Giovanna Patrignani - Soroptimist International Club di Fano
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GIOVANNA PATRIGNANI<br />
La nobiltà fanese nel Seicento<br />
Non si può ovviamente parlare della nobiltà fanese nel Seicento senza avvertire la necessità <strong>di</strong> una<br />
sia pur sommaria indagine retrospettiva e <strong>di</strong> contestualizzazione storica per esaminare il fenomeno<br />
della nobiltà civica nella Marca pontificia.<br />
La Marca pontificia, che escludeva, dal „5 al „700, i territori compresi nel Ducato d‟Urbino,<br />
comprendeva il territorio che i geografi dell‟antico regime designavano comunemente con<br />
l‟espressione dall‟”Esi al Tronto”.<br />
Il <strong>di</strong>stacco dalla provincia della Marca dei territori situati a nord fin quasi all‟Esino e costituenti la<br />
signoria dei Montefeltro prima, Ducato d‟Urbino poi con i Della Rovere, consumatosi fra gli ultimi<br />
del Trecento e il corso del Quattrocento e mantenutosi fino a tutto il Settecento, riduceva l‟area<br />
dell‟attuale regione nella misura <strong>di</strong> quasi un terzo. L‟amputazione, specie lungo il litorale, risultava<br />
dunque imponente e implicava l‟inglobamento nello Stato <strong>di</strong> Urbino <strong>di</strong> città come Pesaro, Urbania,<br />
Fossombrone e Senigallia e l‟isolamento del <strong>di</strong>stretto <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>.<br />
Nel Ducato d‟Urbino, in un principato territoriale <strong>di</strong> limitate <strong>di</strong>mensioni, senza città con forti<br />
tra<strong>di</strong>zioni comunali (a parte Gubbio), e con una corte ben organizzata ed efficiente, la nobiltà si<br />
identificava senza gravi tensioni con gli uomini al servizio dei duchi.<br />
Chi era il nobile? Chi sono questi nobili che si organizzano in ceto chiuso ed egemonico così da<br />
comprimere e ridurre a porzioni modestissime il peso e lo spazio degli altri ceti urbani, da quali<br />
gruppi sociali traggono origine? Quali ne sono stati l‟ascesa, le forme del potere, il declino? Chi era<br />
la robusta aristocrazia locale, anche minore, che rivela uno spessore e una <strong>di</strong>ffusione insospettate,<br />
un‟estensione capillare oltre che nelle 22 città principali della Marca, in almeno altrettanti nuclei<br />
urbani, <strong>di</strong> <strong>di</strong>mensioni più modeste?<br />
Domanda spontanea che esige una risposta che, però, non risulta né facile né ovvia.<br />
Ri<strong>di</strong>mensioniamo la domanda restringendo l‟ambito cronologico e geografico ai secoli 5, 6 e 700 e<br />
a un settore particolarissimo del mondo nobiliare, come la nobiltà della Marca pontificia.<br />
Genericamente si può <strong>di</strong>re che la nobiltà della Marca nell‟antico regime costituiva la classe<br />
<strong>di</strong>rigente a livello locale che, organizzata secondo i moduli del governo aristocratico, risiedeva nelle<br />
città elaborando forme eleganti <strong>di</strong> vita citta<strong>di</strong>na e <strong>di</strong> costume, un proprio inconfon<strong>di</strong>bile “stile <strong>di</strong><br />
vita” more nobilium e che, attraverso la proprietà fon<strong>di</strong>aria e le funzioni pubbliche <strong>di</strong> cui era<br />
istituzionalmente investita, esercitava il potere sulle città stesse e sul contado.<br />
E‟ la classe <strong>di</strong>rigente che costituisce i centri decisionali, i vertici politico-amministrativi nelle<br />
“terre” della Marca pontificia all‟inizio dell‟età moderna, cioè dai primi del Cinquecento, quando il<br />
processo <strong>di</strong> centralizzazione e <strong>di</strong> burocratizzazione operato dal potere centrale cominciò ad attuare<br />
in modo vigoroso e coerente lo smantellamento <strong>di</strong> forme <strong>di</strong> potere pre-moderne come le signorie dei<br />
Malatesti, dei Varano e dei Montefeltro, fino all‟età napoleonica con la <strong>di</strong>scesa nell‟Italia centrale<br />
dell‟armata francese e la caduta dell‟assetto politico-istituzionale dell‟ancien régime in tutta la<br />
regione della Marca nel 1797, con la crisi del sistema privilegiato e l‟instaurarsi delle prime<br />
“municipalità”.<br />
Ceto nobile come ceto urbano dunque: nobiltà civica o patriziale delle città come nobiltà urbana,<br />
ossia nobiltà <strong>di</strong> reggimento. Ma la compenetrazione <strong>di</strong> città-campagna appare in quei secoli<br />
fortissima e operante proprio attraverso l‟azione me<strong>di</strong>atrice del ceto nobile che, in fondo, è tale<br />
principalmente in quanto possiede larghissime porzioni del red<strong>di</strong>to rustico.<br />
Fin dai primor<strong>di</strong> (epica omerica, Romani), e sia nell‟età antica che nell‟età moderna, nobiltà e<br />
potere sono stati concepiti come necessariamente coesistenti. Ma è nel Me<strong>di</strong>oevo che la coincidenza<br />
nobiltà-potere regio si evidenzia nettamente attraverso il passaggio dalla signoria fon<strong>di</strong>aria bassoromana<br />
e romano-germanica alla giurisi<strong>di</strong>zione feudale. Il feudalesimo, che si apre coi Carolingi,<br />
costituisce il capostipite ideale <strong>di</strong> tutta la nobiltà europea. Il vero nobile riconosce se stesso in una<br />
tavola <strong>di</strong> valori che si compen<strong>di</strong>ano nell‟ideale cavalleresco-cortese, inconcepibile senza il<br />
feudalesimo. Separazione <strong>di</strong> ceto, funzioni pubbliche, vita more nobilium: saranno questi i caratteri<br />
1
<strong>di</strong>stintivi dell‟aristocrazia europea dalla sua genesi – che va collocata nei secoli compresi fra l‟età<br />
carolingia e le crociate – e per tutti i secoli successivi, fino al declino nell‟Ottocento.<br />
Nobiltà ed esercizio <strong>di</strong> poteri pubblici sono dunque considerati inseparabili. Osservava Blaise<br />
Pascal (1623-62): “A <strong>di</strong>ciotto anni un nobile copre posti che altri occupano a cinquanta: sono<br />
trent‟anni guadagnati” (Pensées, 322).<br />
Già prima della fine dell‟antico regime (1797) esistevano nella Marca 22 città <strong>di</strong>rettamente soggette<br />
alla Santa Sede, nelle quali il potere centrale era rappresentato da un governatore prelato. 10 erano<br />
città ab antiquo, classificate come tali dal car<strong>di</strong>nale Albornoz nel 1357: tutte potevano vantare la<br />
cattedra vescovile e quasi tutte esercitavano il dominio su numerosi castelli: Ancona, Fermo,<br />
Camerino, Ascoli, Jesi, Recanati, Macerata, Fabriano, San Severino e <strong>Fano</strong>. Di queste 22 città, 16<br />
presentavano una separazione <strong>di</strong> ceto risalente <strong>di</strong> fatto ai sec. XV-XVI o talora anche più remota,<br />
come attesta il censimento effettuato nel 1776 dall‟Or<strong>di</strong>ne <strong>di</strong> Malta, che annovera queste città fra<br />
quelle la cui aristocrazia poteva provare la nobiltà bicentenaria richiesta per l‟ammissione<br />
