Prof. Emilio Baccarini Alla ricerca del significante. Il sé e il suo futuro

Prof. Emilio Baccarini
Alla ricerca del significante.
Il sé e il suo futuro
(testo provvisorio)
Premessa
Io sono, questa è la constatazione elementare, l’asserto ontologico fondamentale che precede
ogni domanda, da cui ciascuno di noi prende le mosse quando inizia a riflettere sulla propria esistenza.
Chi sono? Perché sono? Da dove vengo e dove si dirige la mia esistenza? Qual è il significato della
mia vita? Sono alcune delle questioni ‘classiche’, che potremmo definire primarie che ci scuotono dal
torpore dell’esistenza anonima e che manifestano l’interrogatività come caratteristica peculiare
dell’umano. Solo l’uomo interroga e si interroga e questa capacità è essa stessa segno del limite e del
bisogno di trascendimento che struttura l’umano. L’essere umano consiste nel proiettarsi
continuamente oltre e fuori di sé; l’interrogatività è la manifestazione della sua finitezza e, al tempo
stesso, della perenne insoddisfazione che lo definisce. L’esercizio della domanda esprime il bisogno
ontologico della chiarezza e della presenza a sé che qualifica ogni essere umano, il bisogno di ‘essere
desti’, per utilizzare l’espressione di Edmund Husesrl. Naturalmente questa struttura non si esaurisce e
non si chiude in una prospettiva esclusivamente teoretica, non vuole soltanto ‘sapere’ il suo essere, ne
vuole anche gustare il ‘sapore’, è anche all’origine della particolare prassi dell’umano nel mondo. La
struttura inter-rogativa colloca l’essere umano in una posizione inter-media, in mezzo, tra una
trascendenza che sfugge alla possibilità della ‘tenuta’ e un’immanenza, il mondo, che dall’uomo
attende una donazione di senso che altrimenti non saprebbe darsi da sola. Il mondo ha bisogno
dell’uomo per ‘esprimere’ il suo significato e l’uomo nel mondo trova l’orizzonte dell’esercizio
possibile della sua umanità, della sua medialità, della sua capacità di operare mediazioni. In ultima
istanza il sapere scientifico non è altro che il risultato di questa attività mediatrice che fornisce le
coordinate capaci di organizzare il caos in un cosmos.
Queste riflessioni iniziali costituiscono l’ottica fondamentale del mio approccio all’umano
inteso come un significato significante alla ricerca del proprio significante. Il significante e non
soltanto il significato che ciascuno cerca è la sfida che costituisce lo stesso evento dell’esistenza. Non
possiamo vivere al buio, abbiamo bisogno di un senso che costituisce l’orientamento esistenziale, la
posizione di fini da raggiungere. Il problema fondamentale dell’uomo è proprio quello del fine, di ciò
che dà significato, il significante appunto che o ha la struttura dell’assoluto o si muta in assoluti
molteplici che disperdono l’esistenza in illusioni multiple. Il significante, per definizione, o è
indicazione di senso e quindi compimento, proiezione in un aldilà irriducibile all’orizzonte della
storia, altrimenti si muta in una variazione strumentale attraverso cui ognuno costruisce il proprio
significante in un processo di relativizzazione attraverso cui ciascuno è telos a se stesso. La storia del
XX secolo, breve nella sua inimmaginabile lunghezza, è la successione di ‘significanti’ totalizzanti
più o meno fallimentari, le molte ideologie che lo hanno attraversato e che in qualche caso
permangono ancora. Quella storia è alle nostre spalle, e se vogliamo guardare davanti, non possiamo
non esercitare un sereno quanto urgente esercizio della memoria. La nostra identità futura, ciò che
vogliamo essere, l’altra umanità che vogliamo contribuire a costruire non può prescindere dalla
memoria. La memoria è in molti casi la memoria del male, poiché il secolo che ci siamo da poco
lasciato alle spalle ne è stato artefice spietato 1 Il terzo millennio potrebbe essere un’altra storia, la
1
La riflessione sul male costituisce certamente un capitolo decisivo per la ricostruzione del secolo XX.
1

storia di un diverso paradigma dell’umano, sebbene le prime luci dell’alba del millennio non siano
propriamente rassicuranti e promettenti.
Vorrei proporre nella mia riflessione un percorso problematico che si faccia carico, senza
pretesa di esaustività, dei molti interrogativi che ci assillano, delle contraddizioni, delle ansie e delle
speranze. L’unica preoccupazione reale è cercare di reperire un senso che possa rendere significativo
in maniera autenticamente efficace il cammino dell’uomo nella sua storia perché diventi una storia
autenticamente umana. L’implicito di queste mie affermazioni è che l’umano costituisce una qualità
ontologica che non ha ancora strutturato veramente la riflessione dell’uomo su di sé. Cosa significa
pensare umanamente l'uomo? Pensare l’uomo in termini umani significa dare una qualificazione
autoreferenziale a questo termine, che deve trovare in se stesso i criteri di conoscibilità e di
definibilità; questo è il senso più autentico dell’espressione kat’auto riferita all’essenza dell’umano.
L’autoreferenzialità a cui mi riferisco significa semplicemente che per pensare e definire l’umano non
dobbiamo ricorrere a elementi estrinseci, perché il criterio di misura o è al di sopra di lui o, in quanto
inferiore, lo sminuisce. L’umanesimo biblico e la prospettiva evangelica potrebbero avanzare la
pretesa di essere paradigmi per pensare altrimenti l’uomo cioè pensarlo umanamente. Detto con
estrema laconicità, nell’ottica biblica pensare umanamente l’uomo significa pensarlo divinamente.
Questa è l’origine di una logica qualitativamente diversa. La logica dell’unicità e della sua preziosità.
E tuttavia, pensare ‘divinamente’ non significa rimandare a un immediato riferimento fondativo
teologico, ma si pone come una qualificazione del pensiero. Il resto del mio percorso giustificherà
questa affermazione.
Per pensare il senso dell’identità umana ricorrerò ad alcune figure della mitologia greca e al
loro superamento nella provocazione biblica: Prometeo – Narciso - Abramo.
L’uomo come vivente nel mondo: Prometeo
Un primo approccio, un primo passo del nostro percorso, possiamo farlo considerando che
l’essere umano nella immediatezza del suo darsi è un vivente spirituale che abita un mondo. Vivente
spirituale vorrebbe essere una traduzione più adeguata della definizione aristotelica dell’uomo come
Zoon Logichon. Non siamo soltanto ‘animali ragionevoli’ siamo dei ‘viventi che hanno il logos’. Ciò
che mi preme sottolineare è che se ci collochiamo di fronte all’uomo come vivente siamo sempre di
fronte a un participio presente, a un dinamismo inafferrabile e inarrestabile, a un agente che in quanto
attivo non può essere considerato nella sua oggettività di cosa. Se decidessimo di proseguire
nell’analisi di questo dato ci accorgeremmo che il vivente in quanto tale sfugge alla riduzione, alla
standardizzazione dell’oggetto. Il tema della vita nella sensibilità contemporanea ha assunto una
rilevanza che non possiamo trattare qui. Essere un vivente significa al tempo stesso avere la vita e
patire la vita. La vita ci sopraggiunge continuamente come qualcosa di assolutamente imprevisto, ci è
data o ci accade, è un dono o è semplice frutto del caso, di una combinazione biochimica che si
rinnova in sintesi ininterrotte. Il vivente è tale in quanto organismo corporeo 2 . Essere corpo, e non
soltanto avere un corpo, è un guadagno importante dell’antropologia del XX secolo. E, tuttavia noi
siamo organismi liberi, questo esprime la dimensione dello spirito, ma la libertà dice intrinsecamente
possibilità di bene e di male. La libertà si manifesta attraverso quella soggettività agente che dicevamo
e la prima capacità di esercizio della libertà l’uomo la rivolge a stesso preoccupandosi di sé.
