Il Cinghiale Corazzato - Comunità Antagonista Padana

Il Cinghiale
Corazzato
Foglio di informazione e cultura della Comunità Antagonista
Padana dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano
n.34-35
Autunno 2010

La Redazione:
Andrea Carancini
Alberto da Novate
Luca Fumagalli
Jean La Maingre
Andrea Giacobazzi
Roberto Marcante
Enrico Restelli
Riccardo Boschetto
Alberto Schiatti
Giovanni Cristaldi
Piergiorgio Seveso
Angelo Luppo
Davide Canavesi

La Comunità Antagonista Padana: una scelta di libertà
Carissimi lettori, con questo editoriale (il primo
e l’ultimo a mia firma) prendo congedo dai
miei studi universitari e pertanto dedico queste
righe ad un sentito e doveroso ricordo dei miei
cinque anni passati in Cattolica ed in particolare
all’evento più importante: l’incontro con i
ragazzi della CAP. Sono ormai passati quattro
anni da quando ebbi per la prima volta a che
fare con la variopinta truppa che costituiva la
Comunità Antagonista Padana, nata da pochi
mesi in seguito all’abbandono del riferimento
politico della Lega Nord, a cui erano da anni legati
in quanto Movimento Universitario Padano
(quello vero). Fui sin da subito colpito dalla vivacità
intellettuale e dalla diversità di un gruppo
che oltre a distanziarsi assai dallo stereotipo
del padano leghista, ottuso e sguaiato urlatore,
cercava di costituire tra i suoi membri non solo
un sodalizio politico bensì una comunità umana
calda e affettuosa. A lungo andare capii che
questa era l’unica strada praticabile per chi,
come la Comunità Antagonista Padana, non
aveva null’altro da offrire, non potendo promettere
ai suoi membri né un avvenire politico, né
una carriera privilegiata in alcun organismo
a conduzione politica e nemmeno un impiego
tranquillo in università. Accomunati dalla mancanza
di secondi fini e decisi a guadagnar tutto
col sudore della fronte, l’impegno negli studi e
nella produzione culturale e con un’assidua ed
indefessa presenza in università, abbiamo finito
per divenire, quasi senza accorgerci, veri amici
e compagni senza chiudere per questo la porta in
faccia anche a coloro che, pur non condividendo
i nostri ideali, volessero scambiare con noi qualche
parola. Accanto alla vera e propria CAP si
è così stretto un gruppo di collaboratori e amici,
una “comunità umana”, che ha sempre trovato
amorevole ospitalità negli spazi messi a nostra
disposizione e che, in cambio, ci ha ricambiato
prestando ascolto alle nostre discussioni e intervenendo
in queste. Non che la verità nasca dal
dialogo, ma sicuramente il confronto con altre
idee e tendenze politiche e ideali ci ha permesso
di approfondire le nostre convinzioni e meglio
indirizzare le nostre polemiche e i nostri interventi
pubblici, ben evidenti nella cartellonistica
che anima le pareti della nostra università. Certo
non si può proprio dire che gli ultimi anni siano
stati una marcia trionfale: il nostro gruppo ha
cementato la sua unione in un clima sempre più
palesemente ostile alla sua esistenza a causa della
mancanza di sostegno partitocratico esterno, della
inevitabile diminuzione del numero dei membri e
del progressivo venir meno degli spazi di azione
politica e culturale in Università Cattolica, sempre
più soffocata dalla nascita di nuovi gruppi con evidente
riferimento partitico.
Pur non mettendo in dubbio la buona fede ed inclinazione
di tutti coloro che utilizzano parte del loro
tempo per l’attività politica in università non si può
fingere di non osservare che per molti la militanza
politica e culturale in università sia diventata, con
molta spregiudicatezza, un trampolino di lancio
verso il mondo politico “esterno” più che una sincera
esplicitazione della propria visione delle cose.
D’altronde molti gruppi politici dell’università
sono oramai uno squallido riflesso del mondo politico
ita(g)liano con tutte le divisioni, le manfrine
e gli screzi tra i rispettivi leader e oppositori. A
dispetto di ciò la CAP ha continuato ad essere un
movimento politico e culturale senza preciso riferimento
partitico e disponibile ad accettare membri
provenienti da qualsiasi esperienza politica oppure,
come nel mio caso, mai appartenuti ad alcun partito;
questa condizione gli ha permesso e continua
a permettergli la più ampia libertà d’azione. Certo
noi non potremo mai permetterci penne griffate o
(inutili) rivistine a colori in carta patinata ma si
può star sicuri che nessuno entrerà mai in CAP a
dettare linee di partito, il che è oltremodo proficuo
per giovani che negli anni universitari, attraverso
gli studi e le letture, formano la loro visione del
mondo. Non posso negare che proprio grazie a
quest’ambiente anch’io ho maturato nel corso di
questi anni la mia prospettiva riuscendo a dare un
senso a tutte quelle nozioni acriticamente apprese
nelle lezioni universitarie. In tal modo la CAP ha
svolto per me, e spero continuerà a farlo per altri,
quella funzione che anticamente era una prerogativa
delle università vere e proprie: spronare
ad una ricerca profonda ed “esistenziale” della
verità, non intesa come mero ornamento erudito
bensì come necessario appiglio e guida nella vita
quotidiana.
Davide Canavesi
Reggente della CAP
dall’11 giugno 2009 al 22 settembre 2010

Ona legg per regolamentà la Storia?
La Comunità Antagonista Padana la dis NO
Despiaserà fòrsi a quaivun ma in del
còro “unanime e bipartisan” vegnuu
dòpo al diktat che Riccardo Pacifici,
president della Comunità ebraica di
Roma, ha mettuu al mond polidigh
de lengua italiana, la Comunità Antagonista
Padana dell’Università
Cattolica la gh’è minga e, come natural,
ghe la pò minga vess. A nunch
ghe sorprend che on privaa cittadin
pòda dettà l’almanacch polidigh
d’on parlament ma fòrsi, se ben ghe
pensom, tutt quest l’è mis’ciaa con
l’esistenza stessa dell’Unidà polidiga
italiana, fin dal sò ruzzaa fora e
voruu da alter “process unitar”. De
sigur la nostra total lontananza dai
meccanismi, dai tic, dai cliches, dai
manfrin della polidega italiana la pò
minga fà desmentegaa la gravità
de questa proposta che, pur essend
elaborada a Roma, la gh’avarà conseguenz
anca chi, in Lombardia.
Ona Lombardia rinnovada e indipendent
la podaria mai tollerà in di
so ordinament ona simil regression
legislativa, se de nò se borla giò in
di stessi meccanismi che g’hann per
tant temp cloroformizzaa la produzion
storiografiga di università italian,
trasformaa spess a sotto agenzie
del poder polidigh.
Pòden le Università, le Accademie,
i center colturai diventà loeugh de
ratificazion della storia scrivuda in
di aule de on parlament?
La po’ trasferis la libera ricerca storiga
de i dipartiment di atenei alle
aule de Camera e Senato italian? Inscì
voeur Riccardo Pacifici.
L’è corius notà, in d’on stato in
doeu la paròla “libertà” la vee
maniacalment semper ripetuda,
come se voeur- in del sònn general
dell’opinon pubbliga- doprà i manett
del pensee, proponend la galera
per chi voeur minga adeguass.
Come gioin universidari della CAP,
semm minga i partigiann della “libertà
d’espression” intenduda in del
sens modern, culuralment anarchigh
e atomizzant, ma incadenà
la ricerca della Verità, in ambient
stòrigh veour dì ming domà buttà in
del precipizzi del “politicament correggiuu”
i fodament stess del savè
e conoscenza ma negà ogni spazzi
fodor progress in della analisi del
passaa.
On quai esempi traa dalla storia del
secòl passaa, le foibe e Katyń con’t
ona legg inscì, sarìen staa faa mai
savuu o deformaa. Affidaa l’indagine
storiga ad on parlament (specialment
a quell italian) l’è on gest patològigh
e pericolos, ancor pussee
veduu l’alt livell d’ignoranza tipigh
di deputaa ed i senadur de questa
svendurada repubblica. In d’ogni
loeugh e in d’ogni situazion l’è on
dover moral mettes contra a quest
gest pretestuòs e scelleraa.

Una legge per regolamentare la Storia?
La Comunità Antagonista Padana dice NO
Dispiacerà forse a qualcuno ma nel coro “unanime
e bipartisan” seguito al diktat che Riccardo
Pacifici, presidente della Comunità ebraica
di Roma, ha posto al mondo politico di lingua
italiana, la Comunità Antagonista Padana
dell’Università Cattolica non c’è e naturalmente
non ci può essere. Ci stupisce che un
privato cittadino possa dettare l’agenda politica
di un parlamento ma forse, se ben riflettiamo,
tutto questo è connaturato con l’esistenza
stessa dell’Unità politica italiana, sin dal suo
indotto ed eterodiretto “processo unitario”.
In ogni caso la nostra totale estraneità ai meccanismi,
ai tic, ai cliches, alle manfrine della
politica italiana non ci può fare ignorare la
gravità di questa proposta che, per quanto
elaborata a Roma, avrà serie ripercussioni anche
qui, in Lombardia.
Una Lombardia rinnovata ed indipendente
non potrebbe mai tollerare nei suoi ordinamenti
una tale regressione legislativa, pena il
ricadere nei medesimi meccanismi che hanno
per tanto tempo cloroformizzato la produzione
storiografica delle università italiane, riducendole
spesso a sotto-agenzie del potere politico.
Possono le Università,le Accademie, i centri
culturali diventare luoghi di ratificazione della
storia scritta dalle aule di un parlamento?
Può trasferirsi la libera ricerca storica dai dipartimenti
degli atenei alle aule di Camera e
Senato italiani? Così vuole Riccardo Pacifici.
Curioso notare, in uno stato in cui la parola
“libertà” viene maniacalmente ripetuta in
ogni circostanza, come si pretenda – nel torpore
generale dell’opinione pubblica – di introdurre
le manette del pensiero, proponendo il
carcere per chi non vi si attiene. Come giovani
universitari della CAP,. non siamo i partigiani
della “libertà d’espressione” intesa nel senso
moderno, culturalmente anarchico ed atomizzante,
ma incatenare la ricerca della Verità, in
ambito storico significa non solo gettare nel
burrone del “politicamente corretto” le basi
stesse del sapere e conoscenza ma negare ogni
spazio di futuro sviluppo nell’analisi del passato.
Per mero esempio tratto dalla storia del secolo
appena concluso, le foibe e Katyń con una
legge analoga, sarebbero rimaste fatti ignoti
o deformati. Affidare l’indagine storica ad un
parlamento (specialmente a quello italiano) è
un atto patologico e preoccupante, ancor di
più visto l’alto livello d’ignoranza che caratterizza
i deputati ed i senatori di questa sventurata
repubblica. In ogni sede ed in ogni circostanza
è dovere morale opporsi a questo atto
pretestuoso e scellerato.

EL BATALLON SAN PATRICIO
Dopo aver spaziato nei precedenti articoli
nel mondo dell’indipendentismo
europeo, questa volta mi piacerebbe
ricordare qualcosa del passato, che
comunque ha un legame indissolubile
con una Nazione, l’Irlanda, che offre
ampi spazi di analisi sotto l’aspetto politico,
e con un’altra, sempre più spesso
nel mirino della critica mondiale per
i suoi discutibili atteggiamenti, gli Stati
Uniti d’America.
E’ una storia che trovo affascinante,
complessa e discutibile, come tutte le
storie che riguardano persone considerate
ribelli dalla maggioranza ed eroi
da una minoranza che ancora crede a
valori reali, che però rischiano sempre
più di far parte del passato.
E la vicenda che riguarda John Reilly
ed i suoi compagni del Batallon San
Patricio, delle loro epiche battaglie e
della loro ingloriosa ( o meravigliosa
fine, dipende dal punto di vista …) fine.
Dopo aver spaziato nei precedenti articoli
nel mondo dell’indipendentismo
europeo, questa volta mi piacerebbe
ricordare qualcosa del passato, che
comunque ha un legame indissolubile
con una Nazione, l’Irlanda, che offre
ampi spazi di analisi sotto l’aspetto politico,
e con un’altra, sempre più spesso
nel mirino della critica mondiale per
i suoi discutibili atteggiamenti, gli Stati
Uniti d’America.
E’ una storia che trovo affascinante,
complessa e discutibile, come tutte le
storie che riguardano persone considerate
ribelli dalla maggioranza ed eroi
da una minoranza che ancora crede a
valori reali, che però rischiano sempre
più di far parte del passato.
E la vicenda che riguarda John Reilly
ed i suoi compagni del Batallon San
Patricio, delle loro epiche battaglie e
della loro ingloriosa ( o meravigliosa
fine, dipende dal punto di vista …)
fine. Dobbiamo tornare indietro nel
tempo, fino alla metà del 1800, quando
l’Irlanda, grazie alla tremenda amministrazione
di Sua Maestà britannica,
era alla fame più nera e il suo
orgoglioso popolo si vedeva costretto
all’emigrazione per sopravvivere, lasciando
terre e famiglie e recandosi nella
nuova Terra Promessa, gli Stati Uniti
d’America.
Ma all’arrivo le prospettive non erano
così rosee e quindi molti di loro si

