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Il pozzo DI ALESSANDRO PARRONCHI In esilio dalla campagna in cui ero solito passare l’estate, ho trovato quest’anno rifugio in una zona diversa. Quattro stanze quadrate, e intorno piante d’alto fusto senza nulla che disturbi la vista con elementi «nuovi». Solo, affacciandomi alla finestra, su un prato in declivio folto di vegetazione incomposta, un pozzo settecentesco di cui propongo, qui sopra, l’immagine. Il mio innato bisogno di costruzione, il sogno di un edificio, innalzato da me o prima di me, s’è afferrato a quel pozzo, a quel «dado», trovandoci appagamento e conforto. Ne è nata questa poesia, che vuole significare il primo germe di quel «bisogno di architettura» di cui la CASA DELLA LUCE è la perfetta espressione. Estate 1998 162
Non sbattere con forza le persiane nel silenzio della mattina. Regna una quiete perfetta in queste stanze quadrate, strette fra cortine d’alberi ed ho fissato in esse il mio rifugio. Dove la morte non possa raggiungermi e la vita non mi opprima col peso dei desideri non sopiti, delle mète non mai raggiunte e del rammarico forse di non restituito amore. La strada che fin qui arriva s’inerpica ancora un poco, poi desiste al limite di un cimitero di tombe disfatte a sua volta sepolto in un ammasso di rovi e foglie morte dove il piede appena spinto subito sprofonda in rigagnolo oscuro o catacomba. Il fiumicello scende fino all’orlo del prato dove un logoro cancello trattiene un mare d’erbe che non sai se siano i morti scesi e rifioriti in bianca spuma, immobile via vai che si perde, si scioglie, rifluisce ribolle in nebbie fatue che dissolve a notte fonda il filtro delle stelle. Forse più tardi a raggelarlo è il bianco d’un bimbo scivolato in fondo al lago e nel lago dissolto. Si riagglutina ora così nella notte di luna ed è dubbio se sia infelice o lieto di non aver vissuto tutto il tempo che senza lui siam destinati a vivere. non aspetta che un sonno da cui svegli ci sorprenda una morte repentina: torce umane saremo finché l’alba ci sveli che poi tutto è stato un sogno. Per questo abbarbicato io mi rimango a questo pozzo ch’è rifugio oscuro di salvezza da dove se anche giunga tetro anticipo odore di spelonca è sempre dal profondo un pullulare di linfa a cui perennemente attingere: acqua che ci disseti, acqua che lavi i nostri corpi nudi e forze accresca e risusciti un’ultima illusione. Quattro muri biancastri e un tetto a spiovere coronato da un piccolo pinnacolo è tutto quel che resta alla mia voglia costruttiva, a un bisogno di edificio antico a cui si può attingere ancora. Nelle mura del pozzo si rinsalda quest’ultima difesa dal terrore di scomparire. E quando dopo un giorno di nebbie col tramonto un sole torna a vestire montagne del suo roseo sorriso e un’aria nuovamente viva del suo raggio paesi e case imporpora di commossi bagliori, ho a un tratto il senso che la certezza più non mi abbandoni e non la morte mi raggiunga mai. Potrò così della mia vita al termine entrar nell’aldilà come in un sogno. Sale dalla vallata un altro fumo dall'incendio di un bosco che distrugge la vita degli insetti e di animali colti nel sonno che non hanno scampo e il mondo che vivemmo ora tramonta e chissà se ne seguirà un altro migliore dopo quel bagno di fuoco. Nulla è che da quel fuoco ora ci scampi, non strade aperte a furia nel violento avanzare a folate della fiamma, non getti d’acqua a striscio da elicotteri. La fiamma è destinata sì a raggiungerci e o prima o poi ci ferma lo spavento sul punto di fuggire. Dove, dove fuggire? L’erba secca che noi siamo 163
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