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Gabriele Romagnoli<br />
<strong>DomanDa</strong> <strong>Di</strong> <strong>GRazia</strong>
Domanda di grazia<br />
di Gabriele Romagnoli<br />
Collezione Libellule<br />
iSBn 978-88-04-62297-0<br />
© 2013 arnoldo mondadori Editore S.p.a., milano<br />
i edizione marzo 2013
<strong>DomanDa</strong> <strong>Di</strong> <strong>GRazia</strong><br />
Al Presidente della Repubblica italiana
Introduzione<br />
La gentilezza è una forma di vittoria morale.<br />
Condannato all’ergastolo, si erge nei suoi due metri<br />
di altezza, in manette, e fa un inchino alla rappresentante<br />
della pubblica accusa. <strong>Di</strong>ce: «Buonasera,<br />
signora». accenna un sorriso ai pochi amici<br />
presenti e, docile, segue le guardie fuori dall’aula.<br />
Scriverò di quest’uomo, andrea Rossi, commercialista<br />
di Bologna, marito e padre di sei figli, fratello<br />
di Stefano, uno tra i miei più cari amici ai tempi<br />
del liceo, caro amico lui stesso, difensore centrale<br />
nella nostra sventurata squadra di calcio. Racconterò<br />
chi è, almeno per come l’ho conosciuto. Del delitto<br />
per il quale è stato punito. Del processo che ha<br />
avuto. E del nostro terminale incontro in carcere. Ho<br />
deciso di farlo dopo lunga esitazione. Ho rinviato<br />
spesso, nella consapevolezza che scrivendo provo-<br />
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cherò ulteriore sofferenza a molte persone tra cui,<br />
da ultimo, mi includo.<br />
i quattro capitoli che seguono verranno scritti di<br />
getto, senza fare ricorso ad altra documentazione che<br />
la mia memoria e quel che mi sono portato, in una<br />
scatola nera, dai giorni delle udienze processuali.<br />
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Il ragazzo che mangiò tredici pizze<br />
al processo d’appello andrea cambia avvocati seguendo,<br />
e questa è una vera sorpresa, il consiglio del<br />
fratello Stefano. Lo difendono l’ex magistrato Ferdinando<br />
imposimato, noto per essere stato giudice<br />
istruttore nei processi per il rapimento e l’uccisione<br />
di aldo moro e per l’attentato a papa Giovanni<br />
Paolo ii, e un legale toscano di nome Eraldo Stefani.<br />
alla vigilia delle udienze vado a Firenze per conoscerlo.<br />
Resto perplesso, specialmente quando mi<br />
accompagna in uno studio sopra lo studio, dove<br />
esercita la funzione ulteriore di console onorario<br />
del Senegal. Poi, attraversando piazza della Signoria<br />
chiama ogni africano “fratello”. Conversa amabilmente<br />
con notabili in bicicletta. Si ritiene imbattibile<br />
in aula.<br />
Una settimana più tardi, nella sua arringa conclu-<br />
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siva, dopo un lungo preambolo sul suo argomento<br />
preferito, se stesso, arriva finalmente al punto,<br />
alla trovata difensiva con cui intende ribaltare una<br />
sorte processuale che appare segnata. Prende fiato,<br />
si tocca la manica, estrae e cala l’asso. Rincorsa del<br />
fiato, voce: «Signori, andrea Rossi non è un assassino!<br />
È un cretino!».<br />
La giuria smotta.<br />
La cosa difficile a credersi è che l’avvocato Stefani,<br />
inconsapevole, ha ragione. Ha trovato il filo d’oro.<br />
Ha detto la prima verità incontestabile. avrebbe<br />
dovuto costruirci tutto l’appello. avevo implorato<br />
invano uno dei due avvocati di primo grado, il calabrese<br />
e facondo Tommaso Sorrentino, frattanto<br />
deceduto, di chiamarmi a testimoniare, di lasciarmi<br />
spiegare chi è andrea, di domandare una perizia<br />
psichiatrica. non per farlo dichiarare incapace<br />
di intendere e di volere, ma per rendere credibile<br />
quell’universo dai parametri sghembi, quella geometria<br />
antieuclidea con cui ha disegnato le traiettorie<br />