vedevano a percorrere l’unica strada
possibile, quella dell’arruolamento
nell’Esercito. Soprattutto in questi anni,
nei quali iniziava la politica espansionistica
statunitense nei confronti degli
Stati confinanti, ad esempio nei confronti
del Messico. Ed infatti nel 1846
iniziò il conflitto contro i messicani, che
si risolverà a favore degli Yankees con
l’annessione di Texas, New Mexico,
Arizona e California nel 1848.
Ecco, qui entra in scena il nostro John
Reilly, nato a Clifden nella contea di
Galway, il quale avendo qualche esperienza
militare maturata nell’esercito
inglese, entrò a far parte di un’unità
composta di emigrati irlandesi. Ma il
trattamento loro riservato dagli ufficiali
superiori, rigorosamente identificabili
nel futuro concetto di WASP, fu
brutale.
Furono chiamati “potato heads” (teste
di patata), sinonimo sia di ignoranza
ma anche con un chiaro ed insolente
riferimento all’unico tipo di cibo rimasto
nella natia Irlanda, furono trattati
alla stregua dei neri appena liberati
dalla schiavitù, e soprattutto perseguitati
per la loro religione cattolica, invisa
al potere. Infatti, fu loro negata la
celebrazione della Messa domenicale,
uno dei momenti che più ricordavano
la loro origine e le loro tradizioni.
Ad un certo punto Reilly, l’elemento
molto probabilmente più carismatico,
si mise alla testa di una ribellione, che
portò alla defezione del reparto dalle
linee americane ed al passaggio a
quelle messicane, sotto gli ordini del
Generale Santa Ana.
Fu creato il Batallon San Patricio, che
combatteva sotto le verdi insegne
dell’Irlanda e che arrivò al numero
di circa 700 componenti, principalmente
irlandesi, ma anche provenienti
da tutte quelle etnie di emigranti che
venivano trattate con disgusto dalle
autorità militari americane, felici di
aver trovato carne da macello, ma ferree
nelle proprie convinzioni di superiorità.

L’epopea dei Patricios, come venivano chiamati
dai messicani, passò dalle battaglie più
sanguinose (Monterey, Cerro Gordo, ecc.)
dove gli irlandesi si distinsero per il valore e
per lo sprezzo del pericolo in loro innati. Più
volte, militari messicani che intendevano
alzare bandiera bianca furono da loro passati
per le armi senza fiatare, anche perché
erano consci di quale sorte li attendeva una
volta fatti prigionieri dagli americani.
Purtroppo per loro la guerra volse a favore
del nemico: mentre qualcuno riuscì a sfuggire
all’infelice sorte, decine di loro furono
giustiziati in un’impiccagione pubblica, che
servisse da monito nei confronti di eventuali
altri ribelli. Il tutto, dopo l’apposizione
di un marchio a fuoco (“D” come disertore)
che contrassegnasse per sempre chi aveva
osato opporsi ai futuri padroni del mondo.
Eccezione fatta per Reilly, che ebbe ben
due marchi su entrambe le guance, ma
che riuscì ad evitare la pena capitale e a
finire i suoi giorni a Città del Messico. Ecco,
questa è la storia dei Patricios, breve nel
tempo e simile a molte altre, ma con una
caratteristica: costituisce una sorta di buco
nero nella storiografia ufficiale statunitense
ed è vissuta con disagio anche dalla comunità
irlandese che lì vive. Di quella guerra,
una delle prime guerre aggressive della futura
superpotenza, ci viene sempre ricordata,
complice l’industria cinematografica ,
la battaglia di Fort Alamo con un evidente
ribaltamento fra aggrediti e aggressori, ma
mai viene citato il San Patricio. Solo in un
paio di casi è stata prestata loro attenzione
da Hollywood, ma con opere che non
hanno avuto certo il battage pubblicitario di
altre. Ma l’occasione e’ giunta: la dobbiamo
al grandissimo gruppo musicale irlandese
dei Chieftains, che ha recentemente pubblicato
un album con il nome del Battaglione,
riunendo artisti gaelici e messicani
in un ricordo dei propri compatrioti, eroi o
delinquenti, che seppero comunque tenere
sempre alto il nome della propria Terra, anche
contro chi li sconfisse sul campo e li
cancellò dalla storia.
Ed è proprio questo il monito che ci lanciano
Reilly e i suoi Patricios: lottare sempre
per la propria identità e soprattutto evitare
che la coltre mediatica, che tutto nasconde
e tutto omologa, riesca nel proprio intento.
Dobbiamo combattere per la nostra Terra e
per le sue Tradizioni e tenere sempre alta
la voce, in modo che nessun orwelliano
Grande Fratello ci possa zittire.
LOMBARDIA LIBERA IN LIBERA EUROPA
Alberto Schiatti

SAN PIETRO DA VERONA, OVVERO DEL
MODO DI ESSERE DAVVERO SANTI
In questa triste ed infausta epoca in cui
l’ecumenismo è scambiato per evangelizzazione
e gli eretici sono acclamati
santi, vorrei nel mio piccolo far breccia
in queste tenebre demoniache spiegando
come è fatto un vero Santo, con la s maiuscola,
raccontando la vita, le opere e il
martirio di San Pietro Martire (o San Pietro
da Verona).
Egli nacque, col nome di Pietro Rosini, a
Verona presumibilmente nel 1206 da una
famiglia appartenente alla setta ereticale
cristiana dei catari (o manichei o patarini).
Mosso evidentemente da una volontà superiore,
nonostante le sue origini già da
piccolissimo Pietro aveva capito da che
parte si trovasse la Verità. Si narra infatti
che all’età di neanche sette anni, mentre
stava discutendo con uno zio, lo contraddisse
a proposito di un errore dottrinale
dei catari, i quali ritenevano che l’Entità
reggitrice del Creato fosse dualistica, divisa
tra bene e male e tra spirito e materia,
mentre in realtà essa è una ed è Dio.
A quell’età, poi, Pietro imparò alle scuole
dei cattolici il Credo, che divenne per lui
un principio di vita.
Dopo le scuole Pietro fu mandato dal padre
all’Università di Bologna per continuare gli
studi, ma in quella città avvenne l’incontro
che gli cambiò la vita. Conobbe infatti di
persona il fondatore stesso dell’Ordine
Domenicano, San Domenico di Guzman, al
quale in seguito espresse la sua intenzione
di entrare nell’ordine.
Domenico gli descrisse puntualmente le rinunce,
le fatiche e le sofferenze che avrebbe
dovuto patire, ma ciò servì soltanto ad
accrescere nel giovane Pietro il desiderio di
farsi frate.
Le apparizioni delle sante martiri Agnese,
Cecilia e Caterina d’Alessandria che ebbe
durante il noviziato e la supplica che faceva
ogni giorno al Signore, una volta diventato
sacerdote, all’elevazione del calice mentre
celebrava Messa di farlo morire martire,
dimostravano già chiaramente quanto fosse
immensamente grande la sua santità.
Divenuto predicatore itinerante fu inviato

da Gregorio IX a Milano, che a quei tempi
era uno dei centri principali dell’eresia catara.
Qui si dovette scontrare con le potenti
famiglie aristocratiche e borghesi manichee,
le quali godevano del tacito appoggio
delle autorità cittadine. Nonostante la
forza dei nemici Pietro riuscì a far inserire
nello statuto comunale il decreto papale
che intimava al braccio secolare azioni concrete
contro gli eretici. L’azione di Pietro
non era però soltanto repressiva, ma si basava
innanzitutto sulla carità verso il prossimo,
come provano le numerose conversioni
che ottenne tra i patarini. Lo zelo di Rosini
fu molto apprezzato dal Pontefice, che lo
nominò Inquisitore Generale per la Lombardia
(1242).Negli anni successivi la sua attività
di predicatore itinerante portò Pietro in
Piemonte, Emilia, a Roma, nelle Marche, in
Romagna e a Firenze (dove dovette ancora
combattere contro gli eretici manichei),
prima di fare di nuovo ritorno in Lombardia.
In ogni località veniva acclamato per
la sua oratoria travolgente. Proprio grazie
al successo che riportò a Firenze, nel 1251
Innocenzo IV lo inviò a Cremona per contrastare
il vescovo cataro di Tolosa, che si
era ivi rifugiato per scampare all’invasione
della sua terra da parte del re cattolico
di Francia. Lo stesso anno il Papa nominò
Pietro priore del convento di Como ed Inquisitore
Pontificio. Forse qualcuno rimarrà
perplesso e scandalizzato dal fatto che un
“perfido” inquisitore sia stato canonizzato
dalla Chiesa, ma come insegnava il Dottore
Angelico, San Tommaso d’Aquino, come un
arto in cancrena viene amputato affinché
non estenda la putrefazione al resto del
corpo, portando alla morte la persona in
oggetto, allo stesso modo è giusto eliminare
la parte incancrenita della società e del
Corpo Mistico di Cristo, cioè l’eretico, per
evitare la propagazione del male alla restante
parte sana. E’ bene specificare, però,
che questa eliminazione del male era solo
in ultima ratio un’eliminazione fisica, perché
sempre gli inquisitori cercavano prima
di salvare la vita dell’eretico tentando di
convincerlo ad abiurare i suoi errori e a convertirsi,
e solo se questo continuava con pervicacia
a perseverare nell’eresia, allora procedevano
a condannarlo a morte.
Come ha affermato persino Vittorio Messori
in una disputa con Jacques Le Goff proprio
su San Pietro da Verona, l’Inquisizione nasce
per rispondere ad una precisa richiesta di salute
da parte del popolo perché “per l’uomo
comune l’eretico è il Grande Inquinatore, è
il nemico della salvezza dell’anima, è colui
che attira la punizione sulla comunità” (Vittorio
Messori). La vita che condusse San Pietro
Martire dal momento della scoperta
della vocazione fino alla morte, fu sempre
incentrata sulla penitenza e sull’imitazione
del Divin Maestro. Egli si asteneva dal vino
(tranne che per celebrare Messa), mangiava
una sola volta al giorno e sacrificava molte
ore di sonno per pregare e studiare. Molti poi
erano i miracoli che faceva già in vita, anche
se ancor di più ne fece dopo la sua morte, tra
cui, solo per citarne uno, il cosiddetto “miracolo
della nuvola”: mentre disputava con un
cataro sotto un sole cocente, questi lo sfidò
chiedendogli di far mandare dal suo Dio una
nube per ripararli e, dopo che Pietro ottenne
la promessa dell’eretico di abiurare se il miracolo
fosse avvenuto davvero, una nuvola
apparve dal nulla e si posò sopra il luogo dove
si trovavano. Negli ultimi anni della sua

vita Rosini ricevette anche il dono
della preveggenza, tanto che la Domenica
della Palme del 1252 durante
una predica egli predisse persino la sua
morte, modalità ed esecutori compresi,
che avvenne appena due settimane
più tardi, il 6 aprile. Infatti, dopo aver
di nuovo profetizzato la sua fine e il
luogo della sua sepoltura (la basilica
di San Simpliciano), la mattina di quel
girono si mise in cammino, insieme ad
un confratello, per andare da Como a
Milano a giudicare un eretico al tribunale
dell’Inquisizione. Due sicari assoldati
da potenti famiglie patarine, a
conoscenza del tragitto che avrebbero
fatto i due frati, tesero un’imboscata
a Pietro nei boschi presso Barlassina.
Mentre uno dei due però scappava
colto dal panico, l’altro, identificato
in un certo Carino da Balsamo, colpiva
Pietro con due fendenti di falcastro
(un coltellaccio diritto) sulle spalle e
sul cranio e lasciandolo a terra agonizzante,
si lanciava poi contro il confratello,
fra’ Domenico. Pietro, mentre
già la morte stava sopraggiungendo, in
un ultimo momento di lucidità implorò
Dio di perdonare il suo assassino e poi,
intingendo un dito nel proprio sangue,
scrisse per terra la parola “Credo”.
Morì subito dopo aver raccomandato
la propria anima al Padre con le stesse
parole di Gesù sulla Croce: “In manus
Tuas, Domine, commendo spiritum
meum”. Anche fra’ Domenico morì alcuni
giorni dopo a causa delle ferite.
I due assassini vennero presto arrestati,
ma Carino riuscì a fuggire dalla
prigione e, pentito per ciò che aveva
fatto, raggiunse Forlì e ivi chiese e ottenne
di essere ammesso come laico in
un convento di domenicani, per espiare
i propri delitti.
Il corpo di Pietro venne portato a Milano
e seppellito con tutti gli onori prima
nella chiesa di San Simpliciano e poi in
quella di Sant’Eustorgio. Appena undici
mesi dopo il suo martirio, Pietro venne
elevato agli onori degli altari da Papa
Innocenzo IV, in seguito alle numerosissime
istanze pervenutegli dal Vescovo
Leone da Perego, dagli aristocratici milanesi
e da moltissimi frati domenicani.
Molti fedeli oggigiorno confondono santità
e bontà (o meglio buonismo), ma
come disse un giorno un mio carissimo
amico della CAP, non bisogna essere
buoni, bisogna essere santi. Come disse
anche Santa Caterina da Siena, nei suoi
“Dialoghi”, a proposito di San Pietro
Martire: “egli odiò l’eresia tanto da esser
pronto a lasciarvi la vita. E mentre
visse, sua cura continua fu quella di
pregare, predicare, disputare con gli
eretici e confessare, annunziando la
verità e propagando la fede senza alcun
timore”.
Per chi vuole diventare santo ecco allora
un fulgido esempio da seguire ed
imitare.
ROBERTO MARCANTE

