Tora Kan Dojo Anno <strong>13</strong>° n. <strong>41</strong> Tora Kan Honbu Dôjô International <strong>Okinawa</strong>n Goju-Ryu Karate-Do Federation Italia in collaborazione con Istituto Italiano Zen Sôtô Shôbôzan Fudenji Il Gasshuku dell’unità di Karate-Do e 12/15 Giugno <strong>2008</strong> presso Monastero Zen Sôtô Tempio Shôbôzan Fudenji Salsomaggiore Per Informazioni ed adesioni: 0661550149 e-mail: segreteria@iogkf.it 16
Tora Kan Dojo Anno <strong>13</strong>° n. <strong>41</strong> di Diego Binelli Il mondo delle arti marziali affascina da decenni gli occidentali. Essi sono giunti a conoscenza delle discipline estremo-orientali a varie riprese. L’apertura del Giappone all’occidentalizzazione rappresentò l’inizio della sua decadenza dal punto di vista tradizionale, ma dischiuse agli europei un mondo prima conosciuto soltanto da missionari gesuiti e mercanti. Le mode esotiste tardo ottocentesche furono una voga che riguardava soprattutto gli esteti e gli artisti, e sostanzialmente non erano interessate alla figura del combattente orientale. Ma è in questo secolo che comincia un vero e proprio approfondimento di quel mondo, grazie ad iniziative politicoantropologiche, e alle accresciute comunicazioni. Nemmeno la guerra mondiale che vede il Giappone sconfitto e umiliato (al punto che per diversi anni gli occupanti americani proibirono la pratica delle arti marziali; senza considerare la demonizzazione del soldato giapponese operata dalla cinematografia dei vincitori) riesce ad impedire che il grosso pubblico venga a conoscenza e nutra ammirazione per i samurai, e poi delle varie tecniche di combattimento, tra cui judo e karate che ebbero presto un successo straordinario.Ma il praticante occidentale, è viziato in partenza dalla mentalità dualista di matrice cristiana, e dal materialismo, che gli mostrano queste discipline per lo più soltanto nel loro aspetto ludicoutilitaristico; egli si sente attratto da queste discipline che rappresentano qualcosa di più di una disciplina sportiva, ma sostanzialmente ne ignora la loro funzione di “Vie”, ovvero di metodi, sviluppati nell’antichità da un particolare tipo umano (il guerriero tradizionale, appunto) per raggiungere il divino. L’occidentale ignora pure che le vie delle arti marziali appartennero ai suoi antenati indoeuropei prima ancora di diffondersi in Estremo Oriente e divenire, ulteriormente elaborate, parte della cultura dei popoli mongolidi come Cinesi, Giapponesi, Coreani ecc. Noi oggi ci torniamo ad impossessare delle vie del guerriero, preservate dagli orientali nelle loro culture, ignorando di essere noi stessi gli inventori di tale a- spetto. Che il samurai non fosse un semplice combattente e non fosse assimilabile al “commando” moderno, ce lo spiega lo studioso Mario Polia in un’opera sull’etica del bushido: “Ho voluto porre l’accento su come monaci, saggi e maestri della Cina e del Giappone hanno insegnato per più di due millenni in qual modo sarebbe stato possibile trasformare lo scabroso sentiero del guerriero in un do: una Via dello spirito. In qual modo sarebbe stato possibile dirigere la guerra al compimento ed alla difesa della pace insegnando al guerriero che v’è una ricompensa più grande del bottino conquistato a fil di spada e in punta di lancia. Compito tanto più arduo in quanto tale ricompensa non è materiale.” (2) Figure simili in Europa si potevano riscontrare ancora nei cavalieri medioevali, per poi scomparire quasi del tutto nel gorgo banalizante e de-spiritualizzante della modernità. Basti pensare a come viene sbeffeggiata la figura del cavaliere già nel romanzo di Cervantes Don Chisciotte. Nell’aristocrazia (che non è altro che una deroga germanica all’egualitarismo della cultura dominante cristiana) sono rimasti fino a poco tempo fa relitti sparsi di etica del guerriero (3). Oggi domina la volgarità della guerra moderna, senza onore e senza nessuna possibilità di elevarsi virilmente - al contrario, è un’esperienza degradante . Ma ritorniamo alle arti marziali. La figura del combattente ideale che tutti i praticanti di arti marziali hanno in mente, il samurai, inteso come asceta del combattimento, è ispirata allo kshatrya, il guerriero della tradizione vedica-indù, l’uomo che, per casta, era chiamato a opporsi al caos (la casta degli kshatrya è la seconda nella gerarchia indo-aria; alla prima casta, i brahmani, è riservato invece lo sviluppo delle funzioni eminentemente cultuali). Un combattente abile ma anche saggio, incarnazione delle virtù guerriere intese nella loro accezione migliore. Scrisse Arthur De Gobineau: “Questi uomini onorevoli non vedevano nulla degno di maggiore ammirazione di un guerriero sul suo carro, che, aiutato dallo scudiero, andava a consumare le sue frecce contro una tribù vicina. Questo scudiero, sempre presente nelle sculture egizie, assire, persiane, nei poemi greci o sanscriti, nello Shahnamah, nei canti scandinavi e nelle epopee cavalleresche del Medioevo, fu anche in India una figura militare di grande importanza. […] Ogni merito si eclissava davanti alla morte ricevuta combattendo. […] Indra stesso, incessantemente mi- (Continua a pagina 18) 17
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