In un famoso poemetto in prosa di Baudelaire intitolato ... - LietoColle

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conformismo carnevalizzato che costituisce la base, la trama e la filigrana della tarda modernità letteraria, dove la «parola inopportuna» di bachtiniana memoria si rivela essere una altezzosa attività di fiancheggiamento del conformismo delle classi intellettuali dirigenti. La parola di Faraòn Meteosès è invece quanto mai opportuna in un contesto letterario come quello italiano dove la quantità di conformismo e di arroganza delle élites intellettuali ha raggiunto livelli di inquinamento davvero inquietanti e intollerabili. Il poeta romano imbastisce così una batteria di armi leggere, di mitragliamenti e di fuochi di sbarramento da lasciare impressionati e interdetti: la più alta dose di micro-armi di distruzione in mano ad un incendiario della tempra di Faraòn Meteosès, a metà tra “Arconte e Rodomonte/ priapeo e clitorideo”, è cosa che fa ben sperare per poter rompere quel guscio di conformismo letterario solidificatosi nel nostro paese e che detta da sempre le gerarchie e le primazie letterarie: Adesso depotenziare il POTERE sfiancarne i fianchi in liposuzione dei lacché ago-aspirarne i sottomenti in lifting dei Visir nei double-face dei Conformisti-Trasformisti”; non dico mai la Verità, in dettatura, se non sotto tortura, perché il mio congiuntivo è congiuntivite, il mio indicativo è un indizio auditivo, è un congegno linguistico in uno… Yabadaba-duzzie delle mie balbuzie… Se il Novecento si era aperto con la carnevalizzazione de i Cavalli bianchi (1905) di Palazzeschi, si può affermare che si chiude con la meta-carnevalizzazione di Psicofantaossessioni di Faraòn Meteosès. la poesia tra parlato “rettificato” e contaminazione dell’io Martina Ippolito Readymate rettificato Roma, Lepisma 2007 pp. 78 € 12,00 Martina Ippolito è nata nel 1984 mentre chi scrive appartiene alla generazione del Cinquanta: ci dividono due generazioni, durante le quali la quaestio poesia ha vissuto una crisi di identità come mai era avvenuto nel corso del Novecento. Per questo motivo la lettura di una giovane poetessa dell’ultima generazione è un compito altamente stimolante per spiare dentro il “laboratorio” poetico di un autore “nuovo”. La domanda che pongo è molto semplice: dove va la “nuova poesia”? Ci sono poeti che appartengono ad una generazione e poeti che appartengono ad una età. Credo che Martina Ippolito sia una poetessa nella seconda accezione, nella sua produzione si possono rintracciare, in nuce, tutti i problemi che stanno sul tappeto del fare poesia oggi. Esauritasi la possibilità di pronunciare una “parola politica” dopo la caduta dell’Utopia, esauritesi le potenzialità delle poetiche post-sperimentali, dissoltesi le illusioni di poter produrre un linguaggio poetico sulle rovine dell’età del nichilismo, Martina Ippolito si è trovata di fronte alla necessità di ricominciare daccapo, appunto da una sorta di “readymade” opportunamente “rettificato” per usare le sue parole. Come si sa il ready made era quell’oggetto che i surrealisti avevano preso dalla “realtà” per trasporlo sul piano dei linguaggi artistici senza alcuna mediazione, per il semplice dato di fatto della sua esistenza come forma-merce nell’ambito della società di massa. Ora, Martina Ippolito si rende subito conto che imboccare una qualsiasi direzione di ricerca significherebbe implicitamente sacrificare tutte le altre, e tenta la strada esattamente opposta: la strada della contaminazione e della “rettificazione” di tutte le forme-interne ereditate dalla tradizione e di tutti gli oggetti linguistici: ovvero, la poesia confessione (“Postmatura resto/ feto nella fossa/ dell’anima amniotica…”), la procedura sperimentale degli incroci lessicali e semantici (“quando m’alieno, m’alluno e t’annullo…”), l’adozione del “parlato” letterario (“Parlami, Musa, di mura e confini,/ spazi di pelle, giardini di serre,/ di terre battute, zolle riemerse…”), l’adozione di espressioni iperrealistiche (“Come una/ mosca batto il vetro del barattolo”). Il risultato finale è un tipo di poesia a-norganica, costruita con i materiali di risulta, materiali emotivi e affettivi, materiali espunti dal processo di produzione e di sovrapproduzione delle merci linguistiche, una poesia che intende comunicare le frizioni, gli attriti, le
