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L'Ulisse - LietoColle

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NUMERO 15: La forma del poema<br />

IL DIBATTITO<br />

Editoriale, di Italo Testa 2<br />

PERCORSI ITALIANI<br />

Pier Paolo Pasolini<br />

di Lisa Gasparotto 6<br />

Vittorio Sereni<br />

di Luca Lenzini 18<br />

Amelia Rosselli<br />

di Antonio Loreto 24<br />

Giovanni Giudici<br />

di Lisa Cadamuro 46<br />

Attilio Bertolucci<br />

e Alberto Bellocchio<br />

di Gabriella Palli Baroni 51<br />

Antonio Porta<br />

di Andrea Gibellini 58<br />

Remo Pagnanelli<br />

di Roberto Galaverni 62<br />

Giuliano Mesa<br />

di Gian Luca Picconi 69<br />

Mario Benedetti<br />

di Tommaso Di Dio 82<br />

Luciano Cecchinel<br />

di Giovanni Turra 93<br />

Giancarlo Majorino<br />

di Biagio Cepollaro 98<br />

Andrea Zanzotto<br />

di Luca Stefanelli 101<br />

FUOCHI TEORICI<br />

Vincenzo Frungillo 131<br />

Niccolò Scaffai 138<br />

POEMA E CANONE FEMMINILE<br />

Patrizia Vicinelli<br />

di Matteo Di Meco 151<br />

Patrizia Vicinelli<br />

di Renata Morresi 162<br />

Rosaria Lo Russo 173<br />

Florinda Fusco 199<br />

ALTRI SCENARI<br />

Yves Bonnefoy<br />

di Enrico Capodaglio 204<br />

Durs Gruenbein<br />

di Domenico Pinto 216<br />

Anthony Hecht<br />

di Joseph Harrison 218<br />

Alice Oswald<br />

di Francesca Matteoni 224<br />

W. G. Sebald<br />

di Raul Calzoni 231<br />

INCURSIONI<br />

Giovanna Frene 248<br />

Marco Giovenale 249<br />

Stefano Raimondi 253<br />

LETTURE<br />

Fabiano Alborghetti 260<br />

Dina Basso 264<br />

Francesco Filia 270<br />

Giuseppe Fonte 274<br />

Luca Minola 278<br />

Luciano Neri 281<br />

Gilda Policastro 285<br />

Andrea Raos 289<br />

Viviana Scarinci 295<br />

Fabio Teti 299<br />

I TRADOTTI<br />

John Ashbery<br />

tradotto da Damiano Abeni 305<br />

Francis Catalano<br />

tradotto da Italo Testa 308<br />

Kurt Drawert<br />

tradotto da Anna Maria Carpi 314<br />

Santiago Elordi<br />

tradotto da Matteo Lefèvre 323<br />

Charles Reznikoff<br />

tradotto da Andrea Raos 332<br />

Jacques Roubaud<br />

tradotto da Italo Testa 345<br />

Vincent Tholomé<br />

tradotto da Michele Zaffarano 348<br />

Nika Turbina<br />

tradotta da Federico Federici 352<br />

1


EDITORIALE<br />

Il numero 15 de <strong>L'Ulisse</strong> prosegue il ciclo di indagini sulle metamorfosi delle forme e dei generi<br />

poetici contemporanei dedicate nei numeri scorsi al teatro di poesia (n. 9-10), alla lirica (n. 11) e<br />

quindi alla prosa poetica (n. 13). Mettendo a tema questa volta ŖLa forma del poemaŗ non ci siamo<br />

interrogati però solo sulle mutazioni contemporanee dell'epos. L'attenzione per l'organizzazione<br />

poematica del discorso in versi, infatti, ci pareva offrire un punto d'osservazione privilegiato su quel<br />

fenomeno di incrocio dei generi che è sempre più avvertibile nella poesia contemporanea e che<br />

muove da un'esigenza diffusa di allargamento degli orizzonti di ciò che può essere detto in poesia.<br />

Per questo motivo <strong>L'Ulisse</strong> si rivolge sia alla diversificata fenomenologia delle strutture poematiche<br />

(poema, poemetto, long poem, romanzo in versi, serie, ciclo, sequenza per frammenti) sia<br />

all'organizzazione macrotestuale del libro e dell'opera di poesia, con un attenzione privilegiata per<br />

gli ultimi tre decenni.<br />

In Percorsi italiani questo tema è affrontato in una serie di saggi monografici dedicati a singoli<br />

autori, seguendo un itinerario che muove dall'eredità della terza e della quarta generazione Ŕ e dalla<br />

funzione espansiva quivi giocata dalla forma poemetto Ŕ; trova poi un punto di snodo negli anni<br />

ottanta, con l'emersione paradigmatica degli approcci epistemologici da un lato della memoria lunga<br />

di Bertolucci Ŕ la Ŗgrande mano tesa a catturare il senso del tempoŗ della Camera da letto, secondo<br />

la bella immagine usata da Roberto Galaverni – e delle sequenze di frammenti di Antonio Porta<br />

dall'altro Ŕ i passi passaggi Ŕ; e infine si dispiega nei decenni successivi lungo le linee frastagliate<br />

della nuova poesia italiana degli anni novanta, per riaprirsi, a testimonianza del fatto che si tratti di<br />

un fenomeno di lunga durata e intergenerazionale, con le ultime prove di Majorino e Zanzotto negli<br />

anni zero. I saggi di Lisa Gasparotto, Luca Lenzini, Antonio Loreto, Lisa Cadamuro, Gabriella Palli<br />

Baroni, Andrea Gibellini, Roberto Galaverni, Gian Luca Picconi, Tommaso Di Dio, Giovanni<br />

Turra, Biagio Cepollaro eLuca Stefanelli ci accompagnano così lungo un itinerario in cui dispositivi<br />

poematici, nuclei lirici e strategie narrative si intersecano ed espandono nelle scritture di Pier Paolo<br />

Pasolini, Vittorio Sereni, Amelia Rosselli, Giovanni Giudici, Attilio Bertolucci (con le sue<br />

derivazioni in Alberto Bellocchio), Antonio Porta, Remo Pagnanelli, Giuliano Mesa, Mario<br />

Benedetti, Luciano Cecchinel, Giancarlo Majorino e Andrea Zanzotto.<br />

L'esigenza di condivisione metrica e di spazializzazione del discorso entro macrostrutture è forse<br />

uno degli effetti di lungo corso del germe teorico inoculato dalla prospettiva eccentrica e<br />

plurilinguistica di Amelia Rosselli. Il ready-made e la teoria degli spazi metrici di quest'ultima, alla<br />

cui analisi è dedicato l'ampio affresco di Antonio Loreto, sono peraltro la premessa di una<br />

ridefinizione dei confini tra i generi anche in un senso ulteriore. Nel Focus, infatti, l'eredità di<br />

Rosselli viene rivisitata secondo una traiettoria che passa attraverso lo snodo, non a caso emerso<br />

anch'esso negli anni ottanta, di un vero e proprio poema di montaggio quale i Fondamenti<br />

dell'essere di Patrizia Vicinelli Ŕ cui sono dedicati i saggi di Matteo Di Meco e Renata Morresi. Di<br />

qui l'esigenza, maturata nel corpo a corpo con le sperimentazioni dell'arte contemporanea e il<br />

bisogno di poesia totale proveniente dalla poesia visiva, di ripensare la nostra tradizione in un'ottica<br />

che Ŕ nella riflessione di Rosaria Lo Russo, in dialogo con Florinda Fusco Ŕ si riappropria del<br />

genere del poema epico come del nucleo di una nuova forma di soggettivazione femminile del<br />

canone poetico.<br />

L'interesse per la forma lunga, nella poesia italiana, è anche l'effetto di una serie di escursioni in<br />

altre tradizioni Ŕ in particolare nella poesia anglosassone Ŕ che a partire dagli anni quaranta e<br />

cinquanta Ŕ si veda il caso, analizzato in apertura di numero da Lisa Gasparotto, dell'eredità di Eliot<br />

nel poemetto di Pasolini L'italiano è ladro Ŕ fanno da sfondo ai percorsi italiani. Una prospettiva<br />

comparatistica, nella sezione Fuochi teorici, guida così l'interrogazione di Niccolò Scaffai sul<br />

rapporto tra crisi del soggetto e incroci macrotestuali tra lirica/epica/narrativa (da Montale a<br />

Pagliarani sino all'ultimo Caproni), mentre Vincenzo Frungillo rintraccia nello snodo tra tempo<br />

naturale, tempo storico e tempo biografico la faglia in cui, nel confronto con i modelli europei, si


incunea la produzione poematica della poesia italiana più recente, secondo una direttiva post-storica<br />

che sfugge alla tradizione ancora modernista del poema per frammenti, comportando un mutato<br />

approccio alla totalità dell'esperienza. L'incidenza della forma poema nella scritture contemporanee<br />

di autori di lingua tedesca, inglese e francese è quindi al centro della sezione Altri scenari, ove il<br />

lavoro di Yves Bonnefoy, Durs Gruenbein, Alice Oswald, W.G. Sebald e Anthony Hech è<br />

analizzata nei saggi di Enrico Capodaglio, Domenico Pinto, Francesca Matteoni, Raul Calzoni e<br />

Joseph Harrison. Chiude la parte saggistica del numero la sezione Incursioni, in cui Giovanna<br />

Frene, Marco Giovenale e Stefano Raimondi dipanano i fili poematici del proprio laboratorio di<br />

scrittura.<br />

Ai saggi si affianca, come al solito, una ricca scelta di testi di poeti contemporanei. La sezione<br />

Letture accoglie questa volta Fabiano Alborghetti, Dina Basso, Francesco Fillia, Giuseppe Fonte,<br />

Luca Minola, Luciano Neri, Gilda Policastro, Andrea Raos, Viviana Scarinci e Fabio Teti. Infine,<br />

ne I tradotti, ospitiamo poesie di John Ashbery (tradotto da Damiano Abeni), Francis Catalano<br />

(tradotto da Italo Testa), Kurt Drawert (radotto da Anna Maria Carpi), Santiago Elordi (tradotto da<br />

Matteo Lefèvre), Charles Reznikoff (tradotto da Andrea Raos), Jacques Roubaud (tradotto da Italo<br />

Testa), Vincent Tholomé (tradotto da Michele Zaffarano) e Nika Turbina (tradotta da Federico<br />

Federici).<br />

3<br />

Italo Testa<br />

3


IL DIBATTITO<br />

4<br />

4


PERCORSI ITALIANI<br />

5<br />

5


La dissonanza del mondo tra passato e presente.<br />

Eliot, Pasolini e la forma poema<br />

6<br />

These fragments I have shored against my ruins<br />

T. S. Eliot, The waste Land<br />

e puoi ascoltare come un diapason incantato<br />

la vita veramente umana che sale.<br />

P. P. Pasolini, L'italiano è ladro<br />

La critica alla società del dopoguerra, la desolazione e lo sconforto di una civiltà rinunciataria<br />

quanto a valori spirituali e disinteressata alla condizione umana; una rappresentazione poetica in cui<br />

passato e presente si mescolano sullo stesso piano, riproducendo una catena isotopica di immagini<br />

che ruotano attorno alla metafora centrale di una Ŗterra guastaŗ, in una congerie di sfiducia e<br />

fallimento è quanto Eliot ci racconta nella sua The waste Land. Un rapsodo dalla straordinaria forza<br />

intuitiva, che combina soluzioni metriche in bilico tra classicità e sperimentalismo, intertesti della<br />

tradizione letteraria con lo sperimentalismo individuale, in una multitonalità sospesa tra ironia e<br />

parodia, liricità e narratività, senza mai perdere di vista l'intenzione di fondo tesa alla<br />

rappresentazione della realtà o forse meglio della vastità dell'esistenza e della sua aridità.<br />

Erano gli anni Venti, anni di sperimentazione e innovazione. In quel brulichio (europeo) di<br />

inizio secolo le costruzioni poetiche eliotiane si configurano come un coacervo di elementi mitici,<br />

lirici e narrativi, senza tuttavia restituire un vero e proprio racconto in versi.<br />

Ora, quel che preme rilevare, è che l'eredità eliotiana sembra venire accolta, a distanza di un<br />

ventennio e sempre in un contesto storico post bellico, come quello del secondo dopoguerra, in un<br />

esperimento poetico mai finito di Pier Paolo Pasolini, risalente al crocicchio tra la fine degli anni<br />

Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta (la prima stesura risale infatti al 1948-1949): mi riferisco<br />

all'Italiano è ladro, un testo pubblicato in stralcio su «Nuova Corrente» nel 1955 e uscito poi dal<br />

laboratorio, in sede postuma, in una forma più estesa e comunque non-finita(1).<br />

Se il materiale poetico di Eliot era stato attinto dagli sviluppi dell'antropologia inglese a<br />

cavallo tra i due secoli (in specie Frazer e la sua scuola) ricavandone una serie di archetipi miticoantropologici,<br />

la rappresentazione del reale di Pasolini a cavallo tra i due decenni si fonda invece su<br />

archetipi di tipo storico-politico e ideologico (secondo una base interpretativa fornita da Marx,<br />

Croce e Gramsci ma anche dalla tradizione cristiana) approdando tuttavia, nel testo che qui si<br />

discute, a soluzioni formali non dissimili da quelle eliotiane (quali la suddivisione in sezioni, il<br />

malcerto e elusivo collegamento tra le personae di volta in volta introdotte nei vari episodi, la<br />

variazione del punto di vista, la forma del monologo o del dialogo Ŕ quest'ultimo sempre riducibile,<br />

in qualche modo, al primo Ŕ, gli intertesti della tradizione letteraria, e quindi una tessitura fatta di<br />

citazioni e allusioni, il plurilinguismo e la presenza, sebbene meno incisiva, delle note), e a<br />

un'unitarietà tematica (forse) più definita.<br />

Eliot si era sforzato di negare che la situazione da lui descritta fosse (solo) quella del primo<br />

dopoguerra: era piuttosto la crisi originata dalla percezione di una più generale aridità della<br />

condizione umana a concretizzarsi nel tropo della Ŗterra desolataŗ. Si trattava dello sforzo di unire<br />

due mondi, uno reale e contingente e l'altro incarnato nella tradizione (intesa in senso ampio) e nelle<br />

divergenti sollecitazioni della storia e della coscienza, come spiega nel celebre saggio Tradition and<br />

the Individual Talent, del 1919: «la tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente<br />

ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige che si abbia,<br />

anzitutto, un buon senso storico, cosa che è quasi indispensabile per chiunque voglia continuare a<br />

fare il poeta dopo i venticinque anni; avere il senso storico significa essere consapevole non solo<br />

che il passato è passato ma che è anche presente; il senso storico costringe a scrivere non solo con la<br />

sensazione fisica presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione, ma anche con la<br />

coscienza che tutta la letteratura europea da Omero in avanti, e all'interno di essa tutta la letteratura<br />

del proprio paese, ha una sua esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo»(2). In<br />

6


sostanza, Eliot sostiene che in questa tensione dialogica tra passato e presente anche ogni<br />

operazione artistica finisca con l'inscriversi necessariamente nella tradizione, modificandone a sua<br />

volta senso e prospettiva: non può darsi pertanto nessun tentativo artistico di prescindere dalla<br />

tradizione per fondare una nuova espressione e forma letteraria, se non in maniera illusoria. Tuttavia<br />

The waste land sembra rappresentare una sintesi contraddittoria di questi enunciati: citazioni e note<br />

si disseminano come detriti e frammenti del passato, segno evidente dell'impossibilità di un ritorno<br />

compiuto alla tradizione o, peggio ancora, della mancanza di possesso delle sue strutture. Se,<br />

dunque, per Eliot il senso della storia presume l'inserimento del passato nel presente con una<br />

modalità quasi immanente, e la tradizione si caratterizza in modo acronico, secondo un'esistenza<br />

sostanzialmente ideale, per Pasolini (che ha da poco Ŗscopertoŗ Marx(3)) la storia è invece<br />

prevalentemente la storia della lotta di classe e quindi della contrapposizione tra due mondi (che poi<br />

sono quello interiore e quello dell'alterità, quello della storia personale e quello della storia<br />

collettiva, quello proletario e quello borghese, e, pour cause, quella della tradizione e quello della<br />

modernità). Raccontare il rapporto tra passato e presente significa pertanto tendere alla<br />

rappresentazione di un conflitto e, per Pasolini, andare incontro a una serie di contraddizioni dovute<br />

alle dissonanze tra visione estetica, ideologia esplicita e ideologia profonda. In quel celebre<br />

segmento di Poesia in forma di rosa Pasolini scrive: «Io sono una forza del Passato. / Solo nella<br />

Tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d'altare, da borghi /<br />

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove son vissuti i fratelli»(4). E più tardi, in uno dei<br />

dialoghi con i lettori su «Vie Nuove», troviamo un altro noto adagio (che riprende, non a caso, i<br />

versi appena citati), in cui Pasolini si scaglia contro le aspirazioni di coloro i quali (e il riferimento è<br />

sostanzialmente alla neoavanguardia) negano il passato, in contrapposizione al suo Ŗsogno di una<br />

cosaŗ umanistico-marxista: «È un'idea sbagliata Ŕ dovuta come sempre alla mistificazione<br />

giornalistica Ŕ quella che io sia un...Ŗmodernistaŗ. Anche i miei più fieri sperimentalismi non<br />

prescindono mai da un determinante amore per la grande tradizione italiana e europea. Bisogna<br />

strappare ai tradizionalisti il Monopolio della tradizione, non le pare? Solo la rivoluzione può<br />

salvare la tradizione: solo i marxisti amano il passato: i borghesi non amano nulla, le loro<br />

affermazioni retoriche di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque,<br />

nel migliore dei casi, tale amore è decorativo, o Ŗmonumentaleŗ, come diceva Schopenhauer, non<br />

certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia. Mi lasci amare Masaccio e Bach, e detestare la<br />

musica sperimentale e la pittura astratta»(5). In questo senso sembra quindi interessante verificare<br />

come e se, in questo testo così confuso qual è L'italiano è ladro, sia vero che lo sperimentalismo<br />

pasoliniano non prescinde dalla tradizione, e in cosa consiste dunque la tensione tra passato e<br />

presente.<br />

Nel diario del poema si trova condensata l'indefessa tensione di Pasolini alla ricerca di<br />

chiarire, anzitutto a sé stesso, le proprie scelte poetiche, quindi formali, stilistiche e linguistiche, di<br />

definire insomma i propri modelli e la direzione del progetto del suo lavoro. In uno dei passaggi più<br />

significativi si legge: «nella sua Lettera a un giovane poeta (che mi doveva somigliare molto) la<br />

Woolf consiglia che dopo un periodo d'avarizia, di reclusione nella propria cella interiore dove<br />

vengono accumulati i tesori dell'esperienza mistica, irripetibile, conviene venire al balcone,<br />

rivolgersi al mondo, e investire sui propri capitali linguistici. Nel '48-'49 io mi sono trovato<br />

precocemente nel periodo in cui il Ŗgiovane poetaŗ apre le imposte. Mi è occorso però un pretesto;<br />

un elemento che era x, e che si chiama comunismo. Mettete in questo comunismo Cristo, i mistici,<br />

Croce, dell'umanitarismo, dell'esistenzialismo, la scienza (volgarizzata) e lo avrete umanizzato<br />

abbastanza per capire come potesse essere attivo nella mia vita interiore. Così ho aperto le imposte.<br />

Ma basta guardarlo, il mondo? Chi è il mondo? Il mio prossimo (Cristo) la mia storia (Croce), la<br />

società (il comunismo): tutto questo insieme (il mio demone)»(6).<br />

In quel torno di tempo (1949-1955) in cui decide di Ŗaprire le imposteŗ, Pasolini sta<br />

lavorando anche alle poesie dell'Usignolo della Chiesa cattolica (1958), al romanzo d'ambiente<br />

friulano Il sogno di una cosa (1948-1950), ai poemetti delle Ceneri di Gramsci (composti tra il<br />

1951 e il 1956) e sono anche gli anni di Ragazzi di vita (1955) e di «Officina» (1955-1959), per<br />

7<br />

7


quanto riguarda la produzione saggistica, dell'antologia Poesia dialettale del Novecento (1952) e del<br />

Canzoniere popolare (1955): tutte esperienze che si collocano notoriamente sulla stessa linea<br />

stilistica, linguistica ma anche ideologica, che affonda le proprie radici nella «regressione<br />

dellřautore nellřambiente descritto, fino ad assumerne il più intimo spirito linguistico»(7). È ancora<br />

nel diario che si chiarisce la portata umana e quindi politica del concetto di Ŗregressoŗ: «è stato il<br />

mondo esterno che ho Ŗcapitoŗ di cui mi sono fatto una competenza, che, un po' alla volta, come un<br />

organismo parassita in un altro organismo, è entrata in me, trasformandomi, facendo di me un altro:<br />

così mi sono trovato gomito a gomito coi miei coetanei poveri, dell'altra classe, ho sentito il loro<br />

odio di classe (che è una cosa autentica, necessaria, provvidenziale), ho sentito le loro disperazioni,<br />

il loro complesso d'inferiorità collettiva, il loro disprezzo di sé, e poi le loro allegrie accanite e<br />

accoranti... E tutto così stranamente privo di letteratura; esperienza così desolatamente umana che<br />

ne ho preso coscienza solo qualche anno più tardi, quando la Ŗcompetenzaŗ mi aveva già tutto<br />

pervaso e modificato. Possedevo dunque, il mondo di cui parla la Woolf. Ne ero regredito e<br />

riemerso […]. Adottata la formula: prestare la mia coscienza e la mia capacità di espressione,<br />

magari squisita, a un mio coetaneo o comunque al mio compagno, dotato solo di un primo albore di<br />

coscienza e infelice perché inespresso, potei compiere l'operazione che per me finì con l'essere una<br />

riscoperta del non-io. Era bastato quello spostamento minimo dell'io, da me a un mio coetaneo<br />

assimilato, perché il mondo mi comparisse in una luce evidenziante quasi facile!»(8). Non è un caso<br />

che anche lřuso del dialetto (in chiave mimetica e coerentemente anche diegetica) parta da una<br />

esperienza anzitutto antropologica e quasi sacra qual è lřesperienza dellřaltro, in una dimensione<br />

preculturale, vissuta con un sentimento quasi nostalgico per un passato che si riflette nel presente.<br />

Già nelle poesie della raccolta Dov'è la mia patria, composte tra il 1947 e il 1949(9), il Friuli non è<br />

più rappresentato dal mondo mitico e edenico di Narciso (quello delle Poesie a Casarsa e degli<br />

immediati dintorni, per intenderci(10)), ma è popolato dai giovani sfruttati dal potere. Una distanza<br />

incolmabile si frappone dunque tra il poeta e quell'umanità amata e incompresa, una distanza<br />

generata dalle differenze di estrazione che Pasolini sente fortemente, lui, borghese, lui così Ŗaltroŗ<br />

di fronte ai contadini friulani (e poi anche di fronte ai borgatari romani). La sua classe lo divide dal<br />

popolo, ma è anche l'unica possibilità che ha, attraverso la sua cultura, di avvicinarsi ad esso, di<br />

renderlo oggetto di rappresentazione. La pratica regressiva è anzitutto un'azione cosciente,<br />

ideologicamente mediata. È esattamente quanto Pasolini afferma ancora una volta nel diario del<br />

poema: «Dino chiede al borghese di regredire: atto altamente fantastico, l'unico che autenticamente<br />

trasporti da una classe evoluta a una meno evoluta. I dirigenti di partito non lo capiscono: lo<br />

confondono forse con l'umanitarismo»(11). Una dichiarazione che viene ripresa, nel 1958, a<br />

distanza di quasi un decennio, quando l'esigenza narrativa è già approdata a un genere più<br />

codificato (nel 1955 esce Ragazzi di vita e nel 1959 esce Una vita violenta), a un forma forse ancora<br />

più adatta a restituire il senso politico della stessa pratica regressiva: «nello scendere al livello di un<br />

mondo storicamente e culturalmente inferiore al mio Ŕ almeno secondo una graduazione razionale,<br />

ché, irrazionalmente, esso gli è poi assolutamente contemporaneo, per non dire più avanzato, nel<br />

suo vitalismo puro in cui Ŗsi faŗ la storia Ŕ nellřimmergermi nel mondo dialettale e gergale […] io<br />

porto con me una coscienza che giustifica la mia operazione né più né meno di quanto giustifichi,<br />

ad esempio, lřoperazione di un dirigente di partito: il quale come me, appartiene alla classe<br />

borghese, e da questa si allontana»(12). Bisogna poi dire che il regresso è fondamentalmente una<br />

scelta poetica che diventa quindi anche una soluzione stilistico-formale, una strategia per parlare del<br />

mondo rappresentato, per stabilire il proprio ruolo di scrittore-poeta in rapporto a quel mondo<br />

nellřintento più profondo di legittimarlo. A ben vedere, il «sentimento del regresso» si configura<br />

proprio come riflesso di quella evoluzione stilistica che consente a Pasolini di lasciarsi penetrare<br />

dalle culture «sopravviventi», depositarie (nella sua particolare mitologizzazione) di valori ben<br />

diversi da quelli della cultura borghese, fino ad accoglierne la loro lingua (il dialetto, appunto). Al<br />

regresso «da una lingua a unřaltra Ŕ anteriore e infinitamente più pura» corrisponde infatti un<br />

«regresso lungo i gradi dellřessere», nella ricerca di recupero, o comunque nel tentativo di non<br />

dimenticare la primordiale felicità edenica (prenatale-prestorica e prelinguistica). E non è dunque<br />

8<br />

8


un caso che gli esiti della produzione in versi di Pasolini approdino a risultati di poesia narrativa, in<br />

cui si definisce non tanto il sostrato ideologico che governa l'operazione regressiva, quanto le<br />

modalità con cui il Ŗregressoŗ, sul piano stilistico e persino su quello sociolinguistico, si realizza, e<br />

quindi le dinamiche attraverso le quali (nella poesia come poi accadrà nella narrativa) si esprime<br />

l'intenzione pasoliniana di oggettivare la materia della rappresentazione in quanto riflesso<br />

presuntamente autentico della Ŗrealtàŗ. Una posizione, peraltro, a cui Pasolini rimarrà fedele almeno<br />

fino al 1957, quando, in quel noto saggio officinesco che è La libertà stilistica, una sorta di<br />

dichiarazione a posteriori, si sofferma sulle proprie scelte formali: «La stessa passione che ci aveva<br />

fatto adottare con violenza faziosa e ingenua le istituzioni stilistiche che imponevano libere<br />

esperimentazioni inventive, ci fa ora adottare una problematica morale, per cui il mondo che era<br />

stato, prima, pura fonte di sensazioni espresse attraverso una raziocinante e squisita irrazionalità, è<br />

divenuto, ora, oggetto di conoscenza se non filosofica, ideologica: e impone dunque,<br />

esperimentazioni stilistiche di tipo radicalmente nuovo»(13). La pratica regressiva si manifesta<br />

dunque attraverso una nuova dimensione microstilistica, ma finisce anche con il prediligere<br />

strutture più apertamente poematiche e (forse) non potrebbe essere altrimenti: c'è un conflitto da<br />

raccontare, c'è soprattutto un mondo, quello del proletario, quello dell'altro, che deve potersi<br />

esprimere e di cui prendere coscienza. A quell'istanza per definizione monologica della poesia lirica<br />

si sostituisce (o si aggiunge) così la polifonia, l'intreccio di voci, anche se, a ben guardare, questo<br />

non porta necessariamente a un vero e proprio aumento del tasso di narratività. Insomma, per<br />

mettere in forma la rappresentazione del conflitto di classe è necessario un conflitto di voci: la<br />

poesia deve poter mettere in atto processi di discorsività e veicolare così contenuti non solo lirici,<br />

che nell'Italiano è ladro non coincidono ancora pienamente con una effettiva romanzizzazione. Ora,<br />

senza scendere nel dettaglio di questioni formali che andrebbero discusse, a fondo e singolarmente,<br />

anzitutto sul piano teorico(14), quello che mi preme rilevare è che nell'Italiano è ladro ci troviamo<br />

di fronte a elementi di narratività piuttosto generici e altamente mescidati con forme<br />

tradizionalmente monologiche della poesia. Regredire «lungo i gradi dell'essere», significa così<br />

anche regredire lungo i gradi della storia e delle forme, guardare a generi più popolari, codificati e<br />

autorevoli: e mi riferisco ad esempio alla tipologia della narrazione breve o brevissima che<br />

corrisponde al genere della ballata (popolare o romantica, in un'accezione rispettivamente folklorica<br />

e letteraria), di cui Pasolini può aver verosimilmente tenuto conto per il suo poema, nel tentativo di<br />

coniugare appunto popolare e letterario, passato e presente, basso e alto, proletariato e borghesia. A<br />

questo punto, esattamente come è accaduto per The waste Land, è evidente che anche per questo<br />

testo pasoliniano esiste un problema di forma che induce anzitutto a interrogarsi sul come e<br />

soprattutto sul dove sistemarlo in una classificazione dei generi. Si tratta di un poemetto narrativo,<br />

di un poema epico concentrato, di un romanzo in versi, o di un mosaico disorganizzato di frammenti<br />

di varia provenienza? e poi ancora, si può parlare di unità poetica e soprattutto formale per<br />

L'italiano è ladro? Tutte questioni che, com'è noto, anche il poema di Eliot aveva sollevato<br />

nell'acceso dibattito della critica eliotiana vecchia e nuova.<br />

Ora, che Pasolini avesse in mente proprio Eliot per il suo poema è dato certo(15). In un<br />

passaggio del diario si legge: «dal punto di vista formale: adattamento di brevetti eliottiani-joyciani,<br />

magari di seconda mano (via per es. C. E. Gadda); ingresso del giornalismo in poesia, non senza<br />

sfacciataggine; pastiche prosastico (si veda il principio poetico di Poe) per turgide tangenti liriche.<br />

Contaminazione dřispirazione Ŗdi testaŗ, sconveniente, ingenua e dřispirazione Ŗdi pettoŗ sempre<br />

però ingenua, quasi irritante nella sua ingenuità mescolata a unřeccessiva dimostrazione dřuna vita<br />

prossima allřintelligentia dei più aggiornati.[…] Per il mio poema mi sono riletto Eliot e varie<br />

antologie di poeti inglesi. Ho reimparato molte cose; prima di tutto a odiare il madrigalismo Ŕ che,<br />

nelle ben confezionate audacie sintattiche e prosodiche, sa di quella letteratura italiana Ŗche non<br />

sbaglia maiŗ; ho reimparato a detestare il gusto del limite, il senso della sconvenienza e della<br />

opportunità. […] Ma dřaltra parte ho paura dellřapprossimativo, che è un gran pericolo della tecnica<br />

adottata per ŖLřitaliano è ladroŗ; temo il prosastico, non tanto perché non mi renda conto che in un<br />

lavoro simile la prosa è ineliminabile, è fatale, quanto perché sospetto la prosaicità proprio del<br />

9<br />

9


contenuto cioè la debolezza del pensiero, il gioco scoperto della tesi; e non tanto le cadute<br />

sintattiche quanto i sintagmi da elzeviro, da prosa rondista […] Un articolo di Eliot su Milton mi ha<br />

chiarito qualche idea. Il mio macheronico mi ha fatta nausea; ho tagliato interi sterpi di versi, ho<br />

fuso insieme più strofe. […] Nell'insieme ho rinunciato a molto prosastico Ŕ e molto a malincuore,<br />

poiché si tratta in questo senso, di un ennesimo fallimento Ŕ in favore del poetico»(16).<br />

Il faticoso travaglio creativo, mai giunto a una forma definitiva, testimonia quella che<br />

possiamo definire Ŗfunzione Eliotŗ nella pratica compositiva e di revisione dell'Italiano è ladro.<br />

Eliot si era espresso su Milton, per la seconda volta nel 1947, e da quel saggio, in cui paiono<br />

condensati i principi formali a cui Pasolini guarda per il suo poema, vale la pena di citare più<br />

diffusamente: «nella letteratura, non più che in tutte le altre cose dell'esistenza, non si può vivere in<br />

uno stato di rivoluzione permanente. Se ogni generazione di poeti si assumesse il compito di portare<br />

il linguaggio poetico allo stesso grado d'attualità della lingua parlata, la poesia mancherebbe a uno<br />

dei suoi doveri più importanti; in quanto essa deve aiutare non solo a raffinare la lingua dell'epoca,<br />

ma a impedire che questa muti tropo rapidamente. Uno sviluppo troppo rapido della lingua<br />

comporterebbe un progressivo deterioramento, e questo è attualmente il nostro pericolo. Se la futura<br />

poesia di questo secolo seguirà quella linea di sviluppo che, riesaminando il cammino compiuto<br />

nella poesia degli ultimi tre secoli, a me pare giusta, essa scoprirà nuove e più complesse<br />

espressioni nell'ambito di un linguaggio ormai stabilito. In questa ricerca molto potrebbe imparare<br />

dalla prolungata struttura del verso di Milton, potrebbe anche evitare il pericolo d'un asservimento<br />

alla lingua parlata e al gergo corrente. Potrebbe imparare che la musica del verso è fortissima nella<br />

poesia che ha un preciso significato espresso con parole appropriate. I poeti potrebbero essere<br />

indotti ad ammettere che una conoscenza della propria letteratura, e insieme della letteratura e della<br />

struttura grammaticale di altre lingue, è una parte preziosissima del corredo d'un poeta. E ho già<br />

suggerito che potrebbero dedicare un certo studio a Milton, come al più grande maestro inglese,<br />

fuori del teatro, di libertà entro la forma»(17). Per il suo poema Pasolini sembra accogliere anzitutto<br />

il suggerimento di esclusività del codice, perfettamente inscrivibile nel classicismo modernista di<br />

Eliot, senza tuttavia tenere conto del fatto che il «pericolo di asservimento» era senz'altro pertinente<br />

nell'ambito della letteratura inglese, molto meno nel contesto di quella italiana dove, com'è noto, la<br />

poesia non era ancora approdata a esiti di aderenza mimetica al parlato: forse un pretesto per tentare<br />

di riassestare le proprie scelte in direzione, appunto, della lingua letteraria e di quella che nel diario<br />

definisce «lingua-musica»(18).<br />

Occorre quindi osservare la struttura del poema, tenendo conto di questa spia eliotiana per<br />

verificare cosa è accaduto alla tessitura stilistica di questi versi, così provati da continui<br />

rimaneggiamenti e ripensamenti. Lo sperimentalismo dellřItaliano è ladro è per certi aspetti<br />

ecclettico. Sul piano formale, colpisce anzitutto lřadozione (specie nella Redazione Falqui) di quella<br />

rarissima terzina lirica in novenari(19), che va a unirsi alle lasse di versi canonici di diversa misura<br />

e di versi liberi di varia estensione non rimati di cui si compone il poema. Sul piano linguistico poi,<br />

l'ampia geografia dialettale plurilingue si configura nella strana mescolanza di elementi popolari,<br />

marcati diastraticamente, con lessemi appartenenti alla tradizione letteraria o comunque disusati,<br />

con fonti lessicografiche e con veri e propri intertesti letterari, di cui peraltro Pasolini, talvolta, si<br />

preoccupa di riportare in nota anche il riferimento bibliografico: da Euripide («ite, thoai Lyssas<br />

kunes, / itřeis oros»), alle lettere di Santa Caterina, al Libro de li exempli, sulla base del quale<br />

modella alcuni versi in veneziano antico («e le ysle si muove dal so logo il sole / si oscura e viene<br />

negro de caligine»), ai versi in italiano antico che ricalcano una formula di una confessione umbra<br />

dell'XI sec. («Alla prima alba / io me accuso de lo genitore et de la / genitrice mia, křilli / me<br />

puosero in ista istoria hora»)(20). Da notare che, mentre The waste Land è fittamente abitata da<br />

intertesti della grande tradizione europea, quasi a disegnare l'unità linguistica del Sacro Romano<br />

Impero, vista la scelta di codici che appartengono, appunto, alla tradizione (quali il latino, l'italiano,<br />

il tedesco, il francese, l'inglese), nell'Italiano è ladro la scelta intertestuale, ad eccezione del greco<br />

di Euripide, riporta prevalentemente alla tradizione popolare e quindi all'utilizzo di codici marcati<br />

diastraticamente (i dialetti della fascia settentrionale e l'italiano popolare). Per contro, per quanto<br />

10<br />

10


iguarda le scelte metriche, la discontinuità introdotta dal verso libero, intervallata dalla terzina, fa<br />

pensare a una sorta di volontà a saldare in un certo senso i conti con la tradizione, con il passato,<br />

integrandolo nel presente. In questo, per lo meno da un punto di vista tecnico, Pasolini sembra<br />

condividere fattivamente gli intenti eliotiani. Una volontà che spiegherebbe peraltro i numerosi<br />

tentativi di coniugare, proprio e soprattutto nelle terzine, un lessico basso con una struttura e un<br />

tono lirico («azzurri orizzonti che mute Lingue / svelano come un canto dřanime!», «E presso i neri<br />

e gli azzurri / dei tunnel, dei bivii, le Lingue / segnavano Salvenach, Fiume, / su pontebbane dai<br />

cigli azzurri») e di tematizzare la differenza tra lingua e dialetto («Lingua non dialetto è il cuore /<br />

dei signori del lungomare, / alla messa di mezzogiorno», in questo senso esemplare è il verso in cui<br />

il personaggio del ragazzo ricco è associato allřitaliano, lingua della burocrazia, ingranaggio che<br />

stritola il povero, «Qui Brigadiere Scogna Salvatore / discorre in italiano e io non ci capisco<br />

nulla»(21)). Questa contaminazione viene confermata inoltre dall'inserimento dell'elemento corale,<br />

che si impone sulla scena alla maniera aristotelica, «come uno degli attori, [che] deve essere parte<br />

del tutto e partecipare allřazione»(22) e va quindi a realizzare una sorta di pastiche di strutture della<br />

modernità e di quelle della tradizione, in un andamento quasi musicale (per lo meno negli intenti<br />

dell'autore). Scrive Pasolini nel Diario del poema: «particolarmente musicale la terza parte, in cui la<br />

Madre si alterna alle Madri […] (con motivi musicali presi dal Settecento, dal Cinquecento, dal<br />

Duecento e dalla musica religiosa gregoriana; e infine il disgregarsi della lingua-musica in<br />

dissociazioni e balbettii carichi del dolore dell'impotenza e del primordiale»(23).<br />

Chi parla, dunque, in questo testo dal piano compositivo apertamente diegetico? Per definire<br />

il quadro enunciativo è essenziale precisare che L'italiano è ladro racconta la storia di due ragazzi<br />

inizialmente cresciuti insieme, il figlio del contadino e il figlio del padrone. Il primo finisce per<br />

emigrare e vive le lotte della propria classe, mentre il secondo si piega al proprio destino borghese.<br />

La condizione di figliolanza dei due giovani è resa esplicita dalla presenza di una terza voce, quella<br />

della madre del giovane contadino, cui si aggiunge il coro delle madri, indicativo di una condizione<br />

che non è solo individuale ma collettiva e pertanto storicamente situata. Sono voci che, nelle varie<br />

stesure del testo, appaiono e scompaiono di volta in volta a seconda dei tagli e delle aggiunte che<br />

Pasolini compie. Il discorso poetico ruota principalmente attorno al personaggio di Dino, il giovane<br />

contadino che è allo stesso tempo protagonista e dedicatario dellřopera, e soprattutto figura di tutti Ři<br />

parlantiř che compaiono nelle poesie di Dov‟è la mia patria e quindi di tutta quella classe «di<br />

ragazzi poveri e sfortunati» che con lui viene portata a un massimo di rappresentanza allegorica.<br />

Osservando le marche pronominali, nellřopposizione incalzante tra lřio e il tu («io e il<br />

bordelletto del signore», «Io e il figlio del padrone», «io e te si partiva», «tu reggevi la legnola, io la<br />

vermena», «mio padre / crepava con tutta lřArgentina, il tuo / avanzava di grado»(24), ecc..) viene<br />

esemplificata lřappartenenza dei personaggi (allocutore e allocutario) a due mondi contrapposti<br />

ideologicamente («il tuo mondo non macellò mica il mio mondo», «il tuo mondo non scavò mica la<br />

fossa al mio», «e non marcirono, no, i nostri due mondi», «i due mondi si sono scontrati», «i nostri<br />

due mondi»(25)). Nell'istanza enunciativa è rilevante la presenza di una progressiva assunzione del<br />

punto di vista del personaggio da parte dellřautore: Pasolini infatti, a un certo punto, si identifica<br />

con il ragazzo povero, inserendo sé stesso nel contesto dellřazione descritta. Si ha uno spostamento<br />

graduale da una terza persona («i signori e i poveri non si son mica; i signori non hanno») alla<br />

seconda («voi non ci avete mica; tu e quelli come te; voi che nascete»). Dai generici due mondi («i<br />

due mondi non si») si passa allřincalzante successione degli aggettivi possessivi tuo e mio («il tuo<br />

mondo»; «il mio mondo»; «i nostri due mondi»). La continuità spazio-temporale di questa<br />

opposizione è resa poi con il passaggio dalla prima persona singolare alla prima plurale e dalla<br />

seconda persona singolare alla seconda plurale, dallřio al noi e dal tu al voi, che traduce una<br />

progressiva coscienza del sé e della propria identità, segno di conquista di un sentimento comune, di<br />

appartenenza sociale e di apertura alla storia collettiva («Oggi ci odiamo, domani ci<br />

ammazzeremo», «Io condirò il mio pezzo di pane solo / col tuo sangue borghese, perché / i due<br />

mondi non si inzuccavano mica sul Foro, non si sputarono mica addosso», «noi poveretti», «la<br />

nostra cucina», «i padri giovinetti dei nostri bisnonni padani», «vi pensate», «noi poveri», «nostri<br />

11<br />

11


cuori vergini»(26)). In altre parole la comunicazione passa da un io, che si tramuta in un noi, e da<br />

un tu che diventa voi nel momento in cui il soggetto partecipa di una sorte comune agli uomini della<br />

propria classe, con maggior forza nel finale. Si attua progressivamente una sorta di rovesciamento<br />

che conferisce carattere di continuità sociale e garantisce lřevoluzione del senso della narrazione: il<br />

noi assume da un certo momento in poi un significato di azione collettiva e lřallocutore è un tu che<br />

sembra incarnarsi nella figura del lettore piccolo borghese. Anche la terza voce, che è quella madre<br />

di Dino, nel passaggio dallřio al noi, diventa un coro che coinvolge, in un lamento collettivo, tutte le<br />

madri di quei figli «poveri e sfortunati», accomunate da una condizione di sofferenza e povertà («Io<br />

questo ŖGinoŗ o ŖPirùcŗ o ŖMilaneseŗ / lřho portato nella pancia chřera autunno», «Dino come suo<br />

zio, / che era il più bello della contrada»(27)). Il coro delle «madri che bestemmiano nel dialetto<br />

proletario / dellřOttocento, del Cinquecento, del Mille»(28) per la morte dei propri figli, è un pianto<br />

collettivo. Non cřè più lingua per dire il dolore che ha attraversato i secoli, le regioni, i paesi, la<br />

storia:<br />

Noi madri medievali scorriamo<br />

torrenti di lacrime nel tuo ventre silenzioso,<br />

non ci sono più lingue per dar voce al dolore,<br />

…madri?...chi piange mai?...Non foglia più<br />

lřalbero genealogico, non cřè più Lingue…<br />

Que farà eo?...Le madri veneziane<br />

Piangono il loro pianto delle origini!(29)<br />

Nelle battute finali lo scontro tra classi sociali antagoniste appare ancora più crudele, esasperato<br />

dalla gestione dellřistanza enunciativa: lřautore si inserisce via via nelle voci sia del figlio del<br />

popolo, sia del figlio della borghesia, sia della madre del ragazzo povero, ma anche dei cori che<br />

partecipano alla scena. Spia dřingresso di questa presenza autoriale è in particolare un verso, in cui<br />

questa rottura è resa esplicita: «sulla linea del mio cuore / i due mondi si sono scontrati»(30): è da<br />

quel momento in poi che sulla scena sembra esserci anche lřautore. Si tratta di una<br />

transindividualità che viene anche tematizzata. Si realizza così un passaggio nodale che consente di<br />

stabilire come Dino non sia di fatto un personaggio, che si pone cioè al di là della presenza<br />

dell'autore, ma come, ad un certo punto della storia, diventa una sorta di altro da sé. Questo<br />

spostamento è confermato da una serie di strategie narrative tra le quali la più evidente è la presenza<br />

di parole bivoche (in senso bachtiniano), ovvero di espressioni linguistiche che, nelle parti gestite<br />

diegeticamente dal narratore, sono da mettersi in carico ideologico ai personaggi o addirittura ai<br />

cori («Scendi giù mamma, scendi giù / nei regni della morte dov'è sceso Dino, / ah mamma, voltati<br />

indietro, risali il fiume / dei secoli, al di là», «lui quasi Dio, parlante di un'isola platonica / che cosa<br />

facevano in fondo all'albero / genealogico pieno di padri ignoti / le antenate umbre di Dino?» (31)).<br />

Pasolini, in definitiva, presta la sua voce a Dino e con la sua voce lo fa parlare (lui e la<br />

classe proletaria), adottando il procedimento regressivo: il poeta, piccolo borghese, esprime così<br />

anche se stesso, presta la propria capacità espressiva al ragazzo povero. In questo modo anche<br />

autobiografia e scrittura vanno a coincidere, come dimostrano i passaggi in cui sono fortemente<br />

presenti alcuni elementi paesaggistici inconfondibilmente cari al poeta, mescolati a quelle tracce di<br />

storia familiare che prendono forma nei significativi inserti di genealogia familiare, modalità tipica,<br />

peraltro, della narrazione epica:<br />

Quella volta la roggia passava ancora per la piazza<br />

e i Miorin andavano allřelemosina<br />

e la Teresa era la più sgualdrina della contrada<br />

e i nostri cugini avevano ancora la distilleria<br />

e dallřaltro secolo tremava ancora una canzone:<br />

Xe morto Radeschi<br />

12<br />

12


Xe messo in pignata<br />

e lřAustria era fresca come una rosa,<br />

e la nostra bisnonna fresca come una rosa<br />

veniva giù dalla Polonia col soldato di Napoleone,<br />

freschi come rose morivano i soldati di Osoppo,<br />

fresco come una rosa il nonno<br />

fece il soldato del Re, freschi come rose<br />

sulla roggia che ancora passava per la piazza<br />

freschi come rose cantavano i morti vespri e serenate(32).<br />

A ben guardare, le parti del testo che corrispondono alla cosiddetta digressione epica si traducono,<br />

appunto, nella genealogia familiare, che appare sganciata da una funzionalità specificamente<br />

diegetica, ma che va a legare invece l'attualità dell'azione a un continuum storico, integrandola in un<br />

flusso temporale senza interruzione alcuna. Sono passaggi che rispondono a un bisogno di<br />

autorappresentazione coerente, senza fratture temporali. In questo senso, possiamo parlare di<br />

modalità epica come simultanea integrazione del tempo e dello spazio. Le geneaologie pasoliniane<br />

esprimono infatti il bisogno di radicamento in un passato, esprimono, in altre parole, il tentativo<br />

dell'autore di spiegarsi, nel fluire del tempo e della storia, le cause della propria identità, il senso<br />

della propria posizione nella storia, nella misura in cui, come accade nella modalità epica, si saldano<br />

un passato (che è Ŗvalorosaŗ genealogia) e un presente. Non viene raccontata la storia di una<br />

famiglia a introdurre la psicologia dell'eroe, com'è nel romanzo, ma la narrazione si configura come<br />

interfaccia tra la micro-storia della famiglia e la grande storia nazionale, com'è tipico del modo<br />

epico. Si chiarisce in questo modo anche il tentativo pasoliniano di dare voce a un eroe proletario e<br />

quindi di uscire dalle strutture tipiche del romanzo borghese mediante l'inserimento di elementi<br />

tipici del modo epico. Nonostante ci sia l'entrata in scena dell'altra classe e l'eroe sia di fatto un eroe<br />

proletario, si tratta di un personaggio che, anche se è oggetto di un tensione di ancoramento a un<br />

coro epico relativo alla grande storia, mantiene i tratti psicologici tipici dell'eroe borghese, che sono<br />

un po' la traccia di una soggiacente identificazione dell'autore con il personaggio (autore che presta<br />

la sua soggettività borghese al personaggio). Non c'è quindi un'incorporazione dell'altro,<br />

tipicamente epica, ma un gioco di specchi, borghesemente romanzesco. La modalità epica si<br />

inserisce così nella struttura romanzesca senza però scalfirne veramente i caratteri e senza davvero<br />

metterne in discussione i presupposti ideologici. Significativa in questo senso anche la presenza di<br />

una progressione del campo verbale, dai tempi narrativi ai tempi commentativi: lřimperfetto<br />

narrativo diventa presente, in una proiezione che comprende anche il futuro, confermando<br />

lřesistenza di una catena isotopica temporale (ma anche tematica e spaziale) che va a rafforzare<br />

ulteriormente il carattere macrotestuale del testo. Un tempo passato («giocavamo gudulando»,<br />

«mignoli di dodicřanni, che dřaccordo si faceva», «tu tenevi le palpebre chine»(32)), del ricordo<br />

(«mi penso che si telava», «e gli uccelli, ricordi?», «non ti pensi?», «non ti ricordi?», «mi penso»,<br />

«vi pensate compagni?»(34)) che si contrappone al presente («Adesso è padrone dellřaria», «vedi<br />

che tutto è suo»). È il passaggio, peraltro coincidente con la vicenda autopoetografica dellřautore:<br />

dalla giovinezza quasi a-storica («Ah luccicanti cucurriti dei galli! / io e te si partiva pel sentiero,<br />

sui muschi / e i frondai molli di guazza, / imbarlumiti dallřalba, che gioia!», «nei dopocena tiepidi<br />

sotto le stelle»(35)), alla dimensione della storia («Roosvelt ti sorrideva / i vescovi ti porsero<br />

lřanello», «A Friburg ařn parlavi brisa il fransèis / a Lubiana non parlavo il sloveno, / e adès què in<br />

Itèlia…è meglio che stia zitto, / se no puvàtt Crist e quella puttana della Madonna…»(36)), e quindi<br />

alla ormai matura coscienza di classe («così splende in noi poveri lo Spirito», «lřumanità che balena<br />

in chiari / frammenti ne buio delle nostre Lingue», «lřumanità fremente di passioni limpide / che<br />

riluce fra le catene / della nostra esistenza schiva dřumiltà», «oh tu che questa umanità<br />

intravedi»(37)).<br />

Anche la scelta linguistica riproduce un intento fondamentalmente ideologico-politico: e non<br />

è un caso che la mimesi della realtà sociale dei parlanti risulti scandita da una forte e marcata<br />

13<br />

13


escursione linguistica del lessico basso in un crescendo che culmina con la bestemmia, unica<br />

risposta alla crisi di legittimazione della parola, ed espressione essa stessa di uno stile(38). A<br />

bestemmiare con lřautore è ora una intera classe sociale: quei poveri, con le loro madri («Sentite, ah<br />

sentite, nel ventre dellřItalia / le madri che bestemmiano nel dialetto proletario»), ai quali il poeta<br />

presta la propria voce, servendosi dei loro dialetti, nel tentativo quasi estremo di farsi riconoscere<br />

come una sorta di maître a penser, di mettersi a loro disposizione, offrendo loro la lingua dei padri,<br />

la lingua del potere, grazie alla quale anchřessi potranno avere piena coscienza di sé, della micro e<br />

macro storia, e potranno emanciparsi rovesciando a loro volta quello stesso potere che li opprime.<br />

Una conquista che muove la propria ragione dřessere dalla dottrina del cristianesimo e dal Ŗsogno di<br />

una cosaŗ marxista. Lřeffetto di questa tecnica di straniamento è più incisivo nella progressione<br />

conclusiva della storia raccontata, che si chiude con tre testi lirico-ragionativi che prendono forma<br />

in un coro politico con un impianto di nobile retorica ideologica. Il finale, tuttavia, sembra<br />

politicamente ambiguo: nellřinvocazione del ritorno della lingua di Dino, si realizza una sorta di<br />

identificazione tra preistoria e speranza, regressio intrauterina e alba della presa di potere del<br />

popolo, ideologicamente mediata:<br />

lřumanità che balena in chiari<br />

frammenti nel buio delle nostre Lingue,<br />

balbettio, o, se vuoi, canto<br />

dřallodola presa da un amore muto Ŕ<br />

lřumanità fremente di passioni limpide<br />

che riluce fra le catene<br />

della nostra esistenza schiava dřumiltà,<br />

nella bassezza dellřanimale,<br />

oh tu che questa umanità intravedi<br />

dietro stupende nostalgie,<br />

e sai che lo spirito del secolo<br />

ne depone nei ricchi solo una pallida schiuma,<br />

che la ragione della classe<br />

padrona dellřumano<br />

(mentre ne è invece un palpito morente)<br />

arresta il nostro cammino…<br />

e puoi ascoltare come un diapason incantato<br />

la vita veramente umana che sale<br />

in spighe non mietute da un seme felice,<br />

e compatire lřingenua malvagità<br />

che balbetta come un ubriaco<br />

nei nostri cuori vergini che tremano<br />

davanti allřangelo dellřannunciazione,<br />

e sai capire le cupe amarezze<br />

che sognano sangue per allattare i figli<br />

affamati Ŕ oh amico, oh fratello<br />

ritorna con noi<br />

porta tra noi la tua Lingua<br />

donaci la tua Lingua che pianga il declinare<br />

della razza sotto le valanghe brutali<br />

e svisceri dal buio prenatali i rossori<br />

dellřalba, e ci guidi come un canto<br />

dřincudini lungo la strada<br />

che ci darà il potere sullřumano(39).<br />

14<br />

14


Così, dallo stridere di due mondi, l'uno incarnato in una dimensione esistenziale pregna di<br />

valori che sembrano appartenere solo al passato e l'altro teso alle sollecitazioni del presente,<br />

affiorano le contrapposte spinte della tradizione, imperfettamente e ampiamente intesa. Una<br />

tradizione che è anche figura dell'autorità, da cui si scorge un'angoscia esistenziale e politica che<br />

cerca una sua forma e finisce per organizzarsi in discorso poetico.<br />

Come all'intellettuale che si aggirava tra le rovine della tradizione, quasi unica fonte di<br />

speranza nella desolazione e nell'aridità del tempo e dello spazio, non restava che ammucchiarle per<br />

arginare l'incombere della storia, a distanza di un ventennio all'intellettuale che urlava la propria<br />

rabbia e impotenza di fronte alla sempiterna lotta di classe, non restava che puntellare le macerie<br />

della propria esperienza poetica friulana con i frammenti dell'ideologia e percorrere quindi altri<br />

sentieri più pervi per raccontare il mondo, interiore e storico. Pasolini ne era consapevole: «c'è un<br />

cattivo gusto del dopoguerra a cui naturalmente non sarò riuscito a sfuggire del tutto: ma se in parte<br />

l'ho fatto, lo devo alla sofferenza, all'insofferenza, alla rabbia, alla sfiducia cui sono stato preda<br />

nello scrivere questi versi. Una tremenda voglia di fare e una tremenda voglia di non fare.<br />

Impotenza e ispirazione»(40). E se Eliot ebbe al suo fianco Pound, pronto a estirpare con la cesoia<br />

l'eccedente, e a portarlo a una forma (che comunque rimane non unitaria) in cui la tradizione si<br />

integra con la modernità attraverso un evidente artificio metaletterario, Pasolini non riuscì<br />

interamente a essere un «miglior fabbro» di sé stesso, non riuscì a risolvere il dissidio del conflitto<br />

di classe e la distanza incolmabile tra i due mondi, non riuscì quindi a non perdere di vista un<br />

materiale in continua espansione, un non-finito strutturale che nei «capoversi in ebollizione»(41)<br />

dell'Italiano è ladro si traduce nell'incapacità di unire istanze di tipo poematico, con istanze di tipo<br />

narrativo e con istanze di tipo tematico: in definitiva, un sostanziale fallimento, da cui deriva la<br />

volontà di trovare altre vie per esprimere, appunto, la dissonanza del mondo.<br />

15<br />

Lisa Gasparotto<br />

Note.<br />

(1) P. P. Pasolini, Da “L‟italiano è ladro”, in «Nuova Corrente», I, n. 3, gennaio 1955, pp. 234-239. La redazione del<br />

testo uscita in rivista, accompagnata da ulteriori frammenti, ha visto poi la luce in sede postuma in Id., Bestemmia. Tutte<br />

le poesie, a cura di G. Chiarcossi e W. Siti, prefazione di G. Giudici, Milano, Garzanti, 1993, pp. 1648-1654; un'altra<br />

redazione del testo (la cosiddetta Redazione Falqui) si legge ora in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura e con uno<br />

scritto di W. Siti, con un saggio introduttivo di F. Bandini, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 2003<br />

(d'ora in avanti indicato con la sigla TP), II, pp. 793-798.<br />

(2) T. S. Eliot, Tradizione e talento individuale (1919), in T. S. Eliot, Opere, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani,<br />

1986, pp. 720-721.<br />

(3) Si pensi ovviamente al testo La scoperta di Marx, nell'Usignolo della Chiesa cattolica, in TP, I, pp. 497-503. Si<br />

tenga inoltre conto di quanto scrive Al lettore nuovo: «ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di<br />

braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del Lodo De Gasperi doveva essere il titolo del<br />

mio primo romanzo, pubblicato invece poi nel 1962 col titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx<br />

e Gramsci. La trasformazione e la fusione […] dei miei due filoni poetici, lřanti-italiano in falsetto e lřitaliano eletto,<br />

avviene sotto il segno del mio marxismo mai ortodosso. È lentamente che arrivo al Ŗpoema civileŗ», P. P. Pasolini, Al<br />

lettore nuovo, ora in SLA, pp. 2517-2518.<br />

(4) P. P. Pasolini, Poesia in forma di rosa, in TP, I, p. 1099.<br />

(5) P. P. Pasolini, «...una forza del passato», in «Vie Nuove», 42, XVII, 18 ottobre 1962, poi in Id., Le belle bandiere.<br />

Dialoghi 1960-1965, a cura di G. C. Ferretti, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 233-244.<br />

(6) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), in TP, II, pp. 865-878; pp. 869-870. Cfr, inoltre<br />

V. Woolf, Lettera a un giovane poeta, a cura di M. Premoli, Milano, Archinto, 2000. La Woolf si chiede perché mai la<br />

poesia, dopo essersi «onestamente scrollata di dosso certe falsità», non dovrebbe «aprire gli occhi, guardare fuori dalla<br />

finestra e scrivere delle altre persone». Per uscire ed entrare nel mondo degli altri il poeta dovrebbe a ogni buon conto<br />

riuscire a «trovare il giusto rapporto […] tra il Ŗséŗ che conosce e il mondo esterno». «È un problema difficile», dice<br />

sempre la Woolf, tanto difficile che «nessun poeta vivente lo ha ancora fatto». La scrittrice invita così lřamico John<br />

Lehamann, a «scoprire il rapporto tra cose incompatibili mentre hanno unřaffinità misteriosa, assorbire ogni esperienza<br />

che attraversa la […] strada, senza timore e saturarla completamente in modo che la […] poesia sia un insieme, non un<br />

frammento; ripensare la vita umana in poesia onde darci di nuovo la tragedia e la commedia attraverso personaggi<br />

concentrati e sintetizzati come fanno i poeti. […] Tutto quello che devi fare adesso è stare alla finestra e lasciare che il<br />

tuo senso ritmico si apra e si chiuda, si apra e si chiuda, in modo audace e libero finché una cosa non si fonde in<br />

unřaltra, finché i tassi non si mettono a ballare con i narcisi, finché da tutti questi frammenti separati non si viene<br />

15


formando un insieme. […] Poi lascia che il tuo senso ritmico si snodi tra gli uomini e le donne, tra gli omnibus, i passeri<br />

Ŕ qualsiasi cosa si presenti lungo la strada Ŕ finché non li abbia legati in un tutto armonioso» (pp. 39-42).<br />

(7) P. P. Pasolini, Il metodo di lavoro [1958], in Appendice a Ragazzi di vita, Torino, Einaudi, 1983, p. 210.<br />

(8) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), in TP, II, pp. 870-871.<br />

(9) La plaquette, illustrata con 13 disegni da Giuseppe Zigaina, è stata pubblicata in 500 copie numerate e non è mai<br />

stata ristampata (P. P. Pasolini, Dov'è la mia patria, Casarsa, Edizioni dell'Academiuta, 1949). Alcuni componimenti<br />

della raccolta si leggono anche nella seconda sezione (dal titolo Il testament Coràn) del canzoniere friulano La meglio<br />

gioventù, sebbene con significative varianti di redazione; a questo proposito cfr. Note e notizie sui testi, a cura di W.<br />

Siti, M. Careri, A. Comes e S. De Laude, in TP, I, pp. 1460-1494; in particolare le pp. 1488-1491; si veda inoltre<br />

l'edizione critica e commentata P. P. Pasolini, La meglio gioventù, a cura di A. Arveda, Roma, Salerno, 1998.<br />

(10) Oltre alla raccolta d'esordio (Poesie a Casarsa, Bologna, Libreria antiquaria Mario Landi, 1942), il riferimento è<br />

anche ai successivi esiti poetici (Poesie, San Vito al Tagliamento, Stamperia Primon, 1945; Diarii, Casarsa,<br />

Pubblicazioni dell'Academiuta, 1945, Ŕ ristampa anastatica del 1979, con una premessa di N. Naldini Ŕ; I pianti,<br />

Casarsa, Pubblicazioni dell'Academiuta, 1946), che entrano in larga parte nella prima sezione del canzoniere friulano La<br />

meglio gioventù. Poesie friulane, Firenze, Sansoni («Biblioteca di Paragone»), 1954, ora in TP, I, pp. 1460-1494.<br />

(11) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), in TP, II, p. 876.<br />

(12) P. P. Pasolini, Il metodo di lavoro [1958], in Appendice a Ragazzi di vita, Einaudi, Torino, 1983, p. 210.<br />

(13) P. P. Pasolini, La libertà stilistica, in Passione e ideologia (1960), ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull'arte, a<br />

cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di C. Segre, cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1999<br />

(d'ora in avanti indicato con la sigla SLA), I, p. 1233.<br />

(14) Nell'ambito degli studi sulla narratività nella poesia italiana si vedano almeno M. A. Bazzocchi, Poesia come<br />

racconto, in M. A. Bazzocchi, F. Curi (a cura di), La poesia italiana del Novecento. Modi e tecniche, Bologna,<br />

Pendragon, 2001, pp. 151-185; A. Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Torino,<br />

Bollati Boringhieri, 1994; P. Giovannetti, Modi della poesia italiana contemporanea. Forme e tecniche dal 1950 a oggi,<br />

Roma, Carocci, 2005; L. Lenzini, Interazioni. Tra poesia e romanzo: Gozzano, Giudici, Sereni, Bassani, Bertolucci,<br />

Trento, Temi, 1998; R. de Rooy, Il narrativo nella poesia moderna. Proposte, teoriche & esercizi di lettura, Firenze,<br />

Cesati, 1997; E. Testa, Il libro di poesia. Tipologie e analisi macrotestuali, Genova, Il Melangolo, 1983, Id., Per<br />

interposta persona. Lingua e poesia del secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999, Id., L'esigenza del libro, in M. A.<br />

Bazzocchi, F. Curi (a cura di), La poesia italiana del Novecento, cit., pp. 97-119, Id., Lingua e poesia negli anni<br />

Sessanta, in S. Giovannuzzi (a cura di), Gli anni '60 e '70 in Italia. Due decenni di ricerca poetica, Genova, San Marco<br />

dei Giustiniani, 2003, pp. 21-43; P. Zublena, Narratività (o dialogicità?). Un addio al romanzo familiare, in S.<br />

Giovannuzzi (a cura di), Gli anni '60 e '70 in Italia, cit., pp. 45-85, Id., Frammenti di un romanzo inesistente. La<br />

narratività nella poesia italiana recente, in G. Langella, E. Elli (a cura di), Il canto strozzato. Poesia italiana del<br />

Novecento. Saggi critici e antologia, Novara, Interlinea, 2004, pp. 255-266.<br />

(15) Si tenga inoltre presente che Pasolini è stato anche traduttore di Eliot e proprio negli immediati dintorni della<br />

stesura dell'Italiano è ladro: nel 1947 esce in una rivista friulana (cfr. «Ce fastu?», nn. 5-6, 1947) la traduzione in<br />

friulano della quarta sezione di The waste Land, Death by water (Muart ta l'aga), ora in TP, II, pp. 1462-1463.<br />

(16) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), in TP, II, pp. 872-873.<br />

(17) Si tratta di un testo che Eliot scrive per la conferenza annuale per l'ŖHenrietta Hertz Trustŗ alla British Academy di<br />

Londra nel 1947; fu pubblicato come volume XXXIII della serie, London, G. Cumberlege, 1947; ripubblicato in<br />

Sewanee Rewiew, LVI, 2 aprile-giugno 1948, quindi inserito come Milton II nella raccolta di saggi On Poetry and<br />

Poets del 1957, ora in T. S. Eliot, Opere. 1939-1962, a cura di R. Sanesi, Milano, Bompiani, 2003, pp. 497-515; p. 514-<br />

515.<br />

(18) Si legge nel diario: «e infine il disgregarsi della lingua-musica in dissociazioni e balbettii carichi del dolore<br />

dell'impotenza e del primordiale», P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), TP, II, p. 876-<br />

877.<br />

(19) La terzina lirica in novenari risulta testimoniata in specie in pochi testi quattrocenteschi (con tre terzine giocate su<br />

tre parole-rima, chiuse da un verso isolato finale che riprende la parola-rima del primo verso); si veda S. Carrai, Un<br />

esperimento metrico quattrocentesco (la terzina lirica) e una poesia dell‟Alberti, «Interpres», V, 1983-1984, pp. 34-45.<br />

Pasolini aveva già utilizzato questa stessa terzina in novenari nelle poesie della sua ultima raccolta friulana, Dov'è la<br />

mia patria; sulle strutture metriche pasoliniane, cfr. F. Brugnolo, La metrica delle poesie friulane di Pasolini, in G.<br />

Santato (a cura di), Pier Paolo Pasolini: l'opera e il suo tempo, Padova, Cleup, 1983, pp. 21-65.<br />

(20) Per quanto riguarda la formula adattata dal greco, in nota si legge la traduzione in italiano e tra parentesi il<br />

riferimento alla fonte letteraria secondo questo procedimento: «Andate, come i cani di Lissa, andate contro il monte (dal<br />

greco di Euripide)»; per quanto riguarda le lettere di Santa Caterina, in nota vengono indicati i passi adattati allřitaliano<br />

e lřindicazione: «italiano ispirato a quello delle lettere di Santa Caterina»; nelle note relative alle fonti da cui derivano i<br />

versi in veneziano antico e quelli ricalcati sulla confessione umbra si legge, nel primo caso «italiano ispirato al<br />

veneziano antico del ŖLibro de li exempliŗ (a cura di G. Ulrich, Bologna, 1891)» e nel secondo caso «dallřitaliano di<br />

una formula di confessione umbra del sec. XI»; P. P. Pasolini, L‟Italiano è ladro (Redazione Falqui), TP, II, pp. 844-<br />

845; 849; 850.<br />

(21) Ivi, p. 823.<br />

(22) Aristotele, Poetica, trad.it. di G. Padano, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 41.<br />

16<br />

16


(23) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), TP, II, p. 877.<br />

(24) P. P. Pasolini, L‟italiano è ladro (Redazione Falqui), TP, II, pp. 809, 811, 812, 815.<br />

(25) Ivi, p. 819.<br />

(26) Ivi, pp. 819-820, 849, 850.<br />

(27) Ivi, pp. 838-839.<br />

(28) Ivi, p. 847.<br />

(29) Ivi, p. 850.<br />

(30) Ivi, p. 819.<br />

(31) Ivi, p. 844, 848.<br />

(32) Ivi, p. 841.<br />

(33) Ivi, pp. 809-811.<br />

(34) Ivi, pp. 810-813.<br />

(35) Ivi, p. 812.<br />

(36) Ivi, pp. 817 e 821.<br />

(37) Ivi, pp. 861-862.<br />

(38) Nelle teorizzazioni officinesche Pasolini aveva avuto modo di esprimere quanto «i primi effetti del dopoguerra<br />

[fossero] stati appunto l'anti-retorica e la mescolanza degli stili; o, insomma, la riscoperta di quello che gli stilisti<br />

chiamano il concreto-sensibile. Nella fattispecie questo concreto-sensibile è stata l'Italia, vivente e parlante, che per un<br />

ventennio era sparita. Il neorealismo ha instaurato subito alcuni stilemi, sia pure approssimativi, a rappresentare ai sensi<br />

questa realtà» (P. P. Pasolini, La confusione degli stili, ora in SLA, I, p. 1080).<br />

(39) P. P. Pasolini, L‟italiano è ladro (Redazione Falqui), cit., p. 826.<br />

(40) P. P. Pasolini, Diario de «L'italiano è ladro» e appunti (1949-1950), TP, II, p. 878.<br />

(41) Ivi, p. 868.<br />

17<br />

17


Sereni dal libro all‟opera. Appunti e ipotesi<br />

18<br />

per Max<br />

Di Vittorio Sereni tra il 1998 e il 2010 la casa editrice Einaudi ha riproposto, nella collana di poesia<br />

ŖBiancaŗ, Diario d‟Algeria (1998), Il musicante di Saint-Merry (2001) e Stella variabile (2010).<br />

Solo Frontiera e Gli strumenti umani (libro peraltro accolto nella stessa collana nel 1975, a dieci<br />

anni dalla prima edizione) mancano allřappello, per chi non avesse a disposizione le Poesie<br />

nellředizione critica approntata da Dante Isella per i ŖMeridianiŗ Mondadori (1995), o Tutte le<br />

poesie curate da Maria Teresa Sereni (Mondadori, ŖI poeti dello Specchioŗ) apparse nel 1986, a tre<br />

anni di distanza dalla morte del poeta. Si può pertanto dire che, una volta acquisita lřopera in versi<br />

nel suo assetto ne varietur, accompagnata dal ricchissimo apparato filologico e documentario del<br />

Meridiano Isella, e le due antologie fornite di ampio commento del 1990 (Il grande amico, Rizzoli)<br />

e ř93 (Poesie, Einaudi), entrambe riedite di recente, la serie di ristampe Einaudi, di larga<br />

accessibilità, segna il passaggio ad una nuova fase nella vicenda editoriale - e critica: si vedano le<br />

introduzioni ai volumi, firmate rispettivamente da Raboni, Mengaldo e Pusterla - del lavoro di<br />

questo poeta, il cui lascito è di fondamentale rilievo nel quadro novecentesco, non solo italiano. La<br />

rilettura delle singole opere, in tale cornice (pur in progress, come si spera), fornisce inoltre<br />

lřoccasione per qualche appunto di ordine molto generale: lo sviluppo della poesia sereniana, infatti,<br />

dagli esordi allřultimo libro, è stato assai bene illuminato dalla critica, grazie a interpreti<br />

dřeccezione e comunque ad unřattenzione costante, ma vi sono aspetti dellřopera, presa nel suo<br />

insieme e sotto il profilo della struttura interna, che meritano qualche ulteriore riflessione.<br />

Il punto di partenza, al riguardo, non può che essere la puntualissima prefazione di Isella (La lingua<br />

poetica di Sereni) a Tutte le poesie. Questa prende avvio dalla «riorganizzazione a posteriori» che<br />

tra il 1965 e il ř66, allřaltezza cioè della pubblicazione degli Strumenti umani, Sereni compie «di<br />

tutto il suo esiguo ma ben investito patrimonio di poesia» [p. XI]: non una semplice introduzione di<br />

varianti, annota Isella, bensì un ripensamento che investe la stessa struttura delle raccolte precedenti<br />

(Frontiera, 1941, e Diario d‟Algeria, 1947), fatto «dal punto a cui era arrivato il suo lavoro,<br />

consapevolmente tanto più alto rispetto al giro dřorizzonte dellřesperienza passata.» [ibid.]<br />

Lřannotazione tocca una questione di grande importanza. Il solo fatto di concepire il proprio<br />

«patrimonio» non come alcunché di dato e storicizzato, ma come un insieme da riordinare a partire<br />

da un «punto di vista» considerato superiore o comunque privilegiato, basterebbe già a differenziare<br />

il modo di operare di Sereni da quello di molti altri autori; ma si tratta, evidentemente, della<br />

conseguenza di unřattitudine distintiva che investe la nozione stessa di poesia, nel quadro del più<br />

ampio rapporto tra io e mondo. Su questřultimo aspetto il poeta, pur alieno da dichiarazioni teoriche<br />

e diffidente per natura verso le Ŗpoeticheŗ, non ha mancato di esprimersi con chiarezza. Ma è<br />

ancora Isella, nella breve Prefazione a Poesie, a cogliere con lucidità la portata culturale ed i riflessi<br />

di quellřattitudine sul concreto farsi della poesia:<br />

Una posizione gnoseologica come la sua comporta, con la sospensione del giudizio, un incessante<br />

confronto tra lřesperienza in atto e i dati già acquisiti, suscettibili sulla base dei nuovi apporti di<br />

essere continuamente richiamati in circolo, messi in discussione, arricchiti, mutati, in un fervido<br />

andirivieni tra passato e presente e tra presente e passato. [p. 12]<br />

Da sottolineare, in questa calibrata sintesi, sia il richiamo alla gnoseologia sia quello, concomitante,<br />

allřesperienza, in sintonia con i termini della stessa formazione di Sereni; ma si tenga altresì conto<br />

dellřaltrettanto significativa precisazione del poeta, riportata da Isella in entrambe le sue prefazioni,<br />

in merito alle doppie datazioni spesso apposte a singole poesie: la distanza di tempo tra le date (di<br />

Ŗpartenzaŗ e di Ŗarrivoŗ), osservava Sereni nella Nota agli Strumenti umani, non rinvia ad una<br />

«incontentabilità» o ad un «rigore» considerati «dal punto di vista strettamente stilistico», bensì ad<br />

«una serie di modifiche e aggiunte, di deviazioni o articolazioni successive, dilatazioni e rarefazioni<br />

18


offerte o suggerite, quando non importa, dallřesistenza, dal caso, dalla disposizione dellřora» [pp.<br />

XII-XII].<br />

Quanto nella Nota citata è affermato da Sereni in riferimento alle singole liriche vale in generale: le<br />

modifiche nellřordinamento e nella compagine delle raccolte non hanno un movente di ordine<br />

esclusivamente o prevalentemente stilistico, ma si collocano nella cornice di quanto Isella, sulla<br />

scorta del corpus dei manoscritti, si spinge a definire «una visione fluida del mondo, che nella sua<br />

incessante deformazione (in senso etimologico) ha più lo statuto del sogno che della realtà» [p.<br />

XIII]. Non cřè dubbio che una concezione del genere abbia a che fare con il complesso dellřopera,<br />

quale si configura a Sereni (incluse le incursioni nella prosa) nel suo farsi e sedimentarsi nel tempo;<br />

opera la cui «incubazione», per sfruttare il termine del critico, trova un punto di svolta, si è detto, tra<br />

ř65 e ř66. Diamo a questo punto unřocchiata, allora, alle «deformazioni» che Sereni opera sulle<br />

raccolte che precedevano Gli strumenti umani, senza soffermarsi sui singoli episodi ma cercando di<br />

mettere a fuoco la logica che vi presiede.<br />

Per quanto concerne Frontiera, osserva Isella che il poeta punta a redistribuirne le «tessere<br />

compositive» a partire da «un evidente disegno diacronico che conferisce anche alla prima raccolta<br />

un esplicito carattere di diario (e, diario nel diario, le nove poesie legate alla topografia sentimentale<br />

di Luino stanno in una sezione a sé, di identica, parallela scansione)» [p. XI]; inoltre Sereni opera<br />

nel senso dellřarricchimento del libro dřesordio, ricorrendo al recupero di testi dispersi e creando ex<br />

novo una intera sezione (Versi a Proserpina). Analogamente, sul versante del Diario d‟Algeria si ha<br />

lřaggiunta di una intera sezione, lřultima: Il male d‟Africa; mentre in parallelo vige «il passaggio [di<br />

poesie], come tra vasi comunicanti, dallřuno allřaltro libro»: il che non si limita ai primi due libri<br />

(nei Versi a Proserpina confluivano due poesie del Diario), si noti bene, ma include il travaso di<br />

versi da Diario d‟Algeria a Gli strumenti umani (il caso esemplare è Via Scarlatti, che dal Diario<br />

passa a testo di apertura degli Strumenti).<br />

Sono fenomeni di cui anche il lettore di Sereni meno attento alle vicende editoriali ed alle<br />

ricostruzioni filologiche si è accorto, ma che lřesposizione di Isella ha il merito di collocare entro un<br />

quadro dřinsieme. A grandi linee, ne viene evidenziato un doppio movimento, che fa capo a ragioni<br />

di spazio/tempo. Da una parte, la disposizione «diacronica» situa sullřascissa temporale la sequenza<br />

diaristica; dallřaltra, la collocazione dei testi tiene presente, come criterio operativo, il riferimento<br />

topografico. Spazio e tempo come linee-guida, insomma: come si conviene a chi, sul piano<br />

dellřopera, intervenga in chiave narrativa, lavorando sulle categorie prime dellřesperienza. E visione<br />

fluida, certo; ma entro un alveo che per lřessere di amplissimo respiro non per questo è senza precisi<br />

argini e collegamenti. Così la serie di Luino precede e prepara a distanza la serie dei ritorni che<br />

formano unřarchitrave degli Strumenti; mentre Milano, lřambito metropolitano, a partire da Via<br />

Scarlatti, si definisce liminarmente come lřorizzonte elettivo dellřio, in senso esistenziale e sociale,<br />

dopo lřAfrica (e la guerra): soglia di una nuova vicenda che approderà infine alla Spiaggia, testo<br />

conclusivo della raccolta del Ř65.<br />

In entrambe le raccolte, si sarà notato, unřattenzione particolare è dedicata alle sezioni conclusive<br />

(che come tali sono appunto concepite): per lřesser collegati tra loro, mediante gli interventi<br />

Ŗpostumiŗ, i singoli libri non perdono la loro autonomia, una scansione che ne circoscriva il<br />

perimetro - tuttřaltro. Quanto allřAlgeria, il diario vero e proprio è costituito dalla seconda sezione,<br />

ed è anchřesso una suite incardinata in un ambito topografico preciso (con tanto di date e luoghi in<br />

calce ai testi: quelli della prigionia), che in effetti può leggersi come una sorta di controcanto della<br />

sezione Frontiera del libro omonimo. Ma di particolare interesse è appunto lřoperazione compiuta<br />

con lřaggiunta del Male d‟Africa in chiusa al Diario. Qui Sereni non recupera testi dispersi, ma ne<br />

aggiunge di nuovi e si muove con inedita libertà tra versi e prosa: troviamo infatti in apertura di<br />

sezione i Frammenti di una sconfitta, che alterna due composizioni poetiche a due brevi prose;<br />

quindi Il male d‟Africa, poemetto che espone in epigrafe la data del 1958; seguono gli Appunti da<br />

un sogno, il pezzo in prosa più lungo, e infine i versi di L‟otto settembre, con le date «ř43/ř63».<br />

In altra sede ho insistito sul ruolo cruciale di questa sezione nel percorso poetico di Sereni; qui mi<br />

limito a poche osservazioni, sul filo del ragionamento perseguito a partire dalle note di Isella. Prima<br />

19<br />

19


di tutto, va messo però in forte rilievo lřarco temporale del Diario d‟Algeria: che va dal 1940, data<br />

riportata nel titolo di Periferia, testo iniziale di Ragazza d‟Atene, al 1963 dellřora citato Otto<br />

settembre. Ventitre anni, quindi; dato che offre già qualche concreta indicazione sullřintenzione del<br />

libro, non riconducibile alla sola funzione diaristica (come non lo era, globalmente, Frontiera) ma<br />

che, soprattutto, si estende fino al presente, gli anni ř60, dove si situa il punto di vista dellřautore del<br />

nuovo libro. In tale contesto, il ventennale dellřOtto settembre stabilisce un traguardo la cui valenza<br />

è inequivoca: la memoria va ad un crinale storico ed esistenziale ben preciso («Sale macaroni piove<br />

sulla memoria / lo scalpore della solfa ingiuriosa»), di umiliazione e oltraggio, che coincide con un<br />

passaggio traumatico della storia nazionale. È a quel punto che si chiude il libro apertosi nel nome<br />

della «giovinezza» e nellřappello alla vita ed al futuro («E tu mia vita salvati se puoi / serba te<br />

stessa al futuro / passante …»). In modo analogo, i versi del Male d‟Africa portano la data del 1958:<br />

riferimento a sua volta non meramente soggettivo, ma che evoca la guerra di liberazione in corso in<br />

quel paese (richiamata allřinterno della poesia).<br />

La dilatazione della cornice temporale muta in profondità la struttura del secondo libro, agendo in<br />

più direzioni: da una parte, ha una funzione distanziante e oggettivante (rispetto alle zone<br />

pregresse), dallřaltra (e contemporaneamente) di collegamento tra passato e presente. Le «tessere»<br />

sono disposte lungo un asse prolungato, la cui zona estrema è a contatto con un universo<br />

completamente mutato da quello iniziale; ed infatti, qui è la stessa poesia ad essere sensibilmente<br />

diversa, morfologicamente trasformata dalla contaminazione con lřambito romanzesco, nel suo<br />

versante psicologico-soggettivo. Il passaggio è decisivo anche sul piano stilistico-testuale, e<br />

lřinserimento di parti in prosa ne è solo il segno più lampante: fin dai primi versi nel Male d‟Africa,<br />

infatti, al momento memoriale si accompagna un eloquente diramarsi di piani espressivi, e la<br />

presenza di un filtro ironico Ŕ di per sé in attrito con lřimpianto lirico tradizionale - rivela un<br />

distacco che rende palpabile lo sfasamento tra lřio-soldato e lo sguardo che a lui si volge, dopo<br />

molti anni, ben consapevole dellřinsufficiente cognizione degli avvenimenti storici nel momento in<br />

cui essi lo avevano coinvolto. La verità soggettiva dellřesperienza della prigionia non ne è inficiata,<br />

ma è ricompresa in un più vasto contesto, che ha metabolizzato una vicenda collettiva (lřofficina<br />

delle prose narrative, nel dopoguerra, è la sede privilegiata della rivisitazione della propria storia<br />

nella guerra); e non bisogna dimenticare, del resto, che quellřio-soldato dei Frammenti, che viene<br />

meno «sotto il peso delle armi», non è (ancora) il prigioniero dřAfrica: se la sezione si conclude<br />

sullřOtto settembre, nella prima parte del Male le circostanze a cui tornano i ricordi sono quelle che<br />

immediatamente precedono la cattura sul fronte siciliano del 1943. Si tratta insomma di flash-back<br />

che, anche qui con spiccato accento romanzesco, acquistano un significato peculiare proprio per<br />

lřesser posti in serie contigua al finale ignominioso della guerra fascista, con un montaggio che<br />

costituisce una precisa modalità di costruzione del senso, tanto più in quanto esclude il ritorno a<br />

Milano (Via Scarlatti) che dovrà essere, nel libro nuovo, una ripartenza e non un arrivo.<br />

Ma di nuovo va notato, a conferma di un far poesia intimamente complesso, irriducibile tanto a<br />

schemi Ŗideologiciŗ che a generi prestabiliti, che nel Male d‟Africa lřistanza ironica non si svolge<br />

sul piano espressivo secondo una strategia delegittimante o freddamente storicizzante: anche qui ha<br />

luogo una dialettica resa possibile dal nuovo stile di Sereni, ibrido e disponibile a più livelli<br />

discorsivi. La scelta del Ŗframmentoŗ sřinserisce in questo quadro, mosso e articolato, che consente<br />

una pluralità di registri e di affiancare sempre di più alla voce dellřio, non più soggetto univoco ma<br />

anche oggetto di violenza da parte della storia, lřeco di un «noi» formatosi nella comune esperienza<br />

di una guerra vissuta Ŗdal bassoŗ («siamo appiattiti corpi / volti protesi allřalto senza onore»), in<br />

una condizione dřimpotenza e inermità sconosciuta ai «generali» evocati nei Frammenti<br />

(«Dicevano i generali…»). Non per caso il libro si conclude sullřimmagine di «noialtri in cenci»<br />

(L‟otto settembre); ma la stessa dimensione del Ŗnoiŗ, per poter diventare tramite di senso, è<br />

assoggettata ad un confronto con la storia in atto rappresentato nellřunico modo concepibile per<br />

Sereni, cioè tutto calato nellřinteriorità individuale, in strati per definizione soggettivi come il<br />

preconscio ed il sogno. Solo su questo piano può aver luogo la diagnosi del Male: dunque una<br />

rêvérie apre i Frammenti («Ed ecco stranamente simultanee / le ragazze dřun tempo…»), uno stato<br />

20<br />

20


di risveglio ed emersione dal sogno li conclude («Accadeva come dopo certi sogni…»), nellřultima<br />

prosa; e infine tocca agli Appunti da un sogno, il penultimo testo della sezione, appena prima<br />

dellřOtto settembre, caricare la resa del Ř43 («Sento che è finita…») di una valenza allegoricoprofetica,<br />

rovesciando di segno Ŕ e si potrebbe dire archiviando - lřappello iniziale alla giovinezza<br />

(«Quanti dispiaceri la gioventù (degli altri) ci darà dřora in poi.») e facendo dello spazio<br />

dellřinteriorità il luogo labirintico, ma anche imprescindibile, di ogni rivelazione. Non solo: tanto<br />

nei versi iniziali dei Frammenti che nel brano in prosa che li chiude a fare da filo conduttore è il<br />

motivo erotico, secondo i tempi di una specie di cavalleresca contesa (e di un sofferto congedodisincanto)<br />

che nello spazio psicologico, con i relativi moti di gelosia, tradimento e abbandono,<br />

ricostruisce e interpreta, esemplarmente, la parabola della sconfitta e della cattura, in modo da<br />

permearla di vissuto e sottrarla alle ipoteche dellřastrattezza.<br />

Il passaggio del Male d‟Africa ha valore paradigmatico per intendere come lř«andirivieni» tra<br />

passato e presente di Sereni sia funzionale ad un tentativo di organizzare il senso Ŕ di qui<br />

lřattenzione privilegiata per le parti conclusive - che esige tanto la presenza della ragione che<br />

lřapertura di varchi trasversali (se occorre, manifestamente anacronistici) nellřassetto spaziotemporale<br />

implicato nellřopera: un lavoro che travalica naturalmente il singolo libro per ascoltare i<br />

battiti della storia dentro lřorganismo vivente della poesia, aperto alle rivelazioni, agli anticipi ed<br />

alle illuminazioni retroattive dellřesperienza, alle discontinuità, riprese e incrostazioni<br />

dellřesistenza. Non era scontato che lřautore di Frontiera arrivasse a orchestrare una impresa così<br />

vasta, e potesse con piena legittimità dare ad un suo libro il titolo Gli strumenti umani, il cui<br />

richiamo alla concretezza, allřuniverso dellřempiria, si accompagna ad un orizzonte estensivo e<br />

totalizzante. Non era scontato; ma in qualche modo un carattere di scommessa è inerente a questa<br />

poesia, che si concepisce come ricerca ed ha come polo magnetico il campo del possibile:<br />

immaginazione e comprensione vanno per questo di pari passo e per questo, anche, dopo la caduta<br />

impietosamente registrata nel secondo libro, è il finale della Spiaggia il punto alto da cui lřautore<br />

guarda al suo «patrimonio», riorganizzandone la struttura. Lřinclusività, la porosità e la capacità<br />

Ŗpolifonicaŗ degli Strumenti rispecchiano lřampiezza del territorio attraversato, il suo spessore<br />

sociale, collettivo, storico; un viaggio non lineare né omogeneo nel suo sviluppo, ma scandito per<br />

fasi, in cui tra ritorni e stalli, aperto e interno, visioni e scoperte, apparizioni e incontri si dà un<br />

orientamento, un apprendistato ed un riscatto: un moto affermativo e finalizzato, che investe le zone<br />

ammutolite, tradite e irrealizzate, tanto della storia individuale che di quella plurale. Le «toppe<br />

dřinesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce» della Spiaggia riarticolano<br />

fulmineamente, per ellissi, lřitinerario dellřio, nel suo confronto con il passato ed il presente,<br />

ripetendo con lřaccento proprio dellřutopia lřeredità del futuro («parleranno») da conquistare ogni<br />

volta, generazione dopo generazione.<br />

Quel punto conquistato è anche il luogo in cui la poesia ritrova la propria funzione, lřincarico<br />

dimenticato e ora, una volta per tutte, riconosciuto. Ma se il movimento utopico Ŕ immediatamente<br />

rilevato da Franco Fortini Ŕ che informa la struttura degli Strumenti e si riflette su quanto li precede,<br />

è quanto si rivela (impone, vorrei dire) negli Strumenti, qual è la allora posizione di Stella variabile,<br />

lřultima raccolta di Sereni, nellřorganismo che lřaccoglie, ovvero nellřopera che nel corso dei<br />

decenni è venuta assumendo la propria forma? E non è quello della Spiaggia un punto di nonritorno,<br />

irrevocabile? E ancora, anzi: proprio in virtù del momento utopico che investe lřopera nel<br />

suo insieme, non sarà che di quella conquista non si dà soltanto un effetto retrospettivo, ma anche Ŕ<br />

come per una sua forza intrinseca - un riverbero su ciò che viene dopo, sulla poesia in via di crescita<br />

non solo nei versi ma anche nelle prose che li affiancano e intersecano? In base ad unřaccezione<br />

ampia del lavoro dellřautore, si può infatti ipotizzare che dellřopera in questione vada considerata<br />

parte integrante la produzione in prosa, da Gli immediati dintorni a Il sabato tedesco fino ai progetti<br />

interrotti dalla morte; e non è casuale, sotto questo profilo, che una prima edizione non commerciale<br />

(1980) di Stella variabile comprendesse la (stupenda) prosa Ventisei. Non sono pochi gli indizi che<br />

fanno pensare allřultima zona dellřopera sereniana come ad un cantiere aperto.<br />

21<br />

21


Ma resta da specificare, comunque, il contributo dellřultima raccolta, in cui taluno ha ravvisato un<br />

ritorno alla prima maniera, tra Frontiera e Diario, altri invece hanno visto il prevalere di un fondo<br />

nichilistico (in questo senso, a correzione o smentita del messaggio degli Strumenti), mentre altri<br />

ancora, come Fortini, hanno parlato di «tropismo verso la metafisica», incentivato dalla scomparsa<br />

dei «significati» che «fondavano» la poesia della precedente raccolta. Ebbene, si può discutere sul<br />

momento nichilista allřinterno della poesia sereniana, come di un suo «tropismo» che supera il<br />

piano del reale per sporgersi oltre (ma sempre con una base molto terrena, fondata sullřErlebnis); in<br />

ogni caso, i tratti di continuità tra Strumenti umani e Stella variabile sono indubbi, e la critica non<br />

ha mancato di rilevarli. Ma intanto, è guardando alla struttura interna del libro che si può fare<br />

qualche rilievo allřingrosso: salta subito agli occhi, per esempio, che le cinque sezioni, a differenza<br />

di quanto avviene in tutte le altre raccolte nella versione definitiva, non usufruiscono di titoli atti a<br />

tematizzare o circoscriverne i testi. Solo una scarna progressione numerica - la primissima edizione<br />

di Frontiera è lřunico caso analogo - fornisce la scansione; il che si può leggere in rapporto con<br />

quanto osservava, in unřintervista del 1980, lo stesso Sereni, annunciando che Stella variabile<br />

«sarà, credo, un libro privo di unřorganizzazione consapevole, di una struttura interna avvertibile.<br />

Un libro, come Il sabato tedesco, che non si può riassumere o raccontare» [p. 664, apparato Isella].<br />

Un libro che non si può raccontare; senza una organizzazione consapevole. Le due indicazioni<br />

vanno considerate insieme, e quanto si è fin qui annotato, se ha un fondamento, sta ad attestarlo, per<br />

così dire, e contrario. Forse Stella variabile, allora, era ancora in cerca di un suo assetto stabile, o<br />

segnava il ritorno ad un modello tradizionale di album lirico come raccolta di episodi? Questřultimo<br />

caso ritengo sia da scartare, proprio per quella visione insieme fluida e organica ben evidenziata da<br />

Isella; piuttosto, cřè da osservare che nel libro senza avvertibile struttura interna, si dà però un<br />

centro, la terza sezione che include Un posto di vacanza, Niccolò e Fissità. Senza addentrarci nel<br />

complesso impianto del Posto, possiamo notare che tanto il poemetto quanto gli altri due testi (che<br />

poi in stesure provvisorie ne facevano parte) hanno in comune lo scenario di Bocca di Magra (e<br />

dintorni); ed a sua volta, questo scenario, assieme al tema capitale dei morti, propone un<br />

collegamento diretto con La spiaggia. È dunque a partire da questo centro che va misurata la<br />

distanza di Stella variabile dagli Strumenti umani; ed è a dir poco arduo sostenere che vi sia una<br />

sensibile discontinuità tra i testi in questione. Del resto, un primo frammento del Posto fu<br />

pubblicato nel 1966 (appena un anno dopo gli Strumenti), e del 1971 è lřapparizione<br />

nellř«Almanacco dello Specchio»: insomma è nel poemetto che Sereni riprende e sviluppa,<br />

esplicitamente e consapevolmente, il discorso della Spiaggia, in parte ripercorrendo lřitinerario<br />

interiore di memoria, sogno, agnizione, interferenza passato/presente degli Strumenti, in parte<br />

portandone a convalida e compimento il disegno, o meglio conferendogli Ŕ nuova scommessa Ŕ una<br />

trasparenza che valga a futura memoria: del proprio lavoro, della mite e intransigente, tenacissima e<br />

limpida utopia che lo informa, del suo sconfinamento in una dimensione che è solo sua, di Sereni, e<br />

nessun altro. La verticalità sur place del Posto di vacanza fa da approfondimento, commento e<br />

variazione al viaggio degli Strumenti, ed è proprio in questo movimento verticale e interiore, di<br />

ricapitolazione e al tempo stesso di rilancio - tanto più necessario e coraggioso: il «progetto /<br />

sempre in divenire sempre / Ŗin fieriŗ di cui essere parte / per una volta senza umiltà né orgoglio» di<br />

VI, 21-24 - che va colto lřelemento storico, corrispondente ad una situazione di regressione e<br />

chiusura sul piano sociale, di cui lřautore intravide la lunga ipoteca.<br />

Da cosřaltro, infine, se non da questa sua assoluta verticalità, intrisa di elementi di ordine narrativo<br />

fatti fluttuare nella discrezionalità del monologo interiore, nella relativizzazione del tempo e nel<br />

riflesso onirico, nasce la non-raccontabilità del Posto? Ma cřè altro, per chi sappia ascoltarne la<br />

musica ultima, e questo vale per il libro intero. Il campo del possibile, è ancora il mare a dirlo (III,<br />

30), è sempre aperto, la «recidiva speranza» di Autostrada della Cisa (chiusura ideale del libro) può<br />

parlare tra un tunnel e lřaltro; lo stesso itinerario del poeta, di valico in valico e di fronte al «vuoto»<br />

ed alla fine, è una parabola offerta per chi verrà dopo, in un nuovo ciclo a cui forse allude il<br />

rapporto di luce/ombra che è la stessa Stella, nella sua mobile lontananza e intermittenza, a evocare.<br />

In questo senso, anche la struttura del libro è il rispecchiamento di una tale opzione, ed in fondo<br />

22<br />

22


nellřintervista del 1980 Sereni lřaveva pur detto, precisando che Stella variabile «… dovrebbe<br />

esprimere quella compresenza di impotenza e potenzialità, la mia difficoltà a capire il mondo in cui<br />

viviamo e al tempo stesso lřimpulso a cercarvi nuovi e nascosti significati, la coscienza di una vita<br />

diversa, tanto vaga e sfuggente oggi quanto pronta a riproporsi ogni volta che se ne sappiano<br />

cogliere gli indizi e le tracce umane. »<br />

23<br />

Luca Lenzini<br />

Nota bibliografica<br />

Per i testi e la storia delle raccolte di V.S., come per le citazioni dalla Prefazione del curatore, si rimanda a Vittorio<br />

Sereni, Poesie, edizione critica di Dante Isella, Milano, Mondadori, 1995, nel cui apparato è anche riportata (pp. 663-<br />

664) lřintervista di Giancarlo Ferretti a Sereni (da «Rinascita», a.37, 42, 24 ottobre 1980) qui citata. Per le<br />

interpretazioni delle poesie e per lřinquadramento dellřopera si tengano presenti i commenti delle due antologie<br />

reperibili in commercio, citate in apertura: Vittorio Sereni, Il grande amico. Poesie 1935-1981, introduzione di Gilberto<br />

Lonardi, commento di L.Lenzini, Milano, Rizzoli, 2010 (1990 1 ); Vittorio Sereni, Poesie, a cura di Dante Isella con la<br />

collaborazione di Clelia Martignoni, Torino, Einaudi, 2005. Per i riferimenti ai saggi di Franco Fortini vedi F.Fortini, Di<br />

Sereni, in Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di L.Lenzini e uno scritto di R.Rossanda, Milano,<br />

Mondadori, 2003; Id., Ancora per Vittorio Sereni, in Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987; per lřAlgeria il<br />

rinvio è a L.Lenzini, Verso la trasparenza, «Poetiche», 3, 1999, mentre per gli aspetti legati al romanzo v. Giovanna<br />

Cordibella, Di fronte al romanzo. Contaminazioni nella poesia di Vittorio Sereni, Bologna, Pendragon, 2004. Ometto<br />

per brevità altri rinvii, che il lettore può reperire nel Meridiano Isella, comprensivo di una accurata Antologia critica<br />

(pp. IX-XCVIII).<br />

23


Forma poetica come ready-made. Lo “spazio metrico” di Amelia Rosselli<br />

1. Allřinizio del Novecento le arti visive, in certi ambienti, sembrano voler prescindere dalle abilità<br />

tecniche specifiche, o almeno volerle declassare da principali a secondari parametri di valore. Il<br />

quid dellřopera si pretende che stia nel gioco di assemblaggio di elementi secondo unřidea<br />

progettuale che diventa catalizzatrice dellřinteresse del fruitore molto più delle qualità sensibilicorporee.<br />

Il primo a operare in questa direzione è, si sa, Marcel Duchamp, che con i suoi readymade<br />

non lavora più per addizione o sottrazione di materia comřè nelle arti visive tradizionalmente<br />

intese, ma combina un oggetto già fatto con altri oggetti (Roue de bicyclette, 1913) o con un nome<br />

(Fountain, 1917), nellřambito di una ricontestualizzazione che, di per sé e almeno una volta nella<br />

storia dellřarte, basta ad ottenere lřopera, come dimostra Egouttoir (1914-1916): ad uno<br />

scolabottiglie si aggiunge una breve iscrizione con firma (neppure autentica, essendo stata apposta<br />

dalla sorella Suzanne su indicazione dellřartista che ormai, nel 1916, si trova oltreoceano) e lřopera<br />

è fatta. Al pari di un ŖSan Giovanninoŗ di Michelangelo Merisi, lo Scolabottiglie significa se stesso,<br />

ma al significato tautologico dellřoggetto si sovrappone quello dellřoperazione compiuta, in parte e<br />

forse del tutto traducibile in un concetto (del tipo Ŗlřartisticità non è una proprietà intrinseca<br />

dellřoggetto ma può risiedere nellřoperazione, anche immateriale come quella della scelta, che<br />

qualcuno compie su di essoŗ), ed è in questo concetto che risiede il valore Ŕ o diciamo più<br />

prudentemente: il significato Ŕ artistico. È unřopera che Ŗdice qualcosaŗ, nel senso meno metaforico<br />

dellřespressione, tantřè che se ne può fare esperienza anche indirettamente, tramite una pura e<br />

semplice descrizione (è una condizione che mi pare compresa pienamente a partire da Magritte).<br />

Ciò trova conferma in un dato. Più di un ready-made è stato replicato dallřautore mostrando<br />

una particolare e nuova indifferenza estetica allřunicità materiale dellřopera(1), che evidentemente<br />

non appartiene ad un Caravaggio che dipinge due San Giovannini Ŗugualiŗ. Di questi si può<br />

effettuare uno studio comparativo, descrivere differenze e particolarità, mentre per un ready-made<br />

non si fa e non avrebbe senso farlo. Inoltre, tra il 1935 e il 1941, Duchamp realizza Boîte-en-valise,<br />

sorta di kit da viaggio che consente di avere con sé alcune famose opere dellřartista: una scatola di<br />

cartone che contiene riproduzioni miniaturizzate di Fountain, Traveller Folding Item, Nu<br />

descendent un escalier e di altri. La valigia è prodotta in trecento esemplari: trecento copie di copie,<br />

tutte rigorosamente autentiche.<br />

La cosa si può giustificare, e con essa gran parte dei nuovi procedimenti proposti da Duchamp,<br />

se ci si riferisce alla teoria della notazione Ŕ e quindi alla distinzione tra sistemi densi e sistemi<br />

articolati Ŕ che Franco Brioschi ha discusso nel saggio Un mondo di individui, riprendendola (così<br />

come il titolo) da Nelson Goodman(2). Riassumo i concetti che qui interessano: un sistema è denso<br />

se non prevede procedure per stabilire conclusivamente lřidentità di due, o più, individui, che<br />

pertanto risultano sempre in rapporto di opposizione e non potranno avere mai copie effettive;<br />

viceversa il sistema è articolato se tale procedura è prevista e permette di decidere se due oggetti<br />

sono in rapporto di equivalenza o di opposizione, cioè se sono copie lřuno dellřaltro oppure no. Da<br />

queste proprietà consegue quella di non essere, nel primo caso, o di essere, nel secondo, sistema<br />

utilizzabile come linguaggio in senso proprio.<br />

Quello pittorico si configura tradizionalmente come sistema denso (grazie a ciò ha senso il<br />

concetto di autentico) e per questo i due dipinti di Caravaggio non possono che essere considerati<br />

due opere diverse. Il ready-made di Duchamp è invece foriero di una lettura propria di un sistema<br />

articolato, essendo la ruota di bicicletta, con il relativo sgabello, potenzialmente sostituibile con una<br />

ruota uguale, o addirittura solamente simile, come di fatto è la ruota di bicicletta che ha sostituito<br />

lřopera Ŗoriginaleŗ dispersa, e come suggerisce Boîte-en-valise. Quasi che lřarte visiva abbia voluto<br />

diventare una disciplina linguistica.<br />

Non a caso in Fountain lřoperazione si effettua su elementi del linguaggio verbale: il titolo e la<br />

firma. Il titolo consiste nella ridenominazione dellřoggetto, con cui si va a toccare la gerarchia delle<br />

sue proprietà facendo balzare in primo piano lřacquaticità e la ceramicità, a tutto discapito della sua<br />

proprietà convenzionalmente più importante che è legata allřespulsione urinaria dellřuomo. Con una<br />

