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Reyneri- La vulnerabilità degli immigrati.pdf - Cnel

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

<strong>La</strong> <strong>vulnerabilità</strong> <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong><br />

1. L’Italia paese di immigrazione<br />

1<br />

Emilio <strong>Reyneri</strong><br />

Secondo Istat [2005b], i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in<br />

Italia nel 2005 sono 2.700.000, di cui 2.400.000 residenti (cioè iscritti<br />

all’anagrafe), per il 93% provenienti da paesi a forte pressione emigratoria e<br />

quindi essenzialmente <strong>immigrati</strong> per motivi di lavoro o loro familiari. <strong>La</strong><br />

crescita è stata molto veloce soprattutto dopo il 2001, quando i cittadini<br />

stranieri regolarmente soggiornanti erano la metà. Tale aumento è dovuto<br />

principalmente alla massiccia regolarizzazione del 2001-2002, che ha<br />

interessato oltre 650.000 lavoratori <strong>immigrati</strong>. A costoro si sono aggiunti<br />

coniugi e figli poi entrati con un permesso per ricongiungimento familiare, i<br />

nuovi nati (ancora pochi, ma in forte aumento) e un flusso abbastanza ridotto<br />

di nuovi ingressi per lavoro (soltanto dal 2004 la quota annua prevista,<br />

escludendo gli stagionali, ha superato i 100.000). Si è stimato che i due terzi<br />

<strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> attualmente presenti abbiano trascorso un periodo più o meno<br />

lungo di soggiorno non autorizzato, essendo entrati in Italia clandestinamente<br />

o più spesso con un permesso di breve durata [Blangiardo 2005]. E la<br />

percentuale è ancora maggiore per i lavoratori, poiché molti figli e coniugi<br />

sono entrati con un permesso per motivi familiari. Ai regolari si devono<br />

aggiungere 500.000 <strong>immigrati</strong> senza permesso di soggiorno, secondo le stime<br />

dell’Ismu [2006b]. I cittadini stranieri effettivamente presenti in Italia<br />

sarebbero, dunque, circa 3.200.000, con una forte polarizzazione tra i 500.000<br />

non autorizzati e i quasi 1.500.000 soggiornanti da oltre 5 anni. Si devono,<br />

infine, aggiungere coloro che hanno acquisito la cittadinanza italiana, quasi<br />

tutti per matrimonio, poiché la via della naturalizzazione si è rivelata impervia<br />

e limitata a poco più di 1.000 casi l’anno 1 . Sui naturalizzati, stimati in circa<br />

300.000, finora è praticamente impossibile avere alcuna informazione.<br />

1 A parte il requisito di ben 10 anni di ininterrotta residenza (prima della riforma<br />

della legge sulla cittadinanza, che ha favorito i discendenti <strong>degli</strong> emigrati italiani,<br />

erano 5 anni), l’ostacolo maggiore è costituito dalle procedure burocratiche<br />

lunghissime (fino a 3 anni) e discrezionali (la percentuale di rifiuti è superiore al 50%).<br />

<strong>La</strong> complessità delle procedure ha reso difficile anche la concessione ai regolarmente<br />

occupati da 5 anni della carta di soggiorno, che non richiede il rinnovo biennale.


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

I paesi di provenienza sono oltre 160, ma negli ultimi anni si è avuta una<br />

concentrazione delle presenze in un ristretto numero di paesi. Secondo stime<br />

Ismu [2006b], il 56% <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> presenti nel 2005 proviene da sette paesi<br />

(in ordine di importanza Albania, Romania, Marocco, Ucraina, Cina, Filippine<br />

e Tunisia) e quasi il 40% solo dai primi tre. L’Italia rimane comunque un<br />

paese di immigrazione senza uno o due gruppi nazionali o etnici dominanti,<br />

contrariamente a quanto accade in quasi tutti gli altri paesi europei. A lungo<br />

termine, ciò rende meno probabile che si formino società chiuse, anche se il<br />

processo di chiusura etnica dipende largamente dalle politiche adottate dal<br />

paese di accoglienza 2 , ma a breve possono sorgere seri problemi di<br />

comunicazione e di comprensione reciproca e per i gruppi più piccoli rischi di<br />

isolamento e carenza di reti di solidarietà.<br />

I cittadini stranieri regolarmente presenti (compresi quindi i non residenti)<br />

sono nel 2005 il 4,6% alla popolazione italiana; se aggiungiamo i non<br />

autorizzati si arriva al 5,4%. Naturalmente molto forti sono le differenze<br />

territoriali, perché gli <strong>immigrati</strong> si sono insediati soprattutto nelle regioni<br />

settentrionali: in Lombardia, Veneto ed Emilia superano il 6% della<br />

popolazione (quasi 8% considerando anche i non autorizzati), mentre nel<br />

Mezzogiorno raggiungono appena l’1,5% (neppure il 2% comprendendo i non<br />

autorizzati). Sono livelli importanti, soprattutto perché raggiunti in pochi anni,<br />

ma restano decisamente inferiori a quelli non solo dei vecchi paesi europei di<br />

immigrazione (Germania 9%, Regno Unito oltre 8%, Francia 6% trascurando<br />

i molti naturalizzati), ma anche <strong>degli</strong> altri paesi di recente immigrazione<br />

dell’Europa meridionale. In particolare, va rilevato come in Spagna, dopo<br />

l’ultima massiccia regolarizzazione, gli <strong>immigrati</strong> abbiano raggiunto quasi il<br />

10% della popolazione. <strong>La</strong> percentuale di <strong>immigrati</strong> in Spagna era inferiore a<br />

quella dell’Italia sino ad oltre la metà <strong>degli</strong> anni Novanta, quindi il sorpasso è<br />

avvenuto recentemente sull’onda del boom economico spagnolo, cui si deve<br />

un aumento della domanda di lavoro molto maggiore che non in Italia.<br />

2. Carenza di informazioni e peculiarità del problema<br />

Nonostante l’Italia sia diventata a pieno titolo un paese di immigrazione,<br />

non disponiamo ancora di informazioni adeguate per valutare né le<br />

caratteristiche delle persone immigrate, né i modi e le criticità del loro<br />

inserimento nel sistema sociale ed economico. Soltanto da pochissimo, infatti,<br />

2 Come ha confermato una recente ricerca comparativa [Koopmans, Statham,<br />

Giugni e Passy 2005].<br />

2


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

l’apparato di rilevazione statistico si sta attrezzando per connotare anche con<br />

la cittadinanza o il paese di nascita i risultati delle rilevazioni, sia campionarie<br />

sia amministrative. In particolare non disponiamo ancora di un’indagine a<br />

scala nazionale sulle condizioni di vita e di lavoro che tenga conto della<br />

presenza di persone immigrate. Per cogliere i loro rischi di <strong>vulnerabilità</strong> sarà,<br />

perciò, necessario fare ricorso ad indicatori di varia natura, a volte indiretti o<br />

tratti da indagini parziali, o a studi su scala locale.<br />

Occorre, però, premettere che gli <strong>immigrati</strong> si distinguono nettamente<br />

dalle consuete fasce della popolazione a rischio di esclusione per la fragilità di<br />

alcune loro caratteristiche personali (l’età elevata, la scarsa formazione,<br />

ecc.). Infatti, se si escludono i rifugiati (che sono molti pochi, perché l’Italia<br />

ha scarsi legami con i paesi da cui provengono ed una legislazione ben poco<br />

accogliente), gli <strong>immigrati</strong> non sono affatto deboli quanto a caratteristiche<br />

personali. I bambini sono pochi e gli anziani quasi non esistono, i livelli di<br />

istruzione sono spesso elevati o molto elevati, la salute è quasi sempre molto<br />

buona (almeno all’ingresso) e le risorse motivazionali sono spesso eccezionali.<br />

L’emigrazione è sempre un processo auto-selettivo: sono le persone<br />

relativamente più forti e intraprendenti quelle che emigrano. E la selezione è<br />

ancora più dura quando l’emigrazione non è autorizzata e comporta dei costi<br />

e dei rischi non piccoli. Ma ad una posizione forte sul piano soggettivo si<br />

contrappone una grave debolezza strutturale. Alla mancanza della<br />

cittadinanza politica e per molti aspetti anche di quella sociale (soprattutto per<br />

chi è in posizione non regolare) si aggiunge l’impossibilità di contare sulle reti<br />

di solidarietà primaria (la famiglia allargata, la parentela, il vicinato, ....), che<br />

sono così importanti nella realtà italiana <strong>La</strong> solidarietà su base etnica o<br />

nazionale supplisce solo parzialmente, sia perché la sua densità varia da un<br />

gruppo all’altro, sia perché spesso non è in grado di offrire sostegni adeguati<br />

[Ambrosini 1999]. Pertanto, l’immigrato che perde il lavoro, che viene<br />

sfrattato, che si infortuna o si ammala, che subisce un furto rischia molto più<br />

spesso di precipitare nell’esclusione sociale di un italiano, anche se è dotato di<br />

capacità e qualità personali molto migliori.<br />

Per descrivere il modello di inserimento <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> in Italia a volte si<br />

suole contrapporre una cittadinanza economica in larga misura raggiunta<br />

grazie al lavoro ad una cittadinanza sociale ancora molto debole per lo scarso<br />

accesso alla casa, alla scuola e agli altri servizi sociali. Nel suo ultimo<br />

rapporto Ismu [2006b] fa osservare come questa valutazione pecchi di<br />

ottimismo, perché trascura il fatto che il forte inserimento occupazionale è<br />

avvenuto soltanto grazie ad un’altrettanto forte discriminazione, che ha<br />

consentito di riservare i posti di lavoro migliori agli italiani, segregando gli<br />

<strong>immigrati</strong> in quelli peggiori. Questa osservazione invita ad articolare l’analisi<br />

sulla <strong>vulnerabilità</strong> <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> in tre grandi aree:<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

1. la dimensione quantitativa dell’inserimento <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> nel mercato<br />

del lavoro italiano: tassi di occupazione e di disoccupazione:<br />

2. la dimensione qualitativa: settore economico, qualificazione<br />

professionale, posizione lavorativa, retribuzioni e condizioni di lavoro;<br />

3. la cittadinanza sociale: casa, scuola, devianza, politiche sociali.<br />

3. Un inserimento forte nel mercato del lavoro<br />

Se guardiamo ai due principali indicatori globali, il tasso di disoccupazione<br />

e quello di occupazione, l’inserimento delle persone immigrate (e in<br />

particolare dei maschi) nel mercato del lavoro italiano risulta decisamente<br />

positivo, soprattutto in un quadro comparativo con i paesi europei di vecchia<br />

immigrazione. I dati su cui si fonda questa valutazione sono quelli del<br />

Censimento della popolazione del 2001 [Istat 2005a] e quelli dell’indagine<br />

sulle forze di lavoro del 2005 [Istat 2006a] che fornisce i primi dati sugli<br />

<strong>immigrati</strong> e ovviamente prendono in considerazione tutti e soltanto i cittadini<br />

stranieri residenti. Quindi, rispetto a coloro che siamo soliti considerare<br />

“<strong>immigrati</strong>”, cioè provenienti da paesi a minor livello di sviluppo, questi dati<br />

offrono una valutazione sia per eccesso sia per difetto, poiché da un lato<br />

comprendono i cittadini di paesi ricchi (dalla Svizzera al Giappone, dai paesi<br />

della vecchia Unione Europea agli Stati Uniti) e dall’altro escludono gli<br />

<strong>immigrati</strong> non residenti, oltre ovviamente a quelli presenti in modo non<br />

autorizzato. Ma gli stranieri dei paesi ricchi sono ormai solo il 7% dei residenti<br />

e non dovrebbero distorcere molto l’analisi, mentre è ragionevole pensare che<br />

gran parte <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> non iscritti all’anagrafe abbiano un progetto<br />

migratorio temporaneo e siano destinati a rientrare presto al paese di origine.<br />

Infine, un’indagine condotta periodicamente sulla Lombardia dall’Ismu<br />

consentirà di avere indicazioni preziose sulla condizione di inserimento nel<br />

mercato del lavoro anche <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> non autorizzati.<br />

<strong>La</strong> tabella 1 rivela che i tassi di disoccupazione dei cittadini stranieri sono<br />

nel complesso un poco superiori a quelli <strong>degli</strong> italiani, ma la differenza è<br />

dovuta quasi tutta alle donne, poiché per i maschi è praticamente nulla. Un<br />

confronto con quanto accade in altri paesi europei è addirittura sorprendente.<br />

Infatti, nella media dei paesi dell’Unione Europea (Italia esclusa) il tasso di<br />

disoccupazione dei cittadini non-Unione Europea è oltre il doppio di quello dei<br />

cittadini nazionali: il 15,8% contro il 7,1% nel 2002 e negli anni precedenti la<br />

situazione è identica, quasi senza differenze tra maschi e femmine [Kiehl e<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

TAB. 1. Tasso di disoccupazione <strong>degli</strong> italiani e <strong>degli</strong> stranieri<br />