CATTOLICESIMO E RISORGIMENTO:
LE RAGIONI DELL’INCONCILIABILITA’
All’inizio di maggio il presidente della CEI,
il cardinal Bagnasco, nel corso del discorso
d’apertura alla settimana sociale dei Cattolici
italiani ha affermato con una certa chiarezza
come l’unità d’Italia, a suo modo di vedere,
costituisca un valore da non oltraggiare.
Le sue parole hanno avuto in alcuni contesti
una certa risonanza in quanto rappresenterebbero
un decisivo sdoganamento del Risorgimento
da parte della Chiesa cattolica oltreché
un esplicito diniego di qualsiasi tendenza “secessionista”.
Evidentemente l’affermazione meriterebbe di
essere inquadrata nel contesto di un discorso
comunque equilibrato ma presa in sé dimostra,
se mi è possibile affermarlo, una certa leggerezza
e conformismo, nonché la mancanza di
volontà di chiarire i termini della questione
alla luce della dottrina cattolica. In particolare
mi sembra che il cardinal Bagnasco mettendo
in primo piano l’effetto del processo risorgimentale,
ovvero l’unificazione degli stati
italiani, trascuri completamente la modalità
con cui questo è stato ottenuto e la posizione
della Chiesa contemporanea agli eventi in
questione, che un cardinale di Santa Romana
Chiesa dovrebbe quanto meno rispettare se
non difendere con forza.
Non può infatti sfuggire ad un’analisi anche
superficiale del cosiddetto processo risorgimentale,
che a conti fatti preferiamo chiamare
col nome di Rivoluzione italiana, quanto la
presunta unità nazionale sia stata ottenuta a
costo di sofferenze immani per molti ecclesiastici
e cattolici e attraverso l’aperta violazione
dei diritti umani e di un diritto internazionale
implicito nelle relazioni esistenti fra le
monarchie europee fin dal trattato di Westfalia
(1648) e puntualizzato al Congresso di Vienna
(1814-15). Tralasciando qualsiasi valutazione
sul concetto di nazione, in realtà piuttosto
ambiguo, e sull’effettiva applicabilità di esso
al caso italiano, più presunta che reale, non
si può infatti mancare di ricordare quanto
ad una valutazione cattolica della politica,
l’affermazione della “nazionalità” italiana e
dell’ “unità” dei popoli italiani non possano
essere considerati dei valori supremi ed assoluti
ai quali sottomettere qualsiasi altro principio.
Dicendo ciò non vogliamo certo negare
che una certa inerzia del percorso storico alludesse
ormai da decenni ad una conclusione
del genere: le esigenze economiche degli stati
moderni, dovute perlopiù alla crescita delle

spese belliche e burocratiche degli stati
post-rivoluzionari, nonché la necessità
diplomatica -di avere una maggiore rilevanza
sulla scena politica internazionale
conducevano ad un processo di concentrazione
dei piccoli stati di Antico Regime,
come avveniva contemporaneamente in
Germania.
Il fulcro della questione sta però, a mio
modo di vedere, nella necessità di distinguere
questi processi storici e politici
dalla patina ideologica con cui i sostenitori
del cosiddetto “Risorgimento patrio”
hanno travestito ed enfatizzato gli eventi in
questione.
Se è vero infatti che una conclusione “unitaria”
degli eventi era naturale e per
certi versi anche auspicabile, in virtù dei
benefici che avrebbe apportato alle popolazioni
italiane, resterebbe da spiegare
perché questa sia stato ottenuta tramite la
violenza, l’aggressione a stati sovrani e
persino la repressione manu militari delle
rimostranze di contadini meridionali, ufficialmente
già divenuti sudditi sabaudi. Inoltre
sarebbe utile chiarire il motivo per il
quale a favorire il processo risorgimentale
intervenne la monarchia sabauda, cioè la
meno propensa ad una politica di accordo
con gli altri sovrani e di graduale evoluzione
verso una forma di organizzazione
statuale comune. Tutto ciò fa infatti sospettare
che il processo “risorgimentale”
più che sostenere una politica unificatrice
avesse l’intenzione di utilizzare questa
come schermo per affermare una rivoluzione
sovvertitrice della società.
Queste legittime questioni sono però solitamente
evase ed obnubilate dalla caligine
che gli stessi risorgimentali avevano già
fatto calare sugli occhi dei contemporanei,
tramite l’agitazione di motivi prettamente
ideologici quali appunto l’unità nazionale,
la libertà e il “Risorgimento” stesso.
Tutte e tre queste motivazioni mi sembrano
nascondere o sottintendere una forma mentis
anticattolica se non addirittura anticristiana
di cui spesso il confuso pensiero
cattolico di oggigiorno non è del tutto conscio.
Tra i detonatori della Rivoluzione
italiana certamente il principio di nazionalità
fu il fattore principale e maggiormente
efficace, anche per essere direttamente legato
alla temperie filosofica del secolo, il
Romanticismo.
Naturalmente il termine “nazione” può
avere diversi significati e diverse intensità
ma non vi è punto dubbio che solo nell’800
esso si distaccasse dal suo campo semantico
originario, ovvero quello “biologico” e
“naturale” di nascita e stirpe, per assumere
un’accezione filosofica. Sulle spinte della
filosofia idealista ed hegeliana la nazione
assunse il significato di comunanza spirituale
e ideale fino a diventare una sorta di
religione immanente e terrestre, negatrice
della trascendenza dell’essere umano.
La nazione rivoluzionaria e risorgimentale
non nasce affatto dalla constatazione di
tratti culturali comuni in un popolo o da un
vincolo di giustizia e pietà verso la propria
terra di origine, bensì si afferma come sentimento
palingenetico votato al futuro, in
un impeto di puro volontarismo.
Non a caso dall’800 in poi lo Stato nazionale
divenne l’unica forma possibile di organizzazione
statuale dei popoli negando
in forma pregiudizievole ogni validità a
qualsiasi altro assetto.
Gli stati plurinazionali, al di là di ogni
valutazione effettiva, presero ad essere
considerati abomini politici e negatori dei
diritti e delle libertà dei popoli, anche qualora
le loro rispettive identità venissero
preservate, mentre le comunità umane divise
tra più entità statuali vennero eccitate
a ricercare la loro unità come unica possibile
condizione di libertà. Se pensiamo a
quanti odi e discordie abbia portato con sé
il bellicoso principio di nazionalità, presto
divenuto nazionalismo, nel corso degli ultimi
due secoli è difficile dare torto a tutti
i pensatori cattolici che nel corso delle vicende
risorgimentali avvertirono con molta
lucidità del pericolo che le menti dei cattolici
avrebbero corso aderendo ai prin-

cipi del seducente nazionalismo.
Nessuno infatti negava che vi potesse essere
una legittima aspirazione a vedere
realizzato uno stato nazionale ma in alcun
modo questo principio avrebbe potuto essere
assunto come assoluto.
Il generale della Compagnia di Gesù, padre
Roothan, non ebbe paura ad affermare
con chiarezza che il principio di nazionalità
così come enunciato dalla Rivoluzione italiana
era assolutamente in contraddizione con
lo spirito evangelico mentre il confratello
padre Matteo Liberatore arrivò a stigmatizzare
quell’idolatria della patria per la quale
“il pulpito era stato convertito in bigoncia di
politiche arringhe e le benedizioni sacerdotali
unicamente implorate a consacrare e santificare
bandiere”. Difatti assolutizzare il concetto
di nazione significa porlo al di sopra dei
veri principi della politica sostenuti dalla dottrina
cattolica per la quale il dovere primario
degli stati deve essere innanzitutto quello di
disporre i mezzi materiali per la salvezza delle
anime e secondariamente quello di assicurare
la giustizia civile e procurare la felicità
degli uomini.
L’ottusità del criterio nazionalista ha invece
prodotto quella mentalità secondo la quale
l’affermazione del principio nazionale ed
unitario italiano è un bene in sé, non suscettibile
di critiche nemmeno qualora si dimostrasse
che non solo non ha prodotto alcun
beneficio ma ha cagionato bensì, direttamente
o indirettamente, molti svantaggi a coloro che
lo misero in moto. Altrettanto ideologica e
pregiudizievole è l’affermazione di un concetto
di libertà totalmente scisso da riferimenti
valoriali e constatazioni oggettive, un concetto
assolutamente pagano e rivoluzionario
che non ha nulla a che vedere con la libertà
cristiana.
La “libertà” dei sostenitori del Risorgimento
è spesso un vuoto simulacro slegato da qualsiasi
riferimento a principi stabili e utilizzato
strumentalmente per sostenere la cacciata dei
sovrani. Per il Manzoni de “Il proclama di
Rimini” non a caso la libertà non è altro che
la realizzazione di uno stato unitario e nazionale
(“Liberi non sarem se non siamo uni”),
con un evidente paralogismo, frutto di una
certa arbitrarietà dato che, come avvertiva
Dostoevskij, un’unità così espressa “non significa
proprio nulla”. Per quale motivo infatti
uno stato italiano unitario avrebbe dovuto essere
più “libero” degli stati già esistenti? In
rapporto al cattolicesimo però libertà per i
fautori della Rivoluzione italiana significò essenzialmente
affermazione della laicità dello

stato nei confronti della Chiesa. E’ noto
come infatti Cavour recuperasse in parte
alcune formule teorizzate nell’ambito del
cattolicesimo liberale (come il famoso
“libera Chiesa in libero Stato”), già condannate
dal Pontefice Gregorio XVI, per
volgerle in senso affabulatorio e utilitaristico.
Mentre infatti a parole il governo piemontese
e poi quello italiano sostennero di
voler garantire alla Chiesa tutte le sue
tradizionali libertà, confermando persino
il primo articolo dello statuto albertino
(“La Religione Cattolica Apostolica Romana
è la sola Religione di stato”), in realtà
questi applicarono una politica apertamente
anticattolica fatta di soppressione
di ordini religiosi, incameramento di beni
ecclesiastici e forti limitazioni all’azione
pastorale.
Molti vescovi nominati dalla Santa Sede
non poterono infatti per molto tempo prendere
possesso delle cattedre loro attribuite,
come è il celebre caso dell’arcivescovo
Paolo Angelo Ballerini a Milano, e molti
finirono addirittura in galera per aver
difeso le prerogative della Chiesa, come
l’arcivescovo di Torino Luigi Fransoni nel
1850, internato nel lager di Fenestrelle.
Ad ogni modo risulta assai difficile credere
nella sincerità con cui i risorgimentali
si appellarono alla “libertà” che la
monarchia sabauda avrebbe garantito ai
popoli italiani. Per fare solo un esempio,
nel 1857 le elezioni che avrebbero portato
al Parlamento subalpino una maggioranza
di esponenti dell’ala clericale e
reazionaria vennero cassate d’imperio dal
primo ministro Cavour, per evitare di veder
pregiudicato il suo progetto di “modernizzazione”
della monarchia sabauda e
di ralliament alla politica della Francia e
della Gran Bretagna.
Più velatamente ma altrettanto anticattolico
è il concetto stesso che la storiografia
adotto come nome per l’intero processo
storico, ovvero quello di Risorgimento,
uno dei tanti termini desunti dalla sfera
sacrale per essere adoperato in un contesto
totalmente mondano e secolare.
L’utilizzo della categoria di Risorgimento
presuppone infatti l’adesione ad un tipo
di visione storica altamente ideologizzata
e dedotta dalla storiografia protestante e
illuminista, in particolar modo dall’opera
“Histoire des républiques italiennes du
Moyen Age” (1807) del calvinista ginevrino
Sismonde de Sismondi.
Secondo il Sismondi, una volta conclusasi
la fase della fioritura dei comuni medieva
vali, la storia italiana sarebbe andata incontro
ad un lungo periodo di decadenza
e torpore, sostanzialmente coincidente con
l’epoca delle signorie e quella barocca.
Era però soprattutto quest’ultima a passare
sotto la gogna calvinista dato che
essa aveva visto il predominio delle forze
“oscurantiste” della Controriforma: la
Chiesa Cattolica e la Spagna asburgica.
Anzi, per meglio dire, lo stesso cattolicesimo
avrebbe perso la purezza delle sue
origini per rinchiudersi nella subordinazione
alla tirannia papale e nello “spagnolismo”
del culto, ovvero in una certa affettata
devozione superstiziosa e debordante
ma priva di razionalità e sincerità.
E’ noto come il Manzoni, dopo la lettura
dello scritto del Sismondi, producesse,
su consiglio del confessore, una sorta di
apologia della Chiesa Cattolica, ovvero le
“Osservazioni sulla morale cattolica”, che
in realtà però, come fece notare lo stesso
ginevrino, poco centravano con l’accusa
sul piano storico da lui rivolta alla Chiesa
e ai paesi cattolici della Controriforma.
Sullo schema storico del Sismondi anzi
il Manzoni concordava a pieno come dimostrerebbero
sia “I Promessi Sposi”,
dove la dominazione spagnola è condannata
senza appello, sia la sua decisione
di votare in Senato a favore della presa di
Roma il giorno dopo Porta Pia.
Se in Manzoni l’adesione ad una visione
storica basata sul binomio decadenzarinascita
non venne portata alle estreme

