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Lezioni sull'Inferno dantesco a confronto: Pirandello e Bacchelli

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FRANCESCA FAGNANI<br />

<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>:<br />

<strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

Tra le pagine dantesche più note si possono senza dubbio includere quelle<br />

relative all’episodio infernale che si svolge nella quinta bolgia dell’ottavo cerchio.<br />

Le vicende dei barattieri e dei loro aguzzini, oltre ovviamente ad offrire ai<br />

lettori il piacere della loro fruizione, hanno dato vita ad un acceso dibattito, nel<br />

quale si sono trovati coinvolti, ma verrebbe da dire “impegolati”, illustri esegeti<br />

e studiosi.<br />

Tra i motivi di maggior contesa nati intorno al testo, il più consistente è certamente<br />

quello relativo alla profusione o, viceversa, all’assenza di comicità nell’episodio<br />

in questione, che, come è noto, si estende ben oltre i confini del canto<br />

XXI, occupando tutto il XXII e parte del XXIII. La disamina, sia pure desultoria,<br />

delle focali posizioni ermeneutiche in merito alla cosiddetta «questione del<br />

comico <strong>dantesco</strong>» ha permesso di porre in evidenza il punto di partenza, a mio<br />

parere ingannevole e decettivo, intorno al quale ruotano le diverse proposte interpretative:<br />

sin dall’inizio, infatti, i critici si sono interrogati sull’opportunità di<br />

vedere, nell’episodio, il ghibellin fuggiasco ridere. Il fomite della interminabile<br />

(e infatti non terminata) disputa sulla comicità dantesca va ricercata, probabilmente,<br />

nella non facile conciliazione tra l’immagine austera e indignata (che è<br />

chiaramente retaggio romantico e risorgimentale) di un Dante con la fronte sempre<br />

aggrondata, «com’avesse il mondo in gran dispitto», «con l’andamento picaresco<br />

e con certa materia plebea del movimentato affresco» 1 . Ne conseguì un’annosa<br />

querelle, che trovò schierati da una parte quei critici che leggevano nel<br />

canto un’esplosione di comicità, dall’altra coloro, invece, che la escludevano non<br />

solo dalle pagine in questione, ma più in generale dall’animo del poeta. Corifeo<br />

di questa linea interpretativa è il romantico Francesco De Sanctis, secondo il<br />

1 P. MAZZAMUTO, barattiere [voce], in Enciclopedia dantesca, a cura di U. Bosco, Roma,<br />

Istituto Enciclopedia Italiana, 1970, vol. I.<br />

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Francesca Fagnani<br />

quale a Dante mancherebbe l’effettiva capacità di obbliarsi nell’oggetto comico.<br />

La schiera dei sostenitori dell’inattitudine dantesca alla comicità andò, dopo l’intervento<br />

dell’illustre critico, progressivamente ampliandosi, raccogliendo fra le<br />

sue fila illustri studiosi.<br />

La singolarità dell’episodio e la complessità della questione del comico ad<br />

esso legata, destò l’interesse e il coinvolgimento di un lettore veramente d’eccezione:<br />

Luigi <strong>Pirandello</strong>, il quale, infatti, proprio su questo argomento, il 3 febbraio<br />

1916 in Orsanmichele a Firenze, tenne una “lezione”. Non meraviglia affatto<br />

che l’interpretazione del canto data dal grande scrittore si distacchi per originalità<br />

e profondità dal panorama esegetico a lui coevo e generalmente dominato<br />

dall’assunzione pedestre e impersonale della linea desanctisiana.<br />

<strong>Pirandello</strong>, infatti, a differenza di moltri altri commentatori danteschi, non<br />

appiattì l’intera questione negli angusti termini di una domanda semplicisticamente<br />

posta (Dante ride o no nell’episodio dei barattieri?), ma spinse oltre il suo<br />

interesse critico: egli, infatti, trovandosi dinanzi un canto decisamente sbilanciato<br />

in direzione comico-realistica, si chiese quali fossero le intenzioni del poeta<br />

sottese al testo e di che natura fosse, dunque, la sua comicità, che sembrerebbe<br />

trovare in queste pagine ampio sfogo. Nell’analisi del canto XXI, lo scrittore<br />

prende le mosse proprio da alcune affermazioni di De Sanctis, con il quale si<br />

dichiara immediatamente in disaccordo, lì dove questi afferma che in Malebolge,<br />

considerato il regno del «comico», il poeta sembra caduto in un mondo non suo,<br />

in quanto «le situazioni sono comiche, ma il comico è rozzamente formato, e non<br />

è artistico; non ha la sua immagine che è la caricatura, né la sua espressione che<br />

