Monica Grandi - Parrocchia Santi Angeli Custodi - Formica
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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA<br />
FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE<br />
Corso di studio in Educatore di Nido e Comunità infantili<br />
Sapore di Bolivia, Sapere di Culture.<br />
Difficoltà che nascono in campo educativo<br />
attraverso<br />
l’incontro tra Storie diverse.<br />
Prova finale in: STORIA DELLE CULTURE<br />
Relatore: Presentata da<br />
Prof. Dondarini Rolando <strong>Grandi</strong> <strong>Monica</strong><br />
Correlatore:<br />
Prof.ssa Borghi Beatrice<br />
Sessione: TERZA<br />
Anno accademico: 2007/2008
Indice<br />
Premessa............................................................................................... I<br />
Capitolo 1<br />
I mille colori della Società Italiana<br />
1.1 Multicultura ed Intercultura ............................................................ 3<br />
1.2 Sfiorano i 4 milioni gli immigrati regolari in Italia. ....................... 5<br />
1.3 Fattori che producono multiculturalità. .......................................... 7<br />
1.4 Stereotipi e pregiudizi................................................................... 11<br />
1.5 Intercultura nell’educazione italiana ............................................ 16<br />
1.6 Dal punto di vista dell’immigrato................................................. 27<br />
1.7 I pensieri di una famiglia immigrata ............................................ 31<br />
Capitolo 2<br />
Missione ad gentes in Bolivia<br />
2.1 L’incontro con la missione ........................................................... 39<br />
2.2 Corso in preparazione al mandato missionario ............................ 46<br />
2.2.1 La missione della Chiesa ................................................... 46<br />
2.2.2 La spiritualità del missionario .......................................... 51<br />
2.2.3 Bolivia, terra amata: il paese, il popolo che il Signore<br />
ci consegnerà ..................................................................... 53<br />
2.2.3.1 Generalità, superficie, geografia e<br />
popolazione .......................................................... 54<br />
2.2.3.2 Economia ............................................................. 56<br />
ii
2.2.4 La nostra specifica azione missionaria ............................. 60<br />
2.2.5 Massimiliano Kolbe: un compagno di viaggio ................. 62<br />
2.2.6 “E la prese con sé” ............................................................ 67<br />
2.3 Il viaggio in Bolivia ..................................................................... 69<br />
2.3.1 Partenza ............................................................................ 69<br />
2.3.2 Arrivo ................................................................................ 72<br />
2.3.3 Montero ............................................................................ 77<br />
2.3.4 Mercato ............................................................................. 82<br />
2.3.5 Centro missionario ............................................................ 85<br />
2.3.6 Orfanotrofio maschile ....................................................... 87<br />
2.3.7 La Santa Messa a Montero ............................................... 90<br />
2.3.8 Orfanotrofio femminile e Centro di<br />
tossicodipendenza ............................................................. 93<br />
2.3.9 Tierras Nueva, la città dei mattoni .................................... 97<br />
2.3.10 Santa Cruz e Cotoca ....................................................... 101<br />
2.3.11 Triduo a San Massimiliano Kolbe .................................. 103<br />
2.3.12 Carcere ........................................................................... 108<br />
2.3.13 Campo Chanè ................................................................. 110<br />
2.3.14 Cochabamba ................................................................... 116<br />
2.3.15 Riflessione comunitaria e rientro in Italia ...................... 120<br />
Capitolo 3<br />
Quando Storie diverse si incontrano<br />
3.1 Accogliere la persona ................................................................ 126<br />
3.2 Accogliere la Storia della persona ............................................ 130<br />
3.3 Accogliere l’Identità della persona ........................................... 133<br />
iii
Conclusioni ...................................................................................... 141<br />
Bibliografia ...................................................................................... 145<br />
Sitografia .......................................................................................... 147<br />
iv
Al mio caro nonno
Premessa<br />
«Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti.<br />
Essi sono dotati di ragione e di conoscenza<br />
e devono agire gli uni verso gli altri<br />
in spirito di fratellanza.»<br />
ART 1 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo<br />
Riportando questo articolo si permette a chi sfoglierà questa tesi, di<br />
ritagliare un momento di riflessione. Prendersi un istante del proprio<br />
tempo, ponendosi una semplice domanda:<br />
“Quando leggiamo queste parole, quali sono le immagini che ci<br />
corrono davanti agli occhi?” Le figure ritraggono la sofferenza,<br />
l’abbandono, la povertà, l’egoismo, la disuguaglianza, l’indifferenza,<br />
la solitudine e l’ingiustizia con cui si ricoprono le popolazioni<br />
dimenticate e sfruttate. La domanda posta rimanda ad un’altra<br />
questione che può avere dei risvolti più psicologici ed involontari.<br />
Perché la nostra mente ci fa apparire quelle immagini e non altre? La<br />
risposta, non vuole essere a carattere scientifico o matematico, ma<br />
deve interessarci interiormente e personalmente.<br />
L’opinione che può nascere può diventare terreno fertile per aprire<br />
un’infinità di polemiche sui diritti umani.<br />
Io non voglio aprire una discussione, vorrei solo esprimere<br />
un’opinione personale sul perché di queste “presentazioni di immagini<br />
involontarie” e su come le parole “incontro”, “diverso” e “dialogo”<br />
possono coesistere in un unico pensiero.<br />
Penso che poca gente si sia mai soffermata molto a riflettere su un<br />
articolo così importante e che spesso il contenuto di questi articoli sia<br />
dato per scontato. Quando si mettono gli occhi su questo scritto si<br />
pensa che sia essenziale e legittimo ma nella realtà viene applicato? È<br />
realmente così la situazione nel mondo?<br />
i
Io penso che chi crede che questo articolo rispecchi la situazione delle<br />
popolazioni di tutto il mondo sia ipocrita e irrazionale.<br />
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo è stata approvata<br />
nel 1948 dalle Nazioni Unite dopo la fine della seconda guerra<br />
mondiale, per fare in modo che in futuro si evitino orrori come<br />
l’olocausto.<br />
Aver elencato una serie di diritti che tutelino l’uomo è stata una scelta<br />
giusta, ma queste leggi sono realmente applicate solo all’interno dei<br />
paesi più benestanti, perché in quelli più poveri la situazione è di<br />
degrado e se non ci impegniamo seriamente tutti, anche nel nostro<br />
piccolo, per migliorare quello che ci circonda, si peggiorerà<br />
ulteriormente.<br />
È inoltre importante non dimenticare, che anche all’interno delle realtà<br />
che godono di più abbondanza, sono presenti condizioni di miseria e<br />
che quindi chi gode realmente di questi diritti, sono coloro che con il<br />
denaro si creano un mondo perfetto e giusto ai loro occhi.<br />
La vita ci porta ad essere frenetici e sfuggenti, ci dimentichiamo di<br />
fermarci a guardare come le cose che facciamo si evolvono, come il<br />
mondo si trasforma e come anche noi cambiamo. Ci accontentiamo di<br />
guardare cosa succede intorno a noi solo attraverso i mass-media,<br />
senza riuscire a metterci in gioco in prima persona. Ci limitiamo ad<br />
informarci solo leggendo frettolosamente i titoli della prima pagina<br />
dei giornali senza andare nel profondo degli articoli.<br />
La nostra società è arrivata a credere solo nelle cose materiali che<br />
circondano l’uomo e ci siamo lasciati alle spalle una vita di grandi<br />
emozioni nate da piccoli gesti.<br />
La superficialità è definita come: «Mancanza di contenuti, di<br />
approfondimenti, d’interiorità» 3 ; oppure come una «Caratteristica di<br />
chi è superficiale cioè di chi non approfondisce, che non medita, che si<br />
3 Definizione del termine “superficialità” presente nel dizionario G. DEVOTO,<br />
Dizionario della lingua Italiana, Milano 2000.<br />
ii
ferma all’esteriorità delle cose» 4 . Non riuscire a vedere oltre le cose<br />
che ci appaiono e oltre l’esteriorità delle persone, a non giudicare chi<br />
ci sta di fronte semplicemente da come porta i capelli o dalla maglietta<br />
che indossa è diventato un modo dell’agire comune.<br />
La nostra vita si sta circondando di ipocrisia e superficialità. È<br />
veramente quello che vogliamo per il nostro futuro? Quando leggiamo<br />
questo articolo della dichiarazione, ci appaiono quelle immagini<br />
perché sappiamo in cuor nostro che questi diritti non appartengono a<br />
tutti, sappiamo qual è la vera realtà e allora sarebbe il momento di fare<br />
qualcosa. Non servono gesti eclatanti come scioperi o manifestazioni<br />
ma opere di aiuto verso il prossimo. Ci siamo dimenticati delle parole<br />
come carità, rispetto, aiuto reciproco, unità, incontro, ascolto e<br />
dialogo, sincerità e soprattutto amore.<br />
Convivere tutti secondo un agire comune implica appunto, come citato<br />
nell’articolo, operare secondo spirito di fratellanza.<br />
La difficoltà che incontriamo maggiormente oggi è quella legata al<br />
problema della nascita di una società multietnica.<br />
La presenza, da pochi anni così tangibile, anche in Italia di diverse<br />
culture spaventa e preoccupa gli italiani. L’ostacolo che abbiamo<br />
nell’incontro con l’altro è comprensibile non essendo più capaci di<br />
convivere e aiutare chi condivide la nostra stessa cultura. Ci troviamo<br />
spiazzati di fronte a chi non è simile a noi come modo di pensare e<br />
vedere le cose, portandoci ad alimentare il distacco già presente con<br />
stereotipi e pregiudizi nei loro confronti. Negli ultimi anni sono nati<br />
tantissimi progetti, in tutti gli ambiti istituzionali, per permettere agli<br />
stranieri di essere integrati nella nostra società. Sia nelle scuole per far<br />
fronte hai bisogni delle famiglie con dei bambini, sia in campo<br />
lavorativo per permettere una giusta retribuzione e assicurare un<br />
futuro oneroso, sia in campo sanitario per dare assistenza a chi ne ha<br />
bisogno.<br />
4 Definizione del termine “superficialità” presente nel dizionario N. ZINGARELLI,<br />
lo Zingarelli, dizionario della lingua italiana, Bologna 2000.<br />
iii
Tante volte parlando con le persone mi è capitato di ascoltare discorsi<br />
pieni di rabbia e mi è sembrato di capire che quello che spaventa gli<br />
italiani è vedere che spesso le persone che provengono da altri paesi<br />
ricevono molti più privilegi.<br />
L’Italia si dimentica di fare un percorso basato sull’incontro con<br />
l’altro, un’occasione per permettere alle persone di conoscersi e di<br />
confrontarsi. Dare la possibilità alle genti di scambiare un pensiero o<br />
una parola può essere di aiuto ad entrambi le parti e insieme si<br />
potrebbe finalmente parlare di spirito di fratellanza.<br />
L’argomento su cui si basa questa tesi è l’incontro interculturale in<br />
Italia, soprattutto per quanto riguarda le famiglie e i bambini,<br />
protagonisti della nostra società e del nostro futuro.<br />
Superare il terrore creato dall’incontro con l’altro è possibile se<br />
cercato e voluto. Credo in queste affermazioni soprattutto dopo aver<br />
partecipato ad una missione di volontariato in Bolivia che mi ha<br />
aiutato a crescere tanto e a vedere con occhi diversi le realtà che “mi”<br />
e “ci” circondano.<br />
Le testimonianze, che spesso ci lasciano le persone, hanno<br />
un’importanza diversa rispetto ad un elenco di fatti scritti sopra un<br />
libro perché si può assaporare la vitalità delle emozioni che<br />
provengono direttamente da chi sta parlando.<br />
Per questo ho deciso di raccontare la mia avventura, per prenderla in<br />
esame e cercare delle sollecitazioni che possono nascere in campo<br />
educativo, ma anche per lasciare una mia testimonianza a chi leggerà<br />
la mia tesi.<br />
iv
“Immagina non ci sia il Paradiso prova, è facile Nessun inferno sotto<br />
i piedi<br />
Sopra di noi solo il Cielo Immagina che la gente viva al presente...<br />
Immagina non ci siano paesi<br />
non è difficile<br />
Niente per cui uccidere e morire<br />
e nessuna religione<br />
Immagina che tutti<br />
vivano la loro vita in pace..<br />
Puoi dire che sono un sognatore<br />
ma non sono il solo<br />
Spero che ti unirai anche tu un giorno<br />
e che il mondo diventi uno...<br />
Immagina un mondo senza possessi<br />
mi chiedo se ci riesci<br />
senza necessità di avidità o rabbia<br />
La fratellanza tra gli uomini<br />
Immagina tutta le gente<br />
condividere il mondo intero...”<br />
John Lennon
Capitolo 1<br />
I mille colori della Società Italiana<br />
i
I mille colori della Società Italiana<br />
1.1 Multicultura ed Intercultura<br />
Prima di iniziare a parlare della società multiculturale italiana mi<br />
sembra giusto definire con precisione il significato di due termini, che<br />
negli ultimi tempi sono molto in voga, in campo sociale e pedagogico.<br />
Le parole multicultura ed intercultura, nel gergo comune, vengono<br />
usate come sinonimi e si scambiano facilmente come se avessero lo<br />
stesso significato.<br />
Anche in altri paesi, come in Italia, questi due termini creano un po’ di<br />
confusione perché non sono affatto scontati da capire se non vengono<br />
chiariti bene. Nei paesi di origine anglosassone, come ad esempio la<br />
Gran Bretagna, il Canada e gli Stati Uniti, al termine “multicultura”<br />
viene attribuito lo stesso significato che noi in Italia e in altri paesi<br />
europei diamo ad “intercultura”.<br />
In Italia, il termine “multicultura”, sta ad indicare una «situazione di<br />
fatto, in cui le diverse culture coesistono fra loro e non hanno ancora<br />
trovato gli strumenti per il confronto e la relazione 5 ».<br />
Questo termine, rappresenta una situazione in cui ogni cultura e ogni<br />
gruppo etnico cerca, prevalentemente, i punti di riferimento al proprio<br />
interno; le possibilità di interazione fra i diversi soggetti sono scarse o,<br />
comunque, non si sono costituite in un contesto di parità, di<br />
reciprocità e di apertura, ma sono segnate sostanzialmente dalla<br />
diffidenza reciproca e dalla chiusura al cambiamento.<br />
La società attuale si sta trasformando in senso multiculturale sulla<br />
base della spinta dei diversi processi in atto, che più avanti verranno<br />
elencati e spiegati.<br />
Il termine “intercultura” nasce in Francia per trasferirsi in poco tempo<br />
anche in altri paesi europei come l’Italia e la Germania; esso indica<br />
5 A. GENOVESE, Per una pedagogia interculturale, dalla stereotipia dei pregiudizi<br />
all’impegno dell’incontro, Bononia University Press, Bologna 2003, p. 181.<br />
3
una situazione di interazione fra le diverse culture. Spesso questo<br />
termine vuole indicare una prospettiva, un punto di arrivo o un<br />
obiettivo cui è possibile tendere, perché designa una situazione in cui<br />
il rapporto fra le culture e le persone che ne sono portatrici comincia<br />
ad aprirsi alle relazioni reciproche e può prospettarsi una possibilità di<br />
integrazione.<br />
«La cultura di origine, quale essa sia, non diventerà più un elemento<br />
discriminante, ma un legittimo terreno fertile per una crescita<br />
individuale e collettiva, un’attenuante per momenti di incontro e di<br />
confronto democratico.<br />
L’approccio multiculturale, è stato spesso rivendicato dagli stessi<br />
immigrati perché è stato visto come possibile strumento di<br />
affermazione della propria identità culturale e nazionale e altresì come<br />
strumento utile per la conservazione e la trasmissione dei propri<br />
contenuti culturali, valori morali, regole e tradizioni ai rispettivi<br />
figli.» 6 Da questo punto di vista si richiede quindi, di riconoscere le<br />
differenze, di apprezzare la possibilità di mantenere la propria lingua e<br />
la propria cultura, anche attraverso l’istituzione di centri di formazione<br />
separati per le diverse etnie o, quanto meno, con interventi<br />
differenziati per i diversi gruppi etnici. In molti casi però questa<br />
situazione ha portato alla ghettizzazione involontaria delle persone e<br />
alcuni esempi come Chinatown e Little Italy sono facilmente visibili<br />
anche oggi. La condizione della separazione forzata su basi razziali<br />
porta come conseguenza la creazione di “ghetti”, in cui si sviluppa una<br />
povertà crescente accanto a un degrado sociale sia a livello abitativo e<br />
sia a livello scolastico.<br />
L’approccio multiculturale tende a generare un separatismo, una<br />
scissione netta fra le culture che ne sono portatrici, tale da rendere i<br />
diversi gruppi etnici impermeabili al cambiamento e provocando<br />
un’implosione sui propri valori e tradizioni, in maniera che questi<br />
vengono considerati immutabili.<br />
6 Ibid., pp. 181-182<br />
4
La mentalità non aperta al confronto rimane stabile ed immobile, non<br />
cambia e non si rinfresca.<br />
La cultura che si diffonde nel ristretto gruppo di immigrati, entra in<br />
contraddizione con lo sviluppo e con i cambiamenti culturali che nel<br />
frattempo sono avvenuti nel paese di origine, ai quali si è rimasti<br />
estranei esattamente come a quelli che avvengono nella cultura del<br />
paese di accoglienza.<br />
L’approccio interculturale è il passo successivo alla multiculturalità;<br />
in una società che vede al suo interno una gamma sempre più<br />
numerosa di etnie diverse, deve imparare a crescere con loro, a<br />
conoscerle, a convivere nello stesso territorio e a fare in modo che<br />
queste diversità diventino un incentivo per una crescita ulteriore.<br />
1.2 Sfiorano i 4 milioni gli immigrati regolari in Italia.<br />
La stima che è stata calcolata dal XVIII Rapporto Caritas Migrantes<br />
conta dai 400 ai 600 immigrati regolari in più rispetto alle stime<br />
dell’Istat che ne aveva contati 3.433.000 nell’anno 2007 7 .<br />
La differenza tra quanto è stato calcolato dall’Istat rispetto ai numeri<br />
pubblicati dalla Caritas, si spiega con l’aggiunta di tutti coloro che<br />
sono in attesa di una residenza. Gli stranieri, con queste presenze,<br />
incidono del 6.7% della popolazione complessiva. Nel 2000, erano<br />
presenti circa un milione e settecentomila immigrati, comprendendo in<br />
questa cifra tutta l’immigrazione regolare ovvero tutti gli adulti con<br />
permesso di soggiorno e i minori regolarmente presenti nel nostro<br />
paese. Ovviamente a queste cifre vanno aggiunti gli immigrati che<br />
sono entrati in Italia clandestinamente e sono presenti in maniera<br />
irregolare nel nostro paese.<br />
7<br />
Le cifre indicate sono state pubblicate dal quotidiano online Il Sole 24 ore al<br />
seguente indirizzo<br />
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2008/10/immigrati-caritasmigrantes-rapporto.shtml<br />
5
Dall’entrata nel nuovo millennio fino al 2006 gli immigrati sono<br />
raddoppiati e l’Italia è diventata la seconda nazione europea dopo la<br />
Spagna ad avere avuto un aumento così elevato di immigrati in più,<br />
registrati in questi sei anni.<br />
Tra gli immigrati, in Italia i più numerosi sono i rumeni che si<br />
aggirano intorno ai 625 mila aventi la residenza, successivamente gli<br />
albanesi che sono 402 mila circa e i marocchini intorno ai 366 mila;<br />
rimangono invece intorno alle 150 mila unità le comunità cinesi e<br />
ucraine 8 .<br />
I rumeni hanno assunto un importante ruolo in campo lavorativo in<br />
quanto su sei dipendenti assunti uno proviene dalla Romania; un terzo<br />
di loro lavora nell’edilizia, mentre gli altri si dividono tra l’agricoltura<br />
e i servizi statali. Fra il 2006 e il 2007 il numero di rumeni è<br />
raddoppiato, non perché ci sono state nuove ondate di immigrazione,<br />
ma si è trattato semplicemente di emersione dal lavoro nero facilitata<br />
dall’adesione della Romania alla Unione Europea.<br />
Rimanendo in tema occupazionale bisogna ricordare che secondo<br />
l’Istat, in Italia i due terzi dei nuovi assunti è di origine straniera; le<br />
piccole imprese sono protagoniste delle assunzioni nei tre quarti dei<br />
casi e si è registrato un aumento dei tassi d’iscrizione ai sindacati di<br />
lavoratori stranieri.<br />
Oltre la metà degli immigrati è formata dal genere femminile e questa<br />
percentuale si conferma su tutto il territorio nazionale; colf, badanti,<br />
baby sitter, sono questi i mestieri più diffusi per la donna straniera. La<br />
maggior parte di loro lavora in nero oppure ha contratti che prevedono<br />
25 ore settimanali che non vengono rispettate perchè lavorano molto<br />
di più ricevendo la stessa retribuzione.<br />
In Italia, è soprattutto nel Nord-Ovest, dove si calcola la maggioranza<br />
di presenze immigrate soprattutto in Lombardia, segue il Nord-Est che<br />
vede una presenza degli stranieri pari al 26,9%, mentre nel Centro si<br />
registra il 25%.<br />
8 Ibid.<br />
6
Il Mezzogiorno è molto meno popolato da stranieri e si calcola una<br />
presenza pari al 12,5% 9 .<br />
1.3 Fattori che producono multiculturalità.<br />
Il problema della multiculturalità non è una realtà che bisogna<br />
affrontare solo prendendo in considerazione le tematiche legate<br />
all’immigrazione ma guardando anche i cambiamenti che si<br />
sviluppano all’interno della nostra società.<br />
Si possono elencare cinque fattori che ci riguardano da vicino e che<br />
possono essere le cause che ci hanno portato alla situazione odierna.<br />
Il primo fattore, riguarda «la globalizzazione dei mercati, con<br />
l’internazionalizzazone dei rapporti economici, sociali e culturali.» 10<br />
Attraverso l’apertura dei mercati di tutto il mondo la facilità con cui si<br />
spostano enormi quantità di merci, di mezzi di produzione, di capitali<br />
e di persone da un paese all’altro è impressionante e coinvolgente.<br />
La globalizzazione ci permette di toccare con mano quotidianamente<br />
tutte le più lontane culture, formando innumerevoli intrecci etnici e<br />
culturali e rimanendone, a volte, anche inconsapevoli. Un esempio<br />
molto semplice e a tutti tangibile è dato sui banchi di frutta e verdura<br />
presenti nei supermercati, dove si possono trovare prodotti tipici di<br />
altre parti del mondo come il cocco, le banane, i manghi ecc., un altro<br />
esempio è il mercato on line, dove siti come E-Bay permettono di<br />
acquistare prodotti da tutto il mondo rimanendo comodamente a casa<br />
nosta. Diciamo che oggi queste cose non destano più scalpore perché<br />
ormai la globalizzazione ha raggiunto qualsiasi ambiente e categoria<br />
di produzione; dovrebbe essere una situazione su cui riflettere per<br />
capire meglio le realtà che ci circondano nella società di oggi.<br />
Il secondo fattore riguarda «i cambiamenti degli stili di vita e di<br />
consumo che prevalgono nelle società ricche» 11 . Le conseguenze di<br />
9 Ibid.<br />
10 I. BOLOGNESI, A. DI RIENZO Io non sono proprio uno straniero. Dalle parole<br />
dei bambini alla progettualità interculturale, Franco<strong>Angeli</strong>, Milano 2007. pp.16-17.<br />
7
questi mutamenti si riversano in numerosi contesti dove le società<br />
povere cercano di eguagliare e imitare quelle più ricche; basti pensare<br />
all’importanza del telefono cellulare, che è diventato un bene di prima<br />
necessità, presente anche tra le popolazioni più disagiate. Questo, è<br />
solo un semplice esempio che ho potuto toccare con mano anche io<br />
durante la mia esperienza in Bolivia. Forti cambiamenti riguardano<br />
anche il piano ecologico, se pensiamo, per esempio al problema della<br />
desertificazione, le cui cause sono attribuite in larga misura alle<br />
modificazioni climatiche determinate proprio dagli stili di vita dei<br />
paesi ricchi, come l’eccesso di consumo di energia e l’inquinamento<br />
atmosferico.<br />
L’enorme diffusione e crescita dei sistemi di comunicazione ha<br />
portato alla realizzazione di una rete telematica globale; un esempio<br />
che tutti noi conosciamo bene è Internet 12 , una rete di computer<br />
mondiale ad accesso pubblico. Questo reticolo è costituito da alcune<br />
centinaia di milioni di computer collegati tra loro con i più svariati<br />
mezzi trasmissivi.<br />
Internet è anche la più grande rete di computer attualmente esistente e<br />
mai esistita, in ragione di ciò è, infatti, definita "la rete delle reti" o "la<br />
rete globale". 13<br />
Accendendo il televisore oppure navigando in Internet possiamo<br />
ascoltare o leggere notizie che riguardano paesi lontani diventando<br />
anche noi protagonisti di realtà internazionali.<br />
Questo è il terzo fattore che incrementa la multiculturalità; la<br />
comunicazione di massa ci permette di conoscere realtà nuove e<br />
diverse stando comodamente in casa nostra ma vivendole virtualmente<br />
attraverso i computer, le radio e i televisori.<br />
Il quarto fattore riguarda l’andamento demografico dell’intero globo<br />
previsto nei prossimi anni 14 , con forti differenziazioni fra i paesi e fra i<br />
11 A. GENOVESE, Per una pedagogia interculturale, dalla stereotipia dei<br />
pregiudizi all’impegno dell’incontro, Bononia University Press, Bologna 2003, p.7.<br />
12 Ibid. p.8.<br />
13 Vd. http://it.wikipedia.org/wiki/Internet<br />
8
continenti. Si prevede un forte calo delle nascite nei paesi più ricchi e<br />
contemporaneamente un aumento in quelli più poveri, con una forte<br />
concentrazione della popolazione in alcune zone del globo.<br />
«Nel 1950 la popolazione mondiale contava 2,5 miliardi di persone e<br />
nel 2000 ha raggiunto i 6 miliardi, in appena 50 anni, è più che<br />
raddoppiata e continua a crescere di 80 milioni di persone l’anno.<br />
Secondo gli studi nel 2025 supererà gli 8 miliardi di individui e gran<br />
parte dell’aumento demografico ( 98% ) avviene nei paesi in via di<br />
sviluppo. In questa prospettiva la terra cambierà di aspetto e si<br />
accentueranno sempre di più le differenze economiche tra i paesi<br />
ricchi e i paesi abbandonati nella miseria.» 15<br />
La crescita della popolazione dipende dalla fertilità, dalla mortalità<br />
infantile e dall’aspettativa di vita. Per quanto riguarda la fertilità, in<br />
Italia si riscontra un primato mondiale del calo di fertilità, infatti, ci<br />
sono 1,2 figli per donna. Nell'Africa sub sahariana è presente la<br />
fertilità più elevata del mondo; ogni donna ha circa sei o sette figli ma<br />
queste nascite sono accompagnate sia da un elevato tasso di mortalità<br />
infantile che dalle più elevate mortalità delle madri nei parti. In<br />
Angola per esempio ogni 100.000 nascite si verificano 1500 decessi.<br />
Nella Corea del sud e nella Malaysia, paesi non del tutto<br />
industrializzati, è presente una mortalità bassa, prossima a quello del<br />
mondo industrializzato.<br />
Al quarto fattore dedicato all’andamento demografico, si può<br />
agganciare la realtà espressa dal quinto indice di multiculturalità,<br />
ovvero, la situazione per quanto riguarda la distribuzione della<br />
ricchezza nel mondo. «I Paesi a Sviluppo Avanzato (PSA)<br />
racchiudono il 14,1% della popolazione mondiale e detengono e<br />
consumano l’80% delle ricchezze prodotte, mentre il restante 85,9%<br />
14<br />
A. GENOVESE, Per una pedagogia interculturale, dalla stereotipia dei<br />
pregiudizi all’impegno dell’incontro, Bononia University Press, Bologna 2003, p.8.<br />
15<br />
Le cifre indicate sono state pubblicate dal quotidiano online Il Sole 24 ore al<br />
seguente indirizzo<br />
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2008/10/immigrati-caritasmigrantes-rapporto.shtml<br />
9
della popolazione presente nei Paesi in via di Sviluppo (PVS) deve<br />
vivere con il residuo 20% della ricchezza mondiale.» 16 I seguenti dati<br />
numerici parlano da soli e si può capire cosa spinge tanta gente a<br />
lasciare il proprio paese e a volte anche la famiglia per cercare di<br />
raggiungere un’esistenza più dignitosa.<br />
L’ultimo, ovvero il sesto fattore riguarda i processi di integrazione<br />
economica e politica fra i diversi stati, in particolare la costruzione<br />
dell’Europa Unita; organizzazione di tipo sopranazionale ed<br />
intergovernativa che dal 1° gennaio 2007 racchiude 27 stati<br />
indipendenti e democratici.<br />
L'Unione consiste attualmente in una zona di libero mercato<br />
caratterizzata da una moneta unica, l'euro, regolamentata dalla Banca<br />
centrale europea e attualmente adottata da 15 dei 27 stati membri; essa<br />
presenta inoltre un’unione doganale fra i paesi aderenti agli accordi di<br />
Schengen, che garantiscono ai suoi cittadini libertà di movimento,<br />
lavoro e investimento all'interno degli stati membri.<br />
Diventando cittadini europei siamo chiamati involontariamente a<br />
confrontarci continuamente e su piani diversi con le differenze<br />
culturali interne al contesto europeo.<br />
Tra tutte le cause che hanno alimentato la multiculturalità nei paesi di<br />
tutto il mondo, ma nel nostro caso in Italia, ci siamo dimenticati di<br />
citare la più importante ovvero la ricerca di lavoro e guadagno. Questa<br />
causa spinge tantissime persone a migrare da un posto all’altro, per<br />
trovare un impiego che possa dare certezze nel mantenimento della<br />
famiglia o della singola persona. Questa realtà riguarda gli stranieri<br />
ma anche gli stessi italiani pendolari, che si spostano in altre città<br />
della stessa nazione per adempiere ad un impiego lavorativo. Le due<br />
situazioni di immigrazione rappresentano i due estremi<br />
dell’immigrazione; quella dedicata agli stranieri che hanno deciso di<br />
16 A. GENOVESE, Per una pedagogia interculturale, dalla stereotipia dei<br />
pregiudizi all’impegno dell’incontro, Bononia University Press, Bologna 2003, p.8.<br />
10
cambiare completamente residenza e quella rivolta ai cittadini italiani<br />
che si spostano per lavoro anche solo di una decina di chilometri.<br />
Nella storia, anche gli stessi italiani sono emigrati in altri paesi proprio<br />
per avere un riscatto economico, rispettivamente durante, così fu<br />
chiamata, «la grande emigrazione tra la fine del XIX secolo e i primi<br />
trent’anni del XX secolo in America e successivamente<br />
nell’emigrazione europea intorno alla metà del XX secolo verso<br />
l’Europa del Nord.» 17<br />
I fattori, che qui ho elencato, incrementano lo sviluppo dei processi<br />
multiculturali del nostro paese e ampliano la prospettiva delle<br />
possibilità educative in senso interculturale. Bisogna tener conto<br />
anche dei rischi che si possono incontrare quando si confrontano gli<br />
stili di vita di ogni persona per questo è importante sollecitare delle<br />
analisi pedagogiche approfondite e delicate sul piano interculturale.<br />
1.4 Stereotipi e pregiudizi<br />
Dopo aver elencato i fattori che creano multiculturalità, bisogna ora<br />
entrare nel merito delle idee e dei giudizi che nelle persone nascono<br />
quando si trovano a contatto con chi abbraccia una cultura diversa<br />
dalla nostra. Ci siamo mai preoccupati di voler conoscere veramente<br />
una determinata cultura? Ci siamo sempre soffermati a racconti e<br />
supposizioni? Ci creiamo un’idea sul “sentito dire”?<br />
Si pensa che nelle società moderne, dove è prevalente la razionalità<br />
tecnologica e l’accettazione dei valori dell’uguaglianza, della<br />
tolleranza e della convivenza democratica, i pregiudizi e gli stereotipi<br />
siano destinati a perdere progressivamente di importanza, in quanto<br />
retaggio di un passato meno civile, simboli di sopraffazioni sociali e<br />
del prevalere delle passioni sulla ragione.<br />
Ma se ci guardiamo intorno capiamo che non è così e che i pregiudizi<br />
e gli stereotipi non sono mai stati così vivi soprattutto adesso, a<br />
17 Vd. http://it.wikipedia.org/wiki/emigrazione_ italiana<br />
11
seguito dei recenti fenomeni migratori dal Terzo mondo verso i paesi<br />
con più possibilità di lavoro.<br />
Oggi gli stereotipi e i pregiudizi, usati da tutti quotidianamente, sono<br />
più impliciti e non visibili come tempi addietro perché abbiamo<br />
imparato a farli convivere con i nuovi valori democratici.<br />
Spesso le due parole stereotipo e pregiudizio vengono confuse, come<br />
le due parole multicultura ed intercultura, pur avendo due significati<br />
differenti.<br />
La parola pregiudizio, dal punto di vista etimologico indica un<br />
«giudizio nato precedentemente all’esperienza cioè un giudizio<br />
emesso in assenza di dati sufficienti» 18 .<br />
La mancanza di valutazione empirica del pregiudizio porta sempre<br />
alla creazione di un giudizio errato e a volte anche non veritiero della<br />
realtà oggettiva.<br />
L’idea che il pregiudizio costituisce non solo un giudizio preventivo<br />
all’esperienza, ma anche un giudizio errato, è tanto antica da potersi<br />
considerare parte stessa della definizione del termine.<br />
Gli “errori tipici”, sono anche legati ai nostri bisogni, infatti, abbiamo<br />
la tendenza a scegliere, tra le informazioni che nascono dalle nostre<br />
esperienze, quelli che combaciano con le nostre idee e opinioni e a<br />
tralasciare quelle che invece si oppongono, arrivando a far prevalere le<br />
necessità.<br />
L’ambito sentimentale personale, le singole esperienze e storie ci<br />
condizionano nelle scelte e spesso ci facciamo trasportare da ricordi,<br />
speranze e timori quando diamo delle valutazioni alle persone.<br />
Questi errori, che sono normali dell’uomo, sono definiti errori<br />
