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neaux, Luise Rainer, Marianne Koch, Anouk Aimée, Lea Massari,<br />
Lilli Palmer e Lex Baxter. Il soggetto, dello stesso Fellini e di Ennio<br />
Flaiano, era stato sceneggiato dagli autori e da Tullio Pinelli.<br />
«<strong>La</strong> lavorazione durerà circa quattro mesi–aveva annunciato il regista–,<br />
<strong>per</strong>ciò il film non sarà pronto <strong>per</strong> il Festival di Venezia».<br />
(...) Ma <strong>per</strong>ché «<strong>La</strong> <strong>dolce</strong> <strong>vita</strong>»?<br />
Ma <strong>per</strong>ché Fellini intitolò il proprio film <strong>La</strong> <strong>dolce</strong> <strong>vita</strong>? Fu una<br />
sua geniale intuizione? O il titolo, o quanto meno l’idea, gli fu<br />
suggerita da qualcuno? Oppure l’attinse da qualche testo o modo<br />
di dire esistente? Per mezzo secolo nessuno è riuscito a dimostrarne<br />
l’origine. Eppure un’origine c’era, anzi due: una colta, letteraria,<br />
aulica; l’altra giornalistica, casuale, casareccia. Veniamo<br />
alla prima. Fellini era un ammiratore e un appassionato lettore<br />
delle o<strong>per</strong>e del drammaturgo Sem Benelli, che tra i primissimi lavori<br />
teatrali aveva scritto, nel 1909, <strong>La</strong> cena delle beffe, un dramma<br />
destinato a riportare, nei primi decenni del secolo, un grandissimo<br />
successo, tanto che nel 1941 il regista Alessandro Blasetti<br />
ne aveva tratto un film interpretato da Amedeo Nazzari.<br />
Come Blasetti, anche Fellini volle ricordare Sem Benelli. Lo<br />
fece attingendo proprio dalla Cena delle beffe, e precisamente dal<br />
primo atto, il titolo del suo nuovo film. Eccone il testo di Sem Benelli:<br />
«Non so quello ch’abbiate voialtri uomini! Noi vi portiamo<br />
sulle nostre braccia la <strong>dolce</strong> <strong>vita</strong> e voi, sempre distratti, non volete<br />
goderne, se non quando a noi non piace. Ed era così <strong>dolce</strong>, ora,<br />
finire a mensa la serata, e dir cose gioconde e un poco grasse; e<br />
poi, magari, andarsene a godere, girellando; che ci sarà la luna».<br />
Adottate da Fellini, quelle due parole divennero sinonimo di un<br />
sistema e di uno stile di <strong>vita</strong> condotto da un certo mondo cinematografico<br />
e mondano romano-internazionale.<br />
Ma anche senza la pretesa di ascendenze, conoscenze, reminescenze<br />
letterarie e teatrali - prima ancora di Sem Benelli, quella<br />
locuzione fu usata da Pietro Aretino -, le due parole erano apparse,<br />
arricchite da un dettaglio essenziale, alla fine degli anni Cinquanta<br />
sul quotidiano milanese del pomeriggio <strong>La</strong> Notte, come<br />
titolo di una rubrichetta di notizie e pettegolezzi mondano-cinematografici<br />
firmata da Nino Vendetti. Giovane assistente del maturo<br />
attore, giornalista e press agent cinematografico Ettore G.<br />
Mattia che me lo presentò <strong>per</strong>ché me ne servissi come informatore,<br />
Vendetti mi chiese di poter pubblicare su <strong>La</strong> Notte le notizie in<br />
sovranumero che io non riuscivo ad inserire nel Corriere d’Informazione;<br />
acconsentii e nacque così, sul giornale concorrente, una<br />
rubrichetta intitolata «<strong>La</strong> <strong>dolce</strong> <strong>vita</strong> nella capitale». Fellini non<br />
aveva ancora cominciato neppure a «scrivere» il proprio film.<br />
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