vera e propria proposta di superamento del
cattolicesimo, religione infantile e irrazionale,
in favore del protestantesimo proveniente
dai paesi del Nord, spesso corretto alla
maniera hegeliana. Non è un caso infatti che
il Sismondi provenisse dalla cerchia letteraria
che si riuniva attorno a Madame de Staël,
anch’essa calvinista, la quale in un suo scritto,
“Corinne ou de l’Italie”(1807), propose
una lettura della civiltà moderna secondo il
binomio sud/nord, che a sua volta significava
cattolicesimo mediterraneo superstizioso, retaggio
archeologico del passato, rispetto alla
razionalità protestante come fattore di modernizzazione.
Tale proposta venne accettata a pieno titolo
dai risorgimentali che non a caso dispensarono
a piene mani favori ai protestanti, ottenendone
in cambio aiuto e protezione, alla
luce del fatto che l’unico modo per costruire
un paese
moderno e dinamico fosse quello di lasciarsi
alle spalle l’arretratezza cattolica per
guardare al razionalismo luterano e settario,
sempre pronto a evolvere internamente verso
nuove posizioni.
Non a caso, per fare un esempio, la scuola
hegeliana di Napoli si fece promotrice di
ricerche storiche riguardo le varie eresie
che sin dal Medioevo avevano interessato
il suolo italiano, riconducendole tutte ad
un fattore dinamico interno alla Cristianità
che l’oscurantismo della Chiesa Cattolica
aveva sempre cercato di soffocare. Proprio
per questo tutti i cattolici che videro con favore
l’evolversi della Rivoluzione italiana
dimostrarono una certa insubordinazione al
cattolicesimo romano sia dal punto di vista
teologico, come per Gioberti, che da quello
politico, come per Manzoni. Alla luce di ciò è
opportuno restituire la dovuta dignità alle parole
del Pontefice Pio IX che già nel 1849, con
l’enciclica Nostis et nobiscum, aveva emesso
una sentenza definitiva sul processo risorgimentale,
definito come “diabolico progetto
volto ad abbattere e, se mai fosse possibile,
distruggere dalle fondamenta la religione cattolica
nella stessa Italia”.
DAVIDE CANAVESI

Le conferenze si svolgono
una volta alla settimana
alle ore 15.30 in aula
“Brasillach - Da Giussano”
Quello che gli altri
non vi possono dire...
controinformazione, controstoria,
piccole patrie, Indipendentismo,
lotta ai poteri forti

“Ordine FuturO” BergamO e COmunità antagOnista
Padana: una nuOva sinergia Culturale
La collaborazione tra le due associazioni
è nata quasi per caso ma ha già
dato ottimi frutti, assumendo un carattere
progettuale a medio-lungo termine
che fa ben sperare per il futuro.
Sabato 3 luglio 2010 l’avvocato
Giovanni Correggiari e Piergiorgio
Seveso, vice Reggente della Comunità
Antagonista Padana, hanno tenuto
una conferenza su “Le nozze di Sodoma-attacco
alla famiglia”, concomitante
al contemporaneo “gay pride” di
Treviglio.
L’incontro, per riprendere le parole
dell’ottimo Pierpaolo Nicora di Ordine
Futuro, mirava a “riscoprire e
spiegare le ragioni profonde per una
chiara ed inequivocabile scelta a favore
di un istituto, quello famigliare,
segnato, oggi più che mai, da continui
e ripetuti attacchi tesi a travisarne
identità e funzione e perciò lesivi di
una sana e retta convivenza del consorzio
civile”. L’avvocato Correggiari
ha analizzato le principali direttrici
dell’assalto all’istituto famigliare, sia
nella legislazione dello stato italiano
che nella legislazione dell’Unione Europea.
Piergiorgio Seveso ha invece analizzato
le strategie della progressiva infiltrazione
della lobby omosessualista

e dei suoi “opinion makers”all’interno
dei circuiti della comunicazione e della
produzione culturale, oltre che nelle
agenzie del potere politico e quali possano
essere le migliori strategie di ingaggio
per potersi opporre a queste ormai palesi
strategie di sovversione dell’ordine naturale.
Ne è venuta un’ottima conferenza
“riparatrice” nel senso più profondo del
termine, positivamente controtestimoniale
e controrivoluzionaria.
Marzio Gozzoli, direttore di Ordine Futuro,
e Luca Fumagalli, già Reggente
della Comunità Antagonista Padana,
hanno invece parlato all’inaugurazione
dello spazio di cultura non conforme
e circolo di Ordine Futuro“Antoine
Saint Exupery” in Bergamo sabato
6 novembre 2010. Al di là delle polemiche
di rito e di contorno, l’incontro è
stato occasione di incontro e confronto,
proficuo anche nella significativa
diversità delle sfumature. Mentre Marzio
Gozzoli ha sintetizzato la necessità
dell’azione politica, anche sulla scorta
di una riflessione di Josè Antonio Primo
de Rivera, come “mistica dei valori
irrinunciabili”, Luca Fumagalli, anche
attraverso l’esegesi di alcuni testi
di Massimo Morsello, ha ribadito, con
ricchezza esemplificativa come l’unica
opzione dell’’antagonismo politico
oggi, di fronte allo sfacelo della storia,
sia il fondarsi sulla visione cattolica
integrale dell’uomo e della società.
Pagina a cura di
Piergiorgio Seveso

NOTIZIARIO INDIPENDENTISTA
CORSICA
Come ormai d’abitudine,
l’estate corsa e’ caratterizzata
dall’importante
appuntamento delle
GHJURNATE INTER-
NAZIUNALE che si svolgono
a Corti, nella Corsica
Centrale, all’inizio di
agosto. Anche quest’anno e’
stata molto ampia la partecipazione
di Movimenti
Indipendentisti giunti da
ogni parte a portare il proprio
contributo alla Lotta
per la Libertà. Prosegue
parallelamente l’attività
clandestina nei confronti
soprattutto degli speculatori
edilizi: ha avuto ampio
risalto l’azione compiuta
verso la fine di agosto nei
confronti di JB Lafonte
(ex presidente del mega-gruppo industriale francese Wendel). Un gruppo
armato ha allontanato lui e la sua famiglia dalla lussuosa villa in riva al
mare per poi far saltare la stessa con alcune cariche di esplosivo.

EUSKAL HERRIA
Mentre da parte della Spagna
e della Francia è continuata
l’attività repressiva nei
confronti delle forze nazionaliste
basche, sul piano politico
è di rilevante importanza
la serie di colloqui intervenuti
fra alcune forze indipendentiste,
in particolare fra
EA e la Izquierda Abertzale,
per preparare il terreno a
quello che potrebbe essere il
maggior risultato degli ultimi
anni, e cioè ad un patto
politico fra tutti quei movimenti che chiedono l’Indipendenza di Euskal
Herria.

CATALUNYA
Il fatto nuovo dell’attività politica
di carattere Indipendentista
catalana è stata la bocciatura
dell’Estatut Catalano da parte
dello Stato spagnolo. Tale bocciatura
ha scatenato ampie reazioni
nel mondo politico catalano, nel
quale l’opzione indipendentista ha
preso il sopravvento in modo esplosivo.
Ampi settori politici ed anche
economici della società catalana
si sono schierati apertamente contro
Madrid e nuovi attori sono scesi
in campo. Il nome più significativo
è quello dell’ex Presidente del FC
Barcelona, Juan Laporta, che ha
fondato un movimento politico poi
confluito con altri in Solidaritat
Catalana, che chiede apertamente
il distacco dalla Spagna. Purtroppo
pare che non vada in porto la
possibilità, in occasione delle prossime
elezioni in Catalunya previste
entro l’anno, di schierare un unico
candidato indipendentista, anche
se continuano le trattative soprattutto
con Reagrupement Indipendentista,
guidato da Joan Carretero.
Notizia di questi giorni e’ che
i due movimenti si presenteranno
separatamente, ma con una strategia
coordinata già in precedenza.

NORD IRLANDA
Estate calda a Belfast e dintorni:
continuano le azione dei dissidenti
clandestini repubblicani, che non
hanno accettato l’accordo di resa da
parte dell’IRA. Le azioni contro le
forze di polizia si susseguono a ritmo
costante e anche i rapporti fra
VENETO
Alla prima domenica di settembre,
si è svolta l’abituale FESTA
DEI VENETI a Cittadella, organizzata
come sempre dall’Associazione
Raixe Venete – Veneto Nostro. Importante
manifestazione di carattere
identitario, la Festa dei Veneti
si è confermata anche come occasione
per l’incontro di tutti quei gruppi
che, nei territori settentrionali della
penisola, si battono contro lo Stato
unitario.
le due comunità nord-irlandesi restano
tesi. Nonostante le smentite,
sono iniziati da parte delle autorità
costituite una serie di colloqui segreti
con i dissidenti per arrivare ad
un accordo che possa portare la pace
nell’Ulster.
LOMBARDIA
Anche nel periodo estivo, quest’anno
è proseguita l’attività politica dei
movimenti Indipendentisti Lombardi.
Il 10 Agosto il pensiero di tutti
coloro che, seppur con varia sensibilità,
non riconoscono come proprio lo
Stato italiano è andato al Prof. GF
Miglio, nella ricorrenza della scom-
parsa.
Pagina a cura di
Alberto Schiatti

L’ultimo vero samurai
“Tenno heika banzai”: possa l’Imperatore
vivere diecimila anni! Questa frase è
passata alla storia come l’urlo di guerra
che i piloti kamikaze nipponici lanciavano
pochi istanti prima di gettarsi in picchiata
contro le navi da guerra statunitensi:
un’ultima invocazione diretta dai
piloti al loro sommo sovrano, personificazione
vivente della nazione del “Sol
Levante”, per la cui gloria erano ben
disposti a sacrificare la vita. Questa fatale
sentenza riecheggiò 25 anni dopo la
fine della guerra, per esattezza il 25 novembre
1970, nelle stanze del ministero
della difesa giapponese: a urlarla fu lo
scrittore Yukio Mishima, che immediatamente
dopo praticò il seppuru, ovvero il
suicidio rituale che i guerrieri samurai si
infliggevano per salvaguardare il proprio
onore dall’onta della sconfitta.
infliggevano per salvaguardare il proprio
onore dall’onta della sconfitta.
Ma che cosa aveva spinto quel intellettuale
a commettere un gesto così
eclatante, in realtà solo ultimo atto di
piano iniziato con il sequestro, quella stessa
mattina, del generale dell’esercito
Mashita?
Mishima all’epoca aveva 45 anni ed era
all’apice del suo successo: apprezzato
e stimato dagli ambienti intellettuali sia
all’estero che in patria, era uno dei pochi
autori giapponesi ad avere raggiunto
una fama internazionale, arrivando ad
essere tradotto in decine di paesi e ad
essere candidato più volte per il prestigioso
premio Nobel.
Nonostante questo suo immenso successo,
Mishima viveva in quegli anni
una profonda crisi esistenziale, dovuta,
come egli stesso affermò, all’assistere
alla completa decadenza dei valori e
degli usi tradizionali della società giapponese
da dopo la fine della guerra.
Difatti, dopo la resa incondizionata
nipponica, seguita alle deflagrazioni
atomiche di Hiroshima e Nagasaki, gli
Stati Uniti oltre Mishima non riusciva a
tollerare che una potenza straniera imponesse
al proprio paese uno status
quo diverso dal proprio, arrivando così
a pianificare un vero e proprio genocidio
culturale: infatti, pur anche apprezzando
la cultura occidentale, non
riusciva a vedersi in un mondo in cui
i valori tradizionali da lui imparati durante
l’infanzia decadessero del tutto
d’importanza, arrivando a essere definite
“mere componenti superflue di un
mondo anacronistico”.

