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Documento allegato - Turin D@ms Review

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Franco Perrelli<br />

UN MATRIMONIO ALL’INFERNO.<br />

SULLA DANZA MACABRA DI AUGUST STRINDBERG<br />

1. Il nuovo secolo si avviò intenso e operoso per il drammaturgo August<br />

Strindberg che, dopo molti anni di assenza e di travagli spirituali, nell’estate del<br />

1899, si era ristabilito nella sua Stoccolma. Il 1900 si segnala così per un imponente<br />

dramma storico Gustav Adolf; due pièce in qualche modo in relazione con la vivace<br />

vita della capitale: Mezza estate [Midsommar] e Il martedì grasso di Kasper<br />

[Kaspers fettisdag]; la sacra rappresentazione borghese di Pasqua [Påsk] e il dittico<br />

intitolato La danza macabra [Dödsdansen], che va senz’altro valutato un capolavoro,<br />

soprattutto per la sua prima parte.<br />

Diremo subito che Strindberg ha considerato le parti I e II della Danza macabra in<br />

collegamento, quasi come capitoli «di un romanzo, dettagliato»: il primo doveva<br />

costituire l’affresco sulfureo dell’infelicità coniugale del capitano Edgar e di Alice,<br />

una ex attrice, confinati e quasi sorvegliati a vista nel «piccolo inferno» di una specie<br />

di Isola del Diavolo [Sv 44, p. 112], nel cui squallido destino s’innestava il<br />

coinvolgimento, al limite del sado-masochismo, del cugino Kurt, ispettore di<br />

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1


quarantena; il secondo (che in Germania sarà noto come Der Vampir) doveva<br />

illustrare più in profondità l’essenziale «ingrediente» del vampirismo di Edgar e la<br />

sua morte, con un finale che intendeva essere «la proclamazione della grande<br />

rassegnazione, senza la quale la vita è impossibile» [B 14, pp. 8; 169].<br />

Questa seconda parte – che Strindberg aveva già in mente – fu ulteriormente<br />

sollecitata dal traduttore tedesco Emil Schering, perplesso sulle prospettive teatrali<br />

del primo dramma e, quindi, con il fine di «attenuare attraverso il gioco dell’amore la<br />

tragedia dei vecchi» (E. Schering) [Briefe, p. 36; cfr. B 13, p. 329]. Tuttavia, lo<br />

stesso Strindberg non aveva problemi per una messinscena della sola parte I [cfr., per<br />

esempio, B 15, p. 76], mentre critici molto autorevoli (Martin Lamm in testa) hanno<br />

considerato – forse troppo severamente, ma non senza ragione – Danza macabra II<br />

«un’aggiunta superflua» al primo magnifico e del tutto autonomo dramma [Lamm, p.<br />

281].<br />

Pur essendo un caso tutt’altro che unico nella produzione strindberghiana, La<br />

danza macabra sembra materializzarsi quasi da un’eruzione. La prima parte fu,<br />

infatti, probabilmente composta, a ridosso del dramma Pasqua, in poco più di una<br />

settimana, tanto che la sua data di nascita è improvvisamente consegnata a una<br />

veloce annotazione del 31 ottobre 1900 sul Diario occulto [Ockulta dagboken],<br />

insieme alla descrizione della sorprendente rivelazione di un arcobaleno verde e<br />

rosato. La seconda parte arriverà alla fine dell’anno e il dittico sarà pubblicato in un<br />

unico volume nell’ottobre del 1901.<br />

Possediamo, tuttavia, diversi appunti e frammenti preliminari che fanno supporre<br />

una gestazione sotterranea complessa e relativamente più protratta. Fra le carte di<br />

Strindberg (di non facile datazione e, talora, d’indiretta attribuzione al nostro<br />

dramma) ricorrono infatti i riferimenti a Döds-dansen e a Döden i dansen [La morte<br />

nella danza], a «coniugi che si tormentano a vicenda», con agganci a temi che<br />

saranno poi sviluppati in Un sogno [Ett drömspel] nel 1901. Tra questi, l’idea degli<br />

uomini nel «carcere» della vita e del loro vicendevole torturarsi appunto «come<br />

fanno i prigionieri e i pazzi» [cfr. Lamm, p. 281; Ollén, p. 363]. Ancora, troviamo<br />

rubriche che suonano: «Tutto ritorna»; «La lotta con la morte. (Danse Maçabre)<br />

[sic!]. Preparazione alla morte», con battute sparse tipo: «Io non ti ho mai amato!» e<br />

annotazioni relative a vampirismo o telepatia da elaborare in un dramma di almeno<br />

cinque atti. In merito al centrale tema del vampirismo, si può leggere: «Stadio del<br />

vampiro: quando la vita scorre via da lui, incomincia ad attaccarsi alle altre persone e<br />

s’identifica con loro, vive la loro vita, cerca di divorare le loro anime; le piega sotto<br />

di sé e vicino a sé».<br />

Chissà se, citando la Danse macabre, Strindberg avesse in mente la composizione<br />

di Saint-Saëns che Ibsen aveva usato in John Gabriel Borkman nel 1896 o piuttosto<br />

la teatrale «sfilata di uomini e di scheletri» tre-quattrocentesca – trattata da Jurgis<br />

Baltrušaitis – che «ricorda in ogni momento l’eguaglianza di tutti davanti alla<br />

morte», con la sua implicita fatale ritmica ciclicità: «L’apparizione dei trapassati<br />

avviene […] in due tempi: dapprima parlano, si muovono, e stanno anche in piedi,<br />

ma non si mescolano ancora alla vita stessa, poi, assai più tardi, invadono il mondo e<br />

lo fanno danzare» [Baltrušaitis, p. 233]. Sappiamo, del resto, che, da Verso Damasco<br />

(1898) e La saga dei Folkunghi [Folkungasagan, 1899], l’utilizzo di strutture teatrali<br />

riconducibili al medio evo interessava moltissimo Strindberg [cfr. anche B 16, p. 81].<br />

In un’altra nota, infine, La danza macabra appare più formata: l’ambientazione<br />

richiama un luogo di maledizione, il «monte bruciato di Ebal», fra «nude rocce»;<br />

Edgar (che «desidera l’annientamento») e Alice giocano a scacchi e sono in attesa<br />

dell’ispettore Kurt; litigano e il Capitano si sente male, sviene; si parla di hybris e di<br />

nemesi; quando arriva Kurt gli si rimprovera l’abbandono della moglie e dei figli,<br />

