio di Manziana, come quello degli altri
centri dei monti Sabatini, è frequentato assiduamente da preistorici cacciatori
del Villanoviano e stabilmente abitato da Etruschi e Romani che
si preoccupano di lasciare un po’ ovunque concrete testimonianze della
loro presenza attraverso necropoli, strade, ponti, acquedotti e manufatti
vari che gli archeologi, amabilmente, chiamano reperti.
Questo ci dice la storia scritta sulle pietre e nel Tufo locale. L’altra storia,
quella scritta su specifiche pergamene o precisi documenti curiali, ci
parlano di Manziana soltanto nel 1234 quando i Prefetti di Vico danno
vita sul sito dell’attuale Manziana al Castrum Sanctae Pupae, dove il
Castrum non è necessariamente un castello come quelli che abitualmente
intendiamo, ma un agglomerato di case, un borgo, magari murato più
che fortificato, per accogliere e custodire al meglio la ‘Gens Manthiana’
di Santa Pupa.
I Prefetti di Vico hanno fatto bene i loro conti, infatti, pochi anni dopo,
nel 1290 Papa Nicolò IV, decide di acquistare il Castrum ascrivendolo ai
beni dell’Archiospedale di Santo Spirito in Saxia che a quei tempi è la
cassaforte dei Papi. Su Manziana posano gli occhi e anche le mani i conti
di Anguillara, prima Orso degli Anguillara, che con il Papa ad Avignone
detta legge a Roma, poi il suo sciagurato figlio, Everso II il quale, affiancato
nelle malefatte dal primogenito Francesco, porta gli esasperati abitanti
di Santa Pupa ad abbandonare il Castrum. Soltanto verso la metà
del 1500, l’Archiospedale per ripopolare la zona offre circa un ettaro di
terreno a ciascuna famiglia di contadini disposta a trasferirsi in questo
loro possedimento. L’offerta, allettante, porta a Manziana un primo
gruppo di contadini umbri, seguiti dai ‘capannari’ toscani, in fuga dalle
loro terre dopo la caduta delle repubbliche di Firenze e Siena.
Si deve proprio a loro, portatori di solide braccia e di altrettanto solidi
179

180
principi, prima il rilancio economico della zona favorito dai nuovi metodi
di coltivazione importati dalle terre d’origine, poi la creazione nel
1596 dell’Universitas, come dire il libero Comune di Manziana, che è
riconosciuto dal potere temporale a patto che non si tocchino i privilegi
baronali. Così prende forma legale il Comune di Manziana. All’altra
forma, quella prettamente urbanistica, provvede un allievo del Vignola,
Ottavio Nonni, detto ‘il Mascherino’, che ne traccia, per così dire, il
piano urbanistico e di sua mano lascia il Palazzo Baronale ispirando
anche la fontana quadrilobata di Piazza Tittoni, detta appunto ‘del
Mascherino’.
Un’altra Università marca la storia di Manziana, quella più vicina a noi:
nel 1903 gli abitanti si costituiscono in Università Agraria di Manziana
che si sviluppa su un territorio di circa duemila ettari e, oggi, si estende
sui Comuni di Manziana e Tolfa con 180 ettari di pascoli, 950 di boschivo
e 865 quote assegnate. All’atto della costituzione hanno diritto di
voto per l’elezione della dirigenza, i capifamiglia assegnatari di quote.
Dagli anni ‘60, invece, il diritto è esteso a tutti i cittadini di Manziana
iscritti alle liste elettorali del Comune.
Da vedere
Palazzo Baronale di Santo Spirito (o Palazzo Tittoni). Progettato e
realizzato, sul finire del 1500, da Ottavio Nonni come sede degli Abati
baroni del Pio Istituto di Santo Spirito, il Palazzo baronale nel corso dei
secoli tra le sue mura ha racchiuso da sempre la quintessenza del potere
locale: abati, vicari, amministratori, uomini di giustizia, commendatori
del Pio Istituto in cerca di refrigerio estivo sotto forma di missione e,
in ultimo ma non ultimo, il Consiglio degli Huomini Capannari della
Manthiana, che è un po’ il consiglio comunale dei tempi passati. Nel
1800 il palazzo passa alla famiglia Tittoni, la stessa che tra i suoi massimi
esponenti annovera Tommaso (1855-1931) uomo politico, più volte
ministro di vari governi Giolitti e infine presidente dell’Accademia
d’Italia.
Fontana del Mascherino. Scenograficamente piazzata di fronte al
Palazzo Baronale di Piazza Tittoni, la quadrilobata fontana è stata attribuita
a furor di popolo al ‘Mascherino’, l’architetto Ottavio Nonni il
quale, nel pianificare la zona, prevede la realizzazione di una condotta
che dalle pendici dell’Eremo arrivi davanti al palazzo ducale. Non è

certo se il disegno della fontana sia del Mascherino oppure di altri, ma,
di sicuro non fu opera del Vignola (come alcuni sostengono) in quanto
lo stesso Vignola è morto nel 1573, molto prima dell’incarico di pianificazione
urbanistica commissionato al Nonni e ben dopo la realizzazione
dello stesso Palazzo baronale che, appunto, risale agli ultimi anni del
1500.
Chiesa di San Giovanni Battista. Costruita fra il 1570 e il 1578, la
chiesa è dedicata al Battista e, secondo le usanze di quei tempi, utilizzata
come chiesa sepolcrale. La facciata, caratterizzata da quattro lesene ai
lati del portale, presenta in alto la croce lo Spirito Santo e la colomba
della pace. L’interno della chiesa,strutturato a croce latina, conserva
dipinti del tardo barocco e una statua lignea di San Giovanni Battista,
patrono del paese.
Gli affreschi dietro l’altare, raffiguranti episodi della vita di San
Giovanni Battista, opera del pittore locale Angelo Cordelli, sono della
seconda metà del secolo scorso.
Ponte del Diavolo. Nove metri d’altezza per novanta di lunghezza.
Tanto basta per superare l’ostacolo del Fosso del Diavolo, che rappresenta
anche lo spartiacque, la pietra di confine tra il Comune di
Manziana e quello di Canale Monterano. L’antico ponte romano,
costruito in peperino, a grossi blocchi di pietra murata a secco (senza
l’ausilio di malta), risale intorno al primo secolo avanti Cristo, in piena
età repubblicana. L’imponente viadotto fa parte della strada romana che
collega il complesso termale di Stigliano alla Via Clodia, che a sua volta
si innesta sull’Aurelia, all’altezza del Monte Argentario.
Tomba Etrusca della Torara (o Tomba Vecchiarelli). Uno smottamento
improvviso, causato da un pastore intento a tirar su un recinto da
pascolo, porta alla luce negli anni ‘60 dello scorso secolo la tomba
Etrusca della Torara, meglio nota come Tomba Vecchiarelli. Prima che
avvengano gli scavi ufficiali la tomba è saccheggiata a più riprese.
Nonostante ciò, le recenti campagne di scavo hanno consentito di recuperare
frammenti di ceramica, alcuni residui in bronzo, due vasi integri
e altre suppellettili che abitualmente ornano le tombe etrusche. La particolarità
di questa tomba è la disposizione dei letti funebri, quattro, uno
per cameretta (tre maschili e uno femminile), in contro
tendenza con la consuetudine Etrusca che prevede più giacigli nella stes-
181

La polla sulfurea
della Caldara di Manziana

184
sa stanza. La presenza di quattro troni fa poi pensare alla sepoltura di
famiglia di un notabile o di un ricco produttore di vini; nella zona non
lontana dalla tomba, infatti, in località Casale delle Pietrische, sono state
trovate diverse vasche vinarie che suffragano l’ipotesi.
Ipogeo delle Macerine. La collina dell’Occhialone, situata al limitare
del bosco di Macchia Grande, è passata da parte a parte da un ipogeo
all’interno del quale, si presume, si svolgano riti legati al culto del dio
Mitra. La galleria, lunga 130 metri, con molte nicchie alle pareti, si trova
in località Le Macerine, poco distante dal sito dove sorgeva il villaggio
medievale di Santa Pupa.
L’ambiente
Bosco di Macchia Grande. La parte migliore di quel che resta della
Sylva Manthiana che copre i monti Sabatini da Manziana al Tirreno, passando
per i Monti Ceriti e della Tolfa, si trova ancora qui a far da ultimo
baluardo all’avanzare del cemento. Macchia Grande di Manziana con i
suoi 530 ettari di verde, è molto di più di un semplice bosco; è un museo
vivente, un catalogo della flora autoctona dove alberi di altissimo fusto
si alternano ad improvvise radure (come il Prato del Camillo), dove ricche
erbe altrove sparite, qui ancora resistono agli attacchi dei nuovi vandali
e si perpetuano per le generazioni future. Cerri, querce, aceri selvatici,
nespoli e carpini svettano su un sottobosco di agrifogli, rose canine,
felci, pungitopi e numerose essenze tra le più varie, alcune delle quali
se dovessero sparire, oltre all’irreparabile danno biologico, porterebbero
alla scomparsa (o alla mistificazione) di interi menù di cucina schiettamente
locale.
Caldara. Un vero e proprio monumento della Natura, istituita con
tanto di legge regionale (la n° 64 del 26 Settembre 1988), la Caldara di
Manziana si sviluppa su circa 90 ettari e, scenograficamente, rappresenta
un angolo di inferno dantesco calato sulla terra sotto forma di classico
fenomeno post vulcanico. La Caldara, nel corso dei secoli, ha sviluppato
un caratteristico e apparentemente inspiegabile ecosistema che
contempla, per esempio, la presenza di nordiche betulle cresciute a stretto
contatto con vapori sprigionati da esplosioni freatiche solfuree,
inquietanti fremiti di una terra torbidamente viva.

Feste e sagre
Tutto l’anno: prima domenica di ogni mese, Mostra mercato dell’antiquariato.
Gennaio: ‘La Befana dei bambini’.
Febbraio: giovedì e martedì grasso Festa di Carnevale. Sfilate di carri
allegorici e gruppi mascherati invadono le vie del paese.
Aprile: ‘Notti al Castello’, mercatino al Porto Odescalchi.
Giugno: ‘Festa della Primavera’.
Luglio: seconda domenica Festa della Madonna del Carmine.
Ultimo fine settimana: ‘Sagra de li Lombrichi’: I lombrichi sono un
tipo di pasta originaria della zona, fatta solo di farina e acqua.
Agosto: l’ultima settimana del mese si svolge la Festa di San Giovanni
Battista, Patrono del paese. L’evento è caratterizzato da cerimonie religiose
e festeggiamenti popolari con giochi, fuochi di artificio e spettacoli
di animazione.
Settembre: il giorno 8 Festa della Madonna delle Grazie. I prati intorno
alla chiesetta sono animati da giochi popolari e dal suono della banda
comunale.
Ottobre: ‘Festa della Castagna’. In Piazza Tittoni si rinnova l’appuntamento
con la Sagra della Castagna con degustazioni di dolci e ricette a
base di castagne.
Piatti tipici
‘Li Lombrichi’: Sono grossi spaghetti rustici fatti con acqua e farina e
conditi con sugo rosso, abitualmente di carne.
‘Acquacotta’: E’ la Zuppa tipica della bassa maremma con le classiche
fette di pane di grano duro.
Rigatoni alla norcina: Si tratta di Mezze maniche o rigatoni conditi
con macinato di salsiccia.
Pane Etrusco: Fatto con ingredienti e farine diverse il ‘filone sciapo’, è
il pane classico dei forni di Manziana.
185

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Da Roma
Auto: percorrere la Strada Statale Braccianese-Claudia, superare i bivi
per Anguillara Sabazia e Bracciano o Anguillara e Trevignano Romano,
e proseguire verso Manziana.
Autobus: servizio Cotral: www.cotralspa.it.
Treno: prendere il treno Roma-Viterbo e scendere alla fermata
Manziana-Canale Monteranno.
Connettiti al wifi gratuito
di Manziana
Municipio
Largo Gioacchino Fara
I link
http://www.comune.manziana.rm
.it/home.html
http://www.provincia.roma.it/

Il Parco giochi
sul Belvedere di Manziana
187

188
Marano
Equo>>>>>
I contrafforti della Rocca e, sullo
sfondo, la chiesa di San Rocco

La storia
Con i suoi 7,65 chilometri quadrati d’estensione, Marano Equo si
aggiudica la palma di Comune più piccolo della Provincia Romana.
Piccolo, ma non per questo privo di storia. Anzi. Il toponimo ‘Equo’,
aggiunto soltanto nel 1872, rende giustizia a Marano che proprio dagli
Equi fu, se non fondato, sicuramente frequentato. All’antico popolo
degli Equi, dallo spiccato senso religioso, si deve lo ‘Jus fetiale’, un puntuto
regolamento su come vanno trattate le alleanze e sul modo in cui si
devono portare le dichiarazioni di guerra. Trattato consono agli Equi i
quali, seppur profondamente religiosi, si dimostrano anche fieri combattenti
tanto da meritarsi da parte dei Volsci l’appellativo di ‘Aeterni
hostes’ di Roma. Di Marano Equo, i Romani apprezzano particolarmente
le acque, prima su tutte la gelida Acqua Marcia che per poco costa la
vita a Nerone, il quale, non tenendo conto della sacralità attribuita alla
fonte (l’acqua veniva utilizzata soltanto per le cerimonie sacre), sporco
di fango si tuffa, nuota poi viene colto da malore. L’episodio è riportato
negli Annali di Tacito (XIV - 22): ‘…parve che un simile bagno avesse contaminato
quelle sacre acque e la religione del luogo (…) tanto che gli Dei puniscono
Nerone che si trascina per mesi, come prosegue Tacito ‘…in uno
stato di salute incerta che fu la prova dell’ira degli Dei…’.
In località Bagno sono state rinvenute antiche mura romane e vasche
termali. Nel 1600 al 38° miglio della Sublacense, l’archeologo urbinate
Raffaello Fabretti, trova nell’alveo dell’Aniene una pietra miliare che
attesta la distanza da Roma della sorgente dell’acqua Marcia. Il periodo
romano di Marano Equo è legato al prolungamento della Tiburtina, che
da Tivoli porta al lago Fucino e oltre. La nuova arteria chiamata
Tiburtina Valeria, prende il nome dal Console Marco Valerio Massimo
che la realizza per raggiungere le terre dei riottosi Marsi.
I primi documenti che parlano direttamente di Marano Equo come un
feudo sublacense risalgono al 864 quando il Castello di Marano passa a
Cesario Console duca di Roma, e poi al vescovo di Tivoli. La Rocca,
invece, è fatta edificare nel 1063 da Raniero dei Crescenzi. Tra il 1145 e
il 1176 Marano Equo si trova al centro di aspre lotte tra le varie signorie
locali, e nel 1280 passa ai vescovi di Tivoli che lo amministrano saggiamente
fino a quando papa Callisto III, nel 1456, istituisce presso
l’Abbazia di Subiaco una nuova figura amministrativa: l’Abate
Commendatario. Il prescelto, solitamente un cardinale ma non necessariamente
un monaco dell’Abbazia, ha potere su tutto il territorio e lo
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esercita pienamente con effetti non sempre condivisi dal popolo che si
trova ad avere a che fare con una figura che incarna il Signore feudale e,
al tempo stesso, il Padre spirituale. Nella seconda metà del XV secolo,
Abate Commendatario è il Cardinale Rodrigo Borgia (futuro papa
Alessandro VI, padre di Lucrezia e del poco raccomandabile Cesare
detto ‘il Valentino), che non si fa scrupolo di gestire Marano e il territorio
di competenza come fosse cosa propria, tanto che, negli anni a seguire,
lo destina tranquillamente ad esponenti della sua famiglia. Passano i
Borgia ma il feudo di Marano Equo resta tra i beni dell’Abbazia di
Subiaco che lo amministra fino al 1753, quando tutti i possedimenti
dello Stato Pontificio passano sotto l’amministrazione diretta del Buon
Governo.
Intanto, nel 1656, l’epidemia di peste bubbonica che da Roma si spande
in tutti i centri vicini, dimezza la popolazione locale portandola a sole
500 ‘anime’. Terremoti, alluvioni e carestie condizionano pesantemente
la ripresa economica della zona legata all’agricoltura e, principalmente
alla coltivazione e trasformazione della canapa. Nel 1850 a Marano
Equo sono attivi ben 400 telai per la tessitura della canapa. Come dire
più di un telaio per ogni famiglia. Ancora oggi l’attività agricola rappresenta
una voce importante per l’economia locale, in particolar modo è
apprezzata la produzione degli ortaggi, soprattutto dei fagioli ai quali è
dedicata una seguitissima sagra, quella del ‘Fagiolo maranese’ che da
anni richiama in questo piccolo centro un crescente numero di turisti e,
per i maranesi di Roma, è diventato un appuntamento da non perdere,
l’occasione buona per riallacciare vecchie amicizie e mantenere vivo il
rapporto con la terra d’origine.
Da vedere
La Rocca, o meglio, quel che ne resta fa ancora bella mostra con i suoi
potenti speroni, un avanzo di torre rotonda, un poderoso muro intristito
da irriverenti intonaci, nel punto più alto di Marano Equo. Oggi,
come allora, ospita gli amministratori, ieri i Crescenzi, oggi il Consiglio
Comunale. Nel dopoguerra la fatiscente struttura della Rocca mette a
rischio le case circostanti. L’intervento potrebbe essere drastico: giù
tutto e sul sito, finalmente libero, si costruisce il nuovo Municipio. La
discussione porta ad una più saggia scelta: mantenere la possente base
della Rocca, scarpe, contrafforti, torre tonda e poco altro; su quei nobili
resti, costruire il palazzo comunale così come appare oggi, calato dal-

Marano Equo e, sui monti,
Cervara di Roma
191

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l’alto, inserito più che costruito, cercando di rispettare quel che resta
della storica Rocca. Non è molto, ma è meglio di niente.
La chiesa di San Biagio, conserva al suo interno una pala d’altare del
‘700 dedicata a San Biagio e altorilievo cinquecentesco raffigurante
Sant’Antonio da Padova. I festeggiamenti in onore di San Biagio, patrono
del paese, durano due giorni, il 3 e il 4 febbraio, iniziano con la processione
lungo le vie del borgo e si chiudono con il lancio della mongolfiera,
un colorato aerostato realizzato con carta velina. A tutti i fedeli, in
ricordo del francescano donativo del pane, sono distribuite le prelibate
ciambelle all’anice cotte dalle signore di Marano Equo nei giorni precedenti
la festa.
La chiesa di Santa Maria della Pietà, in Piazza Guglielmo Marconi,
non presenta opere di grande rilevanza. Sull’altare maggiore un affresco
del passato secolo raffigurante una ‘Pietà’ di modestissima fattura, un
soffitto molto meglio affrescato con una Madonna Assunta in cielo, una
lunetta con poche tracce di affresco e qualche linea di sinopia. Nulla più.
La facciata, di foggia settecentesca, presenta due nicchie vuote ai lati del
portone e una finestra centrale a coronamento del portone stesso.
Il Santuario della Madonna della Quercia, le cui origini sono legate
all’apparizione della Madonna ad un pastorello di nome Fausto, a parere
di alcuni storici locali sarebbe stata edificata ex novo a ricordo del
miracolo. Secondo altre fonti, invece, la chiesa già esisteva ed era dedicata
a San Pietro. Di certo gli affreschi quattrocenteschi presenti all’ingresso
del Santuario ne confermano l’esistenza in quel periodo. Un altro
affresco, opera di Francesco Cozza, orna la parete del presbiterio con la
scena della miracolosa apparizione. All’esterno la semplice gradinata
vinta dalle erbe, sembra il proseguimento della ripida strada che porta a
questo Santuario bisognevole di un urgente amorevole restauro.
L’ambiente
Marano Equo vanta ben due riserve naturali, quella delle Foci dello
Stella e quella della Valle Canal Novo. La prima già nota come Oasi avifaunistica
di Marano Lagunare, ha una superficie di 1377 ettari che interessano
il delta del fiume Stella e la circostante area lagunare. La riserva
è visitabile esclusivamente per via d’acqua.

La Riserva ‘Valle Canal Novo’, un tempo utilizzata per l’allevamento ittico,
ha tutte le caratteristiche di un’area lagunare naturale, con specchi
d’acqua e ‘barene’ che soltanto in casi eccezionali vengono sommerse
dalle acque. Due chiuse collegano la valle con la laguna regolandone il
livello idrico.
3 e 4 febbraio: festa del Patrono San Biagio.
Ultima domenica di febbraio: ‘Sagra della polenta’.
5 e 6 agosto: festa della Madonna della Neve.
15 agosto: ‘Sagra della bruschetta’.
Agosto: ‘Sagra del Fagiolo maranese’. ‘Sagra delle Sagne’.
Feste e Sagre
Piatti tipici
Frascaegli di grano turco. Una sorta di polenta condita con sugo a
piacere.
Pizziglie d’erbe e salsiccia. Le ‘Pizziglie’ sono delle tortine fritte (in
questo caso da consumare senza erbe), oppure cotte sulla graticola o
nella padella e, in questa versione, accompagnate da erbe e salsicce.
Fagioli regina, con salsicce e sugo. I classici fagioli con le salsicce, ma
questi sono Fagioli con la ‘F’ maiuscola.
Sagnozzi e Sagne con i gamberi dell’Aniene. Pasta ‘povera’ ammassata
con sola acqua e farina, senza uova. Cotta in acqua salata, condita
con i saporitissimi gamberi di fiume.
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Da Roma
Auto: prendere l’autostrada A24 Roma-L’Aquila in direzione
dell’Aquila. Uscita al casello Vicovaro-Mandela. Proseguire sulla
Tiburtina fino a Marano Equo.
Treno: linea Roma-Sulmona. Partenza da Roma Tiburtina fino alla stazione
di Arsoli. Poi bus navetta.
Autobus: con autolinee Cotral Roma-Arsoli o Roma-Subiaco. Partenza
da Metro Ponte Mammolo. www.cotralspa.it.
I link
http://rete.comuniitaliani.it/wiki/Marano_Equohttp://www.asdmaranoequo.altervista.org/
http://www.provincia.roma.it/

Uno scorcio del centro storico
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Mazzano
Romano>>>>>
Un suggestivo scorcio
del centro storico

La storia
Un cupo boato, nel novembre 1940, cambia volto ad uno degli angoli
più belli di Mazzano Romano: Piazza dell’Antisà. Per ordine della
Prefettura, il Genio Civile mina e abbatte l’antica chiesa di San Nicola il
cui campanile, colpito da un fulmine agli inizi del 1900, precipitando
lesiona parte della navata. Di restauri neppure si parla, l’economia di
guerra e la filosofia spiccia del regime fascista, impongono l’abbattimento.
Che poi la chiesa, attribuita al Vignola, risulti risalente al 1563, poco
conta. L’importante è mettere in sicurezza il fabbricato, e per garantire
il buon esito dell’operazione non c’è niente di meglio di uno sbrigativo
abbattimento. In attesa di una nuova chiesa le funzioni religiose si svolgono
nel magazzino del principe, sotto l’antistante palazzo del cardinale
Biscia. Oggi, della chiesa di San Nicola di Bari, resta una ‘quinta’ sommariamente
teatrante, un palcoscenico vuoto dove giocano ignari bambini
e parcheggiano malaccorti adulti. Dopo tanti anni il luogo non
suscita più ‘pie riflessioni’. La fame di spazio è quella che è e il Coro fa
da fondale al teatrino della quotidianità. Parcheggio compreso.
Anche Mazzano, situato al centro del bacino del Treja, fa parte dell’Ager
Faliscus testimoniato dai numerosi reperti conservati nelle teche del
Museo dell’Agro Falisco di Civita Castellana e nel Museo Etrusco di
Valle Giulia a Roma, ma anche dalle tante necropoli della zona: La
Pietrina, Narce, Monte La Corte e Monte Li Santi. Con la caduta di
Vejo, il territorio di Mazzano viene ceduto ai veterani dell’esercito vincitore
messi in quiescenza e, in parte, viene utilizzato dai Romani come
colonia penale dove i vinti lavorano in condizioni di schiavitù.
Con il lento ma inesorabile dissolvimento dell’Impero Romano le terre
di Mazzano conoscono le devastazioni barbariche e le invasioni di più
avveduti popoli, principalmente dei Longobardi i quali, riordinano
l’amministrazione locale, danno nuovo impulso all’agricoltura e impongono
sistemi di coltivazione ‘moderni’ ed efficienti che ancora oggi
sono seguiti e apprezzati. L’ultimo Duca Longobardo, Tutone, lascia un
territorio vivificato e ricco, tanto da rappresentare un sontuoso donativo
da parte del Principe Alberico a favore di Benedetto, Abate di
Sant’Andrea e Gregorio al Celio. La notizia di questo donativo è contenuta
in una pergamena datata 14 gennaio dell’Anno Domine 945, citata
dal Gregorovius nella sua celeberrima Storia di Roma. I monaci per
quasi sei secoli mantengono la proprietà delle terre affinando ancor di
più i metodi lasciati dai Longobardi tanto che l’agricoltura praticata nel
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feudo fa scuola e si impone su gran parte del territorio circostante.
Le buone rendite dei terreni così ben lavorati attirano l’attenzione e l’interesse
degli Anguillara che, nel 1526 pagano dodicimila ducati d’oro per
assicurarsi le terre di Mazzano. A differenza dei monaci del Celio, gli
Anguillara spremono ben bene il feudo per 74 anni fino al 1599 poi lo
cedono al Cardinale Lelio Biscia, ricco Monsignore, Presidente delle
strade di Roma che, come ricorda Carlo Fea, presidente delle antichità
Romane nel suo volume ‘Annotazioni alla memoria sul principato’ del
1806, in riferimento al Cardinal Biscia scrive: ‘…amatissimo dell’ornato di
Roma, ne sbandì tutti i casotti, e altri impicci di venditori, fissando per loro un termine
di distanza, con pietre segnate del M.DC.XI, applaudito perciò sommamente
dal Popolo Romano…’. L’amore del Cardinale Lelio Biscia per le cose
belle lo portano a curare con particolare attenzione il palazzo baronale
di Mazzano, intervenendo anche sull’antico borgo che conosce un felice
periodo di restauri. Il Cardinale (1573-1638), è stato anche un apprezzato
avvocato concistoriale, chierico di Camera e presidente
dell’Annona. Il nipote Urbano, Conservatore pontificio molto stimato
dal papa, è nominato Marchese. Il casato prosegue con i figli di Urbano,
Jacopo e Ortensia, il primo non ha discendenti maschi, la seconda va in
sposa al Marchese Giambattista Del Drago che, per asse ereditario
acquisisce Mazzano e lo detiene a lungo, fino alla riforma fondiaria
dell’Ente Maremma. Sotto i Del Drago, nel 1872, con l’unità d’Italia
Mazzano diventa ‘Mazzano Romano’.
L’attuale centro storico che si sviluppa oggi come ieri all’interno dell’arco
cinquecentesco (in antico difeso da un fossato), si svolge attorno al
Palazzo Ducale de Cardinale Biscia ed è ben curato. Antiche case recuperate
in gran parte nel pieno rispetto delle forme originarie, strade,
vicoli e piazzette ben tenute denotano un amore profondo da parte di
chi vi vive e vi opera, tra questi una comunità di immigrati regolari, più
di duecento, perfettamente integrati nel tessuto sociale del paese. Tanto
amore andrebbe accompagnato da un maggior senso civico da parte
degli ospiti, turisti poco attenti e automobilisti dediti al parcheggio selvaggio.
Da vedere
La Porta del Torrione, dalla possente architettura, sistemata a ‘L’ per
motivi logistici ma anche di difesa, è restata pressoché inalterata dal
Cinquecento ad oggi. Restauri giudiziosi hanno contribuito al manteni-

mento delle sue forme e della sua funzione. Per comprensibili ragioni
pratiche è sparito il fossato che nei tempi andati proteggeva il borgo e
questo unico ingresso, servito presumibilmente da un ponte levatoio.
Il Palazzo Baronale del Cardinal Biscia, in origine di Everso e Dolce
degli Anguillara, rappresenta il salotto buono del centro storico di
Mazzano Romano. Eretto tra il finire del 1400 e i primi del 1500, il
palazzo pur essendo concepito come nobile dimora conserva l’aspetto
del palazzo-fortezza. Imponente nelle forme e nei contenuti, ricco di
camere, sale e saloni, ma anche di capaci magazzini, cantine e svariati
fondachi, adatti ad accogliere i prodotti dei campi e a conservarli per il
commercio, il palazzo appare come la quintessenza della dimora padronale.
Il Coro a cielo aperto dell’ex chiesa di San Nicola di Bari in Piazza
Antisà, è l’angolo più struggente e romantico del centro storico di
Mazzano Romano. Le cappelle votive appena abbozzate, i montanti
mutili, gli archi inutilmente aggraziati, le formelle vuote della cornice di
una porta murata, le sinopie appena visibili di quelli che erano delicati
affreschi, appaiono come tante bocche mute capaci di narrare, comunque,
la loro storia attraverso quel che resta dallo scellerato abbattimento
colposo operato nel 1940 da un Genio Civile che tanto ‘civile’ non si
è rivelato. Questa porzione di storia che un restauro conservativo ha
contribuito a preservare per le generazioni future, meriterebbe maggiori
attenzioni.
La Parrocchiale, costruita fuori centro storico, nel paese ‘nuovo’, dai
natali settecenteschi, ha preso il posto e il titolo della chiesa abbattuta:
San Nicola di Bari. Probabilmente assieme al nome, la nuova chiesa ha
ereditato anche lo splendido trittico del XV secolo raffigurante Cristo,
San Nicola e San Benedetto.
San Sebastiano, anche questa fuori le mura antiche ma molto prossima
a quest’ultime, è una chiesetta minuta, intima e ben restaurata. Un pregevole
affresco, svelato e recuperato nel corso dei lavori di restauro portati
avanti nel 1998, raffigura il martirio di San Sebastiano al cospetto dei
due Santi protettori del paese, Sant’Antonio e San Rocco.
Il Castello dell’Agnese, ridotto a ruderi o poco più, ma storicamente
199