cognitivi e aiutano a spiegare come nasce, come si crea e perché<br />
persistono determinati pregiudizi.<br />
18 B. M. MAZZARA Stereotipi e pregiudizi. Accettare luoghi comuni, conoscenze<br />
non verificate, giudizi preconfezionati: un’economia della mente che diventa<br />
un’avarizia del cuore. Bologna 1997, p. 10.<br />
12
L’idea errata che ci facciamo di una determinata persona o di un intero<br />
gruppo etnico non aiuta l’integrazione, ma ostacola la vera conoscenza<br />
dell’altro.<br />
Il pregiudizio, infatti, non si ferma davanti a fatti o a eventi, ma si<br />
focalizza su specifici gruppi sociali tendendo a penalizzare chi diventa<br />
l’oggetto del giudizio stesso.<br />
Spesso è proprio a causa del pregiudizio che nascono degli scontri<br />
sociali raggiungendo, a volte, anche le dimensioni tragiche che<br />
conosciamo.<br />
Mentre il pregiudizio nasce precedentemente le scienze sociali, lo<br />
stereotipo al contrario, si sviluppa successivamente. Il primo studioso<br />
che ha affrontato questo tema è un giornalista, Walter Lippmann che<br />
nel 1922 pubblicò un volume molto interessante sui processi di<br />
formazione dell’opinione pubblica. Egli sostiene che «Il rapporto<br />
conoscitivo con la realtà esterna non è diretto, bensì mediato dalle<br />
immagini mentali che di quella realtà ciascuno si forma, in ciò<br />
fortemente condizionato appunto dalla stampa, che andava allora<br />
assumendo i connotati moderni della comunicazione di massa. Tali<br />
immagini mentali, che costituiscono una sorta di pseudo-ambiente con<br />
il quale di fatto si interagisce, hanno la caratteristica di essere delle<br />
semplificazioni spesso grossolane e quasi sempre molto rigide, per la<br />
semplice ragione che la mente umana non è in grado di comprendere e<br />
trattare l’infinita varietà di sfumature e l’estrema complessità con le<br />
quali il mondo si presenta.» 19<br />
Il termine stereotipo trae le sue origini dall’ambiente tipografico in<br />
quanto indica la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di<br />
forme fisse (stereòs = rigido e tùpos = impronta) 20 oggi, nell'uso<br />
moderno, indica una visione semplificata e largamente condivisa su un<br />
luogo, un oggetto, un avvenimento o un gruppo riconoscibile di<br />
persone accomunate da certe caratteristiche o qualità.<br />
19 Ibid. p. 15<br />
20 Ibid.<br />
13
Lo stereotipo può avere tre variabili che vanno tenute ben presenti,<br />
quando si cerca di spiegare questo termine: la prima è il grado di<br />
condivisione sociale ovvero quanto un’idea su una determinata<br />
collettività è condivisa da più persone o gruppi sociali.<br />
In questo ambito ci sono due teorie che sono tutt’ora motivo di studio<br />
e ricerca; la prima considera lo stereotipo e il pregiudizio come<br />
tendenza tipica dei singoli individui legata ad un’elaborazione<br />
personale secondo le proprie esperienze e valori. La seconda ritiene<br />
che si possa parlare di stereotipo e pregiudizio solo ad un certo livello<br />
sociale e che la visione del singolo sia un modo per verificare la<br />
mentalità della collettività.<br />
La seconda variabile è legata al livello di generalizzazione, vale a dire<br />
il fatto di ritenere che le caratteristiche negative attribuite ad un<br />
gruppo o ad un oggetto siano omogeneamente distribuite in quel<br />
gruppo.<br />
L’ultima variabile riscontrata da B.M.Mazzara riguarda la minore o<br />
maggior rigidità dello stereotipo, in quanto si possono mettere a<br />
confronto stereotipi che sono ancorati più saldamente rispetto ad altri<br />
all’interno della stessa cultura. Sono presenti, infatti, degli stereotipi<br />
che se vengono presi in esame e si ha la costanza di metterli alla<br />
prova, in alcuni casi, vengono smascherati ed eliminati dal pensare<br />
comune, altri invece che se sono impiantati nella cultura o nella<br />
personalità difficilmente si possono sorvolare o addirittura estinguere.<br />
Dopo aver spiegato il significato dei termini pregiudizio e stereotipo<br />
possiamo tornare a parlare più nello specifico del problema<br />
dell’immigrazione e capire perchè stiamo riempiendo gli stranieri di<br />
giudizi affrettati.<br />
La situazione della nostra società, come è stata prima presentata, è a<br />
noi tutti ben evidente e tangibile ma sopravvalutata sia in termini<br />
quantitativi sia facendo riferimento alle difficoltà che porta in campo<br />
sociale. La reazione a questa situazione è esagerata e tutto questo<br />
14
allarmismo che ci circonda porta ad un’autodifesa dal diverso,<br />
giustificandoci da reazioni di discriminazione ed intolleranza.<br />
A livello della formazione dell’opinione collettiva, sull’argomento si<br />
possono riconoscere in azione i più classici dei meccanismi di<br />
distorsione della percezione, ovviamente a sfavore degli immigrati.<br />
Un esempio può essere, la tendenza ad attribuire la condizione di<br />
degrado in cui di solito gli immigrati vivono, non alle difficoltà<br />
materiali in cui si trovano, ma a loro caratteristiche e scelte personali.<br />
Il modo di pensare delle persone sta camminando sempre più nella<br />
direzione che porta alla segregazione e alla reciproca impermeabilità<br />
delle culture.<br />
Responsabile di questo allontanamento è anche lo spirito nazionalista<br />
presente in molte culture occidentali. L’idea è che i diversi gruppi<br />
nazionali sono caratterizzati da una sufficiente omogeneità dal punto<br />
di vista della sensibilità, delle abitudini, delle disposizioni<br />
comportamentali, degli orientamenti valutativi, tanto da poter parlare<br />
di uno specifico carattere tipico di quella nazione.<br />
Questa visione vede, all’interno della nazione, una sola matrice<br />
culturale ma addirittura una diffusione di determinati tratti psicologici,<br />
se estremizzata.<br />
Il cuore di questa questione sta nel concetto di probabilità 21 : possiamo<br />
dire, infatti, che esiste una certa maggiore probabilità che un individuo<br />
appartenente a un gruppo possieda tratti che sono tipici del suo<br />
gruppo; così come possiamo aspettarci che tale configurazione tipica<br />
rimanga abbastanza stabile nel tempo, ma non è giusto ritenere che<br />
quei tratti si trasferiscano automaticamente a tutti gli individui del<br />
gruppo.<br />
21 Ibid. p. 37<br />
15
1.5 Intercultura nell’educazione italiana<br />
La nuova società multiculturale che si sta delineando ci porta a dover<br />
prendere provvedimenti in tutti i campi sociali. La realtà che ha<br />
bisogno di maggiori attenzioni è quella scolastica, che ha visto<br />
triplicare nel giro di dieci anni il numero di ragazzi stranieri presenti<br />
nelle aule e nelle strutture. «Partendo da circa settantamila studenti<br />
stranieri registrati nell’anno scolastico 1997/98, si è arrivati a contare<br />
501.494 unità presenti oggi nelle nostre scuole.<br />
Come dimostrano i numeri la presenza di ragazzi e bambini stranieri è<br />
in forte aumento e secondo le statistiche nel 2011 si arriverà a toccare<br />
il milione.» 22<br />
Questa forte crescita numerica è causata da diversi fattori; il primo, il<br />
più banale e il più tangibile è legato all’aumento demografico, in<br />
quanto gli stranieri hanno un nucleo famigliare più amplio rispetto agli<br />
italiani. Il secondo fattore è legato alla ricongiunzione famigliare; anni<br />
fa sono immigrati specialmente uomini soli senza famiglia per cercare<br />
un lavoro e un guadagno, con gli anni sono riusciti a portare qui anche<br />
la moglie ed i figli. Il terzo fattore riguarda la crescita di adozioni di<br />
bambini stranieri da parte di coppie italiane. L’aumento di bambini e<br />
ragazzi immigrati minorenni è legato anche al fenomeno<br />
“dell’avanscoperta”; in questo caso i bambini arrivano in Italia e non<br />
vanno a scuola, ma si inseriscono nel mondo del lavoro trovando<br />
sfruttamento e contratti in nero oppure diventando prede ingenue per<br />
la delinquenza. Questa scelta il più delle volte viene presa dalle<br />
famiglie che decidono di mandare, appunto in avanscoperta il figlio<br />
per testare il terreno prima di trasferirsi con tutta la famiglia. Prima<br />
però che il completo trasferimento avvenga possono passare anche<br />
degli anni e quindi troviamo minori immigrati inseriti in campo<br />
lavorativo con il mancato raggiungimento degli obblighi scolastici.<br />
22 Vd. http://www.magdiallam.it/node/5648<br />
16
A livello nazionale le presenze straniere rappresentano il 5,7% degli<br />
iscritti, ma la distribuzione sul territorio è tutt'altro che omogenea: la<br />
quasi totalità degli alunni stranieri (il 90%) si concentra nelle scuole<br />
del Centro-Nord, in particolare nelle grandi città come Milano e<br />
Torino con un alto tasso di concentrazione, dal momento che in 888<br />
strutture scolastiche la percentuale di studenti non italiani supera il<br />
20%, e in 89 addirittura il 40%. 23<br />
Questi dati, ci permettono di capire che le regioni del meridione<br />
costituiscono un luogo di insediamento provvisorio, di transito, mentre<br />
l’Italia centrale e settentrionale sono prescelte per la stabilizzazione; si<br />
può avanzare l’ipotesi che questo sia dovuto al potere di attrazione,<br />
che alcune aree esercitano sui flussi migratori in relazione alle<br />
possibilità di insediamento socioeconomico.<br />
La nazionalità dei giovani studenti rispecchia abbastanza fedelmente<br />
quella della popolazione in generale, evidenziando i paesi<br />
tradizionalmente protagonisti di emigrazioni verso il nostro paese.<br />
Quasi il 30% degli alunni stranieri proviene, infatti, da Romania e<br />
Albania, seguite da Marocco (13%) e Cina (5%).<br />
Dai dati emerge una crescita significativa di studenti stranieri nella<br />
scuola secondaria superiore: più di 80.000 nell'anno scolastico 2005-<br />
2006, quasi l'80% iscritti negli istituti tecnici e professionali. Per<br />
quanto riguarda gli altri livelli di scolarizzazione troviamo il 5,7% di<br />
presenze all’interno delle scuole dell’infanzia, il 6,8% all’interno della<br />
scuola primaria, il 6,5% nella scuola secondaria di I grado e il 3,8%<br />
scuola secondaria di II grado. 24<br />
Per quanto riguarda gli asili nido la percentuale è ancora molto bassa<br />
in quanto anche per noi italiani il nido d’Infanzia è una realtà<br />
innovativa perché preferiamo ancora accudire i nostri bambini in<br />
famiglia. Lo stesso discorso vale inoltre per le altre culture perché<br />
23 Vd. http://www.clandestinoweb.com/number-news/scuola-sono-pi-di-500-mila-<br />
gli-studenti-stranieri-in-i.html<br />
24 Ibid.<br />
17
anche nelle famiglie straniere si preferisce lasciare a casa la moglie<br />
per l’assistenza ai figli piuttosto che mandarli all’asilo.<br />
Un secondo problema, che determina questa scarsa presenza, è legato<br />
anche al costo che hanno questi servizi, elevati e faticosi da<br />
mantenere. Queste difficoltà gravano sul prezzo che viene chiesto alle<br />
famiglie salendo oltre i 400,00 euro mensili; di conseguenza è più<br />
facile incontrare presenze più numerose nella scuola dell’infanzia e<br />
ovviamente nella scuola dell’obbligo.<br />
Il cambiamento per la scuola italiana e' stato rapidissimo: si e' passati,<br />
infatti, dai 50.000 alunni stranieri dell'anno 1995-96 ai 430.000 del<br />
2005-2006. Tuttavia, le percentuali sono nettamente inferiori a quelle<br />
di altri Paesi europei di consolidata immigrazione e inferiori anche a<br />
Paesi di recente immigrazione come la Spagna. I dati dicono che la<br />
Svizzera con 23,6% è la nazione europea con il maggior numero di<br />
studenti immigrati seguita dalla Germania con 10%, i Paesi Bassi con<br />
il 13%,l’Inghilterra con il 15%, la Spagna con il 5,7%, il Portogallo<br />
con il 5,5% ed infine la Francia, che è simile a noi, con il 5%. 25<br />
L’Italia a differenza degli altri paesi europei presenta maggiori aspetti<br />
di complessità causati dall’ingresso massiccio di cittadini stranieri in<br />
tempi relativamente brevi. Altri paesi come la Francia e la Gran<br />
Bretagna, hanno accolto prima dell’Italia la popolazione immigrante,<br />
che provenendo in gran parte dalle ex colonie si trovava ad aver già<br />
assimilato la cultura e la lingua del paese d’accoglienza. Per gli<br />
immigrati che si trovano nel nostro paese, il processo di inculturazione<br />
risulta più complesso, in quanto abbiamo un’amplia diversificazione<br />
per etnie e lingue d’origine.<br />
La popolazione immigrata presente in Italia, risulta estremamente<br />
varia per nazionalità, per lingua e cultura d’appartenenza.<br />
La realtà migratoria si rispecchia soprattutto all’interno della scuola,<br />
che accoglie numerosi bambini e adolescenti stranieri di prima e<br />
25 Ibid.<br />
18
seconda generazione, e sono numerosi anche i neoimmagrati che<br />
spesso vengono inseriti ad anno già iniziato.<br />
È sempre più frequente, tra i banchi di scuola, trovare la “diversità”<br />
perché si confrontano ed entrano significativamente in gioco nel<br />
processo di apprendimento e nelle dinamiche relazionali, differenti<br />
culture.<br />
Per sopperire alle problematiche relative alla natura multietnica e<br />
multiculturale dell’utenza, le varie strutture educative hanno assunto<br />
diversi atteggiamenti e soluzioni organizzative didattiche. Le modalità<br />
di risposta al cambiamento, sono state numerose e varie considerando<br />
i contesti, i numeri variabili degli alunni stranieri presenti nelle scuole<br />
e rispetto al grado di sensibilità del problema. I differenti presupposti,<br />
che sono stati alla base dei diversi progetti o percorsi hanno dato<br />
risultati diversi per quanto riguarda il cambiamento a livello<br />
interculturale della scuola italiana.<br />
Queste diverse situazioni di intervento, rappresentano<br />
involontariamente la mentalità italiana; ci sono persone che si<br />
impegnano verso l’integrazione, altre a cui il problema rimane<br />
indifferente e altre invece che non vedono e sentono alcun bisogno di<br />
scambio interculturale. I diversi modi di agire sono caratterizzati<br />
soprattutto dalle presenze, in una determinata zona, di immigrati; chi<br />
non vive in prima persona la realtà multiculturale non pensa a nessun<br />
tipo di provvedimento perché non vede il problema.<br />
Negli ultimi anni, dopo un ulteriore incremento degli immigrati, dopo<br />
che ormai gli stranieri sono presenti anche nei paesi periferici e non<br />
solo nelle grandi città, quasi tutti i servizi si stanno muovendo per far<br />
fronte al problema dell’integrazione. In campo educativo, anche se<br />
non sono stati definiti bene gli ordinamenti e le disposizioni<br />
normative, sono nate due nuove figure professionali. La figura del<br />
19
mediatore culturale e quella dell’insegnante L2. 26 Prendiamoli<br />
singolarmente e spieghiamone il significato.<br />
Il mediatore culturale è una persona, frequentemente reclutata tra la<br />
popolazione straniera che si colloca tra i contesti in cui si riscontrano<br />
oggettive difficoltà comunicative, con il compito di risolvere le<br />
incomprensioni tra individui diversi per cultura e lingua.<br />
Questa figura professionale nasce da un’esigenza sociale urgente e<br />
non seguendo interventi programmati per l’integrazione.<br />
La mediazione culturale è generalmente richiesta nelle situazioni non<br />
conflittuali ovvero dove si rilevano oggettivamente delle difficoltà di<br />
comunicazione per problemi di lingua e diversità culturale; il<br />
mediatore segue situazioni conflittuali determinate dall’opposizione di<br />
regole, di comportamenti e valori riconducibili alle diversità culturali.<br />
I mediatori linguistici iniziano ad essere presenti nel nostro paese<br />
dopo il 1998, chiamati inizialmente in diversi modi: “facilitatori<br />
dell’apprendimento” e “operatori della didattica interculturale”,<br />
generalmente provengono da altre strutture presenti nel territorio e<br />
sono impiegate all’interno della scuola come supporto all’inserimento<br />
di alunni stranieri.<br />
Quando un bambino o ragazzo straniero arriva in una scuola italiana il<br />
problema maggiore che incontra è indubbiamente quello legato alla<br />
lingua. È proprio per sopperire a questo problema che nasce la figura<br />
dell’insegnante L2. La lingua italiana (L2), la seconda lingua parlata<br />
nel paese di accoglienza che il ragazzo dovrà utilizzare negli scambi<br />
sociali e al di fuori delle mura domestiche visto che all’interno della<br />
famiglia continuerà a parlare la lingua nativa. Il docente L2, avrà<br />
come compito quello di far apprendere ai ragazzi e bambini la seconda<br />
lingua, ovvero l’italiano, attraverso un corso intensivo svolto<br />
parallelamente alle attività curricolari. Solitamente vengono seguiti<br />
singolarmente o a piccoli gruppi per alcune ore nell’arco della<br />
settimana.<br />
26 P. D’IGNAZI, Educazione e comunicazione interculturale, Carocci, Roma 2005,<br />
p. 19<br />
20
Il metodo che viene utilizzato dagli insegnati L2 è di tipo diretto,<br />
ovvero l’apprendimento avviene attraverso la lingua vissuta attraverso<br />
l’esperienza e la pratica.<br />
La presenza all’interno delle scuole di un insegnante L2 aiuta<br />
estremamente il rapporto scuola-famiglia, serve per inserire l’alunno<br />
nel nuovo ambiente rispondendo alle sue esigenze e aiutando anche la<br />
famiglia in un momento così delicato ed estraneo.<br />
Il mediatore interculturale e l’insegnate specializzato<br />
nell’insegnamento della seconda lingua agli stranieri sono solo due dei<br />
tanti strumenti che è possibile individuare all’interno delle scuole per<br />
sviluppare relazioni interculturali non distorte ma efficaci.<br />
Questi strumenti devono essere rivolti a tutti, non solo agli stranieri<br />
ma anche agli autoctoni.<br />
Il decentramento culturale 27 potrebbe essere un ottimo inizio; mettere<br />
da parte il proprio egocentrismo e riflettere anche sui punti di vista e<br />
sulle posizioni altrui prima di emettere giudizi. La capacità di mettersi<br />
al posto degli altri per capire le differenti realtà. Per riuscire a fare<br />
questo è necessario arrivare ad ottenere un buon dialogo tra le<br />
persone, paritario e reciproco. «Le conclusioni del dialogo devo essere<br />
parziali e devono essere ripensate e rimesse in discussione, devono<br />
avere un orizzonte sempre in movimento.» 28<br />
Questa riflessione continua, rappresenta uno sforzo non indifferente<br />
per la ragione umana che è consapevole dei propri limiti ermeneutici e<br />
relazionali, bisogna lasciarsi alle spalle le velleità del proselitismo e<br />
della conversione (altrui), per arrivare ad ottenere l’ottica della<br />
sperimentazione e della ricerca.<br />
Le parole precarietà, dubbio, incertezza, ricerca, impegno e<br />
disponibilità diventano gli elementi che accompagnano il cammino<br />
verso la reciprocità.<br />
27 I. BOLOGNESI, A. DI RIENZO Io non sono proprio uno straniero. Dalle parole<br />
dei bambini alla progettualità interculturale, Franco<strong>Angeli</strong>, Milano 2007. p.21.<br />
28 A. GENOVESE, Per una pedagogia interculturale, dalla stereotipia dei<br />
pregiudizi all’impegno dell’incontro, Bononia University Press, Bologna 2003,<br />
p.191.<br />
21
Il dialogo presuppone l’ascolto, cioè «la capacità di capire i problemi<br />
dell’altro attraverso quello che ci dice e attraverso i suoi bisogni.<br />
L’ascolto richiede una buona dose di umiltà per indossare i panni<br />
dell’altro e vivere l’esperienza da un altro punto di vista.» 29 Sapere<br />
ascoltare chi ci sta parlando impedisce che il dialogo scivoli in un<br />
“parlare degli altri” o in un “parlare agli altri”; esso implica la parità,<br />
la libertà e l’interdipendenza di tutte le fonti che intervengono<br />
all’interno della comunicazione.<br />
Nel dialogo, ascoltare vuole dire saper accettare i consigli che<br />
riceviamo dall’altro essendo entrambi interlocutori e detentori della<br />
parola.<br />
Associato allo strumento del dialogo e quindi dello scambio<br />
comunicativo tra due identità originali e diverse troviamo appunto il<br />
terzo strumento; la costruzione di percorsi che mettono in rilievo la<br />
pluralità delle identità. Nella società moderna, il tema delle<br />
differenze si muove nel segno del pluralismo, ovvero, verso il<br />
riconoscimento e l’accettazione di atteggiamenti, comportamenti e<br />
pensieri che possono fuoriuscire dagli ambiti precostituiti o<br />
comunemente accettati, a condizione, però, che non vengano incrinate<br />
le regole di fondo che devono riguardare il contenimento e il controllo<br />
dell’aggressività e della violenza. 30<br />
Il pluralismo rappresenta la mentalità con la quale dobbiamo imparare<br />
a convivere perché la vecchia società basata sull’unidirezione, sul<br />
monolitismo culturale sta morendo per dar spazio ad una visione più<br />
aperta e varia, si tolgono gli “orizzonti predefiniti” e si istaura la<br />
ricerca al nuovo, al piacere di incontrare stili e modi di vita diversi<br />
senza aver paura del confronto.<br />
Il pluralismo è rintracciabile anche al livello della soggettività e<br />
riguarda soprattutto il percorso di formazione; in relazione al piano<br />
individuale, è il moderno Io-Multiplo che si fa avanti, cioè la<br />
29 Ibid. p. 192<br />
30 I. BOLOGNESI, A. DI RIENZO Io non sono proprio uno straniero. Dalle parole<br />
dei bambini alla progettualità interculturale, Franco<strong>Angeli</strong>, Milano 2007. p.21.<br />
22
ealizzazione di un modello formativo che ha dentro di se il senso<br />
dell’incompiutezza, del processo continuo, dell’apertura a una<br />
pluralità di soluzioni che l’io stesso rappresenta e coglie.<br />
Pluralismo e differenza costituiscono la base su cui è possibile<br />
costruire l’incontro e il confronto con l’altro che, se autentici nel senso<br />
di veri e non superficiali, scaturiscono nel dialogo che è l’insieme tra<br />
la capacità di ascolto e l’interazione. 31<br />
Dopo aver parlato di pluralismo, differenza e dialogo tocchiamo un<br />
altro punto importante che rispecchia un ulteriore strumento di<br />
sviluppo utile per le relazioni interculturali.<br />
All’interno delle scuole, delle sezioni, delle classi, tra i ragazzi, gli<br />
insegnanti e i genitori, si dovrebbe cercare di creare un clima non<br />
violento, basato sulla tolleranza. Ognuno ha un modo di pensare e di<br />
agire legato ai propri valori, alle proprie esperienze e alla propria<br />
cultura, in ambiti come la scuola dove tutte queste persone diverse<br />
devono convivere bisogna cercare di creare uno spirito propositivo e<br />
positivo all’interno del gruppo di lavoro. Se tra le persone si respira<br />
arie di serenità si lavora sicuramente meglio e con più tranquillità<br />
perché bisogna ricordarsi che gli apprendimenti hanno bisogno di un<br />
substrato di affettività e relazione stabile. Prendendo la parola<br />
tolleranza alla base del suo significato si pensa ad una situazione di<br />
convivenza stabilita sulla separazione e sul contenimento<br />
dell’aggressività; ma questo non è sufficiente, perché può portare a<br />
ghettizzare la propria identità evitando delle possibili influenze<br />
dall’esterno.<br />
La tolleranza deve essere un punto di partenza, deve diventare un<br />
modo dell’agire comune, una convinzione di base per la creazione di<br />
un contesto che permette un reale travaso di idee e comportamenti da<br />
una situazione all’altra.<br />
L’altro, il diverso, il nemico, lo straniero, l’immigrato, possiede una<br />
pienezza di diritti che bisogna rispettare sempre; la tolleranza, per<br />
31 Ibid.<br />
23
questi motivi, non deve essere un concetto negativo, legato ad un<br />
modo per risolvere una situazione usando il male minore<br />
dell’indifferenza per scampare al conflitto, ma deve diventare una<br />
comprensione dell’altro, in modo che la persona che ci sta parlando, e<br />
con cui ci stiamo confrontando non diventi qualcuno da “sopportare”,<br />
ma un soggetto portatore di altri valori con cui interagire.<br />
Prima di parlare di tolleranza nei confronti dell’altro è bene capire chi<br />
siamo noi, quali sono le cose in cui crediamo veramente, in altre<br />
parole, definire la nostra identità. Nella società tradizionale l’identità<br />
della persona era definita al momento della nascita, per cui a seconda<br />
della famiglia di appartenenza venivi attribuito ad una certa classe<br />
sociale che poteva difficilmente cambiare nell’arco della tua vita.<br />
Per riconoscere queste realtà non serve andare molto indietro nel<br />
tempo, basta solo pensare alla vita dei nostri nonni e ci accorgiamo<br />
che la situazione era veramente così. Con l’arrivo della società<br />
moderna, caratterizzata in modo particolare dal fenomeno della<br />
globalizzazione è cambiato anche questo modo di pensare, si è<br />
riscoperto il termine identità. La parola identità viene definito come<br />
«l’insieme delle caratteristiche che rendono qualcuno quello che è,<br />
distinguendolo da qualunque altro». 32 «La tutela della propria identità<br />
è garantita a tutti, e proprio il campo educativo ne è promotore perché<br />
secondo la Convenzione dei diritti dei bambini a tutti deve essere<br />
favorita la promozione della propria personalità seguendo ciò che<br />
viene definito dai diritti dell’uomo e dalle libertà fondamentali.” 33<br />
La costruzione della propria identità rinvia necessariamente al<br />
rapporto con gli altri, alla rete di relazioni che accompagnano la nostra<br />
32 Definizione del termine “identità” presente nel dizionario N. ZINGARELLI, lo<br />
Zingarelli, dizionario della lingua italiana, Bologna 2000.<br />
33 I. BOLOGNESI, A. DI RIENZO Io non sono proprio uno straniero. Dalle parole<br />
dei bambini alla progettualità interculturale, Franco<strong>Angeli</strong>, Milano 2007. p.21.<br />
24
vita e che oggi grazie a tutte le possibilità di comunicazione anche<br />
istantanee abbiamo notevolmente aumentato. 34<br />
È il rapporto con l’altro che ci permette di conoscere e attestare la<br />
nostra unicità e singolarità. L’altro ci aiuta a delimitare il nostro<br />
essere, a definirci e a riconoscerci.<br />
L’identità di una persona è formata da una pluralità di caratteristiche<br />
che coesistono, determinano appartenenze di genere, religione,<br />
nazione, etnia; l’elenco delle particolarità di ognuno è infinito e<br />
ognuna di esse deve essere considerata allo stesso modo e con lo<br />
stesso peso.<br />
La tutela dell’identità della persona è quindi il quinto strumento<br />
necessario per un buon confronto; non bisogna però dimenticarsi di<br />
chiudersi dentro alla propria visione e fissarsi che la nostra identità<br />
non ha cambiamenti, ma, bisogna invece, ricredersi e camminare<br />
verso un continuo processo di acquisizione di conoscenze a cui tutti<br />
partecipiamo, di emozioni, di sentimenti che portano ad un’incessante<br />
ristrutturazione del proprio sapere, delle proprie esperienze e del modo<br />
di organizzarle ed interpretarle, raggiungendo una modificazione del<br />
proprio essere.<br />
L’ultimo strumento che viene spesso citato tra le possibili vie da<br />
seguire anche in campo educativo per permettere una migliore<br />
integrazione ad autoctoni e stranieri all’interno di una società<br />
multietnica è l’idea di «valorizzare le differenze ma soprattutto dare<br />
più importanza alle somiglianze per trovare dei punti e valori comuni<br />
fra le diverse culture» 35 , dando allo stesso tempo rilievo e ragione ai<br />
punti di scostamento e contrasto, ma contenendo i processi di<br />
conoscenza all’interno di un quadro di rispetto reciproco e di parità.<br />
Aver a che fare con le differenze non è facile, visto che richiede il<br />
superamento del pensiero statico o del pensiero egocentrico di chi non<br />
34 A. GENOVESE, Per una pedagogia interculturale, dalla stereotipia dei<br />
pregiudizi all’impegno dell’incontro, Bononia University Press, Bologna 2003,<br />
p.191.<br />
35 I. BOLOGNESI, A. DI RIENZO Io non sono proprio uno straniero. Dalle parole<br />
dei bambini alla progettualità interculturale, Franco<strong>Angeli</strong>, Milano 2007. p.22.<br />
25
ascolta l’altro; avvicinandosi invece ad un modo di pensare «erratico<br />
ovvero capace di allontanarsi dalle proprie rappresentazioni mentali,<br />
di avvicinarsi all’altro ma di ritornare in se stesso arricchito delle<br />
esperienze nate dal confronto e dallo scambio reciproco.» 36<br />
All’interno delle scuole, per aiutare i bambini e i ragazzi a valorizzare<br />
le differenze in modo positivo e proficuo, bisogna portare avanti delle<br />
azioni didattiche che offrono a ciascun bambino la possibilità di<br />
sfogare la propria originalità.<br />
É possibile inserire all’interno del programma scolastico una serie di<br />
esperienze che sostengano la curiosità, il comportamento esplorativo,<br />
che sollecitino gli autoctoni a sperimentare le differenze nelle<br />
percezioni, nelle sensazioni e nelle emozioni anche attraverso attività<br />
creative e fantasiose che li avvicinino di più ad un pensiero decentrato<br />
e più flessibile.<br />
Oltre a pensare percorsi basati sulle differenze è importante anche<br />
ricordarsi delle similarità che nascono dallo scambio. Le somiglianze,<br />
le analogie, le corrispondenze abbattono il muro dell’irrigidimento<br />
delle posizioni creando spesso un bisogno di empatia ed incontro. Le<br />
differenze e le somiglianze sono portatrici di scambi e confronti e<br />
devono essere riconosciute come operazioni fondamentali per la<br />
crescita in tutto il nostro percorso di vita. Se all’interno della classe<br />
sono presenti bambini stranieri bisogna cercare di mirare<br />
all’accoglienza del fanciullo ma anche della famiglia, in modo che la<br />
loro cultura entri a far parte della sezione e arricchisca gli altri; nello<br />
stesso tempo anche loro impareranno a condividere la cultura del<br />
paese di accoglienza.<br />
La pedagogia interculturale è in continua costruzione e la ricerca di<br />
pratiche educative, volte alla scoperta delle somiglianze e delle<br />
differenze con una diversa cultura, è sicuramente il procedimento<br />
migliore per permettere uno scambio relazionale più specifico e<br />
collaborativo.<br />
36 I. BOLOGNESI, A. DI RIENZO Di cultura in cultura: esperienze e percorsi<br />
interculturali nei nidi d’infanzia, Franco<strong>Angeli</strong> ,Milano 2006, p. 35.<br />
26
Dopo aver elencato i maggiori strumenti che secondo la pedagogia<br />
interculturale aiutano entrambe le parti ad incontrarsi e a migliorare la<br />
convivenza e la collaborazione, ci spostiamo nell’ottica<br />
dell’immigrato, le difficoltà che trova ad essere inserito e stimato in<br />
terra straniera.<br />
Come abbiamo già detto in precedenza allo straniero vengono<br />
attribuiti una serie di stereotipi e pregiudizi che hanno sempre una<br />
valenza negativa ed il più delle volte non appartengono alla persona<br />
che ci troviamo davanti. Abbiamo anche ricordato che tutte le persone<br />
sono entità diverse e che quindi è difficile riuscire ad attribuire<br />
determinate qualità ad un insieme di individui.<br />
Proprio per questo motivo cerchiamo di capire come vivono<br />
l’inserimento nella società le famiglie che si ritrovano etichettate da<br />
una società estranea e chiusa al proprio interno nella realtà scolastica<br />
ed educativa che abbiamo preso in esame fino ad ora.<br />
1.6 Dal punto di vista dell’immigrato<br />
Mettersi dalla parte opposta, saper guardare le cose dal punto di vista<br />
dell’altro, aiuta a capire quello che l’interlocutore sta provando, le<br />
difficoltà, le emozioni, le ragioni di alcuni suoi comportamenti; quello<br />
che serve è un po’ di umiltà per scambiarsi i ruoli e riflettere<br />
razionalmente sulla vita dell’altro.<br />
Riuscire a capire un’altra persona è una cosa difficile, impegnativa e<br />
necessita di una conoscenza approfondita dell’altro. Questo vale sia<br />
per noi, che ci rapportiamo con dei nostri amici, quando ci troviamo a<br />
parlare con persone estranee e figuriamoci poi se la persona con la<br />
quale ci confrontiamo è anche straniero; in questo caso la situazione si<br />
complica ulteriormente.<br />
27
“Avvicinati, dice lo straniero. A due passi da me sei ancora troppo<br />
lontano. Mi vedi per quello che sei e non per quello che sono io.”<br />
28<br />
Edmond Jabès<br />
“ ma soprattutto ci vuole coraggio a trascinare le nostre suole da<br />
una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole affatto.”<br />
Ivano Fossati<br />
Queste due citazioni che mi sono permessa di trascrivere in questo<br />
momento, rappresentano perfettamente i due problemi che si trovano<br />
ad affrontare gli stranieri immigrati che arrivano nel nostro paese. La<br />
prima affermazione si concentra sul problema degli stereotipi e dei<br />
pregiudizi, rappresenta come lo straniero si sente osservato, come si<br />
sente giudicato a priori senza un’effettiva conoscenza.<br />
Lo straniero chiama ad avvicinarsi perché è ancora tanta la distanza;<br />
spesso gli stranieri cercano il nostro contatto, cercano di parlarci, ma<br />
noi siamo solo capaci di guardarli ascoltando quello che sappiamo sul<br />
loro conto. Lo straniero, infatti, dice che da quella distanza riusciamo<br />
a vedere solo quello che siamo noi, quello che noi sappiamo.<br />
Facciamo fatica a renderci conto del disagio che provano queste<br />
persone arrivando da un altro paese e ci sentiamo solo vittime della<br />
loro presenza, senza cercare di aiutarle e senza renderci conto che i<br />
veri oppressi non siamo noi ma loro.<br />
Ci dimentichiamo che gli immigrati si sono spostati a causa di guerre,<br />
di carestie, di difficoltà economiche per riuscire a sopravvivere; la<br />
seconda citazione mette in luce proprio questo problema. Essi si sono<br />
trasferiti da una terra che non gli ha reso una vita semplice e non<br />
hanno mai trovato cooperazione nella loro esistenza, trovano il<br />
coraggio di dare una svolta alla loro vita cercando asilo in un’altra<br />
terra ed invece di trovare accoglienza vengono fatti sentire come un<br />
fardello della società.