all‟Or<strong>di</strong>ne, i cosiddetti gentiluomini <strong>di</strong> nome e d‟arme.<br />
Tale ratifica <strong>di</strong> separazione <strong>di</strong> ceto risaliva per <strong>Fano</strong> al 1489.<br />
Fra „5 e‟700 alcune professioni e cariche sono considerate qualifiche in qualche misura nobilitanti,<br />
costituendo le vie dell‟ascesa e i coefficienti <strong>di</strong> promozione sociale dei vari casati verso la nobiltà<br />
civica: la feudalità, il dottorato (le 4 università della Marca - Urbino, Fermo, Macerata, Camerino -<br />
sfornarono per secoli dottori in utroque), la pratica del <strong>di</strong>ritto, il notariato, le funzioni<br />
cancelleresche nei comuni e negli uffici dell‟amministrazione della giustizia, le cariche <strong>di</strong> corte e <strong>di</strong><br />
curia, la burocrazia dei funzionari, l‟esercizio della me<strong>di</strong>cina (con incarichi a corte o presso le<br />
università), la carriera ecclesiastica, la carriera militare, - accompagnati da un solido retroterra<br />
costituito dalla grossa proprietà fon<strong>di</strong>aria - hanno costituito il veicolo per l‟inserimento nei patriziati<br />
locali.<br />
Caratteristica dei sec. XVI-XVII è la scarsa mobilità sociale e demografica, per cui non rara è la<br />
sostituzione <strong>di</strong> alcune famiglie ad altre a causa della estinzione delle prime nelle seconde.<br />
Per tutto il periodo che va dal Cinque al Settecento antica nobiltà <strong>di</strong> derivazione feudale e recente<br />
nobiltà <strong>di</strong> <strong>di</strong>versa origine si imparentano <strong>di</strong> continuo attraverso connubi denominati dagli storici<br />
francesi intermariages, in base al destino comune <strong>di</strong> tutte le aristocrazie <strong>di</strong> rinsanguarsi<br />
perio<strong>di</strong>camente aggregando nuovi soggetti.<br />
In<strong>di</strong>viduare gli elementi del genere o stile <strong>di</strong> vita nobiliare (more nobilium) è importante giacchè<br />
consente <strong>di</strong> guardare alla nobiltà locale anche „dal <strong>di</strong> dentro‟.<br />
Regole <strong>di</strong> condotta e modo <strong>di</strong> vita che non pare si <strong>di</strong>fferenziassero se non negli aspetti quantitativi<br />
rispetto a quanto in uso presso l‟aristocrazia maggiore. Anzitutto la <strong>di</strong>mora, che in genere è un vero<br />
e proprio palazzo. Ampio e a 2 o 3 piani oltre al pianoterra, non sempre accompagnato dal cortile o<br />
dal giar<strong>di</strong>no, ma fornito immancabilmente <strong>di</strong> un notevole numero <strong>di</strong> vani riservati ad uso <strong>di</strong><br />
rappresentanza e posti al primo piano o “piano nobile”, ove si accede attraverso un ingresso e una<br />
scala decorati a colonne e a stucchi. Raramente manca la cappella o oratorio privato, regolarmente<br />
officiato e munito delle sacre suppellettili. A volte, un salone al pianoterra o al primo piano è<br />
a<strong>di</strong>bito a teatro domestico con palcoscenico sopraelevato e strutture in legno <strong>di</strong>pinto. Tali palazzi<br />
nobiliari sono gli unici e<strong>di</strong>fici 5-6-settecenteschi che, insieme a quelli a<strong>di</strong>biti a sede comunale e alle<br />
chiese, dominavano per mole e per fattura sul restante delle costruzioni e che contribuiscono a<br />
conferire, anche attualmente, alle località in cui si sono conservati, un aspetto particolare e<br />
inconfon<strong>di</strong>bile.<br />
Alla abitazione più comoda e abituale, sempre situata all‟interno della cerchia murata, faceva<br />
riscontro e si accompagnava, <strong>di</strong> regola, la <strong>di</strong>mora <strong>di</strong> villeggiatura, spesso casino <strong>di</strong> caccia, a volte<br />
villa vera e propria, posta quasi sempre nell‟ambito territoriale del comune <strong>di</strong> residenza ed usata nei<br />
mesi della tarda stagione estiva e del primo autunno. Anche qui raramente mancava la cappella, a<br />
volte ospitata nell‟e<strong>di</strong>ficio principale, a volte costituita da un corpo a sé stante, in prossimità<br />
dell‟e<strong>di</strong>ficio stesso. Molte <strong>di</strong> queste residenze <strong>di</strong> villeggiatura sono oggi ridotte a case coloniche, ma<br />
si <strong>di</strong>stinguono nettamente per la fattura accurata che presenta talora architravi decorati, cornicioni,<br />
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iquadri, lesene, portali o zoccolo in bugnato, stemmi e lapi<strong>di</strong> alle pareti esterne, specie nella<br />
facciata principale. Erano sparse un po‟ ovunque e prevalentemente nelle zone <strong>di</strong> me<strong>di</strong>a valle. Per<br />
quelle scomparse, toponimi ne rammentano l‟esistenza.<br />
La presenza <strong>di</strong> teatrini privati nei palazzi nobiliari e, specie nella seconda metà del Settecento, la<br />
costruzione <strong>di</strong> teatri pubblici, con annesse sale <strong>di</strong> riunione e conversazione, rivela l‟attenzione<br />
de<strong>di</strong>cata dalla nobiltà alle rappresentazioni e alla musica e la volontà, sia pure vigilata ed<br />
accademica, <strong>di</strong> incontrarsi e <strong>di</strong>scuterne. Anche nei teatri pubblici, la partecipazione della nobiltà<br />
locale, a cui vengono assegnati in uso esclusivo uno o due or<strong>di</strong>ni <strong>di</strong> palchi, dava modo <strong>di</strong><br />
riconfermare orgogliosamente, anche attraverso lo sfarzo e l‟esibizione <strong>di</strong> abbigliamenti particolari,<br />
la visibile separazione fra l‟oligarchia dominante e il resto della popolazione.<br />
Naturalmente, in or<strong>di</strong>ne alle occupazioni e agli svaghi, le possibilità per la nobiltà <strong>di</strong> ostentare il<br />
proprio rango e trovarne conferma non mancavano. Anche la partecipazione alle funzioni e<br />
cerimonie religiose per i nobili veniva a costituire occasione quasi <strong>di</strong>uturna <strong>di</strong> riba<strong>di</strong>re - attraverso<br />
l‟intervento quasi in corpo, l‟esibizione <strong>di</strong> una certa pompa, la pratica <strong>di</strong> particolari rituali, il<br />
servizio <strong>di</strong> mansioni riservate, l‟uso <strong>di</strong> determinati seggi - il carattere chiuso del ceto e la propria<br />
appartenenza ad esso.<br />
Ma era sui temi aral<strong>di</strong>ci e <strong>di</strong> <strong>di</strong>ritto nobiliare che l‟orgoglio e la coscienza <strong>di</strong> classe si misuravano in<br />
pieno. La mera appartenenza ai ceti chiusi aveva consentito (almeno fino a tutto il Seicento)<br />
l‟ammissione agli or<strong>di</strong>ni militari <strong>di</strong> cavalleria, da sempre preclusi a chi non potesse provare <strong>di</strong><br />
essere “gentiluomo <strong>di</strong> nome e d‟armi”, cioè nobile da quattro generazioni.<br />
Anche nell‟aral<strong>di</strong>ca propriamente detta, come arte del blasone, il genio dei nobili ebbe modo <strong>di</strong><br />
