Scuola secondaria di primo grado - Narrativa

Narrativa 

Scuola secondaria 

di primo grado 

MURSIA 

hCollana 

gli alianti

ELOGIO DELLA 

LEGGEREZZA 

Le virtù della leggerezza le ha ben spiegate Italo Calvino in 

una delle sue celeberrime Lezioni americane. 

«La leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura, con i 

mezzi linguistici che sono quelli del poeta», spiegava Calvino 

che, nel sostenere le ragioni della leggerezza contro quelle 

del peso diceva anche: «La leggerezza si associa con la precisione 

e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono 

al caso». Questo è lo spirito che anima la collana 

Gli Alianti di Mursia, libri lievi sin dal nome e sottilissimi 

nel prezzo per andare incontro alle indicazioni ministeriali. 

L’idea di leggerezza si coniuga in questi romanzi con temi 

sociali, esistenziali, storici per educare al piacere della lettura, 

per educare ad apprezzare quella “leggerezza pensosa” 

che è allo stesso tempo svago e riflessione. Lettori non si 

nasce ma si diventa. Gli Alianti hanno forma leggera, ma 

solide ali per portare gli studenti, futuri lettori, verso mondi 

dove la fantasia diventa una chiave di lettura della realtà. E 

per gli studenti che hanno poca dimestichezza con la lingua 

italiana, o che hanno difficoltà di apprendimento, la leggerezza 

diventa anche facilitazione con testi adatti alle loro 

esigenze e alle loro competenze.

INDICE PER GENERI 

Attualità sociale 

(Testi che trattano 

problemi sociali 

vicini alla 

quotidianità 

dei ragazzi) 

Avventuroso 

(Testi con strutture 

e schemi tipici 

del romanzo 

d’avventura) 

Ecologico 

(Testi con 

argomenti ecologici 

e ambientali) 

Epico 

(Testi con 

adattamenti 

dei grandi 

poemi epici) 

AUTORE TITOLO CLASSE 

BARBARA 

BUCCHIONI 

RUDYARD 

KIPLING 

MINO 

MILANI 

MINO 

MILANI 

ROBERT 

LOUIS 

STEVENSON 

FLAVIO 

PAGANO 

FLAVIO 

PAGANO 

ROSA 

CALZECCHI 

ONESTI 

Di come il bullo 

divenne… albero 

e gatto, 18 

Capitani coraggiosi 

(integrale), 63 

Il Paese delle 

Grandi Orme 




(facilitata), 122 

– 2 – 

L’isola del tesoro, 180 

I ragazzi della 

torre saracena 


I ragazzi della 

torre saracena 


L’ira di Achille, 27 

ooo3 

ooo 

ooo 2 3 

ooo 

ooo 

ooo 2 

ooo 2 

ooo 1 2 

32 

32 

32

Familiare-affettivo 

(Testi con 

argomenti 

relativi agli affetti 

e legami famigliari) 

Fantascienza 

sociologica 

(Testi con schemi 

e strutture del 

romanzo fantastico) 

Giallo 



romanzo di 

investigazione) 



GÒRIGUS 

1 2 

GÒRIGUS 

FRANCES E. 

HODGSON 

BURNETT 

MARY MAPES 

DODGE 

MARY MAPES 

DODGE 

ANTONINO 

PINGUE 

PAOLO 

ROVERSI 

PAOLO 

ROVERSI 

– 3 – 

La grande evasione 

dei Magnifici 

Magnolici 



dei Magnifici 

Magnolici 


Il giardino segreto 


I pattini d’argento 




Parapista 

checipista!, 167 

Gli agenti segreti 

non piangono 



non piangono 


ooo 

ooo 1 2 

ooo3 

ooo 1 2 

ooo 1 2 

ooo 2 

ooo 

ooo 

32 

32


Poema classico 

(Testi con 

adattamenti in 

prosa di poemi 

classici) 

Socio-storico 

(Testi con temi 

di carattere storico 

e sociologico) 

Storico 



romanzo storico) 


ANNA 

RUSSO 

MINO 

MILANI 

MINO 

MILANI 

– 4 – 

L’inferno di 

Dante, 12 

Il baffo del 

dittatore, 173 

Garibaldino senza 

saperlo, 107 

L’avventura di 

Robin Hood, 101 

ooo 1 2 

ooo3 

ooo3 

ooo 

32

Classe 

prima 

Classe 

seconda 

INDICE PER CLASSI 

AUTORE TITOLO GENERE 

ROSA CALZECCHI 

ONESTI 

GÒRIGUS 

GÒRIGUS 

MARY MAPES 

DODGE 

MARY MAPES 

DODGE 

ROSA CALZECCHI 

ONESTI 

GÒRIGUS 

GÒRIGUS 

L’inferno di Dante, 12 



dei Magnifici Magnolici 









L’inferno di Dante, 12 








– 5 – 

Poema 

classico 

Poema 

Familiare - 

affettivo 

Familiare - 

affettivo 

Familiare - 

affettivo 

Familiare - 

affettivo 

Poema 

classico 

Poema 

Familiare - 

affettivo 

Familiare - 

affettivo


Classe 

seconda 


RUDYARD 

KIPLING 

MARY MAPES 

DODGE 

MARY MAPES 

DODGE 

MINO 

MILANI 

MINO 

MILANI 

MINO 

MILANI 

FLAVIO 

PAGANO 

FLAVIO 

PAGANO 

ANTONINO 

PINGUE 

PAOLO 

ROVERSI 

PAOLO 

ROVERSI 

ROBERT LOUIS 

STEVENSON 







Il Paese delle Grandi 

Orme (integrale), 115 


Orme (facilitata), 122 



I ragazzi della torre 

saracena (integrale), 132 


saracena (facilitata), 144 

Parapista checipista!, 167 

Gli agenti segreti non 

piangono (integrale), 154 


piangono (facilitata), 160 


– 6 – 

Avventuroso 

Familiare - 

affettivo 

Familiare - 

affettivo 

Avventuroso 

Avventuroso 

Avventuroso 

Ecologico 

Ecologico 

Fantastico 

Giallo 

Giallo 

Avventuroso

Classe 

terza 



BARBARA 

BUCCHIONI 

FRANCES E. 

HODGSON 

BURNETT 

RUDYARD 

KIPLING 

MINO 

MILANI 

MINO 

MILANI 

MINO 

MILANI 

MINO 

MILANI 

PAOLO 

ROVERSI 

PAOLO 

ROVERSI 

ANNA 

RUSSO 

ROBERT LOUIS 

STEVENSON 


divenne… albero 

e gatto, 18 





Garibaldino senza 

saperlo, 107 


Orme (integrale), 115 


Orme (facilitata), 122 




piangono (integrale), 154 


piangono (facilitata), 160 

Il baffo del dittatore, 173 


– 7 – 

Attualità 

sociale 

Familiare - 

affettivo 

Avventuroso 

Storico 

Avventuroso 

Avventuroso 

Avventuroso 

Giallo 

Giallo 

Socio-storico 

Avventuroso

INDICE PER AUTORI 


BARBARA 

BUCCHIONI 

ROSA 

CALZECCHI 

ONESTI 

GÒRIGUS 

GÒRIGUS 

FRANCES E. 

HODGSON 

BURNETT 

RUDYARD 

KIPLING 

MARY MAPES 

DODGE 

MARY MAPES 

DODGE 

MINO 

MILANI 

MINO 

MILANI 

L’inferno di Dante . . . . . . . . . . . . . . 12 

Di come il bullo divenne… 

albero e gatto . . . . . . . . . . . . . . . . . 18 

L’ira di Achille. . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 

La grande evasione dei Magnifici 

Magnolici (integrale) . . . . . . . . . . . 35 


Magnolici (facilitata). . . . . . . . . . . . 46 

Il giardino segreto (integrale) . . . . 56 

Capitani coraggiosi (integrale). . . . 63 

I pattini d’argento (integrale). . . . . 85 

I pattini d’argento (facilitata) . . . . . 92 

Garibaldino senza saperlo . . . . . . 107 

Il Paese delle Grandi Orme 

(integrale) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115 

– 8 – 

ooo 1 2 

ooo3 

ooo 1 2 

ooo 1 2 

ooo 1 2 

ooo3 

ooo 2 3 

ooo 1 2 

ooo 1 2 

ooo3 

ooo 2 3

INDICE PER AUTORI 


MINO 

MILANI 

MINO 

MILANI 

FLAVIO 

PAGANO 

FLAVIO 

PAGANO 

ANTONINO 

PINGUE 

PAOLO 

ROVERSI 

PAOLO 

ROVERSI 

ANNA 

RUSSO 

ROBERT 

LOUIS 

STEVENSON 

Il Paese delle Grandi Orme 

(facilitata) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 122 

L’avventura di Robin Hood . . . . . . 101 

I ragazzi della torre saracena 

(integrale) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132 

I ragazzi della torre saracena 

(facilitata) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144 

Parapista checipista! . . . . . . . . . . . 167 

Gli agenti segreti non piangono 

(integrale) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 154 

Gli agenti segreti non piangono 

(facilitata) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160 

Il baffo del dittatore . . . . . . . . . . . 173 

L’isola del tesoro . . . . . . . . . . . . . . 180 

– 9 – 

ooo 2 3 

ooo 2 3 

ooo 2 

ooo 2 

ooo 2 

ooo 2 3 

ooo 2 3 

ooo3 

ooo 2 3

INDICE EDIZIONI FACILITATE 


GÒRIGUS 

MARY MAPES 

DODGE 

MINO 

MILANI 

FLAVIO 

PAGANO 

PAOLO 

ROVERSI 


Magnolici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 

I pattini d’argento . . . . . . . . . . . . . . 92 

Il Paese delle Grandi Orme . . . . . 122 

I ragazzi della torre saracena . . . . 144 

Gli agenti segreti non piangono. . . 160 

– 10 – 

ooo 1 2 

ooo 1 2 

ooo 2 3 

ooo 1 2 

ooo 2 3

NARRATIVA 

Mia Peluso (a cura di) 

L’Inferno di Dante 

EAN 978-88-425-5228-4; pagg. 90; € 3,90 

Indicazioni di lettura: I e II classe. 

Genere: poema classico 

Collegamenti interdisciplinari: Storia, 

italiano, religione 

Temi correlati: paura, ignoto, ricerca spirituale, simboli. 

MATERIALI ON LINE 

• scheda guidata di riepilogo e analisi dei personaggi 

• scheda guidata per la riflessione e la rielaborazione personale 

• temi del poema 

– 12 – 

per la prima 

e la seconda 

classe 

NOVITÀ 2013 

L’Inferno di Dante raccontato ai ragazzi con una prosa scorrevole che mette 

in risalto gli elementi più coinvolgenti dell’opera. Dante, perso nella selva 

oscura, inizia il suo viaggio verso i regni ultraterreni. Nell’Inferno gli farà 

da guida il poeta Virgilio che lo condurrà, girone dopo girone, fino al cuore 

della Terra dove alfine usciranno “a riveder le stelle”. 

Il pregio di questa riduzione per ragazzi del poema dantesco è di aiutare 

a capire lo schema dell’opera incuriosendo i giovani lettori con i personaggi 

più noti (il cerbero, il conte Ugolino, Ulisse). Nel testo vengono mantenuti 

i versi più celebri, quelli che costituiscono dei veri e propri topoi della nostra 

cultura come il celebre: «vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole», 

«lasciate ogni speranza, voi ch’entrate», e l’ancor più celebre «E più non dimandare».

CAPITOLO PRIMO 

È la notte tra il giovedì e il venerdì santo dell’anno 

del Signore 1300. In una oscura foresta un uomo 

brancola nel buio. È magro, con il viso affilato, un 

grande naso e gli occhi acuti come quelli di un falco. 

Indossa un ampio mantello e una corona di foglie 

d’alloro gli cinge la fronte. Dimostra circa trentacinque 

anni, come chi è nel mezzo del cammino della 

vita. Dall’abito e dalla corona si arguisce che è un poeta, 

famoso per giunta. Nel volto gli si legge la paura. 

Una notte simile non l’ha mai vista. Nera e cupa, 

di un silenzio che nulla ha di umano. Gli alberi sono 

così fitti e scuri, che non vi penetra nemmeno un 

raggio di luce. L’uomo incespica nelle radici nodose 

che affiorano dal terreno, mentre cespugli di spine 

gli strisciano continuamente sulle vesti. Il cuore gli 

batte forte come il batacchio di una campana quando 

suona a morto. Un vento spettrale gli solleva foglie 

e rami secchi intorno alla testa. Il dolore che gli 

– 13 –

procurano gli spini lo rende certo di non sognare. Si 

è davvero smarrito in una foresta senza nome. 

Si ferma appoggiandosi al tronco raggrinzito di 

un albero. 

Ha la fronte sudata. 

Avanza con le braccia tese come un cieco. Ma, a 

un tratto, una gran luce gli colpisce gli occhi. Li 

chiude di colpo nel timore di perdere la vista. Quando 

lentamente li riapre, vede una collina illuminata 

da un sole enorme di un bagliore accecante. Si volge 

a guardare la foresta spettrale. È stato fortunato. Si 

gira a guardarla come un naufrago osserva il mare 

da cui è scampato. Non è morto; e questa è una 

buona notizia davvero. 

Comincia quindi a salire il colle quando, quatta 

quatta, gli si para davanti una Pantera che, da come 

arrota i denti, pare del tutto priva di buone intenzioni. 

L’uomo s’immobilizza fingendo di essere una 

statua, come si deve fare davanti a una belva scatenata. 

Dove abbia preso tutto quel sangue freddo, 

non lo saprà mai. La Pantera passa oltre. 

L’uomo tira un sospiro di sollievo e riprende il 

cammino. 

Non ha alcuna intenzione di ritornare nel buio 

della foresta. Ma non ha ancora fatto due passi, che 

gli si para dinanzi un Leone con la testa alta e la criniera 

dritta come fil di ferro. Digiuno da chissà quanto 

tempo, perché la fame ce l’ha scritta in fronte, gli 

– 14 –

alza incontro. Lui s’immobilizza di nuovo, ma non 

ha più tutto quel sangue freddo. Il Leone gli giunge 

a un dito dal naso, che l’uomo ha grande e ricurvo 

come il becco di un’aquila e che perciò vien detto 

aquilino. 

Forse è questo il suo particolare fisico a scoraggiare 

il Leone, che se ne va con la coda penzoloni. 

L’uomo fa appena in tempo a tirare un altro sospiro 

di sollievo, che sbuca dai ciuffi d’erba una Lupa nera 

e magra, con gli occhi rossi e i dentacci digrignati 

sulla lingua guizzante come fiamma. 

L’uomo non ha più forze e non ha più nemmeno 

una goccia di sangue nelle vene. Si sente scivolare 

sulle guance qualcosa di umido. Piange. 

Slitta sul terreno che gli frana sotto i piedi. È la 

fine. Ma ecco che gli appare una Figura umana, trasparente 

e silenziosa. 

«Aiuto!!!» vorrebbe gridare il poeta. Ma per 

rendere più solenne il suo grido, invoca invece «Miserere 

di me!». 

L’uomo trasparente si ferma. «Perché torni indietro?» 

domanda. «Perché piuttosto non sali sul 

colle?» 

Il poeta non ha più voce. Indica la belva che si 

sta arrotando i denti, sempre più feroce. 

«Sono stato mandato qui per salvarti» sorride 

l’altro. «Io non appartengo più al tuo mondo, ma tu 

mi conosci. Sono il poeta che ha scritto l’Eneide, 

quando ancora regnava Augusto…». 

– 15 –

«Virgilio!» lo interrompe l’uomo. «Tu sei il mio 

maestro… Tu mi hai insegnato a scrivere attraverso 

le tue opere…». 

Virgilio sorride. «È per questo che sono stato 

mandato a salvarti. Sei stato destinato a un lungo 

viaggio attraverso i regni della morte. Scenderai con 

me nell’Inferno, dove albergano in eterno coloro 

che hanno offeso con le loro malefatte i comandamenti 

divini. Poi altri ti condurranno attraverso il 

Purgatorio e il Paradiso. E in seguito con un grande 

poema tu ne renderai testimonianza al mondo.» 

L’uomo vivo si guarda intorno. Un lacrimone gli 

scivola sulla guancia. Ha paura. 

«Perché?» domanda. Dalla boccaccia della Lupa 

escono sbuffi di vapore. 

«Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole» 

risponde Virgilio. 

Frase che nel linguaggio poetico vuol dire: «è un 

ordine che non si può discutere». 

«Ma…» 

«E più non dimandare» risponde Virgilio. Frase 

che nel linguaggio poetico significa «non fare altre 

domande». 

S’incamminano insieme. L’uomo vivente, per sicurezza, 

tiene un occhio puntato sulla Lupa. 

– 16 –

Barbara Bucchioni 


divenne… albero e gatto 

EAN 978-88-425-4458-6; pagg. 224; € 3,90 

Indicazioni di lettura: III classe. 

Genere: attualità-sociale. 

Collegamenti interdisciplinari: Educazione 

alla cittadinanza e Costituzione. 

Temi correlati: adolescenza, disagio, bullismo, scuola, famiglia. 

per la 

terza classe 

La serenità di una piccola famiglia viene turbata dalla morte del padre, investito 

e ucciso da un pirata della strada. Il figlio Feliks reagisce con rabbia 

e si trasforma in un «bullo». Cattivo per le strade, poco impegnato a scuola, 

trova un duro lavoro al MasottMarket, il supermercato diretto dall’avido padrone, 

dove stringe un’amicizia pericolosa con un altro giovane dipendente, 

Stavian. Durante una delle sue scorribande, incontra un enigmatico 

antiquario che cercherà di fargli cogliere il punto di vista delle sue vittime, 

ponendolo di fronte alla drammatica alternativa fra il ritrovare la gioia di vivere 

e il perdersi per sempre. 

Barbara Bucchioni, nata a Sarzana (La Spezia), laureata in Giurisprudenza, 

è dipendente del ministero della Giustizia. Vive e lavora a Pisa. 




• temi del romanzo 

• intenzione comunicativa dell’autore 

• scelte stilistiche e narrative 

– 18 –


FELIKS 

Finita la cena, Feliks biascicò 1 qualche spicchio 

e sputò tutto nel piatto. 

Suo padre non disse nulla. Prese il coltello e, 

con la punta, incise tutt’intorno la buccia porosa 

del mandarino, all’incirca a metà del frutto. 

Poi staccò dalla polpa la metà inferiore della 

scorza, avendo cura di estrarre intatto lo stoppino 

2 di filamenti bianchi attaccato al centro. 

Ci versò sopra dell’olio e spense la luce. 

Per un po’ rimasero così, al buio, in silenzio. 

Poi sfregò il fiammifero e avvicinò la fiamma 

allo stoppino, che cominciò ad ardere sfrigolando. 3 

Allora, dall’oscurità, Feliks vide emergere i 

volti sorridenti di suo padre, di sua madre, di 

suo nonno. La fiammella arancione danzava nei 

1 biascicò: da «biascicare», ossia mangiare lentamente e faticosamente 

facendo passare il cibo da una parte all’altra della bocca, rumorosamente. 

2 stoppino: i filamenti del mandarino assomigliano allo stoppino, la 

parte della candela che fa da miccia per l’accensione. 

3 sfrigolando: da «sfrigolare», bruciare facendo un rumore come quello 

dell’olio in padella. 

– 19 –

loro occhi. Li guardò uno a uno, rischiarati da 

sotto da quella luce tremula, mentre il denso profumo 

del mandarino si spandeva nella stanza. 

Non sarò mai più felice di così. 

Non era bravo con le parole, suo padre. 

Ma sapeva disegnare, aggiustare e costruire 

qualsiasi cosa. 

Le mani erano la sua voce e Feliks, fin dalla 

nascita, si era abituato a capire il loro linguaggio. 

Quella minuscola lanterna di buccia di mandarino 

la tradusse con le parole: «Hai sprecato 

la polpa eppure, guarda, persino la buccia ha il 

suo valore». 

Quando era piccolo, un cavallino di legno, 

una trottola, sapeva che significavano: «Ti voglio 

bene». 

A volte, però, suo padre lo prendeva sulle ginocchia 

e gli raccontava una storia. Feliks, allora, 

appoggiava l’orecchio sul suo petto e si abbandonava 

a quelle storie strane dove persone reali e 

personaggi di fantasia vivevano insieme. Dove 

c’erano, insieme, i loro vicini di casa, eroi della 

mitologia e personaggi di favole e fumetti. 

Ora che Feliks era cresciuto, lui e suo padre 

avevano sempre qualche progetto comune. 

– 20 –

Poteva essere la riparazione di una bicicletta, 

la costruzione di un teatrino di legno, la realizzazione 

di un disegno difficile. 

Giusto quella settimana un ex collega di suo 

padre, che aveva deciso d’imbarcarsi, gli aveva 

spedito una cartolina con sopra il disegno di un 

lucido transatlantico blu e rosso, il fumaiolo sbuffante 

e una lunga fila di oblò lungo la fiancata. 

A Feliks era piaciuto moltissimo: «Vorrei 

proprio disegnarlo. Grande come quello vero». 

«Bene», aveva constatato suo padre, «vorrà 

dire che t’insegnerò a riportare un disegno piccolo 

su di una superficie grande.» 

Tracciarono sulla cartolina righe verticali e 

orizzontali, in modo da dividerla in quadrati 

uguali. Poi divisero in quadrati, col gesso bianco, 

anche la piazzetta vicino casa e vi riportarono 

fedelmente, settore per settore, il disegno 

della nave. 

Quando fu finito, lo colorarono con i gessi 

rossi e blu. 

Ci vollero tre pomeriggi di fila ma, alla fine, 

anche i vicini si affacciarono per vedere la grande 

nave e per far loro i complimenti. 

Era una tersa settimana d’autunno. 

Arrivò la domenica. 

– 21 –

Erano di cuoio, quella mattina, le foglie del 

platano posate sui marciapiedi del viale. Le poche 

ancora sull’acero, invece, piccole stelle trafitte 

dai rami. 

Una bicicletta incatenata ad un tronco, con 

il cestino carico delle foglie cadute durante la 

notte, restava in attesa di una destinazione. 

Erano usciti di casa, appena il sole aveva cominciato 

a scaldare, per comprare le paste e un 

barattolo di panna. 

Il nonno era rimasto a casa ad aspettare. 

Sua madre portava un cappottino rosso dal 

collo di velluto e scarpe di vernice. 

Feliks indossava un giubbotto a quadretti 

sfuocati nei colori dell’autunno, una camicia 

perfettamente stirata e i suoi biondi capelli 

stopposi 4 erano pettinati con cura. 

Lui e la mamma si erano fermati a comprare 

il giornale all’edicola di Wiligelm, al di qua della 

strada, mentre suo padre aveva attraversato 

ed era entrato nella pasticceria. 

Poco dopo ne era uscito con un grande sorriso 

reggendo sul palmo di una mano, a mo’ 5 di 

4 stopposi: del colore della stoppa (la canapa che usano ad esempio gli 

idraulici nelle giunture), ossia biondi molto chiari. 

5 a mo’: abbreviazione di «modo», quindi «nel modo di», «come». 

– 22 –

equilibrista, il vassoio delle paste e sull’altro il 

barattolo della panna. 

Si accorsero della moto quando era già lì e 

non c’era più niente da fare. 

Il nastro del tempo non poteva essere riavvolto. 

La scena non poteva essere girata di nuovo, 

con un altro finale. 

Feliks vide la carta squarciata del pacco di 

paste, il rosso succo delle amarene sparso sul selciato, 

il barattolo che, schizzato in alto come un 

proiettile, ricadeva col fondo sull’asfalto e la panna 

ne usciva tutta in una volta con uno spruzzo alto 

e circolare come un mazzo di fiori bianchi. 6 

Dopo, ricordava solo gli enormi occhi di un 

gatto rosso accorso ad annusare le paste, nella 

cui tonda iride 7 di vetro era raccolta tutta la 

compassione del mondo. 

6 Qui accade un episodio terribile: il padre mentre sta uscendo dalla 

pasticceria è investito da un motociclista (un pirata della strada) che sta attraversando 

il centro abitato ad alta velocità. Noterai che l’autrice non descrive 

direttamente il fatto, ma lo mostra attraverso i suoi effetti (le paste 

e la panna, che il padre aveva in mano, volano e si disperdono sull’asfalto). 

Quando un autore non descrive direttamente un’azione, ma la dobbiamo 

capire da alcuni indizi che ci comunica, si parla d’informazione implicita 

ossia «nascosta» tra le righe (dal latino, significa letteralmente «avvolto»). 

Quando al contrario il fatto è descritto con chiarezza si parla d’informazione 

esplicita (dal latino, «spiegato»). 

7 iride: la parte centrale dell’occhio, intorno alla pupilla. 

– 23 –

Spiegare i simboli 

In questo primo capitolo hai conosciuto il protagonista 

del romanzo, un ragazzo come te. La sua 

vita serena è sconvolta da un terribile episodio. 

Per spiegarci il suo effetto l’autrice usa un simbolo 

(questo è un romanzo pieno di simboli). 

A Feliks piace una cartolina che raffigura un 

transatlantico. Il padre lo guida a dipingere con i 

gessi colorati, sul selciato della piazzetta vicina a 

casa, un bellissimo ingrandimento di quella nave. 

Il giorno del funerale del papà, il corteo passa su 

quel quadro e le scarpe della gente lentamente lo 

cancellano. Questo è il simbolo di quello che succede 

a Feliks dopo la morte del padre. 

Nelle storie spesso non si raccontano solo 

fatti, oggetti e persone. Spesso capita di narrare 

idee e sentimenti. Sono tutte cose che non si possono 

né toccare, né vedere (si dicono astratti) ma 

nella vita sono fondamentali. Per farli capire 

spesso chi scrive usa i simboli. I primi simboli, facili 

da capire, li hai trovati nelle favole: la volpe è 

simbolo dell’astuzia; il leone è simbolo della forza 

e del coraggio; l’asino è simbolo della fatica e della 

schiavitù; il serpente è simbolo della malignità 

– 24 –

astuta; il cane è simbolo della fedeltà… Di che 

cosa può essere simbolo il sole? Della conoscenza, 

per esempio, perché come quella illumina; oppure 

di un affetto, perché come quello scalda… 

ma dentro. E il freddo allora? Prova tu a dirlo… 

Ci sono simboli più complessi, quando un’intera 

situazione rappresenta i sentimenti o la condizione 

umana di un personaggio. Un raggio di 

sole dopo un temporale ad esempio può essere il 

simbolo della pace dopo un litigio. Che cosa ci 

vuol far capire allora l’autrice con l’episodio del 

disegno cancellato durante il funerale? Così come 

le scarpe della gente cancellano il disegno, il 

funerale cancella la vita felice di Felix con suo 

padre. Quindi la bellissima nave è il simbolo della 

gioia e della serenità, cancellate dal crimine di 

uno sconsiderato pirata della strada. Ecco perché 

alla fine del capitolo Feliks è paragonato al 

«ramo spezzato di un albero». 

– 25 –

Rosa Calzecchi Onesti 

L’ira di Achille 

EAN 978-88-425-5227-7; pagg. 180; € 3,90 







– 27 – 

per la prima 

e la seconda 

classe 

NOVITÀ 2013 


Genere: epico 

Tematiche principali: Le vicende dell’Iliade 

Collegamenti interdisciplinari: Storia, Letteratura epica, geografia 

Temi correlati: miti greci, antichità, guerra, amicizia, dolore. 

Un lungo racconto, scritto da una delle più celebri greciste italiane, che si 

snoda sulla trama dell’Iliade, ne rivive i personaggi e gli episodi di maggior 

rilievo conservando intatto il fascino e la poesia del poema originario. Protagonista 

ovviamente è Achille, l’eroe la cui ira provocò lutti tra i greci che 

assediavano Troia. Per la decisione del capo Agamennone di sottrargli la 

schiava Briseide, Achille abbandona la battaglia. Patroclo si impossessa 

delle sue armi e della sua corazza e scende in campo finendo ucciso da 

Ettore, l’eroe troiano. Per vendicarlo Achille lo sfida in un duello leggendario. 