L’esperienza migratoria, porta gli stranieri ad affrontare sfide<br />
specifiche, quali «l’apprendimento di una lingua nuova, la<br />
riorganizzazione degli spazi e dei tempi quotidiani, la comprensione di<br />
regole sociali nuove e la definizione di una specifica identità etnica.» 37<br />
Questo ultimo aspetto può creare delle forti tensioni tra le tradizioni<br />
che gli stessi immigrati desiderano mandare avanti e perseguire nel<br />
tempo e le nuove abitudini della società ospitante.<br />
L’esperienza migratoria si caratterizza da una serie di fasi tra cui<br />
quella di impatto nella nuova realtà, caratterizzata da un periodo di<br />
euforia iniziale dovuta al senso di libertà raggiunto e di rilassamento.<br />
La seconda fase è quella di ripercussione, spesso accompagnata da<br />
sentimenti di delusione, rabbia e scontentezza diffusa, seguita da una<br />
fase di coping ovvero di reazione alle difficoltà incontrate. Ultima è la<br />
fase di regressione e ricarica emotiva, che si realizzano attraverso un<br />
contatto simbolico con il proprio paese di origine. 38<br />
Le difficoltà incontrate dagli stranieri sono causate principalmente da<br />
una crisi di identità dovuta da un senso di perdita delle proprie radici e<br />
un cambiamento dei punti di riferimento sociali e culturali con cui<br />
identificarsi nella nuova realtà.<br />
Spesso lo straniero vive molti ripensamenti al suo passato e alla sua<br />
terra con nostalgia, lasciandogli un senso di vuoto e di sofferenza<br />
perché trova molte difficoltà nell’inserirsi nella nuova mentalità che lo<br />
circonda; altre volte invece si riesce ad adeguare completamente alla<br />
nuova mentalità lasciando alle spalle il passato. Ci sono quattro stadi<br />
diversi di «acculturazione, ovvero, di ciò che riguarda i cambiamenti<br />
degli atteggiamenti e dei valori che si verificano quando due culture<br />
entrano in contatto.<br />
Gli stadi sono rispettivamente: l’integrazione, che comporta un valore<br />
elevato dato sia al mantenimento delle proprie tradizioni culturali, sia<br />
allo sviluppo di relazioni con la società ospitante. Nella marginalità si<br />
37 G. SPELTINI, Minori, disagio e aiuto psicosociale, Il Mulino, Bologna 2005, p.<br />
201.<br />
38 Ibid. p.203<br />
29
ha completamente l’opposto, ovvero un valore negativo dato alle<br />
proprie radici e una mancanza di scambi con la cultura ospitante.<br />
Quando invece prevale esclusivamente la conservazione della propria<br />
eredità culturale, senza possibilità di apertura abbiamo la separazione,<br />
caratterizzata dalla volontà di mantenere i propri riferimenti culturali<br />
in maniera ostinata, mentre il contrario provoca un’assimilazione<br />
completa alla società ospitante, con la perdita dei propri valori.» 39<br />
I problemi, che possono nascere da una crisi di identità non sono da<br />
sottovalutare e bisogna individuarne le cause principali per poter<br />
aiutare gli stranieri a non trovarsi in questa situazione. Gli aspetti che<br />
alimentano il disagio identitario dello straniero sono principalmente<br />
tre e sono:<br />
L’assenza o eccesso di visibilità. L’identità dello straniero si deve<br />
costruire all’interno di una società che non tiene conto del loro punto<br />
di vista e dei loro interessi. L’immigrato si trova quindi ad essere una<br />
presenza invisibile sia nel campo dei diritti, ma anche per quanto<br />
riguarda la lingua o il colore della pelle. Questa situazione crea delle<br />
fratture colossali invece di colmare le differenze e il soggetto si trova<br />
ad avere comportamenti confusi.<br />
L’obbligo migratorio. Nella maggioranza dei casi, l’idea di partire dal<br />
proprio paese di origine è stata una decisione obbligatoria e senza la<br />
possibilità di ripensamenti o discussioni quindi tutte le difficoltà che si<br />
riscontrano portano disagi e lacerazioni dell’identità senza possibilità<br />
di pentimenti.<br />
Il terremoto identitario. L’impatto con la cultura dominante spesso<br />
provoca veri e propri sconvolgimenti identitari, con esiti a volte<br />
devastanti. Il percorso per gli immigrati è tortuoso e difficile perché si<br />
ritrovano di fronte ad una dicotomia tra i valori del loro vissuto e<br />
quelli della società ospitante.<br />
Gli immigrati, incontrano le maggiori difficoltà, quando mettono in<br />
gioco la loro identità e i loro valori, nella fase detta di “coping”, dopo<br />
39 Ibid. p.206<br />
30
un momento iniziale di euforia, incontrano i primi problemi perché<br />
iniziano ad ambientarsi nella nuova società ed incontrano le grosse<br />
differenze tra le culture.<br />
Fino ad ora abbiamo preso in esame l’immigrato singolo, ora iniziamo<br />
a parlare delle difficoltà incontrate dalle famiglie, uomo e donna con o<br />
senza figli che si ritrovano in un paese straniero. Parlare della<br />
situazione dei nuclei famigliari ci permette di riallacciarci alla<br />
situazione educativa guardandola dall’altro punto di vista perché<br />
all’interno della scuola le famiglie straniere arrivano a pieno contatto<br />
con la nuova realtà.<br />
1.7 I pensieri di una famiglia immigrata<br />
“La famiglia è come l’arcata di un ponte gettata tra due piloni;<br />
passato e futuro. Comunque si muova porta con sé la sua storia, ma<br />
non si chiude in essa. Comunque si muova, crea il domani, ma non lo<br />
strappa alle radici. Il mondo intero passa su questa arcata e se essa<br />
cede, precipita nel vuoto.” 40<br />
L’Italia, sta diventando un paese di accoglienza e negli ultimi anni i<br />
percorsi di arrivo del congiunto rimasto per qualche tempo in patria<br />
sono differenti e diverse sono anche le caratteristiche dei nuclei<br />
immigrati. In ogni caso, la nascita o l’arrivo dei figli modificano<br />
notevolmente i progetti della famiglia. I figli rappresentano una<br />
notevole spinta per rompere l’isolamento, in quanto, soprattutto il loro<br />
inserimento nella scuola significa anche la necessità di informarsi,<br />
muoversi nella città, di entrare in relazione con le famiglie italiane e<br />
usare dei servizi presenti nel territorio.<br />
Oggi, nella realtà italiana sono presenti vari modelli di famiglie<br />
immigrate; la famiglia mononucleare ricongiunta è la più diffusa e i<br />
40 M. R. VITTORI Famiglia e intercultura. Quaderni dell’intercultura n. 25,<br />
Editrice missionaria italiana, Bologna 2003.<br />
31
suoi componenti mantengono forti legami con la famiglia di origine<br />
attraverso lettere e telefonate.<br />
La famiglia momonucleare con doppio lavoro esterno da parte della<br />
madre che spesso ritorna a casa una volta a settimana per motivi di<br />
lavoro; è spesso la situazione delle colf che vivono nella casa in cui<br />
fanno assistenza.<br />
Ci sono poi anche le famiglie generate da unioni libere ovvero uomini<br />
e donne che si mettono insieme e affrontano la vita per superare la<br />
solitudine; spesso al loro paese, ignari di tutto, possiedono già un’altra<br />
famiglia.<br />
La famiglia comunitaria rappresenta una serie di coppie che vivono<br />
insieme nella stessa casa per dividersi l’ammontare delle spese. È una<br />
realtà diffusa soprattutto nella comunità cinese e in quella latino<br />
americana.<br />
La famiglia monoparentale, formata da un genitore e uno o più figli, è<br />
tipica della comunità filippina e spesso il genitore che emigra con i<br />
figli è la madre.<br />
Negli ultimi anni, sono aumentate le famiglie miste o multietniche,<br />
formate dal matrimonio tra soggetti appartenenti a diverse nazionalità<br />
e culture.<br />
Infine non bisogna dimenticare una realtà infelice ma presente anche<br />
nel nostro territorio; famiglie immigrate irregolari che vivono<br />
nascoste in casa.<br />
Queste diverse situazioni famigliari sono un’ulteriore spina che si<br />
accende per farci capire come la nostra società sta evolvendo in senso<br />
multiculturale, come la nostra vita è sempre di più circondata da<br />
situazioni diverse e nuove. 41<br />
L’esito dell’impatto tra gli immigrati e la società di arrivo è sempre il<br />
prodotto di un processo relazionale tre le persone che si incontrano in<br />
un contesto più o meno aperto ad accogliere le varie diversità.<br />
41 Ibid. pp.15-16-17<br />
32
La famiglia, come sappiamo, è il primo luogo dove due persone<br />
scoprono il significato del termine relazione, di quella situazione di<br />
scambio reciproco e di confronto. L’uomo ha bisogno di relazioni, la<br />
sua vita si basa sull’incontro con l’altro. Se è la nostra natura a volerci<br />
predisposti per accogliere l’altro, perché ci dobbiamo spaventare<br />
dall’incontro con l’immigrato straniero? Questa può essere un<br />
ulteriore punto di riflessione, ma continuiamo a parlare di famiglia.<br />
Con l’arrivo dei figli, le relazioni che si vanno a creare si infittiscono e<br />
si moltiplicano all’interno del nucleo famigliare portando anche delle<br />
consistenti trasformazioni dei ruoli all’interno della famiglia.<br />
Ogni famiglia, quando decide di lasciare la sua terra natale e trasferirsi<br />
in un altro paese vive una molteplicità di sentimenti, dalla speranza di<br />
un futuro migliore alla paura di abbandonare il conosciuto, il paese di<br />
origine e la famiglia, per trovare rifugio in una società estranea e<br />
diversa dalla propria.<br />
I problemi che una famiglia immigrata incontra sono tanti: la difficoltà<br />
della lingua, la necessità di trovare un lavoro, imparare a muoversi in<br />
un nuovo paese. A questi ostacoli vanno poi aggiunte le difficoltà<br />
legate al campo sociale come per esempio inserire i figli a scuola e<br />
istaurare rapporti di amicizia per far fronte alla solitudine.<br />
Le famiglie che arrivano nel nostro paese, sanno per certo che la<br />
cultura con la quale dovranno confrontarsi è differente dalla loro e che<br />
dovranno abbandonare una buona parte delle loro abitudini di vita.<br />
L’attaccamento emotivo ai propri luoghi, alle persone, ai suoni della<br />
propria lingua e ai sapori dei propri cibi, porta una grande difficoltà ad<br />
assimilare le nuove conoscenze e le nuove usanze perché la nostalgia<br />
gioca padrona.<br />
La fatica quotidiana di queste famiglie di emigranti è l’oscillazione<br />
tra il bisogno di sentirsi parte integrante del paese ospitante, cercando<br />
di assumere alcune abitudini di vita, e il mantenimento delle loro<br />
radici, i frammenti di vita che hanno dato origine alla loro identità.<br />
33
«Antonio Perotti chiama questa situazione interna “dinamico stare”,<br />
cioè mettere insieme due o più modi di vivere diversi, individuando,<br />
di volta in volta, soluzioni creative che tengano conto anche delle<br />
opportunità offerte della società di accoglienza.» 42<br />
Un cambiamento basilare all’interno della famiglia è dato dalla<br />
trasformazione da famiglia allargata a famiglia nucleare. Nel paese di<br />
origine, la casa in cui si viveva accoglieva l’intera famiglia allargata e<br />
molti adulti si occupavano dei bambini. Nel paese di accoglienza, le<br />
madri crescono da sole i propri bambini e non possono far<br />
affidamento sull’intera famiglia. Non possono fare affidabilità<br />
sull’esperienza della donne più anziane e le giovani madre si sentono<br />
inadatte ad allevare i figli sia con le modalità tradizionali del gruppo<br />
etnico di appartenenza, sia seguendo le pratiche del paese di<br />
accoglienza. Non avere la possibilità di specifiche figure appartenenti<br />
alla propria etnia, pronte ad aiutarle nel momento del bisogno, lascia<br />
un grande sconforto nel cuore delle madri, perché queste figure<br />
sarebbero un’importantissima testimonianza per i loro figli della<br />
cultura nativa.<br />
La donna, nella nostra società, è aiutata nella crescita dei propri figli o<br />
dai nonni oppure da figure come le baby-sitter, oppure i bambini sono<br />
portati negli asili dove vengono assistiti da adeguate figure<br />
professionali; tutti questi servizi servono per far fronte alla necessità<br />
della donna di lavorare.<br />
Le donne, nelle società moderne ed industrializzate, hanno maggiori<br />
opportunità in tutti i campi a differenza dei paesi in via di sviluppo<br />
dove sono segregate e costrette solo alla cura della famiglia e della<br />
casa. Le donne immigrate, arrivate nel nostro paese, acquisiscono una<br />
nuova consapevolezza di se mettendo in discussione la condizione di<br />
subalternità cui sono costrette nel paese di origine.<br />
A volte, sono proprio le donne che, grazie al loro lavoro in campo<br />
assistenziale, sono le uniche della famiglia a portare a casa un reddito.<br />
42 Ibid. p.24<br />
34
In queste situazioni, l’uomo è colpito nel profondo in quanto perde il<br />
ruolo attivo nella famiglia che tradizionalmente gli compete. Per<br />
l’uomo, questa situazione è indegna e il più delle volte viene colpito<br />
da depressioni che ricadono sulla moglie e sui figli.<br />
Nelle situazioni di ricongiungimento famigliare da parte delle donne, i<br />
mariti preferiscono tenerle rilegate in casa in uno stato di inferiorità<br />
dovuto all’ignoranza della lingua, finendo anche con il maltrattarle<br />
quando le difficoltà economiche crescono. La donna ed i figli<br />
diventano, in questo caso, oggetti di sfogo con cui prendersela quando<br />
la solitudine e la mancanza della famiglia allargata si fanno sentire.<br />
All’interno della famiglia immigrata cambiano anche i rapporti<br />
intergenerazionali. Le relazioni tra genitori e figli, cambiano in quanto<br />
sono proprio gli ultimi che fanno da ponte tra la cultura di origine e<br />
quella del paese di accoglienza. Inseriti nella scuola, luogo in cui i<br />
bambini stranieri sono a vivo contatto con la nuova realtà, imparano la<br />
nostra lingua e imparano a muoversi nella nostra società. «Il bambino<br />
diventa un mediatore importantissimo tra la scuola e la famiglia<br />
portando al suo interno le conoscenze che assimila a scuola.» 43 Un<br />
problema che deve affrontare la famiglia è sicuramente quello legato<br />
alla lingua; ci sono bambini che si rifiutano categoricamente di parlare<br />
la lingua d’origine imponendo di parlare all’interno della casa solo la<br />
lingua del paese d’accoglienza. Questa situazione comporta una<br />
difficoltà enorme per i genitori perché la lingua è l’unico strumento<br />
che permette di educare i figli. Senza aver la possibilità di parlare con<br />
i propri ragazzi, non conoscendo la lingua, i genitori si trovano<br />
spiazzati generando anche delle situazioni di conflitto esasperato.<br />
Inizialmente è facile trovare questa situazione nelle famiglie<br />
immigrate con dei bambini che iniziano ad andare a scuola perché i<br />
fanciulli stanno imparando la lingua e non vogliono essere confusi o<br />
sviati da un buon insegnamento; successivamente si creano delle<br />
situazioni di bilinguismo in cui i bambini parlano all’interno della casa<br />
43 Ibid. p. 29<br />
35
la lingua madre, mentre fuori, a contatto con la società di accoglienza<br />
parlano la nostra lingua.<br />
Dalle ricerche fatte, emerge che l’elaborazione della doppia<br />
appartenenza risulta più facile se lo spostamento migratorio della<br />
famiglia avviene, quando i bambini sono nei primi anni di vita perché<br />
più si avvicinano al periodo dell’adolescenza e più lo sradicamento<br />
dalle proprie origini diventa difficile da affrontare.<br />
La scuola diventa per i bambini un’ottima opportunità per riuscire ad<br />
entrare nella nuova società. L’istituzione scolastica diventa un<br />
soggetto collettivo e ha le sue competenze e i suoi doveri in campo<br />
educativo e interculturale; deve concretizzare il diritto all’istruzione,<br />
promuovere una cultura dell’accoglienza, garantire un buon processo<br />
di inserimento, valorizzare la lingua di appartenenza, evitare i rischi<br />
dettati dal bilinguismo, facilitare i processi di apprendimento e<br />
soprattutto prestare molta attenzione ai segnali di disagio dell’alunno<br />
straniero e di intolleranza in classe nei suoi confronti.<br />
Questo è quello che la scuola dovrebbe tenere conto ora che gli<br />
stranieri sono sempre più presenti all’interno delle scuole per<br />
permettere anche a loro una vita dignitosa all’interno della nostra<br />
società senza trovarsi sempre un dito puntato addosso.<br />
36
Capitolo 2<br />
Missione ad gentes in Bolivia<br />
37
Missione ad gentes in Bolivia<br />
2.1 L’incontro con la missione<br />
La mia storia, ha inizio un sabato pomeriggio di ottobre nella<br />
parrocchia di Brodano, una frazione di Vignola. Era una giornata<br />
frenetica a causa del catechismo, io stavo entrando con la mia classe<br />
in chiesa per partecipare alla S. Messa e per preparare la chitarra<br />
quando, dopo aver cercato di mantenere il silenzio tra i miei ragazzi, il<br />
sacerdote entra dando inizio alla celebrazione ed io inizio a suonare.<br />
Tutto è normale, tutto scorre tranquillo come sempre, ma quando<br />
giunge il momento dell’omelia, il sacerdote della mia parrocchia, Don<br />
Giorgio Panini, si avvicina il microfono e ci annuncia che quel<br />
pomeriggio la predica non l’avrebbe fatta lui ma una giovane<br />
missionaria della consacrazione delle missionarie dell’Immacolata<br />
Padre Kolbe di Bologna. La missionaria, come ci preannuncia il<br />
sacerdote è appena ritornata dal Brasile ed è venuta nella nostra<br />
parrocchia per rendere omaggio, con noi, al mese di ottobre, mese<br />
missionario.<br />
Mentre il parroco pronunciava quelle parole ecco che si alza tra i<br />
banchi una piccola donna, me la ricordo come se fosse ora: magra,<br />
non tanto alta, i capelli corti e scuri, indossava una gonna lunga fino<br />
alle caviglie e un maglioncino blu. Salutò tutti e dopo aver ringraziato<br />
molto gentilmente don Giorgio si posizionò all’ambone e prese la<br />
parola. Iniziò così, per me e per tutta la comunità presente in quella<br />
celebrazione, un lungo viaggio in un paese lontano come il Brasile;<br />
una serie di racconti sulla situazione di miseria di alcune famiglie e<br />
sull’estremo bisogno di aiuto che hanno quelle popolazioni.<br />
Ricordo di essere rimasta molto colpita dai racconti di quella donna,<br />
dalla sua immensa fede e dalle sue parole cariche di speranza.<br />
39
Finita la messa, la missionaria, consegnava a tutti i bambini un piccolo<br />
opuscolo contenente una preghiera e una piccola “Medaglia<br />
Miracolosa”, in ricordo di quella giornata.<br />
Finito di sistemare la chitarra e salutati i miei bambini di catechismo,<br />
mi sono avvicinata alla missionaria e le ho chiesto se possedevano una<br />
e-mail con cui era possibile contattarle.<br />
Lei mi ha sorriso e preso un foglietto dalla tasca, mi scrisse l’indirizzo<br />
elettronico della sede centrale di Bologna. Cosa mi ha spinto ad<br />
avvicinarmi e a chiedere quell’informazione lo devo ancora scoprire,<br />
ma rimango convinta che la provvidenza ha fatto il suo gioco.<br />
Ritornata a casa, la mia vita è continuata tranquillamente per la<br />
settimana successiva, ma poi, un pomeriggio, casualmente mi sono<br />
ritrovata in mano il contatto che mi aveva fornito la missionaria.<br />
Ricordo di aver preso in mano il telefono e di aver chiamato la mia<br />
miglior amica Enrica; dopo averle raccontato tutta la storia, le dissi<br />
che ero pronta per fare una pazzia e le chiesi se lei mi avesse<br />
supportato. Piena di gioia mi è stata sempre vicina e mi ha spronato<br />
perché io mi decidessi a contattare le missionarie di Bologna.<br />
L’idea di rivolgermi alle missionarie era diventata un’ossessione e<br />
avrò provato decine e decine di volte a scrivere quella e-mail, ma la<br />
paura e la timidezza vincevano sempre e io rimandavo continuamente,<br />
finché, un bel giorno mi sono decisa e ho scritto a quel contatto<br />
chiedendo di poter passare un pomeriggio con loro per poter<br />
avvicinarmi al mondo missionario.<br />
Purtroppo, non ricordo le parole esatte ma non dimenticherò mai la<br />
fatica fatta per scrivere quelle poche righe.<br />
Pochi giorni dopo mi è arrivata la risposta da Raffaella, una<br />
missionaria, che successivamente scoprirò essere la direttrice del<br />
centro di Bologna, che mi dice di raggiungerla un sabato pomeriggio<br />
sul tardi. Ovviamente, la prima cosa che ho fatto dopo aver ricevuto la<br />
risposta, è stata telefonare ad Enrica, per raccontarle, cosa mi avevano<br />
40
isposto alla e-mail e per decidere la data in cui era disponibile ad<br />
accompagnarmi.<br />
Finalmente, un sabato dopo catechismo, siamo partite e con le<br />
indicazioni alla mano ci siamo dirette a Borgonuovo una frazione di<br />
Sasso Marconi in provincia di Bologna. I miei genitori erano<br />
all’oscuro di tutto perché non volevo che si spaventassero o si<br />
preoccupassero più del dovuto, visto che non sapevo nemmeno io che<br />
decisione avrei preso.<br />
Abbiamo trovato subito il posto e dopo aver parcheggiato ci siamo<br />
incamminate verso il cancello della sede.<br />
Davanti ai nostri occhi si è presentato un grande cortile, con tre edifici<br />
e una chiesa in stile moderno molto bella. Dopo un piccolo salto in<br />
chiesa, ci siamo dirette verso la portineria per chiedere che ci venisse<br />
chiamata Raffaella, la missionaria che mi aveva contattato.<br />
Appena la vidi, mi ricordai subito della missionaria che era venuta<br />
nella mia parrocchia e mi accorsi che erano molto simili: capelli corti,<br />
maglioncino e gonna lunga fino alle caviglie; capii che quella era la<br />
divisa delle missionarie della consacrazione all’Immacolata di Padre<br />
Kolbe.<br />
Raffaella è stata molto contenta di vederci e ci ha portato in una<br />
piccola stanza dove poter parlare tranquillamente senza essere<br />
disturbate; ci ha messo subito a nostro agio e ci ha spiegato meglio, e<br />
in modo più approfondito com’era organizzata la sede centrale in cui<br />
ci trovavamo e le attività che si svolgono nelle diverse sedi sparse nel<br />
mondo.<br />
Ci spiegò, che esistono molte sedi in varie città italiane oltre a<br />
Bologna come a Bari, a Roma e a Verona che ospitano le missionarie<br />
durante il periodo degli studi oppure durante i periodi di<br />
ricongiunzione famigliare con i parenti. Le missioni che sono sparse<br />
per il mondo e provvedono all’aiuto diretto con le persone sono in<br />
Polonia, a Lussemburgo, in Argentina, in Bolivia, in Brasile e negli<br />
Stati Uniti.<br />
41
Tra tutti i paesi in cui sono presenti sono rimasta affascinata subito<br />
dalla Bolivia, mi ha sempre incuriosito l’America Latina ma ho<br />
sempre pensato solo al Brasile senza preoccuparmi degli altri stati;<br />
un’associazione quasi naturale che facevo. Questo paese mi era<br />
straniero, ma mi incuriosiva e successivamente scoprii da Raffaella<br />
che proprio in Bolivia sarebbero stati destinati i volontari, che<br />
avrebbero deciso di partire per un’opera di missione nell’estate del<br />
2005.<br />
Durante in viaggio di ritorno, io e la mia cara amica abbiamo parlato<br />
della possibilità di partire, della voglia di fare un’esperienza di<br />
missione, della forza che ci voleva per prendere una decisione così<br />
impegnativa a diciotto anni e ovviamente delle nostre disponibilità<br />
economiche.<br />
Abbiamo chiacchierato molto, sia mentre tornavamo a casa, sia nei<br />
giorni seguenti perché dovevamo prendere una decisione visto che<br />
Raffaella ci aveva detto che, se volevamo partire, avremmo dovuto<br />
seguire un corso di preparazione al volontariato missionario.<br />
La decisione, anche se sofferta, è arrivata e io sarei partita mentre<br />
Enrica no, non si sentiva ancora pronta per fare un’esperienza di<br />
questo calibro. Mi è dispiaciuto tantissimo non poter condividere<br />
quest’esperienza con lei e dopo aver preso questa decisione, ho<br />
passato un periodo in cui mi sono sentita veramente sola davanti alla<br />
possibilità di buttarmi in un’avventura del genere e a volte<br />
l’insicurezza mi raggiungeva.<br />
Successivamente è arrivato il momento di raccontare tutto alla mia<br />
famiglia, l’ostacolo più grande perché essendo figlia unica e molto<br />
coccolata non sapevo come avrebbero reagito i miei genitori. Un bel<br />
giorno, mia madre, ebbe la bellissima idea di chiedermi cosa mi<br />
sarebbe piaciuto come regalo dopo aver superato l’esame di maturità.<br />
La mia risposta è stata molto vaga ma sicura: “Un viaggio”. I miei<br />
genitori convinti che io mi riferissi a un viaggio nelle vicinanze come<br />
42
un “Inter-Rail” con le mie amiche acconsentirono dicendomi di<br />
decidere dove volevo andare.<br />
Rimasero molto spiazzati, quando la mia risposta consisteva in un<br />
viaggio in Bolivia come missionaria per il mese di Agosto con le<br />
missionarie di S. Massimiliano Kolbe di Bologna. Le loro facce<br />
furono spiazzate ed esterrefatte quando gli raccontai tutto il resto. Non<br />
seppero più cosa dire e successivamente cercarono ogni modo per<br />
farmi cambiare idea; ma ormai, la mia decisione, era sempre più<br />
consolidata. Sicura di quello che volevo fare mi impegnai nella scuola<br />
perché ero sicura che se avessi avuto dei problemi a livello di<br />
insufficienze, il mio sogno sarebbe svanito molto facilmente.<br />
Le mie visite alle missionarie continuarono saltuariamente, fino a<br />
quando il 16 aprile 2005, partecipai alla prima tappa del corso di<br />
preparazione che si sarebbe svolto a Borgonuovo e sarebbe durato un<br />
intero fine settimana.<br />
Arrivata nel pomeriggio alla sede centrale delle missionarie di<br />
Bologna, mi accolse subito Raffaella e dopo esserci salutate, ci siamo<br />
dirette verso la chiesa della parrocchia per partecipare alla messa<br />
vespertina del sabato sera. In chiesa mi venne chiesto di sedermi<br />
vicino ad una ragazza che sembrava avesse circa la mia età, senza<br />
nessun problema mi sedetti e presi parte alla Santa messa.<br />
Subito dopo, Raffaella mi accompagnò nella sala da pranzo e<br />
finalmente riuscii a conoscere questa nuova ragazza, il suo nome era<br />
Sara e durante tutta la cena parlammo di noi e della nostra vita. Finito<br />
di cenare, Raffaella ci spiegò che per motivi di lavoro gli altri ragazzi<br />
sarebbero arrivati solo per l’incontro in programma per quella sera, e<br />
che solo io e Sara, come previsto, saremmo state ospitate nella notte a<br />
soggiornare nel centro missionario. Visto che avremmo dormito nella<br />
stessa stanza, Raffaella ci disse che nell’ora che avevamo a<br />
disposizione prima dell’incontro potevamo andare a sistemare le<br />
nostre cose nella camera che c’era stata destinata. Ci ritrovammo con<br />
43
Raffaella nelle 20.30 circa e subito ci venne chiesto di seguirla in una<br />
stanza dove avremmo aspettato gli altri ragazzi.<br />
Ero emozionantissima, presto avrei conosciuto le persone che<br />
avrebbero condiviso con me quest’esperienza, speravo fossero tutti<br />
giovani della mie età e non aspettavo altro di vedere i volti di questi<br />
nuovi amici.<br />
Non ricordo bene l’ordine con cui arrivarono, ma ricordo<br />
perfettamente i volti timidi ed emozionati che avevamo tutti stampati<br />
in viso. Dario e Roberta, Sara e Mirko, Angela e Vanessa, Pamela e<br />
Stefano, Raffaella e Paola; questi sono i nomi di tutti i miei compagni<br />
di viaggio.<br />
Gruppo volontari<br />
Una volta seduti intorno ad un tavolo, Raffaella ci ha presentato la<br />
missionaria che ci avrebbe accompagnato lungo l’itinerario di<br />
preparazione al mandato missionario.<br />
Si presentò a noi una missionaria di nome Valentina, che ci parlò un<br />
po’ di lei, dal cosa l’ha spinta a entrare nella vita missionaria fino ai<br />
suoi passatempi preferiti. Dopo di che è arrivato anche per noi il<br />
momento delle presentazioni.<br />
44
Arrivavamo da città diverse; chi da Verona, chi da Forlì, chi dalla<br />
stessa Bologna, e chi dalla provincia come me. Purtroppo, la mia<br />
speranza di incontrare giovani della mia età svanì subito visto che ero<br />
la più piccola e fui subito riconosciuta come la “mascotte” del gruppo.<br />
Infatti tra di loro c’erano diverse coppie sposate da ormai parecchi<br />
anni, due ragazzi in preparazione al matrimonio che si sarebbero<br />
sposati pochi giorni prima di partire, facendo del loro viaggio la loro<br />
luna di miele e una ragazza che si sarebbe sposata un anno dopo il<br />
nostro ritorno. Infine ci rimanevano tre ragazze, ma erano comunque<br />
più grandi di me di una decina di anni, chi più e chi meno.<br />
Sinceramente l’idea di passare un intero mese insieme a delle persone<br />
più grandi, che sapevano che cos’era veramente la vita, che avevano<br />
già formato una famiglia e sapevano cosa voleva dire prendersi delle<br />
responsabilità mi aveva messo un po’ in discussione. Non che io non<br />
conosca le difficoltà, ma io dovevo ancora finire le superiori e non<br />
sapevo assolutamente cosa mi riservava il futuro mentre loro avevano<br />
già una vita lavorativa e questo non è poco. Fortunatamente non mi<br />
sono fatta abbattere dalla differenza d’età ma ho accettato questa<br />
situazione in segno di sfida. Avevo deciso di vivere quest’esperienza a<br />
qualsiasi costo ed essere insieme a delle persone adulte mi avrebbe<br />
certamente aiutato a conoscermi e a crescere ancora di più.<br />
Durante questo primo incontro parlammo del volontariato missionario,<br />
ci fu chiesto se già qualcuno di noi sapeva cosa voleva dire, se<br />
qualcuno di noi all’interno dei propri paesi di provenienza faceva<br />
volontariato e altre domande sul genere. Successivamente l’ottica si<br />
spostò proprio in direzione dello specifico volontariato missionario; le<br />
finalità, le tappe formative che avremmo dovuto incontrare per entrare<br />
meglio nel merito e in conclusione, prima della normale preghiera, ci<br />
venne distribuito il calendario degli incontri di preparazione.<br />
Rimanemmo, prima di congedarci, nella stanza a chiacchierare un po’<br />
e ricordo che molti erano incuriositi dalla mia presenza, sia per la mia<br />
giovane età e sia per la mia determinazione.<br />
45
Ci salutammo ed infatti rimanemmo solo io e Sara perché gli altri<br />
preferirono ritornare alle proprie case e rimettersi in viaggio il giorno<br />
seguente per il primo vero incontro. Ci coricammo e la mattina<br />
seguente la sveglia suonò presto per partecipare alle lodi mattutine con<br />
le missionarie nella cappella presente all’interno dell’edificio.<br />
La preghiera è tutto quello su cui si basa la vita missionaria, la fede<br />
profonda che impregnava qualsiasi angolo di quel posto non la<br />
dimenticherò mai, il silenzio, il mettersi in ascolto dei singoli suoni<br />
che circondano quel luogo, l’infinita dedizione che si può assaporare<br />
passeggiando tra i sentieri che circondano il centro missionario lascia<br />
il segno.<br />