24<br />

24


tale modificazione gerarchica si pratica lřaccostamento e quindi la sostituzione (sintatticamente<br />

legittima in un sistema articolato) dellřorinatoio con un altro simbolo che abbia quelle medesime<br />

proprietà evidenziate (e che risponda alle intenzioni ironiche, critiche, ecc. dellřautore): ecco la<br />

fontana, che poi con la firma si dichiara «oeuvre dřart authentique et véritable» (così direbbe Piero<br />

Manzoni) e ottiene la museificazione, sempre in accordo Ŕ questo è chiaro Ŕ con quelle proprietà<br />

che lřoggetto intrinsecamente possiede e che ne hanno permesso tale particolare utilizzo,<br />

concedendo meno rispetto allřEgouttoir (o addirittura non concedendo nulla) a quellřarbitrarietà che<br />

in campo artistico, ma non solo, non è generalmente vista di buon occhio.<br />

Il preteso Ŗstraniamentoŗ o la pretesa Ŗricontestualizzazioneŗ conducono precisamente ad una<br />

articolazione del sistema dellřarte visiva e di lì ad una riflessione sulla natura convenzionale della<br />

lettura dellřopera. Inoltre, allřarticolazione è del tutto congruente lřoperare secondo un metodo<br />

puramente combinatorio di elementi preesistenti, ché sarebbe uno sforzo non necessario quello della<br />

creazione. Sfruttando ancora il saggio di Brioschi, con un passo indietro bisognerà chiarire la<br />

nozione di simbolo, inteso nello stesso senso generico di Goodman(3), cioè come unità sintattica di<br />

un qualsiasi linguaggio:<br />

Non basta che lřoggetto possieda le proprietà che possiede [...] perché valga come questo o<br />

quel simbolo: occorre anche che sia stabilita una gerarchia di pertinenza fra tali proprietà. Il<br />

punto è che tale gerarchia [..] non la troviamo iscritta nellřoggetto stesso, come un Řdatoř<br />

preesistente. Siamo noi a istituirla, nel momento in cui facciamo riferimento alle sue<br />

proprietà secondo questa o quella regola. Contrariamente allřopinione comune, la nozione di<br />

riferimento riveste pertanto unřimportanza fondamentale nella sintassi di un sistema<br />

simbolico, prima ancora che nella semantica. (4)<br />

Brioschi, da buon nominalista, non crede allřindipendenza ontologica dei codici linguistici e<br />

rivendica lřesistenza di quellřhors-texte che Derrida aveva negato, rivendicando con esso il carattere<br />

estensionale della sintassi (oltre che della semantica) di qualsiasi codice comunicativo, sia in fase di<br />

produzione che di ricezione del messaggio. Infatti un oggetto è simbolo di un determinato codice<br />

nella misura in cui esemplifica quelle proprietà che sono richieste dal gioco cooperativo dello<br />

scambio linguistico, e che il produttore e il ricettore, convenzionalmente, vi riconoscono.<br />

Considerando lřopera dřarte come sistema di simboli e come simbolo essa stessa, dobbiamo vederne<br />

le proprietà immanenti passibili di essere organizzate, di volta in volta, in una determinata gerarchia<br />

di pertinenza. Lřoperazione che Duchamp compie sullřorinatoio (firma, ridenominazione,<br />

ricollocazione) genera esattamente una riorganizzazione delle proprietà esemplificate dallřoggetto.<br />

Ciò che andrebbe messo maggiormente in evidenza è il fatto che un oggetto, per forza di<br />

consuetudine, può indurre a non dimenticare le proprietà esemplificate in altri contesti, in altri<br />

giochi cooperativi: se su una scacchiera le pedine sono persone (la scacchiera sarà la<br />

pavimentazione di una piazza) e in particolare la regina bianca è una bella ragazza dotata di insegne<br />

regali, il fatto di essere il giocatore nero, cioè di vedere esemplificate nella ragazza le proprietà della<br />

regina avversaria e in base a ciò di dovermi da lei difendere, non mi impedirà di infatuarmene. La<br />

sovrapposizione delle gerarchie, la compresenza di proprietà richieste da giochi cooperativi diversi<br />

è ciò che conferisce la giustificazione di una scacchiera umana, come anche di un ready-made. Per<br />

forza di consuetudine lřorinatoio ci induce a tener presente la sua proprietà principale esemplificata<br />

abitualmente, pur allřinterno di una convenzione che non la richiede. Il gioco cooperativo dellřarte<br />

finisce così per dover fare i conti con i propri simboli, uscendone non completamente intoccato. Ed<br />

è precisamente questo che ottiene la fontana di Duchamp: ecco perché egli, al posto dellřorinatoio,<br />

non avrebbe potuto usare un oggetto diverso anche se in qualche modo affine (come ad esempio una<br />

vasca da bagno) se non al prezzo di produrre unřopera diversa, e magari non altrettanto riuscita.<br />

Tuttavia, anche se non così permissiva, lřarticolazione del sistema sembra salva poiché Duchamp<br />

avrebbe potuto usare un qualunque altro orinatoio e nulla sarebbe cambiato.<br />

Ma cosřè che impedisce Ŕ perché dopotutto e nonostante lřazione di Duchamp così stanno le<br />

cose Ŕ lřeffettiva replicabilità dellřopera o la sostituibilità dellřoggetto che la costituisce (nella sua<br />

25<br />

25


totalità o in una sua parte) con un altro oggetto non dico simile ma del tutto identico? Contando<br />

lřesemplificazione delle proprietà, lřoggetto deve essere in linea di principio sostituibile con un altro<br />

che esemplifichi le stesse proprietà, che cioè sia sintatticamente equivalente nel sistema di<br />

riferimento attuale ed in quello (o in quelli) che eventualmente trascina con sé, ed una copia<br />

identica dellřoggetto soddisfa abbondantemente questa condizione. Il fatto che di una stessa opera<br />

lřautore realizzi diverse copie e addirittura riproduzioni miniaturizzate, mostrerebbe la<br />

consapevolezza di questa sostituibilità. In realtà, esiste una proprietà che il mondo dell‟arte (è il<br />

caso di dirla con A.C. Danto(5)) richiede (o impone?) a qualsiasi oggetto faccia irruzione nel suo<br />

sistema (e solo una volta che vi abbia fatto irruzione, cioè a opera completata) e che non ammette<br />

equivalenza sintattica, ripristinando, di fatto, quello che è un carattere tipico dei sistemi densi:<br />

lřautenticità.<br />

Lřarticolazione o la densità sintattica di un sistema derivano da una convenzione e non<br />

dipendono direttamente dalla natura degli individui, cosicché Ŕ secondo quanto spiega Brioschi(6) Ŕ<br />

possiamo imporre a un sistema denso una qualche forma di articolazione. Allo stesso modo<br />

possiamo prendere un sistema che consideriamo abitualmente articolato, come quello della<br />

produzione in serie di scolabottiglie, e decidere ad esempio che la proprietà Ŗfirmato e collocato da<br />

Marcel Duchamp il tal giorno nel tal luogoŗ è pertinente nel definire i rapporti di opposizioneequivalenza<br />

(dinamicamente pertinente, se ad un certo punto si scopre che la firma è di Suzanne<br />

Duchamp e lřautenticità dellřopera pare non risentirne). Ecco perché nelle monografie e nei<br />

cataloghi duchampiani si può leggere, di certi ready-made, «originale disperso».<br />

A questo punto non è facile dire se il sistema in cui è inserito un ready-made è denso o<br />

articolato, se lřopera è autografica o allografica(7), e vediamo piuttosto ricrearsi una<br />

sovrapposizione tra le due tipologie. Diciamo che si è reso articolato il codice che lřautore utilizza<br />

in fase di produzione, mentre rimane denso il sistema che accoglie il prodotto una volta che sia stato<br />

concluso, cioè quello del mercato dellřarte o, meno prosaicamente, del valore dellřarte. Ciò non<br />

deve sorprendere: anche in un sistema articolato come quello della scrittura letteraria un<br />

manoscritto autentico ha il suo fascino, e il suo prezzo. La densità, per consuetudine, resiste, e<br />

resiste in qualsiasi arte. Si tratta forse, per noi, di distinguere il mercante e il collezionista dal mero<br />

fruitore: i primi saranno sempre a caccia del pezzo originale, di un dattiloscritto o di un cimelio; il<br />

secondo saggiamente si accontenterà, in alcuni casi dopo aver opportunamente visitato gli originali,<br />

delle repliche sotto forma di libri, cataloghi, stampe o contraffazioni dichiarate (in Cina esiste una<br />

catena di manovali della pittura che copia in serie le opere più famose dellřarte occidentale). La<br />

densità resiste anche al di fuori delle arti (nella insostituibilità dellřautografo di Zico o del coltellino<br />

di mio nonno), e più che per consuetudine, può darsi che sia per lřumano bisogno di sacro (solo<br />

qualche volta scompagnato dalla pecunia; ma del resto, il sapere un oggetto valutato diversi milioni<br />

di dollari o euro non aggiunge qualcosa a ciò che sappiamo di lui e che ci strabilia? non è unřaltra<br />

delle sue proprietà magari non oggettuale, ma certamente oggettiva?), è per lřumano bisogno di<br />

sacro, dicevo, che lřautentico avrà sempre il suo bel valore, anche se si tratta di un volgare orinatoio<br />

da pubblica toilette.<br />

Ritornando a problemi strettamente testuali, la consuetudine è evidentemente un punto<br />

fondamentale dellřattività linguistica, in quanto convenzione che tende ad assumere le sembianze di<br />

qualcosa di naturale (con un guadagno in termini di efficienza ma anche con alcune note<br />

implicazioni ideologiche) e che quindi non necessita di essere concordata ad ogni scambio<br />

comunicativo. Ora, invece della posizione che vuole lřavanguardia genericamente operante contro<br />

la consuetudine, possiamo sostenerne una opposta, secondo cui è chiaro come essa consideri e<br />

sfrutti i meccanismi consueti della fruizione artistica e dellřattività comunicativa in generale.<br />

Legando il discorso alla natura trascendentale della gerarchia di pertinenza delle proprietà degli<br />

oggetti simbolici, come è stato fatto sopra, si comprende che essa gerarchia, quando non sia frutto<br />

di consuetudine o quando non sia comunque attingibile in maniera immediata, richiede di essere<br />

definita esplicitamente per permettere al ricettore di potervi fare riferimento, e questo spiega in<br />

26<br />

26


parte quel fiorire di istruzioni e modes d‟emploi che è frequente fenomeno delle avanguardie.<br />

Comprendiamo, insomma, il ruolo dellřhors-texte, che si esplicita diventando paratesto.<br />

Ho sottolineato a proposito dellřorinatoio di Duchamp come il processo di articolazione del<br />

sistema dellřarte visiva fosse passato, sintomaticamente, attraverso il linguaggio per antonomasia,<br />

quello verbale. Ciò è coerente con il fatto che la visione dellřopera possa essere surrogata dalla<br />

lettura di una sua descrizione, e mostra come la parte principale del lavoro sia affidata ad un<br />

elemento esterno al codice proprio dellřarte visiva. Se il titolo di una Crocifissione di Antonello da<br />

Messina, ammesso che provenga dallřautore, non è evidentemente in cima alla gerarchia di<br />

pertinenza delle proprietà dellřopera, lo stesso non si può dire per la fontana dadaista. A questo<br />

proposito si legga dal Marcel Duchamp di Arturo Schwarz:<br />

Le déplacement du contexte logique ordinaire est obtenu en rebaptisant lřobjet. Le nouveau<br />

titre nřa alors plus aucun relation évidente avec celui-ci quřon le considère habituellement<br />

[...].<br />

[Le ready-made] devait en outre comporter un sous-titre qui, au lieu de décrire lřobjet comme<br />

le fait un titre, «était destiné à conduire les pensées des spectateurs vers dřautres domaines,<br />

plus verbaux» (8)<br />

correggendo lřaffermazione secondo cui il nuovo titolo è privo di rapporti evidenti con lřoggetto<br />

considerato abitualmente perché, come già è stato visto, ciò non è necessariamente vero, ed è bene<br />

che non lo sia.<br />

In ogni caso notiamo che il titolo, la firma (per quanto appartenente ad un fantomatico R.<br />

Mutt), non sono più oggetti extra-estetici ma partecipano direttamente alla costituzione dellřopera.<br />

Alcuni elementi apparentemente paratestuali possono essere inscindibili dal testo e farne infine<br />

parte; o perché sono costitutivi dellřesteticità del prodotto, o perché forniscono Ŕ secondo una<br />

possibilità e anzi una necessità Ŕ indicazioni anche di natura pratica senza le quali lřopera sarebbe<br />

fruita in maniera non adeguata, comunicativamente scorretta, analfabetica. Della firma,<br />

provocatoriamente e polemicamente, allřinizio degli anni Sessanta, Piero Manzoni riaffermerà il<br />

ruolo museificante con le 90 scatolette di Merda d‟artista o con le Cartes d‟authenticité, ritornando<br />

sulla nozione Ŕ quella di autenticità Ŕ che più ha subito stravolgimenti (e chiarificazioni) nellřarte<br />

contemporanea, sia per lřavvento della riproducibilità tecnica sia per lo sviluppo dellřanalisi dei<br />

linguaggi, momenti dopotutto storicamente non disgiunti.<br />

La crescente importanza degli elementi paratestuali in generale e, nelle arti visive,<br />

dellřelemento verbale, è confermata sia nellřambito dellřarte concettuale (da Joseph Kosuth Ŕ e il<br />

gruppo di ŖArt-Languageŗ Ŕ a Jenny Holzer) sia in esperienze di altro indirizzo, come quelle di Ben<br />

Vautier o di ŖSamoŗ Basquiat, ottenendo un completo assorbimento del paratesto, ormai<br />

indistinguibile dal testo.<br />

Tornando al primo Novecento, non bisogna tralasciare i papiers collés di Picasso, Braque e<br />

Gris, ma è opportuno ricordare soprattutto René Magritte. La sua opera, anche quando non è<br />

figurativo-verbale come La trahison des images (Ceci n‟est pas une pipe), o La clef des songes,<br />

oppure L‟usage de la parole Ŕ tutti dipinti di cui esistono diverse realizzazioni, e la cosa non deve<br />

passare inosservata Ŕ, sembra puntare più alla ricerca concettuale che non a quella pittorica, come<br />

conferma unřintervista rilasciata a Pierre du Bois nel 1966:<br />

Il mio modo di dipingere è del tutto banale, accademico. Ciò che è importante, nella mia<br />

pittura, è ciò che essa mostra. [...] Io non vedo la ragione di esprimere dei sentimenti, anche<br />

ammesso che ciò sia possibile. Il mistero è evidentemente qualcosa di inconoscibile, privo<br />

perciò di rappresentazione, né figurata né simbolica. Non è dunque una rappresentazione del<br />

mistero quella che io cerco, bensì immagini del mondo visibile unite in un ordine che evochi<br />

il mistero. (9)<br />

27<br />

27


Al di là dellřelemento arcano, la dichiarazione di Magritte non poteva essere maggiormente utile.<br />

Egli lavora non tanto sul codice pittorico (che comunque, ovviamente, utilizza) e cioè sulla fattura<br />

delle immagini che dipinge, quanto sulla loro combinazione, sulla loro sintassi, muovendosi (come)<br />

in un sistema articolato. Del concetto di sistema articolato Magritte dimostra del resto di avere una<br />

buona padronanza:<br />

Non ci sono due cose, o due atti, che possano essere riconosciuti come identici. Ogni atto è<br />

unřinvenzione. Eppure lřintera organizzazione del pensiero e del linguaggio smentisce questa<br />

semplice affermazione di non-identità. Possiamo cogliere lřuniverso solo semplificandolo<br />

con idee di identità per classi, tipi e categorie, e riordinando lřinfinita continuazione di eventi<br />

non-identici in un sistema finito di somiglianze. È nella natura dellřessere che nessun evento<br />

mai si ripeta, ma è nella natura del pensiero che comprendiamo gli eventi solo per le identità<br />

che immaginiamo tra di essi. (10)<br />

Nelle opere del surrealista belga ritorna il rapporto già duchampiano tra rappresentazione e titolo,<br />

che A.M. Hammacher rammenta, pur con una clamorosa amnesia riguardo al celebre precedente:<br />

Magritte fissava di frequente regole nuove a cui i titoli dovevano conformarsi. Si basavano<br />

sulla sua concezione della natura e della funzione del quadro, e sono quindi importanti. I<br />

titoli inoltre, sebbene evocati nei dipinti, sembrano poter esistere separatamente, in modo<br />

parallelo ai dipinti stessi. Il loro carattere, talora provocatorio, consiste in uno strano legame<br />

con lřimmagine dipinta. Lřinteresse profondo di Magritte per i titoli, e soprattutto per il<br />

cambiamento della loro funzione, è, per quanto io sappia, unico. (11)<br />

In tale ambito lřapporto originale di Magritte consiste nel giocare questa relazione anche allřinterno<br />

dellřopera: in alcuni casi le parole si pongono come contenuto figurativo di macchie informi, in altri<br />

come didascalia incongrua di immagini definite. Tutti rapporti di natura logico-linguistica, e non a<br />

caso lřopera di Magritte ha fatto pensare agli studi di Wittgenstein(12).<br />

Per mostrare che tanto la rappresentazione (lřimmagine) di un oggetto quanto la sua<br />

descrizione (il suo nome) non sono lřoggetto ma suoi rimandi referenziali, Magritte non esita Ŕ<br />

forzando qualunque tradizione ekphrastica Ŕ a sostituire la prima con la seconda sulla superficie del<br />

quadro. Quello che ne risulta è un secondo grado di applicazione della lezione di Duchamp: anche<br />

allřinterno del suo sistema la rappresentazione può essere sostituita dalla descrizione. Allo stesso<br />

scopo mostra lřapparente incongruenza tra la rappresentazione realistica di una pipa e la didascalia<br />

«ceci nřest pas une pipe».<br />

Non si deve trascurare il fatto che queste operazioni non siano contenute in un saggio di<br />

filosofia del linguaggio Ŕ e che quando lo sono, come nel caso di Les mots et les images, esso venga<br />

custodito alla Courtesy Gallery Isy Brachot Ŕ ma facciano parte di dipinti, cioè di oggetti estetici. Di<br />

nuovo elementi estranei al codice specifico della disciplina, in questo caso al codice pittorico,<br />

partecipano dellřesteticità dellřopera. Di nuovo ciò che convenzionalmente è, in un dato ambito,<br />

ritenuto extra-estetico assume un valore estetico. Lřestetico va assorbendo in sé la componente<br />

logica, o meglio esibisce la consapevolezza della sua componente logica accanto a quella<br />

intuitiva(13), e a quella sensibile che le è associata.<br />

2. Se dalle circostanze dellřostensione di un oggetto consegue unřaffermazione circa lřidentità di<br />

tale oggetto(14) (tanto Ŗquesto èŗ quanto Ŗquesto non èŗ), tale affermazione deve essere in qualche<br />

modo plausibile e non del tutto arbitraria, come non deve essere arbitraria la ricezione: accettiamo<br />

lřoperazione fatta da Duchamp sullřorinatoio perché alcuni elementi, sřè visto, giustificano, rendono<br />

plausibile e infine credibile tale operazione. Un esempio abbastanza istruttivo intorno alla questione<br />

della plausibilità credo possa venire dalla Prose du Transsibérien et de la petite Jeanne de France<br />

di Blaise Cendrars (1913). Il testo, per quanto sia intitolato Prose e per quanto sia dotato di strutture<br />

tipiche della narrazione, non contiene elementi sufficienti a contrastare la scrittura in versi e in<br />

28<br />

28


sostanza a fornire la plausibilità del genere Ŗprosaŗ (del resto i propositi di Cendrars erano di<br />

tuttřaltro tipo, se nel suo poema mescola il codice verbale con quello pittorico e se lo definisce<br />

«Primo libro simultaneo»). Plausibilità a parte, con buona pace di chi si attarda nella ricerca della<br />

notoria ma ignota differentia specifica, nel Novecento lřarte mostra tutta la contingenza del suo<br />

valore e della sua costituzione; si possono magari avere, nel corso della storia, contingenze di lunga<br />

durata (ed è per questo che possono dare lřillusione della necessità), ma non per questo dovremo<br />

smettere di ritenerle contingenze.<br />

Il problema ha toccato, e non solo tangenzialmente, la teoria del testo poetico e della<br />

versificazione; studiosi e poeti si sono impegnati in discussioni preziose e in indicative resistenze<br />

normative, e il carattere specifico della poesia è stato di volta in volta individuato nel ritmo, nel<br />

verso, nel lessico, giungendo solo a tratti a ipotizzare che lřunico elemento comune ai testi poetici di<br />

vario tipo stia nellřessere percepiti e letti Ŕ identificati Ŕ come poesia, rimanendo vero che i segni<br />

che orientano lřidentificazione sono diversi e che non è detto agiscano tutti insieme; anzi è piuttosto<br />

detto il contrario. È quanto sostiene Edoardo Esposito, convinto «che la ricerca di un unico e<br />

universale indice di metricità sia non solo vana, ma scientificamente ingiustificata»; e di seguito:<br />

«le scienze umane si caratterizzano [...] per la molteplicità e magari la ridondanza dei tratti che ne<br />

distinguono gli oggetti più che per lřinequivocabilità delle loro manifestazioni»(15). Bisogna<br />

precisare che è una volta innescata lřidentificazione che noi saremo, certamente, indotti a leggere<br />

nel testo il metro e ciò che lo produce, il verso, perché sul metro e più ancora sul verso si fonda il<br />

concetto comune e condiviso di poesia, almeno da un punto di vista formale, e dunque se il verso è<br />

veramente elemento specifico della poesia ciò è vero in un senso più percettivo che costitutivo.<br />

Ad offrire un concreto spunto di riflessione intorno a questi argomenti, con unřinvenzione<br />

distante dalle possibilità contemplate tra i professionisti delle lettere e anche per questo densa di<br />

fascino, è Amelia Rosselli, che per mezzo dei suoi spazi metrici compie unřoperazione inversa<br />

rispetto a quella di Cendrars, scrivendo in forma prosastica (lo si vedrà) testi che poi chiama poetici:<br />

in questo caso si tratta di un nomino pienamente plausibile e di fatto largamente accettato da critici<br />

e lettori.<br />

Il libro dřesordio di Rosselli, Variazioni belliche, esce nellřaprile 1964 articolato in tre parti<br />

distinte: Poesie (1959) e Variazioni (1960-61) che insieme formano il testo poetico, e, ad esso<br />

allegato per suggerimento di Pier Paolo Pasolini (sponsor della poetessa presso Garzanti), il saggio<br />

Spazi metrici (1962), che espone alcune riflessioni di prassi scrittoria risolte nella teorizzazione<br />

della nuova forma poetica Ŕ lo spazio metrico, appunto Ŕ applicato nella seconda sezione. Oltre alla<br />

netta differenza formale, vi è una forte sproporzione quantitativa tra Poesie e Variazioni (32 testi<br />

contro 137), che lřallegato sembra giustificare alludendo alle prime come ad una raccolta di<br />

exempla di una poesia superata in quanto scritta in verso libero.<br />

Per entrare nel merito della questione propongo il pezzo che conclude Poesie e quello che dà<br />

inizio a Variazioni(16):<br />

o dio che ciangelli<br />

e la tua porta si fracassi - come unř<br />

auto che varca il roso cancello, passa la tua<br />

severa ordinanza, ma io non posso! seguirti!<br />

5 tu troppo ti nascondi troppo premi il tuo pistone da pericolo.<br />

Tu non hai dolcezza? Tu non distribuisci caldamente le<br />

Felicità?, come un puro flauto dal becco sì sottile è<br />

la tua ostilità - tu attiri<br />

per poi ripulsare le gioie barbare.<br />

(VP194)<br />

Se nella notte sorgeva un dubbio su dellřessenza del mio<br />

cristianesimo, esso svaniva con la lacrima della canzonetta<br />

29<br />

29


del bar vicino. Se dalla notte sorgeva il dubbio dello<br />

etmisfero cangiante e sproporzionato, allora richiedevo<br />

5 aiuto. Se nellřinferno delle ore notturne richiamo a me<br />

gli angioli e le protettrici che salpavano per sponde<br />

molto più dirette delle mie, se dalle lacrime che sgorgavano<br />

diramavo missili e pedate inconscie agli amici che mal<br />

tenevano le loro parti di soldati amorosi, se dalle finezze<br />

10 del mio spirito nascevano battaglie e contraddizioni, -<br />

allora moriva in me la noia, scombinava lřallegria il mio<br />

malanno insoddisfatto; continuava lřaria fine e le canzoni<br />

attorno attorno svolgevano attività febbrili, cantonate<br />

disperse, ultime lacrime di cristo che non si muoveva per<br />

15 sì picciol cosa, piccola parte della notte nella mia prigionia.<br />

(VV197)<br />

Nel passaggio da una sezione allřaltra la metrica subisce un mutamento in direzione della chiusura,<br />

dunque. Ci si accorge presto che, insieme, ciò che caratterizza Variazioni è un andamento logicosintattico<br />

che Poesie non conosce, e che ne rende i testi più vicini a quelli realizzati in altri periodi<br />

(stando alle date apposte dallřautrice(17)), come La libellula (1958), e più vicini alla parallela<br />

produzione di testi «privati»(18), diversi almeno nellřintenzione. Rinvio altrove per un tentativo di<br />

interpretazione complessiva dei dispositivi formali di Variazioni(19), limitandomi qui a dire che mi<br />

pare esservi una precisa convergenza fra il periodo rosselliano più tipico, esemplificato in VV197, e<br />

lo spazio metrico, teorizzato richiamando quali ideali formali la prosa e il sonetto(20), in maniera<br />

ambigua ma non del tutto incongrua se lřuna è luogo dellřorganizzazione razionale del reale e<br />

lřaltro è caratterizzato, per tradizione e per struttura, da una inclinazione sillogistica. Convergenza<br />

che profila la strumentazione di un soggetto, mnesticamente incapace(21), alle prese con la<br />

ricostruzione della propria storia personale (e con essa della propria identità) per via appunto logica,<br />

oscillando fra narrazione e ipotesi(22), e finendo ad armeggiare con paralogismi.<br />

Rimanendo alla chiusura metrica, una simile tendenza non era certo una novità tra gli anni<br />

Cinquanta e lřinizio degli anni Sessanta. Amelia Rosselli poteva in tal senso essere incoraggiata da<br />

illustri esempi come quelli di Raymond Queneau, di Sylvia Plath e, in Italia, del Pasolini delle<br />

Ceneri di Gramsci, per dire. E anche laddove venivano puntate le accuse di dérèglement si<br />

manifestava lřinclinazione verso una forma poetica regolare o per lo meno allusiva di una certa<br />

regolarità: Giuliani, Porta, Balestrini impiegano volentieri distici, terzine, quartine o sestine. Una<br />

volontà di recuperare qualche elemento di ordine logico sembra spingere su questa strada, cercando<br />

di maneggiare un materiale che si offre, almeno a prima vista, in regime di disordine. La soluzione<br />

in questi casi non è solamente isostichica, ma intende operare anche allřinterno del singolo verso<br />

sostituendo lřormai obsoleto vers libre con la cosiddetta metrica colica(23). Amelia Rosselli<br />

penserà ad una regolamentazione la cui estraneità risulta palese, ma la ricerca di una forma chiusa<br />

che Ŗtengaŗ un materiale poetico dalla tendenza informale, è di fatto qualcosa che accomuna le<br />

diverse esperienze di ricerca poetica del periodo.<br />

Si legge in Spazi metrici:<br />

Nello scrivere sino ad allora la mia complessità o completezza riguardo alla realtà era stata<br />

soggettivamente limitata: la realtà era mia, non anche degli altri: scrivevo versi liberi.<br />

In effetti nellřinterrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi parola, io isolavo la frase,<br />

rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo<br />

il mio corso di pensiero in strati ineguali e in significati sconnessi. Lřidea non era più nel<br />

poema intero [...], ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da<br />

nessuna parte. Lřaspetto grafico del poema influenzava lřimpressione logica più che non il<br />

mezzo o veicolo del mio pensiero cioè la parola o la frase o il periodo.<br />

30<br />

30


Quanto alla metrica poi, essendo libera essa variava gentilmente a seconda dellřassociazione<br />

o del mio piacere. Insofferente di disegni prestabiliti, prorompente da essi, si adattava ad un<br />

tempo strettamente psicologico musicale ed istintivo.<br />

(SM339)<br />

In via di principio, lřallegato a Variazioni belliche pone un problema sia di irregimentazione della<br />

prassi versificatoria sia di unificazione della percezione da parte del fruitore, mostrando una<br />

Rosselli insoddisfatta del vers libre che fino a quel momento aveva impiegato. La soluzione trovata<br />

è quella di produrre una «forma-cubo»(24) che contenga il testo. Stando a quanto dirà in<br />

unřintervista del 1992, lřidea risale ad unřesperienza fatta negli anni ř53-ř54 con una cinepresa<br />

noleggiata, in cui lřinquadratura valeva come «non fotografica ma mentale»(25). Il seguito di Spazi<br />

metrici spiega in cosa essa consista:<br />

Nello stendere il primo rigo del poema fissavo definitivamente la larghezza del quadro<br />

insieme spaziale e temporale; i versi susseguenti dovevano adattarsi ad egual misura, a<br />

identica formulazione.<br />

Scrivendo passavo da verso a verso senza badare ad una qualsiasi priorità di significato<br />

nelle parole poste in fin di riga come per caso. [...] vřera sempre quel punto nascosto del<br />

limite destro del mio quadro, e su di esso poteva cadere, perciò chiudendo il rigo, o la parola<br />

intera, o un qualsiasi nesso ortografico anchřesso significante in quanto realmente tempo<br />

dř«attesa» sia nel parlare che nel pensare.<br />

(SM340)<br />

In ambito strettamente letterario, sottolineare (esasperandola) la dimensione visiva della scrittura<br />

non è una novità almeno dai tempi di Teocrito (si veda il manoscritto della Siringa); passando per il<br />

metafisico George Herbert (con poesie come The Altar o Easter Wings) e per la coda di topo di<br />

Alice‟s Adventures in Wonderland si arriva fino al caso celeberrimo e ben più complesso del<br />

Mallarmé di Un coup de dés jamais n‟abolira le hasard, in cui si promuove a semanticamente<br />

pertinente il dato grafico del testo senza limitarsi a imitare la forma del soggetto. Su questa stessa<br />

linea si incontrano, varcata la soglia che introduce al Novecento, i vari Marinetti, Govoni,<br />

Apollinaire, Tzara, Breton, fino a Dylan Thomas, Pasolini, Balestrini(26) (e fino, volendo, alle<br />

opere di poesia visiva di Lamberto Pignotti o di Roberto Sanesi).<br />

Si tratta certamente di indirizzi diversi: quello che lavora con i caratteri del testo e con la<br />

disposizione delle parole sulla pagina (ma se, per dirla tutta, la dimensione visuale doveva<br />

consistere nel giocare con i caratteri, nellřagire «contro la così detta armonia tipografica della<br />

pagina»(27), ci aveva già pensato Carlo Lorenzini, in arte Collodi, nel capitolo XXXIII di<br />

Pinocchio); quello che ambisce alla dignità di arte visiva (tanto da ricorrere a volte alla<br />

collaborazione di pittori, come Pignotti ricorre a quella di Roberto Malquori); infine quello che si<br />

limita a sagomare i brani secondo forme geometriche. Rosselli appartiene evidentemente a<br />

questřultimo genere di Ŗvisivitàŗ, che produce conseguenze sul piano mensurale, metrico. È<br />

naturalmente in gioco un tipo diverso di metro, costruito graficamente e non acusticamente Ŕ<br />

Esposito avverte che lo spazio metrico è «più che una metrica, una Ŗgraficaŗ»(28) Ŕ , però è<br />

innegabile che delle misure siano definite.<br />

Due elementi distinguono in maniera sostanziale il lavoro di Amelia Rosselli da quello dei suoi<br />

colleghi: da un lato lřinsistenza sul significato metrico della forma grafica; dallřaltro una certa<br />

Ŗdiscrezioneŗ: le losanghe e le ali di Thomas, o le rose e le croci di Pasolini(29) sono<br />

sufficientemente clamorose da pretendere di essere tenute in gran conto, salvo poi verificare che si<br />

tratta della letteratura più tradizionale, quella cioè in cui il primato di significazione appartiene pur<br />

sempre al verbum.<br />

La «forma-cubo» di Amelia Rosselli è piuttosto Ŗdiscretaŗ, dunque, tanto che senza la<br />

pubblicazione dellřallegato a Variazioni belliche sarebbe scambiata per una generica versificazione<br />

libera e dal passo lungo (si noti, dopo ciò che è stato detto sopra, il ruolo del paratesto). La<br />

31<br />

31


discrezione è condizione necessaria perché la sagoma del testo produca una «impressione logica»<br />

che sia la meno eclatante possibile e che quindi agisca in profondità piuttosto che diventare, come<br />

in altri casi, una sollecitazione estemporanea dellřocchio del lettore. È inoltre, la discrezione,<br />

esigenza esplicitamente dichiarata laddove Rosselli dice che lřaspetto grafico del verso libero<br />

influenza lřimpressione logica più della parola frase o periodo, veicoli del suo pensiero. Ma non si<br />

pensi che sotto ci sia la ricerca della neutralizzazione della forma metrica, di una sorta di epoché:<br />

nella lettera del 28 ottobre 1986 di Amelia Rosselli ad Antonio Porta si parla di «immagine della<br />

forma»(30), non di un suo preteso annullamento o neutralizzazione, e di quellřimmagine si<br />

sottolinea con forza lřimportanza.<br />

È presumibile che, sulla base delle indicazioni fornite, lo spazio metrico insinui diversi dubbi<br />

riguardo alla sua reale capacità metrica. In effetti, si dovrà riconoscere che lřirregimentazione, che è<br />

uno degli scopi dichiarati, viene ad essere nei fatti elusa e la norma costruttiva è piuttosto una figura<br />

logico-visiva che ha un ruolo al momento della lettura e non invece nella stesura del testo. Una<br />

prova di quanto si dice, e la si può ritenere decisiva, proviene dalla comparazione, proposta da<br />

Stefano Giovannuzzi(31), di due distinte pubblicazioni in rivista del poemetto La libellula,<br />

esplicitamente indicato come prima applicazione di quel «nuovo geometrismo»(32) che Amelia<br />

Rosselli ricercava da tempo e che infine trova nello spazio metrico.<br />

La prima uscita consiste in un «frammento», come dice lřintestazione, corrispondente a quella<br />

che nel testo definitivo sarà la lassa «Fluisce tra me e te nel subacqueo un chiarore» (vv. 470-521),<br />

ed appare nel fascicolo del giugno 1963 de Ŗil verriŗ(33). Alcune porzioni di questo testo verranno<br />

brutalmente tagliate per la pubblicazione del 1966 in ŖNuovi Argomentiŗ(34). Le asportazioni<br />

intervengono allřinterno dei versi provocando, nella preoccupazione fondamentalmente volta al<br />

rispetto dello spazio metrico, contestuali slittamenti allřindietro del materiale residuo. E ciò avviene<br />

senza badare, ad esempio, a una delle questioni poetiche per eccellenza quale la clausola di verso<br />

(lo dice la stessa Rosselli nel brano riportato sopra), che rientra in quella che Jurij Tynjanov<br />

chiamava «legge di evidenziazione semantica della fine di una serie»(35). In generale, siamo di<br />

fronte ad una incontestabile indifferenza allřistituto metrico in quanto elemento costruttivo del<br />

verso: la funzione dello spazio metrico è solo superficiale nella prassi di scrittura, è il semplice<br />

andare a capo ad un punto prestabilito. Dřaltronde molto spesso il testo è disseminato di misure<br />

della tradizione metrica, mostrando, una volta di più, che davvero Rosselli non ha pensato i suoi<br />

versi come segmenti unitari, ma ha accostato stringhe che prescindono dalla misura dello spazio<br />

metrico, stese una di seguito allřaltra correndo fino al margine impostato sulla macchina da scrivere<br />

e proseguendo oltre con lřunica preoccupazione di non tagliare le parole. Vorrebbe dire grosso<br />

modo che ha scritto poemi in prosa, ma vedremo che le cose non stanno propriamente così. In ogni<br />

caso non si vuole affermare che lřinvenzione stessa dello spazio metrico sia un trucco; la si ritiene<br />

anzi una preziosa intuizione proprio nel suo essere un gesto banale, meccanico, solo<br />

superficialmente costrittivo (e costruttivo) e nello stesso tempo gravido di conseguenze sul piano<br />

percettivo e fruitivo (se vogliamo credere alla questione dellř«impressione logica», come credo si<br />

debba fare, anche ricordando le pagine di Boris Tomaševskij sulla «forma grafica»(36)), al modo di<br />

ciò che avviene in certa arte dřavanguardia.<br />

Non è del resto alla sola avanguardia che rimanda questo tipo di versificazione. Nella poesia<br />

popolare delle origini il canto riempie un cadre rythmique(37) che gli preesiste, con moduli se non<br />

rigidi per lo meno ricorrenti con un grado di variazione ridottissimo. Con lo spazio metrico si attua<br />

una sorta di ripresa moderna di questo modello: essendosi la trasmissione orale pressoché estinta a<br />

favore degli scripta e sopravvivendo al limite come lettura ad alta voce, evidentemente la funzione<br />

mnemonica è potuta decadere, e quindi anche la schematicità acustica, per ambire ad una unità di<br />

«impressione logica» (non è unřimpressione logica di unità, del resto, ciò che la regolarità acustica<br />

produce?) tramite la compattezza del quadro visivo, trasformando così il riempimento da ritmico a<br />

grafico. Il verso rosselliano può rimandare, in secondo luogo, alla battuta musicale che, nella sua<br />

durata prestabilita, accoglie un numero variabile di suoni (e pause) la cui somma resta fissa; e<br />

ricordiamo infine quanto si è detto dellřesperienza con la cinepresa che Rosselli compie nella prima<br />

32<br />

32


metà degli anni Cinquanta. Dove che stia lřorigine dello spazio metrico e quale che sia il suo grado<br />

di sincreticità Ŕ è evidentemente riduttivo cercarla, come si suole(38), nel solo ambito musicale, e<br />

dopotutto gli stessi obiettivi che vi conducono attengono ad un orizzonte ben più ampio(39) Ŕ il<br />

problema rimane più complesso della forma che lo produce.<br />

Se è in entrambi i momenti della produzione e della fruizione che, solitamente, un principio<br />

costruttivo agisce (la terza rima pone a un Dante Alighieri dei precisi vincoli di scrittura e ad un<br />

Antonio Loreto scandisce la lettura, e lo stesso avviene nel sistema tonale che condiziona la<br />

composizione da una parte e lřascolto dallřaltra), nella musica dodecafonica esiste un rigoroso<br />

principio compositivo che però non ha ruolo evidente nella ricezione e tende a non essere avvertito<br />

dal fruitore, salvo informare opportunamente questřultimo dei presupposti teorico-metodologici in<br />

gioco. Unřasimmetria si può rilevare anche nel modello dello spazio metrico, seppure i termini della<br />

questione vadano rovesciati: la metrica attiva nellřimporre un certo tipo di lettura (e il tipo di lettura<br />

è un punto che Spazi metrici affronta esplicitamente, certo con qualche contraddizione) non ha<br />

presieduto alla creazione del verso, che neanche come verso è stato creato. Rovesciamento che, si<br />

perdoni il gioco, non è simmetrico: lřasimmetria dodecafonica è colmabile con lřesercizio della<br />

percezione (che è conseguenza della fruizione, quando non sia occasionale), mentre nel caso dello<br />

spazio metrico lřesercizio della percezione porta ad un ulteriore divaricamento tra essa e la<br />

produzione del testo. Lřallegato dřaltronde è abbastanza contraddittorio da non consentire di<br />

abbandonare la fruizione convenzionale della forma istituzionale del verso: così lo spazio metrico<br />

sarà sempre più decisamente percepito, con lřesercizio, come forma versale, mentre rimarrà<br />

prodotto senza nessuno schema costruttivo che possa essere detto metrico, neppure in senso lato.<br />

Amelia Rosselli non rinuncia comunque a lasciar intendere (ma forse a intendere essa stessa)<br />

lo spazio metrico anche come principio costruttivo:<br />

[…] come unità metrica e spaziale la parola e il nesso ortografico, e come forma contenente<br />

lo spazio o tempo grafico, questřultimo steso però non in maniera meccanica o del tutto<br />

visuale, ma presupposto nello scandire, e agente nello scrivere e nel pensare.<br />

(SM341)<br />

A dire il vero, anche a proposito della lettura la situazione non è delle più chiare, se Rosselli afferma<br />

che «la frase era da enunciarsi tutta dřun fiato e senza silenzi ed interruzioni» (SM340). Una<br />

indicazione del genere esautora lřistituto poetico del verso anche nellřambito della fruizione, oltre<br />

che della produzione, a favore dellřunità «frase», che è propria della forma prosastica. In quel «tutta<br />

dřun fiato» si riconosce lřunità versificatoria (si fa per dire) di Amelia Rosselli, che sembrerebbe<br />

voler così omologare il più possibile la modalità di lettura a quella di scrittura. Qui sto cercando<br />

invece, propriamente, di mostrare una singolare discrepanza in questo senso, dovuta allřimpiego di<br />

una metrica attiva nella lettura e passiva nella scrittura, perché è mantenendo consapevolezza di<br />

questa Ŗdoppia personalitàŗ dello spazio metrico, forte col lettore e debole con lřautore, che si<br />

sarebbe evitato di incorrere in contraddizioni come quella che manifesta unřaltra prescrizione<br />

dellřallegato:<br />

Anche nel caso che un verso avesse contenuto più parole sillabe lettere e punteggiature che<br />

non un altro, il tempo complessivo della lettura di ciascun verso doveva rimanere per quanto<br />

possibile identico.<br />

(SM341)<br />

Il problema sta nel fatto che, inibita la possibilità di segnare nella lettura la fine del verso per<br />

privilegiare una fruizione frasale, è inverosimile che si riesca a percepirne la durata e a riproporla<br />

per i versi seguenti. Di questo avviso pare che sia anche Franco Fortini il quale, trascurando più o<br />

meno avvedutamente lřindicazione «la frase era da enunciarsi tutta dřun fiato», raccomanda: «come<br />

la stessa autrice ha scritto, la struttura metrica esige una lettura per la quale ogni verso abbia una<br />

durata identica o ogni altro; e quindi la cesura finale va fortemente scandita»(40). La peculiarità<br />

33<br />

33


della metrica rosselliana sta dunque nellřimporre due diverse gerarchie di pertinenza delle proprietà<br />

del testo, il quale viene scritto per frasi e viene letto per versi. Se si scremano gli elementi di<br />

confusione e di contraddizione dellřallegato sembra che lo spazio metrico debba essere inteso in<br />

questo modo.<br />

Ho detto sopra che nei tagli al frammento originario della Libellula ci si è preoccupati di<br />

rispettare lo spazio metrico; infatti, se le modificazioni non lo hanno intaccato vuol dire che esse<br />

avevano scopo e pertinenza di altra natura, sintattica o ritmica o semantica, ed erano invece<br />

indipendenti dallo spazio metrico. Cřè un passo di Roman Jakobson che spiega chiaramente il<br />

rapporto tra variante e pertinenza: «È in particolare quando si confrontano le varianti esistenti di un<br />

poema che ci si può rendere conto della pertinenza, per lřautore, del quadro fonematico,<br />

morfologico e sintattico»(41). In questo caso si vede come la «forma-cubo» abbia scarsa pertinenza<br />

per Amelia Rosselli nella sua funzione di autore, secondo lřinciso di Jakobson, mentre è<br />

fondamentale per Amelia Rosselli nella sua funzione di lettore di sé, svelando un metodo poetico<br />

che quantřaltri mai gioca con le gerarchie, non solo stravolgendole comřè proprio delle opere<br />

dřavanguardia in generale, ma anche differenziandole nelle due fasi della produzione e della<br />

ricezione, come è proprio solo di alcune esperienze dřavanguardia.<br />

Il fatto che la misura metrica sia definita in conseguenza di una misura che è solamente grafica<br />

e che risulta da unřoperazione meccanica, mostra che la costruzione dello spazio metrico non<br />

richiede alcuna abilità poetica, nemmeno quella che tradizionalmente è ritenuta lřabilità elementare<br />

di un poeta: quella di scrivere versi corretti. Al di là dellřemancipazione dallřabilità tecnica che le<br />

arti visive hanno conosciuto nel secolo scorso, già lřOttocento dovrebbe aver stabilito col verso<br />

libero che la ragioneria sillabica è qualcosa di tuttřaltro che consustanziale alla poesia (almeno a<br />

quella moderna); Amelia Rosselli, rispetto al verso libero (a cui del resto va cercando<br />

unřalternativa), pone qualche problema ulteriore, utile per una riflessione teorica che già nel<br />

momento in cui appariva lo spazio metrico aveva bisogno di fenomeni nuovi su cui provarsi, e che<br />

ancora oggi non ha colto lřopportunità di un confronto proficuo.<br />

3. Il dibattito cui mi riferivo sopra, intorno al vers libre e più in generale alla specificità della poesia<br />

(ché lì conduce la liberazione del verso), può essere sintetizzato nei due fronti fondamentali di chi,<br />

come Jean Cohen, ritiene che lřa capo sia «il solo criterio per il quale il verso libero si distingue<br />

dalla prosa»(42) o, come Beltrami, addirittura vi vede «lřunico tratto universalmente valido di<br />

metricità»(43), e di chi, dallřaltra parte, lo chiama «indice semiologico» (Pazzaglia(44)) o, come fa<br />

Esposito Ŕ che riepiloga e prosegue il dibattito Ŕ , afferma che lřa capo «non ha funzioni ritmiche,<br />

[...] non crea né determina la metricità; esso la segnala semplicemente [...]», attribuendogli<br />

conseguentemente lo statuto di «segno» e negandogli quello di «fattore di metricità»(45).<br />

Di questřultima posizione non posso per principio condividere lřidea che, in un contesto<br />

linguistico o genericamente comunicativo, un segno non sia di per sé fattore, un produttore di<br />

significato (in questo caso di significato metrico); anche perché un simile concetto di segno, che<br />

semplicemente «avverte»(46) di una data proprietà senza concorrere a produrla, implica che essa gli<br />

preesista, idea che lřorizzonte nominalista del mio discorso non può accogliere. Una distinzione tra<br />

fattore e segno si trova anche in Tynjanov, ma egli tende ad assegnare al secondo le stesse<br />

potenzialità costruttive del primo:<br />

[...] il materiale può essere cambiato fino a quel limite che costituisce il minimo<br />

necessario per un segno del principio costruttivo. Come nel teatro medievale per la scena<br />

che rappresentasse un bosco era sufficiente un cartello con la scritta «bosco», così in<br />

poesia può bastare, in luogo di un qualsiasi elemento, la semplice indicazione del<br />

medesimo: per strofa si intende magari anche il suo solo numero dřordine(47), che dal<br />

punto di vista costruttivo è uguale Ŕ come si è osservato Ŕ alla strofa stessa. (48)<br />

34<br />

34


Così Tynjanov risolve il problema del vers libre, in cui «il metro è dato come segno»(49), ma<br />

evidentemente come un segno che produce. La distinzione non è in ogni caso accettabile<br />

pacificamente, poiché non sempre un segno è un equivalente (il termine è ancora di Tynjanov) di<br />

qualcosa dřaltro, e può invece valere per se stesso, come lřa capo nel sistema del verso libero, e non<br />

solo lì. Già lřendecasillabo sciolto, come anche lřendecasillabo considerato fuori sistema, ha<br />

qualche esigenza di affidarsi al découpage per farsi individuare. Naturalmente è vero che un<br />

endecasillabo è tale anche se mimetizzato in una stringa testuale di una trentina di sillabe, ma fino a<br />

quando non lo si consideri metricamente, fino a quando non si venga avvertiti che è un<br />

endecasillabo o comunque non lo si individui come tale, questo suo essere non vale metricamente:<br />

non si tratta dunque di un endecasillabo.<br />

Certo, nella metrica canonica la disposizione grafica è del tutto ridondante e, qui sì, si può<br />

parlare di avvertimento nel senso proposto da Esposito, perché altri segni già producono lřeffetto<br />

che il taglio rimarcherebbe soltanto, con la funzione tuttřal più di facilitare la lettura; tuttavia si<br />

tenga presente che nellřestetica poetica dellřultimo secolo e mezzo lřa capo conserva anche nei<br />

confronti della metrica canonica un grande potenziale distruttivo-costruttivo nella minaccia di non<br />

assecondare lo schema metrico cui si applica e di disfarlo creandone immediatamente uno diverso,<br />

per quanto derivato dal primo. Possiamo al limite parlare di segni superflui e di segni necessari, ma<br />

la loro superfluità o necessità non sarà una questione ontologica bensì di contesto, di sistema. È<br />

chiaro che nel caso di un fragmentum di Petrarca, di un sonetto per esempio, il découpage non è<br />

coessenziale al testo, e anche scritto senza i famosi a capo si è indotti a leggerlo in endecasillabi<br />

organizzati in due quartine e due terzine. Ma i sonetti e più in generale le forme regolari non<br />

esauriscono evidentemente la storia della poesia: esiste una vasta produzione di testi poetici che<br />

richiedono altri segni specifici, che si costruiscono cioè su altri fattori. Una poesia che sia composta<br />

interamente di parole omoteleutiche non potrà fare di uno schema rimico la sua strutturazione<br />

metrica, che sarà invece generata da un certo disegno sintattico, o sillabico, o accentuale, o<br />

latamente fonologico, o lessicale, o tipografico (non vedo perché debba essere escluso). Un caso<br />

destinato a diventare classico è quello del Sanguineti degli anni Ottanta:<br />

a quella Reginella ridarella, a quella raganella griderella, la bella sopranella<br />

in sottanella, a quella stella bianca, stella nana, unica mia sovrana disumana,<br />

alla sua bianca mano, al piede bianco e stanco, e storto, e morto, a quel suo buco<br />

nero, buco vero, dunque io parlo, e così parlando dico:<br />

felice la tua faccia<br />

di vinaccia, felici le tue braccia di focaccia, principessina di uvaspina,<br />

manducabile inconfutabile, amabile potabile: felice, mia selvaggia, chi ti assaggia,<br />

candeggiante albeggiante, sola, tra due lenzuola: felice il tuo sensibile cannibale,<br />

felice chi ti inghiotte in una notte, chi ti concuoce veloce, e ti digerisce<br />

e smaltisce, e ti chilifica e chimifica: felice chi ti dice, e ti nientifica: (50)<br />

Su una struttura che si mostra rigorosa e si articola su molteplici livelli, lo schema metrico è al<br />

contrario molto flessibile e del tutto irriducibile alla metrica tradizionale, pur facendone ampio<br />

utilizzo. È chiaramente avvertibile la presenza dei tre endecasillabi a majore incipitari, rimarcati dal<br />

parallelismo accentuale 2-6-10 in -ella; il quarto endecasillabo, mentre sposta la seconda e la terza<br />

terminazione in -ella rispettivamente in 4 a e 8 a sede, privandole così dellřictus che si era consolidato<br />

come loro proprio, e mentre presenta una forte cesura tra primo e secondo emistichio, con la<br />

complicità dellřenjambement metrico «sopranella | in sottanella» (metrico nel senso che spezza<br />

lřendecasillabo che ci si attendeva) comincia a decretare la fusione dellřendecasillabo in un tessuto<br />

metrico più complesso: lřultima resistenza la fa «unica mia sovrana disumana», che però già muta la<br />

distribuzione degli accenti in 1-6-10, dopodiché si percepiscono limpidamente le misure del<br />

settenario e del quadrisillabo o del quinario (sempre, va detto, con la possibilità della sinalefe per<br />

poter essere compreso in un endecasillabo), ma niente ci dice che debbano comporsi<br />

35<br />

35


necessariamente in endecasillabi, e neppure in che altro modo debbano comporsi, del resto. La<br />

lettura dei versi 3 e 4 «alla sua bianca mano, al piede bianco e stanco, e storto, e morto, a quel suo<br />

buco | nero, buco vero, dunque io parlo, e così parlando dico», per le sue molte pause sintattiche che<br />

vanno a cadere nei punti di cesura tipici della tradizione, prevede una tale quantità di soluzioni (da<br />

11+11+7+11+11 a 7+11+11+11+11 a 7+7+5+7+4+4+8), che non si vede Ŕ ragionando sempre in<br />

termini di misure tradizionali Ŕ come se ne possa privilegiare una.<br />

Lřampiezza dei versi rende la loro percezione unitaria piuttosto difficile, e richiede una<br />

frammentazione che viene sostenuta dalla natura sintattica del testo. Perciò si impone una<br />

misurazione a più livelli, e le osservazioni di Antonio Pinchera a proposito della metrica dei<br />

Novissimi sembrano assolutamente adatte a questo scopo: egli individua una versificazione colica,<br />

cioè una versificazione in cui «gruppi semplici semantici [...] hanno assunto lřimportanza che aveva<br />

un tempo la sillaba; sono essi la radice del ritmo»(51). La ripartizione in cola costituirà allora il<br />

primo livello metrico, mentre il secondo livello sarà dato dalle misure di ciascun colon, poiché è<br />

banale constatare che lřunità colon rappresenta un elemento complesso e grandemente variabile per<br />

assolvere, da solo, proprio alla funzione di unità. Solo la combinazioni delle due misurazioni dà il<br />

senso metrico del verso e descrive la sua effettiva lettura.<br />

Detto questo, diamo uno sguardo ai primi due versi della poesia di Sanguineti:<br />

a quella Reginella ridarella, a quella raganella griderella, la bella sopranella<br />

in sottanella, a quella stella bianca, stella nana, unica mia sovrana disumana<br />

[...]<br />

Secondo la metrica appena descritta e secondo lřassunto per il quale la metricità è proprietà<br />

posseduta dal testo a prescindere dal découpage, che si limita dřaltra parte a segnalarla, dovremmo<br />

dire che la suddivisione Ŗnaturaleŗ dei due versi sia «[...] in sottanella | a quella stella bianca [...]».<br />

Così avremmo tre cola nel primo e tre cola nel secondo, con una buona coerenza delle misure<br />

interne: tre endecasillabi a majore; un settenario e un quadrisillabo, che eventualmente possono<br />

radunarsi in un endecasillabo anchřesso a majore, e infine un altro endecasillabo a majore. Ma il<br />

criterio di suddivisione di Sanguineti non è evidentemente, qui, quello della regolarità colica né<br />

sillabica, per quanto sia vero ciò che abbiamo detto della metrica a due livelli. Sembra piuttosto<br />

chiaro che «in sottanella» non possa appartenere al v. 1 dove domina il gruppo r-g/d-ella, e debba<br />

invece stare al v. 2 per introdurre la serie del gruppo s-t-ella che, nella cerniera quadrisillabica<br />

«stella nana», si accoppia e cede il testimone alla terminazione -ana.<br />

Questa è la logica dellřorganizzazione metrica del testo, e mi pare una buona organizzazione<br />

sia dal punto di vista della rigorosità costruttiva, sia da quello della godibilità della fruizione<br />

(insomma, sono due versi Ŗbelliŗ). Ma ciò per cui a me qui importa tanto di questi versi, è anzitutto<br />

il fatto che essi mostrano come le plausibili possibilità di organizzazione metrica siano più dřuna, e<br />

ciò basta perché una individuazione che faccia a meno dellřa capo sia in questi casi impossibile. In<br />

secondo luogo tali possibilità metriche, come si vede, possono benissimo dipendere da fattori<br />

tuttřaltro che metrici, almeno nel senso comunemente inteso. Allora dobbiamo dire che è illegittimo<br />

parlare della metricità come di una proprietà del testo che può prescindere da qualche segno che ci<br />

avverta di essa; e possiamo ribadire che per avere una determinazione metrica anche un segno<br />

grafico (e in generale non-metrico) può essere sufficiente.<br />

Segni saranno, per il sonetto, le terminazioni rimiche secondo quegli schemi che sono possibili<br />

per i canoni del genere, e saremo in maggioranza disposti a chiamarli fattori. Segni saranno, in una<br />

poesia come Soldati, gli a capo, e dovremmo rassegnarci a chiamarli, comunque, fattori:<br />

Si sta Si sta come<br />

Come dřautunno Dřautunno<br />

Sugli alberi Sugli alberi<br />

Le foglie Le foglie<br />

36<br />

36


Queste sono due poesie dalla metrica profondamente diversa (affermare il contrario sarebbe<br />

quantomeno ingeneroso nei confronti del lavoro di Ungaretti), e il fattore che subendo una<br />

modificazione ha modificato ipso facto la metrica della poesia è lřa capo.<br />

Un oggetto possiede tutte le proprietà che possiede (cito a memoria una espressione ricorrente<br />

di Brioschi), ma finché non le organizzo in una certa gerarchia esso non è nulla, o meglio: è sempre<br />

qualcosa perché sempre, nel momento in cui lo percepisco, organizzo quelle proprietà che di esso<br />

ho percepito in un certo modo. Lřorientamento della percezione dipende, oltre che dallřoggetto<br />

medesimo, da indicazioni esterne allřoggetto che si configurano tramite consuetudine, tramite<br />

istruzioni esplicite, tramite suggerimento allusivo, e insomma pragmaticamente; ecco allora che<br />

bisogna fare attenzione: la gerarchia di proprietà non è a sua volta una proprietà dellřoggetto, e<br />

quindi neppure lřorganizzazione metrica di un testo lo è, come già si è detto.<br />

Nella comunicazione è ben falso che non ci sia nulla al di fuori del testo, ma è anche vero che<br />

lřhors-texte cřè solamente se cřè il texte, cioè il segno (che naturalmente può essere anche assenza<br />

di segno là dove ce lo si aspetta e quindi ha pertinenza nel gioco comunicativo: si pensi a John Cage<br />

e al suo 4‟33‟‟, anno 1952, o alle cancellature di Emilio Isgrò, una dozzina di anni dopo). Nel caso<br />

in cui il segno indichi come si deve leggere un altro segno o un insieme di segni, poi, la questione<br />

sembra traducibile nella seguente similitudine: distinguere fattore e segno è come dire Ŕ e forse è<br />

dire Ŕ che linguaggio-oggetto e metalinguaggio sono due cose distinte (come anche Roland Barthes,<br />

seppur con altre mire, vorrebbe(52)), mentre nella lingua naturale, che è la lingua della letteratura,<br />

non lo sono affatto. Il linguaggio dicendo fa, mostrando produce, avvertendo crea, e non credo si<br />

possa uscire da questa, peraltro felice, condizione.<br />

4. Il concetto di avvertimento, così inteso, è riconducibile alla quiniana ostensione, e riporta a quegli<br />

episodi della storia dellřarte cui si è fatto ampio riferimento. Se essi ci hanno indicato come alcune<br />

di quelle che riteniamo proprietà appartenenti ad un oggetto (lřesteticità o la metricità, ad esempio)<br />

non siano affatto proprietà, bensì un tipo di organizzazione gerarchica delle proprietà, dobbiamo<br />

riflettere sul fatto che lřorganizzazione in uno si definisce e si mostra, così come accade per i nomi<br />

delle cose (ed è a questo che inizialmente Quine si riferisce con il suo discorso qui richiamato):<br />

indico e nomino, e, se la mia operazione possiede delle condizioni di persuasività o almeno di<br />

plausibilità, è tutto lì.<br />

Avvertire, ostendere, segnalare, non sono operazioni neutre e improduttive, sono piuttosto<br />

strumenti di individuazione, nel duplice senso del riconoscere e del rendere individuo: tra le molte,<br />

se non infinite, possibili gerarchie di proprietà di un oggetto ci si riferisce ad una sola di esse.<br />

Avvertire della proprietà endecasillabica di una stringa di testo Ŕ ciò che avviene solitamente, nella<br />

poesia moderna, tramite il segno grafico dellřa capo Ŕ attualizza una certa gerarchia di proprietà che<br />

le rende una sua esistenza metrica, una sua metricità; così come avvertire della divisibilità di un<br />

testo in endecasillabi è attualizzare una tra varie possibilità metriche. Una metrica cřè sempre, anche<br />

nei poèmes en prose, anche nella prosa tout court, per lo stesso motivo per cui un endecasillabo è<br />

sempre tale. Ma finché qualcosa non ne pone in risalto le proprietà che siamo soliti chiamare<br />

metriche (misura sillabica o accentuativa, ritmo, rime, ecc.) si tratta di una esistenza non metrica, il<br />

che per la poesia è un problema.<br />

Semplicemente, nella prosa la misura dei segmenti testuali non è proprietà pertinente, a meno<br />

che le misure si ripetano e che le ripetizioni siano percepibili: in quel caso ci deve venire a sospetto<br />

che anche alla misura, alla metrica, sarà bene prestare attenzione. La differenza, ingannevole, tra le<br />

misure della poesia e le misure della prosa sta solamente nel fatto che in prosa la metrica viene<br />

promossa allřattenzione del lettore a patto di alcuni accorgimenti (determinazioni) sintatticomensurali,<br />

mentre in poesia ciò avviene automaticamente e meccanicamente e, se si vuole, dato<br />

lřinflazionamento della pratica del découpage, con minore consapevolezza (è un inflazionamento<br />

cui bisogna porre rimedio, come intuisce Amelia Rosselli, così come il vers libre aveva posto<br />

37<br />

37


imedio allřautomatizzazione dei versi metricamente canonici), bastando il solo taglio a dire «qui<br />

poesia»(53).<br />

Quanto detto finora dovrebbe aver indicato che anche il fronte Cohen-Beltrami, che appare<br />

rispondente allřesigenza di ritenere significante Ŕ cioè produttore di significato, in questo caso di<br />

significato metrico Ŕ qualunque segno che abbia pertinenza nel sistema linguistico in cui viene letto,<br />

risulta incappare in qualche problema: il segno che avverte della metricità e che nello stesso tempo<br />

concorre a produrla non deve necessariamente essere lřa capo.<br />

Non è un caso che questa concezione vada in crisi davanti allo spazio metrico. Esso si<br />

riconosce meno nella definizione di découpage e meglio in una di anti-découpage o pre-découpage,<br />

poiché, più che segmentare un testo, Amelia Rosselli riempie le sue forme non preoccupandosi<br />

affatto dellřa capo, o preoccupandosene una volta per tutte allřinizio del lavoro, e quindi in modo<br />

del tutto astratto e slegato dalla costruzione di ogni singolo verso, come non vorrebbe il galateo<br />

poetico.<br />

Quello che fa Rosselli è andare a capo esattamente come in questo momento sto facendo io<br />

che scrivo, inequivocabilmente, prosa. Alla lettura, i versi di Variazioni non si identificano come<br />

tali né per una regolarità sillabica o accentuale, né per quegli spazi bianchi che lřa capo produce. Lo<br />

spazio metrico, impostando allřinizio della poesia il layout della macchina da scrivere (come si fa<br />

nella prosa; mentre un versoliberista Ŕ in linea di principio Ŕ medita ogni suo verso, pur con criteri<br />

altri da quello sillabico), radicalizza il découpage, rende ancora più automatica e meccanica<br />

lřoperazione di taglio fino a farle perdere di fatto la sua funzione costruttiva; inoltre Rosselli,<br />

parallelamente, si è accennato, lavora ad una metrica intraversale che sfrutta quegli accorgimenti<br />

peculiari della prosa quando vuole avere, e vuole averla evidente, una sua pertinenza metrica.<br />

Ho detto che nello spazio metrico, ancor più che nel metodo dodecafonico, cřè unřasimmetria,<br />

unřimposizione di due diverse gerarchie di pertinenza delle proprietà del testo per cui righi scritti<br />

come non-versi vengono proposti, stampati e letti come versi, piuttosto che come prosa più o meno<br />

poetica. Che cosa generi questa differenziazione tra produzione e ricezione, che cosa la legittimi e la<br />

renda plausibile è il nostro problema.<br />

Siano considerati i due brani qui di seguito:<br />

[…] coloro li quali me hanno reputato crudele e iniquo e bestiale conoscano<br />

che ciò che io faceva a antiveduto fine operava, volendoti insegnar dřesser<br />

moglie e a loro di saperla tenere, e a me partorire perpetua quiete mentre teco<br />

a vivere avessi: il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che<br />

non mřintervenisse, e per ciò, per prova pigliarne, in quanti modi tu sai ti<br />

punsi e trafissi.<br />

(G. Boccaccio, Decameron X, 10, 61)<br />

Sebbene fosse in me il travaglio più rapido che non la<br />

conoscenza: stendevo erbe ai piedi dei grandi (col nome<br />

dorato) e finivo anchřio nella cassapanca dei bevitori.<br />

(VV309)<br />

A seconda delle diverse impostazioni tipografiche di ciascuna edizione, i righi di Boccaccio<br />

termineranno con «bestiale», «volendoti», «perpetua», «moglie» oppure no, indifferentemente.<br />

Quelli di Rosselli verranno invece tagliati sempre su «la», «nome», «bevitori.», che siano stampati<br />

sul volume Garzanti o sulle pagine di unřantologia Mondadori, Einaudi o Feltrinelli, e se lo spazio a<br />

disposizione non dovesse bastare aprendo una parentesi quadra si ribadirebbe che si tratta<br />

assolutamente di versi. Per quanto abbiamo detto sopra e per quanto abbiamo letto in Spazi metrici,<br />

quellř«indifferentemente» con cui si offre prosa vale anche per Amelia Rosselli nellřatto di stendere<br />

i suoi testi, ma non vale per lředitore e per il lettore, il cui atteggiamento nei confronti di un testo<br />

che si presenta come poetico rimane necessariamente quello codificato, che consiste nel rispetto per<br />

38<br />

38


quellřistituzione fondamentale che è il verso.<br />

Convochiamo Fortini con il saggio da cui sopra è stato estrapolato il «qui poesia», Su alcuni<br />

paradossi della metrica moderna:<br />

Ma quando, al rifiuto dei Ŗvecchi metriŗ si aggiunse, da noi, il rifiuto della metrica; quando<br />

cioè fu tolto ogni fondamento alla norma metrica in nome della identità forma-contenuto; e<br />

questa nozione costituì il fondo comune della Ŗavanguardiaŗ e del ŖNovecentoŗ, i residui, o<br />

irriducibili, elementi metrici assunsero (e mantengono fino ad oggi) una eccezionale<br />

rilevanza: vendetta della oggettività respinta dalla soggettività ritmica, lřossequio alla<br />

legislazione metrica si trasferì e mascherò nellřossequio al «genere».<br />

[...] quanto più la poesia si vuole autonoma e Ŗpuraŗ tanto più, al limite, ha bisogno di<br />

qualcosa che la connoti come Ŗpoesiaŗ: lřossequio alla legislazione metrica si trasferisce e si<br />

maschera Ŕ come sopra detto Ŕ nellřossequio al «genere». [...] E questo è forse il significato<br />

del celebre Ŗbiancoŗ che avvolge tanta poesia moderna: lřeffetto di Ŗstraniamentoŗ è ottenuto<br />

anche prima dellřeffato, con un tacito Ŗfavete linguisŗ, tracciando unřorma immaginaria<br />

intorno al testo (a un testo qualsiasi), non diversamente da quanto fecero i protodadaisti con<br />

gli oggetti readymade, che assumevano il loro significato solo se Ŗspaesatiŗ in una sala<br />

dřesposizione. Questřorma o cerchio è la nozione stessa di poesia moderna come soggettività<br />

(o oggettività assoluta), nozione della quale partecipano tanto lřautore quanto i suoi<br />

presumibili lettori e ad evocar la quale bastano alcuni semplici artifici convenzionali come la<br />

disposizione tipografica, il tipo di volume, ecc. Si accendono dei Ŗfuochi di posizioneŗ: Ŗqui<br />

poesiaŗ. (54)<br />

Fortini accosta del tutto opportunamente la forma della poesia moderna al ready-made. Ma da tale<br />

accostamento non trae le dovute conseguenze che riguardano la poesia e lřarte anche di periodi<br />

precedenti oppure refrattari alla modernità. Non coglie la lezione storica che il ready-made può<br />

vantare come suo merito principale e che, prendendo punto per punto i problemi posti nel passo<br />

citato, possiamo tradurre così: la poesia ha sempre bisogno di essere connotata (ostensa diremmo<br />

altrimenti) come tale; lřossequio alla legislazione metrica è solo un particolare ossequio al genere;<br />

anche la metrica è un favete linguis; anche la metrica è un (più o meno semplice) artificio<br />

convenzionale, esattamente come la disposizione tipografica, il tipo di volume, eccetera. Insomma,<br />

non nello spaesamento si può cercare il principio del ready-made, bensì nella prepotenza poietica di<br />

creare nominando, nello sfruttamento del metodo dellřostensione, che è lo stesso metodo utilizzato<br />

da Amelia Rosselli.<br />

Si accetti che le forme letterarie e in generale i segni devono essere (plausibilmente) esibiti<br />

come tali per essere tali, e allora non costituiranno più eresia né lo spazio bianco né lo spazio<br />

metrico. Detto questo è bene non imparentare troppo lřuno con lřaltro, poiché tra i due esiste una<br />

profonda differenza che si può misurare giusto sul principio del ready-made, il quale, se si accosta<br />

con qualche ragione al verso libero, più propriamente è modello del verso rosselliano. Questřultimo<br />

non tenta di imitare una forma metrica (e imitando in effetti sarebbe una forma metrica), ma si<br />

limita ad affermare si esserlo. Rosselli, sia chiaro, non rientra nel bersaglio di Fortini anzitutto per<br />

ragioni banalmente cronologiche (quando il critico scrive la poetessa non è ancora stata pubblicata),<br />

e comunque dello spazio metrico non si sarebbe potuto dire che miri allřossequio del genere poesia,<br />

proprio perché questo viene piegato a soluzioni personali e, piuttosto che tracciare unřorma<br />

immaginaria, si cerca di annullarla in nome di unřidea del tutto diversa e originale. Lo spazio<br />

bianco, nella misura in cui è davvero ciò che da Tynjanov ad Esposito viene chiamato segno, è<br />

segno della metrica intesa in senso tradizionale, potremmo dire che è segno della versificazione; lo<br />

spazio metrico è al contrario segno della prosa; e che alla prosa Rosselli stia pensando lo si è letto:<br />

la parola o la frase o il periodo sono il mezzo o veicolo del suo pensiero; scrivendo a mano<br />

dovrebbe scrivere prosa(55).<br />

Per forma Rosselli sembra intendere non tanto una «funzione materiale» alla Reyes(56)<br />

quanto unřorganizzazione spaziale estrinseca, applicabile a posteriori su materiale verbale già<br />

39<br />

39


creato (e le due edizioni del brano della Libellula riportate più sopra lo dimostrano senza eventualità<br />

di equivoco), e per prosa, conseguentemente, non la scrittura caratterizzata da «un principio lineare<br />

e continuo, regolato in senso logico e sintattico» Ŕ opposta alla poesia che ha principio «ritmico e<br />

circolare»(57) e che già Hopkins definiva come «discorso che ripete totalmente o parzialmente la<br />

stessa figura fonica» Ŕ bensì lřimpostazione tipografica in cui essa tradizionalmente si presenta. È<br />

sintomatico che Alfonso Berardinelli segnali la difficoltà di distinguere le prose di Rosselli dalle sue<br />

poesie(58) (addirittura Stefano Agosti definisce «testo in prosa»(59) il poemetto La libellula) ed è<br />

chiaro come ciò dipenda dalla concezione in primo luogo grafica che ella ha della forma.<br />

Tynjanov lamentava a suo tempo che a ricercare lo specifico della poesia Ŕ vi ho già accennato<br />

Ŕ in «un particolare, scelto, lessico poetico, [in] procedimenti di raggruppamento sintattico<br />

particolari dellřuso poetico, e così via»(60) erano (e vi erano costretti) i fautori della dizione<br />

fraseggiante: evidentemente il problema della dizione è legata ad una determinata concezione della<br />

poesia che, eliminando la componente metrica, si deve affidare a «fattori di serie diversa» da quella<br />

poetica per conservare qualche tipo di specificità. Ciò porta a cancellare «ogni linea di<br />

demarcazione tra il verso e la prosa dřarte», come avverte lo stesso Tynjanov, ma si dovrebbe dire<br />

tra il verso e la prosa tout court, perché altrimenti si persevera nel tentativo di definire e distinguere<br />

le forme (in questo caso prosa e prosa d‟arte) attraverso la lingua, cioè attraverso una serie diversa.<br />

I testi di Amelia Rosselli esemplificano perfettamente la definizione hopkinsiana di poesia e<br />

quelle che da essa discendono, come quella di Lotman, che vede nella tendenza alla ripetizione il<br />

principio costruttivo del verso e, dallřaltra parte, nella tendenza allřunificazione e alla metafora (in<br />

un senso che non è quello strettamente retorico e si riferisce al livello sintagmatico) il principio<br />

costruttivo della prosa(61). Ma ciò non significa nulla dal punto di vista teorico e mostra piuttosto la<br />

capacità descrittiva di quella formula. Rimane in Rosselli una precisa coscienza della forma in<br />

quanto serie autonoma (almeno inizialmente), al punto tale da usarla come contenitore restando ad<br />

aspettare che essa reagisca, che si costituisca in sistema (e che quindi perda la sua autonomia, ma<br />

solo a questo punto) con il materiale verbale che vi viene versato dentro(62). Il fatto stupefacente è<br />

che la forma usata sia quella della prosa; del resto lo stesso Lotman, aprendo a una concezione non<br />

solo costruttiva ma anche fruitiva, e quindi considerando il complesso convenzionale che regola il<br />

funzionamento dellřarte, scrive:<br />

in quanto la regolarità poetica si presenta dal punto di vista linguistico comune come non<br />

regolarità, sorge (nella definizione del testo come artistico) la tendenza ad esaminare<br />

qualsiasi non regolarità del testo come regolarità di un tipo particolare. (63)<br />

Il che vuol dire, tornando al rapporto tra poesia e prosa (interno al problema del «testo artistico»),<br />

che il principio della ripetizione e quello della linearità (o della metafora nella concezione dello<br />

stesso Lotman) non vanno considerati esclusivamente da un punto di vista costruttivo, bensì anche<br />

ricettivo, in un sistema convenzionale complessivo che si gioca su entrambe queste dimensioni, con<br />

una libertà di azione che può dare luogo ad esiti come dicevo stupefacenti. Ma allora è necessario<br />

ritenere il problema del découpage solo parziale nellřeconomia del testo poetico (ed è una<br />

conclusione cui già eravamo giunti per altra via), e dissentire da Jean Cohen laddove afferma che<br />

«la Ŗsuddivisioneŗ del discorso versificato è in grado di fornirci il carattere specifico in<br />

questione»(64).<br />

Viene il sospetto che qualsiasi tentativo di teorizzazione della forma poetica possa essere<br />

messo in crisi, magari dolosamente, da produzioni concrete: la poesia lirica italiana per secoli è<br />

stata (ed è stata teorizzata come) sonetto canzone o sestina, poi Leopardi si è preso la libertà di<br />

utilizzare lřendecasillabo sciolto come verso lirico e il concetto di forma lirica si è ampliato, come<br />

si è ampliato quando il verso è diventato libero o quando è nato il poème en prose. Un ulteriore<br />

ampliamento proviene dallřinvenzione di Amelia Rosselli, che, discendendo pur sempre dalla prassi<br />

del vers libre, elimina lřultima presunta differentia della scrittura poetica che in essa è implicita.<br />

Non viene invece eliminata, ma anzi sfruttata in tutta la sua potenzialità, quella che Tynjanov<br />

40<br />

40


chiama «la cosa più semplice e fondamentale» per la costituzione di un sistema metrico, cioè «la<br />

designazione di un qualsiasi gruppo metrico come unità [...], anticipazione dinamica di un gruppo<br />

seguente e analogo»(65). Rileggiamo:<br />

Nello stendere il primo rigo del poema fissavo definitivamente la larghezza del quadro<br />

insieme spaziale e temporale; i versi susseguenti dovevano adattarsi ad egual misura, a<br />

identica formulazione.<br />

(SM340)<br />

Evidentemente il gruppo che Amelia Rosselli designa come unità è metrico in un senso del tutto<br />

inconsueto essendo «insieme spaziale e temporale», cosa che potrebbe apparire superficiale se non<br />

tenessimo conto di due punti della lezione di Tynjanov: e cioè, da un lato, che il verso non può<br />

essere concepito come entità solamente acustica ma si devono considerare altre dimensioni quale<br />

quella grafica (lezione chiaramente appresa da Rosselli), ed è in questo senso che il formalista parla<br />

di segni e di equivalenti(66); dallřaltro lato, che il meccanismo di funzionamento del metro sta<br />

nellřanticipazione conclusa, nel caso della metrica regolare, oppure nellřanticipazione non<br />

conclusa, nel caso del verso libero. Allora, ciò che fa lo spazio metrico è sintetizzare la conclusione<br />

spaziale con la non-conclusione temporale, il metro come sistema metrico con il metro come<br />

impulso metrico, la stabilità con lřinstabilità, in una dinamizzazione che eleva al quadrato la<br />

capacità dinamica attribuita da Tynjanov al verso libero, o che forse solamente restituisce alla<br />

poesia un principio dinamico che lřuso e il consumo di tale verso, come accade ogni volta che<br />

lřirregolarità diviene regola, aveva ottuso.<br />

5. Tutto questo serve a giustificare e valorizzare la dimensione teorica della ricerca poetica<br />

rosselliana, la quale non smette per questo di fondarsi su di una prassi di scrittura prosastica.<br />

Riconoscere questo fatto senza imbarazzi di sorta ha peraltro il vantaggio di permettere lřaccesso ad<br />

altre implicazioni non prive di interesse: qui, come davanti allřorinatoio di Duchamp, il problema<br />

rimane più complesso Ŕ lo ripeto Ŕ della forma che lo produce.<br />

Naturalmente non si voleva trascurare la differenza enorme tra il nomino di Duchamp Ŕ con il<br />

quale si fa lřopera dřarte in senso pienamente estetico Ŕ e quello di Rosselli Ŕ con cui invece non si<br />

fa la poesia se non in senso vuotamente formale Ŕ quando si è proposto tale accostamento. Il valore<br />

estetico è questione più complessa laddove il codice è complesso, verbale o figurativo che sia. La<br />

distinzione tra forma e valore tende ad essere superata negli ambiti in cui la complessità del codice<br />

cede ad un ampliamento e ad una maggiore disponibilità verso innesti che lo aggiornino e che, in<br />

definitiva, lo creino nello stesso momento della creazione dellřopera. Così, se Fountain ha<br />

immediato valore estetico, è perché si pone già fuori del codice figurativo della scultura (e dentro di<br />

esso non avrebbe addirittura senso) per collocarsi in un ambiente-codice del tipo descritto.<br />

Sia la forma che il valore passano attraverso il riconoscimento, ma mentre la prima può<br />

avvalersi dellřostensione, il secondo evidentemente no. Bene, con la convergenza tra forma e<br />

valore, questřultimo diventa anchřesso funzione dellřatto dellřostendere, e gli esempi in questo<br />

senso non mancherebbero. Niente di male, ovviamente. Ma lřidea di centomila miliardi di sonetti<br />

componibili a partire da dieci sonetti base, o lřidea di una poesia formata da elaboratori elettronici Ŕ<br />

proponendosi allřinterno del sistema letterario e anzi in quello ancora più stretto della poesia Ŕ<br />

risultano essere idee letterariamente povere se non indagano lo specifico della poesia, che se cřè (e<br />

in un certo senso che abbiamo discusso cřè) è il metro, e il verso che lo determina. Perché si<br />

arricchiscano di significato estetico dovremmo collocarle in un contesto più ampio, in cui le opere<br />

vogliono tendere a non essere più appartenenti ad una disciplina artistica particolare bensì ad un<br />

concetto generale di arte, in cui il codice di riferimento è meno articolato e più accogliente. È<br />

successo più volte che lřarte abbia ambito allřinterdisciplinarità, ma quello cui si punta in questi casi<br />

non è tanto lřintegrazione di più discipline quanto la dissoluzione delle discipline stesse, la<br />

trasformazione dellřopera dřarte in evento, in esperienza estetica il cui codice si scrive con lřevento<br />

41<br />

41


stesso mediante la mescita di codici artistici tradizionali e comportamenti o elementi artisticamente<br />

non codificati.<br />

Con gli spazi metrici, è chiaro, per quanto lřautrice mostri un atteggiamento di libera<br />

ispirazione nei confronti delle conquiste estetiche delle altre arti, siamo al di qua di simili ricerche,<br />

ancora ben dentro il giardino della letteratura e dei suoi codici complessi, dove la distinzione tra<br />

forma e valore è tuttřaltro che superata, per quanto entrambi siano in continua evoluzione, o<br />

modificazione, se si preferisce. In effetti Amelia Rosselli non si limita a sfruttare la lezione<br />

duchampiana, ma la integra con quanto è specifico della versificazione, ed è grazie a questo tipo di<br />

lavoro che la sua innovazione non appare pretestuosa e che la sua forma appare Ŕ ancorché<br />

contraddittoriamente Ŕ persuasivamente poetica.<br />

Contradditoriamente, certo: Rosselli ci sta dicendo che la sua prassi di scrittura è in tutto<br />

identica alla scrittura di prosa; allo stesso tempo dice: Ŗquesti sono versiŗ. Io non so se, e riguardo a<br />

quale punto, bisogna crederle. Se non fosse stato scritto Spazi metrici non vi sarebbe il benché<br />

minimo dubbio sulla natura di quei righi tipografici, anche perché essi giocano astutamente con un<br />

profilo destro che anche se in misura ridottissima rimane irregolare, che continua ad alludere alle<br />

composizioni tipografiche cosiddette «a bandiera». Ma contemporaneamente allude alle<br />

composizioni tipografiche della prosa, con tutta lřambiguità possibile. È a questa ambiguità che<br />

bisogna credere, il che equivale a non credere fino in fondo.<br />

In faccende simili noi non siamo invitati a Ŗsospendere lřincredulitàŗ, come succede per la<br />

buona cooperazione finzionale fra opera e lettore, ma semmai siamo invitati a fare il contrario, a<br />

Ŗsospendere la credulitàŗ. La credulità, dico, nei confronti di un sistema in cui una affermazione<br />

risulta vera oppure falsa (senza che si dia un terzo, e senza che sia possibile derogare al principio di<br />

non contraddizione, appunto Ŕ mentre il sistema logico, o meglio paralogico, di Rosselli prevede<br />

questa possibilità, e anzi vi conferisce carattere di necessità); nei confronti di unřontologia dellřarte<br />

che pretende si realizzino opere in suo ossequio, che pretende di essere continuamente e<br />

tautologicamente confermato, ipostatizzato, naturalizzato. Invece Ŕ e lo insegna Amelia Rosselli<br />

come già Marcel Duchamp Ŕ possiamo tentare ogni volta di rivedere la definizione di verso grazie a<br />

ciò che non è verso, di arte grazie a ciò che non è arte. Poi saremo sempre di nuovo tentati di dire<br />

che cosa è verso, che cosa è arte; tentati di dire, in definitiva, che cosa è mondo, e che cosa è verità,<br />

anche a proposito della propria storia personale. A quel punto bisognerà ricominciare a fare nuove<br />

affermazioni che abbiano tutta lřaria di essere falsità.<br />

42<br />

Antonio Loreto<br />

Note.<br />

(1) Caso non considerato da Walter Benjamin nel suo Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen<br />

Reproduzierbarkeit (1936), ma degno di nota come situazione intermedia tra lřirripetibilità e la riproducibilità tecnica<br />

dellřopera. Si tratta di una riproducibilità solo potenziale, che la mano dellřartista può tradurre in atto conferendole<br />

valore museale, e commerciale.<br />

(2) Cfr. N. Goodman, I linguaggi dell‟arte [1968], a cura di F. Brioschi, il Saggiatore, Milano 1976 (pp. 111 sgg.), per<br />

la teoria della notazione; cfr. Id., Un mondo di individui [1947], in La filosofia della matematica, a cura di C. Cellucci,<br />

Laterza, Roma-Bari 1967, per il titolo.<br />

(3) Cfr. N. Goodman, I linguaggi dell‟arte, cit., p. 3.<br />

(4) F. Brioschi, Un mondo di individui, Unicopli, Milano 1999, pp. 48-49.<br />

(5) Lřarticolo The Art World (pubblicato nel 1964 in ŖThe Journal of Philosophyŗ, vol. LXI, n. 19) fornisce lo spunto a<br />

studiosi come George Dickie che prendono a lavorare a una teoria istituzionale dellřarte (da cui per la verità Danto<br />

prenderà le distanze: cfr. lřintroduzione di Stefano Velotti a A.C. Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia<br />

dell‟arte [1981], Laterza, Roma-Bari 2008, p. XI).<br />

(6) Cfr. F. Brioschi, Un mondo di individui, cit., pp. 33-34.<br />

(7) Cfr. N. Goodman, I linguaggi dell‟arte, cit., p. 100.<br />

(8) A. Schwarz, Marcel Duchamp, Hacette-Fabbri, Milano 1969, pp. 29 e 31.<br />

(9) R. Magritte, Tutti gli scritti [1979], a cura di A. Blavier, Feltrinelli, Milano 1979, p. 566. In chiusura di una lettera a<br />

Michel Foucault del maggio dello stesso 1966, Magritte scrive: «Mi permetto di sottoporre alla sua attenzione le<br />

riproduzioni, qui allegate, di quadri che ho dipinto senza preoccuparmi di una ricerca pittorica originale». Tra le<br />

42


iproduzioni, annota lo stesso Foucault, cřera Ceci n‟est pas une pipe (cfr. M. Foucault, Questo non è una pipa [1973],<br />

trad. di R. Rossi, SE, Milano 1988, pp. 90-91).<br />

(10) Cito da S. Gablik, Magritte [1985], Rusconi, Milano 1988, pp. 139-142.<br />

(11) A.M. Hammacher, Magritte [1973], Garzanti, Milano 1981, p. 24.<br />

(12) Cfr. S. Gablik, Magritte, cit., p. 124.<br />

(13) Cfr. G. Della Volpe, Critica del gusto [1960], Feltrinelli, Milano 1976 4 , pp. 2-3 e pp. 46 sgg.<br />

(14) Cfr. W.V.O. Quine, Identità, ostensione, ipostasi [1950], in Id., Da un punto di vista logico. Saggi logico-filosofici<br />

[1953], a cura di P. Valore, Cortina, Milano 2004.<br />

(15) E. Esposito, Il verso. Forme e teoria, Carocci, Roma 2003, pp. 19-20. Cfr. anche E. Esposito, Metrica e poesia del<br />

Novecento, FrancoAngeli, Milano 1992, che indica nel verso lo «specifico elemento costitutivo» della poesia (p. 38).<br />

(16) Mi riferisco ai testi di Variazioni belliche come segue: VP: sezione Poesie; VV: sezione Variazioni; SM: allegato<br />

Spazi metrici. Il numero rimanda alla paginazione del citato A. Rosselli, Le poesie, a cura di E. Tandello, pref. di G.<br />

Giudici, Garzanti, Milano 1997.<br />

Si utilizza qui un carattere monospazio, quello della macchina da scrivere, comřera nelle richieste di Amelia Rosselli<br />

presso i propri editori, per le ragioni spiegate in Spazi metrici: «Nello scrivere a mano invece che a macchina non<br />

potevo […] stabilire spazi perfetti e lunghezze di versi almeno in formula eguali perfettamente, aventi lřidea o parola o<br />

nesso ortografico come unità funzionali e grafiche […]. Scrivendo a mano normalmente, potevo soltanto tentare di<br />

carpire istintivamente lo spazio-tempo prestabilito nella formazione del primo verso, e forse più tardi e artificiosamente,<br />

ridurre il tentativo ad una sua forma approssimata, riportata tramite stampa meccanica» (SM341). Fu soltanto Il<br />

Saggiatore (editore di Serie ospedaliera, 1969) a soddisfare le richieste dellřautrice, mentre Garzanti e Studio Editoriale<br />

(La libellula, 1985) non ritennero di dover intervenire sullřaspetto tipografico dei testi. Ancora nel complessivo e<br />

postumo Le poesie curato da Emmanuela Tandello (1997), Garzanti trascura la questione Ŕ come lamenta Edoardo<br />

Esposito nella sua recensione al volume (Diario in versi d‟un destino tragico. Processo creativo e tensioni linguistiche<br />

d‟una poetessa per pochi, ŖLřIndiceŗ, n. 6, giugno 1998) Ŕ rimandandola «semmai» ad una futura edizione critica (che<br />

pare ormai essere in cantiere, affidata da Renata Colorni alla stessa Tandello e a Stefano Giovannuzzi per i ŖMeridianiŗ<br />

Mondadori).<br />

(17) Per le datazioni dřautore, da sempre problematiche in particolare per La libellula ma anche per Variazioni belliche,<br />

cfr. S. Giovannuzzi, Amelia Rosselli e la funzione Campana, ŖTrasparenzeŗ, n. 17-19 monografico a cura di E. Tandello<br />

e G. Devoto, 2003, p. 154; Id., Come lavorava Amelia Rosselli, in A. Cortellessa (a cura di), La furia dei venti contrari.<br />

Variazioni Amelia Rosselli, con testi inediti e dispersi, Le Lettere, Firenze 2007.<br />

(18) «I testi di Sleep li ho riuniti nel ř66, per mostrarli agli amici. Li considero assolutamente privati», intervista di M.<br />

Caporali a Rosselli contenuta in ŖPoesiaŗ, n. 28, aprile 1990. Tali testi saranno parzialmente pubblicati in Sonno-Sleep,<br />

versione italiana di A. Porta, Rossi & Spera, Roma 1989, e poi, in misura più larga, in Sleep. Poesie in inglese, versione<br />

italiana di E. Tandello, Garzanti, Milano 1992. Appartenenti al lungo periodo che va dal 1953 al 1966, nella seconda<br />

fase risentono della stessa evoluzione formale che caratterizza i testi Ŗnon privatiŗ.<br />

(19) Cfr. A. Loreto, L‟anti-oracolo di “Variazioni belliche”, in La furia dei venti contrari, cit., pp. 204-212.<br />

(20) «Ma scrivendo a macchina posso per un poco seguire un pensiero più veloce della luce. Scrivendo a mano forse<br />

dovrei scrivere prosa, per non tornare a forme libere: la prosa è forse infatti la più reale di tutte le forme, e non pretende<br />

definire le forme. Ma ritentare lřequilibrio del sonetto trecentesco è anchřesso un ideale reale» (SM342). Lřinteresse per<br />

la prosa è peraltro duraturo se Rosselli nel 1990 ancora scrive, a proposito di Diario ottuso: «lo sperimentare in prosa è<br />

ciò che mřattira: ugualmente vero e probabile è che si dica di più in prosa che non in poesia, spesso manieristica o<br />

decorativa» (A. Rosselli, Esperimenti narrativi, in Ead., Diario ottuso 1954-1968, Istituto Bibliografico Napoleone,<br />

Roma 1990, p. 48).<br />

(21) Una simile lettura è stata in seguito biograficamente confortata dalla corrispondenza di Rosselli a Pasolini, resa<br />

pubblica da Giovannuzzi in qualità di curatore di A. Rosselli, Lettere a Pasolini. 1962-1969, San Marco dei Giustiniani,<br />

Genova 2008: «Per fortuna sono stata curata bene e ora non posso lamentare inceppi o accidenti salvo e soprattutto<br />

lřaver perso del tutto la memoria dřogni mio atto o incontro degli ultimi tre mesi» (29 ottobre 1962, dalla clinica Villa<br />

Santa Rita in Roma, p. 41). Bisogna dire Ŕ ma ciò attiene di nuovo ai problemi di datazione Ŕ che Rosselli dà per<br />

concluso il testo poetico di Variazioni belliche entro il 1961.<br />

(22) Chissà se Uwe Johnson, con il suo romanzo congetturale (Mutmassungen über Jakob appare nel 1959 e viene<br />

tradotto in Italia nel 1961; Rosselli in quegli anni frequenta i Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt, entrando in<br />

stretto contatto con la cultura tedesca), abbia in qualche modo suggerito questa possibilità.<br />

(23) Cfr. A. Pinchera, La metrica dei “novissimi” (estratto dallřomonimo saggio originariamente apparso in ŖRitmicaŗ,<br />

n. 4, 1990), in Materiali critici per lo studio del verso libero in Italia, a cura di A. Pietropaoli, ESI, Napoli 1994.<br />

(24) Intervista di Giacinto Spagnoletti allřautrice, in A. Rosselli, Antologia poetica, Garzanti, Milano 1987, p. 156.<br />

(25) Intervista su Roma [1992], a cura di M. De Angelis e I. Vincentini, in A. Rosselli, Una scrittura plurale, a cura di<br />

F. Caputo, Interlinea, Novara 2004, p. 312.<br />

(26) Si vedano rispettivamente Zang Tumb Tumb (1914), Rarefazioni e parole in libertà (1915), Calligrammes. Poèmes<br />

de la Paix et de la Guerre (1918), Vision and prayer (in Deaths and Entrances, 1946), Nuova poesia in forma di rosa e<br />

Il libro delle croci (in Poesia in forma di rosa, 1964), Ma noi facciamone un‟altra (1968).<br />

(27) F.T. Marinetti, Distruzione della sintassi Immaginazione senza fili Parole in libertà [1913], in Id., Teoria e<br />

invenzione futurista, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 1966, p. 67.<br />

43<br />

43


(28) E. Esposito, recensione a A. Rosselli, Antologia poetica cit., ŖLingua e letteraturaŗ, n. 12, maggio 1989.<br />

(29) La prima edizione di Poesia in forma di rosa, per Garzanti, è dellřaprile 1964 (in quella immediatamente<br />

successiva Ŕ giugno ř64 Ŕ la sezione Il libro delle croci sarà espunta), in perfetta coincidenza con lřuscita delle<br />

Variazioni belliche di Amelia Rosselli. Nelle Note e notizie sui testi del ŖMeridianoŗ curato da Walter Siti (Tutte le<br />

poesie, Mondadori, Milano 2003) si legge che Pasolini ha montato in forma di croce testi scritti «normalmente» (vol. I,<br />

p. 1075): questo metodo non è molto distante da quello di Amelia Rosselli, poiché in entrambi i casi il verso risulta<br />

essere un residuo grafico e non unřunità costruttiva del testo.<br />

(30) In A. Rosselli, Sonno-Sleep (1953-1966), versione italiana di A. Porta, San Marco dei Giustiniani, Genova 2003 2 ,<br />

p. 72. Il fatto di utilizzare una lettera degli anni Ottanta per sostenere la mia interpretazione di un fenomeno di oltre<br />

ventřanni prima dovrebbe essere reso lecito dalla immutata convinzione di Rosselli rispetto alla validità della sua<br />

«sistematica metrica» (cfr. A. Rosselli, Introduzione a «Spazi metrici», inedito datato 4 febbraio 1993 e pubblicato<br />

postumo in ŖTrasparenzeŗ, n. 17-19, cit.; ora anche in Ead., Una scrittura plurale, cit.).<br />

(31) Cfr. S. Giovannuzzi, Come lavorava Amelia Rosselli, cit., p. 27. Paolo Giovannetti riprende la collazione Ŕ mentre<br />

prova a fare ordine nella congerie di interpretazioni dello Ŗspazio metricoŗ avanzate dagli studiosi Ŕ nel capitolo ŖIl<br />

verso liberoŗ del recente P. Giovannetti - G. Lavezzi, La metrica italiana contemporanea, Carocci, Roma 2010, pp.<br />

265-266.<br />

(32) A. Rosselli, Introduzione a «Spazi metrici», in Ead., Una scrittura plurale, cit., p. 60.<br />

(33) La libellula (frammento), Ŗil verriŗ, n. 8, 1963, pp. 93-95.<br />

(34) La libellula (1958), ŖNuovi Argomentiŗ, n. 1, 1966, pp. 147-165. Si tratta non più di un frammento ma dellřintero<br />

poemetto nella versione pressoché definitiva; qualche lieve ritocco si avrà ancora nellředizione in volume del 1969<br />

presso Il Saggiatore, ma si parla di interventi topici che non modificano il testo nella sua sostanza.<br />

(35) Ju. Tynjanov, Il problema del linguaggio poetico [1924], trad. di G. Giudici e L. Kortikova, il Saggiatore, Milano<br />

1968, p. 87. Una certa attenzione viene invece posta da Rosselli nella conclusione dei componimenti o delle lasse: in<br />

particolare segnalo una frequente marca mensurale che consiste nel dimezzamento della lunghezza dellřultimo verso<br />

rispetto ai precedenti, quasi a rendere la figura visiva della strofa saffica.<br />

(36) Cfr. B. Tomaševskij, Teoria della letteratura [1928], trad. di M. Di Salvo, il Mulino, Bologna 1978, p. 105 sgg.<br />

(37) Cfr. P. Zumthor, Lingua e tecniche poetiche nell‟età romanica (secoli XI-XIII) [1963], trad. di M. Maddalena, il<br />

Mulino, Bologna 1973.<br />

(38) Cfr. ad esempio M. Venturini, Alla luce della critica: la poesia di Amelia Rosselli, ŖTrasparenzeŗ, n. 17-19, cit., p.<br />

117.<br />

(39) «Da circa dieci anni mi rompevo la testa nel tentare varie possibili formulazioni metriche [...] da potersi<br />

considerare come Ŗsistemiŗ non solo metrici ma anche o quasi filosofico-scientifici e storicamente Ŗnecessariŗ,<br />

inevitabili» (intervista di G. Spagnoletti allřautrice, in A. Rosselli, Antologia poetica, cit., p. 157).<br />

(40) F. Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 208n-209n.<br />

(41) R. Jakobson, Strutture linguistiche subliminali in poesia [1971], trad. parziale in La metrica, a cura di R. Cremante<br />

e M. Pazzaglia, il Mulino, Bologna 1972.<br />

(42) J. Cohen, Struttura del linguaggio poetico [1966], trad. di M. Grandi, il Mulino, Bologna 1974, p. 92.<br />

(43) P. Beltrami, La metrica italiana, il Mulino, Bologna 1991, p. 204.<br />

(44) M. Pazzaglia, Introduzione a Teoria metrica, prima parte di La metrica, a cura di R. Cremante e Id., cit., p. 17.<br />

(45) E. Esposito, Il verso, cit., p. 21. Tale posizione è affermata sin da Id., Metrica e poesia del Novecento, cit. (cfr. p.<br />

37).<br />

(46) Ibidem.<br />

(47) Lřautore cita come esempio Puškin.<br />

(48) Ju. Tynjanov, Il problema del linguaggio poetico, cit., p. 33.<br />

(49) Ivi, p. 29.<br />

(50) E. Sanguineti, L‟ultima passeggiata. Omaggio a Pascoli, 7, in Id., Il gatto lupesco. Poesie (1982-2001), Feltrinelli,<br />

Milano 2004, p. 77 (già in Giovanni Pascoli. Poesia e poetica, Atti del Convegno di studi pascoliani, San Mauro 1-2-3<br />

aprile 1982, Maggioli, Rimini 1984).<br />

(51) A. Pinchera, La metrica dei “novissimi”, cit.<br />

(52) Cfr. R. Barthes, Miti d‟oggi [1957], trad. di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1994 2 , pp. 226-229, dove si stabilisce in<br />

maniera rigida e pressoché dogmatica che il linguaggio-oggetto ha capacità trasformante ed è patrimonio del<br />

proletariato, dellřoppresso e della Rivoluzione, e che il metalinguaggio al contrario ha ruolo conservativo ed è<br />

prerogativa assoluta dellřoppressore. Un minor schematismo sarebbe richiesto quantomeno dal fatto che la distinzione<br />

tra linguaggio-oggetto e metalinguaggio è data effettivamente soltanto nelle lingue formalizzate, mentre in una lingua<br />

naturale esse coincidono in quanto codice e si possono distinguere semmai in quanto funzione, cioè uso.<br />

(53) Lřespressione è di Franco Fortini. Il brano in cui compare è citato estesamente nel seguito.<br />

(54) F. Fortini, Su alcuni paradossi della metrica moderna [1958], in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini,<br />

Mondadori, Milano 2003, pp. 811-812, 815.<br />

(55) Cfr. SM339 e SM342.<br />

(56) Cfr. C. Guillén, L‟uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata [1985], trad. di A. Gargano, il<br />

Mulino, Bologna 1992, p. 192. Il saggio di Alfonso Reyes (Las “funciones formales” de la literatura en general) è del<br />

1963.<br />

44<br />

44


(57) E. Esposito, Il verso, cit., pp. 16 e 11 rispettivamente.<br />

(58) Cfr. A. Berardinelli, Prefazione ad A. Rosselli, Diario ottuso 1954-1968, cit., p. 6.<br />

(59) S. Agosti, La competenza associativa di Amelia Rosselli [1978], in Id., Poesia italiana contemporanea, Bompiani,<br />

Milano 1995, p. 133.<br />

(60) Ju. Tynjanov, Il problema del linguaggio poetico, cit., p. 25.<br />

(61) Cfr. Ju.M. Lotman, La struttura del testo poetico [1970], a cura di E. Bazzarelli, Mursia, Milano 1972, pp. 101-<br />

102.<br />

(62) Per lřidea della forma come Ŗcontenitoreŗ si legga in chiusura di Spazi metrici: «La realtà è così pesante che la<br />

mano si stanca, e nessuna forma la può contenere» (SM 342).<br />

(63) Lotman 1970, p. 116.<br />

(64) J. Cohen, Struttura del linguaggio poetico, cit., p. 78.<br />

(65) Ju. Tynjanov, Il problema del linguaggio poetico, cit., p. 35.<br />

(66) Cfr. ivi, pp. 26-33.<br />

45<br />

45


Fortezza di Giovanni Giudici: appunti sulla genesi di una sequenza<br />

Nella poesia di Giudici la propensione alla poematicità si rivela molto precocemente. Una breve<br />

scorsa allřindice generale dellřopera in versi è sufficiente a rivelare la sua tendenza a procedere per<br />

aggregazioni testuali piuttosto che per singole unità(1). Nelle prime opere il grado di ordinamento è<br />

minimo, con testi perlopiù raggruppati in sezioni prive di titolo e titolati singolarmente(2); da Il<br />

ristorante dei morti, invece, appaiono i titoli delle sequenze e, spesso, i numeri ordinali di serie dei<br />

singoli componimenti. Se questa tipologia è quella che ritorna anche negli ultimi libri, un inciso<br />

apertamente poematico è costituito da Salutz e da Fortezza, in cui le sezioni hanno un titolo proprio<br />

(nel caso di Salutz la sezione è unica e coincide con il libro) e i testi sono numerati ma non titolati<br />

singolarmente. Nei due casi si ha a che fare quindi con vere e proprie sequenze, in cui il discorso<br />

poetico, attraverso una composizione seriale ordinata e chiusa, si orienta alla narratività(3).<br />

Per quanto riguarda Salutz, il libro è «rigorosamente costruito»(4): si articola in sette sezioni,<br />

ciascuna costituita da dieci componimenti di quattordici versi; in chiusura, lřisolato Lais porta a<br />

mille i versi del libro. La forma di Salutz è quella tipica del macrotesto(5): vi è unità semantica e<br />

metrica, continuità spazio-temporale, omogeneità del soggetto (lřio locutore) e della persona cui<br />

egli sřindirizza (Minne/Midons); sono in atto molti dispositivi di coerenza del testo(6).<br />

