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carne. Vabbè, senza stare a dilungarmi vi consiglio<br />
di tenere d’occhio questi dischi perché la Hefty è<br />
un’etichetta da seguire. E non fatevi ingannare da<br />
quei due o tre pezzi in cui ci sono dei cantati un<br />
po’ melensi, quella è solo una delle tante anime<br />
dell’etichetta di Chicago..<br />
(valerio mannucci)<br />
Young People<br />
“All at Once”<br />
(CD, Too Pure, Wide, 2006)<br />
Messi sotto contratto postsplit<br />
da Too Pure (rimangono<br />
due su tre), dopo due mezzi<br />
capolavori su 5RC e Dim<br />
Mak: il terzo full length a<br />
firma Young People (si fa per<br />
dire: mezz’oretta, al solito)<br />
rinuncia ad ogni tentazione dissociata di totalrock<br />
d’ambiente che faceva sfavillare War Prayers<br />
e l’esordio omonimo, scegliendo una forma musicale<br />
definitivamente controllata ed un accento<br />
cantautorale ancora più spigliato. Basta il carisma<br />
di Katie Eastburn a fare un grande disco, specie<br />
se rapportato alla concorrenza; ma è un peccato<br />
perdere il gruppo dissonante e un po’ folle che avevamo<br />
conosciuto a quei tempi.<br />
(francesco farabegoli)<br />
AA.VV.<br />
“Idol Tryouts Two: Ghostly International Vol. 2”<br />
(2xCD/3xLP/digital, Ghostly International,<br />
2006)<br />
Come descrivere un doppio<br />
album lungo come un Roma<br />
Milano in macchina, al cui interno<br />
potete trovare i fraseggi<br />
analogici di Solvent assieme ai<br />
fruscii di beat straziati del buon<br />
Dabrye, il pop della Moebius<br />
Band vicino alle lande di Terre Thaemlitz, l’house<br />
di Daniel Wang cozzare con le aperture glitch di<br />
Cepia? La Ghostly racchiude in due CD i suoni<br />
qui contenuti. Il primo, denominato Avant Pop,<br />
racchiude le tracce maggiormente strutturare e<br />
uptempo. Il secondo – identificato dall’oscuro<br />
acronimo SMN – immerge l’ascoltatore in universi<br />
sonici dai contorni sfocati e assolutamente<br />
non identitari. Tuttavia il pregio del doppio CD è<br />
proprio nella sua interezza, una specie di enorme<br />
random tecnologico reso coerente da una comune<br />
visione del futuro così come ce lo immaginavamo<br />
da bimbi, con automobili volanti e robot dallo<br />
spettro vocale indefinito. Ogni artista e traccia qui<br />
presente, declina un diverso modo di giocare con<br />
i media musicali resi disponibili dallo sviluppo<br />
tecnologico. Decisamente meno apprezzabile è<br />
la volontà celebrativa della label, questo volersi<br />
autodefinire alfieri della libertà creativa contro<br />
schemi, schemini ed etichette. Per non farci caso,<br />
comunque, basta chiudere gli occhi e ascoltare...<br />
oh, se siete ancora in macchina andateci piano col<br />
chiudere gli occhi.<br />
(emiliano barbieri)<br />
Barzin<br />
“My life in rooms”<br />
(CD, Monotreme, 2006)<br />
Barzin è il nome un po’ così<br />
che si è dato un ragazzotto<br />
canadese che suona. Costui,<br />
qualche anno fa, aveva dato<br />
alle stampe un full lenght autotitolato<br />
che ci aveva lasciato<br />
ad occhi sgranati – un’edicola<br />
votiva d’intimismo, la mollezza dei Red House<br />
Painters, le lacrime di Smog ed il timbro di flessione<br />
dei Low degli album di mezzo. Cinque anni, ci<br />
aveva messo, per registrare quel capolavoro. Poi ce<br />
lo eravamo scordati, per quanto tempo era passato,<br />
ed ora il nuovo lavoro in lungo arriva come la più<br />
gradita delle sorprese. My life in rooms è un disco<br />
tenue e devastante; le corde crillano nonostante i<br />
delay, gli ambienti sono vuoti, le linee melodiche<br />
(So Much Time To Call My Own, Leaving Time,<br />
Take This Blue) sono niente meno che esiziali. E<br />
c’è quella voce, un sussurro, trasognato, che non<br />
è dinanzi né dietro, ha provenienza laterale, accidentale.<br />
Siamo ai primi di giugno e a Roma si gela;<br />
pare che fuori sia tutto spossato, a guardarlo da<br />
qui, ed il cielo è di straccio da pavimento. Se non<br />
ci fosse questo disco, che gira in loop da ore, per-<br />