Dopo le lodi andammo nella sala da pranzo per fare colazione tutte<br />
insieme e dopo aver terminato iniziarono a ritornare i compagni di<br />
viaggio per prendere parte al primo vero incontro.<br />
2.2 Corso in preparazione al mandato missionario<br />
2.2.1 La missione della Chiesa<br />
Una volta riuniti nuovamente nella stanza della sera prima, Valentina,<br />
ci illustrò l’argomento principale del primo incontro, ovvero avremmo<br />
riflettuto insieme sulla missione della Chiesa.<br />
La missione universale della Chiesa nasce dalla fede in Gesù Cristo,<br />
come si dichiara nella professione della fede trinitaria: «Credo in un<br />
solo Signore, Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, nato dal Padre<br />
prima di tutti i secoli… Per noi uomini e per la nostra salvezza discese<br />
dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della<br />
vergine Maria e si è fatto uomo» 42 .<br />
Soltanto nella fede si comprende e si fonda la missione. Gesù Cristo<br />
ha seguito la missione per la quale è stato mandato in mezzo agli<br />
42 Credo niceno-costantinopolitano: Ds 150.<br />
46
uomini, per dare testimonianza dalla grandezza e della veridicità del<br />
nostro Dio. Si è fatto uomo come noi per salvarci dal male e da tutti i<br />
peccati che continuamente attanagliano le nostre vite e per aiutarci a<br />
superare le difficoltà che ci assillano ha dato a noi tantissimi<br />
insegnamenti attraverso il suo esempio e la sua parola, presente nella<br />
buona novella del Vangelo. Il ruolo della Chiesa è principalmente<br />
quello di annunciatore della parola di Dio.<br />
I discepoli sono i primi a cui è stata illuminata la via della<br />
testimonianza, erano accanto a Gesù nella sua vita e hanno potuto<br />
toccare con mano la speranza di salvezza che infondeva nei cuori.<br />
La salvezza in Cristo, testimoniata e annunziata dalla Chiesa, è<br />
autocomunicazione di Dio: «È l’amore che non soltanto crea il bene,<br />
ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo.<br />
Infatti, colui che ama, desidera donare se stesso.» 43<br />
La Chiesa rappresenta un segno e uno strumento di salvezza per tutti<br />
gli uomini. La salvezza che viene offerta da Dio è per tutti gli esseri<br />
umani in piana libertà, con ciò non si vuol dire che può essere<br />
concessa solo a chi ha fede e a chi è entrato a far parte della Chiesa<br />
attraverso il sacramento del Battesimo ma deve essere messa a<br />
disposizione di tutti, deve essere fatta conoscere a tutti.<br />
La grandezza del Signore può essere accettata oppure no e questa è la<br />
libertà più grande che ci è stata concessa. In ambienti socio-culturali<br />
diversi, come il nostro, è sempre più difficile riuscire a trovare una<br />
linea comune da seguire, soprattutto quando si affronta l’ambito della<br />
religione. Questi sono due discorsi ben distinti; essere cristiani e<br />
seguire gli insegnamenti del Vangelo oppure essere praticanti di<br />
un’altra religione e quindi aver avuto la libertà di scelta; oppure non<br />
conoscere affatto la religione cristiana e la figura del salvatore. Molti<br />
uomini non hanno la possibilità di conoscere le rivelazioni del<br />
Vangelo, di entrare a far parte della chiesa. Tantissime zone del<br />
43 Lett. Enc. Dives in misericordia (30 novembre 1980).<br />
47
mondo sono ancora selvagge e molte popolazioni hanno ancora un<br />
livello di civiltà primitivo lontano dal nostro modo di vivere.<br />
Le popolazioni abbandonate rimangono anche ignoranti e analfabeti;<br />
non saper scrivere e nemmeno leggere è una realtà ancora presente<br />
anche se difficilmente ce ne rendiamo conto e crediamo sia possibile.<br />
Le prime figure che sono partite per quelle terre ripudiate dal mondo e<br />
si sono incaricati di portare la conoscenza della parola di Dio e l’aiuto<br />
materiale sono proprio i missionari che con i loro piedi scalzi e le<br />
tasche piene di povertà giravano per i luoghi più sperduti cercando di<br />
dare conforto attraverso l’amore in Gesù Cristo.<br />
Oggi la Chiesa è felice di poter contare anche sull’aiuto dei missionari<br />
laici che hanno il compito di affiancare i missionari nelle varie<br />
missioni in giro per il mondo.<br />
Valentina ci spiegava che noi, missionari laici, in forza del battesimo<br />
siamo diventati una risorsa importantissima per la Chiesa missionaria<br />
e che partendo per un’esperienza del genere in una terra lontana<br />
sentivamo il bisogno di andare a testimoniare la parola anche ai nostri<br />
fratelli lontani e bisognosi di aiuto.<br />
Finito quest’incontro abbiamo partecipato tutti alla S. Messa tenuta<br />
nella cappella da Padre Luigi Faccenda fondatore delle Missionarie<br />
dell’Immacolata di Padre Kolbe.<br />
Padre Luigi Faccenda<br />
«Padre Luigi è nato a San Benedetto Val di Sambro, un ridente paese<br />
dell'Appennino tosco-emiliano, il 24 agosto 1920. Appena terminata<br />
48
la scuola elementare entrò nel Seminario dei Frati Minori<br />
Conventuali a Faenza. La sua precaria salute ne costringe poco dopo<br />
ad uscirne e a ritornare in famiglia, interrompendo gli amati studi.<br />
Ma egli non si dà per vinto, cerca qualcuno che lo aiuti a continuare<br />
la sua preparazione e lo trova nel parroco di un paese vicino.<br />
A don Guido Zambrini, parroco di Gabbiano, paese della zona di San<br />
Benedetto, padre Luigi ha attribuito la salvezza della sua vocazione.<br />
Dopo la Professione semplice, emessa ad Assisi il 12 agosto 1938 e la<br />
Professione solenne, emessa a Faenza nel 1941, viene ordinato<br />
sacerdote il 18 maggio 1944 a Fognano, piccolo paese poco lontano<br />
da Faenza, dove si era trasferito il Vescovo, Mons. Battaglia, in<br />
seguito alle drammatiche vicende della guerra.<br />
Fin dai primissimi anni della sua vita sacerdotale, padre Luigi ha<br />
sempre sognato la missione, sognava di andare in terre lontane per<br />
portare la luce della fede e la gioia del messaggio di Cristo ai fratelli<br />
del mondo intero e magari morire martire per testimoniare quel<br />
messaggio.<br />
La malattia, invece, gli impedì di realizzare il suo sogno che si<br />
trasformò, per desiderio dei suoi superiori, nell'impegno di lavorare<br />
per la diffusione della spiritualità e dell'ideale di san Massimiliano<br />
Kolbe, occupandosi intensamente della Milizia dell'Immacolata,<br />
l'eredità che padre Kolbe ha lasciato al mondo.<br />
L'ideale missionario di padre Luigi divenne realtà, quando proprio<br />
dalle radici della spiritualità kolbiana e dal cuore dello stesso padre<br />
Luigi è nato l'Istituto delle Missionarie dell'Immacolata - P. Kolbe e<br />
quando le missionarie a pochi anni dalla fondazione dell'Istituto<br />
hanno varcato gli oceani e i continenti.<br />
Nel 1946 diede vita a una fiorente attività mariana e missionaria con<br />
la pubblicazione della rivista mensile “Milizia Mariana” e con lo<br />
sviluppo delle “Edizioni dell'Immacolata” che hanno offerto e<br />
continuano ad offrire libri di formazione, di studio, e di spiritualità.<br />
49
La mattina della domenica del 9 ottobre 2005, quando la Chiesa nella<br />
liturgia ci proponeva la meditazione sul banchetto nuziale che Dio ha<br />
preparato per i suoi figli, padre Luigi Faccenda è entrato<br />
nell'eternità, accompagnato dall'affetto e dalla preghiera dei<br />
confratelli, dei missionari, delle missionarie, dei volontari, dei militi<br />
dell'Immacolata, dei sacerdoti, dei parenti e degli amici.» 44<br />
Durante l’omelia di quella messa Padre Luigi ci salutò e ci ringraziò<br />
per quello che presto ci prestavamo a compiere, ricordo quelle parole<br />
piene di rassicurazione ed entusiasmo con cui ci incoraggiava. Era una<br />
persona molto umile e gentile, che appena ci ha visti ci ha subito<br />
trattati come figli e soprattutto ha creduto in noi e in quello che<br />
eravamo disposti a fare.<br />
Dopo la messa, che è stata dedicata interamente a noi giovani<br />
missionari laici, siamo stati accolti con molta festa anche durante il<br />
pranzo domenicale da tutte le missionarie del centro. Durante il pasto,<br />
abbiamo imparato a conoscerci ancora di più e si sono iniziate a creare<br />
le prime amicizie tra noi giovani volontari.<br />
Dopo il pranzo, ci siamo ritrovati di nuovo insieme nella cappella per<br />
concludere questa giornata con un momento di preghiera e di<br />
ringraziamento. Successivamente ognuno è ritornato alle proprie case<br />
dandoci appuntamento all’incontro seguente.<br />
Ritornata a casa ricordo che ero piena di gioia per quei due giorni<br />
trascorsi in comunità con le missionarie ed ero stranamente molto<br />
riposata e tranquilla. Mi rimasero molto impresse le cose che ascoltai<br />
negli incontri e mi aiutarono a prendere sempre più fiducia in me<br />
stessa e sull’impegno che mi ero presa.<br />
44 Vd.<br />
http://www.kolbemission.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/31<br />
50
2.2.2 La spiritualità del missionario<br />
Nel secondo incontro di preparazione all’esperienza abbiamo parlato<br />
della spiritualità del missionario. Lo Spirito Santo rappresenta il<br />
protagonista della missione.<br />
Insieme a Valentina ripercorremmo la nostra personale storia cristiana<br />
fino al principio, ovvero fino al giorno del nostro battesimo. I nostri<br />
genitori hanno deciso di crescerci secondo la dottrina cristiana e in<br />
quel giorno siamo diventati figli di Dio e siamo stati ricoperti di<br />
Spirito Santo. È proprio questo mantello che accompagna la vita del<br />
missionario nelle difficoltà che affronta ogni giorno. Lo Spirito Santo<br />
ci permetterà di lasciarci plasmare interiormente per divenire sempre<br />
più conformi a Cristo. «Non si può testimoniare Cristo senza riflettere<br />
la sua immagine, la quale è resa viva in noi dalla grazia e dall’opera<br />
dello Spirito. Lo Spirito li trasformerà in testimoni coraggiosi del<br />
Cristo e annunciatori illuminati della sua Parola: sarà lo Spirito a<br />
condurli per le vie ardue e nuove della missione.» 45<br />
Proprio all’interno di queste poche righe è racchiuso lo spirito<br />
missionario, è unico il pensiero che deve invadere il cuore di una<br />
qualsiasi persona che decide di compiere una missione di questo<br />
genere: riflettere l’immagine di Cristo. Quando Valentina ci disse<br />
questa cosa io pensai: “dici poco?” ma lei subito aggiunse di non farsi<br />
spaventare da quest’affermazione. Se fossimo lasciati soli in questo<br />
difficile compito nessuno sarebbe in grado di portare a termine questa<br />
richiesta ma Lui ci ha sempre detto che sarà sempre con noi e che non<br />
saremo mai abbandonati alla solitudine; testimone di questo è proprio<br />
la sua resurrezione dai morti.<br />
Nella parola, che grazie agli evangelisti è arrivata fino a noi, è scritto<br />
tutto quello che ci ha insegnato, in modo chiaro e facile da<br />
comprendere. La cosa più difficile è proprio seguire i suoi<br />
insegnamenti perché sono estremamente impegnativi e fondati<br />
45 GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missino, lettera enciclica circa la validità<br />
del mandato missionario,Paoline, 2003, p. 91<br />
51
sull’amore, sul perdono, sul rispetto, sulla generosità e sull’umiltà.<br />
Questi sono solo alcuni dei termini che scaturiscono dalla sua parola e<br />
che difficilmente si associano alla società di oggi basata di odio<br />
reciproco, di apparenza e di possessività.<br />
Saper aprire il Vangelo e metter in pratica quello che c’è scritto è<br />
molto faticoso ma rende illuminati dalla grandezza di Dio e riempie il<br />
cuore di una forza rinnovata che permette di superare le difficoltà.<br />
Entrati a far parte della Chiesa con il Battesimo siamo diventati<br />
membri di una stessa famiglia, uniti da un sentimento comune di<br />
amore per il Signore.<br />
Tutti parlano di dieci comandamenti, di tavole della legge, per<br />
indicare le regole che Dio ha posto agli uomini, delle linee guida che<br />
ci aiuterebbero a creare la pace e l’armonia fra le genti. Nessuno però<br />
si ricorda dell’undicesimo comandamento ovvero: “ ama il prossimo<br />
tuo come te stesso”, questa regola, viene associata al un altro pensiero<br />
che ci è stato donato: “ama la Chiesa e gli uomini come li ha amati<br />
Gesù”.<br />
Il missionario fa tutto a tutti, vivendo unicamente il Vangelo con la<br />
pazienza, la longaminità, la benignità e la carità sincera. Davanti agli<br />
altri il missionario si pone a cuore aperto ovvero donandosi in totalità<br />
di corpo e di spirito sapendo di abbandonarsi ad un fratello e non ad<br />
uno sconosciuto. Questa è la grande difficoltà, il superamento dei<br />
pregiudizi e degli stereotipi per cogliere l’importanza dell’altro nella<br />
nostra vita.<br />
Questa è la vera spiritualità del missionario; saper attingere dalla<br />
Sacra Scrittura una buona dottrina e che nutrito dalle parole della fede<br />
la riesca a mettere in pratica.<br />
Il missionario è l’uomo delle beatitudini, che le ricorda e le medita<br />
continuamente facendone le fondamenta della sua vita.<br />
52
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.<br />
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.<br />
Beati i miti, perché erediteranno la terra.<br />
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno<br />
saziati.<br />
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.<br />
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.<br />
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.<br />
Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno<br />
dei cieli.<br />
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo,<br />
diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.<br />
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei<br />
cieli.»<br />
53<br />
Matteo 5, 3-12<br />
Quella sera ci venne proprio consegnato un piccolo foglietto dove<br />
erano scritte le beatitudini e Valentina ci salutò dicendoci di meditare<br />
su quelle righe e di provare a metterle in pratica nella nostra vita.<br />
2.2.3 Bolivia, terra amata: il paese, il popolo che il Signore ci<br />
consegnerà<br />
Durante il terzo incontro abbiamo abbandonato per un attimo l’ambito<br />
spirituale affrontato nei primi due appuntamenti e siamo partiti per un<br />
viaggio teorico alla scoperta del paese che ci avrebbe ospitati. Proprio<br />
per questa occasione non fu Valentina a tenere l’incontro ma Ignacia,<br />
una missionaria boliviana ritornata a Bologna dopo tanti anni di<br />
servizio nella sua terra natale, per riprendere gli studi teologici. Ci
siamo presentati, anche se durante i momenti conviviali avevamo già<br />
avuto modo di conoscerci e poi ci siamo tuffati in Sud America.<br />
2.2.3.1 Generalità, superficie, geografia e popolazione<br />
La Bolivia è uno Stato dell'America meridionale, situato nel centro del<br />
subcontinente, non possiede sbocchi sul mare e confina a nord e ad est<br />
con il Brasile, a sud con Argentina e Paraguay e ad ovest Perù e Cile.<br />
La sua superficie è di 1.098.581 km² e secondo il censimento svolto<br />
nel 2001, contava 8.274.325 abitanti, mentre, secondo stime più<br />
recenti (2005), la popolazione avrebbe raggiunto quota 8.857.870<br />
unità. 46<br />
La capitale costituzionale è Sucre, mentre la capitale amministrativa,<br />
dove ha sede il Governo, è La Paz. La città più popolata è Santa Cruz<br />
de la Sierra, con circa 1,5 milioni di abitanti.<br />
Si possono distinguere due grandi aree geografiche all’interno della<br />
Bolivia caratterizzate da due diverse strutture territoriali ovvero:<br />
- le terre orientali tropicali che rappresentano i due terzi del paese<br />
divise tra il bacino amazzonico e l'area del Gran Chaco (termine<br />
generalmente accettato come proveniente dal quechua «chaqu»,<br />
territorio di caccia) ovvero una delle principali regioni geografiche del<br />
Sud America, che si estende anche in altri territori come l’Argentina,<br />
il Brasile e Paraguay, tra i fiumi Paraguay e Paraná e l'altopiano<br />
andino.<br />
- le Ande, il restante terzo del paese, nella parte occidentale, costituite<br />
dalla cordigliera e dall’altopiano che seguono la costa pacifica.<br />
Due terzi del territorio boliviano sono bassipiani tropicali, tributari del<br />
Rio delle Amazzoni e del Rio de la Plata. Questa enorme estensione di<br />
più di 700.000 km², è coperto da foreste tropicali pluviali, umide,<br />
46 Vd. http://it.wikipedia.org/wiki/Bolivia<br />
54
monsoniche e secche.<br />
Inoltre, la Bolivia possiede la foresta tropicale secca più estesa al<br />
mondo nella regione del Gran Chaco e circa 250.000 km² sono savane<br />
alluvionali, pantani e savane secche.<br />
Nel territorio boliviano, nella zona meridionale, esistono inoltre grandi<br />
laghi amazzonici, i più estesi della regione.<br />
La zona andina del Paese è situata nella parte occidentale. È<br />
caratterizzata da un plateau delimitato da due catene montuose: la<br />
Cordillera Occidental prossima a quella Oriental.<br />
Sono numerose le cime superiori ai 6.000 metri, le più alte sono il<br />
Sajama (m. 6.542), l'Illampu (m. 6.421) e l'Illimani (m. 6.402).<br />
Secondo l'ultimo censimento del 2001 dell'Istituto Nazionale di<br />
Statistica (INE), la popolazione indigena rappresenta circa il 49,95%<br />
della popolazione totale. Percentuale che arriva al 73,20% se<br />
consideriamo le sole zone rurali.<br />
Secondo il CIA World Factbook 2006, la popolazione boliviana è<br />
costituita dai seguenti gruppi etnici: quechua 30%, aymara 25%,<br />
meticci 30%, europei 15%. 47<br />
In realtà, in Bolivia esistono circa 40 diversi gruppi etnici che sono<br />
per la maggior parte ignorati da questi dati perchè abitanti originari<br />
principalmente nelle pianure tropicali della Bolivia orientale.<br />
In Bolivia gli abitanti nati nelle regioni orientali tropicali, siano essi di<br />
origine europea, meticci o indigeni, vengono colloquialmente chiamati<br />
“camba”. Parimenti gli abitanti delle regioni andine, vengono definiti,<br />
anche se spesso in forma dispregiativa, “colla”. Oggi questa<br />
distinzione non è più così netta come negli anni passati, le culture si<br />
sono intrecciate ma si possono inquadrare subito le differenze<br />
nell’abbigliamento femminile tipico delle due popolazioni.<br />
Le donne “camba” portano sempre una gonna di un tessuto simile al<br />
velluto lunga fino alle ginocchia e una camicetta bianca con un grande<br />
colletto di pizzo, completano il loro abito indossando un grembiule<br />
47 Ibid.<br />
55
legato alla cinta genericamente a quadretti. I lunghi capelli neri, che<br />
accompagnano i lineamenti tipici, vengono raccolti in lunghe trecce.<br />
Le donne “colla”, residenti nelle parti montuose e abituate a<br />
temperature rigide, portano le gonne di lana lunghe fino alle caviglie,<br />
indossano dei maglioni e si coprono le spalle con dei mantelli oppure<br />
con un poncho di lana di lama. Anche queste donne portano il<br />
grembiule sopra la gonna ma i capelli neri vengono legati a “cipolla”<br />
sulla testa e coperti da un cappellino a bombetta che in Europa è<br />
tipicamente maschile.<br />
Donna Camba<br />
2.2.3.2 Economia<br />
Bisogna anche ricordare e fare un piccolo cenno anche alle attività<br />
economiche della Bolivia.<br />
Le attività industriali sono incipienti e la Bolivia continua ad essere un<br />
importatore netto di prodotti finiti, molti dei quali entrano nel paese di<br />
contrabbando da tutte le grandi potenze che la circondano.<br />
56<br />
Donna Colla
Nonostante le difficoltà strutturali della Bolivia rispetto alla sua<br />
posizione territoriale e grazie ad una scadente rete stradale e<br />
ferroviaria, in questi ultimi anni, a causa del basso costo della<br />
manodopera e delle irrilevanti garanzie sociali per i lavoratori, sono<br />
aumentate notevolmente le attività manifatturiere.<br />
Nella città di El Alto si sono sviluppate le industrie tessili e di altre<br />
manifatture principalmente destinate all'esportazione. La città di Santa<br />
Cruz de la Sierra ha una fiorente industria alimentare, tessile e di<br />
materiali per la costruzione.<br />
Due le raffinerie di petrolio, a Santa Cruz de la Sierra e a Cochabamba<br />
che rimangono le due fortezze economiche della Bolivia per le<br />
trattative con gli altri stati.<br />
Negli ultimi anni hanno acquistato peso la trasformazione di materie<br />
prime di origine forestale per l'esportazione, come il legno pregiato<br />
(mogano e cedro principalmente) e la noce del Brasile.<br />
L'agricoltura ha subito notevoli trasformazioni negli ultimi decenni,<br />
principalmente dopo la riforma agraria del 1953. Da un'attività quasi<br />
esclusivamente di sussistenza, si è trasformata in uno dei motori<br />
economici più importanti del paese. Le attività agricole si sono<br />
sviluppate soprattutto nelle terre orientali tropicali dove il territorio<br />
pianeggiante facilita le coltivazioni e dove, in alcune zone gran parte<br />
delle foreste originarie sono state rimosse per far spazio ad aree<br />
coltivabili.<br />
Attualmente la Bolivia è uno dei principali esportatori mondiali di<br />
soya, molta della quale di origine transgenica. Esporta inoltre sorgo,<br />
zucchero, cotone, girasole, sesamo ed altre piante oleaginose.<br />
La maggior parte di questi prodotti verranno poi destinati dagli<br />
importatori per l'alimentazione animale.<br />
Nelle aree tropicali si coltiva anche il riso, la coca, la manioca, il mais,<br />
il banano (consiste in una variante della banana, commestibile solo<br />
dopo cottura, con le sue varianti ricche in amidi è conosciuta in<br />
Europa come platano) e moltissimi altri prodotti.<br />
57
Dalle foreste si estraggono il caucciù e la noce del Brasile, di cui la<br />
Bolivia è, nonostante il nome, il principale esportatore mondiale.<br />
Nelle aree “andine” l'agricoltura è principalmente di sussistenza e<br />
destinata al commercio interno; si coltivano ortaggi, patate, un tubero<br />
chiamato “oca”, mais, orzo, grano e la quinoa (una pianta erbacea<br />
simile agli spinaci e alla barbabietola).<br />
Per quanto riguarda l'allevamento, il più diffuso è quello dei bovini,<br />
sia nelle estese savane tropicali sia nei pascoli andini. Numerosi anche<br />
gli ovini, caprini e suini.<br />
Molto importante l'allevamento di volatili che vengono anche esportati<br />
ad alcuni paesi limitrofi. L'allevamento dei camelidi, come il lama e la<br />
vigogna, è frequente in isolate aree andine.<br />
Lama<br />
L’ultimo ambito economico che secondo Ignacia era giusto trattare era<br />
quello legato alla sanità, visto che dovevamo essere a conoscenza<br />
anche di quella situazione nel caso il cui ce ne sarebbe stato bisogno.<br />
Il sistema sanitario pubblico è altamente carente, sia per quanto<br />
riguarda i macchinari essenziali per le cure derivati dagli eccessivi<br />
costi delle attrezzature, sia per le risorse umane in quanto l’educazione<br />
58
scolastica di un figlio per diventare medico, impone una grande spesa<br />
economica per la famiglia.<br />
Gli aventi diritto al sistema sanitario devono comunque, nella maggior<br />
parte dei casi, pagare tutte le medicine anche durante il ricovero<br />
ospedaliero. Non esistono medici curanti convenzionati e le visite<br />
vengono effettuale solo all'interno delle strutture sanitarie pubbliche.<br />
Per quanto riguarda le operazioni chirurgiche gravi e d’urgenza i<br />
pazienti devono spostarsi nelle grandi città oppure aspettare il turno<br />
del chirurgo nell’ospedale. Bisogna ricordare che la miseria a volte<br />
costringe le persone a lunghe attese e che il più delle volte, vengono<br />
anticipate le cure dalla morte.<br />
Dopo aver parlato del sistema sanitario della nazione, siamo entrate<br />
nel discorso legato alle vaccinazioni obbligatorie per il sud america<br />
che avremmo dovuto fare per entrare nella nazione boliviana.<br />
Le due vaccinazioni obbligatorie ed essenziali erano contro la Febbre<br />
Gialla e la malaria. Per far fronte ai problemi legati allo stress del<br />
viaggio e al cambiamento dei ritmi di vita oltre che alle abitudini<br />
alimentari Ignacia, ci consigliò di fare anche l’antiepatite A per evitare<br />
la, così definita in campo medico, “diarrea del viaggiatore”.<br />
Successivamente parlammo della lingua, infatti in Bolivia si parla lo<br />
Spagnolo o meglio il Catalano; Ignacia ci rassicurò dicendoci che<br />
l’avremmo imparato dopo pochi giorni perché è molto simile<br />
all’italiano essendo una lingua di origine latina.<br />
Ci consegnò una fotocopia e si raccomandò di portarla con noi perchè<br />
riuniva le cinque preghiere fondamentali in lingua catalana, utili per i<br />
momenti di preghiera comunitaria con le missionarie.<br />
L’ultimo punto che toccammo prima di congedarci era quello legato<br />
alla musica; Ignacia ci raccontò che i boliviani, come tutti i sud<br />
americani amano la musica inserendola dappertutto e ci ha<br />
preannunciato che, facendoci l’esempio delle messe, i canti sono<br />
molto più ritmati e pieni di coreografie che portano tutti i fedeli ad<br />
unirsi in un grande ballo di gruppo. Terminammo proprio con una<br />
59
curiosità il nostro incontro, ascoltando alcuni brani boliviani per farci<br />
capire i suoni e i ritmi della loro musica.<br />
Infine, presa in mano la fotocopia con le preghiere in catalano,<br />
decidemmo di recitare insieme il Padre Nostro in spagnolo.<br />
Padre Nuestro,<br />
que astás en el cielo,<br />
santificado sea tu nombre;<br />
venga a nosotros tu reino;<br />
hágase tu voluntad en la tierra como en el cielo.<br />
Danos hoy nuestro pan de cada dia;<br />
perdona nuestras ofensas,<br />
como también nosotros perdonamos a los que nos ofenden;<br />
non nos dejes caer en la tentación, y lìbranos del mal.<br />
Amén.<br />
2.2.4 La nostra specifica azione missionaria<br />
Mentre, nel primo e nel secondo incontro, si è parlato della missione<br />
della Chiesa e della Spiritualità del missionario, ora, nel quarto<br />
incontro, ci è stata presentata e spiegata la specifica azione<br />
missionaria della consacrazione delle missionarie di Padre Kolbe.<br />
“Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura”<br />
60<br />
Marco 16,15<br />
Chiamate a vivere la pienezza del battesimo nella secolarità e a<br />
tendere alla perfezione dell’amore, le “Missionarie dell’Immacolata –<br />
Padre Kolbe”, sono da Dio stabilmente consacrate con il dono della
Spirito per realizzare nella Chiesa e nel mondo una presenza mariana<br />
e missionaria.<br />
La loro azione missionaria nasce da uno sguardo di fede verso il Dio<br />
vivente, il quale, vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla<br />
conoscenza della verità.<br />
Per questo, in profonda comunione con la Chiesa e con tutti i membri<br />
della Comunità, vivono l’impegno missionario dell’Istituto come un<br />
mandato che la Chiesa ha dato loro e per il quale si sentono inviate a<br />
orientare a Cristo il cuore degli uomini, sia con la loro vita di<br />
consacrate secolari, sia attraverso l’evangelizzazione e la promozione<br />
umana che da essa deriva.<br />
La loro azione di evangelizzazione e promozione umana, espressione<br />
della natura missionaria della Chiesa, si ispira alla genuina tradizione<br />
francescana, che San Massimiliano Kolbe ha sviluppato e attualizzato<br />
con straordinario spirito profetico.<br />
Sul suo esempio operano con vari mezzi suggeriti dalla creatività e<br />
dall’amore, valorizzando in modo speciale quelli evangelici e quelli<br />
propri della famiglia spirituale.<br />
Il loro servizio apostolico le pone a contatto con tutti i gradi della vita<br />
sociale, ma rivolgono una particolare attenzione ai fratelli<br />
spiritualmente e moralmente più poveri e bisognosi. Sull’esempio di<br />
Maria, definita “stella dell’evangelizzazione”, si pongono accanto<br />
agli altri con profondo senso di misericordia e di comprensione, di<br />
pazienza e di fiducia, di rispetto e di oggettivo apprezzamento del loro<br />
bene.<br />
Valentina, in questo modo, ci delineò i tratti della loro azione<br />
missionaria; successivamente ci consegnò un foglietto sul quale era<br />
scritte due domande che avrebbero aiutato un confronto nel gruppo.<br />
La prima domanda chiedeva di dire quale parole del Vangelo ci<br />
portiamo nel cuore, la seconda domandava il motivo della scelta di<br />
fare il volontario missionario.<br />
61
La parola, o affermazione di Gesù, che io mi porto nel cuore e che mi<br />
aiuta nei servizi che offro in parrocchia è “Lasciate che i bambini<br />
vengano a me”. Lasciate che i più piccoli, i fanciulli dall’animo puro<br />
ed incontaminato si avvicinino alla grandezza di Gesù, che sappiano<br />
ascoltare i suoi insegnamenti. Quello che ci vuole dire Gesù è che per<br />
ascoltare la sua parola dobbiamo ritrovare uno spirito fanciullesco,<br />
pieno di umiltà e purezza.<br />
Quando Valentina mi chiese di rispondere alla seconda domanda<br />
rimasi un po’ sconcertata perché in quegli incontri la mia mente si era<br />
aperta e avevo scoperto delle cose nuove a cui prima non avevo mai<br />
pensato e non avevo dato peso. Perché scelgo di fare proprio un<br />
volontariato missionario? Dopo un momento di silenzio io dissi che in<br />
quel momento della mia vita non sapevo che cosa fosse giusto fare; se<br />
continuare a studiare oppure immergermi nel mondo del lavoro.<br />
Cercavo nell’esperienza una risposta alle miei tante domande.<br />
Valentina disse che sicuramente mi avrebbe aiutato molto per<br />
prendere una decisione. Aggiunsi anche che per me quest’avventura<br />
era una sfida con me stessa, sul mio grado di maturità e di coraggio.<br />
L’idea di evangelizzare non mi spaventava perché era un po’ come<br />
fare catechismo e l’unico ostacolo grande era la lingua.<br />
Dopo di me, anche gli altri presero la parole e dopo aver ripetuto<br />
insieme il Padre Nostro in catalano, tornammo a casa dandoci<br />
appuntamento al prossimo incontro.<br />
2.2.5 Massimiliano Kolbe: un compagno di viaggio<br />
Nel quinto incontro, imparammo finalmente a conoscere un po’ più da<br />
vicino, la figura del Santo su cui si fonda la consacrazione delle<br />
missionarie.<br />
Se non è il primo è senz’altro fra i primi ad essere stato beatificato e<br />
poi canonizzato fra le vittime dei campi di concentramento tedeschi. Il<br />
62
papa Giovanni Paolo II ha detto di lui, che con il suo martirio egli ha<br />
riportato “la vittoria mediante l’amore e la fede, in un luogo costruito<br />
per la negazione della fede in Dio e nell’uomo”.<br />
San Massimiliano Kolbe<br />
Massimiliano Kolbe nacque il 7 gennaio 1894 a Zdunska-Wola in<br />
Polonia, da ferventi genitori cristiani; il suo nome al battesimo fu<br />
quello di Raimondo.<br />
A causa delle scarse risorse finanziarie solo il primogenito poté<br />