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mentre Alice «parla sempre dell’interruzione della propria carriera di attrice, della<br />

borsa di studio a Parigi… e invece solo Copenaghen»; Kurt è «senza pensieri di<br />

vendetta e, allorché può vedere tutta la loro miseria, è preso da compassione»; nel<br />

terzo atto arrivano i fiori degli allievi della scuola artiglieri per il capitano ammalato<br />

e sembra verificarsi una svolta decisiva.<br />

Noteremo incidentalmente che, alla pubblicazione, La danza macabra non<br />

avrebbe comunque presentato alcuna divisione in atti. Nel 1904, Strindberg<br />

spiegherà infatti che, «nella nuova drammaturgia, atti e quadri vengono messi da<br />

parte; la suddivisione la si lascia al regista in relazione all’allestimento scenico e cose<br />

simili» [B 14, p. 349].<br />

2. Nel giugno del 1896, in piena crisi religiosa, a Parigi, Strindberg aveva ricevuto<br />

la visita della sorella Anna e del marito, l’insegnante Hugo Philp, vecchio compagno<br />

d’università dello scrittore e impenitente ateo e radicale. L’incontro aveva irritato<br />

l’ipersensibile Strindberg, che nei confronti della coppia aveva del resto sempre<br />

provato sentimenti ondivaghi e contrastanti, sicché, acido, aveva scritto a un amico<br />

teosofo che il cognato gli era sembrato «il tipo d’uomo che ha risolto tutti gli enigmi<br />

dell’universo senza sforzarsi troppo» [B 11, p. 212]. Già in questo cenno c’è quasi<br />

una battuta di Kurt («Ha discusso di religione come uno studentello, ma con la<br />

pretesa di aver risolto gli enigmi dell’universo!») [Sv 44, p. 80], che connota la<br />

figura del Capitano della Danza macabra, che Strindberg modellerà ampiamente su<br />

Hugo Philp. D’altronde, anche la sorella Anna darà non poco ad Alice: era infatti un<br />

carattere imperioso e una valente violinista che, sposandosi (e il matrimonio pare<br />

fosse piuttosto turbolento), aveva dovuto rinunciare a una brillante carriera artistica.<br />

Su questi modelli si sovrappose un’altra coppia che Strindberg conosceva bene: lo<br />

scrittore (realista e radicale) Gustaf af Geijerstam e la moglie Nennie, ex attrice.<br />

Anche con i Geijerstam Strindberg ebbe rapporti (soprattutto letterari) contrastati e,<br />

alla fine, sarebbe rimasta famosa la sua corrosiva caricatura del collega come il<br />

vampiro Zachris, nel romanzo Bandiere nere [Svarta fanor, 1904], che, nel XVIII<br />

capitolo, presenta una potente scena di danza macabra, nella quale la moglie del<br />

personaggio, Jenny, poco prima di morire e ormai convertita allo spiritualismo,<br />

denuncia lo smarrimento morale dei positivisti, «uomini disperati» [Sv 57, p. 197].<br />

Osserveremo che, nel Diario occulto, in una nota del 14 gennaio 1900, in relazione<br />

alla «Signora G af G» e a un misterioso «strano incidente», appare segnata fra<br />

parentesi quadre l’indicazione: Dödsdansen. Ai primi di maggio dello stesso anno,<br />

Nennie af Geijerstam morì e, in dicembre, Strindberg avrebbe rotto definitivamente<br />

con il «vampiro» Gustaf («Avverto nella tua persona qualcosa di morboso che mi<br />

opprime e minaccia di rendermi morboso») [B 13, p. 358].<br />

Con i Geijerstam e ancor più con la famiglia della sorella, dopo il suo ritorno a<br />

Stoccolma nel ’99, Strindberg aveva avuto varie occasioni di frequentazione e<br />

persino di vacanza. Le relazioni erano state piuttosto tempestose e in particolare con<br />

Hugo Philp, che apprezzava scrittori come Oscar Levertin (che, vedremo, non<br />

amavano affatto Strindberg) e – proprio come fa Edgar con Kurt nella Danza<br />

macabra – soleva rimproverare al cognato un colpevole disinteresse per i figli, dopo<br />

la dissoluzione del primo matrimonio [Sv 44, p. 45 ss.]. Strindberg aveva potuto<br />

comunque osservare i suoi parenti e studiarli nell’intimità; aveva persino avuto modo<br />

di seguire da vicino la malattia circolatoria abbinata al diabete che aveva colpito<br />

Hugo Philp nel 1900. Nel Diario occulto, nota del 19 gennaio, leggiamo: «Hugo un<br />

po’ meglio. Conversazione sulla morte», e ci si chiede se questo colloquio non possa<br />

avere qualche analogia con quello che avviene, dopo l’apparizione della vecchia<br />

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Maja (personificazione della Morte), nella parte I della Danza macabra [Sv 44, p.<br />

76].<br />

Non sarebbe peraltro l’unico dettaglio colto dal vivo e fedelmente incastonato nel<br />

dramma. Anche il cenno alla celebrazione delle nozze d’argento che chiude La danza<br />

macabra I coinciderebbe con la stessa ricorrenza (cui Strindberg non partecipò)<br />

festeggiata dai Philp nel mese di ottobre, poco prima della stesura dell’opera. Pare,<br />

insomma, che Hugo Philp fosse così disturbato dai fitti e riconoscibili riferimenti alla<br />

sua vita privata che bruciò il dramma non appena poté leggerlo. Vero o falso che sia,<br />

emozioni e dettagli osservati si scaricarono indubbiamente nella repentina scrittura<br />

della Danza macabra, ma non senza coinvolgere – com’è tipico in Strindberg – una<br />

disparata dilatata gamma di altri modelli. Fra i tanti, andrebbe menzionata almeno<br />

l’egocentrica vanitosa figura dell’ispettore di quarantena Ossian Ekbohrn, che lo<br />

scrittore aveva frequentato negli anni Settanta e immortalato in una vivisezione del<br />

1894, Nemesis divina (scritta in un non impeccabile francese), nella quale sembra già<br />

prefigurata la psicologia di Edgar. Ekbohrn viveva infatti su un’isola «avec sa femme<br />

sans commerce avec le monde», odiato da tutti per il suo dispotismo; la moglie aveva<br />

confidato a Strindberg la sua «manie de grandeurs»: «Ça y est! Il croit être un<br />

Napoléon relegué [sic!] à l’île de St. Hélène» [Vivisektioner, p. 40 ss.].<br />

La danza macabra e il resto della drammaturgia strindberghiana sarebbero allora<br />

degli indiscreti regolamenti di conti con congiunti e conoscenti antipatici? Se così<br />

fosse, non ce ne occuperemmo di certo, ma il metodo di Strindberg – fin dal suo<br />

primo grande romanzo, La Sala rossa [Röda rummet, 1879] – era comunque quello<br />

dello studio in vivis [cfr. B 2, p. 205] o meglio della rielaborazione, fusione,<br />

contaminazione di modelli tratti dall’esperienza, con un procedimento creativo di<br />

serrata trasfigurazione umorale. Al di là di tutti i suoi modelli, ciò che colpisce è<br />

l’abilità dello scrittore di comporre «un mosaico con la vita propria e altrui» [B 15, p.<br />

356], nonché di indagare a fondo gli esseri che vengono assemblati da molteplici<br />

impressioni, individuando peculiari dimensioni umane e «scoperte» psicologiche,<br />

che, nello specifico della Danza macabra, Strindberg non esita a rivendicare con<br />

orgoglio. Il dramma, infatti, offrirebbe autentiche «scoperte nel campo della vita<br />

dell’anima (= il vampirismo), ci sono la lotta e la morte senza veleno e pugnale» [B<br />

