293 Arte e handicap visivo in Degas - Fondazione Internazionale ...

Arte e handicap visivo in Degas
La corrispondenza che
Degas scambiò con
amici e ammiratori, raccolta
e ordinata da Marcel
Guerin nel 1931, è
la miglior interpretazione
del carattere, delle
soddisfazioni e delle ansie
dell’artista negli anni
della sua maturità e
vecchiaia.
In questo arco di tempo
Degas soffrì di disturbi
visivi. Molte sono le lettere
in cui esprime l’angoscia
della cecità incombente
e la forte preoccupazione
che questa
possa compromettere
la sua pittura.
La malattia dell’artista
non è nota; si sa solamente
che l’occhio destro
si ammalò verso i
trent’anni e il sinistro
più tardi. Lo si deduce
dall’esame degli autoritratti
giovanili: in
quelli del 1854 e 1856
Degas infatti si dipinge
con viso regolare, occhi
neri e simmetrici, mentre
in quello del 1860
l’occhio destro è già socchiuso,
indicando una
sofferenza di cui entità
e natura ci sono tuttavia
ignote. Negli autoritratti
degli anni successivi
(1864-65), il viso
è sofferente, con entrambi
gli occhi socchiusi,
caratteristici di
chi teme la luce: si può
supporre quindi che
fosse ormai compromesso
anche l’occhio
sinistro.
Questa supposizione
trova conferma negli
scritti di Paul Valery,
noto amico del pittore,
e nella descrizione dalla
capacità visiva altalenante
su cui lo stesso
Degas si sofferma in lettere
ad altri amici e conoscenti.
Paul Valery, nel suo Degas
Danse Dessins ricorda
che l’artista, arruolato
nella Guardia Nazionale
durante la Guerra
francoprussiana del 1870
per la difesa di Parigi,
fu mandato a Vincennes
a far pratica di fucile;
lì scoprì che non
vedeva il bersaglio con
l’occhio destro quando
chiudeva il sinistro. Degas
attribuì - continua
Valery - la precarietà
della sua vista al freddo
patito nelle ore di notte
nelle casematte, esposte
ai venti gelidi del
nord. È noto che l’inverno
del ‘70 fu tanto
gelido che la Senna
ghiacciò da una sponda
all’altra: freddo e fame
misero a dura prova i
parigini che furono decimati
dalla malnutrizione,
dalle malattie infettive
e debilitanti. Degas,
nella giustificazione
personale al suo problema
visivo, non trascurò
di considerare ancora
il fatto di aver alloggiato,
agli inizi della
sua carriera, in una camera
ricavata sotto i
tetti, adiacente allo studio,
nella quale le finestre
molto alte gli consentivano
una buona
luce, a spese tuttavia
dell’aria fredda che lo
colpiva sul viso.
Una delle prime lettere
che ricorda il disagio di
una vista difficoltosa è
del marzo 1871 ed è ri-
volta all’amico Froelich.
«...i miei occhi vanno
meglio ...lavoro poco,
è vero... soltanto ritratti
di famiglia che dipingo
secondo il gusto di chi
me lo chiede, talora in
condizioni impossibili
di luce...».
In un’altra lettera, inviata
all’amico Rovart,
del dicembre 1872,
scritta da New Orleans,
dove si era recato su invito
del cognato, Degas
esprime il disagio di una
vista difficoltosa e l’intolleranza
alla luce: «...In
gennaio sarò senz’altro
di ritorno...la luce è così
diffusa che non ho potuto
dipingere il fiume
(il Mississipi. ) ...i miei
occhi sono tanto bisognosi
di cure che non
posso rischiarli. Alcuni
ritratti di famiglia saranno
solo il mio
sforzo...».
Altri scritti del soggiorno
americano (ottobre
1872-aprile 1873)
lamentano l’intolleranza
alla luce naturale e artificiale
intensa, il disagio
della vista adombrata
costantemente da
una “macchia”. In una
lettera, in particolare,
si legge: «Che belle cose
avrei potuto fare se la
luce chiara fosse stata
meno intollerabile per
me. Non posso uscire
per colpa degli occhi.
Non vedo l’ora di ritrovarmi
a casa mia ...la
luce è cosi forte che non
ho potuto far nulla in
riva al fiume. I miei occhi
han tanto bisogno
di cure e riposo che non
li forzo per nulla. Qui
n° 293 - febbraio 2000
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Direttore Responsabile Lucia Aleotti - Redazione, corrispondenza: «Minuti» Via Sette Santi n.1 - 50131 Firenze - www.fondazione-menarini.it
Autoritratto, 1863; Lisbona, Calouste Gulbenkian
Museum
Autoritratto dell’artista con Evariste de Valernes,
1865; Parigi Musée d’Orsay

Monet più di me vedrebbe
belle cose! Pochi
ritratti sono il risultato
dei miei sforzi».