frequentare la scuola, mentre Raimondo cercò di imparare qualcosa<br />
tramite un prete e successivamente con il farmacista del paese.<br />
Nella zona austriaca, a Leopoli, si stabilirono i francescani, i quali,<br />
conosciuti i Kolbe, proposero ai genitori di accogliere nel loro<br />
collegio i primi due fratelli più grandi; essi consci che nella zona russa<br />
dove risiedevano non avrebbero potuto dare un indirizzo e una<br />
formazione intellettuale e cristiana ai propri figli, a causa del regime<br />
imperante, accondiscesero; anzi liberi ormai della cura dei figli, il 9<br />
luglio 1908, decisero di entrare loro stessi in convento.<br />
Anche il terzo figlio Giuseppe dopo un periodo in un pensionamento<br />
benedettino, entrò fra i francescani. I due fratelli Francesco e<br />
Raimondo dal collegio passarono entrambi nel noviziato francescano,<br />
ma il primo, successivamente ne uscì dedicandosi alla carriera<br />
63
militare, prendendo parte alla Prima Guerra Mondiale e scomparendo<br />
in un campo di concentramento.<br />
Raimondo divenuto Massimiliano, dopo il noviziato fu inviato a<br />
Roma, dove restò sei anni, laureandosi in filosofia all’Università<br />
Gregoriana e in teologia al Collegio Serafico e venendo ordinato<br />
sacerdote il 28 aprile 1918.<br />
Massimiliano Kolbe non ancora sacerdote, fondava con il permesso<br />
dei superiori la “Milizia dell’Immacolata”, associazione religiosa per<br />
la conversione di tutti gli uomini per mezzo di Maria.<br />
Ritornato in Polonia a Cracovia, pur essendo laureato a pieni voti, a<br />
causa della malferma salute, era praticamente inutilizzabile<br />
nell’insegnamento o nella predicazione, non potendo parlare a lungo;<br />
per cui con i permessi dei superiori e del vescovo, si dedicò alla<br />
“Milizia dell’Immacolata”, raccogliendo numerose adesioni fra i<br />
religiosi del suo Ordine, professori e studenti dell’Università,<br />
professionisti e contadini.<br />
Alternando periodi di riposo a causa della tubercolosi che avanzava,<br />
padre Kolbe fondò a Cracovia verso il Natale del 1921, un giornale di<br />
poche pagine “Il Cavaliere dell’Immacolata” per alimentare lo spirito<br />
e la diffusione della “Milizia”.<br />
A Grondo, a 600 km da Cracovia, dove era stato trasferito, impiantò<br />
l’officina per la stampa del giornale, con vecchi macchinari, ma che<br />
con stupore attirava molti giovani, desiderosi di condividere quella<br />
vita francescana e nel contempo la tiratura della stampa aumentava<br />
sempre più. A Varsavia con la donazione di un terreno da parte di un<br />
conte, fondò “Niepokalanow”, la ‘Città di Maria’; quello che avvenne<br />
negli anni successivi, ha del miracoloso, dalle prime capanne si passò<br />
ad edifici in mattoni, dalla vecchia stampatrice, si passò alle moderne<br />
tecniche di stampa e composizione, dai pochi operai ai 762 religiosi di<br />
dieci anni dopo, il “Cavaliere dell’Immacolata” raggiunse la tiratura di<br />
milioni di copie, a cui si aggiunsero altri sette periodici.<br />
64
Con il suo ardente desiderio di espandere il suo Movimento mariano<br />
oltre i confini polacchi, sempre con il permesso dei superiori si recò in<br />
Giappone, dove dopo le prime incertezze, poté fondare la “Città di<br />
Maria” a Nagasaki; il 24 maggio 1930 aveva già una tipografia e si<br />
spedivano le prime diecimila copie de “Il Cavaliere” in lingua<br />
giapponese.<br />
In questa città si rifugeranno gli orfani di Nagasaki, dopo l’esplosione<br />
della prima bomba atomica; collaborando con ebrei, protestanti,<br />
buddisti, era alla ricerca del fondo di verità esistente in ogni religione;<br />
aprì una Casa anche in India sulla costa occidentale. Per poterlo curare<br />
della malattia, fu richiamato in Polonia a Niepokalanow, che era<br />
diventata nel frattempo una vera cittadina operosa intorno alla stampa<br />
dei vari periodici, tutti di elevata tiratura, con i 762 religiosi, vi erano<br />
anche 127 seminaristi.<br />
Ma ormai la Seconda Guerra Mondiale era alle porte e padre Kolbe,<br />
presagiva la sua fine e quella della sua Opera, preparando per questo i<br />
suoi confratelli; infatti dopo l’invasione del 1° settembre 1939, i<br />
nazisti ordinarono lo scioglimento di Niepokalanow; a tutti i religiosi<br />
che partivano spargendosi per il mondo, egli raccomandava “Non<br />
dimenticate l’amore”, rimasero circa 40 frati, che trasformarono la<br />
‘Città’ in un luogo di accoglienza per feriti, ammalati e profughi.<br />
Il 19 settembre 1939, i tedeschi prelevarono padre Kolbe e gli altri<br />
frati, portandoli in un campo di concentramento, da dove furono<br />
inaspettatamente liberati l’8 dicembre; ritornati a Niepokalanow,<br />
ripresero la loro attività di assistenza per circa 3500 rifugiati di cui<br />
1500 erano ebrei, ma durò solo qualche mese, poi i rifugiati furono<br />
dispersi o catturati e lo stesso Kolbe, dopo un rifiuto di prendere la<br />
cittadinanza tedesca per salvarsi, visto l’origine del suo cognome, il 17<br />
febbraio 1941 insieme a quattro frati, venne imprigionato.<br />
Dopo aver subito maltrattamenti dalle guardie del carcere, indossò un<br />
abito civile, perché il saio francescano li adirava moltissimo. Il 28<br />
maggio fu trasferito ad Auschwitz, tristemente famoso come campo di<br />
65
sterminio, i suoi quattro confratelli l’avevano preceduto un mese<br />
prima; fu messo insieme agli ebrei perché sacerdote, con il numero<br />
16670 e addetto ai lavori più umilianti come il trasporto dei cadaveri<br />
al crematorio.<br />
La sua dignità di sacerdote e uomo retto primeggiava fra i prigionieri,<br />
un testimone disse: “Kolbe era un principe in mezzo a noi”. Alla fine<br />
di luglio fu trasferito al Blocco 14, dove i prigionieri erano addetti alla<br />
mietitura nei campi; uno di loro riuscì a fuggire e secondo<br />
l’inesorabile legge del campo, dieci prigionieri vennero destinati al<br />
bunker della morte. Con lo stupore di tutti i prigionieri e degli stessi<br />
nazisti, Padre Massimiliano esce dalle file e si offre in sostituzione di<br />
uno dei condannati, un giovane sergente polacco.<br />
La disperazione che s’impadronì di quei poveri disgraziati, venne<br />
attenuata e trasformata in preghiera comune, guidata da padre Kolbe e<br />
un po’ alla volta essi si rassegnarono alla loro sorte; morirono man<br />
mano e le loro voci oranti si ridussero ad un sussurro; dopo 14 giorni<br />
non tutti erano morti, rimanevano solo quattro ancora in vita, fra cui<br />
padre Massimiliano, allora le SS decisero, che giacché la cosa andava<br />
troppo per le lunghe, di abbreviare la loro fine con una iniezione di<br />
acido fenico; il francescano martire volontario, tese il braccio dicendo<br />
“Ave Maria”, furono le sue ultime parole, era il 14 agosto 1941.<br />
Le sue ceneri si mescolarono insieme a quelle di tanti altri condannati,<br />
nel forno crematorio; così finiva la vita terrena di una delle più belle<br />
figure del francescanesimo della Chiesa polacca. Il suo fulgido<br />
martirio gli ha aperto la strada della beatificazione, avvenuta il 17<br />
ottobre 1971 con papa Paolo VI e poi è stato canonizzato il 10 ottobre<br />
1982 da papa Giovanni Paolo II, suo concittadino proclamando che<br />
"San Massimiliano non morì, ma diede la vita...." 48 .<br />
48 Ved.<br />
http://www.kolbemission.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/145<br />
66
Le missionarie seguono l’esempio di questo Santo per questo coraggio<br />
e per la sua infinita fede, testimone della vita che vince la morte e<br />
della devozione completa ai fratelli.<br />
“Solo l’amore crea”<br />
2.2.6 “E la prese con sé”<br />
67<br />
San Massimiliano Kolbe<br />
L’ultimo incontro fu principalmente al femminile in quanto parlammo<br />
della figura di Maria, madre di Gesù, personaggio biblico e<br />
fondamento nella vita missionaria. Partimmo leggendo il classico<br />
brano dell’annunciazione scritto dall’evangelista Luca.<br />
“In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città<br />
della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un<br />
uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava<br />
Maria. Entrando da lei, disse: "Rallègrati, piena di grazia: il Signore<br />
è con te".<br />
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse<br />
un saluto come questo. L’angelo le disse: "Non temere, Maria, perché<br />
hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai<br />
alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio<br />
dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e<br />
regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà<br />
fine".<br />
Allora Maria disse all’angelo: "Come avverrà questo, poiché non<br />
conosco uomo?". Le rispose l’angelo: "Lo Spirito Santo scenderà su<br />
di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò<br />
colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco,<br />
Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un
figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è<br />
impossibile a Dio".<br />
Allora Maria disse: "Ecco la serva del Signore: avvenga per me<br />
secondo la tua parola". E l’angelo si allontanò da lei.”<br />
68<br />
Luca 1, 26-38<br />
“Lasciarsi andare”, “abbandonarsi alla volontà di Dio”, “serva del<br />
Signore”, “ultima fra le ultime ma prima tra le prime”; sono solo<br />
alcune delle piccole frasi che ricordano Maria.<br />
Ogni volta che si pensa a lei, si pensa alla figura della mamma, che<br />
cura, che cresce, che accompagna e che non abbandona.<br />
La figura della Madonna non può essere vista solo da questa<br />
prospettiva perché è stata anche una persona che ha sofferto, che ha<br />
avuto dei momenti di insicurezza e di paura; ma la sua fede è sempre<br />
stata grande, ha sempre acconsentito la volontà del Signore<br />
diventando strumento del suo amore.<br />
Prenderla d’esempio è come aprire una porta della propria esistenza ad<br />
una presenza tenera discreta e delicata che ti cammina accanto e<br />
prendendoti per mano ti conduce dal suo figlio Gesù. Le missionarie si<br />
affidano alla sua protezione, come un mantello che le conduce e che le<br />
affianca nelle difficili sfide di ogni giorno.<br />
La figura di Maria guiderà i nostri passi in terra straniera. Valentina ci<br />
disse che, nel mese di missione, per noi, è stato pensato un cammino<br />
che ha come tappa finale, per chi la vorrà fare, la Consacrazione alla<br />
Madonna.<br />
Per concludere insieme l’ultimo incontro, Valentina ci chiese di<br />
scrivere una piccola invocazione per la preghiera conclusiva sulla<br />
nascita. Io scrissi queste parole: “Per tutti i bambini che nasceranno,<br />
perché riescano il prima possibile a scoprire Maria e ad affidarsi<br />
totalmente a lei e così facendo possano camminare lungo il sentiero<br />
della vita con serenità, umiltà e dolcezza.”
Ci alzammo in piedi e ognuno lesse la sua preghiera, dopo di che,<br />
recitammo insieme un’ Ave Maria sia in italiano sia in catalano.<br />
Finito l’incontro nel tardo pomeriggio di un sabato di giugno, ci<br />
avviammo verso la Chiesa dove, Padre Faccenda, durante la messa<br />
vespertina ci avrebbe consegnato il mandato missionario. Durante la<br />
celebrazione fummo chiamati davanti all’altare per nome e ci<br />
impegnammo a portare la buona novelle in quelle terre dimenticate dal<br />
mondo, partendo a mani vuote con solo il Vangelo sulle labbra. Il<br />
sacerdote benedì dei crocifissi (Tao) che legammo intorno al collo<br />
come segno di annunciatori della potenza e sapienza di Dio.<br />
Erano presenti anche dei miei famigliari per starmi vicino in questo<br />
momento, anche se non ancora molto convinti della mia partenza.<br />
Finita la celebrazione ci organizzammo per ritrovarci un’ultima volta<br />
prima della partenza per la consegna del biglietto aereo e per le ultime<br />
cose da programmare. Ritornai a casa piena di gioia, convinzione e<br />
orgoglio per tutto quello che stavo costruendo da sola.<br />
2.3 Il viaggio in Bolivia<br />
2.3.1 Partenza<br />
Dopo il corso di preparazione, finito i primi di giugno con il mandato<br />
missionario, continuammo a tenerci in contatto con le missionarie<br />
attraverso la posta elettronica. Un giorno Raffaella mi scrisse che<br />
erano arrivati i biglietti e che avrebbe dovuto vederci per<br />
consegnarceli. Per questo motivo ci siamo ritrovati una sera della<br />
prima settimana di luglio per finire gli ultimi preparativi.<br />
Raffaella e Valentina ci consegnarono ad ognuno i biglietti e tutti i<br />
documenti indispensabili per la partenza e a turno pagammo il nostro<br />
corrispettivo volo.<br />
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Finalmente avevo il biglietto dell’aereo tra le mie mani; la partenza<br />
era fissata per il giorno 30 luglio 2005 e il rientro per il 31 agosto<br />
2005.<br />
Il giorno dopo che mi erano stati consegnati i biglietti mi sono<br />
presentata all’ospedale per fare tutte le vaccinazioni consigliate e<br />
all’ufficio anagrafico del comune di Vignola per fare il passaporto.<br />
Tutto era pronto, bisognava solo dare l’esame di maturità e preparare<br />
le valige.<br />
Tutto filò per il verso giusto e arrivò il 30 luglio. Ci ritrovammo tutti<br />
insieme all’aeroporto alle 16.30 per essere tutti puntuali e non<br />
rischiare di perdere il volo delle 18.15. Dopo aver fatto il chek-in ci<br />
venne presentata da Raffaella e Valentina la missionaria che sarebbe<br />
venuta con noi; Rosa, una missionaria di Bari, giovane ed energica<br />
che si inserì subito nel nostro gruppo.<br />
Finalmente giunse il momento di partire, i miei genitori mi<br />
accompagnarono fino a dove era possibile e con gli occhi pieni di<br />
lacrime mia madre mi disse per l’ultima volta di stare attenta e di fare<br />
a modo.<br />
Il viaggio era stato organizzato dalla compagnia che si occupa dei<br />
viaggi dei missionari o dei volontari: la BBC Service Missionary<br />
Voluntary Travel mentre la compagnia con cui viaggiammo fino a San<br />
Paolo era la Lufthansa.<br />
Entrati nel gate e consegnato il primo biglietto salimmo sul primo<br />
aereo che da Bologna ci avrebbe portato all’aeroporto di Francoforte<br />
dopo un’ora e mezzo di viaggio.<br />
Arrivati a Francoforte alle 19.50, scendemmo dall’aereo e ci<br />
posizionammo davanti ad un altro gate per aspettare il volo delle<br />
21.45 per San Paolo. Questo era il volo dell’attraversata, il volo più<br />
lungo, ci aspettavano undici ore e mezza di volo. Preso l’aereo,<br />
arrivammo a San Paolo alle 4.30 di mattina del 31 di luglio, che<br />
aggiungendo le sei ore di fuso orario è come se arrivammo alle 10. 30<br />
della mattina seguente (ora italiana).<br />
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Città di San Paolo dall'alto<br />
Il nostro viaggio non era ancora finito perché ci mancava l’ultimo<br />
volo, quello che dal Brasile ci avrebbe portato il Bolivia. Dalle 4.30 di<br />
mattina ci toccò di aspettare il volo delle 16.00 chiusi dentro<br />
all’aeroporto. Il tempo sembrava non passare mai e io ne approfittai<br />
per dormire un po’ visto che durante il volo dell’attraversata non<br />
riuscii a riposarmi bene.<br />
Arrivata l’ora, ci dirigemmo verso il gate e prendemmo l’ultimo volo.<br />
Ero emozionantissima perché ero quasi arrivata e non sapevo<br />
assolutamente cosa mi sarebbe successo nelle prossime ore. L’aereo ci<br />
avrebbe portato da San Paolo a Santa Cruz e partendo alle 16.00<br />
saremmo arrivati alle 17.45 dopo due ore di viaggio.<br />
Viaggiammo con l’Aerosur, compagnia locale per i voli interni al Sud<br />
America, e arrivammo a Viru Viru, questo era il nome dell’aeroporto<br />
di Santa Cruz.<br />
Arrivati e scesi dall’aereo, ci accingemmo a prendere i bagagli,<br />
sperando, che dopo tutti gli scali fossero riusciti ad arrivare integri.<br />
Fortunatamente arrivarono i bagagli di tutti sani e salvi e dopo esserci<br />
radunati Mirco consegnò a tutti una bandiera italiana che aveva<br />
71
preparato proprio per quel momento e ci disse di iniziare a sventolarla.<br />
Uscimmo dall’aeroporto agitando tutte le bandiere e le missionarie<br />
che erano venute a prenderci erano già nella sala d’attesa e appena ci<br />
riconobbero ci corsero incontro.<br />
Erano due missionarie italiane, Simonetta e Alicia, che ci salutarono e<br />
consegnarono ad ognuno di noi una bandierina Boliviana<br />
ringraziandoci della nostra presenza e ci accompagnarono alle<br />
macchiane per caricare i bagagli e dirigerci al centro missionario.<br />
2.3.2 Arrivo<br />
Quando uscimmo dall’aeroporto il sole stava tramontando e il cielo<br />
era di un colore giallognolo, il profumo dell’aria era particolare e<br />
ricordava il sapore dello zucchero sciolto. Ai nostri occhi si presentò<br />
una zona molto brulla e polverosa, piena di cespugli ed erba secca.<br />
Arrivati alle macchine caricammo i nostri bagagli sopra il cassone di<br />
un fiorino bianco, che successivamente ci venne spiegato che loro lo<br />
chiamano “camionetta” mentre noi prendemmo posto su un piccolo<br />
pulmino che non aveva limitazioni di posti legati all’omologazione.<br />
Partimmo verso la casa delle missionarie e mentre viaggiavamo,<br />
Simonetta ci spiegava un po’ di cose su quello che i nostri occhi<br />
vedevano al di fuori dei finestrini. Ricordo benissimo il susseguirsi di<br />
baracche lunga le strada, che vendevano frutta, verdura.<br />
Ormai erano le 21.00 e vicino alle strade c’erano ancora tantissimi<br />
bambini che passeggiavano in gruppetti senza nessun adulto che li<br />
seguisse. Passando notammo che davanti alle porte delle case si<br />
ritrovavano dei gruppetti di uomini che sorseggiavano animatamente<br />
della birra. La missionaria ci spiego che, per quanto riguarda i<br />
bambini, a volte erano le stesse madri che li cacciavano da casa per<br />
difenderli dai padri, perchè il più delle volte ritornando a casa ubriachi<br />
facilmente alzavano le mani con chiunque si trovavano davanti della<br />
famiglia.<br />
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Le strade principali erano asfaltate, mentre quelle secondarie erano<br />
battute e polverose.<br />
Finalmente arrivammo a Montero, la città, in provincia di Santa Cruz,<br />
che ci avrebbe ospitato in questo mese di permanenza.<br />
Ormai era buio e difficilmente si riusciva a vedere il paesaggio che<br />
stavamo attraversando, le uniche cose che si vedevano erano le case<br />
che davano sulle strade illuminate da alcuni lampioni.<br />
Le case erano molto povere, alcune erano fatte di mattoni e altre erano<br />
delle baracche fatte con del legno o dei materiali di fortuna come teli o<br />
lamiere.<br />
Mentre passavamo Simonetta capì subito quello che stavamo<br />
osservando e ci spiegò che il più delle volte coloro che si possono<br />
permettere la casa di mattoni sono per la maggior parte<br />
narcotrafficanti di cocaina.<br />
Rimasi molto spiazzata da questa notizia perché pensai subito a<br />
quanto siamo fortunati ad aver una casa, il riscaldamento, le finestre e<br />
tutto quello che possediamo.<br />
Più Simonetta ci spiegava le realtà del posto, più nel pulmino crebbe il<br />
silenzio, una quiete che metteva molta tristezza perché il cuore di tutti<br />
noi volontari gemeva sempre di più alla vista di tutta quella miseria.<br />
Il pulmino si fermò davanti ad un alto cancello, Simonetta scese e lo<br />
aprì, entrammo con la macchina e un gruppetto di sette missionarie<br />
uscì e ci saluto con grande gioia.<br />
Cristina, Lucia, Vicky, Laida, Andrea, Raquelita, Marisa, Simonetta e<br />
Alicia sono i nomi delle missionarie del Centro missionario di<br />
Montero. Dopo averci aiutato a scaricare i bagagli ci indicarono quale<br />
sarebbe stato il nostro alloggio, ci avviammo lungo un sentierino di<br />
mattoni e arrivammo davanti ad un edificio di pietra.<br />
Entrati trovammo uno striscione con scritto “Bolivia los recibe con<br />
mucho cariño” ovvero “Bolivia è molto felice di accogliervi”.<br />
Salimmo le scale e ci vennero mostrate le camere; io avrei diviso la<br />
camera con Angela e Vanessa. Su ogni letto c’era una cartolina e sul<br />
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etro di ognuna era scritta una breve dedica. Sulla mia era stato scritto<br />
il seguente messaggio: “Che Bolivia possa conquistare per sempre il<br />
tuo cuore. Buona permanenza e grazie per esserci.”, accompagnata da<br />
tutte le firme delle missionarie.<br />
Dopo aver aspettato che ognuno portasse i bagagli nelle camere, ci<br />
ritrovammo in una sala per le presentazioni, una piccola e veloce<br />
preghiera comunitaria e poi ci coricammo.<br />
Mi ritrovai nella mia stanza, molto semplice ma con il necessario, e<br />
con le mie compagne di stanza sistemammo le nostre cose e finimmo<br />
per addormentarci pensando a che cosa avevano in serbo per noi le<br />
missionarie il giorno seguente.<br />
La mattina mi svegliai presto perché ero molto emozionata e dopo<br />
essermi preparata feci un giretto all’interno della mia nuova casa.<br />
Scesi li scale e tenuta la destra mi ritrovai tre porte; in una c’era uno<br />
sgabuzzino che conteneva tutti gli attrezzi necessari per la pulizia<br />
della casa,una lavatrice e un lavabo. Dietro la porta che si trovava di<br />
fronte a me c’era la cucina; entrata, scorsi, sulla sinistra, la sala da<br />
pranzo. Tornata indietro sentii delle voci provenire da fuori e così<br />
uscii; mi corse subito incontro un bambino di circa tre anni con un<br />
pallone in mano che iniziò a parlarmi ma io non capivo assolutamente<br />
niente di quello che mi diceva. Successivamente capii che voleva<br />
giovare con me a pallone. Iniziammo a giocare ma poco dopo uscì<br />
Simonetta che mi salutò e mi disse che tra poco sarebbero iniziate le<br />
lodi nella cappella del centro.<br />
74
Io e il bambino continuammo a giocare un altro po’ nel giardino ma<br />
poi raggiunsi le missionarie. Entrata nell’edificio dove ci avevano<br />
accolto al nostro arrivo, mi ritrovai nella cucina dove una ragazza<br />
boliviana era intenta a preparare la colazione e dopo avermi salutato<br />
mi fece cenno di andare. Passai la sala della sera prima e poi mi<br />
ritrovai in un corridoio, continuai a camminare e mi ritrovai la<br />
cappellina alla destra di un grande salone.<br />
La cappella non era molto grande ed era molto spoglia, un altare e un<br />
piccolo tabernacolo rialzati su un gradino con una statua della<br />
Madonna sulla destra e una decina di banchi ordinati su due file posti<br />
di fronte all’altare. Nella stanza c’era sempre una luce giallastra che<br />
rendeva l’ambiente accogliente e caloroso. Iniziammo a dire le lodi in<br />
lingua catalana e come prima volta non riuscii a capire perfettamente<br />
quello che recitavamo.<br />
A colazione ci trovammo tutti nella sala da pranzo e Jaquelin, la<br />
ragazza che avevo incontrato prima in cucina, ci portò quello che<br />
aveva preparato. Il bambino con cui avevo giocato a palla era suo<br />
figlio e le missionarie mi spiegarono che visto che lei non riesce a<br />
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trovare lavoro ogni tanto viene a preparare da mangiare in cambio di<br />
qualche soldo.<br />
Ricordo di aver mangiato, quella mattina, le “tortillas”, ovvero una<br />
specie di raviolo ripieno di un impasto a base di pollo, patate, carote e<br />
sedano.<br />
Finita la colazione ci trovammo tutti in una saletta dove Simonetta ci<br />
consegnò il programma per tutti i nostri giorni di permanenza e<br />
leggendo dal foglio, quel giorno, nella tarda mattinata, avremmo<br />
dovuto incontrare i giovani del collegio (scuola media superiore) che<br />
si stanno preparando a ricevere la S.Cresima.<br />
Arrivammo in un grande salone di una struttura che non avevo ancora<br />
visto perché era dietro alla nostra abitazione, erano state disposte più<br />
di un centinaio di sedie e presto vennero occupate da una moltitudine<br />
di ragazzi. Dopo aver aspettato che tutti si sedettero iniziammo<br />
l’incontro. Tutti si alzarono in piedi e un ragazzo iniziò a suonare con<br />
una tastiera una canzone che tutti conoscevano e tutti i ragazzi<br />
cominciarono a cantare e a creare delle coreografie con i gesti. Io<br />
rimasi allibita, perché, anche se preparata da Ignacia, mai, mi sarei<br />
aspettata questo genere di musica e quei balli. Visto che i gesti erano<br />
molto semplici e ripetitivi iniziammo a partecipare anche noi alle<br />
danze e ai canti e fu molto divertente.<br />
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Incontro con i giovani<br />
Finita la canzone, la missionaria riprese la parola e ci presentò ai<br />
giovani; ora era il loro momento di rimanere stupiti, non si<br />
aspettavano dei missionari italiani a quel incontro. Ci osservavano e ci<br />
sorridevano mentre Cristina raccontava loro chi eravamo e cosa<br />
facevamo in Italia. L’incontro aveva come tema principale la felicità e<br />
Cristina ci chiese di partecipare raccontando ai giovani cos’era per<br />
noi. Quando ognuno di noi prese la parola Cristina traduceva ai<br />
giovani quello che noi dicevamo e i ragazzi rimanevano attenti alle<br />
nostre parole.<br />
Finito l’incontro ci spostammo nel cortile adiacente alla struttura e ci<br />
fermammo a socializzare con i giovani.<br />
2.3.3 Montero<br />
Nel pomeriggio, dopo pranzo arrivò nel centro missionario un signore,<br />
il Prof. Pascual, che ci avrebbe portato a fare una visita turistica alla<br />
città di Montero. Pascual era Spagnolo, viveva a Montero da parecchi<br />
anni e ormai sapeva tutto di quella città, viveva con i frati domenicani<br />
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nella parrocchia aiutandoli nei lavori domestici e di manutenzione<br />
della Chiesa.<br />
Saliti sul pulmino, partimmo e le strade, viste alla luce del sole erano<br />
tutta un’altra cosa. Quando passavamo, i bambini, che riconoscevano<br />
il pulmino delle missionarie, si buttavano in mezzo alla strada per<br />
salutarci, correvano dietro alla macchina, a volte salivano addirittura<br />
con i piedi sul paraurti e facevano un breve tragitto con noi.<br />
Saluti del bambini<br />
Le persone salutavano le missionarie e quando passavamo c’era gente<br />
che ci batteva anche le mani. Quando arrivammo parcheggiammo il<br />
pulmino e ci ritrovammo in una piazza piena di alberi particolari,<br />
avevano il tronco grosso alla base e man mano sempre più stretto,<br />
sfociando in una chioma folta e larga.<br />
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Albero della piazza<br />
All’ombra di questi alberi erano sistemate delle panchine, che<br />
ospitavano le persone più anziane e le mamme con i bambini piccoli,<br />
mentre in un angolo della piazza c’erano due seggioloni grandi di<br />
legno circondati da tanti bambini con in mano una valigetta nera.<br />
Erano lustrascarpe e appena ci videro ci saltarono al collo perché<br />
avevano già capito che eravamo stranieri e speravano di poter<br />
guadagnare qualcosa. Quando Simonetta gli spiegò chi eravamo ci<br />
fecero davvero festa e iniziarono a saltellarci intorno e quando uno di<br />
noi estrasse la macchina fotografica, nel giro di pochi secondi erano<br />
già in posa. Dopo aver fatto una bella foto tutti insieme, i bambini, ci<br />
dissero di alzare gli occhi al cielo perché ci volevano mostrare un<br />
animale che girava tranquillo tra le fronde degli alberi. Era il<br />
“Peressoso” ovvero il bradipo, l’animale che i fanciulli erano tanto<br />
orgogliosi di mostrarci. Era la prima volta che ne vedevo uno dal vivo<br />
e rimasi affascinata subito da quell’animale. Un bambino arrivò di<br />
corsa con un bradipo in mano e prima di attaccarlo all’albero ce lo<br />
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fece accarezzare e guardare da vicino. Era immobile e assomigliava ad<br />
una scimmiotta grigia; Pascual ci spiegò che gli abitanti di Montero<br />
sono molto gelosi dei loro bradipi che vivono nella piazza e che<br />
chiunque li vede scendere dalle piante li prende e li riaccompagna sul<br />
tronco per evitare che siano investiti dalla macchine e dalle moto che<br />
sfrecciano nelle strade adiacenti.<br />
Bambini lustrascarpe<br />
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Bradipo<br />
Ci vennero mostrati i due mezzi di trasporto più utilizzati nel paese<br />
ovvero i “trufi” cioè i classici taxi che abbiamo noi in Italia e le moto-<br />
taxi. Queste sono molto più originali in quanto c’è un autista in sella<br />
alla sua moto e il passeggero si siede nella parte posteriore della sella.<br />
Ovviamente nessuno porta il casco e non esistono tutte le regole<br />
stradali e divieti presenti nel nostro paese. A volte mi è anche capitato<br />
di vedere delle vere e proprie famiglie caricate su una moto-taxi e più<br />
di una volta anche noi missionari lo abbiamo utilizzati per spostarci<br />
velocemente all’interno della città.<br />
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2.3.4 Mercato<br />
Volontari sulle moto-taxi<br />
Ultima tappa del nostro giro turistico della città è stata la visita al<br />
mercato che quotidianamente investe una parte della città. Il mercato è<br />
diviso il due zone; quella coperta dentro ad un gigantesco capannone e<br />
quella all’aperto dislocata lungo la strada principale e in alcuni cortili<br />
sempre della zona.<br />
Nella parte coperta, le bancarelle vendevano di tutto, dalle stoffe ai<br />
detersivi per la casa, dalla biancheria ai dolciumi. Rimasi molto<br />
colpita dall’elevato numero di caramelle che venivano vendute alla<br />
gente. Simonetta ci spiegò che i dolciumi sono tra le cose meno<br />
costose che esistono e che quindi nelle famiglie ne viene fatto un<br />
elevato uso quotidiano per sopperire alla fame.<br />
Nella parte più esterna, sulla strada, si susseguivano numerose<br />
bancarelle di carne appesa a dei rampini di ferro; l’odore era<br />
disgustoso e le carni erano piene di insetti e di polvere causata dal<br />
passaggio delle macchine sulla carreggiata vicina. Simonetta, la<br />
missionaria, ci disse che le famiglie per disinfettare e mantenere la<br />
carne la mettono ad essiccare al sole e solo successivamente questa<br />
operazione la mangiano.<br />
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Macellaio<br />
La parte esterna, non riparata, era destinata alla vendita delle verdure e<br />
della frutta di tutti i tipi. I banchi di questa zona mi hanno sempre<br />
affascinato, nelle bancarelle venivano formate delle montagne di<br />
arance, banane, ananas, mele, pompelmi, e verdura di ogni genere.<br />
Tutte questi ortaggi e tutta quella frutta davano vita ad un arcobaleno<br />
di colori. Imparai che esistono tipi diversi di banane; le classiche, i<br />
banani, che hanno la buccia di un colore verdastro e che si mangiano<br />