Prendendo a prestito i termini greci abbiamo una duplice forma di ‘preoccupazione’: la cura del corpo
(therapeia tou somatou) e il prendersi cura dell’anima (epimeleia thes psychès). Oggi forse
l’attenzione è sbilanciata verso la prima. La cura del corpo è la ricerca di un ‘benessere’ che ispira una
peculiare arte di vivere che andrebbe indagata per coglierne le valenze profonde (il moltiplicarsi dei
centri benessere è un dato eloquente). Prendersi cura della vita è anche il senso da cui nasce per
esasperazione il grande dibattito sulla tecnicizzazione come gestione della vita. Curare e prendersi
cura non sempre intendono la stessa cosa e soprattutto non sempre perseguono lo stesso fine.
2
Si veda a questo proposito l’opera di H. Jonas, Organismo e libertà.
2

L’esercizio tecnico in questo ambito è il processo prometeico che vedremo all’opera anche in altri
contesti. Anche della vita si può parlare diversamente ‘nell’epoca della sua riproducibilità tecnica’.
Questo però sarebbe un argomento di grande suggestione certamente, ma anche di grande difficoltà
perchè ci costringerebbe a ripensare i paradigmi fondativi della cultura occidentale. Sono d’altronde
questi i temi laceranti del dibattito bioetico.
In quanto vivente spirituale, l’uomo non occupa semplicemente un luogo, bensì abita un
mondo. Il mondo è certamente la casa dell’uomo, che esige il rispetto di una normatività rigorosa;
l’economia è in prima istanza la capacità che l’uomo ha di gestire il suo mondo. Proviamo a far
interagire brevemente questi termini e forse ci accorgeremo che uno dei drammi del mondo
contemporaneo è legato proprio alla distorsione dell’economia, al travisamento dell’idea di mondo
come casa e soprattutto come casa condivisa. La crisi economica del mondo è allora una crisi
antropologica, l’economia veicola una distorta immagine di sé. Si può abitare il mondo secondo una
logica dello sfruttamento sregolato delle risorse, del profitto a ogni costo e come unico fine, oppure
attraverso una gestione attenta delle risorse. La modernità ha prodotto un soggetto prometeico 3
esasperato che ha trovato nella risoluzione tecnica della scienza le possibilità di trascendere se stesso, i
propri limiti attraverso l’eliminazione, o almeno, la riduzione dei limiti stessi. La macchina ha reso
insieme l’uomo antiquato, per usare l’espressione di G. Anders 4 , e presuntivamente onnipotente. La
rivoluzione tecnica ha prodotto un’identità umana che ha smesso di abitare semplicemente il mondo,
ma ha iniziato a trasformarlo secondo una logica strumentale che ha dimenticato il senso originario
del mondo come dimora per l’uomo. La nostra identità tecnica si limita alla temporalità strumentale
presente del funzionamento dell’oggetto o della risorsa senza la capacità della connessione in una
continuità temporale qual è quella del succedersi delle generazioni. Questa assenza di prospettiva
progettuale si traduce nella postmodernità, in un anarchico esercizio della libertà che produce la
società del rischio 5 . La soggettività prometeica, attraverso la tecnica ha mutato l’orizzonte di senso del
mondo e con questa mutazione noi oggi facciamo i conti. La globalizzazione, non è soltanto un dato
socio-economico, come ha mostrato Bauman, comporta una mutazione della visione antropologica
che fa perdere il senso dell’identità e sollecita una ‘liquefazione’ delle coscienze.
Nel 1979 Hans Jonas apriva la sua opera Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà
tecnologica con queste parole: “Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce
forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che mediante autorestrizioni
impedisca alla sua potenza di diventare una sventura per l’uomo” 6 . Attraverso un’euristica
della paura, Jonas proponeva un nuovo imperativo categorico: “Agisci in modo che le conseguenze
della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra” (p. 18).
Il nuovo imperativo proposto da Jonas, invita a riformulare, prima dell’etica, le leggi
dell’economia e i controlli della tecnica, ma soprattutto a pensare una diversa nozione di soggettività,
consapevole di abitare il mondo con altri e che quindi è necessaria una ‘nuova narrazione del mondo’ 7
in cui ci sia posto per la solidarietà come percezione del bene condiviso, sia per ciò che concerne le
risorse, sia per i beni prodotti. La condivisione è una parola che trova poco spazio nell’economia, lo
comincia a trovare oggi nell’economia di comunione, che tuttavia rimanda al primato del bene
comune. Nozione anche questa da ritrovare in maniera più consapevole come possibilità di
riformulazione di un’identità ‘bisognosa degli altri’.
L’uomo allo specchio: Narciso – Abramo
3
Un’interessante interpretazione del mito di Prometeo la leggiamo nel dialogo Protagora di Platone (320 C - 324 A)
4
L’opera si compone di due volumi che hanno rispettivamente i segg. Titoli: L'uomo è antiquato. Vol. 1: Considerazioni
sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale; L'uomo è antiquato. Vol. 2: Sulla distruzione della vita
nell'epoca della terza rivoluzione industriale. Milano 2007
5
Rimando per queste questioni alle analisi, ormai classiche di U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda
modernità, Roma 2000. L’edizione tedesca risale al 19886/1999. Dello stesso autore si veda anche I rischi della libertà.
L’individuo nell’epoca della globalizzazione, Bologna 2000.
6
Il principio responsabilità, Torino 1990 p. XXVII.
7
Si veda il bel libro di R. Petrella, Una nuova narrazione del mondo, Bologna 2007
3

Ho iniziato queste riflessioni con l’asserto Io sono in cui però l’affermazione della prima
persona non ha ancora il peso della consapevolezza di sé. Perché questa consapevolezza divenga
effettiva occorre duplicare il soggetto: io sono io. Il principio di identità ha il sapore
dell’autoaffermazione che produce una sorta di staticità impenetrabile e non ci si rende conto che la
vera identità sorge dalla posizione della differenza. Mi affermo come io perché prendo le distanze, mi
differenzio, dal tu. L’identità non è originaria è preceduta dalla differenza.