della sua esistenza: rette parallele che si incontrano,<br />
angoli retti diversi fra loro, circonferenze perfette<br />
che rinnegano il pi greco. Chiedetelo a lui. Vi<br />
dirà che non c’è contraddizione, che tutto questo si<br />
tiene. Perché? il suo rapporto con la realtà è quello<br />
di un individuo che non la vive, l’attraversa come<br />
un fastidio. Cambia qualche cifra e i conti tornano.<br />
Bara? neanche per sogno. Siete voi a non aver<br />
capito il procedimento. Voi, i cretini. ammenoché.<br />
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L’avvocato Stefani abbia ragione. al punto da non<br />
aver capito quanto. Da aver impugnato la chiave<br />
che poteva aprire la porta. in appello era troppo tardi.<br />
Toccava a te, Sorrentino, farmi raccontare quel<br />
che sto per raccontare adesso: Pappagone e Cossiga,<br />
tredici pizze e una montagna, ma davvero una<br />
montagna, di tortellini.<br />
Comincio dal fratello, Stefano. anzi, comincio da<br />
me stesso. avevo quattordici anni, da grande volevo<br />
fare lo scrittore e scongiurai i miei genitori di<br />
iscrivermi al liceo classico, anziché all’istituto tecnico,<br />
che sembrava loro più adatto per farmi avere in<br />
tempi ragionevoli un lavoro e uno stipendio. Quale<br />
lavoro? non sono tecnico di nulla, so soltanto spacciare<br />
parole. mia madre mi ha allevato incitandomi<br />
a superare ostacoli. Convinceva il dentista (un<br />
professionista serio che non rilasciava fattura e per<br />
anni mi ha chiamato Raffaele) a estrarmi denti senza<br />
anestesia. L’ultima volta che mi accompagnò in<br />
ospedale fu per farmi strappare un’unghia incarnita<br />
da un infermiere durante la sua pausa cena. anche<br />
lì, senza anestesia. avevo quindici anni e da allora<br />
sogno di morire come Robert De niro in C’era<br />
una volta in America: fumando oppio. Questo per<br />
dire che se volevo fare il liceo classico dovevo farlo<br />
nell’istituto più rigoroso (il Galvani) e nella sezione<br />
più dura (la D). Si informò e mi ci iscrisse dopo aver<br />
saputo che i professori esigevano il dimezzamento<br />
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degli alunni al terzo anno e lo ottenevano sempre.<br />
nella D si partiva in trenta, si arrivava in quindici,<br />
bene che andasse. io, Stefano e andrea “abbiamo<br />
fatto la D”.<br />
il Galvani era il liceo della media e alta borghesia,<br />
storico e superato. Ci arrivai con il timore reverenziale<br />
che mi ha accompagnato a ogni ingresso:<br />
all’università, alla redazione del mio primo giornale,<br />
al premio letterario. Ci fosse stata una volta in<br />
cui non sia rimasto, se non deluso, perplesso. Scelsi<br />
l’ultimo banco a destra nella fila destra. Guardando<br />
dalla cattedra, dovevo sembrare un estremista desolato<br />
o uno che aspetta solo di fuggire attraverso la finestra.<br />
Per compagno di banco mi toccò un ragazzo<br />
di Calabritto, provincia di avellino, irpinia. Enorme.<br />
Terremotato. Si esprimeva in italo-campano. Sarebbe<br />
piaciuto a massimo Troisi, meno ai professori del<br />
Galvani. Ricoperto di insufficienze, scomparve dopo<br />
il primo quadrimestre, lasciando il banco vuoto. il<br />
ragazzo che mi dava le spalle portava gilet ricamati<br />
e non si voltava mai. Prendeva appunti, annuiva,<br />
sottolineava. Un giorno disse: «ieri era un pomeriggio<br />
così pieno di luce che mi sono chiesto: perché stare<br />
in casa a studiare?». Lo guardai stupito: sta a vedere<br />
che questo gioca a pallone. Terminò: «E allora<br />
sono uscito con il libro di latino sotto il porticato».<br />
oggi è un insegnante. il terremotato è un agente della<br />
Finanza. il quarto a briscola, in diagonale rispetto<br />
a me, era Stefano. Si presentò vomitando.<br />
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