I resti della chiesa di San Nicola
in Piazza Antisà

202
importante si può visitare nell’agro di Mazzano, non molto lontano dal
centro abitato. Il ‘Tenimentum castri inabitati vocaboli Agnese’ è situato
su uno sperone roccioso ricco di grotte e di suggestioni. Un documento
curiale del 1427 parla del castello e del tenimento che nel 1668 è
messo in vendita da Clemente IX. Anche questo, come il Palazzo
Ducale, entra a far parte dell’asse ereditario del Biscia a favore della
famiglia Del Drago.
Le necropoli dell’Agro di Mazzano Romano sono databili tra il IX e il
IV secolo a.C. e sono così vaste da far pensare ad un centro di notevole
importanza presente nelle vicinanze. C’è anche chi parla dell’antica
Fescennium, il cui nucleo più lontano è stato individuato sotto le prime
pendici del colle di Narce. Quell’antico abitato, si suppone abbia raggiunto
con il suo sviluppo anche la collina di Pizzopiede e Monte Li
Santi che insieme alla Pietrina, Monte Cerreto, Monte Le Croci e Morgi
conservano le necropoli di Mazzano Romano.
L’Ambiente
Il Parco della Valle del Treja rappresenta il fiore all’occhiello di
Mazzano Romano. Le limpide acque del fiume, tortuoso, ricco di salti e
cascatelle, di forre tufacee e soprattutto di verde, arriva a lambire il centro
abitato, gorgogliante colonna sonora che riconcilia con il creato. Il
Parco, istituito nel 1982, si estende per circa mille ettari nei territori di
Mazzano Romano e Calcata. Nel verde della riserva oltre a querce e lecci
spiccano pioppi, salici, ontani, cornioli e sanguinella ma anche delicatissime
orchidee ed altri fiori del sottobosco primaverile. Ricco anche
l’elenco della fauna: tra i volatili si segnalano per bellezza il Nibbio
bruno e la Poiana, a terra i cinghiali, le martore, gli istrici, le volpi i toporagni
e, a dar credito agli avvistamenti, anche qualche esemplare di gatto
selvatico. L’efficientissimo Centro visita organizza su prenotazione visite
guidate. Per informazioni si può contattare per Internet: www.parcotreja.it
Feste e Sagre
Gennaio: Sant’Antonio Abate con i tradizionali ‘Focarò’, grandi falò
devozionali che vengono accesi in piazza Giovanni XXIII e in piazza
Umberto I. La domenica successiva al 17 gennaio ha luogo la processio-

ne e la benedizione degli animali davanti al sagrato della chiesa di San
Nicola di Bari.
Febbraio: il Carnevale, festa laica attesa dai bambini, si festeggia l’ultima
domenica di Carnevale, con sfilata di gruppi mascherati e carri allegorici.
Marzo/Aprile: le feste della Pasqua sono fortemente caratterizzate
dalla processione del Cristo Morto del Venerdì Santo.
Maggio: il 1° maggio, festa dei lavoratori e dei Santissimi Patroni della
campagna San Filippo e San Giacomo, ha luogo la ‘Sagra della fava con
il pecorino’.
Il Corpus Domini, prevede la tradizionale infiorata lungo le strade del
paese che richiama per la sua intensità un gran numero di turisti.
Agosto: San Nicola di Bari, Santo Patrono di Mazzano Romano, è
festeggiato con funzioni religiose, concerti bandistici e altre iniziative
popolari.
Settembre: ‘Sagra della salsiccia e della bruschetta’. La sagra ha luogo
la prima Domenica del mese di Settembre e si chiude a notte fonda con
un grandioso spettacolo pirotecnico.
Dicembre: il ‘Natale di Mazzano Romano’.
Piatti tipici
‘Gnocchi co lo ferro’: gnocchetti sul tipo dei cavatelli pugliesi, acqua e
farina, conditi con un semplice sugo di pomodoro.
‘Polenta bianca’: Polenta condita con un sugo in bianco ottenuto cuocendo
insieme, spuntature di maiale, salsicce e pancetta fresca, da versare
sulla polenta ‘spolverata’ con pecorino locale e pepe.
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Da Roma
Auto: prendere la Cassia fino al bivio di Sette Vene poi seguire le indicazioni
per Mazzano Romano.
Autobus: partenze dal capolinea Cotral Saxa Rubra. www.cotralspa.it.
Treno: linea Roma-Viterbo. Partenze da Piazzale Flaminio fino alla stazione
di Rignano Flaminio. Poi coincidenza con pullman per Mazzano
Romano (tel. 069037512).
I link
http://www.mazzanoromano.rm.g
ov.it/
http://www.mazzanoromano.info
http://www.parcotreja.it/
http://www.provincia.roma.it/

Due bassi portali medievali
nei vicoli del centro storico
205

206
Monte
Compatri>>>>>
L’Angelo minatore della fontana
di Monte Compatri

La storia
AMonte Compatri il senso d’appartenenza al ‘Borgo’ è forte, radicato,
strenuamente difeso e filologicamente giustificato. Ognuno dei
cinque Borghi, infatti, presenta caratteristiche e peculiarità diverse che
trovano riscontro nei simboli degli scudi e nel carattere dei ‘borghigiani’.
Tanto per fare qualche esempio, gli abitanti del cuore del centro storico,
il ‘Borgo Ghetto’ che sullo stemma porta una torre, appaiono come
i depositari della storia cittadina o, quantomeno, i quotidiani curatori
dell’estetica di una parte di storia, quella scritta sulle pietre delle singole
case, magnificata nelle geometrie della Chiesa Madre, larvatamente
nascosta negli angoli più reconditi di un vicolo che può anche apparire
anonimo, ma tale non è. Mai. Altri scudi, altri simboli: una spiga di
grano per Borgo Pantano in omaggio ai suoi trascorsi agresti; l’Angelo
minatore per Borgo La Prata dove, probabilmente, vivono i discendenti
degli ‘spaccasassi’ del nuovo acquedotto; un San Michele per l’omonimo
Borgo i cui abitanti, come quelli del ‘Ghetto’, fanno parte del centro
storico più antico e alla pari lo difendono; infine un albero di castagno,
signore della foresta, per Borgo Missori i cui abitanti possono essere
considerati i ‘custodi morali’ della venerata immagine conservata nel
verde della selva: Maria Santissima del Castagno.
Monte Compatri, dunque, non dimentica le sue origini e, in omaggio a
Virgilio che nell’Eneide chiama i Labici ‘…et Sacranae acies et picti scuta
Labici’, (schiere Sacrane e Labicani dagli scudi dipinti), gli attuali monticiani,
diretti discendenti di quei prodi Labicani, hanno deciso di dipingere
i loro scudi e di piazzarli strategicamente all’ingresso dei rispettivi
Borghi; policrome formelle di eccellente artigianato ceramico nelle quali
spiccano, memorie storiche a parte, peculiarità e ‘colori sociali’ dei cinque
borghi che a mezz’agosto si sfidano in una singolare contesa al tiro
con l’arco e in una giostra medievale. Le sfide sono precedute dal corteo
storico che rievoca la visita fatta nel 1613, dal Cardinale Scipione
Borghese per l’elevazione a Principato del suo feudo di Monte
Compatri. Anche questo è un modo intelligente per tener vivi i ricordi
e non dimenticare le proprie radici; e quelle dei ‘monticiani’ sono radici
profonde che, secondo la leggenda, arrivano all’anno 1268 avanti Cristo,
quando Glauco dei Minosse, mitico re di Creta, fonda il primo nucleo
abitato dell’attuale Monte Compatri.
Dalla leggenda alla storia il passo è meno lungo di quanto si può pensare.
Ovviamente sulla strada dei Labici si mettono di traverso i romani
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208
che nel 418 avanti Cristo assaltano e distruggono l’antica Labico, una
delle trenta città della Federazione Latina. I superstiti dell’impari lotta
danno vita, più a valle, ad un nuovo ‘castrum’ che accoglie anche coloni
romani di insediamenti vicini. Da allora la storia del borgo che diventerà
Monte Compatri, viaggia seguendo le sorti di quella di Roma: vita
opulenta nel periodo Repubblicano, grama nel successivo periodo
segnato dalle guerre sociali e dallo scasso tra Mario e Silla, nuovamente
ricca con l’avvento del Cristianesimo e per tutto il periodo che porta al
declino dell’Impero Romano, sul finire del 400 dopo Cristo. Al dissolvimento
della Roma imperiale, allo sbandamento generale, all’assenza di
un’organizzazione pubblica, si aggiungono le invasioni barbariche facilitate
dalle tante strade che portano a Roma, una di queste, la Labicana,
è particolarmente battuta con effetti devastanti per i centri che attraversa.
Monte Compatri non fa eccezione e, dopo i barbari, conosce anche
la ferocia dei saraceni che, nel IX secolo, la radono al suolo facendo
scempio degli abitanti.
Gli scampati alle scimitarre degli infedeli, risalgono il colle abbandonato
dai lontani avi dopo la sconfitta subita per mano del dittatore Quinto
Servilio Prisco nel 418 a.C. e, secondo le esigenze di quei tempi, danno
vita ad un borgo murato meglio difendibile di quello a valle, spazzato via
dall’incursione saracena. Il primo documento che parla del ‘Castrum
Montis Compatris’ risale al 1090, quando un passo delle ‘Chronicon
Sublacense’ stabilisce che i feudi di Rocca Priora, Monte Porzio e
Molara vengono concessi in dote da Agapito I dei Conti di Tuscolo al
marito della prima figlia, Anibaldo Anibaldi; mentre al marito della
seconda figlia, Oddone Frangipane, vengono assegnati i feudi di Marino,
Rocca di Papa e una porzione di Monte Compatri. Secondo alcuni storici
l’inserimento nel Chronicon Sublacense sarebbe frutto di un falso
storico, un tardivo inserto risalente al 7 febbraio 1252, per giustificare
diritti di censo in occasione della divisione dei beni tra i Frangipane e i
Colonna. Sta di fatto che, nel 1090 un centro abitato riferibile a Monte
Compatri esiste già ed appartiene ai Conti del Tuscolo.
Un lodo di Bonifacio VIII, datato 2 maggio 1296, stabilisce la divisione
dei beni fra ‘Ricardo del fu Mattia di Anibaldo e Bartolomea, vedova di
Pietro d’Anibaldo, tutrice del figlio Nicola…’ il lodo papale menziona
Monte Compatri tra i beni di ‘Anibaldo, avo di Ricardo sopra menzionato’
insieme a Castel Gerusalemme e Monte Frenello, tra Frascati e
Grottaferrata il primo, tra Grottaferrata e Marino il secondo. il ‘Ricardo
Anibaldo’ citato nella Bolla è lo stesso che Cola di Rienzo mette al

comando delle milizie romane nella guerra contro i Colonna di
Palestrina. Nel 1423, a seguito di una permuta Ricardo Anibaldo cede ai
Colonna i diritti su Monte Compatri dove, per marcare la loro presenza,
i Colonna si affrettano a costruire un castello. Gli anni a seguire sono
caratterizzati da continui passaggi di mano: nel 1431, Jacopo Caldora,
condottiero abruzzese, Signore di Popoli e Pacentro, lo strappa ai
Colonna. Ma non finisce qui; tre papi, nell’arco di una cinquantina d’anni,
si contendono il feudo: Eugenio IV nel 1433, Nicolò V nel 1448 lo
restituisce ai Colonna, Sisto IV lo riconfisca e lo cede a Santo Spirito in
Saxia. I Colonna ne tornano in possesso soltanto alla morte del papa,
nel 1484.
Una ventina di anni dopo, nel 1501, Alessandro VI, al secolo Rodrigo
Borgia, assegna il feudo di Castel Madama al suo primogenito, Giovanni
Borgia, fratello di Lucrezia e di Cesare Borgia, il sanguinario ‘Valentino’,
fratricida, che lo pugnala a morte gettandone il corpo nel Tevere. Subito
dopo, nel 1503, con la morte del papa Borgia, i Colonna si riprendono
il feudo e, dal 1529 al 1575 lo tengono e lo perdono più volte fino a
quando lo cedono, definitivamente per quanto li riguarda, al Cardinale
Marco Sittico Altemps. Nel 1582 il feudo è assegnato da papa Pio IV al
nipote Marco Altemps il quale, senza neppure prendere in considerazione
il castello dei Colonna già abbondantemente manomesso, decide di
costruire una residenza nobiliare poco distante dal Duomo. Gli Altemps
rimangono feudatari fino al 29 novembre del 1613 quando, ‘con atto
rogato dai notai della Reverenda Camera Apostolica Sante Floridi e
Luca de Carolis’, cedono la proprietà al Cardinale Scipione Borghese,
nipote adottivo di papa Paolo V, grande mecenate e influente protettore
del Bernini, che, in grande pompa, eleva a Principato Monte
Compatri eleggendolo a sua dimora estiva in alternativa, qualche anno
dopo, al nuovo palazzo di Artena. Con i Borghese come feudatari,
Monte Compatri conosce due secoli di benessere, sviluppo e tranquillità.
Durante la breve esperienza della Repubblica Romana, Giuseppe
Garibaldi (non poteva mancare), si reca a Monte Compatri ‘alloggiando’
in una casa di suoi sostenitori nella parte alta del paese da dove può controllare
i movimenti di un drappello di soldati borbonici -come narrano
le cronache- con i quali ha avuto un breve scontro a fuoco. Nel 1870,
con la presa di Porta Pia e l’avvento dell’Italia unita, Monte Compatri
diventa Comune autonomo. Primo sindaco ‘monticiano’ è Mario
Mastrofini.
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Da vedere
Chiesa di Santa Maria Assunta in Cielo. In origine, secondo alcuni
storici locali, la fondazione di quella che sarebbe diventata l’odierna
Parrocchiale di Santa Maria Assunta in Cielo, risalirebbe al periodo dell’incastellamento,
anzi, la chiesetta originaria avrebbe fatto parte della
prima fortificazione, poi, ingrandita per l’accresciuto numero di fedeli
da accogliere, è riedificata e intitolata a Santa Brigida. Intorno al 1600,
muta il titolo in Santa Maria Assunta in Cielo. Dal 1630 al 1633 il
Cardinale Scipione Borghese, ne dispone un radicale restauro al quale il
Bernini non è estraneo. Da allora ha conosciuto molti restauri e rifacimenti
ma, nel complesso, ha mantenuto le forme seicentesche che ancora
la connotano. Al suo interno conserva interessanti opere d’arte, in
particolare una tela raffigurante la morte di San Francesco e un’altra con
la Madonna, il Bambino e Santi attribuiti al Vanni e a Domenico Cresti
detto il Passignano. Molto interessante la statuina del Bambinello che i
monticiani venerano, come i vecchi romani fanno con il Bambino
dell’Ara Coeli. La grande e bella tela d’altare, raffigurante l’Assunzione
in cielo di Maria, è firmata dal pittore Raffaele Gagliardi.
Convento di San Silvestro. Basta affacciarsi dal Belvedere di Monte
Compatri, per scorgere nel verde della costa di fronte il convento di San
Silvestro e, poco distante, quasi coperto dal verde degli alberi, il più contenuto
santuario di Maria Santissima del Castagno. Fondato dai
Canonici Regolari intorno 1450, il convento ospita il nuovo Centro
Spirituale Teresiano e la relativa Casa d’Accoglienza. Il convento, oltre
alle opere conservate nella chiesa, dispone di una piccola pinacoteca di
opere caravaggesche, tra queste una copia del Van Hontorst, meglio
noto come Gherardo delle Notti, il cui originale è stato rubato qualche
anno fa. Le opere della chiesa, ottime tele seicentesche, si devono tutte
a Fra Luca, un Carmelitano belga le cui opere si possono ammirare
anche a Santa Maria della Scala a Roma, a Perugia e in molte altre chiese
tenute dai Carmelitani.
Santuario di Maria Santissima del Castagno. Poco distante dal
Convento di San Silvestro, si trova il piccolo Santuario della Madonna
del Castagno. I ‘monticiani’ sono molto devoti a questa immagine fin dal
1867 quando, secondo i credenti, la Vergine preserva l’abitato di Monte
Compatri dalla virulenta epidemia di peste che miete vittime nei centri

Monte Compatri, interno
del Cnvento di San Silvestro
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Monte Compatri, il Belvedere

vicini. Il quadro della Vergine, originariamente disposto su un ceppo di
castagno e oggi incastonato in una tavola sempre di castagno, nei tempi
antichi era protetto da una casetta di legno che, nel 1675, è stata sostituita
dall’attuale cappella in muratura. Alle pareti una serie di affreschi
dello scorso secolo, opera del pittore locale Ettore Petrarca.
Chiesa di San Michele. Attaccata al Palazzo Comunale, lo storico
Palazzo Borghese, la chiesa dà il nome ad uno dei cinque Borghi cittadini,
Borgo San Michele che, oltre alla chiesa in piazza Mercato, comprende
tutte le zone circostanti, compreso il fianco sinistro di viale
Cavour, il tratto iniziale di Via Placido Martini e il tratto terminale di Via
Carlo Felici. Sullo stemma del borgo è rappresentato l’Arcangelo
Michele. La chiesa ha un bel portale in ‘Sperone’, la classica pietra di
Monte Compatri che ritroviamo in tutti i portali, nelle vasche delle fontane,
nei cordoli delle scale e in tutte le costruzioni antiche del paese.
L’interno, recentemente restaurato, ricorda le chiese di Calahorra la città
spagnola gemellata con Monte Compatri, patria del Beato Giovanni di
Gesù Maria da Calahorra, le cui spoglie riposano nel convento di San
Silvestro. La parte sottostante la chiesa è occupata dalla nuova Sala
Consiliare e, nel piano sottostante, i locali del costituendo museo comunale.
Palazzo Borghese. Iniziato dal cardinale Marco Sittico Altemps e concluso,
suo malgrado, dal Cardinale Scipione Borghese che lo vorrebbe
più rappresentativo per il suo fresco Principato, il palazzo nelle intenzioni
degli Altemps doveva servire semplicemente da deposito per il vino,
e le altre derrate provenienti dalle campagne del feudo. Scipione
Borghese, con il suo gusto per il bello e con le sue conoscenze nel
mondo delle arti e dell’architettura, è tentato di buttare giù tutto e riedificare
secondo suo gusto quella pesante struttura che peraltro, a suo
avviso, soffoca lo sviluppo del Borgo. Effettivamente la realizzazione di
quello che poi diventa Palazzo Borghese, condiziona in maniera decisa
lo sviluppo verso valle della cittadina. Il desiderio del Cardinale è frustrato
da altre urgenze, prima tra tutte portare l’acqua nell’abitato. Così
gli ingegneri chiamati dal cardinale per ristrutturare il palazzo sono
dirottati sulle opere idriche ritenute, giustamente, più importanti dell’estetica
del palazzo che, a dire il vero, non disturba più di tanto.
Costruzione indubbiamente massiccia e imponente, domina la sottostante
piazza, fa da muro al Borgo antico e ospita il Municipio da un
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lato, la chiesa dall’altro e, in basso alcuni negozi. E’ in via di realizzazione
il progetto di un "Museo Civico ed Eno-gastronomico" che avrà sede
all’interno della grotta di Palazzo Borghese.
Palazzo Annibaldeschi. Particolarmente caro ai vecchi monticiani per
aver ospitato per molti anni le scuole elementari, Palazzo Annibaldeschi,
sapientemente restaurato, oggi ospita la Biblioteca Comunale e la
Biblioteca Nazionale del Centro per la Filosofia Italiana.
Palazzo Altemps. Attualmente in fase di radicale restauro, l’antico
palazzo dei principi Altemps, per molti anni convento di suore, è stato
recentemente acquistato dal Comune che intende farne un centro studi
universitari, riservato a facoltà scientifiche.
Fontana dell’Angelo ‘minatore’. Inaugurata il 6 ottobre 1889, dopo
otto anni di lavoro, la fontana è un’opera indispensabile per venire
incontro all’accresciuto bisogno d’acqua che la vecchia fontana di
Palazzo Borghese non può più a soddisfare. I lavori del nuovo acquedotto,
lungo 5834 metri dei quali più di 5400 in galleria e il restante in
tubi di ghisa, resi difficili dagli strati di roccia trovata sul tracciato, alla
fine costano 378.087 lire, una cifra per quei tempi davvero rilevante. Ma
il risultato valeva la spesa. Il sindaco di allora, Giovanni Felici, decide
che tanta fatica e un così importante impegno di spesa meritano ben
altro che una semplice vasca per accogliere le acque del nuovo acquedotto
e, quindi, fa progettare dallo stesso ingegner Olivieri, la Fontana
dell’Angelo minatore, con il bel monumento che ancora oggi orna e
connota la piazza principale di Monte Compatri.
Fontana del Belvedere. Costruita nel 1891, prospiciente il Belvedere
cittadino, a lato di Palazzo Borghese, la fontana è costituita nella parte
bassa da una vasca in ‘Sperone’, la classica pietra locale, mentre la parte
superiore è un reperto archeologico di spoglio risalente all’epoca romana
venuto alla luce nel territorio monticiano. Fino alla costruzione del
nuovo acquedotto e della sottostante Fontana dell’Angelo, la fontana del
Belvedere ha rappresentato l’unico punto d’approvvigionamento per gli
abitanti del centro storico.