solo cotte, i platani, che si mangiano fritti o secchi e i bananini, che<br />
sono delle banane normali ma naniche.<br />
83
Bancarella di frutta<br />
Un altro frutto che attirò subito la mia attenzione è stata l’ananas<br />
perché non ne avevo mai visto di quelle dimensioni. Visto il nostro<br />
stupore Simonetta si avvicinò ad un banco e ne comprò quattro per<br />
darci la possibilità di assaggiarle. Ogni ananas pesava dagli otto ai<br />
dieci chili e le pagammo la misera cifra di quaranta centesimi, dieci<br />
centesimi l’una.<br />
Pur essendo un paese molto povero, in ogni angolo del mercato<br />
c’erano dei piccoli banchetti che vendevano dei cd musicali e<br />
raccoglievano attorno a se una grande quantità di persone. Tra i tanti<br />
cantanti c’erano anche tre professionisti italiani che sono famosissimi<br />
anche in sud america perché hanno avuto la costanza di tradurre tutte<br />
le loro canzoni anche in spagnolo: Laura Pausini, Tiziano Ferro e Eros<br />
Ramazzotti.<br />
La missionaria, ci spiegò che la mentalità di questo paese non è<br />
direzionata al risparmio ma si prefiggono di vivere giorno per giorno<br />
perché non hanno la certezza di sopravvivere un giorno per l’altro.<br />
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Questa mentalità mette molta tristezza, se pensiamo alla fiducia che<br />
riponiamo noi nella nostra vita quando siamo disposti a fare anche dei<br />
mutui di trent’anni, invece, le popolazioni sfortunate e dimenticate<br />
dalla società non hanno la certezza di arrivare a sera.<br />
Passeggiando per la città il tempo volò in un baleno e fu già il<br />
momento di ritornare al centro missionario per il pranzo.<br />
Ogni giorno scorreva tranquillo e segnato dalle stazionarie routine ma<br />
il programma prevedeva ogni giorno una visita ad un posto diverso<br />
dove avremmo aiutato le missionarie nei loro compiti quotidiani.<br />
2.3.5 Centro missionario<br />
Nei giorni successivi, ci venne mostrato proprio il centro, dove le<br />
missionarie lavorano a pieno ritmo per le persone del luogo. Il centro<br />
era una terza struttura vicino alla nostra abitazione, e si suddivideva in<br />
centro pastorale dove Cristina e delle signore del posto si occupavano<br />
di scrivere, pubblicare e spedire il giornalino della parrocchia,<br />
mantenere la chiesa in ordine e organizzare gli eventi e le feste della<br />
comunità.<br />
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Donne del Centro Pastorale<br />
Persone in attesa del medico<br />
In un’altra stanza c’era il centro sociale che ha come responsabile<br />
Lucia, questo ufficio si occupa delle adozioni a distanza e della<br />
distribuzione mensile dei viveri di prima necessità alle famiglie più<br />
bisognose della zona. Nell’ufficio, Lucia mantiene anche i contatti<br />
cartacei tra i padrini e le madrine e i bambini adottati.<br />
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Un’altra ala dell’edificio è destinata al servizio medico infatti una<br />
stanza è destinata al dottore di base che saltuariamente si mette a<br />
disposizione della gente. In un’altra stanza è stato attrezzato uno<br />
studio odontoiatrico grazie ad Alicia che è dentista e quotidianamente<br />
cura le sue incessanti code di persone.<br />
La stanza più grande dell’edificio è piena di tavoli e sedie ed è<br />
utilizzata dalle missionarie per la catechesi agli adulti. Le missionarie<br />
stanno formando dei laici, per fare in modo di avere delle persone che<br />
le possano aiutare nell’evangelizzazione nei vari “barios”, ovvero, le<br />
zone della città che necessitano di un appoggio spirituale oltre che<br />
materiale.<br />
Infine nell’ultima stanza, che è ancora in costruzione, le missionarie<br />
stanno formando un ambiente per aiutare i bambini che hanno<br />
problemi di motricità.<br />
2.3.6 Orfanotrofio maschile<br />
Mercoledì 3 agosto, siamo usciti nella tarda mattinata per andare a<br />
trovare Don Pedo e Doña Irma, una coppia di volontari che si<br />
prendono cura e si occupano dell’orfanotrofio maschile della città di<br />
Montero.<br />
Bisogna ricordare che in Bolivia e in tutta l’America del Sud, ogni<br />
paese o città offre un orfanotrofio maschile ed uno femminile, perché<br />
sono molto numerosi gli abbandoni dei neonati da parte delle madri<br />
per le gravi difficoltà economiche.<br />
A Montero esistono tre tipi di orfanotrofi: uno maschile, come<br />
accennato poco fa, che raggruppa bambini dai tre ai dodici anni; uno<br />
femminile, che raduna bambine dai tre ai diciassette anni ed infine, un<br />
orfanotrofio dedicato ai ragazzi e ai bambini intossicati dalla “colla”.<br />
Questa sostanza è uno stupefacente liquido che viene tenuto dentro a<br />
dei sacchetti di plastica e viene avvicinato al volto e annusato per<br />
sopperire alla fame e alla fatica. Purtroppo, molte donne ne fanno uso<br />
87
e troppe volte spartiscono le loro dosi con i propri figli sin dalla tenera<br />
età. Questa sostanza, ha effetti disastrosi per il cervello e non esistono<br />
rimedi. In questi istituti, i bambini vengono allontanati dalla “colla” e<br />
gli vengono fatte delle terapie per cercare di migliorare le funzioni<br />
celebrali perse.<br />
Arrivati all’orfanotrofio maschile e scesi dal pulmino, fummo assaliti<br />
dai bambini che ci corsero incontro e ci abbracciarono pieni di gioia.<br />
Ci presero tutti per mano e ci accompagnarono dentro la loro casa.<br />
Pedro e Irma ci salutarono e chiamandoci dentro ci fecero vedere la<br />
loro abitazione formata da un dormitorio, che era una stanza con<br />
alcuni letti a castello e una serie di materassi appoggiati al pavimento;<br />
una cucina, con una numerosa tavola per ospitare tutti i bambini ed<br />
infine una stanza con una grande lavagna appesa alla parete, davanti,<br />
una serie di banchi con le sedie dove Irma teneva le sue lezioni<br />
scolastiche per permettere ai bambini di imparare a scrivere e a<br />
leggere. I bambini si sedettero ai loro posti e in silenzio ascoltavano<br />
interessati quello che dicevamo. Dopo averli salutati ed esserci<br />
presentati con l’aiuto di Simonetta, li invitammo a mettersi in cerchio<br />
e cantammo con loro alcuni “bans”(canzoni con i gesti) in catalano.<br />
88
Preghiera con i bambini<br />
Finito questo momento di festa ci radunammo per un momento di<br />
preghiera, recitando insieme il Padre Nostro. Successivamente,<br />
Raffaella, che di professione è un’igienista dentale, presa la sua<br />
dentatura di plastica insegnò ai bambini il modo più corretto per<br />
lavarsi i denti. Irma gli chiese di ripetere quello che gli era stato<br />
insegnato e poi tutti insieme andammo nel cortile per giocare a calcio.<br />
I loro visi erano sorridenti ed erano felici per poter stare con noi. Irma<br />
e Pedro ci raccontarono che i bambini erano molto eccitati per la<br />
nostra visita e per loro era una giornata di festa. Ricordo un bambino<br />
in particolare, il più piccolo, che non smetteva mai di sorridere,<br />
qualsiasi cosa facevamo, a turno, ci trovavamo sempre una nostra<br />
mano afferrata e stretta da lui. Una cosa che mi ha stupito molto è<br />
stata non vedere un litigio, una gelosia, un urlo; i bambini rimanevano<br />
composti e mantenevano un comportamento molto educato. Pensare ai<br />
fanciulli italiani, che passano la maggior parte del tempo a lamentarsi<br />
di non possedere l’ultimo gioco pubblicizzato alla televisione e che<br />
continuamente litigano tra di loro per via della possessività materiale<br />
che hanno delle proprie cose, mi ha fatto pensare, che a volte<br />
89
l’abbondanza rovina le persone e che forse abbiamo dimenticato di<br />
dare valore alle cose importanti della vita come avere la fortuna di<br />
avere una famiglia.<br />
Dopo una giornata passata con i nostri piccoli amici, siamo ritornati al<br />
centro missionario dove quella sera, organizzata dalle missionarie,<br />
sarebbe stata celebrata una Santa Messa speciale in onore di noi<br />
volontari, per presentarci alla comunità.<br />
2.3.7 La Santa Messa a Montero<br />
Bambino dell'orfanotrofio<br />
Scoprimmo che la Chiesa faceva parte della stesso edificio della<br />
nostra casa ma per accederci bisognava aprire un piccolo cancelletto<br />
che era mantenuto chiuso per non permettere alle persone di entrare<br />
nel centro liberamente.<br />
Entrati nella Chiesa si presentò a noi un grande salone pieno di<br />
semplici panchine senza schienale e senza inginocchiatoio, le pareti<br />
erano molto spoglie ed erano piene di arcate con i vetri colorati. Di<br />
fronte a noi c’era la porta principale perché eravamo entrati dalla porta<br />
secondaria.<br />
90
Una parte della Chiesa era dedicata alle immagini di Maria<br />
immacolata e a Padre Kolbe; in questo angolo erano poste tante<br />
bamboline raffiguranti la Madonna ma queste popolazioni possiedono<br />
un’idea di fede legata ancora alla superstizione e credono che più le<br />
bambole vengono ornate, truccate e decorate, più la possibilità di<br />
essere salvati cresce.<br />
Il tabernacolo era una struttura di legno intagliata a forma di albero<br />
dove da due suoi rami prendevano forma Maria e Giovanni e dalla<br />
punta si delineava il crocifisso.<br />
Dietro all’altare si intravedevano le colonne portanti dell’edificio e su<br />
queste veniva appeso un lenzuolo con sopra scritto il versetto<br />
dell’alleluia, oppure la frase più importante del brano del Vangelo che<br />
veniva letto nella celebrazione.<br />
La Chiesa si riempì velocemente e Victor-Hugo, il musicista della<br />
parrocchia, “aprì le danze”; mi permetto di usare questa definizione<br />
perché i brani cantati nelle celebrazioni, con i loro ritmi coinvolgenti<br />
pieni di gesti comunitari, creavano delle vere e proprie danze di<br />
massa.<br />
Durante la predica, il sacerdote, con l’aiuto della missionarie, ci<br />
presentò alla comunità e quando ebbero finito fummo accolti con un<br />
grande applauso. Durante le nostre celebrazioni la gente scappa ancor<br />
prima della fine del canto, lì, le persone chiedevano di fare più di un<br />
canto e si rimaneva all’interno della Chiesa a scambiarci i saluti. Quel<br />
giorno mi successe una cosa molto insolita. Finiti a canti, mi stavo<br />
dirigendo fuori dalla Chiesa per poter guardare la facciata dal di fuori<br />
ma una donna mi prese per mano e mi portò in un angolo della Chiesa.<br />
A seguito aveva tutti e sette i suoi figli, me li mise in fila dal più<br />
piccolo al più grande e mi chiese di dargli una benedizione baciandoli<br />
sulla fronte. Feci, molto volentieri, quello che mi aveva chiesto ed<br />
infine mi diede in braccio il figlio più piccolo, avrà avuto due<br />
settimane, era piccolissimo e dormiva beatamente tra le mie braccia.<br />
91
Ricordo la soddisfazione che aveva la madre vedendomi tener in<br />
braccio suo figlio, sembrava che sperasse che io riuscissi a<br />
trasmettergli un po’ della mia fortuna tra la loro tanta miseria.<br />
Dopo averle ridato il bambino la strinsi forte e gli dissi di farsi forza,<br />
che la famiglia era la cosa più importante e di continuare a pregare,<br />
perché il Signore è vicino a chi ne ha bisogno. Sinceramente, credo<br />
che il mio catalano fosse ancora molto scadente ma penso di averle<br />
dato un po’ di coraggio perché mentre cercavo di dirle queste cose mi<br />
abbracciò più forte e si commosse.<br />
Ricorderò per tutta la vita quel momento intimo con quella madre di<br />
cui non so nemmeno il nome, di cui non so niente ma che mi ha fatto<br />
provare un’immensa contentezza.<br />
Da quel giorno ovunque andavamo eravamo immersi dai bambini, che<br />
ci correvano addosso, ci abbracciavano, ci seguivano; avevamo dei<br />
bambini da tutte le parti. Ad ogni ora del giorno sentivamo chiamare<br />
dal portone i nostri nomi e quotidianamente qualcuno di noi usciva a<br />
giocare nella strada con i fanciulli.<br />
Una sera siamo stati invitati ad una festa di quartiere, denominato “El<br />
Tigre” dove i giovani della parrocchia avrebbero cantato e ballato le<br />
danze tipiche del luogo. Quella sera ci venne chiesto di cantare una<br />
canzone in italiano e accompagnati da Rosa, la missionaria di Bari<br />
partita con noi, ci esibimmo per le persone del quartiere.<br />
I giorni passavano veloci e io mi accorsi che non era sufficiente un<br />
mese per ambientarmi veramente in quel paese e tra quella gente. Mi<br />
sentivo così libera e autonoma, sempre felice e sorridente. La mia<br />
mente era sempre piena di pensieri e confrontavo ogni cosa che mi<br />
succedeva con la mia vita quotidiana in Italia.<br />
Mi resi conto che, in Italia, noi, ci lamentiamo sempre e non ci<br />
accontentiamo mai di quello che abbiamo; cerchiamo sempre la cosa<br />
migliore e non ci fermiamo mai a riflettere su quello che possediamo e<br />
su quello che creiamo.<br />
92
In quei giorni mi feci tante domande, mi risposi a tanti perché, ma<br />
quello era solo l’inizio di tutte le cose che avrei vissuto nei giorni<br />
seguenti.<br />
2.3.8 Orfanotrofio femminile e Centro di tossicodipendenza<br />
Il 6 agosto fummo portati, alla mattina, all’orfanotrofio femminile e al<br />
pomeriggio avremmo fatto una breve visita al centro di<br />
tossicodipendenza da “colla”.<br />
Partimmo dopo colazione e arrivammo presso un istituto, ci venne ad<br />
aprire una suora, che ci invitò ad entrare e facendoci accomodare<br />
nell’atrio iniziò a chiamare le fanciulle. Questo istituto era più grande<br />
di quello maschile e Simonetta ci spiegò che questa distinzione<br />
numerica non era casuale ma aveva una spiegazione logica. Le<br />
famiglie sono patriarcali e le femmine non sono viste in buona luce<br />
dai padri perché non assicurano un guadagno. Per questo motivo,<br />
mentre i maschi, anche se la famiglia affonda in gravi difficoltà<br />
economiche, vengono tenuti perché definiti più proficui mentre le<br />
femmine vengono più facilmente abbandonate.<br />
La suora annui alla spiegazione della missionaria e aggiunse che gli<br />
orfanotrofi femminili mantengono al loro interno le ragazze anche per<br />
molto tempo perché le possibilità per le donne di trovare un impiego<br />
decoroso sono molto scarse e se fossero abbandonate anche dallo<br />
stesso istituto con il raggiungimento di una certa età cadrebbero<br />
sicuramente nella prostituzione.<br />
93
Bambina dell’orfanotrofio in braccio ad una suora del centro<br />
Una bambina arrivò in braccio ad un’altra suora, tutta sfregiata, una<br />
bruciatura cosparsa su tutto il volto. La suora ci spiegò che questa<br />
bambina non è stata abbandonata ma è rimasta orfana di entrambi i<br />
genitori e viva per miracolo. La sua famiglia infatti è rimasta travolta<br />
da un terribile incendio che ha bruciato tutta la capanna in cui viveva.<br />
La piccola fortunatamente è stata salvata dai vicini di casa e portata<br />
subito all’ospedale.<br />
Mentre ci raccontavano queste cose, le suore ci fecero passeggiare<br />
intorno all’istituto, facendoci vedere l’orto, l’aia con alcuni animali,<br />
fino ad arrivare al piccolo pastificio che hanno creato con l’aiuto delle<br />
ragazze. Ci spiegarono che alle ragazze più grandi veniva data<br />
un’educazione scolastica e un’educazione culinaria; infatti hanno dato<br />
vita ad una fabbricazione di biscotti che vendono e con il ricavato<br />
mantengono loro e la struttura.<br />
94
Bambine dell'orfanotrofio<br />
Entrati nell’istituto, ci corse incontro una bambina che dimostrava tre<br />
o quattro anni. Corretti dalle suore, ci venne spiegato che questa<br />
bambina aveva dieci anni ma che soffriva di una gravissima malattia<br />
di cui non si conosce ancora la cura, che non permette la crescita ne<br />
celebrale e nemmeno corporea del bambino. La bambina ci chiamò e<br />
ci portò nella sua cameretta, voleva mostrarci il suo pupazzo e il suo<br />
lettino.<br />
Dopo aver accontentato la bambina entrammo all’interno di una<br />
classe, piena di tavoli e con una grande lavagna appesa alla parete.<br />
L’aula era piena di bambine e ragazze che ci salutarono e ci cantarono<br />
una canzone. Dopo aver cantato con loro, prendemmo parte ad una<br />
piccola preghiera e successivamente aiutammo anche loro con la<br />
spiegazione sulla pulizia dentale.<br />
Vista la presenza di Raffaella, e grazie alle spiegazioni che riusciva a<br />
dare, le missionarie ci dissero che era molto utile illustrare queste cose<br />
ai bambini in quanto la pulizia dei denti non viene tenuta molto in<br />
considerazione e le carie sono un inconveniente molto diffuso tra i più<br />
piccoli.<br />
95
Quando abbiamo dovuto lasciarle nei loro occhi abbiamo letto tanta<br />
tristezza ma le missionarie ci assicurarono che vederci, porta nel loro<br />
cuori tanta gioia e soprattutto tanta speranza.<br />
Lezione di igiene<br />
Ritornati a casa, dopo pranzo ripartimmo e fummo portati nel centro<br />
di accoglienza per tossicodipendenti da “colla”.<br />
L’istituto non contava molti ragazzi perché, come ci spiegò la<br />
direttrice, nella zona di Montero per non sentire la fame e la<br />
stanchezza si masticavano le foglie di coca, che non hanno effetti così<br />
devastanti come la colla e non danno dipendenza, mentre in Brasile<br />
questa è una realtà ben più diffusa.<br />
Rimanemmo solo al di fuori della struttura perché non vollero che<br />
entrassimo per ragioni di sicurezza. Incontrammo solo un ragazzo, che<br />
teneva tra le braccia due cagnolini e ci saluto. I suoi occhi erano spenti<br />
e non esprimevano nessuna emozione. Ci salutò con un breve cenno<br />
della mano e poi continuò ad accarezzare i cuccioli. I suoi gesti erano<br />
molto meccanici e lenti, il suo sguardo era fisso e vuoto verso questi<br />
animali e anche verso di noi. La direttrice ci disse che purtroppo<br />
quando riescono a strapparli dalle famiglie oppure li trovano per<br />
96
strada, è troppo tardi e normalmente hanno già tratto danni irreparabili<br />
al cervello.<br />
Nel tragitto per ritornare a casa, nel pulmino scese il silenzio, le cose<br />
che ci aveva raccontato la direttrice del centro avevano colpito tutti e<br />
ognuno, in quel momento, si era fermato a riflettere sulla giornata<br />
appena trascorsa.<br />
Ragazzo del centro di tossicodipendenza<br />
2.3.9 Tierras Nueva, la città dei mattoni<br />
Il 9 agosto, le missionarie ci dissero che quel giorno avremmo<br />
incontrato la gente di Tierras Nueva, un ennesimo bario della città<br />
dove vivevano i cittadini “colla”. Partimmo con il pulmino e<br />
arrivammo fino ad un piccolo ponte. Il pulmino non riusciva a passare<br />
e quindi avremmo dovuto proseguire a piedi. Presi i nostri zaini ci<br />
incamminammo e subito, in lontananza, notammo dei gruppetti di<br />
97
ambini che ci correvano incontro. I fanciulli si buttarono a braccia<br />
aperte alle nostre gambe e sorridendo ci incitavano a continuare lungo<br />
quel sentiero per portarci a vedere le loro case. Al nostro fianco<br />
scorrevano numerose buche piene di fango; noi non capivamo a cosa<br />
servivano ma poi, quando arrivammo, tutto ci fu chiaro.<br />
Stampi dei mattoni<br />
Buche di fango<br />
98<br />
Tierra Nueva era la zona della<br />
città dove venivano costruiti i<br />
mattoni. Gli uomini della zona si<br />
calavano dentro queste buche<br />
piene di fango e a mani nude<br />
raccoglievano la terra rossa<br />
disponendola in appositi stampi<br />
di legno. Questi stampi venivano<br />
adagiati sul terreno e gli veniva<br />
data la prima asciugata sotto il<br />
sole. Bisognava sperare che nel<br />
periodo in cui erano lasciati<br />
asciugare non scoppiasse nessun temporale altrimenti tutto il lavoro
andava perduto e bisognava ripartire da zero. Quando gli stampi<br />
diventavano abbastanza sodi, gli uomini li spostavano, creando delle<br />
grandi montagne di mattoni ed intorno, veniva costruito il forno dove<br />
venivano cotti. Quando i mattoni erano cotti, il forno veniva distrutto<br />
per permettere agli uomini di riprendere i mattoni. Durante la cottura,<br />
il fuoco, deve essere sempre mantenuto acceso e quindi l’uomo che se<br />
ne occupa, a volte deve rimanere sveglio e vigile per tre giorno senza<br />
poter dormire. È a causa di queste condizioni lavorative che,<br />
soprattutto gli uomini, abusano delle foglie di coca.<br />
Essiccazione dei mattoni al sole<br />
Arrivammo finalmente davanti ad una piccola casina e la missionaria<br />
ci spiegò che in quella misera stanza i bambini di tutte le età, avevano<br />
la possibilità di imparare a leggere e a scrivere. Davanti a questa casa,<br />
le donne ci accolsero con un canto venendoci incontro. Tutti insieme<br />
ci sedemmo in una piccolo spiazzo d’erba li vicino e leggemmo e<br />
discutemmo su un piccolo brano del Vangelo e gli occhi delle donne si<br />
riempivano di lacrime ascoltando le parole cariche di speranza con cui<br />
la missionaria parlava.<br />
99
Purtroppo in questa zona, questa gente era abituata a vivere in<br />
condizioni poco precarie e nella miseria più acuta. Le capanne, nelle<br />
quali vivevano, avevano una sola stanza nella quale dormivano sia i<br />
genitori che i figli mentre tutti gli altri momenti della vita quotidiana<br />
erano vissuti all’esterno della casa. Dentro alle case si vedevano solo<br />
alcuni stracci appoggiati per terra e nient’altro e nelle capanne più<br />
fortunate, si poteva vedere anche un materasso appoggiato a terra.<br />
Fuori dalla porta era steso il bucato mentre nella parte in cui il sole<br />
batteva incessantemente era dislocato un pezzo di filo di ferro nel<br />
quale veniva stesa ad essiccare la carne, come aveva detto la<br />
missionaria quando eravamo al mercato.<br />
Tra le case<br />
Facendo il giro tra le case, cercavo tutti i modi per continuare a<br />
sorridere agli occhi della gente ma era difficilissimo, io mi sentivo<br />
pugnalare, sentivo il vuoto sotto i miei piedi, non mi riuscivo a<br />
spiegare la differenza tra loro e me; tra la nostra abbondanza e la loro<br />
miseria. Perché queste due situazioni così diverse? Tornati alla casa-<br />
scuola, le bambine indossarono i loro vestiti tipici “colla” e si<br />
esibirono in una danza folcloristica. Terminata, offrimmo a tutta la<br />
popolazione della zona un’abbondante merenda, con tortillas e bibite.<br />
100
I bambini rimasero con noi a giocare a calcio e passammo un<br />
bellissimo pomeriggio insieme.<br />
Mentre ci incamminavamo di nuovo verso il pulmino, ci<br />
soffermammo vicino ad un pozzo. Simonetta ci disse che sono dieci<br />
giorni che è rotta la pompa, forse a causa della terra molto fangosa, e<br />
tutta la popolazione è senza acqua. Ci prendemmo l’impegna di farla<br />
aggiustare noi, per ridare a questa gente l’acqua potabile.<br />
Ritornati a casa, ci riposammo e dopo cena, le missionarie ci<br />
spiegarono il programma del giorno seguente.<br />
2.3.10 Santa Cruz e Cotoca<br />
Il 10 agosto ci saremmo diretti a Santa Cruz per visitare la città nella<br />
mattinata e nel pomeriggio ci saremmo spostati a Cotoca per visitare il<br />
santuario.<br />
Santa Cruz è una bellissima città con una grande piazza al centro,<br />
simile a quella di Montero, ma molto, molto più grande. Sulla piazza<br />
si affaccia una Basilica stupenda con un grande campanile. Entrammo<br />
nella chiesa e camminammo fino alla cima del campanile, per<br />
guardare la città dall’alto. La vista era stupenda ma, si notava<br />
perfettamente con quanta cura era tenuto il centro e la piazza per<br />
ragioni turistiche, mentre le parti limitrofe erano abbandonate al<br />
degrado.<br />
Verso le undici, ripreso il pulmino, ci spostammo a Cotoca, un<br />
paesino a quaranta minuti di viaggio da Santa Cruz, dove si ergeva<br />
uno dei santuari più importanti della Bolivia.<br />
Nella chiesa viene adorata la statua di una madonna, che ha avuto un<br />
ritrovamento particolare. La storia narra di un boscaiolo della zona,<br />
che preso il suo “macete” per andare a tagliare della legna nella<br />
foresta, mentre tagliava una palma, al suo interno trovò una statua<br />
della madonna, presa in mano, sentì una voce dall’alto che gli ordinò<br />
di costruire in quella terra una chiesa. Il boscaiolo, incredulo ma pieno<br />
101
di fede, si recò dal sacerdote della parrocchia e dopo aver ascoltato la<br />
storia, rimase incredulo e qualcosa nel suo cuore gli disse che l’uomo<br />
stava raccontando la verità. Il sacerdote, con il consenso della curia<br />
fece costruire il santuario di Cotoca e ora è meta di tantissimi<br />
pellegrinaggi. Fuori dalla chiesa, nella piazza principale della città<br />
c’erano tantissime bancarelle, attirate dal continuo turismo.<br />
Giunto il primo pomeriggio, decidemmo di andare a mangiare. Le<br />
missionarie ci portarono al “Comedor municipal de Cotoca”, una<br />
mensa cittadina che mi ricorderò per tutta la vita. Era un grande<br />
capannone diviso per file. Ogni fila aveva una grande tavolata in cui<br />
tutti si potevano sedere e mangiare. A capo di ogni tavolo c’era una<br />
donna che preparava le pietanze in una piccola cucina. Le donne<br />
preparavano il cibo e si occupavano anche di pulire i piatti. Noi ci<br />
sedemmo in un tavolo dove veniva servita della carne cotta sulla<br />
griglia e un purè di patate attaccato ad un bastone di legno e rosolato<br />
sul fuoco. Inutile dire che l’igiene mancava completamente. I piatti,<br />
venivano lavati in una bacinella con dell’acqua ferma e ormai il suo<br />
colore non era più trasparente ma di un “sanissimo” color grigio. I<br />
bastoncini, non venivano lavati ma riutilizzati subito dopo.<br />
Comedor Municipal de Cotoca<br />
102
Ovviamente questa mensa era popolata da tantissimi cani randagi che<br />
potevano tranquillamente andare a contatto delle pietanze e tra tutte le<br />
portate scegliemmo quelle due perché con la cottura sul fuoco, i<br />
batteri venivano più facilmente eliminati.<br />
Ovviamente le missionarie ci vietarono di bere l’acqua che ci veniva<br />
data perché non essendo depurata e senza la certezza di essere<br />
potabile, anche un piccolo sorso ci avrebbe potuto costringere a letto<br />
per una decina di giorni.<br />
2.3.11 Triduo a San Massimiliano Kolbe<br />
L’11 agosto fu una giornata molto movimentata perché come tutti gli<br />
anni si preparava, nella parrocchia, delle missionarie, la celebrazione<br />
del triduo di San Massimiliano Kolbe e quindi erano stati avviati tutti i<br />
preparativi per questa grande festa. Noi volontari siamo stati portati<br />
nella foresta per andare a tagliare dei rami di palma per costruire la<br />
tettoia del palcoscenico, dove sarebbero stati disposti gli strumenti<br />
musicali. Siamo saliti sul cassone della camionetta con alcuni uomini<br />
della parrocchia siamo andati in un appezzamento forestale; ad alcuni<br />
di noi è stato dato un “macete”(strumento da taglio metallico, con<br />
impugnatura e lama dritta a un solo taglio, lievemente ricurvo).<br />
Arrivati, siamo scesi e ci siamo trovati a camminare in un sentiero<br />
dentro ad una foresta. Alberi e rami ovunque, gli uomini del posto con<br />
molta disinvoltura iniziarono a farsi strada in mezzo alle piante con i<br />
macete e scelta la pianta adatta si arrampicavano su per il tronco e<br />
iniziavano a tagliare i rami. Noi volontari eravamo sotto l’albero e<br />
prendevamo i rami tagliati e li caricavamo sulla camionetta.<br />
Un uomo, salito sulla pianta ci chiamò tutti a vedere una cosa; finito di<br />
tagliare tutti i rami, diede alcuni colpi in mezzo alla cima del tronco e<br />
dall’interno tirò fuori una grossa patata. Cristina, la missionaria che<br />
103
era con noi, ci spiegò che quello è il frutto del banano, una specie di<br />
patata che cresce all’interno del tronco, è squisita per i risotti.<br />
Il cassone della camionetta era completamente pieno di rami e mentre<br />
si decideva come sistemarci per ritornare tutti a casa, ricordo di<br />
essermi appoggiata ad un albero. Subito un signore si precipitò verso<br />
di me e mi scanso dal tronco. Io mi spaventai tantissimo perché non<br />
capivo cosa avevo fatto di male e mentre mi alzavo sentii qualcosa che<br />
mi pizzicava sulla mano.<br />
Guardandomi la mano mi accorsi di essere piena di formiche rosse e<br />
l’uomo iniziò ad aiutarmi a toglierle. Cristina, mi spiegò che l’albero<br />
su quale mi ero appoggiata era chiamato l’albero del Diavolo,<br />
denominato così perché è incessantemente percorso dalle formiche<br />
rosse.<br />
La mano mi si gonfiò incredibilmente, ma non faceva male, solo alla<br />
sera mi sarei accorta del dolore e di essere stata fortunata ad aver<br />
ricevuto solo tre pizzicotti.<br />
Decidemmo che io e Mirco saremmo ritornati a casa seduti sui rami. Il<br />
viaggio fu molto pericoloso, ma altrettanto piacevole, perché eravamo<br />
seduti su dei rami che non erano per niente sicuri perché non erano<br />
stati legati in nessun modo.<br />
Ritornati a casa, il pomeriggio, avremmo dovuto lavorare con Lucia<br />
per preparare la distribuzione dei viveri alle famiglie adottate a<br />
distanza. Ritornati nel salone dove eravamo andati a parlare ai giovani<br />
nei primi giorni della nostra permanenza, lo ritrovammo pieno di<br />
grandi sacchi neri pieni di riso, una montagna di sacchi di zucchero e<br />
una montagna di bidoncini di olio. Lucia ci diede un foglio, sopra a<br />
quale erano indicate tutte le quantità di riso, olio e zucchero da<br />
dividere per ogni famiglia. Noi dovevamo fare dei sacchi contenenti<br />
rispettivamente tutti i viveri e per facilitare la consegna su ogni pacco<br />
dovevamo scrivere il nome della famiglia.<br />
104
Preparazione viveri per le famiglie<br />
In alcune ore sistemammo tutto, mentre fuori veniva allestito il palco e<br />
veniva addobbata la parrocchia con tantissime bandierine rosse e<br />
bianche. Verso sera, iniziarono ad arrivare le famiglie per prendere le<br />
loro provviste e mentre noi distribuivamo i sacchi, Lucia lasciva ai<br />
bambini il necessario per la scuola: quaderni, matite, penne e una<br />
gomma da cancellare.<br />
Quel pomeriggio mi è piaciuto particolarmente, mi sono sentita<br />
proprio utile alle missionarie e ho sentito che hanno apprezzato molto<br />
il nostro aiuto. Ricordo che quando lasciavamo i sacchi alle famiglie,<br />
nei loro occhi si leggeva rassicurazione, come se quel cibo gli desse la<br />
sicurezza di poter sopravvivere per qualche tempo.<br />
Quella sera ci coricammo molto presto perché il giorno dopo sarebbe<br />
iniziata la festa e quindi ci sarebbe stato molto da lavorare.<br />
La mattina, partecipammo alla prima messa del triduo; la Chiesa era<br />
stata adornata con dei palloncini e l’ambiente era molto accogliente.<br />
Iniziata la messa, quel giorno rimasi colpita da una cosa il particolare:<br />
durante l’offertorio, i doni vennero portati all’altare da quattro ragazze<br />
e un ragazzo danzando tra i banchi. Rimasi esterrefatta nel vedere<br />