è il riso» 2 . A queste affermazioni <strong>Pirandello</strong> replica: «a me sembra, e non a me<br />

soltanto, un teorizzare a vuoto, senza voler qui vedere l’animo del poeta e il suo<br />

mondo qual egli l’ha voluto e rappresentato», aggiungendo poco più avanti «ma<br />

vogliono proprio far ridere quei versi? […] ma vuole Dante spassarsi con l’oggetto<br />

comico? Ed è propriamente comico l’oggetto per Dante? Ci si vuole Dante<br />

obliare? Io confesso che non so vedere tutto questo comico che altri vede in<br />

Malebolge» 3 . In tal modo, lo scrittore prendeva le distanze tanto da chi sosteneva<br />

l’inattitudine dantesca alla comicità, tanto da chi, viceversa, leggeva nell’episodio<br />

un’esplosione di riso, quasi che l’autore si fosse preso una faceta vacanza<br />

morale, una pausa distensiva e diversiva rispetto al serissimo contesto itinerale.<br />

Egli rifiuta quello che definisce il mero «spasso d’artista»: non è possibile, infatti,<br />

che ci sia «castigo di riso dove son pene atroci per laidissime colpe. Dove non<br />

2 F. DE SANCTIS, La Commedia, in ID., Storia della Letteratura italiana, Milano, Feltrinelli,<br />

1964.<br />

3 L. PIRANDELLO, La commedia dei diavoli e la tragedia di Dante, in ID., Saggi poesie e<br />

scritti vari, Milano, Mondadori, 1973, pp. 343-61. Data la brevità del testo pirandelliano, non<br />

si farà ulteriore riferimento alle singole pagine nelle note successive.<br />

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<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

c’è lo strazio, il raccapriccio, l’orrore la nausea, la paura, ci sarà lo scherno, il<br />

disprezzo, il sarcasmo, non il riso che castiga della commedia. Dante non può far<br />

che Dio scherzi punendo, né egli s’attenterebbe di scherzar comicamente dove<br />

Dio ha punito».<br />

Se quanto affermato da <strong>Pirandello</strong> può sembrare oggi pacifico, ben diversa<br />

era la prospettiva esegetica a lui contemporanea, che si protrasse per molti decenni<br />

ancora. Fino agli anni Settanta inoltrati, infatti, l’episodio dei barattieri continuò<br />

ad essere ritenuto da alcuni un momento di puro svago del poeta estrinseco<br />

all’architettura del poema, «un giorno di allegra noncuranza» come arrivò a definire<br />

un illustre dantista 4 .<br />

L’intuizione pirandelliana, sia pure rimasta allo stato germinale, della profonda<br />

«serietà del comico» <strong>dantesco</strong> costituì senza dubbio un primo passo nel<br />

superamento dell’impasse interpretativa, che impediva una reale comprensione<br />

del XXI canto. Egli, inoltre, specifica che non di comico si deve parlare per l’episodio<br />

in questione, ma di sarcasmo: «Non bisogna confondere il sarcasmo, l’ironia,<br />

lo scherno con il comico. Che se talvolta comica appare esteriormente la<br />

frase, non ne è mai comico il sapore, perché non è mai comica l’intenzione del<br />

poeta; e perciò non fa ridere. La frase comica sarà messa lì per ottenere un effetto<br />

di più cruda ripugnanza». Attraverso queste valutazioni, nulla affatto scontate,<br />

lo scrittore riesce a cogliere, direi per primo, il fulcro della questione: Dante nel<br />

XXI canto dell’Inferno dà fondo a tutte le risorse espressive messe a disposizione<br />

dalla tradizione retorica del comico non certo per creare momenti di spensierata<br />

ilarità, ma per dar voce alla «cruda ripugnanza» appunto, all’abiezione<br />

morale, alla degradazione della triste realtà di Malebolge e dei loro ospiti, dannati<br />

e diavoli, anch’essi come i primi eternamente sconfitti davanti a Dio.<br />

<strong>Pirandello</strong>, dunque, con eccezionale perspicacia riuscì ad capire, a differenza di<br />

molti illustri dantisti, che, attraverso la costruzione di un episodio fortemente<br />

proiettato in direzione comico-realistica, Dante stava esprimendo il proprio sentimento<br />

di disgusto e di riprovazione etica, che nulla ha a che fare con il riso<br />

gioioso attribuitogli dai più.<br />

Lo scrittore siciliano, tuttavia, non si fermò a queste riflessioni, ma approfondì<br />

ulteriormente la questione, interrogandosi sul motivo per cui qui più che<br />

altrove il poeta fa sentire, attraverso lo scherno e l’ironia, la sua forte ripugnanza<br />

verso colpa, colpevoli e torturatori. Qual è, dunque, la ragione di tanto sarcasmo?<br />

A questa domanda <strong>Pirandello</strong> rispose avanzando un’interessante ipotesi:<br />