impegnarsi e <strong>di</strong>spiegarsi senza risparmio. Così, accanto agli stemmi in pietra (spesso con smalti e<br />
metalli) che ornavano chiese e <strong>di</strong>more urbane e rustiche, - molti dei quali ancora esistenti -, non<br />
mancò la compilazione <strong>di</strong> veri e propri stemmari, raccolte degli stemmi delle famiglie nobili <strong>di</strong> una<br />
città o <strong>di</strong> un paese, composti per uso e interessi privati, per legittimare <strong>di</strong>ritti e pretese legati a titoli<br />
nobiliari.<br />
L‟archivio familiare assurgeva a simbolo della continuità della famiglia nobile, così come un<br />
riflesso importante della tra<strong>di</strong>zione nobiliare fu la rilevanza e il significato nuovo assunti dalla<br />
ricerca genealogica e dagli alberi genealogici.<br />
I nobili non ignorarono neppure i mezzi <strong>di</strong>retti ad aggirare la funzione uguagliatrice e il carattere<br />
definitivo della morte, che veniva, se non eliminato, in qualche modo attenuato dai sepolcreti<br />
gentilizi, <strong>di</strong>retti come a perpetuare nell‟al <strong>di</strong> là la con<strong>di</strong>zione nobiliare dei proprietari e dai<br />
fidecommessi (<strong>di</strong>sposizione testamentaria con cui il testatore imponeva all‟erede o legatario<br />
l‟obbligo <strong>di</strong> conservare e trasmettere i beni ai <strong>di</strong>scendenti o ad un ente pubblico), ampiamente<br />
<strong>di</strong>ffusi, anche a livello della nobiltà locale minore, istituiti ad evitare la <strong>di</strong>spersione dei patrimoni e,<br />
dunque, ad assicurare la sopravvivenza del genere <strong>di</strong> vita.<br />
Quasi tutte le principali chiese delle città conservano ancora lapi<strong>di</strong> e pietre tombali, iscrizioni,<br />
stemmi in pietra ed altre decorazioni funerarie, che testimoniano l‟esistenza della riserva a famiglie<br />
nobili del <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> sepoltura in posizione speciale e privilegiata, laddove al restante della<br />
popolazione rimaneva, senza <strong>di</strong>stinzioni <strong>di</strong> epitaffio, la fossa comune.<br />
Tipico esempio rimane ancora la cappella patrizia dei Nolfi nel duomo <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>, celebrativa e<br />
funeraria insieme, con affreschi del Domenichino, all‟apice della fama, commissionati e pagati con<br />
una somma altissima - 4.000 scu<strong>di</strong> – dal nobile fanese Guido Nolfi (1551-1627), giurista <strong>di</strong> fama,<br />
con incarichi presso la corte papale e mecenate <strong>di</strong> artisti, tipico rappresentante <strong>di</strong> quella cerchia <strong>di</strong><br />
nobili che, tra la provincia e la capitale, formava una costellazione <strong>di</strong> interessi economici e culturali<br />
intorno al papa fanese Clemente VIII Aldobran<strong>di</strong>ni, proveniente dalla stessa città e ceto sociale.<br />
Dopo oltre 15 anni <strong>di</strong> lavori, lo stesso committente ne esaltava l‟inaugurazione con una raccolta<br />
poetica composta anche da poeti <strong>di</strong> fama in onore della cappella, e<strong>di</strong>ta in Roma per il giubileo del<br />
1625: il culto <strong>di</strong> famiglia si saldava con l‟esibizione <strong>di</strong> “meraviglie” in versi barocchi.<br />
Sintomi <strong>di</strong> debolezza e <strong>di</strong> declino della classe nobiliare emergono già nettamente nel corso del<br />
Seicento e si fanno imponenti e <strong>di</strong>ffusi nel Settecento, rivelandosi irrefrenabili. Si tratta <strong>di</strong> 2 aspetti<br />
3
del medesimo problema, riscontrabile anche in altre nazioni e stati: da un lato il progressivo e<br />
generale esaurimento numerico delle famiglie nobili, evidenziato dalle <strong>di</strong>fficoltà che si riscontrano a<br />
radunare “in valido e sufficiente numero” i corpi amministrativi che gli aristocratici compongono in<br />
tutto o in parte determinante, e dall‟altro la severità della chiusura <strong>di</strong> ceto che vanifica <strong>di</strong> fatto ogni<br />
possibilità <strong>di</strong> rinnovare, in misura adeguata, il corpo sociale dei nobili e le loro organizzazioni<br />
istituzionali.<br />
E‟ <strong>di</strong>fficile <strong>di</strong>scernere in quale misura, a determinare l‟atteggiamento rigidamente esclusivistico nei<br />
confronti delle altre classi sociali assunto dalla nobiltà della Marca nel 6 e Settecento, abbiano<br />
contribuito l‟orgoglio <strong>di</strong> casta e il <strong>di</strong>sprezzo acritico e pregiu<strong>di</strong>ziale verso i ceti inferiori, sentimenti<br />
accolti e nutriti dal gruppo dominante. Le motivazioni si compen<strong>di</strong>ano nel senso <strong>di</strong> repulsione verso<br />
gruppi che si reputano rozzi, ignoranti ed inetti a funzioni pubbliche che richiedono esperienza,<br />
acume, dottrina, decoro. L‟atteggiamento degli aristocratici locali rivela l‟assoluta e quasi congenita<br />
incapacità <strong>di</strong> superare la barriera della vita more nobilium e mostrare la minima propensione a<br />
cooptare i parvenus. Resta tuttavia da domandarsi se effettivamente, nel quadro socio-economico<br />
generale offerto dalla Marca nei sec. XVII-XVIII, possa parlarsi <strong>di</strong> incapacità come inettitu<strong>di</strong>ne<br />
immanente al ricambio o non piuttosto come conseguenza quasi automatica della mancata<br />
espansione <strong>di</strong> un vero ceto interme<strong>di</strong>o che presentava, forse, spessori troppo esigui per poter<br />
costituire una fonte consistente <strong>di</strong> reclute che fossero fornite <strong>di</strong> un minimo <strong>di</strong> iniziazione e <strong>di</strong><br />
attitu<strong>di</strong>ne all‟esercizio delle funzioni pubbliche.<br />
Sarà solo nella seconda metà dell‟Ottocento, quando gli effetti dell‟abolizione dei fidecommissi, dei<br />
patronati, dei benefici laicali determinarono il frazionamento dei patrimoni, che alla per<strong>di</strong>ta dei<br />
privilegi si accompagnerà il declino economico. I privilegi ere<strong>di</strong>tari scompaiono definitivamente<br />
con l‟arrivo dell‟armata francese.<br />
Frattanto l‟espressione “vivere nobilmente” <strong>di</strong>verrà, in un modo incontrovertibile, sinonimo – per<br />
usare una felice similitu<strong>di</strong>ne dello storico belga Henry Pirenne (1862-1935), uno dei gran<strong>di</strong> maestri<br />
della storiografia contemporanea – del “vivere senza far niente”, mentre la nobiltà della Marca<br />
passerà, con sonnacchiosa rassegnazione, quasi docilmente, de l’âge des privilèges aux temps des<br />
vanités.<br />
E‟ in questo contesto storico che va inquadrato il ceto nobiliare a <strong>Fano</strong>, dove il 1463 segna la fine<br />
della signoria malatestiana e il ritorno della città sotto il <strong>di</strong>retto dominio del papa.<br />