Deciso a reagire a questo sopruso,
Mishima cominciò dapprima con un
intenso percorso di formazione fisico
e spirituale, caratterizzato specialmente
dall’esercizio e dalla pratica
delle arti marziali; in seguito, intenzionato
a diffondere questa sua presa
di posizione anche al resto del popolo
giapponese, fondò l’Associazione
degli Scudi (Tate No Kai). Basata
su un sistema chiuso quasi settario,
sul modello molto simile della Guardia
di Ferro rumena di Corneliu Zelia
Condreanu, questa formazione, composta
da 100 membri tutti selezionati
da Mishima stesso, avrebbe dovuto
essere il primo nucleo di un ben più
numeroso esercito nazionale che
avrebbe attuato una vera e proprio
“rivoluzione dello Spirito”, riportando
il Giappone alla sua grandezza originaria.
Deciso a entrare in azione, Mishima
si fece ricevere dal generale
dell’esercito Mashita presso il ministero
della difesa a Tokio con quattro
suoi “miliziani”; presolo in ostaggio,
richiese che le truppe della caserma
adiacente venissero condotte nella piazza
d’armi: era convinto che una volta
ascoltato quello che aveva da dire,
i soldati lo avrebbe seguito, nel desiderio
di riportare alla perduta gloria la
loro patria. Ciò non avvenne: i soldati
risero dell’etica samurai vagheggiata
dallo scrittore e davanti ai suoi inviti
di unirsi a lui, essi risposero con puro
scherno. Davanti al suo fallimento,
Mishima reagì in linea con la tradizione
samurai, appunto eseguendo
senza timori il seppuru: perciò, dopo
che si ebbe trafitto con un pugnale il
ventre, uno dei suoi uomini gli taglio
la testa con una katana.In seguito al
suo incredibile gesto, la cultura radical-chick
occidentale, dimentica dei
fasti dell’autore, condannò Mishima,
definendolo solo come “un fascista
frustato”. Ma a quasi 40 anni dalla
sua morte, non pochi sono coloro
che, ricordando la figura di questo “ultimo
samurai”, accostano il suo nome
a quello di personaggi come Bobby
Sands e Jan Palach : tutti uomini
questi la cui unica colpa era amare la
propria terra e che pur di risvegliare
gli animi sopiti del proprio popolo, e
fungere da esempio, non hanno esitato
a sacrificare la propria vita.
ANGELO LUPPO

Roberto Saviano col Risorgimento s’è dato la zappa sui piedi
Ho letto sui giornali (non avendo visto la
trasmissione) del roboante peana mazziniano
pronunciato in tv da Roberto Saviano[1].
Mi perdonino i lettori se confesso
un peccato imperdonabile: non ho letto Gomorra.
Pur con questo handicap, una certa
idea sul personaggio me la sono fatta. Sorvoliamo
in questa sede sulla sua contraddizione
di fondo (parlare contro i poteri
criminali della propria terra e poi schierarsi
con i poteri criminali del pianeta Terra[2])
che una certa indignazione l’ha purtuttavia
suscitata[3]. Sorvoliamo sull’oleografia risorgimentale
propinata domenica dal detto
personaggio – “L’Italia nel sogno di Mazzini
era un’unica patria indivisibile libera
dallo straniero e repubblicana” (patetica,
da parte di uno scrittore meridionale, rispetto
ad una revisione storiografica ormai
di dominio pubblico) - e concentriamoci su
un punto specifico: è sicuro Saviano, esaltando
quel Sud da cui “è partita la spinta
risorgimentale”, di non darsi la zappa sui
piedi proprio rispetto a ciò che ritiene di
conoscere meglio, e cioè la camorra? Eh
sì, perché uno scrittore importante come
Saviano dovrebbe sapere che la camorra,
pur presente in Campania da tempo immemorabile,
è proprio nel 1860 - durante
la transizione tra l’uscita di scena di Francesco
II e l’arrivo a Napoli di Garibaldi -
che fa il salto di qualità e diventa uno degli
innegabili protagonisti del “Risorgimento”
partenopeo. Fu infatti l’allora ministro
dell’Interno del Regno, Liborio Romano,
il mazziniano Liborio Romano che, per
sbarazzarsi dei poliziotti di Napoli – rimasti
fedeli alla vecchia monarchia – penso bene
di sostituirli direttamente con i guappi!
Questa storia incredibile è raccontata da
Giuseppe Buttà[4] nel suo UN VIAGGIO
DA BOCCADIFALCO A GAETA – memorie
della rivoluzione dal 1860 al 1861.
Prima di passargli la parola mi sembra opportuno
un ragguaglio su Liborio Romano.
Padre Buttà lo definisce a ragione, oltre che
mazziniano, anche massone.
La prova certa della sua appartenenza l’ho
trovata nello studio di Luigi Polo Friz LA
MASSONERIA ITALIANA NEL DECEN-
NIO POSTUNITARIO – Ludovico Frapolli[5].
A p. 137 del volume in questione troviamo
il seguente riferimento:“Nel 1867 morì
Liborio, Ministro dell’Interno e della Polizia
generale nell’ultimo governo borbonico. Su
di lui esiste una non trascurabile letteratura.
Amico di due grandi patrioti, Libertini e
Stasi, della Mario Pagano, «divise con loro
l’amore per i valori liberal-democratici». Il
Bollettino[6] dedicò a Romano due pagine.
L’Umanitario gli concesse uno spazio assai
più modesto, sebbene il necrologio fosse
dovuto: nell’agosto del ’66 lo scomparso
era stato nominato «Presidente interino
della Sezione Concistoriale all’Oriente di
Napoli» ed aveva ringraziato con entusiasmo
sia Dominici che Bozzoni”. L’edizione
da me utilizzata dell’opera di Buttà è quella
Bompiani del 1985, prefata da Leonardo
Sciascia (il brano in questione si trova alle
pagine 117-122). Ecco cosa scrive lo storico
siciliano: In Napoli è la setta così chiamata
de’ camorristi; e per quelli che non
la conoscono è necessario che ne abbiano
un’idea; imperocché di questa setta se ne
servirono i liberali per far popolo, rumore,
dimostrazioni e detronizzare Re Francesco
II. La setta de’ camorristi è molto antica in
Napoli; ma alcuni sostengono che sia comparsa
con la dominazione

spagnuola. Difatti l’origine del nome Camorrista
è da Camorra, che in ispagnuolo vuol
dire querela. Altri poi dicono che Camorrista
viene da Morra ch’è un giuoco ove si commettono
soprusi e giunterie.
Ed invero i camorristi traggono de’ guadagni
sopra i giuochi leciti ed illeciti. Camorrista
in Napoli suona ladro, giuntatore, galeotto,
accoltellatore, usuraio guappo o sia spacconaccio.
I camorristi generalmente vestono
giacca di velluto, calzoni stretti a’ ginocchi,
larghi sul piede. Per cravatta usano un fazzoletto
a diversi colori, annodato al collo, molto
largo con lunghe punte; gilè aperto, berretto
o cappello pendente sempre da un lato della
testa, capelli lisci, canna d’India in mano e
ben lunga, e sigaro in bocca, che chiamano
siquario. Quando parlano e si vogliono atteggiare
a guappi, o appoggiano un fianco
sopra la canna d’India, o aprono e chiudono
le gambe abbassando il corpo.
Per essere ammesso tra’ camorristi, è necessario,
come essi dicono, essere onorato. Prima
fanno il noviziato, ed imparano a maneggiare
bene il bastone, il coltello, ed usar
bene il linguaggio furbesco. Quando sono
giudicati idonei dal Caposquadra, passano
al grado di Sgarra, indi a quello di Contaruolo,
ch’è una specie di contabile e di e di
cassiere. Per essere Caposquadra un Contaruolo
dovrà battersi col coltello con dieci
persone separatamente, ferirne almeno tre e
non aver mai rifiutata alcuna sfida. Quando
rubano si dividono il bottino secondo i gradi
che occupano. Vi sono quelli destinati a fabbricare
chiavi false, quelli a fare i borsaioli,
i rapinatori, i manutengoli, e gli accoltellatori.
Vi sono poi quelli destinati a fare il palo,
cioè la spia per avvertire i ladri nell’atto che
rubano, se mai occorresse pericolo di essere
veduti o arrestati. Vi sono i pedinatori, i quali
seguono colui che esce di casa o dal proprio
negozio e che dovrà essere derubato: il pedinatore
è destinato ad avvertire i colleghi che
rubano, che già ritorna il padrone che si sta
rubando, per farli scappare via con quello
che han potuto sgranfignare. I camorristi
puniscono le trasgressioni, sfregiando col
rasoio il trasgressore.
Chiamano infame chi fa testimonianza contro
qualunque ladro o assassino. Del resto
tra loro si proteggono a maraviglia: soccorrono
con particolarità i loro compagni carcerati
e pagano l’avvocato per difenderli.
Qualche volta i camorristi difendono i deboli
contro i forti, e fanno da pacieri in qualche
diverbio o rissa tra persone a loro non appartenenti.
La gente onesta teme i camorristi, non li accusa
alle autorità, e per lo più si sottomette
alle loro giunterie, per non essere accoltellata
da coloro che restano in libertà. Vi sono
pure in Napoli e dapertutto de’ camorristi in
frak e guanti gialli, che spesso si applicano
qualche qualità e sono questi i più pericolosi,
specialmente per la borsa; perché fanno
debiti per non pagarli mai, vivono con lusso,
facendo i cavalieri d’industria. Guai se loro
domandate il vostro credito, vi dicono male
parole, e vi minacciano. I liberali si servirono
di questi camorristi aristocratici per
creare la classe pensante, come essi dicono.
Questa esiziale piaga del camorrismo è stata
e sarà sempre il terrore della città di Napoli.
Tutte le dominazioni, che si sono succedute,
hanno accusate le precedenti, perché non
hanno distrutto la setta dei camorristi, e poi
esse medesime han finito per tollerarla, e
qualche volta se l’han fatta alleata.
Proclamata la Costituzione, il Ministero
liberale fece Prefetto di Polizia Don Liborio
Romano, nativo delle Puglie. Era costui un
avvocatuccio infelice, o come suol dirsi, avvocato
storcileggi: fu carbonaro, massone,
mazziniano, e nel 1850 fu messo in carcere,
ed in ultimo esiliato.
Il 22 aprile del 1854, D. Liborio mandò da
Parigi, ove si trovava allora, un’umile supplica
al Re Ferdinando II, nella quale protestava:
«Devozione e attaccamento alla sacra
« persona del Re: e se mai l’avesse offesa
inconsapevolmente, pro-« mettea in avvenire
una condotta irreprensibile ».
Re Ferdinando lo fece tornare nel Regno.
della città di Napoli. Tutte le dominazioni,
che si sono succedute, hanno accusate le
precedenti, perché non hanno distrutto la
setta dei camorristi, e poi esse medesime han
finito per tollerarla, e qualche volta se l’han

