Storia di un ebreo errante - Provincia di Pesaro e Urbino
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<strong>Storia</strong> <strong>di</strong> <strong>un</strong> <strong>ebreo</strong> <strong>errante</strong><br />
Il breve romanzo biografico che la giornalista tedesca Lotte Paepcke 1 ha scritto sulla<br />
vita <strong>di</strong> suo padre è <strong>di</strong> rara e toccante intensità. Lo è, innanzi tutto, perché capace <strong>di</strong><br />
essere profondamente “particolare” e, insieme, “<strong>un</strong>iversale”: particolare, come può<br />
essere, per <strong>un</strong>’ebrea, descrivere la trage<strong>di</strong>a del furore antisemita degli anni Trenta in<br />
rapporto alle vicende del proprio padre; <strong>un</strong>iversale, invece, come solo la grande<br />
letteratura sa essere, quando è in grado <strong>di</strong> chiamare in causa l’uomo in quanto tale<br />
davanti a se stesso e al male. E’, quin<strong>di</strong>, <strong>un</strong> resoconto inquietante perché esamina la<br />
vita <strong>di</strong> <strong>un</strong> <strong>ebreo</strong> che ha attraversato i momenti più terribili del Novecento 2 : dalla<br />
prima guerra mon<strong>di</strong>ale alle persecuzioni naziste, dalla fuga negli Stati Uniti al rientro<br />
in <strong>un</strong>a straniante e irreale Germania postbellica; ma anche perché, in filigrana, questa<br />
persona ci consente <strong>di</strong> percepire l’<strong>un</strong>iversale della sofferenza innocente. E’, infine, <strong>un</strong><br />
romanzo causticamente graffiante perché – pur avendone tutte le ragioni e le capacità<br />
stilistiche - la Paepcke non indulge mai in <strong>un</strong>o stile volutamente commosso, anzi,<br />
opta coraggiosamente per ban<strong>di</strong>re dal suo resoconto ogni accento <strong>di</strong>chiaratamente<br />
lirico. Spogliando la pagina da ogni orpello, però, il linguaggio <strong>di</strong>viene ancora più<br />
forte e tagliente, quasi <strong>un</strong> canto <strong>di</strong>sperato, che si articola oltre il controcanto stonato e<br />
f<strong>un</strong>ereo che gli eventi presentano.<br />
Ogni stagione della vita <strong>di</strong> Max Mayer – il protagonista - viene efficacemente<br />
sintetizzata con <strong>un</strong>’immagine potentissima: la sua camminata. All’inizio del racconto,<br />
Max cammina in modo buffo e insieme elegante, con <strong>un</strong>’andatura “calma, serena,<br />
lieta” 3 . Essendo piccolo <strong>di</strong> statura, Max incede in modo eretto, non tanto per<br />
acquisire maggior <strong>di</strong>gnità, quanto, piuttosto, per essere più vicino al cielo. Una<br />
camminata <strong>di</strong>screta, <strong>di</strong>versa, agli occhi della scrittrice allora bambina, da quella dei<br />
padri delle sue amiche tedesche, meno ostentata e compiaciuta, ma decisamente più<br />
leggera e <strong>di</strong>vertita. E questo perché, osserva la Paepcke, ogni <strong>ebreo</strong> avverte, da<br />
sempre, il peso della propria <strong>di</strong>versità rispetto ai popoli ospitanti, e allora impara ad<br />
essere acrobata dell’identità, f<strong>un</strong>ambolo nell’arte <strong>di</strong> mantenere le proprie ra<strong>di</strong>ci e<br />
insieme <strong>di</strong> non rompere il precario equilibrio con le culture della maggioranza,<br />
mo<strong>di</strong>ficando emblematicamente il proprio modo <strong>di</strong> camminare. Col procedere della<br />
narrazione, tuttavia, questo acrobatismo si inclina inevitabilmente fino al precipizio: a<br />
Max, col procedere della follia storica, non rimane che incurvarsi sempre <strong>di</strong> più,<br />