L’ambiente
Parco Calahorra. Novemila metri quadrati di verde, con alberi d’alto
fusto e tante essenze da giardino, sono tornati a vivere dopo anni d’oblio
grazie all’attenzione dell’amministrazione e alla capacità di una cooperativa
di giovani che, ogni anno, organizza la manifestazione ‘Fratello
Parco’. Creato agli inizi del 1900 dalla famiglia Preziosi il Parco è continuato
a crescere grazie all’amore per il verde dimostrato dai discendenti
dei fondatori. Il terreno, molto scosceso, terrazzato, è attraversato da
tanti vialetti che, intersecandosi, lo percorrono in tutte le direzioni.
L’altro verde, quello della campagna circostante e delle pendici del
Monte Salomone, antico vulcano spento, è costituito da oliveti, vigneti
e coltivi nella parte agricola e da lussureggianti boschi misti, con querce,
carpini, lecci, castagni e altre specie classiche della macchia mediterranea
nella parte boschiva.
Il territorio di Monte Compatri fa parte del Parco Regionale dei
Castelli Romani, un’istituzione che ha portato ad una più attenta tutela
dell’ambiente e alla salvaguardia delle specie animali presenti; tra queste,
una salamandra che si credeva non più presente in zona, la
‘Salamandrina dagli occhiali’, e il lupo, che da anni era sparito, è tornato
a popolare le parti meno frequentate del parco. Poi cinghiali, tassi, istrici,
ricci, volpi, lepri, faine e donnole rappresentano le specie più facili da
incontrare durante le escursioni lungo i sentieri del Parco. Nel cielo
Poiane, falchi e un gran numero di uccelli di passo o stanziali.
Feste e Sagre
Gennaio, 6: ‘Concerto dell’Epifania’ con il coro Moreschi.
Febbraio: ‘Carnevale Monticiano’ con i ragazzi del Circolo Dionisio.
Da Aprile a Giugno: ‘Rassegna cembalistica’ con l’Associazione
Musicale Karl Jenkins.
Da fine Aprile a inizio Maggio: ‘Fiera di San Giuseppe’.
Giugno: ‘Festa dello sport’ con l’Olimpique Monte Compatri.
Giugno, luglio, agosto: ‘Brother Park’ con i ragazzi del Circolo
Dionisio nel Parco Calahorra, La Villetta.
Luglio: ‘Festival Majorettes Compatrum’.
15-19: ‘Rassegna di teatro amatoriale’ con i PhotoClub Controluce.
Luglio e Agosto: feste propiziatorie alla ‘Sfida dei Borghi’.
Fine Luglio inizio Agosto: ‘Festival del Jazz’.
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Agosto, 13, 14 e 15: ‘Sfida dei Borghi’. La settimana di mezz’agosto a
Monte Compatri è caratterizzata sfida del Borghi, rievocazione storica
della venuta in Monte Compatri del Cardinale Scipione Borghese in
occasione dell’elevazione a Principato del feudo. La manifestazione prevede
il corteo storico, con dame, cavalieri, soldati e popolo in costume
secentesco, una gara di tiro con l’arco e una giostra medievale. I cinque
borghi, Borgo Ghetto, Borgo le Prata, Borgo Missori, Borgo San
Michele e Borgo Pantano danno vita alla disfida e a tutte le manifestazioni
di corollario che si concludono con un eccezionale spettacolo
pirotecnico.
Dicembre-Gennaio: ‘Natale Monticiano’ con i ‘Presepi nel Borgo
Ghetto’, il ‘Presepe Vivente con il Borgo Ghetto’ e la ‘Via dei Sapori’,
una manifestazione a ‘tagliandi’ che prevede un percorso che attraversa
tutti i borghi, ognuno dei quali cucina e offre un singolo piatto per tutti,
tagliando dopo tagliando, dall’antipasto al dolce.
Piatti tipici
Maltagliati con le cicerchie: Minestra di cicerchie, con battuto di grasso
di prosciutto, sedano, aglio, pomodoro, sale, pepe o peperoncino e
‘maltagliati’ di acqua e farina.
‘Serpette’: Sono degli eccellenti biscotti all’uovo, vanto della pasticceria
monticiana, reperibili in tutti i panifici del paese. Uno degli artefici di
questa dolce specialità è il fornaio-arciere di via Placido Martini, vincitore
dell’edizione 2010 della ‘Sfida dei Borghi’.

Da Roma
Auto: si percorre il GRA (tronco meridionale), seguendo le indicazioni
per Napoli. Dopo il casello di Roma Sud uscire a Monte Porzio Catone e
risalire verso Monte Compatri che dista circa 4 km dal casello autostradale.
Autobus: autolinee Cotral (partenze dal capolinea Roma Anagnina, ogni
30’-45’ minuti, dalle ore 5.00 alle 22.50). www.cotralspa.it.
Treno: collegamenti ferroviari dalla Stazione Termini di Roma sulla tratta
Roma-Velletri. Stazioni più vicine Frascati e Colle Mattia.
Connettiti al wifi gratuito
di Monte Compatri
Biblioteca
Via Annibaleschi snc
I link
http://www.montecompatri.comnet.roma.it/http://www.montecompatriproloco.it/
http://www.provincia.roma.it/
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218
Montelanico>>>>
Montelanico, bottega medievale

La storia
Tra il IX secolo e il fatidico Anno Mille, ‘Methellanicus’, Comune di
media collina dalle campagne intensamente coltivate, è proprietà
della famiglia Metelli che gli dà il nome. Di questo importante centro
agricolo, già fortificato e munito di ‘Castro’, si hanno prime notizie certificate
soltanto nel 1154 attraverso una Bolla papale che Anastasio IV
promulga poco prima di morire. In quella Bolla il pontefice ascrive al
Capitolo Lateranense la proprietà del feudo di ‘Methellanici’ e le sue
appartenenze ‘et castrum Methellanici cum omnibus pertinentiis suis’.
Un’altra Bolla, questa emanata da papa Lucio III, il lucchese Ubaldo
Allucingoli, stabilisce che la proprietà del feudo di Methellanicus passa
alla giurisdizione vescovile di Segni. I tormentati passaggi di mano non
finiscono qui. Appena sette anni dopo l’emanazione della Bolla di Lucio
III, che nel frattempo è morto lasciando questo mondo e il soglio di
Pietro a Umberto Crivelli, al secolo Papa Urbano III, il paese finisce tra
i possedimenti dei Conti di Ceccano che, nel bene e nel male, almeno
rappresentano un punto di continuità, rimanendo signori del feudo fino
al 1428.
Il periodo di mezzo non è scevro di problemi. Ai Conti di Ceccano si
affiancano i Signori di Collemezzo e Adinolfo di Mattia di Anagni, una
testa calda che, arbitrariamente si impossessa di Frosinone suscitando le
ire dal papa Martino IV, che da ordine di attaccare l’usurpatore e mettere
a sacco Montelanico. La rappresaglia,ovviamente, colpisce anche i
Conti di Ceccano e i Signori di Collemezzo i quali, per difendere i loro
diritti, si mettono contro il papa. Martino IV, senza mezzi termini, li
espropria di tutti i beni. Da questo sopruso prende le mosse la ritorsione
posta in atto nel 1303 dal ghibellino Guido di Collemezzo e da
Giordano Conti, che attraverso il francese Nogaret e Giacomo Colonna
passa alla storia come lo ‘schiaffo di Anagni’ ai danni di Bonifacio VIII
Benedetto Caetani, ricordato da Dante nel XX canto del Purgatorio:
Perché men paia il mal futuro e il fatto,
veggio in Alagna entrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinnovellar l’aceto e ‘l fele,
e tra vivi ladroni esser anciso
219

220
Veggio il novo Pilato sì crudele
che ciò nol sazia; ma senza decreto
porta nel Tempio le cupide vele.
I 300 uomini (ma c’è chi parla di 1600), italiani e francesi che catturano
il papa, provenienti da Roma, guidati dal principe Giacomo Colonna
Sciarra e dal francese Nogaret, prima di arrivare ad Anagni, vengono
arringati da Giordano Conti in piedi su una pietra, la ‘pietra rea’, posta
all’ingresso di Sgurgola dove i due gruppi si incontrano e si fondono. I
Caetani, alla cui famiglia appartiene il papa oltraggiato, nella notte del
1313 assaltano Montelanico facendo strage di inermi cittadini compresi
vecchi donne e bambini.
Gli anni a seguire, per Montelanico, non sono meno tormentati di quelli
che li hanno preceduti. Nel 1384 il feudo passa per intero a Margherita
di Ceccano che lo lascia al suo erede Raimondello il quale, poco avveduto,
appoggia l’antipapa Clemente VII e perde il feudo che gli viene
confiscato dal papa ‘ufficiale’, Bonifacio IX. Nel 1428, per asse ereditario
Montelanico passa ai Conti di Segni insieme a Collemezzo, Pruni e
Montelongo. Quest’ultimo passaggio di mano non è esente da tensioni
e lotte fratricide tra vari feudatari che vantano diritti di successione.
Scontri armati, assalti e saccheggi si protraggono per lungo tempo e a
farne le spese, come spesso accade, è il popolo minuto. Con il tempo si
appianano i contrasti e, nel 1640, Carlo, discendente dei Conti di Segni,
assillato dai creditori e non potendo far fronte al pagamento dei suoi
numerosi debiti, vende Montelanico, Montelongo, Pruni e Collemezzo,
ovvero l’intero feudo, ai principi Barberini il cui più alto rappresentante
in quell’anno è papa Urbano VIII, Maffeo Barberini. Nel 1651, dopo
soltanto undici anni, i Barberini cedono il feudo ai Pamphilj per la non
trascurabile cifra di 687.297 scudi. Saranno i Pamphilj a varare nel 1722
gli Statuti di Montelanico. L’ultimo atto feudale di Montelanico si consuma
nel 1780 quando i Pamphilj si estinguono e passano, per asse ereditario,
Montelanico e le sue terre ai principi Aldobrandini Facchinetti,
Signori di Carpineto e ultimi signori di Montelanico. Poi, nell’ordine,
arriva Napoleone, torna il papa, i bersaglieri di Lamarmora entrano in
Porta Pia, cade lo Stato della Chiesa e l’unità d’Italia saluta la nascita del
Comune di Montelanico.
Primo sindaco di Montelanico è un prete patriota, Don Francesco
Raimondi, mazziniano della prima ora il quale, come risulta dai resoconti
di polizia ‘…impugnò le armi e molto si distinse nelle vicende della Repubblica
Romana del 1849’. L’11 ottobre del 1852 la guardia papalina lo arresta e

lui saluta i compaesani con un’irriverente affermazione: ‘Hanno tempo a
fare presto, la Repubblica dovrà tornare…’. Processato e condannato a 15
anni di reclusione nella rocca di Tarquinia, un penitenziario riservato al
clero, torna a Montelanico nel 1865. Emarginato dalla chiesa e sottoposto
a stretta vigilanza, continua a far proseliti tanto da essere definito dal
bargello che lo controlla ‘la peste di questo Comune’. La stretta sorveglianza
non gli impedisce di nascondere in casa, a due passi dalla gendarmeria
pontificia, il magistrato Marcucci, altro noto cospiratore romano
braccato per anni dopo la caduta della Repubblica Romana. L’unità
d’Italia premia il patriottismo di Don Francesco Raimondi che, come
segretario comunale, partecipa al Plebiscito del 5 ottobre 1870. A
Montelanico, su 309 iscritti, 230 votano per il ‘sì’, 70 si astengono e 9
sono i voti contrari.
Alle prime elezioni, contro il parere del Vescovo, Don Francesco
Raimondi si candida ed è eletto primo sindaco di Montelanico. Un sindaco
attivissimo: in un anno da primo cittadino apre la scuola pubblica
elementare, delibera la costruzione dell’asilo infantile, illumina il paese
con venti lampioni a petrolio, sostituisce l’intera guardia comunale perché
‘tutti illetterati’ (leggi analfabeti), nomina un medico chirurgo stabile,
apre l’ufficio telegrafico e l’ufficio postale, rimette in sesto le finanze
comunali con un oculato taglio del bosco (soltanto un diradamento
mirato e non il solito taglio da rapina) e, soprattutto estendendo il pagamento
delle tasse ai nobili, Principe compreso, che al tempo del ‘Papa
Re’ erano esentati dal pagarle insieme ai prelati e agli impiegati comunali.
Altro cespite di guadagno per il Comune sono le acque, delle quali
Montelanico è ricco, che una volta imbrigliate sono rese produttive a
favore della comunità. In dodici mesi Montelanico, da Cenerentola qual’era
diventa un Comune dai bilanci attivi da prendere ad esempio.
L’effetto Raimondi continua negli anni, tanto che il suo successore, il
‘papalino’ Rinaldi, può candidare Montelanico come Capoluogo di
Mandamento. Ma i fasti di Don Francesco, non torneranno più.
Da vedere
La chiesa di San Pietro Apostolo, attualmente chiusa per un restauro
che si annuncia abbastanza lungo e complicato, è stata eretta all’entrata
del centro storico, dove si apriva la porta del castello, lungo ‘Salita
Muriglio’, di fronte al Palazzo Ducale; la porta infatti univa la chiesa al
palazzo dando corpo al borgo murato. L’interno ad un’unica navata con
221

La Fontana dei quattro Putti,
in Piazza Vittorio Emanuele

224
due cappelle per lato, conserva un olio di Vincenzo Camuccini raffigurante
la Madonna del Soccorso e un artistico ciborio per Oli Santi, scolpito
in pietra bianca, attribuito alla scuola di Mino da Fiesole.
La chiesa di Sant’Antonio (‘Tigri’), situata in Piazza Vittorio
Emanuele II, principale punto di ritrovo di Montelanico, conserva al
suo interno una bella tela raffigurante l’ultima Cena, una Crocifissione,
un interessante olio sull’Immacolata Concezione e due statue di buona
fattura, una di San Giuseppe e l’altra di Sant’Antonio.
Chiesa di Santa Maria del Soccorso. A Montelanico, il culto per la
Sacra immagine della Madonna del Soccorso è molto sentito. Il
Santuario, meta di pellegrinaggi, si trova in località ‘La Forma’. La festa
patronale si svolge la vigilia della terza domenica di settembre.
La Fontana dei quattro putti, su Piazza Vittorio Emanuele II, è opera
dello scultore Ernesto Biondi. I quattro putti alati, sistemati al centro
della vasca, rappresentano Montelanico e i tre paesi confinanti: Segni,
Gavignano e Carpineto Romano.
L’ambiente
L’Oasi di Montelanico, istituita negli anni 60, ricade nella provincia di
Roma ed interessa i Comuni di Carpineto Romano, Montelanico e
Segni. Ha un estensione di 3.000 ha, e si sviluppa lungo la catena montana
occidentale. I boschi del territorio di Montelanico sono essenzialmente
costituiti da faggi, querce, roverelle, carpini, aceri, lecci e, nelle
parti più basse, le essenze tipiche della macchia mediterranea. Il re del
bosco è indubbiamente il castagno che da secoli rappresenta una voce
importante nell’economia agricola del comprensorio. Vasti castagneti
fanno da corona a boschi dove trova riparo e habitat la fauna locale
costituita da cinghiali, volpi, lepri, tassi, istrici e, nelle zone più impervie,
è stato avvistato anche qualche lupo. Ma a preoccupare di più gli allevatori
sono i branchi di cani randagi. L’avifauna del comprensorio è composta
di 160 specie di uccelli, 64 stanziali, 41 di passo, 30 estive, 7 invernali,
14 occidentali e altre 4 di status non definito. Tra i rapaci diurni
abbondano falchi e poiane e tra i notturni allocchi, gufi e civette. Sono
presenti diverse specie di rettili, compresa la vipera ma, soprattutto,
innocue serpentelli e bisce.

Feste e Sagre
Maggio: San Michele Arcangelo. Riti sacri in onore del Santo e feste
popolari con spettacoli di arte varia e fuochi pirotecnici.
Agosto: festa della Madonna di Collemezzo.
Settembre: festa Patronale della Beata Vergine del Soccorso.
Ottobre: ‘Sagra della castagna’. Degustazione di caldarroste, formaggi
ed altri prodotti locali. Apertura delle cantine del centro storico.
Piatti tipici
‘j’appallocco’: una particolare polenta condita con fagioli, cotiche o
con fave secche, che si serve calda con verdura cotta e salsicce.
‘Raminaccia’: fettuccine tagliate sottili, condite con sugo a piacere.
Gnocchetti lunghi: E’ la tipica pasta, ammassata con sola acqua e farina,
lavorata come gli ‘strozzapreti’.
‘Rcchie de preite’: Si tratta di un tipo di pasta fresca da condire con
sugo di carne.
Da Roma
Auto: autostrada A1, uscita Colleferro, poi seguire le indicazioni.
Autobus: autolinee Cotral. www.cotralspa.it.
Treno: da termini, Roma-Cassino, fino alla Stazione di Colleferro. Poi
bus navetta Cotral per Montelanico.
Connettiti al wifi gratuito
di Montelanico
Biblioteca
via Corte Vecchia 27
Municipio
Piazza Vittorio Emanuele
I link
http://213.203.143.153/c058062/
hh/index.php
http://www.provincia.roma.it/
225

226
Olevano
Romano>>>>>
Olevano Romano, le case
sulle mura ciclopiche

La storia
Il 4 aprile del 2001, l’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme ha conferito
a cinque cittadini di Olevano Romano, i coniugi Agapito e
Assunta Milana, i loro figli Giulia, Lido e Angelo, l’alta onorificenza di
Giusti tra le Nazioni. Ad Olevano, di Giusti tra le Nazioni, senza nulla
voler togliere alla famiglia Milana, ce ne sono tanti. In quegli anni di
confusi ideali la cittadina laziale si distingue in questa gara d’umana solidarietà
nello strappare ai nazisti tanti innocenti perseguitati dalle leggi
razziali. Prendendo spunto dal prestigioso riconoscimento, il sindaco
Guglielmina Ranaldi vara ‘La giornata della memoria’ e invita i componenti
la famiglia salvata dai Milana. Di quell’incontro alcuni passi del
racconto di Alice, figlia di uno dei personaggi salvati, sono illuminanti
per capire di che pasta siano fatti Olevano Romano e la sua gente: ‘Siamo
andati con loro in giro per il paese, in una surreale passeggiata sotto la neve che cadeva
a fiocchi, per vedere con i nostri occhi i luoghi dei racconti, e così la storia che avevamo
solo ascoltato, ha preso corpo. Abbiamo visto la casa nella quale era rifugiata
la nostra famiglia; abbiamo immaginato la contadina che, prevedendo un pericolo
imminente, ha preso nostra cugina di pochi mesi, e dopo averle sporcato il viso, l’ha
avvolta in una copertaccia, l’ha presa in braccio ed è scappata per le strade del paese
fingendo fosse sua figlia; i soldati nazisti, che calciando la porta sono entrati sorprendendo
nostro padre e suo cognato soli in casa. Le donne del paese che con ampi gesti
silenti, da fuori, dicevano loro di scappare. Abbiamo visto i tetti sui quali sono riusciti
a fuggire dalle armi che li tenevano sotto tiro e le stradine per le quali sono scappati
con altre donne che di via in via si affacciavano dalle finestre per suggerire loro
una via di fuga sicura. Una staffetta che ha salvato le loro vite. E la frase del
Talmud che recita “chi salva una vita salva il mondo intero” acquista allora un
significato che mi emoziona personalmente, perché la gente di Olevano, salvando
nostro padre ha salvato anche noi, che non eravamo neanche nate, i nostri figli e tutte
le generazioni a venire’.
Ecco, basterebbe il passo di questa toccante lettera per capire la città,
perché le pietre, da quelle megalitiche delle mura ciclopiche a quelle
delle case, le posano gli uomini e lo fanno in maniera che il costruito
rifletta il loro pensiero. Basta girare per i vicoli ombrosi, ritrovare la luce
su inaspettate piazze, restare abbagliati dalla bellezza di una chiesa, di un
palazzo, di una semplice casa, per capire che questo è un paese costruito
da ‘giusti’.
‘Giusti’ si, ma non imbelli. Ne sanno qualcosa i romani che nella corsa
verso la conquista della Campania Felix, si trovano a fare i conti con i
227

228
fieri difensori arroccati dietro le mura ciclopiche di Olevano.
Ovviamente, viste le forze in campo, vincono i romani ma gli abitanti
del Vico fanno la loro parte. Di quelle storiche mura sono rimasti soltanto
spezzoni, poco più di duecento metri inglobati nelle case del
primo terrazzamento di Via Ara de’ Santi, a far da solide fondamenta a
tutto il resto del paese che si arrampica lungo il colle del Monte Celeste.
Non poteva che chiamarsi così. Giunti in cima, il panorama che si gode
è davvero celestiale. Del periodo romano non si hanno grandi notizie.
L’attuale Olevano è soltanto uno dei tanti Vici o pagus sparsi. Diventa
castrum e assurge alla dignità della carta pecora, sotto forma di documento,
soltanto nell’anno 958 quando, papa Giovanni XII, con Bolla
papale munita da regolare sigillo pendente in piombo, conferma tutta
una serie di beni come proprietà del Monastero Benedettino di Subiaco.
Tra questi beni figura il ‘feudum Castro Olibani’, ovvero Olevano
Romano che, grazie a questa Bolla, acquisisce il suo atto di nascita ufficiale.
Va da se che la nascita reale, quella sociale come entità di Borgo,
deve essere molto precedente altrimenti non verrebbe neppure indicato
come ‘Feudo’.
Come tutti gli altri centri dello Stato della Chiesa, Olevano Romano
conosce continui passaggi di mano legati a cessioni, vendite, assi ereditari,
doti matrimoniali e, soprattutto, nomine papali che, di papa in papa,
di nepotismo in nepotismo, vedono feudatari affermarsi, passare, tornare
o dissolversi nel giro di qualche conclave. Durante il pontificato di
Alessandro III, Olevano passa ai Frangipane i quali, guarda caso, dopo
poco lo cedono allo stesso papa in cambio di ‘Castro Tiberia’. Un’altra
Bolla papale, questa volta emanata da Onorio III il 20 giugno del 1217,
conferma Olevano come bene dei Benedettini di Subiaco, ma subito
dopo lo stesso papa lo cede ai Colonna che se lo tengono ben stretto
(Olevano Romano è diventato terra dalle ottime rendite) fino al 1614
quando Francesco Colonna lo vende al Cardinale Scipione Borghese. La
moglie dell’ultimo feudatario di Olevano Romano, artisticamente discinta
per Antonio Canova, fa bella mostra di sé alla Galleria Borghese di
Roma; si chiama Paolina, è sorella di Napoleone Bonaparte e moglie del
Principe Camillo Borghese, feudatario fino al 1832 della stessa Olevano
Romano che, diciassette anni dopo, nel 1849, accoglie trionfalmente
Giuseppe Garibaldi sul suo cavallo bianco. La storica scena, raffigurata
in un celebre quadro del pittore svizzero Carlo Knebel (presente
all’evento), è in mostra in una delle sale del castello di La Sarraz, in
Svizzera e, riprodotta, fa bella mostra di se sul muraglione davanti alla

porta di Olevano raffigurata nel quadro stesso.
La presenza di Carlo Knebel all’arrivo di Garibaldi in Olevano Romano,
non è casuale. Già allora la cittadina era frequentata, come Anticoli
Corrado, da molti pittori europei, principalmente tedeschi ma anche
svizzeri e francesi, richiamati dalle bellezze naturali e dalla salubrità dell’ambiente.
‘Scoperta’ dal pittore tirolese Joseph Anton Koch, che peraltro
sposa una ragazza del posto, Cassandra Ranaldi, Olevano diventa in
poco tempo il ‘Parnaso dei monti lepini’ dove pittori del calibro di Jean-
Baptiste Camille Corot, si struggono davanti alla selvaggia bellezza della
‘Serpentara’, un querceto secolare che lo steso Corot dipinge e definisce
‘la foresta incantata’. Come lui anche altri scelgono la Serpentara e
Olevano Romano come posto ideale per trovare la giusta ispirazione.
Tra loro Frieddrich von Olivier, Anselm Feuerbach, Friedrich
Overbeck, Albert Bierstadt e, in particolare, un giovane artista, Franz
Theobald Horny che a Olevano vive e muore giovanissimo nel 1824. E’
così legato al paese che alla sua morte la comunità accoglie il feretro
nella chiesa di San Rocco. La nutrita colonia d’artisti tedeschi spinge la
Cancelleria del Reich ad acquistare, agli inizi dello scorso secolo, ‘Casa
Baldi’, tramutandola in casa degli artisti. D’altra parte proprio in quella
casa, abitualmente alloggiano i pittori in visita ad Olevano. Casa Baldi fa
parte dell’Accademia Tedesca di Villa Massimo a Roma. La stessa Villa
Massimo è frutto di una donazione dell’imprenditore e mecenate prussiano
Eduard Arnhold che acquista il terreno dai Principi Massimo nel
1910, e in soli tre anni costruisce una spaziosa villa rappresentativa e
dieci studi moderni con annessa abitazione per gli artisti. L’Arnhold
dona poi tutto il complesso alla Prussia aggiungendo un fondo di
680.000 Reichsmark, da destinare a borsa di studio. Ancora oggi a Roma
e a ‘Casa Baldi’ in Olevano Romano, arrivano e soggiornano meritevoli
giovani artisti tedeschi. La tradizione continua. Nella città dei ‘Giusti’,
non c’è spazio neppure per un pur larvato risentimento.
Da vedere
Mura ciclopiche. Pressoché inglobate nell’abitato le mura poligonali
d’epoca preromana, costituite da imponenti blocchi di pietra cingono
per circa duecento metri la parte bassa del centro storico, alzandosi fino
al primo terrazzamento di via Ara de’ Santi.
La torre medioevale, risale all’epoca dei primi feudatari Colonna.
229

Santa Maria di Lourdes
con il suo splendido affresco

232
Costruita nella prima metà del 1200, seppure parzialmente capitozzata,
conserva il suo aspetto guerresco e domina i resti della Rocca, ormai
ridotta a un belvedere dall’alto del quale, si può ammirare un panorama
a 360 gradi: dai Monti Lepini a Sud, alla Valle del Sacco e, in lontananza,
la pianura pontina, i Monti Prenestini ad Ovest e l’alta Valle del
Sacco, quindi i Monti Simbruini ad Ovest e il poderoso Monte
Scalambra ad Est.
Chiesa di Santa Margherita. Salendo lungo l’erta che conduce alla
Rocca, si incontra questa bella chiesa parrocchiale, momento di riposo
per gli occhi e per le gambe. Al suo interno conserva alcune tele di
buona fattura, un arazzo con Santa Margherita e il drago, nella bellissima
Cappella del Santissimo Sacramento uno scenografico tabernacolo
in legno dorato e due eccellenti affreschi, una Cena a sinistra e una
Crocifissione a destra, datati 1907 e firmati dal Galimberti. Lo stesso
pittore che ha realizzato anche gli affreschi ai lati dell’altare maggiore.
Chiesa di San Rocco. Mirabilmente restaurata, questa chiesetta molto
raccolta, spicca sull’omonima piazza per l’elegante protiro a ‘L’ capovolta,
con tre archi a sesto acuto a fronte e uno laterale, che accoglie la scala
e immette all’interno della chiesa. Come l’esterno anche le pareti si presentano
con pietra a faccia vista. Sulla parete di destra è murata la tomba
del pittore Franz Theobald Horny, morto giovanissimo, nel 1824, ad
Olevano Romano. Modesti gli arredi. Interessante la statua di San Rocco
e l’antico stendardo processionale.
La chiesetta di Santa Maria di Lourdes, appartata, quasi schiva,
all’ombra della maestosa torre della Rocca, questa chiesina conserva un
bellissimo affresco nell’abside che da solo merita una visita.
Il Santuario dell’Annunziata, situato nella parte bassa del centro storico,
rimane distaccato dal Paese e si affaccia su una piazza pavimentata
da uno sconnesso selciato di pietra. Restaurato nel 1983, il santuario
presenta un altare molto ricco, con due colonne tortili, molti stucchi
dorati e una tela della Madonna venerata dal popolo. Tra le altre cose di
buona qualità, una statua di San Francesco, uno stendardo processionale
con la stessa tematica di quello di Santa Margherita, ma di fattura
moderna, una Madonna dei Sette Dolori e altri Santi. La facciata, sobria
ma suggestiva è deturpata da una grande scritta in legno inneggiante alla