Diverso il discorso per Fortezza. Il libro è diviso in tre sezioni: Memoria (con componimenti<br />

titolati singolarmente e scarsa, o quasi nulla, coerenza poematica interna), Fortezza e Frate<br />

Tommaso; soltanto per le ultime due sezioni, che contengono componimenti numerati e molto coesi,<br />

si può parlare di sequenze. Lřanalisi delle carte relative al libro(7) conferma lřisolamento della<br />

prima sezione: se il materiale ascrivibile a Fortezza, con la sola eccezione di due dattiloscritti, è<br />

contenuto in una sola cartella (mentre del tutto assente è la documentazione relativa a Frate<br />

Tommaso), i componimenti destinati a Memoria sono conservati in due cartelle, alternati a molto<br />

materiale extravagante. Memoria, che unisce sotto un unico titolo poesie eterogenee, è stata<br />

probabilmente pensata in seguito, a completamento delle due sequenze: le poesie di Memoria Ŕ<br />

scrive lřautore Ŕ sono «note di un preludio o sondaggi in qualche misura collegabili a mie<br />

precedenti esperienze»(8).<br />

La meticolosa registrazione della data in calce ai componimenti di Fortezza potrebbe,<br />

genericamente, essere indicativa della genesi della sezione. Lřordine progressivo coincide con<br />

quello cronologico, dalla poesia più antica alla più recente. Anche dove apparentemente si danno<br />

dei salti Ŕ e ciò accade soprattutto nei casi in cui a essere specificato è lřintervallo di composizione<br />

e non una data puntuale Ŕ si nota che almeno una delle due indicazioni continua la linea<br />

cronologica. Da questřordine sfuggono soltanto due componimenti: Fortezza-9 e Fortezza-44(9).<br />

Manca, al momento, qualsiasi documentazione riguardo alla seconda poesia, scritta in extremis a<br />

meno di un mese dalla pubblicazione del libro (la data indicata in calce è «8-14 febbraio 1990», la<br />

pubblicazione del marzo 1990), mentre molte delle stesure che testimoniano la genesi di F-9 sono<br />

datate al settembre del 1988, e consentono così di riallineare il componimento agli altri della<br />

sequenza. Una di queste redazioni è introdotta da unřimportante annotazione a penna: il titolo<br />

Tordesillas. Anche altre carte del fascicolo ascrivibile a Fortezza lo ripetono, seguito o meno<br />

dallřordinale di serie: la futura F-5 sřintitola nei dattiloscritti Tordesillas, F-6 è Tordesillas (2) e F-7<br />

è Tordesillas (3). Nellřottobre del 1988 è pubblicata su «Poesia» «Mia solezza – mia», F-6(10); non<br />

è indicato il titolo del componimento, ma la dicitura Da Tordesillas, come se si trattasse di una<br />

parte estrapolata da una sequenza almeno in parte composta. Da questo momento in poi Ŕ ma in<br />

realtà già nelle carte delle poesie scritte nel mese di settembre 1988 Ŕ qualunque riferimento a<br />

Tordesillas scompare:<br />

Mi trovai alcuni anni più tardi a scrivere un libro, Fortezza, la cui sequenza centrale era stata<br />

messa in movimento anche dalla lettura di un libro su Juana la Loja, Giovanna la Pazza, figlia di<br />

Isabella di Castiglia e di Ferdinando dřAragona e madre dellřimperatore Carlo V, segregata per<br />

quasi cinquantřanni a Tordesillas, in una sorta di residenza coatta. Il libro sřintitolava Un enigma<br />

46<br />

46


della storia, e ne era stato autore verso la fine del secolo scorso Karl Hillebrand; ma esso non ha<br />

molto a che vedere con i miei versi. (11)<br />

A partire, quindi, dal saggio sulla prigionia di Giovanna la Pazza, Giudici aveva probabilmente<br />

concepito una sequenza dal titolo Tordesillas: in seguito, con lřesaurirsi della spinta data dal libro di<br />

Hillebrand, il titolo si è trasformato in Fortezza.<br />

Il comparire di Tordesillas soltanto da quella che diventerà F-5 ha unřaltra conseguenza di una<br />

certa importanza sul piano critico: indica che il progetto di sequenza ha avuto inizio in quel punto, e<br />

che i componimenti da F-1 a F-4 sono stati concepiti al di fuori di essa e aggiunti in una fase<br />

posteriore. Questo spiega la ragione dello iato tra i primi componimenti e il resto della sequenza: «i<br />

primi quattro testi (le cui datazioni li collocano tra il terzultimo e il penultimo testo di Memoria, e<br />

che hanno la stessa misura ottastica) appaiono come rapide inquadrature apparentemente irrelate<br />

con quanto si svolgerà sulla scena principale: alla quale forniscono invece […] come i frammenti di<br />

una premessa di potente suggestione»(12). È anche una nuova conferma, se ve ne fosse bisogno,<br />

che «la raccolta di poesia è […], oltre al libro di racconti, lřunica forma letteraria che può ricevere a<br />

posteriori (cioè in una fase successiva a quella del concepimento e della stesura dei singoli<br />

elementi) un senso per così dire immanente, attraverso la distribuzione dei testi»(13).<br />

Nonostante la genesi disgiunta della sequenza, non cřè alcun dubbio sulla sua natura<br />

macrotestuale. Il motivo-guida è il racconto, quasi diaristico, di una vicenda di prigionia, che<br />

«potrebbe stare nei domini asburgici del XVI-XVII secolo (Spagna o Austria o Boemia o Paesi<br />

Bassi o Italia), ma anche nellřItalia bizantina dellřalto medioevo […], o in una provincia Ŗkafkianaŗ<br />

del già ricordato impero asburgico o del terzo Reich […] (tutto, in fondo, potrebbe svolgersi in una<br />

clinica psichiatrica, o anche solo dentro unřanima affannata)»(14). Al protagonista-carcerato<br />

appartiene soltanto una delle voci recitanti: vi è un «vorticoso alternarsi delle persone, dallřio<br />

monologante a un lui da referto giudiziario o romanzesco, da un noi che sembra scaturire da un coro<br />

di testimoni-secondini al Lei sinistramente cerimoniale delle suppliche»(15). Si è già detto qualcosa<br />

sui segnali dřinizio ricordando la funzione di premessa dei primi quattro componimenti. Il testo poi,<br />

nonostante sia ripartito internamente in quarantuno episodi poetici, si sviluppa con continuità.<br />

Segnali di coerenza sono i pronomi dimostrativi (questa prigione, queste ore), i deittici di spazio<br />

(qui a graffiarmi, entri là, starsene lì) e di tempo (arrivata oggi, stanotte visione dei gatti), ma<br />

anche le aperture con congiunzione coordinativa («E certe notti un pensiero», F-9; «E con un<br />

malizioso sventolìo», F-18; «E lui di essa sia primo architetto Ŕ», F-25; «Anche da Lei vorremmo<br />

trarre consiglio Ŕ», F-36) o avversativa («Però una stradina», F-30). Tutti questi segnali<br />

contribuiscono a una progressione di senso: ogni frammento, anche quando paia emergere da un<br />

substrato che rimane inconoscibile, consente di accrescere la comprensione dellřinsieme.<br />

Anche la natura di alcune varianti può diventare indizio di macrotestualità. Talvolta, infatti,<br />

modifiche e correzioni si possono giustificare solo alla luce di una concezione sistemica della<br />

sequenza. Lřanalisi delle carte permette di individuare una casistica che si può schematizzare in<br />

questo modo: I. parole o frasi soppresse perché già presenti nella sequenza; II. spostamenti di parole<br />

o frasi allřinterno della sequenza. Pertanto, si può affermare che le isotopie riscontrabili nel libro<br />

siano ricercate da Giudici non attraverso riprese precise e ripetizioni puntuali, bensì con unřinsistita<br />

variatio. Di seguito se ne darà qualche esempio.<br />

I. In una delle redazioni di F-7, si leggono i versi:<br />

Mi sentono nel notturno vibrare?<br />

Il mio sonno il mio sognare<br />

La tenuissima riga<br />

Confine estremo del vegliare Ŕ<br />

O lřimmenso intermedio<br />

Questa specie di giorno nella quale<br />

Mi nascondo resisto al tristo assedio?(16)<br />

47<br />

47


I primi quattro componimenti dovevano essere a questřaltezza già inclusi nella sequenza, se Giudici<br />

elimina il riferimento allřassedio, che era ai vv. 1-4 di F-2:<br />

Non così Ŕ più probabile<br />

Sia invece che stanchi di studiare tormenti<br />

Tentino amiche foschìe per uscirne<br />

Assediati assedianti Ŕ;(17)<br />

e la locuzione Ŗuna specie di giornoŗ, già ai vv. 4-8 di F-4:<br />

Un forse voler scrivere da dove sta<br />

esiliato da mesi e noi<br />

Senza speranza più nel ritorno<br />

Che a volte ci domandiamo se là<br />

È notte o una specie di giorno.<br />

Una motivazione non dissimile potrebbe essere allřorigine della soppressione del primo verso<br />

«Duplice aldilà del mio straziarmi a te»(18) nella stesura di F-21, già presenti in F-5 i versi<br />

«Stupida bestia a sfidare | Lřaltro Sé dello specchio nel chiaro aldilà | Altrove del cuore di lei Ŕ»<br />

(vv. 10-12). A venire meno non è il riferimento allřaldilà (i versi definitivi recitano: «Da insonnia al<br />

sonno e un aldilà del vero»), ma il legame dellřaldilà con lřaltra persona. Prima della soppressione<br />

dellřintero verso, si legge la variante: «Duplice aldilà delle mie spine a te»(19); il riferimento alle<br />

spine(20) diventa significativo nellřassegnazione di quel pronome te alla donna cui costantemente<br />

va il pensiero dellřio nellřintera sequenza.<br />

Lřelaborazione di F-21 conta più di sessanta redazioni: poiché il tema del sogno, e soprattutto<br />

del delicato passaggio dalla veglia al sonno, è già di altri componimenti, (21) è naturale che si<br />

riaffaccino parole già usate. Unřaltra versione del già citato primo verso è contenuta nella redazione<br />

che segue:<br />

Due versanti ha il dormire<br />

Tenue crinale Ŕ<br />

Da uno è la salita<br />

A un non pensiero a un sopore<br />

Alla raggiunta pace<br />

Di quel che muore per resuscitare<br />

A un aldiquà di freddo e di calore<br />

Risveglio alle sue spine e al suo grigiore. (22)<br />

Probabilmente, allřorigine della riscrittura successiva stanno questi versi, già di F-9 (vv. 5-12):<br />

Mio tra crescermi e dormienza<br />

Pulviscolo dřonnipresenza Ŕ<br />

Non nato imprendibile spacco<br />

Tra esserci ancora e mai più:<br />

Di crinale in crinale<br />

Estranei regni a un minimo volare<br />

Bruciare alla speranza<br />

Breve lume, nuda stanza.<br />

48<br />

48


II. Il secondo caso, lo spostamento di parole o frasi allřinterno della sequenza, è altrettanto<br />

frequente. Tra le stesure complete o interrotte di F-7 si leggono alcuni tentativi di modificare<br />

lřincipit: «Insetto, notturno tremare», oppure «Insetto del notturno tremare»(23). Il riferimento è<br />

subito abbandonato, ma in F-27 ricompare nella forma Ŗkafkianaŗ «blatta sul pavimento» (vv. 8-9):<br />

Blatta sul pavimento scappo qua e là<br />

Aspetto lo scricchiare delle mie costole.<br />

Ancora tra le versioni che precedono la definitiva F-7, si leggono questi versi (vv.1-4):<br />

Tremore mio compagno fin dentro il dormire<br />

E di là nel sognare antipode alla veglia<br />

Regno e regno impalpabili scernendo<br />

Bave di seta e ragnatele di confini Ŕ(24)<br />

Il condannato percepisce, nella propria dimensione onirica, che la sua mente è infestata da «bave» e<br />

«ragnatele». I carcerieri ne otterranno la stessa impressione (F-36, vv. 5-11):<br />

Ai miei ho ordinato di stargli addosso<br />

Non con mani e catene<br />

Ma giorno e notte nei pensieri suoi fare nido<br />

Che svuotato si arrenda:<br />

Fotografargli dentro la testa<br />

Abbiamo provato Ŕ era tutto<br />

Fili di ragno e foresta.<br />

Lo spostamento interno alla sequenza può riguardare anche le spinte neologistiche: in una prova<br />

per F-21 Giudici introduce il composto «senzapeso»,(25) che si svilupperà compiutamente in una<br />

delle stesure di F-28 «senzafondo senzatempo»(26) e troverà sistemazione definitiva nella forma<br />

«senzaterra senzatempo».<br />

Lřanalisi delle varianti permette, in ultimo, di ampliare i confini del macrotesto alla sequenza<br />

Frate Tommaso. Una semplice scorsa alla data di composizione mantenuta in calce alla serie («5<br />

marzo 1989») consente di collocare la sequenza tra F-28 («22 ottobre 1988 Ŕ 12 febbraio 1989») e<br />

F-29 («30 marzo 1989»). Le ultime due composizioni prima dellřinterruzione lasciano il segno sul<br />

quarto componimento di Frate Tommaso:<br />

Sùbito è uno squittìo<br />

Implumi da qualche nido<br />

Ma poi tonfi di topi sui legni del soppalco<br />

Sperando che smettano almeno per questa notte;(27)<br />

(F-27, vv. 3-6)<br />

E dove posa gli occhi, che cosa scopre<br />

Nelle croste dei muri<br />

O quelle trine dřaria, gli umori.<br />

(F-28, vv. 8-10)<br />

Non è difficile ritrovare in questi versi la genesi di «Ma non aveste voi paura dei topi | E il puzzo<br />

e il gocciare dei muri». Si tratta di un fatto di una certa importanza, perché autorizza a cercare<br />

segnali macrotestuali al di fuori del macrotesto considerato, nellřipotesi di individuare una stretta<br />

49<br />

49


correlazione tra le forme poematiche simili allřinterno dellřopera del poeta; un filo, insomma, che<br />

leghi Fortezza a Salutz e a Frate Tommaso.<br />

50<br />

Lisa Cadamuro<br />

Note.<br />

(1) Sulle tipologie di strutturazione testuale in Giudici si veda R. ZUCCO, Teatro del perdono. Per Giudici, „L‟amore<br />

che mia madre‟, Belluno, Agorà Libreria Editrice, 2008, alle pp. 16-21.<br />

(2) La regola presenta, naturalmente delle eccezioni: L‟educazione cattolica è una sezione de La vita in versi, e contiene<br />

poesie numerate, o numerate e titolate, singolarmente. La Bovary c‟est moi è il titolo di una sezione di Autobiologia che<br />

conta sei componimenti numerati. Inoltre, Autobiologia e O beatrice includono quelle che Zucco (nel saggio appena<br />

citato, a p. 24) definisce sequenze aperte, testi disseminati in vari punti delle due raccolte in cui la ripetizione del titolo<br />

è accompagnata da un ordinale di serie tra parentesi tonde.<br />

(3) Cfr. E. TESTA, Aspetti linguistici della poesia italiana dell‟ultimo Novecento, in ID., Per interposta persona. Lingua<br />

e poesia nel secondo Novecento, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 135-157.<br />

(4) Cfr. M. FORTI, Tempi della poesia. Il secondo Novecento da Montale a Porta, Milano, Mondadori, 1999, a p. 316.<br />

(5) Ci si riferisce, in questo e nei casi che seguiranno, al macrotesto secondo la definizione di E. TESTA, Il libro di<br />

poesia, Genova, Il melangolo, 1983.<br />

(6) Lřanalisi macrotestuale di Salutz è in G. COLELLA, 'Salutz' di Giovanni Giudici. Note sulla lingua e lo stile, Roma,<br />

Aracne, 2007, alle pp. 34-60.<br />

(7) Le carte, custodite in tre cartelle, sono conservate nellřarchivio di Rodolfo Zucco e sono al momento oggetto di un<br />

approfondito studio critico da parte di chi scrive. Benché al loro interno presentino materiali eterogenei, la costituzione<br />

Ŗdřautoreŗ dei tre fascicoli ha fatto propendere per la scelta di mantenere intatte le suddivisioni interne e lřordine delle<br />

carte.<br />

(8) Epigrafe dřautore a G. GIUDICI, Fortezza, Milano, Mondadori, 1990.<br />

(9) Da questo momento in poi i componimenti della sequenza saranno individuati dalla sigla F seguita dallřordinale di<br />

serie (F-1, F-2 etc.).<br />

(10) Cfr. A lezione da Giovanni Giudici, «Poesia», I, 10, ottobre 1988, a p. 17.<br />

(11) Cfr. G. GIUDICI, Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, Roma, e/o, 1992, a p. 37.<br />

(12) Cfr. R. ZUCCO, Apparato critico in G. GIUDICI, I versi della vita, a cura di R. ZUCCO, con un saggio introduttivo di<br />

C. OSSOLA, cronologia a cura di C. DI ALESIO, Milano, Mondadori, 2008, a p. 1669.<br />

(13) Cfr. N. SCAFFAI, Montale e il libro di poesia (Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera e altro), Lucca, Maria Pacini<br />

Fazzi, 2002, a p. 12.<br />

(14) C. DI ALESIO, Parlare „in linguis‟: per una lettura di Fortezza di Giovanni Giudici, in «Hortus», 18, II semestre<br />

1995, pp. 82-89, a p. 83.<br />

(15) G. RABONI, Giudici sosia di se stesso, in ID., La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano.<br />

1959-2004, a cura di A. CORTELLESSA, Milano, Garzanti, 2005, pp. 318-329, a p. 329. Sulla polifonia di Fortezza, e per<br />

unřanalisi più approfondita dellřalternanza dei turni di parola, si veda anche R. ZUCCO, Teatro del perdono, cit., alle pp.<br />

37-38.<br />

(16) Si tratta dei vv. 1-7 della settima stesura di carta 7r/I. Nellřindicazione di questa e delle altre carte cui si fa<br />

riferimento si indicherà il numero del foglio seguito dallřindicazione della cartella di afferenza nellřarchivio Zucco.<br />

(17) In questo e nei casi che seguono, la punteggiatura in chiusura di componimento non è di Giudici, ma di chi scrive.<br />

(18) Cfr. la prima stesura di c. 164r/I.<br />

(19) Cfr. la terza stesura di c. 164r/I.<br />

(20) Sulla centralità della metafora della spina in Salutz cfr. R. ZUCCO, Apparato critico, cit., alle pp. 1585-86.<br />

(21) Cfr.: «Intanto che la mente si prepara al distacco | Sogni monatti la scortano», F-6; «Tra veglia e sonno esile strada<br />

al tremare», F-7; «Mio tra crescermi e dormienza | Pulviscolo dřonnipresenza Ŕ», F-9; «Steso su un fianco si sporge |<br />

Dal chiuso dellřarduo sonno Ŕ», F-12; «E spiavo i rigagnoli del sonno», F-16.<br />

(22) Cfr. la prima stesura di c. 166r/I.<br />

(23) Cfr. c. 8r/I.<br />

(24) Cfr. c. 10r/I.<br />

(25) Cfr. la prima stesura di c. 177r/I.<br />

(26) Cfr. c. 187r/I.<br />

(27) Cfr. la prima stesura di c. 186r/I.<br />

50


Sulla via del romazo in versi: Attilio Bertolucci e Alberto Bellocchio(1)<br />

Fu Sereni in Lettera d‟anteguerra(2) a riconoscere ad Attilio Bertolucci il pregio di saper<br />

restituire fedelmente « il dono dellřaria e delle ore», la verità della vita quotidiana, sfiorata<br />

dallřombra della morte, e i colori del paesaggio domestico della campagna e della città. Fu ancora<br />

lui in lettere private(3) a sottolineare nel Viaggio d‟inverno(4) e nella Camera da letto la conquista<br />

di un paesaggio, storico, sociale, geografico, persino topografico definito e riconoscibile e di aver<br />

«ai vertici» unito le emozioni e i bagliori della memoria involontaria e dellřevocazione e le forme<br />

del racconto, coniugando poesia e romanzo, fino a trasformare i luoghi conosciuti in «patria<br />

poetica», di cui essere, dopo un lungo doloroso itinerario, il «sovrano».<br />

Ma fu Pasolini (Sereni non amò essere ristretto nella «linea lombarda», così definita da<br />

Luciano Anceschi(5), consapevole dei confini più vasti cui deve obbedire la poesia) a tracciare per<br />

primo, intorno al nome di Attilio Bertolucci, una linea poetica «parmigiana» allřinterno della più<br />

vasta linea «emiliana», che da Pascoli e da Serra scendeva a Bassani, agli Arcangeli, a Rinaldi, a<br />

Giovanelli e ai più giovani Roversi e Leonetti. Pasolini indicava in particolare, facendo perno sulla<br />

poesia Emilia di Fuochi in novembre, la raccolta del 1934(6), una perfetta aderenza dei versi alla<br />

figura ambientale e geografica della regione, interpretata geologicamente e fisicamente, coi<br />

torrenti, LřEnza e il Cinghio, le campagne, i monti dellřAppennino. Evidenziava anche una<br />

tendenza realistica e prosastica coerente a una ideologia conservatrice e illuministica, che solo il<br />

distacco avrebbe potuto incrinare, modificando il rapporto del poeta con i luoghi e con le figure<br />

della sua poesia - città, campagna e famiglia-(7).<br />

Fu quanto in verità avvenne. Finché visse in Emilia, a Baccanelli e a Parma, il poeta, con<br />

sensibilità fortemente sensitiva e percettiva, aveva illuminato di «luce vera» le immagini, tanto da<br />

conservare loro lřemozione dello sguardo e dellřanimo e da trasformarle, con Keats, in «visione» tra<br />

realtà, immaginazione e sogno(8); aveva saputo accogliere, come confessò nel diario del 1958(9), lo<br />

«strazio» e la gioia di «cose già pronte per la poesia, già bellře fatte col simbolo dietro come lřalone<br />

che ha la luna». Quando decise di lasciare la sua terra per Roma, « città troppo grande e bella e non<br />

mia»(10), ansia e dolore, un sentimento di nostalgia e di esclusione, un cammino di malattia e di<br />

«cose durissime senza alone» entrarono nella sua opera, dando nuova sostanza di verità<br />

allřuniverso abbandonato, chřegli sentiva perduto. E se da un lato furono composti i versi<br />

drammatici di Viaggio d‟inverno, dallřaltro ecco il compenso, la chiarificazione e la soluzione dei<br />

propri traumi nel grande itinerario verso le radici testimoniato dalla Camera da letto.<br />

Più recentemente, in un articolo sullř«Espresso» del 3 marzo 2005, salutando il Libro della<br />

famiglia di Alberto Bellocchio e versi inediti di Bertolucci raccolti sotto il titolo Il viaggio di<br />

nozze(11), Enzo Siciliano ha evidenziato un orizzonte geografico e morale, quello della bassa del<br />

Po, da Parma verso il piacentino e lřAppennino, quale legame tra il più giovane poeta e Attilio<br />

Bertolucci in una continuità di rappresentazione fisica, etica e poetica dellřuniverso emiliano.<br />

Soprattutto Siciliano ha sottolineato, pur nelle forti differenze dřintonazione e di linguaggio,<br />

la scelta di Bellocchio di misurarsi con il «romanzo in versi» di Bertolucci raccontando, con uno<br />

sguardo alle origini lontane, il romanzo della propria famiglia attraverso alcune generazioni, dei<br />

nonni, dei genitori e la propria.<br />

Il genere fu, come sappiamo, reinventato da Attilio Bertolucci, che, appassionato lettore fin<br />

dalla prima giovinezza della Recherche e assai vicino al metodo lirico-narrativo della Woolf di Mrs.<br />

Dalloway e di To the lighhouse, volle coniugare poesia e romanzo, immettendosi nella tradizione<br />

dei poeti inglesi, da Browning a Derek Walcott. Anche per Siciliano sono la «resa trasparente della<br />

realtà» e il «calore della vita» che percorre i versi e investe il rapporto del poeta con il suo<br />

paesaggio a caratterizzare lřarte somma di Bertolucci.<br />

Quando Attilio Bertolucci avviò la sua Camera da letto, si mostrò consapevole dř aver<br />

scelto di comporre unřopera fragile e rischiosa, antica e nuova, «fatale» e necessaria.<br />

Poe in The philosophy of composition aveva giudicato oramai impossibile il poema e le<br />

lunghe composizioni in versi. Bertolucci volle portare la sua sfida alla grammatica della poesia<br />

51<br />

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pura e del simbolismo, dellřermetismo novecentesco, coniugando lirica e narrazione, convinto che,<br />

per non girare a vuoto, si dovesse «cadere nella prosa» per rinnovare la poesia, privilegiando il<br />

«verso sfiorante la prosa («mais avec les ailes», secondo Sainte Beuve)». Se la dimensione narrativa<br />

entra già nella Capanna indiana del 1951, fu la Camera da letto tuttavia a rivelare pienamente la<br />

novità della poetica bertolucciana, novità felicemente raccolta da Bellocchio nelle sue<br />

caratteristiche più innovative.<br />

Mantenendosi non sulle strade alte del romanticismo di Wordsworth, poeta da lui molto<br />

amato e tradotto, ma, seguendo Puskin sulle vie della quotidianità, Bertolucci, dopo aver percorso il<br />

tempo antico ed epico della fondazione della casa degli avi maremmani a Casarola, aveva scavato<br />

nella propria storia, famigliare e personale, sino al trasferimento a Roma negli anni cinquanta.<br />

Componendo la propria autobiografia, ma romanzescamente «autobiografia in uno specchio<br />

mobile», come la definì in un breve appunto di sapore stendhaliano, aveva cercato di interpretare e<br />

svelare il segreto della propria esistenza e di compensarne i traumi: il distacco dalla madre, la<br />

prigionia in collegio, la perdita dei luoghi amati, la fragilità di una lunga adolescenza. Li<br />

compensava con la bellezza e la forza di un amore tenace e profondo, condiviso (si legga per<br />

cogliere il senso di questa esperienza tra poesia e vita reale Ninetta la bella di Lella Ravasi<br />

Bellocchio)(12) e con il miracolo della poesia, «Flauti per cercare un ritmo che duri tutta la<br />

vita…»(13); della poesia che salva dallřassenza e ridona il tempo, con Proust, «allo stato puro».<br />

Bertolucci, traducendo in versi i materiali domestici, crea un romanzo esistenziale che parla<br />

del mistero della vita e del mistero della morte, della felicità privata come antidoto alle crudeltà<br />

della storia. Crea un romanzo che, partendo da una topografia documentabile dei luoghi e delle<br />

attività umane e da vicende veramente accadute al protagonista «A.», allřamata «N.» e agli altri<br />

personaggi, i nonni, i genitori, la sorellina Elsa, gli amici, i figli, Bernardo e Giuseppe, gli zii e le<br />

domestiche, li restituisce «fantasticati» al modo di Stendhal, rinnovati nella luce della memoria<br />

involontaria. Crea un romanzo che ridona tempo fisico e fisicità, costumi e usi di una borghesia di<br />

montagna, di pianura e di città, conservando le caratteristiche geografiche, storiche e sociali che<br />

individuano il paesaggio e i modi del vivere del secolo trascorso. Crea un romanzo infine, interiore,<br />

che si regge sui pilastri del Tempo e nel Tempo trova la sua unità e che, pur privilegiando<br />

lřandamento della prosa, il suo basso continuo, la naturalezza dello svolgersi del quotidiano, la<br />

concretezza della vita pratica, procede sul ritmo poeticissimo dellřevocazione e della variazione di<br />

motivi e immagini «incantevolmente ritornanti», come li diceva il poeta, di respiri elegiaci o<br />

impennate liriche.<br />

Piace che Alberto Bellocchio abbia raccolto la sfida di Bertolucci e abbia composto, dopo le<br />

prime prove in versi, che, ispirate da dati della vita reale (si pensi in particolare a Sirena operaia,<br />

che porta come sottotitolo «un racconto in versi», ma anche alla plaquette Il gioco dei quattro<br />

cantoni)(14), già si muovono in direzione narrativa, il romanzo Il libro della famiglia.<br />

Il titolo subito segnala, come dřaltra parte il titolo molto domestico di Bertolucci La camera<br />

da letto, il desiderio dellřautore di raccontare, con Bachtin, non il mondo altrui nel tempo<br />

dellřavventura, ma il mondo proprio nel tempo della quotidianità(15).<br />

Attilio Bertolucci aveva raccontato di un «libro di famiglia», (effettivamente presente nel<br />

suo archivio), Memorie dei fatti straordinari(16) accaduti ai Bertolucci durante un lungo numero<br />

dřanni e annotati da un antenato. Se da un lato giustificava la presenza, nel più vasto orizzonte<br />

della storia (uno dei fatti registrati fu lřannessione della provincia al «liberale» Regno dřItalia) di<br />

quei particolari eventi riferiti alla campagna, alla società agricola, allřeconomia di una borghesia<br />

agraria, proprietaria di case e terreni, dallřaltro, proprio nellřaccezione «straordinari» suggeriva il<br />

valore della memoria famigliare, lřeccezione nellřordine della natura e, pensiamo, lřintervento e la<br />

libertà dellřinvenzione:<br />

Tutte le cose della Camera da letto, salvo il primo capitolo che è fantasticheria, sono inventate,<br />

inventatissime.(17)<br />

52<br />

52


I materiali delle mie poesie sono stati da me raccolti quasi esclusivamente in famiglia, quella da<br />

cui provengo, lřaltra che chissà come, …ho, naturalmente in felice collaborazione, formato. Senza<br />

di esse non avrei proprio saputo di che scrivere. Non avrei di conseguenza saputo vivere.(18)<br />

La famiglia è dunque al centro dellřopera , tema arduo, se è vero, - lo ricorda lo stesso<br />

Bertolucci nelle pagine di Aritmie appena citate Ŕ che dalla scandalosa frase di Gide: «Io vi odio<br />

famiglie» a quella, non meno sorprendente, di James Joyce: «Io non ho amato altro al mondo che le<br />

mia famiglia» a Freud(19), la famiglia è nodo fondamentale dei rapporti umani, con Virgilio,<br />

semina flammae: ragione dřansia, di «tensioni, buchi neri, nidi di vespe pungenti e persino di<br />

vipere», ma anche «supremo bene-rifugio».<br />

La felicità<br />

privata è la sola protezione<br />

che ci sia concessa contro lřangoscia della storia<br />

abbiamo letto nel Viaggio di nozze, dove il tema dellř «intima stanza protettrice», luogo simbolo<br />

dellřesistenza umana, risuona intensamente, riannodandosi ai sensi che la tastiera della Camera da<br />

letto ci propone continuamente.<br />

La famiglia è anche al centro dellřopera di Alberto Bellocchio, che ne riconosce il valore<br />

nel suo essere il segno della continuità. È lo stesso forte legame chřegli rivendica nellřepigrafe(20)<br />

del capitolo del Libro della famiglia intitolato Barbara e gli altri, vera e propria dichiarazione di<br />

poetica: la trama che affiora dalle poche carte rimaste «prende colore» a poco a poco; ma come<br />

penetrare nel segreto degli animi e della vita?<br />

tracce ho trovato dentro me stesso:<br />

pagliuzze d‟oro a volta<br />

e più spesso fili di ferro,<br />

turbamenti, voglia di perdersi<br />

e una stella polare ferma<br />

inchiodata a capo del letto.<br />

Lampi e intermittenze, dunque, bagliori e legami profondi, forse dolorosi, spesso inquietanti; e<br />

infine la poesia della memoria, «stella polare ferma/ inchiodata», che raccoglie il passato e la storia<br />

familiare, la trasmette e la perpetua.<br />

Bellocchio, sulla strada aperta da Bertolucci, verso cui riconosce il proprio debito, sceglie<br />

così lo strumento del romanzo in versi per la sua storia. Sceglie di raccontarla in versi liberi,<br />

raccolti in sequenze di diversa misura, e di suddividere la sequenze in capitoli, ora lunghi ora brevi,<br />

che raccoglie in quattro parti assai variate, corrispondenti a quattro tempi della vicenda. Ma più<br />

esposta è da subito lřangolazione, laica e razionale, critica, che si avvale di scansioni e formule<br />

veloci, senza la rêverie («la mappa rivelatasi in sogno») o le divagazioni sapientissime e le forme<br />

diramate e ampie di Bertolucci. Dapprima epicamente, per scorci che riflettono il procedere<br />

convulso della storia che «scavalla come unřombrosa bestia»; sempre con un realismo lucido, che<br />

descrive, rappresenta, tiene il passo della prosa, ma sřincrina, sřinnalza, si modula e si ritma nella<br />

poesia, Alberto Bellocchio rifonda, al pari di Bertolucci, una propria «patria poetica», che<br />

abbraccia due spazi, diversi simbolicamente e visivamente, ma uniti dal sentimento e dallo sguardo<br />

che li ripensano.<br />

È la storia di una città, Bobbio, dalla sua fondazione fino al primo piano delle vicende della<br />

famiglia dei Bellocchio. È la storia di una città nobile e antica e austera, petrosa e chiusa, che<br />

sřintreccia, attraverso il matrimonio di Bruno con una fanciulla della pianura, Dora(21), alla storia<br />

di unřaltra città, anchřessa nobile e antica, ma di costumi più dolci, «di una terra | e di unřacqua<br />

53<br />

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icca di suggestioni, di lasciarsi vivere…», città risplendente del colore giallo del tufo e che, aerea,<br />

«inalbera torri sottili»: CastellřArquato.<br />

Le vicende dei luoghi e delle genti, della borghesia cui appartiene la famiglia, dellřascesa<br />

economica e del declino, scorre dunque sotto lo sguardo partecipe, ironico e acuto del poeta, che<br />

valuta alla luce di salde idee di uguaglianza e di giustizia e che si rivela attento alla vita pubblica e<br />

sociale anche nella lingua, forte e moderna, concreta e incisiva. Qualche specimen: nel capitolo<br />

Benestanti e borghesi una notazione sul potere, «il potere si distribuisce. Stanno col nuovo o col<br />

vecchio?»; o ancora, un trycolon che potrebbe rimandare a uno stilema costante in Proust e in<br />

Bertolucci, ma con ben diversa valenza, «tra i campi assolati infeudati accaparrati» ; o la esemplare<br />

sequenza sulla «caccia» del borghese, sequenza simbolica di quella «riserva di caccia» che è il<br />

censo, riserva di nobili, preti e borghesi.<br />

Bellocchio sa bene che un libro di famiglia, libro di annotazioni, di acquisti di terre e case,<br />

di passaggi di proprietà di beni, di piccoli fatti dellřeconomia della casa, porta con sé qualcosa<br />

dřaltro; se opportunamente indagato e «fantasticato», direbbe Bertolucci, porta con sé lřesistenza e<br />

il destino, porta con sé anche la storia più vasta degli uomini, creando sofferenze e rimpianti,<br />

speranze e slanci verso il futuro.<br />

Per questo quel vento dal «soffio lontano» dellřepigrafe in corsivo, che incontriamo in<br />

limine alla prima parte, Gli antecedenti, è lřimmagine potente e consapevole che ci guida lungo il<br />

destino degli uomini e il destino della famiglia.<br />

Ė un vento di vita e di morte, di rivolgimenti e mutamenti; ora soffia incalzante ora è brezza<br />

più lieve, pausa nel lento snodarsi e svolgersi di generazioni, per rinforzarsi impetuoso, rinnovare e<br />

travolgere e di nuovo placarsi in un volo lieve dřali dřAngelo. Entra nei versi, anima il ritmo di un<br />

narrare agile, vario e mai statico, appoggiato comřè su verbi dřazione e su rari aggettivi o participi<br />

o voci verbali, che si presentano nellřoriginale scansione di coppia separata da una barra obliqua,<br />

che sostituisce la congiunzione e crea una disposizione spazio-temporale mossa e accelerata:<br />

«sřavverte/fluisce»; «frettoloso/lontano»; «isolato/ accerchiato»; «sopravvivere/ crescere»;<br />

«crudo/esigente»; «incupito/sbiancato»; «viziati/svagati»; «landa brulla/gelata»; «aprire/ allargarmi<br />

la strada»(22). Aggiungi a questo le enumerazioni e le immagini nominali che rappresentano e<br />

incalzano, come nella bellissima sequenza «La piazza. Comřè diversa di voci e di umori»(23),<br />

mentre le diverse voci, appoggiate a una sapiente plurivocalità, escono sulla scena, la ricolmano,<br />

modulano e ritmano ora il lento svolgersi dei giorni, ora la violenza degli eventi esterni, delineano<br />

caratteri e atti, facendo affiorare pieghe dellřanimo, umori, malinconie di donne volontariamente<br />

sacrificate (Carolina o Laura, ad esempio o la stessa Dora, la madre), tensioni di uomini attivi e<br />

capaci, intrecci stretti con la tradizione o fughe in avanti verso il nuovo o verso il miglioramento<br />

economico e il possesso.<br />

Ė un vento infine che, nel farsi alito soccorrevole o «orma» lieve può accompagnare,<br />

elegiacamente nella sottile malinconia della parola che si fa tenera e carezzevole, la fine di una vita,<br />

del padre e della madre, di un fratello, Emilio, fragile e perdente(24):<br />

Pareva che il vento spazzasse assieme alle foglie<br />

la luce, la linfa preziosa.<br />

È un breve viaggio. Il tempo<br />

dřun colpo leggero di vento tra i noccioli<br />

sulle colline tra le foglie dřalloro<br />

nellřorto, che lřallodola batta due volte<br />

le ali…<br />

Lasciando un piccolo segno, lřorma<br />

leggera di una carezza, il profilo dřun fiore<br />

infilato tra i fogli dřun libro. Una traccia<br />

54<br />

54


al tavolo dove tu lentamente leggevi il tuo gioco<br />

nella partita di poker, per ricordare<br />

quel giocatore cui toccarono in mano<br />

non favorevoli carte.<br />

Alla fermata della corriera<br />

una vecchia avvolta di nero.<br />

Come in posa tra le erbe dellřorto<br />

una bambina senza memoria<br />

vestita di bianco e di rosa. È la Dora<br />

che vola e che torna.<br />

Le piace abitare le stanze dellřaria<br />

migrare.<br />

Su tutte, la voce del Narratore, voce di storyteller, che si segnala come personaggio nella<br />

seconda parte, dove la partitura è assai composita, anche musicalmente e stilisticamente, poiché<br />

allřinterno di capitoli fondati su monologhi sřinserisce un vero e proprio racconto epistolare. Basti<br />

ricordare lřincipit ripetuto della Terra promessa «Lřinizio fu magistrale […] Lřinizio fu magistrale<br />

e si è detto»; o le sprezzature rapide che introducono modi popolari, ora conclusivi («riassumendo»)<br />

ora proverbiali: «Amen»; «Ci siamo»; «È meglio che vada in America!»; «Non si vive dřaria | alla<br />

fine!»; « un infarto secco e addio!» «Basta! che giudicare è il mestiere di Dio!»; «la testa sta tutto<br />

lì!…in quanto, per sua stessa natura, | la testa si fa pane e vino, e lo moltiplica!»)(25) per coglierne<br />

la voce antica (anche anagraficamente se Carolina lo interpella «vecchio»)(26) e nuova nel guidare<br />

le vicende, costruire la rappresentazione, animare la scena.<br />

Mentre Bertolucci aveva scelto di narrare prevalentemente in terza persona, ricorrendo<br />

poche volte a una figura di «annalista», «testimone-cronista» o «copista di giornate», e affidando<br />

momenti epifanici e intimi alla prima persona in seguenze virgolettate; Bellocchio, che usa la prima<br />

persona nella prima parte e nellřultima, diviene figura autonoma nella seconda e terza, alternando<br />

la sua voce a quella dei suoi personaggi che via via porta in primo piano. Così la plurivocalità<br />

diviene azione teatrale, rappresentazione, dialogo, improvvisazione e animazione. Si veda come<br />

talora il Narratore si ponga proprio come attore («Eccoti qua, Barburin…vieni avanti»), ordisca la<br />

trama dei giorni, dia il volto e lřanimo dei suoi comprimari. Ma si veda anche come il Narratore si<br />

ritragga quando è lřintimità dellřaltro a dover essere indagata e a dover emergere.<br />

Diceva Bassani, scrivendo della scelta del punto di vista, dřaver privilegiato componendo le<br />

Cinque storie ferraresi la terza persona, tenendosi «celato tra gli schemi tra patetici e ironici della<br />

sintassi e della retorica»(27); aggiungeva tuttavia che potevano affacciarsi «difficoltà anche morali»<br />

che impedivano allřautore di penetrare nel cuore del suo personaggio. Allora si doveva abbandonare<br />

il realismo affidato alla scelta della terza persona per apparire sulla scena e osar «dire finalmente<br />

Ŗioŗ». È quanto Bellocchio confessa quando si avvicina al padre («Comunque in lui non è facile<br />

entrare…Ce lo dica lui- allora- dove vuole veramente arrivare»), introducendo uno dei monologhi<br />

interiori che costituiscono, con la forma epistolare di cui si è detto, la struttura fondamentale<br />

dellřopera.<br />

Ma prima o terza persona che sia, alla sua voce di cantastorie è affidato il significato<br />

profondo di questa «storia di famiglia», che si rivela passo passo, ma soprattutto negli ultimi<br />

capitoli dellřultima parte, Il libro di Dora. Ė qui che si realizza e si scopre la ragione del romanzo e<br />

il segno della sua unità narrativa e poetica , che è riscatto e compenso dal trauma filiale di<br />

unřesistenza «bloccata», segnata dalla «privazione», divisa tra due mondi dissimili, quello paterno e<br />

quello materno, tra il compito di far crescere lřalbero della famiglia di Bruno (si veda il bellissimo<br />

L‟albero dei talenti della seconda parte La pietra dei talenti) e la creatività inaridita di Dora, il suo<br />

isolarsi e allontanarsi. Ma dopo la malattia dolorosa e la morte del padre, intransigente e costrittivo<br />

55<br />

55


nella difesa del patrimonio e di unředucazione rigida e tradizionale(28), avviene la sua riscoperta<br />

proprio attraverso la madre. Dora dapprima «respira, ritorna la musica/ il canto», ritrova «il tempo<br />

dei veli leggeri/ e dei senza pensieri….lo stupidario felice/ dřunřetà che di nuovo le danza intorno».<br />

Poi è lei, la madre, a spostarsi<br />

[…] al centro del gioco,<br />

e attraverso il suo nutrimento recuperiamo…<br />

riaffiora quel genus paterno Ŕmorto e sepolto-<br />

che avevamo sdegnato di assumere in quanto<br />

Assoluto Bellocchio. Lasciamo filtrare beviamo<br />

dalle due fonti. Quella paterna, fin troppo presente<br />

ossessiva dalla quale ci siamo difesi; ma ora la pietra<br />

riprende a parlare…Quella materna, non percepita,<br />

da prima, durante lřinterminabile attesa nellřastanteria<br />

della giovinezza, ma presente in profondo,<br />

venuta alla fine alla superficie…fragile, lieve<br />

ma ispirativa, ci attraversa ci permea…<br />

con nostra sorpresa. Ha un sapore intrigante,<br />

come il rabarbaro delle sue caramelle.<br />

Allora le dolcezze materne si coniugano con lřautorevolezza paterna. Allora può avvenire la<br />

diaspora dei figli e, mentre giacciono a terra, nellředen fiorito della casa «lance spezzate, cavalieri |<br />

disarcionati e morti e feriti tra i fanti | tra quelli più esposti più fragili| scesi in campo con un<br />

armamento leggero», ciascuno cerca la propria «verità» e «tutti dicono addio a tutti». Allora nasce<br />

la commozione e la pietà.<br />

Ed ecco che anche i luoghi, per un aggettivo ora più affettuoso ora più lieve ora più<br />

visionario, riacquistano quella «grazia» che riesce a rivestire anche la sofferenza e lřorrore ed è<br />

propria della tradizione pittorica e poetica emiliana del Correggio, del Parmigianino, di Bertolucci.<br />

La rivolta irrazionalistica contro la norma e la chiusura del vivere borghese famigliare dei<br />

Pugni in tasca di Marco Bellocchio lascia spazio in questo romanzo in versi a una profonda pietas:<br />

criticando dallřinterno, alla luce della ragione e del sentimento, quel mondo famigliare e borghese,<br />

paterno e materno, raccogliendone la storia dalle radici, attraverso i passaggi del tempo e del<br />

destino, attraverso i luoghi, la pietrosa Bobbio, CastellřArquato della fanciullezza ritrovata («terra<br />

feconda che ha uve amabili e perfino | i salami sono gentili, acque salse e zolle | e colline di rosso e<br />

di oro»), Alberto Bellocchio ha saputo rappresentare anche la verità di dolore, di sconfitta, di<br />

speranza, dřillusione e di delusione , di nevrosi e dřansia di libertà che la famiglia aveva racchiuso<br />

nel suo seno. Così, ricolmando di vita lřassenza, lřio narrante si svela, non rallenta la spinta<br />

narrativa e prosastica, ma la innerva con le ragioni del cuore, per risalire lungo i sentieri di una<br />

liricità che accoglie le pieghe della tenerezza, della malinconia, della leggerezza, della fedeltà.<br />

56<br />

Gabriella Palli Baroni<br />

Note.<br />

(1) Il presente intervento è stato anticipatamente pubblicato su ŖNuovi Argomentiŗ, n.32, Quinta serie, ottobre-dicembre<br />

2005, pp. 348-362 col titolo Libri di famiglia nel paradiso emiliano: da Attilio Bertolucci a Alberto Bellocchio.<br />

(2) La Lettera porta la data «Parma, maggio 1938». Pubblicata in «La luna sul Parma», Almanacco per il 1946-47,<br />

Tipografia cooperativa «Gazzetta di Parma», 1946, col titolo Per un amico; successivamente in Gli immediati dintorni,<br />

il Saggiatore, Milano 1962 e in Gli immediati dintorni primi e secondi, il Saggiatore, Milano 1983, si legge ora in<br />

Vittorio Sereni, La tentazione della prosa, a cura di Giulia Raboni, Introduzione di Giovanni Raboni, Mondadori,<br />

Milano 1998, pp.9-10.<br />

(3) Si rimanda al carteggio: Attilio Bertolucci Vittorio Sereni, Una lunga amicizia.Lettere 1938-1982, a cura di<br />

Gabriella Palli Baroni, Prefazione di Giovanni Raboni, Garzanti, Milano 1994. Si ricordano in particolare le lettere del<br />

17 settembre 1971 e del 12 gennaio 1980.<br />

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(4) Di Viaggio d‟inverno (Garzanti, Milano 1971) Sereni scrisse nella lettere del 24 maggio e del 17 settembre 1971.<br />

Della Camera da letto (Garzanti, Milano 1984 e 1988) il poeta conobbe i primi capitoli del poema, ma attraverso la<br />

corridpondenza con Bertolucci aveva accompagnato lřitinerario compositivo del grande romanzo lirico. Le Opere di<br />

Attilio Bertolucci si leggono ora nel Meridiano Mondadori, a cura di Paolo Lagazzi e Gabriella Palli Baroni, Milano<br />

1997.<br />

(5) Si veda in Una lunga amicizia, cit., quanto scrive a Bertolucci il 22 aprile 1965. La definizione risale a Linea<br />

Lombarda- Sei poeti, a cura di Luciano Anceschi, Magenta, Varese 1952; poi in Del Barocco e altre prove, Vallecchi,<br />

Firenze 1953.<br />

(6) Attilio Bertolucci, Fuochi in novembre, Alessandro Minardi , Parma 1934; lřopera è stata ristampata nel 2004, a<br />

cura della scrivente, nelle Edizioni San Marco dei Giustiniani di Genova. Per la storia della raccolta si rimanda<br />

allřEdizione critica in Attilio Bertolucci, Opere, cit.<br />

(7) Si vedano i saggi Bertolucci e Officina parmigiana , rispettivamente del 1956 e del 1957, presenti in Passione e<br />

ideologia (Garzanti, Milano 1960); si leggono ora in Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull‟arte, a cura di<br />

Walter Siti e Silvia De Laude con un saggio di Cesare Segre, Cronologia a cura di Nico Naldini, I Meridiani, Arnoldo<br />

Mondadori, Milano 1999, pp. 1149-1160.<br />

(8) Si segnala lřinfluenza di Keats particolarmente nei Fuochi in novembre (cfr. la Prefazione allř edizione San Marco<br />

dei Giustiniani, cit.).<br />

(9) Il diario, conservato presso lřArchivio di Stato di Parma, è parzialmente inedito, se si eccettuano alcuni passi<br />

pubblicati nella Cronologia del Meridiano Opere.<br />

(10) È un leit motiv nelle lettere di Bertolucci ad alcuni corrispondenti.<br />

(11) Attilio Bertolucci, Il viaggio di nozze, Versi inediti a cura di Gabriella Palli Baroni con Disegni e acquerelli di<br />

Carlo Mattioli, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Architettura, MUP, Parma 2004.<br />

(12) Il saggio si legge in «Rivista di Psicologia Analitica», n.62, A. 2000.<br />

(13) Il verso appartiene alla prima sequenza del cap. XXXVIII, Metamorfosi del corpo di N.<br />

(14) Il gioco dei quattro cantoni ( Lietocollelibri, Como 1997) anticipa figure e temi dellřopera maggiore; Sirena<br />

operaia fu pubblicata dal Saggiatore, Milano 2000.<br />

(15) A. Cicchetti- R. Mordenti, La scrittura dei libri di famiglia, in Letteratura italiana, Einaudi, vol.III, p. 1118.<br />

(16) Il titolo del manoscritto è Memorie dei fatti straordinari successi alla Casa Bertolucci ed altri degni di memoria<br />

nelli anni 1837 e negli altri progressivi.<br />

(17) Così confida Bertolucci a Paolo Lagazzi in All‟improvviso ricordando. Conversazioni, Guanda, Parma 1997.<br />

(18) Cfr. In nome della sacra camera da letto, Aritmie, in Opere, cit., p. 980.<br />

(19) Bertolucci lesse con vivo interesse la Storia famigliare di un nevrotico. I casi clinici descritti da Freud sono<br />

ricordati nel cap.XXVII Le sorelle della Camera proprio per lřaspetto romanzesco : «[…] e ancora il dottor Freud<br />

descrive casi clinici | prolungando il romanzo, moribondo genere della sua classe in via dřimmolarsi;».|<br />

(20) Il poeta fa precedere la prima e la terza parte e alcuni capitoli da «dediche introduttive» in corsivo, cui affida il<br />

senso delle vicende. Nella loro forma metrica richiamano gli Epitaffi di In rima e senza di Giorgio Bassani.<br />

(21) Si ricorda che anche nella Camera pianura e montagna sřincontrano nel matrimonio del giovane Bernardo con<br />

Maria Rossetti.<br />

(22) Questi esempi tra i molti dello stilema si incontrano alle pp.13; 25; 31; 32; 69; 73; 119; 125.<br />

(23) La sequenza si legge a p. 61 del capitolo I turbamenti di Antonio della II parte.<br />

(24) Le citazioni si leggono alle pp. 72; 185; 271; 277.<br />

(25) Le citazioni portate ad esempio sřincontrano alle pp. 62-69.<br />

(26) Il verso si legge a p. 74.<br />

(27) Giorgio Bassani, Laggiù, in fondo al corridoio, in Opere, cit., pp. 942-943.<br />

(28) Si colga peraltro, nella sequenza commossa che chiude il capitolo La canzone del salice, la poesia della fine e<br />

della memoria: «Il paradiso terrestre |interpretato in questo inizio dřottobre |che sempreverdi miscela e alberi spogli |<br />

foglie che volano e frotte di passeri | e il sole caldo del mezzogiorno li fonde | in una perfetta armonia. La montagna | gli<br />

corrisponde, ai nostri occhi | esibisce i rossi cespugli della rosabella…| Non farti scrupolo, prendi metti più luce | che<br />

puoi nel tuo cuore, affrettati | che il pomeriggio è precoce…| in un momento la collina è scomparsa | non vedi che<br />

nebbie».<br />

57<br />

57


Rigenerazione a Kassel:<br />

Il giardiniere contro il becchino di Antonio Porta<br />

1<br />

Una delle utopie possibili è quella di condurre l'origine della poesia dal concetto primario di<br />

costruzione linguistica a una forza liberatoria che possa fluire nel poema. La scansione lunga del<br />

testo poetico, con il suo portato di intenzionalità e giustificazione stilistica, è una delle prove<br />

estreme a cui il poeta può essere sottoposto. La poesia dichiarata nella singola verità dell'emergenza<br />

poetica può trovare destinazione in alcune sequenze poetiche che hanno fatto riflettere alcuni poeti<br />

sul concetto di allargamento dell'immagine della poesia. La poesia come valore di suono di tempo<br />

di immagine prismatici non soltanto attraversata da un tipo di intenzionalità speculativa di stampo<br />

narrativo. Qui si vuole descrivere non tanto l'effetto di una storia su di una singola poesia ma come<br />

questa possa indurre il poeta a creare una situazione stilistica invocante l'accesso a una percezione<br />

ulteriore dalla poesia al poema. La camera da letto di Attilio Bertolucci, con il passo della natura tra<br />

i sentieri e i boschi di Casarola, scritto per sfida al precetto stilistico di Edgar Allan Poe nella sua<br />

Filosofia della composizione sulla non riuscita del poema a causa di una perdita di intensità<br />

stilistica nel corso del tempo della poesia (e di attenzione creativa da parte del lettore), è un poema<br />

orientato a coinvolgere in uno spazio temporale, come la Recerche del suo amatissimo Marcel<br />

Proust, i segni precisi di una vita in formazione dall'adolescenza alla maturità del giovane poeta.<br />

Bertolucci non comprime la materia nel restringimento di immagini di verità, focalizzando<br />

l'emergenza della poesia, ma la rivitalizza nella memoria lunga del poema. A Bertolucci paiono<br />

estranei effetti transitori che preparano a una compattezza poematica; il suo sistema poetico tende al<br />

poema, è il poema. Invece quelli di Vittorio Sereni Un posto di vacanza, di Antonio Porta La lotta e<br />

la vittoria del giardiniere contro il becchino, Airone, di Zanzotto Galateo in bosco, di Pasolini con<br />

Le ceneri di Gramsci, di Giovanni Giudici La vita in versi, di Mario Luzi Viaggio terrestre e celeste<br />

di Simone Martini, di Giorgio Caproni con Il conte di Kevenhũller per giungere a Il disperso di<br />

Maurizio Cucchi, si spostano (e alcuni a strappi, a lampi lirici coinvolgendo un lacerto di tessuto<br />

narrativo) dalla poesia alla frammentazione poematica. Dall'informale decretare uno stato non<br />

confuso, una legislazione della poesia, è il fondamento (forse testamentario avrebbe sottolineato<br />

Montale) della rincorsa della poesia verso il fine ultimo del poema. Ma può esistere una legge della<br />

poesia che da una singolarità di un verso possa ottenere una garanzia futura come richiede<br />

l'escursione verso il poema? Se scalare una vetta poetica è un Himalaya, perché si trovano nel<br />

proprio percorso residui altrui immettendoli nella concezione stilistica (nella voce della poesia),<br />

scalare la vetta del poema significa arrampicarsi su tutti gli ottomila del pianeta; e non essendoci più<br />

una forma acquisita può darsi che Sereni e Porta si siano trovati di fronte allo stesso problema:<br />

come codificare un'esperienza di poesia nella lunga sequenza poetica senza sprofondare nella<br />

ripetizione patetica della poesia rinvigorendo quella forza che l'ha fatta scaturire.<br />

2<br />

Sia a Vittorio Sereni che a Antonio Porta nel comporre le loro opere-poema non può apparire<br />

estraneo un vortice di espressioni artistiche rompenti con il figurativo trapassando l'elemento<br />

visibile della natura poetica. La Natura osservata subisce un impatto esistenziale da parte di artisti<br />

come Jackson Pollock o Ennio Morlotti. La loro pittura è una pittura drammatica, spacca l'oltranza<br />

spaziale rendendo autonomo un dato emozionale. Francesco Arcangeli in Dal romanticismo<br />

all'informale ha scritto pagine mirabili sull'argomento. Come ci interessa, inoltre, marginalmente<br />

l'uscita del poema inteso come accadimento della storia (è il caso di Roberto Roversi con Dopo<br />

Campoformio). Ci interessa, piuttosto, la ridefinizione di una storia personale, filamento continuo<br />

che intreccia situazioni con suggestioni molto vicine ad una idea di pulsazioni elementari quasi<br />

primordiali. E come da queste ultime nascano altri filamenti creativi ancora sempre in progress,<br />

sempre definiti-indefiniti. Mi interessa la cultura nomade della scrittura. Porta parla di nomadismo<br />

58<br />

58


della scrittura poetica. Paul Celan presentando una scelta di poesie di Osip Mandel'štam in lingua<br />

tedesca scrive di un luogo che può essere percepito e raggiunto mediante la lingua, questo luogo è<br />

un centro da cui si ricava forma e verità. Credo che la lotta del poeta contemporaneo si svolga nel<br />

ritrovare (nel ricercare) il centro del poema, il suo spirito generativo. La lotta è sempre la stessa.<br />

Spiega Paul Celan: il poema cerca, credo, anche questo luogo. Il concetto di poema, più che mai<br />

nella nostra epoca sfrangiata e veloce, sta nella definizione di un luogo irripetibile (una ripetizione<br />

dell'esistere sonda pulsante di verità in Sereni), sapendo però che la definizione di questo luogo<br />

della poesia non può mai essere stabilito per legge irrevocabile. Il luogo definisce il poema, ne capta<br />

le sue possibilità d'emergenza e d'espressione, come il poema definisce il luogo, il precetto di una<br />

dimora sacra. Questi due elementi, il poema e il luogo, sono due sponde di verità esistenziale, sono<br />

due modi equivalenti di rispondere a una medesima domanda, a una medesima interrogazione.<br />

Scrive Celan: qualcosa accade. E' nell'ambivalenza simmetrica, spaziale, di un pensiero ossessivo<br />

(forsennato nel tempo) come una premonizione che si può svolgere la voce della poesia divenendo<br />

dilatazione sintattica d'immagini nell'esecuzione del poema. E' il disegno informale, per meglio<br />

dettagliare una stratigrafia esecutiva, che si muove sotto la luce del poema, nella penombra<br />

semilucente di un'altra realtà. Quando Antonio Porta spiega la nascita (celebra la nascita) di una sua<br />

poesia osserviamo nelle sue parole l'eccezionalità dell'accadimento-evento. La forma prende<br />

coscienza: nelle sue parole-lingua si formano stratificazioni geologiche dall'immenso potere<br />

elettivo. Nel giovane Porta, in una delle sue prime letture catapulta verso il futuro del poema, c'è la<br />

poesia lirico concettuale del romantico tedesco Novalis. Una poesia, quella di Novalis, intessuta di<br />

valori simbolici in cui la natura assume un ruolo di rispecchiamento esistenziale nella mente del<br />

poeta. La poesia lirico-filosofica delle Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke non è estranea al Porta<br />

novissimo. Possiamo intravedere nel progetto di poesia si Antonio Porta una tensione verso la<br />

poesia-poema, una fertile materia in movimento, con continue accelerazioni di instabilità lirica. E<br />

con una certa naturalezza e istinto la poesia di Porta rompe il filo della fossilizzazione terrestre della<br />

poesia, la sua compiutezza formale con inclinazioni neoclassiche (il vero spettro della poesia<br />

poematica italiana).<br />

3<br />

Nell'Assia settentrionale ogni cinque anni si svolge la più importante mostra d'arte contemporanea<br />

in un piccolo paese della provincia tedesca: Kassel. S'intitola «Documenta» e dal 1955, anno della<br />

sua inaugurazione, richiama da tutto il mondo i migliori artisti di arte sperimentale e, in particolare,<br />

di quegli artisti che con la Natura hanno creato percorsi artistici, opere d'arte. Per LAND ART<br />

s'intendono (cercando una possibile definizione) quelle composizione materiche fatte elaborando<br />

paesaggi naturali, territori, boschi, corsi d'acqua, utilizzando la casualità della natura per eseguire<br />

tragitti sperimentali dove l'uomo sia come assorbito dalla primordialità di un luogo. Un proverbio<br />

indiano dice: gli specchi d'acqua sono gli occhi della terra. Vicino alle cascate del Niagara Nancy<br />

Holt crea una installazione di sei vasche di calcestruzzo, che attigui al corso d'acqua plasmano una<br />

componente armonica di specchi d'acqua artificiali al cospetto di nuvole transitanti nel cielo. Questa<br />

installazione s'intitola Hydra's head. Il termine installazione richiama crediamo bene gli ultimi<br />

progetti infiniti di Antonio Porta. In particolare due poemi: La lotta e la vittoria del giardiniere<br />

contro il becchino e Airone contenuti nell'ultimo libro pubblicato nel marzo del 1988 da Porta<br />

proprio con il titolo Il giardiniere contro il Becchino. All'interno del volume questi due poemetti<br />

(che aprono e chiudono la raccolta) sono divisi da altre lunghe sequenze poetiche che hanno<br />

un'origine poematica e teatrale come si ravvisa dal testo Fuochi incrociati. Quando nella primavera<br />

del 1988 Porta fu invitato a parlare del suo nuovo libro all'Università di Bologna disse alcune cose a<br />

presentazione del poemetto Il giardiniere contro il becchino: Porta cita Anselm Kiefer visto in una<br />

recente «Documenta» di Kassel; poi prosegue il suo discorso parlando del maestro di Kiefer Joseph<br />

Beuys:<br />

un artista che, come tutti gli artisti di Kassel, come tutti gli artisti di adesso, credo, va al di là di<br />

59<br />

59


un semplice progetto artistico, caricando il linguaggio di significati anche politici. Di qui, per<br />

esempio, il progetto delle settemila querce: nei «Documenta» del 1982 Beuys infatti non ha<br />

portato opere ma ha piantato alberi. In quest'ultimo «Documenta» invece aveva approntato una<br />

sala stupenda con un grande cervo sacrificato con le feci disposte sul pavimento, che io descrivo<br />

nella mia poesia. Il viaggio che mi ha portato a Kassel attraverso la Germania, gli otto/nove<br />

giorni in cui, in macchina con mia moglie, ho percorso questa terra, mi ha consentito di<br />

confrontarmi con le percezioni del viaggio medesimo, ma soprattutto con quelle che ho raccolto<br />

guardando le opere esposte alla mostra, opere quindi già filtrate, che filtravano un sistema di<br />

percezione: mi sono messo così a prendere appunti e a scrivere, ho descritto quadri, stati<br />

d'animo, situazioni, portando avanti il progetto di poesia lunga. Cosa significa scrivere una<br />

poesia lunga? Significa non potersi fermare al momento lirico, continuare il discorso e<br />

svilupparlo, perché questo fa il linguaggio della poesia così come l'ho concepito in questo libro.<br />

(da «il Verri», n. 1-2, 1990, Poesia e Percezione, a cura di Niva Lorenzini).<br />

Porta continua a riflettere sulla propria concezione di poesia lunga dicendo: io ho inteso portare<br />

avanti la poesia lunga come un viaggio, ridefinendo una propria poetica come quella di una poesia<br />

in fieri, sempre in viaggio, accentuatamente diaristica. Una definizione della poesia sempre più<br />

come necessario esperimento esistenziale. Porta insegue dei vasi comunicanti con il pubblico<br />

attraverso un esercizio verbale diretto libero da linguaggi troppo in penombra (oscuri). E' un poeta<br />

che scopre la luce del linguaggio. Porta predilige una contaminazione del suo fare poetico, una rete<br />

quasi nervosa e sotterranea di elementi istintuali, percettivi. La poesia lunga può essere un poema.<br />

Versi come: Aprile è il più crudele dei mesi, genera/ Lillà fuori dalla terra morta, mischiando/<br />

Memoria e desiderio, risvegliando/ radici sopite con la pioggia di primavera; origine della Waste<br />

land di T.S. Eliot (una lettura forte per Porta e per la sua generazione anche per un poeta da lui assai<br />

diverso come Giovanni Raboni), è la fiamma illimitata, l'immagine feconda, che alimenta l'inizio e<br />

lo svolgimento del poema. La parola inglese stirring contenuta nel poema di Eliot è tradotta (da<br />

Roberto Sanesi e con molta efficacia evocativa) come risvegliando. Pensando alla poesia di Porta si<br />

può anche unire al risveglio l'eccitazione del risveglio e scrivere: Memoria e desiderio, eccitando/<br />

radici sopite con la pioggia di primavera. L'intrico delle immagini a scalare eliotiane; una certa<br />

laconicità del dettato; la poesia diventa essa stessa documento, referto esistenziale. Forse Porta<br />

voleva, in fondo, dichiarare una certa estraneità della sua poesia rispetto a un tipo di poesia lirica, di<br />

sintesi da stagione petrarchesca. La sua scommessa verso un tipo di poesia sperimentalmente lunga,<br />

asintattica, metamorfica, di forte spessore intellettuale, non narcisistica e documentaria.<br />

4<br />

Nell'aula 3 semideserta Antonio Porta cominciò a leggere La lotta e la vittoria del giardiniere<br />

contro il becchino. C'era molto silenzio.<br />

Davanti alla vetrata il tumulo<br />

carbonizzato, travi e cenere,<br />

al di qua della vetrata<br />

la stanza del museo tomba di se stessa<br />

ma il giardiniere tranquillo<br />

comincia a piantare la prima<br />

di 7000 querce in programma<br />

proprio davanti alla porta d'ingresso<br />

dopo averla ostruita con pietre<br />

e tronchi e terriccio e muschio<br />

in memoria del re dei pastori,<br />

del cervo folgorato,<br />

delle feci sparse nel prato.<br />

60<br />

60


La sua figura si stagliava contro l'ombra di una lavagna nera che gli dava le spalle. Si sentiva che<br />

era un eccellente lettore delle proprie poesie. Sapeva essere ironico. Mentre leggeva questa poesia<br />

lunga (o possiamo adesso parlare di poema?) sapeva quando fermarsi, accennare a un sorriso, uscire<br />

dal poema, dire qualcosa, per poi tornare a leggere con indomita freschezza i propri versi. Parlò<br />

anche di New York, disse qualcosa su quella città. Tornano alla mente (siamo negli anni settanta) le<br />

poesie orfiche e poematiche nella costruzione di un personaggio alter ego di John Berryman, e i<br />

notebooks, le poesie cadute sull'istante del sonetto come pagina di diario, evento del quotidiano, di<br />

Robert Lowell. L'immagine che intuivo di Antonio Porta era quella di un poeta non esoterico. Il<br />

poema ultimo di Porta (e lo si nota in Airone) è il poema in sequenze di un poeta che cerca altre<br />

modalità dalle consuete espressioni liriche. La stessa figura allegorica dell'airone vuole inaugurare<br />

nuove percezioni e scoperte per la poesia di Porta. Molti appunti riguardanti Airone sono stati presi<br />

in aereo, nella percezione del paesaggio da lassù attraversato. La poesia di questo ultimo Porta ha<br />

un atteggiamento verso il linguaggio molto visivo. Nelle immagini coagula una intenzionalità della<br />

poesia che fuoriesce nel discorso sociale e dunque non solamente nella introspezione linguistica.<br />

Penso che in fondo Porta combattesse contro una sperimentazione oscura della poesia. Ci sono<br />

voluti anni a Porta per scrivere questi due poemi contenuti nel suo libro finale. La poesia deve dire<br />

non solo la poesia, ma dichiarare una diversa socialità dello scrittore in versi, un disadattamento<br />

come genetico nei confronti della società. Mettere in pratica queste parole. Il poema di Porta<br />

diventa un poema della natura, una Poetry Land Art. Sapeva essere ironico Porta. Conosceva, e lo si<br />

percepiva, il gioco splendido e putrido della poesia. Nel mentre leggeva alzò gli occhi e si fermò.<br />

Disse con un lieve sorriso come una smorfia addolcita sulle labbra che aveva sbagliato a leggere un<br />

verso ma che è così non ci si può far nulla perché la poesia è sempre in costruzione. Quindi riprese<br />

la lettura quasi con maggiore sicurezza, come se la poesia, proprio come quegli alberi piantati da<br />

Beuys, fosse continua primordialità espressiva, rigenerazione.<br />

61<br />

Andrea Gibellini<br />

61


passi passaggi (e paesaggi)<br />

62<br />

tutto sembra muoversi ma in fondo tutto è fermo<br />

Remo Pagnanelli<br />

Lřidea della forma-poema o comunque di una struttura in qualche misura poematica ritorna con<br />

molta frequenza nella poesia italiana degli ultimi decenni. Nei suoi scritti critici Remo Pagnanelli vi<br />

era tornato sopra più volte, facendola collidere da un lato col progetto del romanzo in versi,<br />

dallřaltro col miraggio autoriale del grande libro unico. Pensando subito allřepisodio più eclatante e<br />

anomalo, La camera da letto di Bertolucci, si direbbe che la poesia in vario modo sia stata il tramite<br />

di una ricerca di coesione e dřidentità, psicologica ed esistenziale, ma anche, più profondamente,<br />

naturale o biologica, di contro a una pressione della realtà che andava invece verso il<br />

disorientamento e la dispersione. Lřunità del personaggio e dellřopera, dunque; da intendersi questa<br />

non tanto come alternativa formale, estetica, quanto come possibilità di una conoscenza non<br />

episodica, di una diversa formulazione del tempo, se non come aspirazione a un affrancamento dalla<br />

storia e dalla più superficiale temporalità cronologica. Sulla falsariga, comřè noto, della memoria<br />

proustiana, nel caso di Bertolucci il poema alla lettera fa centro su ripetizione, identità,<br />

intermittenza, circolarità, a contraddire o piuttosto a irreggimentare il corso narrativo del Ŗromanzoŗ<br />

propriamente detto. «Linea e circolo riassumono due figuralità», scriveva Pagnanelli riguardo alla<br />

Camera da letto, «non conciliabili. Dentro il romanzo, malgrado la progressione dei capitoli, isole e<br />

picchi di senso, avverto nel protagonista un identico comportamento psichico». Ecco allora che «il<br />

tempo della Natura, antinomico a quello della Storia, nasconde la concordanza fondante (risultato<br />

del viaggio bertolucciano) con il non-tempo dellřEs». «Un tendere indifferente e coatto a ripetere<br />

verso la stasi atemporale», così anche definirà il movimento profondo del poema, richiamandosi<br />

subito a Freud di Al di là del principio del piacere.<br />

Pagnanelli, che peraltro è un critico notevole, è un cacciatore dřinvarianti psichiche, di archetipi<br />

antropologici, di costanti poetiche. E questo se per un verso rende le sue interpretazioni oltremodo<br />

suggestive, in quanto sempre riportate a questioni assolutamente radicali (è una critica catartica la<br />

sua: febbricitante, necessaria, ultimativa), per lřaltro porta almeno tendenzialmente a una sorta di<br />

reductio ad unum degli autori considerati. La sua attenzione ha battuto ossessivamente e insieme<br />

consapevolmente sempre sullo stesso, identico nucleo metaforico e creativo, al punto che nella sua<br />

pratica critico-poetica passione e ideologia non risultano divergenti, come in Pasolini (chřè<br />

comunque un suo riferimento importante), ma si sovrappongono fino a coincidere perfettamente.<br />

Nel caso del poema di Bertolucci, ad esempio, questo lo ha forse portato a sottovalutare la ricerca,<br />

da parte del poeta, di un accordo non con la Storia, certo, ma col Tempo della vita in quanto tale, il<br />

tracciato di un destino che tenta di definirsi non contro ma nel tempo, con il tempo, assecondandolo<br />

e insieme impadronendosene, come a trovare un punto dřaccordo tra il battito della vita e quello del<br />

proprio cuore. Nellřalternanza anomala, irregolare, aritmica Ŕ ricordando ovviamente la poetica<br />

dell‟extrasistole Ŕ di sistole e diastole, il poema, per quanto composto in modo spesso sussultorio,<br />

rappresenta anche il momento della distensione, della percezione e dellřimmissione nel fiume del<br />

cosiddetto tempo lungo, della possibilità di un senso narrato. Apprendere la disciplina del tempo per<br />

meglio possederla. Piuttosto che un fuga o una sottrazione, i capitoli della Camera da letto sono<br />

come una grande mano tesa a catturare il senso del tempo. Desiderio, egoismo, anche terapeutico<br />

(giusta la leggenda bertolucciana) da un lato, e magnanimità e condiscendenza dallřaltro, almeno<br />

nellřintenzione sembrano corrispondersi. Bertolucci apre le braccia per catturare di più e riportarlo<br />

tutto a sé. Per accentrare deve aprire la diga. Il grande epos famigliare onnicomprensivo è proprio<br />

questo, del resto: qualcosa come lřaspirazione a una comprensione, forse meglio a una saggezza del<br />

tempo, anche se ovviamente mai del tutto pacificata, perché per un poeta a sangue caldo,<br />

esemplarmente nevrotico come Bertolucci, lřatarassia resta comunque lontana, estranea, come una<br />

specie di poco umana ibernazione.<br />

62


Proprio per questo, pur con tutte le sue sfilacciature e oscillazioni di presa, si può prendere La<br />

camera da letto come lřopera di riferimento in cui il tracciato storico-esistenziale del personaggio e<br />

lřorganizzazione narrativa appaiono più forti, più strutturati e unitari. Per quel poco che valgono le<br />

periodizzazioni, è vero infatti che a partire dalla fine degli anni settanta, e poi più marcatamente nei<br />

due decenni successivi, istanze e soluzioni espressive che, come ho detto allřinizio, si possono<br />

definire in senso lato poematiche, hanno percorso una strada diversa, molto meno unitaria e<br />

conchiusa di quella di Bertolucci, anche se poi innegabili necessità, avvertimenti e percezioni<br />

comuni, prima fra tutte quella di unřalterità-alternativa tra tempo storico-cronologico e tempo<br />

naturale, non possono essere considerate qualcosa di soltanto episodico o accidentale. È stato<br />

riconosciuto piuttosto concordemente che Passi passaggi, uscito nel 1980, rappresenta una rottura<br />

nello svolgimento della poesia di Antonio Porta e lřapertura di una stagione nuova: allontanamento<br />

dalle coordinate della neoavanguardia, nuova attenzione per lřistanza comunicativa, rapporto più<br />

frontale e disponibile con la realtà, tensione verso nuovi orizzonti insieme esistenziali ed espressivi.<br />

Porta, che prima parlava di aprire ora parla di passare (prima si trattava di fare esplodere un<br />

sistema, ora di trovarne un altro). Togliendosi di dosso gran parte della rigidità e degli schematismi<br />

linguistici per partito preso che ne avevano limitato il cammino precedente, Porta comincia da qui a<br />

scrivere sempre più marcatamente per sequenze brevi o medio-brevi, a volte anche brevissime,<br />

dando un nuovo impulso energetico e soprattutto una nuova prensilità e mobilità alla sua lingua<br />

poetica, che a questo punto diventa al contempo più materica e più elastica. Forzando un poř la<br />

contrapposizione, Passi passaggi segna lo spartiacque tra un poeta del linguaggio e uno della<br />

lingua, tra un poeta prevalentemente passivo rispetto allřimmagine ed uno tutto desiderio e<br />

penetrazione, o ancora tra un poeta che vede la lingua della poesia, che per questo gli rimane in gran<br />

parte estranea, come uno schermo immobile davanti a sé, ed uno che quella lingua è capace di<br />

toccarla, di ascoltarla, in un senso quasi esclusivamente fisico di Ŗsentirlaŗ, facendone allora<br />

qualcosa di suo. Corporeità, plasticità e dinamismo, scorrevolezza, capacità di respiro, sono le<br />

principali qualità che alla sua poesia si sono in genere riconosciute.<br />

Comunque sia, ho fatto riferimento a Porta in quanto mi sembra che questo suo titolo, Passi<br />

passaggi, definisca con precisione non solo il fare poesia dello stesso Porta, ma anche un<br />

atteggiamento poetico trasversale alle generazioni poetiche e piuttosto diffuso dalla fine degli<br />

settanta lungo almeno i due decenni successivi, teso non a un accentramento biografico o<br />

memoriale, ma al contrario ad una inevitabilmente discontinua, oscillante immissione-immersione<br />

nella corrente del tempo, come a cavalcare lřenergia delle cose. Sono in molti in quegli anni a<br />

scrivere per passi passaggi, intendendo con questa formula (vado per le generali, ne sono<br />

consapevole) sia un certo modo dellřespressione Ŕ la sequenza, la successione di frammenti o<br />

riprese, un durata coincidente col singolo sguardo, boccata, presa o, più in genere, appercezione di<br />

realtà Ŕ, sia il senso dellřattraversamento, del trascorrimento o appunto del passo passaggio, ora<br />

traguardato su di un orizzonte storico-epocale, ora invece, di solito più profondamente, riferito al<br />

continuum della natura, al farsi e disfarsi del mondo, allřenergia della vita e della nuda materia. Il<br />

frammento-sequenza allude allora a un ingresso provvisorio nel Ŗtuttoŗ, a una sintonia momentanea<br />

con la durata, con il flusso della vita e la sua capacità ininterrotta di metamorfosi e rigenerazione. È<br />

in questo senso che ho parlato di disposizione poematica. Si tratta infatti di un procedimento<br />

sostanzialmente rapsodico Ŕ non lontano da una sorta di poema musicale e, per quanto riguarda la<br />

visibilità, da talune possibilità suggerite dalla tecnica cinematografica Ŕ che punta<br />

sullřimmediatezza, sul cortocircuito con la situazione contingente, con le risorse, anzitutto fisiconaturali,<br />

disponibili e bruciate nella contatto diretto con la singola situazione di riferimento, che con<br />

la sua evidenza e necessità intrinseca finisce per imporsi, quando vi siano, anche sulle coordinate<br />

ideologiche e sulla predeterminazione conoscitiva dellřautore. Di conseguenza ci si trova in<br />

presenza dřimmagini fortemente dinamiche, volte a cogliere e ad assecondare, quasi veleggiassero<br />

sulla sua corrente, il trascorrere delle cose. Non è un caso che in genere queste scritture risultino<br />

orientate a un allentamento dei legami e delle gerarchie sintattiche, a una prevalere dei gesti e delle<br />

percezioni, a una fluidità che si vuole tuttřuno col movimento, con la successione e il non finito.<br />

63<br />

63


Solo qualche esempio. Si va da Ceni, col suo poema visionario e naturalistico costruito dalla<br />

seconda metà degli anni ottanta come una successione dichiarata, appunto, di passaggi, oppure dal<br />

Piersanti di Passaggio di sequenza (1986), il suo libro più ricco dřimmediatezza sensoriale<br />

(significativamente, questi sono per lui anche gli anni dei film-poemi), fino alla forma poematica<br />

aperta, strutturata per frammenti come una specie di work in progress, che Riccardi ha cominciato a<br />

ad assemblare (o a raccontare) con Il profitto domestico (1996). Ma si possono pure ricordare certe<br />

riuscite di Conte, tra L‟ultimo aprile bianco e L‟Oceano e il Ragazzo (del resto, non si dà Ceni<br />

senza Conte), ma anche i fotogrammi poetici del pur diversissimo Benzoni, che accompagnava il<br />

suo Fedi nuziali (1991) con lřindicazione: «Questo libro si può considerare un lungo pianosequenza<br />

(dico con il cinema) di tre anni. In pratica un diario senza montaggio». Peraltro anche<br />

L‟Italia sepolta sotto la neve di Roversi, con uno sguardo stavolta tutto portato sulla storia<br />

(costretto alla storia dallřemergenza dei tempi), è composto per sequenze narrative di durata<br />

variabile.<br />

Ma è comunque a Pagnanelli che voglio tornare, perché credo che nella sua poesia, e in particolar<br />

modo nel suo libro più alto e maturo, Preparativi per la villeggiatura (scritto tra il 1985 e il 1987, è<br />

uscito postumo nel 1988), la formula dei passi passaggi si sia definita in modo estremamente<br />

originale e complesso, attraverso una configurazione dellřimmagine e un orientamento del discorso<br />

poetico che, se si torna a pensare a Porta, risultano molto diversi se non addirittura opposti.<br />

Pagnanelli è infatti un poeta testamentario, stanziale in senso etimologico, caustrofilico. A<br />

differenza del prometeico Porta, il vento o meglio, visto la presenza onnipervasiva dellřelemento<br />

fluido, la corrente della trasformazione non è legata in Pagnanelli al potenziamento dellřenergia<br />

vitale, allřunione-accoppiamento con la forza anche molecolare o linfatica del bìos. Al contrario,<br />

qui il transito-passaggio costituisce un progressivo assottigliarsi della vitalità, dello spessore e del<br />

respiro delle immagini; un procedere verso il silenzio e lřazzeramento, come si dice in cimitero di<br />

guerra.<br />

Preparativi per la villeggiatura è un libro eccezionalmente rapsodico, concepito come lo<br />

svolgimento di pochi essenziali motivi riconducibili tutti allřunico grande tema di tutto Pagnanelli:<br />

lřabbandono della vita Ŕ vere e proprie linee melodiche (Pagnanelli raggiunge senza dubbio<br />

lřeccellenza quanto ad orecchio e qualità del suono) di un flusso poetico unitario che sřimpone sulle<br />

singole unità testuali. Anche qui ci sono ovviamente testi Ŕ poesie e prose poetiche Ŕ più o meno<br />

organici e compiuti, ma il singolo componimento non viene chiamato a rappresentare di per sé la<br />

totalità del sistema espressivo del poeta. La corrente, il passaggio (appunto), la sequenza di<br />

attraversamenti possiede comunque un rilievo maggiore delle tappe particolari. Semmai in ogni<br />

poesia si ripete Ŕ la formula sereniana della ripetizione dell‟esistere Pagnanelli lřaveva fatta ben<br />

sua, fino a condurla allřestremo e come al di là di se stessa Ŕ la stessa meccanica di definizione e<br />

negazione, di disegno e cancellazione. Si potrebbe forse parlare di variazioni sul tema, se non fosse<br />

che un progressione quieta, sicura di sé e, davvero lo si può dire, implacabile, percorre il libro<br />

dallřinizio alla fine, letteralmente bruciando dietro di sé il terreno, passo dopo passo, passaggio<br />

dopo passaggio, paesaggio dopo paesaggio. Del resto, lo stesso titolo del libro, memore della<br />

vacanza sereniana, rimanda sì a una sospensione del mero tempo cronologico che potrebbe<br />

coincidere col tempo della poesia, ma insieme Ŕ con unřironia che viene dritto dritto da Leopardi,<br />

filtrata soltanto dallřultima stagione poetica di Montale Ŕ allo scavalcamento di quella soglia che<br />

costituisce il limite del tempo della vita, verso quello che fin dallřinizio della sua vicenda di poeta<br />

Pagnanelli ha designato anzitutto come dopo.<br />

Ma è vero poi Ŕ ecco subito il paradosso e la singolare natura di questa poesia Ŕ che il discorso<br />

poetico nella sua interezza è orientato verso lřimmobilità, lřinvarianza, verso quella condizione che<br />

Pagnanelli, lo abbiamo visto, ha definito come non-tempo, come stasi atemporale. Anche senza<br />

bisogno di pescare nella sua terminologia poetica e critica (assai nutrita, comřè noto, di letture<br />

psicoanalitiche e antropologiche), è questa una tensione che si può rilevare a tutta prima dai titoli<br />

delle sue raccolte poetiche, divisi anchřessi tra spostamento e chiusura: Dopo, Musica da viaggio,<br />

Preparativi per la villeggiatura, da una parte, Atelier d‟inverno, Orto botanico, dallřaltra. È proprio<br />

64<br />

64


su questa particolare, forse irripetibile sovrapposizione di movimento e fissità in Preparativi per la<br />

villeggiatura che intendo fare qualche considerazione. E dunque: sul flusso narrativo o poematico,<br />

ma insieme sul funzionamento intrinseco dellřimmagine. Sono convinto infatti che tanto il discorso<br />

poetico quanto le singole immagini siano governati qui da una particolare regola inversa. Pagnanelli<br />

si affida al tempo-movimento per negarlo (questa è la sola speranza di cui si può parlare per la sua<br />

poesia), ma reciprocamente staziona nellřimmagine per scavalcarla. Interroga i paesaggi come<br />

fossero specchi, chiedendo loro di parlare del dopo, per il dopo. In una poesia dove tutto, a<br />

cominciare dalla voce di chi parla, appare incredibilmente calmo, misurato, gentile, non esiste da<br />

questo punto di vista alcuna ortodossia (la naturalezza della perversione, la routine dellřabnormità:<br />

Pagnanelli sembra avere imparato da Kafka a svegliarsi un mattino coleottero e a non<br />

meravigliarsene affatto). La Ŗdiritturaŗ consueta del procedimento di significazione viene<br />

strumentalizzata e violata. Pagnanelli è un eretico della grammatica del senso poetico, che adotta,<br />

riconosce e fa completamente sua anzitutto per desautorarla e liberarsene. È un eretico, dunque,<br />

perché si dà una regola e una disciplina, perché fa riferimento a una pratica codificata, a un sistema<br />

espressivo e simbolico ben determinato, a quello che per lui era a tutti gli effetti il grande codice<br />

della poesia, il suo codice (alludo alla lingua, ai moduli espressivi, alle configurazioni tematiche del<br />

Novecento poetico, e anzitutto dei suoi maestri elettivi: Montale, Sereni, Bertolucci, Giudici), che<br />

però intrepidamente utilizza manomettendolo, sovvertendolo, cioè deviandone o appunto<br />

pervertendone Ŗmodoŗ e significato. Lřequivoco in cui sono incorsi vari lettori anche attenti di<br />

Pagnanelli è stato quello di pensare ai suoi tanti paesaggi, corsi e specchi dřacqua, ai giardini-elisi,<br />

alle vacanze e sospensioni semi-oniriche, alle sue musiche sottili sottili e insinuanti, come a una<br />

specie di significante positivo, di miraggio accarezzato, di sotto-realtà o oltre-realtà o contro-realtà<br />

testimoniata e ambita dal poeta. Come una specie di visione o di ultrasuono paradisiaco. Non è così.<br />

Portando anche qui al capolinea una serie di situazioni tipiche della poesia del Novecento inoltrato<br />

Ŕ il dormiveglia, il mezzo sonno, il mezzosogno, la distrazione, lřintravedere, il trasognamento, la<br />

vacanza, ecc., Ŕ questo scrittore dai modi poetici, lo ripeto, gentilissimi, strappa una dopo lřaltra<br />

tutte le carte e le rappresentazioni. Nessun paesaggio-illusione, nessun incontro vale ad arrestarlo, a<br />

trattenerlo, ma solo talora a rallentarlo un poco Ŕ ecco il senso del suo viaggio. Tutte le immagini,<br />

tutte le musiche vengono svelate come pure e semplici contraffazioni, nientřaltro che inganni, come<br />

viene dichiarato sempre in cimitero di guerra, lo splendido poème en prose che si trova quasi al<br />

termine dei Preparativi e a cui di recente ho dedicato un ampio commento. Più si avanza nel libro,<br />

più le immagini sřassottigliano e le musiche entrano in sordina, facendosi al contempo per il poeta<br />

più accattivanti e lusinghiere, più perfette (lřaggettivo è suo), poiché sempre più approssimate alla<br />

condizione-silenzio sperata. Ma, alla lettera, non se ne salva una. Nessuna passa la prova. Figlio<br />

dellřultimo Leopardi e di Kafka, Pagnanelli non è certo uno scrittore negativo (se pure mai tra i veri<br />

scrittori ne sono esistiti), ma uno scrittore della negazione.<br />

Vediamo allora solo qualche esempio di queste immagini e definizioni, sempre ricordando come<br />

lřorientamento di Preparativi per la villeggiatura sia estremamente coerente e unitario, il rigore del<br />

suo dispositivo di significazione inflessibile. Non una stazione, non un paesaggio-passaggio, se non<br />

come consapevole e momentanea eccezione-illusione, si sottrae alla legge della processione<br />

dellřimmagine dal e verso lřoblio, la cecità e il silenzio, che costituiscono poi i terminali a cui tutto<br />

viene commisurato, il polo a cui tende lřago magnetico della bussola di Pagnanelli. Al che non può<br />

non risultare paradossale, se non perfino contro-natura, una significazione che ha come parametri<br />

del senso dei non-significanti: «ambirebbe le acque inarrivabili, / nonostante la bassezza, e del tutto<br />

incoscienti, / inconsce per opacità, per esilio cromatico» (la bocca antiquaria non sillabante). E<br />

dunque: perdita della memoria: «la beanza della dimenticanza» (Nord), lřauspicio di passare la<br />

«porta» oltre cui «si può dimenticare e essere dimenticati» (cimitero di guerra); una perdita che<br />

riguarda direttamente la letteratura, che anche e tanto più per Pagnanelli proprio della memoria è la<br />

depositaria principale: «(i detti memorabili lřinghiotte il sonno, le acque della destinazione non ci<br />

sono state destinate)», scrive al termine nellřultimo dei (quattro motivi) numerati però in ordine<br />

decrescente, come un conto alla rovescia che procede verso lo zero. Lř«acqua che ha memoria»,<br />

65<br />

65


così anche la si definisce in come suggerite dall‟acqua, un breve testo giocato di sponda con la<br />

sereniana Giardini, una poesia degli Strumenti umani. Se questa meta non solo non è data ma si<br />

riconosce come inesistente, il senso del viaggio Ŕ come direzione e come significato Ŕ viene<br />

letteralmente a mancare, il movimento non conduce da nessuna parte. In Preparativi per la<br />

villeggiatura Pagnanelli sfoglia via via tutti i suoi principali sogni e trasognamenti, le sue<br />

costellazioni simboliche e i suoi paesaggi dřelezione, ma, come detto, i diversi luoghi e figure<br />

edeniche vengono evocati per essere abbandonati e dissolti, attraversati e consumati, uno di seguito<br />

allřaltro. Volta la carta e, ricordando Sereni, un altro paesaggio gira e passa. Per sempre. Tutto<br />

viene scritto per essere cancellato (E tu che sol per cancellare scrivi, si potrebbe dire ricordando<br />

Dante). Tuttavia, è proprio questa ultimativa chiamata a raccolta a rendere il libro così denso per<br />

mobilità e fertilità dřimmaginazione, anche se integralmente disposta in chiave di sconfessione, di<br />

palinodia. I Preparativi, in sostanza, sono ricchi e complessi, vividi dřattenzione e ingegnosi, ma,<br />

soprattutto, sempre straordinariamente presenti a se stessi.<br />

Lo stesso si può dire del fondamentale motivo musicale. In Preparativi per la villeggiatura<br />

Pagnanelli suona musiche sommesse e dolcissime, modula come forse non aveva mai fatto il suo<br />

strumento espressivo, la sua lingua lenta e umida, quasi fosse fatta vibrare dentro a un acquario, per<br />

testimoniare anzitutto a se stesso che ogni musica, e così ogni lingua, ogni scrittura, anche la più<br />

sommessa e silenziosa, non è che unřillusione consolatoria, un inganno da scribi per compensare il<br />

disincantamento del mondo Ŕ il disincantamento, alla lettera: gli uccelli-dei (anatre, cigni, oche,<br />

«uccelli di specie lontana») che, in alcuni tra i passaggi più belli dei Preparativi, se ne vanno<br />

portando con sé, non a caso, la memoria (della gioia, verrebbe da dire con Sereni). Un passaggio per<br />

tutti, ricordando soltanto che è Pagnanelli stesso a parlare più volte di passaggio (il «passaggio / dei<br />

limpidi cigni che tingono le acque malinconiche»):<br />

il cielo che le anatre portano con sé,<br />

quando sono la memoria della torba<br />

sporgente a fili sulle labbra<br />

della primavera<br />

quando imbucano le solitudini del mare<br />

e il senso posseggono di essere esilî privilegiati<br />

resti del corpo naturale<br />

figlie tutte dellřorfanità<br />

Dicevo però del motivo musicale: «Ma il silenzio non sapevo / che era lřoro delle vere bocche»,<br />

in A se stesso (contro); oppure, nel modo più netto e definitivo: «la musica silenziosa è una<br />

riduzione della lingua, non il suo azzeramento. La morte sta nellřeliminazione di ogni suono e<br />

residuo linguistico», ancora in cimitero di guerra. Siamo ormai nei pressi della fine della traversata<br />

e ogni attrattiva, ogni possibile attaccamento è stato come svuotato dal di dentro. Anche la musica<br />

più prossima al grado zero (della morte) non è comunque attendibile, affidabile, proprio come non<br />

lo erano le tante musichette, più o meno perfette, più o meno incantate e appaganti, che il<br />

protagonista dei Preparativi ha incontrato e salutato lungo il cammino. Il pifferaio magico a cui<br />

ubbidisce questa scrittura non manda alcun suono o rumore, proprio come il suo paesaggio è un<br />

paesaggio cieco, un paesaggio senza paesaggio: «La musica dei fiati, anche, si dilegua presto. / La<br />

natura ritorna nella pianura» (quando s‟allietano purpurei); o ancora: «Siepi e stagni hanno affilato<br />

le geometrie invernali. Vřè chi passa indenne tra paraste spogliate e nemmeno sospetta la musica<br />

mortale». Che è poi, ancora una volta, una musica senza suono, una musica senza musica, proprio<br />

come quella che già Spontini, nella poesia a lui dedicata (lo stilus tragicus non appartiene al genere<br />

della villeggiatura), era stato capace di suonare, nella consapevolezza Ŕ comico-farseca,<br />

propriamente Ŕ della vanità del viaggio.<br />

66<br />

66


Prima di concludere, voglio tornare sulla natura integralmente antifrastica di questa poesia, che<br />

riguarda anche, se non anzitutto, la pratica stessa della scrittura poetica. Alcune delle poesie più<br />

riuscite dei Preparativi Ŕ come bè, non ardono di nessuna giovinezza (gli invisibili), oppure figlia<br />

d‟una luce increata, imitazione dell‟amore (se, come mi sembra, i versi sono rivolti alla poesia, a<br />

una poesia la cui esistenza coincide significativamente con quella della vita stessa), o cimitero di<br />

guerra Ŕ mandano la loro strana, ma irrecusabile luce, proprio dallřattrito con il loro stesso<br />

procedimento, e processo, di auto-negazione. Anche qui basta soltanto la conclusione della prima:<br />

«nessuno che non sia colpevole, pensa alla trovata della poesia». Del resto, è la poesia di Pagnanelli<br />

in quanto tale ad essere impostata sullřantinomia e sulla reciprocità inversa tra mito dello specchio<br />

(la situazione-specchio) e mito dřacheronte (la condizione acherontica), cioè tra paesaggio e<br />

passaggio, pozza e fiume (anche, insistentemente, nella forma del sangue rappreso e<br />

dellřemorragia), tra geometria e scorrevolezza, rigore e fluidità, narcisismo e rifiuto di sé,<br />

compiacimento e severità, dormiveglia e attenzione, posto del riposo e attraversamento, e così via.<br />

Una poesia di porte che non sono porte e dřimmagini che non hanno un centro; una poesia di<br />

epigrafi incredibilmente morbide, umide, come scritte nellřacqua. È proprio questo, del resto, a<br />

colpire di più. Mi riferisco a come Pagnanelli abbia risolto questa sua ambivalenza e potremmo dire<br />

questo suo equivoco costitutivo (e consapevole) in una fusione stilistica che, se ha innumerevoli e<br />

dichiarati debiti, risulta senzřaltro unica. Tutti gli elementi della contrapposizione binaria che ho<br />

elencato prima, trovano infatti un equivalente espressivo molto preciso, come dichiarato a tutta<br />

prima nelle auto-definizioni poetiche, tante volte formidabili: «eppure lacrime (di coccodrillo?)<br />

correvano, come su fogli di vetro» (sono le sue nugae, queste: liquide eppure di ghiaccio); oppure:<br />

«lo stilus tragicus non appartiene al genere della villeggiatura, buoni forse gli appunti sulla spinetta<br />

negli scossoni nei sobbalzi del viaggio. Lo stanziamento, anche provvisorio, ha virtualità comicofarsesche.<br />

La commedia è lřansa che ci contiene»; o ancora: «le carte arrotolate / di un passatempo<br />

scambiato per valore, / segni (per essere giusti) di un rigore / insanguinato», che è poi, almeno da<br />

questo punto di vista, lo stigma di Pagnanelli forse più noto e citato.<br />

Credo allora che con Preparativi per la villeggiatura Pagnanelli abbia inteso scrivere qualcosa<br />

come un suo poema totale, dove lřaggettivo non si riferisce allřampiezza del raggio dřazione<br />

poetica, ma alla particolare qualità espressiva, alla lingua di queste poesie e prose poetiche, chřè<br />

insieme, come detto, fluida e ferma (lřinverno come stagione stilistica su cui più di tutti Pagnanelli<br />

ha insistito), mobile come lřimmaginazione e rigorosa come la legge (la Legge, ancora con Kafka).<br />

Totale, dunque, nel senso di una indistinzione tra prosa e poesia. Viene in mente quanto aveva<br />

scritto nei versi iniziali di un testo dřAtelier d‟inverno: «rubricato in un blocco bianco lřappunto<br />

sottile / graficamente delle fine desiderata degli stili / (Pasolini, forse Passione e ideologia…)» (il<br />

saggio di Pasolini a cui si fa riferimento credo sia La confusione degli stili); oppure la riflessione<br />

critica sullřoscillazione tra tonalismo e atonalismo nella poesia di alcuni grandi antecedenti,<br />

Bertolucci e Sereni, ad esempio; a ancora, sempre riguardo a Sereni poeta e prosatore (o meglio, a<br />

questo punto, poeta-prosatore), le tante osservazioni sul tentativo appunto di una poesia-prosa<br />

totale, tra Stella variabile e Il sabato tedesco. «Il probante esempio di una indistinzione, nel nome<br />

della poesia, tra lirica o romanzo o prosa de Il sabato tedesco»…; «la lingua» che in Stella variabile<br />

«sorpassa la medietà del quotidiano e insegue la lontana perfezione di una prosa da romanzo totale e<br />

conclusivo»…; «le distinzioni di genere scompaiono»… Bene, qualcosa di simile Pagnanelli lřha<br />

perseguito e, con i suoi mezzi, con quello che era, lřha sicuramente ottenuto, fondendo tutte quante<br />

le sue istanze e pressioni, dalle più crudamente esistenziali a quelle letterarie e culturali (che non<br />

erano poche), in un discorso poetico curvo, flessibile, in cui tutto passa come al rallentatore, e in<br />

una lingua liquida, che procede senza strappi, un poř colloidale, ma che improvvisamente può farsi<br />

tagliente come il ghiaccio. Del resto, Pagnanelli Ŕ questo almeno è il mio parere Ŕ è stato lřautore<br />

delle ultime generazioni, diciamo delle generazioni seguite ai grandi maestri del secondo<br />

Novecento, che sia riuscito a unire più efficacemente, con maggiore consapevolezza e qualità di<br />

risultati, la poesia della piccola-grande ironia quotidiana e metafisica (il tardo Montale, Giudici; più<br />

tardi, ma ormai dopo Pagnanelli, arriverà anche lřultimissimo Caproni) a quella ancora votata se<br />

67<br />

67


non al grande stile, allřoscillazione o al contrasto appunto tra tonalismo e atonalismo (Sereni e<br />

Bertolucci, come detto). La poesia di Pagnanelli in fondo è proprio questo: un luogo indecidibile tra<br />

interno ed esterno, tra distacco e passione, tra stanzetta e apertura cosmica, o appunto, ancora una<br />

volta, tra passaggio e paesaggio.<br />

68<br />

Roberto Galaverni<br />

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“Non vorrà venirmi a dire che Tiresia è Lei?”. Tiresia, narratività e tragico<br />

Le coordinate estreme della riflessione poetica di Mesa e, di conseguenza, della sua prassi<br />

artistica sono state fissate da Mesa stesso nelle righe che seguono: «ci si imbatte in una questione<br />

cruciale della letteratura occidentale: il conflitto tra volontà-desiderio di autoannullamento, o di<br />

scomparsa, o di socializzazione della creatività Ŕ di Ŗmorte dell'arteŗ, per così dire Ŗguidataŗ […] o<br />

di implicita vocazione al Ŗmonumentoŗ, per antonomasia statuario e statuale»(1). Poco oltre: «se<br />

nell'abbandono dell'arte (reale, non Ŗpoetizzatoŗ, non Ŗestetizzatoŗ) si annida un demone<br />

teleologico, nell'accettazione del Ŗcontinuare a direŗ può sempre insinuarsi Ŕ ed è forse inevitabile Ŕ<br />

la sindrome (tipica soprattutto del poeta, il produttore letterario più emarginato dal mercato) da<br />

ambizione […] al monumento»(2).<br />

Proprio all'interno di questa dialettica (senza soluzione) tra volontà di autoannullamento e<br />

vocazione al monumento si muove dunque l'intera opera dell'autore, sia nel suo complesso, sia nei<br />

suoi singoli episodi. L'opera di Mesa, e in particolare l'opera poetica(3), costituita da una serie di<br />

fondamentali Ŗlibri di poesiaŗ(4), incorpora così sia la coscienza dell'impossibilità di un'assoluta<br />

compiutezza, sia una determinazione alla perfezione e alla compiutezza Ŗmonumentaleŗ (detto in<br />

altri termini, a una perfetta chiusura formale). Da subito questa scissione è inquadrata da Mesa entro<br />

i confini della categoria, storica al massimo grado, di Ŗletteratura occidentaleŗ: così da dimostrare<br />

come una simile problematica non sia un universale ma riguardi una particolare episteme<br />

storicamente determinata, la stessa che ospita le riflessioni di Mesa. E proprio questa paradossale<br />

autoinclusione (in una sorta di prigione fatta a forma di mise-en-abyme) è la principale causa di una<br />

simile dialettica tra compiutezza e incompiutezza. È una dialettica tragica: la letteratura cui si<br />

riferisce Mesa ha senz'altro il suo culmine cronologico nell'epoca del modernismo, in cui anche<br />

Mesa problematicamente sente di situarsi; e gli autori che più volte ha indicato come canonici per il<br />

suo modernismo sono tragici, come Celan, o annullano la distinzione tra comico e tragico facendo<br />

in modo che il tragico sussuma il comico (Beckett)(5).<br />

Lo sforzo di autocoscienza dell'autore dimostra che è in gioco, in questa dialettica, un problema<br />

di Ŗverità eticaŗ, da Mesa così definita, attraverso Wittgenstein: ŖL'estremo rigore linguistico di<br />

Wittgenstein è rigore etico, verso conoscenze possibili, e un possibile bene. Un linguaggio dove le<br />

parole, non potendo attingere alla verità, cercano la precisione, la sincerità: verità eticaŗ(6). La<br />

verità etica è dunque un volontario arretramento rispetto all'idea di una verità ontologica, ritenuta<br />

ormai praticamente, empiricamente inattingibile. Si tratta, naturalmente, di una inattingibilità<br />

storicamente determinata, tale da sfociare, ancora una volta, in forme di ineludibile incompiutezza,<br />

cui corrisponde lo sforzo di pervenire a un minimo di senso condiviso: uno sforzo, Mesa lo sa bene,<br />

necessario e destinato al fallimento.<br />

Nella configurazione storica dell'epoca in cui si situa Mesa, ciò che soprattutto è in gioco è la<br />

necessità e l'impossibilità di essere all'altezza dei propri tempi, determinata dalla dimensione poststorica<br />

in cui versano le estetiche contemporanee. Come scrive Arthur C. Danto: Ŗsi è aperto un<br />

periodo definito dall'assenza di unità stilistica, o almeno di un'unità da elevare a criterio e da<br />

prendere come punto di partenza per acquisire una facoltà di riconoscimento; vengono meno quindi<br />

le condizioni per un indirizzo narrativo. Per questo motivo preferisco parlare di arte poststorica.<br />