In questo secondo passaggio della mia riflessione vorrei riflettere sul senso dell’essere-io e lo
farò richiamando queste due figure. Narciso e Abramo, tra di loro assolutamente incommensurabili e
che tuttavia, a mio avviso, hanno strutturato in maniera diversa le modalità con cui l’Occidente ha
pensato l’identità del soggetto. Per brevità potemmo dire che uno definisce l’identità statica, mentre
l’altro esprime l’identità dinamica. La differenza tra le due non potrebbe essere più radicale e oggi
rappresenta una sfida di portata epocale, come vedremo. Su Narciso e il narcisismo si è molto
esercitata la psicologia, la psicoanalisi e la letteratura, forse meno l’antropologia filosofica. A me
sembra che quella di Narciso sia la malattia fondamentale dell’Occidente, addirittura l’alternativa più
radicale alla proposta cristiana. Non è certamente il caso di commentare qui la narrazione che Ovidio
fa nelle sue Metamorfori, ma ritengo che un commento filosofico-antropologico sarebbe di grande
utilità. Un dato che possiamo cogliere nel suo senso universale è che l’identità speculare riempie di sé
il mondo. La lettura di qualche riga può essere di grande aiuto alla nostra riflessione:
“Qui il ragazzo, spossato dalle fatiche della caccia e dal caldo,
venne a sdraiarsi, attratto dalla bellezza del posto e dalla fonte,
ma, mentre cerca di calmare la sete, un'altra sete gli nasce:
rapito nel porsi a bere dall'immagine che vede riflessa,
s'innamora d'una chimera: corpo crede ciò che solo è ombra.
Attonito fissa sé stesso e senza riuscire a staccarne gli occhi
rimane impietrito come una statua scolpita in marmo di Paro.
Disteso a terra, contempla quelle due stelle che sono i suoi occhi,
i capelli degni di Bacco, degni persino di Apollo,
e le guance lisce, il collo d'avorio, la bellezza
della bocca, il rosa soffuso sul niveo candore,
e tutto quanto ammira è ciò che rende lui meraviglioso.
Desidera, ignorandolo, sé stesso, amante e oggetto amato,
mentre brama, si brama, e insieme accende ed arde.
Quante volte lancia inutili baci alla finzione della fonte!
Quante volte immerge in acqua le braccia per gettarle
intorno al collo che vede e che in acqua non si afferra!
Ignora ciò che vede, ma quel che vede l'infiamma
e proprio l'illusione che l'inganna eccita i suoi occhi.
Ingenuo, perché t'illudi d'afferrare un'immagine che fugge?
Ciò che brami non esiste; ciò che ami, se ti volti, lo perdi!
Quella che scorgi non è che il fantasma di una figura riflessa:
nulla ha di suo; con te venne e con te rimane;
con te se ne andrebbe, se ad andartene tu riuscissi.”
Narciso suggerisce l’identità statica incapace di attraversare il mondo delle differenze, neanche
quella che un altro mi rimanda come mia eco, secondo il mito. Nella tradizione filosofica e
psicologica occidentale ciò si è tradotto nell’essere in sé e per sé, nella specularità, nell’identità
soddisfatta e che non ha bisogno di null’altro per esistere; identità senza relazione, senza differenze,
identità unica. Se proviamo ad applicare queste note a contesti più ampi, ma anche decisivi, quali
l’identità personale, sociale, nazionale, culturale ci accorgiamo che la staticità e la soddisfazione che
dicevo sono meno innocue o neutre di quanto a prima vista potrebbe sembrare, esiste un narcisismo
culturale, sociale o nazionale che rifiuta ogni differenza. Questa identità senza relazione rischia di
porsi come ripiegamento sterilizzante (nel senso della fecondità e dell’igiene) che non vuole avere
confronti e che affermandosi come l’unica libertà produce intorno a sé esclusivamente negazione e
violenza. Ogni forma di violenza, infatti, può ridursi ad autoaffermazione, come l’esperienza tragica
del Novecento ci ha insegnato.
4

Abramo è in questa prospettiva esattamente l’opposto; la sua è l’espressione di un’identità
dinamica che abita il mondo in maniera totalmente diversa. La storia di Abramo, come si sa, è
raccontata nei capitoli 12-25 del libro biblico della Genesi. Queste pagine di straordinaria intensità,
ma anche complessità, sono state lette e interpretate nei modi più diversi nelle diverse epoche e
orizzonti culturali. Il personaggio è complesso, non abbiamo notizie fondate sulla sua storicità e
ciononostante è un personaggio ‘realissimo’, poiché a lui, come fondatore del monoteismo, si
richiamano le religioni abramitiche 8 , ebraismo, cristianesimo e islam. Letteralmente, la figura di
Abramo attraversa in maniera multipla tutta la tradizione filosofica e religiosa, ma anche artistica e
letteraria, occidentale.
Il viaggio del patriarca inizia con un imperativo che è anche l’aspetto più rilevante,
l’intenzionalità profonda del viaggio: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua
patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti
benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti
benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della
terra”. Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore…» (Gn 12, 1-4). Questo inizio mette in
questione la struttura stessa del viaggio. Non c’è una meta da raggiungere, almeno non è una meta che
può essere considerata il riempimento dell’intenzione; non è previsto un ritorno, altra intenzione
vuota. Tutto è orientato verso un futuro che si lascia alle spalle un passato che non potrà più essere
recuperato, neppure con la memoria. Lo schema del tempo è messo in questione, come vedremo. Ciò
che conta è il presente orientato esclusivamente al futuro. Questo è il carattere fondamentale
dell’identità dinamica. Le tappe del viaggio di Abramo non hanno nulla di casuale, piuttosto ciascuna
rappresenta un evento del tempo e dello spazio. L’imprevedibilità del futuro non può essere assunta da
nessuno schema pre-dato, occorre soltanto attendere. Per questo mi sembra più opportuno cogliere il
senso di alcuni gesti di questo viaggio. Uno degli episodi più noti, ma anche più densi di significato è
certamente quello della Querce di Mamre («Poi Abram si spostò con le sue tende e andò a stabilirsi
alle querce di Mamre che sono a Ebron e vi costruì un altare al Signore» Gn 13, 18). Qui si celebra
l’ospitalità di Abramo, la capacità di vedere la differenza, farglisi incontro e accoglierla come dono
(cfr Gn 18, 1 e sgg). Nel suo viaggio, nella sua condizione nomadica, l’accoglienza dell’estraneostraniero
è esattamente corrispondente alla percezione di sé come straniero. In più luoghi questa
convinzione viene ribadita in maniera esplicita. Dopo la distruzione di Sodoma «Abramo levò le tende
di là, dirigendosi nel Negheb, e si stabilì tra Kades e Sur; poi soggiornò come straniero a Gerar» (Gn
20, 1). A Bersabea, è questo il luogo del sacrificio di Isacco, dopo aver stabilito l’alleanza con
Abimèlech, «Abramo piantò un tamerice a Bersabea, e lì invocò il nome del Signore, Dio
dell’eternità. E fu forestiero per molto tempo nel paese dei Filistei» (Gn 21, 33-34). La separazione è
totale, assoluta e irreversibile. Quando si trovava tra i Cananei, Abramo manda il suo servitore, sotto
giuramento, a cercare «nel mio paese, nella mia patria» una moglie per Isacco: «Gli disse il servo: “Se
la donna non mi vuol seguire in questo paese, dovrò forse ricondurre tuo figlio al paese da cui tu sei
uscito?”. Gli rispose Abramo: “Guardati dal ricondurre là mio figlio! Il Signore, Dio del cielo e Dio
della terra, che mi ha tolto dalla casa di mio padre e dal mio paese natio, che mi ha parlato e mi ha
giurato: Alla tua discendenza darò questo paese, egli stesso manderà il suo angelo davanti a te, perché
tu posa prendere di là una moglie per il mio figlio. Se la donna non vorrà seguirti, allora sarai libero
dal giuramento a me fatto; ma non devi ricondurre là il mio figlio”» (Gn 24, 5-8). Dopo l’incontro con
Rebecca, che sarà la sposa di Isacco, il servitore racconta la ‘consegna’ ricevuta da Abramo e
aggiunge un passaggio che mi sembra la chiave di volta del viaggiare di Abramo. «Io dissi al mio
padrone: “Forse la donna non mi seguirà”. Mi rispose: “Il Signore alla cui presenza io cammino,
manderà con te il suo angelo e darà felice esito al tuo viaggio…”» (Gn 24, 39-40).