Vergine che anche lei, nella sua santità, probabilmente avrebbe evitato.
Museo-Centro Studi. Dedicato alla pittura europea di paesaggio del
Lazio (aperto il sabato e la domenica), ospita disegni dell’800 e ‘900,
serigrafie, una collezione di stampe con Vedute Romane di Joseph
Anton Koch, oltre alla Donazione dell’Artista Heinz Hindorf.
Casa Baldi. Proprietà dell’Accademia Tedesca, ancora oggi ospita borsisti
tedeschi che vengono ad Olevano per dipingere la ‘Serpentara’ e
studiare dal vivo l’arte locale. Casa Baldi fin dai primi anni del 1800, è
ritrovo e ostello dei pittori che, sulle tracce del pittore tirolese Joseph
Anton Koch, fuggendo la malaria delle Paludi Pontine, vengono a scoprire
le bellezze di Olevano Romano. Oggi, Casa Baldi, mette a disposizione
due ateliers, luoghi di ritiro con vista sul centro storico, e con un
panorama che va dalle pianure delle valli del Liri e del Sacco fino ai
Castelli Romani e, quando il cielo è limpido, arriva fino al mare.
L’ambiente
La ‘Serpentara’, centenario bosco di querce alle porte di Olevano
Romano, è nota in tutta Europa anche grazie ai celebri disegni di
Gustavo Dorè che a questo bosco si ispira per realizzare i disegni della
‘selva oscura’ celebrata da Dante nella Divina Commedia. Nota fin dal
Settecento ai viaggiatori del Grand Tour, ha ispirato Corot e altri grandi
pittori insieme al resto dell’ambiente che caratterizza il territorio di
Olevano Romano: boschi, si, ma anche verdi campagne, secolari oliveti
e curatissimi vigneti che producono le uve che danno il celebre
‘Cesanese’ di Olevano Romano, una prelibatezza giocata su più corde,
dal frizzante all’abboccato per approdare al classico rosso, asciutto e,
come si dice, di buona beva.
Feste e Sagre
Maggio e giugno: pellegrinaggio alla Santissima Trinità.
1 settimana di luglio: festa dell’Annunziata.
20 luglio: festa patronale di Santa Margherita. Con rievocazione storica
‘medievale’.
16 agosto: festa di San Rocco.
Fine agosto: ‘Sagra del vino Cesanese’.
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Metà settembre: festa di Santa Maria di Corte.
Piatti tipici
Pappardelle al ragù di caccia. Pappardelle condite con sugo alla cacciatora
senza pomodoro, profumato al ginepro.
Cinghiale marinato al ‘Cesanese’. Magro di cinghiale come classico
piatto di cacciagione locale.
Cannelloni della Sora Maria. Particolari cannelloni, farciti con pasticcio
di manzo, poi gratinati con mozzarella di bufala.
‘Gnocchitt a coda de soreca’. Non si tratta di gnocchi ma di una pasta
ammassata con sola acqua e farina e lavorata come gli strozzapreti.
Da Roma
Auto: autostrada del Sole A1, uscita ai caselli di Valmontone o di
Coleferro; in alternativa, Autostrada A24 Roma-L’Aquila con uscita al
casello di Carsoli-Subiaco-Olevano Romano.
Autobus: autolinea Roma-Olevano Romano. Partenze da
Metropolitana A stazione Anagnina, direttrice casilina o Autostrada del
Sole; Metropolitana B, Ponte Mammolo, direttrice Prenestina o
Autostrada Roma-L’Aquila.
Treno: da Roma Termini, direttrice Roma-Cassino. Scendere alla stazione
di Zagarolo o di Valmontone. Poi bus navetta locale.
I link
http://www.comune.olevanoromano.rm.it/
http://www.provincia.roma.it/

Una delle tante scalinate
del centro storico
235

236
Pisoniano>>>>>
Le pietre e i colori di Pisoniano

La storia
Il Santuario della Mentorella è lì, poco distante, abbarbicato tra le
rocce, sulla rupe dove secondo la leggenda, Sant’Eustachio vede il
simbolo di Cristo tra le corna del cervo che si appresta ad uccidere.
Devotamente più in basso, subito dopo Guadagnalo, l’abitato di
Pisoniano vive con l’intensità di allora quell’antica leggenda e, con più
terrena partecipazione, le visite che due papi, Karol Wojtyla e il suo successore
Joseph Alois Ratzinger, hanno riservato al Santuario, prima e
dopo le rispettive investiture al soglio di Pietro. A papa Giovanni Paolo
II che da queste parti è venuto una decina di volte, Pisoniano ha dedicato
il sentiero che porta al Santuario della Mentorella, meta privilegiata
dal pontefice di Cracovia. Papa Benedetto XVI che spesso ha accompagnato
il suo predecessore in queste gite fuori protocollo, è tornato a
Guadagnolo, alla Mentorella, il 30 ottobre del 2005, ha celebrato messa
e ha benedetto una dozzina di stupiti fedeli che avevano avuto la fortuna
di trovarsi al posto giusto nel momento giusto.
Pisoniano sorge su un colle, a 525 metri sul livello del mare, di fronte al
Monte Cartellone. Il paese deve il suo nome al console romano Lucio
Calpurnio Pisone, autore della ‘Lex Calpurnia’, il quale nel territorio di
Pisoniano aveva una villa i cui resti sono stati localizzati nella vicina
zona archeologica. Il nome del paese, nel corso dei secoli conosce mutazioni
e interpretazioni varie legate più che allo storico console romano,
ai prelibati legumi: Pisius, quindi, come Piselli. Poi Pisianus, quindi
Pisianum e perfino Pisciano; fino all’attuale Pisoniano che riporta a
Lucio Calpurnio Pisone. E Pisoni o Pisoniani si chiamano i suoi abitanti.
Le notizie del periodo romano non toccano direttamente questo piccolo
centro ma, più genericamente, il suo territorio. Bisogna scavalcare
l’anno Mille per avere il conforto di documenti scritti. Nel 1284 il
‘castello’ di Pisoniano appare come proprietà di Giovanni Colonna.
Fieri contrasti tra i Colonna e il pontefice Bonifacio VIII, portano ad un
conflitto dal prevedibile esito: Bonifacio ha la meglio e toglie il feudo ai
Colonna passandolo agli Orsini. I passaggi di mano tra le due famiglie,
continui e ravvicinati, si protraggono fino al 1501 quando Alessandro
VI, papa Borgia padre di Lucrezia e del sanguinario Cesare, detto ‘il
Valentino’, assegna il castello a Giovanni Borgia che lo detiene per un
paio di anni, giusto il tempo di venir ucciso dal fratello Cesare e gettato
nel Tevere. Breve parentesi ancora con i Colonna, poi di nuovo i Borgia.
237

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L’altalena prosegue anche negli anni seguenti fino a quando
Marcantonio Colonna vende il feudo ai principi Massimo per allestire la
dote della sorella Vittoria andata in sposa a Garcia Alvarez de Toledo
Osorio, figlio del vicerè di Napoli, Pedro Alvarez de Toledo. I Massimo,
dopo appena un decennio, cedono il feudo ai Theodoli per 20.000 scudi
romani, cifra che a quei tempi rappresentava una piccola fortuna. La
scalata sociale della famiglia Theodoli comincia da lì: in breve tempo
diventano Cavalieri di Malta, Conti di Ciciliano, Marchesi di San Vito e
Pisoniano, Marchesi di Sambuci e, quel che più conta, godono del privilegio
del ‘Baldacchino’, riconosciuto soltanto ad altre tre nobili famiglie
romane.
Da vedere
La chiesa di San Paolo Apostolo, Parrocchiale, risalente al XII secolo
ma abbondantemente rimaneggiata tra il Seicento e il Settecento, è
stata quasi del tutto rifatta il secolo scorso. In questa chiesa si venera la
Madonna della Neve con una processione che ha luogo i primi giorni di
agosto, nel corso della quale sul corteo viene fatta cadere una fitta nevicata,
in ricordo della miracolosa nevicata di Santa Maria Maggiore a
Roma. Al suo interno sono conservate alcune interessanti tele settecentesche
di autori ignoti.
La chiesetta della Madonna della Neve, situata lungo il sentiero che
da Pisoniano porta al Santuario della Mentorella, è utilizzata dai fedeli
come luogo di sosta e di preghiera in attesa di riprendere il camino verso
il Santuario. Al suo interno l’immagine della Madonna, copia della ‘Salus
Populi Romani’, venerata in Santa Maria Maggiore a Roma.
La chiesa rurale di Santa Vittoria, secondo la tradizione, sorge proprio
dove la Santa abitava con la sorella Anatolia. Sull’altare maggiore
conserva una preziosa tavola del X-XI secolo, raffigurante Santa
Vittoria benedicente che tiene a bada una drago. La leggenda narra che
la Santa, catturando il drago portatore della peste che ha colpito
Ciciliano e gli altri centri vicini, salva gli abitanti di Pisoniano dal contagio.
Ruderi della Villa dei Pisoni. Pochi ruderi, di difficile lettura, attribuiti
alla Villa dei Pisoni, si trovano lungo la strada che da Pisoniano porta

al Santuario della Mentorella, lungo il sentiero Karol Wojtyla. I ruderi si
trovano salendo sulla destra in una radura a circa due chilometri dal centro
abitato.
Palazzo Theodoli. Della nobile dimora non è restata neppure la forma
originale. Tutto il complesso che affaccia sulla valle e guarda al Santuario
della Mentorella, è stato tramutato in tanti appartamenti, ognuno con
accesso autonomo sulla strada interna. Anche il torrione tondo, messe
da parte le originarie funzioni, ha la sua bella porta a faccia strada.
Il Museo della Canapa. In pieno centro storico, al civico 27 di Via
Santa Maria, apre i battenti il Museo della Canapa, memoria storica di
un prodotto che ha rappresentato una voce importante nell’economia di
Pisoniano. Nelle sale sono esposti tutti gli oggetti legati alla lavorazione
della canapa, telai, fusi e gli attrezzi agricoli legati alla coltivazione di
questa pianta che, fino agli anni ‘40 dello scorso secolo, dava lavoro alla
maggior parte delle famiglie di Pisoniano.
La natura
Il verde del boscoso monte Cartellone racchiude la tipologia botanica
dell’agro di Pisoniano, famoso da secoli per la coltivazione e la lavorazione
della canapa e, in tempi più recenti, per un’iniziativa degna di nota
denominata ‘Essenze di vita: il Parco botanico e le erbe di Pisoniano’.
Un tuffo nella natura circostante è rappresentato dal celeberrimo
Sentiero Wojtyla, dedicato a Giovanni Paolo II, che porta a Guadagnolo
e al santuario della Mentorella. Querce, roverelle e un ricco sottobosco
accompagnano i pellegrini diretti al santuario. Nei coltivi, oltre agli oliveti,
ricchezza di queste campagne, ancora campi coltivati a canapa e,
lungo la valle, una fiorente orticoltura.
Feste e Sagre
La Festa del Corpus Domini. Come in tanti altri centri anche qui il
giorno del Corpus Domini viene festeggiato con un’infiorata che orna
le strade del centro storico.
La festa della Madonna della Neve, è celebrata la prima domenica di
agosto (mai prima, però, del giorno 5), con una copiosa nevicata in
239

240
memoria di quella che avvenne a Santa Maria Maggiore a Roma. Nel
corso dei festeggiamenti, spettacoli musicali, fuochi d’artificio e la tradizionale
Sagra del ‘Frittello di zucca’.
La festa della Madonna del Rosario, molto sentita dai confratelli dell’omonima
Confraternita, ha luogo la prima domenica d’ottobre.
I piatti tipici
Sagne al baccalà. Pasta all’uovo tagliata a ‘sagne’ larghe. Condita con
sugo di pomodoro e baccalà.
Frittello di zucca. Le classiche frittelle di fiori di zucca.
Pizzocchi. Pizza di granturco cotta sulla pietra e condita poi con broccoletti
e salsiccia ripassati in padella.
Da Roma
Auto: autostrada Roma-L’Aquila, uscita Castel Madama, poi proseguire
per Pisoniano.
Treno: linea Roma-Sulmona con partenza da Roma Tiburtina. Scendere
alla stazione di Castel Madama. Poi bus navetta.
Autobus: con autolinee Cotral partenza da Metro Ponte Mammolo.:
www.cotralspa.it.
I link
http://www.comunedipisoniano.it
http://www.provincia.roma.it/

Un caratteristico scorcio di Pisoniano
con la chiesa di San Paolo sullo sfondo
241

242
Ponzano
Romano>>>>>
Ponzano Romano,
l’Edicola della Madonna

La storia
Arroccato sulle ultime propaggini del Monte Soratte, affacciato sulla
valle del Tevere, Ponzano Romano ha legato la sua vita a queste due
grandi emergenze naturali: da un lato la ‘Montagna Sacra’ con i suoi
eremi, i suoi ‘Meri’ e le sue grotte, dall’altro il fiume Tevere, non meno
sacro del monte e, in più, portatore di lucrosi traffici tra la ‘Gens Pontia’
(di qui probabilmente il toponimo Ponziano), e la Roma imperiale.
Proprio qui, infatti, sulla riva prospiciente l’Abbazia di Sant’Andrea in
Flumine, esiste un porto fluviale di primaria importanza i cui resti sono
stati individuati in una località chiamata non a caso ‘Portovecchio’, e un
ponte, il ‘Pons Jani’ al quale una seconda corrente di pensiero, non
meno rispettabile della prima, lega l’attuale nome del Paese: Ponzano
Romano.
La preistoria con i suoi fossili ci parla di abitanti lontani, Eneolitico o
alla più avanzata Età del bronzo, come dire tra i 2500 e 1500 anni avanti
Cristo. Mille anni e non solo mille. Perché da quei lontani parenti,
discendono sicuramente i ponzanesi dell’Età del ferro (900-700 a.C.), i
quali lasciano le rive melmose, infide e difficilmente difendibili del
fiume, per le più asciutte, confortevoli e sicure alture circostanti.
Dalla storia fatta di resti fossili, amigdale, bronzetti votivi e punte di lancia
a quella documentata attraverso gli scritti di pazienti amanuensi
Benedettini, databili intorno all’Ottavo secolo e riferiti proprio
all’Abbazia di Sant’Andrea in Flumine, ‘fundus Pontiani’. L’altra storia,
quella che si legge attraverso le pietre e il tufo delle costruzioni, parla
invece di un precedente centro etrusco posto a difesa dei confini naturali
rappresentati dal Tevere che vede sulla riva destra gli Etruschi e sull’altra
sponda i Sabini. A mettere tutti d’accordo ci pensano i Romani
sbaragliando il campo dagli uni e dagli altri imponendo poi la ‘pax romana’
che alla fine si dimostra conveniente per tutti.
Anche Ponzano Romano come gli altri centri della Valle Tiberina fa i
conti con le orde barbariche che, dopo la caduta dell’Impero Romano,
si riversano sull’Italia e puntando verso Roma depredano i centri del territorio
che attraversano lasciandosi alle spalle lutti e distruzioni. La valle
del Tevere è una delle vie più battute e i centri abitati pagano un duro
prezzo agli invasori.
Il Medioevo di Ponzano Romano è legato a doppio filo alle vicende
dell’Abbazia di Sant’Andrea in Flumine e al peso politico degli Abati che
si susseguono alla guida di questo importante centro monastico. Il porto
243

244
fluviale rappresenta una fonte di ricchezza che si riverbera, anche se in
piccola parte, sulla vita del paese. La posizione strategica dell’abitato fa
il resto. Il territorio di Ponzano, a partire dal 746 a seguito di una concessione
del longobardo Lupo, duca di Spoleto, figura tra i possedimenti
della potente Abbazia di Farfa fedele dai tempi di Faroaldo all’Impero
Longobardo. Proprio per contrastare i potenti monaci di Farfa, papa
Gregorio VI, al secolo Ildebrando Aldobrandeschi di Soana (ovvero
Sovana), soltanto un anno dopo la sua elezione, nel 1074, toglie ai
monaci di Farfa il monastero di Sant’Andrea in Flumine e quello di San
Silvestro al Soratte, assegnandoli al Monastero di San Paolo fuori le
Mura di Roma, creando così un importante feudo lungo la valle del
Tevere, fedele al papato e, soprattutto, antilongobardo. Tolto un breve
interregno dei Savelli, Ponzano Romano resta tra i beni del monastero
di San Paolo fino al 1440. Altro breve passaggio di mano con gli Orsini,
poi dal Monastero di San Paolo il feudo è assegnato ad Alessandro
Farnese, Abate delle Tre Fontane e, quel che più conta, nipote di papa
Paolo III.
Sotto i Farnese, nel 1528, in piena Santa Inquisizione, Ponzano Romano
è indirettamente coinvolta in un processo da ‘caccia alle streghe’ che si
tiene nella vicina Fiano Romano. La ‘strega’ sotto processo si chiama
Isabella Orsini, detta ‘Bellezza’, figlia naturale del ‘…fu Angelo Orsini da
Collevecchio’. E’ accusata di aver causato la morte di un uomo con un
decotto che doveva guarirlo da certi suoi mali. La povera ragazza, in
realtà, è un’erborista che ha appreso l’arte delle erbe medicamentose nel
castello degli Orsini a Monterotondo dove la nobile famiglia tiene prigioniera
una presunta strega: Lucia da Ponzano Romano.
Isabella, oltre a pulire, cucinare e badare alle bestie ha l’incarico di preparare
i pasti per la prigioniera. Tra la ragazza e la ‘strega’, che in realtà
è soltanto una brava erborista, nasce un rapporto d’amicizia, di profondo
affetto da parte di Lucia che decide di insegnare alla giovane i segreti
delle erbe medicamentose, la ‘magica arte’ che, alla fine, si dimostra
fatale per tutte due. Lucia da Ponzano finisce sul rogo ma la sua ‘arte’
continua a vivere attraverso ‘Bellezza’ Orsini la quale, divenuta abile
‘guaritrice’, dispensa unguenti, decotti e pozioni ai tanti malati che si
rivolgono a lei. Uno di questi non sopravvive e i parenti ricorrono all’inquisitore
accusando Bellezza di stregoneria.
Carcerata e lungamente torturata dall’inquisitore Marco Calisto da Todi,
alla fine la povera donna confessa tutto, anche di ‘essersi giaciuta con lo
diavolo’, come gli inquisitori, da Torquemada a questo oscuro Callisto

Un cortile e il gattino
245

246
da Todi, fanno regolarmente confessare alle streghe renitenti. Distrutta
dalla ‘ruota’, stremata dai ferri roventi e dagli ‘istromenti’ abitualmente
utilizzati per estorcere le improbabili confessioni, Isabella ‘Bellezza’
Orsini capisce che per lei è finita e, in un impeto di ribellione, si toglie
la vita vibrandosi due colpi alla gola con un grosso chiodo sfilato dal
muro della cella. Per lavarsi le mani e tacitare le loro coscienze i giudici
la interrogano in punto di morte ottenendo una ‘piena confessione’:
‘Item supradicta interrogata dixit tentata a diabolico spiritu se voluit occidere et non
putavit plus ultra nisi carere et evadere de hoc mundo’. (E così, interrogata la
sopradetta, disse di essersi voluta uccidere tentata dal demonio, e non
pensò più a volere altro che a lasciare questo mondo).
La morte sul rogo di Lucia da Ponzano e quella per suicidio indotto di
‘Bellezza’, non turba le coscienze dei feudatari e non influenza la vita del
feudo che resta all’Abbazia delle Tre Fontane fino alla caduta dello Stato
Pontificio. Poi, con l’unità d’Italia, anche Ponzano Romano diventa
comune autonomo. Di Lucia da Ponzano e della povera ‘Bellezza’
Orsini, vittime della Santa Inquisizione, la storia ufficiale non parla.
Da vedere
Il Palazzo Abbaziale, dall’elegante e glabra facciata, frutto di un intervento
farnesiano avvenuto intorno alla seconda metà del XVI secolo,
sorge nel 1500 come parte integrante della cintura fortificata di Ponzano
Romano ‘Castrum’ ed al tempo stesso palazzo Abbaziale. In un documento
del 1600 se ne parla come di ‘un grande edificio con un numero
di stanze pari a quindici’. Dopo l’intervento del cardinale Alessandro
Farnese, un altro cardinale, Paluzzo Altieri, nel 1688, interviene sugli
interni dotando il palazzo di arredi consoni alla carica da lui ricoperta e,
secondo inveterata tradizione, spoglia l’Abbazia di Sant’Andrea in
Flumine di marmi e colonne che servono ad ingentilire il suo storico
palazzo.
L’Edicola della Madonna, situata di fronte al Palazzo Abbaziale, si
deve all’iniziativa di un cittadino che nel 1525 destina un cospicuo fondo
per la sua costruzione accanto alla porta del borgo in omaggio alla
Natività della Beata Vergine Maria. Tutto ciò si evince da un atto notarile
del 1630. La monumentale edicola è realizzata secondo le indicazioni
ma subisce poi, nel corso dei secoli, diverse manomissioni, l’ultima
delle quali nel 1964 ne altera definitivamente i tratti originari.

La Parrocchiale, dedicata a San Nicola di Bari, patrono di Ponzano
Romano, è sorta su un lato della piccola piazza del centro storico. Non
si conosce la data di fondazione ma, guardando lo stile del campanile, si
può pensare ad un fabbricato del XIV secolo. La chiesa, riedificata in
forme settecentesche, oltre alle ingiurie del tempo, ha subito anche quelle
inferte dall’uomo con interventi deprecabili. In compenso al suo
interno conserva un reliquario d’argento firmato ‘Rainerius Teramnese’,
originario di Teramo e da alcuni salutato come il primo aurifex abruzzese,
e un bel trittico del XVI secolo.
San Sebastiano, complesso monastico dedicato al compatrono della
città, si eleva sul colle dirimpettaio all’Edicola della Madonna e al
Palazzo Abbaziale. Le origini della chiesa sono collegate a quelle dell’annesso
convento dove nel 1540 si stabiliscono i Padri Conventuali
Riformati e, per un breve periodo, gli eremiti del Soratte. Poi tornano i
Conventuali che lì restano fino al 1671.
Abbazia di Sant’Andrea in Flumine. La tradizione lega l’origine della
chiesa alla matrona romana Galla, figlia di Simmaco, la quale in stato di
vedovanza si ritira a pregare sul Soratte dando vita, tra l’altro ad una
chiesa ‘in agro Ponziani’. L’Abbazia è citata per la prima volta nel
Codice Carolingio attraverso una lettera con cui Papa Paolo I dona a
Pipino il Breve il monastero di San Silvestro al Soratte e l’Abbazia di
Sant’Andrea in Flumine a Ponzano. In realtà, più che di un dono, si tratta
di uno scambio di cortesie: Carlomanno, figlio di Carlo Martello e fratello
di Pipino il Breve, rinuncia alla sua parte di Impero per monacarsi.
Il fratello accetta e restituisce la cortesia con varie concessioni, tra queste
il monastero e l’Abbazia che a quei tempi, più che un luogo di preghiera,
con tre torri di difesa e una cinta fortificata, appare come un ben
munito fortilizio in grado di difendere il vicino porto fluviale. La chiesa
presenta un raro esempio di ‘jubé’, galleria su tre archi utilizzata come
divisorio tra gli officianti e i fedeli. Nell’abside una splendida
‘Resurrezione’ e nell’arco trionfale una ‘Crocifissione’ che accompagnano
il pavimento cosmatesco, simile a quelli romani di Santa Maria in
Cosmedin e San Lorenzo fuori le mura, e lo splendido ciborio firmato
da Nicola e Giovanni Guittone.
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Feste e Sagre
La festa di San Nicola è caratterizzata dalla presenza in processione di
una ‘zitella’ alla quale, attraverso sorteggio, è assegnata una dote (oggi
meramente simbolica, ma una volta era dote vera), che le consenta di
trovare marito. Questo rito laico inserito nel rito sacro della processione,
risale al 1785 quando è istituito un fondo capitale, gli interessi del
quale fruttano la dote per la ‘zitella povera’, sorteggiata prima della processione.
La festa di San Sebastiano, compatrono di Ponzano Romano, prevede
il donativo della cera che accompagna molte cerimonie religiose (in
molti paesi parte della cera donata è resa ai fedeli, per esempio, con le
candeline della Candelora), che qui si concretizza con fasci di candele
adornati con vivaci nastri colorati. La festa si svolge il 20 gennaio, per la
ricorrenza del Santo e la prima domenica di giugno in omaggio alla chiesa
di Sant’Andrea in Flumine.
La fiera delle Primare ha luogo l’ultima domenica d’agosto e, come
tutte le Fiere da che mondo è mondo, consiste in una mostra-mercato
dal carattere decisamente commerciale, con esposizione e vendita di
merci varie, macchine agricole e bestiame. La Fiera, istituita nel 1876, si
svolge nella piana dove s’incontrano varie strade che portano al Monte
Soratte.
Piatti tipici
Lumache di San Giovanni. Le lumache sono lessate con acqua e vino,
poi ripassate in tegame con un sugo di pomodoro e varie spezie. Servite
con fette di pane a ‘bruschetta’.