Qualunque forma di arte sia stata prodotta nella storia, potrebbe essere emulata e rappresentare un<br />

esempio di arte poststorica. […] Da un certo punto di vista, quello contemporaneo è quindi un<br />

periodo di disordine informativo, una condizione di entropia estetica totale. È però allo stesso tempo<br />

una fase di libertà praticamente assoluta. Oggi non si può più parlare di arte che ricade al di fuori<br />

della storia; tutto è permessoŗ(7). Anche Mesa ha sentito questa problematica: Ŗè ipotizzabile una<br />

scrittura che esca dalle secche endoletterarie e che possa, senza scadere in un neorealismo<br />

massmediatico, rimotivare la «produzione di senso» proprio nel disincagliarla dalla «produzione di<br />

nuovo»?ŗ(8). Tuttavia, la risposta di Mesa è proprio quella di mettere in questione il Ŗtutto è<br />

permessoŗ (così simile all'utopia éluardiana del pouvoir tout dire, ma trasposta in un fallimentare<br />

69<br />

69


anarchismo al soldo dell'economia di mercato) rilevato da Danto. Lo scrittore deve avvalersi degli<br />

Ŗstili di volta in volta ritenuti più consoniŗ(9), cosciente del fatto che ŖL'agnizione, il ri-conoscere,<br />

riguarda il rapporto tra verità e linguaggio. Riguarda le forme. […] Ogni parola deve essere<br />

ripronunciata, riconnotata. Gli scrittori lo hanno sempre fatto. Devono farlo, […] sapendo che non<br />

basta riconnotare, che occorre anche […] legare: cercare forme...ŗ(10). La ricerca di forme, lo si<br />

vede bene, per Mesa è tutt'altro che libera: è necessitata e vincolata dall'esigenza della verità etica e<br />

dalle risorse del proprio mezzo espressivo. Se molta arte contemporanea sembra volere in qualche<br />

modo non essere interpretata, ma semplicemente rimandare a sé stessa, lo statuto dell'arte del<br />

modernismo e in particolare delle opere di Mesa è quello, ancora, di opere che richiedono di essere<br />

interpretate, decifrate; non rimandano esclusivamente a sé stesse, ma hanno un valore metaforico;<br />

non sono indici, come si vorrebbero moltissime opere contemporanee, ma simboli. E questo anche e<br />

soprattutto perché Mesa ha un rapporto critico con la propria stessa contemporaneità, che mette già<br />

in conto l'imperfezione statutaria dell'opera d'arte.<br />

La letteratura deve dunque prendere sul serio la particolare congiuntura in cui ci si trova, da un<br />

lato, e dall'altro incamerare al proprio interno gli elementi stessi della discussione della propria<br />

insufficienza, della propria falsificabilità, della propria palinodia: la denuncia stessa della propria<br />

insufficienza a esperire e confrontarsi, anche agonisticamente, con i propri tempi. Già la scrittura<br />

neoavanguardistica ha perduto la capacità di dialogare con il passo dei tempi: ŖQuello che hanno<br />

fatto le cosiddette neoavanguardie, è stato in parte possibile perché esistevano delle «tecniche» di<br />

potere, comprese quelle fondamentali dell'occultamento e della falsificazione, abbastanza perspicue,<br />

nelle loro forme linguistiche e ideologiche, da consentire il «disvelamento» e la critica della «falsa<br />

coscienza»ŗ(11). Oggi, evidentemente, sostiene Mesa, la critica della falsa coscienza non è più<br />

possibile.<br />

Se un libro come La condizione postmoderna, da Mesa attentamente preso in considerazione,<br />

anche in modo critico(12), ha potuto raccontare che l'epoca attuale è quella di una caduta delle<br />

grandi narrazioni, e quindi, in ultima analisi, post-storica, difficilmente può sfuggire il fatto che la<br />

poesia di Mesa, a fronte di un'impossibilità di composizione del senso della storia, ormai<br />

frammentata in mille piccole narrazioni prive di ratio apparente e forse situate su livelli di<br />

temporalità differenti e disarticolati, ha sempre di più accentuato la componente macrotestuale dei<br />

suoi libri di poesia, contestando così in corpore vili la dimensione della frammentazione del senso.<br />

Del resto, elementi di narratività, magari sparsa e deflagrata, sono reperibili a più livelli all'interno<br />

degli opera omnia di Mesa: a cominciare, è evidente, da un testo come Poesie per un romanzo<br />

d'avventura, per continuare con personaggi finzionali come il Fredo di Poema provvisorio. E,<br />

ovviamente il Tiresia del poemetto eponimo(13).<br />

Questi macrotesti contengono al loro interno anche il principio opposto, quello della<br />

frammentazione: ma è come se si sforzassero di imprigionarlo e sussumerlo proprio attraverso la<br />

costruzione di una totalità (che sia però anche autocritica). Mesa è stato, insomma, un grande<br />

inventore di macrotesti; il che lo ha portato appunto a sperimentare all'interno della sua opera una<br />

produzione quanto mai vitale di forme e anche di forme di narratività. Da questo punto di vista, il<br />

Tiresia è forse il suo testo più esemplare: un libro che rappresenta perfettamente la presenza di<br />

istanze dialetticamente contrapposte, quella verso una radicale organizzazione macrotestuale, e<br />

quella a negarla, a distruggerla, a porla in questione.<br />

Tiresia(14) (titolo perfetto per una tragedia classica), nato e pensato come opera per poesia e<br />

musica elettronica (realizzata da Agostino Di Scipio) è in effetti ricchissimo di elementi che<br />

testimoniano uno sforzo di organizzazione macrotestuale estremamente autoconsapevole. A<br />

cominciare dal titolo: che intraprende uno organizzazione del senso del testo a livello della<br />

dimensione intertestuale, pour cause evocando, in absentia, una serie di intertesti tragici, tra cui<br />

spiccano Edipo Re e Antigone, e insieme, proietta sull'opera la presenza di protagonista finzionale<br />

univoco che, imponendo all'opera, pragmaticamente, un certo gradiente di narratività, funge da<br />

organizzatore macrotestuale. Al titolo segue pure un'indicazione cronologica molto precisa: Ŗ22<br />

luglio 2000 Ŕ 24 gennaio 2001ŗ (P, 343), mentre normalmente, in P, i libri raccolti recano la<br />

70<br />

70


semplice indicazione delle annate di redazione (anche per il successivo Nun). Ora, per un autore che<br />

ha collaborato a un volume come Scrivere dal fronte occidentale(15), sottolineare che la redazione<br />

di Tiresia è avvenuta prima dell'11 settembre vale a sottoscrivere, per il testo, una petizione di<br />

appartenenza a un'epoca storica distinta dalla attuale, o per lo meno a criticare l'idea che l'11<br />

settembre abbia costituito un reale momento di cesura storica. Resta che l'esperienza dell'intero<br />

libro va inquadrata necessariamente nell'ambito di una lettura critica della storia contemporanea e<br />

del presente che sfoci in una definizione critica dell'idea di contemporaneità.<br />

Il titolo del libro, inoltre, è bipartito, presentando quello che con ogni evidenza si può definire un<br />

sottotitolo: Oracoli e riflessi. Quella del sottotitolo dei libri di poesia è una storia tutta<br />

novecentesca, in parte ancora da scrivere; ma si può tuttavia dire che ogni volta che troviamo in un<br />

testo poetico un sottotitolo, questo testimonia di un tentativo di organizzazione macrotestuale che<br />

attinge a modello altri generi testuali, spesso quello narrativo, talvolta il genere saggistico. Il<br />

sottotitolo del Tiresia non rimanda a una designazione metaforica, così come avverrebbe se fosse,<br />

poniamo, Romanzo. Con Oracoli e riflessi Mesa fa riferimento a due tipologie testuali<br />

perfettamente riconoscibili: due forme che intervengono a strutturare l'opera; due ulteriori<br />

organizzatori macrotestuali(16). (Ovviamente Oracoli è anche termine tematicamente connesso con<br />

lo statuto del protagonista del testo, cioè l'indovino Tiresia, il che è ovvia e ulteriore testimonianza<br />

di una volontà di organizzazione macrotestuale serratissima. Più difficile è invece determinare il<br />

senso di un termine come Riflessi).<br />

Gli Oracoli sono individuati da un titolo, preceduto da un numero romano, e chiusi da un verso<br />

in corsivo; quanto ai Riflessi, si tratta di testi privi di titolo, caratterizzati da una numerazione in<br />

numeri arabi: sicché, nell'economia del testo, è evidente che il ruolo di maggior importanza lo<br />

espletano i primi. Gli Oracoli sono tutti costituiti da strofe di 22 versi, seguite da un monostico<br />

finale in corsivo; mentre la misura strofica dei Riflessi è più irregolare. I versi degli Oracoli<br />

eccedono spesso, anche di molto, la misura endecasillabica, raggiungendo con facilità le 16 sillabe,<br />

e superando spessissimo le 12 sillabe (ma scendendo anche fino a 9 sillabe), mentre quelli dei<br />

Riflessi sono di misura molto più breve, spesso veri e propri versicoli. Il macrotesto presenta,<br />

nell'ordine, due Oracoli, tre Riflessi, due Oracoli, tre Riflessi, un ultimo Oracolo infine seguito da<br />

un testo in corsivo che riprende i corsivi dei monostici isolati che chiudono gli Oracoli. La ricerca<br />

di regolarità è evidentissima.<br />

Come si diceva, gli Oracoli sono costituiti da stanze di 23 versi. Ma queste stanze sono<br />

caratterizzate da ulteriori segnali di regolarità: presentano infatti partizioni interne molto simili tra<br />

di loro, e numerosi effetti di simmetria. Per esempio, i primi tre Oracoli presentano una pausa<br />

sintattica forte (punto fermo) in punta del sesto verso, mentre gli ultimi due la presentano alla fine<br />

dell'ottavo. Inoltre, i primi due Oracoli mostrano una struttura versale che aumenta di sillabe fino al<br />

terzo verso, per poi decrescere fino al sesto, con quello che sbrigativamente definirò novenario<br />

sdrucciolo (se così si può chiamare questa misura versale) e un settenario(17). Allo stesso modo, a<br />

questo primo raggruppamento di sei versi fa seguito un secondo raggruppamento di otto versi, e un<br />

terzo, giocoforza, di otto, senza contare il monostico finale in corsivo separato da un bianco<br />

tipografico. Così avviene anche nel terzo degli Oracoli. Per quanto riguarda gli ultimi due, la<br />

partizione sintattica del testo fa individuare, come rotture sintattiche condivise da entrambi i testi,<br />

una pausa al termine dell'ottavo verso e una al termine del quattordicesimo (trascurando un'altra<br />

pausa forte posta al termine del settimo verso; mentre il quinto oracolo ha troppe pause forti per<br />

poter essere ricondotto in modo univoco al tipo del quarto, ma ha pause forti dal punto di vista<br />

sintattico in tutte le stesse sedi del quarto oracolo).<br />

Ulteriori effetti di simmetria avvengono sia a livello di significante (ripetizione in posizione<br />

tonica di medesime sillabe), sia a livello sintattico (anafore, riprese lessicali o simmetrie orchestrate<br />

sugli aspetti semantici). Un esempio evidente fin dai primi due Oracoli: la collocazione, in 1.<br />

ornitomanzia, in principio di primo e settimo verso, di verba sentiendi alla seconda persona<br />

singolare dell'imperativo (vedi / senti), cui corrisponde, nel secondo Oracolo, nelle stesse sedi, la<br />

ripresa del lessema fumo (qualcosa che impedisce la visione), in un testo in cui la dimensione della<br />

71<br />

71


vista è immediatamente soggetta a una sorta di accecamento (Ŗbruciano le mandorle degli occhiŗ).<br />

Anche tra Oracoli e Riflessi notiamo poi simili tipi di legature macrotestuali; un semplice esempio:<br />

se il secondo Oracolo si chiude su un verso come «Tu se sai dire, dillo, dillo a qualcuno», il primo<br />

dei Riflessi si apre, con un espediente che ricorda quasi le coblas capfinidas, su «a ridirti che<br />

cosa?», sfruttando a fondo l'annominatio del verbo dire anche nei versi seguenti. Ma gli esempi<br />

potrebbero essere davvero molti di più.<br />

Una simile organizzazione formale del testo (sia a livello di figure del significante, sia a livello<br />

di figure di sintassi, sia a livello di figure di significato) testimonia di una tale ricerca di accuratezza<br />

linguistico-formale da indurre a sostenere, nonostante il lessico appaia antisublime, che lo stile di<br />

Tiresia è uno stile sublime. Uno stile sublime che sostituisce al lessico alto tradizionale della<br />

tragedia un lessico corporale o organico (quasi a richiamare i materiali oggi impiegati nell'arte<br />

contemporanea più tesa e drammatica). E, se si aggiunge che la nota di chiusura rimanda a referenti<br />

extratestuali di tipo luttuoso, la testualità di Tiresia può senz'altro definirsi, anche se in modo sui<br />

generis, una testualità di tipo tragico.<br />

Gli Oracoli svolgono una narrazione latente, dislocata attraverso una serie di eventi storicizzabili<br />

e storicamente determinati, puntualmente evidenziati nella nota di chiusura: cosicché il testo trova<br />

un'ulteriore elemento di inquadramento macrotestuale negli effetti di soglia (Epigrafe iniziale e<br />

Nota). L'epigrafe sembra suggerire dunque un Tiresia unico protagonista (eterno, sottratto alle<br />

catene del tempo) che accede alla visione di una serie di eventi luttuosi attraverso la storia, mentre<br />

la nota esplica quali siano gli eventi, solo allusi ma altrimenti inattingibili all'esperienza del lettore.<br />

Di questi eventi Mesa ha sottolineato che sono Ŗveri, realmente accadutiŗ(18). Dal momento che<br />

l'epigrafe si dimostra, se letta con il testo a fronte della nota di chiusura, anche un modo di<br />

interrogazione sull'essenza del male, storico e non, che Tiresia attraversa, è proprio questa epigrafe<br />

a caricare di significazione tragica tutto il testo(19).<br />

Il tu adottato da Mesa nell'epigrafe induce a interrogarsi anche sulla situazione di enunciazione<br />

del testo (altro elemento di organizzazione macrotestuale): in quanto questo tu pare esulare, come<br />

modalità di funzionamento, dalle tante seconde persone della tradizione poetica italiana (poniamo,<br />

Montale), e deludere le attese del lettore di ritrovare, come soggetto d'enunciazione del poemetto,<br />

proprio quel Tiresia che viene eletto a protagonista dal titolo del libro(20). L'apparente continuità del<br />

riferimento alla seconda persona singolare potrebbe far pensare a una unica voce di personaggio<br />

locutore, mentre, in realtà, la scena d'enunciazione è del tutto, ma coerentemente, frammentata tra<br />

più voci. Inoltre, il tu, nel testo lirico al contempo finzione primordiale di autointerpellazione e<br />

istituto tradizionale di interpellazione dell'altro (sia esso semblable come l'ipocrita lettore<br />

baudelairiano, sia un interlocutore immediato convocato nel teatro d'enunciazione della poesia), è<br />

adottato come modalità di comunicazione anche all'interno dei Riflessi, che tuttavia, con un<br />

continuo passaggio di verbi da una seconda persona a infiniti nominali a terze persone singolari<br />

impersonali, tende a trasformare il dispositivo di enunciazione in qualcosa di spersonalizzato e<br />

plurale, decisamente più simile rispetto allo stile enunciativo della restante poesia di Mesa, da cui<br />

Tiresia complessivamente si allontana.<br />

In ogni caso, diversamente da come ci si potrebbe attendere, a parlare non è, propriamente,<br />

Tiresia: il testo per tutto il tempo mette in scena una voce e un soggetto d'enunciazione (anzi, per<br />

essere più precisi, più voci e più soggetti d'enunciazione) che si rivolgono direttamente a Tiresia.<br />

Chi sia il locutore che indirizza le proprie parole al protagonista del poemetto, sarebbe difficilissimo<br />

dirlo, ma la trascrizione di una lezione tenuta dall'autore in una scuola genovese ci consente di<br />

identificare con certa coerenza i soggetti parlanti nel testo. Mesa infatti afferma, riguardo al secondo<br />

degli Oracoli:<br />

Allora io Ŕ Tiresia Ŕ ho pensato dřimmaginare che cosa succedeva nella mente di questa bambina<br />

costretta a lavorare per costruire bambole, desiderando magari di giocare con le bambole, e<br />

trovarsi dřimprovviso dentro questo rogo e ... per me non è stato facile cercare di... . […] sarebbe<br />

stato facile descrivere il fatto così come lo avevano raccontato, molto più difficile cercare di<br />

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immedesimarsi in una persona concreta e immaginare di essere una bambina come te, essere lì,<br />

costretta a fare quella vita; allřimprovviso la tua vita viene davvero bruciata a tutti gli effetti; già<br />

lo era, perché non era una vita piacevole Ŕ sicuramente Ŕ per di più viene sacrificata in questo<br />

modo soltanto per i profitti di alcuni (Interazioni).<br />

Mesa fornisce anche la razo vera e propria della poesia: un incendio avvenuto a Bangkok, in una<br />

fabbrica di bambole, caratterizzata dallo sfruttamento del lavoro infantile, uccide le operaie<br />

bambine della fabbrica: ŖNel marzo 1993, a Nakhon Pathom, in Thailandia, si incendia e crolla una<br />

fabbrica di bambole. Cinquecento delle quattromila operaie, tutte ragazze, molte minorenni, che vi<br />

lavoravano in condizioni quasi schiavistiche, muoiono nel rogoŗ (P, 358). Ciò che colpisce<br />

maggiormente Mesa è che Ŗlřunica cosa che viene detta dai dirigenti della fabbrica in quel momento<br />

è rivolta agli azionistiŗ, e consiste nell'invito a Ŗnon preoccuparsi perché i loro soldi erano garantitiŗ<br />

(Interazioni). La poesia mima dunque la voce di una delle vittime di questo olocausto anonimo, che<br />

si rivolge direttamente a Tiresia; ma possiamo ulteriormente inferire che sia la voce di Tiresia che<br />

riproduce a sua volta, medianicamente, o meglio, attraverso pratiche divinatorie (in questo caso la<br />

piromanzia), la voce della bambina, insegnandoci con questo a vedere meglio il nostro passato: ŖLa<br />

caratteristica di questo Tiresia era che a volte le sue predizioni Ŕ i suoi vaticini Ŕ non riguardavano<br />

tanto il futuro quanto il passatoŗ (Interazioni). In questa struttura a scatole cinesi, in questa tensione<br />

a inquadrare metatestualmente ogni elemento del testo (addirittura la voce della bambina risuona<br />

attraverso quella di Tiresia, che a sua volta buca lo schermo finzionale per risuonare attraverso<br />

quella dell'autore empirico), è possibile ravvisare uno degli elementi di maggior interesse del libro,<br />

assieme al tentativo di svolgere una riflessione, figurata, sull'essenza della temporalità. Del resto è<br />

evidente che la tensione metatestuale e l'interrogazione sulla temporalità sono intimamente<br />

connesse: la creazione di cornici metatestuali (quasi concentriche) serve a inquadrare e rilevare<br />

diversi livelli di temporalità e storicità all'interno del testo, spesso irrelati gli uni rispetto agli altri.<br />

È ragionevole estendere una simile situazione di enunciazione a tutti gli Oracoli, identificando,<br />

di volta in volta, con una vittima l'enunciatore di ciascuno dei testi (per l'individuazione delle<br />

occasioni si rimanda ovviamente alla nota di P, 358): la vittima si rivolgerebbe dunque direttamente<br />

a Tiresia. C'è poi un'identificazione ulteriore che emerge dall'autocommento di Mesa poc'anzi<br />

citato: Mesa stesso si identificherebbe con Tiresia. Ma è certo necessario valutare con estrema<br />

attenzione una simile dichiarazione.<br />

La voce di soglia (ŖDevi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo discapitoŗ), racchiusa tra apici e<br />

rimandante quindi a una situazione di enunciazione differente da quella del resto del testo, adotta<br />

apparentemente lo stesso piano d'enunciazione in seconda persona degli Oracoli, e per di più è in<br />

corsivo, come i versi che chiudono ognuno degli Oracoli stessi. Proprio questo tipo di<br />

organizzazione macrotestuale induce il lettore a disporre su un unico piano le tante voci che si<br />

manifestano nel testo; e ad aprire in un certo qual modo le virgolette su tutta la testualità del Tiresia.<br />

In questo senso, il corsivo serve a inquadrare l'uscita dal lirico verso il metatestuale: serve a<br />

inquadrare metatestualmente ciò che appare unicamente lirico, e a problematizzare le frontiere, a<br />

questo punto, tra finzionale e reale-referenziale; rivelando ancora una volta questa struttura a scatole<br />

cinesi cui si è fatto cenno prima, e fornendo al lettore delle pinze attraverso cui disporsi a<br />

maneggiare con cautela la testualità di Tiresia.<br />

Tiresia è insomma un testo in cui emerge una dimensione finzionale forte, ma connotata da<br />

figure continue di mise-en-abyme vòlte a operare uno scarto continuo di significato, nel leggere e<br />

accostarsi al senso dei minimi enunciati. Lo scarto operato serve, ovviamente, a mostrare anche<br />

come e quanto difficile sia, per la poesia, scardinare la dimensione finzionale che vela ogni testo:<br />

non a caso lo stesso statuto dell'enunciazione riproduce una finzione di voce che si rivolge a una<br />

finzione di personaggio.<br />

A voler ricostruire ed esplicitare la finzione narrativa presupposta da Tiresia, dovremmo dire che<br />

nel libro l'indovino, un personaggio, di finzione, e di una finzione antica, lontana nel tempo e nello<br />

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spazio dai casi descritti, muovendosi attraverso il tempo, compie una serie di vaticinii riguardo a<br />

fatti emblematici e rimossi della nostra contemporaneità. Ora, tutto ciò, come si diceva, avviene in<br />

una seconda persona che vanifica ogni tentativo di identificazione immediata: Mesa è Tiresia, ma<br />

per bocca di Tiresia parla una bambina bruciata in un rogo a Bangkok; e del resto, la voce di Mesa<br />

si rivolge a sé stesso, cioè Tiresia, in una seconda persona(21) che da subito marca una forma di<br />

scissione riflessiva tra autore empirico e suo portaparola nel testo.<br />

Tutto questo induce a mettere in questione un'identificazione, benché autoriale, troppo diretta tra<br />

Mesa e Tiresia. Inoltre, la compresenza sul medesimo piano temporale di un personaggio del mito<br />

greco classico, con fatti di cronaca rigorosamente documentabili e documentati, ma posti in una<br />

relazione del tutto anacronica con quel mito, rende la narrazione implicita del testo del tutto<br />

implausibile, realisticamente parlando, con l'effetto di spostarne il senso su di un piano ulteriore,<br />

allegorico, che induce immediatamente a operare l'identificazione Tiresia/Poeta, più che non<br />

l'identificazione Mesa/Tiresia(22).<br />

Infatti, se è vero che nel Novecento esistono svariati tipi di rimando allegorico (uno tradizionale,<br />

uno benjaminiano, e uno metatestuale, in cui la costruzione finzionale rinvia alla struttura formale<br />

dell'opera(23)), il tipo di rimando allegorico attivo in questa opera è certo quello metatestuale, con<br />

l'ovvio effetto di decostruire e rendere problematica l'identificazione Mesa/Tiresia. Ciò avviene da<br />

un lato perché la divinazione di Tiresia rinvia alla poesia in generale e al suo compito nella nostra<br />

società; dall'altro perché la complessa struttura di finzioni, finzioni di finzioni e verità racchiuse<br />

all'interno di finzioni, che anima il poemetto vuole essere una critica stessa della dimensione<br />

finzionale del testo poetico, nel suo legame con il problema della ricerca della verità etica (una<br />

verità di metodo, in effetti)(24); questa identificazione è quindi una tra le finzioni del testo, che deve<br />

essere soggetta a critica.<br />

L'aspetto finzionale (la narrazione implicita che soggiace al testo, e che è presupposta dal suo<br />

stesso piano d'enunciazione), cruciale nel fungere da organizzatore macrotestuale, e quindi nel<br />

conferire all'opera una patina di (in)compiuta monumentalità, è sempre sul punto di ribaltarsi nel<br />

proprio opposto, e cioè in un fattore di disintegrazione del testo.<br />

La presenza di elementi narrativi (personaggi, fatti, discorsi diretti) fa pensare immediatamente a<br />

quelli che barthesianamente potremmo chiamare effetti di realtà; ma quegli stessi effetti valgono a<br />

ricordare che ci si trova, a leggere il testo, all'interno di una finzione poetica. Sono dunque, a pieno<br />

titolo, anche effetti di irrealtà, che disarticolano e rendono impossibile il progetto di dicibilità<br />

poetica dei fatti, più che descritti, allusi, all'interno del poemetto. Gli effetti di finzione non rendono<br />

solo evidente la necessità di una lettura allegorica del testo: fanno sì che il testo poematico rischi di<br />

non avere senso (ed è proprio questo, direbbe Derrida, il senso di ogni testo poetico). Sicché, se<br />

volessimo cercare di rimotivare allegoricamente, per esempio, il senso della cecità di Tiresia<br />

all'interno del poemetto, dovremmo dire che la cecità di Tiresia, in tanto in quanto forma di<br />

separatezza dal mondo, è allegoria della separatezza dal mondo indotta dalla dimensione finzionale<br />

dell'opera.<br />

Per di più, altri elementi del testo, dal canto loro, si rivelano parodici, o per lo meno ironici.<br />

L'insistenza, sempre a inizio di verso, su verbi che indicano la visione o comunque verba sentiendi,<br />

lasciano pensare a un'apostrofe a Tiresia da intendersi ironicamente. Come potrebbe, il cieco<br />

Tiresia, vedere? Si tratta allora probabilmente di una disperata e sarcastica allusione all'impossibilità<br />

della poesia di cogliere e affrontare davvero il racconto, la testimonianza di quanto successo presso<br />

il Sitio Pangako, una ovvia allusione all'insufficienza e alla velleità del poeta, la cui parola profetica<br />

resta del tutto inibita a risolversi positivamente. Questa stessa insufficienza viene poi in effetti<br />

ribadita nel successivo oracolo, con il verso ŖTu, se sai dire, dillo, dillo a qualcunoŗ, dove<br />

l'impennata patemica della reduplicazione dell'imperativo non ha solo valore ritmico, ma tradisce<br />

come, in qualche modo, sia anche l'indignazione (di fronte alla velleitarietà della poesia) a fare il<br />

verso. Sicché, il testimone della tragedia si rivolge, medianicamente, a Tiresia, non solo per<br />

raccontargli l'avvenuto, ma anche e soprattutto per interpellarlo circa l'insufficienza della poesia.<br />

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Solo questa modalità metatestualmente autocritica riscatta dunque il poeta dalla colpa,<br />

wittgensteinianamente parlando, di non tacere su ciò di cui non si è in grado di parlare.<br />

Va ricordato che Tiresia è stato spesso figura di una capacità di visione ulteriore e superiore<br />

rispetto alla vista fisica(25): l'idea del poeta come veggente, che per Ŗvedere meglioŗ, rinuncia alla<br />

visione oculare, e dell'occhio del poeta come oculus subsanguineus, dispone di una tradizione<br />

antichissima ma già dotata di propaggini novecentesche (fino a Zanzotto) ormai assurte alla<br />

classicità. Questo riferimento è certo presente, in modo perspicuo, nel Tiresia mesiano, ma in una<br />

sua modalità decostruita dall'interno. In un'ottica macrotestuale, infatti, è evidente come tutti i versi<br />

di chiusura degli Oracoli abbiano una valenza fortemente critica e negativa, nei confronti della<br />

velleitaria missione di Tiresia.<br />

Solo la costruzione di una serie di paraventi finzionali, corrispondenti a una serie di inibizioni, e<br />

la critica serrata dei presupposti e degli intenti stessi, sia pur nobili, su cui si basa la poesia,<br />

consente di mettere in scena la tragedia. Insomma, la finzionalità dell'opera di Mesa è<br />

contemporaneamente il correlativo, la testualizzazione dell'inibizione a raccontare (un'inibizione di<br />

carattere morale) e il suo superamento, grazie alla sua orchestrazione in una totalità autocritica.<br />

In questo senso, i riferimenti alla divinazione antica mostrano che gli Oracoli di Tiresia non sono<br />

che parodie degli oracoli e delle forme di divinazione dell'antichità(26), di cui, ogni volta, il verso<br />

corsivo in coda svela l'insufficienza, contemporaneamente mettendo in questione la capacità<br />

testimoniale di Tiresia. A vederli in sequenza, il primo di questi versi (prova a guardare, prova a<br />

coprirti gli occhi) sembra alludere ironicamente alla cecità di Tiresia attribuendogli un significato<br />

tuttavia allegorico e nel contempo dichiarando l'impossibilità, da parte di questa figura del poeta, di<br />

conoscere, comprendere, esperire simili eventi luttuosi, al tempo stesso che questi risultano<br />

incancellabile ferita. Allo stesso modo, solo ironicamente può essere intesa la frase Ŗprendi questo<br />

regalo e vattene, ora, ora che saiŗ: giacché il regalo consiste nella conoscenza e contemplazione del<br />

luttuoso, del terribile. È pure frase che denota una sorta di esclusione Ŗla luce, questa luce, non sarà<br />

mai la tuaŗ, ancora allusione alla cecità di Tiresia, ma insieme riferimento alle luci di sala<br />

operatoria in cui Tiresia mai si troverà a subire l'asportazione della retina. Quanto a Ŗancora non hai<br />

còlto il tuo narciso e il croco già fiorisceŗ, risulta inevitabile peraltro pensare, di fronte a un fiore<br />

sacro a Persefone come il croco, che l'immagine qui evocata non alluda al fatto che mentre il poeta<br />

è dedito a coltivare, attraverso l'esercizio narcisistico della poesia, una sorta di tentativo di<br />

monumentalizzazione mortuaria, il luttuoso si è già saldamente assestato sulla scena della vita e<br />

della poesia al contempo, pronto a rovesciarsi in nuova vita(27). Ancora parodica è pure l'epigrafe<br />

greca di Oniromanzia, da Callimaco: Ŗe la notte prese gli occhi del fanciulloŗ, si trasforma, appunto,<br />

nell'allusione all'espianto degli organi, in una forma selvaggiamente demistificante del poetico, al<br />

limite dell'autolesionismo.<br />

In questo senso, il protagonista del libro è anche un protagonista parodico, che mette sotto accusa<br />

il lavoro poetico di Mesa in particolare (ma questa autocritica è l'unico modo di assurgere a una<br />

compiuta dimensione di verità etica all'interno e all'esterno del testo), e la poesia modernista in<br />

generale. Infatti, se a un primo livello i locutori che si rivolgono a Tiresia negli Oracoli riproducono<br />

la voce di vittime degli accadimenti luttuosi, a un livello ulteriore non possono che rappresentare<br />

una scissione all'interno della voce stessa dell'autore empirico. Questa scissione vale a sottolineare<br />

dunque, come in ogni palinodia che si rispetti, una presa di distanza dalla poesia, attraverso la<br />

poesia stessa.<br />

Lo stesso spazio in cui l'opera è racchiusa, tra epigrafe e il testo di chiusura, entrambi in corsivo,<br />

mette in scena una sottile dialettica. Se ŖDevi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo discapitoŗ pare<br />

rinviare a una necessità testimoniale di un Tiresia condannato all'eternità, il testo finale, che ricalca<br />

la struttura ciclica di tutto il libro aprendosi e chiudendosi sulle parole ŖTi lascio quiŗ sembra<br />

suggerire una sorta di congedo (circolare, e quindi forse protratto all'infinito) da Tiresia e da Tiresia.<br />

Mentre, infatti, tutti i versi in corsivo in calce ai singoli Oracoli adottano una modalità di<br />

enunciazione in seconda persona, rivolta a Tiresia, il testo corsivo di chiusura adotta una<br />

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enunciazione in prima persona (ŖTi lascio quiŗ: che presenta però anche una marca pronominale di<br />

seconda persona), che sembra quasi ridare voce, finalmente, al poeta stesso. Così, tra corsivo e<br />

prima persona, il testo finale è caratterizzato da un procedimento metafinzionale e metatestuale al<br />

massimo grado, l'ennesimo esempio di mise-en-abyme, attraverso il quale l'autore prende congedo<br />

da questa controfigura della poesia che è Tiresia, operando (ancora una volta finzionalmente) una<br />

sorta di uscita dal testo, pour cause, per altro, attraverso la soglia di un testo liminare. Nel farlo,<br />

ovviamente, la voce che più direttamente sembra rimandare a quella dell'autore, si autoinclude,<br />

incripta, seppellisce in quel mondo di macerie che è la testualità del poemetto assieme a quel Tiresia<br />

da cui egli stesso tentava di prendere congedo. La funzione del deittico qui, è, con ogni evidenza,<br />

quella di un deittico testuale. È forse allora l'autore empirico, in questo ultimo testo, che prende<br />

congedo metafinzionalmente e metatestualmente dal suo allegorico protagonista-controfigura. Mesa<br />

prende forse congedo, testamentariamente e allegoricamente, dall'insufficienza della poesia,<br />

consapevole tuttavia che c'è un momento nella poesia, prima che questa si trasformi in qualcosa di<br />

consolatorio, in cui la poesia genera una qualche minima presa di coscienza (sappiamo):<br />

lasciare, lasciare intatto<br />

questo momento prima del dolore,<br />

quando il dolore<br />

è diventato nenia di conforto<br />

e poi silenzio,<br />

questo silenzio che sentiamo insieme,<br />

adesso – è adesso che sappiamo,<br />

in questo momento che divide<br />

Un Ŗmomento che divideŗ: l'immagine di un tempo in bilico e giunto in un arresto, l'immagine<br />

dialettica (di una temporalità dialettica) e forse in questo modo liberatoria è l'unica flebile, anzi,<br />

disperata speranza di questo testo, e l'unica possibilità che lo schermo problematico della<br />

rappresentazione poetica ha, di dire una qualche forma di verità poetica. Il momento che divide è<br />

certamente il momento che divide la poesia dalla realtà, sia in direzione dei fatti raccontati, sia in<br />

direzione della realtà dell'autore, sia in direzione infine della realtà del lettore; un momento cruciale<br />

tra realtà e finzione, ma in cui risultano in ballo forme differenti di temporalità.<br />

Uno dei problemi cruciali che pone Tiresia è dunque il problema del tempo: nell'abbandono di<br />

Tiresia in Ŗquesto momento che ci divideŗ, figura del congedo dell'autore empirico dal suo testo, va<br />

visto anche l'abbandono della specifica temporalità di Tiresia: una temporalità eterna, e come tale,<br />

astorica, cui fanno da contraltare singoli momenti Ŗstoricizzabiliŗ, nei quali il tempo è sul punto di<br />

prendere una delle sue molteplici direzioni. La poesia è per Mesa una riserva di immagini<br />

dialettiche. In Tiresia, come abbiamo visto, un indovino (uno cioè che dovrebbe essere in grado di<br />

essere in anticipo sui propri tempi) si trova a vaticinare tragedie e inferni già avvenuti, in un tempo<br />

che risulta futuro rispetto all'epoca da cui proviene, ma già passato rispetto a noi. La<br />

problematizzazione della temporalità (e per conseguenza della storicità) è quindi il tema più o meno<br />

vistosamente centrale all'interno del testo, e il motore del nucleo fondante del libro. Come scrive<br />

altrove Giuliano Mesa: Ŗ(il tempo passa anche così, senza rigore di forma, / né vero né apparente Ŕ<br />

non siamo, certo, / gli ultimi a ripeterlo)ŗ (P, 285).<br />

Del resto, parecchi degli istituti formali che percorrono questo testo acquistano senso al di fuori<br />

della possibilità di un nuovo estetismo solo come correlativo formale di dimensioni diverse di<br />

temporalità convocate nel testo. Così è, per esempio, per i numerosi effetti di ripetizione lessicale e<br />

paronomastici, che rinviano a una temporalità eterna, che slitta continuamente dentro sé stessa; così<br />

pure avviene per i tempi verbali stessi, tra cui troviamo presenti, futuri e imperativi, ma mai passati.<br />

La gestione della morfologia verbale, insomma, finisce per eliminare ogni possibilità di scalarità<br />

cronologica, alludendo certo alla temporalità di Tiresia, eterna e non finita. Questo racconto privo di<br />

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scalarità cronologica, dunque, tipico delle competenze di lingua dei bambini, non a caso<br />

protagonisti di più d'uno degli oracoli, rimanda anche a un confronto agonistico con la tematica<br />

lyotardiana della caduta delle grandi narrazioni(28). Tra le modalità narrative che il nostro tempo<br />

risulta incapace di svolgere c'è di certo anche il tragico(29). Mesa, in un rapporto antagonistico con<br />

la contemporaneità, ci dimostra che la dissoluzione postmoderna del tragico nell'epoca della caduta<br />

delle grandi narrazioni non è un problema di natura epistemologica (incapacità a identificare e<br />

raccontare il tragico in quanto mancano gli strumenti per farlo), ma ideologica (assenza di volontà<br />

di identificare e raccontare il tragico).<br />

Come dice Agamben, tra i vari modi di essere contemporaneo, uno dei più rilevanti è la petizione<br />

di principio della inattualità(30). Mesa, pertanto, per il suo racconto, che, nella disperata necessità di<br />

essere all'altezza dei propri tempi, di prendere sul serio la propria epoca, deve essere tragico, è<br />

costretto a spostare lo sguardo verso un altrove del tempo, e a rievocare un personaggio del mondo<br />

della tragedia intento a guardare l'epoca attuale. Ancora una volta, il tempo, perché il tragico possa<br />

essere rappresentato, deve essere out of joint. Di fronte al tempo eterno che è di Tiresia, sta un<br />

tempo fatto di attimi e immagini dialettiche, in cui dialetticamente si consuma la storia. La struttura<br />

del tempo che viene fuori da questo libro è dunque duplice: quella di una temporalità incompiuta,<br />

circolare, interminata e interminabile (Tiresia), di contro a una temporalità sempre finita e perfetta<br />

(le vittime).<br />

Ora, la rappresentazione di questa duplice temporalità, che impiega giocoforza forme narrative,<br />

non inscena in fondo, sub specie allegorica, la dialettica stessa, (e chi è Tiresia, se non la figura<br />

della non-contemporaneità del poeta) tra la pulsione alla monumentalità e quella<br />

all'autoannullamento, cui si faceva cenno all'inizio? Si tratta, del resto, di due pulsioni strettamente<br />

connesse con lo scorrere del tempo e della storia, per il corpo del poeta. Una dialettica tragica, dove<br />

il tragico è legato a doppio filo all'economia della temporalità all'interno dell'opera.<br />

Contemporaneità e inattualità, eternità e attimo: tra questi estremi dialettici si consuma il senso<br />

tragico della sua scrittura, a dimostrare che, anche quando si rilevi o tenti di rilevare un nucleo<br />

eterno e immutabile della dimensione tragica del senso, il suo esplicarsi è sempre storico, oltre che<br />

storicamente determinato. C'è davvero, all'interno della nostra società attuale, una domanda di<br />

tragico come possibilità di senso e di appercezione della realtà: ma Mesa sceglie un personaggio nei<br />

confronti del quale i tentativi di identificazione risultano fallimentari, data la presa di distanza<br />

operata nel finale; tuttavia, se la tragedia di Tiresia non conosce catarsi, la catarsi è la possibilità<br />

stessa di poter ancora individuare il tragico.<br />

Secondo Szondi, Ŗla tragicità del destino, peculiare dell'antichità, si trasforma in ambito cristiano<br />

nella tragicità dell'individualità e della coscienzaŗ(31). E nel mondo di Mesa, quello in cui Ŗil tempo<br />

passa anche così, senza rigore di formaŗ, quale tragicità ci troviamo di fronte? Pare di poter dire, la<br />

totale assenza di una ratio. L'impossibilità minima di additare una ratio del tragico che emerge nello<br />

sguardo impossibile di Tiresia, dimostra che la tragicità odierna sta nella surdeterminazione: nel<br />

riposare del tragico rispetto al restante mondo su livelli di temporalità e storicità discontinui e<br />

distinti, irriducibili gli uni agli altri e a un principio dinamico regolatore. Spicca, in ogni caso,<br />

l'assenza di una causalità trascendente come motore di costruzione della testualità tragica attuale.<br />

Proprio questo fatto, unitamente alla constatazione che la ratio attuale falsifica a proprio uso e<br />

consumo le condizioni del tragico (Mesa cita la reazione al tragico incidente di Bangkok da parte<br />

dei dirigenti della fabbrica) consente di dire che alla base del testo di Tiresia c'è un vero e proprio<br />

trauma: ŖAllora, nel 1995, vicino a Bangkok è successa una cosa che allora mi colpì molto, mi colpì<br />

il fatto e mi colpì altrettanto che non se ne sia parlato: è stato subito dimenticato...ŗ (Interazioni) . Il<br />

fatto lo colpì molto, in altre parole fu per Mesa traumatico: un trauma certo irrisolvibile, anche nella<br />

misura in cui Tiresia resta oggetto da cui il poeta, alla fine del testo, si distanzia. Anche il trauma,<br />

del resto è un Ŗmomento che divideŗ.<br />

È forse opportuno, prima di esaurire il discorso sulla temporalità e sul trauma, soffermarsi<br />

brevemente sulla questione della testualità tragica. Se, nell'epoca attuale, tragico e tragedia si sono<br />

77<br />

77


entro certi limiti dissociati, quali sono gli elementi formali del Nachleben del tragico nei testi non<br />

drammaturgici in cui oggi questo può sopravvivere? In primo luogo, il testo tragico dovrà contenere<br />

un certo sviluppo narrativo, e un adeguato grado di coesione macrotestuale, due caratteristiche che<br />

contrassegnano marcatamente il Tiresia. A questo si dovrà associare la presenza di uno stile<br />

sublime: e certo la poesia colta e difficile di Mesa, il suo trobar ric, a livello lessicale, e non solo,<br />

presenta l'apparenza di una lingua antisublime; tuttavia mai come in questo caso l'antisublime è<br />

pronto a trasformarsi nel suo contrario. Bisogna infatti rilevare che Mesa ha sempre scritto poesia in<br />

versi (il che produce già un certo grado di nobilitazione di genere), e una poesia difficile, dotata di<br />

una complessissima gestione della figuralità e di una attentissima organizzazione retorica del testo.<br />

Questa scrittura da subito ha inteso essere iscritta nell'ambito della letteratura Ŗaltaŗ; d'altronde, le<br />

sfere semantiche e i campi lessicali evocati nel testo, che si riferiscono alla dimensione<br />

dell'organico, rimandano a un universo di dolore e lutto e di minaccia corporea che crea, attorno<br />

all'opera, immediatamente, il richiamo a un contesto espressivo tragico.<br />

Proprio questo stile sublime, per quanto in modo nascosto, evita il rischio che la testualità di<br />

Mesa stemperi la sua tensione in una dimensione elegiaca. Oltre a ciò, quello che di certo separa la<br />

testualità di Tiresia da una testualità a pieno titolo elegiaca è proprio l'aspetto di scrittura traumatica<br />

del poemetto. In effetti, se l'elegia si confronta con il male e il lutto parlandone a posteriori,<br />

rievocandolo nella memoria, a cose fatte, e nell'ambito di un lavoro del lutto già in qualche modo<br />

concluso, Tiresia è un testo che ci mostra il male, finzionalmente, proprio nel momento stesso in cui<br />

sta avvenendo (non è un caso che il tempo dell'elegia sia, tradizionalmente, l'imperfetto, mentre qui<br />

i tempi più evidenti sono il presente e l'imperativo); anche se, poiché il trauma è il nonsimbolizzabile,<br />

la scena stessa, la visione traumatica, si sfalda in un coacervo di sensazioni<br />

difficilmente collegabile all'evento traumatico descritto. Anche questa impossibilità di rappresentare<br />

il trauma è in fondo un altro dei significati allegorici della cecità di Tiresia.<br />

L'evocazione della categoria di trauma non può non riportare alla mente un libro oggi al centro di<br />

molte discussioni: Senza trauma, di Daniele Giglioli(32). La fenomenologia delle scritture descritte<br />

da Giglioli è appunto quella di una serie di testualità che, senza in alcun modo originare da una<br />

dimensione traumatica reale, tendono a fornire una rappresentazione traumatica della realtà. Si tratta<br />

in effetti del contrario di quanto avviene nel testo di Mesa: dove a un trauma reale (e morale)<br />

corrisponde una scrittura sublimata, ricca e difficile ma poco incline a indugiare parossisticamente<br />

in un realismo di rappresentazione dell'orrido, cui pure si riferisce. Insomma, si fronteggiano qui il<br />

trauma della rappresentazione e la rappresentazione del trauma (un trauma mai esistito).<br />

Scrive Giglioli: ŖAristotele diceva che è virtù propria della mimesis artistica far percepire come<br />

belle anche cose che nella realtà ci procurerebbero paura o ripugnanza, come una fiera o un<br />

cadavere. Come sarebbe possibile altrimenti la tragedia? Ma qui si aspira a provocare lo stesso<br />

effetto del cadavere, a far collassare la cosa e il suo ritratto. Il folle, il serial killer, il cannibale […],<br />

il disgustoso, l'abietto si sforzano di non essere più soltanto oggetti di rappresentazione, tentando di<br />

generare la stessa reazione che scaturirebbe dalla cosa rappresentata. […] Il segno aspira allo stesso<br />

statuto della cosaŗ(33). Proprio il riferimento alla tragedia operato da Giglioli induce a porsi una<br />

domanda: non è forse possibile asserire che queste scritture tendono a tentare di occupare,<br />

nell'economia delle arti, quello stesso luogo occupato dal tragico? Non esprimono, questi testi, una<br />

intenzionalità tragica frustrata? Ora, è noto che gli elementi fondamentali della tragedia sono tre:<br />

anàgke, ethos dell'eroe, pathos(34). Non c'è dubbio in questo senso che molte delle opere che<br />

Giglioli cita, che dobbiamo ascrivere all'ambito della letteratura di consumo, e che si situano su un<br />

piano, sociologicamente parlando, distantissimo da quello del Tiresia di Mesa, presentino uno<br />

studio su questi tre elementi. Del resto, anche in Mesa è presente un impegno a interrogarsi su<br />

questi tre elementi, come da buona tradizione del tragico. Ma, ovviamente, a fare la differenza tra i<br />

due tipi di scrittura, quello traumatico ma senza estremi di tipo espressionistico di Mesa e quello<br />

Ŗsenza traumaŗ delle scritture dell'estremo individuate da Giglioli sta ancora il discrimine della<br />

funzione del testo: surrogato del tragico, nel secondo caso, assunzione metatestuale e critica del<br />

78<br />

78


tragico nel primo. La funzione prima ancora della questione stilistica: potrà forse sorprendere, ma<br />

tra le figure retoriche che Giglioli cita come più frequenti nelle scritture di genere(35), ci sono figure<br />

di ripetizione lessicale, forse le più comuni e individuanti, dal punto di vista stilistico, di tutto il<br />

Tiresia.<br />

Ora, non bisogna per forza attribuire alla letteratura di consumo una funzione e un ruolo negativi,<br />

ma bisogna ammettere che questa letteratura opera su un piano spesso totalmente differente rispetto<br />

alla letteratura alta. In questo senso, tra la letteratura del trauma costituita da Tiresia, e quella<br />

ŖSenza traumaŗ, credo si configurino due modalità estremamente differenti di produzione di senso.<br />

Infatti, a occhieggiare la lista degli autori di Giglioli, non si può non notare che molti di questi, e<br />

segnatamente soprattutto quelli che si possono ascrivere al côté della letteratura di consumo o<br />

midcult (escluderei pertanto autori come Aldo Nove, Tommaso Pincio, Tiziano Scarpa, Antonio<br />

Moresco, per cui il discorso è diverso e più difficile), sono connotati da appartenenze geografiche<br />

ben precise: da De Cataldo a Lucarelli, per esempio, non saremmo in grado di scindere la nostra<br />

esperienza di lettura da un'esperienza del luogo in cui le vicende narrate sono ambientate: che<br />

magari si traduce in un rimando allegorico a un'identità locale più ampia, come quella italiana. La<br />

scrittura dell'estremo si situa in una territorialità ben precisa, e sarebbe forse impensabile senza<br />

questa dimensione di localizzazione territoriale.<br />

Nel caso di Tiresia, invece, questo si muove in uno spazio totalmente deterritorializzato: tra le<br />

Filippine, gli Stati Uniti, Bangkok, da un altrove del tempo. Anzi, fulcro del libro è proprio la<br />

problematizzazione del concetto di tempo. L'ipotesi è allora questa: che la letteratura di consumo,<br />

oggi, a livello di produzione di senso, lavori soprattutto a un movimento di produzione di località,<br />

mentre la letteratura alta, e in particolare il Tiresia, lavori soprattutto a una dimensione di<br />

produzione di temporalità(36).<br />

Basti pensare a Saviano, e alla collocazione geografica e spaziale del tutto priva di qualsiasi<br />

minimo tentativo di deterritorializzazione: un libro come Gomorra produce soprattutto<br />

identificazioni e identità a partire dalla rappresentazione dei luoghi descritti. Al contrario, Mesa<br />

lavora a una intensa deterritorializzazione (ad esempio, saltando da luoghi e geografie molto diverse<br />

ad altre) e inscena correnti di tempo e di storia in dislivello, irriducibili le une alle altre, spingendo il<br />

lettore a riflettere sulla dimensione del tempo, a risignificarla, a riconcettualizzarla. A fronte di uno<br />

spazio unico, cui può fare seguito solo una dimensione monologica della voce, la testimonianza del<br />

male dataci da Tiresia rappresenta e inscena una temporalità plurale (in cui è implicata la<br />

temporalità della rappresentazione stessa), caratterizzata da strati e livelli di tempo di cui risalta la<br />

mancanza di relazioni degli uni rispetto agli altri: una mancanza di relazione che mima<br />

perfettamente la nostra mancanza di reazione rispetto a quante evenienze tragiche occorrono in<br />

strati e livelli di temporalità cui noi, da dietro uno dei tanti nostri schermi, assistiamo come<br />

spettatori inebetiti di un macrotesto tragico.<br />

79<br />

Gian Luca Picconi<br />

Note.<br />

(1) Giuliano Mesa, Il lavoro letterario, in ŖAltri Luoghiŗ, 10, Nuova Serie, ottobre-dicembre 1992, p. 4.<br />

(2) Ibidem.<br />

(3) Le opere poetiche di Mesa sono state raccolte nel seguente volume: Giuliano Mesa, Poesie 1973-2008, Roma, La<br />

Camera Verde 2010 ('d'ora in avanti indicato con P seguito dal semplice numero di pagina).<br />

(4) Sul concetto di ŖLibro di poesiaŗ si veda Enrico Testa, L‟esigenza del libro, in La poesia italiana del Novecento.<br />

Modi e tecniche, Pendragon, 2003, pp. 97-119.<br />

(5) Sul tragico in Mesa si veda l'importante testo di Alessandro Baldacci, Il disprezzo del rimedio: (ri)pensare il tragico,<br />

in Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia<br />

Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena,<br />

Roma, Luca Sossella Editore, 2006, p. 297-306. Anche Paolo Zublena, in Il suono della fine, testo pubblicato su<br />

ŖAlfalibriŗ 5, 7 ottobre 2011, p. 11, ha insistito su questa collocazione e sulla scelta di questo orizzonte di senso per<br />

Mesa.<br />

(6) Giuliano Mesa, “Ad esempio”. La scoperta della poesia, in La scoperta della poesia, a cura di Massimo Rizzante e<br />

Carla Gubert, Pesaro, Metauro, 2008.<br />

79


(7) Arthur C. Danto, Dopo la fine dell'arte. L'arte contemporanea e la fine della storia, Milano, Bruno Mondandori,<br />

2008, p. 12.<br />

(8) Giuliano Mesa, Il lavoro letterario, cit., p.5.<br />

(9) Giuliano Mesa, [Intervento], in 1 o Quaderno di Invarianti, a cura di Giorgio Patrizi, Roma, Antonio Pellicani, 1989,<br />

p. 118.<br />

(10) Giuliano Mesa, “Dire il vero”. Appunti, in Scrivere sul fronte occidentale, a cura di Antonio Moresco e Dario<br />

Voltolini, Milano Feltrinelli, 2002, p. 140-141.<br />

(11) Ivi, p. 138.<br />

(12) Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli, 1981. Mesa si occupa di questo libro in<br />

svariate occasioni; ade esempio ne già citato Il lavoro letterario.<br />

(13) Tiresia. Oracoli e riflessi, si può leggere in P, 343-358.<br />

(14) Il testo di Tiresia si legge in P, 343-358, ma è possibile anche, per chi voglia, leggerlo nella sua integralità, sia pure<br />

con qualche difformità nell'uso dei corsivi, presso questo sito: http://rebstein.wordpress.com/2007/08/11/tiresia-digiuliano-mesa/.<br />

Su http://gammm.org/index.php/2008/05/18/da-tiresia-giuliano-mesa/ se ne leggono invece alcune<br />

traduzioni. Data la non soverchia lunghezza del testo ometterò per lo più le indicazioni di pagina relative alle citazioni<br />

effettuate.<br />

(15) Si tratta del già citato Dire il vero, comparso appunto nel volume Scrivere sul fronte occidentale, volume dedicato a<br />

una discussione critica dell'evento Ŗ11 settembreŗ e al suo effetto sulla percezione storica attuale.<br />

(16) Per una descrizione più puntuale e precisa (soprattutto dal punto di vista ritmico, aspetto davvero cruciale del<br />

testo), che i dati qui presenti vorrebbero unicamente integrare, si rimanda a Florinda Fusco, Tiresia: il viaggio negli<br />

inferi della contemporaneità, in ŖAtelierŗ, XVI, 61, marzo 2011, pp. 71-79.<br />

(17) Va però sottolineato che Mesa non compie una ricerca metrica sulle misure versali consuete nella tradizione<br />

italiana (dove gli ŖEndecasillabiŗ risultano essere ormai, con parola d'autore, Reperti); la ricerca metrica di Mesa, in<br />

questo senso più difficile da analizzare, riguarda l'aspetto ritmico del testo, come ha dimostrato il già citato articolo di<br />

Florinda Fusco. Così si esprime l'autore riguardo a Tiresia: ŖLa forma di questo Oracolo è uguale a quella dei due che<br />

avete già ascoltato, cioè i versi hanno lo stesso tipo di ordine, ogni verso ha lo stesso numero di accenti rispetto<br />

allřOracolo precedente, ecceteraŗ. Questa dichiarazione è stata rilasciata nella trascrizione di un intervento di Mesa<br />

presso una classe della Scuola Media ŖCenturioneŗ di Genova, effettuato nel 2002 e quindi a Tiresia ancora inedito,<br />

scaricabile, in pdf, al seguente indirizzo internet: http://rebstein.wordpress.com/2011/08/20/non-predire-il-futuro-ma-ilpassato/.<br />

Il testo è presente, con corredo di foto anche sulla seguente rivista genovese: ŖCantarenaŗ, VI, 22, giugno<br />

2003, pp. 4-22. Si farà riferimento a questo testo con la semplice indicazione Interazioni.<br />

(18) ŖQuesta poesia io lřho scritta (non ricordo dove lřho scritta) pensando ad un fatto realmente accadutoŗ.<br />

(Interazioni).<br />

(19) Zublena ha scritto: ŖTragedia dolorosa della dialettica, tragedia del soccombente: «Tragico è soltanto quel<br />

soccombere che deriva dallřunità degli opposti, dal ribaltamento di una cosa nel suo contrario, dallřautoscissione. Ma<br />

tragico è anche soltanto il soccombere di qualcosa cui perire non è consentito, dopo il cui allontanarsi la ferita non si<br />

chiude». Così Szondi nel Saggio sul tragico, e allo stesso modo il Tiresia di Mesa: «devi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo<br />

discapito»ŗ (L'ultimo dei modernisti, in ŖAlfalibriŗ, cit., p. 10).<br />

(20) Sulla questione del Tu lirico si veda Joëlle de Sermet, L'adresse lyrique, in Figures du sujet lyrique, a cura di<br />

Dominique Rabaté, Paris, Puf, 1996, pp. 81-97.<br />

(21) Il tu resta presente anche nei Riflessi, ma in modo molto più sfumato e irregolare. La testualità dei Riflessi, benché<br />

convochi, come già detto, strategie anche forti di coesione macrotestuale, è molto più vicina, rispetto agli Oracoli, a<br />

quella di altri esiti di Mesa, quasi rimandasse, intertestualmente, agli altri libri di poesia dell'autore, e ne convocasse la<br />

figura entro il testo.<br />

(22) In La chiave a stella (Torino, Einaudi, 1978, pp. 45-52) Primo Levi operava, in un capitolo centrale dal titolo<br />

Tiresia l'identificazione dell'indovino come figura dell'autorialità stessa.<br />

(23) Si veda in merito Slavoj Žižek, L‟universo di Hitchcock, a cura di Damiano Cantone, Milano, Mimesis, 2008, pp.<br />

27 e seguenti.<br />

(24) Ecco quanto scrive ancora Mesa sul tema della «Verità etica. Ne ho già scritto (rimando a ŖFrasi dal finimondoŗ,<br />

nel volume Akusma, e a ŖDire il veroŗ, in Scrivere sul fronte occidentale). ŖVerità eticaŗ è un sintagma forse un poř<br />

troppo austero, o addirittura pomposo. Si potrebbe anche dire: Ŗsinceritàŗ. Lřostacolo principale al dialogo non è la<br />

diversità di opinioni ma il Ŗcomportamentoŗ (lřetica, appunto). Non può esserci dialogo con chi parla sempre e soltanto<br />

avendo in mente certi suoi fini (secondi, che poi sono primi), che agisce sempre secondo tattiche e strategie, opportunità<br />

e convenienze Ŕ mentendo, sempre. Sembra che tutti parlino con tutti sapendo, tutti, di avere dei Ŗsecondi finiŗ (che<br />

sono i primi). Alla Ŗspudoratezzaŗ del dire chiaramente quale sia il fine vero, ancora non si arriva (e ci si era quasi<br />

arrivati, al tempo della prima guerra del Golfo Persico). Gli scopi e i Ŗvaloriŗ dichiarati devono ancora essere: libertà,<br />

giustizia, democrazia, verità, onestà, solidarietà ecc.. Ciò che accade nellřàmbito dei poteri economici e politici e<br />

mediatici, accade anche in quello della cultura, e in quello della poesia: sempre più spesso, con sempre maggiore<br />

spudoratezza nel mentire» (Tre lemmi, in ŖPer una critica futuraŗ, 3, aprile 2007, a cura di Andrea Inglese, pp. 67-68).<br />

(25) In questo senso Tiresia è stato letto da Marco Giovenale, Visione, voce, dovere. Il “Tiresia” di Giuliano Mesa,<br />

leggibile su «punto critico» al seguente indirizzo internet: http://puntocritico.eu/?p=1213.<br />

(26) Infatti, l'ornitomanzia si riferisce al volo degli uccelli che si posano su di una discarica che franerà seppellendo<br />

80<br />

80


Sitio Pangako, la piromanzia si riferisce al rogo di una fabbrica, la iatromanzia all'espianto degli organi, e così via. Si<br />

noti, tra l'altro, che gli uccelli di 01. ornitomanzia sono folaghe, e corrispondono quindi a uno dei significanti<br />

ornitologici più famosi della poesia italiana novecentesca, nella fattispecie montaliana: e il sospetto che aleggi sul testo<br />

un riferimento, magari critico, comunque problematico, al vento che chiude Voce giunta con le folaghe e al concetto di<br />

memoria che da questo testo esce non è poi forse così privo di senso.<br />

(27) Una decisiva analisi di questa stanza del poemetto in Fusco, Tiresia: il viaggio agli inferi della contemporaneità,<br />

cit., pp. 74-75.<br />

(28) Su questa questione si veda il libro di Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo<br />

Auschwitz, Macerata, Quodlibet, 2006, in particolare pp. 53-73. Proprio secondo Moroncini, peraltro, la delegettimazione<br />

dei metaracconti inaugura Ŗil tempo dell'eticaŗ (p. 73).<br />

(29) Il riferimento va ovviamente al libro di Steiner, La morte della tragedia, Milano, Garzanti, 1999.<br />

(30) Si veda in merito Giorgio Agamben, Che cos'è il contemporaneo, in Nudità, Roma, nottetempo, 2009, pp. 19.-20<br />

(31) Peter Szondi, Saggio sul tragico, Torino, Einaudi, 1996, p. 92.<br />

(32) Daniele Giglioli, Senza trauma. Scrittura dell'estremo e narrativa del nuovo millennio, Macerata, Quodlibet, 2011.<br />

(33) Ivi, p. 19.<br />

(34) Si veda in merito Annamaria Cascetta, La tragedia nel teatro del Novecento. Coscienza del tragico e<br />

rappresentazione in un secolo al limite, Roma-Bari, Laterza, 2009.<br />

(35) Daniele Giglioli, Senza trauma, cit., p. 32-33.<br />

(36) Desumo l'idea di Ŗproduzione di localitàŗ da Arjun Appaduraj, mentre quella di Ŗproduzione di temporalitàŗ<br />

rielaborando suggestioni di Toni Negri e Deleuze.<br />

81<br />

81


Dal mito al museo.<br />

struttura e significato in Pitture nere su carta di Mario Benedetti<br />

1.Presupposti: forma, cadavere di un libro e mito<br />

82<br />

Le parole hanno fatto il loro corso<br />

M. Benedetti<br />

Il problema della forma poematica di Pitture nere su carta(1) ci appare fondamentale per<br />

cercare di comprendere il senso ultimo di quest'opera. Tale problema richiama alla mente subito una<br />

più vasta serie di questioni, ineludibili se ci si voglia soffermare su un'opera di poesia che tenti una<br />

più vasta organizzazione la quale dica di più di quanto possano fare i singoli componimenti. E<br />

sebbene la produzione poetica dell'ultimo secolo sia costellata da tentativi poematici - dal<br />

Canzoniere di Saba al Conte di Kevenhüller di Caproni - e sebbene mai si siano interrotti anche in<br />

anni più recenti, bisogna pur ammettere che il confronto fra queste opere e l'opera di Mario<br />

Benedetti non trovi per lo più che dati negativi, differenze piuttosto che somiglianze. L'originalità<br />

della macrostruttura di Pitture nere è forse da ricercarsi proprio al centro della sua ispirazione,<br />

nell'accanito problema che soggiace alla scrittura di quel delicato e dannato pronome ŖIoŗ, il quale<br />

mai è dato per scontato fra questi versi, il cui problema è anzi tematizzato e offerto costantemente<br />

alla propria crisi come alla propria salvezza. Una scrittura, la quale fondi la propria possibilità di<br />

esistenza sulla indecidibilità di questo pronome, immediatamente mette in crisi la ragione stessa di<br />

esistere e lo statuto del genere a cui appartiene, il genere lirico, che proprio sulla possibilità di dire<br />

ŖIoŗ trova il proprio sostentamento. L'analisi del valore formale, della struttura di questo singolare<br />

libro di poesie, allora non potrà prescindere dal richiamo a valori che esulano dalla forma, che<br />

sconfinano in quell'aperto mondo dell'esperienza che la precede e che la segue: essi soltanto<br />

sembrano i soli a poter giustificare pienamente la struttura che Benedetti ha dato a quei<br />

componimenti raccolti sotto il titolo di Pitture nere su carta.<br />

La forma è un dato storico. Ciò che è delimitato è riconoscibile soltanto entro un certo gruppo<br />

che vidima tale limite e si riconosce limitato da esso. Le forme mutano, si diffondono, scompaiono,<br />

sono catacretiche ovvero invisibili sopravvivenze, forme morte; mesmerizzate, semmai, solo da chi<br />

saprà farle risplendere nell'attimo del pericolo(2). Il problema della forma è acutamente sentito da<br />

qualunque poeta; potremmo quasi dire che laddove non ci sia riflessione formale non vi è poeta.<br />

Egli sente su di sé la forma come un dovere. La posta su cui ogni poeta lirico - a maggior ragione<br />

dall'avvento del vers libre - mette in gioco la propria impresa creativa è quella che una forma sia<br />

ancora possibile, a patto che questa sia intesa all'interno di un contratto a tre: l'esigenza interiore, il<br />

mondo esterno, la tradizione letteraria. Dire che il poeta senta su di sé la forma come un dovere, non<br />

vuol dire nient'altro che egli dovrà farsi garante della possibilità di una forma per la parola umana.<br />

Guido Mazzoni, proseguendo un discorso che fu d'altra soluzione in Fortini, ha sottolineato in un<br />

suo recente saggio quanto la catena sociale della parola poetica si sia interrotta, quanto essa non<br />

abbia più un vasto pubblico né il prestigio collettivo che, un tempo, ebbe(3). Ma il ruolo che la<br />

parola poetica ha nei confronti del mondo esterno non può essere valutato soltanto nei termini di<br />

Ŗsuccesso socialeŗ: esso è solo una parte Ŕ e marginale Ŕ del legame triadico su cui la poesia fonda<br />

il proprio dover essere. L'esigenza interiore e la tradizione sono lì, ancora, a sorreggere pienamente<br />

l'esperienza della parola poetica; e se oggigiorno il legame sociale appare più lasco, o sembri come<br />

ridotto a mero valore posizionale(4) all'interno della comunità di chi pratica la poesia, esso permane<br />

nella scrittura come ineludibile istanza etica.<br />

Potrebbe il poeta arrestarsi alla sola ricerca formale, allora? La ricerca di una forma non è<br />

disgiunta dalla possibilità tout court che esista un senso: anzi la poesia è proprio il luogo dove l'asse<br />

semiotico, formale, si coniuga problematicamente all'asse eteronomo esistenziale: se non vi è<br />

responsabilità e presenza in quella forma allora non vi è niente(5). Quale forma dunque può<br />

coniugare un ŖIoŗ così precario al mondo? Quale poteva essere la forma della singolarità alle soglie<br />

del nuovo millennio? Era ancora possibile che l'interiorità trovasse un accordo con l'universale? Era<br />

82


ancora possibile per la lirica del 2000 contemplare un modello formale di sussunzione estetica di<br />

ciò che è privata esperienza? È ancora possibile quello che da qualche secolo chiamiamo poesia<br />

lirica?<br />

Su queste domande era approdata la scrittura di Mario Benedetti, dopo l'uscita del suo libro<br />

Umana Gloria(6). Il libro mondadoriano del 2004 è stato costruito a posteriori, raccogliendo una<br />

produzione accumulata nei venti anni precedenti e che aveva trovato pochi episodi, tra l'altro<br />

minori, per raccogliersi in una unità(7). È un libro che non presenta in sé alcuna intenzione<br />

programmatica se non quella di un amorevole erede di se stesso: raccogliere gli sparsi resti di chi<br />

non è più. Potremmo dire che esso - mi si comprenda - sia un libro nato morto, le cui componenti<br />

poetiche non erano più attive per l'autore che pur le vedeva pubblicate lì per la prima volta tutte<br />

insieme. Così come si compone un cadavere, Mario Benedetti ha dovuto attendere alla vestizione di<br />

questo libro, ripercorrendo con cura e attenzione - con pietà - tutto ciò che aveva creduto poesia<br />

durante la propria vita.<br />

L'esperienza di Umana Gloria, dico della composizione editoriale di questo libro, ha<br />

assommato in sé due stati fondamentali, due stati agogici. Poniamo mente ad essi, perché poi li<br />

ritroveremo, ma resi ormai strategia retorica: da un lato la raccolta, il catalogo, l'elenco di ciò che è<br />

stato fatto; dall'altro la contemplazione esterna, l'esercizio dello sguardo critico e distante, la<br />

verifica di quanto si stava raccogliendo, elencando, catalogando. Per la prima volta, forse, Benedetti<br />

ebbe la visione di ciò che aveva compiuto nel suo lungo percorso di scrittura, ebbe chiara<br />

l'immagine che di se stesso, per riflesso retroattivo, quel libro produceva. Così come «l'utensile, non<br />

sparendo più nel suo uso, appare»(8), la poesia di Benedetti per la prima in tutta la sua ampiezza<br />

sorse nel pallore cadaverico di un libro che la sanciva essere stata viva.<br />

(Incidentalmente occorre qui notare come la copertina di Umana Gloria - la riproduzione<br />

dell'opera Coraggio del pittore Enzo Cucchi - sia particolarmente suggestiva sotto questo aspetto.<br />

Infatti vi vediamo, immerso in un paesaggio montano, in basso a sinistra, l'apparire tra il fitto verde<br />

di un mezzo busto umano alonato da un giallo sporco; una mano bianca da un corpo invisibile si<br />

tende e sfiora il viso dell'uomo che dorme, che muore. È la mano del vivo autore che, con coraggio,<br />

si rispecchia acefalo nel corpo morto del libro?)<br />

Ciò che era poesia, vita inconscia ma pulsante, «la tanta materia diversa come sognata»(9),<br />

appare finalmente nella sua reificazione libraria, sfinisce nel suo feticismo cosale mostrandosi bruta<br />

materia, oggetto, volumen. Non credo sia da sottovalutare l'impressione profonda che questo<br />

avvenimento suscitò nella mente dell'autore, in quegli anni esasperato per la recente e faticosa<br />

riabilitazione dalla malattia di cui fin da giovane Benedetti subì le conseguenze; e che lo costrinse,<br />

proprio a ridosso della pubblicazione, per molti mesi dapprima in ospedale, poi in uno sfibrante<br />

pendolarismo fatto di analisi e centri di assistenza terapeutica. L'apparizione di Umana Gloria<br />

dovette sembrare, allora, una sorta di congedo, un segnale di separazione piuttosto che di continuità<br />

con quanto la sua vita era stata precedentemente, un addio alle cose che avevano costituito<br />

l'immaginario emotivo fondante della sua scrittura, ormai sorpassate da una vita che<br />

scandalosamente continuava nonostante l'essere stata prossima alla sparizione.<br />

Il primo libro mondadoriano è così densamente mitico che lascia stupefatti. Vi sono raccolti i<br />

luoghi, le persone, gli avvenimenti che costituiscono l'Infanzia irredimibile dell'autore. La Francia,<br />

la Bretagna, il Friuli, la Slovenia, la città di Milano e di Parigi, i quartieri come gli amici, i quadri,<br />

l'amata, i fratelli, la madre, il padre si fondono in una sintassi liquida, amniotica, come trattenuta in<br />

una continuata gestazione uterina(10). Il poeta vi appare come uno spaesato Ulisse, sempre colto<br />

nella figura emotiva del ritorno così come la intese Lyotard(11), sempre in ricerca di una<br />

identificazione precaria attraverso l'alterità dei luoghi e delle persone. Questo libro non presenta<br />

un'intenzione poematica forse anche a causa di questa densità mitologica. Il mito, infatti, non ha<br />

razionalità né struttura nel suo originarsi, né del resto ha un soggetto individuale cui riferirsi. Esso si<br />

compone di risposte ad una spontanea quanto impersonale attesa: senza mediazione, il mito si dà.<br />

Ovviamente, anche questa immediatezza non è altro che mitologia; ma è solo dall'interno di questa<br />

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fede che esso può esistere come spontanea proliferazione(12).<br />

Cesare Pavese è stato colui che ha parlato chiaramente del compito del poeta nei confronti<br />

dell'aspetto mitologico del proprio immaginario. Più volte Benedetti ha dichiarato un debito nei suoi<br />

confronti, debito che agisce attivamente anche in questa raccolta. Benedetti non è il solo, del resto, e<br />

se si facesse una ricognizione dell'eredità pavesiana all'interno della scrittura poetica dell'ultimo<br />

trentennio, credo ci si stupirebbe per l'ampiezza e la profondità dei lasciti carsici che la sua opera ha<br />

diramato dentro le intenzioni di molti poeti. Scrive Pavese:<br />

La vita di ogni artista e di ogni uomo è come quella dei popoli un incessante sforzo<br />

per ridurre a chiarezza i suoi miti. Ma non si può fare che in essi non sia il foco<br />

vitale, la ratio ultima perché inconsapevole, della vita interiore. Il tonico potente<br />

che se ne assorbe, l'unica e sola ispirazione degna di questo nome abusato, ne è<br />

prova. Soltanto non bisogna vietarsi esteticamente lo sforzo più assiduo per ridurli<br />

a chiarezza, cioè distruggerli. Soltanto ciò che ne rimarrà dopo questo sforzo (e<br />

qualcosa non può non rimanere sempre, se è vero che lo spirito è inesauribile),<br />

potrà valere come fonte di vita.(13)<br />

Secondo la parola dell'autore piemontese, i miti permangono come «fonte di vita» se e solo se si ha<br />

il coraggio di distruggerli, portarli ad una chiarezza superiore. Pavese scrive ridurli a chiarezza,<br />

laddove nella scelta del termine Ŗriduzioneŗ avvertiamo forse già la svolta metrica che Pavese stava<br />

sperimentando nella coeva scrittura delle poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: la scelta per<br />

un metro conciso, essenziale. La chiarezza che il mito richiede a colui che lo pratica, a colui che si<br />

nutre del tonico che da esso scaturisce, è di natura catastrofica. La chiarezza è un atto disarticolante<br />

ma vitale, violento ma desertico. Chi vuole mantenere in vita la fonte del proprio mito, deve ridurlo,<br />

dominarlo, devastarlo; Pavese usa l'espressione sfondare il mito:<br />

Ma i più forti, i più diabolicamente devoti e consapevoli, fanno ciò che vogliono,<br />

sfondano il mito e insieme lo preservano ridotto a chiarezza(14)<br />

Alle soglie della scrittura di Pitture nere su carta, Mario Benedetti era ad un bivio. Da un lato<br />

continuare fino all'usura il proprio immaginario, attingervi fino alla ripetizione esausta, fino allo<br />

sfibramento manieristico di sé. Dall'altro, invece, ridurre all'estrema chiarezza quei miti che<br />

spontaneamente avevano dato luogo ai testi che compongono Umana Gloria, abbandonare ogni<br />

abito acquisito e andare alla ricerca del punto dove la scrittura sfonda il proprio limite e apre le<br />

porte ad un deserto vitale. Codesta soltanto può essere la devozione diabolica, secondo l'espressione<br />

di Pavese. Il diavolo, fedele alla propria etimologia, è colui che divide, che porta con sé la scissione,<br />

la ferita, la diplopia(15); colui che separa il vero dal falso, che rende vero il falso e dunque falso il<br />

vero. Colui che Ŗsfonda il mitoŗ va letteralmente al diavolo: è costretto a stare in piedi, fermo e<br />

immobile, raziocinante e critico, mentre osserva il proprio mito bruciare di verità.<br />

2. Pitture nere su carta ovvero: il museo alla fine del simbolo<br />

Alcuni attenti interpreti hanno fin da subito sottolineato quanto la struttura delle poesie di<br />

Pitture nere su carta fosse assimilabile a quella di un museo. Da un lato Maria Grazia Calandrone<br />

sostiene che ogni testo di questa raccolta sia come posto Ŗsotto i farettiŗ, fra le Ŗtecheŗ; dall'altro<br />

Massimo Gezzi ha parlato di Ŗlibro-galleriaŗ, affermando che Ŗle poesie obbediscono a una<br />

strutturazione in otto capitoli che spesso ricordano veri e propri cicli pittoriciŗ(16). Italo Testa ha,<br />

dal canto suo, analizzato quanto la parola poetica in questo libro attinga Ŗal serbatoio delle arti<br />

visiveŗ, sottolineandone però come Ŗla tecnica mistaŗ così raggiunta dia luogo ad una poesia di<br />

carattere Ŗultra-figuraleŗ(17). I critici hanno utilizzato la metafora museale per cercare di chiarire la<br />

peculiarità architettonica della seconda opera mondadoriana di Benedetti. Occorrerà sviluppare più<br />

approfonditamente questa intuizione. Del resto, sia il titolo della raccolta, sia le citazioni che ne<br />

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fanno da esergo(18), sono dei segnali ineludibili di quanto Benedetti volesse instaurare<br />

un'affiliazione pittorica e visiva per quanto riguarda il proprio libro. Le epigrafi però, se da un lato<br />

sottolineano il carattere generalmente pittorico della raccolta, dall'altro fanno un nome molto<br />

preciso: Francisco Goya. Un'interpretazione della struttura di quest'opera non può prescindere da<br />

questo nome.<br />

L'influenza del pittore spagnolo è ravvisabile all'interno di Pitture nere sotto molteplici<br />

aspetti. Primariamente Goya è richiamato all'attenzione per la sua capacità di non indulgere al mito<br />

in un senso estetizzante, neo-classico; come uno dei pochi del suo tempo Ŗa vivere il rapporto con<br />

l'origine come un ricorso ad una forza spontanea e non come proseguimento, nella memoria erudita,<br />

di un luogo temporale privilegiato (l'Arcadia) o di una forma immutabileŗ(19). Goya, secondo<br />

l'interpretazione di Starobinski, è colui che dipinge Ŗla bestia nera che viene messa a morte nelle<br />

piazze dei villaggiŗ mentre l'Europa si attardava ad agghindare Ŗil bianco toro della mitologiaŗ,<br />

colui che sente Ŗun'origine oscura, su cui incombe un rischio mortaleŗ. Dunque, Goya sfonda il mito<br />

della sua epoca e riporta alla luce con diabolica devozione l'orrore originale che lo fonda(20).<br />

A quest'ultimo aspetto vanno ascritte anche alcune delle vistose particolarità retoriche che si<br />

notano all'interno dei componimenti di Pitture nere: un certo espressionistico uso del linguaggio che<br />

volge al grottesco il proprio tratto(21). Ma a questa suggestione storico-retorica della pittura di<br />

Goya, si deve aggiungere una suggestione biografica. Abbiamo già ricordato quanto fosse<br />

essenziale sottolineare la concomitanza fra la pubblicazione di Umana Gloria e la riabilitazione<br />

dalla malattia che aveva costretto Benedetti a lunghi soggiorni ospedalieri; ora dovremo ricordare<br />

che proprio Goya dipingerà gran parte delle sue opere più oscure dopo una grave malattia di natura<br />

sconosciuta che lo colpì durante l'inverno del 1792 e che lo menomò per sempre dell'udito. La fase<br />

più acuta lo vide infermo a Cadice, presso la casa del grande collezionista e mecenate Sebastian<br />

Martinez. Il deliri e i dolori presero il sopravvento del suo corpo mentre era attorniato dai muri di<br />

una vera e propria casa-museo che grondava di quasi 750 quadri e migliaia di incisioni(22). La<br />

malattia e la sua parziale guarigione segnano un passaggio importantissimo nella pittura di Goya<br />

che non tornerà mai più a dipingere come prima. Los caprichos(23) è la celeberrima serie di<br />

incisioni in cui il pittore spagnolo inizia, attraverso l'uso del grottesco, la sua perlustrazione<br />

sistematica dell'orrore. È indubitabile che Benedetti sentisse nel tragitto del pittore di Fuendetodos<br />

una somiglianza con il proprio; probabile che la scelta, successiva alla malattia, di strutturare<br />

serialmente i propri lavori incisori abbia giocato un ruolo fondamentale nell'immaginario creativo<br />

del poeta. Entrambi, dopo la malattia, avvertirono la necessità di un'arte che fosse in grado di<br />

rappresentare l'absurde possible(24) di una vita come postuma. Benedetti sembra dirci che se la<br />

fede nel mito procede in maniera spontanea, proliferante, d'altra parte lo sguardo che ha scorto<br />

pienamente l'orrore richiede metodo, struttura. Per chi intenda questo, non è più possibile<br />

abbandonarsi, innocente, al sorgere dei propri miti.<br />

La incisioni di Goya trovano un rispecchiamento dunque nel numero e nella ciclicità del libro.<br />

Mantenendo la propria indipendenza, il numero dei componimenti scelti da Benedetti si assesta<br />

nelle medesime vicinanze delle due più celebri sequenze del pittore spagnolo: I Capricci sono<br />

composti in totale di 80 incisioni, mentre I disastri della guerra(25) sono 82. Pitture nere su carta,<br />

invece, è composto di 79 testi (numero primo), divisi in otto sezioni, aperti da un componimento<br />

singolo(26). I componimenti per sezione non sono mai superiori a 11 e non scendono mai sotto i 9;<br />

il numero di componimenti per sezione decresce a mano a mano che ci si inoltra nel libro, fino a<br />

stabilizzarsi sul minimo dalla quinta sezione in poi(27). Ma seriale è anche la titolazione dei<br />

componimenti, organizzata in un parallelismo che divide gli otto capitoli a due a due: nel primo e<br />

nel secondo, come nel quinto e nel sesto, i testi hanno tutti un titolo, seguito dal numero naturale<br />

specifico del tipo; il terzo capitolo e il quarto, come il settimo e l'ottavo, riportano invece soltanto il<br />

numero di riferimento(28).<br />

Il numero complessivo dei componimenti, 79, è il numero atomico dell'oro, parola che<br />

compare nel primo verso della poesia liminale(29) e che sembra proprio essere la porta aurea<br />

attraverso cui entrare nel Ŗlibro-galleriaŗ Pitture nere su carta. L'immagine alchemica con cui<br />

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veniva raffigurato l'oro è un cerchio al cui centro si trova un punto, segno solare per eccellenza.<br />

L'oro e il cerchio tornano, in concomitanza con l'immagine stellare, nei componimenti Supernove 1<br />

e 2(30); questi due testi fungono da transizione, conducendo il lettore all'ingresso delle due ultime<br />

sezioni della raccolta: a 2\3 dell'opera, dunque(31). Questa insistenza non è causale; Benedetti<br />

stesso ci spiega il significato che l'immagine del cerchio solare riveste nella sua poesia, così come<br />

appare, mediata dalla citazione dantesca, nel verso «eco di luce che non da sé è vera»(32):<br />

Osserviamo l'universo con dei filtri, per cui la luce che per Dante era in sé, divina,<br />

per noi è filtrata da macchinari costruiti dall'uomo(33)<br />

L'autore torna ad insistere sul particolare stato diplopico, doppio, diabolico, che la conoscenza ha<br />

nel mondo contemporaneo. Quella luce che per Dante era una verità oggettiva, che permetteva di<br />

centrare il soggetto mistico e individuale nel medesimo luogo geometrico dei punti, oggi è distorta,<br />

fievole, deformata, filtrata ed incerta(34). La carne che s'indora, allora, torna morta nel senso che<br />

non è più in grado di stabilirsi da sola in quella luce dorata che da sé è vera, ma abbisogna sempre<br />

di uno strumento esterno a cui appellarsi per prendere il malcerto riferimento da cui pur sempre<br />

dipende. Torna morta si intende, qui, l'atto di sfrondare l'oro dal suo mito, mostrar la condizione di<br />

chi non è più persuaso dal mito. «La persuasione non vive in chi non vive solo di sé stesso»,<br />

afferma Carlo Michelstaedter; poco prima, aveva scritto:<br />

Ma l'uomo vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca: il<br />

possesso di sé stesso: ma quanto vuole e tanto occupato dal futuro sfugge a sé<br />

stesso in ogni presente.(35)<br />

Attraverso le parole del giovane filosofo goriziano, arriviamo ad intuire la ragione ultima<br />

della strutturazione museale di Pitture nere su carta. Egli ci ricorda quanto la condizione originaria<br />

dell'uomo sia tragicamente sempre dentro una rettorica, una struttura mediale, in quanto egli<br />

dipende da strumenti esterni che, nel momento in cui gli danno l'illusione del possesso di sé, a sé lo<br />

sottraggono indefettibilmente. Come può sussistere una struttura poematica se il soggetto<br />

continuamente si affida all'incerto esterno, ai suoi filtri, e per conoscere dunque sfugge sempre a se<br />

stesso? Quale architettura può sopportare il moto violentemente centrifugo, deflagrante che<br />

comporta tale esperienza interiore? Se esso conduce a quella lacerazione del vertice a cui altrove<br />

Benedetti ha fatto esplicito riferimento attraverso la riflessione di Bataille, tale moto non può<br />

produrre altro se non un'«interna distorta musica, interna distorta parola»(36). La forma museale,<br />

allora, ci appare come unica struttura che possa mostrare appieno lo sdoppiamento lacerante del<br />

soggetto di cui Benedetti ha fatto esperienza. Il poeta si trova nella situazione - al limite del<br />

possibile - di poter solo catalogare, elencare i neri frattali prodotti da tale lacerazione, predisporli su<br />

lastre, laddove lo sguardo dello stesso poeta vi si poggerà allibito così come lo sguardo di Goya si<br />

poggiava incredulo sulle proprie incisioni.<br />

La struttura museo riesce a descrivere architettonicamente la condizione di un soggetto che<br />

guarda esattamente il punto in cui, lacerato, non è più. Si guarda, esterno a se stesso, come morto, o<br />

meglio: collocato, in maniera indecidibile, «before the beginning and after the end»(37). È questa la<br />

diplopia essenziale, la devozione diabolica: l'unica che esprime la condizione ecfrastica di un<br />

soggetto che se da un lato è nella scrittura, dall'altro è colui che non è più consustanziale alla<br />

propria scrittura(38). Dall'intercapedine mediale, nel bilico in cui la rettorica si svela come tale, egli<br />

osserva il proprio mito e lo decompone; vi partecipa e nello stesso tempo lo critica e ne è escluso, in<br />

quanto vittima sacrificale del senso. Sotto questo aspetto, la scrittura che Benedetti allestisce in<br />

quest'opera è lontana migliaia di chilometri dall'usuale trasparenza con cui siamo soliti adoperare il<br />

simbolo linguistico(39). Le parole che la compongono sono sempre parole in crisi,<br />

etimologicamente, separate, staccate dalla vita mentre sono lì, sulla carta, opache e nere come<br />

pitture non più comprensibili. Come dispositivi mal funzionanti, le parole indicano, ma non<br />

simbolizzano più(40):<br />

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Io mi sento in bilico Ŕ credo di essere sempre in bilico, anche scrivendo. Esprimo<br />

sempre fratture, scrivo per fratture.(41)<br />

Forse ora riusciamo a rendere ragione di alcuni versi, turbanti e contraddittori, che il libro<br />

continuamente ci propone: «Così le foglie. Così,\ forse, foglie non sono state»(42); «Quanto sento?<br />

e come, dove\ onda del mio stare qui e stare via»(43); «Mondo non mondo, mio mondo nero»(44);<br />

«[...] e io so dire e non dire»(45). La divaricazione contraddittoria e negativa(46) appare fin dalla<br />

poesia liminale: «Ma nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino»(47). Ma anche<br />

l'epanalessi nasconde questa funzione avversativa, divaricante: «Viti di viti, uova di uova»(48). Alla<br />

sinechia mitologica, l'aderenza ingenua che si instaura nel mito fra parola e vita, questo libro<br />

oppone la diaspora lacerante, la coscienza diabolica del limite che il dominio verbale ha sul<br />

mondo(49).<br />

A questo punto siamo in grado di comprendere adeguatamente i nomi delle sezioni. Colori,<br />

Lacrime, Sfarzi, Reliquari, Sacrifici, Sfarzi, Smalti, Supernove; cosa sono? Perché questa<br />

particolare resilienza materiale che avvertiamo in questi termini e che troviamo anche sottolineata<br />

nel titolo complessivo della raccolta? Questi termini non sono simboli linguistici che denotano<br />

referenti. Non sono simboli, abbiamo detto, comunemente intesi; sono semmai ex-voto, così come<br />

Didi-Huberman li definisce:<br />

Ciò che si depone nei santuari per gratitudine votiva è sempre un oggetto che è<br />

stato toccato da un evento supremo, da un sintomo: disgrazia subita in miracolo,<br />

della malattia in guarigione etc. In breve, è quasi sempre un oggetto reliquia, un<br />

resto di prove organiche elaborate psichicamente.(50)<br />

Prioritario nella pratica dell'ex-voto è che, «prima di rappresentare qualcuno, l'ex-voto rappresenta<br />

[...] il punto in cui esso [l'offerente] soffre e là dove vuole essere trasformato»(51). La mediazione<br />

simbolica tocca in questi oggetti un limite peculiare che avvicina spaventosamente i tre poli classici<br />

del simbolo fino a farli deflagrare in una singolarità indecidibile. L'ex voto si colloca infatti «là<br />

dove si sente la carne»(52), dice Didi-Huberman, instaurando una somiglianza che individua il<br />

proprio criterio in «una qualità interna al materiale»(53). I componimenti delle sezioni sono seriali<br />

così come non possono non essere seriali gli ex-voto; in quanto in essi non è in discussione lo stile<br />

individuale, giacché l'individuo, nel momento in cui è lacerato dal male, semplicemente non è più: è<br />

il male. O meglio ancora: è il singolo punto organico che dolora(54). E del male si può fare<br />

catalogo, enumerazione, elenco, variazione come abbiamo visto fare a Goya, come abbiamo visto<br />

fare a Benedetti, come testimoniano nelle chiese e nei santuari milioni di pellegrini; ma di esso,<br />

come ci dice l'immutabilità formale degli ex voto(55), non si potrà mai fare storia(56).<br />

4. Vitalità del postumo e conclusione<br />

Adorno, in un celebre saggio, ricordava che le parole «Museo e Mausoleo sono connesse da<br />

qualcosa di più che un'associazione fonetica»:<br />

I musei sono come i sepolcri familiari dell'arte. Testimoniano la neutralizzazione<br />

della cultura(57).<br />

Benedetti compone la propria teratologia dolorante allestendo il museo dei propri miti brutalizzati,<br />

che, come le opere d'arte, incarnano una promesse du bonheur soltanto quando sono rivolti sul<br />

sentiero della loro distruzione(58). Il museo di Benedetti testimonia esattamente questa<br />

«neutralizzazione», di come, dall'interno della lacerante esperienza interiore, ogni convenzione<br />

umana (e segnatamente: poetica) venga resa postuma a se stessa, sopravvivendo in una vita<br />

sepolcrale. Se però il museo distrugge e neutralizza, esso è l'unico luogo in grado di conservare i<br />

resti di una cultura, di garantire loro la durata. Da qui la tenacia citazionistica e il plurilinguismo di<br />

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quest'opera. Molte opere, di pittori e di poeti, di architetti, di artigiani e di scienziati, e le loro<br />

diverse lingue sono racchiuse nelle teche, nelle pagine di Pitture nere su carta(59). Di ogni cosa<br />

umana si vorrebbe rendere testimonianza astorica, preservarla pur nella coscienza della sua<br />

immedicabile neutralizzazione. Il movimento da cui scaturisce la poesia di questo libro è sì di<br />

carattere distruttivo, disumanizzante; ma fuoriesce dall'umano esattamente per quanto sull'umano<br />

indefettibilmente converge. Trapassato attraverso le più bestiali e disumane raffigurazioni, l'opera di<br />

questo poeta non può fare a meno di ritornare a comporre, proprio attraverso la macrostruttura del<br />

museo, un disegno, una traccia percorribile(60).<br />

Sebbene non vi sia in questa opera una vera e propria progressione, l'aspetto poematico<br />

evidente nella struttura del libro ci pare apra alla possibilità di un senso ulteriore. Abbiamo provato<br />

a definire ogni componimento mediante il funzionamento degli ex-voto; ma dobbiamo fare capo ad<br />

un'altra suggestione per definire meglio ciò di cui si compone questo museo e per provare, infine, a<br />

tratteggiare l'ipotesi del senso ultimo di tale struttura. Yves Bonnefoy, a proposito di Goya,<br />

individua la presenza di uno stato originario ravvisabile sotto la superficie in tutti i suoi quadri, ma<br />

di cui se ne dà piena evidenza solo nelle sue figurazioni più estreme. Egli propone di chiamare<br />

schizzo questo peculiare stato del segno. Così scrive:<br />

Lo schizzo, nel senso in cui uso il termine, non è il rapporto dell'individuo con se<br />

stesso così come lo studia la psicanalisi, senza preoccuparsi per l'«in più» che vede<br />

pesare sui grovigli della parola inconscia. È la reazione di una vita ancora priva di<br />

strutture linguistiche a un immenso fuori che la sovrasta, onda che già si riversa. Lo<br />

schizzo non è obbedienza a un sogno, per la soddisfazione inquieta o meno di un<br />

desiderio, è un fatto di coscienza ultima. Un essere agli albori vi percepisce e<br />

affronta l'ignoto, come pure del resto l'impenetrabile.(61)<br />

Per il poeta francese questo stato del segno è sintomo della «reazione di una vita a un immenso<br />

fuori che la sovrasta». Mi preme sottolineare la vitalità sottesa al termine Ŗreazioneŗ, all'espressione<br />

Ŗaffrontare l'ignotoŗ, allo stesso termine Ŗschizzoŗ. La definizione che Bonnefoy dà davvero ben si<br />

adegua ai componimenti che sono raccolti in Pitture nere, sebbene manchi in essa - ed è per noi<br />

aspetto fondamentale di questo libro - la problematica equivalenza fra sintomo e singolarità che<br />

abbiamo cercato di recuperare attraverso la nozione di ex-voto. Eppure le parole che abbiamo<br />

riportato sembrano spingerci ad una definizione del senso complessivo delle Pitture nere, la quale<br />

tenga presente anche la nostra premessa pavesiana. Il risultato dello Ŗsfondamento del mitoŗ, infatti,<br />

era un effetto tonico: soltanto quanto resta «dopo questo sforzo», infatti, «potrà valere come fonte<br />

di vita»(62).<br />

Un museo che si compone di questi schizzi, di questi ex-voto, allora, non indica soltanto la<br />

condizione di totale afasia a cui il linguaggio simbolico (e con esso, tutta la cultura occidentale)<br />

sembra condannarci nel mondo contemporaneo; ma ci invita a partecipare al tentativo eroico - alla<br />

Bruno - di resistere alla crisi del simbolo tarando lo strumento linguistico ancora più sottilmente di<br />

quanto siamo soliti fare. Se Benedetti ci spinge a visitare il museo dei propri miti decostruiti, ciò<br />

accade affinché possiamo ricordare che la parola (e la cultura tutta, che su di essa si fonda) si basa<br />

su di un fondamento tragico a cui si deve resistere rimanendo alla sua altezza e mai cedendo alla<br />

facile ingenuità dei miti consolatori. Pena: un ritorno al neo-classicismo retorico, recessivo,<br />

dimentico che la parola è segno inequivocabile della sparizione di una nuda voce che fu viva di vera<br />

vita e che rimane memorabile fin tanto che si pronunci una parola capace di indicarne l'origine.<br />

Oggi che la cultura occidentale ci fornisce così facilmente strumenti di narcosi e di oblio, di<br />

dilapidazione della memoria e della soggettività; oggi che quella società ci appare così stremata nel<br />

fallimento del suo progetto consumistico e di benessere; oggi che la letteratura così spesso si<br />

abbandona alla nevrosi di una esperienza impoverita e non sa che ripetere che «al vissuto, al centro<br />

esatto del vissuto, manca qualcosa di decisivo»(63); ci pare che la parola così negativa di Benedetti<br />

si ponga, in realtà, come strumento positivo, come farmaco che ci riporti all'ascolto di quelle<br />

dimensioni di senso ancora da venire.<br />

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Le ultime tre poesie del libro Le pitture nere sembrano presagire proprio questo. Attraverso la<br />

lingua morta che è messa continuamente in mostra nel museo, è possibile giungere addirittura a<br />

rievocare l'affetto dentro la carezza della madre, utilizzando la prima persona singolare, il pronome<br />

Ŗioŗ, il più impronunciabile dentro il regime della lacerazione: «carezzevole buio, sì, sono io.»(64).<br />

Se quell'ŗioŗ è la madre, l'affetto che di lei può rivivere a patto che si situi nel buio di ogni cosa,<br />

allora questa lingua morta, lacerata e che porta segno del proprio trauma, può collaborare a<br />

quell'«unicità del miracolo» a cui Pavese riconduceva, in ultimo, l'operazione della poesia(65).<br />

L'esclamazione finale del libro, l'«Oh» che lo termina, è la perfetta mimesi della totalità che accade.<br />

Quella parola non è propriamente una parola; è una physical dimension(66), l'ultima estrema<br />

perfomance concessa dal linguaggio umano. In essa non si dice nulla Ŕ lo ripetiamo Ŕ, ma si agisce<br />

lo stupore originario di chi è messo al mondo, ogni volta, per la prima volta. Se è vero che «l'ultimo<br />

verso di una poesia non è un verso»(67), allora questo ultimo di Pitture nere su carta è la porta che<br />

ci conduce fuori dalle sale del museo, all'aria aperta. Nel momento in cui lo pronunciamo, infatti,<br />

siamo fuori dal libro e fuori da ogni libro; siamo nella vita.<br />

89<br />

Tommaso Di Dio<br />

Note.<br />

(1) M. Benedetti, Pitture nere su carta, Mondadori, Milano, 2008. (1)<br />

(2) W. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità<br />

tecnica, Enaudi, 1966, p. 83: «Far agire l'esperienza della storia, che per ogni presente è un'esperienza originaria Ŕ è<br />

questo il compito del materialista storico. Essa si rivolge a una coscienza del presente che fa deflagrare l'esperienza<br />

della storia». Ma si veda anche il VI paragrafo delle Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Enaudi, 1962, p. 77,<br />

in cui Benjamin sostiene che «articolare il passato» significa «impadronirsi di un ricordo come esso balena nell'attimo<br />

del pericolo».<br />

(3) Si veda Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino, Bologna, 2005; soprattutto il fondamentale capitolo conclusivo<br />

pp. 211-248. Per il riferimento a Fortini si veda Al di là del mandato sociale, in Verifica dei poteri, Enaudi, Torino,<br />

1965.<br />

(4) Si veda Mazzoni, dialettica dell'espressivismo, in cit., p. 214-220.<br />

(5) Secondo le parole di Bachtin: «Ogni testo veramente creativo è sempre, in una certa misura, la rivelazione, libera e<br />

non predeterminata dalla necessità empirica, di una persona», Il problema del testo nelle scienze umane, in L'autore e<br />

l'eroe, Enaudi, Torino, 1988, p. 295. L'affermazione «il testo non è una cosa» (ibidem), equivale a dire che il problema<br />

formale, testuale, non è risolvibile senza fare riferimento all'esistenza esterna di un individuo che lo sancisce proprio in<br />

quanto testo, forma. Si veda soprattutto Arte e responsabilità, ivi, pp. 3-4.<br />

(6) M. Benedetti, Umana Gloria, Mondadori, Milano, 2004.<br />

(7) Quattro sono le piccole raccolte prima del libro mondadoriano: I secoli della primavera, Ripatrasone, Sestante,<br />

1992; Una terra che non sembra vera, Campanotto, Udine, 1997; Il parco del Triglav, La Collana:, Varese, Stampa,<br />

1999; Borgo con locanda, Circolo Culturale di Meduno, Pordenone, 2000.<br />

(8) M. Blanchot, Lo spazio letterario, Enaudi, 1967, p.226.<br />

(9) M. Benedetti, Umana Gloria cit., p. 115.<br />

(10) Sulla questione complessa di come la poesia di Benedetti ridefinisca lo statuto ontologico del reale, si veda l'analisi<br />

dell'uso predicativo della copula in Italo Testa, Visività. Per Mario Benedetti, in www.puntocritico.eu. Il critico sostiene<br />

la capacità della parola di Benedetti di compiere Ŗla ridefinizione ontologica delle cose quale forma del loro<br />

compimento attraverso lo sguardoŗ.<br />

(11) F. Lyotard, Il ritorno, in Letture d'infanzia, Anabasi, Milano, 1993, p.16: «Noi non concepiamo il ritorno come<br />

l'identità ritrovata dello stesso con lo stesso, ma come l'identificazione dello stesso con sé attraverso il Ŗsuperamentoŗ<br />

della propria alterità. Per noi alla fine del viaggio la verità di Ulisse non è la stessa di quella che era alla partenza ».<br />

(12) Jean-Luc Nancy scrive, a proposito del mito: «Questa parola non è un discorso che risponde alla curiosità di<br />

un'intelligenza: è la risposta a un'attesa più che a una domanda e a un'attesa del mondo stesso», Il mito interrotto, in La<br />

comunità inoperosa, Cronopio, Napoli, 2003, p. 105. Più avanti: «[il mito] non dice altro che se stesso ed è prodotto<br />

nella coscienza mediante lo stesso processo che nella natura produce le forze che il mito mette in scena», ivi, p. 106.<br />

Sulla natura a sua volta mitica della nascita del mito, si vedano ivi, pp. 95-99. Anche Cesare Pavese concorda sulla<br />

natura paradossale del mito, fra irrazionalità e storia: «Veduto dall'interno, un mito evidentemente è una rivelazione, un<br />

assoluto, un attimo intemporale, ma per la sua stessa natura tende a farsi storia, ad accadere fra gli uomini, a diventare<br />

poesia o teoria, con ciò negandosi come mito», Il mito, in Saggi letterari, Enaudi, Torino, 1968, p. 319.<br />

(13) C. Pavese, Del mito, del simbolo e d'altro, in Saggi letterari, cit., p. 275.<br />

(14) Ivi, p. 276. Si noti la consonanza fra questa espressione di Pavese e il significato attribuito da Agamben al termine<br />

profanare, in Elogio della profanazione, in Profanazioni, Nottetempo, Roma, 2005.<br />

89


(15) Ivi, p. 87. L'accenno alla diplopia ci pare fondamentale sottolineatura dell'incapacità ad affrontare la doppia visione<br />

diabolica di chi vede contemporaneamente il proprio mito e il suo sfondamento.<br />

(16) Entrambe le citazioni sono tratte dal sito: http://www.carmillaonline.com/archives/2009/01/002902.html. L'articolo<br />

di Gezzi porta come titolo Pitture nere su carta di Mario Benedetti; l'articolo di Calandrone è apparso con il titolo<br />

ŖQuello che mi pronuncia è il nome di tutti”: su Pitture nere su carta di Mario Benedetti; pubblicato precedentemente<br />

con lo stesso titolo in «Poesia», Crocetti, Milano, 2008.<br />

(17) Si veda Italo Testa, cit.<br />

(18) Le due citazioni, l'una di C. Baudelaire, l'altra di J. L. Schefer, sono: «Goya […] l'amour de l'insaissisable»; «Goya<br />

[…] l'absurde possible».<br />

(19) Jean Starobinski, 1789-I sogni e gli incubi della ragione, Milano, Garzanti, 1981, p. 113.<br />

(20) Si notino le consonanze con quanto abbiamo riportato di Benjamin nella nota 2, vedi supra.<br />

(21) Gezzi scrive, a ragione: «Benedetti usa le parole Ŕ e le cose che esse significano Ŕ come gli espressionisti usarono<br />

il colore: accostandole in modo libero, intenso, energico, talvolta persino violento ed ellittico, senza preoccuparsi di<br />

aggiungere ornamenti retorici o di organizzarle in una sintassi addomesticata», in Pitture nere su carta di Mario<br />

Benedetti, cit. Sebbene sull'uso del termine Ŗespressionismoŗ per quanto riguarda questa raccolta nutro delle riserve.<br />