Stranieri Italiani<br />

Maschi Femmine Totale Maschi Femmine Totale<br />

2001* 8.1 18.5 12.1 9.4 14.7 11.6<br />

2005** 6.8 15.4 10.2 6.1 9.8 7.6<br />

Nord Centro Sud Nord Centro Sud<br />

2005** 9.7 10.0 12.8 3.8 6.1 14.3<br />

* Censimento<br />

** Indagine sulle forze di lavoro<br />

Werner 1999; Werner 2003] 3 . Soltanto nei paesi dell’Europa meridionale di<br />

nuova immigrazione lo scarto risulta minore: nel 2002 il tasso di<br />

disoccupazione dei non comunitari è superiore appena del 50% a quello dei<br />

nazionali in Spagna e quasi eguale in Grecia. Nei paesi dell’Europa centrosettentrionale<br />

di vecchia immigrazione l’elevata disoccupazione dei cittadini<br />

non-comunitari, ormai da tempo insediati, si può spiegare con la drastica<br />

riduzione dei posti di lavoro industriali per occupare i quali erano <strong>immigrati</strong> e<br />

con le difficoltà di inserimento delle seconde generazioni. Invece, nei nuovi<br />

paesi di immigrazione, come in Italia, chi è entrato recentemente non ha avuto<br />

problemi a trovare lavoro perché è andato a soddisfare una domanda di<br />

lavoro che esiste. Ma si può anche pensare che in questi paesi l’ancor debole<br />

radicamento impedisca ai recenti <strong>immigrati</strong> l’accesso vuoi agli (scarsi)<br />

sostegni pubblici per i disoccupati, vuoi alle reti di solidarietà familiare e li<br />

costringa quindi a trovar lavoro al più presto oppure a ritornare al paese di<br />

origine o ad emigrare altrove.<br />

Mentre la minore riduzione dal 2001 al 2005 del tasso di disoccupazione<br />

<strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> ha scarso significato perché le fonti sono diverse 4 , rilevanti<br />

sono invece le differenze di genere e apparentemente paradossali quelle<br />

territoriali. Le immigrate sono molto più disoccupate delle italiane e il tasso di<br />

disoccupazione raggiunge livelli particolarmente elevati per le donne che<br />

3 A titolo di curiosità, si può ricordare che in Germania nel triennio 2001-2003 gli<br />

<strong>immigrati</strong> italiani avevano un tasso di disoccupazione di poco inferiore al 18% contro<br />

una media del 8% [Ismu 2006b].<br />

4 L’indagine Ismu sulla Lombardia [2006a], che comprende anche i non<br />

autorizzati, mostra una maggiore riduzione del tasso di disoccupazione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong><br />

dal 15,6% del 2001 al 8,4% del 2005, in linea con quella <strong>degli</strong> italiani.<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

hanno figli con se in Italia [<strong>Reyneri</strong> 2006]. Per costoro le difficoltà di<br />

conciliare il lavoro con le responsabilità familiari sono davvero molto forti,<br />

poiché i servizi pubblici sono scarsi, quelli privati troppo costosi e il sostegno<br />

familiare è quasi sempre inesistente [Zanfrini 2006]. In contesti simili, le<br />

donne italiane spesso ricadono nell’inattività; invece le immigrate, spinte<br />

probabilmente da un maggiore bisogno economico, insistono nella ricerca di<br />

un lavoro compatibile con la cura dei figli.<br />

Nel Mezzogiorno, su livelli ovviamente più alti, il tasso di disoccupazione<br />

<strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> è addirittura inferiore a quello <strong>degli</strong> italiani. Ciò si deve alla<br />

molto maggiore mobilità territoriale <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong>, che li porta a trasferirsi<br />

facilmente dove è più agevole trovare lavoro 5 . Perciò, di <strong>immigrati</strong><br />

disoccupati nelle regioni meridionali ne restano relativamente pochi.<br />

Quanto alle altre caratteristiche personali, pur mancando ancora di dati<br />

conclusivi, il tasso di disoccupazione dei giovani <strong>immigrati</strong> sembra molto<br />

inferiore a quello dei coetanei italiani e per contro quello <strong>degli</strong> adulti parecchio<br />

superiore, con una situazione di equilibrio per i trentenni [Istat 2005a]. Ciò si<br />

spiega con il fatto che ben pochi sono gli <strong>immigrati</strong> con oltre 18 anni che<br />

vivono con i genitori in Italia e possono quindi permettersi una lunga attesa del<br />

primo lavoro come i loro coetanei italiani. Perciò la condizione di<br />

disoccupazione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> risulta più grave di quanto indichi il mero<br />

confronto tra i due tassi di disoccupazione totali, data la nota scarsa<br />

generosità delle indennità di disoccupazione in Italia 6 .<br />

Benché tra i disoccupati <strong>immigrati</strong> la presenza <strong>degli</strong> adulti sia parecchio<br />

maggiore che non tra gli italiani, colpisce che il livello di istruzione non<br />

influisca sul rischio di restare senza lavoro. Come ormai dovrebbe essere<br />

noto, tra gli <strong>immigrati</strong> vi è un’alta percentuale di laureati e diplomati. Ancora<br />

raramente i titoli di studio conseguiti in paesi lontani e con sistemi scolastici<br />

molto diversi sono riconosciuti in Italia 7 , perciò nelle statistiche amministrative<br />

la stragrande maggioranza figura privo di titolo di studio. Non resta, quindi,<br />

che affidarsi alle dichiarazioni <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong>, anche scontando una certa<br />

5 Da sempre in Italia esiste una strettissima correlazione a livello regionale tra<br />

tutti gli indicatori di presenza <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> (sia persone che lavoratori) e il tasso di<br />

disoccupazione: gli <strong>immigrati</strong> sono ovviamente molto più presenti nelle regioni ove il<br />

tasso di disoccupazione è minore.<br />

6 Cui gli <strong>immigrati</strong> hanno per di più difficoltà di accedere, perché è richiesta una<br />

discreta continuità lavorativa regolare per almeno due anni. Purtroppo nell’attività di<br />

monitoraggio delle politiche del lavoro svolta dal Ministero del lavoro finora non vi è<br />

traccia della cittadinanza dei destinatari.<br />

7 Il riconoscimento del titolo di studio prevede dapprima un accordo con il paese<br />

di origine e poi una lunga e defatigante procedura, che può fallire ad ogni passo per<br />

disguidi di varia natura. Si può pensare che le difficoltà poste dalla burocrazia italiana<br />

abbiano la funzione latente di contribuire a “trattenere” gli <strong>immigrati</strong> ai livelli più bassi<br />

della scala professionale.<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

sopravvalutazione. Nel Censimento 2001, che considera la popolazione<br />

residente con oltre 5 anni, gli stranieri con un titolo universitario superano il<br />

12% contro il 7,4% <strong>degli</strong> italiani e quelli con un diploma superiore raggiungono<br />

il 27,8% contro il 25,8% [Istat 2005a]. Ma queste differenze sono in larga<br />

misura dovute alla diversa composizione per età. Secondo i dati dell’indagine<br />

sulle forze di lavoro [Istat 2005b], nel 2005 tra gli stranieri occupati quasi il<br />

10% aveva una laurea e oltre il 39% un diploma 8 . Sono livelli non molto<br />

inferiori a quelli del totale <strong>degli</strong> occupati, italiani e stranieri, che sono laureati<br />

per il 14% e diplomati per il 43%. Dunque, si potrebbe pensare che un<br />

maggior capitale umano consenta un migliore inserimento nel mercato del<br />

lavoro e un minor tasso di disoccupazione 9 , ma così non è.<br />

Per il momento possiamo disporre soltanto dell’indagine sugli <strong>immigrati</strong> in<br />

Lombardia 10 condotta periodicamente dall’Ismu, che comprende anche quelli<br />

non autorizzati. Secondo il campione lombardo 11 , nel 2004 gli <strong>immigrati</strong><br />

diplomati e laureati hanno tassi di disoccupazione leggermente inferiori alla<br />

media, ma, se si prendono in considerazione alcune caratteristiche di controllo<br />

(genere, età, periodo di arrivo, status del soggiorno, paese di origine), le<br />

differenze perdono ogni significatività. Si conferma, quindi, quanto già<br />

emergeva da analisi meno raffinate [Zanfrini 2000; <strong>Reyneri</strong> 2004]. Almeno a<br />

medio termine (la grande maggioranza <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> presenti è in Italia da<br />

meno di 10 anni), a parità di altre condizioni, i più istruiti non trovano più<br />

facilmente un lavoro. Si può pensare che di fronte alla prospettiva di svolgere<br />

attività scarsamente qualificate e spesso penose, la sola che si apra loro,<br />

come vedremo, non pochi <strong>immigrati</strong> istruiti si rassegnino a rimanere<br />

nell’ambigua zona di confine tra disoccupazione e occupazione precaria.<br />

Soltanto quando i laureati riescono a far riconoscere il proprio titolo di studio il<br />

loro tasso di disoccupazione crolla a livelli decisamente inferiori [Zanfrini<br />

2006].<br />

8 Per una rassegna, anche se un po’ invecchiata, delle indagini sui livelli di<br />

istruzione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> si può vedere <strong>Reyneri</strong> [2004].<br />

9 Peraltro solo in alcuni paesi europei tra i cittadini non comunitari ad un<br />

maggior livello di istruzione corrispondono minori tassi di disocupazione. In un<br />

contesto di immigrazione da tempo insediata, la relativamente elevata disoccupazione<br />

<strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> istruiti viene attribuita alla discriminazione nei loro confronti [Kiehl e<br />

Werner 1999].<br />

10 Poiché in Lombardia risiede quasi un quarto <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> presenti in Italia, i<br />

risultati di questa indagine regionale assumono un grande rilievo.<br />

11 Qui non si fa riferimento alle consuete indagini periodiche dell’Ismu, ma ad<br />

elaborazioni condotte su un’indagine condotta dall’Ismu per l’Ires Lombardia nel<br />

2004 con criteri simili, i cui primi risultati sono stati presentati ad una conferenza che<br />

si è svolta il 4-6 giugno 2006 presso il Department of Sociology dell’Università di<br />

Oxford nel quadro del network di eccellenza Equalsoc [<strong>Reyneri</strong> 2006].<br />

7


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

I due fattori che più incidono sul rischio di restar disoccupato sono,<br />

invece, legati alla dinamica del movimento migratorio: il periodo di arrivo e la<br />

condizione giuridica del soggiorno in Italia, che sono ovviamente tra loro<br />

abbastanza connessi. Ricorrendo all’indagine Ismu [2006a] sugli <strong>immigrati</strong> in<br />

Lombardia, il tasso di disoccupazione <strong>degli</strong> entrati in Italia negli ultimi due-tre<br />

anni risulta più che doppio rispetto a quello medio, mentre non vi sono<br />

significative differenze per chi è entrato prima 12 . Tra gli ultimi entrati è anche<br />

enormemente maggiore la percentuale di chi non possiede un permesso di<br />

soggiorno valido per lavorare. Ma anche se si controlla il periodo di arrivo 13 ,<br />

l’impatto della condizione giuridica del soggiorno è fortissimo: rispetto alla<br />

probabilità di essere disoccupato <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> che hanno la cittadinanza<br />

italiana o la carta di soggiorno pluriennale, quella di chi ha soltanto il permesso<br />

valido è quasi doppia 14 e quella di chi l’ha lasciato scadere o non l’ha mai<br />

avuto è quadrupla.<br />

Si può, dunque, concludere che gli <strong>immigrati</strong> che entrano in modo<br />

irregolare sono quasi tutti alla ricerca del lavoro, poi nell’arco di alcuni mesi<br />

ne trovano uno dapprima irregolare e successivamente regolare se nel<br />

frattempo hanno avuto la possibilità di far ricorso ad una sanatoria [Zanfrini<br />

2006]. Naturalmente questo processo che vede nell’arco di pochissimi anni<br />

un buon inserimento <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> dal punto di vista dell’accesso al lavoro<br />

(per lo più cattivo, ma di ciò si dirà più avanti) non tiene conto dell’autoselezione<br />

che può accompagnarlo. Infatti, anche se la letteratura<br />

sull’emigrazione sottolinea la forte resistenza al ritorno da fallimento 15 , si può<br />

pensare che tra chi dopo qualche tempo non riesce proprio ad inserirsi nel<br />

mercato del lavoro non pochi ritornino al paese di origine o tentino di emigrare<br />

altrove, abbassando il tasso di disoccupazione. Si conferma, infine,<br />

l’importanza che per l’inserimento occupazionale ha acquisire e mantenere il<br />

permesso di soggiorno. Se l’acquisizione è stata finora essenzialmente legata<br />

alle frequenti regolarizzazioni, la possibilità di non far scadere il permesso di<br />

12 Anche in quasi tutti i paesi europei a maggiore anzianità di immigrazione<br />

corrispondono minori tassi di disoccupazione [Kiehl e Werner 1999].<br />

13 Grazie all’analisi della già citata indagine speciale Ismu -Ires Lombardia<br />

[<strong>Reyneri</strong> 2006].<br />

14 Coloro che hanno un permesso di soggiorno per asilo o protezione<br />

temporanea hanno però un tasso di disoccupazione relativamente elevato, oltre ad<br />

un’alta frequenza di lavori irregolari [Ismu 2006a]. Ciò indica lo stato di emarginazione<br />

in cui rischiano di restare confinati i rifugiati (per fortuna pochi) che hanno la<br />

sventura di chiedere asilo in Italia.<br />

15 L’emigrazione è una sorta di scommessa tra chi parte e chi rimane e l’emigrato<br />

tenterà a tutti i costi di ritornare “sconfitto”, perché per amici e parenti sarebbe “un<br />

morto che cammina”.<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

TAB. 2. Tasso di occupazione 15-64 anni (media 2005)<br />

Femmine Maschi Totale<br />

Stranieri Italiani Stranieri Italiani Stranieri Italiani<br />

Nord 49.0 55.6 82.4 74.6 66.7 65.1<br />

Centro 53.6 50.6 82.6 70.8 66.9 60.6<br />

Sud 39.9 29.9 75.6 61.7 57.3 45.7<br />

Totale 49.0 45.1 81.6 69.2 65.3 57.1<br />

Fonte: Indagine sulle forze di lavoro<br />

soggiorno e di evitare il rischio dell’esclusione lavorativa è legata a eventi<br />

spesso al di fuori del controllo dell’immigrato, come si vedrà.<br />

A conclusioni simili si giunge considerando l’altro indicatore di<br />

inserimento quantitativo nel mercato del lavoro. Infatti, come mostra la tabella<br />

2, il tasso di occupazione <strong>degli</strong> stranieri risulta addirittura superiore, e di molto,<br />

a quello <strong>degli</strong> italiani. <strong>La</strong> differenza appare particolarmente forte per i maschi:<br />

oltre 12 punti percentuali contro poco meno di 4 punti per le femmine. Ciò si<br />

deve in larga misura alla diversa composizione per età delle due popolazioni:<br />

tra gli <strong>immigrati</strong> minore è la presenza di cinquantenni e sessantenni, che<br />

tendono ad avere un minor tasso di partecipazione al lavoro. Tuttavia, anche<br />

tenendo conto della diversa composizione per età l’inserimento occupazionale<br />

<strong>degli</strong> stranieri è più elevato. Infatti, secondo il Censimento 2001 per tutte le<br />

classi di età sino ai 44 anni il tasso di occupazione <strong>degli</strong> stranieri è maggiore di<br />

quello <strong>degli</strong> italiani, mentre è inferiore soltanto oltre i 45 anni, quando tra gli<br />

stranieri residenti in Italia comincia ad essere rilevante la presenza dei<br />

pensionati dei paesi sviluppati [Istat 2005a].<br />

Le differenze territoriali del tasso di occupazione sono speculari a quelle<br />

viste per il tasso di disoccupazione. Lo scarto a favore <strong>degli</strong> stranieri è<br />

maggiore nel Mezzogiorno: quasi 12 punti percentuali contro poco più di 6 nel<br />