perdendo l’elasticità dei movimenti; non resta che accartocciarsi come qualcosa che il<br />
tempo devasta e il vento trascina con sé, come <strong>un</strong> oggetto <strong>di</strong>menticato e <strong>di</strong> scarso<br />
valore, gettato via. La riflessione sul camminare <strong>di</strong> Max è talmente cadenzata da non<br />
poter essere casuale. E’ anzi talmente ricorrente che il lettore non può fare a meno <strong>di</strong><br />
1 Lotte Paepcke (1910-2000), dopo la guerra, ha esercitato la professione <strong>di</strong> giornalista, e ha pubblicato <strong>un</strong> libro <strong>di</strong><br />
memorie – qui commentato – e <strong>un</strong> libro <strong>di</strong> poesie, vincendo il premio Johann Peter Hebel nel 1998. (Sfuggì alle<br />
persecuzioni naziste, in <strong>un</strong> primo tempo grazie al suo matrimonio con <strong>un</strong> tedesco e poi grazie alla protezione trovata in<br />
<strong>un</strong> convento. Il resoconto biografico oggetto <strong>di</strong> questo articolo è: L. PAEPCKE, Il mio piccolo padre <strong>ebreo</strong>, Gi<strong>un</strong>tina,<br />
Firenze 2004.<br />
2 Sul secolo delle violenze <strong>di</strong> massa, si veda l’interessante saggio: M. FLORES, Tutta la violenza <strong>di</strong> <strong>un</strong> secolo,<br />
Feltrinelli, Milano 2005, in particolare pp. 120-130<br />
3 L. PAEPCKE, op. cit., p. 8
itenerla <strong>un</strong> correlativo oggettivo dello stato d’animo del protagonista, <strong>un</strong>’allegoria<br />
capace <strong>di</strong> rappresentare il frantumarsi vitreo <strong>di</strong> <strong>un</strong>’anima, calpestata da pie<strong>di</strong><br />
in<strong>di</strong>fferenti, pie<strong>di</strong> qual<strong>un</strong>que, forse anche nostri, se è vero che la storia <strong>di</strong> Max è<br />
particolare e, insieme, rappresentativa della con<strong>di</strong>zione dell’emarginato, quin<strong>di</strong> valida<br />
para<strong>di</strong>gmaticamente.<br />
In modo più preciso, attraverso la vita <strong>di</strong> Max, percepiamo chiaramente come la<br />
grande storia trituri le biografie in<strong>di</strong>viduali; come i veleni del potere, dell’ignoranza,<br />
anche mascherata da qual<strong>un</strong>quismo, inquinino le coscienze dei popoli e, soprattutto,<br />
degli in<strong>di</strong>vidui com<strong>un</strong>i che lo compongono. Max, infatti, è <strong>ebreo</strong>, ma è anche tedesco,<br />
senza avvertire contrad<strong>di</strong>zioni in queste sue appartenenze. Come <strong>ebreo</strong>, osserva il<br />
sabato e si avvia all’attività artigianale del conciatore, retaggio della sua famiglia,<br />
benché in lui ci sia il desiderio <strong>di</strong> stu<strong>di</strong>are o <strong>di</strong> suonare il pianoforte. Come tedesco, si<br />
iscrive al partito socialdemocratico e partecipa alle ri<strong>un</strong>ioni politiche con quella<br />
vocazione alla <strong>di</strong>scussione e al ragionamento che, ancora <strong>un</strong>a volta, sono <strong>un</strong>’ere<strong>di</strong>tà<br />
ebraica. Il suo essere marxista, poi, è sempre problematico, ma nel senso più ampio<br />
che si possa conferire a questo termine. Di Marx apprezza l’utopia <strong>di</strong> <strong>un</strong> mondo senza<br />
classi, in cui emerga l’umanità al <strong>di</strong> là delle <strong>di</strong>stinzioni, ma la dottrina marxista gli<br />
pone problemi che il protagonista non vuole nascondersi, quali quello inerente al<br />
come conciliare la sua attività via via sempre più red<strong>di</strong>tizia con le ingiustizie e le<br />
sperequazioni, o quello rilanciato dalle domande mute e sospese degli ultimi. Ma la<br />