Esso infatti può apparire fuorviante, in quanto presuppone un movimento che procede dall'interno di una soggettività<br />

verso l'esterno: vedremo in seguito che questa impostazione è totalmente contraddetta dal piano generale dell'opera.<br />

Rimane valido l'uso del termine solo se esso viene circoscritto in una accezione squisitamente retorico-linguistica.<br />

(22) Si veda il libro Ŕ fondamentale per comprendere l'opera di Benedetti Ŕ Yves Bonnefoy, Goya, le pitture nere,<br />

Donzelli, Roma, 2006. Nello specifico, per i riferimenti alla malattia di Goya, le pp. 29-43 a cui noi dovremo fare più<br />

volte riferimento.<br />

(23) La sequenza fu pubblicata nel 1799, a Madrid, ma nacque da una serie di schizzi preparatori iniziati nel 1796,<br />

mentre il pittore soggiornava presso la duchessa d'Alba.<br />

(24) È l'epigrafe di J.L. Schefer già ricordata, vedi supra nota 16.<br />

(25) Pubblicati dal pittore fra il 1810 e il 1815.<br />

(26) Mario Benedetti, Maggio 2009, in Materiali di un'identità, Transeuropa, Massa, 2010, p. 60: «[la poesia limitare di<br />

-Pitture nere su carta] L'ho scelta perché ho iniziato a scrivere dopo Umana gloria, che è fatto di storie ed è totalmente<br />

diverso. Poi, finito il libro, mi sono accorto che era compatto, omogeneo. Ma quella poesia permette un raccordo con<br />

Umana gloria. È come se non facesse parte del libro in sé, ma lo preannuncia»; il brano è tratto dall'intervista di<br />

Claudia Crocco.<br />

(27) In particolare: I\II sez., 11 testi; III\IV sez., 10 testi; V\VI\VII\VIII, 9 testi.<br />

(28) I titoli sono: I sez. Colori; II sez. Lacrime; V sez. Reliquari, Sacrifici; VI sez., Sfarzo, Smalto, Supernove. Fa<br />

eccezione il componimento settimo della sezione VI, il quale non riporta alcun titolo ma solo il proprio numero:<br />

vedremo poi perché.<br />

(29) Mario Benedetti, Pitture nere..., cit., p. 7, v. 1: «Torna morta la carne che si indora, la muta del sangue nero».<br />

(30) Ivi, pp. 82, 83.<br />

(31) La transizione è segnalata anche dal fatto che, come abbiamo già accennato, eccezionalmente il componimento<br />

precedente alle Supernove non ha titolo. Vedi nota 27, supra.<br />

(32) Il verso chiude identicamente le due Supernove; è mutato da Dante, Paradiso, XXXIII, v. 54: «dell'alta luce che da<br />

sé è vera».<br />

(33) Mario Benedetti, Maggio 2009, cit., p. 56.<br />

(34) A tale proposito, si veda l'ultimo testo di Umana Gloria, cit., p. 118. Se da una parte Pitture nere su carta si apre<br />

con un richiamo a Umana Gloria, l'ultimo testo di questa raccolta chiude, forse, anticipando il futuro libro. Il testo porta<br />

il titolo Ŕ per noi significativo - di Area museale; in esso si tratta della «parte vivente dei morti», specularmente a<br />

quanto avviene nel primo testo di Pitture nere dove la carne, invece, «torna morta». L'ultimo verso, poi, così recita:<br />

«[...] Vanno i focolari di pietra,\ volante, pietra, focolare, televideo, in fievole istoria»; la fievole istoria non è forse già<br />

preannuncio di questa opacità mediatica di cui si parla in Pitture nere su carta?<br />

(35) Entrambe le citazioni da Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi, Torino, pp. 41-42. A<br />

margine, ricordiamo che Benedetti svolse sull'autore goriziano la propria tesi di laurea nell'ateneo di Padova.<br />

(36) Mi riferisco a Mario Benedetti, La lacerazione del vertice, in Materiali..., cit., pp. 9-41. La citazione è a p.23. Per<br />

quanto riguarda G. Bataille, si fa riferimento segnatamente a L'expérience intérieure, Gallimard, Paris, 2006 (1943),<br />

laddove Bataille svolge fino all'estremo l'esperienza de le déchirement du sommet a partire da premesse simili a quelle<br />

di Michelstaedter. Tra l'altro mi trovo nell'imbarazzo di dover sottolineare che l'autore francese per descrivere la<br />

situazione verticale del soggetto all'interno della dinamica sociale utilizza l'immagine della piramide (Bataille, cit., p.<br />

107); 78 sono i componimenti che formano Pitture nere su carta, se escludiamo la poesia liminale, e tale numero, come<br />

è noto fin dai pitagorici, è un Ŗnumero triangolareŗ, è cioè possibile la sua rappresentazione nella forma di un triangolo:<br />

una piramide dunque.<br />

(37) T.S. Eliot, Burnt Norton, V sez., v. 12, in Four Quartrets.<br />

(38) A questo proposito, Italo Testa descrive il passaggio tra Umana gloria e Pitture nere come il passaggio Ŗdall'essere<br />

qualcuno all'esser qualunqueŗ. Il punto è che tale diaframma viene attraversato drammaticamente in ogni<br />

componimento della raccolta, generando quella particolare Ŗradianzaŗ che Testa sottolinea scaturire dalle cose Ŗnello<br />

stato finale della loro traiettoriaŗ. Si veda sempre Italo Testa, cit.<br />

90<br />

90


(39) Sotto questa luce si può leggere anche l'espressione molto suggestiva di Gezzi, quando scrive che qui «ogni poesia<br />

andrebbe considerata come una sorta di poem-painting»; e più oltre specifica: «ma in un'accezione più complessa, per<br />

cui le parole e i versi non mimano quello che intendono significare, ma lo Ŗpitturanoŗ a colpi di inchiostro, con una<br />

tecnica che riesce a coniugare il massimo di rappresentatività con la massima economia di mezzi»; in Gezzi, Pitture<br />

nere su carta..., cit.<br />

(40) Si legga Agamben, Pascoli e il pensiero della voce, in Categorie italiane, Editori Laterza, Bari, 2010 (1982), p. 66.<br />

Il filosofo si interroga sul significato del fonosimbolismo pascoliano e afferma: «Non, quindi, propriamente di<br />

fonosimbolismo si tratta, ma di una sfera, per così dire, al di qua o al di là del suono, che non simbolizza nulla, ma<br />

semplicemente, indica un'intenzione di significato». Si riprenderà anche in seguito questa citazione. Per quanto riguarda<br />

i rapporti fra Pascoli e Benedetti, sarebbe necessario un libro intero; valga qui questo breve accenno, ma consapevole<br />

che è da questa nozione di lingua morta che il lavoro dovrebbe partire. Sulla questione della crisi dell'apparato<br />

simbolico all'interno della cultura contemporanea, il nostro discorso sulla poesia di Benedetti trova un'inedita e più<br />

vasta risonanza nelle parole dello psicanalista Massimo Recalcati, L'uomo senza inconscio, Raffello Cortina Editore,<br />

Milano, 2010.<br />

(41) Mario Benedetti, Maggio 2009, cit., p. 57.<br />

(42) Mario Benedetti, Pitture nere..., cit., p. 105, vv. 4-5.<br />

(43) Ivi, p. 95, vv. 9-10.<br />

(44) Ivi, p. 21, v. 10.<br />

(45) Ivi, p. 44, v. 3.<br />

(46) È sempre Gezzi che ha notato la costante descrizione per viam negationis. Si veda Gezzi, Pitture nere..., cit.<br />

(47) Mario Benedetti, Pitture nere..., cit., p. 7, v. 5.<br />

(48) Ivi, p. 106, v. 7. Ma si veda anche «Acquerello opaco, acquerello opaco», Ivi, p. 93, v. 1.<br />

(49) In particolare, la critica al sistema simbolico verbale si può leggere esplicitamente tematizzata in Mario Benedetti,<br />

Pitture nere..., cit., p. 15, vv. 6-10: «Cominciarono sul quaderno\ con la figura copiata. Stupiti\\ segni curvi. Anatra.<br />

Abbecedario.\ Termine. Vai, per sempre avremo,\\ dissero, nozze, tribunali, are.» Secondo l'ottica estrema di Benedetti,<br />

l'educazione scolastica fu il primo responsabile dell'illusione di dominio che le parole portano con sé; illusione ampliata<br />

e confermata dalle strutture sociali, richiamate attraverso la doppia citazione tratta da Foscolo e da Vico.<br />

(50) G. Didi-Huberman, Ex-voto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p. 25. Corsivo dell'autore.<br />

(51) Ivi, p. 47.<br />

(52) Ibidem<br />

(53) Ivi, p. 75.<br />

(54) Si veda ivi, p. 57, laddove l'autore si interroga sulle implicazioni di una somiglianza che vede identicamente<br />

assolto il suo ruolo sia da un volto, sia da un dettaglio organico, solo in quanto l'identificazione avviene attraverso<br />

l'equivalenza del male.<br />

(55) Ivi, p. 7-8: gli ex-voto «sembrano del tutto inesistenti per lo storico dell'arte»; più avanti, il critico sostiene che le<br />

loro caratteristiche «le tengono lontane da ogni Ŗgrandeŗ storia dello stile»; esse «sono in grado di resistere a ogni<br />

evoluzione possibile».<br />

(56) Non è un caso che Claudia Crocco, durante un'intervista con Benedetti, sottolineasse la particolare mancanza del<br />

tempo in Pitture nere, laddove in Umana gloria «si riesce a leggere ancora una dimensione diacronica»; continua<br />

l'intervistatrice: «la dimensione temporale sembra del tutto assente, nonostante l'articolazione in capitoli dia una forma<br />

di architettura e di ordine consequenziale. Il tempo sembra sottratto alla poesia, e alle sue parole»; Mario Benedetti,<br />

Maggio 2009, in Materiali..., cit., p. 57.<br />

(57) Adorno, Valery e Proust il museo, in Prismi - Saggi sulla critica della cultura, Enaudi, Torino, 1982.<br />

(58) Ibidem. Si noti la vicinanza con quando sostenne Pavese, vedi supra, nota 11.<br />

(59) Per un elenco di alcune si veda Massimo Gezzi, Pitture nere, cit. e Italo Testa, Visività, cit.<br />

(60) Si riprende qui una suggestione del poeta Paul Celan, alla cui ricerca è profondamente legata la poesia di Benedetti,<br />

sebbene ci si debba qui limitare a questo accenno: «è come un porsi fuori dell'umano, un trasferirsi, uscendo da se<br />

stessi, in un dominio che converge sull'umano ed è arcano Ŕ il medesimo in cui sembrano essere di casa la figura<br />

scimmiesca, gli automi e con questo... ah, anche l'Arte» da Paul Celan, Il meridiano, in La verità della poesia, Enaudi,<br />

Torino, 2008, p. 9.<br />

(61) Yves Bonnefoy, cit., p. 37.<br />

(62) Pavese, Del mito..., cit., p. 275.<br />

(63) Ci riferiamo al saggio, ottimo per comprendere lo stato della narrativa contemporanea, di Daniele Giglioli, Senza<br />

trauma, Quodlibet, Macerata, 2011.<br />

(64) Mario Benedetti, Pitture nere..., cit., p. 106, v. 8.<br />

(65) Pavese, Del mito..., cit., p. 276.<br />

(66) Tale è l'epigrafe posta prima dell'ultima poesia, ma al plurale: physical dimensions.<br />

(67) Agamben, La fine del poema, in cit., p. 141.<br />

91<br />

91


BIBLIOGRAFIA<br />

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Testa I., Visività. Per Mario Benedetti, in www.puntocritico.eu<br />

92<br />

92


«Ti tu levéa „l cortel fa „n spersòrio». Espressionismo e dialetto nei poemata di Luciano<br />

Cecchinel<br />

Luciano Cecchinel è poeta plurilingue: scrive nella parlata di Revine-Lago (alto trevigiano, al<br />

confine con il bellunese), in italiano (un italiano di ascendenza illustre, con frequenti tratti<br />

primonovecenteschi) e in inglese (i numerosi passaggi di Lungo la traccia(1) e, nella medesima<br />

raccolta, il componimento Ohio Blues).<br />

Lřesordio è però in vernacolo, fin dal titolo: Al tràgol jért(2); e il dialetto resta a oggi lo<br />

strumento espressivo per eccellenza del poeta revinese: gli consente infatti di attingere non tanto il<br />

lato aurorale e idillico del proprio immaginario, quanto semmai la rappresentazione più fedele e<br />

dolorosa della sua vicenda personale e di quella della sua comunità. Da Al tràgol jért:<br />

E cusita no i se mesteghéa, nò,<br />

parlar đe na òlta, i to senċ<br />

[…]<br />

E rabioso fa na saca torđesta<br />

che la ghe scanpa a man che đàđia<br />

reòltete su i đènt<br />

đe chi che te ciol senža olérte. (3)<br />

Cecchinel sfrutta al meglio le potenzialità fonico-ritmiche della parlata di Revine-Lago,<br />

affidandosi alla capacità generativa di quei suoni: insiste sistematicamente sui nessi velare-vibrante<br />

e sulle dentali occlusive e fricative. Inoltre, i frequenti monosillabi in fitta successione e le tronche<br />

in consonante, speculari alla natura scheggiosa dei suoi materiali, rendono bene lřangosciosa<br />

difficoltà dellřesistere e del dirsi:<br />

Lřultima macia đe luna fa lat fresc spanđest<br />

A stròž đe lonc<br />

valòi e crèp<br />

par bosc e prà<br />

co quei Řndati qua su<br />

Te „n coat scur đe fien e đe stran<br />

Cađene đe os la torž la not(4)<br />

Su đa i so nif de crep<br />

sioraž fa poje e i so sansèr fa còrž<br />

co gòs de gorghisia e bèc de jaž<br />

anca noi in ultima scòrža e scaja<br />

co òci đa fret e đa scur<br />

on raspà su a stròž đe scondon<br />

roba restađa(5)<br />

Interviene anche lřimpiego di un enjambement il più delle volte debole che, isolando a inizio<br />

verso relative attributive, complementi di specificazione, predicativi e simili, provoca uno<br />

sfasamento minimo di melos e logos, bastevole però a una pronuncia davvero alloglotta del mondo.<br />

Il poeta ne ottiene un ritmo continuamente franto (vi concorrono anche lřanastrofe e lřiperbato),<br />

che valorizza al meglio la tessitura irta e zigrinata del suo dialetto:<br />

93<br />

93


Anca đoman la not<br />

la intajarà su par đe là<br />

al so đugàtol đe jaž…<br />

E mael al pež al revèsa<br />

i braž scanađi đal scur<br />

e Řl bulighéa in tra le batuđe<br />

stòrte inbriaghe<br />

Řl fogo Řnđat lřà asà croste<br />

đe ženđre e đe fret. (6)<br />

Quanto finora indicato testimonia del tentativo di ridurre in una nassa di versi e forme più o<br />

meno regolari le reminiscenze improvvise Ŕ vere e proprie accensioni mnestiche Ŕ che visitano il<br />

poeta di continuo:<br />

Ti tu levéa Řl cortel fa Řn spersòrio<br />

come par salvar al to žércol<br />

de storia sbrindolađa che Řndéa.<br />

[…]<br />

Đès al to žércol no Řl fa pi paura.<br />

Lřè řndat romài in sbrìndole de memoria. (7)<br />

Queste «sbrìndole de memoria» non si dispongono secondo un prima e un dopo, ma attuano<br />

forme di caotica compresenza. Di qui il recupero, nella produzione in dialetto soprattutto, della<br />

forma poemetto, che avrebbe proprio il fine di dare ordine e significato a una pluralità di<br />

frammenti. Il poeta perviene così a una struttura accumulativa composta di una congerie di lirici<br />

precipitati e logoi-schegge, di quanto insomma transita sotto la soglia della coscienza. La figura<br />

dominante nei poemetti di Cecchinel è pertanto lřenumeratio, e il modello per una precisione<br />

elencatoria che vuole sottrarsi alla pura descrizione potrebbe essere il Walt Whitman di Leaves of<br />

grass(8):<br />

La caṡèra su sote Řl crùcol, la porta đe lenċ<br />

vèrta, la strisa đe sol tel scur fresc,<br />

garnèi e garnèi levađi che arž,<br />

i restèi pođađi su la batuđa, la manèra<br />

piantađa sul žoc, le scaje e i s-ciauž su la<br />

manđra, al làip sut đe piera đolža,<br />

i falđin picađi a la rama đel pež, al<br />

furigar đel vènt in tra mež, lřaqua<br />

che la sguataréa tel cođèr(9)<br />

La sintassi delle immagini e la rapinosa quanto arbitraria simultaneità associativa dispongono il<br />

tutto a un riferimento pittorico; un quadro della realtà distorto in una forma oscuramente<br />

aggressiva (gli esempi ne renderanno conto) anche verso lřosservatore:<br />

i pra roṡa e bròṡa sote Řl žiel de<br />

žera, sora i bosc ženđre đe<br />

castagnèr,<br />

lřaqua želèste, blu, viola in contra le<br />

larghe đe oro đe le canèle col primo<br />

ciaro e đel paluc sèc e la biava<br />

94<br />

94


fiévere đe color<br />

đa le invierađe đe bosc screcolosi(10)<br />

Colorazioni fredde e cupe a un tempo, un sole lattescente che va indebolendosi, la<br />

prefigurazione costante e ubiqua della morte autorizzano almeno un rimando alla corrente<br />

poetico-pittorica dellřespressionismo primo-novecentesco, italiano e non: da Rebora e vociani a<br />

Trakl e Benn, da Blok ed Esenin a Mandelřstàm e Jòzsef. Due esempi:<br />

Al me can ghe par fursi đa strani<br />

che rèste Řnđé che no lřé gnessuni<br />

in tra Řl bosc mort e Řl lac injažà<br />

la sera pi biṡa đe i ultimi ani(11)<br />

Cecchinel è inscrivibile nellřalveo della poesia espressionistica anche per il ricorso a taluni<br />

procedimenti che posseggono da oltre un secolo una grammatica propria: lřassolutizzazione del<br />

sostantivo (privato dellřarticolo per accrescerne al massimo le potenzialità semantiche), le<br />

similitudini senza il «come» (cui nel dialetto di Revine corrispondono «fa» e «cofà»), le analogie<br />

violente, lřellissi dei verbi copulativi et cetera. Alcuni esempi:<br />

la montagna mare biṡa insonađa,<br />

al sol schirat roṡat ingelà<br />

[…]<br />

la manèra stela đe arđènt<br />

i os tirađi sache torđeste<br />

le vene venċ. (12)<br />

Le medesime soluzioni sono presenti nella produzione in lingua:<br />

ordinata catastrofe mi inghiottono<br />

cataste di ferraglie rugginose<br />

la città ferrovetrosa,<br />

ortogonale ragno rattrappito,<br />

arranca contro la pianura(13)<br />

serpe folgorata,<br />

sbiadisce la saetta<br />

alti anditi fumosi<br />

attaccaticci odori<br />

sudano foschie(14)<br />

Quella di Cecchinel è dunque una scrittura che procede per giustapposizioni e aggregazioni di<br />

sensazioni e immagini. I «sénċ sparpagnadi» liberati sbloccando «al cađenaž đur / đel stàul<br />

stracolmo e orbo» («il catenaccio duro dello stabbio stracolmo e cieco») non riescono però a<br />

comporsi in unità, e gli utensili ormai inservibili divengono il traslato oggettivo dellřalienazione<br />

del poeta: restèi, manèra, faldin, «la carucola ondesta, al portante che řl pica in calibro sul žei lònc<br />

de la jerta» («la carrucola lubrificata, il portante che pende in equilibrio sul ciglio lungo dellřerta»).<br />

La realtà è ingigantita con unřottica macro che, insistendo per metonimia sui particolari, ottiene<br />

effetti deformanti di chiara matrice espressionistica.<br />

Lřiperrealismo allucinatorio che investe le cose, e che la parola dialettale provvede a<br />

incrementare, si estremizza quando il poeta batte in ritirata e si rinserra in un angulus inaccessibile<br />

di «murate jerte e inferiađe» («mura ripide e inferriate»), in cui realizzare «al đes-ciorse ultimo»<br />

95<br />

95


(«lřestraniamento ultimo»). Egli biascica «senċ che gnesuni pi romai intenz» («segni che nessuno<br />

più ormai intende»), investendo la parola del significato scritturale di signum.<br />

Ma il suo annunzio, per nulla lieto, si riduce a una cadenza martellante:<br />

mi, caròl carolì de canàgola,<br />

fae mamì de mi panevìn. (15)<br />

Lřinsistenza allitterante-onomatopeica sulle sillabe -ca- -ro- -ma- -mi- (vi è sotteso forse il<br />

petrarchesco «di me medesmo meco mi vergogno») simula un balbettio che mima il moto di<br />

ripiegamento dellřio su se stesso, esibendo la prostrazione del poeta. Non per nulla Cecchinel si<br />

definisce «scođraž žòt žabot(16) » Řultimo nato, zoppo e balbuzienteř. Una balbuzie tuttavia mai<br />

doma, nei sussulti analogici e nelle paratattiche asprezze. Essa altro non è se non lřostinato<br />

richiamo a un ordine del mondo millenario e a unřidea della persona superati e sommersi come<br />

dallřonda di un maremoto:<br />

par che la caṡera svođađa<br />

la è cativa<br />

fa la malađižion<br />

đe na mare đrio Řnđar. (17)<br />

Forme attonite sřaccampano di getto e impongono il loro silenzio.<br />

Sul soggetto incombe la medesima condanna alla rovina che incalza il suo mondo.<br />

Fissando gli occhi su quanto rimane di quella cosmogonia, il poeta-stregone («stròlego stranbo e<br />

romit» si definisce Cecchinel) è il predestinato a nominare e a evocare definitivamente gli arredi<br />

del proprio universo.<br />

In questa situazione di allarme e delirio, la poesia resta forse l'unica dimensione possibile di<br />

resistenza e sopravvivenza: «La mia poesia è dimessa, non mai dimissionaria. Una rivendicazione<br />

etica, aperta all'invettiva Ŕ anche laddove questa è solo latente Ŕ, è sempre presente o<br />

rintracciabile»(18).<br />

Sřincide così nella pagina, con inedito strazio, lřimmagine del presente che ci è toccato in sorte:<br />

oggi capire vale Řcolpař, esser buoni Řperdizioneř. E contro una «quiete che fa finire», meglio<br />

allora «anche poter morire»(19).<br />

96<br />

Giovanni Turra<br />

Note.<br />

(1) L. CECCHINEL, Lungo la traccia, Torino, Einaudi 2005.<br />

(2) ID, Al tràgol jért (L‟erta strada da strascino). Poesie venete 1972-1992, edizione riveduta e ampliata, Postfazione di<br />

A. Zanzotto, Milano, Scheiwiller 1999. Esso resta, a oggi, lřunico suo libro edito interamente redatto in dialetto. Di<br />

Sanjut de stran, lřaltro lavoro in vernacolo e non ancora pubblicato in un volume autonomo, sono invece uscite due<br />

significative anticipazioni: Sanjut de stran. Singhiozzo di strame, in Cinque poeti in dialetto veneto. Andrea Zanzotto,<br />

Cesare Ruffato, Luciano Caniato, Luciano Cecchinel, Gian Mario Villalta, «In forma di parole», XVIII, la quarta serie,<br />

3, 1998, pp. 143-175; e Sanjut de stran (1989-1998), in Poeti in terra veneta. Cesare Ruffato, Luciano Caniato, Carlo<br />

Rao, Luciano Cecchinel, Marco Munaro, Giovanni Turra, Alessandro Niero, «In forma di parole», XXVIII, la quarta<br />

serie, 1, 2008, pp. 168-225.<br />

(3) «E così non si addomesticano, no, / parlare di una volta, i tuoi segni / […] / E rabbioso come un virgulto ritorto / che<br />

sfugga a mani che stentano / rivòltati sui denti / di chi ti prende senza veramente volerti». L. CECCHINEL, Al tràgol jért,<br />

cit., p. 88.<br />

(4) «Lřultima macchia di luna come latte fresco versato»; «Vagando lungo / valloni e dirupi / / per boschi e prati / con<br />

quelli morti qui su»; «in un giaciglio scuro di fieno e di strame»; «Catene di ossa torce la notte». Ivi, pp. 15, 57, 82, 89;<br />

il corsivo è mio.<br />

(5) «Su dai loro nidi di rupe / signoracci come poiane e i loro sensali come corvi»; «con gozzi di ingordigia e becchi di<br />

ghiaccio»; «anche noi infine scorza e scheggia / con occhi da freddo e da buio» «abbiamo raccattato vagabondando di<br />

nascosto / roba rimasta». ID, Perché ancora, Vittorio Veneto, Istituto per la Storia della Resistenza e della Società<br />

Contemporanea del Vittoriose (ISREV), 2005, p. 103; il corsivo è mio.<br />

96


(6) «Anche domani la notte / intaglierà su per di là / il suo giocattolo di ghiaccio»; «e solitario il pino rovescia / le<br />

braccia spossate dallřoscurità»; «e si agita tra i battenti / storti ubriachi»; «il fuoco trascorso ha lasciato croste / di<br />

cenere e di freddo». ID, Al tràgol jért, cit., pp. 42, 53, 78, 141.<br />

(7) «E tu levavi il tuo coltello come un aspersorio / quasi per salvare il tuo cerchio / di storia a brandelli che andava. / /<br />

[…] / / Adesso il tuo cerchio non fa più paura. / È andato ormai in brandelli di memoria». Ivi, p. 72.<br />

(8) Circa lřassoluta rilevanza attribuita da Cecchinel al poeta americano, si considerino almeno Addio strada percorsa,<br />

Suite appalachiana, A Walt Whitman e relative note, in ID, Lungo la traccia, cit., pp. 32, 35, 52.<br />

(9) «La casera su sotto il cocuzzolo, la porta di legno aperta, la scia di sole nellřombra fresca, granelli e granelli levati<br />

che ardono, / i rastrelli appoggiati sullo stipite, la scure piantata sul ceppo, le schegge e i fuscelli sullo spiazzo, il<br />

truogolo asciutto di pietra dolce, / le falci appese al ramo dellřabete, il frugare del vento in mezzo, lřacqua che<br />

sciaguatta nel bossolo per la cote». ID, Al tràgol jért, cit., p. 21.<br />

(10) «I prati rosa e brina sotto il cielo di cera, sopra i boschi di cenere e castagni / lřacqua celeste, azzurra, viola contro<br />

le distese dřoro delle cannelle alla prima luce e dellřerba di palude secca e del granoturco»; «febbri di colori / dalle<br />

vetrate di boschi scricchiolanti». Ivi, pp. 15, 37.<br />

(11) «Al mio cane sembra forse strano / che resti dove non cřè nessuno / tra il bosco morto e il lago ghiacciato / la sera<br />

più grigia degli ultimi anni». Ivi, p. 27.<br />

(12) «La montagna madre grigia assonnata, / il sole scoiattolo rossiccio gelato tra i rami senza una foglia, / […] / la<br />

scure stella dřargento che cade sopra la radice»; «le ossa ridotte virgulti torti / le vene vimini». Ivi, pp. 15-17, 67.<br />

(13) Ivi, p. 31.<br />

(14) ID, Le voci di Bardiaga, Rovigo, Il Ponte del Sale 2008, p. 37.<br />

(15) «Io, tarlo tarlato di collare / faccio da me stesso di me un grande fuoco». ID, Al tràgol jért, cit., p. 153.<br />

(16) Ivi, p. 54.<br />

(17) «Perché la casera svuotata / è cattiva / come la maledizione / di una madre morente». Ivi, p. 125.<br />

(18) Da unřintervista inedita a L. Cecchinel, raccolta da chi scrive il 25 marzo 1998, in occasione del quarto<br />

appuntamento della manifestazione culturale «LEGGERLE. Cantieri poetici del Triveneto», tenutasi presso la libreria<br />

«Becco giallo» di Oderzo (TV).<br />

(19) Cfr. ID, I tempi che son dati, in Perché ancora, cit., p. 71.<br />

97<br />

97


Su Viaggio nella presenza del tempo di Giancarlo Majorino<br />

In apertura<br />

Occorreranno anni per metabolizzare sul piano critico un poema così complesso e stratificato. Ciò<br />

che mi sento di dire oggi è che sin dallřinizio si possono suggerire delle chiavi di indagine, delle<br />

tracce, delle coordinate che, come strumenti di navigazione, possono orientare e indicare dove e<br />

cosa cercare, piuttosto che riferire ritrovamenti o illustrare zone particolari della vasta aerea che qui<br />

si può solo fisicamente sorvolare. Con queste mie parole riprendo una strada cominciata venti anni<br />

fa, una strada che in modi diversi molti di noi qui hanno fatto, conoscendo Giancarlo da meno o più<br />

tempo: quella del dialogo e del comprendere, del tentare di accogliere lo specifico pur sentendo<br />

come in un moto di simpatia umana ciò che accomuna. Lo sfondo insomma è il simil- diverso, o il<br />

simil-dissimile, la relazione che non si crea ma si riconosce giacché è data sin dallřinizio, presso gli<br />

umani. E con questřultima considerazione si è già dentro al poema e ci si è già imbattuti in uno dei<br />

suoi temi preferiti.<br />

Ne esco subito per elencare ciò che chiamo Řcampi di tensioneř e che sono secondo me alcuni<br />

segnali luminosi utili per la navigazione e per la lettura. Un campo di tensione è tale perché<br />

scaturito da opposte polarità o da poco riducibili differenze, si fa luogo di elaborazione e di<br />

produzione del senso. Sono convinto che a generare la poesia di Majorino siano proprio questi<br />

campi che nel tempo non hanno mai perso la loro Řtensioneř e che appartengono tanto a lui, alla sua<br />

biografia, forse anche alla sua personalità umana, quanto al modo con cui la nostra storia dal<br />

Dopoguerra si è raccontata, anche qui un singolare intreccio tra un modo di rappresentarsi e un<br />

fascio di rappresentazioni collettive, in cui poi in definitiva consiste la cultura di unřepoca, la stessa<br />

produzione simbolica. E questo intreccio di storie non è subìto ma costantemente cercato, direi<br />

programmaticamente cercato, rientrando tale ricerca in quella che una volta si chiamava dimensione<br />

etica della poesia e si voleva dire questa storica, attiva eticità. E credo di poter riconoscere questo<br />

carattere perché proprio nel momento in cui stava per dissolversi alla metà degli anni ř80, almeno in<br />

una sua certa forma, personalmente chi scrive ne veniva a contatto, pieno di curiosità e pronto ad<br />

assumersene la responsabilità.<br />

Dunque i campi di tensione da me individuati, non esaurendone con questo ovviamente il numero<br />

né il tipo, sono relativi sia al piano stilistico-formale, sia a quello dei temi, realizzandosi molto<br />

spesso tra gli uni e gli altri radicate simmetrie.<br />

Splendore e oggettività della lingua<br />

Il primo campo, per me il più evidente, è quello che viene instaurato ponendo insieme due istanze<br />

per loro natura contraddittorie ma che risultano molto produttive una volta poste a contatto: mi<br />

riferisco alla tensione verso Řlo splendore della linguař e la tensione verso Řlřoggettività della<br />

linguař.<br />

Da un lato la lingua viene lavorata e Řslogatař perché , per così dire, fiorisca nella sua autonomia,<br />

perché possa segnalare la libertà sensuosa e gioiosa del dire intorno, su, prima, dopo lřoggetto<br />

significato, dallřaltro la lingua viene disciplinata e ritrovata così comřè, così come risulta dal<br />

processo collettivo dei parlanti, e quindi spesso lingua pre-codificata, o dal gergo o dalla filosofia (e<br />

questřultimo per la verità è già un altro campo di tensione che con il precedente sřinterseca).<br />

E di fatto la mia analisi in campi di discorsi per comodità espositiva procede in senso orizzontale<br />

ma la realtà testuale prevede un intreccio verticale tra i campi di tensione che necessariamente una<br />

descrizione, ancorchè sommaria come questa, non può restituire.<br />

Energia e immobilità della lingua.<br />

Il secondo campo di discorso, attiguo al primo, è costituito dalla tensione che si genera tra lřenergia<br />

della lingua e la sua immobilità, per intenderci: tra il piano pre-verbale che di tanto in tanto muove<br />

il sorgere e il concatenarsi dei versi e quello della citazione, del lacerto, più o meno adattato, più o<br />

98<br />

98


meno addomesticato. Tra pre-verbale e gestuale da un lato e campionatura antologica dallřaltro, tra<br />

energia e massa verbale.<br />

Realismo e sperimentazione.<br />

Un terzo campo di tensione, connesso profondamente ai primi due, riguarda i grandi progetti<br />

estetici. Da unřistanza di partenza che è quella del realismo alla dissociazione tra questa istanza e la<br />

poetica corrispondente. Dal momento che Majorino come Pagliarani e Di Ruscio, per citare nomi a<br />

me familiari, hanno in un certo senso dovuto rispondere, in modi diversi, a quellřimpasse che si era<br />

creato alla metà degli anni ř50 tra coloro che insistevano per il primato contenutistico-ideologico e<br />

coloro che sentivano come retorico in quegli anni questo primato. E tra i migliori di quella<br />

generazione cřè sempre stato del Řnervosismoř testuale, cioè la consapevolezza che lo specifico<br />

dellřarte risiedesse nellřinvenzione di modi non previsti di ri-attraversamento di temi comuni, di<br />

storie concrete, di tangibili umanità. Ed è in questa chiave , secondo me, che va letta la componente<br />

sperimentale di Majorino: lřadozione del montaggio a freddo o a caldo, lřuso di pre-fissi e<br />

calembours, lo spaziare tra i diversi registri del colloquiale, fino alla singola deformazione<br />

microlinguistica. Dico componente perché lo sperimentale è solo un polo del campo, lřaltro è la<br />

riconoscibilità, lřopposta pulsione dellřidiolettale, la pedagogia.<br />

Accumulo ed ellissi<br />

Un quarto campo di tensione è a livello propriamente retorico. Si tratta di una strategia che permette<br />

di tenere insieme materialmente, cioè a livello testuale, sia lřistanza realistica che quella<br />

sperimentale, realizzando lřossimoro della Řbellezza slogatař: lřaccumulo e lřellissi. Accumulo ed<br />

ellissi sono due figure che rendono il dire contemporaneamente sovraffollato e reticente. Accumulo<br />

e reticenza. O, anche, ripetizione e reticenza. La funzione mimetica dellřaccumulo viene utilizzata<br />

soprattutto per far muovere le masse allřinterno di storie metropolitane, ma è la metropoli stessa che<br />

sembra generare per sua natura lřaccumulo dei nomi e delle situazioni. La funzione mimetica della<br />

reticenza addita al contrario ciò che non viene detto, che viene taciuto e che sottende spesso il<br />

movimento di quelle masse, lo snodarsi di quelle storie metropolitane. Per le nuove generazioni<br />

credo risulti quasi incomprensibile il fatto che le generazioni precedenti abbiano sentito nel proprio<br />

dna una spinta utopica, che questo dna sembrava essere confermata dalla storia e dalle illusioni<br />

collettive.<br />

Hegel, Marx, Scuola di Francoforte ma anche Merlau-Ponty e Sartre<br />

Un quinto campo di tensione è offerto direttamente dalla storia della filosofia e dalle questioni che<br />

nascevano dal dover correggere il marxismo, o almeno la sua versione economicista, con iniezioni<br />

di esistenzialismo, fenomenologia e psicoanalisi. Questo campo di tensioni codificava a livello<br />

formalizzato e concettuale ciò che si andava vivendo. Era in gioco la rappresentazione del collettivo<br />

alle prese con la rappresentazione dellřindividuale. Questa tensione sarebbe poi stata spazzata via<br />

dal postmoderno fino a costringerci oggi a parlare di anomia sociale o, anche, a non parlarne più.<br />

Ma intanto, al di là del particolare periodo storico, la poesia , come sempre, si rivolgeva al versante<br />

di lungo periodo, giungendo a non solo a testimoniare di unřesperienza storica ma anche ad indicare<br />

una direzione di felicità. E in tal senso riproponendo come inevitabile la relazione tra i due piani di<br />

rappresentazione. Eř il tema, appunto, dei simil-dissimili e della necessità di trovare una via dřuscita<br />

al solipsismo ma anche al conformismo sociale o ideologico.<br />

Poesia e prosa<br />

Un sesto campo di tensione viene instaurato tra poesia e prosa, sia nello sciogliersi per sfumature<br />

tonali dellřuna nellřaltra, sia per giustapposizione. Dřaltra parte sia il verso che la prosa narrante<br />

sono animate dalla stessa ansia che produce contrazione e andamento sincopato. Ciò che fa la<br />

differenza e crea tensione è la misura versale che come tale impone una pausa e una concentrazione<br />

dellřattenzione e dellřudito sulle singole parole, sulle singole assonanze o figure fonico-ritmiche.<br />

99<br />

99


100<br />

Ciò che fa la differenza non è tanto lřintensificazione del dettato quanto la possibilità di introdurre<br />

qualcosa che possa funzionare come lirica o come intervallo riflessivo e meditante.<br />

La formula e il prolisso<br />

Settimo e ultimo campo di tensione mi pare che sia stabilito tra la tendenza a precipitare in formula,<br />

sigla, epiteto e lřopposta tendenza ad una sorta di prolissità caotica e divergente.<br />

Da un lato vi è come il desiderio di coniare un formulario che possa ridurre la molteplicità ad un<br />

solo termine, spesso composto ma comunque coniato di fresco, dallřaltro vi è la tendenza a<br />

includere ogni oggetto e quindi ogni termine che lřimmaginazione onirica propone, stipandolo così<br />

come affiora sulla soglia della coscienza. Questo campo di discorso evidentemente si connette a<br />

quello dellřaccumulo e dellřellissi, restituendo sul piano macroscopico ciò che avviene sul piano<br />

microscopico della figurazione retorica.<br />

All‟altezza degli anni „80<br />

Più che concludere vorrei qui indicare alcuni tratti in qualche modo extratestuali ma che ritengo<br />

importanti. Intanto un debito di gratitudine che ho contratto a partire dalla metà degli anni ř80 con<br />

Majorino. Ed è un debito che credo di condividere con molti, soprattutto tra coloro che vivendo a<br />

Milano hanno avuto modo di frequentarlo, magari in anni diversi, ma con la stessa intensità di<br />

scambio. Da sempre si sapeva dellřesistenza di questo poema in progress.<br />

Per quanto mi riguarda, lřapporto che riconosco proveniente dai suoi discorsi e dalla sua opera è<br />

sostanzialmente il richiamo alla dimensione realistica, oggettiva, metropolitana ed etica della<br />

lingua.<br />

Per me, non ancora trentenne, il dialogo con Majorino ha rappresentato lřaccesso vivo ai nodi<br />

essenziali della poesia e della cultura così come si erano andati configurando a partire dagli anni ř50<br />

in Italia, nellřintreccio tra estetica, teoria critica e sociologia. Per me da poco trasferito a Milano,<br />

proveniente da una Napoli che nel corso degli anni ř70 aveva proseguito il lavoro della<br />

sperimentazione linguistica, lřincontro con Majorino, come con Pagliarani e dopo con Di Ruscio, ha<br />

rappresentato la possibilità di coltivare, allřinterno della mia ricerca, la possibilità della narrazione<br />

in poesia, dissociando in modo liberatorio questřistanza da certi modi della lirica e da certe<br />

narcisistiche fumosità.<br />

Più di una volta Giancarlo, riferendosi alle reciproche influenze tra poeti tra loro dialoganti, ha<br />

usato lřespressione Řplasticitàř. E questa sua notazione aveva sempre nel tono della voce il segno<br />

della meraviglia e della sorpresa. Ritengo che questa plasticità sia anche una qualità del poema e<br />

forse il segreto felice della sua longevità.<br />

Biagio Cepollaro<br />

100


Forme macrotestuali nella poesia di Andrea Zanzotto. Da Dietro il paesaggio a<br />

Conglomerati<br />

101<br />

La poesia e i suoi punti compatti. Resistenza Ŕ anche Ŕ<br />

da lì. Dalle Ŗcompattezzeŗ riconoscere quanto irradia.<br />

Paul Celan, Microliti<br />

1. Nel volume Attraverso la «Beltà» di Andrea Zanzotto. Macrotesto, intertestualità, ragioni<br />

genetiche 1 , avevo tentato di fornire preliminarmente unřindagine comparativa sui fenomeni<br />

macrotestuali nellřopera zanzottiana, al fine di collocare il capolavoro del 1968 (La Beltà, su cui<br />

sřincentrava principalmente lřanalisi) in un contesto complessivo 2 .<br />

Per ragioni cronologiche, era rimasta esclusa dal mio studio lřultima raccolta di Zanzotto,<br />

Conglomerati 3 . Accingendomi qui a rimediare a quella lacuna, mi è parso utile riprendere al<br />

paragrafo seguente, con qualche variazione, la parte dedicata allřanalisi di cui sopra.<br />

2. La macrostruttura nelle raccolte zanzottiane: da Dietro il paesaggio a Sovrimpressioni<br />

2.1 A proposito di Dietro il paesaggio (1951), raccolta dřesordio di Zanzotto, Stefano Dal Bianco<br />

osservava:<br />

«Per testimoniare la presa diretta sulle trasmutazioni del paesaggio, lřordinamento delle poesie<br />

segue una rigorosa scansione stagionale, che fa aggio sulla cronologia di composizione dei testi.<br />

La prima sezione, Atollo, è numericamente la più cospicua anche perché deve ospitare un ciclo<br />

stagionale completo: dopo una poesia inaugurale e Ŗprogrammaticaŗ, priva di tratti stagionali<br />

marcati (Arse il motore), troviamo un ciclo primaverile (fino a Serica), un ciclo estivo (da<br />

Distanza a Notte di guerra, a tramontana) che sfuma nellřautunno (Quanta notte, Reliquia,<br />

Assenzio) e infine quattro poesie invernali (da Batte il fabbro a Oro effimero e vetro). La seconda<br />

sezione, Sponda al sole, riprende lřandamento stagionale dalla primavera trascolorando<br />

gradualmente nellřautunno inoltrato di Lorna, che preannuncia climaticamente la terza sezione,<br />

Dietro il Paesaggio, tutta occupata da testi autunnali, e il libro si chiude sulla data precisa del 31<br />

dicembre (Nella valle) [...]. Fin da subito Zanzotto manifesta insomma un considerevole impegno<br />

nellřassemblare i propri libri, tenendo in grande conto sia la forma canzoniere (con rimandi<br />

precisi fra testi contigui), sia la sottesa narratività, a contenere lřeccesso lirico» 4 .<br />

Sempre mantenendosi ad un livello macroscopico, altri fattori di coesione si possono individuare<br />

nella comune matrice del titolo della prima sezione, Atollo, richiamo appena dissimulato<br />

allřhölderliniano Archipelagus, e dellřepigrafe apposta alla sezione Sponda al sole, «Ihr teuern<br />

Ufer, die mich erzogen einst» (O care rive che un giorno mi cresceste), desunta questa volta dalla<br />

poesia Die Heimat (Paese natale) del poeta svevo: «Come in Hölderlin le alpi sono frontiera che<br />

delimita la terra natale della propria adolescenza e giovinezza, ma anche frontiera che si desidera<br />

varcare» 5 . Non cřè bisogno di sottolineare, inoltre, come lř«atollo» e il «paese natale» rinviino<br />

proprio al «paesaggio» cui sono intitolate la stessa raccolta e la sezione eponima.<br />

1 Pisa, ETS, 2011.<br />

2 Ibid., cap. II, 2-3, pp. 47-70.<br />

3 Milano, Mondadori, 2009.<br />

4 Le poesie e prose scelte, Milano Mondadori, 1999, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta (dřora in avanti<br />

abbreviato PPS), pp. 1400-1 Sebbene non sussista in questa sede la possibilità di discutere in maniera esauriente la<br />

questione, mi pare tuttavia che il «rigore» della «scansione stagionale» andrebbe forse lievemente attenuato. Qualche<br />

corsivo esempio: il ciclo estivo di Atollo sembra principiare solo con la poesia eponima, mentre le quattro precedenti<br />

(da Distanza a Le carrozze gemmate) non presentano tratti stagionali determinati. In particolare, in Montana, I, domina<br />

lř«ebrietà / di nevi e dřacque» mentre in III si legge: «e perchè forse è primavera / la tomba tua mřha disertato». Nella<br />

seconda poesia della sezione Dietro il paesaggio (Là sul ponte), «tutta occupata da testi autunnali», si legge nei versi<br />

esplicitari 20-1: «e lřestate legata dalla neve / non conosce altro frutto che se stessa».<br />

5 Fernando Bandini, Zanzotto dalla Heimat al mondo, in PPS, pp. LXI-II.<br />

101


102<br />

Nella silloge successiva, Elegia e altri versi (1954), lo stesso Dal Bianco intravede una «ripresa<br />

dellřandamento stagionale, a partire dal mese di marzo e insistendo sulla primavera fino allřautunno<br />

di Contro monte, mentre Elegia è sul finire dellřanno, ma guardando allřinverno, come lřultima<br />

poesia di Dietro il paesaggio, Nella valle» 6 .<br />

La prima sezione di Vocativo (1956), Come una bucolica, è «ancora in qualche modo accostabile<br />

tematicamente ai due libri precedenti. Le variazioni del paesaggio, stagionali e climatiche,<br />

presiedono allřordinamento dei testi, che sono in maggioranza di ambientazione estiva, ma coprono<br />

per intero il ciclo ideale di un anno, dallřEpifania ritornando allřinverno dei Paesaggi primi» 7 .<br />

Dopo lo scenario invernale che apre il primo componimento 8 (v. 1: Punge il pino i candori dei colli)<br />

e la disperazione di Fiume all‟alba (14: Perch‟io dispero della primavera), si passa al giugno (7) di<br />

Piccola elegia, al luglio (I, 30, 32; II, 1) di Altrui e mia ed Elegia del venerdì (I, 21); ancora estivi<br />

sono Esperimento (I, 1-3: L‟estate ancora esalta / le recondite lave / della mia mente) e I compagni<br />

corsi avanti (5-6: E va, l‟estate in guerra, muove al corso / dei suoi dolori le grandi erbe e i fumi),<br />

mentre con Dove io vedo sopraggiunge lřautunno (2-4: estate che scuotesti / dal seno aperto di<br />

settembre / spighe ed erbe su tutta la terra) che domina il paesaggio di Nuovi autunni, Quartine del<br />

pioppo (dove lřalbero «Giallo si fa di deboli / ali» e ritorna il «lieve claxon» di Epifania, 10) e<br />

Colloquio (1-3: Per il deluso autunno, / per gli scolorenti / boschi vado apparendo), componimento<br />

che prelude allřatmosfera invernale di Paesaggi primi.<br />

Pur nella permanenza di alcuni accenni stagionali, nella seconda sezione della raccolta il principio<br />

coesivo cessa per la prima volta di gravitare attorno al tema del tempo naturale: come indica il titolo<br />

della sezione, Prima persona, ripreso nel secondo componimento della stessa, dominante diviene la<br />

dimensione (tematizzata) dellřio lirico, riconosciuto ormai come puro effetto linguisticogrammaticale<br />

9 al limite dellřinconsistenza.<br />

Ad accennare una continuità fra le due sezioni che risulterebbe altrimenti molto labile, due<br />

espedienti strutturali: la parziale ripresa del titolo della prima sezione nel dodicesimo<br />

componimento della seconda (Bucolica 10 ), e la presenza, in entrambe, di una poesia collocata in<br />

quinta posizione, in cui il poeta si rivolge alla madre (rispettivamente: Altrui e mia e Da un‟altezza<br />

nuova 11 ). Questřultimo parallelismo è inoltre rafforzato dallřincipit del secondo componimento<br />

(Ancora, madre, a te mi volgo), dove lřavverbio «ancora», con evidente valore logodeittico 12 , rinvia<br />

al contesto allocutivo di Altrui e mia.<br />

Alle due sezioni si aggiunge, a partire dalla seconda edizione mondadoriana del 1981,<br />

unřAppendice di sei poesie; la penultima delle quali, Là nel cielo, là nel terrore 13 , è imperniata sul<br />

6<br />

Ibid., p. 1428.<br />

7<br />

Sempre Dal Bianco, PPS, pp. 1436-7.<br />

8<br />

Tutte le poesie citate qui di seguito si trovano alle pp. 133-57 del volume mondadoriano siglato PPS.<br />

9<br />

Di «grammaticalismo» parlò per la prima volta Michel David in La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino,<br />

Boringhieri, 1966, p. 585.<br />

10<br />

PPS, p. 185.<br />

11<br />

Ibid., pp. 138-9 e 169-71.<br />

12<br />

Cfr. Maria-Elizabeth Conte, Coesione testuale: recenti ricerche italiane, in Aa.Vv., Linguistica testuale, Atti del XV<br />

Congresso Internazionale di Studi della Società Linguistica Italiana, Genova Ŕ Santa Margherita Ligure, 8-10 maggio<br />

1981, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 283-5: «Per la deissi testuale (logodeissi) vengono impiegati i mezzi della deissi<br />

spaziale (topodeissi) e della deissi temporale (cronodeissi). A differenza della deissi situazionale, questi mezzi vengono<br />

impiegati in un altro campo indicale […]: nel testo, e non nella situazione di discorso. Nella deissi testuale, i termini<br />

deittici indicano segmenti o momenti del testo […]. Mentre con lřanafora […] ci si riferisce ad unřentità extratestuale<br />

alla quale si è già fatto riferimento nel testo precedente, e tra antecedente e successore vřè un rapporto dřidentità, invece<br />

con la deissi testuale (logodeissi) il riferimento è fatto a un momento o segmento del testo nel suo svolgersi […]. La<br />

funzione della logodeissi è metatestuale: essa orienta lřascoltatore/lettore nel percorso del testo, lo istruisce a mettere in<br />

rapporto parti testuali».<br />

13<br />

PPS, p. 195.<br />

102


103<br />

vers-refrain «Dissi ieri Ŗdal cieloŗ» (1, 5, 21) in cui viene citato espressamente il titolo<br />

dellřundicesimo componimento della seconda sezione (Dal cielo 14 ).<br />

Le IX Ecloghe (1962) segnano lřabbandono della traccia stagionale per un principio coesivo più<br />

forte e derivante dal rapporto intertestuale con il genere bucolico virgiliano. Lo spazio testuale della<br />

raccolta è circoscritto da «un proemio in alessandrini», Un libro di ecloghe, «e un epilogo, Appunti<br />

per un‟ecloga, che è il surrogato di unřinesistente X ecloga, in minore rispetto a Virgilio».<br />

«A esclusione di un Intermezzo di sette liriche, lřordinamento della silloge procede per coppie:<br />

ciascuna delle ecloghe è seguita da un breve Ŗcorollarioŗ che ne specifica e ne commenta il tema.<br />

[...] Le ecloghe vere e proprie sono, in generale, maggiormente impegnate sul fronte Ŗinnovativoŗ<br />

della scrittura. È soprattutto qui che si affronta lřargomento dominante del libro: la sopravvivenza<br />

e la funzione della poesia stessa. [...] La struttura del libro è progressiva: se il primo gruppo di<br />

ecloghe, quelle che precedono lřIntermezzo, presenta soprattutto una serie di bilanci negativi, le<br />

ecloghe successive sono animate da una maggiore fiducia nelle facoltà di resistenza della<br />

convenzione lirica» 15 .<br />

La scansione speculare delle Ecloghe, appena incrinata dal fatto che la sezione successiva<br />

allřIntermezzo comprende due poesie in più della prima (lřEcloga IX e il relativo «componimento<br />

satellite»), senza contare la breve lirica che segue lřepilogo (Bleu), ritorna nella Beltà, con il<br />

raddoppiamento delle sezioni parallele tra incipit ed explicit, e la ripresa di una simmetria centrale<br />

perfetta, questa volta, sul piano numerico, e imperniata idealmente sullřElegia in petèl.<br />

2.2 La Beltà, infatti, si articola in un componimento proemiale, Oltranza oltraggio; una sezione<br />

anepigrafa che raccoglie «tre grandi poemi liminari» 16 ; una sezione intitolata Possibili prefazi o<br />

riprese o conclusioni, comprendente 10 poesie anepigrafe e numerate progressivamente; una nuova<br />

sezione anepigrafa di sei componimenti, tutti di ampio o ampissimo respiro a eccezione di Al<br />

mondo, poesia di misura più breve e collocata in terza posizione; un poemetto isolato dal titolo<br />

L‟elegia in petèl; una sezione di 18 componimenti anepigrafi e numerati progressivamente,<br />

intitolata Profezie o memorie o giornali murali. Infine, una poesia che funge da epilogo: E la<br />

madre-norma.<br />

Il dato di più immediata evidenza è lřopposizione che si realizza fra il prologo e lřepilogo, i quali<br />

incorniciano specularmente la raccolta, allřinsegna lřuno dellř«oltranza» sperimentale e della<br />

poetica dantesca dellřineffabilità (oltraggio: cfr., come suggerisce la nota dřautore, Par. XXXIII,<br />

57: «e cede la memoria a tanto oltraggio»), lřaltro, di una «madre-norma» la cui ascrizione al<br />

paradigma petrarchesco si dichiara nel riferimento (vv. 17-8) alle «dolenti parole estreme» di R.V.F.<br />

CXXVI, 13.<br />

Oltre alla posizione strutturale e al rapporto di complementarità sussistente, sul piano semantico, fra<br />

«oltranza» e «norma», a porre i componimenti in una condizione di reciprocità è la coordinante<br />

macrotestuale incipitaria nel titolo del secondo (leggi idealmente: Oltranza oltraggio - E la madrenorma).<br />

Contrassegno pertanto i due componimenti, rispettivamente, con A e A1.<br />

Palese è anche la relazione fra le sezioni Possibili prefazi o riprese o conclusioni e Profezie o<br />

memorie o giornali murali, il cui titolo è costituito in entrambi i casi da un tricolon legato per<br />

polisindeto dalla congiunzione Ŗoŗ, dove ai «prefazi» corrispondono parallelamente le «profezie»,<br />

alle «riprese» le «memorie», alle «conclusoni» i «giornali murali».<br />

14 Ibid., pp. 182-4.<br />

15 S. Dal Bianco, PPS, pp. 1462-3.<br />

16 Stefano Agosti, Zanzotto o la conquista del dire, in Il testo poetico. Teoria e pratiche d‟analisi, Milano, Rizzoli,<br />

1972, p. 217.<br />

103


104<br />

«Prefazi» è termine liturgico indicante la parte della messa preliminare al mistero dellřeucaristia,<br />

ma che ritengo innanzitutto mediato da Dante, Par. XXX, 78: «Anche soggiunse: Ŗil fiume e li<br />

topazi / chřentrano ed escono e Řl rider de lřerbe / son di lor vero umbriferi prefazi».<br />

Profezie o memorie o giornali murali riprende invece, variandolo in polisindeto, il v. 17 del primo<br />

componimento della sezione (Anche: profezie memorie giornali murali), la cui struttura<br />

giustappositiva ed elencativa si estende al verso successivo, a indicare nel medesimo tempo<br />

lřonnipervasività della scrittura e il suo poter solo lambire, circoscrivere lřineffabile «oltranza»<br />

(monogrammi plurigrammi dovunque, sfioranti « »; cfr. anche i vv. 15-6, con la ripresa del<br />

lemma tematico del prologo «oltraggio»: E ogni ha in sé la sua piccola teodicea; / non mancare<br />

allo show, né poi allo show dei piccoli oltraggi ). Nellřinterpretazione di questo titolo soccorre<br />

anche la sintetica nota dellřautore:<br />

«Le sole profezie che si possano formulare sono naturalmente quelle del fantasioso agricoltore<br />

Nino; le memorie sono piuttosto residui; i giornali murali (tazebao o dazibao, secondo le più<br />

correnti trascrizioni): bisognerà pensarci» 17 .<br />

«Le profezie di Nino» è infatti lřincipit tematico del III componimento della sezione 18 , vero e<br />

proprio Ŗtrionfoŗ del «ducazio» di Dolle che ritorna tra lřaltro come protagonista nel XVI, dove a<br />

costituire un «augurio», una «profezia», è il «gran ridere» dei ritrovi conviviali con Nino,<br />

documentato «in filmine didattiche», «nel ricco ricciolo della pellicola» 19 .<br />

I «giornali murali» o «tazebao», infine, compaiono al v. 22 del XVII, intersecando un riferimento al<br />

Castello di Kafka (tazebao di K contro Momus e Klamm).<br />

In senso più generale, ad ogni modo, i paradisiaci «prefazi» e le «profezie» sembrano alludere<br />

allřapertura sul futuro compiuta attraverso una riflessione che si colloca nel presente assoluto delle<br />

«conclusioni» e dei «giornali murali», e che ha come oggetto il passato («residuale») delle «riprese»<br />

e delle «memorie»: la disgiuntiva, dunque, lungi dal porre le tre dimensioni del tempo in un<br />

rapporto di reciproca esclusione, le include in una prospettiva per la quale esse,<br />

heideggerianamente, si co-implicano 20 .<br />

A segnalare il marcato parallelismo sussistente tra le due sezioni, utilizzerò la sigla C per la prima,<br />

C1 per la seconda.<br />

Più implicito il rapporto fra le due sezioni anepigrafe, la prima e la terza, entrambe contraddistinte<br />

tuttavia, oltre che dalla presenza di componimenti di notevole respiro e impegno, dalla<br />

predominanza del tema storico. Per uno scrupolo legato alla minore evidenza di questo parallelismo<br />

rispetto ai precedenti, denomino le sezioni b e b1. Nel sopracitato saggio Zanzotto o la conquista<br />

del dire (p. 217), Agosti sostiene che «LřElegia [in petèl] è situata esattamente al centro della<br />

raccolta: essa è infatti preceduta da diciannove poesie più una introduttiva, ed inaugura una serie di<br />

17<br />

PPS, p. 353. Ci si dovrebbe chiedere se i due punti che precedono la conclusione delle nota («bisognerà pensarci»)<br />

stiano a introdurre il significato dei «giornali murali» (in tal senso il sintagma indicherebbe Ŗqualcosa che necessita<br />

ancora di unřelaborazione riflessivaŗ), oppure, come mi pare più probabile, una sua maliziosa sospensione.<br />

18<br />

Ibid., pp. 321-2.<br />

19<br />

Ibid., pp. 341-3.<br />

20<br />

Cfr. su questo punto Hermann Grosser, Contributo all‟analisi di due raccolte zanzottiane, «Acme», XXXII, II, 1979,<br />

pp. 246-7: «In IX Ecloghe si ironizzava sul Ŗcanto che stonaŗ e Ŗad altro modo non sa ancora fidarsiŗ, mirando cioè alla<br />

propria esperienza poetica passata e presente come corpo sostanzialmente unitario (seppur con i notati sintomi di<br />

mutamento). Ora lřobiettivo è Ŕ continuando lřintersecarsi di ricerca poetica ed esperienza esistenziale Ŕ Ŗquellřio che<br />

già tra selve e tra pastoriŗ: si pone, cioè, tra passato e presente una cesura piuttosto netta, sempre marcata ironicamentedrammaticamente:<br />

il presente infatti non pare liberare la condizione esistenziale dal giudizio negativo valido per il<br />

passato. Imperniata in gran parte su questo tema è la sezione Possibili prefazi o riprese o conclusioni. Questi testi<br />

potrebbero essere letti Ŕ pare indicare il titolo Ŕ come Ŗprefaziŗ ad un modo nuovo di fare poesia (ŖEcco unřaltra cosa,<br />

vedine lřesordioŗ, II, 22), Ŗripreseŗ di quello vecchio (ŖRepetita juvantŗ, IX, 1) per ironizzarlo (si danno anche<br />

autocitazioni ironiche) e concluderlo (lřuso del passato). Dřaltronde le Ŗoŗ mostrano lřintercambiabilità, oltre alla<br />

compresenza, degli atteggiamenti in questione e, in definitiva, alludono già con moderata ironia allřinstabilitàoscillazione<br />

che è caratteristica fondamentale, e tematica e linguistica e stilistica, della raccolta».<br />

104


105<br />

diciannove composizioni più una conclusiva». Lřosservazione è corretta anche da un punto di vista<br />

ideale: rappresentando il ritorno allřorigine edenica del linguaggio nel momento stesso in cui se ne<br />

denuncia lřinattingibilità e anzi lřinesistenza, il poemetto (che contrassegno con D) costituisce il<br />

Ŗcuoreŗ della raccolta, il trait-d‟union fra i due estremi rappresentati da A e A1:<br />

A + b-C-b1 + D-C1 + A1<br />

1 + 19 + 19 + 1<br />

Dal punto di vista del triplice parallelismo che siamo venuti sin qui descrivendo, sarebbe lecito<br />

attendersi una collocazione dellř Elegia a cavallo delle due serie regolari A-b-C, b1-C1-A1, invece<br />

che tra b1 e C1, come di fatto avviene. Questa sorta di simmetria suggerita e al tempo stesso<br />

dissimulata, sembra prestarsi a simboleggiare, a livello strutturale, quel contrasto fra circolarità e<br />

linearità che costituisce, in relazione alle serie allòtope ŖNatura-Essere-Mito-Narcisoŗ vs ŖStoria-<br />

Divenire-Civiltà-Edipoŗ, uno dei gangli tematici portanti del libro.<br />

Il medesimo modulo presiede, in una forma più semplice e assieme più rigorosa, allřarticolazione di<br />

Pasque (1973). la macrostruttura della raccolta si articola in «due sezioni di undici componimenti<br />

ciascuna, inframmezzate da un perno o centro prospettico che non è una poesia ma la trascrizione di<br />

un sogno» 21 .<br />

Il modulo, come del resto il triangolo centrale di Microfilm, ha qui una chiara valenza simbolica di<br />

matrice pitagorico-platonico-cristiana, incrociata con suggestioni ebraico-cabbalistiche 22 . I<br />

componimenti complessivamente sono 22, come le lettere dellřalfabeto ebraico, che pure<br />

scandiscono (da Aleph a Mem) le «stazioni» della Pasqua, secondo il modello utilizzato «per<br />

distinguere i versetti delle Lamentazioni di Geremia nei libri di preghiere per il tempo pasquale:<br />

segni di un acrostico che va perduto fuori del testo originario e che in ogni caso qui sarebbe mutilo<br />

(ma non per questo meno incombente)» 23 .<br />

Il titolo Misteri della pedagogia, identico per la prima sezione e per la lirica incipitaria della<br />

raccolta, definisce il tema attorno al quale si Ŗcoagulaŗ la serie iniziale di undici componimenti,<br />

quello pedagogico appunto, già ampiamente attestato soprattutto nelle IX Ecloghe ma anche nella<br />

Beltà. «Misteri» prelude invece alla seconda sezione eponima di Pasque, gravitante anche dal punto<br />

di vista strutturale attorno al motivo del mistero pasquale e alla scansione dei riti a esso collegati 24 :<br />

con lřeccezione delle ultime tre poesie, la sezione si estende infatti dallř«Epifania» di Lanternina<br />

cieca (1) allřadynaton della Pasqua di maggio, attraverso la Feria sexta in Parasceve (cfr. n.d.a:<br />

«così è chiamato il venerdì santo nella liturgia pasquale»), la Pasqua a Pieve di Soligo e il Lunedì<br />

dell‟Angelo 25 .<br />

Superata la tappa di Filò (1976), la cui partizione interna è legata alle contingenze che ne<br />

determinarono in larga misura la composizione 26 , il modulo a simmetria centrale trova la sua più<br />

adamantina, complessa espressione nel Galateo in Bosco (1978), dove il manieristico Ipersonetto -<br />

una corona di 14 sonetti preceduti da una Premessa (Sonetto dello schivarsi e dell‟inchinarsi) e<br />

seguiti da una Postilla (Sonetto infamia e mandala) Ŕ si dispone tra due serie parallele di 18<br />

componimenti ciascuna.<br />

Di particolare rilevanza, nella seconda sezione (Il Galateo in Bosco) così come nellřultima<br />

(anepigrafa), i grumi di componimenti contigui e accomunati dal titolo ripetuto con minime<br />

variazioni tipografiche (cfr. ad esempio Indizi di guerre civili, Ill Ill, Sotto l‟alta guida etc.).<br />

21<br />

Così Dal Bianco in PPS, p. 1539.<br />

22<br />

Cfr. Luigi Tassoni, Caosmos. La poesia di Andrea Zanzotto, Carocci, Roma, p. 27: «[il triangolo di Microfilm] forse<br />

richiama il triangolo equilatero della tradizione ebraica atto a rappresentare Dio di cui è vietato pronunciare il nome».<br />

23<br />

Così lřautore nella nota alla poesia, PPS, p. 457.<br />

24<br />

Cfr. ancora Dal Bianco, PPS, p. 1539.<br />

25<br />

PPS, pp. 417-42.<br />

26<br />

Comřè noto, le prime due parti della silloge, Recitativo veneziano e Cantilena londinese, furono commissionate da<br />

Federico Fellini per il suo Casanova; segue il lungo poemetto eponimo della raccolta, in dialetto solighese.<br />

105


106<br />

Opposta, anche da questo punto di vista, al Galateo, è la seconda raccolta della «pseudo-trilogia»,<br />

Fosfeni (1983), unica opera zanzottiana a risultare del tutto priva di una partizione interna 27 .<br />

Lřassenza di una strutturazione di Ŗsuperficieŗ è tuttavia compensata dal ritorno di una scansione<br />

stagionale 28 a maglie più o meno larghe.<br />

Nella silloge 29 si susseguono infatti senza continuità il marzo di Come ultime cene (v. 1), la<br />

«cinerina quaresima» di (Loghion) (25), la Pasqua di Faine, dolenzie, λογια (1), il maggio di La<br />

maestra Morchet vive (10), la data del «9-6-75» in (Carillons) (22, 26-7) e quella, di poco<br />

successiva, del 25 giugno, giorno in cui si festeggia la santa (Eurosia) cui è intitolata la poesia<br />

seguente. Con Diffidare gola, corpo, movimenti, teatro e (Da Ghène) si passa allřautunno<br />

(rispettivamente, II, 29, e 4); quindi, con Soprammobili e gel, a novembre (28, 50, 60), fino<br />

allřinverno di (Anticicloni, inverni); la santa Eurosia ritorna come protagonista di Vocabilità, fotoni,<br />

ma in «sovrimpressione» con santa Lucia, festeggiata il 13 dicembre; mentre, in maniera molto<br />

simile a quanto avveniva in Dietro il paesaggio ed Elegia, la data del «27 dicembre ř76» chiude il<br />

ciclo annuale in Tavoli, giornali, alba pratalia (6), introducendo allřatmosfera rarefatta di ghiaccio<br />

e nevi degli ultimi tre componimenti.<br />

A livello macrotestuale, «si profila» dunque in Fosfeni una graduale fuga verso quel «nord che<br />

attraverso altri tipi di movimento collinare sfuma entro lo spazio dolomitico e le sue geometrie,<br />

verso nevi e astrazioni, attraverso nebbie, geli, gelatine, scarsa o nulla storia» 30 .<br />

Struttura tripartita, sebbene priva del rigore geometrico proprio del Galateo, presenta invece Idioma<br />

(1986), terza (ma idealmente centrale) anta della trilogia. Le sezioni della silloge, anepigrafe e<br />

numerate progressivamente, si caratterizzano per una distribuzione molto irregolare dei<br />

componimenti (16 nella prima, 28 nella seconda, solo 7 nellřultima). La coesione macrotestuale in<br />

Idioma, peraltro calibratissima, è determinata quasi esclusivamente dal tessuto di echi e iterazioni<br />

tematiche che attraversano la raccolta e delle quali non è possibile, qui, dare conto: mi limiterò<br />

dunque a qualche rapido cenno ai fatti più macroscopici, concentrandomi in particolare sulla<br />

sezione centrale 31 , strutturata come segue.<br />

Due componimenti liminari in italiano, Vorrei saperlo e Nino negli anni Ottanta, che prefigurano i<br />

temi dominanti della sezione: il radicarsi della poesia di Zanzotto nel «saliente colloquio» 32<br />

hölderliniano con la realtà antropologica del paese natìo, dove, sebbene trattenute «a malapena /<br />

sulla sponda dellřaldiquà» 33 , «cose e parvenze [...] non passano mai / come non passano le loro<br />

cause e ragioni perfette» 34 .<br />

Come ben spiega Dal Bianco, «ricucire il tessuto antropologico della contrada è ricucire lo strappo<br />

del tempo che ci separa dal presente. Per questo lřimportante sotto-sezione dedicata ai morti della<br />

contrada», Andar a cucire, «si apre» con un testo in dialetto «sulla figura emblematica della Maria<br />

Carpèla, cucitrice».<br />

Segue un più ampio componimento che «funge da introduzione razionale, non a caso in italiano,<br />

alla successiva serie Onde éli: La contrada. Zauberkraft 35 . Questo titolo allude alla hegeliana<br />

Ŗforza magicaŗ, alla «mania» poetica che sola può reggere la contrada «in tutta la sua siderale /<br />

27 Nel suo saggio La sintassi dei Fosfeni, in «Filologia e critica», X, I, 1985, pp. 490-503, Mario Martelli ha proposto di<br />

ripartire le poesie della silloge secondo lo schema (peraltro non argomentato): «A-a; B-b 1 b 2 ; C-c; D-d; E-e; F; G-g 1 g 2 ;<br />

H; I-i 1 i 2 ; L-l; M-m; N».<br />

28 Cfr. Dal Bianco, PPS, p. 1609.<br />

29 PPS, pp. 652-715.<br />

30 Ibid., p. 713.<br />

31 Ibid., pp. 750-95.<br />

32 Vorrei saperlo, PPS, p. 752, v. 56.<br />

33 Nino negli anni ottanta, PPS, p. 753, vv. 3-4.<br />

34 Vorrei saperlo, vv. 58-9.<br />

35 PPS, p. 1653.<br />

106


107<br />

forza, inattualità, demoralizzazione costituzionale / e sovrumana inerzia di presenza / sempre più<br />

immagicata in colori linee piani» 36 .<br />

La rievocazione delle «aneme sante e bone / de la contrada» 37 può così avere inizio: sei poesie in<br />

solighese, accomunate dallřincipit («Onde éli», o «Onde éla», appunto) e dal fatto di essere dedicate<br />

tutte (a eccezione della quinta 38 , dove il poeta si rivolge alla coppia Toni-Neta «già menzionata» 39<br />

in Pasque), a personaggi femminili che «contribuirono, per qualche loro caratteristica, alla<br />

formazione poetica Ŗsul campoŗ dellřautore» 40 . La serie si chiude con un settimo componimento<br />

(Aneme sante e bone) in funzione di epilogo, dove al dialetto dei primi 23 versi subentra, quasi a<br />

marcare linguisticamente il confine della sotto-sezione, lřitaliano delle ultime due strofe.<br />

Dedicate rispettivamente a Montale (No te pias véder piόver sul bagnà), Pasolini (Ti tu magnéa la<br />

tό ciòpa de pan), Toti Dal Monte 41 (L‟era ‟n dì de jenaro, de solesel), Charlie Chaplin e Gigetto (E<br />

cussì tu sé „ndat anca ti, Sarlòt: il secondo è un fotografo compaesano dellřautore), Cecco<br />

Ceccogiato 42 (E s‟ciao), le cinque poesie in dialetto di cui consta la serie successiva sviluppano il<br />

tema del rapporto tra poesia e legami affettivi ormai vivi solo nel ricordo dellřautore. A differenza<br />

di quanto avveniva in Andar a cucire, tuttavia, lo sguardo si spinge anche al di là dei confini del<br />

paese: è il caso di Chaplin, ma anche di Montale, Pasolini 43 e Cecco 44 .<br />

La «progressione dal ricordo personale al mito, e dallřancora vivo (la Nene e Nino) al sempre più<br />

morto e lontano», caratteristica della seconda parte di Idioma, si compie con la sotto-sezione<br />

Mistieròi 45 :<br />

«Si tratta di dieci lasse irregolari, fra gli otto e i dieci versi, incastonate fra un più lungo testo<br />

proemiale e uno di commiato [...]. I protagonisti dei quadretti obsoleti vengono come riscattati<br />

dalla loro marginalità per fare corpo con la sublime umiltà di ogni poiesis. Come i personaggi di<br />

Andar a cucire, essi costituirono il Ŗmateriale umanoŗ di sostegno alla formazione della poesia<br />

negli anni dellřinfanzia» 46 .<br />

Complessivamente, la II sezione si suddivide dunque in questo modo: 2 + 9 [2 + 7] + 5 + 12 [1 + 10<br />

+ 1] poesie, raggruppabili alternativamente secondo il modulo A-A1-B-B1 (2 + 2 + 12 + 12) o, in<br />

maniera forse più congrua alla partizione dřautore, A-B-A1 (11 + 5 + 12). Nel secondo caso, ci<br />

troveremmo di fronte a una nuova attestazione di quella struttura speculare che caratterizza le sillogi<br />

zanzottiane a partire dalle Ecloghe fino al Galateo, questa volta declinata al livello della sola<br />

sezione centrale della raccolta. Questřultima si trova incorniciata fra le serie di poesie in italiano che<br />

costituiscono la prima e la seconda sezione, e ad esse correlata sul piano semantico, rispettivamente,<br />

da legami di carattere anaforico e cataforico. Un solo, significativo esempio: Toti Dal Monte, figura<br />

36 Ibid., p. 756, vv. 56-61.<br />

37 Aneme sante e bone, PPS, p. 764, vv. 8-9.<br />

38 Ibid., p. 761.<br />

39 Come viene esplicitato dallo stesso autore al v. 2 della poesia citata.<br />

40 S. Dal Bianco, PPS, p. 1654.<br />

41 Cfr. la nota dellřautore: «soprano leggero, che con la sua voce unica impersonò un grande momento dellřopera lirica<br />

italiana e che trionfò in tutto il mondo nel periodo fra le due guerre». La cantante fu tra lřaltro compagna di scuola della<br />

madre dellřautore.<br />

42 Alias Nicolò Zotti, «poeta secentesco in dialetto pavano, lodatore delle bellezze del Montello. Se ne parla nel libro Il<br />

Galateo in Bosco a cui questo componimento è un addio» (così la nota dellřautore, PPS, p. 813).<br />

43 Cfr. i primi versi della poesia a lui dedicata (PPS, pp. 768-9, vv. 1-5): «Ti tu magnéa la tό ciòpa de pan / sul treno par<br />

andar a scola / tra Sazhil e Conejan; mi ere pόch lontan, ma a quei tènp là / diese chilometri i era Řna imensità».<br />

44 La stesura dei componimenti accorpati in questa serie, come avverte Dal Bianco, è contemporanea a quella del<br />

Galateo in Bosco.<br />

45 Cfr. la nota dellřautore, PPS, p. 814: « [Mistieròi è] dedicato alla cara e venerata memoria di Angela Bertazzon e<br />

Maria Bon. Più volte pubblicato in plaquettes, questo componimento in realtà è stato concepito come parte integrante<br />

della presente raccolta. È anche un omaggio alla serie di incisioni Le arti che vanno per via, di G. Zompini, commentate<br />

in rima dal Questini, Venezia 1785».<br />

46 S. Dal Bianco, PPS, p. 1659. Cfr. anche il saggio di G. Nuvoli, Mistieròi, in «Strumenti critici», 39-40, 1979, pp. 335-<br />

348, risalente allřanno della prima pubblicazione dei componimenti in plaquette.<br />

107


108<br />

centrale nel quattordicesimo componimento della seconda sezione (Co l‟é mort la Toti), compare<br />

già nellřincipit della raccolta (Gli articoli di G.M.O, 20, 32), mentre nellřexplicit (Docile, riluttante)<br />

torna protagonista il «feudo» dellřagricoltore Nino Mura, cui è dedicata la poesia della seconda<br />

sezione Nino negli anni Ottanta.<br />

Se, allřinterno di Idioma, il modulo a simmetria ternaria trova una declinazione al livello inferiore<br />

della singola sezione e delle sotto-sezioni in essa comprese (Andar a cucire, Mistieròi), va al<br />

contempo notato come esso presieda, secondo una tendenza specularmente opposta,<br />

allřarticolazione dellř«improbabile trilogia», con la significativa proiezione del principio<br />

macrotestuale di Ŗcoherenceŗ dal piano macrotestuale, attinente alla singola raccolta, su quello, di<br />

ordine immediatamente superiore, dellřŖintertestualità internaŗ: a sud di Pieve il bosco del<br />

Montello, con la sua sanguinosa stratigrafia di natura e storia, a nord lřastrazione glaciale delle<br />

dolomiti; al centro, la dimensione sociale ed esistenziale della Heimat, precariamente sospesa fra la<br />

rassicurante misura affettiva dei suoi confini e il rischio, sempre più incalzante, di una definitiva<br />

estinzione.<br />

2.3 Con Meteo (1996) e Sovrimpressioni (2001), si assiste a una progressiva attenuazione<br />

dellřimpegno macrotestuale a livello delle strutture di superficie 47 . Sul piano tematico, invece,<br />

questřultimo resta intensissimo, sebbene il fattore coesivo tenda a parcellizzarsi, ora, in una pluralità<br />

di Ŗpoli gravitazionaliŗ, che attirano grumi di componimenti recalcitranti a qualsiasi ipotesi di<br />

annessione a un principio coesivo di ordine superiore. A testimonianza di questa nuova Ŗmanieraŗ<br />

zanzottiana, si legga la nota apposta dallřautore a Sovrimpressioni:<br />

«Continua, in questa raccolta, la linea avviata con Meteo. Più che di Ŗlavori in corsoŗ si tratta di<br />

lavori alla deriva, che tendono qua e là a connettersi in gruppi abbastanza omogenei. E ciò in<br />

controtendenza ma anche in coinvolgimento rispetto allřatmosfera attuale mossa da frenesia e da<br />

eccessi di ogni genere che fanno tutto gravitare verso una pletora onnivora e annichilante. Il titolo<br />

Sovrimpressioni va letto in relazione al ritorno di ricordi e tracce scritturali e, insieme, a sensi di<br />

soffocamento, di minaccia e forse di invasività da tatuaggio. Esistono numerosi altri nuclei<br />

contemporanei a questi, e in parte già sviluppati.» 48 .<br />

A ben vedere, tuttavia, la macrostruttura di Meteo è in buona misura riconducibile al modello di<br />

Fosfeni.<br />

In assenza di una partizione interna, nella silloge del ř96 49 i componimenti si distribuiscono infatti<br />

secondo una scansione stagionale che si apre nel mese di febbraio (cfr. Morèr Sachèr, 1, v. 5) e si<br />

chiude circolarmente col «cupo che inverno insuffla» della penultima lirica (Erbe e Manes, inverni,<br />

9), attraversando il «maggio» di Leggende (1), il «16 buiogiugno 199...» (in epigrafe a Stagione<br />

delle piogge), il giorno di San Rocco, in agosto, quando «le nocciole giungono a maturazione» (E ti<br />

protendi come silenzio, 26 e nota); il clima estivo di Ticchettio, I e II, il trimestre «agostobre 1995»<br />

(così il poeta, in calce a Tempeste e nequizie equinoziali), e infine lř«autunnale catarsi» di Altri<br />

topinambùr (5). Unřunica eccezione è costituita dal componimento Colle ala, la cui ambientazione<br />

autunnale si pone in contrasto con quella, estiva, delle poesie che lo precedono e seguono<br />

nellřordine della raccolta (da Stagione delle piogge a Ticchettio, II).<br />

Si osservi, inoltre, come allřarticolazione secondo il ciclo stagionale, del resto perfettamente<br />

congrua al titolo della silloge, si sovrapponga un secondo, più discontinuo principio organizzatore,<br />

che potremmo definire di tipo Ŗvegetaleŗ: dai Morèr sachèr (gelsi e salci caprini, secondo la nota<br />

dellřautore), ai «grun de fen» di (Marotèi, de matina bonora), dai vari «pappi», «taràssaci» e<br />

47 Per una più ampia e dettagliata analisi macrotestuale delle ultime raccolte zanzottiane, rinvio al saggio di Clelia<br />

Martignoni Il linguaggio della «sovrimpressione». Una poetica?, in Andrea Zanzotto: un poeta nel tempo, Atti del<br />

Convegno di Bologna, 23 novembre 2006, Bologna, Aspasia, 2008, a cura di Francesco Carbognin, pp. 203-15.<br />

48 Andrea Zanzotto, Sovrimpressioni, Milano, Mondadori, 2001, p. 133.<br />

49 PPS, pp. 815-61.<br />

108


109<br />

«radicchiette» di Lanugini, ai «papaveri» delle contigue Tu sai che, Altri papaveri, Currunt, fino<br />

alla serie dei topinambùr (cfr. Topinambur e Altri topinambùr).<br />

Pur presentando, a differenza di Meteo, una partizione piuttosto minuta e articolata (in tutto otto<br />

sezioni), la macrostruttura di Sovrimpressioni è ancora in gran parte improntata al tracciato<br />

stagionale, senza che sussista tuttavia una coincidenza fra il ciclo annuale completo e lřestensione<br />

della raccolta. Nel complesso, è infatti possibile individuare tre cicli differenti.<br />

Il primo, coincidente con la breve sezione incipitaria, inizia con lřestate di Verso i Palù (18) e si<br />

chiude con i «giorni della bruma» di Ligonàs, III (cfr. v. 22 e la nota dellřautore: «Bruma: da<br />

Ŗbrevissuma (dies)ŗ è il giorno dellřequinozio dřinverno. In precedenza caduto sulla pagina come<br />

impossibile desiderio-distrazione che è ovviamente da ridurre al solito solstizio» 50 ). Si noti, inoltre,<br />

come alla divaricazione temporale corrisponda la quasi-coincidenza spaziale: i ŖPalùŗ 51 dei primi<br />

componimenti (Verso i Palù e “Verso i Palù” per altre vie) si «indovinano» 52 infatti dalla «grande<br />

casa-osteria in aperta campagna» 53 il cui nome dà il titolo alla poesia seguente (Ligonàs).<br />

Il secondo, più ampio e completo, copre tutta la sezione successiva: le sei parti della prima poesia,<br />

Sere del dì di festa, recano tutte al proprio interno la data del 31 gennaio, ad eccezione della quinta;<br />

lřinverno inizia a «ritirarsi» in Adempte mihi, (I, 5), mentre nella seconda parte dello stesso (17) ci<br />

spostiamo ad aprile; «è il 30 aprile» recita ancora Diplopie, sovrimpressioni (5, 10); il fieno e il<br />

periodo della sua raccolta costituiscono il Leitmotiv di A Faèn. Con la prima parte della lirica da<br />

Carità romane, entriamo in ottobre (4), per completare il ciclo nelle «caine invernali» della terza<br />

parte (6).<br />

Lřultimo ciclo attraversa la terza sezione per concludersi nel componimento incipitario della quarta,<br />

da (Ore di crimini): si inizia con il «trapungere dellřautunno» (Riletture di Topinambùr, 36)<br />

passando poi allřinverno di Spine, cinorroidi, fibule (I, 10 e II, 14) 54 , allřequinozio di primavera<br />

dellřomonima poesia (21/3 Equinozio di primavera), e allo «stravolto affacciarsi di luglio» di da<br />

(Ore di crimini), 3, in perfetta simmetria con lřincipit estivo della raccolta.<br />

Nelle ultime sezioni lřordine stagionale viene meno, lasciando il posto a criteri coesivi di carattere<br />

squisitamente tematico.<br />

2.4 A Meteo e Sovrimpressioni dovremo tornare a riferirci più distesamente quando tratteremo di<br />

Conglomerati, terza raccolta edita da Zanzotto dopo la «pseudo-trilogia». Prima di procedere<br />

allřanalisi macrotestuale di questa ultima silloge, vorrei però soffermarmi ancora sul quadro sin qui<br />

delineatosi, tentando di ricavarne le indicazioni più significative.<br />

Innanzitutto, vien fatto di osservare la persistenza, lungo tutto lřarco della produzione zanzottiana,<br />

di una forte volontà costruttiva a livello macrotestuale, la quale si concretizza secondo due modalità<br />

alternative: la prima, che potremmo definire Ŗreferenzialeŗ ed Ŗesternaŗ, è quella della scansione<br />

stagionale, che informa le prime due raccolte (Dietro il paesaggio ed Elegia e altri versi) con una<br />

propaggine nella prima sezione di Vocativo, per poi riaffiorare in Fosfeni, Meteo e Sovrimpressioni;<br />

la seconda, Ŗformaleŗ e Ŗinternaŗ, si traduce nelle varie declinazioni di quella simmetria ternaria che<br />

si perfeziona via via a partire dalle IX Ecloghe, fino a trovare la sua massima espressione al duplice<br />

livello dellřopera, con il Galateo in Bosco, e della trilogia, nella quale il principio coesivo travalica<br />

il limite del macrotesto per proiettarsi al livello dellřŖintertestualità internaŗ.<br />

La distribuzione cronologica delle due tipologie macrotestuali è dunque relativamente omogenea:<br />

mentre la prima copre tutta la produzione degli anni ř50 e, con lřeccezione di Idioma, quella che va<br />

50<br />

Sovrimpressioni, cit., p. 18.<br />

51<br />

Cfr. la nota dellřautore, ibid., p. 12: «Palù: chiamati anche Val Bone, sono zone acquitrinose che già dal medioevo<br />

erano state Ŗstrutturateŗ in varie forme, specie dai cistercensi, e trasformate in vaste scacchiere di prati circondati da<br />

acque correnti e da alberature di diverso carattere, conservate con memore animo attraverso i secoli»<br />

52<br />

Ibid., p. 13.<br />

53<br />

Cfr. la nota dellřautore, ibid., p. 13.<br />

54<br />

Cfr. anche le date (8 e 10 dicembre) che compaiono in calce alla nota nello stesso componimento.<br />

109


110<br />

dallř83 al 2006, lřaltra, a prescindere dal caso anomalo di Filò, si attesta con progressiva intensità<br />

nelle sillogi degli anni ř60-70, trovando poi unřideale appendice nella raccolta dellř86, con la quale<br />

si chiude il disegno della trilogia.<br />

La presenza di due modelli strutturali alternativi, qualificati lřuno come Ŗreferenziale-esternoŗ,<br />

lřaltro come Ŗformale-internoŗ, e la rispettiva attestazione in fasi ben circoscritte dellřesperienza<br />

poetica zanzottiana, pone in secondo luogo il problema del valore semantico e stilistico ascrivibile a<br />

entrambi.<br />

A questo proposito, è facile rilevare che nel primo caso lřordine della raccolta deriva da un<br />

riferimento alla realtà extra-testuale delle stagioni, mentre nel secondo la speculare circolarità che è<br />

propria di questřultima tende a trasferirsi nella dimensione autonoma della macrostruttura. Si<br />

potrebbe concluderne, quindi, che il passaggio dal primo modello al secondo si attua secondo una<br />

direttrice che va dal concreto allřastratto, nel senso di una progressiva riduzione della mimesi,<br />

compensata parallelamente da un incremento della coerenza strutturale interna. In entrambi i casi, la<br />

funzione della forma macrotestuale è evidente: nel rinviare, in modo ingenuamente mimetico o più<br />

sottilmente pitagorico, allřordine immutabile del cosmo, essa intende stabilire comunque un<br />

rapporto analogico tra libro e mondo, esorcizzando entro la totalità ridotta e dominabile dellřuno, la<br />

traumatica infinitudine che è propria dellřaltro.<br />

In un suo interessante saggio sul rapporto tra forma poetica e figurazione, Andrea Inglese sintetizza<br />

bene il nodo della questione, in un modo che non sarebbe dispiaciuto a Jung:<br />

«Lřangoscia della totalità è dunque ciò a cui ogni raffigurazione, sia essa religiosa, rituale o<br />

semplicemente artistica, tenta di rispondere. Di conseguenza, il tema principe di ogni<br />

raffigurazione mitica e poetica è il Ŗmondoŗ, ossia una totalità organica che sia nel contempo<br />

Ŗpreservataŗ e Ŗridottaŗ. Ogni volta che, attraverso la poesia, il mondo viene posto Ŗin figuraŗ, è<br />

un mostro selvaggio e dalle innumeri membra che viene catturato nel contorno, messo in<br />

cattività, irretito nella forma, miniaturizzato. La figura come primo compito deve ridurre la<br />

complessità del raffigurato [...]. Il flusso eracliteo dei fenomeni devřessere interrotto e al pieno<br />

della percezione deve sostituirsi lo spazio rarefatto della rappresentazione: la figura taglia, isola,<br />

accentra. A questo primo movimento, se ne sovrappone un altro, di carattere illusorio<br />

(illusionistico): ciò che è stato soppresso in atto, è conservato in potenza, la totalità del senso<br />

giace nelle pieghe della figura, che è solo parte, frammento del tutto» 55 .<br />

A esemplificazione della funzione catartica svolta dal simbolo religioso, il critico fa poi riferimento<br />

ai Ŗpaesaggi in vascaŗ cinesi (p‟en-fing) e al Ŗmandalaŗ, nei quali «lřŖintero mondoŗ» appare<br />

«racchiuso in uno spazio maneggevole, perfettamente dominabile in termini percettivi» 56 .<br />

In tal senso lo stesso Zanzotto accostava, nella Postilla allřIpersonetto ((Sonetto infamia e<br />

mandala) 57 ), la figurazione religiosa buddhista a quel vero e proprio «simbolo strutturale» 58 che è la<br />

forma-sonetto, da lui ripresa e amplificata a livello di macro-struttura nella sezione centrale del<br />

Galateo 59 .<br />

Il rapporto analogico fra libro e mondo, e il trauma che ne innesca la ricerca, sono peraltro<br />

tematizzati esplicitamente nel componimento della Beltà Possibili prefazi…, IV, 1-26:<br />

55<br />

Andrea Inglese, Ritmo e figurazione. Appunti per una genealogia della forma poetica, in Ritmologia, Atti del<br />

Convegno Il ritmo del linguaggio. Poesia e traduzione, Università di Cassino, 22-24 marzo 2001, Milano, Marcos y<br />

Marcos, 2002, a cura di Franco Buffoni, pp. 43-4.<br />

56<br />

Ibid., p. 44.<br />

57<br />

PPS, p. 608.<br />

58<br />

Così Zanzotto nel suo saggio su Giovanni Raboni del 1993, ora in Scritti sulla letteratura, vol. II, Aure e disincanti<br />

nel Novecento letterario, Milano, Mondadori, 2001, a cura di Gian Mario Villalta, p. 373: «Quanto al sonetto, risaliva in<br />

primo piano con tutta la sua forza di simbolo strutturale con perfezioni quasi mandaliche, nascente con lřalba della<br />

nostra lingua letteraria, e insieme, di immagine divenuta, lungo i secoli, rivomitatura in un infinito autoriciclaggio,<br />

come in una corsa allřinezia e al nulla (non soltanto in Italia), pur se con improvvise riprese vitali».<br />

59<br />

Cfr. a questo proposito John P. Welle, The poetry of Andrea Zanzotto. A critical study of «Il Galateo in bosco»,<br />

Roma, Bulzoni, 1987 .<br />

110


1 Lřarchi-, trans, iper, iper, (amore) (statuto del trauma)<br />

individuato ammonticchiato speso<br />

con amore spinta per spinta<br />

- a luci basse e filo di terra,<br />

5 a sole a sole perfino -<br />

spallate gomitate<br />

come in un pleonastico straboccante<br />

canzoniere epistolario dřamore<br />

10 di cui tutto fosse fonemi monemi e corteo<br />

in ogni senso direzione varianza,<br />

babele e antibabele<br />

volume e antivolume<br />

grande libro verissimo verosimile e simile,<br />

15 grembo di tutte le similitudini: gremito di una sola similitudine<br />

talvolta unřidentità ne effiora<br />

una specie più specie e suggelli,<br />

e cřera in vista tutta una preparazione<br />

un chiamarsi e chiamare in causa: o, O:<br />

20 assodare bene il vocativo<br />

disporlo bene e in esso voi balzaste<br />

ding ding ding, cose, cose-squillo, tutoyables à merci,<br />

non le chantage mais le chant des choses,<br />

con crismi eluardiani fortemente amorosi<br />

25 tutte come a corona intorno a noi, note animelle,<br />

e tintinna in eterno la collana 60 .<br />

111<br />

Si osservi, qui, come il «grande libro verissimo verosimile e simile», alla stregua del reale in<br />

Eraclito, si caratterizza ai vv. 12-5 per somma di predicazioni opposte, le quali trovano<br />

composizione proprio nel rapporto analogico che media «con crismi eluardiani fortemente amorosi»<br />

fra unità e molteplicità: in virtù della loro magica «force d‟amour», che a differenza del pensiero<br />

logico non pone gli opposti in un rapporto di mutua contraddizione, considerandoli bensì come le<br />

polarità di una scala potenzialmente infinita di valori, le correspondances coronano lřaspirazione a<br />

un possesso erotico del mondo già prefigurata, allřaltezza di Dietro il paesaggio 61 , nellř«oscuro<br />

matrimonio» del poeta «con il cielo e le selve».<br />

«Ma lřaspetto musicale del messaggio incide, a ben vedere, anche sul livello contenutistico, dove<br />

detta legge lřanalogia. Lřanalogia è proprio la chiave che consente di capire quella che è stata<br />

definita una musica intellegibilis, cioè una musica di concetti. I vari concetti vengono accostati in<br />

base a un teorema musicale, insomma, non immediatamente logico. Lřanalogia si basa, in fondo,<br />

proprio su questo assunto, ed è a questo stesso fenomeno che si riferisce il famoso Ŗlegame<br />

musaicoŗ, impermeabile alle traduzioni, di cui parla Dante: un rapporto tra le parole voluto dalla<br />

Musa» 62 .<br />

Sul tema della reciproca implicazione fra analogia, simmetria e circolarità, si legga quanto scrive<br />

Enzo Melandri:<br />

60 PPS, p. 284.<br />

61 Nella valle, vv. 15-16, PPS, p. 107.<br />

62 Andrea Zanzotto, Viaggio musicale. Conversazioni a cura di Paolo Cattelan, Venezia, Marsilio, 2008, p. 72.<br />

111


«Naturalmente non sempre lřanalogia si presenta etichettandosi col suo nome proprio. Dobbiamo<br />

imparare a riconoscerne la presenza da certi sintomi. Due dei più importanti [...] sono la<br />

simmetria e la circolarità dei concetti ai quali il problema fa riferimento. La simmetria analogica<br />

si distingue da quella logica perché è di-polare, cioè tensionale, tendenziale e per opposizione dei<br />

contrari anziché duale: ossia dicotomica, rigida e per opposizione di contradditorietà. Quanto alla<br />

circolarità non occorre dire altro, poiché lřargomento logico procede per sequenze lineari ed<br />

esclude come circulus vitiosus ogni retro-azione della conseguenza sulle premesse: in diretto<br />

contrasto con la cibernetica, in logica vige il divieto di feed-back» 63 .<br />

112<br />

In quanto espressione di unřistanza traumatica che spinge il poeta a introiettare e a esorcizzare così<br />

lřoggetto del desiderio (da sempre la natura, il paesaggio) entro il proprio «processo di<br />

verbalizzazione» 64 , lo spazio macrotestuale in Zanzotto è dunque necessariamente uno spazio<br />

circolare, simmetrico, analogico, dove lřandata coincide con il ritorno 65 e tutto Ŗrimaŗ 66 con tutto.<br />

Date queste premesse, si sarebbe tentati di suggerire che lřimmagine macrotestuale risponde a una<br />

volontà, da parte dellřautore, di regredire narcisisticamente verso una forma di compiutezza prenatale;<br />

interpretazione peraltro confermata dal fatto che, nelle raccolte a impianto simmetrico, la<br />

sezione centrale è quasi sempre adibita a componimenti che esprimono per diverse ragioni questa<br />

medesima istanza: sia che si tratti della dimensione pre-linguistica, come avviene nellřElegia in<br />

petèl (La Beltà), di quella onirica, come in Microfilm (Pasque), o della «madre-norma» poetica,<br />

come nellřIpersonetto (Galateo in Bosco), o infine del dialetto e della realtà antropologica a esso<br />

correlata 67 (Idioma), il centro Ŗombelicaleŗ delle sillogi zanzottiane rappresenta un disperato<br />

tentativo di recuperare per via di linguaggio uno stato edenico perduto, rispetto al quale il presente<br />

costituisce una corruzione seriore e irrimediabile.<br />

Si pensi poi alla rosa di simboli e immagini che rinviano, in tutte le opere zanzottiane, a una<br />

condizione di chiusura (auto-)protettiva, quali lřŖatolloŗ, lřŖuovoŗ, il Ŗcoccoŗ, la Ŗcistiŗ,<br />

lřŖampollaŗ 68 , la Ŗbolla fenomenicaŗ 69 , il «serico bozzolo protettivo» 70 in cui il baco-fabbro-poeta si<br />

assenta da una realtà minacciosa e assieme la ricrea a proprio uso e consumo nel linguaggio 71 .<br />

63 La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull‟analogia, Macerata, Quodlibet, 2004 (edizione arricchita, rispetto<br />

alla prima Ŕ Bologna, il Mulino, 1968 Ŕ da un saggio introduttivo di Giorgio Agamben e da unřappendice di Stefano<br />

Besoli e Roberto Briganti), p. 152. Nel corso del saggio, Melandri oppone la logica binaria a terzo escluso, invalsa nel<br />

pensiero occidentale da Aristotele (anzi: da Parmenide) ai giorni nostri, a quella propria del processo analogico, per<br />

definizione polivalente e a terzo incluso. Nella prima, gli opposti stanno fra loro in una relazione di contraddittorietà, la<br />

quale implica che essi non possano essere al contempo predicati del medesimo individuo (ovvero che un individuo, per<br />

il quale ciò risulti possibile, non esiste). Nella seconda, al contrario, fra gli opposti sussiste un rapporto di Ŗsubcontrarietàŗ,<br />

in virtù del quale essi vengono a rappresentare i poli di una scala in cui trovano ricetto tutti i possibili<br />

valori intermedi. Solo allřinterno di una logica di questo tipo può risultare fondato un discorso secondo la somiglianza,<br />

che resterebbe altrimenti precluso dallřalternativa secca tra identità e differenza intese come valori assoluti.<br />

64 Profezie…, XVI, v. 69, PPS, p. 343.<br />

65 Cfr. Galateo in Bosco, Gnessulόgo, v. 36, PPS, p. 555: «Ammessa conversione a U / ovunque».<br />

66 Cfr. Dietro il paesaggio, Nel mio paese, vv. 16-8, PPS, p. 77: «tutta lřacqua dřoro è nel secchio / tutta la sabbia è nel<br />

cortile / e fanno rime con le colline»; La Beltà, E la madre-norma, vv. 24-5, p. 348: «rileva Ŗi raccordi e le rime /<br />

dellřabietto con il sublimeŗ».<br />

67 Nel saggio del 1960 Lingua e dialetto (appunti), PPS, pp. 1100-3, Zanzotto assegnava al dialetto un luogo analogo a<br />

quello occupato dallřinconscio nella topica freudiana: «Lřitaliano, purtroppo, più di altre lingue, ha dovuto lottare con il<br />

Ŗsuper-ioŗ costituito dal latino e con lřinconscio arlecchinesco dei dialetti».<br />

68 Lřimmagine dellřŖuovoŗ è diffusissima, per ovvie ragioni, in Pasque, anche nella variante del Ŗlèndineŗ, lřuovo di<br />

pidocchio (cfr., anche per la sovrapposizione simbolica con il Ŗcoccoŗ, Pasqua di maggio, IV, v. 29, PPS, p. 438:<br />

«Ŗprimavera di cocchi e lèndiniŗ»), ma compare già sintomaticamente in Vocativo, Esistere psichicamente, v. 21, PPS,<br />

p. 174: «chiarore-uovo». La metafora del Ŗcoccoŗ ha la sua prima attestazione nella Beltà, Ampolla (cisti) e fuori, in<br />

concorrenza quasi sinonimica con lřŖampollaŗ e la Ŗcistiŗ (oltre al titolo, cfr. vv. 9-10, PPS, p. 297: «Ma come si è<br />

difesi nel cocco / nella cisti beltà»). Per quanto concerne la Ŗcistiŗ, si legga anche questo brano dal saggio del 1977 Da<br />

«Botta e risposta I» a «Satura» (appunti), ora in Scritti sulla letteratura, Fantasie di avvicinamento, vol. I, cit., p. 32:<br />

«La lettera-botta è dunque una richiesta di spiegamento (spiegazione), di incrinatura o mordente spaccatura, che ledano<br />

una esile oppure durissima bolla di sospensione, torpore sonnambolico, incertezza e confusione da dormiveglia o<br />

risveglio. Cřè qualcuno che non si sentirebbe spinto ad abbandonare la cisti o il carapace della sospensione onirica e del<br />

suo linguaggio perfuso di simboli e ŖHolzwegeŗ».<br />

112


113<br />

Come pure in parte si è detto, va parallelamente sottolineato tuttavia come questo tentativo di<br />

regressione resti sempre, in ultima analisi, deluso, tanto sul piano semantico attinente ai testi che<br />

dovrebbero agirlo, quanto su quello della struttura che si fa carico di rappresentarlo a livello<br />

macroscopico: quella che da una prospettiva astratta Ŕ qualřè stata sin qui la nostra Ŕ poteva<br />

apparire come una simmetria perfetta, cessa infatti di esserlo nel momento in cui vi si rivolga uno<br />

sguardo più attento e ravvicinato.<br />

Per portare soltanto lřesempio più palese in senso contrario, nel Galateo in Bosco le serie parallele<br />

di 18 componimenti a precedere e seguire lřIpersonetto, si strutturano al proprio interno in maniera<br />

differente, lřuna ripartendosi in due sezioni dal titolo Cliché e Il Galateo in Bosco, lřaltra, continua<br />

e anepigrafa, scandita solo dai gruppi di poesie con titolo similare.<br />

Il cerchio, insomma, non si chiude, né potrebbe: Zanzotto è un poeta troppo consapevole per<br />

abbandonarsi a facili idilli senza patire al contempo i contraccolpi che la storia, anche quella<br />

privata, infligge a chi crede di potersene idealisticamente astrarre. Di qui, il conflitto fra circolarità<br />

narcissica e linearità edipica, ordine e caos, essere e divenire, natura e storia cui avevamo<br />

corsivamente accennato a proposito della Beltà. Ed è significativo che proprio a partire dalle<br />

raccolte degli anni ř60 (IX Ecloghe e La Beltà), dove, a livello testuale, lřequilibrio fra le due serie<br />

allòtope si sbilancia sempre più a favore della seconda (Ŗlinearità-caos-divenire-storiaŗ), sul piano<br />

della macro-struttura il modulo Ŗinterno-formaleŗ subentri a quello Ŗesterno-referenzialeŗ, come se<br />

a un incremento del disordine interno dovesse subito corrispondere unřinteriorizzazione dellřordine<br />

Ŗsuperficialeŗ.<br />

Viceversa, si può dire che il ritorno, con Fosfeni, Meteo e Sovrimpressioni, a un principio coesivo<br />

più esteriore, sia determinato dalla volontà di arginare una «deriva» ormai incontrollabile, attraverso<br />

lřesile e discontinuo filo dřArianna costituito dalla Ŗsegnaleticaŗ stagionale.<br />