Se ne deduce che il paesaggio
e la gente del
Mississipi lo attraggono
vivamente ma che nello
stesso tempo la brillantezza
della luce naturale
lo fa lagrimare, gli provoca
dolore, disagio e
rinuncia a dipingere all’aperto.
Forse i critici, alle considerazioni
secondo le
quali i luoghi chiusi e
illuminati - teatro, sala
di concerti, caffè - dovevano
essere più congeniali
all’interesse di
Degas perché la luce riflessa
o artificiale consentiva
contrasti di luce
meno traumatici e
quindi prospettive più
consone alle sue ridotte
capacità percettive, dovrebbero
tener conto
di questi dati oggettivi,
testimoniati dall’artista
stesso. L’esempio
più classico è Il Mercato
del cotone, che ritrae
l’interno dell’ufficio
dello zio Mosson, in cui
la luminosità dell’ambiente
e i contrasti conseguenti
contribuiscono
in buona misura a esaltarne
l’architettura e i
particolari i ritrattistici
dei personaggi.
L’invalidità di Degas
ha comunque alti e bassi;
a volte l’artista sembra
farsi prendere dallo
sconforto, tuttavia non
si arrende alla malattia.
In una lettera del 1876
all’amico Rovart scrive
che la sua vista si comporta
come un cervello
impotente che non sa
connettere e «son tentato
di rinunciare e andare
a dormire»; l’anno
successivo annota ancora:
«vedo una mac-
chia davanti agli occhi
che mi interrompe la
lettura di un’incisione
o la vista di un quadro».
Frase quest’ultima che,
quando il destro è ambliope,
fa pensare che la
malattia dell’occhio sinistro,
pur avendo recidive,
gli consentisse
un residuo visivo tra una
ricaduta e l’altra. In
un’altra lettera sempre
di Degas all’amico Rovart
nel 1891, si legge
che Landolt, famoso oculista
francese dell’epoca,
gli aveva prescritto
tempo addietro un paio
di occhiali con una lente
smerigliata a destra e
una lente con fessura
centrale orizzontale a
sinistra, così da costringere
l’occhio a guardarvi
attraverso. Ebbene nelle
Lezioni sulla diagnosi della
malattie oculari del 1877,
Landolt descrive gli occhiali
che hanno il suo
nome: un espediente
che consente il passaggio
della luce alla sola
porzione centrale della
cornea e del segmento
anteriore. La fessura centrale
eviterebbe l’abbagliamento
e la diffrazione
dei raggi luminosi.
La malattia di Degas
aveva, si è detto, carattere
recidivante: la fotofobia,
l’ombra che periodicamente
gli ostacolava
la visione creando
i disagi di “non vedere”,
“non saper affrontare la
luce” si alternavano a
periodi di benessere visivo.
In una lettera a Rovart
scrive nel 1878: «La
mia vista non va. Non
riunisce più o le riesce
così difficile che son tentato
spesso di rinunciare
ad adoperarla... varia
con il tempo: quando è
secco e sereno vedo
molto meglio anche se
mi è necessario un po’
di tempo per abituarmi
alla grande luce che mi
colpisce nonostante le
lenti affumicate. Ma non
appena torna l’umidità,
io sto come oggi, con la
vista bruciata e confusa.
Come finirà?».
Il carattere dell’artista,
il suo stato d’animo, ovviamente
ne soffrivano
profondamente. Per non
affaticare la vista e forse
svagare la mente, Degas
si distraeva vagabondando
per le vie di
Parigi. Scrive Valery
che durante la bella stagione
saliva sull’omnibus
o sul tranvai, sedeva
sul piano più alto, si faceva
portare alla fine
della corsa e poi ricondurre
alla fermata più
vicina a casa sua. Si doveva
essere impadronito
di lui un cupo pessimismo
con il quale
l’artista affrontava la situazione.
Ma i disturbi di vista
non ostacolavano la sua
volontà di lavorare, anche
se avvertiva l’insoddisfazione
che le sue
opere non fossero compiute
nella perfezione
dei particolari e nella
giusta armonia di dise-
pag. 2
Il mercato del cotone (Interno dell’ufficio dei
Musson), 1873; Pau, Musée des Beaux-Arts
Edgar Degas fotografia, 1885

gno e colore che desiderava.
Abbandonò
quindi la pittura ad olio,
ormai incompatibile
con il suo disagio visivo,
per il pastello, che conosceva
dagli anni giovanili
perché corrispondeva
di più alle diminuite
capacità di vista.