Bisogna però fare attenzione sulla reale portata della libertas ecclesiastica, che non va intesa come<br />
concessione <strong>di</strong> un autonomo reggimento politico. La libertà sopravvisse più come stato d‟animo che<br />
come reale sostanza <strong>di</strong> vita politica, ridotta a mera capacità <strong>di</strong> proposta, in un contesto generale <strong>di</strong><br />
svuotamento <strong>di</strong> potere politico a danno del patriziato delle province pontificie.<br />
Comunque <strong>Fano</strong>, benché travagliata da duri e sanguinosi contrasti fra le locali fazioni nobiliari,<br />
riuscì sempre a riacquistare o mantenere la propria libertas, governata da un‟oligarchia nobiliare<br />
egoista e litigiosa, con un contado completamente soggetto all‟arbitrio, strapotere e clientelismo<br />
nobiliare e clericale.<br />
<strong>Fano</strong> secentesca era un piccolo centro, in un secolo <strong>di</strong> rallentamento e stagnazione demografica<br />
nonché <strong>di</strong> depressione economica e <strong>di</strong> crisi dell‟agricoltura in tutto lo Stato ecclesiastico e nel resto<br />
d‟Italia. La terra è la fonte delle ren<strong>di</strong>te, il fondamento del prestigio del ceto patrizio <strong>di</strong>rigente e <strong>di</strong><br />
chi aspira ad entrarvi: la stagnazione economica era certamente sfavorevole a quelle famiglie che,<br />
pur <strong>di</strong> rango nobiliare, dovevano reggersi su introiti piuttosto modesti unicamente legati alla ren<strong>di</strong>ta<br />
agraria.<br />
Come in ogni altra città italiana, anche la povertà del Seicento fanese era <strong>di</strong>sastrosa, inquadrabile<br />
nell‟aggravamento del pauperismo come fenomeno generalmente <strong>di</strong>ffuso in Italia e in Europa<br />
durante il Seicento.<br />
Senza il risvolto della povertà e dei miserabili, a lungo rigettati dagli storici locali e non solo, ai<br />
margini e sullo sfondo dei maneggi dei politici, delle creazioni degli artisti, delle finezze dei nobili,<br />
il ritratto della nobiltà sarebbe incompleto.<br />
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Lo stato <strong>di</strong> endemica depressione economica e la particolare fragilità dell‟economia fanese erano<br />
aggravati da carestie - 44 annate <strong>di</strong> carestia nel Seicento - e calamità naturali, fra cui 5 gran<strong>di</strong><br />
terremoti.<br />
Nel grande terremoto che si fece sentire, il giovedì santo 14 aprile 1672, da Loreto a Forlì, a <strong>Fano</strong><br />
morirono 25 persone travolte dal crollo della torre del duomo: 7 erano nobili: Pietro Paolo Carrara,<br />
Francesco Maria Cuppis, Vincenzo Ercolani, Lodovico Borgogelli, Lelio Montevecchio, Vincenzo<br />
e Antonio figli <strong>di</strong> Ercole Palazzi, rispettivamente <strong>di</strong> 7 e 8 anni.<br />
Il territorio del solo Comune <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> (“la città e le sue ville”) aveva nel Seicento la stessa o<strong>di</strong>erna<br />
estensione.<br />
I primi dati ufficiali sulla consistenza della popolazione fanese si ricavano dal censimento eseguito<br />
in tutto lo Stato ecclesiastico nel 1656 per decreto <strong>di</strong> Alessandro VII: <strong>Fano</strong> città aveva 4.322<br />
abitanti; la città nell‟ultima parte del secolo non era cresciuta: nel 1683 non andava oltre i 4.000<br />
abitanti.<br />
Le case dei nobili erano in genere le più affollate, perché avevano parecchi domestici, solitamente<br />
ridotti ad una sola unità nelle famiglie “citta<strong>di</strong>ne” della borghesia impiegatizia o dell‟artigianato.<br />
Ma solo qualche casata assumeva un volto patriarcale: infatti la stessa famiglia poteva facilmente<br />
sud<strong>di</strong>vidersi perché possedeva più <strong>di</strong> una casa; altre volte i fratelli si sistemavano in appartamenti<br />
ricavati nello stesso palazzo paterno dato che a <strong>Fano</strong> era eccezionale il ricorso alla osservanza del<br />
maggiorascato.<br />
Particolare attenzione era riservata dai nobili ai monasteri, per la <strong>di</strong>fesa degli interessi nobiliari e per<br />
il noto tema delle monacazioni come soluzione a problemi familiari e sociali: per molte famiglie<br />
perciò la monacazione <strong>di</strong> una o più figlie effettivamente risolveva più <strong>di</strong> un problema, mentre il<br />
matrimonio <strong>di</strong> più figlie poteva provocare il tracollo finanziario della famiglia.<br />
Oltre 40 erano in città le chiese e 5 i monasteri, tutti <strong>di</strong> clausura ed ubicati dentro le mura.<br />
Le priore o abbadesse, in carica per tre anni, provenivano, salvo rare eccezioni, dalle nobili famiglie<br />
locali, tanto che se ne ritrovano replicati i cognomi più e più volte nel corso del Seicento: Marcolini,<br />
Speranza (una <strong>di</strong>nastia <strong>di</strong> abbadesse; nella famiglia Speranza nel 1638 erano in 5 in convento, tra<br />
monache e frati), Bertozzi, Montevecchio, Carrara, Martinozzi, Castracane, Speran<strong>di</strong>o, Uffreducci,<br />
Borgogelli, Gisberti, Lanci, Avveduti, Torelli, Ercolani.<br />
Membri <strong>di</strong> tutte le famiglie nobili <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> erano ascritti alla ricca Confraternita del Suffragio (1618)<br />
e ci tenevano assai. La confraternita <strong>di</strong> S. Michele, “per la scelta nobiltà che vi sedeva era quasi un<br />
secondo Consiglio citta<strong>di</strong>no” (scrive Borgarucci).<br />
Alcune famiglie nobili fanesi furono ben rappresentate nella carriera militare soprattutto, come<br />
allora era costume, dai figli cadetti, e non sempre nelle milizie pontificie. Infatti troviamo ufficiali<br />
fanesi nell‟esercito francese, in quello imperiale, in quello veneziano e toscano oltrechè nei<br />
Cavalieri <strong>di</strong> S. Giovanni a Malta e nei Cavalieri <strong>di</strong> S. Stefano <strong>di</strong> Toscana: le casate che più ricorrono<br />
sono quelle dei Boccacci, Pili, Giorgi, Pazzi, Montevecchio, Palazzi, Marcolini, Gabrielli,<br />
Borgogelli, Gabuccini, Rinalducci, Speran<strong>di</strong>o, Torelli, Speranza.<br />
Il centro storico <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>, pur essendo uno dei più significativi e conservati <strong>di</strong> tutto il litorale<br />
adriatico, ha comunque subito, in particolare nel Novecento, notevoli per<strong>di</strong>te: numerosi episo<strong>di</strong><br />
architettonici del Seicento non esistono più. Restano sommi esempi quali la sontuosa Cappella<br />
Nolfi, e la chiesa <strong>di</strong> S. Pietro in Valle - esempio fra i più cospicui dell‟arte barocca in territorio<br />
marchigiano -, nelle cui cappelle avevano il patronato alcune tra le più illustri casate nobiliari fanesi<br />
(Alavolini, Gabrielli, Marcolini, Uffreducci, Petrucci poi Ubal<strong>di</strong>ni), che si fronteggiano in un<br />