Achille, forte e invincibile come un semidio, si contrappone a Ettore, 

forte solo del suo umano coraggio e su questo antagonismo si sviluppa 

questo romanzo, fedele allo spirito e alla lettera dell’Iliade. 

Rosa Calzecchi Onesti (1916-2011), insegnante, grecista e latinista, traduttrice. 

Celebre la sua traduzione dell’Iliade in collaborazione con Cesare 

Pavese (1950), alla quale seguì poco dopo la traduzione dell’Odissea. 

Molti anni più tardi apparve la sua traduzione dell’Eneide. Una vita dedicata 

all’insegnamento e all’impegno nel mondo dell’associazionismo cattolico.


LA SFIDA DI AGAMENNONE 

Il vecchio arrivava in vista delle grandi navi che orlavano 

la spiaggia del mare, con le prue snelle e con 

le poppe rotonde dipinte di rosso, e brillavano nel 

sole; gli alberi non si levavano verso il cielo, le corde 

erano arrotolate, le vele ripiegate, i remi non uscivano 

dalle fiancate. 

Era uno spettacolo grandioso, mille navi, anche 

per lui che aveva tanta angoscia in cuore. Alcune 

erano state tirate fino in cima alla vasta distesa sabbiosa, 

altre formavano diverse file centrali, altre ancora 

erano vicinissime al frangente del mare. 

Poi c’erano le tende, a perdita d’occhio; e i soldati 

andavano e venivano fra le tende e le navi, fra 

i carri da guerra e i cavalli, che pascolavano nella 

prateria, lungo i cui sentieri cui ormai il vecchio camminava, 

stanchissimo, appoggiato al bastone. 

Ed ecco due soldati gli si pararono davanti: 

– Chi sei? Dove vai? – Da tanto tempo stavano 

in terra troiana, che avevano imparato benissimo la 

lingua del paese. 

– 28 –

Il vecchio rispose: 

– Sono Crise, sacerdote di Apollo: voi, o Achei, 

avete atterrato la mia bella città e non avete avuto 

rispetto per niente e per nessuno: tutte le fanciulle 

di Crisa sono state prese per essere le vostre schiave. 

Ma io vengo a riscattare la mia figliola, Criseide, la 

mia bella bambina… 

– Criseide? – interruppe con l’aria di chi la sa lunga 

un terzo soldato, che era arrivato nel frattempo. 

– La più bella di tutte le prigioniere dell’ultima spedizione! 

Quel vigliacco del re Agamennone se l’è 

fatta dare come dono d’onore, proprio lui che fa meno 

di tutti… 

– Taci, Tersite! – disse uno degli altri due. – Hai 

sempre la lingua lunga! 

– Volevi che toccasse a te, che non vai mai a combattere, 

e che sei brutto come un brutto rospo? 

Il vecchio Crise guardò quel Tersite e ne ebbe spavento: 

gobbo, pelato, con la testa aguzza e, proprio in 

cima alla testa, tre peli ritti; una boccaccia sdentata, 

due occhi cespugliosi, grigi, maligni. La sua bambina 

fra quelle manacce? Meglio morta! Un certo orgoglio 

invece lo prese, sentendo che era nelle mani del grande 

re Agamennone: sperò che fosse umano, oltre che 

grande, e che volesse ascoltare volentieri la preghiera 

di un vecchio padre, lui che di belle schiave ne aveva 

tante. Del resto, aveva portato oro infinito per riscattarla! 

– Sei fortunato, – riprese il primo soldato – per- 

– 29 –

ché proprio stasera si raduna l’assemblea ordinaria 

dei Figli degli Achei: davanti a loro potrai chiedere 

la liberazione della tua figliola. Ma cercati degli appoggi, 

perché Agamennone è tutt’altro che un uomo 

facile, ed è capacissimo di dirti di no. 

– Ma io ho molte ricchezze da dare in cambio! – 

tentò il vecchio. – Ecco! Quelli che arrivano là sono 

i miei schiavi: portano sacchi d’oro. Vedete come 

sono curvi. 

– Sì, buon vecchio, l’usanza è questa: bisogna riscattare 

a peso d’oro i prigionieri di guerra. E certo 

quei sacchi bastano per ricomprare la tua creatura. 

Ma Agamennone… 

– Cerca Achille prima dell’assemblea, – consigliò 

il secondo soldato – oppure Odisseo, o anche 

Aiace, o Nestore: Nestore meglio di tutti, perché è 

vecchio e saggio; e poi le sue tende sono vicine, 

guarda! 

Il vecchio seguì con gli occhi il braccio del soldato 

che gli indicava le tende del re di Pilo, ringraziò 

e si diresse da quella parte: ma era come se la 

sua speranza fosse morta: camminava più curvo, 

più stanco che mai. 

Nestore era davanti alla sua tenda e dava ordini ai 

figli e agli altri capi dei suoi soldati, perché li guidassero 

ordinatamente all’assemblea. Era un bel vecchio 

dai capelli d’argento e dalla lunga barba, aitante, però, 

nella persona: si vedeva che sapeva ancora portare gagliardamente 

le armi. Il suo viso era molto umano e 

– 30 –

molto severo nello stesso tempo: ispirava rispetto e fiducia. 

Accolse benevolmente il vecchio Crise: 

– Sono sacerdote di Apollo, – disse anche a lui 

Crise – vorrei presentarmi ad Agamennone con le 

insegne del mio grado e pregarlo umilmente di rendermi 

la mia creatura, Criseide dal viso grazioso: ho 

qui oro infinito… 

– È giusto il tuo desiderio, buon vecchio, – rispose 

Nestore. 

– Rivesti pure le insegne del tuo grado, con tuo 

comodo, qui, vicino alle mie navi. Però raggiungi 

l’assemblea da solo, non venire con me. Il cuore degli 

uomini è strano, e quello di Agamennone più 

strano ancora… 

Nonostante la gratitudine che provava per Nestore, 

il vecchio non riuscì a ringraziare: l’angoscia 

gli chiuse la gola, poiché anche nelle sue parole c’era 

la minaccia oscura, che faceva morire la speranza 

appena rinata. 

L’assemblea si riuniva: i soldati rumoreggiavano 

ancora, ma già molti erano seduti in lunghe file, con 

le armi al fianco, le lance fitte in terra e gli scudi appoggiati 

alle lance. I principi arrivavano uno dopo 

l’altro: per ultimo arrivò il grande re Agamennone. 

Crise se ne stava là, vicino al palco dei principi, 

facendosi piccino piccino: guardava i sacchi d’oro 

che i servi gli avevano deposto accanto, e cercava in 

– 31 –

quelli un pochino di fiducia, ma il suo cuore non gli 

diceva nulla di buono. 

– Agamennone, – disse Nestore levandosi in piedi 

e prendendo fra le mani il bastone del comando 

che un araldo gli porgeva – è giusto che prima di 

trattare delle nostre cose, siano ascoltati i supplici, 

se ce ne sono. 

– Tu hai sempre ragione, Nestore, – rispose Agamennone, 

e alzandosi a sua volta e prendendo dalle 

mani dell’araldo il bastone, tuonò: – Se ci sono ospiti 

e supplici, che si facciano avanti! 

«Che voce sgarbata!», non poté fare a meno di 

pensare Crise, mentre pieno di paura saliva sul palco, 

seguito dagli schiavi che recavano l’oro. Essi 

aprirono i sacchi, perché i principi potessero vedere 

i begli oggetti d’oro lavorato e i solidi lingotti d’oro 

puro, e intanto Crise si era gettato in ginocchio davanti 

al grande Agamennone, le braccia tese a toccare 

i suoi piedi e la faccia per terra: 

– Atridi, – disse – e voi tutti, Achei dagli schinieri 

robusti, gli dèi che dimorano nell’Olimpo vi concedano 

di abbattere Troia, la città del re Priamo e 

di tornare in patria con buona fortuna: e voi concedete 

la libertà alla mia creatura, alla mia piccola Criseide 

che io amo tanto! Eccovi qui il riscatto. Anche 

voi venerate Apollo, il figlio di Zeus, di cui io sono 

sacerdote! 

Tutti gli Achei sentirono le sue parole, e i più vicini 

potevano vedere il vecchio che, rialzandosi gi- 

– 32 –

nocchioni, tendeva verso il re le insegne del dio, le 

bende e l’infula avvolte intorno allo scettro d’oro. 

Non aspettarono la risposta di Agamennone, urlarono 

tutti insieme: 

– Sia liberata! – e gli echi della spiaggia ripeterono 

come un tuono la parola fino alle punte e ai promontori 

più lontani. 

Anche gli altri principi e re, e specialmente il 

vecchio e saggio Nestore, dicevano che era giusto 

onorare il sacerdote e il dio, e accettare il riscatto, 

davvero grosso. 

Ma la cosa non piaceva al figlio di Atreo; Agamennone, 

anzi, trattò male il vecchio inginocchiato 

ai suoi piedi e lo cacciò con parole crudeli: 

– Che non ti veda mai più, vecchio! Non restare, 

adesso, e non tornare mai alle navi, perché né infula né 

lo scettro del dio Apollo potrebbero proteggerti contro 

il mio furore. Io non libererò mai tua figlia. Verrà 

con me ad Argo e sarà mia schiava per tutta la vita. 

Il vecchio si rialzò, muto: tremava dal dolore e 

dall’ira, ma non disse niente. I suoi schiavi richiusero 

i sacchi d’oro e se li portarono via. 

Anche gli Achei rimasero muti: ma tutti nel loro 

cuore erano adirati contro Agamennone, e avevano 

anche paura. Agamennone aveva sfidato il dio 

Apollo: era pazzo? Non pensava alla vendetta del 

dio? Quella sera l’assemblea si sciolse frettolosamente 

e tutti si ritirarono nelle tende di malumore: 

avevano brutti presentimenti. 

– 33 –

Gòrigus 



EAN 978-88-425-4501-9; pagg. 224; € 3,90 







per la prima 

e la seconda 

classe 


Genere: familiare-affettivo. 

Tematiche principali: desiderio di fuga dalla realtà, rispetto delle regole. 

Collegamenti interdisciplinari: Educazione alla cittadinanza (rapporto educativo, 

solidarietà). 

Temi correlati: scuola, adolescenza, rapporto adulti/ragazzi, animali immaginari, 

educazione. 

Un severo collegio, un gruppo di ragazzi e un gatto sapiente: sono gli elementi 

di questo romanzo d’avventura con una venatura fantasy nato dalla penna di 

uno scrittore che ha alle spalle una solida esperienza di educatore. La voce narrante 

è quella di Oliviero, un ragazzo considerato “difficile”, membro del Club 

della Magnolia, che decide di evadere dal triste collegio dove sono confinati. Al 

loro fianco una serie di personaggi fantastici che, con i loro consigli e la loro 

esperienza, aiuteranno i ragazzi a fuggire insieme a un anziano nonno costretto 

a vivere in una casa di riposo. Alla fine tutti riusciranno a trovare il loro posto 

nella società ma in modo più consapevole e maturo. 

Gòrigus è lo pseudonimo di Giorgio Del Lungo, noto disegnatore e ritrattista. Dopo 

la laurea in Storia dell’arte, si è trasferito a Zurigo, dove si è diplomato in Psicologia 

ed è entrato a far parte del Centro psico-pedagogico della città. Il suo libro 

Guardate, ho catturato un altro mostro! (Mursia) ha vinto il Premio Lunigiana. 

u Il romanzo è disponibile anche in edizione facilitata. Vedi a pag. 46 

– 35 –


LA FACCENDA ANDÒ COSÌ… 

Quando scappai dal Collegio avevo l’età vostra, su per 

giù. Portavo un paio di vecchi jeans rattoppati, con il 

mio nome scritto su un ginocchio. 

Il mio nome era Oliviero. 

Be’, quanto al nome, quello è ancora Oliviero, perché 

i nomi mica sono come i pantaloni, che durano 

due o tre anni. I nomi durano senza consumarsi tutta 

la vita. Anzi, tutta l’eternità. E non solo quelli famosi 

dei geni e dei personaggi importantissimi, che bisogna 

studiare e che diventano poi anche nomi di strade, e 

piazze, e scuole e restano scritti in milioni di libri… 

No, tutti i nomi, anche quelli di gente per niente famosa 

che abbiamo conosciuto o che eravamo noi stessi. 

Anche il nome mio, quindi, e quello di Nelson, e di 

Guelfo, e di Arnù, e di Ruggero, e di Cencillo, e di 

Porfirio… e di tutti gli altri personaggi di questa storia, 

tutti amici miei che chissà dove saranno, ma che 

oramai hanno dato il loro nome ad alcune delle vie e 

delle piazze della mia memoria. A me basta passare di 

lì e leggerli, per ricordarmi di loro e di com’erano, 

proprio tali e quali. E nella loro memoria ci sarà anche 

una strada col nome mio. 

– 36 –

Perciò, se un giorno ci rincontreremo in qualche 

punto della terra, magari saremo molto cambiati o ad - 

dirittura diventati vecchietti, però il nome sarà rimasto 

uguale. Allora basterà quello e ci riconosceremo. Se 

poi invece ci rincontreremo in Cielo, allora non solo il 

nome sarà uguale, ma saremo tutti proprio come allora, 

al tempo della grande evasione. 

La faccenda andò così: innanzitutto devo dire che 

probabilmente esistono anche collegi simpatici e divertenti, 

ma io ne conosco uno solo e quello vi assicuro che 

non era di questi. Quello dov’ero rinchiuso io era insopportabile. 

Forse potrebbe darsi che anch’io in quel 

tempo fossi insopportabile, non saprei dirlo. Ma, nel 

caso fossi migliorato, certamente non mi ha migliorato 

il Collegio. 

Era il Collegio «Kinderglück», 1 specializzato nella 

rieducazione natural-pedagogica dei ragazzi dif ficili. 

Che io fossi un Ragazzo Difficile non me ne ero mai 

accorto e lo seppi entrando nel Collegio. Anche tutti 

gli altri prigionieri erano ragazzi difficili. Ma erano 

l’unica cosa simpatica del Collegio. 

Dal di fuori questo Collegio sembrava quasi una villetta 

o un grazioso alberghetto. Tutto pareva riverniciato 

da poco, tutto era pulito, lindo, lucidato. A tutte le 

finestre c’erano gerani senza neanche una fogliolina 

secca. Il prato del giardino era pettinato come la testa 

di un primo della classe. Ogni albero portava una targhetta 

col suo nome e cognome. Quando un filo d’erba 

cresceva storto, accorreva subito un giardiniere con 

certe pinzette e lo spingeva di nuovo nella direzione de- 

1 Collegio «Kinderglück»: il nome del Collegio, in tedesco, significa 

«La felicità dei bambini». 

– 37 –

gli altri. Tutte le cose erano terribilmente in ordine. Si 

aveva l’impressione di vivere in un quaderno a quadretti 

di bella scrittura. Gli Educatori sorridevano sempre, 

anche quando non ce n’era bisogno. Ma quando erano 

soli, erano costretti a riposare i muscoli della bocca 

stanchi di sorridere tanto. Avevano allora un’espressione 

tristissima da riposo, come se avessero appeso la faccia 

ad un attaccapanni. 

Erano obbligatorie le pantofole, quando si era dentro. 

Era obbligatorio dormire dopo pranzo. Era obbligatorio 

lavarsi i denti cinque volte al giorno. Era 

obbligatorio tener sempre le proprie cose nell’ordine 

prescritto dal regolamento. E poi ancora mangiare tutto 

quel che veniva servito, perché era sano: quanto più 

era insipido, tanto più era sano. E ancora, spegnere le 

luci alle 20.30, perché anche dormire presto era sano. 

Ed era sano alzarsi quasi all’alba e correre nella Natura, 

anche se la Natura a quell’ora è tutta bagnata. E tante 

altre cose erano sane e obbligatorie. Quello che non era 

obbligatorio, poi, era proibito. 

Con i miei compagni, gli altri ragazzi difficili, feci 

presto conoscenza. Ognuno raccontava perché era finito 

là dentro (anche se forse non dicevano proprio 

tutti i motivi). Chi aveva rubato una barca sul fiume e 

poi era naufragato. Chi, chiuso in castigo in camera, 

era scappato dalla finestra attraverso i tetti e aveva 

tentato di emigrare in Canada. Chi era mancato per 

varie settimane dalla scuola, per imbarcarsi su un peschereccio 

e aveva portato poi giustificazioni mediche 

scritte da solo. Chi aveva incendiato una soffitta, fabbricando 

fuochi d’artificio proibiti da vendere. Chi 

aveva rubato un tram dal deposito per portare a spas- 

– 38 –

so gli amici, seminando il panico in città. Chi aveva dipinto 

come una zebra il cavallo del monumento di 

Garibaldi sulla piazza… e così via. 

– E te, perché ti hanno chiuso qua dentro? – do - 

mandavano poi a me. Non avevo compiuto imprese così 

sensazionali come loro e mi vergognavo un po’. 

Cercavo di ricordarmi di qualche incendio appiccato, 

di qualche azione banditesca o sabotaggio, 2 ma non mi 

era capitato nulla di divertente da raccontare. Ero solo 

un Ragazzo Difficile e basta, come avevano detto tutti. 

Probabilmente avevo cominciato ad essere un Ragazzo 

Difficile da quando avevano ricoverato mio nonno 

Berengario nell’ospizio dei vecchietti. Forse era 

anche quello una specie di Collegio per vecchietti difficili 

da rieducare. Ma mio nonno Berengario era il nonno 

più grandioso del mondo e io non volevo che me lo 

rieducassero. Era stato esploratore, pescatore di perle, 

comandante dei dragoni a cavallo, 3 agente segreto, contrabbandiere, 

acrobata, inventore e capo dei briganti. 

Ma le storie della sua vita, che raccontava spesso, piacevano 

solo a me, in famiglia. Gli altri si annoiavano e appena 

ne iniziava una, lo trattavano come un bambino 

che raccontasse cose inventate e lo interrompevano: – 

Sì, sì, nonno, come sei stato bravo! Lo sappiamo già. 

Adesso però devi andare a riposare un po’. Resta in silenzio 

e calmo, ché hai la pressione alta! 

A me invece piaceva ascoltarlo e gli facevo anche 

da assistente nel suo laboratorio di inventore, che aveva 

sistemato in una mansarda sotto il tetto. 

2 azione banditesca o sabotaggio: atti che hanno lo scopo di danneggiare 

qualcosa o qualcuno. 

3 dragoni a cavallo: soldati di cavalleria. 

– 39 –

Era un laboratorio fantastico! Non c’era quasi po - 

sto per camminare: tubi, cavi, bocce di vetro panciute, 

alambicchi, 4 telescopi, bilancini, valvole, pompe che 

soffiavano vapori colorati, un generatore di fulmini 

piccoli, caldaiette, stantuffini, uccelli impagliati telecomandati, 

una tartaruga operaia, un pappagallo che 

conosceva l’alfabeto Morse, un pesce rosso che poteva 

restare un minuto a spasso fuor d’acqua col respiratore 

in groppa, un calabrone che suonava l’arpa, e tante 

altre meraviglie… 

Un mattino di maggio a mezzogiorno, nonno Berengario 

uscì a volo dalla finestra del laboratorio, seduto 

su un marchingegno ancora un po’ cigolante, ma 

che già svolazzava abbastanza a piccoli balzi da un tetto 

all’altro, da un comignolo a un abbaino, a un pinnacolo, 

posandosi quasi senza peso. 

Alle finestre tutt’intorno si affacciarono i vicini curiosi, 

divertiti e col fiato sospeso, come al circo. Io ero 

orgoglioso, ma tutti gli altri parenti cominciarono a 

gridargli che tornasse subito dentro. Lo minacciavano 

furibondi, poi lo imploravano dolcemente: 

– Nonnino caro, nonnino zuccherato… – gli dicevano 

offrendogli sigari e grappa, che gli erano stati 

proibiti. Poi telefonarono al pronto soccorso, al Ministero 

dell’Aeronautica, a uno psichiatra… 

Il collaudo sarebbe stato un trionfo, se non ci fosse 

stato il cedimento di una cinghia, che a un certo punto 

fece piegare su un fianco il velivolo. Allora urtò e scivolò 

giù per il tetto; ma per fortuna si arrestò contro 

un comignolo e riuscimmo a tirare in salvo nonno Be- 

4 bocce di vetro... alambicchi: piccoli vasi di vetro. 

– 40 –

engario illeso. 5 Immediatamente lo afferrarono tut ti 

insieme e lo sgridarono. Il giorno dopo lo trasportarono 

all’ospizio. Lui credeva che andassero a festeggiare 

il successo oramai quasi completo di quell’apparecchio, 

che già aveva battezzato Aviozomp 81, perché il 

nonno aveva appena compiuto 81 anni. 

Dal giorno della partenza di mio nonno Berengario 

per l’ospizio, la nostra casa era diventata triste. Corio - 

lano, il cane da guardia, era impazzito e si era unito a una 

muta di cani da slitta diretti in Siberia. I miei genitori, 

che prima andavano sempre d’accordo, cominciarono a 

litigare. Mio padre era quasi sempre in viaggio per affari 

e la mamma si era messa a lavorare in un giornale politico. 

In casa restavo io solo. E, per non lasciarmi troppo 

incustodito, venne ad abitare da noi una vecchia zia (non 

avevo mai capito bene di chi fosse zia), che suonava il 

piano tutto il giorno, tranne quando faceva ginnastica 

per mantenersi giovane. Ma bisognava sopportarla, perché 

aveva molti soldi e ci avrebbe lasciato l’eredità. Soprattutto 

io dovevo sopportarla, perché ero io che 

restavo con lei più tempo di tutti. Il guaio era che lei non 

poteva sopportare me, e non era obbligata a sopportarmi, 

perché io non avevo nessuna eredità da lasciarle. 

Pure a scuola le cose si misero male. Non riuscivo 

più a prendere un voto buono. Per consolarmi mi 

chiudevo nel laboratorio abbandonato di mio nonno 

Berengario, fra tutti i suoi strumenti e i ricordi delle 

sue storie. E lì dentro non mi accorgevo che passava 

il pomeriggio. Finivo sempre per arrivare a scuola coi 

compiti fatti a metà. 

5 illeso: senza essersi fatto del male. 

– 41 –

Il maestro, il signor Frustagalli, poveretto, era cos - 

tretto a dare di me sempre lo stesso giudizio: 

«Se si applicasse, eccellerebbe, 6 ma non è motivato». 

Quando questo giudizio arrivava a casa, tutti mi 

sgridavano e mi domandavano perché non eccellevo. 

Io, che non sapevo il perché (e non sapevo neanche 

bene cosa volesse dire «eccellere»), per farla breve e 

per non sbagliarmi, ripetevo le parole del maestro: 

– Perché non sono motivato. 

Neanche «essere motivato» sapevo bene cosa volesse 

dire, ma suonava molto meglio che dire, per 

esempio: «Io faccio tutto il possibile!» oppure: «È il 

maestro che ce l’ha con me!». 

Alla fine la conclusione era sempre la stessa: 

– Te la do io la motivazione! Sei uno sfaticato, ecco 

quello che sei! Non ti facciamo mancare niente… Ma 

cosa credi? Se vai avanti così, dopo la scuola media ti 

manderemo a zappare la terra! Ecco dove ti manderemo… 

Allora capirai cosa vuol dire guadagnarsi il pane! 

Però, a zappare la terra non avevano nessuna intenzione 

di mandarmi. E poi la terra non la zappa più nessuno, 

al massimo avrei fatto il trattorista, che mi 

sarebbe piaciuto. Loro invece mi volevano far diventare 

medico e non trattorista. 

Quando ero da solo in quella casa vuota, con l’insopportabile 

martellio del pianoforte della zia Ubalda, 

mi venivano in mente tante risposte da dare in mia difesa: 

che non era vero che non mi mancava niente, mi 

mancavano i fratelli, per esempio, e poi ora mi mancava 

anche nonno Berengario, che me l’avevano portato via 

6 eccellerebbe: sarebbe il migliore, si distinguerebbe dagli altri. 

– 42 –

solo perché era un nonno divertente e fantasioso. Ma 

quando mi sgridavano, non riuscivo più a ripetere tutti 

i discorsi che sapevo fare così bene da solo. 

Una volta che avevo chiesto di andare a trovare 

nonno Berengario nel suo ospizio, mi risposero che 

per il momento non mi avrebbe giovato affatto; che il 

nonno già mi aveva messo troppe fantasie in testa; che 

i risultati negativi si vedevano a scuola; che non volevano 

che io diventassi un esaltato come il nonno. 

Quando il signor Frustagalli, quasi piangendo poveretto, 

mi consegnò l’ultimo giudizio del semestre uguale 

ai precedenti, da fare firmare alla famiglia, io gli 

chiesi se non conoscesse qualche contadino, per andare 

a lavorare la terra da lui. 

– Ma Oliviero! – gemette il signor Frustagalli – io 

sono sicuro che tu puoi riprenderti. Ti aiuterò io durante 

l’estate, senza che lo sappiano i tuoi. Non dovrai 

darmi niente! 

Però, poiché io insistevo, mi accompagnò da certi 

suoi lontani parenti campagnoli e spiegò loro la mia 

strana decisione. Comunque, per scrupolo, andò poi anche 

ad avvisare i miei. I miei se la presero con il povero 

signor Frustagalli, perché non si era rifiutato di aiutarmi 

in quella stupida idea (che poi era un’idea loro). 

Così il mio lavoro agricolo fu interrotto dopo un 

giorno, quando arrivarono i miei genitori e la zia Ubalda 

nel podere. Mi vennero a cercare sui campi, dove 

già stavo a bordo del trattore accanto a Quinzio, il figlio 

del padrone, che guidava. Mi ordinarono di scendere 

dal trattore immediatamente e di salire in auto 

con loro. Quinzio si mise a piangere, credendo che si 

trattasse di un sequestro di persona, e dovetti tranquil- 

– 43 –

lizzarlo. I miei mi annunziarono subito che mi avrebbero 

messo in Collegio. Allora tornai da Quinzio a 

spiegargli che era molto peggio di un sequestro di persona 

e che per me era finita. Lui ricominciò a piangere 

e mi chiese se poteva fare qualcosa per me. Ma purtroppo 

dovevo cavarmela da solo. Così lo consolai un 

po’ e ci salutammo. 

Solo la zia Ubalda era felice della bella scampagnata 

e per tutto il viaggio cantò: «O campagnooola bella, tu 

sei la reeeginella…» e altre canzoni dei suoi tempi, che 

aumentarono il nervosismo di tutti. Ma per la questione 

dell’eredità, nessuno doveva far commenti. 

Quello che mi avevano ripetuto tante volte tanto 

seriamente, che cioè sarei andato a lavorare la terra, 

evidentemente era una pazzia, perché mi accompagnarono 

da uno psicologo a farmi esaminare. 

Questo psicologo era un giovane magro, con la barba, 

gli occhiali, una pipa e un maglione lungo lungo e 

sbrindellato. 

Mi fece disegnare, parlare, risolvere dei questionari. 

Quando gli facevo qualche domanda io, con i denti 

muoveva la pipa in tutte le direzioni, prima di rispondere. 

E dopo aver pensato, scriveva tutto quello che 

io dicevo e facevo. 

Quando gli chiesi se potevo leggere quello che aveva 

scritto di me, agitò tanto la pipa, che se la fece rovesciare 

addosso e per poco non si accese anche lui; 

restò imbarazzato, rise e, invece di darmi una risposta, 

disse: 

– Ora facciamo un bel gioco! 

– 44 –

Gòrigus 



EAN 978-88-425-4502-6; pagg. 96; € 3,90 



Tematiche principali: desiderio di fuga dalla realtà, rispetto delle regole. 

Collegamenti interdisciplinari: Educazione alla cittadinanza (rapporto educativo, 

solidarietà). 

Temi correlati: scuola, adolescenza, rapporto adulti/ragazzi, animali immaginari, 

educazione. 

La rielaborazione del romanzo in versione facilitata mantiene la voce narrante 

di Oliviero in prima persona, ma adatta il lessico e la trama in modo 

che siano subito comprensibili anche ad alunni non italofoni con scarsa 

conoscenza della lingua o alunni con difficoltà. Ogni capitolo è seguito da 

un questionario per verificare la comprensione del testo. L’adattamento è 

a cura di Marina Forenza Enriquez, esperta insegnante di lingue straniere 

e autrice di un innovativo metodo di insegnamento dell’italiano L2. 