questione più scottante è quella che riguarda Dio, dal momento che l’ateismo<br />
marxiano si scontra con la sua fede incrollabile nel Signore <strong>di</strong> Israele, Dio<br />
dell’alleanza, Dio che ha parlato e che chiede al suo popolo <strong>di</strong> eseguire i suoi precetti.<br />
La convergenza, Max la troverà nella morale, in <strong>un</strong>a morale laica e, insieme,<br />
privatamente religiosa, grazie alla quale il suo essere marxista non entra in collisione<br />
col suo essere <strong>ebreo</strong>.<br />
Con questo spirito <strong>di</strong>alettico, il giovane Max parteciperà alla prima guerra mon<strong>di</strong>ale,<br />
convinto che occorra saper mettere in second’or<strong>di</strong>ne ogni ideologia, quando la patria<br />
chiama. Il suo partecipare alla guerra, rifiutando il neutralismo socialista, è <strong>un</strong> modo<br />
per riba<strong>di</strong>re al mondo e soprattutto a se stesso il suo essere tedesco senza <strong>di</strong>stinguo, il<br />
suo essere parte <strong>di</strong> <strong>un</strong>a com<strong>un</strong>ità ampia e stratificata. Con questo spirito, accetta <strong>di</strong><br />
suonare, in quanto musicista, la grancassa dell’esercito, <strong>di</strong>venendo il simbolo<br />
orgoglioso <strong>di</strong> <strong>un</strong> popolo ingabbiato in <strong>un</strong>a guerra atroce, risultato assurdo <strong>di</strong><br />
<strong>un</strong>’ancora più assurda e vecchia politica <strong>di</strong> potenza. Tornato dalla guerra, partecipa<br />
con entusiasmo al processo <strong>di</strong> democratizzazione della Repubblica <strong>di</strong> Weimar,<br />
<strong>di</strong>venendo assessore al teatro della sua città, Friburgo in Brisgovia: ancora <strong>un</strong>a volta<br />
la vita sembra volerlo convincere del fatto che la sua ebraicità non rappresenti più <strong>un</strong><br />
ostacolo, alimentando in lui l’illusione <strong>di</strong> essere uguale agli altri nel nuovo processo<br />
democratico. Ma le ombre della storia <strong>di</strong>fficilmente si <strong>di</strong>leguano con <strong>un</strong>a schiarita del<br />
cielo. Gli anni Trenta portano la crisi economica e il successo <strong>di</strong> Hitler, sancendo <strong>un</strong>a<br />
volta per tutte che Max non è affatto <strong>un</strong>o fra tanti, ma è l’<strong>ebreo</strong>, l’indesiderato,<br />
l’antiuomo, il corruttore della razza ariana tedesca, <strong>un</strong> <strong>di</strong>verso, ossia <strong>un</strong>a malattia<br />
mortale da estirpare. Nemmeno la resistenza <strong>di</strong> sinistra lo desidera tra le sue fila,<br />
perché accettare <strong>un</strong> <strong>ebreo</strong> è troppo pericoloso. Non rimane che la solitu<strong>di</strong>ne,
tremenda, angosciosa, plumbea, <strong>di</strong> <strong>un</strong> uomo <strong>di</strong>chiarato estraneo al suo popolo; non<br />
resta che l’emarginazione totale, riba<strong>di</strong>ta da <strong>un</strong>a SA che piantona l’ingresso del suo<br />
negozio e che grida a chi vuole entrarci <strong>di</strong> non comprare “dall’<strong>ebreo</strong>” 4 . Un<br />
isolamento ancor più sottolineato dal ricomporsi della grande famiglia ebraica, quella<br />
che la modernità aveva <strong>di</strong>sseminato nelle <strong>di</strong>verse classi sociali: così, il ricco<br />
banchiere Dorn, esautorato dal suo incarico, si riavvicina alla piccola e me<strong>di</strong>a<br />
borghesia, ai proletari e agli operai, aprendo la sua casa ad ospiti sconosciuti in cerca<br />
<strong>di</strong> rifugio, o, più semplicemente, investendo i suoi sol<strong>di</strong> perché gli ebrei, gli esclusi,<br />