Anche dal punto di vista della struttura macrotestuale, dunque, la Beltà rappresenta una pietra<br />

miliare nella produzione zanzottiana: con maggior decisione rispetto alle Ecloghe, dove il modulo<br />

speculare, già abbozzato, deve ancora puntellarsi a un elemento esterno quale il rapporto<br />

intertestuale con le Bucoliche virgiliane, la raccolta del ř68 segna il passaggio alla maniera della<br />

piena maturità, culminante nel grande disegno della «pseudo-trilogia».<br />

3. Forma, spazio, durata, memoria: la macrostruttura di Conglomerati.<br />

3.1 Tenterò ora di delineare le caratteristiche più macroscopiche di Conglomerati 72 , enucleandone i<br />

tratti di continuità e discontinuità rispetto alle raccolte precedenti (in particolare Meteo e<br />

Sovrimpressioni). Per esigenze espositive, affronterò solo successivamente la questione del titolo,<br />

69<br />

Cfr. IX Ecloghe, Ecloga IV Polifemo, Bolla fenomenica, Primavera, v. 27, PPS, p. 214: «Non uomo dico, ma bolla<br />

fenomenica».<br />

70<br />

Cfr. Rilettura di un articolo su «Le stelle fredde» di Piovene [1974], in Scritti sulla letteratura, II, cit., p. 81: «[una<br />

forma di vita cosciente che possa resistere sotto le radiazioni delle Ŗstelle freddeŗ] appare possibile solo in grazia ad una<br />

forma di narcisismo, per quanto depresso e masochistico. E Narciso mobilita anche qui le sue iridescenze, i suoi<br />

paradisi di autismo, risucchiando residui di linfe vitali dai fondi più arcaici, quelli in cui la persona, costituendosi,<br />

generava intorno a sé una sfera, un serico bozzolo protettivo, trasformava in materiali adatti a produrlo la realtà<br />

circostante. Così Ŗioŗ vuole sparire, ma non lontano da quegli elementi cui deve riferirsi a garanzia della sua<br />

operazione». A questo proposito cfr. anche Premesse all‟abitazione, 1963, PPS, p. 1028: «il mio scrivere, altre cose, è<br />

solo un modo di essere, nemmeno secrezione o escrezione, è come un cemento (o si crede un cemento) che per sisma<br />

sbalzi da strati; è un dato che al fondo di tanto stare e muoversi arriverebbe allo spogliarsi lucido e completo di un<br />

grumo, di un nodo. O meglio, autofilarsi in bozzolo, ridursi a realtà filata ma compatta senza più nulla al centro, che<br />

tuttavia sarebbe di un nulla Ŗinfinitamente definitoŗ».<br />

71<br />

Cfr. Questioni di etichetta o anche cavalleresche, vv. 22-32, Il Galateo in Bosco, PPS, pp. 613-4: «Pace dunque al<br />

qualunque baco parassita / che si credette fabbro di seta garantita / e sta a ciondolare sulla rama / mangiucchiando<br />

mumble mumble / (con cento occhi ad altrui becchi) / e insieme postulando mezze-pietà / per le sue penumbrali colpe il<br />

suo desindacalizzato / totale assenteismo dalla realtà // (produzione di massa e / prodotto garantito, per altro, anchřessa /<br />

con marchio di qualità)». Nel testo originale lřonomatopea Ŗmumble mumbleŗ, qui trascritta in corsivo, è racchiusa<br />

nella nuvoletta che indica in linguaggio fumettistico i pensieri dei personaggi.<br />

72<br />

Milano, Mondadori, 2009.<br />

113


114<br />

come di consueto ricchissimo di indicazioni e suggestioni anche intertestuali, le quali permetteranno<br />

di abbozzare un primo (e necessariamente parziale) percorso esegetico della silloge.<br />

3.2 Conglomerati «raccoglie», secondo la Nota dellřautore 73 , testi per la maggior parte risalenti «al<br />

periodo successivo a Sovrimpressioni, ma un cero numero è più antico». La silloge si suddivide in<br />

sei sezioni con titolo in maiuscolo, cui si aggiunge in explicit una piccola aggiunta di due Disperse,<br />

entrambe datate (A Emi che torna da Parigi, 1950, e Sandro Nardi, 1951).<br />

Alcune sezioni sono poi ripartite al loro interno in sotto-sezioni, titolate in corsivo 74 : la seconda<br />

sezione, TEMPO DI ROGHI, si compone di una prima serie di 10 poesie, seguite dalle tredici di Fu<br />

Marghera (?); la terza sezione, IL CORTILE DI FARRÒ E LA PALEOCANONICA, suddivisa in<br />

una serie di sei liriche, cui si aggiungono le tredici di Lacustri e le sei di Euganei; la quinta sezione<br />

infine, ISOLA DEI MORTI Ŕ SUBLIMERIE, comprende i tre componimenti di Succo di<br />

melograno, a seguire i sedici iniziali.<br />

A questa prima griglia si sovrappone quella determinata dai tre asterischi a pagina nuova, con la<br />

«funzione di indicare cambiamenti di luogo, di tempo o di argomento» allřinterno delle sezioni; e,<br />

secondo un uso che non trova riscontri in altre raccolte (zanzottiane e non), di asterischi (da uno a<br />

tre) posti sopra una poesia, a segnalarne «la minore o maggiore distanza dal gruppo in cui è<br />

inserita» 75 . Gli asterischi sembrano dunque fungere da segni di interpunzione macrotestuale, i quali,<br />

come ha osservato Francesco Venturi a proposito della suddivisione in sezioni «sotto articolate in<br />

campiture o serie», rispondono «a una esigenza di calare entro una dispositio esterna una materia<br />

multiforme e dissimile» 76 .<br />

In una nota apposta alla poesia Misteri climatici, il cui titolo rimanda palesemente al contesto di<br />

Meteo, Zanzotto avverte: «continua qui lřesperienza del lavoro secondo sporadici nuclei, iniziata<br />

nelle opere successive a Idioma. Correnti minime in rischio di insabbiamento» 77 . La posizione della<br />

nota è significativa di una Ŗcontinuitàŗ solo parziale: rispetto alla citata nota a Sovrimpressioni, di<br />

cui riprende lřincipit, essa non è riferibile alla raccolta nel suo assieme, ma ad alcuni dei più<br />

«sporadici nuclei» che essa accoglie al suo interno.<br />

Se infatti la Ŗsegnaleticaŗ stagionale, pur molto fitta, non introduce in Conglomerati alcun principio<br />

di ordinamento, dal punto di vista quantitativo la ripartizione delle poesie rivela equilibri e<br />

simmetrie sì lontane dalla cristallina dispositio della Beltà e soprattutto di Pasque e del Galateo, ma<br />

nondimeno interessanti. Un poř di conti.<br />

La prima sezione (ADDIO A LIGONÁS) conta tredici poesie; la seconda sezione (TEMPO DI<br />

ROGHI) si ripartisce in dieci poesie più le tredici di Fu Marghera (?): si delinea così un primo<br />

nucleo a simmetria ternaria di 13+10+13 liriche.<br />

Il secondo nucleo comprende le tre sezioni successive: la terza (IL CORTILE DI FARRÒ E LA<br />

PALEOCANONICA) contiene un totale di diciannove componimenti (ripartiti nei sette iniziali, nei<br />

sette di Lacustri e nei cinque di Euganei); la quarta (FIAMMELLE QUA E LÀ NEI PRATI) ne<br />

conta solo tre; la quinta (ISOLA DEI MORTI Ŕ SUBLIMERIE), complessivamente, diciannove (i<br />

primi sedici seguiti dai tre di Succo di melograno): una nuova simmetria ternaria, quindi, di<br />

19+3+19 poesie.<br />

73<br />

P. 201.<br />

74<br />

Seguo, per chiarezza, gli usi tipografici di Zanzotto, trascrivendo in maiuscolo i titoli delle sezioni e in corsivo quelli<br />

delle sotto-sezioni.<br />

75<br />

Così la nota dellřautore a p. 8.<br />

76<br />

Lettura di «Conglomerati» di Andrea Zanzotto, in Otto/Novecento, XXXIV, 3, 2010, p. 201. Alcuni cenni sulla<br />

bibliografia critica relativa a Conglomerati, senza alcuna pretesa dřesaustività: Res, rovelli, rovine («Alias», 31 ottobre<br />

2009, 43, p. 117) di Roberto Galaverni; Il cosmo in versi («il manifesto», 21 marzo 2010, p. 11) di Stefano Colangelo;<br />

la recensione («Punto», 1, 2001, p. 66) di Salvatore Ritrovato. Mentre mi accingo a licenziare questo saggio, ho inoltre<br />

notizia di un intervento di Niva Lorenzini sul numero di «Autografo» dedicato a Zanzotto, in uscita a ottobre, dal titolo<br />

«Avvolgenti», «affilatissimi»: i silenzi di Conglomerati.<br />

77<br />

P. 48.<br />

114


115<br />

Segue una coda di quindici poesie raccolte nella sezione VERSI CASALINGHI più le due<br />

DISPERSE.<br />

Per questo aspetto lřultima silloge zanzottiana sembra invertire la rotta rispetto alle due precedenti,<br />

sicché si potrebbe quasi affermare, parafrasando la citata nota a Sovrimpressioni, che i<br />

Conglomerati si sviluppano «in coinvolgimento ma anche in controtendenza rispetto allřatmosfera<br />

attuale mossa da frenesia e da eccessi di ogni genere che fanno tutto gravitare verso una pletora<br />

onnivora e annichilente».<br />

3.3 Il carattere peculiare di questo «coinvolgimento» e di questa «controtendenza», implicate lřuno<br />

nellřaltra, potrà essere chiarito meglio più avanti. Per il momento vorrei invece procedere<br />

nellřesame dei fattori di coesione macrotestuale. Tra di essi, una posizione di primaria importanza<br />

rivestono i rapporti sintagmatici, o di contiguità, che possono essere suddivisi in diverse tipologie,<br />

spesso sovrapposte, e che in genere sono esplicitati nel titolo dei componimenti o sotto-sezioni o<br />

sezioni: continuità di luogo; continuità di tempo; continuità di persona; continuità di una o più<br />

parole tematiche o addirittura di versi-refrain; infine, un tipo di continuità che definirei<br />

Ŗvariantisticaŗ, e che meriterà unřattenzione particolare. Solo qualche esempio, nellřordine.<br />

In continuità di luogo sono le poesie Crode del Pedré (Prima e Seconda versione) e Giardino di<br />

Crode disperse; la prima serie di componimenti di Fu Marghera (?), contrassegnati da numeri posti<br />

tra parentesi (da 1 a 5), e di Lacustri (“Mai” delle sere “mai”, Le notti fremono di ladri e di<br />

ghiacci, Denti di squali e segnali fatali, Sacramento-pericolo, E così ti rintracciammo), etc.<br />

La continuità temporale lega, allřinterno della sezione Addio a Ligonàs, le tre poesie Inizio 2000, Sì,<br />

deambulare (in cui compare la data «15-1-2000»), Lievissime rotelle del 2000.<br />

La continuità di persona unisce le due poesie che seguono la prima serie di Lacustri: ***Gentile e<br />

forte creatura della Vallalta e Silvia, Silvia là sul confine. Qui i tre asterischi iniziali non segnano<br />

però una discontinuità di luogo (lřambientazione resta lacustre) ma di argomento, con lřentrata in<br />

scena di una Silvia in cui convergono circostanze reali (cfr. la nota dellřautore, p. 106: «La giovane<br />

Silvia, già malata in grado estremo, scelse e riuscì a laurearsi in ungherese») ed evidenti<br />

reminiscenze letterarie (ovviamente leopardiane).<br />

Nella stessa sotto-sezione Lacustri, le seconde due poesie (Le notti fremono di ladri e di ghiacci,<br />

Denti di squali e segnali fatali) offrono poi un esempio di ripresa di parole-tema (cfr. i vv. 1 e 5<br />

della prima: «Le notti fremono di ladri e di ghiacci»; «le notti mille zero come pack insqualano»,<br />

con la seconda, vv. 1, 4 e 7-8: «Denti di squali e segnali fatali»; «Animarsi, animarsi nello<br />

scricchiolio del pack»; «ma di ladri che fin lřultimo centesimo / aspirano»). Fra la prima serie di Fu<br />

Marghera (?) e la successiva, separate da tre asterischi a pagina nuova, vi è poi un collegamento<br />

istituito dalla variatio dellřexplicit di Muffe (quarta posizione nella prima serie: «ŖGrigia scende la<br />

sera e si confonde / col rumore del forno a microondeŗ») in quello di Giorno dei morti 2 novembre<br />

2003 e *Quanti nuovi e ignoti silenzi m‟aspettano (prima e seconda lirica della serie successiva:<br />

«Scende la sera sera e si confonde / col rumore del forno a microonde»). Collegate dallřincipit, oltre<br />

che per evidenti ragioni tematiche, sono invece la seconda e la terza poesia di Euganei (Geometrico<br />

avvenimento, (2) e (3))<br />

Si potrebbe dire che fra questa tipologia e quella che abbiamo definito Ŗvariantisticaŗ sussiste una<br />

differenza di ordine puramente quantitativo, trattandosi, nel secondo caso, di due elaborazioni<br />

diverse di un medesimo nucleo testuale, come avvertono i titoli stessi dei componimenti in<br />

questione (cfr. Crode del Pedré, Osservando dalla stessa china il feudo sottostante; ma cfr. anche le<br />

liriche incipitarie di Succo di melograno, la prima anepigrafa, la seconda intitolata Nel giorno di<br />

Ognissanti, dove il fenomeno non viene esplicitato né a titolo né a livello paratestuale).<br />

A proposito di questřultimo tipo di connessione macrotestuale, si potrebbe ripetere quanto aveva<br />

osservato Clelia Martignoni nel già citato saggio su Sovrimpressioni:<br />

«Ho lřimpressione molto forte, sul tema delle varianti, che Zanzotto, estremamente attento alla<br />

critica e alla cultura francese degli ultimi decenni […] abbia attraversato con particolare interesse<br />

115


anche certe brillanti pagine teoriche della critique génétique con il suo culto dellřavantesto contro<br />

il testo, della molteplicità contro lřunicità, del virtuale contro il ne varietur, del possibile contro il<br />

finito» 78 .<br />

116<br />

E si potrebbe evocare anche il contesto aperto, fluttuante, improvvisato delle jam sessions<br />

jazzistiche e delle Ŗriprese alternativeŗ (alternate takes) di uno stesso brano o tema che vi hanno<br />

luogo.<br />

Ma il fenomeno, come pure aveva notato Clelia Martignoni, si estende anche da una raccolta<br />

allřaltra: esemplare in Conglomerati il caso di E di notte s‟avventa alto il rogo, «variazione», come<br />

segnala la nota dellřautore, «di Primizie del primo mese, in Sovrimpressioni» 79 .<br />

Lřintertestualità interna alle sillogi zanzottiane, perlopiù esplicita, è sempre stata fittissima, e in essa<br />

va forse riconosciuto il marchio dřuna ricerca di durata e omogeneità, lřistanza unitaria e identitaria<br />

del soggetto in quanto autore (o dellřautore in quanto soggetto). In tal senso si potrebbe leggere<br />

quella comparsa autoironica, in Conglomerati (**Milano – Bagutta, p. 115), del ritratto dellřautore<br />

associato alla materializzazione della sua Opera: «il ŖMeridianoŗ / come impropria postura / e un<br />

suo sorrisetto scaleno» 80 .<br />

Va inoltre ricordato come lřuso di «varianti», esplicitato nel titolo, sia ben attestato sin dalle IX<br />

Ecloghe (in absentia: si veda 13 settembre 1959 (variante) 81 ) e poi ancora in Pasque (in presentia:<br />

cfr. le poesie contigue Feria Sexta in parasceve e Feria sexta in parasceve (variante) 82 )<br />

Non mi soffermerò sulle tantissime auto-citazioni disseminate in Conglomerati, che vanno da<br />

Dietro il paesaggio alla Beltà, da Pasque alla «pseudo-trilogia», e che il lettore non faticherà a<br />

riconoscere da sé. Credo sia più interessante circoscrivere lřindagine alle ultime tre sillogi, dove non<br />

si tratta tanto (o solo) di auto-citazione e di mise en abîme, quanto piuttosto un ritorno su nuclei<br />

tematici e compositivi che vengono ripresi, variati, sviluppati. Penso, per fare solo gli esempi più<br />

macroscopici, ai vari «cicli botanici» 83 : la Ŗserie dei papaveriŗ, che si apre in Meteo (Tu sai che,<br />

ALTRI PAPAVERI, CURRUNT) e prosegue con una sola attestazione in Sovrimpressioni (da (Ore<br />

di crimini)), per riaffiorare in Conglomerati nelle tre poesie della sezione Fiammelle qua e là per i<br />

prati, lřultima delle quali si intitola persino Continuazione di “Tu sai che” (le prime due sono<br />

Papaveri e Vite giuste ed insigni, papaveri); la Ŗserie dei topinambùrŗ (cfr. i TOPINAMBÙR e<br />

ALTRI TOPINAMBÙR di Meteo con le Riletture di Topinambùr e Topinambùr e sole di<br />

Sovrimpressioni; il tema ritorna poi in Conglomerati, E là dall‟inizio dell‟infinito slargo, v. 16, e<br />

Sotto i cingoli dei diluvi, v. 5); la Ŗserie manes-vitalbeŗ, che chiude Meteo (cfr. Sedi e siti, e, con la<br />

sola interposizione della poesia in dialetto La Taresa, Erbe e Manes, Inverni e ALBE, MANES,<br />

VITALBE), con una propaggine nel componimento Manes ribellioni vitalbe (in Sovrimpressioni); e,<br />

in maniera più defilata nel Cortile di Farrò e la paleo canonica…, v. 33 (Conglomerati).<br />

Dai dati elencati e dai molti altri che ancora si potrebbero ricavare anche solo a colpo dřocchio,<br />

emerge lřimpressione che le ultime tre raccolte zanzottiane sortiscano come per «precari e<br />

78 Il linguaggio della «sovrimpressione». Una poetica?, cit., p. 208. Lřautrice cita a questo proposito due interventi di<br />

Zanzotto: Europa melograno di lingue [1995], in PPS, pp. 1347-65 («personalmente […], io non sono mai stato<br />

affezionato al concetto di definitività del testo poetico. Pronunciare il ne varietur mi turba. Ho sempre la sensazione che<br />

si sarebbe potuto compiere un passo […] almeno verso una certa variazione laterale interessante come quella che è stata<br />

data per centrale») e Versi provvisori [1992], parzialmente in PPS, pp. 1733-5 («per ogni componimento arriva il<br />

problema delle varianti, che tendono ad essere potenzialmente infinite. È questa una sensazione quasi persecutoria per<br />

colui che scrive […]. Certo è che la variante crea un testo aperto»). Molto interessante, nello stesso saggio, è anche<br />

lřidea che il «punto della fluidità testuale trovi un affascinante corrispettivo secondo-novecentesco nella predilezione<br />

dellřultimo Sereni, disgregato e aperto, di Stella variabile».<br />

79 P. 49.<br />

80 Si allude ovviamente al citato «Meridiano» Mondadori delle Poesie e prose scelte e alla foto dellřautore riprodotta<br />

sulla custodia del volume.<br />

81 PPS, p. 205.<br />

82 Ibid., pp. 421-2.<br />

83 Così Clelia Martignoni, cit., p. 209.<br />

116


117<br />

smarginati» 84 assestamenti di una materia fluida, di un unico cantiere aperto, o come per quelle<br />

«sporadiche» diffusioni di piante «vagabonde» su terreni «residuali» cui Gilles Clèment ha dedicato<br />

alcuni dei suoi più celebri studi 85 .<br />

Non so se questo autorizzi a parlare, per Meteo, Sovrimpressioni e Conglomerati, di una seconda<br />

«pseudo-trilogia», quandřanche si sottolineino le profonde differenze che presiedono alla<br />

compaginazione della prima. Di fatto, proprio in una poesia di Conglomerati, Vergogna, Zanzotto<br />

sembra alludere alle tre sillogi con una definizione unificante:<br />

Ora il tempo dovrebbe vergognarsi<br />

di far quello che facciamo<br />

di strampalarsi stralciarsi<br />

sfalciarsi sfidarci infilzarci<br />

ma vergognarsi di esser sempre<br />

già passato mentre lo nomino. Non cřè, sì cřè<br />

è questo qui di cui<br />

scrivere il continuo<br />

e losco cambio di marcia<br />

tre volte in tre opere di ricordo Ŕ<br />

macché è già tutto tappeto marcio di futuro 86<br />

«Tre opere di ricordo», dice il poeta, promuovendo così il tema della memoria (impossibile) a<br />

comune denominatore di «tre» sue «opere» non meglio specificate, ma che sembrerebbero proprio<br />

coincidere con le ultime raccolte.<br />

3.4 In tutte le sue sfaccettature, il tema amletico del tempo «scompaginato-scompaginante» e quello<br />

della memoria che si cancella sono in effetti centrali nelle tre sillogi.<br />

In Meteo, si tratta soprattutto del tempo meteorologico, del clima sconvolto dallřavanzare della<br />

tecnica e del suo effetto perturbante sul pianeta.<br />

In Sovrimpressioni «assumono rilievo centrale il ri-torno, il ri-conoscimento, la re-visione: come<br />

enuncia la nota dřautore […], dove è chiara la connessione paesaggio/ritorno/scrittura. Se questa è<br />

la modalità motivica di base che genera il titolo allucinatorio e sdoppiato, eloquentissimo, esso si<br />

palesa in quelle varie forme morfologiche e ritmiche che segnalano nesso e legame, rivisitazione e<br />

ripetizione» 87 .<br />

Per Conglomerati, credo che il medesimo plesso di questioni emerga se passiamo a considerare ora<br />

le isotopie di tempo e luogo che si delineano lungo tutto lřarco della raccolta.<br />

84 Id., p. 209.<br />

85 Cfr. in particolare Le jardin en mouvement, Paris, Pandora, 1991 e Manifest du Tiers paysage, Paris, Éditions<br />

Sujet/Objet (ed. it. Il giardino in movimento. Da La Vallée al giardino planetario, Macerata, Quodlibet, 2011. E, in<br />

perfetta tangenza, si legga quanto ha scritto Francesco Venturi sul concetto di Ŗrizomaŗ nel suo saggio Dinamismi e<br />

assetti avantestuali attraverso gli autografi della «pseudo-trilogia», in corso di pubblicazione sul numero di<br />

«Autografo» dedicato a Zanzotto: «Lřimmagine fitomorfa risente dellřapparato metaforico e concettuale di Rizoma di<br />

Deleuze-Guattari, uscito in Italia nel ř77 e che Zanzotto recensisce prontamente con parole chiarificatrici del proprio<br />

lavoro: ŖLa polemica […] ha come bersaglio dunque la logica, il discorso, la conoscenza, lřazione […] che somigliano<br />

tutti a un albero, pretenziosamente eretto in alto con fusto rami foglie e (massimo inghippo) frutti, oltre che avidamente<br />

diffuso in radici nella terraŗ. Come spiega Jacqueline Risset, prefatrice dellředizione italiana: ŖUn rizoma è un gambo ,<br />

o fusto sotterraneo Ŕ un vero paradosso vegetale. Sceglierlo come metafora principale della nuova pratica di linguaggio<br />

e di analisi vuol dire (esplicitamente nel testo) ripudiare sia lřalbero, simbolo consacrato della produttività verticale e<br />

normale (normativa), sia la radice, figura di ogni origine e fondamentoŗ. Nellřappropriarsi liberamente della metafora,<br />

Zanzotto sembra voler quindi esprimere sottilmente lřimpossibilità del Ŗlibro-radiceŗ, etichetta con cui Deleuze-Guattari<br />

designano Ŗil libro classico, come bella interiorità organica, significante e soggettivaŗ, in quanto Ŗlřalbero è già<br />

lřimmagine del mondo, o meglio, la radice è lřimmagine dellřalbero mondoŗ».<br />

86 P. 73; corsivo mio.<br />

87 Clelia Martignoni, cit., p. 215.<br />

117


118<br />

Quanto al tempo, basterà dire che si tratta, con poche eccezioni 88 , dellřinizio millennio, quel 2000<br />

reso «scivoloso» dalle «palline» o «lievissime rotelle» dei suoi zeri (cfr. le tre poesie esplicitarie<br />

della prima sezione: Inizio 2000, Sì, deambulare, **Lievissime rotelle del 2000).<br />

Con Roghi (1944-2001) e Silvia, Silvia si avanza di un anno, di due con Giorno dei morti 2<br />

novembre 2003; in Penso alle volte che noi (tutti viventi) la clausola parentetica domanda: «atto<br />

scritto nonostante il dito a scatto 2004?».<br />

Ma al tempo Ŗoggettivoŗ si interseca quello privato, esistenziale, della vecchiaia: si prenda ad<br />

esempio De senectute, vv. 1-5 (p. 52): «Possibile che non mi sia dato / compiere la più minuta /<br />

azione senza che il tempo / venga a riscuotere, usuraio atroce / la sua parte»; o Candelete, inciampi<br />

(p. 74, vv. 1-6: «Candelete, inciampi / venir meno in strappi / e dolori ed escoriazioni / cadute<br />

rattratte di corpi per baricentri sbilanciati / osteoporosi no»), dove le «Candelete», come suggerito<br />

dallřepigrafe-nota, sono le ormai «troppe troppe candeline» sulla torta di compleanno del poeta. In<br />

Candelete ritorna anche il tema della Ŗperdita di equilibrioŗ e della Ŗcadutaŗ presente nella poesia In<br />

te le peste da distrazhion; tema che concerne sì, come accennato, una contingenza autobiografica,<br />

ma anche, più latamente, la condizione storica e umana che caratterizza il presente: «E ades va eco<br />

le calze a scalcón / co la barba de tre dì / co la nobil Ŗtestaŗ (che vol dir toch de cop) / in cerca del<br />

posto par far lřultimo rebalton, / co fa quando che quatro Řolte ò girà / su de mi sbrissando<br />

diventando perno / de un mondo par mai pì fermo» (vv. 37-43) 89 .<br />

Nella serie incipitaria di Roghi (Tristissimi 25 aprile, Roghi (1944-2001), Altro 25 aprile), si fa<br />

largo poi il tempo storico nella sua dimensione di rito commemorativo e fondativo di istituzioni<br />

civili e della collettività che in esso dovrebbe riconoscersi. Così anche in Grave. Isola dei morti,<br />

intitolata al luogo sulla riva del Piave dove ebbe inizio la sanguinosa offensiva che portò alla fine<br />

della prima guerra mondiale, e dove la corrente del fiume depositò le migliaia di cadaveri di giovani<br />

soldati italiani uccisi nella battaglia 90 .<br />

Appoggiandosi ai numerosissimi riferimenti toponomastici contenuti nella raccolta, si può<br />

circoscrivere unřarea geografica altrettanto definita di quella cronologica, che è poi come sempre il<br />

Ŗbiomaŗ della poesia di Zanzotto, lřalta marca trevigiana. Più precisamente: a Sud di Pieve di<br />

Soligo, la linea storico-geografica dellřIsola dei morti; le Crode del Pedrè, sorta di canyon formato<br />

dal fiume Soligo lungo il tratto che costeggia la villa del soprano Toti Dal Monte 91 .<br />

Nella sezione Il cortile di Farrò e la paleo canonica, procedendo verso Nord si incontrano poi il<br />

Pian di Farrò (Il cortile di Farrò e la paleo canonica fantasma presente), il «feudo» di Rolle,<br />

«sottostante» a quella «china» (ossia Farrò: cfr. i due componimenti incipitari della sezione,<br />

Osservando dall‟alto della stessa china il feudo sottostante, Prima e Seconda versione; L‟aria di<br />

Dolle 92 , titolo ripreso e variato dallřAcqua di Dolle di Dietro il paesaggio, 1951; e ancora Stupende<br />

luci, incoronazioni…, v. 1: «verso Dolle»); infine, verso Est, Mondragon.<br />

A Nord-Ovest troviamo invece Zuel di qua e Zuel di là (A Zuel di qua), Soller ((Borgo)) e il lago di<br />

Rèvine (cfr. la sotto-sezione Lacustri). Fuori dal trevigiano, a Sud-Ovest, i rilievi dřorigine<br />

vulcanica dei Colli Euganei (cfr. la sotto-sezione Euganei).<br />

88<br />

Con Quanti nuovi e ignoti silenzi ci spostiamo, ad esempio, nel 1993 (p. 65, vv. 28 e 34: «vere partorienti 1993 Ŕ<br />

verità -»; «in verità, in silenzi 1993»); poco più in là con la bella poesia in dialetto In te la peste de la distrazhion, dove<br />

una nota dellřautore riferisce lřoccasione del componimento «a unřesperienza personale avvenuta nel 1998» (p. 68).<br />

89<br />

«E ora vado in giro con le calze a penzoloni / con la barba di tre giorni / con la nobile Ŗtestaŗ (che vuol dire pezzo di<br />

coppo) / cercando il posto per far lřultimo ribaltone, / come quando ho girato quattro volte / su me stesso scivolando e<br />

diventando perno / di un mondo mai più fermo» (pp. 68-9).<br />

90<br />

Nel luglio del 2000 in questo luogo si tenne tra lřaltro un fortunato recital commemorativo di Marco Paolini e Andrea<br />

Zanzotto.<br />

91<br />

Sia Toti dal Monte e la sua villa, sia le Crode (ma come «Grotte del Pedrè») sono già citati nel componimento<br />

incipitario di Idioma, Gli articoli di G.M.O. (PPS, pp. 723-4, rispettivamente vv. 20 e 18). Nella stessa raccolta, al<br />

soprano è poi dedicata la poesia Co l‟è mort la Toti (pp. 770-1).<br />

92<br />

Dolle, comřè noto, è la trasfigurazione toponomastica di Rolle.<br />

118


119<br />

Il paesaggio della raccolta sembrerebbe dunque quanto mai compatto, a parte alcune fughe verso<br />

Marghera e Venezia (cfr. la sotto-sezione Fu Marghera (?)) e verso Milano (Milano, Bagutta). Ma<br />

esso ha ormai perso il suo centro gravitazionale, come testimonia lřamaro congedo affidato proprio<br />

al testo incipitario, Addio a Ligonàs, la «Grande casa-osteria» di Sovrimpressioni. Ligonàs era<br />

«ómphalos del Grande Slargo / che per decenni i più bei cammini resse», ma è «circondato / ormai<br />

da funebri viali di future Ŗimpreseŗ, / da grulle gru, sfondamenti di orizzonti / che crollano in se<br />

stessi / intorno» ad esso; «ora la morsa si serra anche nella sua stessa maniacale / insicurezza di<br />

poter durare / senza il gran verbo delocalizzare» (vv. 4-16). In questo contesto, di Ligonàs resta solo<br />

il «nome finalmente espresso / […] dopo tanta latenza: / inutile alzabandiera / in una cosca sera /<br />

che tutto copre in pece di demenza» (vv. 17-21).<br />

La «delocalizzazione» e la «maniacale insicurezza di durare» che caratterizzano lřavanzata del<br />

nuovo, della globalizzazione, con la correlativa Ŗesteticaŗ da cantiere, incapace di produrre forme<br />

stabili, costituiscono una minaccia per la memoria: si leggano in tal senso i tanti riferimenti<br />

allř«alzheimer» (sempre con grafia italianizzante: cfr. la «via Alzaimer» di Rio fu, v. 6, con<br />

lř«antialzaimeriano sole» di Sì, deambulare, 30, e i «vecchi partigiani» che «si perdono coi loro<br />

alzaimer» di Tristissimi 25 aprile, 19-20).<br />

Secondo la metafora retorica, i luoghi rischiano di restare loci memoriae, esili appigli nominali cui<br />

aggrapparsi disperatamente, talora abbandonandosi a suggestioni magico-cratiliche di gusto<br />

rimbaudiano e leirisiano, come in Mondragòn (da confrontarsi con A Faèn, in Sovrimpressioni, v. 1,<br />

«luogo» anchřesso «preso in parola, luogo ossitono»).<br />

Sembra così emergere una solidarietà funzionale fra lřevocazione paesaggistico-toponomastica e<br />

lřarticolazione tendenzialmente simmetrica della macrostruttura.<br />

Forse non si è riflettuto abbastanza, qui e in altri saggi dedicati al problema del macrotesto, sul<br />

rapporto (tuttřaltro che ignoto allřantica retorica e/o ars mnemotecnica) fra dispositio e memoria.<br />

Accanto ai vari altri significati che le forme macrotestuali possono assumere in relazione allo<br />

statuto dellřopera poetica, del soggetto e del mondo, alcuni dei quali si è tentato di delineare nel<br />

secondo paragrafo, mi pare che lřultima silloge zanzottiana spinga a considerare un diverso aspetto<br />

della questione, e cioè il nesso sussistente tra il simbolico, la forma (nella fattispecie macrotestuale),<br />

lo spazio e la durata. Si legga questo illuminante brano dallřintervista del 1979 sul Galateo in<br />

Bosco:<br />

«La storia si risolve sempre in tragica e poi sempre meno significativa geografia, lasciando sulla<br />

Ŗpelleŗ della terra i graffi, le tracce dei suoi conflitti o delle sue inerzialità, che diventano sempre<br />

più equivoci con lřandare del tempo […]. Del resto sembra che geografia e storia abbiano<br />

ugualmente a che fare con il Ŗsistema militareŗ […] che orienta i rigiri della prassi umana […].<br />

Tutte le guerre (o varie forme di conflittualità) hanno generato un catasto sempre più fitto di<br />

segni, dilagato a macchia su tutto il pianeta, e possibilmente fuori […]. Più distruttiva è lřarma in<br />

cui si assommano tutte le motivazioni (storiche), meno essa si può usare: ma ingombrerà i<br />

referenti, i significati e i significanti, o se si vuole il reale, lřimmaginario e il simbolico,<br />

Ŗcondensandoliŗ in una sempre più insopportabile unicità di luogo fatta di non-luoghi, fino a un<br />

non-luogo-a-procedere appunto entro quello che doveva essere il processo storico […]. Ogni<br />

libro, a sua volta, non è che una riassuntiva, imprecisa icona, o mero indizio, di uno Ŗstare in<br />

luogoŗ nel quale, per quanto il referente possa essere esorcizzato o addirittura rimosso, si<br />

verificano fenomeni omologhi a quelli sopra descritti» 93 .<br />

Interessante, in primo luogo, la «risoluzione» della storia in geografia, e cioè la spazializzazione del<br />

divenire e dellřagire umano. Spazializzazione che, nel passaggio successivo, viene interpretata<br />

come una pratica di incisione, di tracciamento, e quindi di scrittura. La metafora della «pelle» incisa<br />

e graffiata riporta alla più volte citata nota a Sovrimpressioni, dove Zanzotto correla il titolo della<br />

raccolta «al ritorno di ricordi e tracce scritturali e, insieme, a sensi di soffocamento, di minaccia e<br />

93 PPS, pp. 1217-8.<br />

119


120<br />

forse di invasività da tatuaggio» 94 . Ma la successiva immagine del «catasto» ci riporta subito a una<br />

prassi archivistica, cartacea e burocratica di gestione-istituzionalizzazione dello spazio.<br />

Nel Galateo, questo processo invasivo che satura e se possibile supera la superficie del pianeta non<br />

può essere che la guerra; la quale, effettiva o virtuale (Ŗfreddaŗ) che sia, inscrive le proprie<br />

«motivazioni (storiche)» ovunque, senza risparmiare nessuno dei tre campi lacaniani (simbolico,<br />

immaginario, reale). Ne deriva allora una soffocante compressione omologante e annichilente che<br />

finisce per negare ciò che apparentemente si proporrebbe di istituire, il «luogo» inteso come Ŗluogo<br />

proprioŗ di una significazione autentica. È in questo Ŗluogo proprioŗ che il libro opera<br />

heideggerianamente la sua sempre asintotica «Erörterung», proponendosi esso stesso come «Ort»<br />

(luogo):<br />

«Erörtern vuol dire qui per prima cosa: indicare il luogo (Ort). E poi significa: osservare il luogo.<br />

Ambedue le cose: indicare il luogo e osservare il luogo sono i passi preliminarmente necessari per<br />

una Erörterung […]. Il termine Ort significa originariamente punta della lancia. Tutte le parti<br />

della lancia convergono nella punta. LřOrt riunisce attirando verso di sé in quanto punto più alto<br />

ed estremo. […] Il poema di un poeta rimane inespresso. Nessuno dei singoli componimenti<br />

poetici, nemmeno il loro insieme, dice tutto. E nondimeno ogni componimento poetico parla<br />

movendo dal tutto dellřunico poema […]. Dal luogo del poema scaturisce lřonda che di volta in<br />

volta sommuove il dire in quanto dire poetico» 95 .<br />

Nel suo rapporto con lř«Ort», nella sua tensione geometrizzante-simmetrizzante e unificante, il<br />

«libro» è dunque necessariamente «coinvolto» con la «pletora onnivora e annichilente», ma «in<br />

controtendenza» rispetto ad essa in quanto, costituendo una «riassuntiva, imprecisa icona, o mero<br />

indizio di uno stare in luogo», esprime una modalità diversa di convergenza, il «rigore di chi lascia<br />

essere» 96 . E, ribaltando specularmente la prospettiva, si potrebbe aggiungere che la «sporadicità»<br />

compositiva delle ultime sillogi, complementare in Conglomerati allřeffort structurel, operi sì «in<br />

controtendenza» rispetto alla condensazione omologante, ma che ne resti coinvolta in quanto<br />

questřultima paradossalmente agisce disgregando, polverizzando, disperdendo le trame di senso che<br />

attraversano lo spazio e ne costituiscono lřunicità/pluralità di luogo/luoghi.<br />

Anche in Conglomerati le grandi guerre sono ben presenti, la Prima in Grave. Isola dei morti, la<br />

Seconda nella sezione Roghi. È però soprattutto di unřaltra guerra, di altre distruzioni che qui si<br />

tratta, quelle prodotte dal «progresso scorsoio» di una globalizzazione forsennata. Tra i due<br />

fenomeni esiste una continuità, che Zanzotto sottolinea nel titolo della poesia Roghi (1944-2001), e<br />

che forse nessun pensatore ha saputo individuare prima e meglio di Ernst Jünger, il quale vedeva<br />

nella «Mobilitazione Totale» delle energie e delle forze un carattere comune al lavoro tecnico e alla<br />

guerra:<br />

«Fra tutte le svolte e le direzioni che possono essere prese nello spazio del lavoro, quella che mira<br />

allřarmamento è la più importante. Ciò si spiega, se pensiamo che il significato più riposto<br />

94 P. 133. A questo proposito Francesco Venturi (cit., p. 204) suggerisce giustamente un riferimento allř«allegoria<br />

kafkiana della Colonia penale». E si noti, in Conglomerati, È l‟ora rara (vv. 1-4 «È lřora rara / in cinema biancazzurro /<br />

è lřora dřinverno neve punta estrema del dì / ora dřarrivo di K. al castello) il richiamo a unřaltra grande opera kafkiana,<br />

già citata da Zanzotto nella Beltà (Profezie o memorie o giornali murali, XVII): Das Schloβ, Il Castello.<br />

95 Martin Heidegger, Il linguaggio della poesia (originariamente apparso in rivista con il titolo Georg Trakl. Eine<br />

Erörterung seines Gedichtes, 1953) in In cammino verso il linguaggio, Milano, Mursia, 1984, a cura di Alberto<br />

Caracciolo, p. 45, titolo sotto il quale vengono raccolte tre conferenze tenute fra il 1957-8, confluite nel 1959 in<br />

Unterwegs zur Sprache (il volume, edito a partire dal 1985 nel XII vol. della Gesaumtausgabe, Frankfurt a. M.,<br />

Klostermann, raccoglie una serie di saggi e testi di conferenze apparsi fra il 1950-9). A proposito dei termini «Erörtern»<br />

il traduttore annota: «significa, correntemente, discutere, ed Erörterung, discussione. Heidegger Ŕ attraverso<br />

lřevidenziazione e la valorizzazione dei monemi er e Ort richiamati nel loro significato originario Ŕ conferisce alla<br />

parola un senso complesso che emerge via via che ci si inoltra nella lettura del saggio. Nessuno dei termini da altri<br />

precedentemente suggeriti (situare, collocare…) […] ci è risultato utilizzabile» (ibid., p. 80).<br />

96 Ibid., p. 75.<br />

120


presente nel tipo umano e nei mezzi da lui usati tende al dominio. Qui non cřè alcun mezzo,<br />

neppure il più specifico, che non sia nello stesso tempo un mezzo di potere, cioè unřespressione<br />

del carattere di lavoro totale. Queste qualità assumono evidenza nel forte impulso con cui la<br />

guerra tende a impadronirsi di tutti i campi dřattività […]. Analogamente a ciò che avviene per la<br />

differenza tra città e campagna, durante una guerra tende a sfumare la differenza tra fronte di<br />

combattimento e territorio della patria, tra forze armate e popolazione, tra industria in generale e<br />

industria degli armamenti. La guerra come elemento primordiale scopre allora un nuovo spazio Ŕ<br />

scopre la particolare dimensione della totalità, coordinata ai moti dellřoperaio» 97 .<br />

121<br />

Conseguenza di questa condizione è la trasformazione della superficie terrestre in un «paesaggio di<br />

transizione»:<br />

«A nessuno può sfuggire che nulla viene prodotto in vista di unřesistenza duratura e con quel<br />

carattere di perennità che apprezziamo nelle costruzioni degli antichi […]. Ogni mezzo, invece, ha<br />

carattere provvisorio, da officina […]. In consonanza con questa situazione, il nostro territorio<br />

appare come un paesaggio di transizione. In esso non esiste stabilità di forme; ogni forma viene<br />

ininterrottamente modellata da una dinamica inquietudine. Non esistono mezzi durevoli; di<br />

durevole non cřè che il diagramma della potenza […]» 98 .<br />

In Conglomerati i «graffi» e le «tracce» di questo «diagramma della potenza» sono impresse non<br />

più (o non solo) dalle armi, ma dal «gran verbo delocalizzare» e dalla sua lingua («il cancerese, il<br />

cannibalese»), che in unř«onda» di speculazione edilizia e finanziaria «sormonta tutto ciò che con<br />

ogni amore e afrore di paese / doveva» difendere lř«Ort» della poesia; dallř«informazione» che<br />

«corre e scorre e fa spaventi» sulle sue «ali di pipistrello», manifestando lř«anima torva del<br />

simbolico», di un denaro che, perso ogni contatto con il Ŗvalore dřusoŗ, è assurto ormai alla pura<br />

dimesione del «simbolico» (Sulle ali di pipistrello dell‟informazione, p. 50); dalle alterne vicende di<br />

Wall Street, il cui nome, tradotto in dialetto («Strada del Mur») e in taliano («STRADA DEL<br />

MURO») con effetti di ironica risemantizzazione 99 , campeggia in Inizio 2000 e Tristissimi 25<br />

aprile.<br />

Per Zanzotto, lo abbiamo visto, la pervasività delle Ŗragioniŗ belliche (e di altre «forme di<br />

conflittualità») determina una condensazione-distruzione culminante in un «non-luogo-aprocedere»<br />

che interessa il «processo storico», un violento arresto, per il quale Jünger aveva<br />

proposto lřefficace espressione che dà il titolo a uno dei suoi più interessanti libri, Al muro del<br />

tempo. Ne stralcio alcuni brani significativi per quanto stiamo dicendo:<br />

«Non solo il taglio profondo viene percepito in ogni strato della coscienza, e in modo precipuo<br />

mediante il soffrire, ma neppure mancano i segni e gli indizi visibili.<br />

[…] La domanda che ora dobbiamo porci è se il taglio separi due periodi geologici, e se, in questo<br />

senso, una nuova epoca incomba su di noi con le sue forme.<br />

[…] La collocazione della vita nel solco geologico, il senso della terra rimangono, così come la<br />

maggior parte dei grandi doni, inosservati. È qualcosa che si percepisce alle radici come patria<br />

inconscia, e trova espressione nella poesia.<br />

[…] Occorre qui accennare almeno a una questione incidentale: è lecito far rientrare nella<br />

geologia i cambiamenti provocati dal piano dellřuomo?<br />

[…] Una metropoli sotto il cui asfalto si accumulano catacombe, sepolcri, rovine, macerie e<br />

calcinacci di cinquanta generazioni richiama alla mente una barriera corallina.<br />

97 L‟Operaio. Dominio e forma, Parma, Guanda, 1991, a cura di Quirino Principe, pp. 261-2 (Der Arbeiter. Herrshaft<br />

und Gestalt [1932], Stuttgart, Ernst Klett Verlag, 1981).<br />

98 Ibid., p. 153.<br />

99 Di analogo tenore, sempre in Inizio 2000, lřinterpretatio che riduce il nome di Alan Greenspan (a capo fino alla fine<br />

del 2006 della Federal Reserve) ad «Alan da Grespan» (essendo ŖAlanoŗ e ŖCrespanoŗ due paesi veneti, come avverte il<br />

poeta in nota, a p. 32).<br />

121


[…] Ora, questo passaggio Ŕ a partire dal quale troviamo lřuomo non solo presente in uno strato,<br />

bensì in quanto essere che crea e definisce strati Ŕ è uno dei sintomi della sua uscita dal campo<br />

della storia, a ridosso del muro del tempo» 100 .<br />

122<br />

Siamo molto lontani, sia nel caso di Jünger che in quello di Zanzotto, dalle banali suggestioni<br />

millenaristiche oggi di moda (e che andrebbero tuttavia interpretate come fenomeni sintomatici<br />

della condizione descritta da entrambi gli autori), o dagli affrettati proclami di un certo<br />

Postmodernismo sulla Ŗfine della storiaŗ. Qui si tratta piuttosto, in un orizzonte anti-umanistico di<br />

ascendenza heideggeriana (ma anche, per Zanzotto, leopardiana), di una crisi epocale della storia<br />

come forma razionale dellřagire umano e della posizione centripeta che esso si è a lungo attribuito.<br />

Si prendano questi versi di Muffe (p. 58-9, vv. 18-20: «- Muffetta del pianeta o grattugiato / pan di<br />

legno munito / di un logos comunque sconfitto») e la nota dellřautore alla poesia: «Sembra solo,<br />

lřumanità, unřinsignificante muffetta che appena sopra lo zero (273) ha attecchito sulla terra,<br />

essendosi poi anche rivelata velenosa a sé e a tutto».<br />

Constatata la definitiva sconfitta del logos, il tempo storico viene riassorbito da quello, pre- e postumano,<br />

della geologia. Accanto al titolo, di cui ci occuperemo tra breve, e alla conversazione<br />

Eterna riabilitazione da un trauma di cui si ignora l‟origine 101 , giustamente ricordata da Francesco<br />

Venturi (cit.), si pensi a tal proposito agli ammassi delle Crode del Pedré (nelle eponime liriche), al<br />

«trascorrere sopra ghiaini di millenni» di Sì, deambulare; alla confusione di storia/memoria e<br />

preistoria/amnesia in (Forre, fessure 2), secondo un motivo presente nella produzione zanzottiana<br />

sin dalla Pace di Oliva, in Pasque (1973); o, infine, ai versi esplicitari di È l‟ora rara: «In nuove<br />

intersezioni con altre ére / altra geometria del freddo / dalle strutture del geologiche / tremolanti del<br />

freddo / ingoiate dal freddo rifatte / in toilettes per serpentine ère erose dal freddo / del più vecchio<br />

cinema sepolto».<br />

Rispetto allřepoca storica dei regni, degli imperi e degli stati nazionali, altre sono ora le<br />

impersonali, invisibili, «idiotitaniche», telluriche e glaciali potenze che sottraggono agli individui e<br />

alle collettività qualsiasi forma di controllo sul divenire:<br />

Cammino oggi pian piano sugli esiti di<br />

un nevischio, ghiaccischio che sono i millenni<br />

li concalco dolcemente e cricchiano e ne siamo<br />

i responsabili, dementi impacchettatori o<br />

saccheggiatori, un gioco ne facciamo, né gioie né dolori<br />

né mito, non esiste mito, non esiste ragione<br />

ma soltanto la scheggia Ŗciclabileŗ con le sue<br />

meravigliate, non autocredentesi stazioni<br />

ma che brividi, fin sotterra, di fiducia 102<br />

Eppure, «mentre tanfo e grandine e cumuli di guerra // Mentre tutto trema nel delirio del clima / e la<br />

brama di uccidere maligna inventa inventa», ci sono ancora rari «luoghi in cui resistere, / luoghi<br />

dove Muse si danno convegno / per mantenere lřeco di unřarmonia / per ricordarci ancora che esiste<br />

il sublime / per risaltare gli antichi splendori ed accogliere nuove vie di Beltà»; «raro» persiste e<br />

«pur sempre sepolto nelle selve dřombra di armi totali / un Luogo»: una Ort, una Lichtung (radura-<br />

100 Milano, Adelphi, 2000, pp. 172-87 (An der Zeitmauer, Stuttgart, Ernst Klett Verlag, 1981). E si veda anche di<br />

passaggio quanto Jünger scrive a proposito di un altro grande tema zanzottiano, la meteorologia (pp. 195-6:<br />

«Esperimenti che intervengono sullřeconomia geologica, e perfino cosmica, sono una novità: mai lřuomo si era preso<br />

lřarbitrio di fare alcunché di simile […]. Tutto questo ci riconduce a un particolare tipo di inquietudine anteica,<br />

lřinquietudine meteorologica. È quella a cui siamo più sensibili: è quotidiana, di ogni ora. […] La meteorologia rientra<br />

fra quelle scienze ascritte alla terra in quanto tale. […] Il tempo è sì ovunque diverso e da diversi punti va osservato, e<br />

tuttavia lřosservazione stessa, per essere proficua, deve presupporre un sistema planetario»).<br />

101 Roma, Nottetempo, 2007, a cura di Laura Barile e Ginevra Bombiani, pp. 45-7.<br />

102 Inizio 2000, pp. 30-2, vv. 15-23.<br />

122


123<br />

illuminazione) che «ora rinasce e tenta difenderci dallřira del cosmo» (Mentre tanfo e grandine…,<br />

p. 131).<br />

Luogo e libro come fonte-convergenza e durata di senso, come memoria viva di una scrittura Ŕ e<br />

quindi anche di una geo-storiografia Ŕ altra: residuale ma resistente.<br />

3.6 Il riferimento alla geologia, come spesso accade nella poesia di Zanzotto, esprime<br />

unřambivalenza, parallela a quella che sussiste, a livello macrotestuale, tra Ŗsporadicità-virtualitàderivaŗ<br />

e Ŗgeometria-spazialità-strutturaŗ. Da un lato esso indica infatti la sortita del logos storico in<br />

un «non-luogo-a-procedere» saturo di conflittualità e tensioni telluriche, con la conseguente<br />

avanzata di un Ŗmorbo alzaimerianoŗ che disgrega qualunque segno geografico-scritturale provvisto<br />

di un senso stabile e come tale trasmissibile, per riaggregare tutto nella poltiglia «onnivora» di un<br />

generico Junkspace 103 . Dallřaltro, la pietra si fa simbolo di una solida persistenza, come il<br />

«geometrico avvenimento» di Euganei (2 e 3), che «toglie / appoggio sotto i piedi ma / che tutto<br />

ridà / in unřinimmaginabile misura / di tutte le misure» (2, p. 111, vv. 1 e 6-9); o come la «crosta»<br />

di quella «gemma cupa» o «cupissima madreperla» fossile che è il Lago di Rèvine, che con le sue<br />

«onde gelate / in pietra blu» buca come una macchia di solidità «ogni immaginario / o simbolico»<br />

(Sacramento-pericolo, pp. 99-100, vv. 2-3, 5-6, 36-7).<br />

Questa ambivalenza si riflette nel titolo della raccolta e in quella che parrebbe aver costituito Ŕ<br />

almeno in un certo frangente Ŕ unřipotesi ad esso alternativa.<br />

La questione potrà essere affrontata con il dovuto rigore quando saranno disponibili i materiali<br />

autografi della raccolta, i quali, per ragioni cronologiche, non sono conservati al Fondo Manoscritti<br />

dellřUniversità di Pavia come la restante parte dellřopera poetica zanzottiana, acquisita nel 2007.<br />

Per il momento disponiamo solo di una preziosa dichiarazione di Zanzotto in unřintervista rilasciata<br />

a Nello Ajello e pubblicata sullř«Espresso» 104 con il titolo Il poeta che parla alle montagne.<br />

Allřintervistatore, che gli chiedeva se avesse «un nuovo titolo» per quello che (sono le<br />

scaramantiche parole dellřautore) avrebbe potuto essere il suo «ultimo libro», Zanzotto rispondeva:<br />

«Inseguo delle ipotesi. Potrebbe chiamarsi, per esempio, ŖErraticiŗ. I massi erratici sono dei blocchi<br />

ciclopici di roccia trasportati dai ghiacciai» 105 .<br />

Lř«ipotesi», per certi versi, non era molto lontana dalla scelta definitiva. Come i «conglomerati», di<br />

cui condividono lřorigine glaciale, gli «erratici» sono «blocchi ciclopici di roccia». Nel caso dei<br />

massi erratici, tuttavia, si tratta di una materia sì solida, mastodontica e pesante, ma che partecipa di<br />

un moto casuale, di unřŖerranzaŗ o Ŗerraticitàŗ, con possibile rinvio etimologico allřŖerroreŗ come<br />

forma di devianza dalla regola. Questi massi infatti hanno solitarie, insolite e stranianti collocazioni<br />

nei fondovalle, dove sono stati trasportati da ghiacciai poi ritiratisi. A livello simbolico, quindi, essi<br />

evocano anche un tema molto diffuso nella raccolta, quello del Ŗghiaccioŗ e della Ŗglaciazioneŗ<br />

come metafora della contemporaneità, e unřidea della poesia come fortuito, allucinato-allucinante<br />

effetto di fuga che pure si produce in «coinvolgimento» con un simile contesto, e anzi ne costituisce<br />

la misteriosa traccia destinata a durare.<br />

I conglomerati sono invece un tipo di roccia sedimentaria clastica, costituita da Ŗgranuliŗ (i<br />

Ŗclastiŗ), tenuti assieme da una Ŗmatriceŗ (il Ŗsedimentoŗ: sabbia o argilla) e da un Ŗcementoŗ, le<br />

cui caratteristiche variano in rapporto alle soluzioni presenti nel sedimento stesso. Derivanti dalla<br />

disgregazione di formazioni più antiche e, quanto alla Ŗmessa in postoŗ, dal successivo trasporto ad<br />

opera delle correnti fluviali, anche i conglomerati posseggono in certo senso una natura Ŗerraticaŗ; a<br />

livello simbolico prevale però unřidea di coerenza (anche in senso tecnico: se il cemento è scarso si<br />

103 ŖSpazio-spazzaturaŗ, secondo la fortunata definizione dellřarchitetto Rem Koolhaas nellřomonimo saggio (tra le<br />

moltissime edizioni, cito solo la prima, in Guide to Shopping, Köln, Taschen, 2001, pp. 408-21; nellředizione italiana,<br />

Macerata, Quodlibet, 2006, il saggio fa parte di una raccolta eponima di tre scritti koolhaasiani, e si legge alle pp. 61-<br />

102).<br />

104 15, LV, 16 aprile 2009, pp. 116-8.<br />

105 Ibid., p. 118.<br />

123


124<br />

parla di rocce Ŗincoerentiŗ o Ŗsciolteŗ, più comunemente di ghiaia); coerenza legata alla Ŗmatriceŗ e<br />

al Ŗcementoŗ che serrano assieme materiali eterogenei.<br />

Nel passaggio dalla prima ipotesi (Erratici) alla scelta definitiva (Conglomerati), si ha dunque una<br />

significativa virata verso quella compresenza di unità e molteplicità, forze centrifughe e forze<br />

centripete, che avevamo individuato nellřanalisi della macrostruttura, e che introduce un parziale<br />

scarto rispetto alle due raccolte precedenti. E il fatto che il principale elemento coesivo nei<br />

conglomerati sia identificabile con la cementazione di una Ŗmatriceŗ, conferisce nuova attualità a un<br />

tema sempre intensamente presente nella poesia di Zanzotto, quello di una «norma» materna 106 ,<br />

generativa, fonte di una ragione aggregatrice ma aperta.<br />

Come sempre accade per i titoli delle sillogi zanzottiane il titolo «nasce […] come individuazione di<br />

una struttura in mezzo a un coacervo» 107 , facendosi veicolo di una primaria «poetica-lampo» 108 che<br />

illumina, per lřautore quanto per il lettore, la Gestaltung dellřopera.<br />

Ma le ragioni di interesse per i due titoli non finiscono qui: essi offrono infatti Ŕ il primo in<br />

absentia, il secondo in presentia Ŕ il capo di una Ŗmatassaŗ intertestuale che ha centrale rilevanza<br />

nella raccolta, e che riguarda proprio la questione del rapporto con la memoria, su cui già a lungo ci<br />

siamo soffermati.<br />

È noto come, in tutte le sue varianti, il tema della Ŗpietraŗ occupi una posizione nevralgica nella<br />

simbologia di Paul Celan, poeta molto caro a Zanzotto, che gli ha dedicato tra lřaltro lřintenso<br />

intervento del 1990 Per Paul Celan:<br />

«Per chiunque, e particolarmente per chi scriva versi, lřavvicinamento alla poesia di Celan […] è<br />

sconvolgente. Egli rappresenta la realizzazione di ciò che non sembrava possibile: non solo<br />

scrivere poesia dopo Auschwitz ma scrivere Ŗdentroŗ queste ceneri, arrivare ad unřaltra poesia<br />

piegando questo annichilimento assoluto, e pur rimanendo in certo modo nellřannichilimento.<br />

[…] Il linguaggio sa di non potersi sostituire alla deriva della destrutturazione per trasformarla in<br />

altro, per cambiarle segno: ma nello stesso tempo il linguaggio deve Ŗrovesciareŗ la storia e<br />

qualcosa di più della storia, deve, pur soggiacendo a questo mondo, Ŗtrascenderloŗ almeno<br />

indagandone gli orridi deficit» 109 .<br />

Si notino le tangenze tra il discorso sullřopera di Celan e quanto, nella più volte citata nota a<br />

Sovrimpressioni, Zanzotto scriveva della propria poesia: necessità di «rovesciare», «trasformare in<br />

altro», «cambiare di segno» (nella nota: «controtendenza») allř«annichilimento assoluto» (la<br />

«pletora onnivora e annichilente»), pur constatando di dover «rimanere in certo modo<br />

nellřannichilimento», di non poter sottrarre il linguaggio «alla deriva della destrutturazione» (il<br />

«coinvolgimento»).<br />

Ebbene. Unřesplicito, interrogativo riferimento alla raccolta celaniana Sprachgitter (Grata di<br />

parole, secondo la traduzione di Giuseppe Bevilacqua 110 , 1959) è presente in Conglomerati<br />

nellřexplicit di Osservando dall‟alto della stessa china… 111 ; poesia che, come segnala la nota,<br />

106<br />

Su tutti i riferimenti possibili, si pensi allřepilogo della Beltà, E la madre-norma (PPS, p. 348), e si osservi come i<br />

versi esplicitari della poesia (25-6 «rileva Ŗi raccordi e le rime / dellřabbietto con il sublimeŗ») siano sostanzialmente<br />

ripresi in Conglomerati, Tristissimi 25 aprile, vv. 30-2: «Ma nelle immondizie / troverò tracce di sublime / buone per<br />

tutte le rime».<br />

107<br />

Da Autoritratto [1997], PPS, p. 1209.<br />

108<br />

Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo) [1987], PPS, pp. 1309-19.<br />

109<br />

In Scritti sulla letteratura, II, cit., p. 345.<br />

110<br />

Nel «Meridiano» delle Poesie, Milano, 1998. Per la problematica inerente alla traduzione del titolo, cfr. lřampio<br />

saggio introduttivo, sempre di Bevilacqua, Eros – Nostos – Thanatos: La parabola di Paul Celan, pp. LIII-LVII.<br />

111<br />

Cfr. su questo punto la già più volte citata Lettura di Francesco Venturi (pp. 199-201): «Nello Celan di Sprachgitter,<br />

il paesaggio petroso era oggetto di una consimile interrogazione pietosa, poiché ogni singola pietra componeva<br />

virtualmente un sepolcro per le vittime insepolte dellřolocausto. E, in Fosfeni, Zanzotto aveva ritratto il sovrapporsi e<br />

lřaccatastarsi degli anni in tarda età come una lapidazione illogica: ŖAccumulati anni, come pietre / tirate a caso laggiùŗ<br />

(Periscopi, vv. 1-2). Ma, per circoscrivere meglio il campo semantico del titolo, conviene risalire al primo saggio<br />

montaliano Inno nel fango, del ř53, dove, a proposito del tema del ciottolo e del pietrame in Ossi di seppia, Zanzotto<br />

124


125<br />

riprende da Sovrimpressioni il «tema delle ŖCarità romaneŗ» 112 , «riproposto in diversa forma nel<br />

nostro tempo anche in Furore di John Steinbeck (The Grapes of Wrath, 1939)»: cfr. la Prima<br />

versione: «Dammi il seno ora, ora, subito, ben puttana, / da dietro la grata, dalla mia passione<br />

generata Ŕ ed innocente figlia manigolda Ŕ da dietro la folle griglia sigillata (Sprachgitter?)» (e la<br />

nota dellřautore: «Paul Celan, Sprachgitter»), con la Seconda, meno esplicita: «il feudo là nel suo<br />

sottrarsi in non luci disperse / divenuto promessa da sempre frustrata / dallřincorruttibilità di una<br />

grata».<br />

Per comprendere il rapporto tra la «Sprachgitter» di Celan e le Carità romane di Zanzotto si legga<br />

la nota al componimento:<br />

«Dante, come tanti altri autori, fa spesso ricorso in passi celeberrimi alle muse allattatrici dei<br />

poeti. La loro figura non può essere sentita come veramente materna ma assume un carattere di<br />

donazione che viene da remote corrispondenze ed intrichi quasi biologici. Esse poi sono di fatto<br />

generate dalla fantasia dei poeti, padri in tal modo nutriti dalle loro figlie […]. Nel nostro tempo<br />

la poesia subisce un processo che rasenta lřemarginazione (anche se non sparirà mai del tutto).<br />

Essa viene da una figura di reietto, necessitato ad assorbire e a saturarsi delle velenose forze che<br />

tendono ad ottenebrare la fisiologia stessa del sussistere. Il padre velenoso in quanto possibile<br />

interprete dei veleni attuali e dei loro linguaggi genererà un ghost, una Ŗfigliaŗ che gli rinvierà col<br />

suo latte malsano lřinsieme ingigantito dei suoi mali. Eppure… Se questo scambio si verifica […]<br />

forse qualche luce shocking può apparire» 113 .<br />

Il poeta, come Celan, deve farsi «interprete» e mediatore «dei veleni attuali» nei confronti di<br />

unřimmagine fantasmatica di «beltà» (la musa) che è creata da lui, ma che a sua volta lo nutre,<br />

restituendogli sì «lřinsieme ingigantito dei suoi mali», ma generando anche in questo scambio un<br />

possibile, luminoso cortocircuito in cui la poesia può continuare a sopravvivere.<br />

Il linguaggio poetico (Sprache) in questo processo è un fattore di separazione, segregazione,<br />

«emarginazione»:<br />

«Materialmente [Sprachgitter] significa la grata attraverso cui avviene il dialogo in un<br />

confessionale o nel parlatorio di un convento di clausura. È dunque qualcosa che pone un limite,<br />

un diaframma, un impedimento quantomeno parziale alla piena e libera attuazione di un dialogo,<br />

di un contatto. Forse ci avviciniamo al senso allusivo implicito nel titolo se vogliamo tenere<br />

presente che il tema dominante della raccolta è lřaspirazione, il tentativo estremamente arduo di<br />

istituire un rapporto con i Ŗsommersiŗ. E qui può essere utilmente ripreso il collegamento […] con<br />

lřuso metaforico che Jean Paul Ŕ scrittore molto letto da Celan Ŕ fece in varie sue opere di<br />

Sprachgitter. Così in Hesperus si legge: Ŗil silenzio è il linguaggio del mondo degli spiriti, il cielo<br />

stellato è la loro grata di parole […]ŗ.<br />

[…] Lřipotesi suesposta circa il senso da attribuire a Sprachgitter mi sembra dunque da preferire a<br />

quella, pur sostenuta con ingegnosi argomenti, secondo cui il titolo indicherebbe la griglia<br />

linguistica che il poeta avrebbe inteso gettare sulla realtà per dominare il caos che regna in<br />

essa» 114<br />

aveva già enucleato le antinomie umano / non-umano, organico / inorganico, inferendone la nozione di Ŗtempo grandeŗ<br />

[in Scritti sulla letteratura, cit., vol. I, pp. 15-20]: Ŗtutto questo cosmo di atroci entità sotterranee, magmi e fossili,<br />

situati, pure nella loro soffocante vicinanza, a immani distanze di tempo, come le stelle nello spazio, dovevano<br />

contribuire a umiliare lřuomo sino ad offenderlo, [...] predicandogli con mezzi mostruosamente eccessivi la sua<br />

insignificanza, anzi il suo perdersi già in atto nel mare magnum dei residui, veri signori del mondo. [...] la scienza aveva<br />

messo in luce i misteri di un paesaggio alienante, denso di pieghe e di strati che parlavano smisuratamente di vita<br />

consunta senza essere umanaŗ».<br />

112 da Carità Romane (1-3), pp. 42-6.<br />

113 P. 46. La denominazione ŖCarità romanaŗ si riferisce a un aneddoto ricordato da Valerio Massimo nellřopera<br />

Factorum ac Dictorum Memorabilium Libri IX (I sec. A.C. Ŕ I sec. D.C. circa), nel quale si racconta di una fanciulla di<br />

nome Pero che allatta segretamente il padre in carcere, dove questi è stato condannato a morire di fame. La storia ha<br />

conosciuto una vasta fortuna soprattutto nel campo delle arti figurative, dagli affreschi pompeiani a Rubens.<br />

114 Bevilacqua, cit., pp. LIII-LIV.<br />

125


126<br />

Nel caso di Zanzotto, perlomeno, credo sia ipotizzabile unřambivalenza, e che quella della «grata»<br />

vada intesa al contempo come necessaria funzione strutturante e ordinatrice, come elemento che<br />

media tra il poeta e gli «spiriti», siano essi le sue creazioni fantasmatiche o le reali manifestazioni<br />

dei Ŗsommersiŗ, dei morti (i «Manes»).<br />

In tal senso, mi pare che anche nel titolo della sezione Isola dei morti e in quello, appena variato,<br />

del suo componimento incipitario (Grave. Isola dei morti) emerga una reminiscenza celaniana. Il<br />

pensiero corre infatti allřepilogo di Von Schwelle zu Schwelle (Di soglia in soglia, 1955), Inselhin<br />

(Alla volta dell‟isola):<br />

Inselhin, neben den Toten,<br />

dem Einbaum waldher vermählt,<br />

von Himmeln umgeiert die Arme,<br />

die Seelen saturnisch beringt:<br />

so rudern die Fremden und Freien,<br />

die Meister vom Eis und vom Stein:<br />

umlauted von sinkenden Bojen,<br />

umbellt von der haiblauen See.<br />

Sie rudern, sie rudern, sie rudern -:<br />

Ihr Toten, ihr Schwimmer, voraus!<br />

Umgittert auch dies von der Reuse!<br />

Und morgen verdampft unser Meer! 115<br />

Oltre al primo verso, che palesa subito la contiguità tematica, si noti il connubio «Eis-Stein» del v.6<br />

(Ŗghiaccio-pietraŗ), diffusissimo in Conglomerati. I «latrati» dellř«haiblauen See» (v. 8: «mare<br />

color squalo» 116 ) suggeriscono inoltre un riscontro con le poesie contigue di Lacustri, Le notti<br />

fremono di ladri e di ghiacci (vv. 5-6: «le notti millezero come pack insqualano / tetri ruggiti di<br />

urti) e Denti di squali e segnali fatali 117 , dove pure il tema del Ŗghiaccioŗ è centrale. Le liriche citate<br />

sono per giunta seguite da Sacramento-pericolo, componimento dove il lago è definito<br />

metaforicamente «gemma cupa» e «perla-nera», in possibile riecheggiamento di Aufs Auge<br />

Gepfropft (Innestato nell‟occhio), vv. 4-5: «treibt es die schwarze, / die Knospe» («esso getta nera /<br />

la sua gemma») 118 .<br />

E si osservi infine, al v. 11 di Inselhin, il participio «Umgittert» (Ŗimprigionatoŗ), che salda secondo<br />

un procedimento tipicamente celaniano la silloge del ř55 alla successiva, Sprachgitter, citata da<br />

Zanzotto in Osservando dall‟alto della stessa china….<br />

Andrebbe indagata anche lřincidenza dello stilema iterativo «sie rudern, sie rudern, sie rudern» (v.<br />

9), caratteristico della scrittura di Celan, con le «varie forme morfologiche e ritmiche che<br />

segnalano» in Zanzotto «nesso e legame, rivisitazione e ripetizione» 119 : ma il discorso, formale e<br />

115 Paul Celan, Gesammelte Werke, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 1986, vol. I, p. 141 (ed. it. p. 242-3: «Alla volta<br />

dellřisola, a fianco dei morti, / fin dalla foresta uniti al tronco scavato, / le braccia attorniate da cieli-avvoltoi, / le anime<br />

cinte da saturnei anelli: // così, liberi ed estranei, vogano costoro, / i maestri del ghiaccio e della pietra: / fra il clamore<br />

di boe sprofondanti, / fra i latrati del mare color squalo. // Essi vogano, essi vogano, essi vogano -: / Voi, morti, voi,<br />

nuotatori, avanti! / Imprigionato anche questo nella nassa! / E domani svapora il nostro mare!»).<br />

116 Letteralmente Ŗtinto di azzurro-squaloŗ.<br />

117 Possibile, in «sovrimpressione», una eco dagli Strumenti umani (1965) di Sereni, Gli squali, 14-6: «E presto delusi<br />

dalla preda / gli squali che laggiù solcano il golfo / presto tra loro si faranno a brani».<br />

118 Von Schwelle zu Schwelle, op. cit., p. 106 (ed. it. p. 176-7).<br />

119 Clelia Martignoni, cit., p. 215.<br />

126


127<br />

non, potrebbe estendersi allřintera produzione zanzottiana 120 e ad altri fenomeni linguistici 121 ,<br />

esorbitando i limiti che ci si è imposti qui.<br />

Altri referti tematico-lessicali si incontrano negli ultimi versi di Crode del Pedré (Seconda versione:<br />

«peso, peso, peso PESO / peso / contrazioni, krismi di ciò che pensi e spargi / TU IO LEI, signore<br />

VOI signorine PESO orbo OMBRA / fratto e irrelato e maciullato e accovacciato / MACELLASTE<br />

ROCCE e ne uscì ventoŔmiracolo torvo / diveniste, INCIDENZE DřIPERCOSCIENTE /<br />

MEMORIE 3000 o 30000 anni? o appena 30 di / demente, maialesca dimenticanza?»), dove, oltre<br />

ai temi celaniani dellřŖombraŗ e della Ŗmemoria/dimenticanzaŗ, il «peso» ossessivamente evocato e<br />

maiuscolato sembra riferirsi a Das Schwere (Il peso, in Von Schwelle zu Schwelle) 122 , che non<br />

«rende leggera la pietra» (v. 2: «es macht mir den Stein nicht gewogen»), e a Es ist nicht mehr (Non<br />

è più, in Die Nemndsrose, 1963), che riproduco qui di seguito:<br />

Es ist nicht mehr<br />

diese<br />

zuweilen mit dir<br />

in die Stunde gesenkte<br />

Schwere. Es ist<br />

eine andere.<br />

Es ist das Gewicht, das die leere zurückhält,<br />

die mit-<br />

ginge mit dir.<br />

Es hat, wie du, keinen Namen. Vielleicht<br />

seid ihr dasselbe. Vielleicht<br />

nennst auch du mich einst<br />

so 123 .<br />

Ma cřè anche, in 27 novembre 124 , lo sbadiglio «Pallash» del «selvaggio» gatto Utti, che è sì<br />

hölderliniano 125 , ma che rinvia anche alla celebre clausola parentetica («(“Pallaksh. Pallaksh”)»)<br />

120 Aggiungo solo un riscontro fra il titolo di due poesie raccolte in Meteo, Ticchettio (I e II, PPS, pp. 839-42), e lo<br />

splendido epilogo di Sprachgitter, Engführung (Stretta), in Gesammelte Werke, cit., I, p. 198, vv. 31-2: «[…] ich tickte<br />

euch, euer Atem / gehorchte» (ed. it. p. 335: «vi mandavo un ticchettio, il / vostro respiro si adeguava»). Ma cfr. anche<br />

Und mit dem Buch aus Tarussa (E con il libro di Tarussa), ibid., p. 287, vv. 13-29: «Von / Wahr- und Voraus- und<br />

Vorüber-zu-dir-, / von / Hinaufgesagtem, / das dort bereitliegt, einem / der zigene Herzsteine gleich, die man ausspie /<br />

mitsamt ihrem un- / verwüstlichen Uhrwerk, hindu / in Unland und Unzeit. Von solchem / Ticken und Ticken inmitten /<br />

der Kies-Kuben mit / der auf Hyänenspur rückwärts, / aufwärts vervolgbaren / Ahnen- / reihe Derer- / vom-Namenund-Seiner-<br />

/ Rundschlucht» (ed. it. p. 497-8: «Di quel / già detto per vero / e prima e accanto e a te / allřinsù / che giace<br />

lì pronto, uguale / ad una delle pietre del proprio cuore, / che sputammo, assieme al loro in- / distruttibile meccanismo<br />

dřorologio, / fuori, nel non-paese e nel non-tempo. Di questo / continuo ticchettare nel bel mezzo / dei cubi di ghiaia<br />

con / la catena di avi / di Nomi-e-Sua- / Forra-Tonda, percorribile a ritroso / su una traccia di jene»), dove tra lřaltro<br />

segnalo: il tema dellř«Unland und Unzeit» (Ŗnon-paese e non-tempoŗ), che come si è in parte visto è centrale in<br />

Zanzotto; lřimmagine dei «Kies-Kuben» (Ŗcubi di ghiaiaŗ), molto simile a quella dei «conglomerati»; infine, la<br />

«schlucht» (Ŗforraŗ) di tante poesie zanzottiane, tra le quali (Forre, fessure 2) in Conglomerati (pp. 133-4).<br />

121 Penso, per fare solo un altro corsivo esempio, alla Ŗfrantumazioneŗ di parole in enjambement, vero e proprio marchio<br />

stilistico di Celan e significativa del suo «lallen und lallen, / immer-, immer- / zuzu» (Tübingen, Jänner, in Die<br />

Niemandsrose, ibid., p. 226, vv. 20-2; ed. it. pp. 380-1: «bal- balbettare / conti-, conti-, / nuamente, mente»), così in<br />

sintonia con la balbuzie-afasia-amnesia zanzottiana (per cui rinvio a Stefano Agosti, L‟esperienza di linguaggio di<br />

Andrea Zanzotto, PPS, pp. IX-XLIX). Tra i molti riscontri possibili, cfr., in Conglomerati, Il cortile di Farrò…, vv. 1-6,<br />

dove la scalatura tipografica dei versi intensifica lřeffetto di «sfasamento»: «Tu che nelle sfasate / avvisaglie dřaprile,<br />

alle sere / in cui nubi grigeoro lacri- / marono lacri- / marono / tra i ricci del sole».<br />

122 Ibid., p. 90 (ed. it. pp. 146-7).<br />

123 Ibid., p. 238 (ed. it. pp. 402-3: «Non è più / quella / pesantezza che talvolta / con te sprofondava / nellřora. È /<br />

unřaltra. // È il peso rattenente / il vuoto / che sennò třaccompagna. / Come te, non ha nome. Forse / siete la stessa cosa.<br />

Forse un giorno / anche tu mi chiamerai / così»).<br />

124 Conglomerati, cit., p. 149.<br />

127


128<br />

della poesia celaniana Tübingen, Jänner 126 (in Die Niemandsrose), in cui la presenza di Hölderlin è<br />

strutturale.<br />

Infine, si pensi alla poesia esplicitaria della penultima sezione (e dellřintera raccolta, se si guarda<br />

alle due Disperse come a un corpo per molti versi estraneo alla sua struttura), Parola, silenzio 127 :<br />

due quartine di endecasillabi a rima ABAB seguite da un verso para-endecasillabico isolato, che<br />

paiono dialogare con il celaniano Argumentum e silentio 128 .<br />

E veniamo, dopo questa escursione, al problema del titolo: «Erratici», si diceva. Si sarebbe<br />

immediatamente portati a pensare a Erratisch (Erratico, in Niemandsrose), dove «Der Stein, /<br />

schläfennah einst, tut sich […] auf» (vv. 6-7: «La pietra, / stretta prima alle tempie, […] si<br />

schiude») 129 , in maniera non troppo dissimile a quanto accade, nel brano citato (supra), alle «rocce»<br />

di Crode del Pedrè (Seconda versione), dopo che il loro «PESO orbo OMBRA» è stato «fratto e<br />

irrelato e maciullato» per farne «uscire vento-miracolo torvo».<br />

Il tedesco, tuttavia, ha una termine tecnico per indicare i massi erratici, Ŗfindlingŗ (da Ŗfindenŗ,<br />

Ŗtrovareŗ), che si riferisce allřenigmatico ritrovamento di queste rocce nei campi da parte dei<br />

contadini, e che ha un riscontro preciso nella poesia di Celan. Ecco il testo di Vom groβen (in<br />

Atemwende, 1967):<br />

Vom groβen<br />

Augen-<br />

losen<br />

aus deinen Augen geschöpft:<br />

der sechs-<br />

kantige, absageweiβe<br />

Findling.<br />

Eine Blindenhand, sternhart auch sie<br />

von Namen-Durchwandern,<br />

ruht auf ihm, so<br />

lang wie auf dir,<br />

Esther 130 .<br />

Il «sechs-kantige findling » (Ŗmasso erratico delle sei cresteŗ) ricorda anche la «Trimurti» di<br />

Euganei (2-3), le tre creste montuose che, come gli erratici, costituiscono un «geometrico<br />

avvenimento / improvvisamente allucinante / tra tanti segni di intrichi topologici / a una curva di<br />

stradine / che taglia il fiato / che toglie appoggio sotto i piedi» (2, vv. 1-6).<br />

Se, inoltre, lřipotesi di intitolare la raccolta Erratici viene scartata, lřalternativa rappresentata da<br />

Conglomerati non abbandona però la «traccia» di Celan.<br />

Zanzotto, pur non avendo bisogno di mediazioni per leggere il tedesco, conosce senzřaltro la<br />

traduzione dellřamico Giuseppe Bevilacqua (cui qui si è fatto costante riferimento). È molto<br />

probabile dunque che abbia presente la versione italiana dello splendido incipit (di impronta<br />

125<br />

Cfr. la nota dellřautore (p. 149): «Pallash era una delle parole pronunciate da Hölderlin durante la follia.<br />

Lřaccostamento sembra rinviare a una qualche misteriosa relazione tra questa animalità folle che ancora crea e il gatto<br />

che si esprime con uno sbadiglio».<br />

126<br />

Gesammelte Werke, cit., I, p. 226 (ed. it. pp. 380-1).<br />

127<br />

Conglomerati, cit., p. 196.<br />

128<br />

In Von Schwelle zu Schwelle, op. cit., pp. 138-9 (ed. it. pp. 236-9).<br />

129<br />

Ibid., p. 235 (ed. it. pp. 396-7).<br />

130<br />

Ibid., II, p. 35, corsivo mio (ed. it. pp. 554-5: Attinto ai tuoi occhi / dal grande / Senza- / occhi: // il masso erratico /<br />

delle sei creste, bianco di rifiuto. // Una mano di cieco, durissima anchřessa, / per quellřincrociar di nomi, / riposa su di<br />

lui, tanto / a lungo quanto su te, / Esther»).<br />

128


129<br />

heideggeriana) Wege im Schatten-Gebräch, Passaggi nel conglomerato d‟ombre 131 , dove però<br />

Bevilacqua sceglie di allontanarsi dal valore tecnico che la parola «gebräch» (trad.:<br />

Ŗconglomeratoŗ) ha in tedesco. Si tratta di un termine della caccia, indicante i cumuli di terra che i<br />

cinghiali ammucchiano scavando con il grugno alla ricerca di tuberi, e che si traduce letteralmente<br />

in italiano con Ŗaraturaŗ. È unřimmagine di grande intensità e potenza, che richiama il tema di In<br />

gestalt eines ebers (In figura di selvatico porco, in Von Schwelle zu Schwelle) 132 e che potrebbe<br />

suggerire una nuova parziale analogia con i «massi / colmi ancora della violenza dřurto / che li ha<br />

sparsi e resi tali» di Crode del Pedrè (Seconda versione, vv. 2-4).<br />

Cřè invece un altro luogo celaniano dove il poeta, senza nominarli, sembra quasi dare una<br />

definizione dei conglomerati quale metafora dellřesistenza e della poesia. È un aforisma del 1956,<br />

pubblicato nel volume postumo «Mikrolithen sinds, Steinchen». Die Prosa aus dem Nachlaβ 133 :<br />

«Mikrolithen sinds, Steinchen, kaum wahrenehmbar, winzige Einsprenglinge im dichten Tuff<br />

deiner Existenz Ŕ und nun versuchst du, wortarm und vielleicht schon unwiderruflich zum<br />

Schweigen verrurteilt, sie zusammenzulesen zu Kristallen? Auf Nachschübe scheinst du zu warten<br />

Ŕ woher sollen die kommen, sag?» 134<br />

Al di là del riscontro (i «microliti», altrimenti Ŗclastiŗ, agglomerati nel «tufo denso» della Ŗmatriceŗ<br />

cementata), conta la profonda consonanza tra la poetica celaniana e quella di Conglomerati: la<br />

gravità soffocante dellř«esistenza», e il poeta che, nonostante sia ormai rimasto «povero di parole e<br />

forse già irrevocabilmente condannato al silenzio», persiste nel tentativo di portare quel poco e quel<br />

disgregato che gli resta alla geometrica connessità e trasparenza del «cristallo». Nella disperata<br />

attesa di «rifornimenti» (da dove?).<br />

Luca Stefanelli<br />

131 Atemwende, op. cit., pp. 524-5.<br />

132 Si confronti inoltre la rete isotopica istituita dalla «Vier-Finger-Furche» del v. 3 (Ŗsolco-di-quattro ditaŗ) e dal verbo<br />

Ŗwühlenŗ del successivo, che significa non solo Ŗscavareŗ, ma anche, in riferimento al maiale, Ŗgrufolareŗ: «Wege im<br />

Shatten-Gebräch / deiner Hand. // Aus der Vier-Finger-Furche / wühl ich mir den / versteinerten segen».<br />

133 Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 2005 (ed. it. Microliti, Mori, Zandonai, 2010, a cura di Dario Borso: per le<br />

differenze tra lředizione italiana e quella tedesca rimando alla Premessa del curatore).<br />

134 Ibid., p. 47 (ed. it. pp. 52-3: «Microliti sono, pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della tua<br />

esistenza Ŕ e ora tenti, povero di parole e forse già irrevocabilmente condannato al silenzio, di raccoglierli a cristalli?<br />

Rifornimenti sembri attendere Ŕ donde dovrebbero venire, diř?»).<br />

129


FUOCHI TEORICI<br />

130<br />

130


Il poema contemporaneo tra bios e Storia<br />

131<br />

I.<br />

I modelli per la scrittura poematica in Italia, a partire dagli anni quaranta, sono per lo più stranieri:<br />

The Age of Anxiety di W. Auden, The Waste Land di T. Eliot e i Cantos di E. Pound. Sulla base di<br />

queste nuove spinte, a riparo da equivoci formali nati durante il ventennio fascista, torna anche nel<br />

nostro Paese la necessità di scrivere poemi. Così nascono le esperienze letterarie più significative di<br />

Elio Pagliarani, La ragazza Carla, e Giancarlo Majiorino, La capitale del nord; decenni dopo, negli<br />

anni sessanta, Roberto Roversi, scrive Dopo Campoformio, e Giorgio Cesarano dà voce ai suoi<br />

paesaggi urbani disperati e raggelati di Il sicario e l'entomologo, Ghigo vuole fare un film e i Poemi<br />

naturali. Una rilettura critica della nostra tradizione poematica è stata offerta, invece, negli stessi<br />

anni da alcuni saggi essenziali: tra gli altri, i famosi scritti di Gianfranco Contini. Nel saggio<br />

Un'interpretazione di Dante, uscito la prima volta per Paragone nel 1965, Contini dice qualcosa che<br />

ha ancora una forte attualità teorica: «Il segreto, di questo modo biologico di Dante consiste nella<br />

sua ugualmente intensa partecipazione, e addirittura nellřidentificazione successiva con gli oggetti,<br />

perfettamente chiari alla coscienza.» (1) La capacità percettiva del poeta è il mezzo che permette<br />

una poesia "locale", ossia poesia degli spazi e delle concrezioni di realtà. Alla base di questa facoltà<br />

narrativa c'è l'equilibrio tra Ŗlo stadio liquido e lo stadio solido della materiaŗ (2). Non un'assoluta<br />

liquidità quindi, cosa che porterebbe ad una infernale spirale barocca dell'io che collassa su se<br />

stesso; né un'assoluta solidità, fonte di una confusa indistinzione dalla realtà (il rischio cronachistico<br />

del racconto). Contini si riferisce alla descrizione degli eventi naturali, ma il suo ragionamento<br />

appare anche come un monito più profondo rivolto alle capacità percettive del poeta o del narratore<br />

in versi. Dante, l'autore poematico, deve essere capace di farsi carico e di risolvere formalmente il<br />

contrasto tra il fluire degli eventi biologici, cognitivi, percettivi, e lo spazio condiviso, lo spazio<br />

simbolico o culturale in cui si è calati. Si potrebbe aggiungere che le due deviazioni possibili si<br />

scontano nella poesia contemporanea con il biologismo fine a se stesso (e di conseguenza con la<br />

retorica del corpo e della carne che sostituisce quella dell'io e dell'anima) o nella depressione della<br />

parola a favore del reale (il feticcio dell'oggettività e della realtà). L'equilibrio sta proprio nella<br />

relazione tra bios e mondo, tra temporalità del singolo e Storia. L'intento critico di Contini era di<br />

riabilitare il poema dantesco, messo in discussione negli anni addietro dalla critica crociana. Croce<br />

aveva interpretato lřelemento descrittivo della Divina Commedia come una cornice (la struttura) o<br />

addirittura un limite della capacità lirica dellřautore fiorentino. Le descrizioni del "poeta divino"<br />

erano per Croce un momento di "pausa" dal suo magistero lirico(3). La grandezza di Dante sta<br />

invece, a parere di Contini, proprio nel saper unire la temporalità esistenziale, quindi l'intuizione,<br />

con lo spazio storico. I personaggi e i luoghi danteschi sono il frutto di questo equilibrio; sono il<br />

nodo in cui si innesca, si incardina il rapporto tra vita e mondo, tra vita e storia: «La realtà su cui la<br />

versatilità e la disponibilità di Dante si precipita è storicamente sentita anche quando è eterna e<br />

ripetibile, tanto più manifesta allorché si scende verso le entità individualmente determinate.» (4)<br />

Stando alle indicazioni di Contini, Dante è riuscito a riscattare il singolo dalla caducità della Storia,<br />

allo stesso tempo però ha sottratto la Storia dal pericolo della monumentalità. La temporalità del<br />

bios e la Storia si attivavano l'un l'altro nella relazione. In questo passaggio del testo di Contini si<br />

intuiscono ragioni politiche oltre che formali(5).<br />

Del resto, già negli anni venti, il poeta russo Osip Mandelstam, nella sua stimolante<br />

produzione critica, sottolineava un aspetto del poema simile a quello messo in evidenza da Contini.<br />

Mandelstam parlava della "chimica organica" di cui è fatto il verso di Dante; definiva Dante un<br />

Ŗdirettore chimicoŗ: nella Divina Commedia non esistono metafore ma condensazioni chimiche,<br />

tutto il poema è un organismo vivente che si fa narrazione, le terzine dantesche sono il camminare<br />

stesso del poeta:<br />

131


Perfino una sosta è una concentrazione di moto accumulato: la piattaforma dřuna<br />

conversazione viene creata con sforzi da alpinista. Il passo Ŕespirazione e inspirazione- è il<br />

piede del verso. Una falcata che deduce, vigila, sillogizza. (6)<br />

132<br />

Per Mandelstam il verso, la forma del poema deve misurare la materia e deve condensarla: il metro,<br />

la scelta formale, deve essere rigoroso perché la posta in gioco è la stessa relazione tra bios e Storia:<br />

è la forma che mantiene in potenza il rapporto tra temporalità e mondo. Scrive Mandlestam a questo<br />

proposito:<br />

Dante non entra mai in singolar tenzone con la materia senzřaver predisposto un organo per<br />

agguantarla, senzřessersi armato di uno strumento per misurare il tempo che è trascorso goccia<br />

a goccia o si è liquefatto. In poesia, dove tutto è misura, tutto parte dalla misura, ruota intorno<br />

alla misura e grazie alla misura gli strumenti di misurazione hanno facoltà particolari, sono<br />

portatori di una speciale funzione attiva. (7)<br />

LřUlisse omerico, nella sua versione dantesco, è interpretato come il tentativo dellřuomo di<br />

afferrare il tempo in quanto Storia. E' biologia del singolo, la parte animale, il nostro limite naturale,<br />

che deve misurare quella simbolica, la deve tenere a bada (e viceversa). Il rimando e l'equilibrio tra<br />

le due sfere permette la scrittura, le dà potenza. Solo così si possono scongiurare le retoriche<br />

totalitarie del corpo idealizzato: Mandelstam era, suo malgrado, esperto di regime totalitari:<br />

Nel canto di Ulisse la terra è già rotonda. Eř unřesaltazione del sangue umano, nel quale è<br />

contenuto il sale dellřoceano. Lřinizio del viaggio è iscritto nel sistema cardiovascolare. Il<br />

sangue è planetario, polare, salino. Con ogni circonvoluzione del proprio cervello Dante<br />

disprezza la sclerosi, come Farinata disprezza lřInferno. (8)<br />

Nei personaggi del poema invece la Storia torna ad essere con-divisa esperienza del tempo, la storia<br />

viene messa, per così dire, "sotto giudizio". Leggiamo ancora nelle pagine di Mandelstam:<br />

Lo stesso metabolismo terrestre si compie nel sangue […] Il tempo per Dante è il contenuto<br />

della storia, intesa come un atto unitario e sincronico; viceversa il contenuto della storia è un<br />

con-tenere il tempo, un sostenerlo in comune da parte di compagni, co-cercatori, co-scopritori<br />

del tempo stesso. (9)<br />

Ma guardando ancora più indietro, risalendo agli scritti teorici di Tasso, nel suo Discorso dell‟arte<br />

poetica e in particolare sopra il poema eroico, troviamo un'esigenza non dissimile. Qui ci viene<br />

fornita un'altra informazione sul poema e sulle sue ragioni politiche, sociali e formali. Tasso<br />

scriveva nei suoi saggi:<br />

Ma si come lřocchio è diritto giudice della dicevole statura del corpo (però che convenevol<br />

grandezza sarà in quel corpo nella vista del quale lřocchio non si confonda, ma possa, tutte le<br />

sue membra rimirando, la loro proporzione conoscere); così anco la memoria comune degli<br />

uomini è dritta estimatrice della misura conveniente del poema. Grande e convenevole quel<br />

poema in cui la memoria non si perde né si smarrisce; ma tutto unitamente comprendendolo,<br />

può considerare come lřuna cosa con lřaltra sia connessa e dallřaltra dependa, e come le parti<br />

fra loro e cořl tutto siano proporzionate. (10)<br />

Di contro Tasso vedeva nel poema che non tiene in considerazione le regole della misura e<br />

dellřequilibrio le sembianze di un mostro. Il poema deve avere una sola favola perché le troppe<br />

vicende e le troppo azioni hanno del mostruoso. In questo modo, riprendendo i principi<br />

dellřarmonia aristotelica, Tasso fissava i canoni per la composizione del racconto in versi(11). In<br />

base a questo principio le vicende degli eroi cristiani, con le loro licenze amorose, rappresentavano<br />

132


133<br />

la lotta del canone occidentale con la tentazione pagana verso lřaltro, verso lřestraneo, lřeccentrico.<br />

Per questo motivo Tasso e il suo poema sono "il primo grande esempio, nella letteratura italiana, di<br />

complicità con lřAltro"(12). In Tasso c'è un'idealizzazione del canone e dell'equilibrio anche se<br />

nella sua poesia (amata proprio per questo dai romantici) le strofe vivono ancora come quadri<br />

mobili del turbamento profondo, della ricerca di un centro: il vero centro tematico è ancora la lotta<br />

tra temporalità biologico-esistenziale e Storia. Ma se la Storia va messa al vaglio della critica della<br />

nostra temporalità, e la nostra esistenzialità va accertata ogni volta nella Storia condivisa, è anche<br />

vero che è la poesia il campo di battaglia su cui si dà lo scontro. Qui si decide dello spazio o di un<br />

mondo.<br />

II.<br />

Difficile indagare quanto Dante e Tasso, archetipi della nostra tradizione poematica, vengano<br />

rielaborati dai nuovi autori, ma la percezione che si ha, nel leggere alcuni testi della più recente<br />

produzione, è che ci si imbatta in un ethos vicino a quello messo in luce da Contini o da<br />

Mandelstam. Se negli autori del dopoguerra e degli anni sessanta (Pagliarani, Majorino, Cesarano,<br />

Roversi), predominava la frattura, il frammento, un portare nel testo una dialettica ancora forte con<br />

il reale, gli autori che pubblicano poemi nel nuovo millennio sembrano mossi da un'esigenza<br />

diversa: si parla di una poesia che tenta di dire il mondo, come se lo dicesse per la prima volta. Sono<br />

parole che emergono dal vuoto semantico e dall'aurora delle rovine della società mediatica.<br />

L'esigenza politica è proprio di comparire nella Storia(13). Per questo motivo, dal punto di vista<br />

formale, la tendenza poematica di certa poesia contemporaneo non stabilisce un canone, perché la<br />

stessa forma del testo, il metro, la strofa e il ritmo, costituisce la presenza di un mondo. E' una<br />

prospettiva nuova dello spazio collettiva e un'epifania della storia personale. Come diceva<br />

Mandelstam, "ogni passo sillogizza". Per questo motivo, anche se oggi si parla molto di neoepica,<br />

di romanzo in versi, si cerca una definizione adatta alla tendenza, non direi antilirica (l'anelito lirico<br />

è presente anche in queste opere), ma anticonfessionale della poesia italiana più recente, sembra che<br />

la differenza la faccia proprio il rigore con il quale l'operazione in versi riesca a creare un<br />

meccanismo complesso, che si tenga da sé e che sia allo stesso tempo ampiamente metaforico. Qui,<br />

tutt'al più, si può solo attestare una esigenza comune che ha dato vita nell'arco di pochi anni ad una<br />

produzione diffusa di opere poematiche.<br />

Si torna quindi a narrare con strutture forti e organiche. In molti autori torna la necessità d'indagare<br />

la Storia. Così accade con le opere di Luigi Ballerini e il suo poema Cefalonia, tragica e, a tratti,<br />

grottesca metabolizzazione personale e collettiva dell'eccidio dei soldati italiani sull'isola greca,<br />

dopo l'armistizio dell'8 settembre del 1943. Episodio storico e autobiografico che muove dalla<br />

morte di soldati lontani non per costruire, ma per decostruire, grazie al metro e al tono<br />

canzonettistico delle lasse, la retorico di un Paese ancora intriso di cultura degenere di destra. Così<br />

Federico Italiano, con il suo I mirmidoni, poemetto d'ispirazione audiano, ambientato nella<br />

pinacoteca di Monaco di Baviera, appronta la messa in scena di una nuova arca russa (penso al film<br />

di Sokurov) in cui una faglia storica e temporale permette una riflessione più ampia sulla<br />

contemporaneità; dove custodi e giovani avventori si mischiano alle vicende dei guerrieri<br />

mirmidoni, colti nel momento di sospensione dalla battaglia. Così fa Alessandro Rivali, che con La<br />

riviera del sangue e La caduta di Bisanzio, cerca una soluzione messianica agli orrori della Storia<br />

(senza prima averli affrontati ad occhi aperti), partendo dalle catastrofi antiche per arrivare a quelle<br />

a noi più vicine. Viola Amarelli, invece, in Notizie dalla Pizia dà voce alla sacerdotessa prendendo<br />

ella stessa voce, così come possiamo leggere dalla prefazione di Gianmario Lucini: "Il vero<br />

protagonista del testo poetico si rivela un ambiente sociale e umano senza tempo, quello di una<br />

civiltà che si muove molto più adagio di quanto rappresentino le scansioni storiche contraddistinte<br />

da date, avvenimenti cruciali e grandi eventi che in qualche modo formano e fermano il corso della<br />

storia per tappe e coordinate spesso arbitrarie. Questa narrazione in versi si svolge in monologhi: le<br />

indovine si presentano, raccontando il loro tempo ed esponendo il pensiero magico che attribuisce<br />

133


134<br />

loro un ruolo, una funzione sociale, a prescindere dalle coordinate temporali e persino dalle loro<br />

stesse intenzioni. È, insomma, il mondo mitico-magico che crea le profetesse per una sua esigenza<br />

di stabilità volta a evitare la propria dissoluzione"(14).<br />

Ma aldilà dei più smaccati richiami alla storia, esistono altri esempi di scrittura poematica<br />

dove la questione centrale resta la presenza nel tempo con-diviso, la presenza nello spazio. Anche in<br />

quello che sembra essere un canzoniere d'amore, come si dice del poema La divisione della gioia di<br />

Italo Testa. Il titolo del libro, oltre a citare il famoso complesso della scena new wave inglese degli<br />

anni '80, allude al padiglione riservato allo "svago" dei soldati tedeschi durante la seconda guerra<br />

mondiale all'interno dei campi di concentramento, occupato per lo più da ragazze ebree. I due<br />

amanti protagonisti del libro di Testa vivono le scene del poema come se risorgesse da quel<br />

quadrato di morte; tutta la narrazione, la messa in scena, è fondata sulla luce aurorale. Più che<br />

l'amore, il protagonista di questo testo è proprio la gioia, ossia il modo di guardare le cose, sapendo<br />

della loro fine. Luigi Nacci, con il suo Poema disumano, fa un'operazione di metricizzazione della<br />

storia più recente, calando eventi tragici in un'atmosfera non dissimile da quella delle lasse di<br />

Ballerini. Anche qui c'è una percezione fonico sillabica degli eventi condivisi, una<br />

metabolizzazione della storia. Ciò che qui manca rispetto ad altre esperienze è l'organizzazione<br />

strutturale del poema. La cornice è la stessa cantabilità, fruibilità pubblica del testo. Diverso invece<br />

il discorso per il suo lavoro più recente in cui la fabula è il ritrovamento di un manoscritto in Sud<br />

America passato per le mani di ex-nazisti sfuggiti dall'Europa (Mengele, Priebke, Eichmann). In<br />

questo testo troviamo inni, canti e madrigali dei criminali di guerra. Autore della scoperta, della<br />

cura e della traduzione del testo è lo stesso poeta che qui compare sotto la firma Dott. Luigi Nacci.<br />

Anche questo espediente è il modo di affrontare un'interpretazione diretta con il male e la<br />

Storia(15). Nel poema Le api migratori invece Andrea Raos, attraverso la vicenda dello sciame di<br />

api assassine, parla delle eccedenze della scienza più recente, unendole ad un immaginario pop,<br />

divenuta vera e propria rètina percettiva della realtà(16). Il corpo debordante del testo è anche<br />

l'immaginario postremo, che fatica a ritrovare un suo centro. Francesco Filia, con Il margine della<br />

città, che affronta il corpo a corpo con la realtà in una ricostruzione autobiografica che ingloba la<br />

cinta muraria della città natale con i suoi delitti e le sue offese. Si legge tra l'altro i versi di un<br />

frammento che alludono proprio alla relazione necessaria tra mondo e bios: ŖDimoro nella lesione<br />

di ogni cosa./ Vuoto logico di questo terrazzo aperto/ su di un balzo di palazzi e voci rabbiose./ Le<br />

labbra si schiudono ancora nella gioia/ di nominare le cose i volti lo spazio/ che si stringe intorno<br />

alla gola,/ nelle pietre di questa città che continua/ a crollarmi addosso da millenni (frammento<br />

XVIII).ŗ (17)<br />

Oltre a questi esempi ci sono altri poemi, si potrebbe fare tanti altri esempi. Ma per tornare<br />

ad un poema che si misura con la Storia, si può leggere l'opera d'ispirazione eliotiana di Roberta<br />

Bertozzi, Gli enervati di Jumièges. Parliamo di un testo esemplare per come riesce ad alludere,<br />

tramite una vicenda risalente all'alto medioevo, ad una domanda attualissima. La storia è quella dei<br />

figli di Clodoveo II, colpevoli di aver cospirato contro il padre e per questo condannati ad andare<br />

alla deriva su una zattera con i tendini delle gambe bruciati. Anche Marcel Proust ne aveva parlato<br />

nel suo Alla ricerca del tempo perduto (anche qui una questione cairologica). La simbologia del<br />

poema è già indicativa: il padre, il Re, che condanna i figli all'ignavia, alla passività, sembra dire la<br />

condizione recentissima del nostro Paese. La tradizione che schiaccia, annichilisce(18). I versi della<br />

Bertozzi tratti da capitoletto Heimat recitano così:<br />

Intorno non è la decadenza<br />

fino a quando la faglia non prende a puzzare<br />

e ci si chiede quale motivo, dove fa - tarlo.<br />

Dietro il perimetro del labirinto,<br />

dietro le figure-contorno stanno altri muri, altri nomi,<br />

spesso altro e ancora<br />

limo.<br />

134


Difficile dire<br />

quale carosello ci si pari davanti.<br />

[...]<br />

Heimat! Quanti ne mancano all'appello - quanti<br />

nel repertorio dell'Istituto Luce ingialliscono trinciati<br />

a tocchetti, a puntate, per le lame della moviola? (19)<br />

135<br />

La decadenza non è tale fino a quando la "faglia non riprende a puzzare". La faglia è la stessa<br />

matrice temporale che il nostro organismo porta nella narrazione collettiva dei fatti. La scommessa<br />

è se questa temporalità sappia farsi tempo con-diviso, spazio, Storia. In questo incipit c'è un vero e<br />

proprio monito. "Quanti ne mancano all'appello?" Quanti vanno salvati dall'ingiallirsi della pellicola<br />

dell'Istituto Luce? Ci si perde gradualmente per "tocchetti", "a puntate": l'anestesia è l'indolore.<br />

L'interrogativo resta centrale.<br />

Vincenzo Frungillo<br />

Note.<br />

(1) Contini Gianfranco, Un‟interpretazione di Dante, in Un‟idea di Dante, Einaudi, Torino, 1976, p. 98.<br />