14, p. 222]. All’autore non interessava il melodramma d’intrigo (con veleni e<br />

pugnali) e, da un’altra lettera, apprendiamo che avrebbe persino potuto fare a meno<br />

delle scene erotiche fra Alice e Kurt [B 14, p. 170], ma mai avrebbe rinunciato a<br />

penetrare «nel campo della vita dell’anima», della sua psicologia e anche della sua<br />

metafisica. Quella era la sua area d’indagine e di creazione privilegiata.<br />

3. Strindberg aveva, giustamente, un’alta opinione della Danza macabra, ma gli<br />

sforzi immediati di interessare ad essa le scene svedesi si dimostrarono vani. Né Emil<br />

Grandinson che, al Teatro Reale, aveva magistralmente messo in scena Verso<br />

Damasco [Till Damaskus] nel novembre 1900, né l’attivo impresario Albert Ranft<br />

diedero segnali positivi e all’autore non restò che constatare che «La danza macabra<br />

aveva scarse prospettive di essere rappresentata» in patria [B 14, p. 82].<br />

L’attenzione si rivolse allora alla Germania, dove operava il fido traduttore-agente<br />

Emil Schering, che propose il copione al Kleines Theater di Max Reinhardt, ma i<br />

primi approcci convinsero Strindberg, al principio assai riluttante, a stendere, nel<br />

febbraio-marzo del 1902, versioni rielaborate e più sintetiche dei due drammi [B 14,<br />

pp. 170; 174]. Si pensava a Emanuel Reicher per il ruolo del Capitano, ma i tentativi<br />

con i teatri berlinesi non ebbero esito, sebbene l’autore continuasse a insistere,<br />

ancora nel 1904, con Max Reinhardt, ritenendo che La danza macabra, con la sua<br />

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«scenografia unica e tre personaggi», fosse repertorio elettivo del Kleines Theater [B<br />

15, p. 45].<br />

Bisognerà aspettare il 27 settembre 1912 (Strindberg era morto da pochi mesi) per<br />

vedere il debutto della famosa regia reinhardtiana del dramma (le due parti assieme)<br />

al Deutsches Theater di Berlino con un grande, rozzo e vitale Capitano affidato a<br />

Paul Wegener, che nella scena della danza attingeva vertici di grottesco e di orrore;<br />

Gertrud Eysoldt era Alice (ruolo che in seguito passerà a Rosa Bertens) e Paul<br />

Biensfeldt Kurt.<br />

Tre anni dopo, lo spettacolo fu portato in tournée in Svezia, dove fece profonda<br />

impressione. I critici trovarono la Bertens «una vera furia, l’odio impersonato»,<br />

anche se forse priva di quel fascino che giustificherebbe le azioni di Kurt da un certo<br />

punto in poi, mentre pare che la Eysoldt fosse stata particolarmente dolente ed<br />

estranea al carattere selvaggio del personaggio come alle sue maniere da attrice. La<br />

regia cominciava e finiva con la medesima scena: Edgar e Alice seduti, distanti, di<br />

spalle al pubblico a fissare il vuoto.<br />

Si trattò di uno spettacolo determinante per l’affermazione europea di Strindberg,<br />

che, del resto, fra il 1912 e il 1927 (con un’emblematica depressione nella successiva<br />

epoca nazista), diventerà un autore pressoché tedesco. Di fatto, proprio Totentanz,<br />

nelle statistiche teatrali della Germania, compare (dopo Camerati [Kamraterna])<br />

come il secondo dramma strindberghiano più rappresentato, con ben 1165 repliche<br />

verificabili fra il 1905 e il 1927. Il debutto (delle due parti separate in giorni<br />

successivi) avvenne, infatti, il 29 settembre 1905, a Colonia, grazie all’allestimento<br />

dovuto all’attore Fritz Krempien, con Elimar Striebeck e Helene Riechers. Lo<br />

spettacolo toccò 30 città tedesche nel corso della stagione, senza però portare a<br />

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Strindberg benefici economici [cfr. B 15, p. 221], a causa delle forti perdite del<br />

pionieristico tentativo. La sola prima parte fu, tuttavia, già ripresa da Josef Jarno<br />

nell’autunno del 1906 a Vienna, avviando la consuetudine del suo scorporamento dal<br />

blocco dell’opera [cfr. Ollén, pp. 369 ss.; 379].<br />

Perché mai in Svezia la versione di Reinhardt fece tanta impressione? A<br />

prescindere dall’indubbia eccellenza artistica del regista, anche perché era agli<br />

antipodi di quella che aveva mostrato lo stesso Strindberg, a Stoccolma, con il suo<br />

Intima Teatern, l’8 settembre (parte prima) e il I ottobre 1909 (parte seconda). Fra il<br />

1902 e il 1907, il drammaturgo aveva conosciuto in patria una delle sue periodiche<br />

crisi di popolarità e, per far rappresentare La danza macabra, poté affidarsi solo alla<br />

piccola scena che gestì, fra il 1907 e il 1910, insieme al giovane attore August Falck<br />

Si può immaginare, infatti, che le recensioni che avevano accolto l’opera stampata<br />

avessero reso guardinghi i teatri svedesi. Non molti critici si erano espressi<br />

favorevolmente sulla Danza macabra e quasi un classico della stroncatura è rimasto<br />

l’articolo del noto letterato Oscar Levertin, pubblicato su «Svenska Dagbladet» il 18<br />

ottobre 1901. Strindberg – vi si legge – non ha mai scritto un dramma «più orribile e<br />

desolante»; l’opera verte sulla psicologia dell’infelicità coniugale, un argomento sul<br />

quale l’autore – «autentico professore di “matrimoni falliti”» – dovrebbe avere<br />

acquisito ormai «una fama internazionale di specialista». Anche Il padre [Fadren]<br />

del 1887 trattava della stessa patologica materia, ma Levertin pare avere qualche<br />

considerazione per questo vecchio dramma naturalista, La danza macabra invece è,<br />

per lui, priva della «quasi antica semplicità e grandezza», con cui Strindberg era<br />

riuscito in passato a illuminare la lotta dei sessi. Di contro, nella sua ossessiva<br />

variazione del tema, sembrano incrementate «la brutalità a livelli inauditi, la banalità<br />

ai limiti dell’insopportabile con la meschina, plebea baruffa che affoga tutti i pensieri<br />

e i sentimenti in una disarmonia senza fine, esasperata e plumbea». I temi più<br />

originali, «ai quali allude il titolo», del ritorno alla vita dei morti e del vampirismo<br />

avrebbero potuto, se trattati con un minimo di poesia, risollevare l’opera e, infatti,<br />

Strindberg, «come Poe, ama l’orrore, però non ha l’anima satura di triste sognante<br />

bellezza del grande americano». Le sue figure vampiresche, così, sono prive di<br />

«verità artistica», tanto più che «questa Danza macabra è una volgare, lenta e<br />

barbosa danza cafona, incapace di attrarre e conquistare». Vivida, in un dramma che<br />

è un «impasto di odio e di follia», appare solo «la malvagità». Maturando, non<br />

s’indulge più a giudizi ottimistici sugli uomini e la vita e dalla poesia non si pretende<br />

certo una bellezza a buon mercato; anche Ibsen ha parlato di una scrittura come<br />

