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una perdita che ha colpito un intero paese a pag.2 ,3 e 6 i ricordi ...

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n. 70 Giugno 2008 pag.7<br />

In <strong>un</strong> mio precedente articolo, apparso tempo fa su l'Olmo,<br />

dal titolo "An<strong>che</strong> nel Sinus Laos si parlò poi in latino", ho<br />

avuto modo di evidenziare la questione della lingua parlata<br />

nel Sinus intorno al I-II sec. d.C., segnalando in particolare<br />

l'importante circostanza del diffondersi prima e dello stabilizzarsi<br />

poi - sul nostro territorio - del latino, <strong>che</strong> mutò successivamente<br />

in volgare. E piuttosto interessante appare -<br />

proprio in relazione al dialetto da noi parlato, an<strong>che</strong> se con<br />

differenze e sfumature locali più o meno accentuate nei vari<br />

centri urbani e nelle contrade del Sinus - la questione della<br />

com<strong>un</strong>e radice linguistica da cui questo dialetto, attraverso<br />

la corruzione del latino, prese forza, totalizzando profondamente<br />

tutto l'idioma locale, dalla pron<strong>un</strong>cia al vocabolario,<br />

dalle regole grammaticali (mai scritte, ma di fatto sistematicamente<br />

impiegate) alle espressioni idiomati<strong>che</strong> tipi<strong>che</strong> del<br />

luogo, da <strong><strong>un</strong>a</strong> sorta di sintassi spontaneamente consolidatasi<br />

fino all'affermarsi di <strong><strong>un</strong>a</strong> regola - mai violata se non in<br />

qual<strong>che</strong> eccezione - <strong>che</strong> <strong>ha</strong> sempre voluto nella realtà <strong><strong>un</strong>a</strong><br />

lingua parlata attraverso l'impiego del minor numero di sillabe<br />

possibili, forse per non stancarsi troppo, per risparmiare<br />

fiato (non è <strong><strong>un</strong>a</strong> battuta). Ma, per meglio comprendere tale<br />

interessante e sorprendente evoluzione, è opport<strong>un</strong>o fare<br />

qual<strong>che</strong> utile riflessione storica atta a farci capire in <strong>che</strong><br />

modo sia mutata nel Sinus la lingua latina durante quei<br />

pochi, ma determinanti, secoli <strong>che</strong> - fra i fasti degli albori<br />

imperiali, l'imprevisto irrompere ed affermarsi del<br />

Cristianesimo (nonostante le massacranti persecuzioni<br />

perpetrate contro di esso per quasi tre secoli), le inarrestabili<br />

trasformazioni culturali, le corruzioni della lingua e del<br />

costume, lo sp<strong>un</strong>tare successivo della variabile barbarica<br />

ed il declino finale - vanno più o meno dalla nascita alla<br />

caduta dell'impero romano. Particolarmente interessante<br />

appare in proposito il naturale formarsi, a partire dall'epoca<br />

augustea e fino a tutto il basso impero, di <strong><strong>un</strong>a</strong> sorta di vasta<br />

area "intermetropolitana" dell'Italia meridionale, la quale<br />

f<strong>un</strong>geva (a grande scala) da ponte territoriale particolarmente<br />

adatto all'organizzazione dei contatti e delle relazioni<br />

economi<strong>che</strong> e commerciali intessute all'epoca non solo<br />

internamente fra la vicinissima Roma e la Sicilia, quanto<br />

soprattutto esternamente fra Roma e le più lontane province<br />

orientali, fra cui in particolare tutta quell'area geografica<br />

grosso modo coincidente (se si trascurano, senza commettere<br />

grossi errori, le variazioni da essa subite nel corso di tre<br />

o quattro secoli) con i territori imperiali della Macedonia<br />

(l'attuale Albania, Sud dell'ex Iugoslavia e Centro-Nord della<br />

Grecia), della Ac<strong>ha</strong>ia (zona del Peloponneso), della Thracia<br />