Da Roma
Auto: A1 in direzione Firenze; si viaggia in Autostrada sino all’uscita
Ponzano Romano-Soratte e si prosegue in direzione Ponzano Romano.
Autobus: servizio Cotral. (tel. 06/3328331). www.cotralspa.it.
Treno: le stazioni più vicine a Ponzano Romano sono Poggio Mirteto
Scalo e Stimigliano. www.ferrovie.it. Dalle stazioni mezzi Cotral.
Connettiti al wifi gratuito
di Ponzano Romano
Municipio
Piazza Vittorio Emanuele
I link
http://www.comune.ponzanoromano.rm.it/
http://www.provincia.roma.it/
249

Ponzano Romano: la meditazione

252
Rocca
Canterano>>>>>
Panoramica da Rocca Canterano

La storia
Il 3 marzo del 2000, anno tragicamente Giubilare per Rocca
Canterano, alle 11,35 la terra si è mossa. Un violento terremoto di
magnitudo 4.1 corrispondente al sesto grado della scala Mercalli, ha
spostato pietre che da secoli erano lì, solide e ferme, a marcare la storia
di questo paesino abbarbicato sul cucuzzolo della montagna sfidando le
leggi che regolano la gravità dei corpi. Il sisma si è posato, come una
mano pesante e distratta, sulle case e sulla storia. La parrocchiale di
Santa Maria Assunta, una Cappella Sistina della povera gente, si è scossa,
ha ondeggiato pericolosamente ma è restata in piedi. Le ferite, ormai
decennali, sono ancora lì, sotto gli occhi di tutti a testimoniare la paura
di quei giorni. Riportate parzialmente in vita con tecniche d’affettuosa
rianimazione, le pitture della chiesa sembrano percorse da una ragna di
crepe che si spande dal soffitto alle pareti e scende lungo i pilastri e le
trabeazioni completamente istoriati. Il terremoto ha lavorato alacremente
segnando le pitture con ruvide crepe che ricordano le rughe sui volti
dei vetusti montanari, segnati dalle ingiurie del tempo.
Lungo i vicoli del centro storico (ma a Rocca Canterano è tutto centro
storico), altri segni di quel terremoto: in piazza del Forno, a pochi passi
dal Municipio, un arco puntellato con un intreccio di pali aspetta ancora
l’adeguato restauro e la definitiva messa in sicurezza. Altrove, lungo
le scale che costellano questo paese (poco meno di quelle di Cervara di
Roma), l’opera del ‘privato’ sta facendo il miracolo che il ‘pubblico’ non
è ancora riuscito a fare: Rocca Canterano è un continuo cantiere a cielo
aperto, ovunque ti giri c’è un muratore che sistema un muro, restaura un
portone, sistema una finestra. Dopo dieci anni il paese, con le sue forze,
restaura la sua storia. Per i dipinti della chiesa sarà più lunga. Una
Cappella è stata restaurata, per il resto mancano i fondi, ci vorrà tempo.
Rocca Canterano non dispera.
Il detto latino ‘nomen omen’ calza come un guanto a Rocca Canterano.
Se nel nome è segnato il destino di chi lo porta, quello di Rocca
Canterano sembra proprio il più indicato. Già i romani, nel II secolo
dopo Cristo, intuita la potenzialità del posto, costruiscono una ‘Rocca’
sotto i resti dell’attuale San Michele. Poi, aggiungono al paesaggio ville
sparse, case di villeggiatura per nobili famiglie, che qui decidono di venire
a vivere e magari a morire. Come accade ai liberti Caius Vetilius Nico
e sua moglie, Vetilia Flora, nel CL dopo Cristo, ricordati nell’iscrizione
del monumento sepolcrale murato, in verticale, all’angolo della chiesa di
253

254
Santa Maria Assunta. La ‘Gens Vetilia’, i discendenti del governatore
Caio Vitilio, conquistatore dell’odierno Portogallo, come ricorda il
Canonico Jannuccelli nel suo ‘Memorie di Subiaco e sua Badia’, si sono
stabiliti in zona e, molto probabilmente, Caius Nico e la moglie Flora
gestiscono la villa della famiglia Vetilia.
La storia scritta di Rocca Canterano inizia, però, soltanto nel 1084 quando
l’abate di Subiaco ordina la costruzione di una fortezza ‘per opporre
resistenza a Landone, tiranno di Bellegra e Cerreto’. Per cinquecento anni la
‘Fortezza’ di Rocca Canterano fa la sua parte e caratterizza in maniera
inequivocabile l’incastellamento.
Da questa Rocca, tanto per cominciare, parte un nuovo ‘ratto delle sabine’.
I soldati-contadini di Rocca Canterano, a corto di donne, decidono
di attaccare Canterano e Cerreto portandosi via un consistente numero
di ragazze con le quali dar vita alla nuova comunità. Ovviamente il ratto
poteva avere strascichi e rinfocolare campanilistiche vendette. Per evitare
guai maggiori, una volta calmate le acque, i ‘rapitori’ propongono una
riconciliazione istituendo un luculliano banchetto a favore delle famiglie
danneggiate dal ratto. Da allora, ogni anno, ancora oggi a Rocca
Canterano è offerto agli ospiti ‘il Pranzo della riconciliazione’. In realtà,
da circa cento anni, il pranzo è diventato un rinfresco offerto da privati
cittadini e dal Comune: dolcetti, pasticcini e vino a volontà. La tradizione
è salva.
Per restare nel campo delle tradizioni una su tutte, probabilmente legata
anche questa al ratto, spicca per originalità: la ‘Festa dei cornuti’. Il
pittoresco corteo e l’elezione del ‘cornuto dell’anno’, ha luogo la prima
domenica dopo l’11 novembre festa di San Martino, non a caso protettore
dei cornuti. Il clou della festa è rappresentato dal Corteo burlesco
che attraversa il paese portando a spalla, in trono, il ‘cornuto dell’anno’;
il corteo è aperto dal poeta-cantore che, a cavallo di una somarella,
declama versi e canta stornelli rivolti ai personaggi del paese che più di
altri hanno meritato la sua attenzione. A corollario della festa, gruppi di
giovani ornano di nastri e corna le porte delle abitazioni più ‘chiacchierate’
del paese. Una gogna alla quale, con molto garbo e civile sopportazione,
si prestano i ‘titolati’ ai quali la festa è dedicata.
Tornando alla storia che ha segnato Rocca Canterano, una data importante
è quella del 7 settembre 1809 quando l’esercito napoleonico in
cerca di carne da cannone, lancia una coscrizione per rimpolpare le fila
dei fanti da inviare come rinforzi alla disastrosa campagna di Russia.
Molti giovani roccatani sono chiamati dal banditore e si apprestano a

lasciare il paese per andare verso una fine quasi certa. Il giorno stabilito
per la partenza arriva la notizia della caduta di Napoleone, del conseguente
ritorno del Pontefice nello Stato della Chiesa e, quindi, della
scampata coscrizione. Per ringraziare la Madonna per la grazia ricevuta,
i mancati coscritti, caricato a spalla il pesante baldacchino dorato della
Madonna del Divino Amore, partono in processione e raggiungono
l’omonimo Santuario alle porte di Roma. Da quell’anno, tutti gli anni, i
giovani di Rocca Canterano rinnovano il pellegrinaggio portando di
corsa, con una staffetta dal Santuario del Divino Amore alla parrocchiale
di Rocca Canterano, la ‘Fiaccola della Pace’ che, all’arrivo, è deposta
ai piedi della statua della Madonna, dando il via ai festeggiamenti ufficiali
con le campane suonate a distesa da altri giovani, direttamente dall’alto
del campanile.
Nel tracciare la storia di Rocca Canterano, non si può dimenticare il
contributo offerto dalla frazione di Rocca di Mezzo. Anche qui, ‘nomen
omen’, il nome indica la funzione: Rocca di Mezzo si chiama così perché
è posta a metà strada tra Rocca Canterano e Rocca Martino, castello
rifugio di briganti che intorno al 1500, al comando del celeberrimo
Marco Sciarra, infestano la zona. Anche Rocca Canterano ha il suo brigante,
un non meglio specificato Santi, che nel 1555 è impiccato a Ponte
Sant’Angelo, nel recinto istituito vicino al vicolo denominato ‘del boja’.
Il già citato Canonico Jannuccelli nelle sue ‘Memorie’ così cita Rocca di
Mezzo: ‘Essa estendesi colle sue terre a quelle di Rocca di Canterano, Cerreto,
Marano, ed Agosta. Addolorava sovente quel popolo osservando i guasti fatti dal
tempo alla Parrocchiale. Ma la loro fortuna non consentiva di accingersi alle dispendiose
riparazioni, quando gli cadde in mente di rivolgersi supplichevoli all’immortale
Pio IX, e la inesausta munificenza di lui nel 1863 gli fé dono di scudi cento, cui
fu aggiunta altra somma da quel Municipio, e più l’opera gratuita degli abitanti: con
siffatti ajuti è stato ben restaurato ed in gran parte abbellito quel sacro edificio, e
principalmente l’altare maggiore. Ad onore di quelle genti é puranco a notarsi, come
giunta alle loro orecchie la fama del prodigio di Vicovaro, affrettarono a recarsi colà,
e con tutto 1’animo resero omaggio alla Madre del Salvatore. Dando uno sguardo
alla picciolezza del castello sembrerebbe, che fosse nullo il commercio di questo popolo;
ma 1’amabile Provvidenza ha largito anche ad esso una parte de’ suoi favori.
Quindi quelle genti osservansi sempre alla loro industria occupate, e con gran vantaggio
esportano sacchi di biade e di ghiande, barili d’olio e di vino, capre, pecore,
buoi, porcelli e quantità di polli e salvaggiume’. A Rocca di Mezzo meritano
una visita le chiese della Maddalena e di San Rocco.
255

Chiesa di Santa Maria Assunta:
interno con pulpito in primo piano

258
Da vedere
Chiesa di Santa Maria Assunta. Splendida chiesa, ferita dal terremoto
del 2000, mirabilmente affrescata in ogni suo più piccolo spazio,
meriterebbe maggiore attenzione e più consistenti interventi. Per ora è
stata restaurata (molto bene), la Cappella della Madonna del Divino
Amore. Il resto della chiesa e gli altri affreschi, quelli della volta e quelli
delle pareti, versano tutti in precarie condizioni. E’ stato fatto un primo
intervento per evitare il peggio, ma l’opera di un completo restauro
appare improcrastinabile. Nel 1673 Il cardinale Barberini al termine di
una visita pastorale annota l’ampliamento della chiesa e descrive le sei
cappelle dedicate al culto della Madonna, del Santissimo Cuore e dei
Santi, così come sono oggi. L’altare maggiore è impreziosito da due
dipinti ad olio di Tito Troja, pittore nativo di Arcinazzo, con studio in
Borgo Santo Spirito a Roma, caro a papa Leone XIII originario della
vicina Carpineto Romano. La tela d’altare è dedicata all’Assunzione in
cielo di Maria. Sul tamburo della porta d’accesso, è sistemato un bell’organo
seicentesco e un coro ligneo d’eccellente fattura. La torre campanaria,
alta quaranta metri, ospita tre campane.
La Madonna del Brecciaro, ormai diroccata, accoglieva davanti al
vasto sagrato l’annuale fiera delle merci e del bestiame. Sulle pareti ancora
in piedi sono appena visibili alcuni affreschi. Alle spalle della chiesetta,
c’è ancora il cimitero abbandonato che ha accolto le vittime dell’epidemia
di Colera che colpisce il paese nel 1837.
La chiesina di San Giuseppe, affacciata sul versante di Cervara di
Roma, anch’essa è abbandonata, e poco più che un rudere.
La chiesa di San Michele, sulla cima del Costa Sole, abbandonata, è
meta di escursioni da tutta la valle dell’Aniene.
Palazzo Moretti. Costruito sui resti dell’antica torre, Palazzo Moretti
ha incorporato le mura di cinta di Piazza di Corte. Sul portale d’accesso
è sistemato uno stemma cardinalizio, posto a ricordo della visita di un
alto prelato ospite del settecentesco palazzo. Il salone, recentemente
restaurato, presenta un soffitto a cassettoni dipinto a tempera. Sulle
pareti paesaggi e disegni geometrici si alternano a delicate grottesche,
anche queste settecentesche.

L’ambiente
I fitti boschi del territorio sono ricchi di lecci, roverella e castagneti, ma
è il signore indiscusso di queste selve è il carpino nero. Cornioli e biancospini
popolano i margini delle radure, così come il pungitopo, l’agrifoglio
e la rosa canina.
La fauna è rappresentata nella sua parte più nobile da cervi e caprioli,
poi cinghiali, istrici, tassi, lepri e volpi fanno compagnia ad altre specie
autoctone della zona. Nel cielo si librano il nibbio bruno e le poiane, poi
gheppi, sparvieri, falchi, coturnici, starne e altri volatili stagionali.
Feste e Sagre
17 gennaio: festa di Sant’Antonio con la rituale benedizione degli animali.
8 maggio: festa del patrono San Michele. Processione e rinfresco offerto
dall’amministrazione comunale.
22 luglio: nella frazione di Rocca di Mezzo, si tiene la festa di Maria
Maddalena.
14 e 15 Agosto: festa dell’Assunta. La festa dell’Assunta è molto sentita
dalla popolazione di Canterano.
16 Agosto: festa di San Rocco La processione di San Rocco si snoda
nella mattinata dalla chiesa principale fino alla chiesa del Santo, posta
nell’omonima località, all’entrata del paese. La giornata prosegue con la
festa fino a tarda notte.
Terza domenica di agosto: ‘Sagra dei Cecamariti’ con degustazione in
piazza.
7 settembre: ‘Fiaccolata dell’Amore e della Pace’. Per ricordare quell’evento,
oggi è portata dal Santuario della Madonna del Divino Amore
con una staffetta a piedi fino a Rocca Canterano la ‘Fiaccola dell’Amore
e della Pace’ che, deposta sotto il quadro della Madonna, dà inizio ai
festeggiamenti religiosi.
8 settembre: la festività è preceduta all’alba dalla ‘Diana’ battuta da un
tamburino che gira lungo i vicoli del paese chiamando i cittadini alla
festa.
11 novembre, San Martino (Domenica più vicina): ‘Festa del
Cornuto’, manifestazione a carattere prevalentemente goliardico, prevede
l’elezione del ‘Cornuto dell’anno’, insieme alla degustazione di genuini
prodotti locali.
259

260
Piatti Tipici
‘Cecamariti’. E’ un tipo di pasta fresca ottenuta da un impasto di farina
di granoturco e grano tenero. Ammassata, tagliata spessa è condita
con sugo di pomodoro, aglio, olio e peperoncino. Si chiamano ‘cecamariti’
perché sono rapidi da fare e i mariti non hanno tempo per protestare
sul possibile ritardo della cena.
Sagne. Le lasagnette, larghe circa due centimetri e lunghi una decina,
possono essere condite con sugo di pecora o capra.
Gnocchetti. Non si tratta di gnocchi di patate, ma di sola acqua e farina,
conditi con sugo a piacere.
Cavoli e patate. I due ortaggi vanno bolliti nell’acqua poi ripassati in
padella e serviti con la ‘Pizza sorda’.
Pizza sorda. E’ una pizza di farina di granturco (qui chiamato ‘raniturcu’),
cotta sotto la brace.
Da Roma
Auto: prendere l’autostrada A24 Roma-L’Aquila in direzione
dell’Aquila. Uscita al casello di Castel Madama proseguendo
sull’Empolitana fino a Rocca Canterano.
Treno: linea Roma-Sulmona. Partenza da Roma Tiburtina fino alla stazione
di Arsoli. Poi bus navetta Cotral.
Autobus: con autolinee Cotral Roma-Arsoli o Roma-Subiaco. Partenza
da Metro Ponte Mammolo: www.cotralspa.it.
Connettiti al wifi gratuito
di Rocca Canterano
Municipio
Via del Municipio
I link
http://www.comuneroccacanterano.com/
http://www.provincia.roma.it/

Le scale e l’arco di Via del Forno
261

262
Rocca
di Cave>>>>>
Le poderose mura della Rocca

La storia
Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Ecco, Rocca di Cave è
un paese ‘santificato’ a queste tre domande che non cercano risposte
immediate ma invitano alla meditazione. Sull’acropoli, lungo tutto il
perimetro della Rocca, cartelli esplicativi parlano di quello che offre
l’odierno panorama: da quella parte c’è Subiaco, poco più in là Bellegra,
Roiate e Olevano Romano… sullo sfondo il Monte Velino, prima propaggine
solidamente abruzzese. Girando lo sguardo, la Valle Latina,
stretta tra i Monti Ernici e i Lepini, poi Acuto, Fiuggi e , a seguire, sullo
sfondo il Monte Semprevisa. Un altro cartello, più intrigante, allude a
com’era il panorama cento milioni d’anni fa, nell’Era Mesozoica, il
medioevo della storia terrestre, tra il Triassico, il Giurassico e il
Cretacico: spalle al castello davanti a noi spazia l’oceano Teide e una
miriade di isolotti, un arcipelago simile a quello delle attuali Bahamas si
estende per centinaia di chilometri dando vita a quella che i geologi chiamano
‘piattaforma carbonatica’, l’anticamera della scarpata oceanica, un
gigantesco golfo che va dall’Europa all’Africa.
Rocca di Cave è una delle poche località appenniniche dove si possono
osservare fossili testimonianze di quell’antichissimo ambiente nato sulle
sponde dell’oceano Teide. La storia calcificata delle nostre Bahamas si
dipana all’interno della Rocca dove trovano posto i reperti del ‘Museo
Geopaleontologico Ardito Desio’. L’altro museo, quello a cielo aperto,
è poco fuori il paese, lungo il ‘Sentiero della Scogliera Corallina’, tra la
via di Genazzano e via Santa Croce. Poco distante si trova la ‘Fossa
Ampilla’, una gigantesca caverna dalla volta franata, che deve aver ospitato
i primi antenati degli attuali rocchegiani i quali, profondamente
legati al territorio, cercano le risposte ai tre quesiti iniziali attraverso lo
studio della geologia, dell’astronomia e della meteorologia. Il tutto racchiuso
tra le solide mura della Rocca dove, oltre al succitato museo, trovano
posto il ‘Centro Studi Meteorologici Edmondo Bernacca’ e, sulla
sommità del Maschio, la cupola dell’Osservatorio astronomico del
‘Gruppo Astrofili Hipparcus’.
La conservazione museale deve far parte del Dna degli abitanti di Rocca
di Cave i quali, nella vita di tutti i giorni, accudiscono il centro storico
con la stessa amorevole attenzione che i collezionisti riservano ai loro
‘pezzi’ più rari. Il centro storico di Rocca di Cave, come dire tutto il
paese, cresce e si evolve mantenendo le forme del primitivo borgo
murato. Ogni casa, anche la più umile, ha dignità di torre. Basta un
263

264
cenno ‘nuto’, una garbata allusione come quella che avvolge la piccola
tondeggiante scala d’ingresso di una casa all’angolo della strada che dalla
piazza porta alla Rocca; uno dei tanti esempi che, casa dopo casa, si trovano
ad ogni angolo del paese. Municipio compreso. L’arte della conservazione
traspare dalle più piccole cose, come il pavimento dei cortiletti
che introducono alle case lungo via della Rocca, il cui selciato non è
tenuto insieme dal cemento ma da una fitta ragna di muschio, testimone
di sottostanti torbe sulle quali è stato posato il nuovo selciato che il
sottile vello verde rende antico e nobilmente gravoso.
Per arrivare a tutto questo bisogna avere alle spalle una solida storia, che
qui non manca. Territorio dei Latini, Rocca di Cave, se la deve vedere
con bellicosi vicini del calibro di Equi, Sabini, Ernici e Volsci. Per non
parlare dei romani che, prima mettono tutti d’accordo, e poi comandano
a lungo, fino al dissolvimento dell’Impero, tra il 400 e il 500 dopo
Cristo. La posizione strategica aiuta Rocca di Cave, così come la vicina
Castel San Pietro Romano, a superare il difficile periodo delle invasioni
barbariche e, più in là negli anni, delle incursioni saracene. E proprio per
contrastare l’avanzata dei mori ‘infedeli’, i monaci Benedettini di
Subiaco nell’anno 850 costruiscono la Rocca. Un ‘incastellamento’ che
avviene alla rovescia, perché l’abitato già c’è. La gente accoglie a braccia
aperte la nuova macchina da guerra che garantisce ben più solide difese
dell’esistente ma fragile borgo murato.
Nel periodo monacale, tra il IX e l’XI secolo, il paese viene chiamato
‘Castello dei Santi Tre’, alludendo alle tre chiese già esistenti: Santa
Maria, San Pietro e San Michele Arcangelo. Il toponimo Rocca di Cave
fa la sua comparsa nel 1125 quando già i Colonna ne risultano feudatari.
La loro è una Signoria di lunga durata, intervallata da brevi interregni,
strappati di volta in volta dai Conti, dagli Annibaldi e dagli Orsini (sempre
secondo il papa regnante), ma sostanzialmente in mano ai Principi
Colonna fino alla caduta del diritto feudale e, come proprietà fondiaria,
anche oltre. Durante il periodo napoleonico Rocca di Cave è assorbita
da Cave ma riacquista la sua autonomia grazie a Giulio Venzi, deputato
del nuovo Regno d’Italia. Una targa a ricordo dell’evento campeggia, a
memoria dei posteri, nella sala consiliare del Comune.
Da vedere
La Fortezza. Più che costruita, l’imponente massa della Rocca sembra
calata direttamente dal cielo. Un granitico esagono privo di leziose mer-

lature, strategica macchina da guerra con fini di ‘architettonica difesa’, il
castello di Rocca di Cave è un vero gioiello di edilizia militare. Due pareti
parallele orientate ad Est e ad Ovest, con torri ai vertici, si raccordano
alle altre quattro pareti, convergenti due a due, per consentire il tiro
incrociato contro gli eventuali assalitori. Centodieci metri di perimetro
con uno spessore a decrescere dal metro e mezzo della base agli ottanta
centimetri del vertice, che in altezza oggi varia dagli 8 ai 13 metri ma
all’origine era il doppio. Al centro svetta il ‘Mastio’, massiccia torre circolare,
ultimo baluardo oltre al quale c’è solo la morte, ma dove oggi si
studia la vita, quella lontana, dell’universo dal quale, secondo la teoria
del Big Bang, veniamo. In cima al ‘Mastio’ la cupola dell’osservatorio
astronomico e sotto, al coperto, una sala conferenze che ospita astrologi,
studiosi e studenti in visita guidata. Nelle sale del castello il Museo
Geopaleontologico Ardito Desio e il Centro Studi di Meteorologia
Edmondo Bernacca.
Il Museo Geopaleontologico Ardito Desio, presenta una vasta panoramica
del patrimonio fossile e geopaleontologico del territorio di
Rocca di Cave e dell’intera regione. Nel sue sale, divise per Ere geologiche,
sono esposti campioni fossili, diversi plastici che illustrano l’evoluzione
dell’ambiente nella regione nel corso delle varie Ere accompagnati
da pannelli esplicativi della storia geologica del territorio. Dalle terrazze
della roccaforte il panorama si apre per oltre 100 chilometri, dalla
costa tirrenica fino al centro della catena appenninica, viva testimonianza
della ‘geodiversità’ della regione.
Osservatorio astronomico. La stazione d’osservazione astronomica
del Gruppo Astrofili Hipparcos è testimoniata dalla cupola argentea,
metallica semisfera aperta sull’universo, che si vede da lontano e caratterizza
la sommità del ‘Maschio’. L’osservatorio, dotato di una piccola
sala conferenze ospita scuole di vari ordini e gradi, corsi di aggiornamento
didattico e visite organizzate per il pubblico. Per l’osservazione
astronomica serale è obbligatoria la prenotazione. Le caratteristiche tecniche
dicono che ‘…la stazione è munita di un telescopio Celestron C14
da 36 centimetri di diametro in configurazione Schmidt-Cassegrain, con
lunghezza focale di 4 metri, risoluzione teorica di 0,3 secondi d’arco.
Tale strumento sarà affiancato da un telescopio rifrattore di guida con
diametro di 102 mm, e da una camera Baker-Schmidt da 25 cm per le
fotografie a largo campo. L’utilizzazione di una camera CCD adeguata
265

La valle e i monti da Rocca di Cave

268
al fuoco dello strumento principale consentirà di osservare oggetti con
magnitudine limite di circa 20’. Ai tecnici la valutazione, a Rocca di Cave
l’apprezzamento per questa qualificata ospitalità.
Centro Studi Meteorologici ‘Edmondo Bernacca’. Voluto dal figlio
del Colonnello (in realtà, Generale) reso famoso dalle quotidiane apparizioni
dopo il Tg1 di prima sera, il centro ospita un osservatorio meteorologico
e, come l’osservatorio astronomico, è frequentato da studiosi e
studenti interessati alla materia.
Chiesa di San Nicola. L’antica chiesa sorgeva accanto alla Rocca e
faceva corpo unico con le abitazioni del borgo murato. Di quella chiesa,
diventata una casa privata, si conserva la guardiola pensile che fungeva
da abside. L’attuale Chiesa di San Nicola è del 1752. Nella sua
unica navata, accoglie all’ingresso un fonte battesimale e, sulla parete
destra, un primo altare dedicato a Sant’Antonio Abate, con tracce di
policromi affreschi dell’originaria decorazione della chiesa. A seguire
l’altare della Madonna Assunta in Cielo e, infine il terzo altare, dedicato
alla Madonna della Divina Provvidenza con un bel dipinto della
Madonna col Bambino sulle cui teste sono state sistemate due coroncine
di argento dorato. L’altare maggiore è sovrastato dalla tela d’altare,
opera firmata e datata 1795 dal viterbese Domenico Corvi, rappresenta
San Nicola di Bari che riceve la stola dalla Vergine Maria. Il dipinto
espressamente realizzato per Rocca di Cave presenta sullo sfondo una
veduta settecentesca del paese. La parete sinistra contiene, accanto all’altare
maggiore, l’altare di San Giuseppe, segue la cappella funebre che
accoglie la tomba di Monsignor Agapito Simeoni, Vescovo di Ariano
Irpino e Lacedonia, nato a Rocca di Cave il 21 dicembre del 1914.
L’ultimo altare, dedicato a Sant’Antonio da Padova, è del 1900. L’organo
sistemato sulla parete di fondo è datato 1897.
La chiesa di Sant’Egidio, patrono di Rocca di Cave, si trova a circa un
chilometro a valle del paese, all’interno del cimitero, sul colle che domina
la piana del Sacco. Secondo la tradizione sarebbe stata eretta nel
luogo di un antico romitorio chiamato la ‘Grotta dei Santi’. L’epoca
della sua fondazione è incerta, ma la sua esistenza è certificata da due
documenti, uno del 1295 l’altro del 1388. All’interno presenta due altari,
il primo dedicato a Sant’Egidio Abate, con la statua del Santo e il
secondo dedicato a San Michele Arcangelo. Alla parete si può ammira-

e una bella tela raffigurante Sant’Egidio Abate, San Sebastiano e San
Rocco.
Santuario della Madonna della Neve. La decisione di realizzare questo
Santuario è legata ad un avvenimento dell’ultima Guerra Mondiale.
Il 7 febbraio del 1944 le truppe tedesche, dopo aver scoperto quattro
loro soldati uccisi nel territorio di Rocca di Cave, assediano il paese con
l’intenzione di fucilare quaranta ‘rocchigiani’, dieci per ogni soldato
tedesco ucciso, seguendo il parametro scelto per l’eccidio delle Fosse
Ardeatine. Il parroco di allora, don Guido Croce, intavola una lunga
trattativa e alla fine convince i tedeschi a desistere dall’esecuzione e a
togliere l’assedio. In memoria di questa vicenda e in ricordo delle vittime
delle due Guerre Mondiali, è eretto il Santuario-sacrario dove, ogni
anno, il 7 febbraio, è deposta una corona d’alloro in onore dei Caduti.
L’ambiente
Boschi, radure, coltivi, grandi alberi e tanto verde, abitato dalle più svariate
specie animali che formano il patrimonio faunistico della zona ma,
soprattutto, il Sentiero della Scogliera Corallina di Valle Cupa, l’antica
strada che univa Rocca di Cave a Castel San Pietro Romano: un monumento
alla natura, un museo geopaleontologico a cielo aperto: rocce calcaree
che ci parlano di un’Era lontana, quando qui c’era il mare, l’oceano
Teide e i suoi abitanti sotto forma di concrezioni uniche, bivalvi, pecten,
strombus, ricci di mare e altri fossili di molluschi echinodermi affiorano
lungo le pareti che delimitano il sentiero percorso da numerose
scolaresche in gita scolastica ma anche da geologi e paleontologi provenienti
da ogni parte del mondo per studiare questo lembo di terra che
risale al Mesozoico, quando i continenti ancora non c’erano e la terra
emersa, continente unico, si chiamava Pangea.
Feste e Sagre
1 Gennaio: il ‘Magnarone’, tradizionale pantagruelico banchetto per
salutare l’anno nuovo.
17 Gennaio: Sant’Antonio Abate si ricorda con la tradizionale benedizione
degli animali.
Febbraio: ‘Carnevale Rocchigiano’ tante maschere poi frappe, castagnole
e vino per tutti.
269