Centro e neppure 2 nel Nord. Per i maschi il fenomeno si spiega come per la<br />

disoccupazione: gli emigrati rimangono nelle regioni meridionali, a scarsa<br />

occupazione <strong>degli</strong> italiani, soltanto se riescono a trovare un lavoro, altrimenti<br />

si muovono verso il Centro-Nord. Per le donne le differenze territoriali nello<br />

scarto tra straniere e italiane sono ancora maggiori anche perché quelle nel<br />

tasso di occupazione delle italiane sono altissime.<br />

Ancor più del tasso di disoccupazione, che può essere viziato da un<br />

“effetto di scoraggiamento”, quello di occupazione è considerato il principale<br />

indicatore per valutare l’inserimento delle donne immigrate nel mercato del<br />

lavoro. In tutti i paesi europei, tranne la Spagna e la Grecia, il tasso di<br />

occupazione delle immigrate è inferiore, anche di molto, a quello delle donne<br />

native [Werner 2003]. È quanto accade in Italia nelle regioni settentrionali,<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

ove il tasso di occupazione delle italiane si avvicina a quello dei paesi<br />

dell’Europa centro-settentrionale. Si può concludere, quindi, che in Italia,<br />

come in Spagna e Grecia, la differenza a favore del tasso di occupazione<br />

delle immigrate non sia tanto indice di un loro miglior inserimento nel mercato<br />

del lavoro, ma piuttosto il frutto dell’infimo tasso di occupazione delle donne<br />

native [Kiehl e Werner 1999].<br />

Rielaborando i dati dell’indagine Ismu-Ires in Lombardia per il 2004 si<br />

può vedere come il tasso di occupazione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> vari anche per altri<br />

aspetti, oltre che per il genere e l’età. L’esito è speculare a quello visto per il<br />

tasso di disoccupazione [<strong>Reyneri</strong> 2006]. Infatti, è molto meno probabile che<br />

abbiano un’occupazione coloro che sono entrati più recentemente e coloro<br />

che non hanno un permesso di soggiorno valido, mentre il livello di istruzione<br />

non ha alcuna influenza. Particolarmente escluse dal lavoro sono le donne<br />

sposate con figli presenti in Italia. Infine, seguendo la stessa via, è possibile<br />

avere qualche indicazione sui gruppi nazionali più o meno inseriti nel mercato<br />

del lavoro, almeno per quanto riguarda la Lombardia. Anche se vi è qualche<br />

discrepanza tra probabilità di essere disoccupato e di essere occupato, a<br />

parità di altre condizioni gli <strong>immigrati</strong> meglio inseriti sembrano essere quelli<br />

che provengono da Ucraina, Romania, Cina ed Equador e i meno inseriti<br />

quelli che provengono dai paesi dell’ex-Yugoslavia, dal Perù, dagli altri paesi<br />

dell’Europa orientale, da India e Pakistan, e dal Nord Africa.<br />

4. Dequalificazione professionale e discriminazione<br />

Secondo i primi dati dell’indagine sulle forze di lavoro il 5,4% <strong>degli</strong><br />

occupati pari a 1.213.000, sono cittadini stranieri residenti. In realtà, poiché<br />

soltanto il 90% <strong>degli</strong> stranieri in regola con il permesso di soggiorno si iscrive<br />

all’anagrafe, occorre rivalutare questa percentuale e portarla al 6%. Se poi<br />

consideriamo che i cittadini non comunitari sono esclusi dal pubblico impiego<br />

si arriva per il settore privato ad una percentuale del 6,2% (da rivalutare al<br />

6,8%). Inoltre, tenendo conto che, come si dirà, gli stranieri sono ancora poco<br />

inseriti nel lavoro indipendente, si può stimare che i cittadini stranieri sfiorino<br />

l’8% (da rivalutare sino al 9%) dell’occupazione dipendente privata. Si<br />

comprende come la percentuale di non-comunitari tra i nuovi rapporti di<br />

lavoro dipendente stipulati nel corso di un anno possa essere cresciuta da<br />

poco più del 10% nel 2001 sino a superare il 17% nel 2004 e nel 2005 [dati<br />

del “contatore” Inail]. <strong>La</strong> presenza <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> molto più elevata nel flusso<br />

delle assunzioni piuttosto che nello stock <strong>degli</strong> occupati si spiega in larga<br />

misura con il fatto che si tratta per lo più di “nuovi entrati” nel mercato del<br />

lavoro italiano, ove una proporzione cospicua di italiani è stabilmente inserita<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

da tempo, ma può essere anche un segnale di una loro maggiore mobilità e<br />

quindi instabilità occupazionale. <strong>La</strong> seconda ipotesi è confermata da Venturini<br />

e Villosio [2002], che mostrano come nel decennio 1986-1996 il turnover dei<br />

lavoratori <strong>immigrati</strong> sia molto maggiore di quello <strong>degli</strong> italiani.<br />

<strong>La</strong> distribuzione territoriale <strong>degli</strong> occupati stranieri è ancor più squilibrata<br />

di quella della popolazione straniera, se si ricordano le differenze territoriali<br />

nei tassi di occupazione. Secondo l’indagine sulle forze di lavoro nel 2005<br />

[Istat 2006a], poco meno dei due terzi dell’occupazione straniera si concentra<br />

nel Nord, intorno ad un quarto nel Centro e soltanto l’11% nel Mezzogiorno.<br />

Se si considera che metà <strong>degli</strong> occupati italiani risiede nel Nord e ben il 30%<br />

nel Mezzogiorno, si può stimare che gli <strong>immigrati</strong> raggiungano il 7% (da<br />

rivalutare quasi all’8%) dell’occupazione totale nel Nord e non vadano oltre il<br />

2% nel Mezzogiorno. Questa enorme disparità è ben rivelata dai dati Inail<br />

sulle assunzioni: nel 2005 a fronte di una media nazionale pari al 17,3% i noncomunitari<br />

raggiungono il 23% in Veneto e Friuli e il 22% in Lombardia ed<br />

Emilia, mentre in nessuna regione meridionale superano il 7%. Gli <strong>immigrati</strong>,<br />

dunque, sono particolarmente ben inseriti nelle regioni più ricche del paese,<br />

ove l’offerta di lavoro nativa non riesce a far fronte ai bisogni della domanda,<br />

sia per motivi demografici, sia per le aumentate aspirazioni professionali delle<br />

nuove e più istruite generazioni. Ma quali posti di lavoro gli <strong>immigrati</strong> vanno<br />

ad occupare?<br />

<strong>La</strong> tabella 3 mostra innanzitutto che la percentuale di <strong>immigrati</strong> occupati<br />

in agricoltura è praticamente uguale a quella <strong>degli</strong> italiani. Non vi è contrasto,<br />

però, con tutte le indagini locali che registrano una forte e crescente presenza<br />

di <strong>immigrati</strong> sia nei lavori di raccolta (dai pomodori alle fragole, dalle mele alle<br />

olive), sia nelle stalle e sui pascoli. Infatti, queste attività sono svolte<br />

principalmente o da <strong>immigrati</strong> con permesso stagionale 16 e quindi non<br />

residenti o da <strong>immigrati</strong> senza permesso, che ovviamente anch’essi non sono<br />

compresi in rilevazioni fondate sulle anagrafi. Per gli stessi motivi è<br />

sottostimata l’occupazione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> in edilizia e in alcuni rami dei<br />

servizi (dal turismo al lavoro domestico). Tutto ciò non toglie che emerga un<br />

quadro dell’inserimento occupazionale <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> molto più industriale ed<br />

edile di quanto comunemente si pensi. Certamente, buona parte <strong>degli</strong><br />

<strong>immigrati</strong> sono entrati per svolgere lavori di servizio legati alla riproduzione<br />

della società, consentendo alle donne italiane di accedere sempre più a<br />

occupazioni retribuite senza modificare la tradizionale divisione del lavoro<br />

familiare, ma molti <strong>immigrati</strong> sono andati nelle fabbriche e sui cantieri a<br />

16 Peraltro l’Inps, che registra anche gli stagionali, rileva una recente<br />

stabilizzazione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> occupati (quasi tutti a tempo determinato) in<br />

agricoltura, sicché nel 2002 la loro percentuale sul totale dei lavoratori non-comunitari<br />

è scesa ai livelli stimati per il 2005 dall’indagine sulle forze di lavoro.<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

TAB. 3. Composizione dell'occupazione per settore (in %)<br />

2001* 2005**<br />

Stranieri Italiani Stranieri Italiani<br />

Agricoltura 5,9 5,5 +0,4 4,5 4,4 +0,1<br />

Costruzioni 12,2 8,0 +4,2 15,8 8,2 +7,6<br />

Industria manifatturiera 32,6 25,1 +7,5 25,0 22,5 +2,5<br />

Servizi 49,3 61,4 -12,1 54,7 64,9 -10,2<br />

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

* Censimento<br />

** Indagine sulle forze di lavoro<br />

prendere il posto <strong>degli</strong> italiani, sempre meno disposti al lavoro operaio poco o<br />

nulla qualificato, ancora molto diffuso nei processi produttivi a bassa<br />

tecnologia e a scarsa innovazione, che costituiscono larga parte della struttura<br />

economica italiana.<br />

Secondo un sondaggio della Banca d’Italia, nell’industria manifatturiera i<br />

lavoratori <strong>immigrati</strong> costituiscono una quota più alta dell’occupazione nelle<br />

imprese di minori dimensioni e in quelle meno efficienti (che pagavano salari<br />

operai più bassi anche prima di assumerli, hanno un contenuto numero di ore<br />

di lavoro annue, sono meno dotate di computer e meno sindacalizzate)<br />

[Brandolini, Cipollone e Rosolia 2005]. I principali rami in cui la presenza di<br />

<strong>immigrati</strong> è più diffusa sono il tessile, la concia, il legno e arredamento, la<br />

gomma e plastica, l’agro-industria e la metalmeccanica. Dunque, il ricorso al<br />

lavoro <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> consente alle imprese meno efficienti dei settori più<br />

tradizionali e low tech dell’industria italiana di continuare ad essere<br />

competitive sul piano internazionale. Ma questi sono i settori e le imprese che<br />

sono prima o poi destinate a soccombere alla concorrenza dei paesi in via di<br />

sviluppo e in primo luogo della Cina 17 . A medio termine gran parte di questi<br />

posti di lavoro saranno a rischio, in assenza di profonde innovazioni di<br />

prodotto e di lavorazione, e i lavoratori che affronteranno le maggiori<br />

difficoltà saranno proprio gli <strong>immigrati</strong>, che, essendo molto più giovani, non<br />

potranno come i nativi aspirare alla mobilità lunga che li accompagni sino alla<br />

pensione.<br />

Minori rischi strutturali presenta la “sovra-occupazione” <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong><br />

in edilizia, perché si tratta di un settore sottratto alla competizione<br />

internazionale. Ma le costruzioni sono soggette a variazioni congiunturali e<br />

una riduzione dell’attività pur temporanea può avere serie conseguenze per gli<br />

<strong>immigrati</strong>, che ormai superano il 10% dell’occupazione e in alcune province<br />

del Centro-Nord sono quasi un quarto <strong>degli</strong> iscritti alla Cassa edile. E non va<br />

17 Già ora alcune imprese cinesi del distretto dell’abbigliamento di Prato sono<br />

entrate in crisi per la concorrenza dei prodotti made in China.<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

trascurato che insieme al lavoro domestico le costruzioni sono il settore che<br />

dà più lavoro agli <strong>immigrati</strong> irregolari, come si è visto anche dall’ultima<br />

regolarizzazione. Nei servizi, gli <strong>immigrati</strong> si concentrano nelle imprese di<br />

pulizia, nel settore <strong>degli</strong> alberghi e dei ristoranti, nei trasporti, nel commercio e<br />

soprattutto nel lavoro domestico e di assistenza domiciliare agli anziani. Sono<br />

anch’esse attività non esposte alla competizione e anche la stagionalità del<br />

turismo è regolare e prevedibile. I problemi stanno piuttosto nelle condizioni di<br />

lavoro, decisamente più precarie e soprattutto più dequalificate.<br />

<strong>La</strong> posizione lavorativa costituisce un importante indicatore del grado di<br />

integrazione e dei rischi di instabilità dell’occupazione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong>, anche<br />

se saranno necessarie alcune precisazioni per evitare letture distorte.<br />

In particolare, l’accesso al lavoro indipendente è considerato un<br />

indicatore di integrazione, perché per avviare un’attività imprenditoriale o in<br />

proprio occorre che l’immigrato abbia acquisito le necessarie risorse<br />

economiche, professionali e culturali (compresa la conoscenza dell’ambiente<br />

economico) e sia riuscito a superare le chiusure che spesso rendono difficile<br />

l’accesso a tali attività. Per cercare di spiegare il (supposto) più rapido<br />

sviluppo del lavoro in proprio nei recenti flussi migratori è nata un’ampia<br />

letteratura sociologica sull’ethnic business [Ambrosini 2001; Codagnone<br />

2003]. In realtà nei paesi europei la diffusione del lavoro indipendente tra gli<br />

<strong>immigrati</strong> è stata progressiva sino a raggiungere il livello dei lavoratori<br />

nazionali quasi ovunque verso la metà <strong>degli</strong> anni Novanta [Kiehl e Werner<br />

1999; Werner 2003]. L’Italia sembra avviarsi sulla stessa strada. Come si<br />

vede dalla tabella 4, tra gli <strong>immigrati</strong> la percentuale di lavoratori autonomi, pur<br />

molto inferiore a quella <strong>degli</strong> italiani (che però è la più alta dei paesi<br />

sviluppati), non è piccola se si considerano: l’ancora scarsa presenza di<br />

<strong>immigrati</strong> con una lunga permanenza in Italia, il fatto che soltanto dal 1998 è<br />

diventato possibile a tutti gli <strong>immigrati</strong> trasformare il permesso da lavoro<br />

dipendente a indipendente 18 , e infine la grande competizione <strong>degli</strong> italiani, che<br />

vedono ancora nel lavoro indipendente un importante canale di mobilità<br />

sociale.<br />

18 Secondo il principio della reciprocità, prima ciò era possibile solo per gli<br />

<strong>immigrati</strong> da paesi ove gli italiani potevano avviare attività in proprio.<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

Tab. 4. Composizione dell'occupazione per posizione lavorativa<br />

2001* 2005**<br />

Stranieri Italiani Stranieri Italiani<br />

% indipendenti 19.8 26.7 -6.9 15.0 26.7 -11.8<br />

% tempo parziale 16.5 11.1 +5.4 17.9 12.7 +5.2<br />

% tempo determinato*** 21.6 15.9 +5.7 12.5 12.3 +0.2<br />

* Censimento<br />

** Indagine sulle forze di lavoro<br />

*** Sul totale dei lavoratori dipendenti<br />

<strong>La</strong> riduzione della percentuale di indipendenti tra gli <strong>immigrati</strong> dal 2001 al<br />