(attuale Bulgaria), della Moesia (sita immediatamente a<br />

nord della Thracia) e - a partire dalla conquista di Traiano<br />

del 106 - an<strong>che</strong> della Dacia (l'odierna Romania). Parlo in<br />

sostanza di quel vasto territorio interregionale sito a sudsud/est<br />

di Roma <strong>che</strong> in periodo augusteo era grosso modo<br />

identificabile con l'insieme della Regio I (Latium e Campania),<br />

di parte della Regio IV (Sud del Samnium), della Regio II<br />

(Apulia ed antica Calabria) e della Regio III (Lucania e<br />

Bruttium). Era in realtà, questa, <strong><strong>un</strong>a</strong> vasta area interessata<br />

dallo stanziamento e movimento al suo interno di truppe<br />

militari e soprattutto da scambi commerciali (fra i suoi stessi<br />

centri urbani) legati fondamentalmente alla forte produzione<br />

autoctona di vino e di olio. Ma v'è di più, perché, proprio<br />

utilizzando questa area del territorio italico, si potevano<br />

agevolmente e rapidamente an<strong>che</strong> spostare truppe militari<br />

o scambiare merci verso e dalla Sicilia nonché verso e dalle<br />

province d'oriente. E proprio per raggi<strong>un</strong>gere queste lontane<br />

province (o tornare da esse) venivano infatti utilizzati o i<br />

trasporti via mare (con imbarchi di uomini e di merci da o<br />

verso i porti dell'Italia meridionale) oppure, in alternativa,<br />

quelli via terra (con l'attraversamento solo di <strong>un</strong> breve tratto<br />

di mare), utilizzando dapprima la Via Traiana, <strong>che</strong> da Capua<br />

si snodava fino alla costa adriatica dell'Apulia in prossimità<br />

della cittadina di Egnatia, e successivamente la cosiddetta<br />

"Via Egnatia", la quale, iniziante via mare a partire proprio<br />

da questa cittadina (da cui prendeva il nome), proseguiva<br />

successivamente (dopo l'attraversamento su navi del<br />

Canale d'Otranto) via terra per circa 1500 Km, tagliando da<br />

ovest ad est - a partire dalla costa macedone (attuale<br />

Albania) posta proprio di fronte ad Egnatia - l'<strong>intero</strong> territorio<br />

della Macedonia, per poi attraversare la Thracia fino a<br />

Bisanzio e quindi spingersi, più oltre, nella Moesia fino ai<br />

confini con la Dacia proprio in corrispondenza delle Boc<strong>che</strong><br />

del Danubio sul Ponto Eusino (odierno Mar Nero). Sicché,<br />

volendo evitare specialmente in periodi di cattivo tempo le<br />

pericolose e l<strong>un</strong>ghe rotte marittime, era possibile - seguendo<br />

questa strada - raggi<strong>un</strong>gere con relativa rapidità (pur se<br />

a velocità inferiore e con carichi piuttosto ridotti rispetto al<br />

trasporto marittimo) an<strong>che</strong> le suddette province d'oriente<br />

l'antico dialetto latino del sinus laos<br />

di Pietro Cirone<br />

non solo per scopi militari quanto an<strong>che</strong> per il mantenimento<br />

delle relazioni economi<strong>che</strong> e commerciali. La suddetta<br />

area del Sud-Italia era perciò <strong><strong>un</strong>a</strong> specie di immensa base<br />

territoriale e marittima per le relazioni <strong>che</strong> Roma manteneva<br />

da <strong><strong>un</strong>a</strong> parte con la Sicilia (la quale produceva abbondantemente<br />

frutta e zolfo) e dall'altra con le suddette province<br />

orientali, la cui economia era fondamentalmente basata<br />

sulla produzione di canapa, miele, noci, piombo e sale oltre<br />

<strong>che</strong> sugli allevamenti di bestiame e - cosa alquanto allettante<br />

sia per i coloni civili <strong>che</strong> per quelli militari - sullo sfruttamento<br />

delle ric<strong>che</strong> miniere d'oro della Transilvania nel territorio<br />

della Dacia. E tutto ciò nel nostro discorso andava<br />

detto perché, almeno fino alla crisi in cui finì per precipitare<br />

l'impero romano nella seconda metà del III secolo (crisi non<br />

solo politica, demografica e militare, quanto soprattutto<br />

economica), questo grande movimento di uomini e di cose<br />

(durato oltre due secoli) fra quelle regioni dell'Italia meridionale<br />

e le predette province d'oriente fu la causa prima della<br />

romanizzazione di tutti quei territori balcanici. Anzi di particolare<br />

interesse, per quel <strong>che</strong> diremo, è proprio il suddetto<br />

territorio della Dacia, il quale si estendeva quasi tutto a nord<br />

di quel confine naturale <strong>che</strong> i Romani identificavano propriamente<br />