270
13 Giugno: Sant’Antonio da Padova
Luglio: la prima domenica si festeggia il Sacro Cuore di Gesù, con la
celebre infiorata.
5 Agosto: Madonna della Neve.
10 Agosto: San Francesco d’Assisi.
15 Agosto: Assunzione di Maria Vergine.
1 settembre: Sant’Egidio Abate: Solenne processione, nel corso della
quale otto ‘incollatori’, trasportano il Santo dalla piccola Chiesa del
cimitero a quella centrale di San Nicola.
2 settembre: Madonna della Divina Provvidenza. Solenni processioni
per le vie del paese.
Ottobre/Novembre: folclore e gastronomia accompagnano la tradizionale
sagra della castagna.
Piatti Tipici
‘Gnoccacci’: Fettuccine ottenute con sola acqua e farina. Condite con
sugo di castrato.
‘Riceri’: Grumi di farina, ottenuti versando pochissima acqua nell’impasto.
Appena scottati nell’acqua bollente, vanno scolati e conditi con
sugo a piacere.
‘Cecamariti’: E’ una pasta ottenuta ammassando insieme farina di granoturco
e farina di grano tenero; tagliata spessa e condita con sugo di
pomodoro, aglio, olio e peperoncino. Si chiamano ‘cecamariti’ perché
sono rapidi da fare, così i mariti non hanno tempo per protestare sul
ritardo della cena.
Curiosità
Rocca di Cave è anche un paese ‘canterino’ di solida storia, la cui genesi
musicale è legata al periodo monastico, intorno all’anno 850, quando
i Benedettini di Subiaco, oltre all’Ora Lege et Labora, ridotto con gli
anni a ‘Ora et Labora’, alla preghiera uniscono il canto Gregoriano coinvolgendo
l’intera popolazione. Da quelle armonie, stravolte nei testi, laicizzate
e riportate in dialetto, nascono i canti che cadenzano il lavoro dei
campi, i canti della vendemmia, quelli della mietitura, della raccolta delle
olive e delle castagne, ma anche i canti dei giorni di festa, fidanzamenti,
matrimoni e festività di calendario. Ai canti, poi, si associano i balli,
diversi per ogni evento. Lo scorso anno, per la prima volta, a Rocca di

Cave si è tenuta la prima edizione di una riuscita manifestazione di canti
e balli popolari. Un appuntamento che la Pro Loco, per tenere viva questa
‘memoria collettiva’, ha in animo di riproporre.
Da Roma
Auto: autostrada Roma-Napoli fino all’uscita Valmontone. Poi la strada
per Cave. Da cave seguire le indicazioni per Rocca di Cave. Oppure:
autostrada Roma-L’Aquila, si esce a Tivoli e si seguono le indicazioni
per Palestrina, Cave e Rocca di Cave. Oppure, volendo, autostrada
Roma-Napoli, si esce a Valmontone e si seguono le indicazioni per Cave
e Rocca di Cave.
Autobus: servizio di linea extraurbano COTRAL. Partenza da Roma,
stazione Anagnina per Capranica Prenestina o Cave, sino a Rocca di
Cave.
Treno: linea Roma-Cassino si scende alle stazioni di Valmontone o
Zagarolo e si prosegue con linea COTRAL per Cave e Rocca di Cave.
www.cotralspa.it.
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di Rocca di Cave
Municipio
Piazza San Nicola 9
I link
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271

272
Rocca
Priora>>>>>
Rocca Priora, il Municipio
e la chiesa di Santa Maria Assunta

La storia
Rocca Priora, inverno 1597. Il silenzio ovattato della Rocca sotto la
neve è rotto dal suono a distesa delle campane. Le chiese del borgo,
all’unisono, chiamano a raccolta (e mai termine fu più calzante), tutti i
cittadini abili al lavoro, dai sei anni in su, i quali, muniti di pale, sacchi,
secchi bigonci e gerle cominciano a raccogliere la neve per riempire i
pozzi, i celebrati ‘nevai di Rocca Priora’, gigantesche cavità a cielo aperto
con camminamenti a spirale, che garantiscono il sorbetto agostano a
Papi, Cardinali, Principi romani, famiglie dell’alta borghesia e, con più
parsimonia, a quelle del ‘generone’ che possono permettersi la spesa,
poi colonne di ghiaccio agli ospedali, ai ristoratori e a chi, per bisogno,
non può farne a meno. A Roma altri nevai si preparano per accogliere
la neve di Rocca Priora; il più celebre è quello di Giulio III a Valle Giulia,
ma molti altri, meno importanti, sono distribuiti in vari punti della città.
Ventiquattro coppie di buoi attaccati ai carri, cavalli, muli e somari fanno
la spola lungo le spirali dei nevai di Rocca Priora dove gli addetti curano
gli strati dividendoli tra loro con paglia e terra. La scena si ripete
dopo ogni abbondante nevicata, inverno dopo inverno, fino alla metà
dell’Ottocento quando la rivoluzione industriale. ‘inventa’ le fabbriche
del ghiaccio e stronca il fiorente commercio della neve, una delle principali
risorse economiche di Rocca Priora.
La ‘voce’ neve è così importante che tra il finire del Cinquecento e il primissimo
Seicento, la Reverenda Camera Apostolica, subentrata alla
famiglia Savelli nella proprietà del feudo, nel 1604, dichiara Rocca Priora
bene inalienabile del patrimonio ecclesiastico. Un editto di 50 anni dopo
(1654), lega l’appalto per la neve ad un rapporto d’esclusività con la città
di Roma, vietandone l’esportazione in ogni altro luogo, comprese le
altre città dello stesso Stato Pontificio. Roma, tolto il miracolo di mezz’agosto,
per la neve dipende in tutto e per tutto da Rocca Priora. Detto
questo, appare scontata la devozione dei roccaprioresi verso la Sacra
immagine della Madonna del Neve, che qui, a buona ragione, è venerata
più che altrove.
Con i suoi 768 metri d’altitudine, Rocca Priora è il più alto comune dei
Castelli Romani. Neve a parte, l’altezza richiama l’attenzione dei romani
che vedono nell’antica Corbium abitata dagli Equi, una postazione
irrinunciabile per controllare i centri vicini e, al tempo stesso, un privilegiato
osservatorio in difesa della città non ancora Eterna. Sembra che
il primo scontro con gli Equi abbia avuto come protagonista lo stesso
273

274
Cincinnato il quale, lasciati i lavori dei campi, in un solo giorno sbaraglia
gli Equi è conquista Corbium alla causa romana. Dopo di lui Gneo
Marcio Coriolano, nel 486 avanti Cristo, occupa la città nella sua marcia
su Roma. Il periodo romano è segnato da distruzioni e rinascite sotto
forma di ville patrizie o poco più.
La storia più importante, Rocca Priora la conosce dopo il dissolvimento
dell’Impero Romano e le susseguenti invasioni barbariche. Intorno
all’Anno Mille il ‘Castrum Arcis Perjuriae’, figura tra i beni destinati in
dote ad una figlia di Agapito dei Conti di Tuscolo, insieme ad altri fondi
nelle vicine Rocca di Papa e Molara. Con la distruzione di Tuscolo,
anche Rocca Priora finisce sotto il controllo degli Annibaldi. Il feudo
passa più volte di mano per vendite, cessioni, interscambi o conquiste.
Così, nel 1252, il ‘tenimentum Rocce Perjurie’ entra a far parte di una
divisione di beni tra i Colonna. Il primo documento che cita l’attuale
toponimo ‘Rocca Priora’, è datato 1269 e si riferisce all’elenco dei beni
del Convento di Palazzolo.
Agli Annibaldi di Rocca Priora, papa Clemente VI indirizza nel 1347, la
chiamata a raccolta dei nobili romani contro il tribuno del popolo Cola
di Rienzo. Subito dopo il castello passa ai Savelli che, papi permettendo,
lo detengono fino agli inizi del Cinquecento con brevi interregni per
mano del Cardinale Giovanni Maria Vitelleschi nel 1463 e, per volere di
Alessandro VI, papa Borgia, che nel 1501 lo assegna al figlio Giovanni
insieme al feudo di Monte Compatri, fino alla morte di quest’ultimo per
mano del fratello, il sanguinario Cesare detto ‘il Valentino’, che lo
pugnala e lo getta nel Tevere. Nel 1503, con la morte di papa Alessandro
VI, Rocca Priora torna ai Savelli.
La controversa distruzione del 1527, da alcuni storici attribuita alle forze
di Renzo da Ceri al comando delle forze pontificie, mentre altri parlano
di soldataglie imperiali, non scoraggia i sopravvissuti che riedificano e
ripopolano il borgo facendolo tornare ad essere un importante centro
economico dei Castelli; tanto importante da figurare, nel 1538, tra i beni
del ‘Patrimonium Petri’ e come tale versa tributi alla Reverenda Camera
Apostolica.
Altra civile testimonianza della rinascita del borgo è il varo dello ‘Statuto
di Rocca Priora’, concesso e promulgato dalla famiglia Savelli, firmato
nel 1547 da Costanza Bentivoglio Savelli, (ampliato e controfirmato nel
1564 da Bernardino Savelli), che stabilisce le regole e le leggi che gli abitanti
di Rocca Priora sono tenuti a rispettare. Dalla distruzione del 1527,
nasce dunque un paese moderno e legalitario dove, per esempio, si puni-

sce con il pagamento di un ducato o 20 soldi: ‘…qualunque persona homo
o femina dicesse parole iniuriose over vituperose in presentia d’altre persone videlicet
menti per la gola, non dici il vero, traditor, homicidiario, latrone, cornuto, riguaglioso,
puttana, ruffiana, et simili parole sia punito per ciasche parola in ducato uno,
overo diece di prigione alli cippi et alli ferri. Se ancora dicesse parole improperando
morte non naturale di sui attinenti et parenti fino in secondo grado, sia punito in solli
(soldi) vinti…’. Ma ci sono anche pene più severe per i ladri, condannati
a rifondere per il primo furto il doppio del valore rubato, con il secondo
il ‘quadroppio’, per il terzo ‘frustato e sbandito’, per ‘lo quarto impiccato per
la gola’. Statuto a parte Rocca Priora deve ai Savelli un sontuoso ampliamento
edilizio ed un periodo di benessere. Quello che oggi si definisce
un crack finanziario, colpisce i Savelli i quali, indebitati con la Camera
Apostolica, sono costretti a cedere il feudo che, alla fine, è diviso tra due
compratori: Luciano Bonaparte e la famiglia Rospigliosi, che poi resta
unica padrona fino al 1870, anno della Breccia di Porta Pia e della costituzione
in Comune di Rocca Priora.
Da vedere
Palazzo Savelli. Se Rocca Priora vanta il titolo di comune più alto dei
Castelli Romani, il punto più alto di Rocca Priora spetta al Palazzo
Baronale, il castro, Palazzo Savelli, il monumento più grandioso di
Rocca Priora, oggi sede del Municipio. Sorto sull’antico castello degli
Annibaldi, dell’originaria struttura risalente all’XII secolo è rimasto ben
poco; per la precisione, la base del torrione di destra. L’attuale forma è
il risultato della ricostruzione operata nel 1880 dall’architetto Francesco
Vespignani il quale, intervenendo sui ruderi cinquecenteschi dell’antica
Rocca Savella, in omaggio a quei resti, ricostruisce il castello in stile cinquecentesco.
La scala a doppia rampa, le due torri laterali e la merlatura
degli spalti, caratterizzano la facciata del Palazzo che domina piazza
Zanardelli.
Chiesa della Madonna della Neve. Quella che doveva essere una
semplice cappella dedicata alla Madonna della Neve, realizzata nel XVI
secolo con il contributo degli abitanti dediti alla raccolta della neve, è
divenuto nel corso dei secoli un piccolo Santuario la cui immagine, una
copia della Madonna della Neve della Cappella Paolina di Santa Maria
Maggiore a Roma, ancora oggi è venerata dai fedeli di Rocca Priora e dei
Castelli circostanti. L’attuale forma è frutto di un radicale restauro ope-
275

Mario Benedetto Robazza:
‘Il Trionfo sul male’

278
rato nel 1938. All’interno del Santuario dei Padri Pallottini sono conservate
interessanti opere del celebre pittore russo Gregorio Maltzeff, giunto
a Rocca Priora dopo la rivoluzione d’ottobre e qui vissuto a lungo.
Tra questi spiccano per bellezza il Sacro Cuore di Gesù e la Madonna
del Rosario. La chiesa conserva anche dieci tempere eseguite nel 1964
dal pittore Curzio Pagliari, sulla vita di San Vincenzo Pallotti e su altre
vicende legate al Santuario, tra questi uno è dedicato alla raccolta della
neve a Rocca priora. Sulla parete destra una lapide ricorda l’offerta della
Cappella ‘nell’Anno del Signore 1660’, da parte di Zenobio Baldinotto
‘Nobile fiorentino, Doganiere generale dell’Alma Urbe e appaltatore
della neve’. In realtà la chiesa già esisteva da diversi anni, tanto che è
citata nel resoconto della visita pastorale fatta dal Vescovo Giovan
Battista De Alteris nel novembre del 1636. Il periodo più probabile della
sua fondazione si aggira sul finire del 1500.
Santa Maria Assunta in Cielo. Attualmente in fase di restauro, la chiesa
parrocchiale dedicata a Santa Maria Assunta in Cielo, è consacrata dal
cardinale Basilio Bessarione nel 1464. Le ingiurie del tempo e i tanti stravolgimenti
dei vari interventi che si sono susseguiti nel corso dei secoli,
hanno influito negativamente sull’originario stile romanico, ripristinato
nel miglior modo possibile dagli ultimi interventi. Tra le opere d’arte
ospitate al suo interno spiccano per qualità uno splendido graffito di
200 metri quadrati di padre Ugolino da Belluno, realizzato nel 1972, e
alcune tele di notevole fattura, tra queste l’Assunzione in Cielo di Maria,
opera di Arnaldo Mecozzi.
Le opere di Robazza. Il cavallo rampante dello scultore Mario
Benedetto Robazza, accoglie i visitatori di Rocca Priora al bivio della
Tuscolana. L’artista, romano di nascita, da anni è legato a Rocca Priora,
a cui ha donato moltissime opere, tra le quali il monumento fontana ‘Il
Narciso’, il mezzo busto di Giovanni Paolo II, il percorso della Via
Crucis che si snoda lungo le vie del centro storico e il ‘Trionfo sul male’,
scenografico cancello della sua villa, montato come fontana su un muro
verso l’uscita di Rocca priora; in basso sulla fusione una scritta: ‘Fuori
da questo luogo sacro chi non è sano di spirito’. L’ultima fatica del maestro
dedicata all’Inferno di Dante, diciotto pannelli in marmo-resina,
esposta nei giardini di Castel Sant’Angelo a Roma ha incontrato unanime
consenso da parte della critica internazionale.

L’ambiente
Il Parco dei Castelli Romani. Istituito nel 1984 per tutelare l’integrità
delle caratteristiche naturali del territorio che comprende i quindici paesi
dei Castelli Romani, il Parco nel corso degli anni è diventato un valido
interlocutore degli agricoltori castellani sostenendo e tutelando biodiversità
che altrimenti la logica di mercato avrebbe fatalmente fatto
scomparire. Al tempo stesso la vigilanza, fondamentale per il mantenimento
dell’ecosistema, ha permesso una valida opera di prevenzione
antincendio del patrimonio boschivo e di tutela dei bacini lacustri. La
presenza del Parco, nei limiti del possibile, ha frenato almeno in parte il
consumo del territorio e un dissennato sviluppo urbanistico, intervenendo
a tutela e a difesa del paesaggio. Delle grandi foreste di faggio
scaturite dal fertile suolo vulcanico, oggi restano poche macchie tra i
tanti castagneti che rappresentano l’elemento principale del verde locale.
A testimonianza delle foreste settecentesche, oggi restano macchie di
lecci e roverelle, faggi e carpini, aceri campestri e tigli. Poi agrifogli, eriche
e vitalbe. A livello faunistico, controlli e monitoraggi, hanno portato
alla catalogazione di specie che si credevano ormai non più presenti
nel territorio dei Castelli come il lupo, il tasso, l’istrice, il falco pellegrino,
la martora e la rara ‘salamandrina dagli occhiali’.
Feste e Fiere
Gennaio: festa di Sant’Antonio Abate e ‘Sagra dello Scottone’
Febbraio: festa di San Biagio e ‘Sagra della polenta’
Maggio: Corsa del Narciso.
Luglio: ‘Legno e fantasia’, esposizione di prodotti in legno.
Agosto: festa della Madonna della Neve e concorso ‘Bimbincanto’.
‘Sagra dell’agnello’ nella frazione di Colle di Fuori.
Settembre: ‘Sagra del fungo Porcino’ a Colle di Fuori e ‘Ti Presento il
Galletto’, organizzata dall’Associazione Culturale ‘Amici del Fungo
Galletto’.
Piatti tipici
Pizza di polenta. Focaccia di mais e ‘sfrizzoli’ di maiale.
Lo Scottone. Ricotta con il siero, ancora caldi, mangiati con pane di
granturco. Lo ‘Scottone’ è protagonista di una seguita Sagra.
279

280
‘Celletti’. Semplici spaghetti ottenuti da un impasto di acqua e farina,
conditi con aglio, olio pomodoro e peperoncino. Volendo anche con
tonno e prezzemolo.
Da Roma
Auto: Statale Tuscolana (uscita 21 del Raccordo anulare). Oppure autostrada
A1 Roma-Napoli (uscita Monte Porzio), seguendo poi le indicazioni
per Frascati.
Autobus: linea Roma-Rocca Priora (autolinee Cotral, numero Verde
800431784, tel. 067222153), con partenze da Roma dal capolinea presso
la fermata ‘Anagnina’ della metropolitana (linea A).
Treno: linea Roma-Frascati, con partenza da Roma Termini ogni ora e
arrivo a Frascati dopo circa trenta minuti di viaggio. Da Frascati bus
navetta Cotral per Rocca Priora.
Connettiti al wifi gratuito
di Rocca Priora
Biblioteca
Via della Rocca
I link
http://www.comune.roccapriora.r
oma.it/
http://www.provincia.roma.it/

Una delle porte di Rocca Priora
281

282
Sant’Oreste>>>>>
Sant’Oreste: Porta Valle

La storia
Benedetto del Soratte nel suo ‘Chronicon’, il famoso ‘De Imperatoria
Potestate in Urbe Roma’, databile tra la fine del X e l’inizio dell’XI
secolo parla per la prima volta di Sant’Oreste riferendosi ad un documento
del 747 nel quale viene citata la ‘Curtis Sancti Heristi’. Il nome
Sant’Oreste, infatti, sembra sia legato ad un giovane romano, Edistus,
martirizzato da Nerone dopo l’incendio di Roma. L’evoluzione del
toponimo parte quindi da Sant’Edistus, divenendo poi Sant’Heristus,
Santo Resto, San Tresto ed infine Sant’Oreste.
Nome a parte, il genius loci di Sant’Oreste (e dei centri vicini), rimane
senza dubbio il Monte Soratte, una vera isola emergente dal mare del
Pliocene che con il passare delle Ere, degli Evi e dei Secoli, pur avendo
perso il mare che la circonda, ha mantenuto il suo status di isola.
Un’isola verde affacciata sulla valle del Tevere; un’isola carsica, ricca di
grotte, scavi e inghiottitoi, doline, gigantesche voragini che qui chiamano
‘Meri’, frequentata prima dai Fallisci, i temuti e rispettati ‘Hirpi
Sorani’ (i lupi sorani), potenti sacerdoti che all’arrivo del solstizio d’estate
venerano il dio Sorano camminando a piedi nudi sui carboni ardenti.
La sacralità di questi sacerdoti è così radicata nelle popolazioni locali che
anche i Romani, dopo gli Etruschi e i Capenati, accettano e conservano
seguendo l’insegnamento di Eschilo che ad Agamennone fa dire: ‘Se
rispettano i templi e gli Dei dei vinti, i vincitori si salveranno…’.
Fallisci e Capenati, alleati di Vejo, cadono con la città Etrusca nel 396
a.C. e il territorio è assegnato alla tribù Stellatina. Approfittando della
prima guerra punica i Fallisci tentano di rialzare la testa e si ribellano, ma
sono nuovamente sconfitti e puniti, nel 241 a.C. con la distruzione della
loro capitale, Faleri Veteres. Al periodo immediatamente successivo
risalgono i resti di alcune ville romane con tanto di impianti termali,
affreschi e mosaici, rinvenuti nelle campagne di Sant’Oreste, in località
Giardino.
Per Sant’Oreste, però, il meglio a livello storico viene con il Medioevo,
con i monasteri voluti da Carlomanno, fratello di Pipino il Breve,
l’Abbazia di San Silvestro e quella di Sant’Andrea in Flumine, presso
Ponzano Romano, la trecentesca chiesa di Santa Maria Hospitalis sorta
su una precedente struttura dell’Anno Mille, poi con il Cinquecento che
vede fiorire sontuosi palazzi come Palazzo Canali, ornato da importanti
affreschi attribuiti allo Zuccari, attuale sede comunale, dove è conservata
la famosa Croce in legno di bosso, scolpita con scene del Nuovo e
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284
Antico Testamento nel 1222 e portata a Sant’Oreste dal lontano
Oriente. Accanto al Palazzo Canali, poi dei Caccia, si trova il monastero
di Santa Croce con il Palazzo Abbaziale ed altre importanti emergenze
architettoniche come Palazzo Leoni, Palazzo Galletti, la Parrocchiale
di San Lorenzo, poi ancora Palazzo Zozi, Palazzo Azzimati, e, infine, il
sobrio Palazzo Rosati di Piazza Carlo Alberto, ingentilito dalle leggiadre
arcate del giardino a veranda, aperte sulla valle del Tevere: un piccolo
monumento alla natura abbandonato all’incuria.
In epoca più recente, le attenzioni dell’uomo si sono rivolte, più che al
paese, al monte Soratte. Durante la seconda Guerra Mondiale, il maresciallo
Kesselring chiama a raccolta le braccia abili della zona per
ampliare le gallerie scavate nel monte dal governo fascista tra il 1937 e
il 1938 come eventuale rifugio per il comando supremo dell’Esercito
Italiano in caso di guerra. E per la guerra Kesselring intende utilizzarle.
Il mastodontico progetto dà lavoro ai locali e richiama un gran numero
di operai dalle altre regioni. Su questa vicenda il maestro Giuseppe Zozi,
ha realizzato un volume ‘L’isola di Kesselring’, avvalendosi della collaborazione
di Arrigo Petacco ma, soprattutto, del lavoro degli alunni di
due classi elementari di Sant’Oreste nell’anno scolastico 1976/77. Il
libricino, una raccolta d’interviste, memorie di vita vissuta, redatte poi
da Francesco Zozi, ha il pregio di aver fatto diventare ‘grande’ la microstoria
di Sant’Oreste.
Da vedere
La chiesa di San Lorenzo martire, costruita a partire dal 1568 su disegno
originario del Vignola, su committenza del cardinale Alessandro
Farnese, conserva il campanile, con bifore in travertino. Ingrandita nel
1745, si adorna di una settecentesca pala d’altare che ha per tema il martirio
di San Lorenzo, di una tela raffigurante la Madonna del Rosario realizzata
in occasione della battaglia di Lepanto, d’altre pitture di minore
interesse e di uno splendido organo del 1638, opera del Mastro organaro
Bonifazi.
La chiesa di San Biagio, sorge in Piazza Vittorio Emanuele, presso
antica casa Caccia e ricalca lo stile architettonico del San Lorenzo. Al
suo interno una tela che ricorda (o copia) un’opera di Perin del Vaga. La
chiesa di San Nicola si trova nella parte più antica del paese, presso
Porta La Dentro, ha una bella tela d’altare di Giuseppe Cesari, meglio

La loggetta di Palazzo Rosati
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286
noto come il Cavalier d’Arpino. Sulla volta resti d’affresco. Altri affreschi
sulla controfacciata. In una nicchia dell’altare, è esposto un busto
ligneo di San Nicola di Bari datato 1610.
Le tre porte. Tutti i paesi murati e fortificati all’antica, presentano una
o più porte d’accesso. Sant’Oreste di porte ne ha tre: Porta Valle, Porta
Costa, e Porta La Dentro. Ancora oggi ben conservate, nei tempi antichi
sono tutelate da precise regole dettate dallo Statuto comunale del
1576 che, per esempio, vieta l’ingresso in paese a qualunque tipo d’animale.
L’architettura delle tre porte è ancora oggi imponente e ben conservata.
L’ambiente
I Meri e le grotte. I ‘Meri’, profonde doline carsiche, si trovano nella
zona di Santa Romana e sono conosciuti come il Mero Piccolo, il Mero
Grande e il Mero Medio. Il Mero Piccolo presenta un salto di dieci metri
che poi scende ancora tra sale, concrezioni e diramazioni fino a raggiungere
il Mero Grande che presenta un pozzo dal diametro di circa venti
metri con una galleria che immette al Mero Medio, dieci metri di diametro
per 65 di profondità. Tra le grotte del Soratte si segnalano per interesse
speleologico la Grotta di Santa Lucia, e la Grotta Erebus, scoperta
per caso da alcuni ragazzi nel 1989, dopo che un incendio ha distrutto
la rigogliosa vegetazione che la nascondeva alla vista. Questa grotta,
a differenza della precedente, conserva ancora interessanti concrezioni
da salvaguardare prima che facciano la fine di quelle della Grotta Santa
Lucia, oggi documentate soltanto grazie a qualche vecchia fotografia.
La Riserva Naturale Monte Soratte si estende per 410 ettari, svettando
sulla piana del Tevere. La vegetazione dominante è rappresentata dal
Carpino nero, l’acero minore, il leccio, il terebinto e altre specie che formano
la fitta boscaglia del monte Soratte. All’interesse naturalistico, rappresentato
anche dai Meri e dalle caverne che costellano il monte, si unisce
quello storico-monumentale attraverso la presenza di eremi abbazie
e santuari che valgono al Soratte la denominazione di ‘Montagna Sacra’.
La Riserva Naturale Monte Soratte vanta anche un Museo naturalistico
ospitato nelle sale del Palazzo Caccia-Canali di Sant’Oreste. Le sezioni
vanno dalla geologia alla botanica, dall’antropologia alla zoologia.

