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EUROPEE
di Philippe Bernasconi
E per fortuna che con la nuova Costituzione e i nuovi
organi istituzionali l’Unione europea avrebbe dovuto
essere più unita e coesa. Sono bastate alcune migliaia
di rom per (ri)portare a galla tutta la fragilità e l’incoerenza
che contraddistingue questa fase di storia europea.
Proprio nel momento in cui – forse mai come
prima – servirebbe fare quadrato attorno a un modello
e a un ideale per uscire defi nitivamente dalle acque
limacciose di una crisi economica che non vuole saperne
di farsi da parte.
Il Consiglio straordinario dei capi di Stato e di governo
dell’Unione di metà settembre avrebbe dovuto essere
dedicato alla diffi cile situazione economica che
attanaglia una parte importante di Europa e invece i
27 hanno dovuto occuparsi di una questione per certi
versi minore, ma che in queste settimane ha preso il
sopravvento. I rom. Una minoranza di una minoranza,
di origine romena ma non solo, che la Franca di Nicolas
Sarkozy ha deciso di rispedire a casa propria.
Non preoccupandosi di uno dei capi saldi dell’Unione,
ovvero la libera circolazione delle persone (che dovrebbe
permettere ai cittadini degli Stati membri di
muoversi liberamente all’interno dei confi ni comunitari)
e – aspetto forse ancora più grave – non preoccupandosi
del fatto che a casa loro i rom vengono spesso
trattati non propriamente in modo civile.
Una minoranza di una minoranza, appunto, che nessuno
vorrebbe tra i piedi, ma che esiste e che non
può essere nascosta. Un modo un po’ troppo semplice
per risolvere il problema. Ma il presidente francese (in
preoccupante calo di consensi) ha deciso di affrontare
di petto il tema della sicurezza e dell’illegalità. E lo
ha fatto in solitaria, senza minimamente coinvolgere
le istanze europee preposte ad affrontare questo tipo
di problematiche. Ciò che non dovrebbe avvenire in
un’unione di Stati che si è dotata di regole (tra cui,
come detto, la libera circolazione delle persone) e
istituzioni comuni. La questione, semmai ce ne fosse
stato il motivo, andava affrontata diversamente, coinvolgendo
preventivamente la Commissione europea e
gli altri Stati membri (in primis chi, come la Romania,
avrebbe dovuto (ri)accogliere chi sarebbe stato espulso
da Parigi). Ma tant’è. Tra minacce di sanzioni e rifi uti
di fare passi indietro (“Continueremo a smantellare
L’unità che non c’è
tutti i campi illegali senza guardare chi li occupa: non
vogliamo che intere famiglie vivano in bidonville. È una
condizione non degna dell’Europa e della Francia”, ha
tuonato Sarkozy al termine del vertice di Bruxelles) i
27 sono stati costretti a rinviare ad ottobre le trattative
sulle sanzioni per le violazione del Patto di stabilità
e sull’introduzione di una tassa sulle transazioni fi nanziarie
e di un prelievo sulle banche.
Peccato, perché è proprio di nuove regole e di nuovi
punti fermi in materia economica di cui l’Europa avrebbe
bisogno in questo momento. Da una parte vi sono
le nuove regole del Comitato di Basilea sulla vigilanza
bancaria, che nei prossimi anni imporranno al sistema
fi nanziario internazionale una maggiore capitalizzazione
per evitare nuove drammatiche crisi (come quella
del 2007/2008). Dall’altra, vi sono segnali non proprio
confortanti sullo stato dell’economia mondiale. Se negli
Stati Uniti il timore di un ritorno della recessione
(il famoso e temuto scenario a W) e lo spettro della
defl azione sono tutt’altro che remoti, in Europa la
sola Germania sembra al riparo da brutte sorprese,
mentre per gli altri Paesi la fi ne del tunnel buio della
recessione sembra essere ancora lontana. Ecco che
allora bisognerebbe studiare e adottare tutti insieme
nuove strategie. Perché, se la leva degli stimoli fi scali
e monetari (applicata in dosi massicce nella prima
fase della crisi) ha prodotto dei frutti, ora non può più
essere replicata, visti i danni da sovraindebitamento
che ha prodotto in molti Stati. Che fare allora? È di questo
che i capi di Stato e di governo dei 27 dovrebbe
discutere urgentemente. Adottare nuove e più severe
regole, affi nché il passato non abbia a ripetersi (con il
rischio però che ciò per molti rappresenti la mazzata
defi nitiva) oppure insistere con la spesa pubblica e tutto
ciò che ne consegue (con il rischio anche qui che
molti vengano affossati dai debiti)?
Un bel dilemma, non c’è che dire. Che per essere affrontato
avrebbe bisogno di un’Europa più unita che
mai, come lo stesso presidente della Commissione
europea ha recentemente avuto modo di sottolineare
in un’intervista al Corriere della Sera: “I problemi non si
risolveranno fi nché ogni nazione non vedrà il progetto
europeo come il suo progetto. Bisogna difendere gli
interessi dell’Europa”. Come dargli torto.
la Rivista
n. 10 - Ottobre 2010
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