composito incastro <strong>di</strong> competizioni <strong>di</strong> committenze private e <strong>di</strong> esecuzioni artistiche.<br />
Molti palazzi nobiliari sono andati in rovina anche per lo sfaldamento dei materiali usati nella<br />
costruzione e decorazione <strong>di</strong> e<strong>di</strong>fici privati signorili fanesi dal „4 al „600: il cotto e la pietra arenaria<br />
tenera, la solita arenaria gialla del territorio fanese: arenarie friabili che hanno subito profondamente<br />
l‟azione del gelo e degli agenti atmosferici. Soltanto le opere pubbliche e le costruzioni sacre<br />
adoperarono pietra viva, calcarea. Sorge il sospetto che, oltre le ragioni <strong>di</strong> economia <strong>di</strong> spesa da<br />
parte delle famiglie nobili e la tendenza degli scalpellini a favorire la lavorazione <strong>di</strong> un materiale<br />
5
così facilmente intaccabile dallo scalpello, ci fossero <strong>di</strong>fficoltà d‟altro genere ad ottenere per i<br />
privati pietra viva del Furlo, le cui cave erano nel cuore del territorio dei duchi d‟Urbino, verso cui<br />
la nobiltà fanese fu sempre ostile, con un esasperato atteggiamento <strong>di</strong> fiera e agguerrita<br />
in<strong>di</strong>pendenza.<br />
In pietra arenaria è anche Palazzo Martinozzi in via Nolfi - oggi sede <strong>di</strong> appartamenti ed uffici -<br />
dalla nobile e sobria linea rinascimentale, fatto e<strong>di</strong>ficare nel 1564 dal conte Francesco, un tempo<br />
splen<strong>di</strong>do monumento della passata opulenza dei conti Martinozzi, segnalatasi fin dal sec. XIV per<br />
aver dato alla città <strong>di</strong>plomatici, amministratori, abati ed ormai estinta, ma ricordata ancora<br />
dall‟iscrizione collocata sulla severa e monumentale facciata: “Questo palazzo/ fu costruito nel<br />
MDLXIV dalla famiglia comitale fanese/ dei Martinozzi/ che alla corona modenese/ <strong>di</strong>ede Laura/<br />
madre/ <strong>di</strong> Maria Beatrice/ regina Stuarda d‟Inghilterra”.<br />
Infatti il conte fanese Gerolamo Martinozzi - ” la casa del quale era frequentata dalla più scelta<br />
nobiltà”, scrive Borgarucci – fu padre <strong>di</strong> una duchessa <strong>di</strong> Modena e nonno <strong>di</strong> una regina<br />
d‟Inghilterra. Nel 1634 aveva sposato in seconde nozze la romana Margherita, una delle due sorelle<br />
del celebre car<strong>di</strong>nale Giulio Mazarino, primo ministro del re <strong>di</strong> Francia Luigi XIV, il Re Sole. Dal<br />
matrimonio nacquero due figlie: Anna Maria che nel 1654 sposò Armand de Bourbon principe <strong>di</strong><br />
Conty del sangue reale <strong>di</strong> Francia e Laura, il cui matrimonio con il futuro duca <strong>di</strong> Modena e <strong>di</strong><br />
Reggio, Alfonso IV d‟Este, allora principe ere<strong>di</strong>tario, fu promosso dal potente zio, ministro del<br />
do<strong>di</strong>cenne Luigi XIV. Le nozze furono celebrate il 27 maggio 1655 con grande sfarzo nella cappella<br />
<strong>di</strong> Compiègne alla presenza <strong>di</strong> Luigi XIV. Nel 1683 i Martinozzi ebbero il titolo comitale dal duca<br />
<strong>di</strong> Modena. Nel 1673 la figlia Maria Beatrice Eleonora sposò Giacomo Stuart duca <strong>di</strong> York,<br />
incoronato re d‟Inghilterra nel 1685 nell‟abbazia <strong>di</strong> Westminster. Beatrice rimase regina<br />
d‟Inghilterra per soli 4 anni fino al 1688, quando il marito Giacomo II fu deposto, travolto dagli<br />
avvenimenti che portarono sul trono Guglielmo III d‟Orange. Gli Stuart dovettero abbandonare<br />
l‟Inghilterra: per la loro <strong>di</strong>nastia fu la fine.<br />
Il figlio <strong>di</strong> Maria Beatrice, Giacomo Edoardo, il re senza trono che visse esule in Francia e in Italia,<br />
venne a <strong>Fano</strong> nel 1718 per conoscere i conti Martinozzi fanesi.<br />
La zia <strong>di</strong> Laura, sorella <strong>di</strong> suo padre Gerolamo, Violante Martinozzi, aveva sposato nel 1638 un<br />
pesarese, Federico Mamiani, XII conte <strong>di</strong> Sant‟Angelo in Zizzola.<br />
A metà Settecento circa sorge a <strong>Fano</strong> un palazzo regale, quello dei Montevecchio poi Sala<strong>di</strong>ni-Ferri,<br />
in via Nolfi, oggi sede <strong>di</strong> appartamenti e associazioni - certo il più vasto e imponente fra gli antichi<br />
palazzi patrizi <strong>di</strong> cui <strong>Fano</strong> è particolarmente ricca, con grande portale barocco in pietra - e<strong>di</strong>ficato<br />
per volere del conte Giulio <strong>di</strong> Montevecchio. I conti <strong>di</strong> Montevecchio, <strong>di</strong>retti <strong>di</strong>scendenti da uno dei<br />
3 rami principali dei conti Gabrielli <strong>di</strong> Gubbio esistenti ai tempi <strong>di</strong> Dante, sono gli unici tra i nobili<br />
fanesi ad essere titolati <strong>di</strong> un feudo: quello <strong>di</strong> Montevecchio nel territorio <strong>di</strong> Pergola, Miralbello,<br />
Monteporzio, poi duchi <strong>di</strong> Ferentillo, baroni <strong>di</strong> Viterbo e S. Michele, ecc.<br />
Nel Seicento a <strong>Fano</strong> (come anche nelle altre città) le strade prendevano nome dalle chiese, dai<br />
conventi, dagli e<strong>di</strong>fici o dai monumenti <strong>di</strong> qualche rilevanza, ma soprattutto dalle famiglie patrizie<br />
fanesi, ormai quasi tutte estinte, che in esse hanno e<strong>di</strong>ficato le loro <strong>di</strong>more nobiliari, dando origine<br />
ad un‟antica toponomastica nobiliare che si è ancora quasi totalmente conservata (per es. vicolo<br />
Alavolini, piazza Amiani, via Palazzi-Gisberti, via Montevecchio, via Giorgi, via de‟ Cuppis, de‟<br />
Tonsis, de‟ Pili, via Castracane, Montevecchio, Rinalducci, via Nolfi, ecc.).<br />
Nel centro storico, nelle vie dell‟antica toponomastica nobiliare sono ancora rimasti oltre una<br />
ventina <strong>di</strong> palazzi, pur ristrutturati e con <strong>di</strong>verse destinazioni d‟uso.<br />
Molte delle famiglie nobili fanesi (Avveduti, Borgarucci, Carrara, Castracane, De Cuppis,<br />
Forestieri, Gabrielli, Hercolani, Martinozzi, Montevecchio, Nolfi, Petrucci, Uffreducci, ecc.). si<br />
erano fatte e<strong>di</strong>ficare le loro <strong>di</strong>more patrizie sulla strada principale della città, l‟attuale via Nolfi,<br />
denominata nel Seicento semplicemente “strada o via maestra”, perché era la strada più importante,<br />
proprio per il gran numero <strong>di</strong> <strong>di</strong>more patrizie che vi si prospettavano.<br />
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Due opere secentesche, <strong>di</strong> due autori anch‟essi nobili fanesi del Seicento, documentano la vita del<br />
patriziato nobile fanese, visto in Consiglio e in casa: l‟Istoria della nobiltà <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> <strong>di</strong> Bernar<strong>di</strong>no<br />
Borgarucci e la Ginipe<strong>di</strong>a o vero Avvertimenti per Donna Nobile <strong>di</strong> Vincenzo Nolfi.<br />