«giudizio su se stessi», ma qui manca il benché minimo tentativo di un «superiore<br />

sguardo» sulle cose, c’è solo e, «ormai insopportabilmente, una furibonda<br />

querimonia, nella quale si evidenzia proprio il trionfo del basso e del meschino,<br />

mentre si esprimono soltanto l’odio e l’egoismo».<br />

Le recensioni cattive certe volte dicono più di quelle favorevoli: Strindberg, anche<br />

con La danza macabra, aveva radicalmente, brutalmente infranto le convenzioni<br />

sceniche del suo tempo, esibendo un linguaggio troppo comune e triviale e situazioni<br />

crude, ben al di là di quanto tollerasse il garbato pessimismo intellettuale e decadente<br />

dei primi del secolo. Effettivamente, per i contemporanei, La danza macabra poteva<br />

apparire «il trionfo della rozzezza»; un dramma di color «plumbeo» [blyfärgad] per<br />

l’appunto, ma al lettore o allo spettatore del XXI secolo, che non ha più idea d’una<br />

possibile doratura della scrittura, del teatro (e del mondo), s’impone come<br />

quell’audace atto di violenza e di sorpresa, quella visione insieme «ruvida» (direbbe<br />

Peter Brook) e spietata, quanto allegorica e metafisica della vita, caratterizzata da<br />

una poderosa «energia del mostruoso» (per citare Levertin), di cui, a qualche livello,<br />

si va immancabilmente in cerca sulle scene. Per di più, oggi, siamo particolarmente<br />

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sensibili a un tratto che l’ostilità dei contemporanei di Strindberg in genere<br />

sottovalutava: il corrosivo umorismo di cui il testo letteralmente gronda e che può<br />

essere letto, a suo modo, come un «giudizio» sul senso o nonsenso dell’esistenza.<br />

Fatto sta che, per noi – a differenza di Levertin – tutto, per così dire, è più chiaro e<br />

anche più facile, avendo alle spalle Kafka, Artaud, Sartre (Huis clos, 1945), Ionesco<br />

e Beckett (tutti autori segnati da Strindberg).<br />

4. Per tornare al debutto della Danza macabra all’Intima Teatern, la critica non si<br />

smentì neanche in questa occasione e, complessivamente, calcò la mano sui tratti<br />

patologici e impietosi del dramma, pur riconoscendone occasionalmente almeno la<br />

potenza scenica: «… quest’atmosfera carica, quest’impressione di lotta fatale e senza<br />

speranza fra le anime» (Bo Bergman, su «Dagens Nyheter» del 9 settembre 1909).<br />

Tuttavia, se stiamo alle cifre indicate da August Falck, al termine del suo libro di<br />

memorie – pur nelle contenute misure di una sala che poteva ospitare appena 161<br />

spettatori – La danza macabra (con Falck nel ruolo del Capitano; Anna Flygare<br />

come Alice e Anton de Verdier, Kurt) fu un successo, con 85 rappresentazioni per la<br />

prima parte e 63 per la seconda. Dal 2 ottobre 1909 il dittico fu dato infatti in<br />

sequenza e si ha l’impressione che la seconda parte, più convenzionale, piacesse di<br />

più al pubblico e alla critica.<br />

Strindberg aveva molto sollecitato Falck ad assumere l’impegnativo ruolo di<br />

Edgar e gli aveva spiegato: «È un demone raffinato! La malvagità brilla nei suoi<br />

occhi che talora lampeggiano di un bagliore satanico e mordace. Il volto è gonfio per<br />

l’alcol e la depravazione e gode così tanto di poter dire malignità che quasi se le<br />

succhia, le degusta, se le rigira sulla lingua prima di vomitarle fuori. Naturalmente si<br />

considera astuto e superiore, ma come tutti i babbei diventa in quei momenti un<br />

poveraccio penoso e collerico» [Falck, p. 282]. Pare che il drammaturgo addirittura<br />

recitasse il ruolo per Falck e lo facesse con grande trasporto («con espressioni<br />

agrodolci e melliflue, con gesti ostentati e meschini»), specie nella scena dell’Entrata<br />

dei boiardi, anche se le affinità che tendeva a suggerire fra il personaggio e il<br />

Capitano protagonista del Padre parevano all’attore poco calzanti [Falck, pp. 211;<br />

282-3; cfr. anche B 17, p. 36].<br />

Le prove furono lunghe e meticolose, circa 80, tanto da far spazientire Strindberg,<br />

che aveva sempre messo in guardia da una preparazione troppo protratta che, a suo<br />

avviso, finiva per sfibrare le messinscene. Strindberg comunque, il 23 agosto 1909,<br />

trasmise a Falck perfino un disegno che puntualizzava come dovesse essere un<br />

autentico elmo da artigliere [B 18, p. 115]<br />

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e la prova generale del 7 settembre – apprendiamo da una nota su «Dagens Nyheter»<br />

del giorno dopo – «ebbe in tutto il carattere di una rappresentazione privata – senza<br />

interruzioni e con brevi intermezzi – alla presenza dell’autore, del personale del<br />

teatro e di una cerchia di amici dell’autore, che seguivano con forte interesse la prima<br />

rappresentazione dell’avvincente dramma matrimoniale che conta ormai 10 anni»<br />

[cfr. B 18, p. 131].<br />

L’8 settembre 1909, Strindberg scrisse a Falck le sue impressioni: «Visto che sei<br />

troppo giovane per il ruolo ti devi invecchiare molto di più con la maschera e stare<br />

attento ai tuoi movimenti giovanili. Una parrucca grigia sarebbe radicale. […]<br />

Stattene soltanto seduto sulla sedia a millantare! Dovresti eliminare la pantomima.<br />

Non la si comprende e allunga l’azione. […] Bisogna ulteriormente accorciare gli<br />

intermezzi al principio fino alla prima esplosione, perché l’esposizione è lunga e<br />

stancante. Poi si può allargare. La musica = il grammofono dev’essere più forte. La<br />

Flygare tenga il cappello, perché dà un tono, ma de Verdier non può indugiare in<br />

quella posa arrischiata. […] Ben visibile il telegrafo! Soprattutto: maschera da<br />

anziano!» [B 18, p. 136].<br />

Vari i messaggi che Strindberg rivolse agli attori impegnati nella produzione (era<br />

questo, del resto, il suo modo indiretto, ma sollecito, di esercitare una specie di<br />

delicata funzione registica). Ad Anna Flygare, l’8 settembre 1909: «Luminosa,<br />

affascinante, tecnicamente come la natura stessa… Ma un piccolo rilievo di grande<br />

importanza. Mantenga il suo bel glissando pieno d’effetto, ma fraseggi meglio<br />

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(accentui) parli più distintamente, perché la sala è più ampia di quel che si creda e<br />

ieri alcune battute sono andate perse. De Verdier non deve strapazzarla tanto da farle<br />

perdere il cappello, ma il cappello dev’esserci, perché ci sta bene e introduce varietà.<br />

Per il resto: niente! solo approvazione = 30 (e lode), primo premio e medaglia d’oro»<br />