EDIZIONE FACILITATA 

CON ESERCIZI 

– 46 – 

per la prima 

e la seconda 

classe


LA FACCENDA 

ANDÒ COSÌ... 

Ciao, io mi chiamo Oliviero e la storia che 

vado a raccontare è un po’ come una fiaba 

e si svolge quando avevo su per giù la vostra 

età. 

Chiudete gli occhi e venite indietro nel 

tempo con me: ecco, siamo in un Collegio 

per «ragazzi difficili». Visto da fuori, sembra 

un luogo molto bello: una villa circondata 

dal verde con tante aiuole ben curate 

e tanti alberi in un grande parco. Ma... dentro, 

apriti cielo! Un vero inferno! La nostra 

vita scorre su binari basati su una lunga lista 

– 47 –

di cose obbligatorie: mangiare sempre tutto 

anche se non ti piace o non hai fame, in 

casa portare solo le pantofole, andare sempre 

a dormire dopo pranzo, andare a letto 

alle otto di sera, lavare i denti cinque volte 

al giorno, alzarsi alle prime luci dell’alba e 

andare a correre anche sotto la pioggia o la 

neve e... via dicendo. Tutto quello che non 

è obbligatorio è proibito! 

In questo modo, vogliono insegnare a 

noi «ragazzi difficili» a rigare dritto. Io, veramente, 

non so cosa significhi essere un 

ragazzo «difficile». Ognuno dei miei amici 

può vantarsi di aver fatto qualcosa di sensazionale, 

come rubare una barca e andarsene 

in giro sul fiume per giorni oppure 

scappare di casa e cercare di andare all’estero 

o ancora dipingere il cavallo della statua 

di Garibaldi come una zebra e tante 

altre cose ancora. Io mi sento un po’ come 

una mosca bianca; non so perché sono 

«difficile», come dicono i miei genitori. Io 

non ho fatto proprio niente di interessante! 

– 48 –

Forse tutto è cominciato quando i miei 

hanno deciso di mettere il nonno in una 

casa di riposo per persone anziane. Il nonno 

era per me il mio migliore amico. Mi 

raccontava tante storie fantastiche della 

sua vita avventurosa. Insieme lavoravamo 

nel suo laboratorio a inventare tante cose 

interessanti. Mi chiedeva come andavo a 

scuola, mi aiutava con i compiti e io ero 

molto felice. 

Poi, un giorno, anche il 

nonno diventa una «persona 

difficile» e lo 

portano via in un 

posto dove dicono 

che lui è felice, 

ma io so che non è 

vero! Il mondo mi crolla 

addosso. Io rimango solo. 

Nessuno mi racconta 

più storie, il laboratorio 

non è più interessante. 

Anche la scuo- 

– 49 –

la non mi piace più e comincio ad andare 

male. I professori non capiscono il perché 

e si lamentano con i miei genitori. 

Anche loro non capiscono cosa mi rode 

dentro e mi portano da uno psicologo, che 

dice che io non ho problemi ma non sono 

«motivato». E così divento un ragazzo difficile 

e i miei genitori cominciano a cercare 

una soluzione per aiutarmi con i miei problemi 

e diventare «motivato» e così... eccomi 

qui! 

Questionario 

Rispondere alle domande. 

1 Com’è il Collegio visto da fuori? 

2 Come si svolge la vita dei ragazzi nel 

Collegio? 

3 Come sono i ragazzi che frequentano 

questo Collegio? 

4 Cosa hanno fatto alcuni degli amici di 

Oliviero? 

– 50 –

5 Perché Oliviero è diventato un «ragazzo 

difficile»? 

6 Secondo te, perché Oliviero non è «motivato»? 

Vero o falso? 

– 51 – 

V F 

Oliviero sa perché è 

un «ragazzo difficile». 

La vita nel Collegio 

è molto divertente. 

Visto da fuori, il Collegio 

è molto bello. 

I problemi di Oliviero iniziano 

quando il nonno muore. 

I professori si lamentano 

con i genitori di Oliviero. 

Lo psicologo dice che Oliviero 

ha grossi problemi.

Esercizio di lessico 

Abbinare le espressioni di «A» 

con i significati in «B». 

A B 

1 Andare a a E altre cose 

raccontare. ancora. 

2 Avere su per b Descrive una 

giù un’età. situazione 

terribile. 

3 Alle prime luci c Iniziare a parlare 

dell’alba. di qualcosa. 

4 Apriti cielo! d Quando non è 

ancora giorno. 

5 E via dicendo. e Non indicare 

un’età precisa. 

– 52 –

Analisi del testo 

Rileggere la storia e sostituire 

le frasi sottolineate con le 

espressioni usate nel testo. 

1 Il nonno diventa una persona «difficile» 

e lo portano via. Io provo un fortissimo 

dolore. 

2 Io mi sento un po’ come una persona 

molto rara. 

3 La nostra vita segue un determinato 

percorso basato su una lista di cose obbligatorie. 

4 Vogliono insegnare a noi ragazzi difficili 

a comportarsi in modo corretto. 

5 Loro non capiscono che sento in me un 

forte malessere. 

– 53 –

Lessico 

Cercare il significato dei vocaboli 

usando il dizionario. 

Collegio 

Obbligatorio 

Vantarsi 

Sensazionale 

Estero 

Casa di riposo 

Svolgersi 

Motivato 

– 54 –

Frances E. Hodgson Burnett 


EAN 978-88-425-4716-7; pagg. 344; € 3,90 per la 

terza classe 



Collegamenti interdisciplinari: Storia, Geografia, Scienze (botanica), Educazione 

alla cittadinanza (rapporto educativo, solidarietà). 

Temi correlati: amicizia, adolescenza, India, Inghilterra, colonialismo, giardinaggio. 

Un «classico» della letteratura giovanile del primo Novecento. Mary è una 

ragazzina inglese che rimane orfana dei genitori in India. Tornata in Inghilterra 

viene accolta nell’immensa casa dello zio, dove trascorre il tempo, 

sola, a esplorarla. Le sue passeggiate la portano a due misteriose 

scoperte: un giardino nascosto e abbandonato e il cugino malato. Riuscirà 

a far rinascere entrambi con il suo amore per la vita e per la natura. La 

maestria e l’ispirazione educativa dell’autrice hanno saputo collegare, in 

una trama avvincente, quel tanto di misterioso e di fantastico che cattura 

il lettore, senza dimenticare tanti problemi di un’infanzia difficile, che nell’amicizia 

trova però il vero segreto per superarli. 

Frances E. Hodgson Burnett, nata a Manchester, in Inghilterra, nel 1849 

si trasferisce ancora giovane negli Stati Uniti, dove trascorre il resto della vita. 

I suoi romanzi più celebri sono: La piccola principessa e Il piccolo Lord. 

Muore a Plandome nel 1924. 

MATERIALI NEL LIBRO 

• in apertura una scheda sintetica sull’Inghilterra dell’Ottocento 







– 56 –


NON È RIMASTO NESSUNO 

Quando Mary Lennox fu mandata in Inghilterra per 

stare con lo zio nella casa di Misselthwaite Manor, tutti 

furono concordi nel ritenere che fosse la ragazza più 

brutta che avessero mai visto. E purtroppo era vero. 

Aveva il viso affilato, il corpicino magro magro e l’espressione 

scontrosa. I capelli, radi, erano di un biondo 

giallognolo, e giallognolo era anche il visino, forse 

perché era nata in India e, per un motivo o per l’altro, 

era sempre stata malaticcia. 

Suo padre, impiegato alle dipendenze del governo 

inglese, aveva sempre avuto molto lavoro da sbrigare, 

quando non era ammalato, come spesso capitava. Sua 

madre, che era stata una donna bellissima, non aveva 

mai avuto altra preoccupazione che quella di divertirsi 

e di non mancare mai a feste e a ricevimenti. Poiché 

non aveva mai voluto bambini, quando Mary nacque 

l’affidò subito alle cure di un’ayah, una balia indigena, 

alla quale aveva fatto capire che se avesse voluto entrare 

nelle grazie della Mem Sahib, cioè della padrona, 

avrebbe dovuto tenere la figlia il più lontano possibile 

dai suoi occhi. Per questo motivo, finché Mary fu una 

bambina brutta, piagnucolosa e malaticcia, venne tenuta 

lontano dalla madre, e quando diventò una bambina 

– 57 –

sgambettante, scontrosa e malaticcia, fu tenuta lo stesso 

lontano da lei. 

La bimba non ricordava di avere mai visto un altro 

viso familiare oltre a quello scuro della sua ayah e di 

altri servi indiani. E poiché questi le obbedivano ciecamente 

e lasciavano che facesse sempre a modo suo 

(la Mem Sahib si sarebbe infatti arrabbiata se fosse 

stata disturbata dal suo piagnisteo), a sei anni Mary 

era una bambina dispotica ed egoista. La giovane istitutrice 

inglese, venuta a insegnarle a leggere e a scrivere, 

provò una tale avversione 1 per lei da rinunciare 

al suo incarico dopo soli tre mesi. Le altre istitutrici, 

che cercarono di sostituirla, resistettero ancora meno. 

Mary, perciò, non avrebbe mai appreso l’alfabeto, se 

non avesse davvero voluto imparare a leggere i libri. 

Una mattina caldissima, allora aveva circa nove anni, 

si svegliò di pessimo umore. Quando si accorse che 

la cameriera accanto al suo letto non era la sua ayah, 

la sua scontrosità aumentò. 

– Che cosa ci fai tu qui? – disse alla donna che non 

aveva mai visto. – Vattene e mandami qui subito la 

mia ayah! 

La donna la guardò impaurita e mormorò che la sua 

ayah non era potuta venire; quando Mary si arrabbiò e 

cominciò a tempestarla di pugni e calci, si spaventò ancora 

di più e ripeté ancora una volta che l’ayah non era 

potuta venire dalla Missie Sahib, la padroncina. 

Quella mattina c’era qualcosa di misterioso nell’aria. 

In ciò che si faceva non veniva seguito il solito ordine: 

molti servi indiani sembravano scomparsi e quei 

1 avversione: antipatia. 

– 58 –

pochi che Mary intravedeva sgattaiolavano di qua e di 

là, con visi pallidi e spaventati. Ma nessuno le diceva 

nulla e la sua ayah continuava a non farsi vedere. Rimasta 

sola, decise perciò di andare a gironzolare in 

giardino, e alla fine si mise a giocare sotto un albero, 

non lontano dalla veranda. Decise di fare un’aiuola e 

piantò grandi fiori scarlatti di ibisco in piccoli mucchi 

di terra. Ma intanto la sua rabbia aumentava e Mary rimuginava 

tra sé le parole e gli insulti che avrebbe rivolto 

a Saidie, quando questa fosse tornata. 

«Cattiva! Cattiva! Brutta cattiva!», diceva tra sé. 

Stava ancora ripetendo tra sé quelle parole, quando 

vide uscire sulla veranda sua madre, accompagnata da 

un giovane ufficiale biondo che aveva l’aspetto di un 

ragazzo. I due parlottavano tra di loro e sembravano 

preoccupati. Mary aveva già visto quell’uomo: aveva 

sentito dire che era arrivato proprio allora dall’Inghilterra. 

La ragazzina lo guardò, ma guardò soprattutto 

sua madre. La guardava sempre, quando aveva l’occasione 

di vederla. Mem Sahib, anche Mary la chiamava 

molto spesso così, era alta, snella, bella e indossava 

sempre abiti elegantissimi. I suoi capelli mossi erano 

come la seta. Aveva grandi occhi ridenti e un nasino 

delicato che sembrava disprezzare ogni cosa. Tutti i 

suoi vestiti erano sempre ampi e leggeri: Mary diceva 

che erano «pieni di trine». Quella mattina il suo abito 

sembrava avere più trine del solito, ma gli occhi non 

erano affatto ridenti: erano grandi, pieni di paura, e 

guardavano imploranti il viso del biondo e giovanissimo 

ufficiale. 

– È proprio così terribile? Ne è sicuro? – Mary 

sentì che diceva. 

– 59 –

– È spaventoso! – rispose il giovane con voce tremante. 

– Proprio spaventoso, signora Lennox! Avrebbe 

dovuto rifugiarsi sulle colline almeno due settimane fa. 

La Mem Sahib si strinse nervosamente le mani. 

– Lo so! – esclamò. – E invece sono rimasta qui per 

partecipare a quella stupida festa. Che sciocca sono 

stata! 

In quel momento si sentirono venire dalle stanze 

della servitù delle grida così strazianti che la Mem 

Sahib si aggrappò al braccio del giovane ufficiale, 

mentre Mary prese a tremare dalla testa ai piedi. Il 

pianto divenne sempre più disperato. 

– Che cosa sarà successo? – chiese ansiosamente la 

signora Lennox. 

– Deve essere morto qualcuno – rispose l’ufficiale. 

– Lei non mi aveva detto che era scoppiato anche tra i 

vostri servi. 

– Non lo sapevo! – esclamò la Mem Sahib. – Venga 

con me. Presto. Venga! – e corse in casa. 

Accaddero poi cose spaventose e il mistero del 

mattino fu svelato. Il colera era scoppiato nella sua 

forma più violenta e la gente moriva come le mosche. 

Anche la sua ayah ne era stata colpita durante la notte 

e ora i servi ne piangevano la morte. Durante la notte 

successiva altri tre servi morirono e gli altri fuggirono 

via in preda al terrore. Il panico regnava ovunque. In 

ogni bungalow moriva qualcuno. 

Nella confusione e nello sbalordimento del giorno 

seguente, Mary si rifugiò nella stanza dei bambini e 

nessuno pensò più a lei. Nessuno si ricordò di lei, nessuno 

la cercò, mentre strane e incomprensibili cose 

accaddero, a sua insaputa, intorno a lei. Mary passò 

– 60 –

gran parte del suo tempo un po’ piangendo e un po’ 

dormendo. Sapeva soltanto che la gente era ammalata 

e sentiva solo dei rumori misteriosi e terribili. 

Una volta si azzardò ad andare in sala da pranzo, 

ma la trovò vuota. I cibi sulla tavola erano stati consumati 

solo in parte; sembrava che le sedie e i piatti fossero 

stati allontanati in fretta, come se quelle persone 

intente a mangiare si fossero alzate precipitosamente 

per qualche strano motivo. La bambina mangiò della 

frutta e qualche biscotto; poi, avendo sete, tracannò 

un bicchiere di vino pieno fino all’orlo. Era dolce, ma 

lei ignorava quanto fosse forte. Quasi subito si sentì 

prendere dal sonno. Allora tornò in camera sua e si 

chiuse dentro, spaventata dalle grida che provenivano 

dalle baracche e dal trambusto di quelli che stavano 

scappando. Il vino l’aveva intontita. Non riusciva a tenere 

gli occhi aperti. Si distese sul letto e per molto 

tempo non seppe più nulla. 

Durante il suo sonno profondo accaddero molte 

cose, ma né i pianti, né il fracasso prodotto da ciò che 

veniva trasportato dentro e fuori il bungalow riuscirono 

a svegliarla. 

Quando aprì gli occhi, si ritrovò sdraiata sul letto 

con il viso rivolto verso la parete. La casa era immersa 

nel silenzio. Prima d’allora non aveva mai immaginato 

che potesse essere così silenziosa. Non si sentivano più 

né voci, né rumori di passi. Allora si chiese se tutti fossero 

guariti dal colera e se ogni preoccupazione fosse 

finalmente scomparsa. Si chiese inoltre chi si sarebbe 

occupato ora di lei, visto che la sua ayah era morta. Certamente 

ci sarebbe stata una nuova ayah, che forse le 

avrebbe raccontato nuove fiabe. 

– 61 –

Rudyard Kipling 


EAN 978-88-425-4569-9; pagg. 200; € 3,90per la 

seconda e la 

terza classe 

Indicazioni di lettura: II e III classe. 

Genere: avventuroso. 

Collegamenti interdisciplinari: Educazione alla cittadinanza, Geografia. 

Temi correlati: amicizia, educazione, solidarietà, amore per il mare, cinema. 

La nave come luogo di formazione alla vita e il mare come palestra di coraggio, 

lealtà e solidarietà: un testo d’avventura che consente molti spunti di 

riflessione e di lavoro. Durante la traversata verso l’Europa a bordo di un lussuoso 

transatlantico, Harvey Cheyne, viziatissimo figlio di un ricco americano, 

cade dalla nave. Salvato da una barca di pescatori, sarà arruolato come secondo 

mozzo a fianco di Dan, il figlio del capitano. Imparerà, con l’amicizia, 

a conoscere e apprezzare una vita di duro lavoro e sacrifici, ma ricca di sentimenti 

e interessi sino ad allora sconosciuti. Romanzo di formazione ma anche 

formidabile racconto di avventura nel quale l’esperienza umana si 

intreccia con la potenza degli scenari naturali e con il particolare ambiente 

della marineria. 

Rudyard Kipling nasce a Mumbai (allora Bombay) nel 1865 in India, da genitori 

inglesi. La sua educazione scolastica, come quella dei figli dei funzionari 

inglesi, si svolge in Inghilterra. Rientra poi in India e successivamente 

svolge attività giornalistica e letteraria in America, in Sudafrica e ancora in Inghilterra. 

Fra i suoi capolavori, i due Libri della Giungla, Kim, Storie proprio 

così. Nel 1907 gli viene conferito il Premio Nobel per la letteratura. Muore 

a Londra nel 1936. 


• ogni capitolo è corredato da una 

scheda di lavoro con argomenti 

attinenti al brano letto. 

• un dizionario dei termini marinareschi 

che compaiono nel testo 


• scheda guidata di riepilogo e analisi 

dei personaggi 

• scheda guidata per la riflessione 

e la rielaborazione personale 




– 63 –

I 

La porta della saletta fumatori era stata lasciata aperta 

alla nebbia dell’Atlantico del Nord, mentre la grossa 

nave passeggeri rullava e oscillava, fischiando per avvertire 

la flottiglia dei pescherecci. 

– Quel Cheyne è una vera peste di ragazzo – disse 

un signore con addosso un cappotto di lana ruvida, 

chiudendo la porta con un colpo. – Non si può più 

sop portarlo. È troppo insolente! 

Un tedesco dai capelli bianchi allungò una mano 

su un panino imbottito e tra un morso e l’altro: – Io li 

conosco qvei tipi – borbottò. – Amerika è piena di qvesta 

Gente. Dofreste importare fruste senza far pacare 

docana per dare qvalche lezione. 

– Bah! in fondo non è cattivo. Merita più che altro 

pietà – intervenne con voce strascicata un abitante di 

New York, che se ne stava lungo disteso sui cuscini. – 

Da quando lasciò la balia l’hanno sempre trascinato in 

giro da un albergo all’altro. Parlavo con sua mamma 

stamani. È una signora simpatica ma gli permette di fare 

quel che vuole. Ora lo mandano in Europa perché 

completi la sua educazione. 

– Che non è ancora incominciata. – La frase partì 

da un passeggero di Filadelfia, raggomitolato in un angolo. 

– Quel ragazzo ha duecento dollari al mese per 

– 64 –

le sue piccole spese quotidiane; così m’ha detto. E non 

ha ancora sedici anni. 

– Ferrofie, suo patre, non è fero? – chiese il tedesco. 

– Sì. Ferrovie, e miniere, e legnami, e navi. Il vecchio 

s’è costruito una residenza a San Diego, un’altra 

a Los Angeles; possiede una mezza dozzina di linee 

ferroviarie, metà del legname che si raccoglie sul versante 

del Pacifico, e lascia che la moglie spenda denaro 

– continuò pigramente il passeggero di Filadelfia. – La 

signora dice che l’Ovest non fa per lei. Perciò vagabonda 

da un posto all’altro con il ragazzo e con i suoi 

servi, cercando di trovare ciò che può divertir lui, suppongo. 

Florida, Adirondacks, Lakewood, Hot 

Springs, New York, e poi da capo. Per ora il ragazzo 

non vale molto più di un fattorino di un albergo di second’ordine. 

Quando però avrà avuto gli ultimi ritocchi 

in Europa, incuterà sacro terrore. 

– Ma il vecchio non si prende cura di lui? – chiese 

una voce dall’interno del cappotto di lana ruvida. 

– Il vecchio ammassa dollari. Non vuol essere disturbato, 

penso. S’accorgerà del suo sbaglio fra qualche 

anno. Peccato, perché in quel ragazzo ci sarebbe 

molto di buono se uno sapesse tirarlo fuori. 

– Sì, ma con una frusta, con una frusta! – brontolò 

il tedesco. 

La porta sbatté di nuovo, e un ragazzo di forse quindici 

anni, esile e smilzo, con una sigaretta fumata a metà 

che gli pendeva da un angolo della bocca, si sporse 

dall’alto corridoio verso l’interno. Il suo colorito, di un 

giallo pastoso, non era bello a vedersi in un ragazzo della 

– 65 –

sua età, e il suo aspetto era un misto di insicurezza, di 

spacconeria e di eleganza molto a buon mercato. Portava 

una giacca color ciliegia, pantaloni al ginocchio, calze 

rosse, scarpe da ciclista, e un berretto di flanella rossa 

gettato indietro sulla nuca. Fischiettò fra i denti osservando 

la compagnia, poi disse con voce rumorosa: 

– Beh, sapete che c’è una bella nebbia fuori? Si 

sentono i battelli da pesca che urlano tutt’intorno a 

noi. Non sarebbe divertente se ne mandassimo a picco 

qualcuno? 

– Chiudete la porta, Harvey – disse il passeggero 

di New York. – Chiudete la porta e restate fuori. Qui 

non siete gradito. 

– Chi può impedirmi di entrare? – rispose con tono 

risoluto. – Avete forse pagato voi il mio passaggio, 

mister Martin? Credo di avere qui gli stessi diritti di 

chiunque altro. 

Prese da una scacchiera alcuni dadi e si mise a gettarli, 

tenendo la mano destra contro la sinistra. – Dite, 

signori, qui si muore di malinconia. Se facessimo una 

partita a poker? 

Non ricevette risposta. Allora lanciò uno sbuffo di 

fumo, dondolò le gambe e si mise a tamburellare sulla 

tavola con dita piuttosto sudicie. Poi trasse di tasca un 

fascio di banconote come per contarle. 

– Come sta oggi la vostra mamma? – chiese un passeggero. 

– Non l’ho vista a colazione. 

– È nella sua cabina, credo. Sta quasi sempre male 

quando è sull’Oceano. Ora vado a dare alla cameriera 

quindici dollari perché l’assista. Scendo soltanto quan- 

– 66 –

do non posso farne a meno. Mi fa un certo effetto passare 

davanti alla dispensa! Sapete, è la prima traversata 

che faccio. 

– Oh, non scusatevi, Harvey. 

– Chi è che si scusa? È la prima volta che attraverso 

l’Oceano, signori, e tranne il primo giorno, non ho 

mai avuto il minimo disturbo. Mai, signore! – Batté 

trionfalmente il pugno sulla tavola, s’inumidì il dito, e 

continuò a contare le banconote. 

– Oh, voi siete certamente una macchina di gran 

prezzo, con la marca bene in vista – disse sbadigliando 

il passeggero di Filadelfia. – Diventerete una gloria del 

vostro paese, se non state attento. 

– Lo so. Sono un americano da cima a fondo, ecco 

tutto. E lo farò vedere non appena metterò i piedi in 

Europa. Uff! Mi si è spenta la sigaretta. Non sono ca - 

pace di fumare questa porcheria che vende il cameriere. 

Qualcuno dei signori non avrebbe una vera 

sigaretta turca? 

Entrò per un momento il direttore di macchina, 

rosso, sorridente, e tutto bagnato. 

– Ditemi, Mac – gridò giovialmente Harvey – come 

va? 

– Va in modo molto normale – gli fu risposto con 

tono grave. – I giovani sono cortesi come al solito verso 

le persone più anziane, e queste cercano perfino di 

apprezzare la loro educazione. 

Da un angolo giunse una risatina sommessa. Il tedesco 

aprì il suo astuccio per sigari e ne offrì ad Harvey 

uno secco e nero. 

– 67 –

– Qvesto è ciò che pisogna fumare, mio ciovane amico 

– disse. – Folete profarlo? Sì? Fedrete che non sarete 

mai stato tanto felice. 

Harvey accese con gesto spavaldo l’oggetto poco 

allettante: sentiva di essere ammesso fra gli adulti. 

– Ci vuole altro che questo per mandarmi con le 

gambe all’aria – disse ignorando di accendere un terribile 

sigaro marca Wheeling. 

– Lo fedremo fra poco – disse il tedesco. – Dofe siamo 

ora, signor Mactonal? 

– Qua o pressappoco, signor Schaefer – rispose il 

direttore di macchina, indicando un punto sulla carta. 

– Saremo sul Gran Banco 1 stasera; ma, per tenerci sulle 

generali, ora siamo proprio in mezzo alle flottiglie 

dei pescherecci. Da adesso a mezzogiorno abbiamo 

sfiorato tre dory 2 e a momenti portavamo via la boma 

a un battello francese. Ditemi se questo non si chiama 

un navigare allo stretto. 

– Fi piace il mio sigaro, eh? – chiese il tedesco, perché 

gli occhi di Harvey si riempivano di lacrime. 

– Eccellente, un aroma squisito – rispose il ragazzo 

a denti stretti. – Ma mi pare che abbiamo rallentato 

un po’, non è vero? Faccio un salto a vedere a che velocità 

andiamo. 

– Daffero io antrei, se fossi in foi – disse il tedesco. 

1 Gran Banco: il Banco di Terranova, a sud-est dell’isola canadese, 

vi sono fondali dove la bassa profondità e l’incontro di correnti rendono 

le acque tra le più pescose del mondo. 

2 dory: un tipo speciale di barca piatta, leggerissima, usata dai pescatori 

di merluzzi. 

– 68 –

Harvey s’allontanò barcollando. Si sentiva molto infelice, 

ma scorse il cameriere di coperta intento a legare 

assieme delle sedie, e siccome si era vantato con lui di 

non aver mai il mal di mare, il suo orgoglio lo fece andare 

sino in fondo a poppa, dove questa finiva in una 

copertura arcuata. Il ponte era deserto, ed egli si trascinò 

all’estremità, vicino all’asta della bandiera. 

Là si piegò in due sotto gli spasimi, perché il sigaro 

marca Wheeling si univa al movimento dei cavalloni e 

alle vibrazioni dell’elica per strappargli l’anima. Sentì la 

testa gonfiarsi, davanti agli occhi gli danzavano scintille; 

gli parve che il suo corpo diminuisse di peso, mentre i 

suoi talloni ondeggiavano al vento. Svenne per il mal di 

mare e un rollio della nave lo sollevò al di sopra della 

battagliola e lo depose sull’orlo liscio della copertura. 

Allora dalla nebbia uscì dondolandosi una grossa onda 

grigia e bassa, che prese per così dire Harvey per un 

braccio e lo trascinò lontano; il grande verde si richiuse 

sopra di lui, ed egli se ne andò quietamente a dormire. 

*** 

Fu destato dal suono di uno di quei corni che annunciano 

la colazione, simile a quello udito nella 

scuola estiva che aveva frequentato negli Adirondacks. 

A poco a poco si ricordò di essere Harvey 

Cheyne, morto annegato in pieno Oceano, ma era 

troppo debole per collegare le idee. Un odore nuovo 

gli riempì le narici; per il dorso gli correvano brividi 

prodotti da un’umidità viscosa, ed era tutto inzuppato 

– 69 –

di acqua salata. Quando aprì gli occhi, s’accorse di essere 

ancora sulla superficie del mare, perché questo 

correva intorno a lui in collinette color argento ed egli 

giaceva su un mucchio di pesci mezzi morti, fissando 

un largo dorso umano vestito d’una maglia turchina. 

«Male, male, – pensò il ragazzo. – È abbastanza 

evidente che io sono morto, e questo coso è il mio angelo 

custode.» 

Gemette, e la figura voltò la testa, mostrando un 

paio di anellini d’oro seminascosti, fra i riccioli neri. 

– Ah! Vi sentite un po’ meglio, ora? – disse. – Rimanete 

sdraiato; così filiamo più svelti. 