L‟Istoria della nobiltà <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> non è esaustiva della plurisecolare presenza e funzione del ceto<br />
patrizio fanese nella vita della città: è piuttosto un <strong>di</strong>scorso sullo stato della nobiltà locale nella<br />
prima metà del Seicento, riflessione che vuol essere <strong>di</strong> richiamo al ceto patrizio sul come preservare<br />
a se stesso la funzione <strong>di</strong> garante e guida del governo citta<strong>di</strong>no.<br />
Più che storia vera e propria, dunque, un libro <strong>di</strong> costume, in cui numerosi sono i richiami<br />
cronachistici, biografici, letterari, giuri<strong>di</strong>ci, genealogici, paternalismi clientelari, ricor<strong>di</strong> tratti dalla<br />
frequentazione <strong>di</strong> una cerchia sociale, politica ed ecclesiastica, che fa uscire il <strong>di</strong>scorso dal ristretto<br />
delle mura citta<strong>di</strong>ne e coinvolge la curia e la corte romana, in cui l‟autore, dottore in <strong>di</strong>ritto civile e<br />
canonico, <strong>di</strong> professione curiale che esercitava tra i notai della Curia capitolina, gode e riven<strong>di</strong>ca<br />
notevole e privilegiata entratura. Ne risulta un quadro secentesco fanese, ma anche romano e<br />
curiale, sicuramente <strong>di</strong> parte, pur con vali<strong>di</strong>tà <strong>di</strong> documento.<br />
Borgarucci, tipico esponente <strong>di</strong> quella nobiltà fanese secentesca <strong>di</strong> cui scrive, proveniva, sia per<br />
parte paterna che materna (Elisabetta Vita), da antiche casate fanesi, seppure al suo tempo <strong>di</strong> non<br />
più gran<strong>di</strong> ricchezze. Ai Borgarucci è tuttora de<strong>di</strong>cata una via nel centro storico <strong>di</strong> <strong>Fano</strong>.<br />
Stabilitosi a Roma fin dal 1610 circa, nel 1614 è cooptato nel Consiglio citta<strong>di</strong>no, dove godette il<br />
titolo <strong>di</strong> consigliere per più <strong>di</strong> mezzo secolo, fino al 1665, probabile anno <strong>di</strong> morte: l‟esservi<br />
ammesso è per lui segno <strong>di</strong> riconosciuta nobiltà, perché a <strong>Fano</strong> solo l‟ingresso in Consiglio consacra<br />
l‟appartenenza al patriziato locale.<br />
Il filo conduttore dell‟Istoria è l‟urgente necessità da parte dei nobili <strong>di</strong> ripensare il proprio ruolo e<br />
<strong>di</strong> essere lungimiranti per conservare la funzione <strong>di</strong> classe <strong>di</strong>rigente con <strong>di</strong>gnità, ma anche con le<br />
in<strong>di</strong>spensabili sia pur mirate aperture. L‟esclusione dal Consiglio, per capriccio, malanimo, invi<strong>di</strong>a,<br />
<strong>di</strong> uomini che hanno i requisiti per esservi accolti, è alla lunga una politica suicida per il patriziato<br />
fanese.<br />
Peraltro l‟insistenza sulla necessità <strong>di</strong> ammettere in Consiglio coloro che, pur non nati a <strong>Fano</strong>, erano<br />
però legati alla città da vincoli <strong>di</strong> parentela, da interessi professionali od economici, non intacca la<br />
natura <strong>di</strong> conservatore <strong>di</strong> Borgarucci, che <strong>di</strong>scorre sempre in pro <strong>di</strong> persone emergenti per rango<br />
sociale o economico. In lui non appare l‟inclinazione “democratica” ad aprire il Consiglio agli<br />
artigiani e, men che meno, a quelli che non esita a definire “plebaglia”.<br />
Appunto perché ben consapevole che l‟appartenenza al Consiglio equivaleva ad una patente <strong>di</strong><br />
nobiltà, il suo monito era <strong>di</strong> far entrare in Consiglio coloro che ne erano degni, proprio per<br />
scongiurare “il pericolo <strong>di</strong> lasciarlo annichilare affatto o <strong>di</strong> empirlo <strong>di</strong> plebaglia”, accentuato anche<br />
dalla progressiva estinzione della nobiltà fanese, che si ripercuoteva sulla composizione stessa del<br />
Consiglio, non più in grado ormai <strong>di</strong> mantenere il numero statutario <strong>di</strong> 100 consiglieri.<br />
Questa sua repulsione nei confronti della “plebaglia”, già <strong>di</strong>ffusa nel Cinquecento e destinata a<br />
durare fino al Settecento, è la stessa che esprimeva la classe a cui apparteneva, <strong>di</strong> cui quin<strong>di</strong> si<br />
definisce come tipico rappresentante: “in <strong>Fano</strong> il solo Consiglio - detto anche „Senato aristocratico‟,<br />
<strong>di</strong>venuto, così, la fons honorum dei fanesi - spareggia la nobiltà dalla plebe”.<br />
Accanto a questo conservatorismo <strong>di</strong> fondo traspare la speranza <strong>di</strong> vedere i nobili più attenti ai<br />
vantaggi derivanti dall‟esercizio del commercio e dei traffici: per esperienza personale sapeva cosa<br />
voleva <strong>di</strong>re essere nobile, ma non ricco. In sostanza, auspica un cambiamento <strong>di</strong> mentalità nel<br />
patriziato, senza per questo anticipare le aperture settecentesche alla borghesia. Il paventato<br />
svuotamento della nobiltà fanese, in quanto ceto, effettivamente avvenne in poco più <strong>di</strong> un secolo,<br />
ma per cause, anche esterne, che il Borgarucci non poteva prevedere.<br />
Il Consiglio, per Statuto, poteva avere 100 membri: ormai ne contava infatti con <strong>di</strong>fficoltà una<br />
sessantina, anche per la progressiva e inarrestabile estinzione delle famiglie nobili affermatesi nel<br />
periodo comunale e in quello malatestiano, <strong>di</strong> cui scrive nel capitolo sulla Nobiltà scemata,<br />
vanamente arginata da matrimoni ”misti”, forestieri: egli stesso ricorda un centinaio <strong>di</strong> rami estinti;<br />
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quelli che rimangono – una cinquantina <strong>di</strong> famiglie - sono ormai tutti parenti tra loro, per cui i<br />
matrimoni hanno bisogno <strong>di</strong> <strong>di</strong>spensa, ottenuta senza risparmio <strong>di</strong> spesa.<br />
Anche il <strong>di</strong>ffuso fenomeno delle adozioni o “affiliazioni” era determinato dal fatto <strong>di</strong> cercare <strong>di</strong><br />
evitare l‟estinzione <strong>di</strong> un casato. Il caso più noto era stato quello del nobile giurista fanese Guido<br />
Nolfi, ricchissimo e mecenate, ma senza <strong>di</strong>scendenza, per cui nel suo testamento del 1627 nominò<br />
erede universale il nobile fanese Vincenzo Galassi, obbligandolo ad assumere il suo cognome e, nel<br />
caso in cui non avesse avuto figli – come avvenne – a fondare il Collegio degli stu<strong>di</strong> Nolfi.<br />
Non valsero ai fini della sopravvivenza le adozioni fatte dai Costanzi che affiliarono un Flavi, i<br />
Bambini un Borgogelli, i Nolfi un Tomassini, i Danielli un Alavolini, i Carrara un Lanci e poi un<br />
Bertozzi, infine un Martinozzi: in poche generazioni si estinsero tutti.<br />