Ho intenzionalmente sorvolato sull’episodio più tragico del viaggio di Abramo, quello su cui si
è più esercitata la filosofia, la teologia, la letteratura, l’arte, e cioè il sacrificio del figlio della
promessa Isacco di cui si parla al capitolo 22. La richiesta di Dio oltrepassa i limiti della
comprensione, ma anche in questo caso Abramo cammina alla presenza del suo Signore, si fida e
questa fiducia, che è il senso più vero e profondo della speranza, farà di lui il ‘cavaliere della fede’,
8
Un suggestivo ‘resoconto’ della figura di Abramo è il libro di A. Ségal, Abraham. Enquête sur un patriarche, Paris 1995.
5

per riprendere Kierkegaard e il padre di una moltitudine di genti. Questa fiducia-speranza è il novum
che fa del viaggio di Abramo un continuo evento, una continua risposta agli eventi che parlano e gli
indicano la strada da percorre “verso la terra che io ti mostrerò”. Proviamo a questo punto a dare un
senso all’‘altrove’ della speranza. Qui infatti, non c’è sofferenza, bensì la continua, avvincente, a volte
dolorosa certo, scoperta di una strada che si fa nel suo stesso essere percorsa. Il senso del viaggio è lo
stesso viaggiare. Questa è la connotazione più radicale del nomadismo, di un’esistenza nomadica.
L’altrove della speranza, non è in realtà un altrove, non occupa nessuno spazio e nessun
tempo. Non è posto da nessuna intenzione perché assolutamente ‘imprevedibile’. Tenendo conto dello
statuto dell’anticipazione intenzionale che Husserl ha definito come ‘anticipazione memorativa’, qui è
impedito lo stesso esercizio dell’intenzionalità. Non c’è anticipazione perché non c’è memoria, è puro
futuro. Questo è l’evento nella sua espressione più radicale. Abramo abbandona la staticità residente e
si mette in cammino fidandosi di un invito al futuro. Il tempo si tramuta nell’accadere del tempo, nella
temporalizzazione dello spazio che ora si abita e che soltanto in questo ora è significativo. Ma è un
‘ora’ proiettato in avanti, si abita il futuro. Il qui è abitato in vista di un là e di un domani, questo mi
sembra il senso più profondo di un’esistenza esodica, nomadica.
La speranza struttura, quindi, una soggettività che non ritorna su se stessa, ma la cui identità
forte consiste nell’ ‘uscire da sé’, nell’abbandonarsi 9 . Il ‘verso dove’ della speranza descrive un luogo
e un tempo che non mi appartengono e che, tuttavia, mi riguardano. Il tempo accade nella novità
continua dell’evento e che definisce il tempo messianico 10 .
Di fronte agli altri: l’identità come prossimità. Il Samaritano
Nel contesto etico-antropologico il pensiero nomade manifesta tutta la sua carica di
provocazione. La ricerca della propria identità passa attraverso la differenza. Ciò vuol dire che il sé,
come proprio sé, è fuori di sé, senza tuttavia essere alienato. Il pensiero nomade, cercando di
riformulare i paradigmi, intende essere una risposta alla «convocazione etica» che mi proviene
dall’altro. Questo percorso identitario si muta in un passaggio epocale: dall'ontologia all'etica; il
«bisogno ontologico» che costituisce ogni essere umano ha una duplice valenza: da un lato io sono un
essere-di-bisogno, al tempo stesso però ogni altro, in quanto anch'egli essere-di-bisogno, mi chiede di
uscire dal mio isolamento dolente per preoccuparmi del suo dolore. L'etica oltrepassa l'ontologia. Più
radicalmente, la gratuità mette in questione la necessità dell'identico. Il bisogno ontologico è il
bisogno dell'altro nell'ambivalenza del genitivo. In questa nuova ottica vorrei mostrare come il
paradigma descritto dalla parabola evangelica del samaritano sia perfettamente leggibile e utilizzabile
per una visione etico-antropologica, una nuova identità.
Il desiderio della felicità è, secondo Aristotele, ciò che accomuna tutti gli uomini. Scopo
dell'etica sarà quindi, come egli dice nell'Etica nicomachea, quello di raggiungere la felicità.
All'eudaimoníá greca, la felicità come raggiungimento di uno stato di beatitudine, corrisponde nella
visione ebraica e poi cristiana, il raggiungimento della vita eterna, una vita in cui il tempo diviene
pienezza di compimento, tempo senza tempo, tempo compiuto. La vita eterna desiderata e cercata
coinciderà quindi con il senso ultimo e intimo del proprio essere, il compimento di sé.
Questa breve premessa intende inquadrare le riflessioni di carattere antropologico ed etico che
faremo a partire dal testo del Vangelo di Luca 10,25-37: la «parabola del buon samaritano». Il
preludio è una domanda: «Maestro che debbo fare per ereditare la vita eterna?». Vale la pena
sottolineare la relazione dinamica che viene istituita nella vita quotidiana intesa come esercizio per
raggiungere il proprio telos. L'ortoprassi, l'agire etico sono la via. Gesù, coerentemente alla sua fede
ebraica, rimanda alla Torah: «cos'è scritto nella Legge?». In due passi paralleli (Mt 22,35 e Mc 12,28),
9
Su questo ‘uscire’ hanno scritto pagine di grande forza e provocazione Rosenzweig e Levinas.
10
Non si possono dimenticare le pagine di grande suggestione di Rosenzweig o di Benjamin, ma non si può neanche
dimenticare che soltanto su questo fondamento è possibile una filosofia e una teologia della storia. Il “verso dove ti
mostrerò” della promessa ad Abramo inaugura un percorso rivelativo che costituisce anche il ‘senso’ della stessa storia. La
strada che si percorre non è soggetta né a un destino cieco, né all’assurdità, ha un senso, si muove verso una direzione
anche se questo senso è nello stesso camminare.