questa scena, abituata alle nostre messe, tutto questo mi sembrava<br />
105
irreale ma rendeva la celebrazione veramente più gioiosa ed<br />
emozionante.<br />
Finita la messa, un gruppi di giovani tra quelli che si stanno<br />
preparando a ricevere la santa Cresima, diede vita ad uno spettacolo<br />
sulla vita di San Maximiliano Kolbe; la storia avrebbe avuto tre atti,<br />
uno per ogni giorno del triduo.<br />
Nel pomeriggio, con tutta la gente ci siamo radunati nello spiazzo con<br />
il palcoscenico ed io, Pamela e Stefano lasciammo la nostra<br />
testimonianza di fede alle persone della parrocchia. Io, con l’aiuto di<br />
Cristina riuscii a scrivere la mia testimonianza in catalano e decisi di<br />
leggerla alle persone nella loro lingua perché mi sembrava più bello<br />
dargli la possibilità di capire quello che dicevo direttamente da me.<br />
Dopo aver vissuto per quasi due settimane in mezzo a quella gente,<br />
sentivo il dovere di ringraziarli dell’accoglienza che ci hanno fatto<br />
trattandoci da subito come loro, per averci fatto riflettere sulla nostra<br />
vita e per averci regalato delle amicizie così profonde e sentite.<br />
Dopo questo momento di riflessione insieme, rimanemmo insieme alla<br />
gente e ai ragazzi della parrocchia. La sera arrivò presto e<br />
incominciarono le danze. Come ho già detto, la gente vive per la<br />
musica e anche i più piccoli conoscono le danze tipiche e amano<br />
esibirle con gli amici. Ci fu infatti un susseguirsi di balli, presentati<br />
dalle diverse classi del catechismo; Ogni gruppo di ragazzi aveva<br />
preparato la danza nei giorni precedenti e si era allenata per quella<br />
sera. Ogni ballo creava delle atmosfere completamente diverse, ma<br />
penso che l’apice l’abbiano raggiunto la classe dei ragazzi più grandi<br />
quando, vestiti da Inca, anno ballato una danza indigena sul ritmo dei<br />
borghi e corni a fiato.<br />
Il secondo giorno del triduo, dopo la messa, i ragazzi, diedero vita alla<br />
seconda parte dello spettacolo e nel pomeriggio vennero organizzati<br />
dei giochi a squadre per stare insieme e divertirsi. Per i bambini quel<br />
pomeriggio, mi divertii a fare i palloncini sagomati, che mi portai<br />
dall’Italia. I bambini si radunarono intorno a me a decine ma dopo<br />
106
aver gonfiato e modellato alcuni palloncini mi accorsi che non davano<br />
importanza alla forma ma al palloncino in se e lo preferivano semplice<br />
senza figure. Per loro era già una festa possedere un palloncino,<br />
averlo, e quindi la sagoma non importava. I bambini italiani sono<br />
cresciuti circondati dai palloncini e per loro il palloncino gonfio non<br />
dice più niente, deve essere sagomato a forma di cagnolino, fiore,<br />
spada ecc.. per attirare la loro attenzione. Non si sanno accontentare<br />
della semplicità perché per loro è quotidianità.<br />
La sera continuarono i balli e la festa, musica fino a tarda notte,<br />
dimenticando le fatiche del giorno e della vita.<br />
I piccoli ladruncoli<br />
Il giorno dopo, la festa si concluse con un ultimo memento di<br />
preghiera tutti insieme e con una serie di balli che coinvolsero anche<br />
noi volontari e le missionarie.<br />
Questi tre giorni di festa furono bellissimi, perché imparammo a<br />
conoscere i ragazzi della parrocchia con cui istaurammo delle grandi<br />
amicizie e conoscemmo tante persone che quotidianamente aiutano le<br />
missionarie. Quella sera, eravamo a cena quando ad un certo punto<br />
sentii un gruppetto di bambini che mi chiamava dal cancello della<br />
107
Chiesa. Andai a vedere cosa volevano e mi dissero che avevano fame.<br />
Andai in cucina e Cristina, una missionaria mi disse di dargli quello<br />
che volevano perché se non avessero ricevuto del cibo, sarebbero<br />
venuti a rubarlo. Li chiamai “i miei piccoli ladruncoli”, e da quel<br />
giorno alla solita ora, io li aspettavo con un po’ di pane e un frutto e<br />
loro contenti ritornavano alle loro case.<br />
2.3.12 Carcere<br />
Il 16 agosto, le missionarie ci accompagnarono al carcere cittadino<br />
dove, avremmo celebrato con i carcerati la Santa Messa.<br />
Le missionarie ci dissero che era uno dei posti più ingiusti di Montero<br />
e ospitava solo degli uomini che avevano commesso dei piccoli furti e<br />
non dei gravi crimini.<br />
Il carcere era uno dei luoghi più corrotti di tutta la città e sicuramente i<br />
grandi trafficanti di droga non avrebbero mai conosciuto il significato<br />
di “stare dietro le sbarre” perché pulivano la loro fedina penale con il<br />
denaro. Cristina, la missionaria che ci accompagnò quella mattina, ci<br />
raccontò che purtroppo, le guardie del carcere, a turno durante la<br />
notte, liberano alcuni uomini per fare delle razzie nella città e la<br />
mattina dopo la merce che sono riusciti a rubare viene spartita tra le<br />
sentinelle che la rivendevano al mercato nero.<br />
Arrivammo al carcere e dopo essere controllati dalle guardie ci<br />
sistemammo sotto un porticato all’interno del cortile sul quale davano<br />
tutte le celle. Riuscimmo a contare cinque prigioni. Gli uomini,<br />
appena ci videro si avvicinarono alle sbarre e noi li andammo a<br />
salutare. Le celle erano piccolissime ma ospitavano tantissimi uomini.<br />
Per fare un esempio, in una stanza di due metri per quattro erano<br />
rinchiusi tra i venti e i venticinque uomini.<br />
Arrivato il sacerdote, disponemmo l’altare e le guardie aprirono le<br />
celle e fecero uscire i carcerati. Con molto ordine, gli uomini si<br />
disposero per file e si sedettero sotto il portico dove eravamo anche<br />
108
noi. Finita la celebrazione, ci venne concesso di parlare con alcuni<br />
uomini, ci raccontarono delle loro famiglie, che avevano abbandonato<br />
fuori da quelle mura, dei rimorsi che avevano e della nostalgia delle<br />
loro case. Negli occhi di quegli uomini si leggeva tanta malinconia e<br />
tanta vergogna nei nostri confronti.<br />
Mentre chiacchieravamo con loro le guardie li richiamarono in fila e<br />
venne distribuito il cibo. Una piccola grata si aprì e una signora<br />
distribuiva una ciotola piena di zuppa. Ai carcerati, vista la nostra<br />
presenza, fu concesso di mangiare fuori dalle celle e per questo erano<br />
molto felici. Ad un certo punto ci fu una scena bellissima. Dall’entrata<br />
arrivò una donna con un bambino; era la moglie di un carcerato, che<br />
portava il cibo al proprio marito tutti i giorni. L’uomo e il bambino si<br />
corsero incontro e si strinsero forte. Fu una scena molto commovente<br />
perché si vide quanto quell’uomo tenesse alla sua famiglia. I tre,<br />
mangiarono felicemente insieme e dagli altri uomini era invidiato e<br />
sbeffeggiato. Quando ebbero finito di mangiare li salutammo e<br />
ritornammo al centro missionario.<br />
Io non ero mai stata a visitare un carcere, mi aveva messo tanta<br />
tristezza nel cuore vedere quegli uomini che vivevano in quelle<br />
condizioni, che erano obbligati a quella atroce quotidianità, che<br />
sicuramente subivano dei maltrattamenti, a volte anche di origine<br />
sessuale, dagli altri carcerati e dalle guardie. La violenza psicologica<br />
che dovevano subire quegli uomini era atroce.<br />
109
2.3.13 Campo Chanè<br />
Famiglia di un carcerato<br />
Carcerati<br />
Ritornati al centro, il pomeriggio, le missionarie ci spiegarono che da<br />
domani e per i tre giorni seguenti avremmo preso parte ad un progetto<br />
110
di evangelizzazione in un bario ai confini con la foresta. La zona, che<br />
prendeva in nome di Campo Chanè, era abitata da delle famiglie che<br />
abitavano nelle capanne di fango, vere e proprie baracche. Andavamo<br />
in quella zona per animarla un po’ visto che, essendo un po’ fuori<br />
mano, difficilmente le missionarie riuscivano a essere molto presenti.<br />
Il giorno seguente partimmo, e in sella alla nostra camionetta, dopo<br />
aver viaggiato per strada asfaltata, ci ritrovammo in una carreggiata<br />
polverosa. Ci volle un po’ di tempo per veder le prime baracche<br />
perché il campo era in una zona molto periferica e isolata.<br />
Baracca<br />
Arrivati, come tutte le volte che si arrivava in una zona povera come<br />
questa, i primi a correrci incontro erano i bambini che spuntavano da<br />
ogni direzione. Arrivammo davanti ad una chiesetta, costruita dalle<br />
missionarie, diventata punto di incontro e di rifugio della gente<br />
durante e forti temporali che distruggevano le case. La gente era felice<br />
di vederci e ci venne subito ad abbracciare e a renderci omaggio.<br />
Antrati tutti nella chiesa, Vicky, la missionaria che ci accompagnava<br />
per questi giorni, ci presentò alla popolazione spiegando che nei<br />
111
prossimi giorni, per chi voleva, saremmo passati nelle case, per<br />
leggere un piccolo brano del Vangelo e rifletterci insieme.<br />
Quella zona non conosceva molto la religione cristiana, ma le<br />
missionarie stavano facendo tutto il possibile per non lasciare questa<br />
gente in mano agli evangelisti. Mi capitò di ripensare al mandato<br />
missionario che avevo ricevuto proprio in quella circostanza; ora avrei<br />
dovuto mettere in pratica quello che mi era stato spiegato nel corso.<br />
Un bambino del posto<br />
Dopo che Vicky ebbe aver finito di parlare con la gente, le persone<br />
ritornarono nelle loro case e noi, con il seguito di una cinquantina di<br />
bambini come sempre, ci permettemmo di fare un giro tra le case della<br />
zona. Ogni casa era costruita con il fango, le pareti erano rese più<br />
robuste aggiungendo alla melma dei bastoni di legno che si vedevano<br />
spuntare dalle mura. Il tetto era di paglia, ricavata dall’essiccazione<br />
delle foglie di palma. Ogni capanna era circondata da un grande<br />
cortile polveroso nel quale era sempre presente una catasta di legna e<br />
travi per sorreggere la casa in caso di crollo, un tavolo con alcune<br />
panchine e un forno a legna, costruito sempre con il fango nel quale<br />
veniva cotto soprattutto il pane.<br />
112
Ogni cortile era abitato da galline, papere e cani di una magrezza<br />
spaventosa; si riuscivano a contare le costole sulla schiena.<br />
Il primo giorno lo passammo tra la gente e i bambini, per conoscere il<br />
posto e le persone.<br />
I giorni che seguirono invece fummo divisi in gruppi e mandati con i<br />
volontari laici nelle case. Io mi incamminai con una donna e mentre<br />
passavamo da una casa all’altra imparammo a conoscerci. Il suo nome<br />
era Anna e mi raccontò un po’ della sua vita; mi disse che aveva<br />
iniziato ad avvicinarsi alle missionarie dopo la morte prematura del<br />
marito e da quel giorno non le ha più abbandonate perchè conoscere la<br />
parola di Dio l’aveva aiutata molto a superare tante difficoltà.<br />
Raccontava che aveva due figli, i quali, finiti in mano a degli usurai<br />
sono spariti da parecchi anni e non ha più avuto loro notizie.<br />
Una famiglia del campo di Chanè<br />
Incontrammo molte famiglie in quei giorni, entravamo nei cortili delle<br />
case e ci facevano accomodare sulle panchine nei cortili; non ci<br />
facevano assolutamente entrare perché provavano vergogna della loro<br />
miseria.<br />
113
Ci accoglievano sempre le donne perché i mariti erano sempre al<br />
lavoro mentre le mogli venivano lasciate a casa per accudire i figli.<br />
Tra tutte le famiglie che incontrammo rimasi colpita da due episodi in<br />
particolare che ora racconterò.<br />
Entrati in una cortile, la donna che viveva in quella casa appena ci<br />
vide ci corse incontro e ci abbraccio. Dopo averci fatto accomodare<br />
prendemmo in mano il Vangelo e iniziammo a leggere un piccolo<br />
brano. La donna nell’ascoltare quel brano si commosse; la lettura<br />
parlava di speranza ed insisteva nel dire di non abbandonare la fiducia<br />
il se stessi. Quando, la volontaria laica ebbe finito di leggere, la donna<br />
scoppiò in un grande pianto; ci raccontò che era sola, non vedeva suo<br />
marito da più di tre mesi perché il capo dell’azienda agricola dove<br />
lavorava non lo faceva ritornare a casa e non aveva più soldi con cui<br />
dare da mangiare ai suoi sette figli. Non sapeva però se non avere suo<br />
marito a casa era un male o un bene perché l’uomo la picchiava e a<br />
volte alzava le mani anche addosso ai suoi figli quando era ubriaco.<br />
Tutte le sere aspettava con molta ansia l’arrivo del marito ma con<br />
molta rassegnazione nel caso la volesse picchiare.<br />
Guardando quella donna mi si spezzo il cuore, era una situazione da<br />
brivido ma presi la parola e le dissi: “Il Signore è grande, ascolta le<br />
preghiere degli uomini, punisce chi fa del male e aiuta chi spera in<br />
Lui” La volontaria tradusse le mie parole e dopo che ebbe finito la<br />
donna mi saltò al collo e si sfogò in un grosso pianto. Non avevo mai<br />
provato un’emozione così forte. Avevo dato una spalla su cui piangere<br />
ad una donna che soffriva veramente. Mi emozionai tantissimo e<br />
pensai a tutte le volte che vidi una mia amica piangere su di me per<br />
colpa di una delusione d’amore o per colpa di una perdita importante<br />
di un famigliare. Pensai che donarsi agli altri e offrire se stessi è una<br />
cosa meravigliosa, riempie il cuore.<br />
Il secondo episodio che mi ricorderò e mi porterò sempre nel cuore è<br />
capitato l’ultimo giorno di evangelizzazione. Con tutti i volontari<br />
stavamo facendo l’ultimo giro tra le famiglie per salutarle quando<br />
114
capitammo in una casa dove ci accolse una ragazza ed insistette<br />
perché entrassimo in casa. Entrati, per terra c’erano tantissimi stracci,<br />
un mobiletto con delle ciotole e nient’altro. Passammo all’interno<br />
della baracca e poi ci accomodammo nel retro della casa, sotto ad una<br />
tettoia di paglia.<br />
Una volta seduti ci presentò i suoi fratelli, poi andò in cucina e ritornò<br />
con un vassoio pieno di bicchieri colorati contenenti del liquido simile<br />
ad acqua.<br />
Non riuscimmo a capire cosa ci fosse dentro e così decidemmo di far<br />
finta di bere e di dare la bevanda ai bambini che ci circondavano. La<br />
ragazza ci raccontò che sua madre era morta e che suo padre non lo<br />
vedeva da parecchi mesi. Così era lei che si doveva occupare di tutti i<br />
suoi cinque fratelli. Ci disse che non sapendo come guadagnarsi da<br />
vivere tutte le sere, dopo che i suoi fratelli si addormentavano<br />
percorreva quasi cinque chilometri a piedi e si svendeva agli uomini<br />
sulla strada. La cosa che mi colpì era che ne parlava con orgoglio,<br />
perché per lei non era sbagliato quello che faceva, perché così facendo<br />
riusciva a dare da mangiare ai suoi fratelli. Quanta tristezza nel sentire<br />
quelle parole, noi la confortammo dicendole che poteva chiedere aiuto<br />
alle missionarie, che quello che faceva non era molto ragionevole e<br />
che non usando precauzioni non era nemmeno molto sicuro per la sua<br />
salute.<br />
Purtroppo lei ci rispose che era l’unico modo per mandare avanti<br />
quella famiglia e che per i suoi fratelli era disposta a tutti questi rischi.<br />
Durante il tragitto per ritornare a casa e alla sera, tra noi volontari<br />
rimanemmo molte ore a parlare di quei giorni trascorsi tra quella<br />
gente, prima di dormire ci raccontammo le storie che quelle persone ci<br />
raccontarono e riflettemmo tutti insieme su quanto questa gente ha<br />
bisogno di aiuto.<br />
La mattina dopo, le missionarie ci dissero che, come concordato con<br />
noi al nostro arrivo, avremmo trascorso sei giorni nella comunità<br />
delle missionarie di Cochabamba situata più a nord, nell’altopiano<br />
115
andino. Simonetta, ci disse che il giorno seguente avremmo preparato<br />
tutto l’occorrente per il viaggio.<br />
2.3.14 Cochabamba<br />
Il 21 agosto andammo, con Simonetta, a comprare il biglietto per<br />
l’autobus che ci avrebbe portato a Cochabamba, ritornati a casa<br />
preparammo i bagagli e tutte le cose che avremmo dovuto portare alle<br />
missionarie.<br />
Il 22 agosto fummo accompagnati alla stazione degli autobus, e saliti<br />
siamo partiti, ci aspettava un viaggio molto lungo, di quasi 12 ore. Il<br />
panorama, più si saliva d’altitudine più cambiava e sempre più<br />
raramente si vedevano gli alberi ad alto fusto ma solo dei cespugli di<br />
bacche tra appezzamenti di terreno brulli.<br />
Dopo tante ore di viaggio scendemmo dall’autobus in una fermata che<br />
Alicia ci indicò e presi i bagagli camminammo per un breve tragitto di<br />
strada prima di arrivare al centro missionario. Arrivati, le missionarie<br />
ci corsero incontro felici di vederci e conoscerci e subito ci fecero<br />
sistemare nelle nostre camere. Il centro era di nuova costruzione e<br />
l’atmosfera era meno calda rispetto a Montero. Non si vedeva la gente<br />
per strada e anche le missionarie erano più riservate. Virginia, la<br />
missionarie responsabile di quella filiale, ci disse che la gente è meno<br />
accogliente da quelle parti, si fa più fatica ad entrare nella vita delle<br />
persone.<br />
Inoltre, ci spiegò che la nostra visita qui ci sarebbe servita come<br />
momento di riflessione e che in quei giorni avremmo visitato alcune<br />
zone della città.<br />
Quando arrivammo era sera tardi e quindi, dopo un momento di<br />
preghiera quotidiano ci coricammo nelle nostre stanze.<br />
116
Il giorno seguente, fummo portati, con il loro pulmino a visitare il<br />
“Cristo della Concordia” una statua situata sulla cima di un monte e<br />
visibile da tutta la città. Anche da dove eravamo noi si vedeva<br />
perfettamente e sembrava che proteggesse tutta la città con le sue<br />
braccia aperte.<br />
Dopo aver percorso un lungo sentiero tra la foresta, siamo arrivati ai<br />
piedi della statua del Cristo.<br />
Alta 40 metri e pesante 2200 tonnellate, al suo interno è stata ricavata<br />
una scala a chiocciola che dà la possibilità di arrivare fino alla testa<br />
per godere del panorama. In quel momento purtroppo era chiusa<br />
perché la stanno ristrutturando ma comunque il panorama era da<br />
mozzafiato.<br />
Cristo della Concordia<br />
117
Il 24 agosto siamo stati portati a fare un’escursione tra i sentieri della<br />
foresta costruiti dalla popolazione degli Inca. Passeggiamo tutto il<br />
giorno in mezzo alla foresta e attraversammo anche un ponte a<br />
strapiombo nel vuoto, di quelli formato da assi di legno legate da una<br />
corda; tipico nei film di Indiana Jones. Lungo il sentiero si potevano<br />
osservare anche delle immagini graffiate nella roccia, reperti storici<br />
molto importanti. Passeggiando nella foresta incontrammo tantissimi<br />
pappagalli e ci imbattemmo in piante particolarissime. Fu bellissimo<br />
camminare all’interno di quel parco naturale, perché si entrava<br />
pianamente a contatto con la natura.<br />
Il giorno seguente, le missionarie ci portarono al “Monte del Cranio”,<br />
uno dei posti più incantevoli e suggestivi della zona. Parcheggiammo<br />
il pulmino ed una volta scesi fummo immersi in una gran calca di<br />
persone. Quel luogo era meta di tantissimi pellegrinaggi perché<br />
secondo la storia ricordava il luogo dove venne crocefisso Gesù<br />
Cristo.<br />
Tra le persone c’era gente di tutti i tipi, sia della zone, sia provenienti<br />
da altre parti; si riconoscevano dai diversi indumenti che portavano.<br />
Tra la folla, incontrammo anche diversi animali come il lama, le<br />
scimmie, i formichieri tenuti al guinzaglio e c’era gente che<br />
camminava anche con dei pappagalli sulle spalle.<br />
Appena passammo il cancello del santuario, davanti a noi si ergeva<br />
una grande Chiesa, e subito dopo iniziava il sentiero che portava alla<br />
cima del monte. Questa collina era completamente spoglia, non<br />
c’erano albero ne cespugli, ma solo sassi e pietre. Mentre<br />
camminavamo con la gente lungo il sentiero notammo che ogni tanto<br />
erano appoggiati sulle rocce dei martelli e dei picchetti. Virginia, la<br />
missionarie, ci spiegò che le persone che arrivano in pellegrinaggio<br />
devono raccogliere un sasso prima di ritornare alle loro case e<br />
riportarlo l’anno seguente. Portare il sasso, nelle abitazioni, serve per<br />
mantenere lontano il demonio. Questo posto, pur ricordando e<br />
118
venerando un episodio di Gesù non appartiene alla religione cristiana<br />
ma a quella evangelica.<br />
Martelli lasciati sulle rocce<br />
Rimane comunque un posto molto affascinante e pieno di colore;<br />
infatti la gran calca di persone che indossava la stoffa boliviana, tipica<br />
per i sui colori accesi, creava un arcobaleno di colori tra la gente.<br />
L’ultimo giorno prima del ritorno a Montero, fummo portati dalle<br />
missionarie nel centro di Cochabamba, nel mercatino etnico, dove<br />
avremmo potuto sbizzarrirci negli acquisti. Il mercatino era gigantesco<br />
e riconobbi anche della merce presente in vari negozi etnici italiani.<br />
Ricordo che presi una toga per il mio carissimo sacerdote della mia<br />
parrocchia per ringraziarlo di essermi stato vicino e diversi oggetti sia<br />
per me che per i miei amici.<br />
Ritornati a casa preparammo i bagagli e il 27 agosto, alla sera<br />
arrivammo a Montero.<br />
119
2.3.15 Riflessione comunitaria e rientro in Italia<br />
Il 28 agosto, le missionarie, organizzarono per noi un momento di<br />
riflessione comunitaria sull’esperienze fatta durante la nostra<br />
permanenza. Questo ritiro vedeva due appuntamenti; la partecipazione<br />
ad una riflessione sull’eucaristia come momento di incontro con Gesù<br />
e una seconda parte rappresentava un momento di esilio personale dal<br />
gruppo per pensare e incanalare tutte le emozioni che abbiamo<br />
vissuto. La sera ci sarebbe stato il confronto durante la preghiera<br />
conclusiva.<br />
Dopo l’incontro con il sacerdote sull’eucaristia, mi incamminai per<br />
trovare un posto tranquillo in cui pensare. Mi sdraiai sotto ad un<br />
albero e inizia a pensare a quello che avevo appena sentito e a quello<br />
che avevo assorbito in quest’esperienza.<br />
Preso un foglio, inizia a scrivere queste parole:<br />
“L’eucaristia è un dono speciale che solo con cuore puro e sincero<br />
riusciamo a percepire e ad assaporare. Il dono è Gesù; il suo corpo ci<br />
viene offerto come sacrificio. È bello pensare a Dio come a un Padre<br />
che offre. Abbandona in suo sacrificio il suo unico figlio lasciando che<br />
si donasse per tutta l’umanità. Saper di far parte di quell’umanità è<br />
forse il sentimento di fraternità che accomuna ogni cristiano.<br />
L’eucaristia è il filo che ci lega; La comunione è un momento che ci<br />
raduna, che ci unisce. La prima messa in Bolivia me la ricorderò per<br />
tutta la vita. Anche se la lingua , i canti sono differenti da quelli<br />
italiani, la cosa più importante è che eravamo tutti lì per un unico<br />
scopo , quello di ricevere il Signore. Questo è stato un momento in cui<br />
ho vissuto pienamente la fraternità e ogni domenica, in Italia, durante<br />
la messa ricorderò i miei fratelli boliviani che come me ricevono il<br />
corpo di Gesù nell’eucaristia. Alla base della fraternità c’è una<br />
profonda amicizia e questa viene alimentata dalla fiducia e dall’amore.<br />
120
L’amicizia è un unione permanente tra me e l’altro. Mi piace molto la<br />
parole permanente usata accanto al sentimento dell’amicizia, mette<br />
molta sicurezza specialmente se il tuo amico è Gesù.<br />
Questa esperienza sarà, per me, testimonianza della grandezza del<br />
Signore.<br />
Servirà tanto entusiasmo per annunziare quello che il Signore mi ha<br />
dato la possibilità di vedere e se l’ha fatto un motivo ci sarà; non<br />
agisce mai senza farci comprendere la sua volontà. Maria ci<br />
accompagna, Gesù si dona e dipende solo da noi lasciarci trasportare<br />
dal loro esempio.”<br />
Il giorno seguente fu dedicato a preparare la partenza, quindi abbiamo<br />
pulito tutta la casa dove siamo stati ospitati, abbiamo preparato le<br />
valige. Quando sono arrivata ero carica di roba e ora, tutto quello che<br />
avevo l’ho lasciato alle missionarie e mi sono portata dietro solo le<br />
cose che mi servivano per il viaggio.<br />
Foto con i giovani della parrocchia<br />
121
La mattina del 30 agosto abbiamo caricato i bagagli e poi siamo partiti<br />
per l’aeroporto. Mentre stavamo viaggiando per andare a prendere<br />
l’aereo una coda di moto-taxi e trufi ci seguiva. Era tanta gente del<br />
posto che voleva salutarci per l’ultima volta. Che grande emozione<br />
vedere tutta quella gente dietro al nostro pulmino.<br />
Arrivati all’aeroporto iniziò il momento più difficile, l’addio. Salutare<br />
le missionarie e tutta quella gente, con cui avevo trascorso uno dei<br />
mesi più belli della mia vita, che mi avevano insegnato tanto, mi<br />
rompeva il cuore. Infatti non riuscii a trattenere le lacrime e per tutto il<br />
volo fino a San Paolo dai piansi la fine della mia avventura.<br />
Ritornati a Bologna, ad aspettarmi c’erano i miei genitori, e la mia<br />
carissima amica Enrica. Fui felicissima di vederli perché mi erano<br />
mancati davvero tanto in questo mese di lontananza. Ritornata a casa,<br />
iniziò il mese più difficile della mia vita. Il terrore di andare nei<br />
supermercati e vedere tanta abbondanza, non mi sentivo più utile in<br />
quello che facevo e quindi mi caricai di lavoro in parrocchia per<br />
sopperire a questa mia mancanza. Ed infine, la svolta più grande che<br />
diedi alla mia vita fu quella di iscrivermi al corso di laurea per<br />
diventare maestra per l’infanzia perché dopo questa esperienza mi resi<br />
conto che il mio destino era quello di lavorare a contatto con i<br />
bambini. Ed ora eccomi qui, ancora una volta a ripercorrere questa<br />
mia storia, per renderla finalmente cartacea e disponibile alla lettura di<br />
tutti.<br />
Anche questa è testimonianza e pur sapendo che le avventure di<br />
questo genere bisogna viverle in prima persona spero di avervi<br />
lasciato qualcosa mentre leggevate un piccolo pezzo della mia vita.<br />
122
Capitolo 3<br />
Quando Storie diverse si incontrano<br />
123
124
Quando Storie diverse si incontrano<br />
Durante la mia avventura, ho avuto la fortuna di conoscere tante<br />
persone che mi hanno accolto sempre con molta gioia; con il loro<br />
modo di fare caloroso e festoso non mi hanno mai fatto sentire una<br />
straniera.<br />
Ripensando alle emozioni che ho provato durante il mio viaggio, mi<br />
sono resa conto, che il tema dell’accoglienza dovrebbe diventare il<br />
fulcro centrale dei servizi presenti su tutti i territori.<br />
Quando parlo di servizi, posso parlare di tutte le istituzioni che ci<br />
circondano, anche le semplici associazioni di volontariato, perché il<br />
“saper accogliere” deve nascere da tutti coloro che sono,<br />
quotidianamente, a contatto con le persone.<br />
È soprattutto dentro ai servizi, che le persone si conoscono e si<br />
scambiano opinioni.<br />
L’accoglienza, dovrebbe essere più marcata soprattutto nelle scuole e<br />
nei servizi per l’infanzia, in quanto sono proprio quei luoghi in cui<br />
viene insegnata l’educazione ai bambini. Saper accogliere un’altra<br />
persona dovrebbe essere una buona pratica presente nel galateo di<br />
chiunque, per riuscire a vivere tutti in modo pacifico. L’educazione,<br />
rappresenta un insieme di insegnamenti che la scuola e i genitori<br />
dovrebbero insegnare ai bambini, perché è una dote importante e<br />
preziosa per la crescita personale. I genitori, per lasciare in piena<br />
fiducia il proprio bambino alle insegnanti, devono essere garantiti da<br />
un ambiente rassicurante; devono essere accolti calorosamente e<br />
l’istituzione, deve comunicare ospitalità per riuscire a sua volta a<br />
trasmetterla ai bambini.<br />
125
3.1 Accogliere la persona<br />
Quando parliamo di persona, parliamo di individuo unico nel suo<br />
genere. Non stiamo parlando di genere sessuale, ma di tutto l’elenco<br />
di caratteristiche che ci differenzia e che ci rende unici. Presi uno ad<br />
uno siamo completamente distinti, sia a livello fisico, sia caratteriale,<br />
sia cognitivo, sia emozionale. Vero è che però abbiamo delle<br />
caratteristiche collettive uguali, ovvero delle similitudini derivanti<br />
dalla nostra storia e causate dell’essere tutti uomini. Quando vogliamo<br />
accogliere una persona la dobbiamo ricevere con tutta la sua<br />
complessità che ne consegue.<br />
Sapendo che non siamo uguali, dobbiamo anche essere pronti a<br />
scambiarci delle opinioni e a volte si potrebbe arrivare anche a litigare<br />
se la questione ci importa particolarmente.<br />
“Accoglienza”, è la parola-chiave della pedagogia contemporanea,<br />
perché solo dall’apertura verso l’altro nasce il dialogo e solo<br />
attraverso l’abbattimento delle barriere legate ai pregiudizi si può<br />
favorire la crescita culturale.<br />
In una scuola, che sempre più si caratterizza come luogo integrato di<br />
formazione è necessario che si avvii un libero scambio di relazioni<br />
interpersonali e che si parli di accoglienza a tutti i livelli.<br />
Le fondamenta per permettere questi scambi reciproci, per una<br />
crescita personale, sono principalmente due: non giudicare<br />
dall’apparenza la persona che ci troviamo di fronte rivestendola di<br />
pregiudizi e secondo, cercare delle situazioni per permettere che<br />
l’individuo si apra e si possa far conoscere. Lo sconosciuto, possiamo<br />
prendere l’esempio di uno straniero come sono stata io in Bolivia, non<br />
essendo nel suo paese di origine, si sente spiazzato, non conosce<br />
nessuno, non conosce la lingua, qualsiasi angolo è nuovo e di<br />
conseguenza parte già insicuro e in posizione di difesa. Per questi<br />
motivi, dobbiamo essere noi a fare il primo passo verso chi si<br />
avvicina, verso chi vuole essere accolto. Se una persona si trova<br />
126
davanti a se un muro difficilmente cercherà di scavalcarlo, farà<br />
sempre prima a voltargli la spalle cercando un’altra direzione da cui<br />
passare e creando un secondo muro di conseguenza.<br />
Aprire le porte alla conoscenza reciproca, superato il primo momento<br />
di imbarazzo, aiuta ad uno scambio reciproco di saperi e sostiene il<br />
confronto tra storie culturali diverse.<br />
Rimanendo nella metafora della “porta” dobbiamo pensare che due<br />
persone che non si conoscono sono come due porte chiuse che non<br />
rendono comunicanti due stanze diverse. Se le due porte, invece che<br />
cercare di conoscere il contenuto delle proprie stanze aprendosi a<br />
vicenda, danno più importanza al vociferare delle persone, non fanno<br />
che ricoprirsi di stereotipi e pregiudizi vicendevolmente. In questa<br />
situazione è come se le due porte si chiudessero ulteriormente con un<br />
lucchetto, rendendo minime le possibilità di apertura. Questo è quello<br />
che gli stereotipi e i pregiudizi provocano, la creazione di false<br />