[B 18, p. 138]; ad Anton de Verdier, lo stesso giorno: «È così bravo che nessuno può<br />

fare osservazioni! Avrei preferito una maschera differente, ma i miei amici si sono<br />

espressi contro, approvando la sua. Allora sto zitto e mi limito a ringraziarla» [B 18,<br />

p. 138]. Il giorno dopo, ancora ad Anna Flygare: «Ieri potei solo ringraziarla! Oggi<br />

posso farle i complimenti! e una volta di più ringraziarla! in special modo per aver<br />

nobilitato le scene grevi e suscitato compassione per Alice come essere umano. Ora è<br />

sulla cresta dell’onda – ma non si è mai arrivati, diceva Gustav Vasa – bisogna tenere<br />

la posizione! ci sono fossi ai lati della strada dell’Onore! Lei domina la sua tecnica<br />

originale per questo ruolo – la conservi, ma non la sviluppi troppo, tanto che si<br />

cominci a notarla (= manierismi)» [B 18, p. 139]. Verso il 29 settembre (attorno cioè<br />

alla prova generale della seconda parte), ad August Falck: «Giusto due parole sulla<br />

tua recitazione! Controllo! A tuo agio (in scena). Audace! Prepotente senza però<br />

provocare! Fingi che non ci sia il pubblico e che stai a casa tua: così troviamo<br />

l’illusione» [B 18, p. 159].<br />

Infine, la critica ritenne adeguata la caratterizzazione di Falck, ma la Flygare<br />

«troppo piccola nella malvagità e simpatica negli aspetti demonici» (Bo Bergman).<br />

Già dalle lettere di Strindberg si può rilevare una certa attenuazione della violenza<br />

del dramma, evidentemente – persino per lui – concepibile più sulla pagina che sulla<br />

scena. Ciò quantomeno per quel che riguarda la protagonista femminile, mentre (per<br />

quello che possono significare) varie fotografie, illustrazioni e un quadro di Bertil<br />

Damm farebbero in effetti pensare a un Capitano elaborato robustamente sul versante<br />

del grottesco [Falck, pp. 288; 342; 349; 351; 353].<br />

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5. Nonostante tanta attenzione e tutta la cura dei dettagli, questa attenuazione delle<br />

potenzialità espressive del dramma, all’Intima Teatern, coinvolse perfino la<br />

scenografia. Bo Bergman rilevò subito che l’allestimento aveva cambiato la<br />

metaforica ambientazione nella grigia torre rotonda, che, nella luce autunnale, si apre<br />

inquietantemente sul mare «cupo e immoto», vera frontiera tra la vita e la morte [Sv<br />

44, p. 13], con un banale salotto borghese parapettato, costipato, tra l’alto (anche per<br />

la ristrettezza oggettiva del palcoscenico), dai ninnoli degli allestimenti naturalistici<br />

comuni all’epoca. Lo stesso Strindberg si limitò a osservare: «La scena va bene,<br />

forse è un po’ troppo zeppa» [B 18, p. 136] e, il 19 settembre, chiederà ad August<br />

Falck di adornare ancora di più l’ambientazione: «Prima che la carta da parati di<br />

Walter Crane diventi scontata o fuori moda, realizza un paravento per La danza<br />

macabra II. […] Una piccola bella novità giova alla vista e ravviva il quadro<br />

squallido» [B 18, p. 147]. Era stata insomma questa messinscena cauta e ingentilita<br />

che Max Reinhardt aveva fatto dimenticare in Svezia, riportando paradossalmente<br />

Strindberg a se stesso.<br />

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La scenografia dell’allestimento di Strindberg della Danza macabra, così, non<br />

appare tanto dissimile da quella che, all’Intima Teatern, si era conferita, nel 1908, al<br />

Padre. Sappiamo, dopo tutto, che l’autore giudicava La danza macabra, per certi<br />

aspetti, un po’ affine al Padre ed è opinione di qualche critico che il dramma del<br />

1900 rappresenti, come scrittura e concezione, un passo indietro o un ritorno a una<br />

tecnica più vicina alle creazioni naturalistiche degli anni Ottanta piuttosto che agli<br />

audaci esperimenti di Verso Damasco o del successivo Un sogno. La questione è<br />

complessa e merita un approfondimento.<br />

All’epoca dell’allestimento del Padre all’Intima Teatern, Strindberg – non ignaro,<br />

tra l’altro, dei disegni e delle idee di Gordon Craig – era attratto dall’astrazione<br />

scenografica, con drappi ed essenziali emblematici segnali, e distingueva fra i suoi<br />

drammi più legati a una messinscena realistica (come La signorina Julie [Fröken<br />

Julie, 1888]) e quelli sui quali riteneva fosse invece opportuno sperimentare<br />

ambientazioni più neutre o allusive. Fra questi, includeva il dramma storico Kristina,<br />

il mistero di Pasqua, ma persino Il padre, quantunque – diremmo – in negativo; per<br />

«elevare» cioè un po’ un testo che giudicava ormai «il suo dramma peggiore», da<br />

leggere più che da recitare, anzi da riscattare, presentandolo come «una tragedia in<br />

uno stile più alto» e in una veste solenne [Falck, p. 211; B 16, p. 236].<br />

In questa fase, tuttavia – dopo la messinscena sperimentale di Kristina – né<br />

Pasqua né Il padre conobbero l’allestimento astratto, per tanti motivi di prudenza e<br />

di opportunità, interpretati soprattutto da quell’anima pratica che era August Falck,<br />

forse più convinto di Strindberg che «au théâtre» – per citare Zola – «toute<br />

innovation est délicate». Per l’allestimento della Danza macabra, dovettero<br />

probabilmente valere (e tanto più vista l’accoglienza critica) le stesse caute<br />

considerazioni che si erano imposte per Il padre: «Una scena drappeggiata», aveva<br />

allora osservato Falck, «dà libero corso alla fantasia e forse ha la tendenza ad<br />

ampliare le vedute più che a concentrarle» [Falck, p. 208]. Insomma, è verosimile<br />

che, anche nel caso della Danza macabra, non si volesse disperdere l’attenzione<br />

sugli oggetti (il pianoforte, il telegrafo, la sciabola…) che animavano l’azione quanto<br />

gli attori e si preferisse conferire al dramma un tocco di claustrofobia borghese,<br />

comunque più riconoscibile dal pubblico. L’esito, dopo tutto, diede ragione a queste<br />

scelte, anche perché all’Intima Teatern, in perenne crisi economica, gli allestimenti<br />

naturalistici avevano maggiore probabilità di successo.<br />

Va però aggiunto che se, da un lato, Strindberg vedeva qualche relazione, forse<br />

solo esteriore, fra Il padre e La danza macabra, da un altro, considerava senz’altro<br />

quest’opera drammaturgia d’avanguardia, da accostare esplicitamente a Verso<br />

Damasco e a Un sogno [cfr. B 14, p. 246]: «Basta con il vecchio Padre!», scriverà<br />

nel 1904, «Giocate carte nuove! Totentanz è il mio dramma migliore! E ha un’unica<br />

scenografia! Il ruolo del Capitano si recita da solo e tanto meglio se si ha a<br />

disposizione un gigante» [B 15, p. 76].<br />

6. Certo non si può dare torto a Gunnar Brandell quando osserva che, nella Danza<br />

macabra, «non c’è una sola indicazione relativa a uno stile d’interpretazione<br />