Mentre in altre città pontificie la presenza <strong>di</strong> artigiani, mercanti, dottori era ammessa e regolata<br />
dagli Statuti, queste categorie erano invece del tutto fuori dal Consiglio generale a <strong>Fano</strong>, dove<br />
l‟irriducibile nobiltà fanese aveva sempre sostenuto che il Consiglio era riservato esclusivamente a<br />
citta<strong>di</strong>ni fanesi appartenenti alla nobiltà con esclusione assoluta <strong>di</strong> artigiani e <strong>di</strong> esercenti arti<br />
meccaniche o mercantili, lasciando solo qualche varco ai dottori in legge.<br />
Nel Seicento, ma anche dopo, la nobiltà assume un atteggiamento rigidamente conservatore nel<br />
tenere serrate le porte a quella che Borgarucci definisce “plebaglia”, ma anche, con poche<br />
eccezioni, a certe famiglie (e non erano moltissime) che avrebbero potuto dare qualche apporto alla<br />
amministrazione citta<strong>di</strong>na, a cui era invece favorevole lo stesso Borgarucci, che faceva infatti notare<br />
che a chiedere o ad attendere l‟ammissione in Consiglio non c‟erano solo persone esercenti arti vili<br />
e meccaniche, ma possidenti terrieri, dottori in legge e soprattutto uomini appartenenti a rami<br />
cadetti <strong>di</strong> famiglie nobili o con esse imparentati per matrimonio e che vivevano more nobilium.<br />
Tutta gente che avrebbe giovato alla autorevolezza stessa del Consiglio e che lo avrebbe almeno in<br />
parte rinsanguato perché a metà Seicento per rendere valide le riunioni ci si dava da fare per far<br />
<strong>di</strong>chiarare sufficiente la presenza <strong>di</strong> 30 consiglieri. Nel 1776 erano presenti a <strong>Fano</strong> solo 35 famiglie<br />
nobili, <strong>di</strong> cui 29 sedenti in Consiglio.<br />
Non solo il Consiglio si andava assottigliando, ma le famiglie che vi erano rappresentate<br />
esprimevano una “nobiltà recente”, non superiore a un centinaio d‟anni: al tempo del Borgarucci,<br />
nella prima metà del Seicento, le famiglie <strong>di</strong> antica nobiltà erano soltanto 6 o 7 in tutto. Nel<br />
Consiglio generale, o senato citta<strong>di</strong>no, che si riuniva nella “sala grande” del Palazzo Malatestiano,<br />
<strong>di</strong>ventato allora Palazzo della Comunità - e oggi (non più integro) Museo Civico - c‟erano tutte<br />
“barbe bianche”, scrive Borgarucci, erano tutti vecchi.<br />
Anche da un punto <strong>di</strong> vista patrimoniale le famiglie nobili veramente ricche erano poche perché a<br />
<strong>Fano</strong> il <strong>di</strong>ritto <strong>di</strong> primogenitura era eccezione, non regola, e ciò favoriva la frantumazione delle<br />
antiche ricchezze. Sono numerosi i casi <strong>di</strong> ere<strong>di</strong>tà in<strong>di</strong>visa tra fratelli, che consentiva ai fratelli ere<strong>di</strong><br />
e poi ai loro <strong>di</strong>scendenti <strong>di</strong> abitare in appartamenti <strong>di</strong>stinti ricavati nello stesso palazzo (come fecero<br />
i Carrara, i Fabbri, i Palazzi, i Gabrielli ecc.). L‟ere<strong>di</strong>tà veniva assegnata per “agnazione” - cioè tra i<br />
<strong>di</strong>scendenti maschi del padre -, mentre le femmine ricevevano la dote.<br />
La stagnazione economica era del resto certamente sfavorevole a quelle famiglie che, pur <strong>di</strong> rango<br />
nobiliare, dovevano reggersi su introiti piuttosto modesti unicamente legati alla ren<strong>di</strong>ta agraria.<br />
Un argomento del costume nobiliare citta<strong>di</strong>no ben lontano dagli aspetti più eclatanti della vita<br />
signorile dei patrizi era quello dei bastar<strong>di</strong>, cui il Borgarucci de<strong>di</strong>ca un intero capitolo, l‟unico<br />
<strong>di</strong>scorso che si conosca sugli illegittimi della nobiltà fanese.<br />
Alcuni venivano ad<strong>di</strong>rittura ignorati dai padri naturali, come avvenne nelle casate Pili, Borgogelli,<br />
Lanci, mentre altri nobili fanesi – Palazzi, Amiani, Corbelli, Uffreducci, De Cuppis – riservarono<br />
un trattamento più umano alla loro prole naturale.<br />
Questi casi furono i più noti a <strong>Fano</strong> nella prima metà del Seicento: se pensiamo al numero non<br />
eccessivo delle vecchie casate nobili, ne ve<strong>di</strong>amo molte rappresentate nell‟elenco fatto dal<br />
Borgarucci; quello degli illegittimi <strong>di</strong> rango nobile fu dunque un fenomeno non del tutto marginale<br />
nell‟ambito del locale patriziato.<br />
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Altro testo utile a conoscere da vicino i nobili fanesi è la Ginipe<strong>di</strong>a o vero Avvertimenti civili per<br />
Donna Nobile del nobile fanese Vincenzo Nolfi, pubblicati nel 1631 a Venezia e de<strong>di</strong>cati ad<br />
Isabella Orsini principessa <strong>di</strong> Piombino, al servizio della cui casata a Roma trascorse gli anni più<br />
giovanili.<br />
Ma l‟elegante mondo principesco romano <strong>di</strong> cui si avverte la presenza rimane in realtà lontano, pur<br />
ritenendo <strong>di</strong> buon gusto seguire i costumi delle città più gran<strong>di</strong>, per cui <strong>Fano</strong> segue nella moda<br />
“costumi e leggi” <strong>di</strong> Roma. Comunque l‟autore, rivolgendosi espressamente alla moglie Ippolita<br />
Uffreducci, anch‟essa <strong>di</strong> nobile famiglia fanese, intende che i suoi “avvertimenti” verso<br />
irreprensibili forme e mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> quoti<strong>di</strong>ano stile nobiliare siano “particolareggiati all‟uso della città <strong>di</strong><br />
<strong>Fano</strong>”, anche se risultano in realtà riferibili a comuni e universali mo<strong>di</strong> <strong>di</strong> comportamento signorile,<br />
pur con alcune note <strong>di</strong> colore e <strong>di</strong> interesse strettamente locale.<br />
Comunque risulta una fonte documentaria per conoscere, attraverso le giornate <strong>di</strong> una signora<br />
“bencreata, amabile e saggia verso tutti”, abitu<strong>di</strong>ni, tra<strong>di</strong>zioni, <strong>di</strong>vieti, limiti e licenze del patriziato<br />
locale che, <strong>di</strong>videndo con gli ecclesiastici la parte più in vista del palcoscenico citta<strong>di</strong>no, ebbe un<br />
ruolo preminente nel dare il tono a <strong>Fano</strong>.<br />
Il libro offre sia spaccati interni sia scene <strong>di</strong> vita in società, mescolando gravità e ironia, sottigliezze<br />
e ovvietà, ma sempre, con insistente eccesso <strong>di</strong> fiducia nelle “giuste regole” del cerimoniale, rifugge<br />
ogni suggestione del “maraviglioso barocco” per lasciare costantemente campo al “ne quid nimis, al<br />
tenere la strada <strong>di</strong> mezzo, allo stare in gruppo con gli altri nobili” seguire la moda corrente, in linea<br />
con quella psicologia agrario-provinciale <strong>di</strong>ffidente <strong>di</strong> ogni eccesso, notoriamente <strong>di</strong>ffusa nelle<br />