Il pastello gli consentiva
di ottenere tonalità
compatte e senza ombre,
di dipingere disegnando,
di correggere
in trasparenza, di dare
maggiori possibilità al
ritocco. Usava il pastello
con maestrìa privilegiando
gli effetti di luce
e colore sul disegno. A
questo periodo (dal 1885
in poi) appartiene la serie
di “donne”: c’è chi
si specchia, chi si asciuga
il collo, chi si riassetta,
chi si pettina e si fa pettinare,
chi entra nella
vasca da bagno, chi si
spugna nella tinozza,
accanto a donne ritratte
nei loro lavori come
quello di modiste o stiratrici.
Quando la vista non gli
permise di cogliere i
contorni delle figure si
dedicò allora alla scultura.
“L’arte dell’uomo
cieco” la chiamava. In
questo periodo modellò
una lunga serie di figurine
di donne nude.
Scrive a questo proposito
Valery «Le sue mani
esperte sentivano la
forma nascere sotto le
dita con le proporzioni
volute... Gli ultimi barlumi
dei suoi occhi integrano
il suo tatto.
Tante volte aveva guardato
i suoi modelli muoversi
liberi, tante volte
aveva corretto e ricorretto
i suoi disegni nella
ricerca della linea, volumi,
proporzioni che
costituiscono l’espres-
sione estetica che il corpo
umano assume nella
vita».
La scultura era più accessibile
alle possibilità
visive dell’artista perché
gli consentiva un
lavoro in cui era impegnato
più di tatto che
la vista. «Le forme non
si rivelano più attraverso
gli occhi ma da
quanto mi restava nella
mente», diceva. Eseguì
un gran numero di statuine
in cera, in terracotta,
soltanto per sé.
Ne lasciò riprodurre in
gesso soltanto due: una
di queste è la notissima
Danzatrice quattordicenne
che l’artista vestì
con tutù di tulle, il corsetto
e le scarpette di
raso. Ne seguirono molte
altre raffiguranti ballerine
nelle quali Degas
cercò di fissare i diversi
movimenti della danza.
Alla sua morte Paul Durand-Ruel
ne trovò ben
centocinquanta, che affidò
allo scultore Bartholomè
perché le traducesse
in bronzo. L’operazione
fu eseguita solamente
dopo la fine
della Guerra Mondiale
dal fonditore Hèbrard
su settantadue, perché
le altre erano in pessime
condizioni. Di ogni
opera furono fusi ventidue
esemplari in parte
destinati agli eredi, in
parte venduti. Un serie
di tali esemplari è conservata
nel Museu de
l’Art di S.Paolo del Brasile.
Nei momenti di benessere
visivo Degas continuò
tuttavia a dipingere
cavalli e danzatrici,
dai movimenti così incisivi
e delicati da far
dubitare i critici di una
vista seriamente compromessa.
E, pur angustiato dal
male che l’inabilitava,
non perse mai la voglia
di lavorare. Nel luglio
del ‘91 scriveva all’amico
De Valernas «Ah, la mia
vista! Il mio spirito nella
solitudine dello studio
si fa sempre pressante e
la difficoltà di vedere
mi paralizza. Misuro le
mie forze e voglio fare
una serie di litografie
di donne alla toilette ed
un’altra di danzatrici
nude».
Le lettere degli ultimi
anni del secolo ripetono
il peggioramento della
sua vista. Nel 1896 scriveva:
«Ogni cosa è difficoltosa
per un cieco
che vuol far finta di vedere».
In verità era innamorato
del suo lavoro
e lavorò intensamente
per molti anni ancora.
È fuori dubbio che la
precarietà della vista,
alla quale contribuì il
declino degli anni, divenne
per Degas una restrizione
di vita e di attività
artistica. Alcune
testimonianze descrivono
la frustrazione, il
bisogno di staccarsi ripetutamente
dall’opera
che stava eseguendo e
di riposarsi: artifici per
compensare la vista deficitaria.
I quadri degli
ultimi anni sono di
grandi dimensioni,
hanno figure anch’esse
grandi, scarsi dettagli,
colori brillanti. Uno degli
ultimi dipinti, Madame
Alex, raffigurato a
grandezza quasi naturale,
presenta ancora una
vigorìa straordinaria;
sfortunatamente la sua
vista sempre più indebolita,
il suo handicap
visivo, non gli permise
di finire altre grandi tele
rimaste incompiute.
mario morra
pag. 3
Le stiratrici, 1876?; Parigi, Collezione Durand-
Ruel
In un caffè (l’assenzio), 1875-76; Parigi Musée
d’Orsay