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simbolistico. […] Nel testo strindberghiano non si fa un passo al di fuori della<br />

cornice realistica» [Brandell, p. 124]. Persino l’instabilità o mutevolezza psicologica<br />

dei personaggi («… un po’ piangiamo, e un po’ ridiamo!») [Sv 44, p. 135] sembra<br />

rimandare alla concezione naturalistica del «carattere senza carattere» teorizzato per<br />

la Signorina Julie [cfr. Sv 27, p. 104]. Tuttavia, ci sentiremmo di affermare: «Si è<br />

detto che La danza macabra è un dramma naturalista. Certo, ma del tutto<br />

metafisico», ribaltando così quanto dichiara Strindberg, proprio nel 1900, in merito<br />

alla qualità della sua scrittura dopo la crisi mistica e la ripresa drammaturgica con<br />

Verso Damasco: «Io sono quello che sono sempre stato: naturalista. Solo il punto di<br />

vista è divenuto un altro. […] La prima parte di Verso Damasco è il mio dramma<br />

migliore. Si è detto che Verso Damasco è sogni. Certo, ma del tutto naturalistici»<br />

[cfr. B 14, p. 51]. L’affermazione si esplicita meglio se posta in relazione a una<br />

convinzione di Strindberg diffusamente espressa nel romanzo-saggio Bandiere nere:<br />

«“Se vuoi conoscere l’invisibile devi osservare allora molto attentamente il visibile”<br />

– così dice il Talmud. La vita di ogni giorno è piena di misticismo, ma tu osservi<br />

proprio male; devi essere stato naturalista per poter diventare mistico» [Sv 57, p.<br />

150].<br />

È evidente che, in Strindberg – dalla sua crisi spirituale di fine secolo – si è<br />

codificata una permeabilità (e ribaltabilità) di realtà e sogno, che può essere<br />

sperimentata proprio partendo dal più immediato visibile, la cui penetrazione<br />

dischiude un più essenziale invisibile. Se Il padre aveva uno sfondo<br />

schopenhaueriano e i suoi personaggi erano sospinti verso il conflitto e la distruzione<br />

dalla sferza della cieca sessualità, La danza macabra sarebbe soprattutto una farsa<br />

metafisica che, partendo dall’ostentazione del sensibile e perfino del triviale,<br />

mirerebbe a far intuire il nocciolo mistico della vita. S’è detto che ci è naturale<br />

avvicinare questo testo tramite Kafka o Beckett, ma – va da sé – che lo scrittore<br />

svedese ciò che noi abbiamo alle spalle non ce l’aveva neanche nella più lontana<br />

visuale e, nella Danza macabra, sviluppò un’idea (insieme schopenhaueriana e<br />

swedenborghiana) che aveva fissato attorno al 1896: «La concezione del mondo che<br />

è maturata in me è più vicina a quella di Pitagora e adottata da Origene: noi siamo<br />

all’Inferno per peccati commessi in una precedente esistenza. […] Le descrizioni<br />

dell’Inferno di Swedenborg sono, senza ch’egli lo volesse, convincentemente<br />

coincidenti con la vita terrena» [B 11, p. 376].<br />

Esistenza e Aldilà, con convincente coincidenza, per Strindberg, sono ora in<br />

rapporto e rimandano a una effettiva transitività tra fisica e metafisica. Nella Danza<br />

macabra, Strindberg riprende così il mistico Emanuel Swedenborg, che si era<br />

soffermato sull’amore coniugale e sullo speculare realizzarsi del suo destino<br />

oltremondano. Nel romanzo Il chiostro [Klostret, 1898], Strindberg aveva scritto:<br />

«Come possa nascere il dissidio fra i coniugi non è stato ancora spiegato. […] una<br />

nuvoletta comincia a salire, non si sa da dove, tutte le virtù si trasformano in difetti,<br />

la bellezza in bruttezza ed ecco che come serpenti sibilanti ci si affronta; vogliono<br />

stare il più lontani possibile, anche se sanno che non appena separati comincia la<br />

sofferenza della mancanza, che è la più grande delle più grandi che la vita possa<br />

offrire. Qui si arenano la fisiologia e la psicologia e Swedenborg è forse l’unico, nel<br />

suo De amore conjugali, ad avvicinarsi a una soluzione del problema. […] per questo<br />

anche la chiesa cattolica ha fatto del matrimonio un sacramento, considerandolo più<br />

una fornace che purifica che un talamo di piaceri. E in questa direzione va anche la<br />

dottrina di Swedenborg. Gli sposi sono in perfetta armonia, ma non può durare, senza<br />

che avvertano per punizione le spine quando vogliono cogliere le rose. E il motto<br />

Omnia vincit amor significa che la potenza dell’amore è così illimitata che, se le<br />

fosse concesso d’imperversare liberamente, metterebbe a rischio l’ordine universale.<br />

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È un delitto essere felici e pertanto la felicità dev’essere punita» [Sv 50, p. 89 ss.].<br />

Forse in questo brano, più di Swedenborg, c’è tanto Schopenhauer, ma la<br />

contaminazione è assolutamente caratteristica in Strindberg e dà già qualche ragione<br />

della fatale saldatura fra Edgar e Alice e, dietro di loro, di ogni coppia umana,<br />

secondo il drammaturgo svedese [Sv 44, p. 52].<br />

Oltre a De amore conjugali (1768), per La danza macabra, Strindberg ebbe<br />

senz’altro presente De coelo et inferno, forse il libro più famoso di Swedenborg<br />

(1758), che illustra, tra l’altro, nei termini più emblematici il vero e proprio fluttuare<br />

dell’essere tra il visibile e l’invisibile o tra la vita e la morte, che non sarebbero<br />

separate da confini nettissimi. Anzi, «si continua una vita nell’altra» addirittura per<br />

gradazioni intermedie «e la morte è solamente un passaggio», sicché «l’uomo ch’è<br />

nel male è legato all’inferno, [… ed] è anche in attualità, in quanto al suo spirito,<br />

nell’inferno, e dopo la morte nulla brama di più quanto d’esser là dove è il suo male»<br />

[Swedenborg, pp. 329; 370].<br />

Anche in quest’opera Swedenborg tratta dei matrimoni spirituali in Cielo, dove è<br />

esaltato «il connubio del vero e del bene», aggiungendo però che «s’aman pure il<br />

falso e il male, ma questo amore volgesi poi in Inferno». Continua Swedenborg: «Mi<br />