possano continuare a fare in privato quello che potevano poco prima fare in pubblico,<br />
come leggere libri o ascoltare concerti da camera. Dorn non vuole vedere e preferisce<br />
pensare, come tanti, che il mondo non sia poi così ra<strong>di</strong>calmente mutato: “così si<br />
placava il desiderio <strong>di</strong> vita sociale e <strong>di</strong> cultura e si manteneva la tranquillizzante<br />
illusione <strong>di</strong> <strong>un</strong>a vita normale” 5 .<br />
A Max e alla moglie Olga non rimane che tentare la fuga, prima in Svizzera e, <strong>un</strong>a<br />
volta ottenuto il visto, verso gli Stati Uniti, dove risiedono alc<strong>un</strong>i parenti. La storia<br />
eterna degli ebrei torna, quin<strong>di</strong>, a ripetersi nell’esistenza <strong>di</strong> questo “piccolo padre<br />
<strong>ebreo</strong>”, nella vita <strong>di</strong> questo uomo qual<strong>un</strong>que e, proprio perché tale, esemplare. La<br />
fuga, la <strong>di</strong>aspora necessaria dell’<strong>ebreo</strong> storico 6 , si tingono dei contrasti<br />
dell’abbandono, del rifiuto, dell’isolamento e si consumano nelle pagine della<br />
Paepcke con <strong>un</strong>a velocità che non ha nulla del frettoloso, ma riflette stilisticamente la<br />
concitazione <strong>di</strong> ogni partenza obbligata verso l’ignoto. Ma, alla rapi<strong>di</strong>tà del <strong>di</strong>stacco<br />
si contrapp<strong>un</strong>ta la lentezza dell’arrivo negli Stati Uniti, fatta <strong>di</strong> giornate vuote, senza<br />
senso, interminabili. I tempi si allargano, si <strong>di</strong>latano in maniera estenuante, togliendo<br />
valore all’esistenza e marcando in maniera estremamente timbrata la sensazione<br />
sempre più netta <strong>di</strong> estraneità. Max è <strong>di</strong> nuovo il senza patria, lo straniero,<br />
l’immigrato in <strong>un</strong> mondo che, se apparentemente non <strong>di</strong>scrimina in base<br />
all’appartenenza religiosa, in realtà lo fa secondo criteri economici. Max e Olga sono<br />
ormai anziani, poco produttivi e, in quanto “vecchi”, risultano inutili nel magmatico<br />
processo produttivo del nuovo continente. Sono costretti a men<strong>di</strong>care piccoli lavori: il<br />
cucito per lei, la trascrizione manuale <strong>di</strong> spartiti musicali per lui, ricercando in<br />
<strong>un</strong>’operosità estenuante <strong>un</strong> senso per contrastare il “non senso” dell’esistenza. Solo<br />
quando i parenti ricchi, commossi da tanta de<strong>di</strong>zione, gli regalano <strong>un</strong> vecchio e<br />
ingombrantissimo pianoforte – talmente grande da occupare metà della stanza dove i<br />
due anziani si sono ridotti a vivere – Max è capace <strong>di</strong> ravvisare le tracce <strong>di</strong> <strong>un</strong> senso<br />
minuscolo. La musica contiene la memoria delle sue appartenenze negate, umiliate e<br />
calpestate; così si impone <strong>di</strong> suonare Wagner e Haydn; si obbliga a ripercorrere con<br />
la memoria le sue illusioni spezzate. Quando la guerra finisce, Max si imbatte<br />
nell’atrocità del pericolo da cui è riuscito a fuggire, viene a conoscenza, col resto del<br />
mondo, della verità sui campi <strong>di</strong> sterminio e anche quel briciolo <strong>di</strong> identità che era<br />
sopravvissuto attraverso la musica marcisce e si corrompe per sempre. Alla trage<strong>di</strong>a<br />
4<br />
Cfr. Ib., p. 44<br />
5<br />
Ib., p. 47.<br />
6<br />
Si veda su quest’aspetto: A. B. YEHOSHUA, Elogio della normalità. Saggi sulla <strong>di</strong>aspora ebraica, Gi<strong>un</strong>tina, Firenze<br />
1991.