Piatti tipici
Acquacotta. Ricetta simile all’Acqua cotta della Maremma. Ma con la
variante dell’uso del baccalà.
Frascarelli con la ricotta. Un tipo di impasto passato al setaccio, cotto
e condito con ricotta e olio extravergine.
Gnocchetti con i fagioli. Una minestra molto saporita con cipolla,
fagioli, patate e gnocchetti.
Maccheroni a Iffa. Classica pasta fresca ammassata con sola acqua e
farina. Lavorata poi a vermicelli, cotta e condita con sugo a piacere.
Panemmolle con i ceci. Minestra di ceci e patate, insaporita con
rosmarino e pomodoro e poi versata su crostoni di pane. Esiste anche
una versione di Panemmolle con i fagioli.
Da Roma
Auto: autostrada del Sole A1 uscita Ponzano Romano-Soratte oppure
uscita Fiano Romano.
Autobus: servizio Cotral. (tel. 06/3328331). www.cotralspa.it.
Treno: ferrovia Roma Nord Cotral, fino alla stazione di Sant’Oreste.
Connettiti al wifi gratuito
di Sant’Oreste
Biblioteca
Piazza Caccia
I link
http://www.santoreste.it/
http://www.provincia.roma.it/
http://www.prolocosantoreste.co
m/default2.htm
287

288
Saracinesco>>>>>
Il campanile della chiesa
di San Michele Arcangelo

La storia
Se è vero, com’è vero, che Marano Equo è per estensione territoriale
il più piccolo Comune della Provincia di Roma, Saracinesco, che
vanta 11,1 chilometri quadrati di territorio, è quello meno abitato: all’ultimo
censimento figurano soltanto 165 residenti (95 maschi e 75 femmine).
Quindici abitanti per ogni chilometro quadrato. I dati del 2008
parlano di 178 residenti: 16,18 ogni chilometro quadrato. Lo spazio non
manca.
Da molti meno dei 178 attuali residenti, sarebbe formato il gruppetto di
Saraceni che, respinti sotto le mura di Roma si accontentano di razziare
Tivoli, Vicovaro e gli altri centri che trovano sul loro passo lungo la valle
dell’Aniene poi, stanchi di questa guerra mordi e fuggi, intorno all’876
si insediano sulla cima del colle con l’intenzione di creare una comunità
stanziale di alacri tagliagola ai danni di pellegrini e gente di passaggio.
Descritto da Fabio Gori nel suo ‘Viaggio pittorico-antiquario da Roma
a Tivoli e Subiaco’ edito a Roma nel 1855, il lugubre castello risulta edificato,
in altro luogo, dai lontani nipoti di quei saraceni dai quali
Saracinesco prende il nome.
Interessante e di buona lettura la descrizione del paese e dei suoi abitanti
offerta dal Gori: ‘Se aver brami di questo castello la descrizione, figurati il
rotondo cocuzzolo di montagna altissima occupato da meschine casipole divise da
pochi vicoletti, non già selciati, ma irti di scogli che all’estremità del caseggiato intorno
intorno sbalzano quasi muraglioni in orride punte. Sopraccapo al paese stanno i
ruderi della Fortezza, la quale dovea somigliare allo spettro d’enorme gigante dal più
alto monte disceso a balestrare le soggiacenti rocche’. Parlando poi degli abitanti,
prosegue così: ‘Di bella carnagione, di statura elevata e di occhi vivacissimi i
Terrazzani palesano l’origine saracena per vari cognomi di famiglie, quali Morgutte,
Morante, Almansor. Si direbbe che i barbari loro antenati, costretti ad abbracciar
la nostra Fede o ad emigrar dall’Italia, giurassero di non meschiare il sangue se non
con persone di araba origine, poiché difficilmente i Discendenti con gente diversa contraggono
matrimonio. Si considerano tutti come fratelli; guai al Forestiero che ad uno
di loro torcesse un capello: a bersaglio de’ sassi porrebbe la testa’. Uno spaccato
impietoso, frutto di tempi in cui il ‘politicaly correct’ è del tutto sconosciuto.
Al di la delle versioni più o meno romanzate, un manipolo di saraceni
messi in fuga dalle truppe dell’imolese papa Giovanni X, in realtà si
arrende e ottiene il permesso di dare vita ad un proprio centro abitato,
tra Tivoli e l’attuale Saracinesco, che chiamano Castellaccio. Nel 1391 il
289

290
Comune di Tivoli vende il Castellaccio a Iacopo e Antonio Coccanari.
A questo punto la storia s’intreccia con la leggenda che vede i saraceni
lasciare il paese, masserizie comprese, nell’arco di una sola notte e, Gori
dixit, ‘…valicato il fiume, costrussero il presente Castello’. La versione, però,
non convince appieno neppure l’erudito estensore che chiosa: ‘Queste
due sentenze che io pel primo fo notare, come possono conciliarsi?’. Chapeau.
La storia documentata testimonia che già nel 1052, Saracinesco fa parte
dei beni gestiti dai Benedettini del Sacro Speco di Subiaco, i quali lo
cedono a Oddone di Poli che a sua volta ne fa gentile omaggio a papa
Adriano V. Un altro papa, Innocenzo III, lo dona al fratello, Riccardo
Conti la cui nipote Margherita va in sposa a Federico d’Antiochia, figlio
naturale dell’imperatore Federico II, che insieme a Saracinesco acquisisce
Anticoli (che poi chiamerà Anticoli Corrado in onore del figlio
Corrado, cugino di Corradino di Svevia) e altri feudi del Tiburtino. In
quegli anni Saracinesco conosce il periodo più glorioso della sua storia
che si intreccia con quella dello sfortunato principe svevo il quale, nei
giorni precedenti la fatidica battaglia di Tagliacozzo, raggiunge
Saracinesco per far visita alla sposa del cugino Corrado, Beatrice Lancia,
alla di lei madre Margherita e alla futura cognata Cubitosa d’Aquino. Ai
giorni di festa fa seguito la sciagurata disfatta dei Piani Palentini, la fuga,
la cattura e l’ignobile uccisione del biondo condottiero.
La Signoria del castello di Saracinesco resta agli Antiochia fino all’anno
1466 quando Mattia d’Antiochia lo cede alla Camera Apostolica in cambio
di una pensione annua. In concreto, però, gli Antiochia mantengono
il possesso di Saracinesco che, per asse ereditario, passa ai Mareri i
quali, dopo una lunga parentesi di signoria degli Orsini, nel 1588 lo
cedono definitivamente alla Camera Apostolica per 20.000 ducati.
La storia che segue non si discosta da quella più generale dello Stato
della Chiesa. Il tempo che passa, scandito dai ritmi lenti delle stagioni,
fa crescere al meglio i ‘Terrazzani di bella carnagione, di statura elevata e di
occhi vivacissimi’ che attirano l’interesse dei pittori ottocenteschi di
Anticoli Corrado diventandone, grazie alla loro saracena bellezza, i
ricercati modelli. Al tempo che passa, gli abitanti di Saracinesco, filosoficamente,
hanno dedicato, come vedremo, l’intero paese.
Da vedere
La chiesa di San Michele Arcangelo, risalente al XIII secolo, consa-

Il Globo di Matelica, ‘pezzo forte’
del Museo del Tempo
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292
crata e dedicata ai Santi protettori del paese, San Michele Arcangelo e
San Pietro, è impreziosita da un affresco cinquecentesco che orna il presbiterio
e da alcune tele del ‘600-’700. Una preziosa statua lignea del
1300, raffigurante la Madonna con il bambino, di proprietà della chiesa,
per ragioni di sicurezza viene conservata in un luogo più sicuro ed esposta
solo in occasioni particolari.
Ruderi dell’acquedotto romano ‘Anio Novus’. In località Pantano, a
ridosso del fiume Aniene sulla strada delle Roce, si trovano i resti
dell’Acquedotto ‘Anio Novus’ (Aniene Nuovo). Iniziato da Caligola nel
38 e terminato da Claudio nel 52, captava le acque nell’alta valle
dell’Aniene, da cui il nome, al quale è aggiunto l’aggettivo ‘novus’ per
distinguerlo dall’altro acquedotto Anio, il ‘Vetus’ di circa 3 secoli più
antico.
Il perimetro della Rocca Benedettina, segue e racchiude la sommità
del colle lungo le cui pendici si dipana il Saracinesco secondo le regole
che caratterizzano l’incastellamento medievale. Una gigantesca meridiana
con la scritta ‘Carpe diem’ orna lo sperone di contenimento della
Rocca alla cui base si trova un’altra singolare meridiana realizzata nel
tondo di una fontanella che fa da quadrante segnando le ore scolpite sul
fondo.
Il Museo del Tempo è una delle cose più originali da vedere a
Saracinesco. Un museo all’aperto, dove ogni piazza rappresenta una sala,
ogni muro un espositore, ogni opera un unicum. Le macchine del
tempo, gli orologi solari, qui hanno trovato il loro tempio e la gnomonica
in generale, la sua massima espressione. Si va dal Globo di Matelica
alla Meridiana Analemmatica, dall’Orologio solare equatoriale a quello
pastorale, poi meridiane orizzontali, verticali, a quadro declinante fino
all’orologio solare di Lambert. Andiamo con ordine partendo dalla piazza
non a caso intitolata a Galileo Ferraris. A circa metà di Via Costasole
troviamo l’Orologio solare equatoriale, dove il sole illumina la parte
superiore, dall’equinozio di primavera a quello d’autunno, e la parte inferiore
nel restante periodo dell’anno. Continuando a salire si giunge alla
piazza principale del paese sulla quale si affacciano il Municipio e la
chiesa di San Michele Arcangelo e dove trova posto una riproduzione
dell’orologio del pastore (inventato dal monaco tedesco Hermann
Reichenau), così chiamato perché, in forma portatile, era utilizzato dai

pastori per scandire i tempi dei lavori della giornata. Sulla piazza della
Rocca si possono ammirare due orologi, un orologio orizzontale e uno
‘analemmatico’, dove il tempo si legge sulle proiezioni ortografiche delle
due ellissi. Scendendo la scalinata che aggira la Rocca si arriva ad uno
sperone di contenimento che ospita un Orologio solare verticale con la
scritta ‘Carpe diem’. Prendiamolo alla lettera e cogliamo l’attimo per
osservare, sotto la parete dell’orologio verticale, una fontanella circolare
che ospita l’orologio azimutale dell’Orto maranese, detto ‘di Lambert’,
variante dell’analemmatico con l’aggiunta dell’acqua e della fontana che
costituisce il ‘quadrante’ dell’orologio stesso. Scendendo ancora, a mezzacosta,
una piazzetta è ingentilita dalla presenza di una sfera, il ‘Globo
di Matelica’, attraversato da una serie di incisioni concentriche in grado
di indicare l’ora e i minuti con uno scarto davvero minimo, e dati ancor
più precisi su giorno, mese, stagione corrente e relativo segno zodiacale.
Una meraviglia da non perdere.
L’ambiente
Abbarbicato sul cucuzzolo del monte, Saracinesco è circondato da ampi
pascoli di mezza montagna, e da boschi dove faggi, querce, roverelle e
aceri, garantiscono l’habitat alla fauna locale, costituita principalmente
da lepri, cinghiali, istrici, tassi, poi predatori come volpi, faine e donnole.
L’avifauna è rappresentata dai grandi rapaci come la poiana, qualche
aquila proveniente dai più impervi monti, diverse specie di falchi e altri
uccelli stanziali e di passo. Il territorio ai piedi del paese, presenta le
peculiarità classiche della Valle dell’Aniene, con pioppeti, ampie coltivazioni
e prati a foraggio.
Feste e sagre
Il Passaggio di Corradino. Il 18 agosto del 1268, Corradino di Svevia
in movimento con le sue truppe verso la fatale battaglia dei Piani
Palentini, a Tagliacozzo, si ferma ad Anticoli Corrado ospite del Cugino
Corrado d’Antiochia e, in quell’occasione visita Saracinesco. A ricordo
di quell’evento ad agosto si svolge un corteo storico molto seguito.
La Festa dell’olio e del miele con stand gastronomici e mostra mercato
richiama a Saracinesco un gran numero di turisti provenienti da Roma e
dai centri vicini.
Le Sagre della Polenta e salsicce (ultima domenica di settembre),
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294
come quella delle Pappardelle al sugo di cinghiale sono entrate a far
parte delle manifestazioni gastronomiche dell’estate di Saracinesco.
Piatti tipici
Polenta con le ‘ciammarughe’. Una saporita polenta condita con un
sugo di lumache, è uno dei piatti tipici più corposamente autoctoni di
Saracinesca. Difficile da trovare nei ristoranti ma molto apprezzata nelle
case private.
Sagne fagioli. Classica zuppa di fagioli con le ‘Sagne’ che sono fatte
con una pasta a base di acqua e farina, ammassata e tagliata irregolarmente,
cotta a minestra con l’acqua dei fagioli.
Da Roma
Auto: prendere l’autostrada A24 Roma-L’Aquila in direzione
dell’Aquila. Uscita al casello Vicovaro-Mandela e proseguire per
Saracinesco.
Treno: linea Roma-Sulmona da Roma Tiburtina. Scendere alla stazione
di Vicovaro Mandela. Bus navetta Cotral per Saracinesco.
Autobus: con autolinee Cotral Roma-Arsoli o Roma-Subiaco. Partenza
da Metro Ponte Mammolo: www.cotralspa.it.
Connettiti al wifi gratuito
di Saracinesco
Municipio
Piazza Roma 3
I link
http://www.prolocodisaracinesco.it/
http://www.provincia.roma.it/

Il murale di Via Principe di Piemonte
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296
Segni>>>>>
Segni , Via San Vitaliano: la 500 rossa

La storia
Due Santi, tre Papi, tre Cardinali. Per tutti loro, tranne San Bruno, un
unico denominatore comune: sono nati a Segni. Altra similitudine:
tutti loro hanno trovato in Roma la loro seconda patria. A dire il vero,
a voler sottilizzare, si potrebbe affermare che approdando a Roma, sono
tornati a casa. Già, perché secondo la storia vulgata, Segni è fondata nell’anno
531 avanti Cristo da Tarquinio il Superbo il quale, per creare un
avamposto a difesa di Roma e al tempo stesso una testa di ponte per la
conquista del basso Lazio e della ‘Campania Felix’, trasferisce sul posto
che poi vedrà la nascita della città di ‘Signia’, un nutrito avamposto di
soldati e braccianti romani. Se le cose stanno così (e la storia lo conferma),
nelle vene degli abitanti di Segni scorre sangue romano o, quantomeno,
il loro Dna appartiene allo stesso ceppo dei romani imparentati
con gli Etruschi che rappresenta uno dei tre ceppi costitutivi del popolo
italiano, ipotizzati, studiati e scoperti dal professor Luigi Luca Cavalli
Sforza.
Insediamenti saltuari sono presenti nel territorio di Segni fin dai tempi
più remoti, addirittura risalenti all’Età del bronzo. Ma si tratta più che
altro di gruppi nomadi di cacciatori e cercatori che lasciano tracce del
loro passaggio nelle grotte sparse sui Monti Lepini, lungo le rive dei
fiumi, sulle alture. La Storia con la ‘S’ maiuscola, quella scritta dagli storici
di quei tempi lontani, come Livio e Tacito, e suffragata dalla presenza
di mura ciclopiche, di resti di nobili ville, di avanzi di templi talvolta
diventati chiese, ci dicono che Segni è nata in epoca protoromana, nel
VI sec. a.C., più precisamente, come dicevamo poco sopra, nel 513 a.C.
per volere di Tarquinio il Superbo, ultimo dei sette Re di Roma, il quale
firma trattati di alleanza con le città di Tusculum e di Antium, con le
popolazioni dei Volsci, degli Ernici e degli Equi, consolidando il predominio
romano nel sud del Lazio e, per rafforzare le vie commerciali
marittime sul litorale tirrenico, fonda due nuove colonie romane: Circei
e Signia.
Fin dalla sua fondazione Signa gode di larga autonomia; nel 493 avanti
Cristo, dopo una ribellione contro Spurio Cassio, i segnini sottoscrivono
il ‘Foedus Cassianum’, patto d’alleanza con Roma che non limita l’autonomia
della città ma l’obbliga a sostenere militarmente Roma nelle sue
guerre di conquista. Segni, intanto, diventa quella che si dice una città
fiorente; batte moneta, una bella moneta in argento con la scritta SEIC
che circola nell’impero, sul verso un cinghiale, animale sacro ai segnini
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e, sul recto, la testa di Mercurio. Il periodo tardo Repubblicano, a livello
urbanistico, cambia sostanzialmente l’aspetto della città. Braccio operativo
di questa rivoluzione edilizia è l’architetto greco Quintus Matius
che firma con un iscrizione musiva il Ninfeo, riorganizza la zona
dell’Acropoli, con il tempio di Giunone Moneta, la grande cisterna e gli
spazi pubblici come il Foro commerciale e le Terme, questi ultimi fuori
Porta Maggiore. L’impianto termale-santuariale di Colle Noce ha portato
alcuni storici ad ipotizzare che in quel sito avviene la famosa battaglia
di Sacriporto, tra Mario e Silla, fatale a Mario ma anche ai segnini che lo
sostenevano. Nella seconda metà del I secolo avanti Cristo viene rifatto
il fianco meridionale delle mura ciclopiche e si realizza il criptoportico.
Risale invece all’Età giulio-claudia il rifacimento del tempio di Ercole.
Il dissolvimento dell’Impero romano e le calate dei barbari portano
carestie, pestilenze un po’ ovunque. Neppure Segni si salva dalla grande
recessione, sia economica che sociale. Tra la fine del VI secolo e l’inizio
del successivo, nasce a Segni Vitaliano, settantaseiesimo papa della
Chiesa cattolica, che occupa il soglio di Pietro dal 30 luglio 657 alla sua
morte. A questo papa si deve il riavvicinamento con l’Impero Bizantino
e con la chiesa di Costantinopoli e, a livello culturale, la diffusione del
canto Gregoriano. Nei due secoli che precedono l’anno Mille e in quelli
immediatamente successivi, Segni vive un lungo periodo di grande
benessere. Residenza estiva dei papi, si arricchisce di chiese e palazzi,
sorge il Seminario Vescovile, ospita Pasquale II, Eugenio III, Lucio III
che santifica San Bruno e, alti prelati che portano fama e ricchezza alla
città e al territorio. Nel 1585, papa Sisto V eleva Segni a Ducato, nominando
duca Alessandro Conti Sforza. La storia recente, dall’Unità
d’Italia alla guerra di Libia e alle due guerre mondiali è segnata da un elevato
tributo di sangue e dalle devastazioni del pesante bombardamento
patito da Segni nel marzo del 1944 per mano delle forze aeree alleate.
Da vedere
Le porte delle Mura ciclopiche. Tra le tante porte che si aprivano
nelle mura ciclopiche, la principale è, senza dubbio, Porta Saracena, di
forma ogivale (larga 1 metro e 40 centimetri in alto e 3 metri alla
base),con architrave monolitico. Le altre porte sono: la ‘Portelletta’,
sotto il curvone di Pianillo; una porta senza nome nel tratto intermedio
fra la ‘Saracena’ e la ‘Portelletta’; un’altra piccola porta, anche questa
anonima, senza architrave, subito sotto la pineta di Pianillo; poi la ‘Porta

Santa’, ad arcata ogivale, subito sotto San Pietro; la ‘Porta Foca’; un’altra
porta in corrispondenza del ‘Ponte Scarabeo’; e, infine, la porta del
‘Lucino’. Illuminante la descrizione delle mura ciclopiche fatta dal
Gregorovius:
‘…Sono salito più in alto, per arrivare alle famose mura
ciclopiche che, come in tutte le città del Lazio,
circondavano qui la rocca, cadendo a picco sul pendio
del monte. I loro massi stanno tuttora connessi gli uni
agli altri, come se l’opera fosse stata compiuta ieri
soltanto: qua e là si aprono piccole porte di stile
etrusco. In fondo ad un lungo muro esiste ancora la
famosa, pittoresca porta ciclopica, ad arco ottuso,
formata da enormi massi quadrangolari. L’aspetto
gigantesco di queste mura, la tinta cupa che il tempo le
ha dato, le piante selvatiche che le ricoprono, la
grandiosità del monte a cui si appoggiano, producono
un’impressione che la parola non sa descrivere’.
L’Acropoli ospita i resti del tempio di Giunone Moneta e la Cisterna
romana, circolare, anticamente utilizzata per il recupero dell’acqua piovana,
realizzata in mattoni di tufo cementati con una particolare malta
caratteristica del luogo, l’Opus Signinum, una calce famosa nel tempo
antico perchè molto resistente ed impermeabile all’acqua. Su prenotazione
(all’ingresso della città c’è un efficiente punto verde riservato ai
turisti), si possono visitare l’area del Foro con il grande criptoportico, il
ninfeo di epoca repubblicana con lo splendido mosaico a parete e l’area
di Porta Maggiore con le due cisterne sotterranee.
La chiesa di San Pietro è edificata sulle rovine dell’antico tempio
pagano dell’Acropoli. Il sagrato, lastricato con selci bianche, fa risaltare
ancor di più la facciata in conci di tufo. L’andamento del campanile,
molto caratteristico, presenta la torre campanaria con tre lati a bifora e
un quarto a monofora. All’interno della chiesa sono conservati raffinati
affreschi il più antico dei quali, risalente all’XII secolo, raffigura una
Madonna con il Bambino. Un secondo affresco degno d’attenzione
rappresenta San Sebastiano con la Vergine in trono e il Bambino sulle
ginocchia, affiancata da altri tre Santi: Lorenzo, Stefano e Vitaliano. La
pala d’altare fu realizzata nel 1907 da Giulio Tadolini, esponente di
mezzo della famosa dinastia di artisti, scultori e pittori, che ha operato
299

Mura ciclopiche: la ‘Porta Saracena’

302
fino alla seconda metà del secolo scorso nello studio di via del Babbuino
attualmente tutelato dai Beni Culturali.
Il Seminario il cui prospetto si affaccia su Piazza San Pietro, è fatto edificare
nel XII secolo da papa Eugenio III con la funzione di Palazzo
apostolico. Storica residenza di papi e cardinali che lo utilizzano per
fugaci visite o più lunghi soggiorni, il seminario oggi è sede
dall’Archivio storico Innocenzo III che conserva carte e documenti
della Cancelleria vescovile di Segni, del Capitolo della Cattedrale, dello
stesso Seminario e di alcune parrocchie della Diocesi. In questa veste è
diventato un punto di riferimento irrinunciabile per ricercatori e studiosi
di storia locale.
La chiesa di Santo Stefano, che dà il nome alla piazza antistante,
secondo la tradizione popolare, è il primo luogo di culto Cristiano sorto
a Segni. Il Cristianesimo, infatti, fa la sua comparsa nel territorio segnino
tra la fine del I e l’inizio del II secolo. I nuovi Cristiani di Segni tramutano
in un tempio cristiano la vecchia sinagoga della comunità ebraica
della vicina contrada chiamata ‘Judea’. Molto bello il campanile romanico.
La chiesa del Gesù viene fatta edificare dai padri Dottrinari dell’attiguo
convento (attuale sede municipale), nei primi anni del XVIII secolo.
La chiesa, concepita a navata unica, presenta sei cappelle laterali e un
altare maggiore sul quale domina una tela settecentesca raffigurante
Gesù con la Vergine. Tra le cose rimarchevoli si segnala una tela della
Madonna Addolorata alla quale sono attribuite miracolose vicende. Il
dipinto è una buona copia della Vergine in contemplazione del Guido
Reni, alla quale l’ignoto copista ha aggiunto la spada che trafigge la
Vergine.
Palazzo Cremona, classico palazzo patrizio del ‘700, è realizzato completamente
in pietra. Il giardino nella parte posteriore del palazzo, in
epoca romana ospitava il tempio della Dea ‘Bona’ oggi andato completamente
distrutto.
La Cattedrale, dedicata a Santa Maria Assunta si erge maestosa nell’omonima
piazza. La chiesa, costruita nel XVII sulle rovine di un tempio
dell’XI secolo, ha una facciata in pietra che nello stile ricorda l’archi-

tettura del Valadier. L’ampia gradinata d’accesso porta a scoprire una
struttura a croce greca con l’altare maggiore impreziosito da una bella
tela di Ignazio Trivelli dedicata all’Assunzione in cielo della Vergine,
sostenuta da due angeli sotto lo sguardo degli apostoli. Sei cappelle, tre
per lato, e quattro altari ornano l’interno che conserva alcuni dipinti dei
fratelli Courtois, detti i Borgognone, sulla Leggenda della Santa Croce e
sul ritrovamento della stessa da parte di Sant’Elena, madre di
Costantino. Anche la cupola centrale, con la Madonna in cielo con santi
e angeli, è affrescata dai Borgognone. Molto interessante la Cappella di
San Bruno, compatrono di Segni, affrescata da Lazzaro Baldi con episodi
della vita del santo. Nella sacrestia, insieme ad altre opere, è conservata
una tela attribuita a Pietro Berettini, più noto come Pietro da
Cortona (1596-1669). Interessanti i due busti, quello di San Bruno,
vescovo di Segni, e quello di San Vitaliano, papa segnino, entrambi
patroni della città. Il bel campanile risalente dell’XI secolo svetta con i
suoi 24 metri di altezza, a lato della chiesa.
Il Museo archeologico punto di riferimento e importante centro di
ricerca di tutto il territorio, è famoso per la sua attività scientifica, per le
campagne di scavo e per le iniziative culturali che richiamano a Segni
studiosi da ogni parte del mondo ma anche tanti studenti alle prese con
tesi di laurea dedicate all’archeologia e alla storia locale. Tra le iniziative
più seguite si segnalano gli ‘Incontri con l’archeologia’.
L’ambiente
La rigogliosa natura che circonda l’abitato è dominata dalla presenza di
ombrosi castagneti e, dalle pendici dei monti in su, splendide faggete e
boschi di roverelle invitano a rilassanti escursioni. Le ampie radure ricche
di frutti di bosco nelle stagioni comandate offrono fragole, more e
funghi. Una delle mete più gettonate dagli escursionisti è la piana del
Campo, punto d’arrivo per chi non vuole faticare troppo, e base di partenza
per chi voglia raggiungere il Campo di Montelanico. Ai ‘grandi
camminatori’ è riservata l’ascesa al monte Lupone, 1.378 metri sul livello
del mare, dalla cui cima si gode un panorama unico.
17 gennaio: Sant’Antonio abate. Benedizione degli animali.
Feste e Sagre
303

304
19 marzo: San Giuseppe. Falò e festeggiamenti in tutta la cittadina. I
falò che qui chiamano ‘Calecare’ vengono incendiati nelle 5 piazze principali
di Segni.
Venerdì Santo: processione e rappresentazione della Passione di Gesù.
18 luglio: San Bruno. Palio delle contrade e festeggiamenti vari.
3° domenica di agosto: festa dell’AVIS e della Madonna della
Castagna, con giochi popolari e concerti in piazza.
Ultima domenica d’agosto: festa della madonna di Monte Lupone
con Santa Messa a Monte Lupone e festeggiamenti vari presso la parrocchia.
Seconda metà di ottobre: ‘Sagra del marrone’. Giochi, canti, rappresentazioni
in costume, stand tipici e concerti accompagnano la sagra di
questo prelibato frutto, vanto di Segni.
30 dicembre: pellegrinaggio di fine anno. Scalata di Monte Lupone con
partenza dai Comuni limitrofi.
Piatti tipici
‘Canascione’: focaccia piena di formaggio fresco e prosciutto.
‘Fallone’: pizza rustica di granturco dalla forma allungata.
‘Appallocco’: pastone di fave cotte, frantumate e condite con aglio e
olio soffritto.
‘Copeta’: impasto di miele e frutta secca chiuso tra due foglie di alloro
viene citata anche negli Statuti segnini.