2005 non deve ingannare, perché si spiega con la sanatoria del 2002-2003,<br />

che ha regolarizzato la posizione di una gran quantità di nuovi arrivati,<br />

ovviamente occupati come dipendenti 19 . I dati sui permessi di soggiorno<br />

indicano che quelli per lavoro indipendente sono cresciuti da poco più del 4%<br />

nel 1997 fino al 13% nel 2002 e l’archivio delle imprese mostra che gli<br />

imprenditori non comunitari sono raddoppiati dal 1998 al 2003, passando da<br />

1,8% a 3,2% di tutti gli imprenditori [Calzeroni 2005]. Un altro indice della<br />

crescente imprenditorialità risulta dall’ultima sanatoria: oltre il 17% delle<br />

domande di regolarizzazione per lavoro subordinato provenivano da datori di<br />

lavoro stranieri, per lo più cinesi, gli unici che impiegano soltanto connazionali<br />

[Zucchetti 2004]. Che occorra un consolidato insediamento economico e<br />

sociale prima di poter avviare un’attività indipendente è confermato<br />

dall’indagine sull’immigrazione in Lombardia condotta da Ismu [2005], ove si<br />

mostra come la probabilità di avere un’occupazione indipendente è<br />

fortemente legata ad un fascio di indici di stabilizzazione (anzianità di<br />

presenza in Italia, status del soggiorno, tipo di convivenza e condizione<br />

dell’alloggio). Inoltre, gli <strong>immigrati</strong> imprenditori e lavoratori in proprio si<br />

caratterizzano per l’età matura e il titolo di studio medio-alto. Per lo più essi<br />

valorizzano l’esperienza accumulata nello stesso settore produttivo da<br />

dipendenti, ma non pochi provengono da settori diversi, in cui non hanno<br />

potuto raggiungere posizioni impiegatizie e non hanno voluto rassegnarsi alle<br />

mansioni operaie qualificate.<br />

Il lavoro indipendente <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> si concentra soprattutto in attività<br />

artigianali e commerciali ove la durezza del lavoro e <strong>degli</strong> orari rende sempre<br />

19 Questo è senza dubbio il motivo per cui l’indagine Ismu [2006a] sulla<br />

Lombardia mostra una stabilità della percentuale di lavoratori indipendenti in<br />

Lombardia dal 2001 al 2005, nonostante il forte aumento dei lavoratori autonomi<br />

registrati presso le Camere di Commercio della regione. Inoltre si deve tener conto che<br />

nella tabella 4 la percentuale di indipendenti stranieri nel 2001 è sovrastimata, poiché<br />

il Censimento classifica tra gli indipendenti molte lavoratrici domestiche.<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

più difficile la successione generazionale <strong>degli</strong> italiani: dall’edilizia alle imprese<br />

di pulizia, dai laboratori di pelletteria e abbigliamento alle imprese di trasporti e<br />

facchinaggio, dalla ristorazione a basso prezzo ai panifici, dai bar al<br />

commercio ambulante e al dettaglio. Gli imprenditori non-comunitari lavorano<br />

per quasi il 41% nel settore commercio, alberghi e ristoranti (ove hanno<br />

raggiunto il 3,4% del totale <strong>degli</strong> imprenditori) e per oltre il 19% nelle<br />

costruzioni (ove sfiorano ormai il 5%). Questa presenza è ancora maggiore<br />

nelle regioni del Centro-Nord, poiché contro una media nazionale nel 2003 del<br />

3,2% gli <strong>immigrati</strong> sono ben il 5,5% di tutti gli imprenditori in Friuli e poco<br />

meno del 4% in <strong>La</strong>zio, Emilia, Veneto e Lombardia [Calzeroni 2005]. Data la<br />

struttura produttiva italiana e la discriminazione che frena la mobilità<br />

professionale <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong>, di cui si dirà, è facile prevedere che, man mano<br />

l’insediamento si consoliderà, la tendenza allo sviluppo dell’imprenditorialità<br />

<strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> 20 continuerà a ritmi elevati, pur restando confinata nei settori e<br />

con le forme attuali.<br />

Anche la percentuale di lavoro a tempo parziale costituisce un indicatore<br />

utile per comprendere la qualità dell’inserimento occupazionale <strong>degli</strong><br />

<strong>immigrati</strong>, anche se non si dispone ancora di dati conclusivi dall’indagine sulle<br />

forze di lavoro. Infatti, se dal Censimento 2001 risulta che la maggior<br />

diffusione del tempo parziale tra gli <strong>immigrati</strong> rispetto agli italiani (vedi la<br />

tabella 4) concerne essenzialmente le donne, poiché per i maschi le differenze<br />

sono minime, dall’analisi <strong>degli</strong> avviamenti al lavoro risulta che i maschi non<br />

comunitari sono assunti molto più spesso con rapporto part time. Ad esempio,<br />

considerando gli avviamenti al lavoro in provincia di Milano nel 2004 e 2005<br />

per i maschi la proporzione di avviati a tempo parziale è tra gli <strong>immigrati</strong> il<br />

doppio di quella tra gli italiani e i cittadini dei paesi sviluppati [Barbieri e<br />

<strong>Reyneri</strong> 2006]. Questa enorme differenza non si spiega con un’eventuale<br />

diversa composizione settoriale <strong>degli</strong> avviamenti; anzi in alcuni settori ad alta<br />

presenza di <strong>immigrati</strong> maschi (costruzioni, servizi alle imprese) addirittura si<br />

20 Non sembra corretto, invece, parlare di imprenditorialità etnica, poiché di<br />

regola le attività svolte dagli <strong>immigrati</strong> non danno luogo né ad enclaves chiuse alla<br />

società di arrivo, né a forme di ethnic business, fondate sulla possibilità di sfruttare<br />

risorse umane e finanziarie del gruppo etnico. Eccetto qualche negozio di beni<br />

alimentari e i call center per telefonate internazionali, le imprese <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> si<br />

rivolgono a clienti italiani e/o lavorano in sub-appalto per imprese italiane. E molti<br />

imprenditori stranieri assumono lavoratori italiani o di altre nazionalità, come ha<br />

mostrato anche la regolarizzazione del 2002. Fanno eccezione i cinesi, che sfruttano<br />

intensamente il lavoro di familiari e connazionali e ricorrono a finanziamenti interni alla<br />

comunità. Ma i clienti sono esterni e spesso si tratta di subfornitura per imprese<br />

italiane. Si potrebbe persino sostenere che sono riprodotti con maggior durezza<br />

modelli tipici della società italiana, dai ristoratori toscani ai distretti industriali della<br />

Terza Italia, fondati sulla stretta relazione tra impresa e famiglia.<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

acuisce. Che nelle costruzioni, nei trasporti e nei servizi alle imprese (ove<br />

sono classificate le imprese di pulizia) un quinto <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> maschi sia<br />

assunto a tempo parziale pare del tutto incongruo con quanto si sa dalle<br />

ricerche sul campo. È ragionevole pensare che in realtà si tratti per lo più di<br />

tempi pieni mascherati per risparmiare sul costo del lavoro, spesso con la<br />

complicità <strong>degli</strong> stessi <strong>immigrati</strong>, molti dei quali mirano a guadagnare quanto<br />

più possibile nel più breve tempo possibile in un’ottica di progetto migratorio<br />

temporaneo.<br />

Per i rapporti di lavoro dipendente, la durata del rapporto è essenziale<br />

per una valutazione della loro precarietà. Da questo punto di vista la<br />

situazione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> sembra recentemente molto migliorata, poiché,<br />

come mostra ancora la tabella 4, la proporzione di <strong>immigrati</strong> dipendenti a<br />

tempo determinato è diminuita da poco meno del 22% nel 2001 al 12,5% nel<br />

2005, un livello praticamente identico a quello <strong>degli</strong> italiani. Se si guarda alle<br />

assunzioni registrate dall’Inail nel 2005, la percentuale di <strong>immigrati</strong> assunti a<br />

tempo determinato è addirittura inferiore a quella <strong>degli</strong> italiani: poco più del<br />

47% contro quasi il 65%. I lavoratori <strong>immigrati</strong> sarebbero dunque meno<br />

precari <strong>degli</strong> italiani? Certamente da parte delle imprese di alcuni settori si<br />

manifestano segnali di una tendenza a “fidelizzare” gli <strong>immigrati</strong> che sono<br />

disposti ad accettare mansioni e condizioni di lavoro ormai rifiutate dai giovani<br />

italiani [Zucchetti 2004].<br />

Tuttavia, poiché secondo l’indagine lombarda condotta dall’Ismu [2006a]<br />

la percentuale di occupati a tempo determinato crolla a favore di quella a<br />

tempo indeterminato proprio dal 2004 al 2005, si può pensare che il principale<br />

motivo sia un altro. Le norme della legge Bossi-Fini, entrate in vigore con<br />

parecchio ritardo, rendono più difficile rinnovare il permesso di soggiorno a<br />

chi ha un rapporto di lavoro a tempo determinato. Inoltre, probabilmente gli<br />

<strong>immigrati</strong> hanno compreso che un’assunzione a tempo indeterminato agevola<br />

l’accesso ad alcuni diritti civili (dal conto in banca al mutuo per la casa).<br />

D’altronde, le imprese non oppongono resistenza alla richiesta <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong><br />

di essere assunti con un contratto a tempo indeterminato, almeno dopo<br />

qualche mese “di prova” come per gli italiani, perché sono per lo più di<br />

piccole dimensioni e quindi non incontrano seri ostacoli per “liberarsi” dei<br />

propri dipendenti.<br />

L’attuale normativa per il rinnovo dei permessi di soggiorno dovrebbe<br />

creare parecchi problemi ai non pochi <strong>immigrati</strong> che trovano lavoro come<br />

interinali. Infatti, dal 2001 al 2004 oltre il 19% delle missioni concernono<br />

lavoratori stranieri, con punte intorno al 30% per Veneto, Friuli e le due<br />

province lombarde (Brescia e Bergamo), ove maggiore è il peso dell’industria<br />

manifatturiera. È noto che il lavoro interinale è utilizzato soprattutto dalle<br />

imprese industriali, ma questa specificità si accentua ancor più per gli<br />

<strong>immigrati</strong>. Fortunatamente per gli <strong>immigrati</strong>, le loro missioni sono spesso<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

TAB. 5. Composizione dell'occupazione per livello professionale (Isco) nel 2005<br />

lunghe, come accade nell’industria manifatturiera: nel 2001 il 23% oltre 90<br />

giorni e il 61% oltre 30 giorni [Calzaroni 2005]. Gli <strong>immigrati</strong> sono anche<br />

molto presenti nelle cooperative di lavoro, che frequentemente svolgono<br />

l’improprio ruolo di agenzie di fornitura di manodopera. Purtroppo non sono<br />

ancora disponibili dati, ma secondo molte interviste ad <strong>immigrati</strong> e testimoni<br />

privilegiati le “cooperative” (di facchinaggio, di pulizie, ecc...) sono diventate<br />

una delle principali vie di avviamento al lavoro <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong>, anche se a<br />

volte sono confuse con le vere e proprie agenzie di lavoro interinale. Parecchi<br />

<strong>immigrati</strong>, inoltre, denunciano la poca chiarezza delle retribuzioni e dei<br />

rapporti contrattuali con tali cooperative, che non sono quasi mai affiliate alle<br />

principali centrali cooperative e spesso sono al limite della legalità [Zanfrini<br />

2006].<br />

Infine, <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> si dice che non sono molto presenti tra i<br />

collaboratori o lavoratori a progetto, che per lo più svolgono compiti<br />

professionalmente qualificati nei servizi. In realtà, secondo dati fiscali del<br />

2000, i non-comunitari erano circa il 2,5% dei collaboratori [Calzaroni 2005],<br />

quando si può stimare che gli stranieri fossero intorno al 3% <strong>degli</strong> occupati.<br />

Tuttavia, considerato che si trattava di poco più di 15.000 collaboratori, si può<br />

pensare che parecchi fossero originari di paesi sviluppati o legati al mondo<br />

diplomatico, soprattutto tra coloro (quasi il 23%) che già allora guadagnavano<br />

oltre 2.500 euro al mese.<br />

Ma se dal punto di vista della stabilita dell’impiego gli <strong>immigrati</strong> non<br />

paiono svantaggiati, almeno formalmente, perché si è visto come di fatto il<br />

loro turnover sia più elevato, la discriminazione risulta gravissima se si guarda<br />

alla qualificazione professionale e alle condizioni di lavoro. <strong>La</strong> tabella 5<br />

mostra chiaramente quanto scadente sia la classificazione professionale dei<br />

posti di lavoro occupati da stranieri (compresi quelli da paesi sviluppati) e<br />

quanto grande sia lo squilibrio rispetto ai lavoratori italiani.<br />

Merita citare letteralmente quanto scrive l’Istat commentando questi<br />

dati.<br />

Circa un terzo <strong>degli</strong> occupati stranieri risulta inserito nel segmento<br />

inferiore del sistema occupazionale. Le professioni svolte da questi individui<br />

17<br />

Stranieri Italiani<br />

Non manuali qualificate (1-3)<br />

Impiegati e addetti al commercio e ai servizi alla<br />

persona (4-5)<br />

8.6<br />

17.3<br />

35.7<br />

28.3<br />

-27.1<br />

-11.0<br />

Artigiani e lavori manuali qualificati (6-8) 41.7 27.5 +14.2<br />

Occupazioni elementari (9) 32.3 8.5 +23.8<br />

Totale 100.0 100.0 0.0<br />

Fonte: Indagine sulle forze di lavoro


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

rientrano tra quelle non qualificate: manovale edile, bracciante agricolo,<br />

operaio nelle imprese di pulizia, collaboratore domestico, assistente familiare,<br />

portantino nei servizi sanitari, ecc. Si tratta di lavori a bassa qualificazione in<br />

cui è richiesta nella maggior parte dei casi capacità di forza fisica e resistenza.<br />