fetto, rimarrebbe concepibile unicamente l’Orrore<br />
di uno stereo spento. Per un giorno, perlomeno.<br />
(giordano simoncini)<br />
Modeselektor<br />
“Hallo Mom”<br />
(CD, Bpitch Control, 2005)<br />
All’inizio ammetto che non<br />
l’avevo capito. Nonostante<br />
l’avessi ricevuto già da un po’<br />
di tempo, lo avevo dimenticato<br />
sulla scrivania e lui ogni tanto<br />
faceva capolino fra altri dischi<br />
più simpatici di lui. Poi però<br />
ho scoperto (con la relativa calma di chi i fogli che<br />
accompagnano i promo neanche li legge) che tutta<br />
quella farsa che era contenuta nel disco e che si<br />
palesava attraverso un finto spettacolo radiofonico<br />
con tanto di speaker con vocetta idiota, serviva<br />
solo a sporcare le 13 tracce contenute nel CD, al<br />
fine di evitare che le copie promozionali mandate<br />
ai giornalisti fossero fatte girare su internet<br />
prima dell’uscita ufficiale dell’album. Vabbè, contenti<br />
loro. Questo ‘Hallo Mom’ uscito su Bpitch<br />
Control ormai da parecchi mesi, se si dimentica<br />
la trovata dello spettacolo radiofonico, è un disco<br />
solido. Le tracce sono prodotte con forza, sembra<br />
quasi che siano fatte da un palestrato che la sera<br />
suona invece di andare a ballare. C’è dentro un po’<br />
di tutto, electro, disco, idm e grassezze che assomigliano<br />
a quelle del grime o dell’acid house nera.<br />
Roba seria, in un pasticcio di stili degno di due<br />
menti musicali piuttosto confuse ma sicuramente<br />
divertenti. Gernot Bronsert e Sebastian Szary, che<br />
sono appunto i Modeselektor, sembrano adatti a<br />
tante situazioni. Non so, li vedo bene in contesti<br />
anche molto diversi, basta che a chi li ascolta piacciano,<br />
per un motivo o per un altro, i muscoli e<br />
il sudore.<br />
(valerio mannucci)<br />
Baby Dee<br />
“Live in Turin”<br />
(CD, Precordings. 2005)<br />
L’anno scorso è accaduto che<br />
il misconosciuto Antony, con<br />
i suoi Johnsons, ricevesse una<br />
attenzione mediatica tale da<br />
farlo diventare una sorta di<br />
icona chic-pop. E recensendo<br />
il suo “I Am A Bird Now”, ne<br />
avevo lodato la sua capacità incredibile di toccare le<br />
corde dell’emotività in modo diretto e struggente.<br />
Baby Dee è stato in un certo senso suo precursore,<br />
nonché punto di riferimento e amico di Antony,<br />
ma anche altro rappresentante di quella estetica<br />
musicale e performativa transgender che caratterizza<br />
entrambi. I punti di connessione sono quindi<br />
molti, ma probabilmente l’elemento che separa<br />
il linguaggio musicale dei due è che Antony, pur<br />
mantenendo un approccio classicheggiante, strumentale<br />
e non elettrificato, guarda alla sua musica<br />
dando un’attenzione particolare all’esigenza<br />
di contemporaneità. Baby Dee al contrario cura<br />
poco questo aspetto, relegando la sua cantautorialità<br />
a strumenti come l’arpa, il pianoforte e la<br />
fisarmonica. Questo live è stato registrato ottimamente<br />
da Marco Palmieri il primo novembre del<br />
2004, al Cafè Procope di Torino, ed è composto<br />
da nove tracce fatte di voce, pianoforte e attorno<br />
un ambiente acustico intimo che esprime al meglio<br />
la sua essenzialità introspettiva. Cantando sulle<br />
armonie del piano Baby Dee racconta storie di<br />
amore, identità, famiglia, dolore e gioia, spesso accompagnate<br />
da una dissacrante ironia che spezza<br />
e ricompone. Se avete avuto modo di apprezzare<br />
Antony non potete perdervi questo disco live, una<br />
panoramica esaustiva sull’universo di un’artista<br />
unico che dalle difficoltà di una identità ermafrodita<br />
è riuscito a costruire un linguaggio emotivo<br />
privo di sovrastrutture, diretto, onesto, come<br />
piace a noi.<br />
(francesco de figueiredo)<br />
Burial<br />
“Burial”<br />
(CD/12”, Hyperdub, 2006)<br />
Uno che compone senza utilizzare sequencer,<br />
che giudica le linee ritmiche dall’aspetto a lisca<br />
di pesce della forma d’onda, non è che mi ispiri