Da Roma
Auto: autostrada Roma-Napoli. Uscita al casello di Colleferro, poi
seguire indicazioni per Segni.
Autobus: servizi di linea Cotral. www.cotralspa.it.
Treno: da Termini alla fermata Colleferro-Segni-Paliano poi bus navetta
per Segni.
Connettiti al wifi gratuito
di Segni
Biblioteca
Via della Pretura
Pit
Piazza Cesare Battisti
Museo
Via Lauri
Associazione Ippogrifo
Via dei Cappuccini 7
I link
http://www.comune.segni.rm.it/
http://www.sanbrunodisegni.org/
http://www.museosegni.it/
http://www.provincia.roma.it/
305

306
Tolfa>>>>>
Il Belvedere sui monti della Tolfa

La storia
La ‘catana’ in pelle che ha segnato gli anni della rivolta studentesca è
nata qui e ne porta fiera il nome: la Tolfa. Le migliori selle da cavalcatura
sia per lavoro che per diletto, nascono qui, nelle botteghe artigiane
dei sellai tolfetani. Gli stivali, i gambali da lavoro e da caccia, le giubbe
dei butteri che hanno fatto la storia della Maremma dell’alto Lazio si
producono sempre qui, a Tolfa. Non a caso, ovviamente. Questa è la
patria dell’alunite che, una volta trasformata, diventa allume di rocca,
materia prima per il trattamento di cuoio, pellami e stoffe. E’ logico,
dunque, che Tolfa sia conosciuta come la capitale del cuoio lavorato, la
patria dei mastri sellai, il regno della ‘catana’ la tracolla in cuoio che è
sopravvissuta al ‘68 restando sempre di gran moda.
La storia più antica di Tolfa corre parallela con quella di Allumiere: presenze
significative nel protovillanoviano, nell’età del ferro e del bronzo,
come il sito di Codata delle Macine o il villaggio di Tufarelle, con resti
di capanne, tombe a tumulo monumentali e muraglioni a secco. Tra le
tante necropoli con tombe a camera meritano una citazione particolare
le tombe di Pian Conserva e i Grottini di Rota a est di Tolfa, sulla strada
che porta a Manziana.
Fasti lucumonici con gli Etruschi che qui lasciano sontuose necropoli
sufficienti da sole a certificare l’esistenza di importanti centri abitati. Gli
etruschi della Tolfa, dediti all’agricoltura e ai commerci, forniscono di
prodotti agricoli Pyrgi, porto arsenale di Caere, e Gravisca, importante
scalo marittimo di Corneto che poi sarebbe l’attuale Tarquinia.
Il periodo romano non modifica la funzionale organizzazione etrusca,
anzi la sfrutta al meglio potenziando le risorse umane. Per assistere a
consistenti cambiamenti bisogna superare il dissolvimento dell’Impero
Romano, le calate dei barbari e le incursioni saracene. Intorno all’Anno
Mille Tolfa diviene una rocca fortificata, dominata dal 1037 dal castello
dei Frangipane che ne fanno il loro feudo fino agli inizi del secolo XIII,
quando papa Innocenzo II, dichiara il territorio proprietà della Santa
Sede.
Occupato dai viterbesi nel secolo XIV, è feudo prima dei Capocci e poi
di nuovo di due Frangipane, Ludovico e Pietro, che circondano l’abitato
con una cinta muraria per difenderlo dalle mire della Camera
Apostolica la quale preme a causa dei diritti sui giacimenti di alunite.
Contrasti che cessano nel 1469 quando i fratelli Frangipane cedono il
feudo di Tolfa Vecchia alla Chiesa che affida al senese Agostino Chigi lo
307

308
sfruttamento delle miniere e la trasformazione dell’alunite in allume di
Rocca.
Il punto più alto e doloroso della storia di Tolfa è toccato nel 1798, il 14
e 15 marzo, quando le truppe francesi comandate dal generale Merlin,
dopo aver promesso salva la vita a quanti si presentavano a consegnare
le armi alla chiesa della Sughera, perpetrano un vero e proprio eccidio
fucilando 89 tolfetani. In quei due giorni di rivolta, tra caduti in battaglia
e vilmente trucidati dai francesi, Tolfa piange 245 suoi figli.
Da vedere
I ruderi del Castello dei Frangipane, smantellato dai Papi che lo
acquistano dagli ultimi feudatari per prevenire ribellioni e arroccamenti,
è definitivamente distrutto dai francesi nel 1798. Oggi sono ancora riconoscibili
alcuni ambienti, un pozzo e alcuni frammenti di muro di
cinta.
Palazzo Buttaoni, ancora integro con la sua facciata severa segnata dai
marcapiani e dalle finestre in pietra, con il suo ingresso monumentale
arricchito da una galleria prospettica al fondo della quale spicca la fontana
che delimita l’atrio della corte, con un loggiato ad archi disposto su
tre piani.
Convento dei Cappuccini. L’architettura del convento, realizzato tra il
1584 e il 1622, riflette l’asciutto stile francescano anche nell’essenziale
chiostro in pietra. Tra queste mura soggiorna tra il 1694 e il 1696 San
Crispino da Viterbo. Nel dormitorio del Convento è ancora conservata
la sua cella.
Il Santuario della Madonna della Rocca è edificato accanto ai resti
del castello Frangipane che per lunghi anni è adibito alle funzioni di
cimitero. Una lapide sul fianco destro della chiesa ricorda la strenua resistenza
opposta dai tolfetani agli invasori francesi il 14 marzo 1799.
La chiesa di Sant’Egidio, realizzata tra il 1644 e il 1705, è stata completamente
ristrutturata e restaurata in tempi recenti. Oggi è sede della
Confraternita Umiltà e Misericordia. La chiesa, eretta a Collegiata nel
1588 da Sisto V, è dedicata a Sant’Egidio, Santo Patrono di Tolfa. La
facciata costruita negli anni ‘60 è opera dell’architetto Leonardi. Tra le

La Torre dei Frangipane
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310
opere conservate al suo interno spiccano una tela del bevagnate Andrea
Camassei, allievo del Domenichino, che raffigura il re goto Wamba e il
vescovo di Nimes presso l’eremo di Egidio nella Valle Flaviana. Un’altra
tela raffigurante il Salvatore benedicente con una mano e con un libro
aperto nell’altra, è attribuita ad Antonio Massaro, detto il Pastura, collaboratore
del Pinturicchio, Ma su questa attribuzione i critici si sono a
lungo divisi ed ancora lo sono.
La chiesa del Crocefisso, sede della confraternita della Misericordia e
Umiltà o di San Giovanni Decollato, fu costruita a seguito del suo
distacco dal corpo della chiesa di S. Egidio dopo i lavori di ristrutturazione
di questa e completato nel 1644. In questa chiesa si chiude ogni
anno la processione del Venerdì Santo, struggente manifestazione religiosa
con confraternite di incappucciati che trascinano pesanti catene
portando a spalla grosse croci di legno.
Il Palazzo Comunale, ex seminario trasformato in Municipio dopo
l’unità d’Italia, ha mantenuto nel tempo il suo aspetto originario.
Nell’androne del palazzo si conserva l’antico Stemma Comunale.
Il Museo Civico è allestito nell’ex Convento dei Padri Agostiniani, la
cinquecentesca chiesa di Santa Maria della Sughera, in largo XV marzo
1799. L’origine della collezione si deve ad Ottorino Morra, direttore
dell’Istituto di Studi Romani, che nel 1950 ha costituito un Circolo di
Cultura per valorizzare il patrimonio storico e culturale dell’area. I materiali
più antichi esposti nelle sale risalgono all’Età del bronzo (XIII-XII
sec. a.C.) e all’Età del ferro (VIII sec. a.C.). Molto interessanti i reperti
provenienti dalle necropoli etrusche del tolfetano. Il museo fa parte del
sistema museale territoriale Cerite-Tolfetano.
Il complesso delle necropoli comprende la necropoli del Ferrone, con
la Tomba dei Troni, la necropoli della Conserva, con tombe risalenti al
VII secolo a.C., la necropoli di Pian de’ Santi, che ha restituito interessanti
ceramiche attiche. Sul territorio della Tolfa, sono stati rinvenuti
resti di antichi santuari risalenti al III secolo, come il Tempio Etrusco di
Grasceta dei Cavallari, la necropoli di Poggio San Pietro, nella media
valle del Mignone, nei pressi della quale sono state individuate tracce di
un abitato etrusco e di un insediamento romano.

L’Ambiente
Il territorio dell’auspicato Parco naturale della Tolfa che si estende
tra il Tirreno e i monti Sabatini, ospita una flora tipicamente mediterranea
molto varia, (mirto, alloro, sughero e pero selvatico) e una ricca presenza
faunistica che, oltre agli altri animali normalmente presenti un po’
su tutta l’area della Tolfa, annovera la lontra, il gatto selvatico, la donnola
e la martora. Come per Allumiere, anche qui l’ambiente è sapientemente
custodito e garantito dal grande equilibrio tra l’opera dell’uomo
(oliveti, vigneti, coltivi e pascoli) e il divenire della natura, che sui monti
della Tolfa ha mantenuto una plurisecolare integrità.
Feste e Sagre
Gennaio, 6: festa della ‘Befana a cavallo’; molto seguito il corteo notturno
di butteri e amazzoni a cavallo.
17: Sant’Antonio Abate. La festa, organizzata dalla locale Università
Agraria e dalla Società di Sant’Antonio, si conclude con la processione
e la benedizione degli animali. Dopo la Processione di Sant’Antonio,
come per quella di Sant’Egidio, si assiste all’innalzamento dei Globi
Aerostatici.
Marzo, 19: festa di San Giuseppe. Mostra mercato dell’artigianato locale.
Segue la tradizionale corsa di cavalli.
Venerdì Santo: la più importante processione è quella del Venerdì
Santo, alla quale prendono parte più di 300 figuranti (flagellanti scalzi,
incappucciati e con pesanti catene), che fanno rivivere le varie fasi della
Passione e della Crocifissione di Cristo.
Luglio, (prima metà): festa del tartufo e dei prodotti tipici locali.
Stand gastronomici, Mostra dell’artigianato e festa degli antichi mestieri.
Agosto, (prima metà): ‘Torneo dei Butteri’ con Sfilata storica.
Seconda metà: festa della Madonna della Sughera. Corteo in costume
d’epoca.
Settembre, (prima settimana): festa Patronale con la processione di
Sant’Egidio. La parte laica dei festeggiamenti prevede una corsa di cavalli,
e innalzamento in cielo dei ‘palloni di Sant’Egidio’.
311

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Piatti tipici
Frittata d’Abboiele (tamari): si tratta di una frittata realizzata con le
cime fresche dei Tamari, piante selvaticche che nascono spontanee nei
sottoboschi di querce. Sbollentati i Tamari e ripassati in padella con
aglio e olio e sale, si versano nelle uova battute seguendo il normale iter
di una frittata con le erbe.
Panonto: piatto invernale, da consumare davanti al fuoco vivo di un
camino dove lo spiedo carico di salsicce bianche e di fegato, pancetta
fresca, fette di guanciale e altra carne di maiale lasciano cadere il grasso
di cottura su fette di pane di grano duro. Da qui il nome ‘panonto’ per
pane unto. Una prelibatezza a prova di colesterolo.
Da Roma
Auto: percorrere la Statale Aurelia oppure la A12 Roma - Civitavecchia
fino allo svincolo/uscita Sanata Marinella quindi prendere la provinciale
per Tolfa.
Autobus: linee Cotral in direzione Civitavecchia-Tolfa:
www.cotralspa.it.
Treno: linea Roma-Civitavecchia. Scendere alla stazione di
Civitavecchia. Da qui proseguire in autobus fino a Tolfa.
Connettiti al wifi gratuito
di Tolfa
Municipio
P.zza Vittorio Veneto, 12
Giardini pubblici
P.zza Vittorio Veneto, 12
I link
http://www.comuneditolfa.it/
http://digilander.libero.it/museotolfa/
http://www.provincia.roma.it/

Campanile nel centro storico
313

314
Torrita
Tiberina>>>>>
Torrita Tiberina: Porta Nuova

La storia
Nel timbro a secco (a ‘ostia’ direbbero gli studiosi di sfragistica),
stampigliato su un documento datato ‘Torrita 17 aprile 1717’, figurano,
racchiusi in uno scudo ovale, un torrione, delle mura con la porta
cittadina e il fluire delle prospicienti acque del Tevere. Ieri come oggi la
quintessenza di Torrita, importante centro strategico della Valle
Tiberina, del quale si hanno notizie certe dall’anno 747 quando
Carlomanno, figlio di Carlo Martello e fratello di Pipino il Breve, convertito
al monachesimo da Papa Zaccaria, per riconoscenza e costume
fa dono di un terreno a favore dei nuovi confratelli, i Benedettini del
monastero di Sant’Andrea in Flumine.
Nel medioevo la storia di Torrita (che diventerà Tiberina soltanto sul
finire del 1800), è indissolubilmente legata alla famiglia Savelli sotto la
cui Signoria viene edificato il castello. I Savelli, antica e potente famiglia
romana, vanta diversi Papi, tra loro papa Onorio III al quale si deve la
storica bolla ‘Solet annuere’ con la quale veniva definitivamente approvata
la regola di San Francesco di Assisi. Proprio dal nipote di Onorio
III, Luca Savelli, senatore di Roma, inizia la vera fortuna della famiglia.
Morto lo zio pontefice, Luca entra in contrasto con il pontefice successore,
Gregorio IX, e passa tra le file dell’imperatore Federico II.
L’interesse dei Savelli per Torrita Tiberina si materializza nel 1285 quando
Giacomo Savelli, figlio di Luca e nipote di Papa Onorio III, sale al
soglio di Pietro con il nome di Onorio IV. Due Papi in una generazione
garantiscono al casato altri beni, tra questi, vari ampi possedimenti a
Roma e nel Lazio. Torrita è parte dei beni lasciati da Onorio IV al fratello
Pandolfo e al nipote Luca che porta lo stesso nome del padre del
Papa. Il testamento è inutilmente contestato dai Benedettini di
Sant’Andrea in Flumine in quanto li priva di una larga porzione di terre
assegnate in passato all’Abbazia.
Appianato il dissidio con i monaci, i feudatari danno impulso alla fortificazione
del borgo munendo il castello di una nuova cinta muraria e di
due torri circolari. Quando tutto sembra volgere per il meglio, i Savelli
di Torrita cadono vittime di una lenta progressiva decadenza che li
costringe a vendere il feudo di Torrita agli Orsini i quali lo tengono per
circa due secoli, quando, nel 1586, l’Abate di Fossanova Valerio Orsini,
per fare cassa, a sua volta lo vende a Tommaso Melchiorri dei Marchesi
di Recanati. Si devono ai cospicui interventi di queste due ultime
Signorie, le forme attuali della fortezza. I marchesi di Recanati, nel 1819,
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316
vendono a loro volta il feudo di Torrita alla principessa Cristina di
Sassonia la quale lo mantiene per una trentina di anni durante i quali
opera il restauro del Palazzo Baronale e poi, nel 1853, lo cede al principe
Alessandro Torlonia.
Un’interessante monografia, ‘Torrita Tiberina, storia, monumenti, territorio’,
curata da Anna Maria Ramieri per il Comune di Torrita, fornisce dati e
documenti di fondamentale importanza per un’approfondita analisi storica
del territorio. Tra le tante carte riprodotte e commentate dall’autrice,
ne citiamo una, curiosa testimonianza di quei tempi di confusi ideali
che segnano l’avvento della Repubblica Romana. Prevenendo di qualche
anno il periodo napoleonico il verbale del primo consiglio comunale
di Torrita, scimmiottando il motto francese ‘Libertè, Egalitè,
Fraternitè’, si apre con un ambiguo ‘Libertà, Religione, Uguaglianza’
proseguendo poi con un contenuto altrettanto ‘cerchiobottista’: ‘… è
piaciuto all’eterno Dio di cambiare sopra di noi il Governo di Monarchia, quale era
quello che noi avevamo dei Pontefici… si è degnato di costituirsi in quello di
Repubblica; e siccome il sullodato Dio per effettuare questa Suprema sua
Disposizione ha voluto prevalersi delle Virtù e Potenza dell’Armata Francese (…)
perciò noi come sudditi dobbiamo attendere ed osservare quanto dall’Armata
Francese e dalla Suprema Repubblica Romana come nostra rispettabilissima
Sovrana ci viene proposto e ordinato…’.
Nel successivo verbale del 16 marzo, con la stessa prosa, tanto ornata
quanto ambigua, si da notizia dell’avvenuto innalzamento dell’Albero
della Libertà, dell’adozione della bandiera della Repubblica Romana,
‘bianca, rossa e negra’, della soppressione dell’autorità del passato
Governo, della nomina della nuova classe dirigente che si è dato il ‘Popolo
sovrano (…) con avere in se riassunto ogni potere da esercitarsi per mezzo dei suoi
rappresentanti su gli infrascritti Diritti dell’Omo fondati sui principij di Libertà, ed
Uguaglianza. Salva pertanto la nostra Cattolica Religione’. Con buona pace
della ‘Fraternità’. Il rivoluzionario motto ‘Libertè, Egalitè, Fraternitè’,
diventa obbligatorio nel 1809, durante l’occupazione napoleonica, quando
anche il sindaco di Torrita diventa ‘Maire’. Con l’occasione, molto
probabilmente viene riabilitato anche l’audace rappresentante della
Repubblica Romana che nel corso del consiglio del 1798, ha osato definire
il passato Governo Pontificio ‘veramente insoffribile’ e per questa
ragione è stato escluso da tutte le cariche pubbliche. Purtroppo per lui
l’occupazione napoleonica si esaurisce nel 1814, anno in cui torna in
auge il Governo Pontificio i cui rappresentanti, tra i tanti difetti, hanno
il pregio di avere buona memoria e ottimi informatori.

La facciata del Palazzo Baronale
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Dalla seconda metà del secolo scorso, Torrita Tiberina diventa centro di
vacanza per molte famiglie della capitale, tra queste, tra le più illustri, la
famiglia di Aldo Moro, lo statista barbaramente trucidato dalle Brigate
Rosse che per sua volontà testamentaria ha chiesto è ottenuto di essere
sepolto nel cimitero della cittadina. La sua tomba è diventata meta di
pellegrinaggio di amici, estimatori politici e semplici cittadini.
Da vedere
Ville romane. In località ‘Celli’, poco distante dal corso del Tevere, si
possono vedere i resti di una villa tardo-repubblicana. Di più marcato
interesse, i resti di un muro ritenuto parte della Villa di Agrippina,
madre di Nerone; per questo in zona è conosciuta come ‘Piscina di
Nerone’.
Santa Maria del Monte, costruita nella parte più alta del colle, a dominio
della valle del Tevere, di origini medievali, ottimamente restaurata
conserva una serie di interessanti affreschi, particolarmente belli quelli
della Cappella Trasi con San Rocco e gli appestati e un martirio di San
Sebastiano di pregevole fattura.
San Tommaso Apostolo. La chiesa Parrocchiale ha conosciuto un
radicale restauro con il rifacimento della facciata che ha alterato, irrimediabilmente,
le sue originali forme. Il meglio della chiesa, infatti, è rappresentato
dalle possenti mura esterne, glabre e corposamente antiche,
con tanto di torrione cilindrico inglobato, sfuggite alla deleteria opera
del Genio Civile nel pieno del ventennio fascista. Al suo interno qualche
bella tela ben restaurata ma d’incerta paternità. Molto belli l’affresco
della ‘Circoncisione di Gesù’ e il Tabernacolo del XV secolo. Tre elementi
di spoglio, due capitelli corinzi, contrapposti, e un frammento di
colonna, probabilmente d’epoca romana, compongono il Fonte
Battesimale.
L’ambiente
Riserva Naturale Tevere-Farfa. Settecento ettari di territorio protetto,
a disposizione di visitatori e naturalisti. La riserva, unica nel suo
genere, si sviluppa lungo il basso corso del Tevere e comprende sentieri
natura, capanni attrezzati per l’osservazione della fauna che colonizza

le sponde del fiume, un centro visita con il Museo del Fiume e il Museo
della notte, che insieme svolgono un eccellente opera didattica sull’ecosistema
della zona. Per le escursioni sul fiume sono disponibili due battelli,’l’Airone’
e ‘Il Martin pescatore’.
Feste e sagre
Gennaio: la Pasquarella (manifestazione con spettacoli musicali).
Il 17: Festa di Sant’Antonio Abate. Tradizionale benedizione degli animali.
Aprile-Maggio: Corpus Domini con Infiorata.
Maggio: Primo maggio in piazza. Festa popolare con degustazione di
fave, pecorino e prodotti locali.
Agosto:15-16: festa Patronale di San Rocco.
28: festa di Sant’Agostino.
Ultimo sabato del mese: ‘Festa dell’Olmo’.
Settembre (seconda domenica del mese): ‘Fiera del Ponte’, mostramercato
di merci e bestiame.
Dicembre (domenica più vicina al 21): festa Patronale di San
Tommaso Apostolo.
Piatti tipici
Fettuccine agli asparagi. Fettuccine all’uovo fatte in casa condite con
i prelibati asparagi selvatici delle radure dei boschi di Torrita Tiberina.
Fallone. Calzone ripieno di cicoria e bietola. Al Fallone Torrita riserva
una seguitissima Sagra.
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Da Roma
Auto: A1 in direzione Firenze; si viaggia in Autostrada sino all’uscita del
casello di Roma Nord-Fiano Romano e si prosegue in direzione
Nazzano e Torrita Tiberina.
Autobus: servizio Cotral. (tel. 06/3328331): www.cotralspa.it.
Treno: Roma-Orte fino alla Stazione di Poggio Mirteto Scalo. Poi bus
navetta per Torrita Tiberina.
Connettiti al wifi gratuito
di Torrita Tiberina
Municipio
Largo 16 Marzo 1978, 9
I link
http://www.comune.torritatiberina.rm.it/
http://www.teverefarfa.it/docebo
Cms/
http://www.prolocotorritatiberina.it/
http://www.valletiberina.it/
http://www.provincia.roma.it/

San Rocco e gli affreschi
della chiesa di Santa Maria del Monte
321

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Il Belvedere di Gorga

Gli autori
Vittorio Emiliani, ha cominciato collaborando a Comunità, Il Mondo,
L’Espresso, inviato del Giorno e del Messaggero, l’ha poi diretto per
sette anni. Ha pubblicato una ventina di libri e curato cinque Libri
Bianchi su beni culturali e paesaggio per il TCI. Con Pino Coscetta Mille
borghi, Cento città, un Paese, sull’Italia delle origini (Minerva). Per
Raidue ha realizzato col regista Leandro Castellani una grande inchiesta
televisiva sui beni culturali Le mille e una Italia.
Pino Coscetta, giornalista, entrato al Messaggero a 22 anni, ha concluso
la sua carriera lavorativa con la qualifica di Redattore capo centrale.
Come scrittore ha iniziato con Scirocco, raccolta di racconti giovanili,
proseguendo poi con saggistica, libri di storia locale e viaggi: tra questi
Il Messaggero durante la repubblica di Salò, Gabrielli Editore, numerose
guide ragionate per la De Agostini. Insieme ad altri autori ha collaborato
alla stesura di due volumi strenna, Abruzzo e Lazio, per Editalia. Nel
2007, con Vittorio Emiliani e Mario Sanfilippo, ha scritto il libro bianco
sulle origini dell’Italia Mille borghi, cento città, un Paese Minerva
Editrice.
Filippo Coscetta, fotografo freelance e giornalista, laureato in Scienze
della Comunicazione, ha collaborato con diverse testate nazionali e
locali: Il Corriere della Sera, La Gazzetta dello Sport, Metro, Terzo
Occhio, La Piazza. Nel 2009 ha realizzato un ampio fotoreportage per
un libro edito della Regione Lazio sull’Agro romano, “Il riscatto
dell’Agro/ L’agricoltura a difesa del paesaggio”. Nel 2008 ha realizzato
alcune foto denuncia sull’inquinamento visivo per il volume “La vista
offesa / Inquinamento visivo e qualità della vita in Italia” a cura di Paolo
Rognini. Nel 2005 ha lavorato come fotografo per l’Azienda Speciale
Palaexpo realizzando dei fotoreportage sui tre giorni d’inaugurazione
del Palazzo dell’Esposizione di Roma. Per due anni ha collaborato come
fotografo per il magazine d’arte e cultura Terzo Occhio.
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IL PROGETTO
Il Convegno
Nei borghi antichi la storia è vita
L’e-book
Sul sito della Provincia: la parola, le immagini
La mostra fotografica
Trenta centri in mostra
La campagna radiofonica
Le interviste in onda
Il catalogo della mostra fotografica
150 scatti on line sul sito della Provincia
La degustazione
I sapori della provincia nella Sala della Pace
photos Filippo Coscetta © All rights reserved

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