L’incidenza del personale non qualificato sul totale <strong>degli</strong> occupati italiani e<br />

stranieri è inferiore al 10%. Vi è dunque evidenza di lavori che tendono ad<br />

essere diffusamente coperti dalla componente straniera presente sul mercato<br />

del lavoro. Nel gruppo <strong>degli</strong> artigiani, operai specializzati e conduttori di<br />

impianti si colloca circa il 40% <strong>degli</strong> stranieri occupati. Vi rientrano elettricisti,<br />

carpentieri, falegnami, operai addetti alle macchine meccaniche, camionisti<br />

cioè professioni in cui il lavoro manuale è comunque preminente, anche se i<br />

margini di responsabilità e autonomia sono più ampi rispetto al personale<br />

non qualificato. Circa il 20% <strong>degli</strong> stranieri rientrano nel gruppo <strong>degli</strong><br />

impiegati considerato unitamente a quello delle professioni del commercio e<br />

servizi. Si tratta nella quasi totalità di commesse, cuochi, camerieri, baristi e<br />

magazzinieri. Infine, la contenuta incidenza <strong>degli</strong> stranieri con professioni<br />

qualificate è rappresentata principalmente sia da proprietari e gestori di<br />

negozi, ristoranti o bar, sia da infermieri, insegnanti di lingue straniere o<br />

traduttori. In definitiva, appena cinque professioni (muratori, addetti alle<br />

pulizie, collaboratori domestici e assistenti familiari, braccianti, manovali)<br />

coinvolgono circa un terzo <strong>degli</strong> occupati stranieri, un’incidenza cinque volte<br />

più elevata rispetto a quella <strong>degli</strong> italiani [Istat 2006a].<br />

Secondo un’indagine condotta tra il 2002 e il 2003, che però considera<br />

solo le imprese con oltre 10 addetti, l’inquadramento professionale <strong>degli</strong><br />

<strong>immigrati</strong> è un po’ migliore nei servizi, mentre nell’industria solo in poche<br />

aziende medio-grandi gli <strong>immigrati</strong> ricoprono mansioni impiegatizie o tecniche<br />

[Cozzolino 2005]. Sia pure per la sola Lombardia 21 l’indagine Ismu-Ires<br />

mostra che, anche escludendo gli <strong>immigrati</strong> privi di permesso di soggiorno,<br />

occorrono vuoi molti anni di soggiorno in Italia, vuoi l’accesso alla carta di<br />

soggiorno o addirittura alla cittadinanza italiana per riuscire a infrangere<br />

anche molto parzialmente il “tetto” delle occupazioni qualificate sia nel lavoro<br />

manuale, sia in quello non manuale. Infatti, come mostra la tabella 6, forte è<br />

la differenza nella distribuzione tra chi ha il permesso di soggiorno e chi ha la<br />

carta di soggiorno pluriennale o la cittadinanza italiana. E perché vi sia un<br />

netto salto nelle percentuali delle professioni intellettuali (più 2-4 punti<br />

percentuali), <strong>degli</strong> impiegati (più 2 punti percentuali) e <strong>degli</strong> operai<br />

21 <strong>La</strong> distribuzione dell’occupazione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> per livello professionale<br />

nell’indagine Ismu -Ires Lombardia risulta diversa da quella nazionale rilevata<br />

dall’Istat anche perché è stato necessario riclassificare le descrizioni delle mansioni<br />

dichiarate che non rispettavano i codici Isco.<br />

18


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

TAB. 6. Composizione per livello professionale <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> autorizzati<br />

occupati in Lombardia nel 2004<br />

Sino al<br />

1991<br />

Arrivo in Italia Permesso di soggiorno<br />

1992-<br />

1996<br />

1997-<br />

1999<br />

specializzati (più 3-4 punti percentuali) occorre che siano trascorsi almeno 13<br />

anni di presenza in Italia.<br />

Forti squilibri tra <strong>immigrati</strong> e nativi nella distribuzione dell’occupazione<br />

per livelli di qualificazione sono sempre esistiti in tutti i paesi di vecchia<br />

immigrazione, ma era facile attribuirli alle altrettanto forti differenze nei livelli<br />

di istruzione [Kiehl e Werner 1999; Oecd 2001]. Non è certo questo il caso<br />

italiano, perché, come si è gia accennato, tra i cittadini stranieri occupati in<br />

Italia sono molti gli istruiti: il 9,9% ha una laurea e il 39,4% un diploma<br />

superiore, come risulta dall’indagine sulle forze di lavoro. Rendendo noti<br />

questi dati, l’Istat [2006a] ha pubblicato anche il seguente grafico, che collega<br />

il livello di istruzione con la qualificazione professionale e pone a confronto gli<br />

italiani con gli stranieri. Il risultato è clamoroso: quasi il 40% dei laureati<br />

stranieri e oltre il 60% dei diplomati stranieri svolgono un lavoro non<br />

qualificato o comunque una mansione manuale contro rispettivamente poco<br />

più del 15% e del 20% <strong>degli</strong> italiani.<br />

19<br />

2000-<br />

2001<br />

2002<br />

-<br />

2004<br />

Carta sogg. /<br />

cittad.<br />

italiana<br />

Permess<br />

o valido<br />

Total<br />

e<br />

Professioni intellettuali 5,4 8,9 4,0 3,4 4,6 10,7 4,1 5,5<br />

Impiegati 4,7 4,2 2,0 2,8 3,4 5,7 2,7 3,3<br />

Addetti vendite e servizi alla<br />

persona 14,5 17,5 16,5 14,8 20,2 19,5 15,7 16,5<br />

Operai specializzati 17,7 16,5 13,6 12,3 10,1 18,4 13,3 14,3<br />

Operai qualificati 28,0 25,5 29,2 29,5 26,8 26,4 28,3 27,9<br />

Occupazioni elementari 29,5 27,2 34,7 37,1 34,9 19,4 35,9 32,6<br />

Fonte: Indagine Ismu -Ires Lombardia.<br />

100,0 100,0 100,0 100,0<br />

100,<br />

0 100,0 100,0<br />

100,<br />

0


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

Altro che brain drain dai paesi sottosviluppati, qui siamo in presenza di<br />

un massiccio processo di brain waste, frutto della combinazione da un lato<br />

dei crescenti livelli di istruzione nei paesi meno sviluppati e della forte autoselezione<br />

di flussi migratori non autorizzati, e dall’altro di una domanda di<br />

lavoro italiana decisamente orientata verso le occupazioni meno qualificate<br />

sia nell’industria sia nei servizi. A conferma di questo secondo aspetto si può<br />

ricordare che l’Italia, mentre “importa” centinaia di migliaia di persone per<br />

soddisfare la propria domanda di domestici, operai, commessi, ecc., “esporta”<br />

un gran numero di laureati [Ismu 200b]. In Italia al brain waste <strong>degli</strong><br />

<strong>immigrati</strong> si accompagna la “fuga dei propri cervelli”.<br />

Ci si deve, perciò, augurare almeno a medio termine un diffuso processo<br />

di mobilità professionale dei lavoratori <strong>immigrati</strong>. <strong>La</strong> situazione demografica,<br />

per cui si prevede un sempre minore ingresso di giovani sul mercato del<br />

lavoro, dovrebbe consentirlo, anche se non vanno trascurate le tendenze<br />

corporative che discriminano gli <strong>immigrati</strong> [Dalla Zanna, Impicciatore e<br />

Michielin 2005]. Se ciò non avverrà, ci si deve porre il problema delle tensioni<br />

che potranno verificarsi quando il processo di insediamento sarà avanzato e<br />

gli <strong>immigrati</strong> istruiti si troveranno a guardare al loro status occupazionale non<br />

più nell’ottica della temporaneità e a confrontare le loro retribuzioni non più<br />

con i magri guadagni del paese di origine, ma con i costi della vita in Italia.<br />

Insieme al riconoscimento dei titoli di studio, cui è strettamente collegato,<br />

quello della discriminazione professionale <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> istruiti è destinato a<br />

diventare il principale problema dell’inserimento lavorativo.<br />

20


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

Ma, sia pure ancor più ignorato, esiste anche il problema della più<br />

classica discriminazione nell’accesso al lavoro. È vero che dagli studi di caso<br />

emerge una sorta di “discriminazione positiva” da parte delle imprese a<br />

favore <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> per la loro “voglia di lavorare”, la disponibilità ad<br />

accettare cattive condizioni di lavoro e a fare straordinari, la scarsa<br />

propensione all’assenteismo e la disponibilità ad esser retribuiti almeno in<br />

parte “in nero” [Zanfrini 2006]. Tuttavia, una recente indagine sulla<br />

discriminazione all’assunzione condotta secondo i criteri già seguiti in altri<br />

paesi rivela che i datori di lavoro tendono in larga maggioranza a preferire<br />

lavoratori italiani e ricorrono agli <strong>immigrati</strong> soltanto perché non trovano italiani<br />

da assumere per le mansioni da svolgere [Allasino, <strong>Reyneri</strong> e Zincone<br />

2003] 22 . Infatti, dall’indagine sulla probabilità che un italiano venga preferito<br />

ad un marocchino per essere assunto per un posto di lavoro semi-qualificato<br />

risulta che il tasso totale di discriminazione in Italia è pari al 41% contro valori<br />

inferiori che risultano dalle indagini condotte con lo stesso metodo in Olanda<br />

(37%), in Spagna (36%), in Belgio (33%) e in Germania (19%). Dei tre<br />

settori considerati (industria, edilizia e servizi) quello per cui si è registrata la<br />

minore discriminazione è stato l’edilizia, ove la presenza <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> è<br />

maggiore. Per contro, tra i servizi il ramo ove si è avuta maggiore<br />

discriminazione è stata la ristorazione, probabilmente perché i datori di lavoro<br />

ritenevano che un cameriere marocchino non sarebbe stato ben accetto alla<br />

clientela. Infine, com’era prevedibile, il tasso di discriminazione è stato<br />

maggiore nelle piccole imprese, ove le procedure di reclutamento non sono<br />

standardizzate e il datore di lavoro spesso si trova a lavorare a fianco dei<br />

dipendenti. Occorre, peraltro, osservare che in Italia la stragrande<br />

maggioranza delle assunzioni avviene attraverso reti di relazioni personali ed<br />

in questo caso è molto probabile che la tendenza alla discriminazione verso gli<br />

<strong>immigrati</strong> sia attenuata dall’”effetto <strong>La</strong>pierre”, secondo il quale “tutti i<br />

marocchini sono infingardi e scansafatiche, ma quello che mi è stato<br />

presentato da un amico, un collega di lavoro, ecc. è un ottimo lavoratore”. Si<br />

spiega così quanto sia importante l’intervento di persone od organizzazioni<br />

(associazioni, agenzie, servizi per l’impiego, sindacati, ecc.) che fanno da<br />

intermediari e garanti tra l’immigrato e il datore di lavoro.<br />

Un’azione di intermediazione nel mercato del lavoro è<br />

importante anche per evitare il rischio che si consolidino delle “nicchie<br />

etniche”. Infatti, se di un mercato riservato agli <strong>immigrati</strong> si può parlare<br />

solo per il lavoro domestico e di cura con alloggio presso la famiglia,<br />

22 L’indagine si fondava sul “metodo sperimentale dell’attore”: due attori, uno<br />

italiano ed uno marocchino, rispondevano allo stesso annuncio di ricerca del<br />

personale, dichiarando competenze professionali identiche, e seguivano tutte le<br />

tappe del processo di reclutamento-selezione finché uno dei due veniva eliminato.<br />

21


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

anche in altre occupazioni la presenza <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> è ormai<br />

diventata largamente diffusa. Tuttavia, non esiste una<br />

specializzazione etnica, per cui gli <strong>immigrati</strong> di un gruppo si<br />

concentrano in particolari attività per tradizioni culturali. Più che le<br />

culture originarie contano i modi di inserimento nel mercato del lavoro<br />

italiano. <strong>La</strong> concentrazione in particolari nicchie occupazionali è il<br />

risultato paradossale dell’efficienza delle reti sociali di alcuni gruppi di<br />

<strong>immigrati</strong>, che prima li aiutano a trovar lavoro più in fretta, ma poi<br />

rischiano di “intrappolarli” [Ambrosini 2001]. D’altro canto, la<br />

concentrazione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> da uno stesso paese in alcune<br />

occupazioni è frutto anche del comportamento dei datori di lavoro, che<br />

spesso adottano <strong>degli</strong> stereotipi cognitivi, fondati su dicerie o sulla<br />

conoscenza diretta di qualche caso, e quindi tendono a selezionare<br />

solo <strong>immigrati</strong> da alcuni paesi a scapito di altri. Ciò provoca una<br />

discriminazione statistica che si autoalimenta nel tempo. Soltanto un<br />

forte ruolo delle varie “agenzie di intermediazione” può impedire che<br />

reti sociali <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> e stereotipi dei datori di lavoro si rafforzino<br />

reciprocamente e provochino chiusure etniche nel mercato del lavoro.<br />

Delle cattive condizioni di lavoro <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> si sa poco più di quanto<br />

emerge da indagini qualitative o locali. Ma un indicatore significativo è<br />

costituito dagli infortuni sul lavoro. Secondo i dati forniti dall’Inail, la<br />

percentuale di non-comunitari tra gli infortunati cresce dal 7,4% (8% per<br />

quelli mortali) del 2001 sino al 12,3% (13,2% per quelli mortali) del 2004.<br />

Poiché sono quasi il doppio delle percentuali di <strong>immigrati</strong> occupati in Italia<br />

negli stessi anni, si può dire che in Italia i lavoratori stranieri presentano un<br />

rischio di infortunio doppio rispetto a quello dei nativi, come d’altronde accade<br />

anche negli altri paesi europei 23 . E la reale differenza può essere ancora<br />

maggiore, perché è probabile che gli <strong>immigrati</strong>, anche quelli occupati<br />

regolarmente, tendano più spesso a non denunciare gli infortuni di minor<br />

rilievo. <strong>La</strong> ragioni della maggiore esposizione agli infortuni <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> sta<br />

nella loro maggior presenza nei settori e nelle imprese più a rischio, ma un<br />

raro studio condotto su questo problema in alcune province toscane rivela che<br />

i datori di lavoro non solo spesso si curano poco della formazione antiinfortunistica<br />

e delle difficoltà di comunicazione linguistica, ma tendono ad<br />

affidare agli <strong>immigrati</strong> i compiti più pericolosi [Giovine 2005]. Nonostante ciò,<br />

secondo la stessa indagine, la maggior parte <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> valuta<br />

positivamente il proprio lavoro: probabilmente troppo forte è il confronto con<br />

23 Va detto, peraltro, che in Italia la frequenza <strong>degli</strong> infortuni risulta parecchio<br />

inferiore alla media dei paesi dell’Unione Europea, anche se non per quelli mortali, la<br />

cui la frequenza è un po’ superiore alla media.<br />

22


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

le condizioni vissute nel paese di origine (e ciò porta anche a sottovalutare<br />

rischi e fatiche nel lavoro attuale).<br />

Infine, non si può non dedicare particolare attenzione alle due<br />

occupazioni, che sono di gran lunga le più diffuse tra le molte donne<br />

immigrate (quasi il 37% dell’occupazione straniera e probabilmente di più<br />

considerando l’immigrazione non autorizzata) e costituiscono un pilastro<br />

cruciale del nuovo “welfare all’italiana”, una volta che le solidarietà familiari<br />

si sono attenuate per ragioni demografiche e per la maggiore partecipazione<br />

al lavoro delle donne italiane. Il lavoro domestico e quello di assistenza<br />

domiciliare alle persone anziane si può pensare coinvolgano circa il 45% delle<br />