vischiosità, le densità del linguaggio, non più musicale, come se avesse perduto, durante il tragitto temporale-esistenziale, ogni sublimazione musicale ed ogni desublimazione de-musicale; una poesia che tende ad andare al di là del qui e ora, pur tentando di restare agganciata alla realtà del qui e ora, così come non è intendimento di questa poesia condurre il lettore verso uno spiraglio dell’Altrove, l’altrove è ristabilito nel qui e ora, nelle singole scelte linguistiche e metaforiche. Tutta materialistica e materiata di materiali fisicamente convessi e frugali, la poesia della Ippolito intende prolungare, da un lato, la traccia degli dèi smarriti e dissolti, dall’altro, intende incidere nella ferita linguistica del ready made, all’interno del linguaggio poetico post-novecentesco con tutto il suo carico di antinomie e di nodi estetici irrisolti. Una poesia come questa della Ippolito che si dirige verso i nodi estetici irrisolti come un sommergibile contro una portaerei, è senz’altro degna della massima considerazione, se non altro per il coraggio dimostrato. Ma, ovviamente, la deflagrazione che doveva aprire la via verso una soluzione estetica, in realtà non fa altro che aggravare la situazione della crisi della poesia post-novecentesca. La poesia della Ippolito la si può quindi inserire all’interno di quelle fenomenologie estetiche che si muovono a ridosso delle poetiche della disseminazione, tipiche dell’età del nichilismo dispiegato della fase attuale della nostra civiltà. All’interno della gigantesca gigantomachia della produzione di merci “ottiche” e linguistiche della società globale, la disseminazione opererebbe a ritroso, a rimorchio della produzione di ciò che è uscito dalla produzione. Questo fenomeno credo sia rinvenibile nello stile “rettificato” della poesia della Ippolito, che procede a continui aggiustamenti e correzioni man mano che attua il proprio sviluppo. Direi che questo linguaggio poetico resiste con tutte le sue forze alla insidia dello “stile” e alla insistenza del “reale” che preme da tutte le parti, restando come dentro un accerchiamento: dentro il sortilegio delle merci linguistiche per crivellarle e farle esplodere. il linguaggio di nicchia come bisogno di autenticità Daniel Cundari Cacagliùsi (Balbuzienti) Roma, Lepisma 2007 pp. 64 € 10,00 Ci chiediamo il perché un poeta nato a Rogliano in Calabria nel 1983 abbia sentito il bisogno di tradurre nel dialetto di Rogliano alcuni canti dell’Inferno della Divina Commedia e poesie di Hikmet, Kavafis, Celan, Mandel’stam, Alberti e Catullo (presenti in appendice al libro) e abbia pubblicato poesie nel dialetto di Rogliano di Calabria pur sapendo che, necessariamente, la circolazione del suo libro sarebbe stata limitata ad un ristretto pubblico di cultori e di specialisti in un momento storico in cui la poesia è costretta a dimorare in una sorta di nicchia o di limbo a causa della rarefazione del pubblico dei lettori. Oso formulare una spiegazione. Innanzitutto, la necessità di ritrovare un ancoraggio solido al di fuori della tradizione letteraria, vista con sospetto dagli autori della nuova generazione e, in seconda istanza, per il bisogno di “trovare” un referente immediato, per ritrovare l’oggetto non contaminato dagli approcci novecenteschi. Insomma, Daniel Cundari si è cimentato in una direzione sicuramente impervia e irta di difficoltà. Ma si sa che la fortuna aiuta gli audaci e, a volte, la scelta più difficile si rivela essere una strada maestra. Il tentativo del poeta di Rogliano è particolarmente significativo se consideriamo che la lingua adoperata è come un muro di sicurezza che delimita le esperienze significative che si possono esperire all’interno di quell’idioma, ma al tempo stesso Cundari opera un raccordo e un “ricongiungimento con la letteratura nazionale”, come chiosa acutamente Pasquino Crupi nella nota di lettura in calce al libro, nella misura in cui le esperienze significative nella lingua di Rogliano sono infatti immediatamente traducibili nella lingua nazionale senza perdere alcunché della loro forza originaria. È come se all’interno del suo idioma Cundari avesse trovato il modo di sfuggire al sortilegio di una linguisticità esasperata e convenzionale che oggi affligge la poesia italiana “maggiore”, ed è anche, credo, una strategia per sfuggire all’appiattimento narrativo della post-poesia in italiano erede piuttosto di una crisi, con tutte le conseguenze di genericità e di arbitrarietà che la contraddistinguono. C’era in Cundari il bisogno di ritornare indietro, alle esperienze individuali, c’era il bisogno di ritrovare un linguaggio poetico sintetico ed ellittico, che facesse perno sulla metafora e sull’immagine, escludendo ogni ricorso ad una ambientazione di origine “narrativa”. Insomma, Daniel
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