è stato dato di vedere qual è il connubio tra coloro che sono nei falsi del male,<br />

connubio che chiamasi matrimonio infernale. Essi conversano tra loro e si<br />

congiungono ancora lascivamente, ma internamente ardono l’uno contro l’altro d’un<br />

odio mortale, il quale è così grande che non si può descrivere» [Swedenborg, pp. 236<br />

ss.; 242]. Nella Danza macabra, Kurt parlerà proprio di quest’«odio d’amore [che]<br />

viene dall’inferno» e il Capitano ammetterà che il suo matrimonio non è stato<br />

sicuramente «messo in piedi in cielo» [Sv 44, pp. 55; 91].<br />

Swedenborg analizza con estrema finezza anche il distruttivo «amore di<br />

dominazione dell’uno de’ coniugi sull’altro» e osserva che «non v’ha libertà per<br />

nessuno de’ due quando c’è dominazione»: «Gl’interiori di coloro che vivono in tal<br />

matrimonio tra essi si collidono e si combattono mutuamente, come di solito fanno<br />

tra loro due opposti, comunque gli esteriori siano ritenuti e calmi per motivo di<br />

tranquillità; la collisione e la pugna dei loro interiori si manifesta dopo la loro morte;<br />

essi si riuniscono, per lo più, e allora combattono tra loro come nemici, e si dilaniano<br />

scambievolmente» [Swedenborg, pp. 243-4]. Ancora (e in questa fosca luce forse<br />

comprendiamo meglio la fascinazione erotica fra Alice e Kurt): «il piacere che regna<br />

nell’Inferno è il piacere dell’adulterio», in quanto «piacere di distruggere la<br />

congiunzione del bene e del vero, la qual congiunzione forma il Cielo»; l’adulterio<br />

introduce così direttamente alla dimensione infernale «e per gradi, fino all’inferno<br />

più profondo, ove non v’ha che crudeltà ed orrore» [Swedenborg, pp. 247; 249].<br />

Strindberg non fu uno swedenborghiano ortodosso (a dire il vero, non fu mai<br />

ortodosso in niente) e propendeva soprattutto a credere che «l’inferno non fosse un<br />

posto, bensì una condizione spirituale, che trasforma in inferno tutto ciò che ha<br />

attorno» [Sv 57, p. 151], ma, come a suo tempo, nel Padre, aveva rinnovato il<br />

dramma borghese con la filosofia pessimistica e l’antropologia bachofeniana, nella<br />

Danza macabra, ora lo trasfigura più a fondo e radicalmente, conferendo alla psicofisiologia<br />

positivistica spessore metafisico, con figure e situazioni liberamente tratte<br />

da De coelo et inferno.<br />

Per questo, Strindberg scriverà: «Soyons modernes! Partiamo con La danza<br />

macabra I. Contiene scoperte psicologiche, senza la cosiddetta misoginia. È<br />

formalmente solida, superiore nella rassegnazione e grande nel perdono» [B 14, p.<br />

328]. La danza macabra proietta infatti l’usato triangolo del dramma borghese<br />

lontano dalle discussioni sulla donna o sul femminismo, in labirintici metaforici<br />

inferni di un’ambiguità estrema: siamo sulla terra, ma forse già agli inferi; i<br />

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personaggi sono vivi e concreti, ma – senz’altro il Capitano [cfr. Sv 44, pp. 100; 126;<br />

132] – vanno, vengono e danzano sulla frontiera della morte e Kurt adombra una<br />

contrastata figura cristica di capro espiatorio.<br />

Certo il sulfureo grottesco ritmo dell’azione poco concede a prediche e momenti<br />

edificanti: il visibile sovrasta e opacizza spesso l’invisibile, spingendoci più<br />

nell’ambito dell’Assurdo che in quello di una cristallina pietà religiosa. Ci è difficile<br />

giudicare se a muovere la vicenda siano davvero i famuli delle Potenze occulte del<br />

meraviglioso Dio illuminista di Swedenborg (che, essendo «lo Stesso Bene non può<br />

far del male a nessuno», tanto da non precipitare nessuno all’Inferno, perché<br />

«ognuno vi si precipita da sé, non solo mentre vive nel mondo, ma anche dopo la<br />

morte») [Swedenborg, pp. 368; 371] e, dietro, sospettiamo qualche entità maligna e<br />

più beffarda. Il nume pazzo che, pentito di aver creato, per divertimento, il «mondo<br />

della follia», lo rovescia negli abissi, di cui parla Strindberg nel Mysterium, preludio<br />

al romanzo Inferno (1898) [Sv 37, p. 382 ss.]?<br />

Vero è che sul triangolo formato da Edgar, Alice e Kurt sembra prevalere<br />

un’enigmatica irredimibile ridicola insensatezza, nella quale, tuttavia, gli uomini non<br />

smettono di annaspare, ansiosi di cogliere nell’esistenza qualche simmetria, una<br />

prospettiva, una speranza – fosse anche solo quella pallida che l’autore, pur<br />

pessimisticamente, fa baluginare dietro le espressioni della «rassegnazione» e del<br />

«perdono».<br />

7. S’è detto della straordinaria fortuna della Danza macabra in area austrotedesca,<br />

ma non è solo in quei paesi che il copione di Strindberg s’è visto riconoscere<br />

un così assoluto rilievo. Per quanto possa essere puramente indicativa, una statistica<br />

sulle rappresentazioni strindberghiane nel mondo, fra il 1945 e il 1962, vedeva La<br />

danza macabra in seconda posizione dietro La signorina Julie e davanti al Padre. La<br />

memoria teatrale conserva del resto traccia di diverse straordinarie edizioni del<br />

dramma.<br />

Amplissima, ovviamente, la tradizione svedese dopo Strindberg e, dovendo<br />

individuare un vertice storico, si può forse indicare l’Alice della grande Tora Teje,<br />

calibratissima nello scatenare la demonia del proprio personaggio da una partenza<br />

deliberatamente statica e quasi automatica. La Teje, nel 1937, recitava in coppia con<br />

il notevole attore danese Poul Reumert. Già nel 1920, al Dagmarteater di<br />

Copenaghen, Reumert aveva recitato La danza macabra assieme a Bodil Ipsen; in<br />

seguito, avrebbe interpretato il Capitano persino a Parigi, nel ’28, in francese, di<br />

fronte ad Antoine e Lugné-Poe, al Théâtre de l’Odéon.<br />

In Francia, il testo resta soprattutto legato al nome di Jean Vilar, che l’aveva<br />

allestito durante la guerra, ma l’avrebbe ripreso in condizioni meno proibitive, con<br />

Hélène Gerber, nel 1948 allo Studio des Champs Elysées, imprimendogli una<br />

singolare eleganza, tanto che la stessa grottesca danza del Capitano pare assumesse<br />

uno stile di assai decente balletto.<br />

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Si ritiene che l’opera abbia influito direttamente non solo su Sartre, Beckett e<br />

Ionesco, ma anche su Anouilh (La valse des toréadors) [Ollén, p. 386]. Grandissimi<br />

attori inglesi sono stati pure attirati dalla terribile coppia strindberghiana: Paul<br />

Scofield e Mai Zetterling, in una ripresa televisiva del 1965, e, l’anno dopo, all’Old<br />

Vic, per il National Theatre, Laurence Olivier e Geraldine McEwan. Anche negli<br />

Stati Uniti La danza macabra è stata molto rappresentata e ha forgiato un’intera<br />

generazione d’importanti drammaturghi da O’Neill e Tennesse Williams a Edward<br />

Albee (Who’s Afraid of Virginia Woolf?, 1962) [Ollén, p. 382]. In Svizzera, Friedrich<br />

Dürremmatt, con Play Strindberg (1969), comporrà addirittura una specie di<br />

parodistica umorale versione della Danza macabra. Fra gli ultimi eredi di questo<br />

geniale copione, va senz’altro menzionato il più importante autore svedese<br />

contemporaneo, Lars Norén, che ne ha firmato addirittura una messinscena al<br />

