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luglio-agosto - Carte Bollate

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avanti e indietro nel vascone di cemento<br />

del passeggio. Belve in gabbia che<br />

si lasciano pascolare come un gregge<br />

di pecore mansuete. Non più persone,<br />

ma disposti ad accettare quel «di più»<br />

di umiliazione funzionale a una carcerazione<br />

tranquilla. Non si ribellano. A<br />

questo carcere si consegnano completamente<br />

come sudditi. È il gioco delle<br />

parti.<br />

Molti preferiscono questa sorta di maternage<br />

– seppure maligno– piuttosto<br />

che muoversi in modo autonomo<br />

e responsabile per svuotare le regole<br />

imposte non dalla legge ma dal potere<br />

sovrano.<br />

Carcere di Eboli, provincia di Salerno,<br />

primavera 1996. Si sperimenta la<br />

rivoluzione in una piccola struttura<br />

solo per tossicodipendenti. Si chiama<br />

custodia attenuata. Celle aperte, lavoro,<br />

attività ricreative, terapeutiche e<br />

di studio, sala da pranzo comune. E i<br />

detenuti – una cinquantina – liberi di<br />

gestire il loro tempo coatto, per non<br />

farne semplicemente un tempo sospeso<br />

tra il prima e il dopo pena.<br />

Il Castello Colonna che ospita il carcere<br />

è un edificio medievale di straordinaria<br />

bellezza. Al centro del cor-<br />

tile passeggi c’è un grande albero del<br />

pepe, la vasca dei pesci rossi in pietra<br />

e aiuole straripanti di fiori. Tutt’intorno<br />

panchine, dove sedersi all’ombra<br />

delle fronde. I detenuti scendono dalle<br />

sezioni attraverso una scala vanvitelliana<br />

di marmo, le pareti dipinte di<br />

un bel color pesca, con rilievi in gesso.<br />

Quelli che vengono da Poggioreale non<br />

credono ai loro occhi: possono «scendere<br />

all’aria» quando vogliono, non a<br />

ore prestabilite.<br />

Ma pur trovandosi in un giardino e<br />

non in una squallida vasca di cemento<br />

armato, replicano andature e gesti<br />

dell’unico carcere che conoscono,<br />

quello che li tiene chiusi venti ore al<br />

giorno, controllati e gestiti. E così,<br />

camminano avanti e indietro, come se<br />

il carcere<br />

che funziona<br />

deve<br />

rivoluzionare<br />

se stesso.<br />

avessero un percorso imposto, le mani<br />

dietro la schiena, in silenzio. Poggioreale<br />

o Eboli, sempre galera è. «Non fate<br />

i carcerati» aveva detto la direttrice,<br />

fin dal primo giorno. Alcuni l’avevano<br />

ascoltata e con il tempo avevano sfruttato<br />

gli spazi di libertà, con grande<br />

rispetto dei luoghi: mai un segno sul<br />

muro, mai un atto di vandalismo, mai<br />

un gesto di disprezzo verso chi li ospitava.<br />

Avevano imparato a muoversi,<br />

non a essere mossi. Altri avevano preferito<br />

continuare a fare i carcerati. «In<br />

questo carcere non voglio più stare»<br />

disse un giorno Antonio. E andò via.<br />

Tempo dopo scrisse: «Cara direttrice,<br />

finalmente sto facendo quel che volevo<br />

fare: il detenuto. In un altro carcere».<br />

(….)<br />

Il carcere che funziona non è quello<br />

che priva della libertà, ma che produce<br />

libertà. E per produrre la definitiva<br />

libertà dei suoi abitanti deve rivoluzionare<br />

se stesso.<br />

Deve trasformarsi in un luogo in cui<br />

non c’è bisogno di esercitare il potere,<br />

già esercitato dal muro di cinta. Deve<br />

diventare un luogo in cui si organizza<br />

un servizio.<br />

Una grande utopia, forse. Ma come dice<br />

un proverbio magrebino: «Nessuna carovana<br />

ha mai raggiunto l’utopia, però<br />

è l’utopia che fa andare le carovane».<br />

carte<strong>Bollate</strong><br />

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