Con un brusco colpo di remo, presentò la vacillante 

prua dell’imbarcazione a un mare senza schiuma 

che pareva sollevasse un’onda alta sei metri soltanto 

per far scivolare il battello dall’altra parte. Ma l’ascesa 

di quella montagna non interruppe il parlare della maglia 

turchina. 

– È stato un lavoro da artisti acchiapparvi, ve lo dico 

io. Eh? Co... cosa? E un lavoro ancora migliore l’ha 

fatto la vostra nave a non acchiappare me. Ma come 

avete fatto a cadere? 

– Mi sentivo male, – disse Harvey – così male, che 

non potei farci nulla. 

– Faccio giusto in tempo a suonare il mio corno: la 

vostra nave si scosta un pochino, ed ecco che vi vedo 

scivolar giù. Eh? Co... cosa? Vi immagino triturato 

dall’elica in pezzetti di esca, e invece venite dritto... 

verso di me, e vi prendo per un grosso pesce. Così per 

questa volta non morirete. 

– 70 –

– Dove sono? – chiese Harvey, che dal posto dove 

giaceva non poteva rendersi conto come la sua vita 

fosse ormai perfettamente al sicuro. 

– Siete in barca con me; io mi chiamo Manuel e 

vengo dalla goletta We’re Here 3 di Gloucester. 4 Abito 

a Gloucester. Fra poco ceniamo. Eh? Co... cosa? 

Pareva che avesse due paia di mani e una testa di 

acciaio, perché, non contento di soffiare in una grossa 

conchiglia, doveva per forza stare in piedi, seguendo 

con il corpo l’inclinazione di quella barca a 

fondo piatto, e mandare il suo urlo stridulo e gutturale 

attraverso la nebbia. Quanto durò quella conversazione, 

Harvey non riuscì a ricordarselo, perché 

giaceva sul dorso, atterrito dalla vista dei cavalloni 

spumeggianti. Gli parve di udire una cannonata, il 

ri chiamo d’un corno, e delle grida. Qualcosa di più 

grosso, ma ugualmente mobile, si profilò di fianco 

all’imbarcazione. Parecchie voci parlarono tutte in 

una volta: fu calato in un buco nero e oscillante, dove 

degli uomini con addosso un incerato 5 gli diedero 

una bevanda calda e gli levarono gli abiti; poi s’addormentò. 

Quando si svegliò si mise in ascolto per udire la 

campana che sul piroscafo annunziava la prima colazione, 

stupito che la sua cabina fosse diventata così 

piccola. Voltandosi, vide che si trovava in una specie 

3 We’re Here: Siamo qui. 

4 Gloucester: la base di partenza dei pescatori del Massachusetts, 

nel nord-est degli Stati Uniti. 

5 incerato/a : il caratteristico mantello impermeabile dei pescatori. 

– 71 –

di stretta cantina triangolare rischiarata da una lampada 

appesa a un’enorme trave quadrata. Verso poppa, 

dietro una stufa assai usata, era seduto un ragazzo 

all’incirca della sua età, con un viso piatto e rosso e 

due occhi grigi che lo guardavano ammiccando, 6 in 

maglia turchina e con alti stivali di gomma. Sul pavimento 

erano sparse parecchie paia di simili calzature, 

un vecchio berretto, e alcune calze di lana fuori uso. 

Lungo le cuccette oscillavano incerati gialli e neri. Il 

luogo era così saturo di odori quanto può esserlo una 

balla di cotone. Gli incerati ne avevano uno tutto speciale, 

particolarmente denso, che faceva come da 

sfondo agli altri di pesce fritto, di grasso bruciato, di 

vernici, di pepe e di tabacco guasto; ma il tutto era a 

sua volta circondato da un odore di barca e di acqua 

salata. Harvey vide con disgusto che il suo giaciglio 

era privo di lenzuola, era steso sopra un pezzo di tela 

scura piena di gobbe che faceva da materasso. Il movimento 

dell’imbarcazione non era quello del piroscafo: 

non scivolava né rullava. Era piuttosto un 

dimenarsi stupido e senza scopo, come quello d’un 

puledro all’estremità d’una cavezza. 7 Rumori d’acqua 

scorrevano contro il suo orecchio, e tutt’intorno le 

travi scricchiolavano e gemevano. Tutte quelle cose 

gli strapparono un lamento disperato e lo fecero pensare 

alla mamma. 

6 ammiccando: strizzando l’occhio. 

7 come quello... cavezza: l’imbarcazione si muoveva come un puledro 

che vuole liberarsi dal laccio che lo tiene legato. 

– 72 –

– Va meglio? – disse il ragazzo abbozzando un sorriso. 

– Un po’ di caffè? – Gliene portò una tazza di latta 

piena e lo addolcì con melassa. 8 

– Non c’è latte? – disse Harvey, percorrendo con 

lo sguardo la doppia fila di buie cuccette come si 

aspettasse di trovare là una mucca. 

– Latte proprio no – rispose il ragazzo. – E probabilmente 

non ce ne sarà fino a metà settembre. Non è 

caffè cattivo. L’ho fatto io. 

Harvey bevve in silenzio, e l’altro gli tese un piatto 

pieno di pezzi croccanti di maiale fritto che lui divorò 

avidamente. 

– Ho fatto asciugare i tuoi abiti. Temo che si siano 

ristretti un pochino – proseguì il ragazzo. – Non sono 

fatti come i nostri. Voltati, che vediamo se ti sei fatto 

male. 

Harvey si stirò in tutte le direzioni, ma non poté 

constatare alcun male. 

– Questa è una buona cosa – disse il ragazzo cordialmente. 

– Rizzati e vai sul ponte. Il babbo vuole vederti. 

Io sono suo figlio: mi chiamo Dan. Aiuto in cucina e faccio 

a bordo tutti quei lavori che sono troppo umili per 

gli uomini. Sono l’unico mozzo da quando Otto è precipitato 

in mare: era un olandese, aveva vent’anni. Ma 

come hai fatto a cadere con un mare così calmo? 

– Non era affatto calmo – rispose Harvey stizzito. 

– C’era tempesta, e io avevo il mal di mare. Credo di 

essere rotolato sopra la battagliola. 

8 melassa: liquido scuro che serve per addolcire come lo zucchero. 

– 73 –

– Ha fatto un po’ di mare ieri e stanotte, è vero, – 

disse il ragazzo – ma se questa è l’idea che tu hai d’una 

tempesta – e fischiò – ne vedrai di peggio prima d’aver 

finito. Presto! Il babbo ti aspetta. 

Come tanti altri ragazzi sfortunati, Harvey in tutta la 

sua vita non aveva mai ricevuto un ordine diretto; mai, 

almeno, senza lunghe e talvolta lacrimose spiegazioni 

circa i vantaggi dell’obbedienza e i motivi della richiesta. 

La signora Cheyne viveva con la paura di spezzargli 

l’anima, e forse ciò dipendeva dal fatto che essa stessa 

camminava sull’orlo dell’esaurimento nervoso. Egli non 

capiva perché dovesse affrettarsi per far piacere a chicchessia, 

e lo dichiarò: – Vostro padre può ben scendere 

lui, se ha tanta premura di parlarmi. Voglio che mi porti 

direttamente a New York. Sarà pagato. 

Dan spalancò gli occhi, tanto lo colpì l’enormità di 

quello scherzo. 

– Ascolta, papà – gridò verso l’alto del boccaporto 

del castello – dice che puoi scendere tu a parlargli se 

hai tanta fretta. Capito, papà? 

La risposta arrivò con la voce più profonda che 

Harvey avesse mai udito uscire da petto umano: – Basta 

con gli scherzi, Dan. Mandamelo su. 

Dan rise e gettò ad Harvey le sue scarpe da ciclista 

tutte contorte. Nel tono della voce venuta dal ponte 

c’era qualcosa che indusse il ragazzo a nascondere la 

sua rabbia e a consolarsi al pensiero di poter, durante 

il viaggio di ritorno, rivelare a poco a poco la storia della 

grande ricchezza sua e di suo padre. Quel salvataggio 

l’avrebbe fatto diventare un eroe fra i suoi amici 

– 74 –

per tutta la vita. Si issò in coperta per una scala perpendicolare 

e, inciampando in una dozzina d’ostacoli, 

raggiunse la poppa dove un ometto tarchiato, senza 

baffi né barba, con sopracciglia grigie, sedeva su un 

gradino che portava al cassero. Le onde si erano calmate 

durante la notte lasciando un mare lungo e oleoso, 

punteggiato tutt’intorno all’orizzonte dalle vele di 

una dozzina di barche da pesca. Fra esse, piccole 

chiazze nere indicavano i dory intenti a pescare. La goletta, 

con una vela triangolare all’albero di maestra, si 

dondolava leggera all’ancora e, tranne l’uomo presso la 

cabina – che chiamano «tuga» – era deserta. 

– Buongiorno, o meglio, buonasera. Perché è un 

bel pezzo che dormi, eh, giovanotto? 

– Buongiorno – rispose Harvey. Non gli piaceva esser 

chiamato «giovanotto» e, come uno salvato dall’acqua, 

si aspettava della simpatia. Sua madre soffriva 

tutte le agonie ogni volta che lui aveva i piedi umidi; 

quel marinaio invece non pareva affatto commosso. 

– E ora raccontami un po’ com’è andata. Per prima 

cosa diciamo che è stato un vero miracolo per tutti. 

Come ti chiameresti? E di dove sei? (Perché non credo 

tu sia un europeo). 

Harvey disse il suo nome, quello del piroscafo, e 

fece un breve racconto dell’incidente, concludendo 

con la richiesta di essere ricondotto senza indugio a 

New York, dove suo padre avrebbe pagato immediatamente 

qualsiasi somma. 

– Hmm, – disse l’uomo, per nulla commosso dalla 

fine del discorso di Harvey. – Non posso dire che noi 

– 75 –

qui si tenga in gran conto un uomo, o anche un ragazzo, 

che ruzzola giù da una nave di quel tipo con un 

mare così calmo. Tanto meno, quando la sua scusa è 

che aveva il mal di mare. 

– Una scusa? – gridò Harvey. – Credete che sia caduto 

per scherzo in questa vostra sudicia barchetta? 

– Ignorando le tue idee in materia di scherzi, non 

posso pronunciarmi, giovanotto. Ma al tuo posto non 

insulterei la barca che, per opera della Provvidenza, è 

stata lo strumento della tua salvezza. In primo luogo, 

non è rispettoso. In secondo luogo, suona offesa ai 

miei sentimenti, e io sono Disko Troop della We’re 

Here di Gloucester che, a quanto pare, tu non conosci 

bene. 

– Non vi conosco e non me ne importa niente – 

disse Harvey. – Vi sono abbastanza riconoscente per 

avermi salvato e per tutto il resto; ma voglio farvi capire 

che, quanto prima mi riporterete a New York, 

tanto meglio sarete pagato. 

– E cioè... come? – Troop alzò una delle sue ispide 

sopracciglia, rivelando un occhio azzurro, mite e sospettoso. 

– In dollari e cents – rispose Harvey, deliziato dal 

pensiero di fare effetto. – In bei dollari e cents. – Ficcò 

una mano in tasca e gonfiò un po’ il petto, che era il 

suo modo per mostrarsi gran signore. – Voi avete fatto 

la miglior giornata di lavoro della vostra vita quando 

m’avete ripescato. Io sono l’unico figlio di Harvey 

Cheyne. 

– Ho avuto fortuna – fece secco Disko. 

– 76 –

– E se voi non sapete chi è Harvey Cheyne, non sapete 

gran che, ecco tutto. Su, virate 9 la vostra goletta 

e spicciamoci a partire. 

Harvey aveva l’idea che la maggior parte dell’America 

fosse piena di gente occupata a discutere e a invidiare 

i dollari di suo padre. 

– Può darsi che lo faccia, e può anche darsi che 

non lo faccia. Stringi un po’ il tuo stomaco, giovanotto. 

È pieno di viveri miei. 

Harvey udì una risatina di Dan che faceva finta di 

lavorare intorno al tozzo albero di trinchetto, e il sangue 

gli salì al viso. 

– Pagheremo anche quelli – disse. – Quando credete 

che saremo a New York? 

– Io non ho niente da fare a New York. E neppure a 

Boston. Può darsi che vediamo Eastern Point verso settembre, 

e tuo padre (mi dispiace davvero di non aver 

sentito parlare di lui) potrà darmi dieci dollari dopo tutti 

i tuoi discorsi. Come anche potrà non darmi niente. 

– Dieci dollari? Ma guardate qui! io... – Harvey si 

ficcò la mano in tasca per prendere il rotolo dei biglietti. 

Tutto ciò che ne trasse però fu un pacchetto di 

sigarette inzuppate d’acqua. 

– Non hanno corso legale, e fanno male ai polmoni. 

Gettale in mare, giovanotto, e cerca ancora. 

– Mi hanno derubato! – gridò Harvey tutto eccitato. 

– Allora dovrai aspettare di vedere tuo padre, per 

ricompensarmi? 

9 virate: invertite la rotta, per tornare indietro. 

– 77 –

– Centotrentaquattro dollari, tutti rubati – disse 

Harvey, frugando con rabbia in ogni tasca. – Restituitemeli. 

– Che cosa potevi farne, alla tua età, di centotrentaquattro 

dollari, giovanotto? 

– Era una parte del denaro per i miei personali piaceri, 

del mio mensile. – Quello, pensava Harvey, sarebbe 

stato il colpo decisivo; e lo fu in un certo senso. 

– Oh! Centotrentaquattro dollari sono soltanto una 

parte del denaro che ha in tasca... per un mese! Non ti 

ricordi di aver urtato in qualcosa, quando sei caduto in 

mare? Di esserti rotto la testa contro qualche puntale? 

Il vecchio Hasken dell’East Wind – Troop pareva parlare 

fra sé – inciampò in un battente di boccaporto e 

andò a picchiare la testa contro l’albero di maestra. 

Circa tre settimane dopo, il vecchio sosteneva che l’East 

Wind era una nave da guerra che doveva annientare 

il commercio inglese, e così voleva dichiarare guerra a 

Sable Island perché era inglese e le secche all’intorno 

erano troppo estese. Allora lo cucirono in un saccone, 

lasciandogli fuori la testa e i piedi, e stette così per tutto 

il resto del viaggio. Ora è a casa sua nell’Essex, che 

gioca con bambole di stracci. 

Harvey soffocava dalla rabbia, ma Troop continuò 

in tono consolatore: 

– Mi rincresce per te... Mi rincresce tanto, credimi... 

poi così giovane! Ma sarà meglio che non parliamo 

più di denaro, penso. 

– Certo che voi vorreste non parlarne più. L’avete 

rubato! 

– 78 –

– Come ti piace. Se questo può consolarti, pensa pure 

che l’abbiamo rubato. Ora, parliamo del ritorno. Anche 

ammesso che noi potessimo ricondurti a New 

York, cosa che non possiamo fare, tu non sei in condizioni 

adatte per tornare a casa, e noi siamo venuti sui 

Banchi per guadagnarci il pane. Noialtri, non vediamo 

la metà di cento dollari nemmeno in un mese, e non 

sappiamo neppure che cosa sia il denaro per i personali 

piaceri. Se la fortuna ci assiste toccheremo terra in qualche 

porto nelle prime settimane di settembre. 

– Ma... ma ora è maggio, e io non posso star qui a 

far nulla soltanto perché voi avete bisogno di pescare. 

Non posso! Capite? 

– Giusto, giustissimo! Vero, verissimo! Nessuno 

ti chiede di stare senza far nulla. C’è un mucchio di 

cose che tu puoi fare qui, dal momento che Otto è 

caduto in mare a Le Have. Suppongo che l’abbia 

portato via una raffica. Ad ogni modo, non è più tornato 

indietro a smentire questa ipotesi. È chiaro che 

tu ci sei piovuto addosso come un dono della Provvidenza, 

anche se temo che tu non sappia fare un 

gran che. È così, no? 

– Saprò far stare allegro voi e la vostra ciurma quando 

sbarcheremo – rispose Harvey, mormorando vaghe 

minacce a proposito di «pirateria», minacce che quasi 

fecero sorridere Troop, anche se non troppo. 

– Tranne parlare. Me ne dimenticavo. Qui, a bordo 

della We’re Here, non ti si chiede di parlare più di 

quanto tu non voglia. Tieni gli occhi ben aperti e aiuta 

Dan a fare quello che gli viene ordinato e altra roba 

– 79 –

del genere; e io ti darò, non li vali bada bene, ma te li 

darò, dieci dollari e mezzo al mese, cioè trentacinque 

dollari alla fine della stagione. Un po’ di lavoro ti 

schiarirà le idee, e dopo potrai raccontarci tutto ciò 

che vorrai su tuo padre, tua madre e il tuo denaro. 

– La mamma è rimasta sul piroscafo – disse Harvey, 

con gli occhi pieni di lacrime – portatemi subito 

a New York. 

– Povera donna... mi dispiace veramente. Tuttavia 

quando ti rivedrà, dimenticherà tutto. Siamo in otto 

qui a bordo, e se tornassimo ora, son più di mille miglia, 

10 perderemmo la stagione. Anche ammesso che io 

fossi d’accordo, non lo vorrebbero gli uomini. 

– Mio padre regolerebbe tutto. 

– Tenterebbe. Non dubito che tenterebbe – rispose 

Troop, – ma la pesca di tutta una stagione è il pane 

di otto uomini, e tu starai meglio in salute quando tornerai 

da lui in autunno. Ora va’ a prua ad aiutare Dan. 

Son dieci dollari e mezzo al mese, come ho detto e, naturalmente, 

il vitto, come per tutti. 

– Volete dire che dovrò pulire pentole, casseruole 

e simili? – urlò Harvey. 

– Questo e altro ancora. Non c’è da gridar tanto, 

giovanotto. 

– E io non lo farò! Mio padre vi darà tanto da comprare 

questo piccolo e sudicio paiolo da pesca, – Harvey 

batté i piedi – e dieci volte di più, se mi riportate 

10 miglia: le miglia marine sono un’unità di misura di lunghezza 

equivalente a 1.852 metri. Nella nautica le distanze sono sempre 

espresse in miglia. 

– 80 –

sano e salvo a New York; e... e... voi avete già centotrenta 

dollari miei, in ogni caso. 

– Come? – disse Troop, e il suo viso bronzeo si 

oscurò. 

– Come? Sapete ben voi come. Per di più volete 

che io mi pieghi a un lavoro domestico – Harvey era 

molto fiero di questo aggettivo – sino all’autunno. Io 

vi rispondo di no. Capite? 

Per qualche momento Troop guardò con profondo 

interesse la coffa dell’albero di maestra, mentre Harvey 

continuava il suo discorso furente. 

– Ssh! – esclamò il vecchio alla fine. – Sto valutando 

le mie responsabilità. Si tratta di giudicare. 

Dan s’avanzò furtivo e afferrò Harvey per il gomito. 

– Smettila di usare questi tuoi piccoli mezzucci con 

il babbo – lo avvertì. – Gli hai dato del ladro due o tre 

volte, e lui non accetta una simile ingiuria da nessuno. 

– No! – gridò Harvey, quasi urlando, senza tener 

conto dell’avvertimento. 

Troop continuava a meditare. 

– Ti parrò un uomo, poco cortese – disse alla fine, 

abbassando lo sguardo su Harvey. – Non ti biasimo affatto, 

giovanotto, né tu biasimerai me, quando ti sarai 

calmato. Sei sicuro di capire bene ciò che ti dico? Dieci 

dollari e mezzo al mese come secondo mozzo sulla 

goletta e il vitto, per insegnarti il mestiere e per il bene 

della tua salute. Sì o no? 

– No! – gridò Harvey. – Riportatemi a New York 

o altrimenti vi... 

– 81 –

dalla lettura del testo… 

alle scoperte geografiche! 

Quante le località citate in questo capitolo! 

Puoi saperne di più consultando queste schede. 

Cerca poi sull’atlante geografico alcune fra 

le principali e riportane i nomi sulla cartina muta 

del Nordamerica che trovi in fondo al libro. 

Le località sono in ordine 

alfabetico e, una volta indicate, non vengono 

ripetute nei capitoli successivi. 

Adirondacks: catena montuosa americana 

che si estende nello stato di New York; sono 

montagne coperte di foreste e ricche di laghi. 

Boston: capitale dello stato del Massachusetts, 

è una città statunitense di raffinate tradizioni 

culturali e uno dei più grandi mercati 

mondiali del pesce. 

Filadelfia: porto fluviale nello stato della 

Pennsylvania, è un rilevante centro industriale, 

finanziario e commerciale degli USA. 

Florida: stato meridionale degli USA che si 

affaccia sul Golfo del Messico. Lo sviluppo delle 

sue coste la rendono meta di vacanze. 

Gloucester: una città importante, nel nostro 

romanzo, ma difficile da trovare sulle carte tradizionali. 

È comunque situata nello stato del Massachusetts. 

Affacciata sul Golfo del Maine, a nord 

– 82 –

di Boston, è un centro dell’industria del pesce, 

nonché una popolare località turistica nel periodo 

estivo. Come molte altre città degli USA, deve il 

suo nome a quello della città inglese assai più nota, 

da cui partirono i suoi primi colonizzatori. 

Lakewood, Hot Springs: località turistiche 

americane, nello stato della California. 

Le Have: uno dei grandi Banchi di Terranova. 

Los Angeles: prima città della California, situata 

presso la costa dell’Oceano Pacifico. Nel 

suo sviluppo ebbe un ruolo notevole la costruzione 

della ferrovia che la collegò con San Francisco. 

New York: affacciata sulla costa atlantica, 

sull’estuario del fiume Hudson, è la più popolosa 

città degli Stati Uniti e il maggiore centro industriale, 

commerciale, culturale degli USA. Gli 

Olandesi furono i primi a stabilirsi sull’isola di 

Manhattan, poi gli Inglesi le diedero il nome 

odierno. 

Sable Island (Isola di sabbia): piccola isola 

canadese, che si trova a sud della Nuova Scozia. 

San Diego: città statunitense situata nella California 

meridionale, affacciata sull’Oceano Pacifico 

a nord del confine con il Messico. Si sviluppò 

all’inizio del 1900 a seguito della costruzione di 

strade e ferrovie. 

– 83 –

Mary Mapes Dodge 


EAN 978-88-425-4271-1; pagg. 290; € 3,90 







– 85 – 

per la prima 

e la seconda 

classe 



Collegamenti interdisciplinari: Geografia, Educazione artistica (i grandi artisti 

olandesi), Educazione alla cittadinanza (identità europea), Educazione fisica 

(sport). 

Temi correlati: amicizia, adolescenza, Olanda, differenze sociali, solidarietà. 

Hans e Gretel Brinker, figli di una coppia in gravi difficoltà economiche adorano 

pattinare sui canali ghiacciati del loro paese. Tra problemi famigliari e 

passione per lo sport i due fratelli affrontano una sfida che metterà a dura 

prova il loro coraggio e la loro abilità, e farà loro scoprire la forza della solidarietà 

e dell’amicizia. Nel romanzo si confrontano due mondi: quello povero 

dei due fratelli Brinker e quello facoltoso di altri adolescenti; scenario del romanzo 

è l’Olanda di fine Ottocento con i suoi singolari paesaggi e stili di vita. 

La struttura narrativa, tipica del romanzo ottocentesco, è semplice e lineare; 

l’intreccio segue l’ordine cronologico. 

Mary Mapes Dodge (1831-1905) è stata una celebre scrittrice per l’infanzia. 

Pattini d’argento, il suo romanzo più famoso, è stato tradotto in molte lingue. 

Ha collaborato con Harriet Beecher Stowe (l’autrice della Capanna dello zio 

Tom) al giornale «Hearth & Home» e alla rivista per ragazzi «St. Nicholas» da lei 

promossa, per la quale scrissero autori quali Twain, London, Kipling e la Alcott. 

u Il romanzo è disponibile anche in edizione facilitata. Vedi a pag. 92


HANS E GRETEL 

In un luminoso mattino di dicembre, tanti anni fa due 

ragazzi vestiti con abiti leggeri e modesti se ne stavano 

in ginocchio sulla banchina di un canale ghiacciato, in 

Olanda. 

Il sole tardava a sorgere, ma le nuvole grigie sembravano 

dividersi all’orizzonte e apparivano contornate 

da una luce rosso-dorata annunciatrice del nuovo 

giorno. 

La maggior parte dei buoni olandesi, a quell’ora, si 

godeva ancora il calduccio del letto; persino l’illustre signor 

Van Stoppelnoze, uno dei più vecchi e importanti 

cittadini olandesi, si godeva il sonno dell’alba. Sul canale, 

contadine che portavano in equilibrio sul capo 

grosse ceste attraversavano la superficie ghiacciata sfiorandola 

appena con i piedi leggeri; giovani frettolosi si 

avviavano a lavorare in città e, passando, gettavano uno 

sguardo distratto ai due fratelli; perché tali erano i due 

che, infreddoliti e sbuffanti, si affannavano a legarsi sotto 

le scarpe strani arnesi, qualcosa che assomigliava ai 

pattini, ma che non lo erano certamente: si trattava di 

rozzi pezzi di legno a forma di pattini e forniti di fori 

entro i quali passavano semplici stringhe di pelle. 

Spettava ad Hans, il fratello, il merito di aver costruito 

quegli strani pattini. Sua madre per le misere 

– 86 –

condizioni della famiglia, non avrebbe mai potuto 

permettersi di comperare dei pattini di metallo per i 

suoi due figli. Del resto, per rozzi che fossero, quei 

pattini di legno consentivano ai due ragazzi di passare 

qualche piacevole ora sul canale ghiacciato; anche 

adesso, mentre con le dita arrossate dal gelo i due si 

affannavano a stringere le cinghie intorno alle caviglie, 

non c’era sui loro volti alcun segno d’invidia per chi 

ne possedeva di più belli e di più efficienti. 

Hans si alzò per primo e, con un largo gesto d’incoraggiamento, 

incitò la sorella a fare altrettanto. 

– Via, Gretel, – gridò scivolando lungo il canale. 

– Hans, – si lamentò Gretel piagnucolando – questa 

stringa non è ancora a posto: mi ha rovinato la pelle 

l’ultimo giorno di mercato e ora non posso proprio 

allacciarla nello stesso punto. 

– Allacciala più in alto – rispose Hans e, senza ba - 

darle oltre, eseguì una magnifica giravolta sul ghiaccio. 

– Ma non posso; la stringa è troppo corta. 

Con pazienza, fischiettando un motivo olandese, 

Hans tornò indietro e raggiunse la sorella. 

– Che sciocca sei stata a metterti quelle vecchie 

scarpe, Gretel, quando hai un bel paio di scarpe di 

pelle! Potevi metterti gli zoccoli, allora... 

– Hans, non ti ricordi che papà ha gettato nel fuoco 

le mie scarpe nuove? 1 Me ne sono accorta solo 

quando le ho viste accartocciate tra le fiamme. Con 

queste vecchie scarpe posso ancora pattinare, ma con 

gli zoccoli no. 

Hans si era tolto di tasca un pezzo di spago e, in- 

1 Ne scopriremo, nelle pagine seguenti, il motivo. 

– 87 –

ginocchiatosi di fronte alla sorella, cercò di legare i 

pattini di legno alla calzatura di Gretel con tutta la forza 

di cui era capace. 

– Ohi! ohi! – gridò Gretel. 

Con un gesto di impazienza, Hans disfece la legatura 

e avrebbe gettato tutto all’aria se non avesse visto una lacrima 

rotolare silenziosa sulle guance della sorella. 

– Va’ là, stai buona, ora aggiusto tutto – la rincuorò; 

– ma dobbiamo far presto, la mamma avrà bisogno 

di noi. 

Si guardò intorno fissando le strade vicine, i rami 

spogli dei salici e il cielo striato di azzurro, di rosso e 

di oro. 

Non trovando le parole adatte per esprimere la 

bellezza dello spettacolo che gli si rivelava, con l’aria 

di chi sa bene il fatto suo, Hans si levò il berretto, ne 

tolse la fodera tutta strappata, la ripiegò facendone un 

morbido cuscinetto nel quale avvolse le scarpe logore 

della sorella e vi assicurò intorno i lacci. 