(2) Cfr. ivi, p. 72<br />

(3) Cfr. Ivi, pp. 73-75<br />

(4) Ivi, p. 99<br />

(5) Furio Jesi, Cultura di desta, 2011, Nottetempo, Roma, p. 55, ci ricorda che funzione avesse durante il ventennio<br />

fascista la retorica del milite ignoto. Tra le due guerre il soldato senza nome diventa l'eroe della nuova collettività. La<br />

ricaduta politica di questo processo è evidente: le politiche totalitarie eludono il bios, la temporalità del singolo, per<br />

accomunare la collettività nella figura di un corpo anonimo, lontano nello spazio, privo di tempo, intangibile e per<br />

questo idealizzabile. Solo così la politica può essere trasformata in retorica, la tradizione in kitsch sublimato. Per questo<br />

motivo, ma non solo, tra le due guerra, i poeti italiani hanno guardato con sospetto alla grande tradizione poematica,<br />

hanno adottato misure poetiche volte all'ermetismo e, per così dire, all'economicità dei mezzi: si sentiva nei poemi della<br />

tradizione, nella narrazione in versi, l'eco della retorica mortifera dell'unità nazionale. Dopo la seconda guerra, i poemi<br />

della tradizione sono stati letti tutt'al più sotto la luce della nuova èra dei senza patria (Cfr. Giorgio Caproni, Il<br />

passaggio di Enea). Scrive Jesi: «Per la stessa ragione il cuore, il nucleo pesante, della Mostra della Rivoluzione<br />

fascista (1932-'35) era il Sacrario dei Martiri che recuperava al regime l'aura sepolcrale della retorica del Milite Ignoto,<br />

ma che nello stesso tempo per una carenza di stile e, se così si può dire, di temperatura mitologica risultava molto più<br />

un baraccone allestito con destrezza di coreografi, che il santuario o la cripta di una religione di morte». Le conseguenze<br />

di questo processo Jesi le indica nel saggio Il linguaggio delle idee senza parole, in Cultura di destra, op. cit. , pp. 158-<br />

159, dove tra l'altro dice a proposito delle celebrazioni massoniche della poesia di Carducci: «Così si estenderà il più<br />

possibile il numero degli italiani che avranno come cultura il rapporto con un mucchio indifferenziato e sacrale di roba<br />

di valore, che è il passato della patria. Essi stessi diverranno sempre più culturalmente indifferenziati, massa, e un<br />

sacramento tipico di questa comunione con il valore indifferenziato sarà poi tutto il rituale culto del Milite Ignoto,<br />

significativo anche per il fatto preciso di porre implicitamente la coincidenza tra quell'anonimato e la morte.»<br />

(6) Mandelstam Osip, Discorso su Dante, in La quarta prosa, Editori riuniti, 1982, Roma, p. 124.<br />

(7) Ivi p. 126.<br />

(8) Ivi, pp. 139-140<br />

(9) Ibidem<br />

(10) Tasso Torquato, Discorso dell‟arte poetica e in particolare sopra il poema eroico, in Torquato Tasso Prose,<br />

Letteratura Italiana Ricciardi, vol. 22, Treccani, 2005, p. 371.<br />

(11) «La favola è la forma essenziale del poema, come nessun dubita, or, se più saranno le favole distinte fra loro, lřuna<br />

delle quali da lřaltra non dependa, più saranno conseguentemente i poemi. Essendo dunque questo, che chiamiamo un<br />

poema di più azioni, non un poema, ma una moltitudine di poemi insieme congiunta, o queř poemi saranno perfetti o<br />

imperfetti: se perfetti, bisognerà chřabbiano la debita grandezza, e avendola, ne risulterà una mole più grande assai che<br />

non sono i volumi deř leggisti: se imperfetti, è meglio a far un sol poema perfetto che molti imperfetti. Tralasso che, se<br />

questi poemi sono molti e distinti di natura, come si prova per le moltitudini e distinzioni delle favole, ha non solo<br />

confuso, ma del mostruoso ancora il trapassare e mescolare le membra dellřuno con quelle dellřaltro: simile a quella<br />

fera che ci descrive Dante.» Ivi, p. 374.<br />

(12) Scrive a questo proposito Sergio Zatti, Il modo epico, Editori Laterza, Bari, 2000, p. 71: «Lřeredità del mondo<br />

cavalleresco di Boiardo e Ariosto, posta sotto il segno del molteplice narrativo e del pluralismo ideologico, diventa in<br />

Tasso il patrimonio di una sola parte e, quel che più conta, del nemico musulmano. Genialmente il poeta cristiano ha<br />

fatto coincidere nellřazione narrativa il mondo dellř errore romanzesco con un mondo pagano che, proprio per questo,<br />

135


136<br />

non cessa di esercitare le proprie lusinghe, sia pure nelle forme della negazione e del represso. Da questo punto di vista,<br />

la Liberata, rappresenta, per la forza della contraddizione che la governa, il primo grande esempio, nella letteratura<br />

italiana, di complicità con lřAltro, di solidarietà inconscia con le forze del male, con il Ŗnemico paganoŗ».<br />

(13) Del resto è stato proprio Giorgio Cesarano che, nel suo testo saggistico Manuale di sopravvivenza (anno 1974), ha<br />

profeticamente richiamato l'attenzione su un'epoca abitata dalle "personalità dell'assenza". Cfr. Giorgio Cesarano,<br />

Autocritica della corporeità metaforica, in Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974, proposizione 60, cit. da sito<br />

internet www.nelvento.net: "Essere nella cerchia: sussistere nella figura di sé, erogarvisi co-edificandola, questo<br />

prodotto collettivo che è la personalità dell'assenza". (la società dello spettacolo era già in atto, ma non ancora al suo più<br />

pieno compimento).<br />

(14) Gianmario Lucini, prefazione a Viola Amarelli, Notizie dalla Pizia, <strong>LietoColle</strong> libri, Milano, 2009.<br />

(15) Luigi Nacci, OdeSS, pp. 117- 166, in Poesia contemporanea. Decimo quaderno italiano, a cura di Franco Buffoni,<br />

Milano, Marcos y Marcos, 2010<br />

(16) Lo stesso Raos sul retro di copertina, Le api migratori, Oèdipus edizioni, Salerno, 2007, ci fornisce gli elementi per<br />

interpretare la storia: «Nel 1956 alcuni membri della comunità scientifica brasiliana importarono in Amazzonia<br />

dall'Africa api di quel continente, più robuste, e le incrociarono ad api produttrici di miele, inoffensive, meno<br />

aggressive. L'obiettivo era rendere queste ultime più produttive dal punto di vista economico e industriale. Una terribile<br />

serie di mutazioni non volute produsse le cosiddette api assassine"».<br />

(17) Francesco Filia, Il margine della città, Laboratorio edizioni, Nola, 2008<br />

(18) Scrive Roberta Bertozzi nel risvolto di copertina del suo libro, Roberta Bertozzi, Gli enervati di Jumièges, PeQuod,<br />

Ancona, 2007: «Nel suo significato originario il termine "snervato" indicava qualcuno a cui erano stati tolti o tagliati i<br />

nervi, così da renderlo apatico, incapace di reazione. Nella disciplina della macellazione l'enervazione consiste nella<br />

recisione del midollo spinale, prassi idonea a provocare più velocemente la morte dell'animale.»<br />

(19) Ivi p. 33<br />

136


BIBLIOGRAFIA<br />

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Testa Italo, La divisione della gioia, Transeuropa, Roma, 2010<br />

Zatti Sergio, Il modo epico, Editori Laterza, Bari, 2000<br />

137<br />

137


Contro la tirannia dell‟Io.<br />

Problemi del soggetto e generi del macrotesto nella poesia del Novecento<br />

Questioni aperte<br />

138<br />

Il modernismo, segnatamente anglosassone, e le 'scuole' del secondo Novecento italiano<br />

(soprattutto la linea lombarda e la neoavanguardia) rappresentano forse le due punte più avanzate<br />

verso il superamento di alcuni confini di genere e la riconsiderazione dello statuto del<br />

personaggio(1). Non è possibile tendere un filo diretto tra i due ambiti, quello modernista<br />

anglosassone ed europeo e quello italiano secondonovecentesco, discontinui per tempi e luoghi di<br />

attuazione. Tuttavia, si può forse riconoscere a Montale il ruolo di tramite tra l'oggettività e il<br />

concetto della poesia critica tipicamente eliotiani e modernisti, da un lato, la poetica dell'oggetto e<br />

la spiccata tendenza a mettere in discussione il ruolo della poesia e del soggetto poetico in autori<br />

italiani contemporanei, dall'altro. L'ipotesi di accostamento è corroborata, inoltre, dal comune<br />

rifiuto per una poesia orfica, di ascendenza mallarméana(2). La poesia francese, ancora oggi molto<br />

legata a quell'ascendenza(3), sembra meno disposta a investire nella problematizzazione del<br />

soggetto e nell'elaborazione di personaggi alternativi al protagonista lirico (che non siano cioè<br />

semplici emanazioni di un io assoluto). Significativi sono, invece, gli esempi che provengono da<br />

altre aree letterarie, europee ed extraeuropee: Pessoa, responsabile di un'estrema estensione della<br />

crisi dell'io dal soggetto poetico all'autore-poeta, frammentato in una molteplicità di eteronimi e di<br />

stili; Benn(4); Borges(5).<br />

Sul piano propriamente storico-letterario, è opportuno notare come la problematizzazione<br />

del soggetto sia in gran parte legata a una crisi poetico-ideologica. Ciò, in particolare, nella poesia<br />

del secondo Novecento. Al riguardo, sembrano significative le considerazioni di un autore come<br />

Mario Luzi, tanto più attento a registrare la crisi della soggettività contemporanea quanto più<br />

intimamente legato a una concezione 'classica' dell'io lirico (assoluto, come previsto dai canoni<br />

della poesia ermetica, ed egemonico, secondo un habitus ereditato dal modello petrarchesco):<br />

[Il senso del messaggio della poesia] non ha fatto altro che rispettare la sublime tautologia<br />

del sogno umano sognato variamente nelle varie positure che l'uomo è stato indotto ad<br />

assumere durante la sua notte. La nostra epoca ne ha conosciute di particolarmente infelici:<br />

il sogno è stato attraversato dai mostri del presentimento che il risveglio rivelava poi anche<br />

più atroci; e solo un supplemento di grazia ha permesso di ritrovare il giusto, l'equanime che<br />

alla poesia sono necessari per esistere. Tutto questo è accaduto non senza il sacrificio di una<br />

soggettività che il clima duro di questa fase della storia faceva apparire egotistica. L'«io»<br />

infatti che aveva avuto in mano la strategia e la tattica del poema di decennio in decennio si<br />

umilia progressivamente e si riconosce provvisorio, mutuabile con altre entità, privo di<br />

identità vera e di vera sede: un semplice teste vitale. Come «auctor» l'«io» che resiste è<br />

paradossalmente simbolico e tende a soggiacere alla oggettività, a rientrare miticamente<br />

nell'ordine impersonale.(6)<br />

Il nesso che Luzi individua tra il sacrificio della soggettività (cioè la sua perdita di<br />

influenza) da un lato, il «clima» storico dall'altro segna una svolta nella lunga trafila di uno tra i più<br />

consolidati istituti letterari: l'io dell'autore come frutto di una sostanziale condivisione di valori che<br />

accomuna mittente e destinatari dell'opera(7). Nella letteratura e in particolare nella poesia del<br />

secondo Novecento l'io non solo perde ogni autorità assiologica, la capacità cioè di conciliare o<br />

diffondere valori riconosciuti da un'ampia comunità di lettori - processo, questo, già avviato dal<br />

soggetto della poesia romantica, dotato di intelletto e sensibilità eccezionali(8) - ma si mostra del<br />

tutto privo di stabilità ontologica.<br />

138


1. Statuto e relazioni del personaggio<br />

139<br />

1.1 La prima delle questioni aperte dipende proprio da tale instabilità e coinvolge l'identità<br />

del personaggio poetico e la relazione tra i personaggi all'interno del macrotesto. L'identità,<br />

nell'accezione che si vuol dare qui al termine, non ha a che fare con il referente biografico;<br />

interessa, piuttosto, lo statuto semiotico del personaggio, la sua individualità e la relazione che<br />

intrattiene con altri eventuali personaggi nel libro.<br />

Questa relazione ha conosciuto uno sviluppo parallelo all'evoluzione del genere-libro di<br />

poesia. Il personaggio pieno, indiviso, semioticamente determinato presente nella poesia medievale<br />

e in gran parte di quella moderna lascia il posto a una figura dall'identità più instabile e<br />

frammentaria, caratteristica della poesia novecentesca (in particolare, del secondo Novecento).<br />

1.2 La formula dantesco-petrarchesca prevede un'interazione tra due figure fondamentali;<br />

l'identità dell'una dipende dalla funzione esercitata rispetto all'altra.(9) Nei canzonieri di derivazione<br />

petrarchesca, la trama segue uno schema in larga misura preordinato (esemplato, cioè, sul primo<br />

modello del genere), nel quale i personaggi compongono un sistema geometricamente funzionale.<br />

Non che questi rimangano immobili per tutto lo svolgimento del libro; la progressione, che<br />

costituisce la sostanza narrativa del canzoniere, ne risulterebbe penalizzata. Il punto è che<br />

l'evoluzione nel carattere del protagonista e della deuteragonista procede, nella maggior parte dei<br />

casi, entro il solco dell'intertestualità e dell'imitazione; ad un episodio (evento, azione,<br />

atteggiamento) corrisponde una specifica, prevedibile reazione da parte dell'altro personaggio<br />

principale. Così, ad esempio, il temporaneo allontanamento del protagonista dall'amata, attratto da<br />

una 'donna dello schermo', suscita la rampogna, l'inasprimento, il pentimento; la morte dell'amata è,<br />

invece, una condizione necessaria per la sua celebrazione etico-spirituale. Le identità dei personaggi<br />

subiscono perciò delle variazioni di qualità relazionale; tuttavia, a ciascuna svolta nella sorte o nel<br />

carattere di una delle due figure principali corrisponde una determinata reazione nell'altra figura: le<br />

funzioni e, per così dire, la reciproca distanza rimangono immutate. Il sistema prevede che gli<br />

elementi al proprio interno abbiano un certo margine di mobilità; i binari lungo cui muoversi sono<br />

però già posati e il percorso è semplificato dalla presenza di pochissimi personaggi.<br />

Nel Novecento, il sistema viene sottoposto a delle tensioni che ne alterano la secolare<br />

stabilità. L'identità dei personaggi diviene, oltre che relazionale, dinamica. Ciò anche quando la<br />

forma macrotestuale riprende alcuni elementi canonici del canzoniere d'amore. Ad esempio, nella<br />

Bufera montaliana la relazione protagonista/ispiratrice è arricchita da una relazione di<br />

sconfinamento e identificazione tra Clizia e Volpe(10): si pensi al tema della continuità e<br />

dell'impossibilità di distinzione in liriche come Iride, L'orto, «Se t'hanno assomigliato…». A ciò si<br />

aggiunge l'incrinatura dell'autoreferenzialità e dell'astrazione dal contesto, con l'attribuzione alla<br />

Storia di una centralità tematico-organizzativa in genere assente dai canzonieri classicistici.<br />

Questa dinamica trova nel libro di poesia un terreno ideale di sviluppo: rientra, anzi,<br />

nell'essenza del macrotesto, poiché l'assemblaggio e l'organizzazione dei suoi componimenti sono<br />

soggetti a evoluzioni e mutamenti. I caratteri attribuiti in partenza a un personaggio possono essere<br />

rimessi in gioco dalla dislocazione dei testi; viceversa, la stessa dislocazione può essere decisa per<br />

modificare la storia del personaggio (di solito, si tratta del protagonista lirico).<br />

Esiste però un canone consapevolmente rispettato anche nella Bufera: la centralità e l'unità<br />

del soggetto lirico. È vero che la distribuzione dei ruoli e la distanza reciproca tra i personaggi<br />

vengono resi più duttili rispetto al sistema tradizionale; è vero anche, però, che l'innovazione<br />

coinvolge l'identità della deuteragonista, non quella del protagonista. Certo, Montale e prima di lui i<br />

crepuscolari hanno compiuto un'operazione di ridimensionamento nei confronti dell'io lirico<br />

romantico e dannunziano; si è trattato, però, di un abbassamento nel tono più che di una rivoluzione<br />

nella prospettiva. La dichiarazione di inadeguatezza, tipica del personaggio primonovecentesco, è<br />

139


140<br />

comunque un mezzo per affermare un'identità specifica e contraria rispetto a un altro soggetto. Ad<br />

esempio, la celebre conclusione della montaliana Falsetto («Ti guardiamo noi, della razza / di chi<br />

rimane a terra.») non rappresenta una resa ma una rivendicazione di originalità.<br />

1.3 Altri e più radicali esperimenti, specie nella seconda metà del Novecento, hanno<br />

contribuito a scindere anche l'identità del protagonista lirico, mettendone in discussione non più<br />

soltanto l'attitudine esistenziale ma la stessa natura ontologica. Esemplare, da questo punto di vista,<br />

è l'itinerario poetico di Giovanni Giudici; la vena 'umile' e neocrepuscolare delle prime raccolte<br />

viene infatti orientata, almeno dai primi anni Settanta, verso la dissoluzione del soggetto. Il ruolo<br />

del protagonista e, in particolare, la sua centralità conoscitiva e ideologica sono sempre più incerte.<br />

In O beatrice(11), la riflessione metaletteraria sulla forma prevale, così, sul racconto dell'esperienza<br />

(ancora decisiva nei due libri precedenti: La vita in versi e Autobiologia). Il prezzo del sublime(12),<br />

terza poesia della raccolta, illustra appunto la frattura tra espressione ed esperienza, la perdita di<br />

controllo del soggetto sulla propria identità, mediante la distorsione logico-grammaticale delle<br />

persone e delle desinenze verbali.<br />

Mi domandi se potrai.<br />

Mi domando se potrò.<br />

Io sarò Ŕ non sarai.<br />

Tu sarai Ŕ non sarò.<br />

Per noi sarà quello che non potremo.<br />

Quello che non saremo su noi potrà.<br />

Non-tu non-io noi Ŕremo.<br />

Ma contro la specie che siamo orgoglio estremo<br />

verbi avvento al cliname<br />

che ci rotola a previste tane<br />

umanamente inumane<br />

persone del futuro seconde e prime.<br />

Io Ŕrò.<br />

Tu Ŕrai.<br />

Il niente<br />

È il prezzo del sublime.(13)<br />

La prima quartina è giocata sullřalternanza e sulla corrispondenza pronominale e verbale<br />

tra la prima e la seconda persona singolare: «Domandi / domando»; «potrai / potrò»; «Io sarò / Tu<br />

sarai»; «non sarai / non sarò». La relazione tra «io» e «tu» non è ancora turbata da infrazioni<br />

logiche o morfologico-grammaticali; si potrà tuttavia osservare come l'insistente simmetria<br />

(materialmente percepibile anche nella mise en page) allontani la relazione tra «io» e «tu» dal piano<br />

della coerenza empirica (attenuando la dipendenza dalle leggi della realtà) per avvicinarla a una<br />

dimensione puramente linguistica, assoluta o addirittura onirica.(14)<br />

La struttura simmetrica caratterizza anche il distico successivo: «Per noi sarà quello che<br />

non potremo. / Quello che non saremo su noi potrà.» L'espressione arguta e paradossale rende<br />

incerta, anche se non inaccessibile, la parafrasi. Un'interpretazione plausibile sembra la seguente:<br />

«sarà dotato di valore e richiamo ciò che non potrà essere da noi raggiunto/compreso/posseduto; su<br />

di noi agirà come un condizionamento ciò che non riusciremo ad essere». Il protagonista<br />

riconoscerebbe per sé e per la figura deuteragonistica dei limiti esistenziali; lřanalogia col soggetto<br />

140


141<br />

poetico primonovecentesco (che spesso si proponeva come un personaggio in tono minore, costretto<br />

tra le maglie della perplessità e di una vitalità decurtata) è più apparente e formale che<br />

sostanziale(15). Lřaffermazione di inadeguatezza, infatti, arriva in Giudici a coinvolgere il piano<br />

ontologico, come pare confermare il monostico successivo: «Non-tu non-io noi Ŕremo.»<br />

Il verso è centrale, non solo per posizione, nel testo; vi si illustra, infatti, la precipitazione<br />

della logica entro una dimensione alterata, la cui validità è possibile solo sul piano delle potenzialità<br />

grammaticali. Assumono rilievo anche i fenomeni tipografici, come il trattino che unisce gli avverbi<br />

di negazione ai pronomi di prima e seconda persona singolare e che introduce la desinenza assoluta<br />

«-remo», orfana della radice verbale, priva di connessione con un atto concreto. «Non-io», «non-tu»<br />

sono coniugazioni del Řnon-essereř: la congiunzione di avverbio e pronome infatti non nega<br />

unřazione (di cui rimane solo unřipotesi nella desinenza assoluta), ma nega proprio lo status di «io»<br />

e «tu», destituiti di autorità e ridotti a una sopravvivenza pronominale («umanamente inumane /<br />

persone del futuro seconde e prime.»).<br />

Il paradosso assume evidenza e risalto ancora maggiori se Il prezzo del sublime viene letta<br />

tenendo a mente le osservazioni sui pronomi di Émile Benveniste:<br />

Gli indicatori io e tu non possono […] esistere come segni virtuali, ma esistono solo in<br />

quanto attualizzati nella situazione di discorso, dove attraverso ogni singola situazione<br />

indicano il processo di appropriazione operato dal parlante […].(16)<br />

È nella situazione di discorso in cui io designa il parlante che questřultimo si enuncia come<br />

Ŗsoggettoŗ. È quindi vero alla lettera che il fondamento della soggettività è nellřesercizio<br />

della lingua. Se ci si riflette seriamente, si vedrà che non ci sono altre testimonianze<br />

oggettive dellřidentità del soggetto fuorché quella che in tal modo egli stesso dà su se<br />

stesso.(17)<br />

Nel testo di Giudici gli indicatori «io» e «tu» sono condotti verso unřesistenza virtuale, svincolati<br />

cioè da una situazione di discorso standard in cui «io» non può non designare un soggetto<br />

ontologicamente (prima che grammaticalmente) definito.<br />

In conclusione, la simmetria nella struttura retorica e lřoltranza quasi ludica nellřuso dei<br />

pronomi e delle desinenze, fenomeni consoni allo stile e allřinclinazione metapoetica che<br />

qualificano la raccolta O beatrice, esprimono la perplessità e lřincertezza del soggetto nel delimitare<br />

la realtà e soprattutto nel riconoscere la propria individualità in relazione all'interlocutore (un «tu»<br />

parimenti ridotto a unřesistenza grammaticale).<br />

1.4 Il personaggio pieno e indiviso, caratteristico del canzoniere, viene così sottoposto a un<br />

processo di erosione, che può manifestarsi in varie forme: annullamento dell'io, moltiplicazione del<br />

soggetto, riflessione del soggetto sul proprio statuto, ampliamento e drammatizzazione del sistema<br />

dei personaggi. Tali diverse manifestazioni richiedono profonde innovazioni nell'assetto del<br />

macrotesto. La progressione di tipo seminarrativo, legata all'identità di un io lirico centrale e<br />

indiviso la cui vicenda viene illustrata (sia pure in forma ellittica) all'interno del libro, non è infatti<br />

adeguata a un sistema di personaggi rinnovato e più complesso o, addirittura, alla soppressione di<br />

un protagonista canonico.<br />

Nel prossimo paragrafo osserveremo alcuni esempi di rinnovamento strutturale, ottenuti<br />

soprattutto attraverso l'acquisizione, da parte del genere lirico, di alcuni istituti formali caratteristici<br />

del genere epico, di quello narrativo-romanzesco e di quello drammatico. Si dirà, intanto, che tra<br />

l'integrità (cognitiva, assiologica, grammaticale) del protagonista lirico e la progressione di senso<br />

attraverso il macrotesto esiste una diretta corrispondenza. L'unità del soggetto è garanzia, almeno<br />

agli occhi del lettore, dell'unità strutturale e tematica del macrotesto; quand'anche non sia possibile,<br />

come spesso accade, integrare semioticamente gli spazi lasciati vuoti in una trama costruita<br />

dall'autore a posteriori(18), la centralità indivisa di un soggetto lirico è sufficiente perché il lettore<br />

141


142<br />

formuli un'ipotesi di continuità. Si tratta, in altre parole, di un'illusione referenziale, sulla quale<br />

l'autore conta per orientare l'organizzazione del libro.<br />

L'annullamento, la scissione o la moltiplicazione del soggetto sono, invece, da associare a<br />

forme di macrotesto caratterizzate dall'assenza, o dall'estrema debolezza, della progressione,<br />

sostituita da un opposto criterio di modularità o giustapposizione. Annullando la progressione nella<br />

storia, la modularità rende anche più sfumata la consistenza di un protagonista, la cui identità viene<br />

anzi ripartita nei vari testi e subisce una sorta di decentramento.<br />

Dal punto di vista storico, il percorso in questa direzione ha avuto varie tappe e gradi. In<br />

Lavorare stanca di Pavese, per esempio, il decentramento non era ancora espresso in forme radicali<br />

(pur avendo profondi legami con l'etica e la poetica dell'autore); nei poeti più recenti, consapevoli<br />

del processo di erosione e deriva cui è stato sottoposto il soggetto nella poesia del secondo<br />

Novecento, il decentramento può assumere espressioni più nette. È il caso di Gente di corsa di<br />

Tiziano Rossi, in cui il soggetto viene moltiplicato in una serie innumerevole di personaggi e<br />

sopravvive, in pratica, soltanto nell'ironia stilistica.<br />

Un caso ancora diverso è quello che prevede non l'indefinita moltiplicazione ma la<br />

scissione dell'io lirico in una serie di personae che rivendicano ciascuno la propria eminenza, in<br />

competizione con gli altri. È anche questa una soluzione ironica, postmoderna e insistentemente<br />

metapoetica. La differenza con Rossi (e, prima ancora, con Pavese e con la linea eticamente più<br />

impegnata nella poesia italiana contemporanea) risiede, però, nella diversa attitudine conoscitiva; se<br />

per gli uni la moltiplicazione del soggetto è la condizione per fondare una prospettiva universale e<br />

onnicomprensiva, per gli altri la scissione è un'espressione di disorientamento.<br />

Sul piano tipologico, l'annullamento del soggetto rappresenta un grado ulteriore rispetto al<br />

decentramento; ciononostante, sul piano storico, quest'operazione precede di diversi decenni le<br />

sperimentazioni attuate nell'ambito della letteratura italiana. Si devono, infatti, alla poesia di Eliot e<br />

Pound i più complessi tentativi di liberare la lirica dalla tirannia dell'io, ponendo al centro non una<br />

storia ma un sistema culturale. Di Eliot, come si vedrà nel prossimo paragrafo, sono anche le più<br />

dirette prese di posizione contro l'io in favore di una prospettiva oggettiva e i più complessi (e<br />

storicamente significativi) tentativi di rinnovamento nella struttura del macrotesto.<br />

2. Incroci di genere<br />

2.1 Se la forma-canzoniere, così come i libri che abbiamo definito 'di argomento lirico',<br />

rappresentano per tradizione il regno del soggetto o del protagonista quale proiezione dell'autore (a<br />

cui vengono, per questo, concessa un'udienza e riconosciuta una centralità superiori a quelle degli<br />

altri eventuali personaggi), è possibile riconoscere in certi esperimenti di genere che riguardano<br />

proprio la forma del libro di poesia novecentesco la volontà di sottoporre a un ripensamento l'idea e<br />

la funzione del protagonista lirico. L'incrocio dei generi rappresenta un'espressione di sfiducia nel<br />

ruolo tradizionale dell'io lirico, costretto ad accettare relazioni problematiche con personaggi<br />

talvolta dotati di una propria autonomia cognitiva (non delle semplici persone grammaticali, come il<br />

«tu» istituzionale su cui già ironizzava Montale), a cedere il controllo ad altri soggetti e personaggi<br />

che un discorso tradizionalmente lirico non avrebbe potuto accogliere. La tensione verso la<br />

narratività o verso la teatralità, ben vive nella poesia moderna e contemporanea anche prima - a dire<br />

il vero - che l'io procedesse lungo la via della dissoluzione, disturbano il meccanismo che presiede<br />

alla fondazione del soggetto lirico e a una sorta di identità di genere. In termini lacaniani, potremmo<br />

immaginare la formazione dell'identità dell'io lirico nel macrotesto come un processo che<br />

contempla: 1) in origine, gli «io» molteplici e frammentari dei diversi micro-testi (le liriche prima<br />

dell'inserimento in raccolta); 2) uno 'specchio' che consente di addensare la pluralità originaria in un<br />

insieme coerente e in un'immagine unitaria del soggetto, specchio rappresentato, in questo caso, dai<br />

modelli tradizionali, dal codice della precedente letteratura; 3) l'Io come soggetto unico. La<br />

142


143<br />

commistione tra i generi infrange lo specchio, rendendo impossibile l'unificazione: di qui l'ulteriore<br />

possibile conferma di una stretta relazione tra la fluidità dei soggetti e la ricerca di una forma-libro<br />

originale.<br />

2.2 Accanto, o in alternativa, alla consueta identità lirica il protagonista e gli altri<br />

personaggi possono acquistare, a seconda dei testi e degli autori, un'identità epica, romanzesca,<br />

drammatica. Il personaggio e il testo in cui questi compare non assumono, beninteso, tutte le<br />

caratteristiche del genere con cui si verifica l'incrocio; la trasmissione di alcuni elementi è, tuttavia,<br />

sufficiente per rinnovare sensibilmente le caratteristiche del personaggio lirico.<br />

Nel caso di un personaggio a identità mista lirica/epica, ad esempio, non stupirà certo<br />

l'assenza dei tratti eroici che distinguono il protagonista dell'epica propriamente detta. (Questo<br />

riguarda anche le forme dellřepica contemporanea, praticata specialmente nellřambito della<br />

letteratura postcoloniale di lingua inglese, in cui lřepos è coerente con una volontà di legittimazione<br />

di un patrimonio mitico attraverso lřinnesto nella tradizione occidentale: penso a due capolavori del<br />

genere come Omeros di Walcott e Fredy Neptune di Les Murray. Nel secondo, il protagonista,<br />

Freddy Nettuno, presenta dei caratteri eroici Ŕ forza e resistenza fisica sovrumane Ŕ e compie un<br />

itinerario avventuroso paragonabile a quello di un Ulisse novecentesco; quei tratti epici allusivi<br />

appaiono però straniati dal confronto con la storia contemporanea e dalla Řdegradazioneř picaresca<br />

del personaggio).<br />

L'attenzione andrà piuttosto rivolta ai caratteri (apparentemente) secondari, tra i quali vi è<br />

la condizione assiologico-temporale. Il tempo in cui si muove il personaggio è irriducibile alle<br />

consuete categorie di passato e presente; questi emerge da una dimensione le cui leggi sono dettate<br />

dal sistema di valori o, in termini lotmaniani, dal sistema culturale: non a caso, esempi di<br />

personaggio 'epico' sono offerti da The Waste Land che, come si è visto, non deve la propria<br />

organizzazione alla mimesi dei criteri di ordine validi per la realtà esterna al testo. In The Fire<br />

Sermon, il terzo movimento del poemetto eliotiano, il personaggio che si assume provocatoriamente<br />

la responsabilità di dire 'Io' è Tiresia:<br />

I Tiresias, though blind, throbbing between two lives,<br />

Old man with wrinkled female breasts, can see<br />

At the violet hour, the evening hour that strives<br />

Homeward, and brings the sailor home from sea,<br />

The typist home at teatime, clears her breakfast, lights<br />

Her stove, and lays out food in tins. (vv. 218-23) (19)<br />

L'ambito mitologico, la natura insieme maschile e femminile, la trasgressione delle leggi del tempo<br />

e dello spazio provocata dall'accostamento dell'indovino alla moderna dattilografa privano Tiresia<br />

di un'identità piena e della centralità dell'io tradizionale.<br />

L'incrocio tra lirica ed epica caratterizza anche la poesia di Yeats. In The Gift of Harun<br />

Al-Rashid, compresa in The Tower (1928), a prendere la parola è un esotico protagonista:<br />

Kusta Ben Luka is my name, I write<br />

To Abd Al-Rabban; fellow-royester once,<br />

Now the good Caliph's learned Treasurer,<br />

And for no ear but his. (vv. 1-4) (20)<br />

L'affinità con Eliot discende da una certa analogia nella poetica dei due autori; anche per Yeats,<br />

infatti, la poesia rappresenta una sorta di memoria culturale. Nonostante la riflessione di Yeats sia<br />

attraversata da una vena mistico-esoterica estranea ad Eliot, in entrambi gli autori l'invenzione del<br />

personaggio epico sembra funzionale a un'idea della poesia come voce universale (in Yeats,<br />

addirittura, come 'subconscio storico'(21)) aliena dal personalismo intimistico dell'io lirico<br />

143


144<br />

tradizionale. In Eliot, in particolare, l'istanza di ridimensionamento dell'io si manifesta<br />

precocemente(22), qualificandosi subito come elemento portante di una complessa riflessione<br />

epistemologica e artistica.<br />

2.3 Per quanto riguarda l'incrocio tra lirica e narrativa, è necessario distinguere la seminarratività<br />

(che è, fin dalle origini, tra gli elementi costitutivi della forma-canzoniere) dalla<br />

cosciente imitazione del romanzo (caratteristica del secondo Novecento). Il personaggio lirico<br />

tradizionale può essere al centro di una vicenda con uno sviluppo nel tempo, con un principio e un<br />

esito; ciononostante, la sua personalità è spesso piuttosto ellittica. Come osservava Montale, «il<br />

personaggio che appare in una poesia sarà assai più sintetico del personaggio di un romanzo», in<br />

quanto «proiezione»(23) dell'autore. La possibilità di identificare il protagonista con l'autore<br />

(almeno con l'autore implicito) mantiene la poesia entro la dimensione lirica. Appare perciò<br />

superfluo, e anzi fuori dalla norma del genere, illustrare gli aspetti realistici del personaggio,<br />

soffermarsi sulla sua routine quotidiana, sul suo statuto professionale, su tutti quegli elementi<br />

prosaici che l'io romantico aveva bandito dal proprio orizzonte esistenziale. Sul piano strutturale,<br />

come si è visto, a questo tipo di narratività lirica corrisponde una progressione generalmente debole,<br />

con molti spazi vuoti nella trama ideale; della vicenda, come si addice alla lirica, vengono posti in<br />

risalto solo gli episodi eminenti.<br />

Nel secondo Novecento, i confini tra i generi vengono superati con maggior slancio, fino al<br />

limite della sovrapposizione. L'introduzione di personaggi meno direttamente legati all'autore<br />

implicito consente un più deciso rinnovamento per quanto concerne gli argomenti della narratività<br />

poetica. Al contempo, si assiste ad un avvicinamento tra lirica e narrativa anche sul piano formale e<br />

strutturale. L'organizzazione del libro può così imitare, in certi casi, l'articolazione di un romanzo.<br />

Un esperimento cronologicamente tempestivo viene compiuto da Elio Pagliarani, che nel 1960<br />

pubblica il primo dei suoi due romanzi in versi, La ragazza Carla, iniziato sei anni prima. Lo stesso<br />

Pagliarani ha più recentemente commentato senso e motivazioni di quella sua prima opera<br />

'narrativa':<br />

Dall'uscita delle Cronache […], mi preoccupava il peso, che mi pareva eccessivo, delle mie<br />

vicende personali sulla mia poesia e m'era diventata pesante nello scrivere la "tirannia<br />

dell'io"; lo avevo già avvertito nel risvolto delle Cronache, scritto da me anche se anonimo,<br />

dove dichiaravo quella poesia «gravata dalla troppa, ineluttabile carità di sé e conseguente<br />

bagaglio». Quindi per lottare contro " l'ineluttabile" avevo deciso di comporre un poemetto<br />

narrativo, con la sua brava terza persona, che si occupasse di vicende contemporanee che<br />

non mi riguardassero troppo direttamente. (24)<br />

La scelta della forma-poemetto si lega strettamente alla necessità di reinventare i generi letterari, in<br />

funzione di un ampliamento del linguaggio poetico. Spiega Pagliarani:<br />

Nessun vocabolo ha illimitate capacità di adattamento (e quante più ne ha tanto più è<br />

avvilito); ogni vocabolo ha i suoi precisi problemi di sintassi, si muove in una sua area<br />

sintattica. […] I problemi di sintassi investono per definizione tutto il periodo, imprimendo<br />

una diversa tensione durata ritmo al discorso. Ma questa designazione di tonalità […]<br />

appartiene ai generi. La reinvenzione dei generi letterari cui ora si assiste non è dunque che<br />

la necessaria conseguenza dell'ampliamento del linguaggio poetico. […] Strumento di<br />

questa operazione è il genre "poemetto", il Kind poesia didascalica e narrativa […](25).<br />

Nello stesso brano, Pagliarani distingue tra un positivo procedimento di 'reinvenzione' dei generi<br />

(da lui stesso messo in atto nel romanzo in versi) e un meccanica operazione di 'riadozione';<br />

reinventare significa anche forzare dei limiti dall'interno, proporre delle forme di incrocio. È quanto<br />

avviene nella Ragazza Carla, che alterna (distinguendoli anche tipograficamente in tondo o corsivo)<br />

brani narrativi a brani lirici o commentativi, come quello finale:<br />

144


Ma non basta comprendere per dare<br />

empito al volto e farsene diritto:<br />

non c'è risoluzione nel conflitto<br />

storia esistenza fuori dall'amare<br />

altri, anche se amore importi amare<br />

lacrime, se precipiti in errore<br />

o bruci in folle o guasti nel convitto<br />

la vivanda, o sradichi dal fitto<br />

pietà di noi e orgoglio con dolore. (III, 7, vv. 22-30).<br />

145<br />

Al riguardo, si deve osservare come l'alternanza coinvolga anche lo statuto dell'enunciatore,<br />

complicando i ruoli e le reciproche relazioni tra la protagonista e gli altri personaggi da un lato, il<br />

narratore dall'altro. Se l'inizio del romanzo (e gran parte del suo svolgimento) è in terza persona<br />

(«Di là dal ponte della ferrovia / una traversa di viale Ripamonti / c'è la casa di Carla, di sua madre,<br />

e di Angelo e Nerina»), più avanti la protagonista si esprime direttamente in prima persona:<br />

Signorina signorina mi dice<br />

mamma io non ci posso più stare<br />

è venuto vicino che sentivo<br />

sudare, ha una mano<br />

coperta di peli di sopra<br />

io non ci vado più. (III, 1, vv. 16-21)<br />

Ma il brano non corrisponde al semplice monologo lirico. In primo luogo, pur in assenza degli<br />

indicatori grafici altre volte presenti nel romanzo, sono perfettamente distinguibili le parole di un<br />

altro personaggio («Signorina signorina») qui riportate dalla protagonista; in secondo luogo, il<br />

brano è a carattere dialogico. Carla si rivolge infatti alla madre, che le risponde alcuni versi più<br />

avanti (sebbene la 'battuta' che adempie al dialogo, per l'assenza di indicatori e per l'articolazione<br />

discorsiva intervallata da un brano commentativo e da un breve inserimento del narratore<br />

extradiegetico, venga differita e quasi riassorbita):<br />

Non ti ha nemmeno toccata<br />

gli chiederemo scusa<br />

fin che non ne trovi un altro<br />

tu non lascerai l'impiego<br />

bisogna mandare dei fiori<br />

alla signora Pratèk. (III, 1, vv. 41-46).<br />

Il tratto che rivela, nella forma più elementare, l'intenzione di liberarsi dalla «tirannia<br />

dell'io» è la creazione di un personaggio femminile. La sovrapposizione e integrazione della<br />

vicenda del protagonista e di quella dell'autore maschile diviene, per questa via, assai meno<br />

spontanea e automatica; ciò anche se, per ammissione dell'autore, tra l'esperienza personale e quella<br />

narrata esistono inevitabilmente dei punti di contatto(26).<br />

2.4 L'identità d'incrocio lirico-drammatica è ben illustrata da Il conte di Kevenhüller di<br />

Giorgio Caproni (Garzanti 1986), sia perché i principi dell'organizzazione e i temi fondamentali del<br />

libro aderiscono a un immaginario palinsesto drammatico-musicale sia perché, più in dettaglio, il<br />

ruolo e la condizione dell'enunciatore (del personaggio che dice io) si delineano in relazione a un<br />

sistema di personae (personaggi e 'istituti', quali il firmatario dell'operetta e il protagonista) che<br />

intervengono nel testo come farebbero i protagonisti di un dramma.<br />

145


146<br />

Tra i temi del libro, quello dell'io riflesso nella molteplicità degli agenti e dei nomi assume<br />

un rilievo programmatico in Personaggi, componimento-didascalia collocato quasi all'inizio del<br />

libro (terzo elemento di una sequenza che comprende anche Fondale della storia e Luogo<br />

dell'azione: i titoli alludono alle indicazioni paratestuali che precedono, di norma, il testo vero e<br />

proprio):<br />

PERSONAGGI<br />

Alcuni Io.<br />

Quasi mai io.<br />

Altri Pronomi.<br />

Nomi.<br />

Parti secondarie:<br />

le stesse del Discorso.<br />

Grazie all'articolazione pseudoteatrale e, soprattutto, all'accentuazione di alcuni tra gli istituti<br />

fondamentali del dramma (specie di quello operistico-musicale), il soggetto può essere sottoposto a<br />

un processo di scomposizione e di rifrazione. In luogo di un protagonista lirico, dalla cui integrità<br />

cognitiva dipenda l'unità della storia narrativa o sentimentale, si ha una serie di personaggi che<br />

godono, a vario titolo, dell'autorità di un protagonista o di un autore implicito: parleremo, al<br />

riguardo, di personaggi autoriali. Seguendo l'articolazione del libro, il primo personaggio autoriale<br />

è Alesio Leucasio ('bianco fornaio'), a firma del quale è posto l'esergo dell'«operetta»:<br />

Quest'Operetta a brani,<br />

Lettor, non ti sia sgradita.<br />

Accettala così com'è,<br />

finita ed infinita.<br />

(Alesio Leucasio)<br />

Dietro il forbito pseudonimo si celerebbe lo stesso Caproni, che avrebbe adottato "Alesio Leucasio"<br />

come proprio nome arcadico(27). Il secondo personaggio autoriale è l'eponimo Conte di<br />

Kevenhüller, per il quale viene bandita la caccia alla «feroce Bestia». La caccia, tema della finzione<br />

operistica, riceve nel paratesto una sorta di autenticazione documentaria (probabilmente fittizia);<br />

prima della sezione Libretto, infatti, viene riprodotto l'avviso a stampa datato «Milano li 14 luglio<br />

1792», con il quale il Conte mette in palio la somma di cinquanta zecchini per chiunque liberi la<br />

provincia dall'«infestazione»(28). Gioverà osservare come il Conte, nonostante non prenda mai<br />

direttamente la parola nel libro, è spesso evocato da un ulteriore personaggio autoriale. A questi<br />

spetta il ruolo di enunciatore («Mi armai anch'io. Anch'io / mi unii alla "generale Caccia")»,<br />

direttamente coinvolto nell'azione. Ora, quest'enunciatore è quanto di più simile a un tradizionale<br />

protagonista, se non altro perché la costanza della sua presenza attraverso le due sezioni<br />

drammatiche del libro(29) garantisce la continuità della vicenda e l'unità del macrotesto. Tuttavia,<br />

tra il cacciatore e colui che chiameremmo "io lirico" si crea una sfasatura di tempo e coscienza,<br />

messa in luce già in Personaggi. Tra i diversi Io (oltre all'enunciatore principale, si contano nel<br />

libro alcuni enunciatori secondari: in Al più frenetico, Saggia apostrofe a tutti i caccianti, L'abate,<br />

ecc.) e l'io che prende la parola in quel testo esiste una differenza di livello: l'io (con la minuscola)<br />

si pone all'esterno della vicenda, in una condizione di onniscienza e di consapevolezza gnomica; l'Io<br />

è invece, come si è detto, calato nell'azione. Ad arricchire il già complesso sistema dei personaggi<br />

autoriali interviene, fuori dall'operetta ma dentro i confini del libro, il protagonista di Paura terza<br />

(nella serie Mostellaria, tra le Altre cadenze). Ebbene, in quella lirica, un personaggio invoca se<br />

stesso, chiamandosi col nome di battesimo dell'autore empirico:<br />

146


Una volta sola «Giorgio!<br />

Giorgio!» mi sono chiamato. (vv. 1-2) (30)<br />

147<br />

La molteplicità delle personae e degli istituti non può tuttavia far passare inosservata la singolarità<br />

grammaticale che prevale nel libro; l'io, in altre parole, non ricava un arricchimento della propria<br />

fisionomia dalla relazione con personaggi diversi (con il «tu» dei canzonieri, ad esempio, o con la<br />

terza persona del romanzo in versi) collocabili sul versante del «non-io». Piuttosto, si assiste a una<br />

drammatizzazione interna all'io, ad una sua scissione (talvolta rappresentata, sul piano<br />

dell'articolazione discorsiva, da uno pseudodialogo tra il protagonista principale e gli enunciatori<br />

secondari). Se già nel primo Novecento la poesia modernista aveva messo in discussione l'egemonia<br />

dell'io, istituendo un complessa mediazione tra autore, io lirico e personaggio, la poesia del secondo<br />

Novecento italiano assume in pieno quell'egemonia, per mostrarne i paradossi e renderla<br />

definitivamente obsoleta, o riproporla in forma critica.<br />

Note.<br />

Niccolò Scaffai<br />

(1) Nella drammatizzazione dell'io, convertito da soggetto lirico in personaggio irriducibile a semplice doppio<br />

dell'autore, ha un ruolo decisivo l'esempio offerto dal dramatic monologue di Robert Browning.<br />

(2) Si veda, per questi aspetti, M. A. GRIGNANI, La costanza della ragione.Soggetto, oggetto e testualità nella poesia<br />

italiana del Novecento, Novara, Interlinea 2002.<br />

(3) Sembra eloquente la prefazione di Z. BIANU, IN Une antologie de poésie contemporaine francophone, Paris,<br />

Gallimard 2002, pp. 7-8: «Car le poème est toujours l'énergie d'une voix - il est chant, il est pouvoir. Pouvoir de<br />

l'incantation, efficacité magique de la parole chez Orphée - auquel, selon Platon, fut révélée la poésie. […] Pouvoir du<br />

Livre qui, dans la mystique juive, n'est autre que la matière même de Dieu, sa "peau sonore", pour reprendre une<br />

expression de René Daumal - un infini rythmique. Le poèmes choisis ici sont le reflet contemporain de cet infini.»<br />

(4) Cfr. G. BENN, L'io moderno (1918-1919), in BENN, Lo smalto del nulla, a c.di L. Zagari, Milano, Adelphi 1992, pp.<br />

21-22: «se vi addentrate nella storia del rapporto tra mondo e Io, scorgete con grande chiarezza l'evoluzione seguente: il<br />

rafforzarsi del sentimento di autonomia del soggetto individuale. L'Io […] arriva gradualmente a raccogliere e a<br />

concentrare la sensazione soggettiva del vivere trasformandola nella consapevolezza di un'esistenza individuabile».<br />

L'autonomia del soggetto dal mondo è il presupposto perché l'io, libero dalla tutela del contesto, possa espandersi ma<br />

anche disperdersi; dal punto di vista storico, questo è l'esito dell'evoluzione illustrata da Benn.<br />

(5) Nella dedica di Fervore di Buenos Aires (1923) Borges scrive: «Se le pagine di questo libro consentono qualche<br />

felice verso, mi perdoni il lettore la scortesia di averle usurpate io, previamente. I nostri nulla differiscono di poco; è<br />

banale e fortuita la circostanza che sia tu il lettore di questi esercizi, ed io il loro estensore.» (citato in N. GARDINI,<br />

Breve storia della poesia occidentale. Lirica e lirismo dai provenzali ai postmoderni, Milano, Bruno Mondadori 2002,<br />

p. 185).<br />

(6) M. LUZI, Osservazioni possibili su un secolo di poesia, in LUZI, Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura, a c.<br />

di D. Piccini e D. Rondoni, Milano, Garzanti 2002, pp. 89-90.<br />

(7) È la condizione dell'io illustrata da S. SPENDER, Una breve storia del pronome di prima persona singolare, in<br />

SPENDER, Moderni o contemporanei, a c. di G. De Angelis, Firenze, Vallecchi 1966, pp. 147-48: «L'io […] è il<br />

segnacolo di una fusione di valori sperimentali che scrittore e lettore hanno in comune, in una situazione nella quale la<br />

coscienza dello scrittore fa le veci del lettore e attualizza l'esperienza creata nell'opera d'arte. Quando scrittore e lettore<br />

appartengono ad una comunità che fornisce, per dir così, un contesto continuo di valori e convinzioni che li avvolge<br />

ambedue in una rete di referenti simbolici, allora l'Io è anche il Noi, il Tu e l'Egli.»<br />

(8) Su questi aspetti, cfr. G. MAZZONI, Sulla poesia moderna, Bologna, il Mulino 2005. Nell'ambito della letteratura<br />

italiana ed europea moderna, tra i primi a fondare l'eccezionalità del soggetto lirico vi è un autore come Alfieri; in<br />

particolare, nelle prose (Giornali, Vita) e nelle Rime autobiografiche, Alfieri mette in stretta relazione l'unità dell'io e la<br />

propria identità di letterato. Il soggetto, cioè, deve la propria coerenza e integrità gnoseologica allo status di artista (si<br />

veda, al riguardo, P. RAMBELLI, La scoperta dell‟Io e la (ri)costruzione della figura del letterato nelle prose e nelle<br />

tragedie di Alfieri, «Critica letteraria», XXX, I, 2002, pp. 35-69). Sul piano storico-letterario, un confronto tra questo<br />

punto della poetica alfieriana e il tema della crisi dell'io nella poesia contemporanea mostrerebbe come ciò che gli autori<br />

più recenti revocano in dubbio sono proprio i presupposti su cui si basava l'unità del soggetto proto-romantico (e poi<br />

romantico).<br />

(9) «L'identità di un personaggio è legata al sistema dei personaggi di un determinato testo. Dunque l'identità è un<br />

fenomeno relazionale» (G. BOTTIROLI, Differenze di famiglia, in BOTTIROLI (a c. di), Problemi del personaggio,<br />

Bergamo, BUP-Edizioni Sestante 2001, p. 13).<br />

147


148<br />

(10) La questione della continuità/discontinuità tra le due principali figure femminili nella Bufera è di grande momento<br />

dal punto di vista critico-teorico, tanto da sollecitare (idealmente) un dibattito a distanza tra due delle massime<br />

auctoritates negli studi letterari italiani: Fortini e Avalle. Il critico suggeriva di verificare testo per testo quale diversa<br />

funzione e significato avessero i medesimi simboli, usati da Montale sia per Clizia sia per Volpe; il filologo-semiologo,<br />

nel celebre saggio su Gli orecchini (in dřA. S. AVALLE, Tre saggi su Montale, Torino, Einaudi 1970), metteva in luce la<br />

tenace riproposizione di un lessico tematico (relativo specialmente alle immagini delle ali e del volo) condiviso dall'una<br />

e dall'altra ispiratrice. Ora, sul piano del metodo, la posizione di Fortini appare del tutto condivisibile; d'altra parte,<br />

'discontinuità' non sembra la parola-chiave per accedere alla Bufera. Credo, infatti, che la simbologia cliziana riferita a<br />

Volpe non vada semplicemente rovesciata di segno, come pare voler suggerire Fortini negando la lettera di Se t'hanno<br />

assomigliato…in virtù di una presunta «generale legge della lirica» [cfr. F. FORTINI, Di Montale, 2. La Volpe e gli<br />

sciacalli (1974), in FORTINI, Saggi italiani, Milano, Garzanti 1987, pp. 160-71], ma valutata nell'effettiva<br />

organizzazione tematica del macrotesto.<br />

(11) 1 a ed. Milano, Mondadori 1972.<br />

(12) Per unřinterpretazione di alcune poesie-chiave nella raccolta (con riferimenti anche a Il prezzo del sublime), si veda<br />

A. PUNZI, La parola e l‟io franto. Una lettura di “O Beatrice” di Giovanni Giudici, «Anticomoderno», I, 1995, pp. 37-<br />

46.<br />

(13) Si cita da G. GIUDICI, La vita in versi, a c. di R. Zucco, con un saggio introduttivo di C. Ossola, Milano, Mondadori<br />

Ŗi Meridianiŗ 2000, p. 243.<br />

(14) Come mostra I. MATTE BLANCO, L‟inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, trad. it. Torino, Einaudi<br />

1981, una logica basata sul principio simmetrico (per cui se, ad esempio, a>b allora b>a) non è conciliabile con le<br />

relazioni del mondo reale, ma trova riscontro nelle elaborazioni della retorica onirica (cfr. anche, al riguardo, F.<br />

ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi 1992).<br />

(15) Sul piano grammaticale, i due versi in questione possono evocare la notissima formula montaliana: «Codesto solo<br />

oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.» (Non chiederci la parola…, vv. 11-12). Lřicasticità<br />

assertiva dei versi di Montale (che ne hanno anche indebitamente favorito una ricezione in senso storico-politico) è<br />

tuttavia sconosciuta ai versi di Giudici; in questi ultimi, lo stesso uso del futuro al posto del presente sfuma<br />

lřaffermazione nel dubbio e nella possibilità.<br />

(16) La natura dei pronomi, in E. BENVENISTE, Problemi di linguistica generale, trad. it. Milamo, Il Saggiatore 1990, p.<br />

305.<br />

(17) La soggettività nel linguaggio, Ibid., p. 314.<br />

(18) Si veda, al riguardo, quanto osservato da C. SEGRE, Testo, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV, Torino, Einaudi<br />

1981, pp. 269-91.<br />

(19) «Io Tiresia, benché cieco, pulsando fra due vite, / Vecchio con avvizzite mammelle di donna, posso vedere /<br />

Nell'ora violetta, nell'ora della sera che contende / Il ritorno, e il navigante del mare riconduce al porto, / La dattilografa<br />

a casa all'ora del tè, mentre sparecchia la colazione, accende / La stufa, mette a posto barattoli di cibo conservato.»<br />

(20) «Mi chiamo Kusta Ben Luka, scrivo / Ad Abd Al-Rabban, un tempo compagno di baldoria, / Ora sapiente<br />

Tesoriere del nostro buon Califfo, / E per non altri che lui.» (trad. it. di A. Marianni, in W. B. YEATS, La Torre,<br />

Introduzione e commento di A. L. Johnson, Milano, Rizzoli 1999 [1995 1 ], p. 175).<br />

(21) Ibid., p. 252.<br />

(22) Già nella tesi di dottorato, Conoscenza ed esperienza nella filosofia di F. H. Bradley (conclusa nel 1916), Eliot<br />

scriveva: «Non abbiamo il diritto, eccetto che in modo estremamente provvisorio, di parlare della mia esperienza,<br />

perché l'io è una costruzione al di fuori dell'esperienza, un'astrazione da essa […].»; «Nel sentire, il soggetto e l'oggetto<br />

sono una cosa sola. L'oggetto diventa tale per la sua continuità sentita con altri sentimenti che cadono al di fuori del suo<br />

centro finito, e il soggetto diventa tale per la sua continuità sentita con un nucleo di sentimenti che non è riferito<br />

all'oggetto. Da un certo punto di vista tutto è soggettivo, da un altro tutto è oggettivo, e non esiste un punto di vista<br />

assoluto da cui si possa enunciare una decisione.» (T. S. ELIOT, Opere. 1904-1939, a c. di R. Sanesi, Milano, Bompiani<br />

2001, pp. 54, 57).<br />

(23) «Ci sono personaggi caratteristici, particolari della sua poesia, come Arsenio o come il Nestoriano di Iride, nei<br />

quali è possibile rintracciare un fondo esistenziale. Ed è anche possibile rintracciare, in lei, un costante sforzo di<br />

arrivare alla costruzione di personaggi definiti, ben delineati. Ritiene che questo impegno, così evidente in lei, sia una<br />

parte importante nel lavoro di un poeta? Che differenza c‟è tra la costruzione di un personaggio in poesia e la<br />

costruzione di un personaggio in narrativa? […] Non saprei che cosa dire sui personaggi poetici, oggi che il<br />

personaggio tende a sparire anche dal romanzo. Arsenio e il Nestoriano sono proiezioni di me. In ogni caso il<br />

personaggio che appare in una poesia sarà assai più sintetico del personaggio di un romanzo. Tuttavia, in certi limiti,<br />

anche il verso può narrare.» (Dialogo con Montale sulla poesia, in E. M., Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a c.<br />

di G. Zampa, Milano, Mondadori 1996, p. 1603).<br />

(24) E. PAGLIARANI, Cronistoria minima, appendice a E.P., I romanzi in versi. La ragazza Carla. La ballata di Rudi,<br />

Milano, Mondadori 1997, pp. 121-22.<br />

(25) Ibid., p. 122. Il brano riprende il passo di un precedente saggio di Pagliarani (Ragione e funzione dei generi,<br />

«Ragionamenti», n. 9, 1957).<br />

(26) Il lavoro del personaggio di Carla nel romanzo in versi di Pagliarani fu svolto, in gioventù, anche dall'autore. È<br />

Pagliarani stesso ad ammetterlo in Cronistoria minima: «avevo scritto, nel '47-'48, cioè proprio nel tempo del racconto<br />

148


149<br />

della Ragazza Carla, quando ero impiegato come traduttore dall'inglese e dattilografo in una Società milanese di<br />

import-export, una cartella e mezzo per un eventuale soggetto cinematografico» (p. 123).<br />

(27) Cfr. G. CAPRONI, L'opera in versi, a c. di L. Zuliani, Milano, Mondaori 1998, Apparato, p. 1629.<br />

(28) «Il Conte di Kevenhüller, che dà il titolo al libro pur non essendone il protagonista, è un personaggio realmente<br />

esistito, firmatario dell'avviso riprodotto in fac-simile […], nel quale esorta la popolazione a una generale caccia contro<br />

una feroce Bestia. Non ho fatto particolare ricerche [sic] sulla figura di questo Conte, ma per primo è stato Giovanni<br />

Bonalumi, dell'università di Basilea, a ricordare recentemente ai distratti che il Parini scrisse la famosa ode Alla Musa<br />

nella primavera del 1795, nove mesi dopo le nozze del Marchese Febo d'Adda con la contessina Leopolda Kewenhüller<br />

(una w in luogo di una v non fa… testo!). Dirò che il Conte di Kevenhüller è un titolo che mi è piaciuto per il suo<br />

sapore operettistico.» Che a Caproni non prema, in fondo, sostenere l'autenticità dell'Avviso né la reale esistenza del<br />

Conte è confermato poco dopo: «[Il bando] potrebbe anche non essere autentico, ma poco importa. L'ho trovato per<br />

caso in un rotolo di manifesti d'epoca che mi regalarono anni fa. Sfogliandoli scorsi in riproduzione l'avviso.» (Ibid., p.<br />

1626; da un'intervista rilasciata dal poeta per «Unione sarda» nel 1986). Nelle note d'autore che completano il volume<br />

del 1986 si chiarisce invece la probabile fonte storico-leggendaria della vicenda: «"La BESTIO del GEVAUDAN fut la<br />

terreur du pays du GEVAUDAN de 1764 à 1767." Così a tergo d'una cartolina riproducente una stampa del 1765:<br />

"LOZERE - La Bête du Gévaudan." Una bestia orribile, che dopo numerose battute inutili venne finalmente uccisa dal<br />

coraggioso Jean Chastel, durante una caccia organizzata dal Barone d'Apcher.» (Ibid., p. 701).<br />

(29) Il Conte di Kevenhüller è diviso in tre sezioni (Il libretto, La musica, Altre cadenze), ma la terza, a detta dell'autore,<br />

non avrebbe «niente a che fare con il titolo: si tratta di un altro libro nel libro.» (Ibid., p. 1628). Ciò non toglie che<br />

alcuni motivi e immagini tematiche presenti nelle prime due parti tornino anche nella terza, a suggerire l'unità di fondo<br />

dell'intero macrotesto. Lo stesso Caproni, in un'intervista radiofonica, ebbe a dire quanto segue a proposito dell'opera:<br />

«Quindi penso che al posto della musa oggi vi sia […] il subconscio, e che il subconscio abbia un suo progetto, e che<br />

quando scrivo inconsciamente vi obbedisca. […] L'esempio più lampante è proprio Il Conte di Kevenhüller: il libro è<br />

proprio organizzato, ma mentre lo scrivevo no[n lo era], basta guardare le date.» (Ibid., p. 1628).<br />

(30) Il personaggio di Giorgio è, evidentemente, in strettissima relazione con la figura empirica di Giorgio Caproni.<br />

L'intromissione dell'autore nel testo è ribadita, nella strofa successiva, da un'invocazione che replica quella della prima<br />

strofa («Mi è venuto in mente "Vittorio"! / Vittorio!"»), che allude al nome e a un testo di un altro poeta amico e<br />

contemporaneo di Caproni, Vittorio Sereni (il testo in questione è Paura seconda in Stella variabile). L'analogia nei<br />

titoli (Paura seconda per Sereni, Paura terza per Caproni) conferma l'intenzione allusiva che apre, nel libro di Caproni,<br />

uno squarcio metapoetico immettendo tra i personaggi autoriali lo stesso autore (il cui statuto è paradossalmente<br />

garantito dalla citazione testuale e personale di un altro autore). Per la corrispondenza tra le due liriche cfr. M. A.<br />

GRIGNANI, Due paure: tra Sereni e Caproni, in GRIGNANI 1992, cit., pp. 133-48.<br />

149


POEMA E CANONE FEMMINILE<br />

150<br />

150


Invadendo di febbre gli elementi:<br />

note di lettura a Non sempre ricordano e I fondamenti dell'essere di Patrizia Vicinelli<br />

151<br />

1. Una doppia migrazione<br />

Osservando le geografie letterarie (antologie, percorsi di lettura, pubblicazioni in rete) allestite in<br />

anni recenti e meno recenti dalla critica italiana si ha la sensazione del perdurare, pur tra i continui,<br />

trasversali tagli di luce proposti da quelle ricognizioni, di un ostinato cono d'ombra, di una zona<br />

d'indiscernibilità entro cui non sembra lecito addentrarsi, a meno di non disarmare i propri strumenti<br />

interpretativi dalle partizioni che ne orientano le inclusioni e le esclusioni, i giudizi sistematori.<br />

È in una zona del genere che devono essersi nascoste la vita e la scrittura di Patrizia Vicinelli,<br />

bolognese di nascita (classe 1943) e cosmopolita per scelta e vocazione, ostinatamente migrante in<br />

vita (prima da Bologna a Roma, per poi toccare il Marocco e ritornare infine nel capoluogo<br />

emiliano) e, dopo la morte avvenuta nel 1991, restia con pari ostinazione ad assumere qualsiasi<br />

definitiva collocazione entro l' altra geografia, quella letteraria appunto, non meno priva di barriere.<br />

Una vita e una scrittura, quelle della Vicinelli, disseminate in un nugolo di carte e faldoni<br />

manoscritti, o precariamente raccolte nelle piccole riviste (Bab Ilu, Ex, Tau/ma) che furono la<br />

fucina di quella scrittura del secondo Novecento che, insistendo a volersi di sperimentazione e<br />

ricerca, ha in primo luogo disperso le proprie tappe, le parziali cartografie dei territori di lingua e di<br />

vita che andava man mano sondando, quasi a suggello di una mappatura dai confini porosi e sempre<br />

oltrepassabili, costitutivamente incerta: come, si direbbe, per un invito al viaggio, alla sua<br />

prosecuzione. Per altro una rimozione così durevole risulta tanto più incomprensibile a fronte del<br />

fatto che alcune tappe di quella ricerca la Vicinelli le aveva poi fissate, trovando complice ospitalità<br />

presso alcune indipendenti, meritorie case editrici. È del 1967, infatti, il suo esordio in volume con<br />

à, a. A per i tipi di Lerici (con la contemporanea uscita del disco per Marcatré), mentre risale al<br />

1985 l'edizione del poema epico Non sempre ricordano uscito presso la casa editrice Aelia Laelia,<br />

esito di una travagliata e continua rielaborazione durata quasi un decennio. Senza contare la Ŗsolitaŗ<br />

capacità Ŕ ma quanto insolita tra i nostri critici e poeti Ŕ di ascolto e prefigurazione dimostrata da<br />

Antonio Porta, che proprio di quel poema, ancora in fieri, antologizzava il capitolo H. is my life<br />

nella ricognizione a tutto campo della Poesia degli anni settanta(1).<br />

Tracce a rischio di scomparsa, dunque, cui ha però prestato parziale soccorso l'edizione postuma<br />

delle Opere(2), approntata grazie alle cure dei critici più solidali con la ricerca della poetessa. Quel<br />

recupero parziale, scontratosi con una dispersione d'opera così difficilmente perimetrabile, ha<br />

trovato di recente la sua completezza nel volume che raccoglie l'intero corpus, Non sempre<br />

ricordano: Poesia Prosa Performance, che permette finalmente di indagare in tutta la sua<br />

estensione il percorso creativo di Patrizia Vicinelli(3).<br />

Eppure, nonostante le eccezioni appena citate, sembra che la mancata collocazione di questa poesia<br />

entro gli schemi critici di più larga circolazione possa essersi nutrita anche di altro, di una ragione<br />

che non ha a che fare - non soltanto, almeno - con l'erranza che ne ha caratterizzato i materiali<br />

eterogenei (poesie, collage e assemblaggi grafici vari): il nomadismo che ha tanto inficiato la sua<br />

ricezione è piuttosto quello che interessa il corpo stesso di questa poesia; di una scrittura, cioè, che<br />

azzera i confini di genere per riaggregarne gli elementi costitutivi in ammassi dalle potenzialità<br />

inedite. Dunque qualcosa di analogo deve essere avvenuto anche Ŕ forse soprattutto Ŕ riguardo alla<br />

forma poematica, tanto più quando questa faccia mostra di sé entro un corpo d'opera che di poemi<br />

ne conta ben due, diversissimi esemplari, incastonati come altrettanti corpi solidi nel magma ora<br />

denso e vischioso, ora invece aereo e imprendibile dei suoi libri di poesia visuale e concreta, delle<br />

sue performance vocali.<br />

Nell'avvicinarsi alla produzione di Patrizia Vicinelli in una rapida ricognizione d'insieme, potrà<br />

forse apparire strano che un simile percorso poetico abbia trovato la sua massima espressione nella<br />

forma del poema. Chi di quel percorso ne scorresse i capitoli iniziali, infatti, si troverebbe a contatto<br />

151


152<br />

con un linguaggio aggredito nella sua consistenza sintattica, nella tenuta lessicale e frantumato in<br />

una congerie di schegge riaggregate sulla precarietà della pagina; il lettore è chiamato a percorrerla<br />

con lo spaesamento di chi esperisce un linguaggio così incerto della propria tenuta referenziale da<br />

riservare soltanto alla propria avventura la possibilità di reperire un senso, di potenziarlo. Tanto più<br />

che ricerca e investitura nella Vicinelli paiono coincidere, laddove la parola viene atomizzata negli<br />

elementi costitutivi che l'elaborazione grafica della pagina restituisce in forma di pulviscolo<br />

semantico, dotato tuttavia di una ritrovata potenzialità aurorale. E forse a fronte di questi estremi, di<br />

questa polarità all'apparenza non conciliabile, apparirà meno impensabile che il percorso creativo<br />

della poetessa abbia dato prova di un'analoga divaricazione interna al genere, tentando una sorta di<br />

coincidenza degli opposti nell'ampia orchestrazione del poema.<br />

In queste pagine vorrei quindi soffermarmi sulla paradossale solidità dei poemi di Patrizia<br />

Vicinelli, prendendo in considerazione i due esemplari citati: in primo luogo Non sempre ricordano<br />

e, a seguire, quei Fondamenti dell'essere che, cronologicamente, si situano nel territorio incerto che<br />

in Italia segue la grande stagione sperimentale, aprendo a una riaffermata concezione della parola<br />

come evento, di una parola innamorata di se stessa, con cui la ricerca pluriennale della poetessa non<br />

sembra avere nulla a che fare. Questa ricerca, piuttosto, in quelle ultime propaggini degli anni<br />

ottanta si configura come lo strenuo, per certi versi solitario tentativo di lasciare aperta una<br />

possibilità inedita, un percorso di scrittura che ha di certo i suoi padri putativi nella stagione<br />

neoavanguardistica e sperimentale, ma poi prosegue e insiste per strade del tutto autonome, per<br />

nulla riconducibili a indirizzi programmatici di scuola, a una poetica che si garantisca ante rem.<br />

Piuttosto, insieme all'altro grande eretico dello sperimentalismo avanguardistico che fu Antonio<br />

Porta, Patrizia Vicinelli ha costretto la poesia a rifondare le proprie ragioni tramite l'avventura<br />

incerta del suo farsi, in pieno azzardo di scommessa e scoperta, nella tensione di un corpo testuale<br />

che affinava i propri meccanismi percettivi nel corso del suo stesso procedere.<br />

È un procedere, questo, da intendersi non solo nella sua estensione diacronica, da un testo all'altro,<br />

ma riscontrabile anche Ŕ e in maniera del tutto particolare Ŕ nel singolo testo, tanto più quando si<br />

strutturi nell'orchestrazione ampia e, si diceva, paradossale del poema.<br />

2. Proiettare il samuray<br />

Come accennato, la data di pubblicazione di Non sempre ricordano nasconde un'elaborazione<br />

precedente frutto di tre differenti stesure: la prima tra il 1977 e l'anno seguente, la seconda nel 1979<br />

e la successiva nel 1985. Un'elaborazione discontinua, che accoglie la materia incandescente di una<br />

biografia vissuta all'insegna del rischio, dello spaesamento, e che la scrittura restituisce nelle sue<br />

stratificazioni tramite una pagina organizzata in primo luogo come partitura. Ben poco è però<br />

concesso alle fascinazioni della melodia, in un testo che aggrega materiali linguisticamente e<br />

tematicamente divergenti ponendo a contatto, senza soluzione di continuità, fatti di cronaca e<br />

visioni oniriche legate al ricordo, registrazione in presa diretta di soprusi e fascinazioni mitiche.<br />

Eppure di partitura davvero si tratta, non appena ci si renda conto di quanto questi frammenti siano<br />

ricomposti in un amalgama dalla tenuta solidissima, percorso da fenditure del senso e del segno<br />

linguistico orgogliosamente protratte nella densità di un corpo testuale (sempre suscettibile di<br />

trasformarsi in fantasma vocale) che li stringe nella necessità della loro compresenza. Una<br />

compresenza che ha come primo effetto l'erosione dei confini temporali dell'esperienza: alla<br />

registrazione in presa diretta (tramite un imperfetto narrativo che si impone con l'evidenza di un<br />

presente) si affianca, lo si accennava, una dimensione del ricordo (dunque precedente a quel<br />

costante imperfetto della Ŗnarrazioneŗ) che sembra legare gli elementi in un tempo assoluto.<br />

A ben vedere, il ricordo ha una valenza centrale nell'economia espressiva del poema,<br />

configurandosi come suo motore principale fin dalle prime, splendide battute (parte prima, Lontani<br />

dal paradiso. Strada non ancora avvistata):<br />

...TUONAVANO<br />

gli spiriti dei dormienti santi<br />

152


fino ad allora in siesta o in passeggiata silenziosa,<br />

veli, camicie, RESPIRI.<br />

:tutt'in torno le valli del desiderio<br />

EMERGONO. (4)<br />

153<br />

Chi percorra l'inquieta testualità del poema non potrà non notare, e proprio a partire da un incipit<br />

come quello appena citato, quanto la memoria agisca dentro una pagina che la convoca al di fuori di<br />

qualsiasi tentazione elegiaca, costringendola a inserirsi nel tessuto vivo del testo, che è poi la vita<br />

stessa di un presente che rivendica di continuo, in queste pagine, il diritto alla propria esistenza, alla<br />

registrazione della sua voce sofferta. E così la violenza, il sopruso, il degrado indotto oppure<br />

liberamente ricercato come fucina di esperienze alternative e potenzialmente liberatrici, si innestano<br />

nei versi come il battito pulsante e senza ritorno del qui e ora, di cui si riconosce l'approdo nella<br />

morte. Un senso di mortalità che pervade il testo dall'inizio alla fine ma di cui si scopre il<br />

fondamento ideologico e normativo nel suo essere Ŗusata da sempre come / strumento di dominioŗ<br />

(parte quinta)(5). È con tale consapevolezza che Vicinelli imbastisce, tramite l'articolazione<br />

poematica, la propria personalissima concezione del tempo, volta a stornare il presente da ogni<br />

determinazione esterna, sia pure quella di una morte posta al termine di un percorso che il senso<br />

comune vorrebbe lineare e progressivo. Nulla di più lontano dagli scoscendimenti del tempo che il<br />

poema registra, così restituendo al presente una dimensione ulteriore (parte prima):<br />

Le facciate erano 4<br />

e hanno formato il cubo della mia memoria scoscesa.<br />

IL MITO S'IMPONEVA OVUNQUE. (6)<br />

Qualora non si voglia assumere il mito nella semplice accezione di ricordo, magari primigenio e<br />

fondativo, così da assimilarlo al tema memoriale appena sottolineato, dovremmo chiederci quale sia<br />

la sua reale funzione dentro la dinamica temporale di ricordo e realtà, che tanta parte sembra avere<br />

nella strutturazione del poema. Strutturazione, conviene ribadirlo, che agisce principalmente tramite<br />

una resa omogenea dello spazio testuale, in cui i passaggi tra la dimensione del presente (di un<br />

imperfetto che finisce con l'assumere lo statuto di un presente) e quella del ricordo di un tempo<br />

precedente avvengono nella continuità di un dettato che non sembra mostrare attriti. Questi in realtà<br />

ci sono, ma in una misura e di un'intensità tali da poter essere accolti sulla pagina solo tramite la<br />

costituzione di uno spazio testuale mobile.<br />

Può forse giovare, per avvicinarsi a tale mobilità interna, riflettere sulla modalità di raffigurazione<br />

cui sottostanno di frequente tanto i ricordi, evanescenti eppure persistenti, quanto gli eventi della<br />

quotidianità più cruda. Non sempre ricordano mostra di continuo, lungo il testo, una costante<br />

strategia di distanziamento degli avvenimenti narrati, disponendoli su uno sfondo in cui le presenze<br />

evocate, le apparizioni improvvise, e così pure le più ampie campiture narrative sembrano prendere<br />

vita sulla pellicola di un film. È come se la fucina mentale di una psicologia in continuo fermento<br />

imbastisse una sala di proiezione cui demandare l'oggettivazione dei propri fotogrammi, e dunque<br />

frammenti, interiori (parte prima):<br />

...un colpo secco e strano quella volta,<br />

bussano?<br />

TITOLO: in sovrapposizione: ŖRICOMPARSI,<br />

ALL'ALBAŗ<br />

RISORGENDO<br />

DAI CAMPI<br />

INVASI DA SMITRAGLIATE DI LUCE (7)<br />

153


154<br />

Scorrendo i versi ci si imbatte di continuo, anche in assenza di indicatori tanto eclatanti, in strategie<br />

testuali tese a costruire la pagina come una sceneggiatura, alla quale le improvvise immissioni di<br />

elementi lessicali discordi, la messa in atto di una logica non consequenziale e le relative infrazioni<br />

della linearità sintattica sembrano offrire un'immediata traduzione cinematografica, quasi che alle<br />

didascalie di regia si sostituisse la messa in atto delle stesse: una proiezione, appunto. Il numero<br />

delle occorrenze è talmente alto da configurarla come la modalità dominante di messa in figura,<br />

rispondendo a una necessità intimamente radicata nelle ragioni stesse dell' opera. E intimamente<br />

legata, riguardo l'aspetto che qui più ci interessa, alla scelta di genere in cui quest'opera ha voluto<br />

incarnarsi.<br />

È un genere, quello del poema, che gli esempi più autorevoli della prima metà del Novecento<br />

avevano consegnato alla disgregazione dei propri elementi, innescando allo stesso tempo, alla<br />

stregua di un paradossale correttivo, una tenuta formale attuata grazie a quelle stesse caratteristiche<br />

che ne avevano minato la stabilità. Così se Eliot Ŕ presente nella formazione della poetessa quanto<br />

nel testo in questione, che fa mostra di parche ma significative allusioni(8) - potè mostrare il corpo<br />

sfinito di una civiltà tramite un fondo mitico di cui veniva denunciato l'esaurirsi della spinta<br />

aggregante, lasciando che gli elementi si depositassero come le figure liberamente componibili di<br />

un disegno di cui non si riconoscevano più i volumi complessivi, pure a quegli elementi residuali, a<br />

quei miti inquinati eppure persistenti aveva affidato il compito di sorreggere l'edifico sul punto di<br />

crollare: these fragments I have shored against my ruins(9).<br />

Ai frammenti, d'altronde, seppure di genere diverso, Eliot aveva fatto ricorso anche prima di<br />

tracciare la mappa di queste terre disertate dal dio, fin dal momento in cui, abbandonando ogni<br />

residuo tardo decadente o, piuttosto, correggendolo con la raffinatezza ironica e disincantata di un<br />

Laforgue, aveva demandato agli oggetti di una trita quotidianità o ai simboli di un esausto istituto<br />

lirico il compito di rendere manifesta una soggettività ugualmente sfiancata. Tuttavia l'oggettività,<br />

quale risorsa estrema di un soggetto in dissoluzione, poteva ribaltarsi nel suo omologo finalmete<br />

reificato, divenire cioè l'oggettualità che permette alle cose (e siano pure, queste, simboli ormai<br />

decaduti a simile statuto) di essere manipolate e ridisposte in nuovi ammassi tramite sapienti<br />

operazioni di riaggregazione: ŖBricolage, dunque; e rifunzionalizzazioneŗ, per usare il binomio<br />

formulato a suo tempo da Franco Moretti per descrivere, non a caso, l'anomalia di struttura e<br />

figurazione di un poema tanto fondativo per la modernità letteraria quale il Faust di Goethe(10).<br />

La funzione di tali oggetti - nel doppio significato cui si è accennato - sembra dunque essere<br />

duplice, funzionando, da un lato, come la soglia di resistenza e di oblitarazione di quella<br />

soggettività al limite, in perenne rischio di scomparsa, e che tuttavia proprio negli oggetti trova sia<br />

un'ultima garanzia del proprio esistere nonostante tutto, sia la consapevolezza che quel tutto, quel<br />

gremito di cose è in definitiva un nulla; dall'altro, disponendo di quegli elementi come di altrettante<br />

tessere di un puzzle a cui affidare il possibile ripristino di una figura integra. Certo è che, tuttavia, la<br />

riscoperta del patrimonio mitologico operata da Eliot, per quanto immessa entro un orizzonte di<br />

disfacimento che ne inficia il potere rigenerante di morte e rinascita, resiste poi con l'ostinazione<br />

della brace soppravvissuta all'incendio, come un lacerto, un frammento, appunto, posto dentro il<br />

divenire della storia con la forza residua di un appiglio: sono comunque punti fissi, attorno ai quali<br />

si muove un mondo fenomenico alla ricerca di un proprio centro di gravità.<br />

È questa opposizione tra la sfiancata mobilità del reale e il centro immobile del mito a essere<br />

sottolineata da Cecilia Bello Minciacchi a proposito del poema vicinelliano:<br />

Dunque il mito, che è da intendersi sia nel senso di una mitizzazione (e di una vocazione<br />

mitopoietica) privata, sia in quello di una mitizzazione archetipale e collettivamente aperta<br />

in termini junghiani […], si incunea nella prosa bassa del quotidiano e con questa si<br />

scontra fuori da ogni possibilità di pacificazione. (11)<br />

Gli elementi mitici, o una disposizione mitizzante nei confronti delle proprie vicende biografiche,<br />

godono in effetti in Non sempre ricordano di una comparsa discontinua, riconoscibile tramite la<br />

presenza di figure (gli spiriti, gli avi, il samuray, il cavaliere ecc..) che paiono offrire alla porzione<br />

di testo che li ospita un diverso statuto rispetto ai brani di realtà, disposti con la crudezza e la<br />

154


perentorietà proprie di un vissuto oggettivo, concreto. Eppure, considerando i rapidi passaggi, le<br />

frizioni e le continuità che oppongono e lasciano comunicare gli elementi del poema, sembra che<br />

il rapporto tra la realtà quotidiana e il ricordo debba essere pensato come più dinamico (parte<br />

prima):<br />

...OMBRE<br />

(come cinesi) come riflusso della stanchezza del giorno<br />

LE HA VISTE scorrere sulle fronti<br />

fresche e sudate<br />

- AVVICINARSI -<br />

sul cui tappeto ballano raggruppandosi i sogni<br />

e si increspano alla tempia<br />

suoni mitigati e sottratti al senso eterico<br />

(per non filtrare?)<br />

COMUNQUE ANELANO.<br />

SPIRITI DEFORMI. (12)<br />

155<br />

Ancora una proiezione, in bilico tra teatrino delle ombre e allucinazione; e ancora uno schermo (la<br />

fronte) che permette l'oggettivazione di elementi altrimenti celati nella segretezza del soggetto, e<br />

che pure al soggetto continuano a rimandare nell'assunzione di quella stessa particolare superficie:<br />

luogo di collegamento tra l'interno psichico e l'esterno del mondo, in cui i due poli della relazione<br />

si confondono incessantemente.<br />

La proiezione, intesa come modalità di messa in figura, comporta un iniziale distanziamento del<br />

magmatico materiale del poema, un suo disporsi finalmente al di fuori di un soggetto che può in tal<br />

modo consegnare alla nuova oggettività la certificazione della propria esistenza. A questa, tuttavia,<br />

la modernità Ŕ inaugurata da Goethe con il Faust Ŕ chiede il continuo ridefinirsi dei propri attributi,<br />

quasi quella certificazione restasse in perenne attesa di verifiche: da qui la categoria del bricolage<br />

citata da Moretti, cui la frequentazione della Vicinelli con il cinema sperimentale degli anni<br />

sessanta consente forse di sostituire quella omologa del montaggio.<br />

È una categoria, questa, che sembra rivestire una medesima funzione di destrutturazione e<br />

ristrutturazione di quel gremito d'esistenza e memorie; eppure essa non è perfettamente sinonimica,<br />

la pratica del montaggio potendo infatti godere dell'aleatorietà, dell'impermanenza propria del<br />

fotogramma che lascia il testo in balia di frammenti (come altrettante, fulminanti epifanie di realtà)<br />

non ricomponibili. Sono le voci di un coro che sembra aver perso ogni spartito, dovendo così<br />

configurare la struttura idealmente unitaria della forma poematica (e di un poema, ci avverte il<br />

sottotitolo, epico, e dunque detentore Ŕ almeno in teoria Ŕ di un'unitarietà specifica) tramite il loro a<br />

solo violento e irrelato, in una vera e propria psicomachia. È in questo agone che il soggetto<br />

convoca una nuova figura, di nuovo proiettandola su uno schermo mentale in cui realtà e sogno,<br />

presente e passato giocano la loro partita (parte quarta):<br />

INFINE, come quella volta, he need [sic] help,<br />

PROIETTARE, partorito dalla mente,<br />

il SAMURAY, la sua splendente fiammeggiante<br />

scimitarra alla mano,<br />

sospeso in sfera vuota e incolore<br />

SOTTO DI LUI CADEVANO SCRICCHIOLANDO<br />

LE OSSA A BRANDELLI SENZA VOLTO E<br />

VUOTO ATTORNO MOSTRI TRASPARENTI E<br />

INVISIBILI<br />

EPPURE SCHIZZI DI SANGUE BIANCO<br />

(i miei mi avevano accerchiato)<br />

UNA GRANDE SCIMITARRA CHE VOLAVA<br />

155


NEL DESERTO<br />

ROTEAVA VOLTEGGIAVA NELL'ARIA<br />

(contro i pensieri)<br />

ŖE IO POCO DOPO ERO SALVAŗ seven days. (13)<br />

156<br />

ŖOccorreva Ŕ è il verso successivo a suggerirlo - uno schermo ai potenti schemi della / memoriaŗ<br />

perché questa figura mitica (di un mito ibridato, sincretico di tradizioni culturali distanti) potesse<br />

entrare in attrito coi lacerti di mondo nel cui attraversamento il soggetto spera di Ŗrintracciare sé<br />

stessoŗ (p. 91): è questa la posta in gioco e il movente dell'intero svolgersi del poema, la forza<br />

propulsiva che ne modula il canto anche nelle note più discordi. La meta, tuttavia, è il viaggio<br />

stesso, in una coincidenza che sancisce la difficoltà storica della sfida poematica di Patrizia<br />

Vicinelli e, allo stesso tempo, ne riafferma la necessità di là da ogni immediatezza innamorata tra<br />

parola e realtà. Questa, per riprendere la notazione di Cecilia Bello Minciacchi, rimane davvero<br />

estranea al mito, il quale viene cionondimeno convocato, ricercato nelle pieghe e nelle piaghe<br />

nascoste di quella stessa quotidianità, quasi nel tentativo di offrire al mondo uno specchio entro cui<br />

collocare le mutevoli manifestazioni del suo soffrire. Un simile tentativo non va però confuso con la<br />

riduzione delle asperità del mondo fenomenico nella rigida sistemazione dell'archetipo, dato che<br />

quest'ultimo, piuttosto che porsi come la realtà prima alla quale il mondo deve il proprio incanto,<br />

viene anch'esso proiettato, configurandosi quale modulo suscettibile di variazioni e combinazioni,<br />

di giustapposizioni stranianti. Davvero, allora, non può esserci Ŗpacificazioneŗ in questo incontro<br />

ricercato con ostinata tenacia e, di nuovo, sempre perduto. Agisce, al contrario, una<br />

compenetrazione incessante, in cui i due elementi, realtà e mito, sembrano scambiarsi gli attributi:<br />

l'una denunciando, dietro l'apparente multiformità delle proprie manifestazioni, un fondo di<br />

inscalfibile, ottusa immobilità; il mito, invece, dismettendo la propria carica fondativa e normativa<br />

per disperdere le tracce della sua auroralità tra i lacerti di una realtà irredimibile.<br />

Quando in questo sfondo scosceso, aspro di memorie e di miti, il soggetto non vorrà più realizzare<br />

soltanto una pratica di liberazione che quei miti sappia soggiogare e convocare in una realtà<br />

reincantata, ma ad essa demanderà la ricerca di una fondazione del sé, i suoi elementi vivranno<br />

ancora in questo baluginare continuo e impermanente, che brilla un istante con la stessa transitorietà<br />

del fotogramma cinematografico, vivo e luminoso solo nella misura in cui prepara l'apparire di<br />

quello successivo. Così una scrittura calata per intero dentro la propria ineludibile materialità,<br />

scopre quanto altrimenti le si sottrarrebbe: un tempo gettato a capofitto nella corsa di un poema che<br />

proprio dentro questa continua addizione di gesti e memorie, di registri e stili, scorge la pausa breve<br />

che ne sospende il procedere.<br />

3. Tutto quello che c'era nel mezzo<br />

È dunque il tempo il centro propulsore della scrittura di Patrizia Vicinelli, il movente e la<br />

condizione di possibilità di una forma poematica così intimamente scissa, combattuta tra le opposte<br />

tensioni della dispersione di senso e del suo agglutinarsi. Un tempo che vede costantemente<br />

interrotto il proprio procedere rettilineo, spaccato dall'irruzione di zone testuali in cui convocare le<br />

figure che la storia avrebbe altrimenti dimenticato: Ŗcambiare la prosa del mondo, il suo orologio<br />

intattoŗ, recitava un passaggio folgorante di Amelia Rosselli. E questo orologio va in pezzi in molti<br />

passaggi di Non sempre ricordano, con una perentorietà che ne scongiura ogni possibile<br />

ristrutturazione, decretando, piuttosto, che ogni quadrante sospenda la misurazione fin da subito<br />

nell' altro, conclusivo capitolo del respiro poematico della poetessa.<br />

I fondamenti dell'essere, infatti, sorta di epopea di un soggetto (un cavaliere) alla ricerca di una<br />

redenzione laica, danno corpo a un amalgama temporale che si mostra innanzitutto nella scelta<br />

stessa delle figure mitiche che ne compongono la sostanza e ne determinano il procedere. Nelle<br />

quattro parti del poema appaiono la dea egizia Iside e simboli cristiani mescidati con elementi<br />

favolistici (la coppa del sacro Graal, il drago e la colomba), tra cui si innestano figure dell'alveo<br />

romano come Proserpina e Giano, affiancate da incursiosi nella religiosità greca più arcaica (Orfeo<br />

156


157<br />

e Pandora). Davvero uno strano parterre per un poema che voglia, come denuncia il titolo, risalire il<br />

flusso del tempo alla ricerca di una sorgente, di fondamenti stabili su cui la storia - sia pure quella<br />

privata di un soggetto investito di funzioni collettive - abbia poi edificato le proprie costruzioni.<br />

Sembra che un sincretismo culturale tanto esibito voglia porsi come il corrispettivo, a livello<br />

dell'immaginario da cui attingere, di una pratica poetica non nuova nel voler trasformare la fissità<br />

del mito in strumento di metamorfosi ed erranza. Una pratica, come si è visto, che intende<br />

attraversare la verticalità del tempo tramite l'orizzontalità di una scrittura che ne immetta gli<br />

elementi residuali dentro la cronologia assoluta del testo, la quale sembra essere tale in virtù<br />

dell'obliterazione totale di ogni successione. Ed è precisamente a uno spostamento nello spazio che<br />

fa seguito, nelle primissime battute del poema della fine degli anni ottanta, una raffigurazione del<br />

tempo scostata dalle usuali configurazioni (parte I, Il cavaliere di Graal):<br />

Da un altro punto furono viste le stagioni<br />

fino lì sconosciute<br />

solo allora poté sedersi ad ammirare<br />

il senso dell'alternanza. (14)<br />

Il tempo del mito - o meglio, una temporalità esperita e attivata tramite il mito (il senso<br />

dell'alternanza) - viene assunto nei Fondamenti come lo sfondo, il punto di partenza cui il poema<br />

deve la propria iniziale insubordinazione e la sincretica configurazione degli elementi mitici che in<br />

esso operano. È un sincretismo, quello dei Fondamenti, che trova un primo denominatore nella<br />

scelta di personaggi accomunati dalle insegne del passaggio, dell'oltrepassamento del confine, in<br />

primo luogo quello tra la vita e la morte. Figure di morte e resurrezione, dunque, come la colomba e<br />

il Graal, simboli di Cristo e della redenzione; oppure che nella morte transitano abbattendo così la<br />

barriera opposta al regno diurno dei vivi. Non è un caso che il primo movimento del poema<br />

convochi, appena oltre i versi citati, la figura di Iside, moglie di Osiride e lamentatrice della sua<br />

morte, alla quale la dea cerca rimedio tramite una discesa agli inferi. Figura ambigua, tuttavia, che<br />

all'iniziale valenza funebre addiziona presto, nel rimescolio culturale e cultuale del secondo secolo<br />

d.C., diverse e contraddittorie valenze positive, divenendo regina dei morti e dei frutti, presiedendo<br />

alla magia, alle trasformazioni delle cose e degli esseri, agli elementi naturali. Quanto di meglio per<br />

imbastire lo studio alchemico della Vicinelli, il suo fare stregonesco che confonde rigenerazione e<br />

morte in una trasformazione reciproca ostinatamente perseguita: Ŗla mia vita e la mia / morte sono<br />

la stessa avventuraŗ, aveva scritto al termine della quinta parte di Non sempre ricordano,<br />

nell'ambizione di stornare la linearità di un tempo che vedeva consegnato alla morte e che lei, al<br />

contrario, dispiegava in quella zona di sospensione in cui vita e morte scambiano le maschere delle<br />

loro manifestazioni. Ma questa zona è esattamente lo spazio senza tempo del mito, il luogo in cui<br />

gli opposti si toccano e le civiltà muoiono e rinascono nello stesso istante.<br />

Ecco dunque la dea egizia, a contatto con una figura femminile che nella prossimità alla sua stessa<br />

Ŗombraŗ sembra annunciare la ricomposizione di una propria immagine intera, non più scissa, come<br />

il segno della compresenza, dentro il giorno perenne figurato dal poema, di un regno ctonio<br />

attraversato con il medesimo passo con cui si procede oltre:<br />

È fusa la donna alla sua ombra<br />

eppure trema al fuoco dell'inizio<br />

così se li sposta i suoi passi<br />

Iside all'orizzonte mèta<br />

ora essa fugge la sua lontananza. (15)<br />

La libertà sintattica e l'incertezza denotativa, marchio di una scrittura insubordinata alle norme di<br />

una percezione codificata, dapprima accostano la figura femminile alla divinità, quasi questa le<br />

fosse compagna e sodale, poi la ripropongono (essa) confondendone l'identificazione e delineando<br />

157


158<br />

così un soggetto che ritiene insieme le caratteristiche di una morte attraversata (Iside è infatti colei<br />

che attraversa il regno delle ombre alla ricerca di Osiride) e di un inizio che trema del suo<br />

principiare. Ad essecondare una disgregazione che accenni per segni incerti e deboli a una<br />

ricomposizione, i versi successivi scandiscono una materia refrattaria all'ordine sintattico,<br />

giustapposta in segmenti che il verso lascia nell' indecidibilità della loro concatenazione e dei loro<br />

referenti:<br />

Perché non cola l'attesa profumata<br />

ossia fermarsi<br />

la sua ansia volta avrà la fine<br />

di profilo porre cosa la tiene unita<br />

quella che stacca la radice, un alito. (16)<br />

È nello stridore del segno linguistico, nella conseguente sospensione del senso, che il cavaliere<br />

Ŗbatte allora come sul ferro la materia di séŗ (p.207) dando inizio al costante processo di<br />

metamorfosi che investe gli elementi del reale e, con essi, il soggetto che vi si muove<br />

attraversandone gli stadi intermedi, le tappe di una trasformazione mai compiuta. Per Vicinelli Ŗciò<br />

che non è compiuto spinge / il modo del procedereŗ (p 208), e il singhiozzo di una sintassi spesso<br />

bloccata e aggregata a forza, l'accostamento abnorme di sintagmi logicamente discordi,<br />

l'oscillazione morfologica degli elementi sono la risposta del testo a una realtà di cui vengono<br />

saggiate asperità e crudezze, ostruzioni, divieti, col fine di aprirvi gli spiragli da cui un mondo<br />

percepito come infinito possa dispiegare le proprie forme perennemente cangianti.<br />

Il linguaggio, tuttavia, non è solo la registrazione di questo magma; ne è anche l'artefice, il motore<br />

attivo, in uno scambio tra mondo fenomenico e scrittura del poema che costringe quest'ultima a<br />

inseguire il variare del primo, e questo a modellarsi secondo i voleri di una parola che esercita la<br />

propria forza tramite le ferite da cui è lacerata. Si stabilisce uno scambio virtuoso tra la debolezza di<br />

una parola preclusa a ogni possibilità di reperire l'assoluto e un mondo che lascia brillare le proprie<br />

macerie, preludi a costruzioni più vaste, a Ŗmondi paralleli, attriti / posti sopra o sottoŗ (ibidem). Si<br />

istituiscono in questo intrico Ŗi paradossi demoniaciŗ (ibidem), la costante ambivalenza di una<br />

scrittura la cui forma, il cui Ŗmodo del procedereŗ appunto, è il referto di uno scontro senza<br />

mediazioni col reale e, allo stesso tempo, la forza che istituisce e trasforma il teatro entro cui il<br />

soggetto mette in scena la ricerca di sé:<br />

Già pensa che il santo graal è troppo<br />

lontano, e il bicchiere si sta offuscando<br />

di rosso, - qualsiasi cosa signore, ma spingimi<br />

avanti -, nuovamente il bicchiere brilla rosso(17)<br />

Alle parole dell'invocazione segue immediata la trasformazione della realtà testuale, in un'attitudine<br />

alla performatività radicale che ridisegna, tramite le parole che lo nominano, il mondo che il<br />

soggetto attraversa. Un tale soggetto, d'altronde, non ha alcuna consistenza al di fuori di questo<br />

doppio legame, che unisce parola e realtà nella loro produzione reciproca: esso è fin da subito<br />

conficcato tra lingua e mondo, potendo esperire soltanto la porzione di realtà che il linguaggio<br />

dispiega:<br />

I piani del linguaggio<br />

ne è avvolto<br />

così genera le forme della sua ricerca(18)<br />

Ma questa realtà è poi la medesima che congiura, con la propria rinnovata solidità, a chiudere gli<br />

spazi dell'avventura del cavaliere, del suo perdersi e ritrovarsi Ŕ il binomio, inscindibile, è ancora<br />

158


159<br />

rosselliano Ŕ che non può che coincidere, a questo punto, con l'intento di Ŗinfrangere ciò che da<br />

inadeguato / si ricompone ad ogni istanteŗ (p. 208).<br />

Immergendosi nel cuore di questa reversibilità furiosa, Guido Guglielmi aveva notato, già a<br />

proposito dell'incedere fluviale di Non sempre ricordano, quanto Ŗper Vicinelli la manifestazione<br />

del mondo coincide con la manifestazione di séŗ, al punto che Ŗle circostanze dell'io fanno parte<br />

della sua costituzione: lo invadono, gli lasciano tracce e ustioniŗ(19), in una marchiatura che il<br />

respiro maggiormente concentrato dei Fondamenti dell'essere porta impressa come il suggello di un<br />

destino e di un compito:<br />

egli ha imparato come lasciarsi solcare<br />

ad essere cinto dalle tracce.<br />

Con un colpo d'occhio sentiva<br />

la presenza simultanea di tutto ciò<br />

che nella terra cresce<br />

e questa coscienza della situazione attuale<br />

lo aiutava come una disciplina.(20)<br />

La disciplina di questa attenzione spasmodica si attua tramite una mente costantemente percorsa e<br />

ferita, attraversata dalla traccia ustoria del mondo. Essa coincide con un esercizio di sospensione del<br />

tempo, attuata entro quella dimensione del ricordo che Vicinelli, delegittimandola di ogni consistere<br />

elegiaco, richiama piuttosto nel nostro mondo Ŗinchiodato alla strategia del tempoŗ(21) per dotarlo<br />

di una zona di quiete:<br />

Scivolando lungamente sul fianco<br />

della piramide atavica<br />

lo blocca quando vuole come esercizio(22)<br />

Ma per chi voglia sbarazzarsi di ogni pretesa normativa inscritta in un ricordo esperito come<br />

tradizione fissa e immutabile (sia pure soltanto personale), la sospensione non realizza una<br />

concrezione immobile, bensì crea lo spazio entro cui gli elementi del passato si riposizionano nel<br />

presente, costringendolo così a destabilizzarsi, a perdere la propria memoria fondativa, per<br />

consegnarsi a un segno linguistico brancolante che recupera la propria valenza aurorale, il reincanto<br />

inarreso, nella sua rabdomanza.<br />

Memoria, dunque, sua permanenza e contestazione alla ricerca di una forma integra del sé realizzata<br />

tramite un recupero del tempo trascorso, una volta che questo, piuttosto che precedere l'attuale<br />

secondo una sistemazione lineare della storia, ne sia un piano ulteriore, posto accanto a zone<br />

cronologiche che si rifiutano a ogni disegno rettilineo. Non zone del presente o prefigurazioni di<br />

futuro, ma dimensioni parallele che il soggetto costituisce tramite la lingua, per poi transitarvi.<br />

È ancora il transito, dunque, il viaggio, a rendere evidente la propria meta nella mappatura dei<br />

territori attraversati. I Fondamenti realizzano il proprio corpo poematico nell'accumulo, ravvisabile<br />

fin dalla partizione in quei quattro Ŗcantiŗ che si negano, nel loro succedersi, a ogni sviluppo<br />

narrativo, dovendo invece riattivare ogni volta, e perfino al loro interno, la sfida testuale di uno<br />

stravolto romanzo di formazione che riesca contemporaneamente a dispiegarsi e a coagularsi. Il<br />

risultato è il profilarsi di una moderna quête, che lascia tuttavia consistere le sue sequenze sul piano<br />

tridimensionale di Ŗnuove geometrieŗ.<br />

Non è casuale che un' attitudine tanto generosa nei confronti della lingua poetica, distesa<br />

nell'ampiezza del poema e capace di dispiegare un vocabolario ricchissimo senza alcuna<br />

preclusione liricista, trovi un approdo ogni volta rinnovato nel rigore della forma geometrica. Quasi<br />

il rocambolesco susseguirsi dei canti struggenti e selvaggi di Non sempre ricordano (la definizione<br />

è di Leonetti), che appartiene, pur se in forma variata, anche ai Fondamenti, trovi in questi piani<br />

solidamente delineati in uno spazio il proprio risvolto segreto, l'architettura nascosta di un testo che<br />

159


160<br />

in tanta dispersione di lingua e immagini raggiunge la sua certezza nella possibile combinazione di<br />

perimetri e aree, nella loro sovrapposizione (parte II, Il tempo di Saturno):<br />

Dunque il sole era di fuoco in ogni luogo<br />

e risplendeva per sempre nella sua continuità.<br />

Nemmeno un attimo ci fu margine d'errore<br />

ma lodi nella mecanica di nuove geometrie<br />

esse formulavano la quiete di altri sistemi.(23)<br />

Il fluire del poema vocale vicinelliano, soggiogato quasi per statuto al proprio procedere e alla<br />

propria dispersione, trasmuta nel referto geologico della pietra, Ŗquella in cui è ricordato / il<br />

passaggioŗ(24) finalmente bloccato in densità minerale, per poi riattraversare il sedimento<br />

disponendone le parti infinitesimali, gli atomi di tempo, nello spazio tridimensionale della<br />

geometria. Ma perché ciò accada, il poema ha dovuto imbastire ancora una volta i meccanismi della<br />

propria insubordinazione, tra i quali torna quella strategia della proiezione che si era ravvisata in<br />

Non sempre ricordano come il luogo in cui il mito, pur tradendosi, riaffermava se stesso:<br />