6

Gesù alla domanda sul comandamento più grande rimanda sempre a Lv., 19,18. Nella Torah dunque è
scritto: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e
con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso». Nella conclusione di Gesù («Hai risposto
bene, fa' questo e vivrai») è indicato il paradigma o, se si vuole, le coordinate per il compimento del
senso dell'esistenza. Il livello conoscitivo intellettuale non è sufficiente per raggiungere il proprio
senso ultimo, occorre «fare». Possedere la propria vita è l'atto di una responsabilità che «obbedisce» al
comandamento. L'agire etico è quindi di fronte ai suoi elementi fontali auto-evidenti. Il primo in
particolare: «Amerai il Signore Dio tuo» è l'assolutamente indiscutibile soprattutto perché è memoria
di una signoria di Dio, unica garanzia etica: «Io sono il Signore». Che si debba amare Dio è quindi
fuori discussione, appartiene alla dimensione del riconoscimento dell'assoluto ontologico-metafisico
che ci costituisce nell'essere e soprattutto, biblicamente, ci mantiene nell'essere. Ciò che invece non è
altrettanto autoevidente è il perché, il come amare il proprio prossimo e, soprattutto, «chi è il mio
prossimo?». La parabola intende rispondere a questo interrogativo radicale che, in forma narrativa
certamente, ribalta i paradigmi etici tradizionali e introduce, anche figurativamente, l'elemento della
gratuità liturgica (in senso etimologico originale del termine) che si fa carico del malessere dell'altro
attraverso la responsabilità.
Leggiamo ancora una volta il testo. «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò
nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso
un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche
un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un samaritano, che era in viaggio,
passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi
olio e vino; poi caricatolo sopra il suo giumento lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno
seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: "Abbi cura di lui e ciò che spenderai
in più te lo rifonderò al mio ritorno". Chi di questi tre ti sembra sia stato (sia divenuto) il prossimo di
colui che è incappato nei briganti? Quegli rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse:
"Va' e fai lo stesso " » .
L'elemento narrativo che immediatamente risalta agli occhi è la strada. Quattro uomini in
cammino, ciascuno con un'avventura esistenziale diversa. Da un punto di vista antropologico, la strada
è una metafora fin troppo abusata per descrivere il percorso esistenziale e ciò nonostante mi pare
importante insistervi. Non si tratta soltanto di una figura della vita; possiamo leggere nella metafora
della strada anche lo stile nomadico dell'esistenza; un andare alla ricerca di un senso che si incrocia
con altri percorsi al punto che si può pensare il senso della propria vita come il risultato di queste
intersezioni e delle risposte che in questi incontri vengono date. Il percorso esistenziale è sempre un
camminare-con. A volte il «con» si trasforma e allora il senso del nostro percorso, orientato da un
intrinseco progetto teleologico da perseguire, si concretizza in incroci che costringono a decidere,
fermarsi o passare oltre. In queste due forme verbali è delineata in nuce una fenomenologia
dell'incontro nel suo aspetto positivo e in quello negativo, patologico, del rifiuto. Passare oltre è non
voler incontrare.
Sulla struttura narrativa della strada si potrebbe parlare a lungo; dalla parabola ricaviamo
almeno tre dati, tre tipi di incontri, di cui due mancati (quello con i briganti e quello con il sacerdote e
il levita) e uno positivo, efficace (con il samaritano). L'uomo lasciato mezzo morto è ancora
paradigmatico per un'altra lettura che, da un punto di vista antropologico è particolarmente rilevante:
l'uomo che siamo e che abbiamo di fronte è sostanzialmente un essere di bisogno. Non possiamo qui
insistere oltre su questo aspetto che permette di ridefinire l'antropologia e l'etica su nuove basi.
Cerchiamo ora di leggere brevemente i comportamenti dei personaggi che diventano
paradigmatici per la riflessione etica. Il sacerdote e il levita percorrono la stessa strada, vedono il
malcapitato, ma tirano dritto. La coscienza non è turbata, non si lascia mettere in questione, bisogna
puntare diritti al proprio progetto senza distrazione. L'invocazione del bisogno dell'altro non può
fermare il mio cammino che mira al perseguimento del proprio télos senza fratture. Il sacerdote e il
levita «scendevano anch'essi», quindi è molto probabile che venissero dal servizio al Tempio dove è
possibile il «contatto», l'incontro con Dio. II «passare oltre» del sacerdote e del levita si fa ancora più
drammatico se lo si colloca nello spazio memoriale dell'Esodo, dove si narra di un altro «passare
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oltre», quello dell'angelo sterminatore nella notte della pasqua in Egitto. La memoria della pasqua,
memoria fondativa di sacralità e di libertà/liberazione, dovrebbe costituirsi come paradigma di
benevolenza etica. Nella narrazione di Gesù sembra prefigurata la frattura tra comportamento morale
ed esercizio religioso. Nell'insistenza con cui il testo fa notare che i due personaggi «vedono», ma non
si fermano, si può ascoltare l'eco di Mt 25,31-46: «Signore quando mai ti abbiamo visto...?». II
«vedere» a cui qui si fa allusione è la capacità di accogliere il bisognoso e prendersene cura. Vedere
l'altro e nell'altro scorgere il comandamento etico che non si frappone a interruzione del mio
cammino, ma si colloca quasi come pietra miliare che segna il mio cammino. Dal percorso isolato alla
strada che si incrocia continuamente con altri percorsi tra cui bisogna riconoscere e costruire il
proprio. Ciò significa che la meta non è già data da subito, è un percorso nomadico continuamente in
cerca di un senso nella dialettica tra l'essere in sé e rimanervi e l'uscire da sé in uno smarrimento che
non ha però il sapore amaro della perdizione.
Anche il samaritano vede, ma non passa oltre. Anch'egli è in viaggio (odeuón, iter faciens),
forse per affari, ma ciò che è accaduto in quella strada lo riguarda; si ferma e compie alcuni gesti
paradigmatici: gli si avvicina ed è mosso a compassione, se lo carica e si prende cura di lui e, infine,
investe del proprio denaro in maniera totalmente gratuita. I1 primo gesto è segno dell'iniziativa
personale, dell'interessamento, della disponibilità a lasciarsi interrompere e infine, della generosità.
Solo se ci sono questi caratteri personali è possibile muoversi a compassione. Vale la pena notare che
nel testo il verbo è espresso nella forma grammaticale passiva, ciò significa che la «compassione» è in
qualche modo l'atteggiamento conseguente una provocazione che, a sua volta, suscita misericordia
(éleos). La memoria del «discorso della montagna» è automatica (Mt 5,7): «Beati i misericordiosi
perché avranno misericordia». L'essere mosso a compassione significa riconoscere nell'altro qualcosa
che me lo assimila nella differenza (com'è suggerito dal termine greco), l'elemento accomunante di
umanità che oltrepassa le distinzioni di razza, cultura, religione, o, meglio, le precede. Non si
dimentichi che il samaritano è per gli Israeliti lo straniero eretico.