«[...] è possibile che a Dante, fin da principio, nel predisporre la materia di questo<br />

canto dei barattieri, non si sia affacciata la sua condanna, il ricordo dell’indegna<br />

accusa? E che sentimento poteva destarsi in lui se non disprezzo per essa;<br />

4 A. MOMIGLIANO, Commento alla Divina Commedia, Inferno, Firenze, Le Monnier, 1947,<br />

p. 149.<br />

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Francesca Fagnani<br />

un disprezzo che arrivato al punto, dopo il primo sfogo innanzi al papa simoniaco,<br />

qui lo avrebbe mosso a far di quell’accusa, col riso, la più allegra vendetta?».<br />

Di «riso amaro», dunque, si tratterebbe a cui il poeta sarebbe stato indotto dall’urgenza<br />

dei ricordi personali, riemersi con forza tale da determinare la stesura<br />

dell’episodio. Dante, come è noto, fu confinato fuori dalla patria proprio con<br />

l’accusa di baratteria, reato di chi trae illeciti guadagni o profitti dalle cariche<br />

pubbliche di cui è stato investito. In realtà, è assai complicato stabilire quanto<br />

pesò sull’animo del poeta l’onta di un’accusa senza dubbio infamante, di cui tuttavia,<br />

si servivano, ormai abitualmente e vicendevolmente, le fazioni vittoriose<br />

come comodo strumento per allontanare i nemici della parte avversa. Ancora più<br />

difficile è stabilire in che misura la memoria personale agì nell’elaborazione dell’avventura<br />

che si svolge nella quinta bolgia. Tuttavia, la chiave di lettura, per<br />

così dire, biografica, fornita da <strong>Pirandello</strong> non va affatto trascurata, tanto più che<br />

essa si presenta circonstanziata e ricca di prove atte a confermarne la validità. In<br />

primo luogo, è interessante notare come la premessa a quella che egli definisce<br />

felicemente «allegra vendetta» sia da lui posta già nella terza bolgia, dove vengono<br />

puniti i simoniaci:<br />

Con una trovata tra le più felici, perché naturalissima, ma naturalissima come può essere una<br />

vipera piena di veleno, Niccolò scambia Dante per Bonifazio VIII, perché questi, ladro della chiesa,<br />

volle veramente in terra cambiar le carte; far comparire Dante ladro del comune, facendolo<br />

accusare dai Neri come reo di baratteria. Ed è qui una suprema irrisione dell’accusa. – Tu m’hai<br />

preso per te, tu hai creduto ch’io fossi come te, viene a dire Dante con questa sua finzione.<br />

Dopo un rapido excursus degli episodi che si svolgono nelle bolge precedenti la<br />

quinta, funzionale a mettere in evidenza come neppure in questi casi si possa parlare<br />

di «comico», <strong>Pirandello</strong> entra nel vivo del XXI canto, passando in rassegna tutti quei<br />

passi che conforterebbero la tesi della partecipazione memoriale-biografica dell’autore.<br />

Un primo indizio in tal senso andrebbe colto già nei versi che aprono il canto:<br />

Così di ponte in ponte, altro parlando<br />

che la mia comedìa cantar non cura<br />

<strong>Pirandello</strong> interrogandosi su quale potesse essere il discorso intercorso tra il<br />

discepolo e e il suo maestro, arriva a questa conclusione: «Sarà fren dell’arte<br />

anche qui? Non credo. Il poeta non direbbe che di quest’altro che parlava con<br />

Virgilio non cura cantare. Il discorso, alla fine del canto precedente, era sulla luna<br />

piena benigna a Dante smarrito negli orrori della selva, alcuna volta. Quando?<br />

Forse nella più triste delle sue vicende: nella fuga per l’esilio dopo l’infame accusa.<br />

Ecco che forse possiamo intendere di quale argomento parlavano oltre questo<br />

ponte della quinta bolgia». In realtà questa interpretazione, per quanto attraente,<br />

non sembra esente da dubbi, dal momento che si basa su dati aprioristici e non<br />

verificabili in alcun modo. L’intenzionale vaghezza dell’autore sembra, invece,<br />

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<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

funzionale a conferire verosimiglianza alla finzione del viaggio, che in tal modo<br />

sembra svolgersi in un’estensione cronologica ininterrotta.<br />

Proseguendo nell’analisi testuale, pochi versi dopo (vv. 7-18) si apre la lunga<br />

e complessa similitudine istituita tra lo scenario che caratterizza l’arsenale veneto<br />

e quello che si offre agli occhi dei viatores appena giunti nella quinta bolgia;<br />