500.000 donne straniere che risultano occupate secondo l’indagine sulle forze<br />

di lavoro del 2005. Le domestiche straniere iscritte all’Inps nel 2003 sono<br />

oltre 315.000, ma è ragionevole pensare che non tutte lavorino in modo<br />

continuativo. Tuttavia, è certo che le addette e gli addetti al lavoro domestico<br />

e assistenziale sono molti di più, perché è l’attività largamente più diffusa tra<br />

gli <strong>immigrati</strong> non residenti (che sfuggono all’indagine sulle forze di lavoro) e<br />

sopratutto tra coloro che sono privi di permesso di soggiorno 24 . Pur tenendo<br />

conto della frequente occasionalità del lavoro, si potrebbe arrivare a 600-<br />

700.000 persone immigrate, quasi tutte donne.<br />

<strong>La</strong> forte tendenza all’aumento delle lavoratrici domestiche e delle<br />

assistenti domiciliari, oltre che segnale di una crescente domanda di servizi da<br />

parte delle famiglie italiane, è frutto non solo dei nuovi ingressi e delle<br />

successive sanatorie, ma anche delle difficoltà che le donne immigrate<br />

incontrano se vogliono uscire da queste attività. Anche se finora si dispone<br />

soltanto di testimonianze, la mobilità professionale sembra scarsa, a parte il<br />

passaggio dal lavoro domestico in famiglia a quello ad ore 25 , e comunque<br />

limitato ai servizi a basso livello di qualificazione (addetta alle pulizie,<br />

cameriera, ecc.), nonostante un livello di istruzione spesso elevato [Spanò e<br />

Zaccaria 2003]. Ancora minore è la mobilità delle assistenti domiciliari, molte<br />

delle quali tuttavia hanno un progetto migratorio molto delimitato nel tempo e<br />

un frequente pendolarismo con il paese di origine.<br />

Per le assistenti domiciliari le condizioni di lavoro sono molto gravose e<br />

precarie: orari lunghissimi, isolamento sociale, assenza di vita privata, rischio<br />

di rottura improvvisa del rapporto (per morte o aggravamento della persona<br />

assistita). Per costoro, che provengono per lo più dall’Europa Orientale e dal<br />

24 Nella regolarizzazione del 2002-2003 su 320.000 domande di donne (pari a<br />

quasi il 46%) quelle riguardanti il lavoro domestico e l’assistenza hanno sfiorato<br />

rispettivamente il 46% e il 38%.<br />

25 Anche questo passaggio è spesso frenato dalla necessità di inviare cospicue<br />

rimesse alla famiglia restata in patria, perché per uscire dal lavoro domestico in<br />

famiglia occorre disporre di un alloggio e quindi sostenere un costo notevole rispetto<br />

alla retribuzione.<br />

23


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

Sud-America e sono prevalentemente di età matura, coniugate, spesso con<br />

figli al paese di origine e con istruzione medio-alta, molto raramente si<br />

prospetta un futuro di inserimento nella società italiana e il loro principale<br />

problema, oltre alla situazione di stress psicologico causata della segregazione<br />

e dalla convivenza con una persona anziana, è la lontananza dai figli rimasti<br />

nel paese di origine. Questo problema è un poco meno grave per le<br />

domestiche, sia perché la minore età fa sì che molte non abbiano figli, sia<br />

perché è più frequente che entrino nella prospettiva di un insediamento<br />

stabile, con il ricongiungimento del coniuge e dei figli. Per costoro, invece, non<br />

rari sono i rischi di molestie sessuali e persino di gravidanze indesiderate e<br />

aborti.<br />

5. Squilibri retributivi e povertà<br />

Secondo un’indagine Istat [2002] presso le imprese, nel 2001 le<br />

differenze nella retribuzione mensile tra i lavoratori non-comunitari e gli<br />

italiani andavano dall’8,5% nel settore <strong>degli</strong> alberghi e della ristorazione al<br />

16,5% nel commercio, dal 17,8% nelle costruzioni al 24,2% nell’industria, sino<br />

al 37,1% nei servizi alle imprese, ove gli <strong>immigrati</strong> sono concentrati nei servizi<br />

di pulizia. Ma questa analisi, che indica una tendenza all’aumento dal 1999,<br />

non tiene conto delle differenze nei livelli di inquadramento e nelle altre<br />

caratteristiche dei lavoratori e delle imprese (genere, età, anzianità di servizio,<br />

regime di orario, area geografica, ecc.). Per poter vedere se gli <strong>immigrati</strong><br />

sono, a parità di condizioni, discriminati rispetto agli italiani sul piano<br />

retributivo si deve far ricorso a ricerche che “controllino” tali condizioni. I tre<br />

studi disponibili, purtroppo riferiti a periodi più lontani nel tempo, giungono a<br />

conclusioni simili: un discriminazione retributiva esiste, ma è abbastanza<br />

contenuta (inferiore a quella di genere) e si riduce man mano cresce<br />

l’anzianità di soggiorno in Italia.<br />

Secondo la prima ricerca, che interessa i dipendenti di imprese private<br />

non agricole nel periodo 1986-1994, i lavoratori non-comunitari guadagnano il<br />

10% meno <strong>degli</strong> italiani (-6% i sudamericani, -9% gli africani, -11% gli<br />

asiatici, -12% gli europei orientali), ma la differenza tende ad annullarsi dopo<br />

una decina di anni di presenza in Italia. <strong>La</strong> seconda indagine, che riguarda gli<br />

anni 1989-2002 ed esclude il lavoro domestico, rileva che, a parità di<br />

caratteristiche osservabili, gli <strong>immigrati</strong> dai paesi europei orientali, da quelli<br />

africani e da quelli dell’America centro-meridionale guadagnano dal 6%<br />

all’8% in meno <strong>degli</strong> italiani, ma i differenziali più che si dimezzano passando<br />

dal 1993-1995 al 2002 [Brandolini, Cipollone e Rosolia 2005]. Infine, il terzo<br />

24


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

studio sul periodo 1991-1996 mostra che ben l’80% del differenziale salariale<br />

tra lavoratori stranieri e italiani è spiegato dalle differenze nelle caratteristiche<br />

individuali, un livello molto superiore a quello delle differenze retributive per<br />

genere in Italia, e le differenze quasi scompaiono per chi riesce a inserirsi<br />

stabilmente [Venturini e Villosio 2002]. Il difetto di queste ricerche, oltre al<br />

periodo considerato, sta nel sotto-rappresentare il lavoro domestico e<br />

nell’escludere quello irregolare, entrambi settori a bassa retribuzione ove gli<br />

<strong>immigrati</strong> sono molto più presenti. Tuttavia, si può concludere che almeno nei<br />

settori dell’industria e dei servizi in Italia per gli <strong>immigrati</strong> il problema non è<br />

tanto la discriminazione salariale, ma piuttosto l’accesso a livelli più elevati di<br />

qualificazione professionale. <strong>La</strong> scarsa discriminazione retributiva <strong>degli</strong><br />

<strong>immigrati</strong> regolarmente occupati si può spiegare anche con la loro elevata<br />

sindacalizzazione. Nel 2004 Cgil, Cisl e Uil dichiarano di avere tra gli iscritti<br />

quasi 400 mila stranieri: considerando i lavoratori dipendenti regolari, sarebbe<br />

un tasso di iscrizione intorno al 40%, ben superiore a quello <strong>degli</strong> italiani<br />

occupati nel settore privato.<br />

L’occupazione irregolare invece penalizza duramente gli <strong>immigrati</strong> che vi<br />

sono inseriti. Infatti, secondo una ricerca condotta nel <strong>La</strong>zio e in Campania<br />

nel 1998 l’immigrato che lavora “in nero” riceve una retribuzione inferiore a<br />

quella dell’immigrato occupato regolarmente del 24% se maschio e del 19%<br />

se femmina [Baldacci, Inglese e Strozza 1999]. Per i lavoratori con permesso<br />

di soggiorno valido sono, però, abbastanza diffuse forme di retribuzione che<br />

stanno tra il regolare e l’irregolare, che si fondano sulla diffusa preferenza<br />

dell’immigrato per avere quanti più soldi è possibile senza preoccuparsi del<br />

futuro previdenziale. Queste soluzioni comprendono l’assunzione a tempo<br />

parziale a fronte di un rapporto a tempo pieno: in questo modo, date le elevate<br />

trattenute fiscali e contributive, l’immigrato riesce a guadagnare “al netto” più<br />

di quanto avrebbe avuto con il pieno rispetto delle norme contrattuali e, per<br />

contro, il datore riesce a sostenere un costo molto inferiore. Tale accordo tra<br />

immigrato/a e datore di lavoro è praticamente generalizzato per le ore di<br />

straordinario nelle piccole imprese e nel lavoro domestico e assistenziale, ove<br />

anche per quello convivente è previsto un minimo contrattuale di 24 ore<br />

settimanali.<br />

Le domande per la regolarizzazione del 2001-2002 consentono di gettare<br />

una luce sulle retribuzioni mensili <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> nel passaggio dal lavoro<br />

irregolare a quello irregolare e soprattutto di cogliere le differenze tra le<br />

diverse mansioni cui sono prevalentemente addetti gli <strong>immigrati</strong>. Come<br />

mostra la tabella 7, ne risulta un quadro molto poco differenziato e fortemente<br />

schiacciato verso il basso, soprattutto per la retribuzione mensile, anche<br />

qualora si tenga conto che si tratta di mansioni poco qualificate e che le ore<br />

dichiarate nella domanda di regolarizzazione, così come la retribuzione, erano<br />

25


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

TAB. 7. Retribuzioni e impegno orario dichiarati nella domanda di<br />

regolarizzazione nel 2002<br />

Tipo di mansione<br />

Retribuzione<br />

mediana mensile<br />

(euro)<br />

spesso sottostimate per pagare meno contributi previdenziali (molto spesso di<br />

fatto a carico dell’immigrato).<br />

In particolare, risultano basse le retribuzioni del lavoro domestico e di<br />

quello di assistenza domiciliare, poiché nel caso di tempo pieno e di<br />

convivenza i compensi aggiuntivi in natura (l’alloggio e i pasti) non bastano<br />

certo a compensare il gravoso impegno orario, di fatto quasi sempre ben<br />

superiore a quello contrattuale. Inoltre, le differenze territoriali non sono<br />

piccole: ad esempio, per le mansioni operaie in molte regioni del Centro-Nord<br />

si raggiungono retribuzioni prossime ai 1.000 euro mensili, mentre in quelle<br />

meridionali si scende sotto gli 800 euro e a volte persino i 700 euro [Zucchetti<br />

2004]. Sempre nel 2002 in Lombardia per il lavoro operaio qualificato le<br />

retribuzioni oscillavano intorno ai 1.100 euro al mese e per quello non<br />

qualificato sui 1.000 euro, mentre per commessi e camerieri si superavano di<br />

poco i 900 euro [Ismu 2003]. Nettamente minori sono, invece, le differenze<br />

territoriali per il lavoro domestico e di assistenza, per il quale la domanda è<br />

ovunque altrettanto forte: non vi va, infatti, oltre le poche decine di euro<br />

[Zucchetti 2004]. Per gli <strong>immigrati</strong>, che hanno come termine di paragone<br />

quelli del paese di origine, sono guadagni altissimi, in grado di compensare<br />

ampiamente le fatiche sopportate. Ma dapprima la necessità di inviare le più<br />

26<br />

Ore di lavoro<br />

settimanali<br />

(classe mediana)<br />

Retribuzione<br />

media oraria<br />

(euro)<br />

Autisti 1.093 da 36 a 40 7,191<br />

Muratori, manovali 1.034 da 36 a 40 6,803<br />

Operai 934 da 36 a 40 6,145<br />

<strong>La</strong>vori di sartoria 919 da 28 a 32 7,658<br />

Addetti a servizi di<br />

magazzinaggio e custodia 917 da 32 a 36 6,743<br />

Impiegati 764 da 20 a 24 8,682<br />

Addetti alla ristorazione 723 da 24 a 28 6,952<br />

Addetti all'agricoltura 704 da 36 a 40 4,632<br />

Addetti alle vendite 668 da 20 a 24 7,591<br />

Addetti alle pulizie 630 da 24 a 28 6,058<br />

<strong>La</strong>voro di assistenza 463 da 24 a 28 4,452<br />

<strong>La</strong>voro domestico 458 da 24 a 28 4,404<br />

Fonte: Zucchetti [2004]


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

TAB. 8. Incidenza della povertà relativa nella popolazione immigrata in<br />

Lombardia<br />

2005 2004 2004<br />

Tutte le famiglie<br />

alte rimesse possibili 26 impone di contenere al massimo i consumi, poi, quando<br />

l’insediamento in Italia diviene più stabile con il ricongiungimento di coniuge e<br />

figli, per molti questi guadagni si rivelano insufficienti a reggere un decente<br />

tenore di vita per la propria famiglia.<br />

Ovviamente, il reddito <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> aumenta man mano la loro<br />

presenza in Italia si stabilizza. Secondo l’indagine Ismu [2005] sulla<br />

Lombardia, nel 2004 il reddito presenta una forte relazione con un indice di<br />

stabilità costruito tenendo conto dell’anzianità e dello status del soggiorno,<br />

della condizione abitativa e del tipo di convivenza. Da un valore minimo ad<br />

uno massimo dell’indice sia il reddito mediano sia quello medio raddoppiano.<br />

Tuttavia, sono proprio le famiglie unite in Italia, cioè quelle <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> più<br />

stabili, ad essere più colpite dalla povertà, come mostra la stessa indagine<br />

Ismu [2005; 2006a], che ha calcolato l’incidenza della povertà relativa sulla<br />

popolazione immigrata presente in Lombardia grazie al confronto con una<br />

soglia di consumo convenzionale. Come si può vedere dalla tabella 8, circa il<br />

44% delle famiglie immigrate vive in una condizione di povertà relativa (cioè<br />

consuma meno della metà del consumo medio pro capite) contro neppure<br />

l’11% delle famiglie italiane. Le condizioni sembrano soltanto leggermente<br />

migliorate dal 2004 al 2005.<br />

Considerando le diverse condizioni in cui si trovano alcuni dei diversi tipi<br />

di famiglia che si creano in una situazione di emigrazione, risulta che la<br />

percentuale di povertà è molto minore per chi è in Italia da solo, perché non<br />

ha famiglia o l’ha lasciata al paese di origine, mentre è molto più alta per<br />

coloro che hanno riunificato la famiglia in emigrazione. Questa differenza,<br />