fatta alleata.
Proclamata la Costituzione, il Ministero
liberale fece Prefetto di Polizia Don Liborio
Romano, nativo delle Puglie. Era costui un
avvocatuccio infelice, o come suol dirsi, avvocato
storcileggi: fu carbonaro, massone,
mazziniano, e nel 1850 fu messo in carcere,
ed in ultimo esiliato. Il 22 aprile del 1854,
D. Liborio mandò da Parigi, ove si trovava
allora, un’umile supplica al Re Ferdinando
II, nella quale protestava: «Devozione e attaccamento
alla sacra « persona del Re: e se
mai l’avesse offesa inconsapevolmente, pro-
« mettea in avvenire una condotta irreprensibile
». Re Ferdinando lo fece tornare nel
Regno. D. Liborio Romano, divenuto prefetto
di polizia liberale, si circondò di tutta la
Camorra napoletana, ed altra ne fece venire
poi dal Regno, e dal resto d’Italia.
Di alcuni di quei camorristi non so che novelli
poliziotti ne abbia fatto; ad altri diede
l’onorevole mandato di far la spia alla gente
onesta, designata sotto il nome di borbonica,
altri infine, ed erano i più facinorosi, destinò
a soffiare nel fuoco della rivoluzione, in
mezzo al popolaccio napoletano. Le prime
prodezze dei camorristi – sempre diretti da
D. Liborio, prefetto di polizia – furono gli
assalti dati agli ufficii della vecchia polizia,
essendo stata questa troppo curiosa di conoscere
i fatti della gente poco onesta, e come
intorbidatrice della pace de’ camorristi e de’
settari. A dì 27 e 28 giugno, dopo tre giorni
che si era proclamata la Costituzione, vi furono
due assembramenti di camorristi, di lenoni,
di monelli e di cattive donne, tra le altre
la De Crescenzo e la celebre ostessa detta
la Sangiovannara: tutti pieni di fasce e nastri
tricolori, con pistole e coltelli, gridavano
libertà ed indipendenza, a chi non gridasse
in quel modo parolacce e busse.
Il 27 assalirono i due Commissariati di polizia,
quello dell’Avvocata e l’altro di Montecalvario.
Un certo Mele, capo di quelle masnade,
che giravano in armi in cerca della
vecchia polizia, ferì a Toledo l’ispettore Perrelli.
Costui fu messo in una carrozzella per
essere condotto all’ospedale: potea vivere,
ma il Mele lo finì nella stessa carrozzella a
colpi di pugnale. In compenso di quella prodezza,
il Mele fu ispettore di polizia sotto la
Dittatura di Garibaldi. Giustizia di Dio…!
L’anno appresso il Mele fu accoltellato da
un certo Reale, altrimenti detto bello guaglione;
svenne, fu messo pure in carrozzella,
ma prima di giungere all’ospedale morì.
Il prefetto Don Liborio, vedendo che tutto
potea osare impunemente, il 28 riunì un
grande assembramento di que’ suoi accoliti,
e loro impose di assaltare gli altri Commissariati
della vecchia polizia. Le scene ributtanti
e i baccanali di questa seconda giornata
oltrepassarono di gran lunga quelli operati
nella precedente. Quella accozzaglia assalì i
Commissariati al grido di muora la polizia!
Viva Carlibardi! – così alteravasene il nome
dalla plebaglia – La truppa, che tutto vedeva
e sentiva, fremea di rabbia, ed era obbligata
da’ suoi duci a starsene spettatrice indifferente.
Gli assalitori de’ Commissariati gittarono
da’ balconi tutte le carte, il mobilio,
le porte interne, e ne fecero un falò in mezzo
alla strada. Un povero poliziotto del Commissariato
di S. Lorenzo si era occultato in un
credenzone, e così, com’era, fu gittato da un
balcone in mezzo alla strada. Intorno a quel
falò si ballava, si bestemmiava, si cantavano
canzoni le più oscene. Il solo Commissariato
della Stella non fu invaso e distrutto per
quella giornata, perché i vecchi poliziotti di
guardia si atteggiarono a risoluta difesa, e
tennero lontani i camorristi e compagnia
bella. Ma que’ difensori del Commissariato,
vedendo che il Governo volea la loro distruzione,
la sera abbandonarono il posto, che
fu l’ultimo a essere distrutto. Dopo che i
camorristi fecero quelle prodezze, andavano
attorno con piatti nelle mani a domandare
l’obolo per la buona opera che avevano fatta.
E i liberali, trovarono giustissimo quanto
aveano operato i camorristi; poiché secondo
la loro logica, la Costituzione proclamata
importava uccidere i cittadini, che aveano
servito l’ordine pubblico ed il Re.

Sarebbero state sufficienti queste prime
scene inqualificabili, perpetrate da’ camorristi,
capitanati da D. Liborio, prefetto di
polizia liberale, per far conoscere anche
agli sciocchi, e principalmente a chi potea
e dovea salvare la Dinastia e il Regno, che
la proclamata Costituzione serviva come
mezzo sicurissimo per abbattere Re e trono.
Ma si proseguì sulla medesima via de’
cominciati disordini, i quali si accrescevano
giorno per giorno, ora per ora con selvaggia
energia, ed a nulla si dava riparo. Ciò
dimostra la tristizia e l’infamia degli uomini
che allora aveano afferrato il potere, e la
dabbenaggine di coloro che si dicevano, ed
erano realmente, pel Re e per l’autonomia
del Regno. (…)
Il ministro della guerra, Leopoldo del
Re, devoto e fedele al Sovrano, in vista
dell’anarchia sempre crescente a causa de’
camorristi, diretti e sostenuti da D. Liborio,
prefetto di polizia liberale, tolse dal comando
della Piazza il generale Polizzy, il quale
non avea fatto impedire da’ soldati quei baccanali
e quegli eccessi perpetrati da’ camorristi,
e dal resto della brunzaglia napoletana.
In cambio nominò il duca S. Vito, il quale
proclamò lo stato d’assedio. Si proibì ogni
assembramento maggiore di dieci persone, e
la esportazione d’armi e di grossi bastoni. S.
Vito uomo risoluto, a norma dell’Ordinanze
di Piazza, volea procedere al disarmo. D. Liborio
però si oppose energicamente, conciosiaché
disarmando i camorristi, egli, prefetto
di polizia liberale, rimaneva senza armata e
senza prestigio; e, sostenuto come era dalla
setta e dai traditori che circondavano il Re,
la vinse; ed i camorristi rimasero padroni di
Napoli, cioè erano essi la sola autorità
dominante. D. Liborio non contento ancora
di avere a sé i camorristi, volle pure che i
medesimi fossero riconosciuti e pagati dal
Governo; di fatti ottenne un decreto, in data
del 7 luglio, col quale si aboliva l’antica polizia,
e se ne creava una nuova di camorristi,
con nuove uniforme e nuovi principii, già
s’intende.
Fu uno spettacolo buffonesco quando si
videro in Napoli i camorristi dalla giacca
di velluto, vestiti da birri, o sia da guardie
di pubblica sicurezza, e i loro caporioni da
Ispettori. Quei custodi dell’ordine pubblico
faceano paura agli stessi liberali, e molti di
costoro si dolsero con D. Liborio; il quale
rispose di aver fatto benissimo; dappoiché
i camorristi doveano essere compensati e
protetti a preferenza, per grande ragione de’
servizii che aveano resi, e di quelli che doveano
rendere ancora: diversamente, si sarebbero
messi dal lato dei reazionari. Disse
pure, ch’egli si augurava di fare di loro tanti
onesti impiegati governativi; essi, che fino
allora erano stati negletti e perseguitati (che
peccato!); e che era suo divisamento cavare
l’ordine dal disordine[7]. – Queste massime
antipolitiche e antisociali, specialmente pel
modo come l’applicava D. Liborio, erano
imitate dallo stesso Ministero negli altri
rami amministrativi, cacciando via gli impiegati
antichi ed onesti, e surrogandoli con
gente o ignorante, o dubbia o disonesta.
Andrea Carancini
[1] http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/09/saviano-il-tricolore-contro-la-macchina-delfango/75912/
[2] http://www.fiammanirenstein.com/articoli.asp?Categoria=11&Id=2438
[3] http://guerrillaradio.iobloggo.com/1989/roberto-saviano-vieni-via-con-me
[4] http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Butt%C3%A0 . Una sommaria conferma del racconto
di Padre Buttà la si trova anche su Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Camorra
[5] FrancoAngeli, Milano, 1998
[6] Si tratta del Bollettino massonico
[7] Si ricordi al riguardo il celeberrimo motto massonico ORDO AB CHAO.

EL 5 SETTEMBER
In tra i tant moment che gh’ann segnaa
la Stòria della nostra Insubria, bei
ò grammi, el pussee important le debon
quell che se festeggia in del 5 de
settember: quand che’n del 1395 el
Gian Galeazz Viscont l’è diventaa officialment
Duca de Milan, Princip del
Sacro Roman Imper, Vicar Imperial e,
in del 1397, Duca de Lombardia.
Ma pròppi per podè serbà la memòria
de quest grand dì, l’è mej vedè come
Milan l’è passada da vess on important
monicipi a on docaa imperial.
Per comincià gh’emm de dì che, in
principi, la dinastia dei Viscont l’era
minga l’uniga destinada a regnà su
Milan, gh’eren anca i Della Torr. I
primm i eren Ghibellin, i segond Guelfi.
Semm in del 1262 quand che’l Papa
Urbano IV decid de fà diventà Ottone
Viscont arcivescovv de Milan, e allora
la reazion dei Della Torr la sarà dura
debon. Come mai, l’Ottone Viscont,
de famiglia ghibellina e minga nunch
che semm guelfi? In di ann che i vegnen
i òmen di questi scior, i se pichen
e i se mazzen per be, fin quand, in del
1277, il vescovv Ottone sgavezza ona
vòlta per tucc i sò nemiss a Des, anca
se l’ultima vera battaja l’è quella de
Castelsevar (1287).
Allora’l vescovv Ottone voeur perd
minga temp e, pròppi in del 1287, fa
diventà Capitan del Pòpol el so neoo
Mattee, tri ann dòpo el vescovv se
ritira de la politiga.
El finirà i sò dì a 88 ann, in quell de Ciaravall.
El Mattee, dopo avè sistemaa
alter problemi con’t i Della Torr, el diventa
primm Signor de Milan con’t el
titol di rettor vitalizzi e vicar imperial,
titoi conservai dai so successor.
Con’t el Mattee comincia el proggett de
unificà la Lombardia.
Dòpo la soa mòrt, sto mestè chi l’è passaa
in di man del sò neoo Azzon Viscont.
Nel 1332 se forma ona sòrta de trionviraa
con’t i du fioeu de Mattee, che de
Azzone i eren i zii: Luchin e l’arcivescovv
Gioan.
El Gioan l’è staa quell che ha vengiuu
contra i Scaliger de Verona e che s’è
majaa Genoa e Bològna; a Luchin va
reconossuu el merit de avè trasformaa
Milan in’d ona dominazion territorial ròbusta
e, come vedaremm, destinada a
on gran destin.

Intant va regordaa che l’Azzon
l’è nominaa, oltra che vicar imperial,
anca vicar papal, e che i
duchi d’Austria Ottone e Alberto
fann disegnaa ona coròna sora’l
Biscion. E quest l’è domà el princippi.
Gian Galeazz Viscont l’è
nassuu a Pavia in del 1347.
L’era ciamaa Cont de Virtù, titol
portaa in dòte dalla prima miee,
Isabella de Valois. St’òmm chi
l’era on gran soldaa, cinic e spietaa,
ciappa el poder copand el
so zio Bernabò. Nepunemanch el
se trova de par lu con’t on domini
territoral mai veduu per on stato
regional in della penisola italiana.
E in quell 5 de settember,
l’imperador Venceslao de Lussemborg
Boemia fa diventaa Gian
Galeazz Viscont Ducaaa imperial
de Milan con tucc i alter titoi
ch’emm veduu al princippi.
Milan e il sò territòri diventen on
docaa, e l’è proppi adess che’l
nòster Biscion, simbol derivaa
dalla crosada di lombard, l’è inquadraa
insema all’Aquila imperial
todisca, el pusse antigh simbol
politigh europee, l’è adess
che nass la bandera che nunch
ciamom Ducal. La dominazion
Viscontea la va dal San Gottard
al lagh Trasimen, quasi come
l’antiga Langobardia Maior, e
fòrsi mai come ora i Viscont se
consideren eredi di Longobard.
Gian Galeazz ha governaa el Ducaa
portand tanti progress, sotta
de lu l’è nassuda la figura del
Vicar de Provesion, ona gloriosa
magistradura civiga modell per
l’Europa intera.
El Docaa de Milan l’è diventaa ona grand
center economigh tra l’Itaja e il rest
d’Europa. L’è adess che se comincia a pensà
de celebrà la grandezza de Milan e de
la soa Gesa con’t on grand monument, el
Dòmm de Milann. Tanti Milanes dann ona
mann per met su questa granda Gesa.
Incoeu, ch’inn passaa tanti ann devom fa
memòria di quei temp passaa, pensaa
che quell biscion che adess se trova sora
i automobil de l’Alfa e a San Sir quand che
gioga l’Inter, on temp l’era bon de fa tremà
de pagura i soldaa nemiss e, pussee important,
l’era visin a quell’aquila, la stessa
aquila che g’ha perduu tucc i pioeumm el
secol passaa e che adess l’è domà on usell
imbalsamà che quaivun voer nascond in’dei
bus de la Storia.
ALBERTO DA NOVATE

