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Meno male<br />
che c’è Cantona<br />
di Luca Manes<br />
L’AUTORE<br />
Luca Manes<br />
vive a Roma, dove lavora<br />
come responsabile della<br />
comunicazione di Crbm<br />
(Campagna per la riforma<br />
della Banca mondiale).<br />
Quando non segue<br />
summit internazionali<br />
come il G20 e altri eventi<br />
in giro per il mondo,<br />
scrive di globalizzazione<br />
e calcio inglese. Per<br />
Bradipo Libri ha scritto<br />
“Manchester United, la<br />
leggenda dei Busby<br />
Babes”, che ha ricevuto<br />
la targa d’onore al<br />
Premio Bancarella Sport<br />
2007, “Made in England”<br />
e “Celtic Forever”,<br />
quest'ultimo insieme<br />
all’amico Max Troiani.<br />
| editoriale |<br />
FINO A POCHISSIMI GIORNI FA pensavo che fosse arrivato il momento di dire basta. Dopo tanti anni<br />
di passione vissuta allo stadio, pensavo che il giocattolo calcio andasse riposto in soffitta, in un baule<br />
da non aprire mai più. Per tanti, troppi attori, il giocattolo calcio - così come il ciclismo o il nuoto -<br />
sono diventati fonte di guadagni e di interessi enormi, francamente spropositati e spesso<br />
non giustificati. Allora, pensavo, meglio rituffarmi nei miei ricordi di bambino, meglio consolare<br />
questo “amore ingrato” nel football meno globalizzato e tv-dipendente, quello della radiolina<br />
e di novantesimo minuto, delle figurine e delle squadre di Subbuteo. Intendiamoci, non ne faccio<br />
(solo) un discorso nostalgico e non dimentico che anche allora i problemi c’erano, eccome se<br />
c’erano. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta allo stadio si poteva morire, alcune partite erano<br />
truccate e, chissà, qualcuno faceva anche uso di sostanze illecite, come scrive l’ex giocatore Carlo<br />
Petrini nel suo libro Nel fango del Dio pallone. Però, tranne rare eccezioni, i club avevano alle spalle<br />
società ancora “a conduzione familiare”. Non c’erano multinazionali, speculatori e fondi sovrani<br />
a imperare. Paradossalmente, giravano meno soldi, ma c’era anche meno pericolo che la propria<br />
squadra del cuore fallisse per qualche azzardo finanziario riuscito male.<br />
Il calcio business o corporate football, come lo definiscono nel Regno Unito, prende un’ulteriore<br />
accezione negativa in Italia, dove chi fa affari alle spalle di una palla che rotola possono essere<br />
anche gli ultrà – che poi non di rado provano a condizionare i club di appartenenza in base alle loro<br />
esigenze – e dove la cultura <strong>sportiva</strong> latita da tempo immemore, vittima di vecchi campanilismi<br />
e odi incrociati che mortificano i gesti tecnici di bella fattura. E allora addio Serie A di calciopoli,<br />
che, come tante cose del Belpaese, ora sembra sia stato un temporale estivo e non un uragano, e della<br />
tessera del tifoso, ennesimo esempio di schedatura di massa con fini commerciali nemmeno troppo<br />
reconditi. Purtroppo il cahier de doléances sull’Italia potrebbe continuare con dozzine di altri buchi<br />
neri, ma se provo a guardare oltre, mi imbatto nella Fifa, che ha organizzato una competizione come<br />
il Mondiale in Sud Africa a uso e consumo degli sponsor e non dell’economia locale, se è vero<br />
che ai beni in entrata e in uscita di tutte le società partner della Fifa, il massimo organo calcistico<br />
internazionale, incluse le tv e i diritti di riproduzione, non è stata applicata nessuna tassa doganale.<br />
Uno scandalo che va citato sotto voce, appena accennato, perché il solito giocattolo non si deve<br />
rompere e tanto una volta fatto un Mondiale, si passa subito a pensare al prossimo, no?<br />
L’ultimo colpo, poi, che mi aveva rigirato il coltello nella piaga di questo amore per il calcio<br />
e per lo sport, che non si spegne, ma che si piega, era stato l’annuncio che gli idoli di milioni<br />
di ragazzini sparsi per il Pianeta, i calciatori, avessero pensato a uno sciopero, come accaduto<br />
a settembre nell’Italia messa in ginocchio dalla crisi, per tutelare alcuni privilegi da bambini viziati.<br />
Tutti loro dovrebbero leggere il bel libro del giornalista della BBC Gary Imlach, My father and other<br />
working class football heroes. Un prezioso volume che spiega come i calciatori, da sempre prodotto<br />
quasi esclusivo della classe operaia, per decenni hanno vissuto in maniera intensa e consapevole<br />
il rapporto che li legava con la comunità, il contesto sociale da cui provenivano.<br />
Proprio come Eric Cantona, l’ex giocatore del Manchester United già protagonista dell’ultimo<br />
film di Ken Loach Il mio amico Eric, che ha messo in porta un altro dei suoi goal spettacolari:<br />
contro la finanza della crisi, fate lo sciopero dei conti correnti! Grazie Cantona. .<br />
| ANNO 10 N.85 | DICEMBRE 2010 / GENNAIO 2011 | valori | 3 |