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Roberto Saviano, Gomorra - Allegoria

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allegoria57Gilda Policastro<strong>Gomorra</strong> di <strong>Roberto</strong> <strong>Saviano</strong> è in realtà due libri. Innanzitutto l’inchiesta,il reportage, la ricostruzione per successive tappe e nei diversi ambiti(il contrabbando, il traffico di droga, la contraffazione dei manufatti,le imprese del cemento, lo smaltimento dei rifiuti) dell’ascesa e deldominio pressoché incontrastato del cosiddetto Sistema: l’impero economicodella camorra che da Napoli e dintorni è arrivato a toccare glianfratti più impensati dei continenti, in un’agghiacciante versione criminosadel “villaggio globale”. Malgrado l’attenzione documentaria venga,infatti, primariamente rivolta al resoconto delle dinamiche complessivee dei singoli episodi della eterna faida tra i clan locali (col dettagliodi quella, a dir poco efferata, tra le cosche secondiglianesi, che occupaun intero capitolo, il quarto, oltre ai frequenti richiami nei successivi),a emergere con chiarezza da questo primo libro è che il suo autore leggeil mondo, per dirla così, sub specie camorrae. Tutto è male, perché tuttoè camorra: questa la testimonianza, cui conseguono i tanti dati documentari,sparsi nella vera e propria cronaca di una guerra. Quindi soprattuttoil computo dei «morti ammazzati», a partire dall’anno di nascitadell’autore: «Inizio la conta: nel 1979 cento morti, nel 1980 centoquaranta,nel 1981 centodieci […] nel 2004 centoquarantadue, nel 2005novanta».Nel format del reportage, in cui la valenza testimoniale predominaevidentemente su qualunque preoccupazione di natura strutturale, s’innestaperò qualcosa di anomalo: a ricostruire la storia del Sistema è “qualcuno”che non solo ha visto (ad esempio l’arresto del boss Paolo Di Lauroe il successivo processo), e che conosce i fatti («io so e ho le prove»,con dichiarato debito pasoliniano), ma che li racconta. E qui si arriva alsecondo dei due <strong>Gomorra</strong>: il romanzo dei casi singoli, degli individui, deinomi e dei volti (evidentemente non tutti) di quei «tremilaseicento mortida quando sono nato». Si chiamano Mena, Attilio, Annalisa Durante,don Peppino Diana: scontano la sola colpa di essere nati lì, oppure di essereparenti o amici o collusi a loro volta; anche perché «appena muoriin terra di camorra, vieni avvolto da molteplici sospetti, e l’innocenza èun’ipotesi lontana, l’ultima possibile. Sei colpevole fino a prova contraria.La teoria del diritto moderno nella terra dei clan è capovolta». Vengonouccisi a colpi di pistola in fronte o torturati, tagliati a pezzi e gettatinei pozzi, fatti esplodere. Ogni tragica fine è descritta nei minimi dettaglicon irrinunciabile precisione chirurgica. Ma chi è l’io che sa, e cheha visto tutto questo? E perché non si qualifica in nessun altro modo checome testimone, peraltro occasionalmente e già molto avanti nella narrazione,e per lo più attraverso i soli strumenti d’indagine (il taccuino, ilregistratore)? Di chi è, insomma, il punto di vista complessivo su questastoria, terribilmente vera, realmente terribile?<strong>Roberto</strong> <strong>Saviano</strong>,<strong>Gomorra</strong>185

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