– Adesso puoi sopportare che stringa un po’? – 

disse con aria trionfante allacciando nello stesso tempo 

la stringa con la velocità che le sue dita, semiparalizzate 

dal freddo, gli permettevano. 

Gretel, senza lasciarsi abbattere, gli fece cenno di sì 

con la testa, ma non parlò. Qualche minuto dopo, sorridenti, 

tenendosi per mano, i due ragazzi scivolavano 

lungo il canale senza nemmeno lasciarsi sfiorare dal sospetto 

che lo strato di ghiaccio potesse cedere sotto i loro 

piedi, perché in Olanda, d’inverno, un fatto del 

genere non accade quasi mai. Il ghiaccio si rassoda e si 

fa via via più compatto e resistente come per una sfida 

ai pallidi raggi del sole che non riescono a scioglierlo. 

– 88 –

Di lì a poco, screec! 2 I pattini di legno scricchiolarono 

sotto i piedi di Hans il quale rallentò la corsa e, 

dopo vari tentativi per mantenersi in equilibrio, andò 

a ruzzolare più lontano, con le gambe all’aria. Gretel 

scoppiò in una risata. 

– Che bella tombola! – gridò; ma poiché amava 

Hans, il suo cuore fraterno tremò sotto il corpetto 3 azzurro. 

D’un balzo gli fu vicina. 

– Ti sei fatto male, Hans? Ah, te la ridi! beh, allora, 

prendimi se ci riesci – e con le guance accese si lanciò 

sui rozzi pattini allontanandosi in fretta. 

Hans la rincorse come poteva e non l’avrebbe raggiunta 

se, di lì a poco, anche i pattini di Gretel non avessero 

incominciato a scricchiolare; allora Gretel si voltò 

e pattinò incontro al fratello finendogli tra le braccia. 

– Ah, ti ho preso! – gridò Hans. 

– Sono io che ho preso te – rispose la sorella cercando 

di liberarsi dalla sua stretta. 

In quel momento una chiara voce lontana li chiamò: 

– Hans! Gretel! 

– È la mamma – disse Hans facendosi subito serio. 

Ora il canale era tutto d’oro sotto il sole, e l’aria fresca 

del mattino era piena di grida e di richiami; la pista 

si andava riempiendo di pattinatori e questo rendeva 

un po’ difficile obbedire al richiamo della mamma; ma 

Gretel e Hans erano ragazzi seri e consapevoli dei loro 

doveri e, senza neanche pensarci, si tolsero i pattini e si 

avviarono verso casa. Il biondo Hans, dalle ampie spalle 

squadrate, era molto più alto della piccola Gretel da- 

2 screec: il rumore dei pattini sul ghiaccio è ben raffigurato da questa 

onomatopea. 

3 corpetto: giacchina molto stretta che si portava sopra il vestito. 

– 89 –

gli occhi azzurri. Per i suoi quindici anni, era un ragazzo 

robusto, mentre Gretel, di tre anni minore di lui, era 

sottile e svelta come uno scoiattolo. I grandi occhi sinceri 

di Hans sembravano ripetere il motto «c’è pace, 

qui dentro» che si trova scritto sulla porta d’ingresso 

delle piccole case olandesi. 

Negli occhi di Gretel, invece di quella calma serenità 

c’era una luce di gaiezza che non si spegneva mai; 

sul viso della fanciulla il rossore si affacciava alla più 

piccola occasione e allora le sue guance prendevano il 

colore dei fiori di ciliegio quando il vento li scuote. 

Non appena i due ragazzi ebbero superato una 

curva del canale, si trovarono davanti alla casa dei loro 

genitori. Ordinata nell’ambito modesto, i capelli nascosti 

dalla cuffietta aderente alle tempie, alta, stagliata 

nel vano della porta come in una cornice, là stava la 

signora Brinker. 

Se la casa fosse stata lontana un miglio, sarebbe 

sembrata vicina lo stesso. Nella pianura olandese ogni 

cosa, anche distante, rivela tutti i suoi contorni: le galline 

che razzolano e i mulini hanno sempre un disegno 

deciso e nitido. Se non ci fossero le dighe e le alte banchine 

dei canali, l’Olanda si presenterebbe come 

un’immensa pianura senza una collina. 

Nessuno poteva conoscere la natura e l’importanza 

di queste dighe meglio di mamma Brinker e dei suoi 

due ragazzi, che ora accorrevano verso casa. Ma affinché 

possiate capire meglio, lasciate che vi parli di cose 

che sentirete forse per la prima volta e che vi descriva 

il paesaggio e le strane cose che Hans e Gretel vedevano 

ogni giorno. 

– 90 –

Mary Mapes Dodge 


EAN 978-88-425-4279-7; pagg. 80; € 3,90 



Collegamenti interdisciplinari: Geografia, Educazione artistica (i grandi 

artisti olandesi), Educazione alla cittadinanza (identità europea), Educazione 

fisica (sport). 

Temi correlati: amicizia, adolescenza, Olanda, differenze sociali, solidarietà. 

Marina Forenza Erriquez, esperta insegnante di lingue straniere e autrice 

di un innovativo metodo di insegnamento dell’italiano L2, ha rielaborato il 

romanzo I pattini d’argento per consentire agli alunni non italofoni o con 

difficoltà di apprendimento di leggere e lavorare insieme al resto della classe. 

Nell’edizione facilitata il lessico e la trama sono stati adattati per rendere 

più semplice la comprensione. Alla fine di ogni capitolo ci sono schede di 

verifica. 


CON ESERCIZI 

– 92 – 

per la prima 

e la seconda 

classe


HANS E GRETEL 

L’Olanda è un Paese molto bello dove c’è tanta 

acqua. Vi sono molte dighe, stagni, piccoli laghi 

e tantissimi canali. D’inverno, quando fa molto 

freddo, i canali si ghiacciano e diventano delle piste 

di pattinaggio. Non solo i bambini e i ragazzi, 

ma anche gli adulti usano queste piste per 

andare più in fretta da un posto all’altro e pertanto 

in Olanda sono tutti bravi pattinatori. 

In una fredda mattina d’inverno, Hans e 

Gretel, che sono fratello e sorella, stanno pattinando 

lungo un canale. Sono due ragazzi molto 

poveri, vivono in una misera casetta vicino al 

canale e non hanno i soldi per comperare dei 

veri pattini di acciaio. Quindi Hans, che è molto 

bravo a lavorare il legno, ha fatto dei patti- 

– 93 –

ni di legno per lui e per sua sorella. Ma i pattini 

di legno si bagnano facilmente, diventano 

pesanti e dopo un po’ non scivolano più, ma 

i due ragazzi sono contenti e si divertono lo 

stesso. 

Mentre stanno pattinando sentono la voce 

della mamma che li chiama. 

– Hans, Gretel dove siete? 

– Andiamo, Gretel, – dice Hans – la mamma 

ha bisogno di noi. 

I due ragazzi tolgono i pattini e corrono 

verso la casetta, dove la mamma li sta aspettando 

perché ha bisogno di loro per darle una 

mano con il loro babbo. 

Il papà di Hans e Gretel, in passato lavorava 

in una diga, ma un giorno è caduto nella 

diga, ha battuto la testa e adesso non capisce 

più niente, non riconosce più nessuno e, a 

volte, si arrabbia molto e diventa pericoloso. 

L’incidente è successo dieci anni fa, quando 

Hans e Gretel erano ancora piccoli; la mam ma 

aveva pochi soldi e aveva cercato di tirare avanti 

facendo piccoli lavori di ricamo e vendendo 

– 94 –

le verdure del suo piccolo orto. Adesso che 

Hans è diventato più grande, oltre ad andare a 

scuola, per aiutare la mamma fa anche dei piccoli 

lavori sulle barche che trasportano merci e 

scolpisce piccoli oggetti di legno che poi vende 

al mercato. Gretel ama cantare e ha una bella 

voce, e oltre alla scuola aiuta la mamma in casa 

e nell’orto. 

I due fratelli entrano nella casetta e aiutano 

la mamma a prendersi cura del babbo. 

Fuori ci sono molti altri ragazzi, tutti allegri 

e felici che corrono sui loro pattini, diretti 

a scuola. Fra di loro c’è anche Hilda, la figlia 

del sindaco, che ha appena annunciato che vuole 

organizzare una gara di pattinaggio per festeggiare 

il compleanno della sua mamma. Ci 

saranno due bellissimi premi: due paia di pattini 

d’argento, uno per i maschi e uno per le femmine 

e tutti possono partecipare. 

Mentre Hilda sta parlando, Hans e Gretel 

escono dalla casetta con i loro pattini di legno 

e un ragazzo li prende in giro: 

– Guarda, Hilda, quei due ragazzi con quei 

– 95 –

pattini di legno; chissà perché non hanno quelli 

di acciaio. 

– Perché sono poveri – risponde Hilda che 

è una ragazza molto buona e sensibile. 

Hilda lascia il gruppo e va verso Gretel e 

Hans e vede che la ragazza è molto magra, 

vestita in maniera molto povera e trema dal 

freddo, mentre Hans è più forte e robusto, 

con un viso simpatico. Hilda invita i due ragazzi 

alla sua gara di pattinaggio, ma Hans risponde 

che non è possibile con i loro pattini 

di legno. Hilda è molto dispiaciuta e offre loro 

tutti i soldi che ha con sé, ma il ragazzo rifiuta 

il denaro perché non è stato guadagnato. 

Hilda nota al collo di Gretel una bella collana 

di legno bianco e chiede ad Hans se è stato 

lui a farla. Quando Hans dice di sì, Hilda 

gli chiede di farne una anche per lei e gli dà 

i soldi come pagamento anticipato. I soldi sono 

sufficienti per un solo paio di pattini e i 

due fratelli cominciano a discutere su chi deve 

partecipare alla gara. Hans vuole fare andare 

Gretel, mentre la ragazza vuole fare 

partecipare il fratello. Alla fine, la spunta Hans 

– 96 –

che nel pomeriggio va a comperare i pattini 

per Gretel, felice per la sorella. Ma, qualche 

giorno dopo, un amico di Hilda, che ha visto 

la collana che Hans ha fatto per lei, chiede al 

ragazzo una collana uguale per poterla regalare 

alla sua sorellina e paga anche lui in anticipo. 

Così, anche Hans può comperare dei 

pattini per lui. 

Questionario 

1 Perché in Olanda sono tutti bravi pattinatori? 

2 Perché Hans e Gretel non hanno pattini di 

acciaio? 

3 Cosa fa Hans per aiutare la mamma? 

4 Gretel come aiuta la mamma? 

5 Cosa vuole fare Hilda, la figlia del sindaco? 

6 Perché Hans e Gretel non possono partecipare? 

7 Come riesce Hans a comperare dei pattini di 

acciaio per Gretel e per lui? 

– 97 –

Lessico 

Cercare sul dizionario bilingue queste parole: 

Scolpire 

Sindaco 

Ricamo 

Diga 

Stagno 

Canale 

Pista di pattinaggio 

Vero o falso? 

V F 

In Olanda non c’è molta acqua. 

Hans ha fatto i pattini di legno. 

I pattini di legno sono molto veloci. 

Hans accetta subito i soldi di Hilda. 

Hilda compera una collanina da Hans. 

– 98 –


Abbinare le espressioni di «A» 

con il significato di «B». 

A B 

1 Dare una mano. a Rendere una persona 

ridicola. 

2 Tirare avanti. b Riuscire ad affermare 

la propria idea. 

3 Prendere in giro. c Aiutare. 

4 Spuntarla. d Trovare i soldi per 

poter vivere. 

– 99 –

Mino Milani 

L’avventura 

di Robin Hood 

EAN 978-88-425-5220-8; pagg. 90; € 3,90 


Genere: storico 

Collegamenti interdisciplinari: Storia 

Temi correlati: amicizia, giustizia, solidarietà. 






per la 

seconda e la 

terza classe 

La storia di Robin Hood e degli Allegri Compagni nella foresta di Sherwood 

raccontata da una delle più importanti firme del giornalismo e del romanzo 

storico. Mino Milani riscrive le imprese di un eroe di tutti i tempi, impegnato 

a combattere male, ingiustizia e prepotenza. 

La storia eterna del fuorilegge che rubava ai ricchi per dare ai poveri – una 

storia intrisa di passioni e valori come lealtà, rispetto, amicizia e amore. 

Mino Milani è nato a Pavia, dove vive e lavora. Ha cresciuto una generazione 

di giovani lettori collaborando per una ventina d’anni con il «Corriere dei Piccoli» 

e pubblicando numerosi romanzi, editi da Mursia, che hanno riscosso 

notevole successo. Fra questi, la serie legata al mondo medievale e quella 

delle avventure di Tommy River e di Martin Cooper. Grande appassionato di 

storia, è anche autore di saggi, biografie e del romanzo per ragazzi I cavalieri 

della Tavola rotonda. 

– 101 – 

NOVITÀ 2013


IL CASTELLO 

DI HUNTINGDON 

Era un grigio mattino d’autunno. Tutto era silenzio 

e quiete attorno al castello di Huntingdon. I campi, 

coperti da una lieve bruma, erano deserti; la foresta 

taceva, e la nebbia, immobile, sembrava distendersi 

come una grande ragnatela tra i rami solenni degli 

alberi. Di tanto in tanto echeggiava il richiamo d’un 

uccello. Null’altro. Pareva che quella bella campagna, 

nel cuore dell’Inghilterra, fosse disabitata; come 

se, per un incantesimo, uomini e animali fossero 

scomparsi. 

Il ponte levatoio del castello era sollevato. Su dal 

fossato, saliva l’umidità, come a velare le mura dalle 

grandi pietre, le torri, gli spalti merlati. Non una torcia 

era accesa. Le bandiere pendevano inerti nell’aria 

senza vento. Non una voce, nulla. 

– Vedi qualcosa? – mormorò l’uomo vestito di 

ferro. 

– 102 –

– No, ser. Nulla. 

– E nessuno – mormorò il conte di Huntingdon; 

trasse un sospiro: – Eppure, i normanni sono lì, nel 

bosco. I contadini sono scappati tutti chissà dove, e 

si sono portati appresso le bestie. È scappato – aggiunse 

cupamente – anche qualcuno dei miei soldati. 

In quanti siamo rimasti, Marco? 

– In diciannove, ser, capaci di combattere. 

– Ti sei messo anche tu, tra questi diciannove? 

– Sì, ser. 

Il conte posò le mani guantate di ferro sulle spalle 

del vecchio e gli disse: 

– No, mio buon amico, tu non combatterai. 

– Ho giurato che sarei morto per voi. 

– Io invece voglio che tu viva, Marco. E tu sai 

perché. 

Abbassando la testa, il vecchio Marco rispose: – 

Vi servirò, ser, come ho sempre fatto. 

– Bene. Quello che devi fare, lo sai. Quando ti 

sembrerà giunto il momento, lo farai. Abbracciamoci, 

ora, Marco. Scambiamoci l’ultimo addio. 

I due s’abbracciarono; e cominciando a piangere, 

il vecchio servitore chiese: 

– Ma non volete, ser, in nome di Dio; non volete 

tentare di… 

– Di accordarmi con lo sceriffo di Nottingham, 

e con gli altri bricconi normanni? – lo interruppe il 

conte – Sarebbe inutile. È gente senza pietà. E sarebbe 

per me vergognoso. Gli Huntingdon non si 

– 103 –

arrendono: muoiono combattendo. Va’, Marco, Iddio 

sia con te. 

– E con voi, ser – rispose il servo; e dopo un ultimo 

istante di esitazione, s’allontanò sullo spalto, 

scomparendo in una piccola porta. 

Proprio in quel momento risuonò, nel silenzio del 

mattino, un rauco squillo di corno e alcuni uomini 

sbucarono dai cespugli, avanzandosi fin sull’orlo del 

fossato. Uno di essi gridò: 

– Enrico di Huntingdon, mi senti? 

– Sì! – rispose pronto il conte – Che hai da dirmi? 

– Lo sai. Ci sono cinquecento soldati attorno al 

tuo castello, e tu non ne hai nemmeno tre dozzine. 

Abbassa il ponte, apri la porta, vieni fuori e consegnami 

la tua spada. Ti prometto, in cambio, salva la 

vita tua, di tua moglie e di tuo figlio. 

Il conte replicò: – Non sprecare il fiato: ti servirà 

nella battaglia! 

– È la tua ultima parola? 

–La mia ultima parola è: non mi arrendo! 

– Ebbene l’avrai voluto tu! 

Lo sceriffo di Nottingham (perché l’uomo che 

aveva parlato era lui) suonò nuovamente il corno e 

dalla foresta uscirono, con grida e gran clangore d’armi, 

centinaia e centinaia di soldati, che si disposero 

tutt’attorno al fossato; molti di loro, a un nuovo segnale, 

cominciarono a scagliare frecce incendiarie, 

mentre altri vennero avanti recando zattere e lunghe 

scale. In breve, il maniero fu avvolto da un denso fu- 

– 104 –

mo, protetti dal quale gli assalitori poterono gettare 

le loro zattere nel fossato, e cominciare a passarlo, 

malgrado la pioggia di frecce e di pietre che dagli 

spalti cadeva su di loro. I fedeli del conte di Huntingdon 

erano tutti ai loro posti: ma erano troppo pochi. 

Fossero stati appena cento, il vecchio castello di pietra 

sarebbe stato imprendibile. Con nemmeno venti 

uomini, le sorti della lotta erano già segnate. 

Varcato in più punti il fossato, i seguaci dello sceriffo 

appoggiarono alle mura le lunghe scale e cominciarono 

a salire; qualche scala fu respinta, e finì 

nell’acqua con tutti gli uomini aggrappati ad essa; 

qualche altra fu investita da grandi massi, o da olio 

bollente, e gli assalitori caddero tra grida, fiamme, 

tonfi, nubi di vapore infuocato; ma nei punti meno 

difesi gli spalti furono raggiunti: si combatté di spada 

prima sui cammini di ronda, poi per le scale, infine 

nelle sale stesse del castello; alcuni normanni corsero 

a tagliare le grandi funi che trattenevano il ponte, ed 

esso piombò giù, sollevando una gran nuvola di polvere 

e facendo tremare la terra; dalla foresta allora 

uscirono gridando una cinquantina di cavalieri, che 

irruppero galoppando nel cortile; ognuno di loro 

aveva una torcia accesa, che scagliò nelle finestre. Il 

castello cominciò a bruciare. 

Il conte di Huntingdon, già ferito da più frecce, 

venne assalito da cinque normanni; e lo sceriffo di 

Nottingham gridò: – Prendetelo vivo! Voglio vederlo 

in ginocchio davanti a me! 

– 105 –

Mino Milani 

Garibaldino 

senza saperlo 

EAN 978-88-425-4715-0; pagg. 152; € 3,90 

per la terza 

classe 


Genere: storico. 

Collegamenti interdisciplinari: Storia, Geografia, Educazione alla cittadinanza 

(rapporto educativo, solidarietà). 

Temi correlati: adolescenza, libertà, patriottismo, Risorgimento. 

La storia di Siro, un ragazzo che combatte con il mitico generale Garibaldi, vivendo 

così un’esperienza che gli cambierà la vita. La sua avventura personale 

s’intreccia con vicende collettive importanti del Risorgimento: è una storia «piccola», 

che però offre ai ragazzi lo spunto per riflettere sul senso della Storia e 

su alcuni valori importanti, come la libertà, l’amore per il proprio Paese e la pace. 

Un romanzo storico e di formazione che ha per sfondo anni cruciali del Risorgimento: 

rigorosa la ricostruzione, avvincenti e coinvolgenti le avventure del 

protagonista. 

Mino Milani è nato a Pavia, dove vive e lavora. Ha cresciuto una generazione 

di giovani lettori collaborando per una ventina d’anni con il «Corriere dei Piccoli» 

e pubblicando numerosi romanzi, editi da Mursia, che hanno riscosso notevole 

successo. Fra questi, la serie legata al mondo medievale e quella delle 

avventure di Tommy River e di Martin Cooper. Grande appassionato di storia, 

è anche autore di saggi, biografie e del romanzo per ragazzi I cavalieri della 

Tavola rotonda. 


• cronologia essenziale del Risorgimento italiano 







– 107 –

I 

La fucilata risuonò secca nell’aria grigia e immobile. 

Ne venne, fulminea e brevissima, l’eco della montagna 

vicina. 

Il silenzio del primo mattino parve stendersi più 

intenso. Nulla si mosse. Nulla si muoveva, nell’erba 

giallastra, là dove, qualche istante prima, la lepre correva 

zigzagando, 1 disperata, le lunghe orecchie all’indietro... 

«Presa!», esclamò lo zio, e levò il fucile, stretto nel 

grosso pugno da contadino. 

Silenzio ancora. Lo zio non si mosse. Non si mosse 

nemmeno il ragazzo che era con lui, magro, volto scavato, 

gran ciuffo di capelli neri sulla fronte, occhi verdi 

e tristi. Minuto, fragile quasi, stava là, le braccia 

lungo i fianchi, le mani strettamente serrate. Si mordeva 

adagio il labbro inferiore. 

«Be’, che aspetti?» 

Siro guardò lo zio e chiese piano: «Devo andarla a 

prendere?». 

«Eh certo, non lo sai? Te lo devo dire ogni volta?» 

Il ragazzo esitò un istante, poi si mosse piano inoltrandosi 

nel vasto campo incolto per il quale la lepre 

1 zigzagando: spostandosi da una parte a un’altra. 

– 108 –

aveva cercato salvezza. Teneva gli occhi fissi su quel 

punto ove, subito dopo lo sparo, aveva visto la bestiola 

sollevarsi in una capriola, e ricadere giù. “Oh Dio”, 

pensò, “speriamo che...”. 

«Su!», gridò da lontano lo zio. «Cosa aspetti? Non 

vedi che sta venendo la nebbia?» 

Si fece forza e s’affrettò, superò un ciuffo d’erba 

medica 2 violetta. Si fermò e non trattenne un gemito. 

La lepre guardava. 

Lo guardava con lucidi occhi liquidi 3 nei quali non 

c’erano più orrore né paura, ma soltanto stupore; lo 

guardava come a chiedergli perché. Siro abbassò la testa: 

“Non sono stato io”, pensò spasimando, e sperando 

che in qualche modo la bestia lo capisse; ah, che 

cosa avrebbe fatto, adesso, se la lepre avesse cercato 

di sfuggire, ferita a morte com’era, o se quando l’avesse 

presa si fosse dibattuta? Sapeva quello che facevano 

i cacciatori, in casi del genere, ma lui, lui non avrebbe 

mai avuto il coraggio di... 

Gli occhi della lepre persero d’un sol colpo la luce, 

si fissarono chissà dove, non furono più occhi, ma cose. 

Adagio il ragazzo tese la destra. Quando sfiorò 

quelle orecchie lunghe, già le sentì fredde. 

“È morta”, pensò; chiuse gli occhi indirizzando un 

pensiero di ringraziamento al cielo. 

Carezzò brevemente la lepre, la raccolse e tornò 

verso lo zio. 

2 erba medica: è un’erba molto comune nei prati: fresca o come fieno, 

è un ottimo foraggio per gli animali. 

3 occhi liquidi: con uno sguardo chiaro. 

– 109 –

Era il 19 luglio 1849. 

«È una cosa, Siro, cui devi rimediare. Non puoi andare 

avanti così. Ci devi mettere una pezza, insomma. 

Non s’è mai visto, qui, un ragazzo che...» Lo zio sollevò 

la lepre tenendola per le zampe e fischiò tra i denti: 

«Perbacco, che bestione!», ridacchiò. «Quando la vedranno, 

giù al paese, ci resteranno di stucco!» Appese 

la preda alla cintura, e riprendendo il discorso di prima 

seguitò: «...un ragazzo che non gli importa niente della 

caccia. Mai visto. Contadino e cacciatore, è la stessa cosa. 

Specialmente in montagna. Mettici una pezza, prima 

che comincino a prenderti in giro». 

Siro si strinse nelle spalle. «Non mi va, zio», rispose. 

«Non ti va? È un discorso, questo? Se non ti va, 

devi fartela andare, caro mio. È la regola.» 

S’erano avviati verso la casa lontana. Era un giorno 

tiepido, bigio e senza vento; c’era stata una gran stellata, 

a notte; ma ora una nebbia fitta, dopo aver riempito le 

valli, saliva lenta a cancellare montagna dopo montagna. 

Il silenzio era assoluto. Era una strana estate, quella; o 

forse, l’autunno era arrivato prima del tempo. 

«...Però, mica tutti vanno a caccia», mormorò dopo 

un po’ Siro. 

«Ah, se è per questo, le donne non vanno a caccia, 

e certi preti nemmeno. Quello che abbiamo adesso, 

don Nicola, per esempio, no. Ma don Antonio – quello 

di prima, eh! – era un cacciatore nato! La caccia, 

Siro, ce l’abbiamo nel sangue.» 

«Io...», cominciò il ragazzo; e non proseguì. Non 

– 110 –

iusciva a capire come potesse, un brav’uomo come lo 

zio Pietro, divertirsi a uccidere una povera lepre, o a interrompere 

il volo di un uccello. Era tutto così bello, 

sulle montagne: gli alberi, i fiori, l’erba, gli uccelli, gli 

animali... Perché sparare, uccidere, distruggere? 

«...Tu, caro mio, imparerai, ne sono certo. Perbacco, 

se imparerai, e la gente dirà: “Si vede che il vecchio 

Pietro gli ha insegnato bene!”.» E mentre lo zio diceva 

queste ultime parole, un primo brandello di nebbia 

li raggiunse avvolgendoli, e passò avanti distendendo 

fluttuanti veli grigi sulla balza 4 erbosa verso la quale 

camminavano. 

Si fermarono, dopo una ventina di minuti, in cima 

all’altura sovrastante il pianoro 5 sul quale sorgeva la loro 

casa. Solitamente, di lassù si vedevano la casa, il paese 

al di là del vallone, le montagne, i boschi: ora, tutto 

tranne la casa era nascosto da una bruma 6 che s’infittiva 

silenziosamente. Togliendosi il berretto a tergersi la 

fronte sudata, lo zio fece tra i denti: «Boh! Ci si mette 

anche il tempo, adesso, a far mattane! 7 Mai visto un luglio 

simile... Ah, guarda, quella è tua zia che ha acceso 

la lanterna sotto il portico. Ha paura che ci si perda, in 

questa nebbia!». Si vide brillare, davanti alla casa, una 

luce. Lo zio levò la mano e gridò: «Arriviamo!»; poi, rimettendosi 

il berretto e tornando serio: «La caccia è 

4 balza: luogo ripido, scosceso. 

5 pianoro: zona pianeggiante, situata a media altitudine. 

6 bruma: foschia, nebbiolina. 

7 ci si mette... mattane: il tempo è un po’ strano. 

– 111 –

vecchia come l’uomo, Siro, comincia con il ricordare 

questo. E le bestie sono state create per l’uomo. Guarda 

che parlo sul serio. Non mi va che mio nipote abbia 

certe idee. Che abbia lo stomaco delicato. Cosa credi, 

che non abbia visto la tua faccia, l’altro giorno, quando 

abbiamo macellato il capretto? Eri giallo come cera, e 

a momenti vomitavi. Non è vero?». 

Siro ebbe un brivido di raccapriccio al ricordo del 

capretto nero, appeso per le gambe e stillante sangue 

dalla gola. Era stato un tormento, aiutare lo zio. Fu 

con voce malferma che rispose piano e senza convinzione: 

«Ma no...». 

«Ma no, dici tu? Ma sì, dico io. A certe cose, ragazzo, 

va fatta abitudine. È il lavoro, capisci? Siamo contadini, 

non gente di città. Non vorrei che domani tu 

mi piantassi grane anche per accoppare il topo che mi 

ruba il salame!» 

«Oh, questo no, zio!», s’affrettò a dire Siro. Lo zio 

seguitò a camminare nella nebbia senza rispondere. 

«Pietro!» 

Si fermarono al grido. Era zia Lisa che li chiamava 

stando sulla soglia di casa, sotto il porticato di legno. 