26 Secondo l’indagine Ismu [2004] sugli <strong>immigrati</strong> in Lombardia, oltre il 57% invia<br />

una qualche somma di denaro e la percentuale raggiunge l’85% per chi ha coniuge e<br />

figli al paese di origine.<br />

27<br />

Single solo<br />

Coppia<br />

spezzata<br />

Coppia<br />

unita<br />

Sicuramente<br />

povere 25,8 26,3 19,4 15,1 39,8<br />

Appena povere 17,5 17,8 13,3 11,6 28,1<br />

Quasi povere 14,5 14,9 13,1 16,3 15,9<br />

Sicuramente<br />

non povere 42,2 41,0 54,2 57,0 16,3<br />

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0<br />

Fonte: Ismu [2005; 2006a]


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

però, dipende dall’aver compreso nei consumi anche le rimesse, che in realtà<br />

vengono spedite ai familiari rimasti al paese di origine e non servono a<br />

sostenere il tenore di vita <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> presenti. Se si escludono le rimesse,<br />

allora le condizioni di chi è solo in Italia peggiorano in modo netto e la<br />

percentuale complessiva di famiglie povere tra gli <strong>immigrati</strong> sale sino a<br />

sfiorare il 65% [Ismu 2004]. Sono livelli molto elevati di privazione<br />

economica, che non possono essere sostenuti a lungo senza avere pesanti<br />

conseguenze.<br />

Ciò spiega le frequenti resistenze al ricongiungimento familiare e le<br />

tensioni che possono nascere nella famiglia ricongiunta, perché figli e coniuge<br />

rischiano di passare da una condizione in patria di parenti del ricco emigrato<br />

ad una condizione in Italia di parenti del povero immigrato.<br />

6. <strong>La</strong>voro irregolare e riproduzione della presenza non autorizzata<br />

L’irregolarità della posizione occupazionale costituisce uno dei punti<br />

critici della condizione dei lavoratori <strong>immigrati</strong> attualmente presenti in Italia (e<br />

ovviamente anche delle loro famiglie). All’inizio della loro esperienza<br />

lavorativa quasi per tutti non vi erano alternative al “lavoro nero”, poiché si è<br />

già detto che oltre i due terzi dei lavoratori <strong>immigrati</strong> ora dotati di permesso di<br />

soggiorno l’hanno ottenuto grazie a sanatorie e quindi precedentemente erano<br />

privi di un documento che consentisse loro di essere regolarmente assunti.<br />

Poi in occasione delle sanatorie, quasi tutti i lavoratori <strong>immigrati</strong> hanno dovuto<br />

“emergere” dall’economia sommersa, poiché da quella del 1996 tutte le<br />

sanatorie ponevano come condizione la regolarizzazione del rapporto di<br />

lavoro 27 . Ma, una volta raggiunta una posizione occupazionale regolare, quanti<br />

<strong>immigrati</strong> la conservano anche successivamente? E per quelli che non la<br />

conservano che conseguenze vi sono sulla possibilità di conservare una<br />

condizione regolare per quanto riguarda il soggiorno? Infine, una volta sanata<br />

la presenza <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> non autorizzati già entrati, in che misura nuovi<br />

ingressi non autorizzati riproducono una situazione di soggiorno irregolare e<br />

quindi di lavoro nero forzato?<br />

27 Anche se le indagini di campo e le osservazioni dei testimoni privilegiati<br />

hanno messo in luce che per nulla rari sono stati i casi in cui il posto di lavoro<br />

“regolarizzato” era una finzione escogitata al solo scopo di ottenere il permesso di<br />

soggiorno, poiché il datore di lavoro nero non era disponibile a dichiararsi (e<br />

certamente non per motivi economici, perché senza dubbio molti più <strong>immigrati</strong> hanno<br />

pagato i contributi previdenziali arretrati che a termini di legge avrebbe dovuto pagare<br />

il datore di lavoro) .<br />

28


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

TAB. 9. Percentuale di irregolari tra i lavoratori dipendenti non Ue secondo le<br />

ispezioni aziendali<br />

1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002<br />

Senza permesso 16,8 27,6 12,9 15,7 11,2 8,8 12,2 27,3 21,9 19,4<br />

Con permesso 31,5 29,2 24,2 15,9 22,7 22,5 26,1 14,0 17,6 26,5<br />

Totale 48,3 56,7 37,1 31,6 33,8 31,2 38,3 41,3 39,5 45,9<br />

Fonte: Ministero del lavoro<br />

Nb. Sicilia esclusa tranne 1993, 1997 e 2002<br />

Quanto al primo problema, il confronto tra i dati dell’Inps sui lavoratori<br />

registrati nei suoi archivi e quelli dell’Istat sulle unità di lavoro irregolari<br />

mostrano che successivamente ad ogni regolarizzazione i primi registrano un<br />

aumento e per contro i secondi una riduzione. Questo fenomeno è molto forte<br />

dopo la sanatoria del 2002 [<strong>Cnel</strong> 2005]. Tuttavia, ciò non ci dice nulla sul<br />

lavoro irregolare di coloro che, avendo un permesso di soggiorno per lavoro,<br />

potrebbero esser assunti in regola. Non resta che guardare ai risultati delle<br />

ispezioni del Ministero del <strong>La</strong>voro, che purtroppo presentano gravi limiti 28 e<br />

non sono aggiornati. Come si può vedere dalla tabella 9, non tutti gli <strong>immigrati</strong><br />

occupati irregolarmente sono anche non autorizzati ad essere presenti per<br />

lavoro in Italia; anzi, secondo gli anni, da un terzo alla metà hanno un<br />

permesso di soggiorno per lavoro e potrebbero avere un’occupazione<br />

regolare. <strong>La</strong> presenza <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> occupati “in nero” perché senza<br />

permesso di soggiorno si riduce soprattutto negli anni immediatamente<br />

successivi alle sanatorie, mentre quella <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> autorizzati, ma<br />

occupati irregolarmente appare più stabile nel corso del tempo.<br />

<strong>La</strong> distinzione tra <strong>immigrati</strong> costretti al lavoro irregolare, perché senza<br />

permesso, e <strong>immigrati</strong> in grado di avere un lavoro regolare presenta, però,<br />

notevoli differenze territoriali. Infatti, nel Mezzogiorno, in Piemonte e Liguria<br />

l’alto tasso di irregolarità si deve essenzialmente alla mancanza del permesso<br />

di soggiorno. Nelle regioni, ove più critica è la situazione per i lavoratori<br />

italiani, le occasioni di lavoro per gli <strong>immigrati</strong> sono ai livelli più bassi e vi<br />

accedono quelli più disponibili alle peggiori condizioni, perché senza permesso.<br />

Al contrario in Lombardia, nel <strong>La</strong>zio e nelle altre regioni dell’Italia centrale la<br />

figura più comune è quella di chi lavora in nero pur avendo un permesso che<br />

gli consentirebbe di avere un lavoro regolare. Infine, nel Nord-Est entrambi i<br />

motivi di irregolarità risultano molto meno diffusi. Non vi è motivo di ritenere<br />

che questo quadro sia ora diverso.<br />

28 Infatti, l’attività di controllo, nonostante interessi ogni anno qualche migliaio<br />

di aziende e da 12 a 26 mila lavoratori da paesi non Unione Europea, non soltanto è<br />

ridotta per carenze di organico, ma è anche erratica perché dipende da fattori<br />

istituzionali e organizzativi.<br />

29


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

Tuttavia, per un immigrato autorizzato la condizione di occupato in nero<br />

non può che essere temporanea, poiché per rinnovare periodicamente il<br />

permesso di soggiorno deve dimostrare di avere un sufficiente reddito<br />

regolare. Soprattutto nel settore domestico e assistenziale, dove la domanda<br />

da parte delle famiglie è molto forte, è possibile alternare periodi di lavoro<br />

nero a periodi di lavoro regolare in occasione dei rinnovi, ma si tratta di una<br />

strategia ad alto rischio. Per lo più chi ritorna al lavoro nero lo fa o per<br />

assoluta mancanza di alternative regolari oppure perché pensa di ritornare<br />

presto al paese di origine o di emigrare altrove. Di fatto, contrariamente a<br />

quanto si crede, almeno sino al 1998, sono stati relativamente pochi coloro<br />

che, disoccupati o tornati al lavoro nero, non sono riusciti a rinnovare il<br />

permesso di soggiorno, ricadendo nel cerchio vizioso dell’irregolarità, con la<br />

sola speranza di una nuova regolarizzazione. Infatti, come ha mostrato<br />

Carfagna [2002], solo 40 mila dei 790 mila permessi concessi nelle tre<br />

regolarizzazioni dal 1990 al 1998 sono stati rilasciati a <strong>immigrati</strong> che si erano<br />

avvalsi di una precedente sanatoria e questi casi sono sempre meno frequenti<br />

nelle regolarizzazioni più recenti. Anche <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> intervistati nelle<br />

indagini condotte in Lombardia pochi sono ricaduti nell’irregolarità dopo un<br />

periodo di presenza autorizzata [Ismu 2004]. Ciò non vuol dire che siano<br />

altrettanto pochi gli <strong>immigrati</strong> che non riescono a rinnovare il permesso di<br />

soggiorno, poiché buona parte di costoro possono esser tornati al paese di<br />

origine o emigrati altrove, rinunciando al ricorso ad una nuova sanatoria.<br />

Ridiventare non autorizzato è possibile per altri motivi: basta non ottenere<br />

un documento in tempo, dimenticare una scadenza, perdere un lavoro nel<br />

momento sbagliato, partire per il paese d’origine senza chiedere il permesso<br />

di rientrare, ecc. Le difficoltà di conservare una presenza autorizzata, perciò,<br />

sono state acuite dalla legge Bossi-Fini del 2002, che ha dimezzato la durata<br />

del permesso di soggiorno per lavoro (da 4 a 2 anni) e di quello per ricerca di<br />

lavoro in caso di disoccupazione (1 anno a 6 mesi), costringendo a più<br />

frequenti rinnovi e lasciando meno tempo per ritrovare un lavoro regolare a<br />

chi lo ha perso 29 . Per molti <strong>immigrati</strong>, anche da tempo residenti in Italia,<br />

rinnovare il permesso si soggiorno è diventato un incubo, come risulta da<br />

molte testimonianze. Vi è quindi il timore che per le centinaia di migliaia di<br />

29 Si deve considerare anche che la legge Bossi-Fini prevede che il rinnovo<br />

debba essere chiesto 90 giorni prima della scadenza (prima erano 30), che disponendo<br />

della sola ricevuta della richiesta di rinnovo molte attivita sono precluse (comprare o<br />

affittare una casa, aprire un’utenza domestica, ecc.), che la stessa presentazione della<br />

domanda di rinnovo impegna parecchi giorni ed energie psico-fisiche (le lunghe code<br />

notturne) e che molte questure impiegano mesi per concedere il rinnovo. Inoltre, la<br />

stessa legge impone che ad ogni nuova assunzione il datore di lavoro assicuri<br />

all’immigrato un alloggio idoneo, costringendo le imprese ad ipocrite dichiarazioni,<br />

che per fortuna nessuno ha il tempo di controllare.<br />

30


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

<strong>immigrati</strong> che si sono regolarizzati grazie alla sanatoria del 2002 sarà più forte<br />

il rischio di non riuscire a rinnovare il permesso di soggiorno, anche perché in<br />

larga parte si tratta di domestiche o assistenti per anziani che hanno rapporti<br />

di lavoro perennemente instabili e sono soggette a pressioni da parte delle<br />

famiglie affinché ritornino a lavorare in nero [Anastasia, Bragato e Rasera<br />

2004; Zucchetti 2004].<br />

Contrariamente al passato, dunque, a ricostituire un importante bacino di<br />

<strong>immigrati</strong> non autorizzati (stimati intorno a mezzo milione nel 2005) potrebbe<br />

aver contribuito in misura significativa anche la ricaduta nell’illegalità di<br />

<strong>immigrati</strong> che avevano usufruito della sanatoria del 2002. Ma si può<br />

ragionevolmente pensare che la grande maggioranza <strong>degli</strong> attuali <strong>immigrati</strong><br />

privi di permesso di soggiorno per lavoro sia entrata dopo, attratta dalla<br />

diffusa economia sommersa italiana, che offre possibilità di guadagno anche a<br />

chi è privo di ogni documento, come testimoniano tutte le ricerche sul<br />

campo 30 . Solo una nuova regolarizzazione ci dirà da quali paesi vengono<br />

costoro e quindi che ruolo ha avuto la decisione del governo italiano di centrodestra<br />

(rinnovata pochi giorni prima della sua scadenza) di applicare la<br />

clausola che rinvia di alcuni anni la libera circolazione dei lavoratori<br />

provenienti dai paesi nuovi membri dell’Unione Europea. I cittadini di questi<br />

paesi, così come quelli di alcuni paesi prossimi all’ingresso, possono entrare<br />

senza visto, ma non lavorare, alimentando agevolmente il mercato del lavoro<br />

sommerso.<br />

8. <strong>La</strong> debole cittadinanza sociale: alloggio, previdenza, scuola,<br />

condizione femminile, devianza<br />

Secondo tutte le indagini locali e l’opinione dei testimoni privilegiati per<br />

gli <strong>immigrati</strong> l’alloggio costituisce un problema di gran lunga più grave di<br />

quello del lavoro. Ciò si deve ad un mercato dell’affitto ristretto e molto caro<br />

(soltanto poco più del 18% <strong>degli</strong> italiani vive in affitto) e alla grave carenza<br />

dell’edilizia pubblica, che costringono molti <strong>immigrati</strong> a condizioni abitative<br />

disagiate e precarie. Il quadro che emerge dal Censimento 2001 (vedi tabella<br />

10) è senza dubbio molto più roseo della realtà perché non comprende i<br />

regolarizzati dalla sanatoria del 2002 (e quindi sovrastima i cittadini dei paesi<br />

ricchi) e sottostima coloro che vivono in convivenze e situazioni di fortuna.<br />

Un’indagine Censis condotta nel 2004 fornisce, invece, un’immagine<br />

drammatica: quasi il 40% <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> (e poco meno della metà dei neo-<br />

30 Vedi da ultimo Kosic e Triandafyllidou [2004].<br />

31


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

TAB. 10. Tipo di alloggio <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong><br />

regolarizzati) vivrebbero in alloggi di fortuna od ospiti di datori di lavoro<br />

[Caritas 2005].<br />

Più equilibrato è il quadro che risulta dall’indagine Ismu [2004; 2005],<br />

che però riguarda soltanto la Lombardia, mentre anche dai dati del<br />

Censimento 2001 risultano condizioni abitative molto peggiori per gli <strong>immigrati</strong><br />

che vivono nel Mezzogiorno, come peraltro per gli italiani. Come mostra la<br />

tabella 10, le situazioni di esclusione abitativa interessano il 2% <strong>degli</strong><br />