col "Danaos fluvius", ovvero col "fiume dei Greci" [da<br />

cui derivò il nome corrotto e contratto di Dan(aos)-(flu)vius,<br />

diventato quindi Danuvius o an<strong>che</strong> Danubius], a sud del<br />

quale essi facevano iniziare i territori di marcata influenza<br />

greca, cioè gli attuali Balcani. Grosso modo la parte di<br />

Danubio interessata era quella compresa fra le ultime propaggini<br />

delle Alpi Transilvane (cioè i Carpazi Meridionali, siti<br />

<strong>un</strong> po' più a nord delle strette gole montane delle "Porte di<br />

ferro") e le attuali "Boc<strong>che</strong>" di foce site sul Mar Nero, di<br />

fronte alla Crimea. Così, in quell'enorme andirivieni per<br />

mare e per terra, il suddetto territorio della Dacia (il quale in<br />

parte si affacciava a sud sul Ponto Eusino e in gran parte<br />

della sua estensione era invece delimitato proprio dal tratto<br />

finale del Danubio) fu oggetto di particolare interesse (per i<br />

motivi sopra accennati) da parte di tantissimi coloni romani<br />

provenienti, oltre <strong>che</strong> dall'Italia meridionale, an<strong>che</strong> da tanti<br />

altri territori dell'impero. E furono proprio essi <strong>che</strong> - dopo la<br />

conquista della Dacia da parte di Traiano - diffusero lì per<br />

oltre duecento anni le loro abitudini, la loro lingua, i loro<br />

costumi, la loro cultura, innescando di fatto la nascita e lo<br />

sviluppo della civiltà "romena", così come la stessa lingua di<br />

Romania ben evidenzia ancora oggi con i suoi molteplici<br />

connotati di chiara origine latina. E, rimanendo proprio sulla<br />

questione della lingua, particolarmente interessante si rivela<br />

poi, per quel <strong>che</strong> direttamente ci riguarda, la presenza nell'attuale<br />

idioma romeno di <strong><strong>un</strong>a</strong> gran quantità di vocaboli e di<br />

espressioni <strong>che</strong> ricalcano in modo sorprendente la "lingua"<br />

<strong>che</strong>, pur attraverso le tante sfumature e diversità dei dialetti<br />

locali, costituisce di fatto l'idioma tipico dell'Italia meridionale<br />

di oggi. E' facile poi an<strong>che</strong> notare come questo confronto,<br />

specialmente per pron<strong>un</strong>cia ed espressioni idiomati<strong>che</strong>,<br />

diventi particolarmente interessante se si va a restringere<br />

l'osservazione addirittura al dialetto attualmente parlato<br />

nella Calabria settentrionale tirrenica. Tenendo presente<br />

contemporaneamente i fatti storici sopra ricordati ed il fatto<br />

<strong>che</strong> le due aree - la Romania da <strong><strong>un</strong>a</strong> parte e la Calabria<br />

dall'altra - non <strong>ha</strong>nno conosciuto in diciassette secoli corruzioni<br />

linguisti<strong>che</strong> fra loro correlate, ne deriva anzi - come<br />

vedremo - <strong>che</strong> la forte somiglianza dei rispettivi idiomi riveste<br />

<strong>un</strong> interessantissimo significato storico/linguistico. V'è<br />

intanto da osservare <strong>che</strong> entrambe le suddette aree territoriali<br />

<strong>ha</strong>nno subìto la loro profonda romanizzazione più o<br />

meno nello stesso periodo storico (I-III sec.) e <strong>che</strong>, guarda<br />

caso, entrambe <strong>ha</strong>nno poi maturato trasformazioni linguisti<strong>che</strong><br />