<strong>un</strong>iversale, poi, si sovrappone quella privata, la morte della moglie Olga, perpetuando<br />
quel rilancio tra <strong>un</strong>iversale e particolare che compone la struttura profonda del<br />
resoconto della Paepcke. Nell’affetto profondo nutrito nei confronti della sua<br />
consorte, Max trovava ancora <strong>un</strong> ultimissimo residuo <strong>di</strong> senso, ma ora, nella profonda<br />
solitu<strong>di</strong>ne, <strong>di</strong>viene, definitivamente e senza possibilità <strong>di</strong> riscatto, straniero al mondo.<br />
Sarà <strong>un</strong> vecchio spento e ripiegato su se stesso che la figlia, sopravvissuta a sua volta<br />
all’orrore, riporterà a Friburgo. Qui, Max passeggia stanco nei luoghi della sua<br />
infanzia, della sua giovinezza e della sua maturità; nei luoghi <strong>di</strong> <strong>un</strong>a vita <strong>di</strong>ssolta,<br />
reincontrando persone che lo salutano come se nulla fosse avvenuto. Ma, quando il<br />
“piccolo <strong>ebreo</strong>” incontra <strong>un</strong> suo vecchio amico violinista, il quale aveva cessato <strong>di</strong><br />
salutarlo all’indomani delle leggi razziali per evitare le ritorsioni naziste, in<br />
quell’anziano tedesco, vecchio quanto lui, ma desideroso <strong>di</strong> giustificarsi ai suoi occhi,<br />
Max comprende quella che la Arendt definirà la “banalità del male 7 ”. Capisce<br />
razionalmente quello che aveva già inteso emotivamente: non potrà più essere<br />
tedesco, non potrà più appartenere a <strong>un</strong> popolo, perché “chi è stato profugo <strong>un</strong>a volta,<br />
lo rimane per sempre” 8 e perché, per <strong>di</strong>rla con Friedmann sulla scia della Arendt,<br />
negli sguar<strong>di</strong> delle persone vede il male, inteso come negazione del reale 9 . Privato<br />
dell’identità, Max si sente cancellato dal mondo e, anche se continua a sorridere a<br />
tutti, dentro <strong>di</strong> sé avverte <strong>di</strong> essersi già decomposto. Così, lentamente e insieme<br />
velocemente, muore: <strong>un</strong>a morte lenta, che ha ra<strong>di</strong>ci lontane in <strong>un</strong> male sociale e<br />
culturale che ha scavato dentro <strong>di</strong> lui devastandolo; <strong>un</strong>a morte veloce, <strong>di</strong>screta nella<br />
sua evoluzione, capace <strong>di</strong> riflettere la <strong>di</strong>gnità estrema <strong>di</strong> <strong>un</strong> uomo qual<strong>un</strong>que che,<br />
morendo, non vuole <strong>di</strong>sturbare troppo il mondo.<br />
La Paepcke descrive <strong>un</strong>a vita, l’esistenza particolare e insieme <strong>un</strong>iversale del suo<br />
“piccolo padre <strong>ebreo</strong>”, con i tratti veloci dello schizzo, ma, nel contempo, con la<br />
concentrazione semantica assoluta che solo il graffio <strong>di</strong> <strong>un</strong>a parola sintetica possiede.<br />
Un libro da leggere per riflettere, senza precomprensioni ideologiche, con l’intento <strong>di</strong><br />
vedere, al <strong>di</strong> là <strong>di</strong> tutto, la sofferenza dell’uomo: <strong>di</strong> quell’uomo con <strong>un</strong> nome e <strong>un</strong><br />
cognome; <strong>di</strong> ogni uomo innocente.<br />
7<br />
H. ARENDT, la banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 142-157.<br />
8<br />
L. PAEPCKE, op. cit., p. 86<br />
9<br />
Cfr. F. G. FRIEDMANN, Hannah Arendt. Un’ebrea tedesca nell’era del totalitarismo, Gi<strong>un</strong>tina, Firenze 2001, p. 80.