Era una donna straordinaria, la zia; era buona, generosa, 

capace di qualsiasi lavoro, e anche di trovare le 

parole giuste per suo nipote. Lei capiva Siro, non lo 

biasimava per la sua avversione 8 alla caccia, per il suo 

tremore davanti al sangue o alla morte; gli diceva sol- 

8 avversione: forte antipatia, ripugnanza. 

– 112 –

tanto, serenamente, che un contadino deve abituarsi 

anche ai lavori ingrati. 

«Lo vedete, il lume?» 

«Certo che lo vediamo! Hai fatto bene a metterlo, 

Lisa.» 

La zia, col suo lungo grembiule azzurro, fece qualche 

passo sul sentiero e disse ad alta voce: «E la caccia, 

come è andata?». 

«Un gran leprone!» 

Pochi minuti e furono alla casa; la zia guardò il ragazzo: 

«Non hai di sicuro sparato tu, eh, Siro?», chiese. 

«No.» 

«No», fece lo zio, «ma la bestia l’ha raccolta lui, ed 

è già qualcosa. Prima o poi, vedi che lo converto». 

Entrando sotto il portico, lo zio disse con orgoglio: 

«Un colpo solo», e trasse dal carniere 9 la lepre mettendola 

sul tavolo, dove la zia l’esaminò ammirata; tolse 

il fucile, poi, e lo posò contro la parete. Fu allora che 

s’udì quel rumore. 

Si volsero, tutti e tre insieme. 

Sulla balza, nella bruma, erano apparsi alcuni uomini 

a cavallo. 

«Chi sono?», chiese in un soffio la zia. 

I cavalieri scendevano senza fretta verso la casa. Lo 

zio piano li contò: «Sei...», fece; guardò di nuovo il fucile: 

«Va bene, vengono qui, e quindi ci diranno che 

cosa vogliono». 

9 carniere: borsa che usano i cacciatori per riporvi la selvaggina. 

– 113 –

Mino Milani 



EAN 978-88-425-4275-9; pagg. 176; € 3,90 







per la 

seconda e la 

terza classe 



Collegamenti interdisciplinari: Geografia (Amazzonia, 

ambiente), Scienze (animali preistorici), Comunicazioni sociali (giornalismo). 

Temi correlati: viaggio, Amazzonia, missione, squadra, stampa, preistoria. 

Un romanzo d’avventura nel quale Mino Milani, uno fra i più affermati autori 

di letteratura giovanile, ha dispiegato tutta la sua abilità, tanto da far scrivere 

a Gianni Rodari: «...lo sa, Milani, di aver scritto un capolavoro?». Protagonista è 

Martin, un intrepido giornalista al quale è stato affidato il compito di scoprire 

un animale misterioso che si nasconde nella giungla amazzonica. Con Martin 

viaggiano il giovane fotografo Deg e il pilota dell’elicottero che li trasporterà al 

centro della foresta, nel Paese delle Grandi Orme. Martin e i suoi compagni 

dovranno vedersela non solo con un mostro preistorico, ma anche con le trame 

oscure di un gangster deciso a eliminare il cronista scomodo. 

Mino Milani è nato a Pavia, dove vive e lavora. Ha cresciuto una generazione di 

giovani lettori collaborando per una ventina d’anni con il «Corriere dei Piccoli» e 

pubblicando numerosi romanzi, editi da Mursia, che hanno riscosso notevole successo. 

Fra questi, la serie legata al mondo medievale e quella delle avventure di 

Tommy River e di Martin Cooper. Grande appassionato di storia, è anche autore 

di saggi, biografie e del romanzo per ragazzi I cavalieri della Tavola rotonda. 


– 115 –


LA PIUMA EL’ARTIGLIO 

L’ufficio del colonnello era al 49° piano, dove non 

giungevano il fragore della metropoli, l’odore d’asfalto, 

il fumo degli scappamenti. Pareva di essere in paradiso, 

lassù. 

L’ascensore si fermò, la porta s’aprì con un ronzio 

sommesso, e camminai senza rumore sul grande tappeto 

dell’anticamera, rivestita da scuri pannelli di 

quercia. Una segretaria mi venne incontro: – Il colonnello 

v’aspetta, signor Cooper, – sussurrò. Le sorrisi, 

e bussai alla grande porta solenne, sulla quale una targa 

d’argento portava inciso: «Colonnello George W. 

Splannerville, Presidente e Direttore». Venne subito 

una voce dura: – Sì, Martin, entra. 

Aprii: – Salve, colonnello – dissi. 

Stava seduto alla sua monumentale scrivania, e 

agitò la destra verso di me: – Vieni dentro, accidenti! 

Quante volte te lo devo dire? – Si volse alla ragazza 

che sedeva compostamente, con la matita e il blocco 

per gli appunti, e: – Basta così, Rosy – fece – e tenete 

bene in mente che non ci sono per nessuno. 

Rosy si alzò, s’avviò in fretta alla porta, rivolgendomi 

un’occhiata smarrita. Le feci un cenno furtivo, come 

per dire che avevo capito. Già. Il colonnello aveva 

– 116 –

qualche grattacapo, quella mattina. Qualche grosso 

grattacapo. 

Stavo per sedermi, come al solito, in una delle 

grandi poltrone di cuoio di fronte alla scrivania, quando 

lui: – No, Martin – brontolò – vieni qui, – e accennò 

ad una sedia proprio alla sua destra. 

Ubbidii, un po’ perplesso: – C’è qualcosa che non 

va, colonnello? – chiesi. Girò su di me gli occhi azzurri 

e freddi: – Perché? 

Scossi il capo: – Nulla. Dicevo così, per dire. 

– Il fatto è – brontolò, togliendo da un cassetto una 

piccola scatola di cartone e posandola sulla scrivania 

– che per voi giornalisti ci deve essere sempre qualcosa 

che non va… – con un gesto meccanico si lisciò i 

bianchi capelli, lunghi e ben ordinati: – Che cosa stai 

facendo in questi giorni, Martin? – domandò poi. Ora 

il suo tono era sommesso e gentile. Sì, il colonnello 

Splannerville aveva qualche grattacapo. Qualcosa di 

speciale. 

– Sto lavorando a quella inchiesta sulla disoccupazione, 

colonnello. 

Corrugò la fronte: – Ah, già. Sì, ricordo. Bene, Martin, 

credo che non dovrai più pensarci. 

Non riuscii a stare seduto: – Cosa? – esclamai, – non 

pensarci più? Ma ci sto lavorando da trenta giorni, colonnello, 

e… 

– Sì, d’accordo, lo so. 

– … e siete stato proprio voi a darmi quell’incarico… 

– Sì, sì. 

– … ho raccolto – continuai – un sacco di materiale, 

ho intervistato il sindaco e il governatore… 

– Basta, Martin! – esclamò lui a questo punto, bat- 

– 117 –

tendo la destra, aperta, sulla scrivania. – Chi dirige 

questo giornale? Tu o io? 

– Questo non c’entra! 

– Rispondimi: chi è il direttore? Tu, o io? 

– Voi – ammisi, ed ero pieno di dispetto 1 – ma… 

– Niente ma! Io, e basta! – Accennò imperiosamente 

alla sedia: – Mettiti quieto – ordinò. 

Sedetti, e stavo per riprendere la mia protesta, 

quando la mano si posò sulla mia spalla: – No, ragazzo, 

no – egli mormorò, e la sua voce mi sorprese, così 

profonda e triste – questa volta ho sul serio bisogno di 

te. E forse non solo come giornalista. È tutta notte che 

penso a… – s’interruppe, e guardò la scatola di cartone. 

Rimase a fissarla accigliato per almeno un minuto; 

poi senza guardarmi riprese: – Martin, hai sentito parlare 

del professor Louis Groster, il direttore del Museo 

di scienze naturali? 

– Quello che è morto quattro giorni fa? 

– Già, proprio lui. 

– Sì, ne ho sentito parlare. Era una vera scienza, 

no? Ah… era vostro amico, colonnello, vero? 

Fece segno di sì: – Louis e io eravamo molto amici, 

anche se non ci vedevamo quasi mai. Di diverso carattere, 

sì, ma amici per la pelle. Era l’ultimo amico che 

mi restava, Martin, – sospirò. 

Dissi: – Siamo tutti amici vostri, in questo giornale. 

Lui sorrise, un po’ amaro: – Naturalmente. Ma con 

Louis, vedi – continuò, come seguendo un ricordo, – 

la faccenda era diversa… avevamo studiato insieme, 

combattuto insieme, sofferto insieme la fame e il fred- 

1 pieno di dispetto: molto irritato. 

– 118 –

do… Insomma – riprese, tornando al tono energico di 

sempre – quel vecchio pazzo mi ha lasciato qualcosa in 

eredità. Voglio dire, – aggiunse subito, – mi ha lasciato 

questa scatola di cartone. Me l’ha portata a casa un fattorino 

del Museo, ieri sera. E – concluse, cupo, – mi ha 

guastato la notte. 

– Be’, colonnello, – mormorai, un po’ scioccamente 

– spero sia piena di bigliettoni. 

Mi guardò senza sorridere: – Louis non aveva il 

becco d’un quattrino – disse, e aprì la scatola: – Ecco. 

Sollevandomi un poco sulla sedia, guardai; poi mi 

feci coraggio e senza nascondere la mia sorpresa chiesi: 

– È tutto? 

Il colonnello annuì nervosamente: – Tutto. 

Trasse dalla scatola la piuma, la scheggia e le due buste, 

e le depose sul nero e lucido cristallo della scrivania. 

Rimase a guardarle pensoso. Io provavo una specie 

di malinconia. E mi domandavo perché diamine il colonnello 

m’avesse chiamato da lui. 

Venne d’un tratto, dall’interfono, 2 la voce un po’ 

esitante di Rosy: 

– Colonnello, c’è una telefonata da Washington 

per voi… 

Splannerville non udì subito e continuò a fissare 

quella roba; ma quando Rosy ripeté: – Una telefonata, 

colonnello – egli girò la testa di scatto, rosso in viso: 

– Ho detto – gridò – che non ci sono per nessuno! 

– Ma, signore, è il ministro del Lavoro – mormorò 

dopo un attimo la voce di Rosy. 

Splannerville batté ancora la destra sulla scriva- 

2 interfono: apparecchio telefonico una volta usato per comunicazioni 

all’interno di uno stesso edificio. 

– 119 –

nia: – Al diavolo il ministro del Lavoro! – tuonò. – Non 

ci sono, capite? Non ci sono! – con un gesto stizzoso abbassò 

la levetta dell’apparecchio, restando poi a guardarlo 

con le mascelle contratte: – Al diavolo! – brontolò; e 

volgendosi verso di me: – Dunque, Martin – riprese, ancora 

tutto tempestoso 3 – cosa mi stavi dicendo? 

Non lo avevo mai veduto così. Dissi: – Dicevo che 

deve essere una cosa molto importante, colonnello, se 

mandate al diavolo il ministro del Lavoro. – Poi accennando 

alla scatola: – Non c’è dentro altro? – domandai. 

– Questo è tutto. Una piuma – sollevò, calmo, la 

piuma grigia – e un artiglio – toccò con l’indice quello 

che, fino ad allora, m’era parsa una lunga scheggia di 

legno. Guardai meglio: sì, era un artiglio, la punta di 

un artiglio crudele. Forse, l’unghia formidabile di una 

tigre… Non seppi perché, ma sentii un vago senso di 

sgomento, che tuttavia passò subito. 

– Immagino che per voi, colonnello, – ripresi – queste 

cose avranno un significato. Sono ricordi dei vecchi 

tempi, forse? 

Splannerville fece lentamente segno di no; prese 

una delle due buste, che era già stata aperta, ne trasse 

un foglio: – Ascolta, Martin – disse guardandomi – senti 

cosa m’ha scritto il povero Louis… La data, vedi, è 

vecchia: un anno fa… Senti. 

«Caro George – cominciò a leggere – forse ti parrà strano 

che io faccia testamento, non sono ricco, e non lo sono 

mai stato. Tu certo ricorderai…» – a questo punto il colonnello 

s’interruppe: – Posso anche saltare queste righe, 

Martin… Louis parla della nostra vecchia amicizia… 

3 stizzoso… tempestoso: scocciato, molto arrabbiato per l’interruzione. 

– 120 –

Mino Milani 



EAN 978-88-425-4362-6; pagg. 160; € 3,90 


CON ESERCIZI 

– 122 – 

per la 

seconda e la 

terza classe 



Collegamenti interdisciplinari: Geografia (Amazzonia, ambiente), Scienze 

(animali preistorici), Comunicazioni sociali (giornalismo). 

Temi correlati: viaggio, Amazzonia, missione, squadra, stampa, preistoria. 

Grazie a un’attenta rielaborazione del testo anche gli studenti non italofoni 

o con difficoltà possono vivere le avventure di Martin e dei suoi sodali 

raccontate dal grande Mino Milani. L’adattamento è a cura di Marina Forenza 

Erriquez, esperta insegnante di lingue straniere e autrice di un innovativo 

metodo di insegnamento dell’italiano L2.


LA PIUMA EL’ARTIGLIO 

Nel suo grande e luminoso ufficio, su in alto 

in un grattacielo, il colonnello George 

Splannerville, presidente e direttore di un 

famoso giornale, sembra un leone in gabbia. 

Aspetta con ansia l’arrivo di un suo 

giornalista. 

Appena Martin esce dall’ascensore, una 

segretaria gli dice: – Presto, presto, signor 

Cooper. Il direttore l’aspetta. Oggi ha un 

diavolo per capello. 

Appena dentro l’ufficio, il colonnello 

invita il giovane giornalista a sedersi e, dal 

– 123 –

tono della voce, si nota che ha qualche 

grosso grattacapo. Da un cassetto della 

scrivania prende una scatola di cartone. 

– Questa me l’ha mandata un mio carissimo 

amico di vecchia data, uno scienziato 

che è morto qualche giorno fa. È la sua 

eredità –, dice il direttore. 

– Allora, forse è piena di soldi –, esclama 

Martin Cooper, con tono allegro. 

– Altro che soldi! Il mio amico non aveva 

il becco di un quattrino; è una bella gatta 

da pelare –, risponde il direttore, – guarda 

cosa c’è dentro – e apre la scatola. 

Martin si alza lentamente, guarda e vede 

una piuma, un’unghia di un grosso 

animale e due buste. Una busta è già 

aperta. 

– Ho letto la prima lettera – spiega il direttore, 

– nella quale il mio carissimo e de- 

– 124 –

funto amico mi dice che questi due misteriosi 

oggetti sono i risultati di molti suoi 

anni di ricerche. Lui mi chiede di continuare 

il suo lavoro e, se io accetto, posso 

aprire l’altra lettera altrimenti pos-so buttare 

via tutto. Tu cosa ne pensi Mar-tin?, – 

chiede il direttore. 

Tutti i giornalisti sono curiosi, e così, i 

due decidono di aprire anche l’altra busta. 

Il direttore legge lentamente: «La piuma 

è certamente vecchia di quarantacinque o 

cinquanta anni, al massimo, e lo stesso si 

può dire della grossa unghia. Io sono certo 

che appartengono allo stesso animale: un 

Onactornis. Io ho avuto questi due oggetti 

durante una mia spedizione al Rio delle 

Amazzoni. La piuma e la grossa unghia appartenevano 

ad un abitante del Paese delle 

Grandi Orme. Ho studiato per anni per cercare 

di scoprire dove si trova questo paese e 

sono quasi certo che è nell’Alta Amazzonia. 

Ed è lì che vive ancora oggi o viveva fino a 

– 125 –

cinquanta anni fa un esemplare di Onactornis. 

Io sono vecchio, povero ed ammalato e 

non posso andare avanti nelle ricerche quindi, 

adesso tocca a te, caro amico», il direttore 

conclude la sua lettura. 

– Onactornis? Cos’è un Onactornis? –, 

esclama Martin deluso. La sua curiosità è 

svanita come una bolla di sapone. 

Il direttore fa cercare dalla segretaria la 

parola «Onactornis» nell’enciclopedia e, 

dopo qualche minuto, la segretaria legge: 

«Tipo di uccello carnivoro, non volatile, 

sparito moltissimi secoli fa prima ancora 

della nascita dei mammiferi». 

– E, adesso, cosa ne pensi? –, chiede il 

direttore a Martin. 

– 126 –

Questionario 

Rispondere alle domande: 

1 Cosa c’è nella scatola che il direttore 

prende da un cassetto della scrivania? 

2 Perché il direttore ha aperto solo una 

busta e letto solo una lettera? 

3 Secondo gli studi dello scienziato, 

quanti anni hanno la piuma e l’artiglio? 

4 Secondo l’enciclopedia, da quanti anni 

è sparito l’Onactornis? 

5 Che cosa ha cercato di scoprire per molti 

anni lo scienziato, prima di morire? 

6 Che cosa chiede lo scienziato al suo carissimo 

amico giornalista? 

7 Perché lo scienziato non continua lui 

stesso le ricerche? 

– 127 –


Scegliere la risposta corretta. 

Se tu «sembri un leone in gabbia» significa 

che: 

– stai giocando a imitare 

un leone nello zoo 

– ti stai comportando in modo 

agitato e nervoso 

Se «hai una gatta da pelare»: 

– ti è stato dato un grosso 

problema da risolvere 

– devi portare il tuo gatto 

malato dal veterinario 

Vero o falso 

– 128 – 

V F 

Quando Martin arriva in ufficio, 

il direttore è calmo e tranquillo.

– 129 – 

V F 

Nella scatola ci sono 

due buste aperte. 

Dopo la lettura della seconda 

lettera, Martin è molto deluso. 

L’Onactornis è un mammifero 

vissuto molti secoli fa. 

L’Onactornis è un uccello 

carnivoro. 

Lessico 

Trovare il significato dei vocaboli 

(usare il dizionario): 

Defunto 

Volatile 

Deluso 

Scettico 

Carnivoro


Abbinare i termini in «A» 


A B 

1 Avere un diavolo a Sparire 

per capello nel nulla 

2 Amico di vecchia b Essere 

data estremamente 

povero 

3 Svanire come una c Essere 

bolla di sapone fortemente 

arrabbiato 

4 Non avere il becco d Una 

di un quattrino conoscenza 

di molti anni 

– 130 –

Flavio Pagano 


saracena 

EAN 978-88-425-4273-5; pagg. 152; € 3,90 







per la seconda 

classe 

Indicazioni di lettura: II classe. 

Genere: ecologico. 

Collegamenti interdisciplinari: Geografia (litorale tirrenico), Storia (vicende 

medioevali e contemporanee), Scienze (conservazione ambientale), Educazione 

alla cittadinanza (conservazione del patrimonio storico-archeologico). 

Temi correlati: amore e rispetto per la natura, educazione ambientale, educazione 

alla cittadinanza, storia, avventura, boy scout. 

Cinque ragazzi pronti a tutto per difendere dalla speculazione edilizia un’antica 

torre saracena dove si ritrovano per parlare e giocare. Li guida il leggendario fondatore 

dei boy scout: il colonnello Baden-Powell. Uno dei cinque ha appreso 

la sua storia leggendo casualmente un libro; da quel momento ne è rimasto 

affascinato a tal punto da credere di incontrarlo in carne e ossa. Grazie alle immaginarie 

«direttive» del colonnello, ma soprattutto grazie alla loro determinazione 

e alla loro intraprendenza, i ragazzi riusciranno non solo a scongiurare la 

distruzione della torre, ma a favorire l’istituzione di un parco archeologico. 

Flavio Pagano è scrittore, giornalista e autore televisivo. Dal suo primo romanzo, 

Monologo per editore... è stato tratto uno spettacolo teatrale. Tra i suoi libri, 

Quelli che il rugby (2005), La finestra sul porcile (2006), Scacco al maratoneta 

(2008). 


– 132 –


IL LIBRO MISTERIOSO 

Con i gomiti poggiati sul davanzale e il viso tra le mani, 

Pillo contemplava l’antica torre saracena in cima 

alla collina. 

Era molto tardi, ma non aveva voglia di dormire. 

Anzi, si sentiva inquieto. L’unica cosa che desiderava 

era che l’inverno passasse in fretta, che la scuola finisse, 

e che tornasse finalmente l’estate per poter andare 

su alla torre a giocare insieme ai suoi amici. 

Per arrivarci bisognava percorrere un ripido sentiero, 

che si snodava attraverso un castagneto. Giunti 

alla sommità del colle, il bosco terminava e si apriva – 

simile a una rotondeggiante chiazza di calvizie sulla testa 

del monte – un’ampia radura 1 dal bel tappeto erboso, 

morbido e fitto come quello di un pascolo, in 

fondo al quale, a strapiombo sul mare, si ergeva solitaria 

la torre. 

E da quella posizione, come da una suggestiva terrazza 

naturale, si godeva un paesaggio magnifico. Lungo 

il litorale correva la linea mutevole delle scogliere, 

sulle quali andavano a infrangersi le creste spumose 

delle onde, e qua e là si aprivano piccole baie, molte 

1 radura: una parte di bosco senza alberi. 

– 133 –

delle quali erano raggiungibili soltanto dal mare. Un 

minuscolo arcipelago di isolotti punteggiava lo specchio 

azzurro del Tirreno che si allungava a perdita 

d’occhio, fino a incontrarsi col cielo lungo la linea dell’orizzonte. 

Sullo sfondo scorrevano lente le sagome 

delle navi, in viaggio verso porti lontani. 

Eppure tutto questo non era nulla in confronto a 

ciò che Pillo e i suoi compagni potevano vedere dalla 

loro torre. Bastava entrare tra le sue pareti mezzo diroccate, 

per sentirsi sfiorati dal profumo avventuroso 

d’antichi misteri. Bastava affacciarsi un istante dalla 

piccola feritoia, perché di colpo, come per incanto, il 

paesaggio si popolasse di visioni fantastiche: velieri 

che solcavano le acque battendo la bandiera dei pirati, 

isole sconosciute, branchi di delfini che guizzavano 

veloci tra le onde come inafferrabili ombre d’argento, 

spruzzi altissimi di balene gigantesche, bizzarri mostri 

con ali e pinne, creature favolose capaci di assumere 

le sembianze più diverse… 

Generazioni e generazioni di ragazzi avevano sognato 

all’ombra di quella torre. Là si erano intraprese 

innumerevoli avventure, erano nate amicizie, sbocciati 

amori. Ma la torre non rivelava mai del tutto i suoi 

segreti. Metà li conosceva il Sole, l’altra metà la Luna. 

E per una storia che il vento raccontava fischiando tra 

le pietre, mille se le portava via in silenzio, e volava a 

nasconderle nel bosco. 

Si diceva che la torre non sarebbe mai potuta cadere, 

che niente e nessuno avrebbe potuto abbatterla, 

perché le sue radici erano i sogni. Radici salde, che 

non affondavano nel terreno, ma nel cuore di chi l’amava. 

– 134 –

Ed era lì che Pillo e i suoi compagni avevano scoperto 

le meraviglie della fantasia. La radura era il loro 

regno segreto, e l’antica torre saracena ne era il simbolo 

indiscusso. 

Così, in quella fredda sera d’inverno, Pillo si era alzato 

dal letto ed era andato alla finestra per guardare 

la sua amica di pietra, sempre di guardia in cima alla 

collina. Ma, per il momento, di andar lassù a giocare 

non se ne parlava neanche. L’inverno era molto rigido 

quell’anno, ed era pericoloso avventurarsi sulla collina 

con quel freddo. 

Pillo non sapeva che cosa fare. Non aveva sonno e 

non gli piaceva per niente l’idea di dover tornare a 

letto. 

Giocare un po’ con la Playstation? No, non gli andava. 

Il microscopio, magari, dal momento che aveva 

raccolto delle foglie secche in giardino proprio per poterle 

mettere sul vetrino e guardare per bene com’erano 

fatte… Ma no, nemmeno di questo aveva voglia. 

“Che cosa fa uno quando è notte, se non ha sonno, 

né voglia di far nulla?”, si domandò grattandosi la testa. 

Era un bel problema. Comunque l’indomani si sarebbe 

dovuto alzare presto, e la cosa migliore – sonno 

o non sonno – era cercare di dormire. 

Richiuse le imposte della finestra e, sbadigliando, fece 

per tornarsene a letto. In effetti il suo non fu uno sbadiglio 

qualunque, di quelli che si fanno quando il nonno ci 

racconta una bella storia che però abbiamo sentito già 

due o trecento volte, o quando la mamma viene a svegliarci 

la domenica mattina più presto del solito perché 

si deve partire per una gita fuori città, oppure uno sbadiglio 

di quel li che si fanno un po’ in segreto, a capo chi- 

– 135 –

no, coprendo bene la bocca con la mano, quando a scuola 

dopo l’intervallo riprende la lezione. 

Il suo fu lo sbadiglio delle grandi occasioni, degno 

di un leone. Chiuse gli occhi, stiracchiò le braccia e 

spalancò talmente la bocca che ci si sarebbe potuto infilare 

una mela intera! Ma, inavvertitamente, mentre 

camminando si stiracchiava tutto e soffiava via la sua 

tremenda noia, Pillo mise un piede sullo skateboard e 

partì a razzo. Subito spalancò gli occhi e, incredulo, 

ebbe la sensazione che la parete di fronte gli venisse 

incontro a tutta velocità: “La casa si muove!”, pensò. 

Ma non era così. La casa non si muoveva affatto. Era 

lui che stava attraversando la sua camera da letto come 

un bolide! 

«Oooh!», gemette e cercò di fare una curva micidiale 

2 per deviare la corsa del pattino e frenare. Pillo 

era un ragazzino non molto alto, magrolino, ma agilissimo, 

e i suoi riflessi erano pronti come quelli di un 

gatto. La manovra, tuttavia, malgrado la sua proverbiale 

abilità in fatto di skateboard, e malgrado la destrezza 

con cui effettivamente aveva dato il colpo 

d’anca, riuscì solo a metà. Invece che andare a sbattere 

contro la parete nuda, centrò in pieno la libreria, un 

po’ più a sinistra. Un bel rumore sordo e compatto annunciò 

che era giunto a destinazione. 

«Accidenti che botta!», esclamò toccandosi dolorante 

il gomito. Ma, mentre pronunciava questa frase, qualcosa 

lo colpì sulla testa e subito dopo cadde a terra. 

Pillo rimase un istante in silenzio, per capire se 

quei rumori avessero svegliato sua madre. Niente, per 

2 micidiale: pericolosa, quasi impossibile. 

– 136 –

fortuna non si era accorta di nulla. Altrimenti va’ a 

spiegare a una mamma che ti trovavi per caso sullo 

skateboard in piena notte e non hai colpa di nulla! 

Risolto questo particolare essenziale, Pillo fissò indispettito 

il libro che aveva osato piovergli in testa dallo 

scaffale più alto, quindi si chinò a raccoglierlo. 

“E questo da dove salta fuori?”, si chiese mentre 

leggeva il titolo: I ragazzi di Mafeking. 

Lo rigirò tra le mani sorpreso. Che strano: avrebbe 

giurato di non averlo mai visto prima. 

“Forse la botta mi ha confuso le idee…”, pensò. 

Saltò a piè pari su uno sgabello e lo ripose sullo scaffale. 

Ma appena ebbe posato i piedi scalzi sul pavimento 

non fece in tempo a voltare le spalle, che 

nuovamente il libro gli cadde in testa. 

«Ehi», disse Pillo, stringendolo tra le mani, «ma ce 

l’hai con me? Non va neanche a te di dormire, stanotte?». 

Non aveva nessuna simpatia per quel libro che aveva 

osato colpirlo a tradimento ben due volte: «Non so 

come sei finito nella mia libreria, ma domani ti porterò 

in biblioteca!». 

In quell’istante si sentì il fragore di un tuono, così 

forte che la finestra si spalancò. Pillo saltò per lo spavento. 

«Sai che cosa faccio? Dal momento che la finestra si 

è aperta, ti butto via! Secondo me porti sfortuna!», disse 

arrabbiato. E senza porre tempo in mezzo lo scaraventò 

via. Volteggiando nell’aria, il libro si aprì in un 

frusciante sventolio di pagine. Sembrava un uccello che 

avesse spiegato cento ali. Pillo si avvicinò alla finestra, 

ma appena allargò le braccia per richiudere i battenti, 

– 137 –

una gagliarda folata di vento lo ricacciò indietro, centrandolo 

in pieno. Il libro, manco a dirlo, gli finì giusto 

in testa, con la differenza che questa volta non cadde a 

terra ma, essendosi aperto esattamente a metà, gli rimase 

in equilibrio sul capo. Sembrava che Pillo avesse sulla 

testa una specie di piccolo tetto spiovente. 