Avere compassione non basta, bisogna farsi carico, caricarsi delle sofferenze dell'altro.
Rispondere all'appello dell'altro significa sollevare l'altro (epibibázo) e portarlo sulle nostre spalle. In
tal modo ci si prende cura l'uno dell'altro. L'epiméleia, la cura, è per il filosofo un termine carico di un
peso semantico incredibile. La epiméleia tes psyches, la cura dell'anima, è il messaggio platoniconeoplatonico
fondamentale, trasmesso in eredità dal pensiero greco a quello europeo. Gesù qui indica
invece la pista dell'uscire da sé per prendersi cura dell'altro che, si badi, è anche il recupero
dell'ortoprassi giudaica, sempre attenta alla cura del povero, della vedova e dell'orfano. L'aver cura va
oltre l'immediatezza del bisogno presente, ma «investe per il futuro», per un tempo che può non essere
il mio tempo e che quindi non posso ipotecare. Il tempo dell'altro che incontro come tempo del
bisogno, acquista per me il senso di una temporalità che convocandomi mi oltrepassa, e in questo
superamento il tempo dell'altro si produce come il risultato di una gratuità liturgica. Il mio tempo è il
tempo che incontra l'altro come misura della propria temporalità.
Torniamo alla domanda finale di Gesù che sposta significativamente e in maniera decisiva
quella del dottore della legge. Gesù domanda: «Chi dei tre si è fatto, è divenuto(ghegonénai)
prossimo?». II mutamento del verbo indica che la prossimità non è uno status tranquillo e
acquisito,bensì piuttosto un continuo nascere alla prossimità. È prossimo colui che si fa prossimo e
nel farsi prossimo si erediterà la vita eterna. Il Dio di misericordia lo si ama concretamente nell'essere
misericordiosi. Dio-bontà vuole che si arrivi a Lui attraverso un'irrettitudine di percorso che è
esercizio di bontà. Per questo si erediterà la vita eterna, per questo i due comandamenti sono simili. In
una sorta di consequenzialità sillogistica, che ha tuttavia una cogenza etico-antropologica ben diversa
- la consequenzialità tra farsi prossimo ed eredità - troviamo il senso profondo della parabola letta con
attenzione ai gesti narrativi che nascondono una struttura da creare, ma non in teoria, bensì ancora una
volta nell'ortoprassi, nella correttezza etica che esige una riformulazione antropologica: «va' e anche
tu fa' lo stesso».
Il Samaritano esprime la logica della prossimità come attesa dell’altro e come attenzione
all’altro. Attesa e attenzione sono le categorie di un’identità che si definisce a partire dalla prossimità.
Attendere e essere attento, la mia identità mi arriva da fuori di me. Rispondendo obbedisco.
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Cristo e il futuro dell’uomo.
L’utopia della croce: l’identità come sostituzione
In quest’ultima parte ella nostra riflessione mi riferirò allo specifico cristiano che potrebbe
divenire possibilità di definire altrimenti l’identità umana e quindi nuovo paradigma.
Paradossalmente, ma non credo possibile un accesso diverso se non quello del paradosso, non ci si
può accostare al kerygma evangelico se non nella sua dimensione di esperienza credente e quindi la
riflessione filosofica si eserciterà più sulle modalità e sul senso di quest’esperienza che non nella
ricerca di una giustificazione razionale del messaggio stesso 11 . Logos tou staurou, la parola della
croce, quest’espressione di Paolo è di grande potenza, poiché ci conduce dentro una altra modalità del
pensiero e del dire che ha avuto un notevole impatto sulla filosofia e che potremmo chiamarla con
Hegel, l’‘immane potenza del negativo’. Una negatività però, che non produce il nulla e non si
rovescia dialetticamente, bensì piuttosto opera l’oltrepassamento definitivo della potenza del negativo
e del male 12 . Il sacrificio della croce si colloca al punto terminale in cui la parola della croce acquista
il suo senso ultimo, dove si manifesta un’altra modalità di dire l’umano e di vedere la ‘gloria di Dio’.
Il messaggio dell’eu-angelos, del buon annuncio, si concentra sulla croce di Cristo. Per trovare il
senso peculiare del sacrificio della croce vorrei richiamare ancora due testi paolini che hanno
esercitato una grande suggestione sulla filosofia e che qui possono introdurci in una diversa direzione
di pensiero.
Per l’avvio delle nostre riflessioni sul sacrificio è utile iniziare dal passo della lettera agli Ebrei
in cui l’autore 13 presenta la novità del sacrificio del Cristo. Facendo esplicito riferimento ai sacrifici al
tempio e contrapponendogli il nuovo sacrificio l’Autore scrive:
“Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri, attraverso una Tenda più grande e più perfetta, non
costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, non con sangue di capri e di vitelli, ma con il
proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna. Infatti, se il
sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano,
purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a
Dio, purificherà la nostra coscienza dalla opere morte, per servire il Dio vivente?” (Ebr. 9, 11-14 corsivi miei).
Il secondo testo, tratto dalla lettera ai Filippesi e che probabilmente costituisce un inno cristologico
precedente allo stesso Paolo, completa e fonda, dal punto di vista ontologico e teologico, quello della
lettera agli Ebrei.
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò
un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso (eauton ekenosen, ipsum exinanivit) assumendo la
11
Nella prima lettera ai Corinzi (1, 18-25) troviamo quelle note e forti parole di Paolo che costituiscono il nucleo della
riflessione sull’esperienza cristiana, sulla sua logica paradossale: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che
vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti:
‘Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti’. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto ? Dove
mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché,
infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i
credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi
predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei
che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli
uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”.
12
Su questa connessione si potrebbe aprire una lunga discussione e una ricerca che metterebbe al centro la possibilità che
la croce segna di vittoria definitiva sul male. Ha molto riflettuto in questa direzione Luigi Pareyson negli ultimi anni della
sua vita. Si veda di lui Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino 1995.
13
Com’è noto, la lettera agli Ebrei, pur mostrando una intrinseca ispirazione paolina, presenta differenze di stile e di lingua
che non consentono l’attribuzione diretta all’apostolo Paolo.
9

condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente
fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro
nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che
Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil. 2, 5-11 corsivi miei).
Questo è il testo della kenosis di Dio che ha dato molto da pensare ai filosofi soprattutto
perché in essa si annuncia la morte di Dio 14 , ma che ha anche permesso di confrontarsi su una
questione di rilevanza decisiva, la questione dell’onnipotenza. Come può un Dio che muore essere al
tempo stesso considerato onnipotente? Proviamo a riflettere sui due testi per ricavarne delle
suggestioni utili al nostro percorso.