- rispetto alla lingua latina parlata dai coloni romani - in<br />

modo piuttosto autonomo rispetto al territorio limitrofo, trovandosi<br />

entrambe in <strong><strong>un</strong>a</strong> particolare posizione geografica<br />

piuttosto "protetta" rispetto alle possibili influenze linguisti<strong>che</strong><br />

delle aree circostanti. Insomma è come se i suddetti<br />

due territori si fossero comportati - per così dire - come <strong><strong>un</strong>a</strong><br />

specie di "frigoriferi linguistici" rispetto all'idioma latino <strong>che</strong><br />

in essi correntemente si parlava in quel periodo, conservandone<br />

nel tempo vocaboli, espressioni, locuzioni e pron<strong>un</strong>cia.<br />

Ed è proprio grazie a queste profonde inalterate analogie<br />

linguisti<strong>che</strong> <strong>che</strong> è oggi possibile abbozzare grosso modo<br />

<strong>un</strong> quadro sufficientemente indicativo di quel com<strong>un</strong>e idioma<br />

latino (diverso dal latino classico) parlato <strong><strong>un</strong>a</strong> ventina di<br />

secoli addietro in quelle due terre. Scendendo infatti nei<br />

dettagli, si scoprono in proposito sorprendenti somiglianze<br />

- di chiara radice latina - fra l'attuale lingua romena ed il<br />

dialetto parlato oggi nei territori dell'antico Sinus Laos. Ad<br />

esempio si scopre <strong>che</strong> chi "si ammoglia" - e <strong>che</strong> da noi<br />

notoriamente "s' 'nsura" - an<strong>che</strong> in Romania (incredibile<br />

a dirsi) "se insura", derivando, entrambi le voci verbali, dal<br />

latino "se in soror", cioè "(andar)sene verso <strong><strong>un</strong>a</strong> donna", dal<br />

momento <strong>che</strong> nel latino parlato nei primi secoli dell'era cristiana<br />

"soror" significava, oltre <strong>che</strong> "sorella", più in generale<br />

"donna, amica". E proprio così si diceva nella lingua parlata<br />

nel meridione d'Italia duemila anni fa, nonostante <strong>che</strong> a<br />

Roma - nella lingua latina classica - si usassero notoriamente<br />

tutt'altre espressioni (<strong>che</strong> non è qui il caso ricordare).<br />

Oppure, ancora, il vocabolo "monco" (non solo nel senso di<br />

mancante di <strong>un</strong> arto quanto an<strong>che</strong> e soprattutto nel senso<br />

di storpio o di salute malfermo) si dice sia in Romania <strong>che</strong><br />

da noi - e con uguale stretta pron<strong>un</strong>cia - "ci<strong>un</strong>g" (!), derivante<br />

a sua volta dall'originario vocabolo latino "tr<strong>un</strong>cus"<br />

(monco) poi trasformatosi foneticamente (app<strong>un</strong>to in<br />

"ci<strong>un</strong>g") per rotacismo inverso di "tru" in "ciu" e caduta della<br />

desinenza finale "us" (quest'ultima circostanza linguistica in<br />

ossequio alla predetta ferrea regola dialettale di drastica<br />

riduzione del numero di sillabe). E così lo storpio (o l'acciaccato),<br />

<strong>che</strong> in latino veniva detto "corpore deformatus",<br />

"mebris captus","mancus", "mutilus" ed an<strong>che</strong> "debilis", nel<br />

nostro dialetto di venti secoli fa si diceva brevemente<br />

"ci<strong>un</strong>g". Fra i tantissimi esempi adducibili alquanto interessante<br />

mi sembra poi l'altra sovrapposizione linguistica, fra i<br />

due idiomi, <strong>che</strong>, esprimendo l'azione del "camminare, passeggiare",<br />

in romeno fa "pasì" e nel nostro dialetto "passià",<br />

entrami derivanti (per contrazione) dall'espressione dialettale<br />

latina "passu ire" ("andare a piedi"). Altro <strong>che</strong> gli asettici<br />

verbi "ire" e "deambulare" allora usati a Roma! Curioso ed<br />

interessante è poi il verbo romeno "muia" (inzuppare,<br />

ammollare) cui corrisponde sorprendentemente nel dialetto<br />

parlato nelle zone interne della Calabria settentrionale il<br />

verbo "mujjhia" (bagnare), entrambi derivanti dal latino<br />

"mugilis" (usato col significato traslato di "bagnato, ammollato"<br />

nel latino parlato di allora per evidente associazione<br />

col significato proprio di "muggine, pesce"). E <strong>che</strong> dire poi<br />