<strong>Pirandello</strong> ha letto nelle terzine in questione un significato riposto, strettamente<br />

correlato alla natura della colpa lì punita:<br />

forse non la pece soltanto è da vedere nel paragone, ma anche tutto il daffare che in vita si<br />

diedero i barattieri, che qui non possono stare a galla – che navicar non ponno – e in vita con<br />

ogni sorta di maneggi e d’intrighi rifecer nuova la loro fortuna, o guasta la racconciarono, la<br />

rimpalmarono, e turarono i buchi alla loro barca che faceva acqua, ribattendola da prora e da<br />

poppa, e cercarono tutti i mezzi per arrivare al loro scopo (i remi), tessendo insidie (volgendo<br />

sarte), or con grandi or con piccole imprese rappezzate (l’artimone e il terzeruolo) […]. Opera<br />

tenebrosa, cioè svolta copertamente, di cui fuori non si scorge che il ribollimento, cioè l’armeggio,<br />

che a tratti cessa, appena appena sorga il timore che abbia potuto destare un sospetto<br />

in chi sta a spiare e non scorge più nulla.<br />

L’interpretazione di <strong>Pirandello</strong>, in sintonia con quella data a suo tempo da<br />

Benvenuto da Imola 5 , si pone in antitesi con la proposta crociana di vedere nella<br />

celebre similitudine una «piccola lirica a sé» 6 o una «parentesi ariosa» come dissero<br />

altri studiosi. Sebbene oggi appaia eccepibile l’ipotesi di lettura secondo cui<br />

l’arzana veneto sia da considerare paradigma della corruzione, è tuttavia interessante<br />

notare come <strong>Pirandello</strong> giustamente abbia preso le distanze da tutti coloro,<br />

allora la maggioranza, che ritenevano la similitudine «un pezzo di maniera»,<br />

tramite cui l’autore avrebbe fatto sfoggio virtuosistico delle proprie capacità<br />

espressive. Che il principio dell’arte per l’arte corrisponda ad un habitus artistico<br />

e mentale del tutto estraneo al poeta non occorre qui ripetere, ma non così<br />

ovvio era evidentemente al tempo di <strong>Pirandello</strong>, a cui, al di là della validità della<br />

sua interpretazione, va comunque riconosciuto il merito di non aver isolato le<br />

terzine in questione dal contesto del canto.<br />

L’arrivo in volo del diavol nero dà avvio alle azioni fortemente drammatiche<br />

che si succederanno incalzanti dal canto XXI fino all’inizio del XXIII;<br />

<strong>Pirandello</strong>, a questo punto, si chiede «Vediamo un pò come si svolge questa<br />

nuova commedia, e se tutto sia in quel che appare…o se tutta questa commedia<br />

non sia invece una finzione che nasconde, sotto l’apparenza grottesca, il dramma<br />

più doloroso», che è ovviamente quello personale dell’autore. Da questo momen-<br />

5 Secondo Benvenuto «per arsenatum intellige omnem curiam comitatum, sive dominorum,<br />

et maxime mihi videtur vidisse optimum exemplum in curia papae». Cfr. La Divina<br />

Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, a cura di G. Biagi e G. L.<br />

Passerini, E. Rostagno e U. Cosmo, Torino, UTET, 1924-39, vol. I p. 512.<br />

6 B. CROCE, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921, p. 93.<br />

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Francesca Fagnani<br />

to in poi la lettura del canto fatta dallo scrittore è palesemente finalizzata a far<br />

emergere gli elementi del testo che ne confermerebbero l’ispirazione autobiografica,<br />

evidente, secondo lui, già in quel consiglio dato a Dante da Virgilio di<br />

nascondersi: «giù t’acquatta / dopo uno scheggio, che alcun schermo t’aia tra le<br />

sporgenze cioè dello scoglio. Ma perché? – Perché non paja che tu ci sii. – Che<br />

tu sii qua, dove spadroneggiano questi diavoli neri, che ti prenderanno per un<br />

barattiere e ti vorranno uncinare». Dinanzi a questa scena, in cui «la finzione<br />

acquista la stessa consistenza della realtà viva», lo scrittore siciliano ci ricorda<br />

che «ora più che mai non dobbiamo dimenticare quel che Dante stesso non vuole<br />

che sia dimenticato, perché canone della sua poetica, che cioè la finzione deve<br />

sussistere innanzi a noi anche con l’altro suo valore ideale, l’allegorico»; a questo<br />

proposito specifica che questo non è certo uno di quei casi in cui l’allegoria<br />