LA QUESTIONE IMMORALE
Nella tortura quotidiana ch’è la lettura
del giornale, che, più che la preghiera
dell’uomo moderno, come sosteneva
Hegel, ne è divenuta la penitenza, capita
spesso di aver modo di adocchiare
chiamate alla moralità da parte di figuri,
spesso un poco loschi, che si scoprono,
talvolta improvvisamente, difensori
della giustizia in terra, messi inviati
da Temi in persona per poter umiliare
i vari tracotanti rodomonti che prepotentemente
tentino di asservire la
Res Publica ai propri interessi, ai propri
tornaconti, e, talvolta, alle proprie
priapesche voglie. Figuri che iniziano a
strepitare contro i propri avversari, accusandoli
di tutte le nefandezze pos-
sibili, ergendosi come Eracle dinanzi al
gigante Porfirione, sicuri della propria
vittoria nonostante la ferocia dell’oste.
Ora, se queste affermazioni, nobilissime
nella forma, fossero reali e veritiere,
e bastassero atteggiamenti ispirati ad
onestà e trasparenza per risolvere i
problemi della Patria, non potremmo
che coronarci di ghirlande di fiori e
saltellare pei prati con la vispa Teresa,
lasciandoci alle spalle la mestizia e la
tristezza per sempre. Purtroppo, però,
spesso la mano destra non sa cosa faccia
la sinistra(o almeno non s’intromette),
e a dichiarazioni inclite non corrispondono
fatti all’altezza; e, d’altro canto,
qualora questo accadesse, non potreb-

e neppure essere sufficiente.
E questo per un semplice fatto: la
democrazia genera necessariamente
azioni immorali.
Forse, a qualcuno tra voi si saran rizzati i capelli;
ad altri sarà andato di traverso il caffè;
altri ancora si staranno invece accingendo a
chiamare un’ambulanza, per poter portar
via il sottoscritto, ritenuto evidentemente
esaurito. Benchè quest’ultima ipotesi possa
non essere tanto campata in aria, bisogna pur
dire che la considerazione tra il legame tra
dominio del demos e immoralità non ne
sia necessariamente derivante. Infatti,
questa potrebbe essere sostenuta da
persone ben più lucide del sottoscritto,
che pure si assume l’incomodo dopo
aver lanciato il sasso(che spera abbia
provocato qualche bernoccolo).
La democrazia genera azioni immorali
per un semplice fatto: per poter governare,
è necessario che una parte politica
tenti di raggiungere il maggior
numero di consensi possibile, visto che,
in caso contrario, risulterebbe sconfitta.
Ora, di norma, pare che si tenda
a valutare il proprio interesse preminente
rispetto a quello altrui, e che,
di conseguenza, si tenda ad appoggiare
chi faccia i propri interessi, piuttosto
che chi, in nome di un ideale superiore,
vada a lederli. Dunque, si sarà portati
a votare chi ci prometta di più. Ma essendo
il destinatario del voto interessato
a raggiungere il maggior numero
di voti possibile, tenderà ad effettuare
promesse che vadano ad ottenere il consenso
della maggior parte dei votanti, e
si troverà necessitato ad effettuare regalie
e donativi per poter raggiungere
l’obbiettivo dell’elezione.
In questo modo, chi impoverisca
le casse della Nazione per rispettare
tutte le promesse effettuate
sarà favorito, e potrà immoralmente
creare danno al Paese nel
complesso(nonostante in un primo
momento ne arricchisca qualche fascia),
pur di poter rimanere al potere.
E non sarà possibile neppure
ritirare le ingiuste concessioni: se
così avvenisse, infatti, il ritirante
non sarebbe più rieletto, e prenderebbe,
di conseguenza, potere un
altro demagogo, che riporterebbe la
situazione nella pessima fase precedente.
La democrazia non è trionfo
dell’interesse generale: al limite, è
il trionfo della somma di più interessi
particolari. E le misure a tutela
dell’uguaglianza sostanziale non possono
migliorare questa situazione, ma solo
peggiorarla: il sistema di contrappesi
ideato, infatti, non fa che appesantire
gli egoismi e i particolarismi; il sistema
di tassazione progressivo, ad esempio,
non farà che ledere i ceti produttivi del
Paese, a favore degli improduttivi, ledendone
la crescita. Il bene del Paese
non esiste più, invischiato nel trionfo di
egoismi nato dalla Rivoluzione e proseguito
con Marx e compagnia cantante.
Noi, nel nostro piccolo, non possiamo
che invocare un aiuto divino, affinchè
si torni a ripensare all’uomo non come
singolo, ma come appartenente ad una
società, nella quale sia perfettamente
integrato.
Jean La Maingre

Dizionario dell’anti-arte n. 6
Quando l’arte è bene metterla da parte
Il giardino romantico “all’inglese”
Tra i nuovi temi dominanti dell’arte rivoluzionaria tra ‘700 e ‘800, temi che vanno a
sostituire i consolidati luoghi privilegiati dell’arte come la chiesa e il castello-palazzo,
spicca per apparente secondarietà il cosiddetto giardino “all’inglese”.
Il giardino sembra infatti
un ambito decisamente
marginale per
quanto concerne la storia
dell’arte ma è in realtà
una sorta di cartina
tornasole paesaggistica
che porta alle estreme
conseguenze le acquisizioni
concettuali della
figuratività romantica.
Il giardino-paesaggio
“all’inglese” sorge in
Inghilterra intorno al
1720 per poi diffondersi
in tutto il continente
verso il 1760. La notorietà
così rapida dell’arte
del giardino è da attribuirsi
principalmente a
due motivi: innanzitutto
è una nuova forma di
creatività che possiede
ampi margini di sviluppo
e sperimentazione,
dall’altro pare una delle
estreme soluzioni atte
a preservare quell’unità
delle arti, quell’ “opera
d’arte totale” che proprio con la rivoluzione
sembra sempre più soccombere alla
frammentazione e alla settorializzazione
delle varie discipline creative. Proprio il
romanticismo tenta questa ultima retromarcia
nei confronti della rivoluzione
moderna che, al di là delle famose teorizzazioni
musicali di Wagner, ha dunque un
precedente importante nell’arte del
giardino.
Vi sono naturalmente ulteriori motivi di
diffusione di questa nuova forma d’arte:
nessuna delle arti imitative è in così intima
connessione con la natura come il
giardino, esso inoltre supera l’architettura
e la detronizza per quanto riguarda il
senso dello spazio (non a caso il giardino
“all’inglese” nasce in cosciente

contrapposizione al giardino architettonico
francese) e, in ultimo, è in grado di
offrire intere serie di immagini cosa che
le altre arti, ad eccezione della musica,
non possono fare. Addirittura la natura si
fa arte dal momento che molti degli elementi
architettonici presenti nei giardini
“all’inglese” sono eseguiti con elementi
naturali (grotte, edifici di pietra grezza…).
Una delle premesse affinché possa sorgere
l’arte del giardino è il mutamento del
rapporto dell’uomo con la natura, un rapporto
che da attivo diventa tristemente
passivo. Questa nuova assoggettazione,
in accordo con gli ideali romantici, corrisponde
ad un esigenza che ha sfumature
etico-religiose: la parola “natura” assume
connotati sacri e assurge in senso
panteistico a forma universale dello spirito.
D’altronde l’afflato religioso è ben
riscontrabile nella concezione di paradiso
primordiale perduto, quell’Eden che sintetizza
la forma più pura della natura, appunto
quella di un giardino.
In questa specie di luoghi di culto la società
è completamente abolita e l’uomo
rimane fondamentalmente solo e quasi
masochisticamente felice della propria
morte e distruzione. Essa è ben rappresentata
dalla compiacenza con cui molti
elementi architettonici sono volutamente
divelti e distrutti; di questo genere di
strutture le più famose sono le colonne
spezzate e i tempietti diruti e avvolti
dall’edera: la Natura (con la “n” maiuscola)
trionfa sull’uomo, effimero e misero
essere innanzi alla forza e alla potenza
dello spirito che tutto pervade.
Il declino di questo nuovo tipo di arte
comincia intorno al 1830, settant’anni

dopo aver conosciuto un considerevole
e straordinario sviluppo. All’altezza di
questa data assume ora una carattere
museografico, diviene quindi una specie
di museo della natura. Vi si piantano alberi
esotici, come in un orto botanico.
L’elemento primordiale, quell’unione di
sentimento e di religione, si perde così
come progressivamente si stava perdendo
lo spirito romantico che ha contraddistinto
un’intera epoca culturale.
LUCA FUMAGALLI
Questo significato particolare del giardino “all’inglese” è attribuito anche da Goethe in una lettera datata
1778 e indirizzata alla signora Von Stein (cfr. cit. in H. SEDLMAYR, La perdita del centro, Torino, Borla
editore, 1967, p. 30).

xh IL CINGHIALE MUSICALE a y
di Giovanni Cristaldi
Ascoltato per voi: The Real McKenzies – Off the Leash (2008)
Nel panorama del punk celtico sono tre i nomi più noti: Flogging Molly, Dropkick Murphys e, naturalmente,
i Real McKenzies. Personalmente, ritengo questi ultimi la formazione più interessante: non
si ispirano all’Irlanda, rinunciando così a una certa aura di intellettualismo esistenziale (James Joyce!
I pub di Dublino!), ma alla Scozia; e come sapete non amo i gruppi che si prendono troppo sul serio.
Notiamo, tra parentesi, che i Real McKenzies potrebbero addirittura avere ispirato altri del filone,
dato che sono attivi fin dall’inizio degli anni 90.
Eppure, sono proprio loro a raccogliere tante recensioni
negative. I motivi? Fingono di essere scozzesi
quando invece sono canadesi, usano le cornamuse
come un trucco, sono banali, e così via. Mi perdoneranno
gli etnomusicologi che hanno la bontà di leggermi,
ma a me questi discorsi interessano veramente
poco; mi interessa invece la musica, il suono, le vibrazioni,
tutte cose che per essere valutate non richiedono
l’esame di un passaporto.
E ritengo che l’ultimo album di questi ragazzi canadesi
(diciamolo pure, non è un disonore) sia una prova
non solo di grande maturità ma anche di spessore
musicale non indifferente. Dagli esordi, il gruppo ha
mostrato una costante crescita fino ad arrivare a un
disco che ha qualcosa per tutti: ci sono atmosfere più
rock e la novità di alcuni momenti più riflessivi, ma
sempre con una grande cura delle melodie. E le cornamuse
non sono un trucco, ma un elemento essenziale
dello stile, dato che assumono quasi sempre la guida
dei brani com’è giusto che sia. Questo significa usare
uno strumento in modo intelligente, rispettandone le
caratteristiche peculiari: non un ornamento esotico
ma una caratteristica fondamentale del gruppo, come
potrebbe essere un cantante dal timbro particolare o
un chitarrista molto bravo.
Una canzone su tutte? Senza dubbio “White Knuckle
Ride”: splendido intro di cornamusa che introduce
Folk Power: Kodo – Best of Kodo
Talvolta si rischia di trovarsi intrappolati in schemi predefiniti:
ad esempio, che il folk sia inteso solo come parte
del patrimonio nordeuropeo. Questo può essere vero per
il folk/metal, ma il folk in sé appartiene a tutti i popoli, e
talvolta può essere decisamente power.
Andiamo allora in Giappone e scopriamo i Kodo, un gruppo
forse senza pari; ma sarebbe più corretto parlare di orchestra,
vista la quantità dei membri e la variabilità della
formazione a seconda delle canzoni. Dalla fondazione, avvenuta
nel 1981, la ricerca dei Kodo si incentra sul taiko (o
daiko), il tamburo tradizionale giapponese.
il tema, poi una ritmica irresistibile lo rafforza;
intermezzo ancora di cornamuse armonizzate
e grande finale. Citiamo anche
“The Maple Trees Remember”, un sorprendente
numero country dove è protagonista
un’ottima chitarra.
Non solo divertimento e whisky, quindi, ma
anche tanta sostanza per gli ascoltatori di
mentalità aperta. A chi ama questo gruppo,
dichiaratamente ruspante ma non superficiale,
raccomando anche il resto della discografia,
fatta di ottimi lavori magari più sul
versante punk ma sempre godibili.

Il taiko esiste in tantissime fogge e dimensioni,
da quelli più piccoli che si
tengono in mano all’enorme horse ride,
tanto grosso che – come dice il nome – si
suona montandoci sopra a cavalcioni. Alla
cospicua schiera di percussionisti si aggiungono
il flauto giapponese (Shinobue) o
altri strumenti come il gong o i piatti.
Difficile descrivere a parole l’impatto
devastante dei ritmi dei Kodo: basta pensare
che questo disco è utilizzato per collaudare
gli impianti stereo, mettendo alla
prova le possibilità dei diffusori. Anche se
non è musica classica, non esito a parlare
di orgasmo wagneriano.
E non si pensi che sia solo rumore, tutt’altro! La sorpresa è invece la quantità di sensazioni che si possono
suscitare con l’uso quasi esclusivo di percussioni, nell’alternarsi di atmosfere dense e rarefatte. La
maniacale precisione giapponese emerge nell’organizzazione delle canzoni: che siano motivi tradizionali
o composizioni originali, tutti gli strumentisti si coordinano in modo affascinante. Non è molto diverso
dall’ammirare un complicatissimo orologio dove anche il più piccolo ingranaggio contribuisce alla mirabile
precisione dell’apparecchio.
Questa raccolta offre una valida panoramica del periodo
tra il 1988 e il 1992, e la segnalo anche perché la
si trova in vendita abbastanza facilmente. Pur parlando
di un disco, non si può dimenticare che le esibizioni
dei Kodo sono altrettanto curate dal punto di vista visivo,
con l’uso di costumi tradizionali ed elaborate coreografie
da parte degli stessi musicisti. Il gruppo tiene
molto allo scambio culturale e musicale, e allo scopo
ha fondato il Kodo Village, che ogni anno ospita un
festival di percussionisti da tutto il mondo. Tradizione
e innovazione per una volta si incontrano, e il successo
mondiale dei Kodo (più di 3.000 concerti in 27 paesi)
dimostra che la formula funziona.
Ascoltato per voi: Hollenthon –
With Vilest of Worms to Dwell (2001)
Qui vi presento un album non recentissimo ma comunque
imperdibile per tutti gli amanti del metal
sinfonico. Gli austriaci Hollenthon esordiscono nel
1999 con Domus Mundi, che fonde elementi metal
e di world music. With Vilest of Worms to Dwell
è invece orientato verso la grandiosità sinfonica, e
come evitare il paragone con i Therion? Eppure le
differenze sono notevoli. Per prima cosa, anche se
non sembra, le parti orchestrali, i violini pizzicati, i
fiati sono opera dei sintetizzatori. È tutto fatto molto
bene e non sembrano finti, ma in ogni caso non è
una vera orchestra.