«Non ne posso più!», esclamò, afferrando il libro 

rabbiosamente. Aveva voglia di prenderlo a morsi. E 

stava quasi per farlo, quando l’occhio gli cadde su una 

fotografia che occupava tutta la pagina destra. Pillo 

passò il libro in una mano sola, tenendo il segno con 

l’indice infilato tra le pagine. Con l’altra chiuse i battenti 

della finestra e si assicurò che questa volta fossero serrati 

a dovere. Quindi, riprese a esaminare la fotografia. 

Si vedeva subito che era molto vecchia, prima di tutto 

perché era in bianco e nero, e poi perché l’immagine 

era un po’ sbiadita. Ritraeva un baffuto signore in divisa, 

con accanto un gruppo di ragazzi, anch’essi in divisa. 

Portavano tutti un bel cappello dalla tesa 3 rotonda 

e avevano un fazzoletto annodato intorno al collo. Uno 

di loro reggeva impettito la bandiera, che nel centro recava 

un giglio. Stavano l’uno accanto all’altro, con le 

braccia conserte, nella posa che di solito assumono i 

giocatori quando si fa la foto di una squadra. 

In basso c’era una didascalia: Lord Robert Stephenson 

Smyth Baden-Powell (1857-1941) e i suoi eroici ragazzi 

di Mafeking. 

Nella pagina a fronte, riquadrata da un’elegante 

cornice d’inchiostro, c’era invece una breve nota sul 

misterioso personaggio. 

3 tesa: la parte del cappello che sporge. 

– 138 –

Lord Robert Stephenson Smyth eccetera, eccetera…. 

“E chi sarà mai?”, pensò. 

La pioggia cominciò a ticchettare sui vetri. Quasi 

senza rendersene conto, Pillo – tutto infreddolito – 

s’era andato a infilare sotto le coperte, aveva acceso la 

luce sul comodino e, senza più chiedersi da dove fosse 

spuntato quel libro, aveva iniziato a leggerlo. 

La breve nota biografica, diceva più o meno così: 

Robert Stephenson Smyth Baden-Powell nacque a 

Londra, il 22 febbraio 1857. Fin da piccolo, Robert amò 

vivere all’aria aperta, rivelando subito una grande capacità 

di esploratore. Nessuno era bravo come lui a riconoscere 

le tracce degli animali selvatici, a orientarsi nei 

boschi, a costruire un riparo. Non fu uno studente brillante, 

ma era un ragazzo eclettico. 4 A 19 anni, entrò nell’esercito 

e venne mandato in India. Da quel momento, 

non smise più di viaggiare, vivendo un’avventura dopo 

l’altra. Trasferito in Africa, si guadagnò la stima degli 

stessi indigeni, che ammiravano il suo coraggio e la sua 

eccezionale bravura di esploratore. Baden-Powell era 

sempre pronto per regalare i proprio entusiasmo a nuove 

esperienze e non si annoiava mai. Infatti, diceva sempre 

ai suoi soldati: «Quando vi annoiate, non vuol dire 

che intorno a voi non c’è nulla d’interessante, ma soltanto 

che siete voi a non guardare bene!». 

Per la sua straordinaria resistenza, gli indigeni gli 

diedero il soprannome di Impeesa, che nella loro lingua 

voleva dire «il lupo che non dorme mai»… 

4 ragazzo eclettico: un ragazzo dai diversi interessi. 

– 139 –

Pillo fu molto colpito da queste parole. 

Il lupo che non dorme mai… Pensò: “Accidenti! 

Ma vuoi vedere che Impeesa aveva ragione? Forse anche 

a me capita di annoiarmi solo perché non so guardare 

bene intorno a me: in effetti non mi ero neanche 

accorto di avere questo libro!”. 

Quando Baden-Powell era ormai divenuto colonnello, 

scoppiò una guerra. A lui venne assegnato il compito 

di difendere Mafeking, una cittadina nel cuore del Sud 

Africa. Era la svolta della sua vita. La svolta che avrebbe 

reso il suo nome leggendario, legandolo per sempre alla 

nascita del glorioso movimento dei boy scout. 

La pioggia veniva giù sempre più forte, e Pillo, circondato 

dal piacevole tepore del suo letto, invece che 

nel sonno, s’era ormai sprofondato nella lettura… 

I RAGAZZI DI MAFEKING 

Correva l’anno 1899 e nella punta estrema dell’Africa 

meridionale infuriava la guerra tra inglesi e boeri, discendenti 

degli antichi coloni olandesi. La città, che si 

chiamava Mafeking, sorgeva in un altopiano desolato 

e pietroso, che nella lingua locale veniva chiamato «il 

luogo delle pietre», ma la sua era una posizione strategica, 

tanto che gli indigeni erano soliti dire: «Chi ha 

Mafeking, ha il Sud Africa!». 

Grazie alle inesauribili trovate del colonnello Baden-Powell, 

che con ogni genere di stratagemmi con- 

– 140 –

tinuava a ingannare il nemico, la città resisteva da sette 

mesi. 

Le forze di cui il colonnello Baden-Powell disponeva 

erano molto inferiori in confronto a quelle degli 

avversari, e per questo egli ebbe l’idea di utilizzare come 

portaordini dei semplici ragazzi. 

Quella sera il fronte taceva, ma Baden-Powell era inquieto. 

La sua lunga esperienza di esploratore aveva 

sviluppato in lui delle straordinarie qualità sensitive, 5 simili 

a quelle degli animali, ed egli avvertiva nell’aria 

qualcosa di strano. Stringendo in mano la sua inseparabile 

pipa, passeggiava avanti e indietro davanti al quartier 

generale seguìto da un’evanescente 6 scia di fumo. 

Di solito nell’oscurità si sentiva risuonare il verso 

di una iena, simile a un’orribile risata, o il ruggito dei 

leoni che si azzuffavano per la carcassa di un animale 

catturato, così possente da far tremare le pareti stesse 

della notte. Quella sera invece non si udiva un rumore. 

Tutto era immobile, come assopito in un sonno 

profondo. Negli ultimi giorni i nemici si erano fatti 

meno aggressivi, ma era proprio questo che impensieriva 

il colonnello. Temeva che quella calma fosse soltanto 

apparente e che essi stessero raccogliendo tutte 

le forze per piegare la resistenza della città con un ultimo, 

terribile attacco. 

Ogni tanto il colonnello alzava gli occhi verso l’immensa 

volta 7 della notte africana punteggiata di stelle, 

attorcigliando tra le dita la punta di un baffo. 

5 qualità sensitive: capacità molto raffinate di sentire, di accorgersi subito 

di quello che succede intorno a sé. 

6 evanescente: che sparisce velocemente. 

7 l’immensa volta: il cielo. 

– 141 –

John e Koele, uno inglese l’altro indigeno, due dei 

ragazzi che il colonnello aveva arruolato come portaordini, 

lo guardavano attentamente, alla luce giallognola 

della lampada da campo che stava appesa a una 

trave, all’ingresso del quartier generale. 

«C’è qualcosa nell’aria stasera…», disse ad un tratto 

il colonnello Baden-Powell sottovoce, «qualcosa 

che non promette niente di buono». 

In quel momento un’improvvisa folata di vento fece 

oscillare la lampada, e l’ombra del colonnello si 

agitò inquieta sul terreno, come fosse il riflesso della 

sua anima tormentata dai dubbi. 

«Non so perché», continuò il colonnello, «ma sono 

convinto che stanotte accadrà qualcosa. Credo che i nostri 

avversari stiano preparando l’assalto decisivo». 

«Noi siamo pronti!», dissero subito John e Koele, 

scattando sull’attenti. 

«Lo so, lo so», rispose con tono paterno il colonnello, 

«ma frenate il vostro entusiasmo, ragazzi miei. 

Non ho ancora le idee del tutto chiare su quale possa 

essere la mossa del nemico. Fino a questo momento 

siamo riusciti a fermarli, ma ormai devono aver capito 

che siamo ridotti allo stremo». 8 

«Attacchino pure ancora una volta», esclamò fieramente 

Koele, «ancora una volta saranno respinti. 

8 ridotti allo stremo: sfiniti, privi di forze. 

– 142 –

Flavio Pagano 


saracena 

EAN 978-88-425-4280-3; pagg. 72; € 3,90 


CON ESERCIZI 

– 144 – 


classe 


Genere: ecologico. 

Collegamenti interdisciplinari: Geografia (litorale tirrenico), Storia (vicende 

medioevali e contemporanee), Scienze (conservazione ambientale), Educazione 

alla cittadinanza (conservazione del patrimonio storico-archeologico). 

Temi correlati: amore e rispetto per la natura, educazione ambientale, educazione 

alla cittadinanza, storia, avventura, boy scout. 

La rielaborazione del romanzo in versione facilitata semplifica la struttura narrativa 

e il lessico in modo da far comprendere anche ad alunni non italofoni 

con scarsa conoscenza della lingua o con difficoltà la trama avventurosa e i 

temi ambientali. Ogni capitolo è seguito da un questionario per verificare la 

comprensione del testo. L’adattamento è a cura di Marina Forenza Erriquez, 

esperta insegnante di lingue straniere e autrice di un innovativo metodo di 

insegnamento dell’italiano L2.


IL LIBRO MISTERIOSO 

È una gelida notte d’inverno: piove a dirotto e 

il vento infuria scuotendo gli alberi come fuscelli. 

Anche se è notte fonda, al caldo nella 

sua cameretta, Pillo non riesce a dormire. Con 

i gomiti ap pog giati sul davanzale della finestra, 

il ragazzo guarda fuori verso la collina anti - 

stante. Sulla cima c’è un’antica e diroccata torre 

saracena. In estate, Pillo e i suoi amici vanno 

lì a giocare e a sognare tante avventure. 

Pillo non sa cosa fare e si annoia. Alla fine, 

decide di tornare a letto ma mette un piede 

sullo skateboard e va a sbattere contro la libreria. 

– 145 –

– Accidenti che botta! – esclama Pillo 

mentre gli piove in testa un libro: I ragazzi 

di Mafeking. Il ragazzo lo rimette a posto 

ma il libro cade di nuovo sulla sua testa. 

Infastidito, Pillo apre la finestra e cerca 

di lanciare il libro fuori ma il vento lo ributta 

dentro. 

Adesso Pillo è veramente irritato ma lo 

sguardo gli cade su una foto nel libro: ci sono 

un uomo in divisa e un gruppo di ragazzi 

anche loro in divisa. Sotto la foto, una scritta: 

Lord Robert Stephenson Smyth Baden- 

Powell e i suoi eroici ragazzi di Ma-feking. Incuriosito, 

Pillo si mette a letto e comincia a 

leggere: 

Baden-Powell era un giovane inglese con 

la passione di esplorare sempre luoghi nuovi 

e con l’amore per le bellezze della natura. 

Era un ragazzo pieno di entusiasmo che cercava 

sempre nuove avventure e di aiutare 

gli altri. Da grande, Baden-Powell entra nel- 

– 146 –

l’esercito e diventa generale. Quando scoppia 

una guerra nel Sud Africa, gli assegnano 

il compito di difendere una piccola città: Mafeking. 

Anche se ha pochi uomini, il generale 

con le sue tante idee riesce a difendere 

bene la sua città per un lungo tempo anche 

perché usa dei semplici ma valorosi ragazzi 

che portano i suoi ordini ai soldati. Durante 

un attacco, mentre aspettano l’arrivo di altri 

soldati per dar loro man forte, molti di questi 

ragazzi combattono valorosamente e 

molti muoiono. Baden-Powell, molto addolorato, 

decide di non fare più morire altri ragazzi 

e di creare dopo la guerra un gruppo di 

giovani per insegnare loro ad amare la natura, 

a vivere con entusiasmo la loro vita con 

solidarietà verso gli altri. Nascono così i boyscout 

che presto diventano molto numerosi 

in tutto il mondo. Fino alla fine dei suoi 

giorni, Baden-Powell si dedica con amore ed 

entusiasmo ad aiutare gli altri. 

Pillo si accorge di aver letto il libro tutto 

d’un fiato. 

– 147 –

«Che ragazzi valorosi – pensa Pillo – altro 

che star senza far niente ad annoiarsi. 

Anch’io voglio cercare di fare cose interessanti» 

e, finalmente, si addormenta. 

Questionario 

1 Che cosa guarda Pillo dalla sua finestra? 

2 Perché il libro cade sulla testa di Pillo? 

3 Che cosa amava fare da giovane Baden- 

Powell? 

4 Che cos’è e dove si trova Mafeking? 

5 Che cosa decide di fare Baden-Powell 

alla fine della guerra? 

6 Come usa Baden-Powell i ragazzi durante 

la difesa di Mafeking? 

7 Dopo aver letto il libro, cosa dice Pillo 

a se stesso? 

8 Chi ha creato i boyscout? 

– 148 –

Lessico 

Cercare sul dizionario bilingue 

queste parole: 

Infuriare 

Antistante 

Diroccato 

Infastidito 

Irritato 

Vero o falso? 

– 149 – 

V F 

Sono le 9 di sera e Pillo 

non riesce a dormire. 

Pillo mette un piede 

sullo skateboard e sbatte 

contro la libreria.

– 150 – 

V F 

Pillo prende un libro 

dalla libreria per leggerlo. 

È una calda e serena notte 

di primavera. 

Baden-Powell è l’ideatore 

dei boyscout. 

Pillo si siede in poltrona 

e comincia a leggere il libro. 


Scegliere la risposta corretta. 

Se «da grande» vuoi fare qualcosa: 

– lo vuoi fare subito 

– lo vuoi fare quando avrai più anni

Se ti «assegnano un compito» ti dicono: 

– di scrivere una lettera 

– di fare una determinata cosa 

Se ti «danno man forte»: 

– ti danno una forte stretta di mano 

– ti danno un grande aiuto 

Se una persona è «in gamba» significa che: 

– ha le gambe molto lunghe 

– è molto brava 

Analisi del testo 

Sostituire le frasi sottolineate 

con i termini usati nella storia. 

1. È una notte d’inverno e fuori cade tantissima 

pioggia. 

– 151 –

2. Sono le tre del mattino ma Pillo non riesce 

a dormire. 

3. Pillo sbatte contro la libreria e un libro 

cade e lo colpisce in testa. 

4. Pillo si accorge di aver letto il libro senza 

fermarsi mai. 

5. Pillo osserva per caso una foto sul libro. 

– 152 –

Paolo Roversi 


non piangono 

EAN 978-88-425-4190-5; pagg. 176; € 3,90 







per la 

seconda e la 

terza classe 


Genere: giallo. 

Collegamenti interdisciplinari: Comunicazioni sociali (giornalismo), 

nuovi media e tecnologie. 

Temi correlati: informatica, linguaggi settoriali. 

Un giallo investigativo, senza episodi drammatici e cruenti, che avvince, diverte 

e attiva osservazione e deduzioni logiche. Nato dalla penna di uno 

dei più promettenti giallisti italiani, ha per protagonista il giornalista Enrico 

Radeschi alle prese con un’indagine che lo porta in contatto con due ragazzi 

di dodici anni. Saranno proprio i suoi due giovani collaboratori occasionali 

a guidarlo nella scoperta del colpevole di una rapina. Questo giallo 

ha il pregio di intercettare la fantasia e la curiosità grazie a un linguaggio e 

a uno schema narrativo che utilizza codici di comunicazione usuali ai giovani 

lettori. 

Paolo Roversi è nato a Suzzara (Mantova) e vive a Milano. Definito dalla 

critica il golden boy del giallo italiano, ha pubblicato diversi romanzi con 

protagonista il giornalista hacker Enrico Radeschi. 


– 154 –

I 

Il Giallone non ne voleva sapere di partire. 

Enrico Radeschi stava perdendoci la mattina 

spingendo disperatamente sul pedale nel vano 

tentativo di mettere in moto la sua Vespa 50, 

immatricolata nell’anno 1974. Un vero pezzo 

da museo, ma bellissima. Lui l’aveva riverniciata 

a bomboletta tutta gialla; per questo i suoi 

amici l’avevano ribattezzata il Giallone. 

Il problema era che il vecchio cuore meccanico 

della Vespa almeno una volta a settimana 

lo lasciava a piedi. Specialmente quando pioveva; 

lui con la manutenzione non ci sapeva 

proprio fare. 

La notte precedente un nubifragio si era 

abbattuto su Milano proprio mentre stava 

tornando a casa dopo una cena con amici e la 

Vespa si era spenta irrimediabilmente. 

Il mattino successivo era ritornato per recuperarla, 

ma il miracolo non si era prodotto: il 

– 155 –

Giallone non si metteva in moto. E lui era già 

in ritardissimo. 

Doveva correre per un servizio dall’altra 

parte della città. Faceva il giornalista free lance 

per il «Corriere della Sera». Era pagato a cottimo, 

ossia gli davano un tanto per ogni articolo. 

Più ne scriveva, più guadagnava. Se non ne 

scriveva non mangiavano né lui né il suo cagnolone 

Buk, un labrador con gli occhioni 

buoni identico a quello della pubblicità della 

carta igienica. 

La notte precedente, Radeschi, fradicio di 

pioggia, aveva abbandonato la Vespa in quella 

strada ed era tornato a casa con la metro. 

Ora splendeva il sole, ma il Giallone invece 

di mettersi in moto emetteva soltanto un sinistro 

cigolio. 

I tentativi durarono a lungo. Il giornalista 

pigiava sul pedale con tutte le proprie forze, 

ma non accadeva nulla. 

Diego, uno studente della scuola media situata 

proprio lì di fronte, assistette divertito 

alla scena. 

«È evidente che il problema è la candela», 

pensò. 

– 156 –

Dopo una decina di minuti, attraversò la 

strada, impietosito da quel tipo sui trent’anni 

vestito come Dylan Dog che portava pure un 

paio d’occhiali con la montatura nera anni 

Cinquanta. 

«Antico!» 

Gli si avvicinò con lo zainetto sulle spalle e 

le cuffie dell’iPod ficcate nelle orecchie. 

«È sicuramente la candela», gli disse. 

Radeschi posò lo sguardo su di lui. 

«Davvero?», fece poco convinto. «E tu che 

ne sai?» 

«Io ne capisco di motori. Mio padre mi ha 

insegnato un sacco di cose e su Internet ho 

imparato il resto.» 

Indicò il Giallone e proseguì: «Te lo smonto 

e rimonto a occhi chiusi se vuoi». 

Radeschi sorrise allargando le braccia. 

«No, guarda, basta che me lo fai ripartire. 

Se ce la fai ci sono dieci euro per te.» 

Diego si arrotolò le maniche del giubbotto. 

«Avessi io una Vespa come questa la terrei 

meglio», aggiunse sollevando la sella. 

Radeschi scrollò le spalle e si mise a trafficare 

col cellulare. Spedì un paio di sms e consultò 

– 157 –

la posta elettronica. Poi si mise a osservare Diego 

mentre svitava la candela e l’asciugava con 

uno straccio recuperato sotto alla sella insieme 

alla chiave. Strumento di cui il giornalista ignorava 

l’esistenza e che non pensava nemmeno di 

possedere. 

«Ci sa fare questo ragazzino!», ammise fra sé 

e sé. 

Doveva avere dodici anni o giù di lì, i capelli 

castani tirati in su col gel, gli occhi scuri mobilissimi, 

le unghie mangiate fino alla radice, il 

sorriso furbetto. Vestito con un paio di jeans 

troppo larghi da rapper, da cui spuntava l’elastico 

delle mutande, la camicia fuori e un 

giubbetto beige con le maniche arrotolate. 

«Ecco fatto», annunciò Diego pulendosi le 

mani con lo straccio. 

Premette il pedale e il Giallone si mise subito 

in moto. 

Ran-tan-tan-tan-tan. Ran-tan-tan-tan-tan. 

«Che dolce rumore!» 

Radeschi sorrise soddisfatto. Stava proprio 

per complimentarsi col ragazzo quando l’attenzione 

di entrambi venne attirata da qualcosa che 

stava accadendo sul lato opposto della strada... 

– 158 –

Paolo Roversi 


non piangono 

EAN 978-88-425-4378-7; pagg. 128 € 3,90 


CON ESERCIZI 

– 160 – 

per la 

seconda e la 

terza classe 


Genere: giallo. 

Collegamenti interdisciplinari: Comunicazioni sociali (giornalismo), 

nuovi media e tecnologie. 

Temi correlati: informatica, linguaggi settoriali. 

L’ambientazione metropolitana, il linguaggio giovanile, la trama avvincente 

sono elementi che, uniti a una elaborazione facilitata del lessico e della 

sintassi, fanno di questo romanzo un ottimo strumento per avvicinare alla 

lettura anche gli alunni non italofoni o con difficoltà. I due giovani protagonisti 

vivono le esperienze tipiche degli adolescenti e questo li rende 

oltremodo vicini ai giovani lettori. L’adattamento è a cura di Marina Forenza 

Erriquez, esperta insegnante di lingue straniere e autrice di un innovativo 

metodo di insegnamento dell’italiano L2.

CAPITOLO I 

Sono quasi le otto del mattino a Milano. 

Un giovane sui trent’anni sta cercando, 

inutilmente, di mettere in moto la sua Vespa 

gialla. Il giovane si chiama Enrico Radeschi. 

È un giornalista ed è già in forte 

ritardo per una riunione di lavoro. 

Poco lontano, c’è una scuola media e 

Diego, uno degli studenti, osserva divertito 

i vani tentativi del giornalista. Dopo un po’, 

Diego si avvicina alla Vespa e dice a Enrico 

che il problema è senz’altro la candela. 

– Ma non dirmi! – esclama Enrico poco 

convinto, – cosa ne sai tu? 

– 161 –

– Io ne capisco di motori – risponde 

Diego, sicuro di sé, – se vuoi, ti risolvo il 

problema. 

Radeschi osserva attentamente il ragazzo: 

vestito come i giovani di oggi, avrà dodici 

anni o giù di lì. Non avendo niente da perdere, 

gli dice che se riesce a mettere in moto 

la Vespa, ci saranno 10 euro per lui. 

Mentre il giornalista fa delle telefonate 

col cellulare, Diego inizia a trafficare con 

la Vespa. Passano pochi minuti e, improvvisamente, 

si sente il rumore del motore 

che si mette in moto. 

Enrico sta per complimentarsi con il ragazzo 

quando si sentono dei rumori e delle 

urla provenire dal lato opposto della strada. 

– 162 –

Vero o falso? 

– 163 – 

V F 

Enrico cerca di far partire 

la Vespa alle sei del mattino 

Dopo molti tentativi, 

il giornalista fa partire la Vespa 

Diego è uno studente 

di scuola media 

Enrico promette a Diego 10 euro 

Enrico si complimenta con Diego 

Questionario 

Rispondere alle domande: 

1 Dov’è Diego mentre Enrico cerca di far 

partire la Vespa? 

2 Secondo il ragazzo, perché la Vespa non 

parte?

3 Cosa fa Enrico mentre Diego cerca di 

far funzionare la Vespa? 

4 Perché il giornalista non riesce a complimentarsi 

con lo studente? 


Abbinare i termini in «A» 


A B 

1 Essere sui ... anni a. Sapere cosa fare 

2 Capirne b. Essere certo 

qualcosa di non sbagliare 

3 Sicuro di sé c. Avere più o meno 

una certa età 

– 164 –

Lessico 

Trovare il significato dei vocaboli 

(usare il dizionario): 

Vano (aggettivo) 

Trafficare 

Complimentarsi 

– 165 –

Antonino Pingue 

Parapista checipista! 

EAN 978-88-425-4272-8; pagg. 176; € 3,90 


Genere: fantascienza sociologica. 

Collegamenti interdisciplinari: abilità linguistiche, lessico. 

Temi correlati: culture diverse, comunicazione. 


classe 

Un extraterrestre in missione sul nostro Pianeta entra in contatto con un 

ragazzo. Da questo «incontro» prende spunto un romanzo che strizza l’occhio 

alla fantascienza per raccontare la storia di un’amicizia molto bizzarra, 

fonte inesauribile di situazioni paradossali e divertenti. Come accade tra 

nuovi amici il ragazzo e il visitatore extraterrestre cercano di imparare l’uno 

la lingua dell’altro: tra equivoci, avventure e colpi di scena il lettore scopre 

i misteri della lingua italiana e persino qualche nozione di «marziano». Traspare 

dal testo, garbato e non pesante, l’intento educativo. In appendice 

l’originale «vocabolario» del linguaggio extraterrestre, occasione di interesse 

e divertimento già sperimentati nel corso di laboratori di lettura nella 

prima classe. 

Antonino Pingue vive a Roma dove lavora come sceneggiatore. 


• un vocabolario italiano/extraterreste 

che si presta a divertenti 

esercizi di scrittura creativa. 









– 167 –

HAI MICA VISTO 

UN’AUTOSTRADA? 

Permettete una domanda? 

Voi cosa fate se una persona viene a farvi visita? 

Bisogna essere gentili con lei, giusto? 

Offrirle da bere, togliere i calzini sporchi da sotto 

il letto, abbassare il volume dello stereo, pettinarsi, lavarsi; 

insomma tutte cose che normalmente non facciamo. 

Ma cosa vi suggerisce l’educazione se la persona 

che vi viene a trovare è un extraterrestre? 

Il punto è questo; perché qui comincia la mia storia. 

Comincia un bel giorno, come tutte le storie, con 

l’arrivo di una persona sconosciuta. 

«Un extraterrestre», direte. 

«Esatto!», rispondo. 

«Hai fatto attenzione alla contaminazione?» 1 

«Quale contaminazione?» 

«Ma quella spaziale, sei proprio ingenuo. Appena 

conosci un extraterrestre, la prima cosa che devi fare 

è stare attento alla contaminazione.» 

Ammetto che non ci avevo pensato. 

1 contaminazione: fusione di elementi che hanno caratteristiche diverse 

e possono quindi danneggiarsi a vicenda. 

– 168 –

«Poi devi adottare un codice universale di comunicazione.» 

«Ma non lo conosco.» 

«Non lo conosci?», farete meravigliati. 

«No, ma non ve la prendete subito con me, lasciatemi 

raccontare.» 

Allora… dov’ero arrivato? 

Tutto comincia quando mamma viene a dirmi che 

sta uscendo: «Allora io esco». 

«Ok», rispondo. 

«Mi raccomando Simone: chiudi il gas», fa una 

pausa per ricordarsi la lista delle controindicazioni, 

«che è pericoloso. Chiudi bene le porte, altrimenti entrano 

i ladri. Dai da mangiare al gatto, altrimenti, dalla 

fame, si mangia il divano. Lavati i denti, che ti vengono 

le carie. Non stare troppo davanti al computer, che 

ti rovini gli occhi», e con un tono alquanto perplesso 

conclude, «soprattutto studia. Fai tutti i compiti, altrimenti…», 

ci pensa un attimo, «altrimenti rimani il somaro 

che sei.» 

«Naturale mamma», ma non è che la mia voce sia 

molto convinta. 

Infatti non mi metto certo a studiare. 

«Bravo!», direte. 

«Lo so che fate la stessa cosa», rispondo. 

«E allora?» 

«E allora mi sono messo a navigare.» 

«Un tuffo?» 

«No, su Internet.» 

«E dove te ne sei andato?». 

«Da nessuna parte, perché è a questo punto che arriva 

l’extraterrestre.» 

– 169 –

Infatti sento uno strano sibilo nell’aria, come un 

vento che soffia, ma senza vento. Come un budino che 

vibra, ma senza budino. Come il fischio di un arbitro, 

ma senza fischietto, anzi con il fischietto ma senza arbitro. 

Insomma non ci capisco una cicca, ma neanche 

mezza. 

Il gatto scappa come un fulmine sotto al letto e 

l’extraterrestre entra in camera mia. 

«Entra?» 

«Entra, entra. Apre la finestra, mette un piede dentro, 

ed entra.» 