Marche.<br />
L‟autore nel dare consigli alla moglie descrive la quoti<strong>di</strong>anità delle nobildonne fanesi, in casa e in<br />
società, lungo tutto l‟arco della giornata e in tutte le possibili occasioni, private e mondane:<br />
preghiere mattutine, cura del corpo, igiene personale, acconciatura, trucco, abbigliamento, in casa e<br />
fuori, gestione della casa, occupazioni domestiche, visite <strong>di</strong> società, comportamento in chiesa, a<br />
teatro, nelle feste, nei <strong>di</strong>vertimenti, cerimoniali matrimoniali: nel Seicento “l‟età congrua per poter<br />
contrarre matrimonio” era secondo le leggi <strong>di</strong> <strong>Fano</strong> 12 anni per le femmine e 14 per i maschi.<br />
La <strong>di</strong>stinzione <strong>di</strong> ceto era una delle regole capitali della società secentesca e il Nolfi la riba<strong>di</strong>sce<br />
esortando continuamente le gentildonne ad assumere stili e mises che <strong>di</strong>stinguano “con segno<br />
notabile la gentildonna dalle plebee”; a non confondersi coi plebei, coi campagnoli, con la servitù, a<br />
cui de<strong>di</strong>ca l‟intero secondo capitolo Del trattare con le serve: centinaia <strong>di</strong> donne a <strong>Fano</strong> erano<br />
occupate nel servire le famiglie patrizie che avevano fino a 6-7 servitori. Vincenzo Nolfi e la moglie<br />
Ippolita erano accu<strong>di</strong>ti da 3 serve e 2 servitori; senza contare i lavori <strong>di</strong> corvè, come spaccare la<br />
legna, provvedere alla cantina, portare il fieno ai cavalli ecc., a cui pensavano i mezzadri.<br />
Numeroso era infatti in città il gruppo dei servitori, 70; ma la categoria più numerosa è quella delle<br />
domestiche e cameriere registrate sotto il nome <strong>di</strong> “serve”: 247 e certamente il numero è in <strong>di</strong>fetto.<br />
Un‟ampia parte dell‟opera è de<strong>di</strong>cata ai <strong>di</strong>vertimenti. Il Nolfi ha scritto il primo consistente<br />
documento sul carnevale fanese nel 39° capitolo: Del mascherarsi. Ben <strong>di</strong>versi erano gli spettacoli<br />
teatrali. Era soprattutto il Teatro della Fortuna, inaugurato nel 1677 e reso subito famoso a livello<br />
europeo dal celebre scenografo Giacomo Torelli, patrizio fanese e “grand sorcier” (grande<br />
stregone) della corte <strong>di</strong> Luigi XIV, il luogo deputato al <strong>di</strong>letto della nobiltà citta<strong>di</strong>na e forestiera.<br />
Al <strong>di</strong> fuori dell‟attività del Teatro della Fortuna, anche nelle <strong>di</strong>more dei nobili si davano tutto l‟anno<br />
feste e ricevimenti, così <strong>di</strong>verse dai giochi e dalle manifestazioni <strong>di</strong> piazza (corse <strong>di</strong> cavalli o palii,<br />
gare <strong>di</strong> arcieri e balestrieri, combattimenti contro il cinghiale o porco, lotte fra cani e toro, esibizioni<br />
<strong>di</strong> equilibristi, funamboli e saltimbanchi), riservati al popolo minuto.<br />
In palazzo Castracane – tuttora imponente al n. 4 dell‟omonima via - fu allestita il 6 febbraio 1657<br />
la comme<strong>di</strong>a Gli amanti avvelenati, composta dal nobile fanese Girolamo Moricucci, in onore e alla<br />
presenza della regina Cristina <strong>di</strong> Svezia, quando da Pesaro, dove si trovava, l‟ex sovrana venne<br />
appositamente in casa Castracane per u<strong>di</strong>rla.<br />
In palazzo Uffreducci nell‟ottobre 1691 fu organizzata un‟accademia alla presenza del principe<br />
Giovanni Battista Rospigliosi, nipote <strong>di</strong> papa Clemente IX e duca <strong>di</strong> Zagarolo, intervenuto con la<br />
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duchessa sua consorte (una Pallavicini) e i 5 figli: 3 principesse e 2 principi: furono fatti molti balli<br />
alla francese, minuetti e altri, “con applauso <strong>di</strong> tutti gli astanti che in gran numero erano accorsi<br />
spettatori <strong>di</strong> sì nobile trattenimento”.<br />
Alcuni nobili fanesi hanno legato il proprio nome a testi letterari tipici dello stile barocco, oramai<br />
<strong>di</strong>menticati, ma letti e apprezzati al loro apparire: Vincenzo Nolfi, Pietro Negusanti, Camillo<br />
Boccacci nel 1672 creato aulico familiare e barone del Sacro Romano Impero dall‟imperatore<br />
Leopoldo II d‟Austria, mentre la regina Cristina <strong>di</strong> Svezia lo fece suo gentiluomo <strong>di</strong> Camera, i conti<br />
Pompeo e Giulio <strong>di</strong> Montevecchio, il cavalier Pietro Paolo Carrara, Ludovico Gabuccini barone del<br />
Sacro Romano Impero, Bernar<strong>di</strong>no Borgarucci, ecc.<br />
Per quanto riguarda le vacanze in villa, pare proprio che i nobili fanesi non seguissero o non<br />
potessero seguire le signorili abitu<strong>di</strong>ni del villeggiare in uso soprattutto nel Veneto, in Toscana, in<br />
Lombar<strong>di</strong>a. Il soggiorno in campagna è lodato dal Nolfi perché consente sollievo fisico e favorisce<br />
“la clara quiete del cuore”, ma l‟argomento è liquidato in poche righe: “perchè poco il villeggiare<br />
qui da noi si costuma, forse perché in quella stagione la città, posta sulla riva del mare,<br />
signoreggiata quasi sempre da venti freschi e soavi, è stanza più opportuna che non è la campagna<br />
troppo percossa dal sole, o vero perché pochi sono che in villa le necessarie como<strong>di</strong>tà al go<strong>di</strong>mento<br />
<strong>di</strong> lei stiano provisti”.<br />
Infatti la campagna fanese è rimasta sempre povera <strong>di</strong> ville patrizie: unica vera eccezione è stata la<br />
villa <strong>di</strong> San Martino dei Negusanti e poi dei Marcolini a Saltara. Era stato Adriano Negusanti junior<br />
figlio <strong>di</strong> Pietro, che come il padre ebbe il titolo <strong>di</strong> conte della Cerbara, a ricostruire nel 1625 l‟antica<br />
residenza familiare <strong>di</strong> campagna fra Saltara e Cartoceto, nota già da allora come Villa San Martino<br />
e più tar<strong>di</strong>, dopo che nel 1712 fu acquistata dai Marcolini, anche come Villa del Balì.<br />
Sulle colline vicine alla città si incontravano le ville dei Castracane e dei Borgogelli-Avveduti; a<br />
Sant‟Andrea in Villis padre Federici costruì il “Casino delle delizie”, villa molto alberata e con<br />
serre: vi era annesso un molino da olio.<br />
16 anni dopo l‟ultima ristampa della Ginipe<strong>di</strong>a (1689), nel 1705 circolava a <strong>Fano</strong>, sullo stesso tema<br />
degli “avvertimenti” alle nobildonne, uno Specchio proposto alle dame, estratto dal volume del<br />
gesuita Fulvio Fontana, Il padre e la madre <strong>di</strong> famiglia istruiti. Vi trova spazio e rimprovero anche<br />
la dama giocatrice e viziosa e vi è già delineata la figura del cavalier servente o cicisbeo, segno del<br />
mutare dei tempi e delle mode: al barocco è ormai già subentrato il Settecento.<br />
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