è incarico sovrapposto e «non fa lume all’arte e illumina un concetto guastando<br />

la rappresentazione […]. Qui la felicità stessa della rappresentazione, così mobile,<br />

agile e precisa, ci dimostra che vivissimo è il sentimento; e che non un concetto<br />

dunque si vuol nascondere sotto il simbolo pensato e voluto; ma se il simbolo<br />

sussiste, è lui, il sentimento qui nascosto, che spontaneamente lo anima e<br />

avvalora. Nessuna violenza insomma è da fare qui alla rappresentazione». In<br />

questo caso, quindi, non pare difficile indovinare la dottrina che s’asconde /<br />

sotto il velame de li versi strani: «Virgilio è la ragione che consiglia a Dante di<br />

nascondersi per non esser ghermito da quei diavoli neri», guardiani dei barattieri<br />

che, nota <strong>Pirandello</strong>, si mostrano tanto pratici di Lucca che sembra non si siano<br />

mai mossi da quella città, che era, appunto, quartier generale dei Guelfi Neri;<br />

altro elemento questo che avvalora la sua tesi.<br />

Dopo l’apparente esito favorevole della trattativa tra Malacoda, capo dei<br />

Malebranche, e Virgilio, Dante esce dal suo nascondiglio «non senza l’avvilimento<br />

della paura d’essere da un momento all’altro ghermito, arroncigliato, coi<br />

nemici attorno, addosso […] esasperato dall’onta di non potersi neanche fidare<br />

della ragione». Il pellegrino per esprimere il proprio stato d’animo dinnanzi l’orrenda<br />

decina, inserisce il ricordo di un’impresa militare a cui ha partecipato: così<br />

vid’io già temer li fanti / ch’uscivano patteggiati di Caprona (vv. 94-95). Questi<br />

versi vengono così commentati da <strong>Pirandello</strong>: «Non è senza rimorso, né senza<br />

ragione qui, questo ricordo…Ora egli sa ciò che vuol dire trovarsi alla mercè<br />

d’implacabili nemici, capaci d’ogni inganno e d’ogni frode». La citazione di un<br />

evento personale acquisterebbe, dunque, grande significatività in un contesto<br />

denso di allusioni biografiche.<br />

La lettura del canto si avvia al termine, il quadro degli indizi testuali è completato<br />

e <strong>Pirandello</strong> può ormai trarre le sue conclusioni:<br />

Ebbene, non dobbiamo credere d’aver qui una grottesca rappresentazione della condanna<br />

del poeta e del suo bando? Non sono qui rappresentati, senza parere tutti i vari sentimenti che<br />

dovettero sorgere e agitarsi nell’animo di lui allora; e soprattutto il disprezzo per l’infame<br />

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<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

accusa? Tutto di questo disprezzo è impregnato di riso, il quale è perciò così grottesco, laido<br />

e sconcio, come l’accusa, la condanna, il bando. La suprema irrisione dell’accusa, l’abbiamo<br />

avuta là, nel canto XX, nello scambio delle parti che comicamente fa Niccolo III; qua ne<br />

abbiamo la grottesca rappresentazione.<br />

Il ricordo dell’accusa subita avrebbe, dunque, ispirato l’intero episodio, che<br />

ne rappresenta, sia dal punto di vista diegetico, che espressivo, l’estrema e grottesca<br />

caricatura. Tutto ciò è confermato, secondo <strong>Pirandello</strong>, da tutta una serie<br />

di spie narrative, che concorrono a determinare la partecipazione biografica di<br />

Dante alle vicende narrate:<br />

l’atteggiamento del poeta, gli atti che vi compie, quel suo nascondersi perché non paja<br />

che ci sia consigliato dalla ragione, perché non lo ghermiscano davvero come barattiere quei<br />

diavoli che son neri; il ricordo di Caprona, e quel suo partirsi senza fiducia verso l’inganno<br />

d’un ponte che faccia via, con quella scorta, che fa riscontro a ciò che dice il Villani che i banditi<br />

con Dante si partirono dalla città accompagnati dai loro avversarii; il gesto dei diavoli,<br />

quel cacciar fuori la lingua, come a dire sguajatamente «gliel’abbiamo fatta» e il bando sonato<br />

da Barbariccia. Come non pensare che questo sia la grottesca parodia dello squillo di tromba<br />

del banditore che andò a citarlo a nome del podestà?.<br />

È stato, in realtà, esaurientemente dimostrato qualche decennio dopo da<br />

Aurelio Roncaglia sulla scorta di Curtius, come la diversa cennamella di<br />

Barbariccia sia da inserire pienamente nella lunga serie dei riducula medievali<br />

che avevano una lunga e ormai codificata tradizione in ambito europeo.<br />

La lettura del canto data da Luigi <strong>Pirandello</strong> è senza dubbio suggestiva e<br />

caratterizzata da fine acume critico, che gli permette una capacità di penetrazione<br />

non comune neppure fra i dantisti, per così dire, «di professione». A differenza<br />

di molti commentatori che lo hanno preceduto, egli si è interrogato sulla natura,<br />