E poi soprattutto le atmosfere: qui non c’è sempre una vera commistione di metal e musica classica, ma
l’orchestra agisce da “quinto beatle” per aggiungere drammaticità, quasi come nella colonna sonora di
un film. Ma l’aspetto più meraviglioso di questo album è che funziona: fortunatamente il gruppo ha
sempre ben presente l’importanza di un buon riff e di una struttura logica delle canzoni e gli aspetti
più sperimentali non ostacolano la preminenza del metal. L’interesse rimane sempre alto grazie a
un’ottima varietà: ci sono parti vocali maschili e femminili, alcune abrasive ed altre più pulite; e poi
un eccellente uso delle dinamiche, che troppo spesso altri gruppi trascurano. Produzione accurata,
gusto melodico e tecnica strumentale completano il quadro di un lavoro davvero riuscito. In breve,
un disco caldamente raccomandato a chi ama il metal dal gusto epico.
Ascoltato per voi: Therion –
The Miskolc Experience (2009)
Nel 2007 i Therion sono stati ospiti del festival dell’opera di Miskolc (Ungheria), e hanno potuto così
suonare con un’intera orchestra. L’esperienza è stata registrata e confezionata in questo set che comprende
due CD e un DVD.
Il primo CD contiene musica classica e lirica, dove quindi è predominante l’orchestra e il gruppo si inserisce
solo in certi momenti. Particolarmente riusciti sono alcuni pezzi che ben si adattano allo stile metal
più o meno epico: in particolare il “Dies Irae” di Mozart (peccato che duri solo due minuti), l’aria di Verdi
dal Trovatore e l’estratto dalla nona sinfonia di Dvorak, dove una cadenza chiaramente slava
viene rinforzata dalle chitarre di Christofer Johnsson
e Kristian Niemann. Coinvolgenti anche i pezzi di
Wagner, ma come si spiega l’assenza della Cavalcata
delle Valchirie? Molto meno interessanti, invece,
“Clavicula Nox” (troppo lunga – dieci minuti – per
essere una semplice introduzione) e l’opaco estratto
dalla terza sinfonia di Saint-Saëns.
Il secondo disco raccoglie nove canzoni del repertorio
dei Therion: sono buone esecuzioni, anche se
non particolarmente ispirate. Ricordo solo “Blood of
Kingu” e un’ottima “Grande Finale”, quasi al livello
della versione registrata in studio.
Cosa resta di questa Miskolc Experience?
L’impressione è di un disco piacevole ma non imperdibile
rispetto alla discografia generale. Piacerà
senza dubbio ai fan, ma chi vuole scoprire il gruppo
forse dovrebbe cominciare altrove..
Giovanni Cristaldi
Nota finale: Con questo articolo Giovanni Cristaldi
(alias Vittorio Ambrosetti) conclude la sua collaborazione
a “Il Cinghiale corazzato”, iniziata col numero
14 nel giugno 2006. Quattro anni e mezzo di segnalazioni
e recensioni musicali che hanno suscitato curiosità,
interesse e attenzione. Lo ringraziamo davvero
per l’impegno costante e puntuale e per aver impreziosito
questa rivista coi suoi contributi. Dal prossimo
numero (36) il “Cinghiale musicale” dovrà necessariamente
cambiare veste e contenuti.

DRACULA: LA LEGGENDA DEL PRINCIPE DI VALACCHIA
Mostri e creature della notte hanno da sempre popolato
i racconti degli uomini: essi erano visti come le diaboliche
entità che, dopo il calar delle tenebre, vagavano
per la terra, rendendola un luogo non sicuro per gli esseri
umani, i quali dovevano rifugiarsi dentro le proprie
case e aspettare con pazienza l’alba. Tra i tanti esseri
oscuri che si sono susseguiti nell’immaginario collettivo,
uno dei principali fu sicuramente la figura del vampiro:
nemico delle luce e del bene, durante la notte questo
mostro andava in cerca di vittime innocenti, alle quali,
dopo averne succhiato via tutto il sangue, trasmetteva la
propria ancestrale maledizione, trasformando anch’esse
in creature sanguinarie e fameliche. Se ogni cultura del
pianeta ha la sua versione locale del vampiro (dalla
babilonese Tiamat, all’ebraica Lilith fino al più recente
chupacabra andino), certamente quella più famosa è
stata quella del conte Dracula, portata alla ribalta per
la prima volta dall’opera omonima dello scrittore irlandese
Bram Stoker. Per delineare la figura del suo demoniaco
personaggio, Stoker prese spunto dai racconti
che nella regione della Transilvania, regione montuosa
della Romania arroccata sui monti Carpazi, si facevano
ancora sulla figura storica del crudele principe di Valacchia
Vlad III. Soprannominato “l’Impalatore” per l’uso
diffuso che fece durante il suo regno di questo genere
di tortura, Vlad nacque nel 1431 in Transilvania, figlio
del voivoda (principe) di Valacchia Vlad II Dracul. Certamente,
il futuro sovrano valacco non venne alla luce
in un’epoca storica facile: la zona balcanica costituiva
allora “l’ultima barriera” dell’Europa Cristiana contro le
mire egemoniche turche e a causa del carattere frammentario
dei regni che lo componevano, lotte fratricide
e ignobili cospirazioni erano all’ordine del giorno. Questa
situazione fece arrivare il piccolo erede al trono ad una
maturità precoce che si completò quando, a causa delle
trame politiche del padre, fu mandato come ostaggio
presso la corte del sultano: se da un lato il soggiorno
presso la corte islamica portò il futuro voivoda a accostarsi
alle prime nozioni di arte politica, dall’altro fu un
periodo in cui venne sottoposto a numerosi soprusi, primo
tra tutti l’obbligo di convertirsi all’Islam (rimanendo
però segretamente cristiano). Sarebbe stato al ricordo
della sua cattività ottomana che Vlad, dopo essere riuscito
a tornare in Valacchia e a salire al trono, si sarebbe
trasformato nel peggior nemico dei turchi, tanto spietato
che il suo nome sarebbe diventato sinonimo di demonio
tra i musulmani. C’è da dire che pur trovando veridicità
in alcuni dei resoconti sulle crudeli azioni commesse dal
sovrano carpatico, certamente la fama di mostro sanguinario
che lo circondò non fu nient’altro che la conse
guenza di una piano di diffamazione messo in atto dai
rivali di Vlad nella regione: difatti se l’inesorabile voivoda
era odiato e temuto dai turchi, non era certamente amato
dai suoi suoi vicini europei, primo fra tutti il sovrano
d’Ungheria Mattia Corvino, che pur servendosi di lui
come scudo contro la minaccia ottomana alimentava
gli scontri che l’Impalatore doveva frequentemente
sostenere con altri despoti valacchi e
moldavi, nel tentativo di tenerlo sempre sotto
controllo. E’ però un fatto incontestabile che
Vlad fu uno dei pochi sovrani balcanici che,
negli anni in cui governò, non fece mai accordi
personali con l’Impero Turco, ne accettò mai
di assoggettarsi a una nazione europea che
si fosse piegata per opportunità al comando
del sultano: arrivò al punto di sottomettersi
all’autorità di Mattia Corvino, che lo aveva addirittura
imprigionato, pur di poter continuare
a combattere i turchi, nella campagna militare
in cui poi avrebbe trovato eroicamente
la morte, nel 1476. E le atrocità che mise in
pratica durante il suo regno, come già detto
vanno viste nel contesto in cui furono eseguite:
se per noi rappresentano sicuramente atti
di ignobile crudeltà, per la classe dominante
dell’epoca non era altro che routine politica. In
più Vlad era si inesorabile, ma la sua tremenda
giustizia colpiva senza distinzioni sociali, di
ceto o di censo: se risultava colpevole, qualsiasi
suo suddito, dal contadino al nobile fino
al prete, era sottoposto dal sovrano valacco al
suo castigo. Oggi in Romania, nel processo di
revisione storica che ha portato a una analisi
più dettagliata di altre figure nazionali, tra cui
Ceausescu e Codreanu, molti vedono nella
figura di Vald come quella del vero fondatore
della nazione rumena, poiché fu proprio
durante gli anni del suo regno che si generò
nella regione quella coscienza nazionale che
garantii, durante gli anni di dominazione ottomana,
la sopravvivenza di una forte cultura
cristiana, precludendo così alle autorità turche
la possibilità di farvi insediare popolazioni di
fede musulmana come poi avrebbero fatto,
con conseguenze devastanti dal punto di vista
culturale e geopolitico, in Albania e Bosnia.
Angelo Luppo

A giorni nelle librerie:
L’ASSE ROMA-BERLINO-TEL AVIV
di ANDREA GIACOBAZZI
Questo libro fornisce fatti, dati e documenti tanto importanti quanto puntualmente ignorati
nello studio della seconda guerra mondiale e, in particolare, nell’analisi degli intensi
rapporti che hanno coinvolto le più diverse organizzazioni ebraiche (religiose, non
religiose, socialiste, nazionaliste, sioniste, sioniste-revisioniste) e le gerarchie politiche
dell’Italia di B. Mussolini e della Germania di A. Hitler. Alcuni tra i temi affrontati
saranno: la presenza massiccia di ebrei tra i dirigenti dello stato fascista, il caso del giornale
ebraico-fascista “La Nostra Bandiera”, gli intensi e proficui scambi tra i dirigenti
sionisti e l’Italia di quegli anni in campo economico e politico, il rapporto privilegiato
dei sionisti-revisionisti di Jabotinsky
– considerati i “fascisti
del sionismo” – e le organizzazioni
di regime, in particolare la
nascita, presso la scuola marittima
di Civitavecchia, di un corso
ebraico, nucleo della futura
marina israeliana; in ambito
tedesco: l’esistenza di gruppi
organizzati di ebrei “assimilati”
favorevoli all’instaurazione del
nazionalsocialismo, la presenza
tutt’altro che ridotta di esponenti
di origine ebraica nelle
forze armate e negli apparati
di potere tedeschi, le fonti finanziarie
del regime hitleriano,
i forti legami e gli importanti
accordi “nazi-sionisti” tra cui
l’Haavara (per il trasferimento
delle proprietà ebraiche in Palestina)
e gli Umschulungsläger
(campi di addestramento per i
pionieri sionisti presenti in Germania),
le collaborazioni con i
sionisti-revisionisti ed in particolare
le proposte di alleanze di
guerra avanzate dal Lehi al Terzo
Reich in cambio d’aiuto per
la creazione dello stato ebraico.
A questi passaggi se ne aggiungono
molti altri che per brevità
non riportiamo.

In questa pagina riportiamo un documento inedito, raccolto da Andrea
Giacobazzi durante le ricerche per la stesura de L’Asse Roma-Berlino-Tel
Aviv, e proveniente dall’’ Istituto Jabotinsky di Tel Aviv, P189/2
e risalente al 1929. In occasione del 16° Congresso Sionistico Mondiale,
i revisionisti italiani arrivarono alla aperta professione di fascismo.
In un volantino propagandistico per l’elezione dei delegati scriveranno:

COPISTERIA
CAMINADELLA
Via Caminadella 22
angolo via Lanzone
TEL 02-72021896
stampe digitali, fotocopie
microfiches, servizio tesi

IL CINGHIALE CORAZZATO
FOGLIO DI INFORMAZIONE E CULTURA
DELLA CAP DELL’UNIVERSITA’ CATTOLICA
Direttore
ENRICO RESTELLI
Direttore Responsabile
PIERGIORGIO SEVESO
hanno collaborato:
LUCA FUMAGALLI, DAVIDE CANAVESI, RICCARDO
BOSCHETTO, , ANDREA GIACOBAZZI, ALBERTO
SCHIATTI, ALBERTO DA NOVATE. GIOVANNI
CRISTALDI, ROBERTO MARCANTE, JEAN LA MAIN-
GRE, ANDREA CARANCINI, ANGELO LUPPO
COME CONTATTARCI
SITO: www.capcattolica.org
www.cinghialecorazzato.info
E-MAIL: enricoreda88@gmail.com
AULA:
Robert Brasillach - Alberto da Giussano
Università CattoliCa
edifiCio antonianUm ii piano
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ENRICO: 347.0635326
PIERGIORGIO: 392.9950752