Svuotandosi 15 della sua divinità offrì se stesso senza macchia a Dio, se collochiamo vicine le
due espressioni dei due testi possiamo vedere con maggiore evidenza lo specifico del sacrificio della
croce. Nell’espressione è rivendicata l’innocenza della vittima e quindi l’oltrepassamento immediato
del meccanismo vittimario; ma viene anche rovesciata la prospettiva propria della sacralità e quindi
della religione. Offrendo se stesso in sacrificio il Cristo chiude definitivamente il valore sacrale di
ogni altro sacrificio e inaugura un diverso modo di rapportarsi a Dio. Dopo il sacrificio della croce si
trasforma anche il desiderio mimetico generatore di violenza e giustificazione del meccanismo
vittimario. Il Dio che, entrando nella storia, si fa uomo, che diviene carne, che assume tutte le
caratteristiche del limite, “meno il peccato”, che sceglie di morire in croce, pone se stesso come
modello di mimesis 16 . Si aprono qui spazi di riflessione di grande spessore teologico, ontologico,
antropologico che potremmo sintetizzare nell’espressione con cui Gesù, come abbiamo visto sopra,
conclude la narrazione della parabola del Samaritano: “Va’ e anche tu fa’ lo stesso”.
Qual è il proprium della parola della croce? Quale immagine di Dio si manifesta sulla croce?
La risposta a questi due interrogativi è ciò che segna la differenza. Quella della croce è certamente
una ‘parola difficile’, perché ‘inaudita’ in quanto parola originaria. È una parola difficile su due
versanti, quello soggettivo e quello oggettivo, quello della storia e quello dell’eternità. Tuttavia, si
presenta come la specifica parola con cui il Dio dell’evento cristiano ha parlato e parla all’umanità.
Nel sacrificio della croce assistiamo all’epifania più propria di Dio, una teofania in cui Dio si
manifesta ritraendosi e in tal modo si approssima all’uomo invitandolo a prendere a sua volta la sua
croce e a seguirlo. Se si accosta il logos della croce con quello proprio della filosofia scopriamo che
quel logos dice parole non umane eppure è possibile intenderle, ma soltanto se si esce dai limiti del
sapere. Questa dura parola è anche il luogo proprio e peculiare della pensabilità di Dio. Dio diventa
pensabile a partire dal fatto che Egli stesso rivelandosi rende possibile il pensiero. Su questa
dimensione dia-logica ha molto insistito il pensiero contemporaneo, ebraico e cristiano. Scrive il
grande teologo E. Jüngel: “Ora questa parola che era fin dal principio si è fatta carne e si è rivelata
con la morte in croce. Anzi, “La teologia del crocifisso è discorso su Dio come amore avvenuto nella
morte dell’uomo Gesù. L’amore è essenzialmente potenziamento dell’essere. Lo è anche, anzi lo è
proprio nella dimenticanza di sé che gli è propria. Perciò secondo una parola di Gesù (Mt. 10, 39)
avrà la propria vita chi la darà” 17 . La parola della croce è la parola che rivela un Dio amore e secondo
14
Il dibattito su questo tema soprattutto attraverso la ripresa di Schelling e Hegel prima e poi di Nietzsche è certamente
uno dei capitoli più problematici , ma anche più affascinanti della filosofia contemporanea. Certamente una questione
aperta che costringe il credente e il pensatore credente a fare i conti con l’affermazione della ‘morte di Dio’. Oltre alle
bibliografie specifiche dei singoli autori si rimanda per una prima introduzione al problema nel contesto specifico della
nostra ricerca alle opere di S. Breton e in particolare a La passione di Cristo e le filosofie, Pescara 1982 (ed. orig. 1954) e
alle lunghe analisi cristologiche di X. Tilliette in particolare a Filosofi davanti a Cristo (Brescia 1989) e soprattutto La
settimana santa dei filosofi (Ivi, 1992). La riflessione sul rapporto del filosofo con la passione di Cristo occupa le pagine
(63-107) dedicate al venerdì santo.
15
La traduzione francese della Bibbia di Chouraqui e quella tedesca (Einheitsübersetzung) mantengono questa idea di
svuotamento, che è più vicina all’annichilimento che risuona nel termine greco e che costituisce il paradosso peculiare
dell’incarnazione e della morte in croce.
16
Nella storia del pensiero e della spiritualità cristiani nei secoli il problema si è posto nella forma della imitatio Christi
(cfr. per es. Paolo 1Cor., 11,1) o ancora della sequela. Tra le figure più rilevanti vicine a noi nel tempo rimando a
Kierkegaard e a Bonhoeffer.
17
Ibid., p. 478.
10

il Cantico dei cantici: “Forte come la morte è l’amore” 18 . In questa ottica acquista pieno senso la
discepolanza di cui si diceva: “Allora Gesù disse ai suoi discepoli: ‘Se qualcuno vuol venire dietro a
me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua’” (Mt. 16, 24). Il risvolto antropologico di
questo rinnegamento sta nell’assunzione della logica del servizio molto ben espressa in un passo della
lettera di Paolo ai Galati (5, 13): “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa
libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità (agape) siate a
servizio gli uni degli altri”. Concludiamo questo momento della nostra riflessione ricordando che
eravamo partiti dal passo della lettera ai Filippesi in cui si diceva che “Gesù spogliò se stesso
assumendo la condizione di servo”. Il servire è la logica della croce che non è negazione della libertà
bensì affermazione della prossimità.
L’esperienza credente consiste in un certo senso nell’appropriazione dell’evento fondativo
originario per farne memoria incarnata. Naturalmente non si tratta di un’appropriazione oggettivante,
bensì dell’ingresso nell’orizzonte onniavvolgente dell’evento, dell’esperienza appunto e solo a questa
condizione è possibile farne memoria. La memoria dell’evento nella forma della sequela del discepolo
struttura una temporalità esperienziale assolutamente peculiare: il tempo della presenza che permane
presente. Soltanto a queste condizioni la parola dell’evento continua a essere viva. Nello specifico
dell’evento cristiano la presenza non è una contemplazione teoretica, un sapere, ma una prassi; è un
vedere che si compie nell’agire. In che modo il filosofo credente può calarsi dentro la sua esperienza
per coglierne una valenza universalizzabile? È un’operazione filosoficamente corretta o mostra un
movimento surrettizio? D’altra parte è possibile per il filosofo esercitare il suo pensiero al di fuori
della sua esperienza personale? La questione è che nell’esperienza dell’evento si cerca di far venire a
manifestazione le strutture stesse dell’evento nella misura in cui l’esperienza soggettiva ne è il venire
all’aperto. A questo titolo sarebbe giustificata la ‘ripresa’ dell’esperienza all’interno di una
comprensione che, per la sua tipicità, potremmo definire comprensione testimoniale.