<strong>immigrati</strong>, un po’ meno del 3% stimato a livello nazionale [Tosi 2001] 31 , ma<br />

cospicua è la percentuale che è alloggiata in modo precario presso parenti e<br />

amici, strutture di accoglienza e locali di proprietà delle imprese e delle<br />

famiglie per le quali lavorano. Secondo un attento studioso dei problemi della<br />

casa, in Italia la precarietà abitativa estrema colpisce gli <strong>immigrati</strong> in misura<br />

probabilmente maggiore che in altri paesi europei, tuttavia man mano gli<br />

<strong>immigrati</strong> si stabilizzano le condizioni migliorano poiché, contrariamente ai<br />

nativi, vi è un’elevata probabilità che l’esclusione abitativa non comporti una<br />

marginalità sociale irreversibile: parecchi <strong>immigrati</strong> sono semplicemente<br />

persone povere senza casa, ma con forti risorse personali che consentiranno<br />

loro di accedervi successivamente [Tosi 2001].<br />

<strong>La</strong> tendenza al progressivo miglioramento della condizione abitativa <strong>degli</strong><br />

<strong>immigrati</strong> emerge già dal confronto tra le indagini Ismu del 2003 e del 2004,<br />

ma è ancor meglio confermata dalla relazione con la crescente stabilità.<br />

Infatti, secondo l’indagine del 2004 la migliore condizione abitativa si<br />

accompagna ad una maggiore durata della presenza in Italia, ad una<br />

condizione migratoria ed occupazionale più stabile e regolare e ad un reddito<br />

31 Ma gli <strong>immigrati</strong> sarebbero il 35% dei senza dimora che hanno contatti con i<br />

servizi di assistenza e il 60% di quelli che non hanno contatti [Tosi 2001].<br />

32<br />

Lombardia* Italia**<br />

2003 2004 2001<br />

Casa di proprietà 10.9 14.1 14.9<br />

Casa in affitto 48.4 43.8<br />

Casa in affitto con altri <strong>immigrati</strong> 20.1 24.3 73.2<br />

Da parenti, amici e conoscenti 5.6 4.0 8.5<br />

Concessione gratuita, luogo di lavoro,<br />

strutture di accoglienza, pensione 13.0 11.7 2.1<br />

Occupazione abusiva, baracche, senza<br />

fissa dimora, altro 2.0 2.1 1.3<br />

Totale 100.0 100.0 100.0<br />

* Ismu [2004]<br />

** Rielaborazione dal Censimento 2001


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

da lavoro più elevato [Ismu 2005]. Ciò non toglie che <strong>immigrati</strong> da tempo in<br />

Italia senza famiglia possano continuare (o tornare) ad alloggiare in condizioni<br />

molto disagiate e che esistano famiglie che lasciano il “buon” appartamento<br />

servito per ottenere il ricongiungimento per tornare a vivere in soffitta [Tosi<br />

2001].<br />

Nonostante la qualità <strong>degli</strong> alloggi sia peggiore per vetustà e dotazione di<br />

servizi, gli <strong>immigrati</strong> pagano affitti dal 10% al 20% superiori a quelli pagati<br />

dagli italiani, secondo un’indagine condotta in alcune grandi città [citata in<br />

Ismu 2005]. Il maggiore livello dell’affitto, che ha consentito di mettere sul<br />

mercato case non appetibili per gli italiani, si può spiegare in parte con<br />

l’esigenza di remunerare alcuni rischi “oggettivi”: dal maggiore affollamento<br />

alla scarsa manutenzione, alla morosità, che risulta effettivamente diffusa tra<br />

gli inquilini <strong>immigrati</strong>, sembra anche per motivi culturali [Ismu 2005]. Ma lo<br />

sfruttamento da parte dei proprietari di casa è anche agevolato dalle non rare<br />

resistenze <strong>degli</strong> italiani ad avere <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> per coinquilini, che<br />

restringono ulteriormente il mercato dell’affitto.<br />

Si spiega così la crescente propensione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> ad acquistare un<br />

alloggio: secondo l’indagine Ismu [2004] in Lombardia gli <strong>immigrati</strong> che<br />

vivono in un appartamento di proprietà sono passati da 8,5% nel 2001 a<br />

14,1% nel 2004. <strong>La</strong> percentuale di mutui concessi a stranieri è salita da 0,4%<br />

del 2000 a 1,2% del 2004, nonostante gli <strong>immigrati</strong> richiedano più spesso<br />

mutui al 100% e gli immobili siano di scarsa qualità, sicché molti istituti<br />

bancari chiedono maggiori garanzie di stabilità di quelle richieste agli italiani,<br />

benché gli studi di settore rilevino che i finanziamenti a stranieri non<br />

comportano particolari rischi [Caritas 2005].<br />

L’accesso all’edilizia pubblica <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> non risulta basso, almeno<br />

in termini relativi: da qualche anno a Milano, Torino e Bologna la percentuale<br />

di case assegnate a cittadini non-Ue raggiunge il 15-25% [Decimo 2003]. Ciò<br />

si spiega con il fatto che gli <strong>immigrati</strong> sono spesso in testa alle graduatorie<br />

non solo per il basso reddito, ma anche per la lunga durata dell’alloggio in<br />

luoghi forniti dall’assistenza pubblica. Ma i numeri sono molto bassi, perché i<br />

finanziamenti alle regioni per l’edilizia residenziale e per il sostegno all’affitto,<br />

già scarsi, sono stati dimezzati dal 2002, sicché comuni e regioni sono costretti<br />

a rivolgersi a fondazioni private e ad imprese per sopperire al bisogno di<br />

alloggi a basso costo per gli <strong>immigrati</strong>. Tuttavia, alcuni enti locali ove<br />

maggiore è l’influenza della Lega Nord hanno adottato per la costruzione<br />

delle graduatorie di accesso all’edilizia pubblica criteri oggettivamente<br />

discriminatori nei confronti <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong>, quali una lunga residenza nel<br />

comune (sino a 5 anni) o non essere proprietari di casa anche nel paese di<br />

origine. Alcuni hanno peraltro osservato che la carenza di alloggi pubblici,<br />

unita alla scarsa mobilità residenziale delle famiglie italiane, dovrebbe<br />

33


C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

impedire che si consolidino dei ghetti di <strong>immigrati</strong> sul modello francese o<br />

americano.<br />

Un orientamento discriminatorio è esplicitamente previsto nei trattamenti<br />

socio-previdenziali. Benché i lavoratori stranieri siano soggetti agli stessi<br />

obblighi fiscali e contributivi <strong>degli</strong> italiani, l’assegno al nucleo familiare non è<br />

di regola riconosciuto per i familiari non residenti e gli stagionali sono esclusi<br />

da ogni diritto a indennità di disoccupazione e prestazioni familiari, con<br />

notevoli risparmi per la spesa pubblica. Altre prestazioni, fondate sulla<br />

fiscalità generale, sono negate (un esempio clamoroso è stato il bonus per la<br />

nascita del secondo figlio) o limitate ai pochi titolari della carta di soggiorno.<br />

Quanto alle pensioni, si stima che l’80% dei lavoratori <strong>immigrati</strong> iscritti<br />

all’Inps siano cittadini di paesi con cui l’Italia non ha stipulato alcuna<br />

convenzione sulla sicurezza sociale [Turatto 2005] 32 . Soggetti alle stesse<br />

norme dei lavoratori italiani, gli <strong>immigrati</strong> rischiano di perdere i contributi<br />

versati se tornano al paese di origine prima di aver raggiunto l’età di<br />

pensionamento, anche perché nella maggior parte dei paesi di origine le<br />

speranze di vita sono molto inferiori a quelle italiane. Ciò spiega lo scarso<br />

interesse economico <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> a “farsi mettere in regola” dal datore di<br />

lavoro, alimentando così quella complicità che alimenta il lavoro nero 33 .<br />

Il sistema scolastico italiano sembra, invece, particolarmente accogliente,<br />

poiché, come accade per i servizi sanitari, posso fruirne anche i figli <strong>degli</strong><br />

<strong>immigrati</strong> privi di permesso di soggiorno. E in effetti negli anni Novanta la<br />

scuola è stata un grande laboratorio di integrazione, ma con il governo di<br />

centro-destra molte risorse aggiuntive di docenza sono state drasticamente<br />

tagliate [Della Zuanna, Impicciatore e Michielin 2005]. Quindi per gli oltre<br />

370.000 alunni di nazionalità straniera si può facilmente prevedere un<br />

peggioramento delle condizioni di apprendimento. Il rischio è che si accentui<br />

la percentuale di bocciature, che è già più alta che non per gli studenti italiani,<br />

con una forbice che si allarga man mano si passa dalle elementari alle medie<br />

e alle superiori [Caritas 2005]. A ciò si aggiunge che nelle superiori i figli<br />

<strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> si dirigono molto di più <strong>degli</strong> italiani verso gli istituti tecnici e<br />

soprattutto quelli professionali. Nonostante l’elevata scolarità di molti genitori,<br />

si delinea il rischio di una segregazione delle seconde generazioni fin dal loro<br />

percorso formativo.<br />

<strong>La</strong> minore frequenza della scuola materna dei bambini stranieri da 3 a 5<br />

anni, quale risulta dal Censimento 2001, segnala le difficoltà economiche delle<br />

32 Le principali eccezioni sono Tunisia, Capo Verde e Filippine.<br />

33 Per contrastare questo rischio era stata introdotta una norma speciale per<br />

concedere ai cittadini non-Ue la possibilità di riscattare i contributi versati al<br />

momento del rientro, anche dopo pochi anni. Ma la legge Bossi-Fini ha abolito tale<br />

disposizione in nome dell’eguaglianza formale con gli italiani.<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

famiglie, che, come si è visto, costringono le donne ad un’inattività non voluta<br />

o ad una maggiore disoccupazione in cerca di un lavoro che sia compatibile<br />

con la cura dei figli piccoli, che è troppo costoso mandare ad una scuola<br />

privata. Un’altra e molto più drammatica spia delle difficili condizioni in cui si<br />

trovano molte immigrate è la forte incidenza <strong>degli</strong> aborti volontari, tre volte<br />

quella delle italiane. Mancanza di abitazione propria, bisogno economico e<br />

rischio di perdere il lavoro (soprattutto per le domestiche) sono i principali<br />

motivi, cui si aggiunge l’attività di prostituzione.<br />

Sulla devianza <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> si è aperta un’accesa polemica<br />

nell’opinione pubblica e anche negli studi sociologici sulle sue reali dimensioni<br />

e sulle sue cause, che qui non è il caso di richiamare. È comunque un dato<br />

preoccupante che in Italia la percentuale di detenuti stranieri sia in continua<br />

crescita dal 1991 e sfiori ormai il 33%, uno dei livelli più alti in Europa e ben<br />

superiore a quello <strong>degli</strong> stranieri sulla popolazione residente. Per non trarre<br />

considerazioni indebite, occorre ricordare che tra gli <strong>immigrati</strong> è di gran lunga<br />

maggiore la presenza di maschi giovani-adulti, che ovunque sono i più<br />

propensi a comportamenti devianti, che gli <strong>immigrati</strong> hanno maggiori difficoltà<br />

ad ottenere la libertà provvisoria per mancanza di alloggio o timore di fuga e<br />

che i comportamenti criminali si concentrano tra gli <strong>immigrati</strong> privi di<br />

permesso di soggiorno e meno inseriti nella società italiana. Va detto inoltre<br />

che, se la percentuale <strong>degli</strong> stranieri sul totale dei denunciati resta altissima,<br />

altrettanto alta è la percentuale <strong>degli</strong> stranieri tra le vittime dei reati, perché vi<br />

è una forte tendenza <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> a colpire all’interno del proprio gruppo<br />

[Barbagli 2004]. <strong>La</strong> relativamente alta presenza sia di “carnefici” che di<br />

“vittime”, soprattutto nelle grandi città del Centro-Nord ove la criminalità<br />

organizzata nativa controlla meno il territorio [Conti 2001], segnala l’estrema<br />

<strong>vulnerabilità</strong> di una non piccola fascia di <strong>immigrati</strong>.<br />

Infine, non si può non ricordare che l’Italia dedica sempre più scarse<br />

risorse pubbliche alle politiche sociali per gli <strong>immigrati</strong>. Alcuni cenni sono già<br />

stati fatti per gli alloggi e la scuola, ma è stupefacente che, come ha rilevato<br />

la Corte dei Conti, per contrastare l’immigrazione irregolare siano stati spesi<br />

230 milioni di euro nel biennio 2002-2003 e 115 milioni nel 2004 contro<br />

rispettivamente 102 milioni e 29 milioni per sostenere l’integrazione <strong>degli</strong><br />

<strong>immigrati</strong> [Caritas 2005]. In particolare, il governo di centro-destra, per<br />

finanziare le misure di contrasto, ha tagliato i fondi per le politiche sociali a<br />

favore <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> da trasferire alle regioni, che hanno dovuto da un lato<br />

fare ricorso a risorse proprie e dall’altro contenere la spesa pur a fronte di un<br />

forte aumento <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> presenti. Si è stimato che per quattro regioni<br />

(<strong>La</strong>zio, Veneto, Piemonte ed Emilia) la spesa media per ogni immigrato si sia<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

<strong>vulnerabilità</strong> in Italia, Bologna, Il Mulino, 2007.<br />

ridotta da oltre 50 euro nel 2001 a neppure 21 euro nel 2004 [Caritas 2005] 34 .<br />

Non è qui il luogo per fare un bilancio tra questa declinante spesa pubblica e il<br />

crescente contributo che gli <strong>immigrati</strong> danno all’economia italiana. Ma si deve<br />

constatare, in conclusione, che le deboli politiche di integrazione rischiano di<br />

accentuare i fattori di <strong>vulnerabilità</strong> <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong>, con serie conseguenze non<br />

solo per gli <strong>immigrati</strong>, ma per l’intera società italiana.<br />

34 L’importanza <strong>degli</strong> interventi a favore dell’integrazione <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> varia<br />

anche secondo il colore politico delle amministrazioni: i comuni del Centro vi<br />

dedicano il 3,9% della loro spesa sociale contro il 2,1% dei comuni del Nord-est,<br />

nonostante la presenza <strong>degli</strong> <strong>immigrati</strong> nei loro territori sia praticamente eguale [Istat<br />

2006b].<br />

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C. Saraceno e A. Brandolini (a cura di), Disuguaglianze economiche e<br />

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