l’indole della comicità dantesca, che come ha intuito perfettamente, non poteva<br />

essere considerata tout court un compiaciuto e divertito momento di pura ilarità;<br />

si tratta, invece, di un riso impregnato di amarezza, perché tramite esso<br />

Dante, nel XXI canto, rivela la condizione di barattiere che gli era stata assegnata<br />

e per mezzo della trivialità, che caratterizza le azioni e le parole degli ospiti di<br />

quella quinta bolgia, esprime il suo risentimento verso i responsabili dell’accusa<br />

che gli fu imputata: «l’indole e la ragione del riso è tanto più triste in fondo,<br />

quanto più sguajato, più plebeo si rappresenta quel comico; e la turpitudine, la<br />

sguajataggine, la volgarità si riferiscono a chi la condanna bandì». Non può ridere<br />

Dante del motivo, per quanto specioso, che lo pose fuori da Firenze e non può<br />

ridere di tanta abiezione e trivialità:<br />

La crudezza appunto di questa rappresentazione che non si arresta innanzi ai particolari più<br />

sconci e triviali, anzi ci assalta con essi, dimostra che non c’è affatto la compartecipazione di<br />

Dante alla commedia, e che perciò essa non va considerata per sé, nella sua volgare sconcezza,<br />

ma in relazione col poeta che solo non né ride né può riderne; e non rideremo più neanche noi,<br />

223


Francesca Fagnani<br />

allora, perché avremo inteso che qui c’è un sarcasmo; il sarcasmo che non è mai commedia, ma<br />

è sempre un dramma che non può rappresentarsi tragicamente come dovrebbe, poiché troppo<br />

buffi, indegni e meritevoli di disprezzo sono gli elementi e le ragioni ond’è determinato.<br />

Il riflesso delle vicende personali del poeta è, quindi, secondo <strong>Pirandello</strong>, l’unica<br />

chiave di lettura che consente di decifrare la natura di quella particolare<br />

forma di comicità profusa nel canto, che egli chiama sarcasmo. In realtà la reticenza<br />

dell’autore in merito (nessun accenno alla sua incriminazione compare,<br />

infatti, nel testo) non offre alcuna garanzia circa la validità di una lettura totalmente<br />

autobiografica dell’episodio. Del resto l’accusa di lucra illicita era al<br />

tempo di Dante un espediente giuridico molto usato dalle fazioni vincitrici, formulato<br />

in modo talmente cavilloso da vanificare ogni tentativo di difesa. Dante,<br />

dunque, doveva essere consapevole di quanto fosse pretestuosa tale imputazione;<br />

dall’altra parte, tuttavia, è presumibile che egli si sentisse offeso per l’infamia<br />

subita. Tale risentimento, morale e civile, dovette riaffiorare durante la stesura<br />

della narrazione che si svolge nella quinta bolgia, che tuttavia non costituisce<br />

l’occasione, non gli fornisce il destro per enunciazioni polemiche o apologetiche<br />

da parte dello scrittore; questi piuttosto sceglie di manifestare tutta la sua<br />

esecrazione per un peccato rispetto al quale non potrebbe sentirsi più alieno,<br />

attraverso la creazione di un linguaggio decisamente sbilanciato in direzione<br />

comico realistica. L’interpretazione di <strong>Pirandello</strong>, in eccezionale anticipo rispetto<br />

ai dantisti a lui coevi, si muove proprio in questa direzione. Bisogna, infatti,<br />

riconoscergli il merito di aver intuito la profonda serietà e amarezza del riso <strong>dantesco</strong>,<br />

che trova la sua ragion d’essere nello stretto legame intercorrente tra forma<br />

e contenuto, tra «comicità» e repulsione morale.<br />

La storia esegetica del XXI canto dell’Inferno vanta un altro nome illustre<br />

della tradizione letteraria italiana: Riccardo <strong>Bacchelli</strong>. Lo scrittore dedicò all’argomento<br />

un articolo dal titolo Da Dite a Malebolge: la tragedia delle porte chiuse<br />

e la farsa dei ponti rotti, comparso nel 1954 sul «Giornale Storico della<br />

Letteratura italiana» e confluito poi nella raccolta dei suoi saggi critici. Lo scritto<br />

relativo all’episodio dei barattieri sembra rispondere alla tipologia delle letture<br />

dantesche, a cui, fra l’altro, <strong>Bacchelli</strong> non era nuovo: nello stesso anno compare<br />

su un’altra rivista, «Paragone», la lectura del canto XXXIII del Paradiso.<br />

Per ciò che concerne l’articolo sul XXI canto, tuttavia, non compare alcuna testimonianza<br />

circa la sua derivazione da una precedente lettura pubblica, sebbene<br />

per molti aspetti ne abbia assolutamente le caratteristiche. Tuttavia l’incertezza<br />

dell’origine e l’assenza di prove che ne dimostrino il carattere pubblico e orale<br />

fanno sì che questo breve saggio di <strong>Bacchelli</strong> venga escluso dal tipo di seminario<br />

che stiamo conducendo. Credo, tuttavia, che l’interessante lettura del canto<br />

data dallo scrittore meriti almeno un rapido accenno, soprattutto perché il suo<br />

approccio al testo risulta essere profondamente diverso da quello di <strong>Pirandello</strong>.<br />