La categoria che vogliamo riprendere e che costituisce l’assunto fondamentale del pensiero
moderno è quella di soggetto. La crisi della filosofia del soggetto e l’esigenza di una sua nuova
formulazione consentono di rimodularla applicandola all’esperienza dell’evento cristiano. La nuova
categoria che ripete una teoria del soggetto, ma radicalmente mutata e adatta a rispondere alle nuove
domande di senso è quella della sostituzione. La logica del sacrificio della croce è appunto quella
dell'assunzione della categoria della sostituzione come possibilità dell'interumano prima dell'etico. La
tensione della ricerca consisterà quindi, nel cominciare a pensare nell’ordine del per-l’altro: un
pensiero della pace, della non violenza, dell’umanesimo dell’altro uomo, un pensiero agapico. Il
termine sostituzione inserisce nella soggettività una nuova destinazione che la spinge fuori di sé e la fa
consistere nel suo essere altro. Ci troviamo a un punto di svolta se si considerano le prospettive del
per l’altro di Hegel o di Sartre. Non alienazione da superare, non smarrimento, ma affermazione di
una soggettività che è se stessa in quanto è destinata ad altri. Si tratta, tuttavia, di una destinazione
che, dentro di sé, non ha nulla dell’ineluttabilità del destino, bensì ridefinisce il senso e la portata della
libertà che privata della potenza ‘negativa’ dell’autoaffermazione produttrice di violenza si esercita
come responsabilità.
La riflessione di Bonhoeffer in questa direzione, ha esercitato e continua ad esercitare un
grande fascino, non soltanto per la grandezza della sua testimonianza di martire della resistenza al
nazismo, ma anche per la lucidità anticipatrice con cui ha presentato alcune sue tesi. La sua
prospettiva è incentrata in una cristologia forte che nella Gestaltung (conformazione) a Cristo trova il
paradigma esistenziale fondamentale. È nel saggio centrale dell’Etica, opera rimasta incompiuta e
pubblicata con redazioni diverse, intitolato La storia e il bene che il teologo tedesco si confronta con il
nostro tema. In modo assolutamente categorico Bonhoeffer afferma: “Non esiste uomo che possa
sfuggire alla responsabilità e cioè alla sostituzione vicaria”. Poco oltre, in una pagina di rara densità
leggiamo: “Poiché Gesù – la vita, la nostra vita – è vissuto in qualità di Figlio di Dio fattosi uomo
vicariamente per noi, ogni vita umana è attraverso di lui essenzialmente una vita vicaria. Egli non era
il singolo che volesse pervenire alla propria perfezione, bensì visse solo come colui che ha assunto e
porta in sé l’io di tutti gli uomini. Il suo vivere, fare, soffrire, nella loro interezza furono sostituzione
18
Si veda ancora di Jüngel il par. 24, “Dio come evento dello Spirito”, pp. 482 sgg.
11

vicaria. Quanto gli uomini dovrebbero vivere, agire e soffrire si adempì in lui. In questa sua reale
sostituzione vicaria, in cui si riassume la sua esistenza umana, egli è il responsabile per eccellenza.
Poiché egli è la vita, attraverso di lui tutta la vita è destinata alla sostituzione vicaria. Essa potrà
opporsi a questo fatto, ma ciò malgrado rimane vicaria per la vita o per la morte... si ha sostituzione
vicaria e quindi responsabilità solo nella dedizione piena della propria vita all’altro uomo. Solo chi
non è legato al proprio sé vive responsabilmente e cioè, solo chi non è legato al proprio sé vive” (p.
225). “Il responsabile è rinviato al prossimo concreto nella sua concreta realtà” (p. 227). Come si
vede siamo di fronte al capovolgimento del narcisismo che dicevamo sopra.
Ciò che Bonhoffer chiama 'sostituzione vicaria ”, in modo più deciso e senza, e al di fuori, dei
riferimenti e parametri cristiani, E. Lévinas lo definisce semplicemente 'sostituzione'. Per il filosofo
franco-lituano, di matrice ebraica, la mia esistenza è determinata da una chiamata e ne costituisce la
risposta. Rispondere all'altro significa immediatamente rispondere di lui. Il senso totale dell'esistere è
essere-per-gli altri 19 . In questo nuovo contesto la responsabilità non è più ‘donazione’ di senso
secondo l’insegnamento della fenomenologia di Husserl, ma ‘assunzione’ (Eccomi!). L'esistenza,
nella risposta a una vocazione, assume dimensioni inedite che richiedono disponibilità per
trasformarsi in novità radicale.
La ricerca della propria identità passa, attraverso la differenza. Ciò vuol dire che il sé, come
proprio sé, è fuori di sé, senza tuttavia essere alienato. Forse è questa la nuova categoria che può dar
forma a una nuova attitudine, la prossimità vissuta come la peculiarità dell’umano.
19 Accenno soltanto schematicamente al problema che ho trattato più analiticamente nel mio volume su Lévinas, Studium ,
Roma, 1985 e in altri saggi successivi dedicati al filosofo francese. Pur rimanendo fuori del nostro percorso in maniera
esplicita, è opportuno ricordare brevemente l’altro grande riferimento di Levinas che Franz Rosenzweig. Nella Stella della
redenzione, Casale Monferrato 1985 al Wort originario, la parola di Dio, è posto di fronte un Antwort, la risposta della
dedizione ubbidiente, che diviene, a sua volta, parola, nella temporalizzazione della risposta, nella Verantwortung, nella
responsabilità. Il percorso rosenzweighiano può essere quindi sintetizzato con un’espressione di forte contrapposizione
hegeliana dal per sé al per-l’altro. L’elemento di mediazione è appunto l’evento dell’amore di Dio. L’amore del prossimo
è la forza che deve completare la dedizione esigita dal comandamento dell’amore di Dio. “L’amore del prossimo è ciò che
ad ogni istante supera la semplice dedizione e tuttavia sempre la presuppone”… “L’uomo può esternarsi nell’atto d’amore
soltanto dopo essere divenuto anima destata da Dio. Solo il suo essere-amata da Dio fa sì che per l’anima l’atto d’amore
sia più che un semplice atto, sia l’adempimento di un comandamento d’amore”(p. 230).
In questa prospettiva il per-l’altro della prossimità ridefinisce anche la temporalità dell’uomo che in ogni istante è
attento (e attende) a colui che è di volta in volta ‘prossimo’, “il più vicino, colui che, comunque, qualunque cosa sia stato
prima di questo istante d’amore o sarà in seguito, è per me in questo istante soltanto il prossimo”(p. 234). Concludiamo
queste poche riflessioni con un passaggio particolarmente significativo in cui la correlazione tra prossimità e ‘sé’ ci
rimanda allo spirito profondo della dialogicità, che oltrepassa la dimensione etica per farsi semplicemente segno
d’umanità. Scrive Rosenzweig: “… L’uomo deve amare il suo prossimo come se stesso. Come se stesso. Il tuo prossimo è
‘come te’. L’uomo non deve negare se stesso. Proprio qui, nel comandamento dell’amore del prossimo, il suo ‘sé’ viene
per la prima volta confermato/stabilito definitivamente nel suo luogo stabile. … Tratto fuori dal caos infinito del mondo,
gli viene posto innanzi all’anima un prossimo, il suo prossimo e di questo, e per ora/come prossimo solo di questo, gli
viene detto: egli è come te. ‘Come te’, quindi non ‘te’. Tu rimani tu e devi rimanere tale. Ma per te egli non deve rimanere
un ille, e quindi un semplice illud per il tuo ‘tu’; bensì egli è come te, come il tuo ‘tu’, un ‘tu’ come te, un io…anima”(p.
257-258).
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