A dire il vero non c’erano gli scienziati della NASA 2 

che filmavano l’evento. Non c’erano l’esercito e un manipolo 

di uomini in scafandri bianchi che con il contatore 

geiger 3 misuravano il livello di radioattività. Non 

c’era neanche mamma a dirla tutta. C’era solo il gatto 

ma lui se n’era appena andato. 

«Salve», faccio io. E lo faccio con un certo stile. 

Non senza un po’ di paura, ma direi all’altezza della 

situazione. Porgo la mano e mi avvicino. Avrei voluto 

dire: «A nome del genere umano benvenuto su questo 

pianeta», ma mi esce solo un: «SALVE». 

«Gambalasta con la gasta bartamista», 4 fa lui. 

Io rimango perplesso (capperi! 5 avrei voluto vedere 

voi al posto mio!) ma non mi scompongo. 

2 NASA: sigla dell’Ente nazionale aeronautico e spaziale (National Aeronautics 

and Space Administration) degli Stati Uniti d’America. 

3 contatore geiger: strumento per misurare la radioattività. 

4 «Gambalasta… bartamista»: sono le prime parole dell’extraterrestre; 

ne capirai il significato nel «Piccolo vocabolario laktiano» che trovi in fondo 

al libro. 

5 capperi!: esclamazione che vuol trasmettere ai lettori lo stupore e la 

perplessità di Simone. 

– 170 –

Manco lui, 6 a dire il vero, si scompone. Fa un passo 

verso di me e si mette ad annusarmi i piedi. 

Cominciamo bene, penso io, ma non faccio in tempo 

a pensarlo che lui, con grande soddisfazione (hai 

visto mai!) mi ci dà una gran pestata su quei piedi. Roba 

da cambiarmi i connotati al pollicione. Un bel calcio 

interstellare sul mio povero piede, ma dato con 

spirito e intraprendenza, con gusto, con autentica violenza 

galattica. Infatti vedo subito le stelle e comincio 

a zompettare su e giù per la stanza. 

Il gatto miagola sotto il letto come a dire: io te l’avevo 

detto che questo tizio è pericoloso. 

«Ma guarda che sei un bel tipo», protesto. 

Lui fa la faccia un po’ stupita e vedo che si mette ad 

armeggiare con uno strano aggeggio elettronico. 

Io avrei giurato che quell’aggeggio non era altro 

che una merendina. Avete presente quelle merendine 

al cioccolato, morbide morbide, che te ne mangeresti 

cinque di fila, salvo poi passare la giornata al gabinetto 

con fuori la mamma che impreca e promette, giura 

e spergiura che no no, non ne comprerà mai più? Ecco 

proprio quelle. 

Ma invece chiaramente non era una merendina. 

«Ma si può sapere chi sei?», domando, mentre mi 

massaggio il povero pollicione. 

«Sono un pollo, hai mica visto un’autostrada?», risponde. 

«Tu sei da manicomio», mi lamento. Il gatto da 

sotto il letto approva (capirai lui di zampe ne ha quattro, 

c’è da capire che si senta minacciato!). 

6 Manco lui: nemmeno lui. 

– 171 –

Anna Russo 

Il baffo del dittatore 

EAN 978-88-425-4517-0; pagg. 104; € 3,90 

per la 

terza classe 


Genere: socio-storico. 

Collegamenti interdisciplinari: Storia contemporanea (Seconda guerra 

mondiale, Shoah), Educazione alla cittadinanza e Costituzione. 

Temi correlati: violenza, rispetto per gli altri, affetti, rispetto per gli animali. 

Nell’Europa sconvolta dalla guerra, un neonato abbandonato dalla madre 

viene adottato da una cagna che lo nutre e lo protegge come se fosse uno 

dei suoi cuccioli. Il bambino cresce randagio fra i randagi, di cui impara a 

conoscere il linguaggio. Catturato, il piccolo umano che i cani hanno chiamato 

Arf verrà rinchiuso in un lager dove sono stati deportati dei bambini 

ebrei. Ma la sua famiglia canina non lo abbandona e lo seguirà nella prigionia 

assistendolo fino al momento in cui nel lager arriva il Führer. Storia 

fantastica e delicata che parla della grande tragedia del Novecento dal punto 

di vista dei più deboli. 

Anna Russo, nata a Napoli, ha vissuto per dodici anni nel sud della Francia, 

dove sono nati i testi Gitani si nasce e si diventa (Premio The Next Generation) 

ed El cante Flamenco. Tornata in Italia pubblica La bambina Babilonia 

(Premio internazionale Stefano Guy Taché), Pao alla conquista del 

mondo, il romanzo epistolare Caro Hamid, fratello lontano e Ibrahim, il 

bambino del campo. 


• cronologia Seconda guerra 

mondiale 

• Hitler, il nazismo e la Shoah 

• I lager nazisti 









– 173 –


Se lo avessero saputo non lo avrebbero mai catturato, 

anzi si sarebbero ben guardati dal farlo. 

Il fatto è che lui quel giorno sembrava un cane 

e loro 1 presero il cane. 

Quel giorno faceva molto freddo. 

Era una settimana che faceva un freddo così 2 

e la gente non ne poteva più. 

In realtà la gente non ne poteva più di molte 

cose, ma di tutte le altre era proibito lamentarsi. 

Così tutti finivano per lamentarsi esageratamente 

del freddo, concentrando sulle condizioni 

atmosferiche tutte le loro pene. 

Era per il freddo che non c’era il pane, sempre 

per il freddo non c’era il latte. Per il freddo 

1 lui… loro: «lui» è il protagonista del libro, che conoscerai fra poco; 

«loro» sono dei militari tedeschi che, nel corso della Seconda guerra mondiale 

(come apprenderai leggendo la Scheda 1) occupano il Paese dove si 

svolge la vicenda. 

2 faceva un freddo così: un freddo simile. L’autrice usa spesso un linguaggio 

«parlato», una frase non compiuta, ma usata spesso quando si 

vuole raccontare in fretta: si capisce che si tratta di «molto freddo». 

– 174 –

la carne non c’era più da molto tempo e ancora 

a causa del freddo la gente spariva. 3 

Così grazie al freddo potevano parlare di tutto 

quello che volevano, perché tutto quello che 

volevano dire non si poteva dire: era vietato. 4 

Ma a lui (quello che sembrava un cane) di 

tutto quello che era vietato non importava un 

bel nulla e niente e nessuno avrebbe potuto impedirgli 

di dire quello che pensava. 

Lui aveva una vecchia pelliccia grigia, non 

aveva alcun nome e aveva cinque anni e a parte 

questo non aveva altro. 

Anzi non è vero, un nome lo aveva, ma se 

adesso lo dicessi suonerebbe troppo strano, così 

lo saprete solo tra qualche pagina. 

In realtà era un nome che ciascuno interpretava 

a suo modo, ma comunque lo rese sempre riconoscibile. 

Era nato da una donna cinque anni prima, 

ma sembrava un po’ morto. 

La sua mamma, indecisa tra il seppellirlo o 

no, lo guardò, lo vide tutto blu, poi si accorse 

che qualcosa di rosso gli sbocciava sulle guance 

3 spariva: scompariva, moriva per il freddo. 

4 era vietato: la dittatura militare imponeva di non lamentarsi di nulla. 

– 175 –

e allora fece un gesto da mamma e invece di 

seppellirlo, dato che comunque non poteva tenerlo, 

lo avvolse in una sciarpa verde e lo mise 

nella ruota dell’ospizio 5 di carità, sicura che chi 

c’era dall’altra parte avrebbe potuto fare qualcosa 

per il suo piccoletto. 

In quel mondo e in quell’epoca si faceva così. 

I bambini di troppo venivano messi nella ruota 

dell’ospizio e passavano da quella parte della vita 

dove una famiglia è composta da una madre, un 

padre e dei fratelli, a quella dove l’esistenza te la 

guadagni da solo dal primo momento che apri gli 

occhi (sempre se a quel punto ne hai voglia). 

Ma quella sera quelli dell’ospizio dimenticarono 

di controllare la ruota degli orfanelli. 

A loro discolpa 6 bisogna dire che quella notte 

faceva davvero molto freddo, così un torpore 

grave si impadronì della gente, anche di quelli 

che avrebbero dovuto controllare la ruota, che 

ormai essendo abituati a tutto pensarono: «Se 

c’è un bimbo sulla ruota piangerà!». 

Il pensiero li rasserenò. 

5 nella ruota dell’ospizio: presso la porta dell’orfanotrofio esisteva una 

specie di finestra girevole, aperta verso la strada, dove le mamme, che per 

la povertà o per altri dolorosi motivi non potevano mantenere i loro bimbi, 

li deponevano. Ruotando la finestra il bimbo veniva introdotto all’interno 

dell’ospizio degli orfanelli. 

6 discolpa: scusante. 

– 176 –

Andarono a dormire con la coscienza a posto 

e si addormentarono così profondamente che non 

avrebbero sentito neppure lo scoppio di una 

bomba. 

Ignara di tutto e fiduciosa, sua mamma lo lasciò 

piangendo, mentre lui ancora non aveva deciso da 

che parte del mondo stare e per il momento preferiva 

starsene a occhi chiusi, a non piangere e non 

pensare, tutto raggomitolato in una strana stoffa 

verde un po’ lucida che lo faceva sembrare più un 

cocomero che un bambino, così quelli che passarono 

di lì pensarono davvero che lo fosse. 

Ma, nonostante avessero tutti fame, il cocomero 

gelato d’inverno non piaceva a nessuno, di 

conseguenza nessuno si preoccupò di lui né 

qualcuno considerò che i cocomeri d’inverno 

non ci sono. Ma erano troppo intorpiditi per 

pensare, così non pensarono. Cercavano solo di 

tornare a casa in fretta, prima delle otto, perché 

dopo, quelli che comandavano avrebbero sparato 

a chiunque avessero incontrato per strada. 7 

Anche lui, che adesso chiameremo Cocomero 

(che come nome proprio scriverò con la maiu- 

7 quelli che comandavano … per strada: i capi tedeschi avevano imposto 

il «coprifuoco»: l’ordine di non uscire di casa alla notte, pena la morte. 

– 177 –

scola iniziale), se ne stava intorpidito nella ruota 

indeciso tra la vita e la morte, incapace di pensare, 

finché qualcosa di morbido e caldo gli sfiorò la 

guancia. 

Era il primo gesto d’affetto che un essere vivente 

gli rivolgeva. Allora Cocomero si attaccò a quel 

gesto con tutte le sue forze e prese a vivere. 

Come prima cosa aprì gli occhi e sorrise al 

suo benefattore. 

Era un cane, anzi una cagna magrissima e 

bianca che lo guardava con gli occhi umidi indecisa 

se mangiarselo o no, dato che non mangiava 

da giorni e ormai lo stomaco iniziava a 

prendere il sopravvento sulla ragione. 

Ma proprio in quel momento a Cocomero 

venne da ridere. Allungò la manina sul naso del 

cane, lo schiacciò e gli fece il solletico. 

La cagna non riceveva un gesto d’affetto da 

un sacco di tempo e si sentì come sciogliere. 

Le si sciolse il cuore. 

Gli occhi le si riempirono di lacrime e provò 

una gioia così grande come non aveva mai provato. 

Allora regalò un’altra leccata al piccolo 

Cocomero, questa volta d’affetto, e fu allora 

che lo adottò. 

– 178 –

NARRATIVA 

Robert Louis Stevenson 

L’isola del tesoro 

EAN 978-88-425-5228-4; pagg. 200; € 3,90 



Collegamenti interdisciplinari: Storia, 

Letteratura epica, geografia 

Temi correlati: miti greci, antichità, guerra, amicizia, dolore. 






– 180 – 

per la 

seconda e la 

terza classe 

NOVITÀ 2013 

Forse il più celebre romanzo per ragazzi di tutti i tempi. Jim Hawkins, giovane 

orfano di padre, trova una vecchia mappa che indica un tesoro misterioso 

nascosto su un’isola dal leggendario capitano Flint. Jim con alcuni 

amici organizza una spedizione per recuperare il tesoro e parte a bordo 

dell’Hispaniola senza sapere che tra i marinai ci sono alcuni compagni 

di Flint, come il leggendario Long John Silver. Tra avventure di tutti i tipi e 

colpi di scena la vicenda naviga verso il lieto fine. Storia di fantasia basata 

su una buona documentazione storica che si presta a collegamenti interdisciplinari, 

in particolare con la storia delle esplorazioni del XVI e del XVII 

secolo.


IL PIRATA 

ALL’«AMMIRAGLIO BENBOW» 

Il cavaliere Trelawney, il dottor Livesey e gli altri che mi 

furono compagni nell’avventura mi hanno pregato di 

scrivere, con tutti i particolari, la storia dell’Isola del 

Tesoro, dal principio alla fine, senza omettere nulla, a 

parte la posizione dell’isola, poiché vi si trova tuttora 

una parte del tesoro. Così, io prendo la penna nell’anno 

di grazia 17… e ritorno mentalmente al tempo in cui 

mio padre gestiva la locanda detta dell’«Ammiraglio 

Benbow», e più precisamente al giorno in cui il vecchio 

marinaio, che portava sul volto abbronzato il solco di 

una sciabolata, prese dimora sotto il nostro tetto. 

Ricordo quell’uomo, e mi sembra ancora di vederlo 

arrivare, con passo strascicato, alla porta della locanda, 

seguito da un facchino che spingeva una carretta a mano, 

sulla quale era stata caricata la sua cassa da marinaio. 

Era alto, grosso, robusto e aveva il suo viso bruno 

come una noce; il codino incatramato gli ricadeva sul 

colletto della giacca azzurra, cosparsa di macchie; le 

– 181 –

mani erano segnate e piene di cicatrici, con le unghie 

orlate di nero, e la cicatrice che gli attraversava la guancia 

era di un bianco livido e sporco. Ricordo che, sostando 

sulla soglia, si volse per dare un’occhiata circolare 

verso la baia: e intanto fischiettava sommessamente. 

Poi, a un tratto, intonò la vecchia canzone marinaresca 

che più tardi avrei udito 

Quindici uomini sulla cassa del morto 

Yo-ho-ho e una pinta di rum. 

Cantava con una voce da vecchio, tremula e chioccia, 

che sembrava aver preso la sua cantilena e le sue 

brusche rotture alla manovra della leva di un verricello. 

Non appena mio padre apparve, gli domandò, in 

tono ruvido, un bicchiere di rum. Quando gli fu servito, 

egli lo bevve lentamente, da buongustaio, assaporandolo 

e continuando a far vagare lo sguardo dagli 

scogli all’insegna della nostra locanda. 

– Ecco una baia comoda – disse finalmente, – e una 

taverna situata in una località piacevole. Viene molta 

gente qui, brav’uomo? 

Mio padre gli disse di no; i clienti erano pochi e gli 

affari non andavano bene. 

– Benissimo allora – disse lui. – Questo è il posto 

che fa per me. Ehi, tu, giovanotto – gridò, poi, all’uomo 

della carretta – accosta, scarica la cassa e portala 

su. Mi fermerò qui per qualche tempo. Sono un uomo 

di gusti semplici; una pinta di rum, due uova col pro- 

– 182 –

sciutto sono tutto ciò che mi occorre. Quello scoglio 

laggiù mi servirà a meraviglia, per osservare le navi 

che prendono il largo. Che dite? Come dovete chiamarmi? 

Chiamatemi capitano. Che significa quella 

faccia che fate? Ah, ho capito! – così dicendo gettò tre 

o quattro monete d’oro sul pavimento, presso la soglia. 

– Mi avviserete quando il danaro sarà finito – soggiunse, 

e il suo atteggiamento sembrava quello del 

comandante di una nave. 

E in verità, nonostante l’aspetto pietoso degli abiti 

e la rudezza del suo parlare, egli non aveva l’aria di un 

semplice marinaio, ma piuttosto di un ufficiale o, comunque, 

di un uomo avvezzo ad essere obbedito e a 

infliggere punizioni. Il facchino che trasportava il suo 

baule ci disse che la diligenza lo aveva scaricato la 

mattina precedente e che egli aveva pernottato alla locanda 

di «Re Giorgio», dove aveva assunto informazioni 

sulle locande della strada litoranea. Immagino 

che gli avessero parlato bene della nostra e che soprattutto 

l’avesse scelta come residenza sentendo che si 

trovava in una località abbastanza solitaria. E quello 

che l’uomo ci disse fu l’unica informazione che avemmo 

sul nuovo cliente. D’abitudine era un uomo piuttosto 

silenzioso. Si aggirava tutto il giorno sulle rive 

della baia o si arrampicava sugli scogli, sempre portando 

con sé un cannocchiale d’ottone. La sera sedeva 

in un angolo della sala, presso il fuoco, bevendo molti 

bicchieri di grog al rum assai forte. Quando gli rivolgevano 

la parola per lo più non rispondeva; si limitava 

– 183 –

ad alzare il capo di scatto, con aria aggressiva, e soffiava 

dal naso emettendo un suono simile a quello dei 

corni da nebbia che vengono usati sulle navi. Noi e i 

nostri clienti abituali imparammo ben presto a lasciarlo 

in pace. Ogni giorno, quando ritornava dalle sue 

passeggiate, soleva domandare se non fosse passato 

per la strada qualche uomo di mare. Sulle prime credemmo 

che, da uomo di mare qual era, desiderasse la 

compagnia dei suoi simili. Però non tardammo a capire 

che il suo desiderio era proprio quello di evitarli. 

Quando un marinaio sostava all’«Ammiraglio Benbow» 

(come accadeva di tanto in tanto, poiché davanti 

alla locanda passava la strada litoranea che conduce 

a Bristol), lui spiava il nuovo venuto attraverso la porta 

a vetri, scostando la tendina prima di entrare nella 

sala, poi si rifugiava nel suo solito angolo, e fino a che 

il marinaio non se ne andava, rimaneva invariabilmente 

muto come un pesce. Io, però, sapevo bene come 

stavano le cose, poiché, in certo qual modo, ero stato 

il confidente dei suoi timori. Un giorno mi aveva tratto 

in disparte e mi aveva promesso una moneta d’argento 

da quattro pence per il primo d’ogni mese, 

purché io facessi bene attenzione e, se fosse comparso 

un marinaio con una gamba sola, lo avvertissi subito. 

Spesso quando al primo del mese sollecitavo il pagamento 

del mio salario, lui mi guardava dall’alto in basso, 

soffiando dal naso, e non mi dava nulla, ma prima 

che fosse trascorsa una settimana cambiava idea, e immancabilmente 

mi porgeva la moneta da quattro pen- 

– 184 –

ce, ripetendomi l’ordine di stare attento «al marinaio 

con una gamba sola». 

Non so dirvi come questo personaggio mi ossessionasse, 

infilandosi continuamente nei miei sogni da fanciullo. 

Nelle notti di burrasca, quando il vento scuoteva 

la nostra casetta e le onde si frangevano ruggendo contro 

gli scogli, io me lo vedevo dinanzi in mille aspetti 

diversi e con mille diverse espressioni diaboliche sul 

volto. A volte mi appariva con la gamba tagliata al ginocchio, 

altre volte all’anca. Oppure lo vedevo come 

una creatura mostruosa, nata con una gamba in mezzo 

al corpo. Il peggio era quando sognavo di fuggire scavalcando 

siepi e fossi, inseguito da quel mostro. In 

complesso, con quegli incubi, potevo dire di guadagnarmi 

duramente la mia monetina d’argento mensile. 

Benché fossi tanto terrorizzato all’idea del marinaio 

con una gamba sola, io ero molto meno intimidito degli 

altri di fronte al capitano. Certe sere, quando beveva un 

numero di grog superiore al suo solito, si metteva a cantare 

la sua selvaggia canzone marinaresca, senza riguardo 

per alcuno, e qualche volta ordinava da bere per 

tutti, obbligando la compagnia, tremante e spaventata, 

ad ascoltare le sue storie, oppure a cantare in coro con 

lui. Quante volte ho udito la casa rimbombare di: «Yoho-ho, 

e una pinta di rum»! E tutti i vicini cantavano 

con lui, presi da timore mortale, non osando contrariarlo, 

anzi cantando uno più forte dell’altro. Era naturale, 

poiché quando era di quell’umore, diveniva prepotente 

e autoritario; batteva le mani sulla tavola per ottenere 

– 185 –

il silenzio, dava in escandescenza se gli rivolgevano una 

domanda, o magari se non gliene rivolgevano perché, 

in questo caso, aveva l’impressione che la compagnia 

non ascoltasse con sufficiente interesse i suoi racconti. 

Né alcuno aveva facoltà di uscire dalla locanda, fino a 

che lui non era ubriaco fradicio o morto di sonno, e non 

si trascinava nella sua camera. 

Ciò che spaventava di più la gente, erano i suoi racconti… 

racconti terribili, d’impiccagioni, di persone 

affogate con l’asse ad altalena, al modo dei pirati, di 

burrasche in mare, delle Isole della Tortuga, di disperate 

imprese e di avventure straordinarie nei Caraibi. 

A giudicare dai suoi discorsi, doveva aver vissuto tra 

gli uomini più scellerati quali Iddio abbia mai permesso 

di correre i mari. E il linguaggio che usava per narrare 

le sue storie scandalizzava la nostra semplice gente 

di campagna, quasi quanto gli orrori che descriveva. 

Mio padre andava dicendo che la presenza del capitano 

avrebbe rovinato la locanda, poiché gli avventori 

avrebbero cessato di venire da noi, per non essere tiranneggiati 

e sopraffatti, nonché mandati a letto con 

un terrore mortale nel cuore; ma, in realtà, io credo 

che la presenza di quel singolare cliente ci avvantaggiasse 

anziché nuocerci. Al momento, la gente aveva 

paura, ma, ripensandoci poi, non era scontenta; egli 

rappresentava un elemento nuovo ed emozionante nella 

placida vita del villaggio. Non pochi, del resto, erano 

i giovani che manifestavano una certa ammirazione per 

il capitano, definendolo un vero lupo di mare, un au- 

– 186 –

tentico navigatore, e così via. Aggiungevano che quelli 

erano gli uomini a cui l’Inghilterra doveva la sua potenza 

sui mari. 

Però, in altra maniera, egli faceva il possibile per rovinarci, 

poiché la sua permanenza si prolungava di settimana 

in settimana e di mese in mese, cosicché il 

danaro che aveva versato al suo arrivo era da tempo terminato, 

e mio padre non riusciva mai a trovare il coraggio 

di domandargliene altro. Se talvolta si permetteva di 

menzionare il conto, il capitano soffiava dal naso così 

forte che sembrava ruggire, e fissava mio padre con aria 

truce fino a che il poverino non si ritirava di buon ordine. 

Dopo queste scene io l’ho veduto torcersi le mani e 

sono certo che la disperazione e il terrore in cui viveva 

affrettarono di molto la sua infelice e immatura fine. 

Per tutto il tempo in cui visse presso di noi, il capitano 

non mutò mai d’abito e comperò soltanto qualche 

paio di calze da un venditore ambulante. Uno dei 

lati del suo cappello a tricorno si era afflosciato, ma 

egli non si prese mai la pena di farlo accomodare e lasciò 

che penzolasse malamente, benché dovesse dargli 

un poco fastidio quando spirava vento. Ricordo le 

condizioni della sua giubba che egli stesso rammendava, 

lassù, nella sua camera, tanto che negli ultimi tempi 

era tutta una toppa. Non scriveva né riceveva 

lettere e non parlava mai con nessuno, a parte i vicini 

e i clienti abituali ai quali, per lo più, rivolgeva la parola 

quando era ubriaco. Nessuno di noi vide mai 

aperto il suo cassone da marinaio. 

– 187 –

Una volta sola il capitano trovò chi gli teneva testa. 

Fu verso la fine, quando il mio povero padre era già in 

condizioni disperate. Il dottor Livesey venne un pomeriggio 

sul tardi per vedere l’ammalato; accettò la modesta 

cena che mia madre gli offrì, poi passò nella sala per 

fumare la pipa, in attesa che conducessero il suo cavallo 

dal villaggio, poiché alla vecchia locanda non avevamo 

la stalla. Lo seguii nella sala, e ricordo di essere stato 

colpito dal contrasto della figura inappuntabile del dottore, 

con la parrucca incipriata, bianca come la neve, gli 

occhi neri e vivaci e i modi piacevoli, con l’aspetto un 

po’ grossolano dei nostri villici e soprattutto con quello 

del nostro lurido pirata, simile a uno spaventapasseri, 

che sedeva scomposto, con i gomiti sulla tavola, già in 

stato di avanzata ubriachezza. A un tratto egli cominciò 

a canticchiare la solita canzone: 

Quindici uomini sulla cassa del morto 


Bevvero e il diavolo fece il resto 


Sulle prime avevo supposto che «la cassa del morto» 

fosse proprio il baule che aveva nella sua camera, e questo 

pensiero si era insinuato nei miei incubi fondendosi 

con l’ossessione del marinaio con una gamba sola. Ma 

ormai avevo cessato, da tempo, di prestare attenzione 

alle parole del ritornello; non c’era nessuno quella sera, 

cui la canzone giungesse nuova, eccetto il dottor Live- 

– 188 –

sey, e io notai che non gli faceva certo un’impressione 

gradevole; infatti alzò il capo un momento, con aria adirata, 

prima di riprendere la sua conversazione col vecchio 

Taylor, il giardiniere, a proposito di una nuova 

cura per i reumatismi. Nel frattempo, il capitano andava 

animandosi al suono della propria voce e finalmente 

batté un pugno sulla tavola in un modo che, come noi 

sapevamo, equivaleva a un’imposizione di silenzio. 

Tutte le voci cessarono d’un tratto; tutte, eccetto quella 

del dottor Livesey il quale proseguì tranquillamente, 

parlando con quella sua intonazione chiara e cortese e 

tirando una boccata dalla pipa, tra una frase e l’altra. Il 

capitano lo guardò torvo, per qualche secondo, batté 

un altro pugno sulla tavola, si fece ancor più truce 

nell’aspetto, e finalmente proruppe in una volgare imprecazione, 

aggiungendo: 

– Silenzio, laggiù sul ponte! 

– Parlate a me, messere? – fece il dottore, e quando 

il ribaldo con un’altra imprecazione rispose che era 

proprio così, soggiunse: – Ho una sola cosa da dirvi, 

messere: se continuate a bere rum, il mondo sarà ben 

presto liberato di uno sporco cialtrone! 

Il pirata, che, nella sua furia, era terribile a vedersi, 

balzò in piedi, trasse di tasca un coltellaccio da marinaio, 

lo aprì e, tenendolo in equilibrio sul palmo della 

mano, sembrò disporsi a inchiodare il dottore al muro. 

Livesey non si mosse neppure; continuò a parlargli 

come prima, al di sopra della propria spalla e nel medesimo 

tono di voce, piuttosto alto, in guisa che tutti 

– 189 –

i presenti potessero udire, ma perfettamente calmo e 

sicuro. 

– Se non riponete immediatamente quel coltello, vi 

prometto, sulla mia parola d’onore, che alla prossima 

riunione delle Assise sarete impiccato. 

Seguì tra i due uomini un duello di sguardi; ma il 

capitano non tardò a soccombere. Abbassò gli occhi, 

ripose l’arma e sedette di nuovo, ringhiando come un 

cane bastonato. 

– E ora, messere – proseguì il dottore – poiché so 

che nel mio distretto c’è un individuo come voi, potete 

star certo che vi farò tener d’occhio giorno e notte. Non 

sono soltanto medico, sono magistrato, e se mi giunge 

all’orecchio la minima lamentela a vostro carico, non 

foss’altro che per una manifestazione di villania come 

quella di stasera, prenderò efficaci misure per farvi acciuffare 

e scacciare dalla località. Questo vi basti. 

Poco dopo, il cavallo del dottor Livesey fu condotto 

alla porta della locanda ed egli si allontanò; ma il 

capitano se ne rimase quieto per tutta la sera e per 

molte delle sere che seguirono. 

– 190 –

MURSIA 

www.mursia.com 

via Melchiorre Gioia, 45 • 20124 Milano 

adozioni@mursia.com 

tel. 02 67378518 • fax 02 67378603 

87563W

Scuola secondaria di primo grado - Narrativa

Create successful ePaper yourself

Delete template?

Save as template?