A differenza di questi, egli infatti si mostrò decisamente disinteressato a coglie-<br />

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<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

re nell’episodio eventuali riflessi delle vicende biografiche del poeta e si interrogò<br />

invece sul senso dell’episodio senza ricorrere a spiegazioni aprioristiche ed<br />

extra-diegetiche. Sin da ora si può dire che la sua proposta di lettura comportò,<br />

nella storia dell’esegesi del canto, una significativa variazione di prospettiva: egli<br />

infatti riuscì ad intuire la complessa tematica religiosa alla base dell’avventura<br />

che si svolge nella quinta bolgia, mettendola poi in relazione con un altro episodio<br />

dell’itinerario infernale per molti versi affine, verificatosi alle porte della<br />

città di Dite. Da ciò, quindi, giunse immediata la deduzione di <strong>Bacchelli</strong> che non<br />

ci si trovava, come ancora i più ritenevano, davanti ad un inserto faceto estrinseco<br />

all’architettura del poema; Dante, infatti, «non opera fuor dell’opera, non episodizza.<br />

E la beffa di Malacoda…non va spiegata neanch’essa come tanto o<br />

quanto non coerente episodio, ma come un momento particolare, e nella sua particolarità<br />

coerentissimo, della discesa all’inferno di Dante condotto da Virgilio» 7 .<br />

L’episodio costituisce, dunque, una tessera perfettamente inserita nel complesso<br />

mosaico dello schema itinerale, la sua singolarità trova la sua ragion d’essere<br />

nella grande libertà del poeta che «si esercita anche, e diciamo pure soprattutto,<br />

nei riguardi della e delle proprie invenzioni» e che si tratti di «libertà, non arbitrio,<br />

non incoerenza, anzi coerenza ed unità più profonde, intime e necessarie,<br />

non accade ripetere». <strong>Bacchelli</strong>, asserita la pertinenza dell’episodio al contesto<br />

del poema, torna a chideresi riguardo alla beffa dei Malebranche quale sia «il suo<br />

fine preciso e particolare rispetto al proseguimento del viaggio? Che sia predestinata<br />

e dannata a fallire, è detto, predetto, implicito, in tutti i modi; ma […] la<br />

sua teologica inutilità si tradurebbe in un’inutilità poetica, se, geniale e stupenda<br />

quanto si voglia nell’esecuzione, formalmente, fosse e rimanesse giuoco, divertimento,<br />

estro fantastico, fuor d’opera e del poeta e dei Malebranche». Allora<br />

«come mai Malacoda ordina una trama essenzialmente inutile?». La ragione c’è<br />

ed è strettamente legata al tessuto delle credenze cristiane: quella di Malacoda<br />

come quella di tutti i diavoli è una guerra perduta in eterno «ma irremissibile<br />

appunto per questo, e con una posta, con una vittoria, anche se questa non consegua<br />

altro che una sempre uguale e sempre maggior perdizione: il peccato, la<br />

possibile perdita dell’uomo, la tentazione, l’esercizio della tentazione perditrice»,<br />

che come afferma anche San Tommaso è la principale attività diabolica. Con<br />

incredibile acume critico, <strong>Bacchelli</strong> riesce, prima di tutti, ad intuire la complessità<br />

dei contenuti religiosi sottesi all’inganno ordito dal capo dei Malebranche.<br />

Dietro alla tentazione demoniaca ci sarebbe la volontà tramite «l’inganno e la<br />

tentazione, di indurre in errore la mente razionale, di traviare il libero arbitrio in<br />

peccato. Nel caso, distinguendo, l’inganno può esercitarsi anche verso Virgilio,<br />

la tentazione soltanto verso Dante. Virgilio, infatti, anima non può peccare: erra-<br />

7 R. BACCHELLI, Da Dite a Malebolge: la tragedia delle porte chiuse e la farsa dei ponti<br />

rotti, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXI, 1954, pp. 1-32.<br />

225


Francesca Fagnani<br />

re sì come mente raziocinante; Dante, uomo vivente, può errare e peccare». Il<br />

peccato più pernicioso per il pellegrino è quello a cui può condurlo la paura, che<br />

come sagacemente sottolinea <strong>Bacchelli</strong> è «la disperazione, peccato capitale e teologale;<br />