del nostro tipico piatto locale della "pasta e fagioli" (in dialetto<br />

"past e fasul") <strong>che</strong> an<strong>che</strong> in Romania fa (perfino nelle<br />

sfumature di pron<strong>un</strong>cia) ugualmente "pàsta fasole" (dal<br />

latino "pastus" e "p<strong>ha</strong>selus"). Per restare poi proprio alle<br />

sfumature di pron<strong>un</strong>cia, interessante è - ad esempio - la<br />

perfetta identità linguistica del vocabolo "sapone" <strong>che</strong>, in<br />

derivazione dal latino "sapo, saponis", fa in entrambe i<br />

due idiomi "sapùn" (con la u molto stretta). E parimenti<br />

interessante si presenta il caso del verbo romeno "aranjà"<br />

(sistemare, addobbare, aggiustare) pienamente corrispondente<br />

- per composizione ortografica, pron<strong>un</strong>cia e significato<br />

- al nostro "arranjà", entrambi derivanti dal latino "ad<br />

agere" (adattare, disporre, ordinare). Piuttosto simpatica mi<br />

sembra poi la circostanza <strong>che</strong> la sorte, la fort<strong><strong>un</strong>a</strong>, si indichino<br />

notoriamente nel nostro più vero dialetto con l'espressione<br />

(quasi idiomatica) "a sciorta", alquanto simile a<br />

quella romena ("soarta"), entrambi derivanti dal latino<br />

"sors" (sorte, destino). Ancora, la nostra famosa espressione<br />

dialettale di rimanere "all'urma", indicante la circostanza<br />

di restare fuori da <strong><strong>un</strong>a</strong> certa situazione, trova piena<br />

corrispondenza linguistica nel vocabolo romeno "urma" <strong>che</strong><br />

significa "avanzo", "alla fine", entrambi derivanti dall'antica<br />

espressione latina "in umbra" (<strong>che</strong> significando propriamente<br />

"in solitudine", "in disparte", ben rendeva per<br />

traslazione an<strong>che</strong> quel significato). Per la verità le tracce di<br />

quell'antico dialetto latino parlato intorno al I-III secolo nell'Italia<br />

meridionale (e quindi dai coloni romani <strong>che</strong> per circa<br />

duecentocinquanta anni frequentarono la Dacia) sono<br />

parecchie, sia nell'attuale dialetto del Sinus sia nell'odierna<br />

terra di Romania. Tantissimi sarebbero ancora gli esempi :<br />

alc<strong>un</strong>i val la pena di citarli ancora. Si pensi, ad esempio, al<br />

verbo "uscire" <strong>che</strong> qui da noi fa notoriamente "jesc' " ed<br />

in lingua romena "jesi", pron<strong>un</strong>ciati entrambi nella terminazione<br />

finale con lo stesso suono fonetico di "sci" italiano ed<br />

entrambi derivanti dal latino "exeo", con pron<strong>un</strong>cia "ecseo"<br />

poi corrottasi prima in "jecseo" e poi in "jesc' ". Oppure la<br />

preposizione semplice "con" <strong>che</strong> in tutti e due i suddetti<br />

idiomi fa "cu", entrambi derivante dal latino "cum" contrattosi<br />

in quel com<strong>un</strong>e idioma del I-III secolo in "cu" per la<br />

caduta della "m" finale. O invece l'avverbio "come" il quale,<br />

sia nel nostro dialetto <strong>che</strong> in lingua romena, fa "cum' ", in<br />

evidente derivazione contratta dal latino "quomodo", trasformatosi<br />

per via fonetica in "qu(o)m(odo)", cioè "qum"<br />

pron<strong>un</strong>ciato con la "u" l<strong>un</strong>ga e la labiale "m" appena accennata.<br />

Interessante mi sembra poi la trasformazione, in<br />

entrambi gli idiomi, della preposizione latina "supra" (sopra)<br />

<strong>che</strong> in Romeno fa "asupra" e nel nostro dialetto "assupra".<br />