ideologie sull’altra persone che rischiano di negare la possibilità di<br />
passaggio e conoscenza reciproca.<br />
Abbiamo parlato degli stereotipi e dei pregiudizi anche nel primo<br />
capitolo di questa tesi, ma penso sia giusto ripetere questi concetti,<br />
perché oggi nella nostra società, con tutti i nuovi mezzi di<br />
comunicazione che nascono, è sempre più difficile parlare negli occhi<br />
alle persone. Evitando di sentire la voce dell’interlocutore, il più delle<br />
volte non si comprende pienamente quello che l’altro ci vuole<br />
comunicare e nascono anche tra di noi delle incomprensioni che<br />
portano alla creazione di pregiudizi su chi non conosciamo.<br />
Per aiutare una buona accoglienza bisogna impegnarsi per creare delle<br />
situazioni e dei momenti di incontro con l’altro; dare la possibilità di<br />
farsi conoscere allo sconosciuto, renderlo partecipe della nostra vita e<br />
fare vedere che siamo interessati a lui, alla sua persona, alle sue<br />
conoscenze, alla sua cultura e alla sua storia.<br />
Soprattutto, nei servizi per la prima infanzia, bisogna basare il servizio<br />
proprio sull’accoglienza, sia dei bambini e sia delle famiglie. Tutto<br />
127
deve basarsi sull’accoglienza, dagli spazi, ai tempi, alle routine<br />
quotidiane fino ai modi di fare o agire verso l’altro. Tutto è importante<br />
per rendere accogliente un servizio perché anche una piccola<br />
dimenticanza può ricadere sulla valutazione degli utenti. Le scuole,<br />
sono un luogo di incontro privilegiato nel quale si riescono a mettere a<br />
contatto numerose persone diverse con delle difficoltà simili, come la<br />
crescita di un figlio o l’insicurezza delle scelte da fare per la sua<br />
educazione. Proprio per le necessità di superare questi problemi,<br />
all’interno di questi servizi le educatrici e le insegnanti giocano un<br />
ruolo importantissimo, perché fanno da ponte tra i genitori dandogli la<br />
possibilità di farli conoscere.<br />
Imparare ad accogliere è essenziale nella nostra vita, soprattutto oggi,<br />
che ci troviamo a dover aprire le nostre porte anche a delle culture<br />
completamente diverse dalle nostre. Imparare a scambiare opinioni<br />
con i nostri connazionali è difficile, basti pensare agli scontri culturali<br />
ancora presenti in Italia tra i cittadini del Nord e quelli del Sud, oppure<br />
avvicinando la lente di ingrandimento si possono notare anche delle<br />
dispute tra gli abitanti di una città come Modena e una come Bologna.<br />
Le controversie sono rimaste solo a parole oppure radicate nei modi di<br />
dire e nei proverbi ma alimentano continuamente la serie di stereotipi<br />
già presenti.<br />
Ulteriormente, dovremmo imparare ad aprire la nostra conoscenza<br />
anche agli stranieri, a chi vive nel nostro paese provenendo da altre<br />
terre. Verso gli stranieri il nostro animo è scuro e pieno di giudizi<br />
affrettati nei loro confronti. A volte, mi capita di ascoltare delle<br />
persone che dicono: “ Non pensavo, ma quello là, che viene dal<br />
Marocco, è un bravo ragazzo!”. Penso che a tutti sia capitato di<br />
ascoltare delle frasi del genere, oppure di pronunciarle e allora io mi<br />
chiedo perché ci meravigliamo, perché ci fasciamo la testa prima<br />
ancora di conoscere le persone. L’accoglienza, il saper far entrare<br />
nella nostra vita persone diverse, è il primo passo indispensabile per<br />
conoscere le persone, per farci capire che tante volte gli stereotipi<br />
128
sono solo delle maschere che mettiamo a chi non conosciamo, per<br />
renderci la vita più semplice senza fare la fatica di comprendere le<br />
persone.<br />
Quando accogliamo un persona, dobbiamo cercare di metterla a<br />
proprio agio, di farla sentire come a casa sua, di farle vivere la<br />
situazione dell’incontro famigliare e confortevole.<br />
Proprio per questo dobbiamo fare attenzione ad un altro atteggiamento<br />
che facilmente ci condiziona nelle scelte: l’etnocentrismo, ovvero,<br />
quel fenomeno che prevede l’autopreferenza ad un gruppo piuttosto<br />
che ad un altro. Esso si manifesta attraverso la valutazione di ogni<br />
cosa secondo i valori e le norme proprie del gruppo di appartenenza<br />
del soggetto, come se questo gruppo fosse l’unico modello di<br />
riferimento.<br />
Il soggetto etnocentrista si crede migliore rispetto ai membri degli altri<br />
gruppi e immagina lui e i suoi compagni i soli veri esseri umani sulla<br />
terra.<br />
Questa mentalità, è la base dell’ideologia razzistica, ed è per questo<br />
che i criteri etnocentrici devono essere abbandonati quando si cerca di<br />
accogliere un’altra persone, perché a volte non bisogna fossilizzarsi<br />
nella propria mentalità perché nella vita possiamo incontrare e<br />
apprendere dagli altri idee e spunti di riflessione migliori dai nostri.<br />
“l’ignoranza è più vicina alla verità del pregiudizio.”<br />
129<br />
Denis Diderot<br />
Una delle difficoltà maggiori in campo educativo è quella suscitata<br />
all’accoglienza, il saper giocare le carte giuste per far sentire accettate<br />
e benvolute le persone che entrano nel servizi.<br />
Mi permetto di preannunciare alcuni consigli perché ritengo che la<br />
gente di Montero abbia messo in pratica una giusta accoglienza con<br />
noi volontari perché non ci siamo mai sentiti negati e fastidiosi ai loro<br />
occhi. Siamo stati trattati normalmente, come chiunque altro cittadino
o persona del luogo. A volte le persone ci consideravano talmente<br />
tanto come uno di loro che si dimenticavano che se parlavano troppo<br />
velocemente non riuscivamo a capirli. Le grandi feste che ci facevano<br />
quando ci vedevano sono servite a non metterci in imbarazzo.<br />
Nel nostro paese, noi italiani ci dobbiamo comportare in modo<br />
accogliente prima verso noi stessi, poi verso che ci circonda, sia<br />
conjcittadini autoctoni sia stranieri perché non c’è nessun motivo<br />
logico per trattare in modo diverso chi arriva da un altro paese.<br />
Accogliere la persona, non è una cosa semplice perché dobbiamo<br />
imparare a conoscerla in tutte le sue sfaccettature, in tutti i suoi lati,<br />
sia quelli più piacevoli e simili ai nostri ma anche in quelli contrari al<br />
nostro modo di pensare.<br />
3.2 Accogliere la Storia della persona<br />
Quando incontriamo una persona dobbiamo tener presente del suo<br />
vissuto, delle esperienze che ha superato nella sua vita. Le esperienze<br />
che viviamo ci fanno diventare quello che siamo, ci fanno prendere<br />
delle sfumature del carattere diverse a seconda di come viviamo le<br />
vicissitudini che la vita ci propone.<br />
Con i bambini è la stessa cosa, anche se le esperienze saranno<br />
numericamente inferiori rispetto ad una persona adulta dobbiamo<br />
ricordarle e non sottovalutarle.<br />
Saper accogliere la persona nelle sue complessità vuol dire saper<br />
accogliere anche la sua storia, il suo passato, il suo presente e anche il<br />
suo futuro ovvero i suoi sogni e i desideri. Conoscere una persona<br />
vuol dire farsi raccontare come ha vissuto gli anni della sua vita per<br />
capire cosa l’ha fatta diventare quello che è oggi.<br />
Quando ci troviamo di fronte una persona straniera abbiamo un’altra<br />
difficoltà da superare ovvero le differenze nella lingua parlata. Se una<br />
persona la si vuole conoscere si farà di tutto per trovare un punto di<br />
130
comunicazione che accomuna entrambi. Una volta trovato si è già<br />
posseduto un termine di somiglianza, di affinità, di similarità.<br />
Prendendo in esame sempre la mia esperienza penso che un possibile<br />
strumento di conoscenza che possa servire per unire due o più persone<br />
che non riescono a trovare un linguaggio verbale per potersi capire sia<br />
proprio la musica. Le note e la musicalità solcano i mari e tutti gli<br />
esseri umani comprendono le melodie.<br />
Nell’esperienza in Bolivia, la musica era onnipresente, in qualsiasi<br />
momento della giornata si ascoltava musica da qualsiasi punto della<br />
città. A noi volontari, la musica ha aiutato molto per comunicare con<br />
le altre persone. Sia perché ascoltando i brani musicali che piacevano<br />
di più a loro capivamo il loro genere di musica, i loro ritmi, veloci e<br />
latini. Successivamente, le brevi canzoncine che imparavamo ci<br />
venivano tradotte e quindi ci aiutavano ad avvicinarci anche alla<br />
lingua. Possiamo dire che la musica è stata la nostra maestra nella<br />
scoperta delle tradizioni e della lingua catalana.<br />
Abbiamo iniziato proprio con la musica, con queste melodie che<br />
hanno cullato l’incontro con la Bolivia e con la sua gente. Nei servizi<br />
bisognerebbe farsi aiutare molto dalla musica, sia per accogliere le<br />
persone sia per aiutarne la conoscenza essendo uno strumento che tutti<br />
riescono a comprendere. Attraverso la musica si può comunicare,<br />
semplicemente, perché con le note si possono ricreare rumori della<br />
natura, si possono creare delle suggestioni particolari e dei sottofondi<br />
che possono aiutare lo scambio culturale.<br />
«L’educazione all’uso delle facoltà sensoriali è una componente<br />
formativa fondamentale, soprattutto nell’attuale contesto<br />
multiculturale in cui quello verbale non può essere l’unico canale di<br />
espressione» 49 .<br />
Per esempio: prendendo come luogo possibile, i servizi per la prima<br />
infanzia, essenziale sarebbe permettere che i bambini stranieri possano<br />
portare la musica della loro terra nelle sezioni per poterla ascoltare<br />
49 R. DONDARINI, L’albero del tempo, Motivazioni, metodi e tecniche per<br />
apprendere e insegnare la storia, Patron Editore,Bologna 2007, p. 156.<br />
131
con gli amici. Sarebbe un semplicissimo modo per permettere ai<br />
bambini di trovare dei punti di appoggio per non sentirsi soli, inoltre<br />
sarebbe un ulteriore modo per ampliare il sapere dei bambini<br />
autoctoni, abituati alle solite canzoncine famigliari. La musica<br />
potrebbe essere un utile strumento per mettere in contatto e permettere<br />
lo scambio reciproco all’interno del servizi per la prima infanzia e<br />
«divenire un tramite che collega e integra le attività espressive in un<br />
approccio generalmente basato sul gioco creativo e sul piacere<br />
ludico.» 50<br />
Tutte queste differenze e difficoltà che le storie di ognuno, messe a<br />
confronto, causano, possono essere superate molto facilmente,<br />
ricordandoci di riprendere in mano gli strumenti che a noi sono più<br />
naturali.<br />
Non c’è bisogno di cercare i sistemi e le metodologie più impegnative<br />
e sconosciute per metter in comunicazione più persone diverse ma<br />
bisogna servirsi della quotidianità e della semplicità.<br />
«Peraltro decodificarne i linguaggi in maniera semplice partendo dalla<br />
spontaneità ed approdando ad una progressiva consapevolezza<br />
consente di comprendere i significati che ogni musica trasmette e<br />
comunica.» 51<br />
Quando impariamo a conoscere una persona, accogliendo la sua vita<br />
dobbiamo tener presente anche della famiglia che si occupa di quel<br />
individuo, che l’ha fatto crescere e aiutato a diventare quello che è.<br />
Importante è infatti saper accogliere i genitori, conoscere i parenti e<br />
gli amici. Prendo sempre d’esame i servizi per l’infanzia perché è di<br />
questo che si occupa il mio corso di studi ma non dimentico di dire<br />
che quello che affermo può essere reso possibile in tutti i servizi.<br />
Soprattutto negli asili nido bisogna dare molta importanza ai genitori,<br />
bisogna renderli partecipi in tutto quello che fanno i loro bambini<br />
perché sono sempre molto apprensivi e sono in costante<br />
preoccupazione quando si tratta di affidare i loro figli ad un estraneo.<br />
50 Ibid.<br />
51 Ibid. p.157.<br />
132
Sempre per aiutare la crescita della fiducia è necessaria la conoscenza,<br />
il dialogo, scoprire le usanze della famiglia per permettere al bambino<br />
di vivere in modo più sereno la vita all’interno del servizio.<br />
3.3 Accogliere l’Identità della persona<br />
Oggi si parla molto di appartenenze e identità, si pensa al passato e<br />
alla storia che ci precede, ricerchiamo nelle cose passate dei punti di<br />
somiglianza con quello che siamo diventati e ci rendiamo conto che,<br />
con il tempo tutto cambia.<br />
Quando parliamo di identità parliamo di tutto quel bagaglio culturale<br />
che ci portiamo dietro, di tutte le caratteristiche che ci accomunano e<br />
che ci rendono unici.<br />
Identità è definita come «l’insieme di caratteristiche che rendono<br />
qualcuno quello che è, distinguendolo da tutti gli altri.» 52<br />
La nostra personalità è direttamente proporzionata alla nostra crescita<br />
interiore, esteriore e alle esperienze che contrassegnano ognuno di noi.<br />
In realtà ciascuno dispone di un’identità personale e nel contempo è<br />
partecipe e appartiene ad «identità collettive di ampiezza<br />
concentricamente sempre più ampia, da quelle famigliari a quelle<br />
comunitarie, da quella civica a quella nazionale, fino a quella<br />
continentale, umana e planetaria.» 53 Avere una di queste<br />
caratteristiche non deve escludere a priori le altre. È importante,<br />
quindi, non dimenticasi che pur essendo esseri umani completamente<br />
diversi ed unici, siamo anche persone che fanno parte di insiemi di<br />
esseri umani con caratteristiche simili.<br />
Questa è una delle cose più belle dell’essere una creatura umana; poter<br />
possedere più di una caratteristica diversa e che le nostre personalità<br />
52 Definizione del termine “identità” presente nel dizionario N. ZINGARELLI, lo<br />
Zingarelli, dizionario della lingua italiana, Bologna 2000.<br />
53 R. DONDARINI, L’albero del tempo, Motivazioni, metodi e tecniche per<br />
apprendere e insegnare la storia, Patron Editore,Bologna 2007, p. 109.<br />
133
sono create da vari mattoni che in fila uno dietro l’altro danno vita alle<br />
nostre identità.<br />
Quando si parla di identità civiche ed etniche, a volte si rischia anche<br />
di chiudersi dentro alla propria cerchia di presunti simili, dando le<br />
spalle ed evitando di accogliere le culture diverse. Recuperare<br />
elementi della propria tradizione non significa creare steccati, ma<br />
serve ad avere una maggiore autocoscienza utile anche all’incontro<br />
con esponenti di altre culture, nella consapevolezza che comunque con<br />
il loro arrivo, gli immigrati e gli stranieri, provocano ineludibili<br />
fenomeni di acculturazione e di trasformazione delle identità<br />
complessive.<br />
Se prendiamo in mano un album fotografico di alcuni anni fa, ci<br />
rendiamo conto che le foto ritraggono una persona diversa da quella<br />
che siamo noi oggi, stessa cosa riguarda anche la nostra società, infatti<br />
non possiamo ignorare che l’Italia si sia modificata rispetto a quella<br />
degli anni passati. La storia fa il suo corso e i cambiamenti e le<br />
vicissitudini, mutano e modificano la nostra quotidianità.<br />
Un esempio vissuto da tutti noi in prima persona è il fenomeno<br />
dell’immigrazione che solo negli ultimi anni è letteralmente decollato.<br />
Di conseguenza è cambiato anche il nostro modo di agire nella<br />
quotidianità; un esempio derivato dall’emigrazione e dalla<br />
globalizzazione è quello che ha come materia di confronto la lingua<br />
parlata. Una volta, la gente parlava il dialetto della zona in cui viveva<br />
perché non conosceva correttamente la lingua italiana. Oggi per<br />
permettere alle persone di riuscire a comunicare con tutti, soprattutto<br />
con gli stranieri presenti nel nostro territorio bisogna conoscere anche<br />
l’inglese o il francese oltre che l’italiano. Essere a contatto più spesso<br />
con stranieri ci condiziona anche nella nostra vita e non è sempre<br />
considerato un male. Grazie al confronto con gli stranieri, con chi ha<br />
delle caratteristiche diverse da noi, può essere considerato una<br />
ricchezza inestimabile perché con il confronto si possono imparare<br />
infinità di cose nuove.<br />
134
La nostra vita è cambiata molto rispetto alla vita che facevano i nostri<br />
nonni, abbiamo più tecnologia, più confort, abbiamo tante cose in più<br />
rispetto a loro, abbiamo talmente tante cose che ci dimentichiamo di<br />
dargli il giusto valore. Questo è quello che invidiamo ai nostri nonni,<br />
la semplicità con cui vivevano la loro vita, la lentezza e la calma con<br />
cui facevano le loro faccende quotidiane. Ogni epoca ha i suoi “pro” e<br />
i suoi “contro” ma ogni tempo ha la sua storia, e «i nostri antenati non<br />
erano necessariamente più saggi di noi e le loro scelte non furono<br />
sempre quelle giuste;sapevano però che erano l’esperienza e la prova<br />
del tempo a suggerire la strada da seguire» 54 .<br />
È essenziale tenere presenti ed individuare le identità e le diversità<br />
attuali che «sono aspetti inscindibili e complementari di una società<br />
multiculturale e che non possono prescindere dalla conoscenza delle<br />
loro premesse storiche.» 55<br />
D’altro canto, non bisogna smettere di pensare la vita in un’ottica di<br />
continue trasformazioni e le scelte che si prendono quotidianamente<br />
bisogna rifletterle in modo responsabile, pensando alle conseguenze<br />
che quello che facciamo si ripercuoterà sulle generazioni future.<br />
Negli ultimi anni, la società, sta impiantando nella mente delle<br />
persone una visione strumentalistica dell’identità. Tutti i mezzi di<br />
comunicazione parlano incessantemente di moda, macchine di lusso,<br />
creme per la cura del corpo, bisogno incessante dell’estetista, come se<br />
la nostra identità fosse determinata dal fisico; il corpo come persona.<br />
Non possiamo dire che una persona è creata solo di carne, ma ha<br />
anche una personalità, ha dei sentimenti, ha tutte quelle altre<br />
caratteristiche interne ed intime che la rendono speciali. Purtroppo<br />
oggi, la specificità del corpo, con la chirurgia estetica, che è arrivata a<br />
poter modificare qualsiasi cosa, ci rende possibili di diventare quello<br />
che vogliamo esteriormente. Se la natura ci ha dati uno specifico sesso<br />
54 R. DONDARINI, Le radici e le ali. Sulle tracce della nostra storia. In Dentro la<br />
storia a cura di G.GRECO e D.MONDA, Napoli 2003, pp. 185-215<br />
55 R. DONDARINI, L’albero del tempo, Motivazioni, metodi e tecniche per<br />
apprendere e insegnare la storia, Patron Editore,Bologna 2007, p. 109.<br />
135
e noi lo vogliamo cambiare oggi è possibile; possiamo cambiare i<br />
lineamenti del nostro volto e con un po’ di calma e l’aiuto di un<br />
chirurgo si possono prendere le sembianze dell’attrice che preferiamo.<br />
Il corpo, oggi è diventato quello che abbiamo di più importante,<br />
passiamo più tempo e cercare di abbellirlo piuttosto che pensare a<br />
vivere tranquillamente. Ragion per cui, ci sono tantissime persone, che<br />
soffrono di gravi depressioni, ma che girano con l’abito firmato dallo<br />
stilista più famoso.<br />
Pesanti fraintendimenti possono infatti riguardare proprio i concetti di<br />
identità e di appartenenza che non sono univoci e immobili come<br />
troppi li intendono, ma che vanno innanzitutto distinti e messi in<br />
relazione coi loro diversi raggi.<br />
Ognuno di noi possiede una propria identità personale ma nel<br />
frattempo convive con identità collettive che appartengono a lui e ad<br />
altri esseri umani.<br />
Le nostre identità, sono in continua mutazione, e quindi non sono<br />
inamovibili e fisse né a livello personale, ne a livello collettivo,<br />
cambiano con il tempo e attraverso le situazioni che dobbiamo<br />
affrontare ogni giorno.<br />
Penso che per spiegare meglio in concetto di cambiamento di identità<br />
della persona mi faccio aiutare da una metafora.<br />
Prendiamo un albero e asserviamo lo da vicino, dividiamolo in tutte le<br />
sue parti per poter osservare meglio il suo funzionamento.<br />
136
Figura 1 Schema dell'albero<br />
Alla base della pianta ci sono le radici che permettono all’albero di<br />
mantenersi retto e solido in piedi sulla terra. Le radici gli permettono<br />
anche di ricevere il nutrimento necessario per mantenere in buono<br />
stato le sue funzioni vitali.<br />
Le radici, metaforicamente parlando, rappresentano i nostri valori<br />
personali immutabili, le basi della nostra personalità, le nostre<br />
sicurezze interiori, gli insegnamenti che fin da piccini ci hanno sempre<br />
insegnato i nostri genitori o parenti. Sono quei principi saldi nella<br />
nostra identità che possono migliorare ma non mutare completamente<br />
e ci permettono di sostenere la nostra vita, le nostre scelte; noi<br />
prendiamo le decisioni quotidiane in base alle nostre radici di sapere,<br />
in base ai nostri valori, che ci rendono stabili nel tempo.<br />
137
Subito sopra le radici inizia il tronco, colui che regge la pianta, dalla<br />
sua grossezza, si determina la maestosità e la vitalità dell’albero. Sotto<br />
la corteccia, corre la ninfa, la sostanza che dà energia e che permette<br />
alla pianta di crescere.<br />
Il tronco rappresenta le nostre esperienze, il nostro vissuto quotidiano<br />
che ci troviamo ad affrontare in ogni momento.<br />
Le decisioni che prendiamo nella nostra vita, vengono determinate<br />
dalle radici, dai nostri valori e le conseguenze delle nostre azioni<br />
possiamo identificarle nelle fronde.<br />
La chioma della pianta cambia sempre, a volte è carica di foglie, dopo<br />
alcuni mesi è spoglia ma arriva a dare anche dei frutti<br />
I cambiamenti della fronde illustrano quelli della nostra vita,<br />
rappresentano i mutamenti che la nostra identità consegue dopo tutte<br />
le esperienze che vive.<br />
Penso che l’immagine dell’albero rappresenti molto bene l’idea di<br />
cambiamento e la complessità dell’identità. Ognuno di noi è un albero,<br />
tutti siamo diversi perchè non esistono due piante completamente<br />
uguali, ma abbiamo caratteristiche che ci accomunano, che ci rendono<br />
simili.<br />
«Recuperiamo pure le radici, ma ricordiamo che sopra di esse c’è un<br />
tronco e ci sono delle fronde che vivono, crescono e danno frutti,<br />
cambiando continuamente l’immagine e l’identità complessiva del<br />
nostro albero comune.» 56<br />
Un’ulteriore considerazione non trascurabile deriva dal fatto che con<br />
ogni probabilità l’origine umana sia da collocare in Africa, i nostri<br />
antenati avevano la pelle scura ed erano sicuramente degli indigeni.<br />
Oggi noi, non trattiamo gli stranieri, chi ha la pelle di un altro colore<br />
come nostri fratelli, come nostri simili ma, anzi, cerchiamo di<br />
allontanarceli per non essere contaminati da una qualche malattia che,<br />
possono attaccarci, dalla loro terra natale,.<br />
56 Ibid. p.110<br />
138
«Conoscere le radici di atteggiamenti, culture e tradizioni, induce a<br />
individuarne i motivi e di conseguenza a favorire il rispetto delle<br />
diversità e rilevare le conformità di fondo e l’esigenza di partecipare<br />
attivamente ai grandi e ineluttabili fenomeni trasversali e comuni.» 57<br />
Dovremmo riflettere molto accuratamente e pensare che in fondo,<br />
anche se abbiamo delle caratteristiche diverse, facciamo tutti parte<br />
della natura umana e nessuna persona può ritenere la propria identità<br />
migliore di un’altra.<br />
57 Ibid.<br />
139
140
Conclusioni<br />
All’interno della nostra società, sono in elevato aumento le presenze<br />
straniere che cercano nel nostro territorio una via di fuga da guerre o<br />
da situazioni di miseria. Gli stranieri, sono caricati di stereotipi e<br />
pregiudizi che alimentano il distacco delle persone e rendono<br />
l’accoglienza e il confronto una possibilità lontana e oscura.<br />
Questa strada, delineata dall’egoismo e dalla non curanza degli altri, è<br />
sbagliata ma invece cercare di accogliere tutti gli uomini in spirito di<br />
fratellanza porta alla pace sia interiore e sia umana.<br />
Partendo per un viaggio come missionaria ho scoperto che conoscere<br />
le altre culture aiuta a comprendere i comportamenti delle persone.<br />
Come noi italiani, anche chi proviene da altre terre straniere ha delle<br />
tradizioni e degli ideali che vorrebbe sempre difendere e mantenere.<br />
Il sapere delle culture deve uscire liberamente dalle persone. Un po’<br />
come l’identità anche la cultura è unica per ogni persona perché è<br />
creata dalla storia personale di ognuno.<br />
È vero che esistono saperi collettivi che racchiudono gli uomini in<br />
grandi gruppi, ma non dimentichiamo che dalle singole persone<br />
sfociano storie diverse e che ognuno ha un vissuto unico ed<br />
insostituibile.<br />
All’interno della mia storia è possibile rivivere un’esperienza<br />
caratterizzata completamente dall’accoglienza; parlare di saluti, di<br />
sorrisi e di abbracci, sembra una realtà così diversa da noi, e invece<br />
basterebbe guardare la storia che ci precede per accorgerci che i nostri<br />
nonni quando si trovavano nelle piazze erano tutti amici.<br />
Se il mondo va in questa direzione, verso una via piena di odio e di<br />
indifferenza nei confronti degli altri, non è detto che noi non possiamo<br />
cambiare il susseguirsi degli eventi. Anche nel nostro piccolo ci<br />
dobbiamo ricordare che la storia siamo noi.<br />
141
Siamo proprio noi a fare la storia; quella che leggiamo sui libri è<br />
storiografia perché sono un susseguirsi di fatti e di vicissitudini che<br />
sono riguardate e riscritte dagli autori dei testi.<br />
Il testo di questa canzone è molto significativo, e, averlo incontrato<br />
sopra un libro, come tutte le citazioni che sono sparse nella tesi, mi ha<br />
dato la possibilità di riflettere.<br />
La storia siamo noi, nessuno si senta offeso,<br />
siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.<br />
La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.<br />
La storia siamo noi, siamo noi queste onde del mare,<br />
questo rumore che rompe il silenzio,<br />
questo silenzio così duro da raccontare.<br />
E poi ti dicono “Tutti sono uguali<br />
Tutti rubano alla stessa maniera”.<br />
Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa<br />
Quando viene la sera.<br />
Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone,<br />
la storia entra dentro le stanze e le brucia,<br />
la storia dà torto e dà ragione.<br />
La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere,<br />
siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.<br />
E poi la gente, ( perché è la gente che fa la storia)<br />
Quando si tratta di scegliere e di andare,<br />
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,<br />
che sanno benissimo cosa fare.<br />
Quelli che hanno letto milioni di libri<br />
E quelli che non sanno nemmeno parlare,<br />
ed è per questo che la storia dà i brividi,<br />
perché nessuno la può fermare.<br />
142
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,siamo noi, bella ciao,che<br />
partiamo.<br />
La storia non ha nascondigli,<br />
la storia non passa la mano.<br />
La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.<br />
143<br />
Francesco De Gregari<br />
Ogni persona che vive fa la storia. Per questo motivo affermo che noi,<br />
con anche i nostri gesti semplici e quotidiani possiamo cambiare la<br />
nostra società e renderla migliore.<br />
“Anche la persona più piccola può cambiare il corso del futuro”<br />
Anonimo<br />
L’errore più grave che possiamo fare è quello di sentirci inutili nella<br />
nostra vita. Ogni persona, ogni cosa è creata per vivere e fare storia.<br />
La più grande difficoltà in campo educativo è quella di lasciare che i<br />
bambini abbiamo e riescano a far uscire le loro doti, i loro saperi senza<br />
limitazioni e condizionamenti.<br />
Durante le attività devono essere lasciati completamente liberi di<br />
esprimere le loro idee e le loro emozioni senza che nessun adulto<br />
interferisca nelle creazioni.<br />
Lasciamo che le persone riescano a scrivere la storia di proprio pugno,<br />
specialmente i bambini che hanno appena iniziato a sperimentare e a<br />
vivere.<br />
La nostra storia, la nostra vita può essere solo migliorata e accresciuta<br />
dall’incontro con le altre persone, com’è successo per me nel mio<br />
viaggio e come vi avevo promesso nelle prime righe della tesi ora<br />
cercherò di fare coesistere in un unico pensiero le tre parole che danno<br />
vita all’accoglienza: Incontro, Dialogo e Diverso.
Nella vita incontriamo tantissime persone, tutte diverse, con una<br />
propria identità ed una propria personalità; è proprio attraverso il<br />
dialogo con l’altro che riusciamo a conoscere la sua storia e a<br />
comprendere la sua cultura che confrontata con la nostra ci permette<br />
di crescere e di diventare migliori.<br />
144
Bibliografia<br />
A. GENOVESE, Per una pedagogia interculturale, dalla stereotipia<br />
dei pregiudizi all’impegno dell’incontro, Bononia University Press,<br />
Bologna 2003.<br />
I. BOLOGNESI, A. DI RIENZO Io non sono proprio uno straniero.<br />
Dalle parole dei bambini alla progettualità interculturale,<br />
Franco<strong>Angeli</strong>, Milano 2007.<br />
B. M. MAZZARA Stereotipi e pregiudizi. Accettare luoghi comuni,<br />
conoscenze non verificate, giudizi preconfezionati: un’economia della<br />
mente che diventa un’avarizia del cuore. Bologna 1997.<br />
P. D’IGNAZI, Educazione e comunicazione interculturale, Carocci,<br />
Roma 2005.<br />
I. BOLOGNESI, A. DI RIENZO Di cultura in cultura: esperienze e<br />
percorsi interculturali nei nidi d’infanzia, Franco<strong>Angeli</strong> ,Milano<br />
2006.<br />
G. SPELTINI, Minori, disagio e aiuto psicosociale, Il Mulino,<br />
Bologna 2005.<br />
M. R. VITTORI Famiglia e intercultura. Quaderni dell’intercultura<br />
n. 25, Editrice missionaria italiana, Bologna 2003.<br />
145
GIOVANNI PAOLO II, Redemptoris missino, lettera enciclica circa<br />
la validità del mandato missionario,Paoline, 2003.<br />
R. DONDARINI, L’albero del tempo, Motivazioni, metodi e tecniche<br />
per apprendere e insegnare la storia, Patron Editore,Bologna 2007.<br />
R. DONDARINI, Le radici e le ali. Sulle tracce della nostra storia.<br />
In Dentro la storia a cura di G.GRECO e D.MONDA, Napoli 2003.<br />
146
Sitografia<br />
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2008/10/immigrati<br />
-caritas-migrantes-rapporto.shtml<br />
http://it.wikipedia.org/wiki/Internet<br />
http://it.wikipedia.org/wiki/emigrazione_ italiana<br />
http://www.magdiallam.it/node/5648<br />
http://www.clandestinoweb.com/number-news/scuola-sono-pi-di-500-<br />
mila-gli-studenti-stranieri-in-i.html<br />
http://www.kolbemission.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDP<br />
agina/31<br />
http://it.wikipedia.org/wiki/Bolivia<br />
http://www.kolbemission.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDP<br />
agina/145<br />
147