è disperar della salvezza e del soccorso, della Grazia di Dio. È l’accidia<br />

nera»; la paura è quel peccato per cui «Dante può render vano e rifiutare il soccorso<br />

del cielo mosso a emendarlo […] questo peccato è umano, naturale, inevitabile:<br />

terribile e in sé per sé spaventoso, in quanto in esso l’uomo peccatore,<br />

Dante, può ancora sempre perdersi e ricusare la salute eterna, anche nel viaggio<br />

in cui Virgilio lo guida e assiste». Si tratta, dunque, a parere dello studioso di un<br />

dramma perpetuo ed implicito, che riemerge più volte durante il percorso oltremondano<br />

di Dante ed ha un’importanza strutturale, come dimostra l’importanza<br />

che esso assume nel II canto dell’Inferno. La paura di Dante e l’errore di Virgilio<br />

sono da <strong>Bacchelli</strong> assunti come chiavi fondamentali per comprendere il senso<br />

dell’episodio dei barattieri, che egli, ancora una volta per primo, mette in relazione<br />

con quanto accaduto davanti alle porte di Dite: «il perenne dramma della<br />

discesa in inferno, della paura e tentazione di Dante, in cotesti due momenti della<br />

renitenza diabolica, tragico davanti a Dite, comico sull’argine di Malebolge, propone<br />

infatti, uguale e ripetuto, e aggravato l’errore di Virgilio». Errore che egli<br />

giudica «teologicamente necessario», in quanto la sua scienza, che conosce tutto<br />

il conoscibile razionale, per ciò che «appartiene alla Grazia, alla Rivelazione, alla<br />

Redenzione, è limitata, non illuminata». Per le ragioni sopra dette non ci si può<br />

dilungare eccessivamente sull’intervento dello scrittore toscano, denso, fra l’altro,<br />

di interessanti suggerimenti esegetici, che si riveleranno ricchi di futuro.<br />

Quel che interessa ora evidenziare è come la lettura di <strong>Bacchelli</strong> abbia significato<br />

un momento di svolta nella storia ermeneutica del canto; egli, infatti, mettendo<br />

soprattutto in relazione l’avventura della quinta bolgia con quella che si svolge<br />

a Dite, comprese come nel tessuto diegetico del canto fossero presenti una<br />

serie di motivi riconducibili ad uno schema continuamente riccorrente all’interno<br />

del percorso infernale: qui, come altrove, il viator si trova di fronte ad una<br />

serie di difficoltà che gli impediscono di proseguire il suo viaggio; gli ostacoli<br />

che i due pellegrini devono affrontare sono determinati dalla tenace opposizione<br />

delle forze demoniache, che non è solo una componente narrativa fondamentale,<br />

ma è un modo attraverso cui il poeta dà voce al timore cristiano del cedimento,<br />

della resa al male. Questo motivo sempre presente nella catabasi infernale, è<br />

decisamente centrale davanti alla città di Dite e nella quinta bolgia: in entrambi<br />

gli episodi, infatti, trova ampio spazio il tema della paura, che <strong>Bacchelli</strong> sottolinea<br />

essere un peccato e per giunta gravissimo, in quanto porta alla «disperazione»,<br />

agendo quindi direttamente su quella che era considerata una virtù teologale<br />

fondamentale, ovvero la speranza, che Dante stesso definirà, interrogato da<br />

San Giacomo, uno attender certo / de la gloria futura (Pd. XXV, vv. 67-68).<br />

Grande merito di Riccardo <strong>Bacchelli</strong>, quindi, è stato quello di far luce sulla pluralità<br />

e profonda serietà dei significati religiosi, connessi all’avventura che ruota<br />

226


<strong>Lezioni</strong> sull’Inferno <strong>dantesco</strong> a <strong>confronto</strong>: <strong>Pirandello</strong> e <strong>Bacchelli</strong><br />

intorno all’inganno di Malacoda (in cauda venenum), che è l’ultima e più vana<br />

occasione per l’inferno di «pervertire ai suoi fini perversi l’operato stesso della<br />

Grazia»; dietro alla crudele beffa, il letterato ha individuato il desiderio demoniaco<br />

di vendetta sull’uomo, la volontà di fargli perdere la salvezza eterna, il<br />

timore umano che ciò avvenga, le pericolose conseguenze della paura, prima fra<br />

tutte la perdita della speranza e quindi dell’attesa del regno dei cieli. Questa lettura,<br />

oltre a fornire una nuova prospettiva di ricerca, servì, inoltre, a liberare il<br />

canto XXI da valutazioni legate a preconcetti romantici ed elucubrazioni psicologistiche,<br />

che impedirono per lungo tempo la reale comprensione del canto.<br />

227

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