Ancora il vocabolo "rovina" <strong>che</strong> in entrambi gli idiomi fa,<br />

perfettamente alla latina, "ruina". Oppure "fratello" <strong>che</strong> da<br />

noi fa "frat' ed in Romania "frate", entrambi derivanti - per<br />

contrazione - dal latino "frater". Interessante è poi la singolare<br />

vicenda glottologica del vocabolo italiano "baffi, <strong>che</strong> qui<br />

da noi fa in dialetto "mustazz' " ed in Romania "mustati" (con<br />

la sillaba finale "ti" pron<strong>un</strong>ciata "zi" !). Infatti i baffi, mentre<br />

nel latino di Roma venivano genericamente detti "pili", nel<br />

meridione d'Italia venivano invece specificamente detti<br />

"mustacei" (<strong>che</strong> significava propriamente "mastacciuoli" od<br />

an<strong>che</strong> "cosa da poco", "cosa inutile, frivola"). Ed infatti nel<br />

mondo greco/romano la moda di portare i baffi non era<br />

molto diffusa ed apprezzata (perché considerata frivola),<br />

perfino fra la maggior parte di coloro <strong>che</strong> portavano la<br />

barba, come si evince dalla ritrattistica antica. Sorprendente<br />

è poi l'altra espressione idiomatica "mai l<strong>un</strong>g", identica nel<br />

nostro dialetto e nella lingua romena, indicante <strong>un</strong> uomo di<br />

maggiore statura (rispetto alla<br />

ordinaria normalità), derivante<br />

dall'impiego congi<strong>un</strong>to delle<br />

parole latine "maius" ("di più")<br />

e "longus" ("l<strong>un</strong>go"). Cosa,<br />

questa, davvero singolare se si<br />

considera <strong>che</strong> in latino l'uomo<br />

di alta statura si diceva "procerus"<br />

o "magna statura" e quello<br />

di statura enorme "ingentis<br />

staturae homo". Un modo<br />

di parlare quindi, quello di duemila<br />

anni fa (e di oggi) sia nel Sinus <strong>che</strong> in Romania, saldamente<br />

fondato sulla lingua latina, ma da essa distinto.<br />

Ritengo perciò <strong>che</strong>, di fronte ad <strong><strong>un</strong>a</strong> tal convergenza linguistica<br />

fra due idiomi - i quali, per i motivi sopra evidenziati,<br />

sono stati molto probabilmente entrambi protetti (seppur fra<br />

le inevitabili trasformazioni interne) da significative corruzioni<br />

linguisti<strong>che</strong> rispetto a quello stesso dialetto latino originariamente<br />

parlato in entrambi i rispettivi territori di pertinenza<br />

-, sia legittimo e ragionevole pensare <strong>che</strong> nel nostro Sinus,<br />

così come nell'antico territorio romeno della Dacia, si parlasse<br />

allora <strong><strong>un</strong>a</strong> stessa lingua (piuttosto diversa da quella<br />

parlata nell'antica Roma) di cui sono rimasti molteplici echi<br />

nelle lingue oggi parlate nei suddetti due territori. A tal proposito<br />

alquanto sintomatica è an<strong>che</strong> la vicenda linguistica<br />

del vocabolo "lucertola" <strong>che</strong>, mentre in Roma si diceva<br />

"lacerta", "lacertus" od an<strong>che</strong> "certus", nel nostro<br />

dialetto di allora doveva invece dirsi all'incirca "suprimula"<br />

(da "supra rimula", <strong>che</strong> significa "sopra la fessura"), per<br />

associazione all'abitudine delle lucertole di circolare in vicinanza<br />

ed all'interno delle fessure liti<strong>che</strong> e murarie. Da cui<br />

sono poi derivati parallelamente il nostro "suriglia"<br />

("su(p)ri(mu)la") ed il romeno "sopirla" (pron<strong>un</strong>cia : "sciopirla").<br />

Resta perciò a noi l'imprtante compito di salvare e tramandare<br />

il nostro idioma locale, non solo perché vivo<br />

retaggio di quell'antico dialetto, quanto an<strong>che</strong> perché - intriso<br />

com'è qua e là an<strong>che</strong> di tante meravigliose influenze<br />

gre<strong>che</strong> costituisce <strong><strong>un</strong>a</strong> rara preziosità linguistica. Ringrazio<br />

la signora Corina Perianu di Galati per la collaborazione<br />

offertami nelle ricer<strong>che</strong> sulla<br />

lingua romena.<br />

nelle foto reperti ar<strong>che</strong>ologici di laos in<br />

santa Maria del cedro. foto di Marcello oliani

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