Dramaten di Stoccolma (vista nel ’94 anche al Piccolo di Milano).<br />

In Italia, l’opera s’affacciò timidamente nel 1945 a Roma, per iniziativa di Cesare<br />

Meano, ma si può dire che si sia imposta, piuttosto tardi, all’attenzione del pubblico,<br />

nel 1963, con l’edizione del Teatro Stabile di Genova (le due parti insieme) con<br />

Vittorio Sanipoli e Olga Villi nei ruoli principali e la regia di Luigi Squarzina. In<br />

seguito, si contano non frequentissime, ma tutte prestigiose, riprese: in primo luogo,<br />

nel 1970, la regia di Sandro Sequi con Gianni Santuccio e Lilla Brignone (scene di<br />

Colombotto Rosso). Lilla Brignone ritornò al ruolo di Alice con Ivo Garrani e Gianni<br />

Agus, nell’81, per la regia di Giancarlo Sepe. Nel ’92, si cimentarono nel testo<br />

Gabriele Ferzetti e Anna Proclemer, con la regia di Antonio Calenda e la traduzione<br />

di Franco Brusati; più recentemente (2002-3) Armando Pugliese ha guidato Giuliana<br />

Lojodice e Roberto Herlizka. L’impressione che si ha, scorrendo le critiche, è che il<br />

teatro italiano abbia in genere avvicinato La danza macabra con estremo rispetto e<br />

persino attese di rinnovamento dei propri stili, ma poi abbia tendenzialmente puntato<br />

sull’interpretazione grandattoriale, che in verità il testo non scoraggia.<br />

Ancora al patrimonio artistico italiano (essendo una coproduzione con la Francia),<br />

possiamo infine rivendicare anche il film di Marcel Cravenne, La Danse de la mort<br />

o La prigioniera dell’isola del 1947-48, dove un massiccio Erich von Stroheim si<br />

contrapponeva a un’assai più fragile Denise Vernac.<br />

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Ricorderemo infine le parole di Eugene O’Neill, che fissano forse in termini<br />

definitivi l’importanza della Danza macabra di Strindberg nel panorama del nostro<br />

teatro e, più ancora, della nostra sensibilità: «Strindberg resta tuttora fra i più<br />

moderni dei moderni, il più grande interprete in teatro dei peculiari conflitti spirituali<br />

che costituiscono il dramma – il sangue – delle nostre vite oggi. Egli ha portato il<br />

naturalismo a un esito logico di tale acuta intensità che, se l’opera di qualsiasi altro<br />

drammaturgo dev’essere definita “naturalista”, un dramma come La danza macabra<br />

va classificata come “supernaturalista” e collocata in una categoria a sé stante,<br />

esclusivamente strindberghiana, dal momento che nessun altro prima o dopo di lui ha<br />

avuto il genio di concepirla. Intanto è soltanto attraverso qualche forma di<br />

“supernaturalismo” che possiamo esprimere in teatro ciò che intuitivamente<br />

percepiamo di quest’autodistruzione, di quest’autoossessione che sono il tributo che<br />

noi moderni dobbiamo pagare alla vita» [cit. in Strindberg’s Dramaturgy, p. IX].<br />

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8. Il 9 novembre 2006, ha debuttato presso lo Stabile di Bolzano l’ultima<br />

edizione italiana di Danza macabra o Danza di morte di Strindberg<br />

(http://www.teatro-bolzano.it/grandeprosa_danza_di_morte.php). Ne abbiamo curato<br />

personalmente una traduzione dall’originale. Così, giudicandolo dall’interno,<br />

crediamo – come abbiamo avuto modo di scrivere in una nota pubblicata su<br />

«Hystrio» – che, questo del regista Marco Bernardi, sia un allestimento<br />

calibratissimo, che ricerca una misura più nordica di quella alla quale siamo abituati,<br />

ma non tanto «nel senso dell’espressionismo di maniera (da sempre troppo<br />

facilmente abbinato a Strindberg, inteso e malinteso come autore convulso e gridato),<br />

quanto di un’essiccazione dei turgori, delle grandi scene, dei ruoli terribili e scultorei,<br />

per cercare di scavare una linea interna più lucida, più intima e, se possibile, più<br />

disperata. […] Paolo Bonacelli appare così un Capitano d’impostazione inedita e di<br />

grande fascino, tutt’altro che titanico, ma perfido, fragile e stralunatamente senile<br />

nello stesso tempo; Patrizia Milani tiene il personaggio di Alice in precario equilibrio<br />

fra demonia e dolore, rendendolo umano e intenso; Carlo Simoni ha forse il ruolo più<br />

arduo: Kurt, il terzo polo del triangolo, capta i sentimenti più contraddittori di<br />

Strindberg, lussuria e santità, ma l’attore riesce a bilanciare la parte, apparendo<br />

verosimile e nitido […]. La scena di Gisbert Jaekel è parte cospicua dello spettacolo,<br />

con la sua sobria bigia eleganza, il suo cupo squarcio azzurro di mare, offre<br />

un’atmosfera, senza caricare l’ambientazione d’inopportuni dettagli naturalistici.<br />

Insomma, uno Strindberg misuratissimo che, per contraddizione, per implosione, può<br />

rivelarsi esplosivo».<br />

Nota bibliografica:<br />

I) Scritti strindberghiani: A. Strindberg, Samlade verk, a cura di L. Dahlbäck,<br />

Almqvist & Wiksell-Norstedts, Stockholm, in fieri dal 1981 (in particolare il vol. 44,<br />

Dödsdansen, commentato da H. Lindström) [abbreviazione con la sigla Sv]; A.<br />

Strindberg, Brev, a cura di T. Eklund-B. Meidal, Bonniers, Stockholm, 1947-2001, 1-<br />

22 [abbreviazione: B]; Briefe an Emil Schering, Müller, München, 1924;<br />

Vivisektioner, a cura di T. Eklund, Stockholm, Bonniers, 1958; Ockulta dagboken<br />

[edizione anastatica], Stockholm, Gidlunds, 1977 2 .<br />

II) Critica e storia: O. Levertin, Dödsdansen, su «Svenska Dagbladet», 18 ottobre<br />

1901; A. Falck, Fem år med Strindberg, Stockholm, Wahlström & Widstrand, 1935 2;<br />

G. Ollén, Strindbergs dramatik, Kristianstad, Sveriges Radios Förlag, 1982 4; M.<br />

Lamm, August Strindberg, Johanneshov, Hammarström & Åberg, 1986 4;<br />

Strindberg’s Dramaturgy, a cura di G. Stockenström, Stockholm, Almqvist &<br />

Wiksell Int., 1988; G. Brandell, Strindberg. Ett författarliv [4. Hemkomsten – det nya<br />

drama], Stockholm, Alba, 1989; A. Strindberg, Vita attraverso le lettere, a cura di F.<br />

Perrelli, Ancona-Milano, Costa & Nolan, 1999; F. Perrelli, August Strindberg. Il<br />

teatro della vita, Milano, Iperborea, 2003.<br />

III) Altri riferimenti: E. Swedenborg. Del Cielo e dell’Inferno, a cura di L. Scocia,<br />

Torino, Tipografia Fodratti, 1870; J. Baltrušaitis, Il Medioevo fantastico, Milano,<br />

Mondadori, 1977 2.<br />

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