Entra il possibile passato nella proiezione<br />

del presente, egli può scegliere<br />

come entrare da un'altra porta, si avvolge<br />

nel suo scudo atavico, ancora una volta osa<br />

col rischio della fine, camminare sull'orlo. (25)<br />

Il senso e la sfida dei Fondamenti dell'essere stanno in questo Ŗcamminare sull'orloŗ. Al di fuori di<br />

un tale bilico poco o nulla si comprenderebbe del suo groviglio di immagini, della sua sintassi ora<br />

fluida e avvolgente, ora al contrario claudicante, sghemba per improvvise pause e ancor più rapide<br />

riprese e agganci. Bisogna, in altre parole, entrare nella sua cifra conflittuale, in quella che si era<br />

chiamata la sua paradossalità, consapevole che Ŗinfrangere quello che è già dettato / non lo puoi<br />

tanto a lungo, mia dama, né / lo puoi fuggire di più, mio cavaliereŗ (parte III, Eros e thanatos, il<br />

canto) (26).<br />

Il dettato è parola della tradizione, può equivalere all'essere detto di un soggetto al quale viene<br />

negata ogni autonoma consistenza. Ma esso, nonostante tutto, fornisce una direzione e lascia<br />

intravedere un cammino. Accenna dunque a una meta, a patto di non considerarla il punto<br />

conclusivo di un'ideale linea di continuità temporale, bensì il luogo di una visione restituita alla<br />

propria pienezza:<br />

Così da lontano vedeva la sponda, anche<br />

tutto quello che c'era nel mezzo.(27)<br />

Nel non potere liberarsi d'un colpo di tutto ciò che si è vissuto, senza neppure la scorciatoia della<br />

fuga ma con la necessità di stare nel mezzo, si misura l'incontro mai pacificato tra il desiderio che<br />

guida la lingua del poema tra gli oggetti psichici e reali del proprio cammino, soffrendone gli attriti<br />

e le compromissioni, e le precarie anse di riposo in cui quella stessa lingua si articola nella quiete<br />

della lode. Pare essere l'unica religione possibile, questa, per un poeta che nel decennio che voleva<br />

sancire l'inaridirsi di ogni esperienza, ne ha tentato un inesausto reincantamento: non in un<br />

monologare lirico che pretenda di fondarsi sulla solidità di un soggetto dato una volta per tutte, ma<br />

nell'avventura di un poema in cui l'unico approdo possibile coincide con il naufragio tra gli stralci di<br />

mondo che il cavaliere deve comunque, pur se disperatamente, avere amato.<br />

Matteo Di Meco<br />

160


161<br />

Note.<br />

(1) A. Porta [a cura di], Poesia degli anni settanta, Feltrinelli, Milano 1979.<br />

(2) Opere, a cura di Renato Podio, introduzione di Niva Lorenzini, Scheiwiller, Milano 1994.<br />

(3) P. Vicinelli, Non sempre ricordano. Poesia Prosa Performance, a cura di Cecilia Bello Minciacchi e con<br />

un'introduzione di Niva Lorenzini, Le Lettere, collana Ŗfuoriformatoŗ, Firenze, 2009. Da questa edizione saranno<br />

estrapolate le seguenti citazioni dei versi indicandone la pagina di provenienza.<br />

(4) p. 47.<br />

(5) p. 102.<br />

(6) p. 49.<br />

(7) Ibidem<br />

(8) Citazioni esplicite o allusioni, per quanto sottoposte alla deformazione dell'ironia o risemantizzate, sono ravvisabili<br />

nella quinta parte, I have no time. Versi quali ŖFu collocato il fifteen number: the devil card, o / the sixteen number: the<br />

fire towers card / […] / quindi, the thirteen number alias the / death card or the mutationŗ (p. 97) sembrano alludere,<br />

quanto meno per il tema analogo della divinazione tramite i tarocchi, alla parte conclusiva del primo capitolo di The<br />

wast land, The burial of the dead, in cui viene evocata la figura di Madame Sosostris, chiaroveggente da salotto che<br />

dispone le figure mitiche del poema; i versi ŖPassi di donne che vanno e vengono / per le stanze di Michelangeloŗ (p.<br />

101) riecheggiano invece il celebre ritornello della Love song of J. Alfred Prufrock, nel precedente libro eliotiano<br />

Prufrock and other observations: ŖIn the room the women come and go / Talking of Michelangeloŗ.<br />

(9) I versi, peraltro celebri, si leggono al termine dell'ultima parte della Wast land, What the thunder said.<br />

(10) F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent'anni di solitudine, Einaudi, Torino 1994, p.<br />

20.<br />

(11) C. Bello Minciacchi, Il sogno di evadere tutto, in P. Vicinelli, Non sempre ricordano, cit., p. XLV.<br />

(12) p. 48.<br />

(13) p. 93.<br />

(14) p. 207.<br />

(15) Ibidem<br />

(16) Ibidem<br />

(17) p. 210.<br />

(18) p. 207.<br />

(19) G. Guglielmi, La vocazione alla poesia di Patrizia Vicinelli, in Bollettario, 8/9, maggio-settembre 1992.<br />

(20) p. 207.<br />

(21) Second time: a Emilio Villa, in P. Vicinelli, Non sempre ricordano, cit., p. 368.<br />

(22) p. 208.<br />

(23) p. 213.<br />

(24) p. 212.<br />

(25) Ibidem<br />

(26) p. 221.<br />

(27) p. 225.<br />

161


Spazio e sconfinamenti in Non sempre ricordano di Patrizia Vicinelli<br />

162<br />

We can be heroes<br />

just for one day.<br />

D. Bowie, Heroes.<br />

Era il 1977 e Monicelli, Risi e Scola mettevano in scena Ŗi nuovi mostriŗ, un varietà di tipi umani<br />

cinici, spregiudicati, avidi, superficiali, rassegnati o semplicemente travolti dalla storia, da molti<br />

amato per il gusto amaro e grottesco della rappresentazione corrosiva. Ornella Muti, icona di una<br />

bellezza pura e irrequieta, compariva in due episodi del film, ŖAutostopŗ e ŖSenza paroleŗ. Nel<br />

primo, per la regia di Monicelli, una ragazza accetta un passaggio da un rappresentante marpione.<br />

Lei è una giovane emancipata, intelligente e interessata al mondo: lo suggeriscono l'atteggiamento<br />

allegro ma fermo, il giornale che ha in mano, il modo sottile con cui porta in giro il suo<br />

interlocutore macho e furbastro. Quando, per evitare i suoi approcci molesti, la ragazza gli fa<br />

credere, ingegnosamente ma ingenuamente, di essere una pericolosa criminale evasa, questi la<br />

uccide. In ŖSenza paroleŗ, girato da Scola, una hostess nel giorno di riposo incontra uno straniero<br />

bello e dolce, dalle fattezze mediorientali; i due non parlano la stessa lingua ma vivono una<br />

appassionata notte d'amore. Al momento di ripartire, mentre la giovane si imbarca sull'aereo, l'uomo<br />

compare per un ultimo saluto e le dona un mangianastri con la canzone strappalacrime che ha fatto<br />

da colonna sonora alla loro storia. Nell'ultima scena lo vediamo al bar, mentre segue imperturbato la<br />

notizia di un attentato terroristico su un aereo, messo a segno grazie ad una bomba nascosta in un<br />

mangianastri.<br />

Il 1977 è anche l'anno di Mina con bignè, l'ultimo disco prima del ritiro dalle scene della voce<br />

iconica della musica melodica italiana. Signora delle scene per molti anni, dentro e fuori il piccolo<br />

schermo, dalla vita sentimentale burrascosa e appassionante, fenomeno di costume oltre che<br />

musicale, Mina aveva fissato uno stile di successo nella femminilità, stile cui molte donne 'normali'<br />

tendevano. Certe messe in piega, certa forma delle sopracciglia, certe linee del fard segnavano il<br />

corpo femminile di una audacia possibile, che risuonava delle ambizioni nazional-popolari alla<br />

modernità: una indipendenza dei sensi e dei consumi che sapeva rimanere familiarmente<br />

accessibile, incarnata in canzoni di gioioso edonismo alternate a motivi di amore melodrammatico.<br />

ŖRicominciare da capo / sembra facile da fareŗ - canta Mina in una delle tracce dell'album - Ŗe io<br />

spreco le giornate qui / tra gli angoli di casa miaŗ (1).<br />

Del 1977 prendiamo, per cominciare, due spunti così, due narrazioni facili della cultura di massa<br />

fingendo che bastino ad abbozzare le multiformi reazioni alla complessa agitazione attorno alla<br />

questione delle donne e al loro movimento, inteso letteralmente come spostamento nello spazio<br />

geografico, o, metaforicamente, come attraversamento dei tradizionali confini della domesticità e<br />

dell'eterno femminino, o anche, certo, socialmente, come ripensamento di ambiti e posizioni. A ben<br />

guardare, infatti, entrambe le suggestioni qui sopra sembrano proiezioni di un più generale sospetto<br />

nei confronti di una certa donna pubblica, i cui sconfinamenti nella libertà continuavano a<br />

mobilitare disagio e apprensione e si concludevano, da copione, con la morte della giovane, e le cui<br />

rappresentazioni invocavano, sommessamente, un ritorno alla sessualità ammessa ma dominata del<br />

domus: Ŗin questa casa che mi opprime / in questa notte senza fine / in questo stato di torporeŗ (2).<br />

Certo, questo è il '77, è anche il tempo di esperimenti estremi, di adesioni viscerali, di corpi offerti<br />

ad esperienze totali. In questo stesso anno, per esempio, alla Galleria d'arte moderna di Bologna<br />

Marina Abramović e Ulay allestivano Imponderabilia, una performance che, come le altre loro<br />

opere di relazione, costringeva i due artisti a una situazione limite di esposizione e affaticamento.<br />

Nel lavoro portato a Bologna i due sostavano l'una di fronte all'altro, completamente nudi,<br />

all'ingresso della galleria, costringendo i visitatori che cercavano di entrare ad una scomoda<br />

manovra di strofinamento tra i due, totalmente immobili e immersi nei rispettivi sguardi. Lo spazio<br />

del fare arte coincideva con il corpo, a modo suo indisciplinato, refrattario a impersonare l'artista<br />

162


163<br />

staccato dall'oggetto estetico. Due corpi in esposizione, in tensione, si trasformavano in soglia,<br />

diventavano la cosa con cui lo spettatore doveva misurarsi, e compromettersi.<br />

Era il 1977, dunque: notoriamente uno degli anni apicali della seconda ondata femminista, dei<br />

gruppi di presa di coscienza, delle lotte per il riconoscimento, che naturalmente si accordavano al<br />

più vasto ed eterogeneo amalgama di contestazioni e richieste di diritti. Per dirla con lo slancio<br />

ideale e assolutizzante di allora, con la sua retorica della 'donna' come entità univoca: Ŗ[n]on si<br />

tratta soltanto di rivendicare alla donna il diritto di farsi 'soggetto conoscente' […]. Non si tratta<br />

soltanto di avviare un processo di revisione dei metodi storiografici che consenta un recupero della<br />

donna come 'soggetto della storia' […]. Si tratta piuttosto di convogliare tutti questi sforzi verso un<br />

fine più generale: la costruzione di una scienza pienamente umanaŗ (3). Di contro non meraviglia<br />

che le spinte normalizzanti si innestassero su di una cultura italiana tradizionalmente patriarcale.<br />

È in questo intreccio di traiettorie nuove, costumi consolidati, culture pop-sentimentali,<br />

sperimentazioni radicali e soggetti in fieri che ipotizzo riscriversi le grafie dell'immaginario poetico<br />

e lo spazio, della vita e della pagina, trasformato. Spazio mai neutro, mai contenitore assoluto,<br />

creato invece dalle relazioni e da esse mediato, esso è configurato (anche) da storiche interdizioni:<br />

al movimento materiale o simbolico, di accesso al sapere, per esempio, all'opportunità e alle varie<br />

modalità della presa di parola pubblica, fino alla avventurosa quest esistenziale. Queste<br />

demarcazioni vengono potentemente rinegoziate. La scrittura delle donne (ma non solo) ne registra<br />

le tensioni, in modi a volte fecondi di risultati straordinari. Ecco, dunque, che da una costellazione<br />

minima di riferimenti ed episodi periferici del famigerato '77 arrivo a Patrizia Vicinelli, che in<br />

quello stesso anno cominciava la stesura di Non sempre ricordano, poema epico (4). I suoi<br />

costituenti primari saranno proprio la molteplicità e lo sconfinamento,<br />

COSI' SGUARDANDO IN PANORAMICA<br />

PLURI-DIMENSIONALE<br />

(129)<br />

Nelle riflessioni che seguono sosterrò che nella misura poematica Vicinelli trova una potente<br />

posizione discorsiva, in modi che attivano e danno forma a relazioni complesse tra corporeità di chi<br />

scrive, materialità del testo, storie di fuga e di sfida, tracce biografiche, riaffiorante inconscio<br />

politico, aspirazioni a una rifondazione Ŗpienamente umanaŗ. È una misura che permette di<br />

Ŗ[m]ixa[re] la sua vita alla leggendaŗ (67), consentendo l'entrata in scena di una pletora di elementi,<br />

modi, argomenti: essi segnalano sia il coinvolgimento nell'accadere presente, sia il desiderio di<br />

rifare la vita su di una diversa frequenza, percussiva, viscerale, mitica. Montando, innestando,<br />

schizzando storie e voci disparate Vicinelli tratteggia un 'noi' che rifiuta di fissarsi univocamente,<br />

che si presenta in una molteplicità di piani, ironici, trasgressivi, lacerati, veementi, parodianti, e che<br />

pure si oppone per intero alla repressiva avanzata di una uniformità omologante, quella<br />

ŖLIHLIPUTŗ che ŖINCREDIBILMENTE SI È AVVICINATA / HA INVASO 3/4 DELLO<br />

SPAZIO DI TUTTIŗ (130).<br />

Al tempo stesso l'attenzione onnivora per il circostante, per i suoi moti e le sue manifestazioni,<br />

alimenta l'impulso alla digressione, alla commutazione rapida tra vari personaggi e pronomi<br />

personali, a focalizzare sul singolo dettaglio, sulle umane, eterogenee voci che sempre ci<br />

attraversano. Tutto questo, naturalmente, spinge a riflettere sulla natura epica del testo. Di certo le<br />

voci, delle vittime e degli insorti, delle carcerate e dei poliziotti, delle canaglie, dei marocchini,<br />

degli amici e degli erranti, come pure quella dell'autrice-performer, il cui ritmo, fiato e timbro sono<br />

implicati finanche nella resa tipografica del testo, le voci sono le eroiche protagoniste di<br />

quest'opera:<br />

[…]<br />

quelli che ci composero otterranno spazio<br />

lentamente ce li rivedremo ridendo attraverso noi<br />

163


noi nella nostra magnifica sentenza di luce<br />

come serpenti a tutto cerchio<br />

concludiamo il senso della successione dei tempi.<br />

Quindi,<br />

arrenditi solo quando è più strategico farlo, Lucia.<br />

Mille battaglie perdute, e infine la guerra,<br />

solo allora, prima è santo combattere<br />

anche se l'acqua a volte può sommergere il capo<br />

la tua maschera di perbenismo SCONFINA<br />

SCONFINA...<br />

l'hanno fotografato il tuo cuore,<br />

la tua maschera graziosa sconfina, e CEDE IN PEZZI.<br />

) comunque, questa è solo un'indicazione).<br />

MY GOD! UNO CHE PALPITA!<br />

… vorrei... vorrei... vorrei.....<br />

) the next stop, man!)<br />

(62)<br />

164<br />

La versione definitiva di Non sempre ricordano è pubblicata solo nel 1985, per i tipi di Aelia<br />

Laelia, e viene ristampata nel 1994, tre anni dopo la morte di Vicinelli, nell'edizione Scheiwiller<br />

delle Opere, a cura di Renato Pedio. Ad oggi è disponibile nel bel volume dallo stesso titolo curato<br />

da Cecilia Bello Minciacchi, una ricca antologia multimodale che comprende quasi tutte le opere<br />

edite e inedite dell'autrice bolognese. Vi sono incluse anche alcune copie anastatiche dei manoscritti<br />

di Non sempre ricordano, che, come sottolinea Niva Lorenzini nell'introduzione, in origine nasceva<br />

su lunghi taccuini e tazebao multicolori, come performance grafica e calligrafica, esplosione<br />

linguistica e sfida ai confini tradizionali del libro. Leggiamo, sparsi sulla pagina, caratteri enormi<br />

scritti a mano, in una sequenza di spazi che le barre della punteggiatura riescono a malapena a<br />

registrare: Ŗ4 MURA / […] NASCE INEVITABILE / IL TUO GIGANTEŗ (286).<br />

Sembra lecito affermare che, assieme a un nuovo dettato poetico, Vicinelli reinventi lo spazio stesso<br />

del poetico. Aprendolo, innanzi tutto, portandolo oltre i limiti della pagina bianca e della<br />

subvocalizzazione, e innervandolo di una mobilità, di linguaggi, di voci e di luoghi, che ha molto a<br />

che vedere sia con il problema specifico del poeta donna, ovvero situarsi in una tradizione che si è<br />

costituita eminentemente ponendo il femminile come oggetto (ispirazione, simbolo, allegoria) per<br />

eccellenza (5), sia, più in generale, come per gli altri suoi sodali, con una revisione profonda delle<br />

convenzioni e dei generi.<br />

Non mi soffermerò sullo status obliquo della scrittura delle donne rispetto alla poesia lirica, il cui<br />

canone, almeno in Italia, ha a lungo poggiato saldamente sulla costituzione di una alterità femminile<br />

muta (nelle trasfigurazioni poetiche) o ammutolita (negli archivi dimenticati). D'altra parte l'epica<br />

invocata da Vicinelli non costituiva certo un genere 'femminile', né per temi, né per voci. ŖUna<br />

epica nel senso più veroŗ - scriveva già Pound - Ŗè il discorso di una nazione pronunciato dalla<br />

bocca di un sol uomoŗ (6): c'è ragione per credere che quell' Ŗuomoŗ non fosse applicabile<br />

genericamente, più ancora per ritenere che i termini politici e storici in cui si dispiegava Ŗil<br />

discorsoŗ non fossero immediatamente disponibili a una donna poeta. Eppure la strategia epica non<br />

solo autorizza Vicinelli a chiamare all'appello una serie di personaggi, situazioni, registri,<br />

idiosincrasie, residui incontenibili nello spazio angusto di una poesia come istanziazione unitaria,<br />

essa la proietta anche in una matrice di dissenso e costruzione dell'auctoritas che arriva ai giorni<br />

nostri: Rosaria Lo Russo e Daniela Rossi invocano proprio Patrizia Vicinelli, insieme ad Amelia<br />

Rosselli, come figura fondativa del poema epico italiano, con l'intento di ispirare una Ŗpresa di<br />

coscienzaŗ (etica, poetica, politica) specificatamente femminile (7).<br />

Vi è, dunque, nella scala de La Libellula di Rosselli e di Non sempre ricordano, come di altri<br />

magmatici assemblages vicinelliani, una potenzialità di argomentazione e di fondazione che li rende<br />

164


165<br />

più accoglienti alla spinta eversiva e ri-costruttiva di quanto non sia la lirica, più adatti ad un<br />

discorso politico che rimanga al tempo stesso disponibile alle proprie, singolari psicomachie. Si<br />

tratta di epica, ci dice esplicitamente l'autrice bolognese: ma come viene allestita? Che cosa<br />

organizza? Quali figure dell'umano sono rese possibili dal suo spazio ampio? L'epica di Vicinelli è<br />

realizzata per anomalia, attraverso tensioni che distorcono le aspettative relative a questo genere,<br />

associato alle imprese di uomini forti, centrato sul destino della patria, così pesantemente codificato<br />

al maschile (8).<br />

Va detto che la scelta dell'andamento poematico era funzionale a un più vasto aggiramento dell'io<br />

lirico intrapreso da molti contemporanei. Le soluzioni formali della poesia canonica non<br />

sembravano più in grado di contenere il Ŗdelirioŗ di Ŗpopoli, razze e tribùŗ (9), il rimescolamento<br />

dei confini tra linguaggio 'alto' e 'comune', la vocazione al presente. Pagliarani racconta bene la<br />

scelta della terza persona come una salutare fuga dagli autocompiacimenti della lirica: non si<br />

trattava solo di ampliare il lessico poetico, ma, inevitabilmente, di reinventare i generi (10). La<br />

poesia come scena rarefatta di una illuminazione morale era dunque un problema: troppo limitanti<br />

la sua postura didattica, il postulato distacco dell'oggetto estetico, le sue pretese universalizzanti,<br />

l'istituzione della pagina bianca come macchina creatrice di aura. Altrove si era teorizzata la pagina<br />

come Ŗcampo di forzeŗ, dimensione sensibile del respiro e del gesto; contro l'appagamento di un<br />

soggetto poetico dato per scontato si aspirava a un nuovo realismo, a una nuova oggettività, per cui<br />

anche l'io era un oggetto, oggetto era anche la sillaba (11). E poi le esperienze del concretismo e<br />

della poesia visiva, della poesia detta e recitata in mezzo agli altri, ibridata con la musica, espansa a<br />

raccogliere più vivente: tutto questo scompagina una compartimentazione tradizionale. Non sempre<br />

questa aspirazione alla sinergia e alla totalità dava i risultati sperati. Come ricorda Spatola: ŖSpesso<br />

la poesia visiva non è altro che poesia incorniciata, che si limita a rifiutare il libro per accettare la<br />

galleria d'arte, e cioè ad abbandonare un pubblico di élite per un altro pubblico di éliteŗ (12). Di<br />

certo questa nuova attenzione alla materialità dimostrava che neanche lo spazio della pagina era<br />

innocente. Per dirla con Vicinelli: Ŗ[u]n insegnamento senza via di scampo / aveva bruciato i lembi<br />

della letteraturaŗ (79).<br />

Diciamo, dunque, della lunghezza. Pavese, notoriamente, si era soffermato a raccontare il<br />

tormentato rapporto tra respiro e unità poetica, tra autosufficienza di un testo, concatenazione dei<br />

testi ed elemento narrativo. Diceva di convenire con Poe, laddove questi sosteneva che la lunghezza<br />

in poesia non facesse che rovinare l'elemento artistico più importante, Ŗla totalità, o unità di<br />

effettoŗ, e che una poesia Ŗlungaŗ, in fondo, non fosse altro che Ŗuna successione di poesie brevi,<br />

ovvero, di rapidi effetti poeticiŗ (13). E lo integrava, specificando: Ŗnon è soltanto una questione di<br />

moleŗ. Tuttavia, rigettando il genere Ŗpoemettoŗ (Ŗche sentivo confusamente condannabileŗ),<br />

descrivendo il suo sforzo nell'inventare una forma della poesia che sostenesse Ŗun complesso di<br />

rapporti fantastici nei quali consista la propria percezione di una realtàŗ (14), Pavese stesso non<br />

sfuggiva ad una tassonomia basata sulle dimensioni e parlava di lunghezza delle righe e di mole, di<br />

numero di versi e di limiti. Persino Poe, severissimo con la poesia che per ampiezza costringesse a<br />

superare la singola seduta di lettura, e che credeva che il valore di un testo poetico fosse in<br />

Ŗrelazione matematicaŗ con la sua estensione (tanto più breve quanto più intenso), doveva<br />

concedere che Ŗun certo margine di durata è una condizione fondamentale per la produzione di<br />

qualsivoglia effettoŗ (15).<br />

A ben guardare la poesia Ŗlungaŗ, se rinuncia ai principi dell'epifania improvvisa e dell'unità, può<br />

attivarne altri: quelli dell'accumulazione e della molteplicità, oltre che, tipicamente, quelli della<br />

narrazione (con la caratteristica mutevolezza che consente di passare dalla satira alla tragedia al<br />

dialogo e così via), e, nella fattispecie di Vicinelli, quelli di una sperimentazione sul rapporto tra<br />

linguaggio, mente, corpo e cose immersi in una nuova intimità, revisionante il già dato. Cambiare<br />

questo rapporto implica trasformare profondamente il soggetto poetico: alla modalità basata su un<br />

io solitario di fronte al mondo in un estatico momento trascendente, si preferisce una enunciazione<br />

frammentata, dislocata, a volte surreale e onirica, a volte contestatrice e punk, con tirate ipnotiche<br />

rifrangenti le deflagrazioni sociali e culturali dell'epoca.<br />

165


166<br />

La quantità di versi, la loro distribuzione, la veste tipografica del testo, la segmentazione, la<br />

suddivisione in parti, la reiterazione, la distorsione sintattica, l'uso della punteggiatura: nulla di tutto<br />

questo è innocente o scontato, naturalmente, in poesia. Vicinelli lavora su questi e ulteriori piani<br />

formali perché impersonino (perché risuonino) il singolarissimo percorso epico di Non sempre<br />

ricordano. Re-immagina l'epica investendola dell'ardente qualità dei corpi e della loro mobilità, di<br />

una parlata idiomatica, anti-accademica, franta, dell'incandescenza del tempo presente, di un'azione<br />

che esce dai confini nazionali, fino ad arrischiare la psichedelia: ŖGuarda, / è vasto il territorio. Una<br />

lunga mente flessuosaŗ (88).<br />

Sciogliamo il nodo più scottante: vi è narrazione di 'gesta', sì, ma certo non nei termini di una<br />

Bildung individuale o di una epopea nazionale. In Vicinelli l'impresa del singolo eroe, impresa dalle<br />

più ampie implicazioni formative all'interno della cultura d'origine, non si dà nei termini statutari<br />

dell'epica. Se vi è superamento di una serie di prove tempranti, esso è plurale, messo in atto da<br />

variegate schiere di personaggi, sparsi e ricollocati su di un territorio non circoscrivibile dalle patrie<br />

frontiere e dalle sue istituzioni. La tensione qui non è verso la raffigurazione di un ordine stabile, né<br />

verso la memorializzazione di una eredità mitica: si sta, piuttosto, nella temperie di un tempo<br />

attraverso una varietà di incarnazioni, di inabissamenti psichici, di incontri cruciali. A voler scoprire<br />

o ri-creare un'alternativa condizione umana. Gli stralci di conversazioni, i suoni, le frasi, i gemiti o i<br />

dialoghi afferrati quasi casualmente, dei compagni o dei venditori, dei morti ammazzati o dei<br />

giramondo, sono così importanti in quest'opera perché segnalano l'inevitabile pluralità e innata<br />

apertura di tale condizione: le voci hanno ragione di essere perché ogni essere umano sta con gli<br />

altri. Ancora prima di una opinione e di una identità esse esprimono, nella loro materialità fonica,<br />

l'unicità di ciascuno. E quando si danno è per aprire uno spazio relazionale fra essere unici (16).<br />

Non è la voce superiore del bardo o del dio o dell'eroe a fare la comunità.<br />

Se una trama 'classica' rimane inafferrabile, è quell'inafferrabilità che dobbiamo interrogare. Il<br />

mondo epico di Vicinelli non è una totalità coerente, piuttosto esso forma un orizzonte,<br />

materialmente imprendibile e pur presente. Rimane processo, ricerca verso principi altri, che<br />

riformino le metafisiche, le storiografie, le modalità esistenziali ordinarie. Vicinelli complica la<br />

procedura narrativa sottraendole un valore che altre scritture giudicano indispensabile: un senso<br />

univoco, uno scioglimento finale, un modello morale. Gli 'errori' ne segnalano l'erranza. I subitanei<br />

passaggi tra diversi pronomi personali e tra tempi verbali, per esempio, il plurilinguismo, l'innesto<br />

di memorie personali, l'invocazione di nuovi archetipi, che siano impersonati da Janis Joplin o da<br />

Jean Genet, scombinano le traiettorie puramente omosociali dell'andamento epico, il soggetto<br />

poetico unilaterale, nonché le velleità di una trama unica.<br />

Volevano andare tutti là, lontano<br />

dalle chiazze sui materassi fetidi<br />

di sudore e sangue, questo giudizio che<br />

ci diamo conformi all'apocalisse,<br />

basta disse centrato un punto del silenzio<br />

la perfetta assenza gettando un urlo<br />

che fu udito fino al cielo,<br />

come una meditazione riuscita.<br />

Oh lord, want you buy me a color tv...<br />

chant d'amour,<br />

genet lo sa<br />

voglio cadere dentro il sole<br />

che non resti traccia<br />

le motivazione profonde, sì,<br />

d'amore.<br />

(115-116)<br />

166


167<br />

Assistiamo alla Ŗepopea della sua fugaŗ (75), che, alternativamente, si riferisce alla fuga di<br />

ŖEzequieleŗ (74), o a quella di ŖRoberto a Casablancaŗ (110), alla fuga Ŗdella P.ŗ, finita con la<br />

cattura, o a quella di Ŗcerto Benito G. mexicano / e poeta finito a colpi di shock electroŗ (92). Sulle<br />

molte fughe si proietta, sì, l'esperienza della latitanza di Vicinelli, del periodo trascorso in carcere,<br />

peraltro su accuse risibili. Ma i tanti personaggi in scena non sono semplicemente alter-ego di chi<br />

scrive, piuttosto alter-dove (17). Luoghi esotici e miti contemporanei, metropoli straniere e<br />

postazioni di provincia, Ŗoasi inventate in viaggi fittiziŗ (85), registrano l'aspirazione a fuoriuscire,<br />

in ogni senso. La strategia è quella dello spaesamento, linguistico e narrativo. Uno straspaesamento,<br />

anzi, che esplode gli asfissianti inscatolamenti culturali nazionali.<br />

Non a caso il poema prende avvio in termini puramente spaziali: il titolo della prima parte infatti è<br />

ŖLontani dal paradiso. Strada non ancora avvistataŗ (45). Essa ci consegna una non-via di uscita: le<br />

morti, per ritorsione e per pestaggio, che sono al centro della sezione d'esordio. Così attacca il<br />

poema, con le eterne vendette contro i poveracci, con le vecchie omertà di altri disgraziati e gli<br />

abusi di potere dei forti, Ŗla prevaricazione autorizzata legalmente / dei TUTORI dei CORPI dei<br />

CITTADINIŗ (55). A questa segue una seconda parte che monta frammenti di ricordo, asciuttissima<br />

elegia, moti di denuncia, gli inseguimenti, la vita in carcere. Il poema comincia con degli omicidi,<br />

in una rimessa, in una caserma, nel retro di un bar, ma in galera nella seconda sezione troviamo<br />

Concetta, che compie gli anni 'dentro':<br />

: SÌ, TRENTA CINQUE ANNI CONCETTA,<br />

abbiamo festeggiato i tuoi anni<br />

COME FOSSI A CASA CON NOI<br />

e così dicendo il marito le aveva spaccato il cuore<br />

dal dolore<br />

per quella accertata solitudine<br />

: per me, si vous voulez, rose di rosso scuro,<br />

le baccarà, quelle che preferisco.<br />

(60)<br />

Luoghi fatali e inquietanti questi in apertura, di cui qualcuno potrà anche dire ŖMA NON E' MALE<br />

ACCHI' […] / CON IL LUME TONDO D'ARANCIO / CON LE TENDINE<br />

DI PLASTICA / CON LE LENZUOLA DA CASA / CON LA TELEVISIONE<br />

ACCESAŗ (60). Tuttavia, inevitabilmente, con la loro soffocante domesticità, con le<br />

ossessioni dell'ordine costituito, queste scene iniziali istituiscono le premesse all'evasione, al<br />

pericoloso viaggio verso un posto altrove.<br />

Solo nei limiti della relazione dinamica tra due o più luoghi si può concettualizzare il viaggio, che<br />

sia edonistico o coatto: esso non si dà senza una 'casa' iniziale da cui partire e a cui far riferimento,<br />

che sia luogo verso cui far ritorno o da cui fuggire per sempre. Il viaggio non è tale senza che in<br />

qualche misura l'inizio stesso sia perduto. Paradossalmente la 'casa', lřoikos, è un punto di<br />

orientamento utile ad un disorientamento necessario: la sua percezione deve variare perché si<br />

realizzino le condizioni di spostamento e cambiamento inerenti al viaggio. La manipolazione dei<br />

luoghi, nella loro ruvida irregolarità fatta di frontiere, blocchi, paludamenti, dogane, lingue<br />

straniere, alberghi, carceri, paesi stranieri e lřattraversamento dei confini del noto attivano un nuovo<br />

rapporto con l'origine e con la meta. La partenza e lřarrivo, i punti di riferimento dello spaesamento<br />

che è il viaggio, non sono dati immobili: è lřesperienza della loro scabra trasformatività ad essere<br />

qualità precipua del viaggiare. Il luogo non è un contenitore di spostamenti, paesaggi o incontri,<br />

bensì accade insieme e attraverso quegli stessi, non è uno spazio astratto, inerte, ma un prodotto (e<br />

un protagonista) delle umane interazioni (18).<br />

Se l'inizio di Non sempre ricordano sta nella reazione all'imprigionamento, nella ribellione agli<br />

spazi normati, fuggire significa accorgersi Ŗben presto che altri / marciavano nella stessa direzioneŗ<br />

(74), verso una destinazione ignota<br />

167


META CERCATA<br />

INCOGNITA DA STABILIRE<br />

DIVIENE<br />

DIREZIONE METASTASI IRREFRENABILE<br />

CONGIUNGERE L'ATTIVITÀ A QUESTA<br />

DINAMICA INTERNA<br />

IN MODO DA PADRONI E PARTECIPI<br />

DELLA PROPRIA CURA<br />

AGGIRARSI Ŕ DISTENDERSI Ŕ (E RANNICCHIARSI<br />

NEL BISOGNO)<br />

(129)<br />

168<br />

Va notato come i protagonisti di Vicinelli si costituiscano per opposizione, ma rimangano<br />

costellazione mobile, mai placati in una configurazione determinata. Non si stagliano mai<br />

personalità a tutto tondo, né compaiono eroi compiaciuti del loro destino. Tutt'al più lampeggiano<br />

archetipi salvifici, ŖAdamo e Orfeoŗ (74), e figure eroiche, su tutte il Ŗsamurayŗ, come strategie<br />

proiettive che consentano di ribellarsi. ŖProiettare il samuray, e io poco dopo ero salvaŗ (83): così si<br />

intitola la quarta parte, in un sol colpo rifiutando lo statuto di vittima inerme canonicamente volta al<br />

femminile e aprendo alle potenzialità sovversive dell'immaginario. Il poema procede<br />

rizomaticamente, opponendosi alla ŖLIHLIPUTŗ (130), alla Ŗmediocrità dei cuori scelta / coi tests<br />

preselettiviŗ (55), senza rinunciare alla felice eterogeneità del 'noi' che vi si contrappone.<br />

Rivelatrice questa consonanza tra esplosione formale dello spazio-pagina, nuova tavolozza di<br />

espressioni contro l'anestesia del bianco, scombinamento sintattico, persino contro le convenzioni<br />

della punteggiatura, e tematizzazione della fuga e della ribellione: tutto partecipa al tentativo di<br />

decentrare l'autorità, di mettere in forma una alterità critica. Si investe in una nuova forma di<br />

sophia, che abbia al centro il corpo desiderante, le percezioni, la visionarietà. Non sono senza rischi<br />

queste immersioni, queste adesioni che sconfinano nella vita. Neanche in poesia, dove il pericolo è<br />

l'eccesso di oscurità. D'altra parte di là c'è ŖL'AREA DI DOMINIOŗ (56), l'agevole chiarezza dei<br />

massimi sistemi, la semplice uniformità dell'egemonia Ŗin sintonia con lo spirito del clubŗ, la<br />

sinistra linearità da ŖPiano di rinascita democraticaŗ, con le sue ŖPremesseŗ, gli ŖObiettiviŗ, i<br />

ŖProcedimentiŗ e ŖProgrammiŗ (19). La banalità di questo male riposa sulle tacite connivenze, sulle<br />

rassegnate conformità. Anche di queste Vicinelli sa dire potentemente, con grande sintesi visiva:<br />

SIGILLI, MINISTRI<br />

DALLE GIARRETTIERE ROSSE<br />

ovvero menti contorte, corpi<br />

ristretti, piumosi<br />

mediocrità consentita ai quadri<br />

richiesta: avidità-sottomissione<br />

(amoralità garantita): ognuno ha<br />

il suo prezzo […]<br />

(101)<br />

All'ordine dei Ŗquadriŗ Vicinelli preferisce un estatico torcere, un intrecciarsi di trame, Ŗcreando reti<br />

e ragni con teleŗ (99). Scrive così da disinnescare l'uniformità e far riaffiorare il rimosso, il<br />

marginale. In questo si inseriscono le geo-grafie degli avventurieri spatriati, gli smodati<br />

plurilinguismi delle sessioni marocchine:<br />

c'era una volta in Tangier<br />

tangerine dream<br />

168


Morocco nord 'Afrique made<br />

elmà, l'acqua<br />

due mari<br />

due lingue<br />

Ŗera una questione di radiciŗ<br />

una lezione trasversale<br />

spanish french et arabie<br />

(105)<br />

169<br />

Il dinamismo del materiale lessicale e sintattico e della sostanza fonica è fecondo e imprevedibile.<br />

Vividi e alteri insieme i passi che evocano gli inesauribili dialoghi tra le lingue, di seduzione e<br />

scoperta, di estasi e paura. Essi disegnano una generazione che sconfina e aspira: Ŗtorre di Babele o<br />

la maison de dieu, / (perché noi sappiamo di cieloŗ (97). Vi è fierezza senza aulicità, mondo<br />

quotidiano senza minimalismo. Anche qui torna la felice corrispondenza: il motivo della<br />

trasgressione, lo spostamento geografico e il detour linguistico sembrano articolare lo stesso<br />

movimento anti-autoritario.<br />

Come Rosselli, l'altra magistrale manipolatrice di lingue e linguaggi, Vicinelli cerca contaminazioni<br />

e interferenze con le altre lingue, inserisce arbitrariamente alloglotti (ŖNon aveva osato to entry a<br />

Veneziaŗ, 87), compone nuove parole (Ŗuomolocaustoŗ, 51), usa arcaismi e termini mistilingui<br />

(Ŗputrefactio inspirataŗ, 99, ŖHEROICOŗ, 129). Mentre la prima Ŗse bouttà dans l'encreŗ (20),<br />

Vicinelli, sotto l'influsso delle arti visive e della performance orale, adotta anche le possibilità della<br />

grafica (Ŗp o v e r i n aŗ, 61, Ŗt.u.o.n.a.r.e.ŗ, 47, nonché il ricorrente maiuscolo), usa inserti<br />

onomatopeici (Ŗil suo cuore scoppiava come una molotov / e faceva bang bang vvvv ffffŗ, 98),<br />

impiega refusi nella punteggiatura (virgolette non chiuse, parentesi mai aperte, virgole dopo i due<br />

punti, ecc.), addita alle cadenze enfatiche del parlato (ŖYOU RE-MEM-BE-RRRR?!!!ŗ 90), fa<br />

propria una tmesi idiosincratica (Ŗtutt'in tornoŗ, 47, Ŗguard'iaŗ, 101). Caratteristico è l'uso estremo,<br />

deviante, dell'iperbato, uno stilema che in special modo riecheggia dell'intreccio di voci e viaggi:<br />

allentando la naturale alleanza sintattica tra varie parti del discorso, è come se Ŗun cuneo di materia<br />

psichica viventeŗ (111) si innestasse nelle fantasmagorie del mondo. In questo scioccante<br />

avvitamento la sintassi distorta e ri-agglomerata indica possibili discorsi secondi, si apre a ulteriori<br />

percorsi:<br />

egli si apre a questo senso un corpo aperto<br />

l'aria ai fiori sempre sulla terra si ripete<br />

verrà e vorrei, superba proiezione d'estati<br />

ATTORCIGLIAMENTO, deglutisce, the queen of<br />

desire<br />

(63)<br />

O ancora:<br />

nel palco di un la preghiera di un<br />

teatro 'Plaza Real' la sola che conosco<br />

santo sconosciuto stava seduta<br />

al centro<br />

(50)<br />

Smontando la sintassi, rimontandola come se le sue parti fossero pezzi di manifesti sovrapposti, un<br />

palinsesto di atti linguistici simultaneamente presenti, Vicinelli dà corpo al Ŗmostro attorcigliatoŗ<br />

(85) di un desiderio policentrico, che sfugga la linearità e le gerarchie, della vita come della<br />

scrittura.<br />

169


170<br />

Come può il fibrillante divenire di questa poesia dirsi epico? Non erano proprio il plurilinguismo e<br />

la parola colloquiale e contemporanea, come sosteneva Bakhtin, a segnare la fine della scrittura<br />

epica? La distanza da un passato assoluto e compiuto, il mondo eroico degli inizi della tradizione<br />

nazionale: precisamente quella inaccessibilità era la cifra dell'epica classica. L'esperienza<br />

particolare e la conoscenza ne erano escluse, la sua forza creativa era nella memoria di un passato<br />

chiuso, sacro e perfetto. Il presente e il futuro, aperti e transeunti, non potevano farne parte (21).<br />

L'epica di Vicinelli è in tensione con questi costituenti primari. Re-immaginando lo spazio della<br />

nazione oltre i suoi confini nazionali e oltre i confini interni delle gerarchie di classe, registrando i<br />

più svariati colloqui e le più diverse voci, Vicinelli sottrae il monopolio del discorso rilevante al<br />

bardo unico o alla sua élite di eroi esemplari ed estende la citabilità anche agli altri, tutti quelli che<br />

cercano, quelli che si calano Ŗlaggiù nel pozzo profondoŗ (105). Non storie individuali, né cenni<br />

biografici di alcun tipo, come già s'è detto, nella pioggia di nomi, esclamazioni e dialoghi che<br />

scroscia in quest'opera. Nei repentini passaggi da Casablanca a Gerusalemme, dal deserto berbero a<br />

Firenze, da Ostia al Texas è fondata la quest essenziale: non nella specifica realtà dei luoghi, ma<br />

nella sacralità della ricerca. Poiché Ŗè santo morire se si stava cercando / qualcosaŗ (110). Se il<br />

passato assoluto era la qualità primaria dell'epica, qui è forse l'uso dello spazio e dei luoghi a<br />

consentire il tempo mitico, l'imponenza e l'energia del discorso epico, la fondazione dei nuovi<br />

principi vitali della comunità e l'aspirazione a interrogare e a sfidare i depositati capisaldi della<br />

cultura nazionale. Di questa si chiede non già cosa sia, ma dove: ŖSE TI CHIEDESSI DOV'È LA<br />

NOSTRA CULTURA, / DOV'È?ŗ diceva il disco richiesta di quel giorno.ŗ (123)<br />

Non sempre ricordano esordisce con un imperfetto: Ŗ...TUONAVANOŗ (47). I puntini di<br />

sospensione segnalano un discorso che viene da altrove, che continua. Il solenne affresco iniziale,<br />

con tuoni e abissi, crateri e incontri fatali, è la scena da cui si parte per l' ŖULTIMO VIAGGIOŗ<br />

(47). Le ultime pagine dell'opera passano repentinamente da un tempo verbale all'altro, e si<br />

chiudono, alla fine di un muro di maiuscole compatto e inderogabile, con un futuro: ŖNON<br />

AVANZERANNO PIÙ DI UN SOLO PASSO.ŗ (131) Se il tempo non è più quello teleologico<br />

della metafisica, ancor meno quello lineare della storiografia positivista, esso si fa epico proprio<br />

nella sua ri-figurazione in termini spaziali, nella simultaneità materica delle presenze. ŖViviamo<br />

nell'epoca del simultaneo, nell'epoca della giustapposizione, nell'epoca del vicino e del lontano, del<br />

fianco a fianco, del dispersoŗ, scriveva famosamente Foucault (22); immaginando il tempo non più<br />

come una retta continua, bensì come un reticolo che si intreccia indefinitamente e come un<br />

palinsesto di eventi compresenti, Vicinelli lo rende disponibile alla presa mitica, ad una visionarietà<br />

maestosa e liberatrice dai vincoli:<br />

[…] Non c'è stendardo che possa<br />

realmente fermarmi, né chiusura di spazio,<br />

né circolo di tempo: la mia vita e la mia<br />

morte sono la stessa avventura.<br />

(102)<br />

Gli ultimi versi sembrano ispirarsi all'amato Eliot dei Quattro quartetti, il cui secondo movimento<br />

esordiva con Ŗin my beginning is my endŗ e si concludeva con Ŗin my end is my beginningŗ.<br />

Numerosi sono gli echi del poeta americano: nell'accento tedesco di ŖI have no timeŗ (99)<br />

ritroviamo la donna lituana de La terra desolata, nei Ŗpassi di donne che vanno e vengono / per le<br />

stanze di Michelangeloŗ (101) sentiamo risuonare i versi del Prufrock (ŖIn the room the women<br />

come and go / talking of Michelangeloŗ). Eliot fu modello ispiratore, ma la sua anti-epica costruita<br />

mimeticamente sul frammento rimpiangeva il tramonto dell'Occidente, la condizione post-bellica di<br />

svuotamento, e l'ordine mitico andava a compensare l'isolamento psichico. In Vicinelli l'instabilità è<br />

invece euforica, incandescente anche quando è sofferta, e produttiva di revisione. La rivolta ai<br />

Ŗmonopoli di statoŗ (77), l'espatrio, l'eteroglossia sono anche evasioni dal mondo circoscritto e<br />

ammansito, privato e sentimentale, riservato alle donne (nelle figurazioni letterarie, nelle posizioni<br />

170


171<br />

discorsive disponibili, nelle consuetudini sociali). Se per Eliot le donne erano figure di decadenza,<br />

alternativamente segni sia della corruzione dei costumi che del convenzionalismo culturale, per<br />

Vicinelli Ŗloroŗ, i nemici, i reazionari, i Ŗtutoriŗ, non hanno un genere in particolare, semmai una<br />

statura (quella dei lillipuziani), a volte una divisa (il maresciallo, i poliziotti). Lo iato tra tempo<br />

umano e tempo mitico si colma in Eliot con un movimento trascendente. In Vicinelli è la revisione<br />

dello spazio a consentire il salto, l'installazione su di un piano orizzontale di visioni simultanee e<br />

multiformi possibilità, che siano quelle della libera commutazione tra i generi sessuali, del rimpasto<br />

dei generi letterari, del plurilinguismo, o della manipolazione dei materiali poetici. Non a caso,<br />

forse, tra i molti iridescenti luoghi, ad ospitare caleidoscopiche combinazioni sta anche il deserto:<br />

su quell'autobus entrando in uno spazio così vasto e<br />

illuminato, da allora<br />

c'era tempo per pensare e per non<br />

pensare più Ŕ pas penser trop Ŕ<br />

consigliano, scendi fino al deserto, disse,<br />

i colori si fanno roventi, le case<br />

si abbassano al suolo,<br />

scendi fino ai gin ballerini del deserto,<br />

dove i chicchi di sabbia rullano al vento,<br />

e passeri senza ali cinguettano<br />

dove l'usura crea montagne crepate<br />

e le riduce in briciole,<br />

dove i solchi delle carovane di camions<br />

durano il tempo di una notte.<br />

(112)<br />

In questa nuova manovrabilità degli spazi si mobilita la polifonia che è la cifra di Vicinelli. Essa è<br />

di certo alimentata dalla vicenda umana dell'autrice, in cui includo le esperienze (materiali, prima<br />

che poetiche) della poesia concreta e della performance orale, come pure la latitanza in Marocco, il<br />

soggiorno nella multilingue, stratificata Tangeri, o il periodo trascorso in carcere. Tuttavia non si<br />

tratta di mera soluzione psicologica, di sintomo. Piuttosto, attraverso il bruciante dato esistenziale,<br />

spazi concettuali e spazi linguistici stanno in tensione con le possibilità della propria creatività. In<br />

Vicinelli la loro relazione abilitante sembra costituirsi nella dialettica tra struttura poematica e<br />

polivocale multiformità, tra autorevolezza del genere epico e sua revisione in una installazione<br />

smottante di frammenti, linguaggi, timbri.<br />

Renata Morresi<br />

Note.<br />

(1) ŖA capoŗ, di Cocciante-Luberti, in Mina con bignè, EMI, 1977.<br />

(2) Ibid.<br />

(3) Dalla quarta di copertina del primo numero di «DWF, Donna Woman Femme: rivista internazionale di studi storici e<br />

sociali sulla donna» (1975), cit. in Catalogo dell'archivio Silvana Donno, stampato per il convegno Scrittura delle<br />

donne fra letteratura e giornalismo, Bari 29 novembre Ŕ 1 dicembre 2007.<br />

(4) Qui farò riferimento all'edizione curata da Cecilia Bello Minciacchi in Non sempre ricordano. Poesia, prosa,<br />

performance, Firenze, Le Lettere, 2009. Il volume contiene un saggio di Niva Lorenzini e un'antologia multimediale a<br />

cura di Daniela Rossi. I numeri di pagina delle citazioni saranno dati tra parentesi nel testo.<br />

(5) Il problema non è stato soltanto femminile, se pensiamo a Pasolini che imputa a Petrarca un impiego Ŗterroristicoŗ<br />

della eterosessualità. Vedi P. P. Pasolini, [In occasione del sesto centenario della morte del Petrarca], 1974, cit. in<br />

Nicola Gardini, Recuperare il corpo: genere e proibizione sessuale nella storia della letteratura italiana, in «Trame di<br />

letteratura comparata», 2 (2001): 19-38, p. 36.<br />

171


172<br />

(6) Ezra Pound, Lettera alla madre, cit. in Louis Lohr Martz, Many Gods and Many Voices: the role of the prophet in<br />

English and American modernism, University of Missouri Press, 1998, p. 17. La traduzione, qui e nelle successive<br />

citazioni da testi in inglese, è a cura di chi scrive.<br />

(7) Il manifesto Fragili guerriere – poepiche di Rosaria Lo Russo e Daniela Rossi si può leggere su «AbsoluteVille»,<br />

(pubblicato il 6 Marzo 2011; ultimo accesso: 3<br />

Novembre 2011), oppure su «Alfabeta2», <br />

(pubblicato il 9 Marzo 2011; ultimo accesso: 3 Novembre 2011).<br />

(8) Vedi Susan Stanford Friedman, When a “Long” Poem Is a “Big” Poem: Self-Authorizing Strategies in Women's<br />

Twentieth-Century “Long Poems”, in Dwelling in Possibility: Women Poets and Critics on Poetry, a cura di Yopie<br />

Prins e Maeera Shreiber, Cornell University Press, 1997, pp. 13-37.<br />

(9) Gilles Deleuze, Literature and Life, «Critical Inquiry», 2.23 (1997): 225-230, p. 229.<br />

(10) Vedi Elio Pagliarani, Ragione e funzione dei generi, «Ragionamenti», 9, 1957.<br />

(11) Penso a Charles Olson e al manifesto di poetica Projective verse, del 1950.<br />

(12) Adriano Spatola, Verso la poesia totale, cit. in Sauro Fabi, L'avanguardia per tutti: concretismo e poesia visiva tra<br />

Russia, Europa e Brasile, Macerata, EUM, 2008, p. 97.<br />

(13) Edgar Allan Poe, The Philosophy of Composition, 1846, in The Oxford book of American essays, a cura di Brander<br />

Matthews, New York, Oxford University Press, 1914, Bartleby.com, 2000, (ultimo accesso:<br />

3 Novembre 2011).<br />

(14) Cesare Pavese, Il mestiere di poeta, in Le Poesie, Torino, Einaudi, 1998, pp. 105-113. Le citazioni sono<br />

rispettivamente a pagina: 106, 110, 111.<br />

(15) E. A. Poe, cit.<br />

(16) Sulla politicità inerente all'atto del parlarsi vedi Adriana Cavarero, Logos e politica, in A più voci. Filosofia<br />

dell'espressione vocale, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 200-214.<br />

(17) Più precisamente, Vicinelli scrive: ŖOH! MIO! ALTER. DOVE?ŗ (59) Qui mi concedo il gioco di parole con alterego<br />

per introdurre la questione cruciale del viaggio.<br />

(18) Vedi Georges Van Den Abbeele, Travel as Metaphor: From Montaigne to Rousseau, University of Minnesota<br />

Press, 1992, e Henri Lefebvre, The Production of Space, Oxford, Blackwell,1991.<br />

(19) Il testo del Piano è rintracciabile su Web, pubblicato e citato da molti siti. Non sorprendentemente non sono<br />

riuscita a trovarne una versione ufficiale.<br />

(20) Il verso di Rosselli è da Diario in Tre Lingue, in Poesie, Garzanti, Milano, 1997, p. 88. Daniela La Penna ne<br />

propone una interessante lettura in La mente interlinguistica. Strategie dell'interferenza nell'opera trilingue di Amelia<br />

Rosselli, in Eteroglossia e plurilinguismo letterario II, Atti del XXVIII Convegno interuniversitario di Bressanone (6-9<br />

luglio 2000), a cura di Furio Brugnolo e Vincenzo Orioles, Roma, Il Calamo, 2002, pp. 439-456.<br />

(21) Vedi Michail Bachtin, Epos e romanzo, in Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1983, pp. 445-482.<br />

(22) Michel Foucault, Eterotopia: luoghi e non-luoghi metropolitani, Mimesis, Milano, 1994, p. 11.<br />

172


Il (dis)Sacrato Poema<br />

173<br />

Io non Enea, io non Paulo sono<br />

Dante<br />

Elettra , le tue università!<br />

A. Rosselli<br />

Sarebbe interessante iniziare a tracciare la storia della letteratura italiana femminile dal Novecento<br />

ad oggi. Emergerebbe un continente sommerso, all'interno del quale, nella seconda metà del secolo,<br />

la forma-poema mostrerebbe di avere un particolare rilievo, declinata, come si suole in ogni<br />

preistoria, nella sua accezione originaria di poema di fondazione, il cui statuto eminentemente<br />

orale-vocale, a trasmissione performativa, lo ricongiungerebbe alle ragioni vitali profonde del suo<br />

nascere e imporsi sociale, fenomeno ancora criticamente non osservato e in quanto tale non<br />

studiato.<br />

Le pagine che seguono non hanno questa pretesa, ma l'attività di performer della sottoscritta sì,<br />

intendendo tale attività testimoniare di una grandezza letteraria incompresa e anche travisata, negli<br />

anni delle prevalenze minimaliste, della asocialità della poesia e delle persistenze maschiliste in<br />

ambito accademico e non solo, ché perfino i sodali di autrici quali Patrizia Vicinelli ed Amelia<br />

Rosselli non colsero l'aspetto letterariamente rifondativo della loro scrittura, limitandone l'orizzonte<br />

alle vaghe somiglianze con gli esperimenti testuali e performativi della neoavanguardia.<br />

E invece i poemi epici di Vicinelli e Rosselli Ŕ in particolare il capolavoro del '58 di Amelia<br />

Rosselli, La libellula, hanno rappresentato un nuovo inizio per la poesia scritta dalle donne in Italia.<br />

Ho già tributato il mio omaggio e ringraziamento implicito a queste due autrici in vari luoghi, per il<br />

reperimento dei quali rimando alla bibliografia finale.<br />

Qui intendo riproporre un mio saggio specificamente autoesegetico scritto qualche anno fa in<br />

occasione di un convegno in Argentina, - al quale fui invitata in quanto poetisa contemporanea che<br />

molto doveva al buon Padre Dante -, estremamente dettagliato nei riferimenti, e, per converso,<br />

alcune mie note, brevi e incomplete ma appassionate e a caldo, sul lavoro di Florinda Fusco, le cui<br />

uscite editoriali molto recenti ne fanno l'ultima e straordinaria rappresentante di una genealogia che<br />

ritengo molto vitale e attiva.<br />

La tesi fondamentale è questa: il soggetto del poema scritto dalle autrici italiane dalla fine degli<br />

Anni Cinquanta ad oggi, è un Io Esperienziale che tende a diventare un Sé Transpersonale. L'Io<br />

Esperienziale procede ad una ricerca basata sull'Esperienza (inteso come termine specifico della<br />

mistica) e in quanto tale la sua scrittura è necessariamente sperimentale: ŖIo sono una che<br />

sperimenta con la vitaŗ scrive Ŕ a nome di tutte le successive - Amelia Rosselli ne La libellula. Tale<br />

scrittura non aspira ad essere una narrazione autobiografica, infatti si serve dello strumento-poesia<br />

proprio perché è una modalità di ricerca di un Sé transpersonale (e lo sesso fenomeno avveniva<br />

contemporaneamente negli Stati Uniti, si vedano i rimandi bibliografici), che è un Attante narrativo<br />

storicamente determinato, che comprende l'Io esperienziale delle singole autrici ma lo trascende,<br />

servendosene esperienzialmente, per fondare un canone altro poematico che si situi nella tradizione<br />

letteraria italiana sovvertendola e parodiandola sia nelle forme che nei contenuti, dunque<br />

sostanzialmente mettendola in crisi e innovandola.<br />

Questo lungo grido, questo lungo sospiro ed espiro, questo lungo Appello, questa flussuosità<br />

dirompente che risuona e si trasmette da oltre mezzo secolo viene bellamente ignorata dai critici e<br />

dagli storici della letteratura italiana. Provo, da dilettante qual suono, a porre fine a questo<br />

affossamento niente affatto casuale in maniera volutamente antiaccademica e militante, sempre<br />

nella speranza che le autrici si riconoscano nella mia impostazione o desiderino controbatterla ad<br />

armi pari.<br />

173


Comèdia&Comedìa<br />

(Anonimo Fiorentino)<br />

174<br />

Tutto verrà tralasciato di quanto concerne i riferimenti non danteschi nei testi poetici che<br />

commenterò e molto verrà tralasciato, in queste pagine, di quanto è intercorso fra Dante e Me, fra il<br />

Padre della Poesia Italiana e una Figlia Incestuosa di essa, fra dettatura amorosa e dittatura della<br />

tradizione dantesca nella mia poesia. Ma la messa a fu(o)co dellřessenziale poietico, e quindi del<br />

suo valore precipuamente testimoniale, mi inducono a rinunciare allřesaustività filologica a favore<br />

di un rilievo ideologico del discorso, che intende essere adeguato ad una militanza poetica<br />

sottomessa allřattualità dello stato presente della poesia femminile, non fossřaltro perché da anni se<br />

ne fa un gran discorrere generico (ovvero con lřapprossimatività di molti, troppi, studi cosiddetti di<br />

genere), appunto, senza però quasi mai soffermarsi, qui, sì, filologicamente, ovvero in medias res,<br />

sugli elementi propriamente letterari di quanto vagola in tali studi, genericamente femministi, sul<br />

monstrum detto poesia femminile: i grandi temi della ricerca dellřIdentità poetante (che poi si<br />

riduce tristemente e troppo spesso a generici autobiografismi che sconfinano nella pseudopoesia<br />

dello sfogo emotivo) e quindi del Corpo, in primis. Mi tenterò di verificare la presenza di alcuni<br />

motivi ascrivibili a queste tematiche, altrimenti generiche, facendo atto, umilmente puntuale, di<br />

autopoietica, ovvero prendendo alcuni miei testi a prestesto per un discorso che, fra le righe,<br />

vorrebbe essere transpersonale, come avrebbero detto le poetesse americane della metà del secolo<br />

scorso, quando la poesia delle donne cominciò a diventare un fenomeno di massa (contestualmente<br />

al femminismo mondiale), sia per quantità che per qualità, attestandosi fortemente attraverso il<br />

lavoro di Sylvia Plath ed Anne Sexton, giusto per citare le due che conosco meglio e che sono le più<br />

rappresentative, data la scelta confessionale, delle macrotematiche di cui sopra. Ma concludo subito<br />

con le generalizzazioni storico-geografiche Ŕ avendole citate come riferimenti a miei interventi<br />

pregressi (cfr. bibliografia finale) e per eventuali interventi futuri - e delimito lřoggetto della ricerca<br />

presente ad alcune mie modalità di sperimentazione circa lřidentità-identificazione/costituzione<br />

poetante femminile allřinterno della Tradizione Letteraria Italiana in relazione a ciò che la<br />

rappresenta antonomasticamente, il Poema del Pater Patriae.<br />

Trattando precipuamente della nascita e del costituirsi del mio poetare in quanto soggetto femminile<br />

attestantesi, attraverserò, per summa capita, il mio rapporto con la Sua/Nostra lingua letteraria come<br />

essa originariamente fu Ŕ ed è, originariamente, in ogni atto realisticamente poietico Ŕ ovvero un<br />

fatto di in-formazione orale. In quanto tale lřatto poietico (e metapoetico, in questo caso) si basa<br />

sullřantico stilema delle modellizzazioni, sulla prevalenza degli exempla dei Ŗparlarŗ maternipaterni:<br />

in pratica emergerà dal mio discorso come rimodellizzo stralci del poema di Dante che<br />

modellizza la lingua poetica in base al suo stilema principale, la mimesis orale (del volgare, guarda<br />

caso, muliercolo, che doveva farsi illustre), sorretta dalla mnemotecnica degli exempla, da<br />

intendersi come citazionismi sperimentali e modelli autoriali. Dunque la lingua-poema di Dante è<br />

per me lřExemplum su cui modellare la lingua poetica come imitazione orale, il mio idio-dialetto<br />

fiorentino. Valse per Dante, vale per me per presa di posizione performativa: comica, teatrale. Ma<br />

poiché non si tratta (ovviamente!) di unřoperazione-posizione di riscrittura Ŕ nonostante e anzi<br />

proprio a causa del fatto che il libello da cui traggo quasi tutti i testi che presento sřintitoli Comèdia<br />

Ŕ il mimetismo orale-vocale dantesco della mia poesia è da ascriversi in un metaforismo allegoricoparodico<br />

globale che rinvia vettorialmente, cioè a perdere (ad infinitum, ad eco orale) oltre che a<br />

recuperare, a loci della Comedìa centonizzati per ragioni semantiche spostate metonimicamente<br />

rispetto al dettato dantesco e - ciò che più conta Ŕ pro-vocatoriamente desemantizzatedecontestualizzate.<br />

LřAmore per il Padre Dettatore-Dittatore non solo non è sordomuto (come tanta<br />

pseudopoesia infestante le patrie lettere dal dopo-Petrarca al Novecento, perché infestata dal<br />

Modello Linguistico per eccellenza memorizzando e memorizzato, e perciò sempre più<br />

174


175<br />

scolasticamente esausto-esaustivo, molto presto deteriorato in stilnobbismo patriarchista: dal cui<br />

misfatto deriva che lř80% della lingua poetica italiana non si è scostata di un ette dal volgare illustre<br />

che inventò Dante, a ben sentire) ma non è neppure cieco: anzi, quel che nella mia poesia sřinscena<br />

linguisticamente e concettualmente, è proprio unřincessante dialettica informativa del ricantare<br />

parodicamente la Voce Creatrice del Padre Orante come certificato di nascita di una lingua poetica<br />

altra perché dellřaltra, della Femmina Fonica (come mi ha gentilmente definito un giovane critico,<br />

Marco Simonelli) che impara a Ŗparlarŗ dalla Voce del Padre/Lingua Madre, divorandola ed<br />

espellendola, una volta metabolizzata, modificata attraverso lřuso straniante e pervertito della<br />

centonizzazione (come vedremo desemantizzata e perciò risemantizzante), che pertanto assurge a<br />

stilema retorico-semantico fondamentale. La poesia femminile Ŕ se vuole esistere come fenomeno<br />

storico-letterario Ŕ deve attestarsi nel Canone (volente o nolente: non cřè Arte senza modelli e<br />

tèchne precostituiti), trovando prima una propria ubicazione, dunque un ubi consistam, se vuole poi<br />

trovare una voce propria. In mancanza di una tradizione propria, essa va inventata, va rinvenuta<br />

nella sua lingua, prima ancora che nei suoi contenuti (anche perché temi e lingua, significati e<br />

significanti, in poesia non possono scindersi): la lingua, il corpo del testo, non può che essere il<br />

primo oggetto, lřOggetto Primario, kristevianamente, di ogni possibile discorso sul fare (poièin) del<br />

soggetto femminile, nel mio caso scrivente in italiano. La poesia del soggetto femminile italiano è<br />

ancora allo stadio vegetativo, storicamente parlando, dato che le nostre poetesse, fino al Novecento<br />

inoltrato, sono state perlopiù (intendo quantitativamente e qualitativamente) riducibili al canone<br />

sonettistico petrarchista (e dopo il Ř500 alle sue progressive degenerazioni di massa nel comune<br />

poetese versoliberista moderno e contemporaneo). Di tale vegetatività tratterò, muovendomi fra<br />

sprazzi e stralci di versi, avendo a che fare con questa macroallegoria doppiamente originante Ŕ<br />

perché legata allřanfibologia della parola poetica, del segno linguistico in poesia Ŕ del processo di<br />

costituzione (concepimento, nascita e vita nuova) del dictatum femminile e della sua specificità in<br />

un ordine dialettico-concettuale rispetto al (ai) Padre/i.<br />

Prima di passare alle puntualizzazioni autoesegetiche e per contestualizzarle adeguatamente,<br />

delimito il campo semanalitico fondante. Il Padre, i Padri, sono Maschi e quindi la Lingua Madre,<br />

elaborata in poesia, diventa Lingua dei Padri. Dunque il Soggetto Poetante è Lui mentre lei, ab<br />

origo, è un Tu Angelicato (asessuato, de-genere, madre quindi solo nel senso metaforico del<br />

termine), più che donna un Travestito, un travestimento dellřanima di Lui, una non-lei. Insomma il<br />

punto di partenza e anche il nodo centrale della mia poietica ruota intorno alla vexata quaestio della<br />

dialettica, monovocativa a favore di Lui, fra lřIo lirico-poematico del Poeta e il Tu femminile,<br />

invocazione-vocazione-evocazione su cui si fonda e prospera tutta la poesia italiana dalle origini al<br />

Novecento. Da questa presa di coscienza poietica prende forma la questione centrale dei miei due<br />

libri, due capitoli di un unico romanzo poematico di (in)formazione autobiografico-transpersonale:<br />

lřinterrogazione sulla musività (intesa come presenza ineludibile della Musa e poeticità in sé) nel<br />

rapporto speculare Io-Tu e poi Ŕ per forza di cose Ŕ nel rapporto intraspeculare lei-Lei, quando a<br />

scrivere sia un Soggetto poetante femminile. Su questřultimo punto è focalizzata lřintera operazione<br />

de Lo Dittatore Amore, in quanto secondo momento, altrettanto parodico, del poema-romanzo di<br />

formazione Comèdia, centrato piuttosto sulla questione primaria della formazione del Soggetto<br />

poetante dal punto di vista femminile. In sintesi sto per ritrattare, ritratteggiandoli, (de)gli argomenti<br />

cruciali del Libello bignamico della Tradizione Letteraria: il rapporto fra la Poesia Stessa (nella sua<br />

solita e ormai insolente e insolvente quidditas) Ŕ unico Soggetto del contendere poetico di sempre Ŕ<br />

e la Donna (il Bello della Donna), suo Oggetto di sempre per i fabbricanti del bello di sempre, ma<br />

dal punto di vista rovesciato (parodico e, in quanto tale, comico) di un Soggetto scrivente donna che<br />

finalmente prende la parola ovvero interloquisce col Padre in quanto Soggetto Maschile scrivente<br />

da sempre intorno alle due Lei: Poesia e Madonna. Dialettica oramai emunta, e non da poco tempo,<br />

se già Dino Campana, geniale sovvertitore di questa funebre tendenza (la Musa è per necessità<br />

Morta o almeno Assente in quanto donna, da Dante-Petrarca a Montale ed epigoni), ebbe a scrivere<br />

in un frammento dei Taccuini intitolato Nel portamento della testa: ŖNata morta… Troppo a lungo<br />

175


176<br />

durò la commedia della poesia italianaŗ. Desidero puntellare con questa annotazione di sgomento<br />

funebre il mio tentativo di entrare in arte in lingua italiana. Gli esiti - sterili o prolifici, costruttivi<br />

(sperimentali) o meramente decostruttivi Ŕ della mia ritrattazione poietica, discanto, odioso<br />

disincanto, amoroso ricantare, non mi è dato conoscerli, anche se spero per me, ovviamente e<br />

dantescamente, nellřopzione innovatrice-sperimentale a sfondo politico: il mio contributo alla causa<br />

femminista è lřannuncio-denuncia dellřavvenente (azione del Soggetto Femminile Poetante in<br />

processo linguistico dal dittato del Padre) poetricio, scambio meretricico della Figlia Poetante con il<br />

corpus poematico del Padre, bòtte e risposte fra sentenze versali già dittate ma si spera altrimenti<br />

ridicibili. Alle postere, in ogni caso, altre sentenze palingenetiche, che magari sostituiscano la<br />

marca orfica campaniana con una sorta di superamento, nel dittato, del lutto orf(an)ico.<br />

Per ora vediamo come e da chi-cosa nasce e come e da chi-cosa impara a parlare, cioè Ŗa sonare un<br />

poco in versiŗ, una lei non maiuscolata, una autrice in lingua italiana: guardiamo al teatro delle<br />

metafore del linguaggio poematico che entrano nellřagone comico che sřinstaura fra lřIo-Lui, lřIolei,<br />

il Me-Lui e il Tu-Lei nel tentativo di un approdo psicagogico finale (non so se raggiunto né<br />

raggiungibile) ad una Lei-lei o forse ad un Sé-Me autonomato dal vincolo incestuoso dellřipse dixit<br />

del/dei Padre(i) sul Bello della Donna, che nega alla donna lřaccesso al Bello, a meno che non si<br />

comporti esteticamente e retoricamente come Lui. Lřazzardo poietico di cui mi fo carico,<br />

affrontando lřodiosamato Padre, ha per antecedente exemplum glorioso un poemetto del 1958: La<br />

libellula di Amelia Rosselli. Lřincipit la dice lunga: ŖLa santità dei santi padri era un prodotto sì/<br />

cangiante chřio decisi di allontanare ogni dubbio/ dalla mia testa purtroppo troppo chiara e<br />

prendere/ il salto per un addio più difficile (…)ŗ. Momento felicissimo della poesia italiana,<br />

purtroppo la testa troppo lucida di Amelia si perse nella battaglia poematico-politica e ricadde in<br />

tentativi meno ideologici, perdendo lřoccasione per il salto cruciale nel difficile addio al dominio<br />

dei Santi Padri della Tradizione Nostrana. E sappiamo a quale più triste salto si destinò la persona<br />

Amelia, pochi anni fa. Ma quel che più conta per me, in questo discorso, è sottolineare il valore<br />

ermeneutico del titolo: per la trilingue Rosselli, autrice di lapsus - come giustamente rilevò Pasolini-<br />

la libellula non è lřinsetto volante della lingua italiana ma unřeccellente pseudotraduzione<br />

paraetimologica e diminutiva del latino libellum, termine che, oltre che diminutivo di liber, è anche<br />

decodificabile come libellum volto al caso femminile per incriptamento: La libel(lu)la. Un Senso di<br />

Colpa Incestuosa Originaria nei confronti del Padre è causa di questa diminuzione sminuente il<br />

piglio eversivo dellřesito soggettivante femminile che pervade il poemetto-libello/libella proprio a<br />

partire dallřiperconnotatività semantica del titolo. Il sottotitolo del poema lo comprova: Panegirico<br />

della Libertà: Amelia Rosselli ha dato lřabbrivio al discorso che tento di ereditare. Per<br />

lřemancipazione dellřio-Tu in Lei-lei, come Soggetto poetante dialetticamente allřinterno della<br />

Tradizione Letteraria Italiana (tutto il poema rosselliano cita parodicamente il dittato dei Padri, da<br />

Dante a Montale), La libellula rappresenta lřinizio della Vita Nova della poesia femminile italiana,<br />

la prima dichiarazione dřindipendenza dalla fertile filiazione dalla Lingua dei Padri, non<br />

rinnegandola o abolendone lřefficacia, ma rimetabolizzandola (anche alla luce fertilissima della<br />

vocalità multilingue dellřautrice) e con ciò appropriandosene e così dandosi la possibilità di<br />

superarne i limiti ideologici.<br />

Dunque Comèdia, che esordisce con un trittico intitolato Tre variazioni sulla nascita, è il libro che<br />

inscena la nascita al linguaggio poietico della Femmina fonico-scrivente, e il suo primo canticare<br />

allegorico (modello adottato come prevalente) allegoricamente in rapporto di filiazione con il<br />

macrotesto per eccellenza della Tradizione Poetica Italiana, il sacrato poema, che tutta<br />

statisticamente e potenzialmente la ingloba e promette, come in una circolare enorme variatio,<br />

almeno stando alle percentuali di alti tassi lessicali e morfologico-sintagmatici - fino addiritura al<br />

modo di dire della lingua parlata, in essa, danteschi Ŕ di cui dicevo -, ovvero il Verbo Eterno del<br />

Santo Padre della Lingua Italiana, suo serbatoio enciclopedico totalizzante. Devo, anche se per<br />

inciso, far almeno presente lřimportanza determinante, sia nella mia scrittura che in quella della<br />

Rosselli (e non solo!), della letteratura mistica femminile nuziale (molto fiorente fra Medioevo e<br />

176


177<br />

Controriforma), sottolineando che, collusa la lingua dantesca, o della tradizione letteraria dei Padri,<br />

con tale contesto linguistico-tematico, la filiazione si associa ad uno sposalizio con il Padre<br />

(ovviamente qui Dio Padre) da cui deriva il conseguente macrotema psicolinguistico della scrittura<br />

Femminile come Incesto col Padre, connubio mortifero in quanto sacrilego, peccaminoso, marchio<br />

dřinfamia infera, penalizzante in sul nascere gli esiti purgatoriali, ma mai paradisiaci, finora, del<br />

peccato della lingua poietica, peccato lussurioso di gola, se la poesia Ŕ qui intendendo quella<br />

femminile in particolare - è sempre un fatto carnale (Maria Zambrano) in quanto movimento<br />

ancestrale di immissione-emissione che confonde le funzioni infero-infantil-glossolaliche<br />

dellřapparato fono-articolatorio-alimentare, la gola, in quanto luogo di formazione o accoglienza,<br />

elaborazione, espulsione del cibo e della voce (Julia Kristeva). E siccome il rapporto parola poeticavoce-cibo-sensualità<br />

è un campo semantico fortissimo e frequentissimo nelle metafore dantesche in<br />

Comedìa, farsi corpus poematico in Comèdia dalla Lingua-Voce del Padre Dante, che per ogni<br />

poeta nostrale (maschio o femmina che sia) detiene ancora lo ius primae poesiae, implica un atto<br />

edipico contronatura per un Soggetto Femminile Poetante, per motivi storico-psico-biologici: il<br />

Peccato della Lingua poetica che Ŕ trasmessa oralmente dal Padre Ŕ diventa, per la Figlia, Peccato<br />

di Gola Profonda, di gola lussuriosa, di avaritia-avidità del Cibo-Linguaggio. Nelle pagine<br />

successive approfondirò, sostanzialmente, questa tematica, rilevando le centonizzazioni semantiche<br />

che provengono prevalentemente da due zone purgatoriali ad alto tasso di metafore sensualalimentari<br />

paterno-materni: i canti XXI-XXVI e XXIX-XXXIII.<br />

Parto dallřinizio della fine, ovvero dalla prima poesia del secondo capitolo di questo dittico<br />

definitivo in quanto annunciante la morte-rinascita dei Soggetti-Oggetti della poesia femminile. Se<br />

Comèdia rappresenta la nascita e i primi vagiti-sgolamenti della In-fanta Orante, i trittici melologici<br />

(il ragionar cantando) de Lo Ditttatore Amore (il cui testo conclusivo, Epitaffio, ci fulmina in<br />

clausola con la dichiarazione apocalittico-apodittica Ŗsmetto di masturbarmi allo specchio del<br />

Padreŗ) rappresentano la compiutezza Ŕ perciò tale finale (teleologica) - della Parabola del Viaggio<br />

intralinguistico del Soggetto Femminile Poetante, una Poetrice, tanto per coniare unřalternativa<br />

parodica al personaggio, declassato nel linguaggio corrente a anima bella e belcantistica, della<br />

Poetessa (non meno Angelicata e quindi moribonda Ŕ Assente, Demente- della Musa). Lei-lei,<br />

Autrice e personaggio ri-definentesi a partire da unřabborrita Assenza (che non avendo del divino,<br />

per lei, è soltanto inesistenza…), Attrice e Viatrix, gemella in-desiderata come sposa grottesca di<br />

Lui Auctor/Actor, nel paesaggio teatralmente claustrofobico e maraviglioso delle retoriche e delle<br />

tematiche che la Nostra Signora Poesia apre sugli inferni paradisiaci o sui paradisi infernali del<br />

purgante e purgato amore dellřAmore, sua croce e delizia perpetuamente autoproducentesi, e<br />

quindi a tutti i consumatori di Essa ben noti, è il primo Soggetto-Oggetto da porsi in questione.<br />

Allegoria sullo sfondo cartapestaceo della poesia mistico-amorosa dellřIo-Tu allo Ŗstato feliceŗ<br />

delle Patrie Lettere: nellřatto della Cacciata di Lei-lei dal Paradiso Terrestre, dal nirvanico Parnaso<br />

di ŖQuelli che Anticamente Poetaroŗ, si tratta di avviare e condurre vettorialmente (a fondo perduto,<br />

ripeto) un Corpo a Corpo fra il Soggetto e lřOggetto, lřIo e il Tu, della Tradizione Canonica. Chi e<br />

quindi cosa è Poetante, chi e quindi cosa è Poetato (prepotenza da strapotere dellřImago come<br />

emanazione del Dio Padre Poeta Platonico: Ma Donna può mai essere poetante oltre che poetabile)?<br />

Si potrà mai finalmente de-sacrificare lřImago Femminile? Metterla a non sublimante morte? Farla<br />

finita con la Commedia di Madonna?<br />

A proposito della semantematicità del titolo del secondo libro (in riferimento a Purg., XXIV, 49-<br />

59): come scrivono le Ŗpenneŗ, non già piumosamente metaforiche ma concrete, delle donne<br />

smaiuscolate che hanno ŖIntelletto dřAmoreŗ, ovvero virtù poietica, a-spirante alla mimesis orale?<br />

Da Lo Dittatore Amore. Melologhi, Milano, Effigie, 2004:<br />

177


DEDICA<br />

Lei che non fu manco soggetta a corpo sodo,<br />

L'incoronasti dominetta d'un egotico ergastolo.<br />

Ma se s'ammusano adesso commilitoni in desiderando<br />

si avvedono dell'errore trasmesso dalle veneree congiunte,<br />

dell'avverarsi fatidica batosta di losco gemellaggio:<br />

travaso o sbocco, insomma, quel ch'è mio, caro Lei, tosto s'intuia!<br />

Eccovi allora esito fabuloso di sadomaso di madonna:<br />

Ora sovrasta Lei, Lo monta, Gli sta col fiato addosso,<br />

si prepara la risposta, sentenzia in appello, va in ricorso,<br />

Lo scudiscia perbenino con gli occhi Lei, L'aizza flabello,<br />

e Lui zitto - lo stronzo - Le ammicca, qual fusse Lolita novella.<br />

Lei Lo fiammeggia nel caldo d'amore, Gli leva 'l fiato,<br />

inciampa Lui, e pronto e prono piano se la canta dentro<br />

- ma mente, come sempre -, mortificato tanto dalle di Lei refulse.<br />

Poi quasi si perdono amendue<br />

con gli occhi chini, dopo tanto abbaglio.<br />

178<br />

Quanto scritto sopra è già sufficiente commento, intro a questřIntro. Aggiungo alcune minime<br />

chiose. ŖCorpo sodoŗ, minima citazione paradisiaca, ivi incastonata in una perifrasi astronomica il<br />

cui locus non ricordo, è qui, oltre che decontestualizzata rispetto alla fonte in riferimento al primo<br />

livello di lettura del poema tripartito che commenterò maggiormente, Gli angoli della bocca,<br />

costituente la gran parte di Comèdia, poema nel poema dedicato allřanoressia, storicamente sacra<br />

(malattia tipica delle mistiche Ŕ esiste ampia bibliografia in proposito - due per tutte Santa Caterina<br />

da Siena e Santa Teresa dřAvila) e transpersonalmente profana (malattia adolescenziale della<br />

Scrivente ma soprattutto transpersonalmente tipica delle Poetesse, due per tutte la gloriosa<br />

patriarchista Gaspara Stampa Ŕ anchřessa assai centonizzata nel mio poemare Ŕ morta giovanissima<br />

di consunzione astenica, come poi, in pieno Novecento, una delle ingiustamente neglette femmine<br />

poetanti, Antonia Pozzi). ŖIntuiaŗ: attesto, risemantizzandolo, il neologismo paradisiaco, per<br />

introdurre gli esiti sado-maso-mistici dellřŗammusarsiŗ, come azione neologistica del corpo a corpo<br />

Io-Tu/Lui-Lei in condizione di gemellaggio incestuoso di cui sopra (la fabula mistica abbagliante<br />

dellřImago), che accade nella sacrata-esecrabile lussuria (pornografica) dellřAmore dittatorialedettatoriale<br />

della seconda strofa, in cui il finale refulgere di Lei è da intendersi, per minime<br />

commutazioni foniche, come rifiuto del suo arcano risplendere. Che gli Occhi di Madonna la<br />

facciano da Padrone del Padre è fatto repulsivo per Lei-lei, che intende prendersi il diritto di<br />

sguardo, di guardante al reale e non più di Sguardata-Travi(s)ata/trasfigurata: ŖAmenŗ-Ŗdueŗ, se i<br />

due si perdono abbagliati nella con-fusione della Poetica dello Sguardo Novecentesca al suo<br />

spegnersi. A Lei-lei quel che preme è guadagnare il diritto alla parola automusiva: Musa a me<br />

stessa sřintitola il poema che consegue alla dedicatoria, parodia della Tragedia della Poetrice che,<br />

sadomasochisticamente dittatoriale andando Ŗdi retroŗ al Dittatore Padre, inscena attorialmente<br />

come le Ŗvanno stretteŗ le di Lui-Loro Ŗpenneŗ, sineddotiche di una forma-linguaggio di cui intende<br />

destituire la claustral-claustrofobica struttura mirante alla catastrofe. Abbandono qui il discorso<br />

sulla Ŗcatastrofetta” della figura femminile ridotta a parodia di Madonna, destrutturazione che<br />

sorregge il secondo libro, volto infine al tentativo Ŕ come accennavo Ŕ di una rifondazione<br />

annullante (del)l‟immagine, dellřapprodo alla donnità della scrittura poetica come risultato della<br />

quêste. Malvolentieri, perché sta qui, per me, ora, la domanda vivida.<br />

178


179<br />

Ma ho da tornare agli inizi del Viaggio, allřaurorale vegetatività della Nascita della Comèdia dalla<br />

Comedìa per fago-citazioni. E anche qui parto dalla nota finale: in fondo al primo libro si legge, a<br />

moř di glossa paraetimologica, allřapparenza sfacciatamente parodico-grottesca, ŖComedia, comřè<br />

ovvio, dal latino comedereŗ: mangiare. Mangiare la lingua poetica: ecco lo stadio retorico della<br />

vegetatività, la manducatio. La memoria orale dell‟exemplum. Sempre per amor di mimesi mi<br />

avvalgo del fatto originante che il Grande Padre abbandonò la prosa compìta del Convivio per<br />

incarnare i fatti linguistici di cui tratta il trattato, ovvero del parlar materno e muliercolo che<br />

descrive, commenta, di cui auspica il prevalere nellřuso autoriale in versi a lui contemporaneo, nel<br />

crogiolo volgarmente stra-italiano (dialettale, paesano) in statu nascendi dellřinvenzione versale in<br />

terzine, prima forma metrica originale della Scrittura della Manducazione della lingua volgare.<br />

Atto questo da inscenare poeticamente, più che da de-scrivere, se la lingua poetica è, comřè,<br />

inscindibile dallřoralità primaria, cosa che Dante sapeva e diceva prima che lo dicesse la semiotica a<br />

noi contemporanea. Mimesi orale: spessissimo Dante in Comedìa quando metapoeteggia, quando<br />

tratta del suo poetare o del poetare in genere, fa uso di metafore alimentari e perlopiù coinvolte con<br />

lřalimento materno. Allegoria metaforica: quando nomina per la seconda volta Omero, già Ŗpoeta<br />

sovranoŗ (in Inf. IV, 88), lřAuctor Per Eccellenza (Auctor del Suo Auctor, Virgilio, quindi da<br />

intendersi come metonimia del Sé Poetante), lo omaggia come colui Ŗche le Muse lattar più ch'altri<br />

maiŗ (Pur. XXII, 102): kristevianamente, voce e latte materno fluiscono dentro e fuori la Bocca<br />

Poetante felicemente come un unicum imprescindibile nella metaforesi dellřatto scrittorio-orale.<br />

Secondo la regola aurea medioevale dellřipse dixit delle Auctoritates, il rapporto fra Autore e<br />

Autore, in omnia saecula saeculorum, è per lřAntico Padre serenamente simbiotico. Quindi il<br />

passaggio del testimone, nel Canone poetico, avviene amorevolmente, da un Padre/Madre allřaltro,<br />

senza collusioni con la configurazione psicologica personale. Nella Fabbrica Poetica del Parlar<br />

Materno, cui Dante inneggia in più loci, ma in particolare nei canti purgatoriali dellřincontro con i<br />

poeti maestri e sodali (dal XXI al XXVI), avviene lřinveramento degli auspici poietici conviviali.<br />

La Grande Poesia è lřAlimento Vitale per eccellenza, e in quanto tale la Via per la Salvezza<br />

(lřaccesso alla Verità). Il Poema del Padre/Madre (Virgilio) di un Padre/Madre (Stazio) del<br />

Padre/Madre Ŗsovranoŗ del Canone Letterario Italiano (Dante) è Cibo che passa di Bocca in Bocca,<br />

perpetuamente metabolizzabile dal latino al volgare illustre: lřEneide, dice Stazio, Ŗfummi mammaŗ<br />

e Ŗfummi nutrice, poetandoŗ (Pur. XXI, 97-98), e qui Stazio è anche allegorico Alter Ego di Dante,<br />

che con Stazio condivide serenamente tale fratellanza. Il latte della Mamma Nutrice Virgilio, tanto<br />

per fare della psicoallergologia da strapazzo Ŕ ma non perciò meno esemplare nel mio caso - è<br />

allegoria di ciò che perpetuamente manca o avvelena lřIo anoressico femminile, che prende la sua<br />

parola da Lui per colmare (sempre kristevianamente) il vuoto cruciale di dolce/aspro cibo materno.<br />

Mancanza di cibo-parola che solo un Padre/Madre può colmare Ŗpoetandoŗ, avviando un poetare<br />

che però avviene contronatura, nel caso in cui lřexemplum tràdito sostituisca un tradimento materno<br />

nel setting psicolinguistico originario, mediante contraffazione delle figure degli attanti: il<br />

Padre/Madre della Figlia si configura come una Mamma/Nutrice. Se un Padre Musivo latta la<br />

Figlia, allontanata nei secoli la modalità delle Auctoritates e divenuta quindi farsa grottesca<br />

lřallegoresi esemplare di unřAutorialità anacronistica (io non Enea io non Paulo né Dante sono, ma<br />

una scrittrice, piccola così, di fine Novecento…), il meccanismo della Maternità del Padre può<br />

inverarsi solo come per-versione, modalità per (scrivere) versi: insomma, se il meccanismo è<br />

piuttosto psicagogico (nel senso contemporaneo del termine, magico-incantatatorio, orale anche in<br />

questo senso: rituale con cui si evoca lřanima dei defunti per ottenerne responsi, o perché Ŗla morta<br />

poesì resurgaŗ) che allegorico in senso stretto (perché parodico di unřallegorizzare), questo latte<br />

colerà oscenamente dagli angoli di una bocca deviata dal materno verso un allattamento paterno,<br />

che altro non può essere se non una incestuosa fellatio, non per imitazione degli schemi medioevali<br />

ma per bisogni primari mancanti; dřaltronde non è possibile eludere lo psicologismo della<br />

Letteratura Poetica dagli inizi della Modernità in poi, da cui non ci siamo ancora liberati. Da qui la<br />

centralità della Parodia dellřAllegoria alimentare come Incesto col Padre, chiave di lettura de Gli<br />

angoli della bocca, di cui adesso trascrivo i brani a cui mi sono fin qui riferita e di cui non mi<br />

179


180<br />

rimane che glossare gli spruzzi di lattazioni dantesche nellřordine psicoretorico e semantico che le<br />

ha determinate.<br />

Ma prima, riassumendo e concludendo: tutto il discorso verte intorno alla identità-identificazione<br />

originaria del corpo biopoetico della poetante come corpus linguistico originato dall‟actio retorica<br />

della manducatio in quanto metabolizzazione, per fago-citazioni desemantizzanti e risemantizzanti,<br />

del poema dantesco come exemplum della summa della tradizione letteraria di appartenenza,<br />

nell‟intentio di riscattare, per ribellione edipica, l‟atavico mutismo del corpo del Tu Femminile,<br />

che da Imago del poetare maschile si trasforma, comicamente (parodicamente e grottescamente), in<br />

presenza della scrittura vocale di un Sé-Me che prende la parola. Centonizzare i canti purgatoriali<br />

dell‟incontro con i poeti, Padri/Madri e Fratelli sodali del Padre e quelli delle rampogne della<br />

Madre Cattiva Beatrice (trasformata, nella metabolizzazione, da Musa beatificante in madre<br />

punitiva dell‟Incesto Poetico della Figlia), ha senso e ragion d‟essere nell‟ordine psicagogicoanalitico<br />

del poemare della Figlia come Simia del Padre. La mimesis è qui principio (atto iniziale)<br />

di identificazione del Sé. Il poema che fa “macro” il Padre fa magra la Figlia/Amante, suo<br />

virileggiante alter ego: il poemare intorno alla parola lattante del Padre/Madre, costitutiva del Sé<br />

poetante, è, già alla fonte, per il Padre della Lingua Poetica, anoressante. Si aggiunga, nel caso<br />

della Figlia della Lingua del Padre, la dimensione sessuale contronatura dell‟Incesto orale con il<br />

“parlar materno” dei Padri/Madri e l‟ulteriore conferma della per-versione nella protesta del Tu-<br />

Musa-Beatrice che rivendica il suo ruolo primario di nutrice della voce poetica: fatto che salva il<br />

Poeta, dopo averlo dannato come In-fante, approdandolo, con la sua Voce-Guida, finalmente<br />

sostitutiva dei Padri-Poeti (il “dolcissimo padre” Virgilio sparisce quando appare l‟asperrima<br />

Pietra-Beatrice) al “Vero ver” della Teologia che assorbe la Poesia annullandone la necessità, ma<br />

che con-danna ulteriormente la Figlia a restare In-fanta, bloccandone la voce al conato<br />

citazionista non approdante ad alcuna beatitudine che superi lo dittato poetico in Altro da Sé<br />

(laico, non divinizzante). Innanzitutto perché esclusa edipicamente da tale felicitante glorioso<br />

connubio, la Figlia si autodestina non già all‟identificazione – impossibile, in-desiderabile – con<br />

Tale Madre rivale, e quindi non-guida alla Vita Vera ma spauracchio di Musa a Morte, ma alla<br />

presa di posizione di Soggetto vocatorio auto-nomantesi, rispetto ad un Tu-Amata che non la può<br />

rispecchiare (pena il mutismo mortale di cui sopra), ovvero all‟identificazione di un Sé-Me<br />

esorbitante la ditta-dettatorialità educativa del rapporto Io-Tu, dominato dalla Voce lattante del<br />

Tu-Madre, monstrum di ogni setting lirico-poematico da Dante a Caproni et alii, la cui struttura<br />

sarebbe destituenda, pena la non-in-formazione del Soggetto femminile Poetante stesso in quanto<br />

in-dipendente e innovativo rispetto al Canone. Questa parodica allegoria de-lirante può essere<br />

ritenuta esemplare di un processo storico-letterario finora rimosso e dunque inevitabile, come<br />

rimossa è stata l‟identità femminile fino al movimento storico femminista, che ancora non ha<br />

liberato la realtà femminile da ben più cogenti, socio-ideologicamente parlando, anacronismi<br />

legati ai luoghi comuni dell‟Imago. Per cui c‟è poco da scandalizzarsi e molto da stupirsi che<br />

ancora certe dinamiche letterarie a sfondo divistico-pubblicitario, non siano state rilevate come<br />

distruttive dei sé femminili reali. L‟attentato e l‟attantato della mia poesia giustificano la presa di<br />

posizione letteraria contestualizzandola mediante una retorizzazione speculare rispetto al dettato, e<br />

dunque, filologicamente pertinente ad essa letterarietà: il metaforismo-allegorismo metabolico<br />

(perlopiù anche tematicamente alimentare-vocale) mima l‟oralità e le ragioni profonde stesse del<br />

cantare del poema-fonte, del Dante conviviale e comico. Specularmente Comèdia&Comedìa sono<br />

entrambi luoghi retorico-stilistici di purificazione innovatrice di un In-fante (e un‟In-fante) che<br />

prendono la parola dal linguaggio parlato (l‟idioma, l‟idioletto) per farne atto di poietica, di<br />

poesia etico-politica: in questo senso, senza anacronismi, l‟operazione linguistica del Sé-Me è<br />

speculare a quella di Dante, naturalmente come scommessa pro-vocatoria e con le dovute tare<br />

quantitativo-qualitative. Nel mio caso, nel caso della mia fiorentinità biografico-linguistica, si<br />

tratta di affondi leciti e libiti nell‟ esemplarità vitanovistica transpersonale del poetare femminile,<br />

per un tentativo, ripeto, esemplare, di scrivere dei dis-sacrati poemetti avanguardisticamente<br />

decostruttivi ma orf(an)icamente necessitati. E se si considera l‟in-genuinità della motivazione<br />

180


181<br />

profonda, psicolinguistica, di cui ho trattato sopra (l‟anoressia come impedimento all‟oralità<br />

primaria e metaforicamente secondaria dello scrivere in versi), la lectio facilior avanguardistica<br />

dovrebbe cadere a favore di una valenza sperimentale, virtù virtuosistica rilevabile nel superfetante<br />

kitsch de Lo Dittatore Amore, in cui si concreta, dispiegandosi oltre la frammentarità<br />

novecentesca, un ragionar melologando (speculare parodicamente all‟antico ragionar d‟Amore<br />

come prassi stilistica dei Padri/Madri) – avviato nella frammentarietà di Comèdia - fondativo di<br />

una poesia femminile che attesti la propria consapevolezza storico-tematica radicale, avviandola<br />

alle sue inevitabili conclusioni, appunto, storico-letterarie.<br />

Da Gli angoli della bocca, in Comèdia, Milano, Bompiani, 1998:<br />

VEGETATIVA<br />

(I)<br />

Fami freddi vigilie nervi<br />

per i versi soffersi<br />

l'inganno dei sensi. Amari passi di fuga<br />

Adesso l'altra origine<br />

altra causa d'avaritia m'adesca<br />

e ciao mi scappi sul motorino (s'alza un polverone)<br />

in pieno inverno anche tu mi lasci<br />

o mio bel Sanfrediano e anch'io son per la Fiore!<br />

E mi dìa una spuma gialla da 50<br />

tìnnano a i' barre i bicchieri lustri<br />

(cencino molle cencino molle)<br />

tìnnano lustri occhi-monetine nel piatto delle mance:<br />

la porti un bacione a Firenze cantavamo.<br />

Adesso célo célo manca manca<br />

si giocava a soffino alle medie<br />

girando a vuoto s'alzava un polverone<br />

e in avaria andò il motore.<br />

Piatto, piatto d'un encefalo, onfalo bianco<br />

girando a vuoto ancora più ampio mi spazia<br />

in sin dentro l'odore greve<br />

del soffritto della Graziella che mi manca manca<br />

l'odore del mio bel Sanfrediano adesso mi ripesca (che nausea la mattina)<br />

- e parlo come magno -<br />

a destra<br />

e a manca<br />

e ancor più giùe giùe<br />

còlta in flagrante là all'accesso<br />

del panificio aulente ove un bel dì s'innesca (che buco allo stomaco)<br />

la vita infanta<br />

l'amor polenta.<br />

181


182<br />

A moř di protasi, Vegetativa, lřabbrivio del poema della Ŗvita infantaŗ che inizia a prendere la<br />

parola, ha luogo, parodiando la Tradizione, con lřinvocazione alle Ŗsacrosante Verginiŗ, le Muse, le<br />

lattarici, le nutrici di Linguaggio Poetico. ŖFamiŗ Ŗfreddiŗ Ŗvigilieŗ Ŗversiŗ Ŗsoffersiŗ (Purg. XXIX,<br />

37-42): lřinvocazione alla Musa Lattatrice avviene per mancata soddisfazione dei bisogni biologici<br />

dellřinfanta, cioè della Figlia allo stadio orale primario, mancanza del materno, di cui si invoca la<br />

sostituzione (metafora allegorica in funzione metonimica) mediante attuazione dello stadio orale<br />

secondario, la scrittura poetica (lřŗaltra origineŗ) come oralità secondaria elargita dal Padre/Madre<br />

Dante, il cibo amoroso (lřŗamor polentaŗ è un dolcetto fiorentino e Dante appare nel centro storico<br />

di Firenze in lapidi consolatorie, come un dolce esposto nella vetrina di un panificio). La citazione,<br />

risemantizzata dal punto di vista della Figlia Poetante, racchiude anche una allegorizzazione di<br />

secondo grado: il canto XXIX prelude a un momento cruciale per il Viator Ŕ e perciò vi si invocano<br />

le Muse Ŕ al ritorno-parusia di Beatrice, avvento in cui però Madonna appare sorprendentemente<br />

non più come fanciulla angelicata ma sadicamente come Madre Punitiva, la Madre Cattiva che non<br />

latta, anzi il cui latte è amaro, Ŗargumentoŗ velenoso. Gli Ŗamari passi di fugaŗ sono unřeco che<br />

riecheggia Purg. XIII, 118-119: citazione a reminescenza, puramente evocativa, perché<br />

decontestualizzata e desemantizzata rispetto alla fonte, malinconicamente anticipatrice delle parolelatte<br />

velenoso che la madre beatrice-dannatrice elargirà nei canti successivi. Lřŗaltra origineŗ<br />

vegetativa dal Padre/Madre-Musa è Ŗcausaŗ, causante e causata, Ŗdřavaritiaŗ: Ŗavariziaŗ (Purg.<br />

XXII, 23), ma subito dopo, e contestualmente, peccato di gola, avidità di cibo spirituale, Fame che<br />

incita al peccato della lingua poetica in quanto abbandono dal/del materno a favore di un paterno<br />

nutritivo, che nella Comedìa è inscenato nel canto in cui non solo si nomina Omero come il più<br />

lattato dalle Muse, ma in cui compare Stazio, per eccellenza Poeta Alter Ego dellřAutore, Fratello in<br />

quanto Figlio dellřEneide proprio come lui, nonché compagno di viaggio per un bel pezzo.<br />

Entrambi lattati dal Padre/Madre Virgilio, il loro sodalizio è qui emblema della avidità della gola:<br />

condivisa avidità di cibo-linguaggio poetico, se tutta la commozione dei due gemelli simbiotici è<br />

rivolta enfaticamente allřAutore dellřEneide come loro comune modello poetico assoluto.<br />

Spaziando più ampiamente, nel tempo, questo gemellaggio di nascituri al linguaggio poetico del<br />

Padre/Madre lo faccio proprio, mutuandolo e allargandone il senso: Ŗpiù ampio mi spaziaŗ (Pur.<br />

XXVI, 63) è citazione, lievemente variantata, e completamente risemantizzata, da un contesto<br />

intertestualmente cruciale. Il canto XXVI è probabilmente la fonte più importante per la questione<br />

centrale de Gli angoli della bocca: è il canto in cui Dante, accompagnato dal Padre/Virgilio e dal<br />

Fratello/Alter Ego Stazio, incontra Bonagiunta (il Precursore dello stile Paterno/Materno),<br />

Guinizzelli e Daniel, il Ŗpadreŗ di Lui-Autore, ovvero di tutti coloro che usano Ŗrime dřamorŗ, cioè<br />

degli sperimentatori dello Ŗstile novoŗ e Ŗdolceŗ, dei Ŗdolci dettiŗ(Guido) mutuati dal Ŗmiglior<br />

fabbro del parlar maternoŗ (il Padre dell‟europeismo dello Stile Nuovo che accende a Vita Nuova la<br />

Tradizione Letteraria, il provenzale Arnaut). Sciogliendo lřallegoria, qui LřAutrice trova conferma<br />

che il Ŗdolceŗ alimento materno dittante proviene dai Padri del Padre, si trasmette di Padre/Madre in<br />

Padre/Madre fino a fare del loro Cibo-Linguaggio alimento tradizionale anche per la Figlia<br />

Mimetica della Tradizione Occidentale. Accenno appena al fatto che nel XXVI le metafore<br />

alimentari sovrabbondano in una sorta di soddisfazione orgiastica e orgastica e, a tal riguardo,<br />

sottolineo che il Peccato di Gola-Lingua della poesia al suo insorgere orale si macchia della colpa<br />

della Lussuria, da cui si purgano i Poeti: Gola (dal XXII al XXIV) e Lussuria (XXV-XXVI), ovvero<br />

Fame Erotica in-estinguibile (lo Dittatore Amore) sono alla fonte dellřAvidità linguistica del<br />

Poetare come fatto della carne, ritmo sonoro che riproduce i ritmi sensuali (il Senso,<br />

barthesianamente, in quanto sensuale) dellřallattamento e della copula.<br />

Io non so perché la mente<br />

LA PARTE OFFESA<br />

182


non so come s'indementa<br />

Tanto fu dolce suo vocale spirto<br />

mamma fummi poetando dramma<br />

e lasciò il corpo vilmente disfatto<br />

(Opalina opalina, liscia pietra capricornina<br />

uh! pissi pissi bau bau<br />

uh! pizzicorino in onfalo bianco piatto<br />

piatto, piatto d'un encefalo<br />

girandolona di una mamma divertinga)<br />

Fra punto morto superiore<br />

e punto morto inferiore<br />

in avaria andò il motore. Nessuno aveva i suoi occhi e il suo odore<br />

Tutto fu stucco e biacca, grave abbaglio (LUCE!)<br />

malinteso, malefatta (ti sculaccio, oh, guarda!)<br />

- s'intenda - al momento dell'incaglio<br />

d'un rigurgito violento di presame<br />

presa me da te per fame.<br />

DALL'INTERNO<br />

(E qual indulto beata sentenza m'ingiunse):<br />

LE PAROLE SONO UN MOTO CHE VA<br />

183<br />

VERSO L'ESTERNO<br />

Continua, in questo come in un testo successivo che non riporto, il dialogo fra Me/Dante/Stazio in<br />

quanto allegoria dellřAlter Ego del Sé Poetante nascente alla Vocazione. La fonte è Pur. XXI, il<br />

canto dellřincontro col Poeta (potenza del lapsus in poesia: qui addirittura, allegorizzando a maglia<br />

larga, Lapsus sullřOrigine!) Ŗtolosanoŗ, da cui vengono centonizzati, con sostanziali varianti<br />

desemantizzanti e risemantizzanti il Soggetto Poetante e lřOggetto Poetato (e il luogo di formazione<br />

del poièin, i versi 31-32: Ŗampia gola/dřinfernoŗ, sintagma che torna due volte più oltre ma che<br />

commento qui per puntualizzare metaforicamente e concludere circa il Luogo Generico Originante<br />

del Peccato della Lingua-Gola-Voce) soprattutto i versi 88-99. Beatitudine dellřoralità primaria che<br />

si fa in-felicemente secondaria in quanto elargita dal Padre sostituente la Ŗmammaŗ distratta-assente<br />

nellřŗonfalo-encefaloŗ (luogo carnale da cui fuoriesce il poetare: la Ŗmente de-menteŗ vocata e<br />

vocatrice, è ventriloqua, lallatrice, gode kristevianamente e barthesianamente producendo Senso<br />

Sensuale, Suono e Ritmo) Ŗpiattoŗ: è lřeccitazione sessual-alimentare data dal Padre/Madre tramite<br />

la Voce come contatto primario-secondario, in assenza della quale lřonfalo-encefalo rimarrebbe<br />

anoressicamente piatto, morente, in presenza della quale il Ŗpiattoŗ diventa recipiente di Cibo Orale<br />

Informativo. ŖTanto fu dolce mio vocale spirto (…)(…) mamma/ fummi, e fummi nutrice,<br />

poetando:/(…) drammaŗ; lo Ŗspirto vocaleŗ, la virtù poietica, Suo, di Dante/Stazio come<br />

Padri/Madri Alter Ego del Sé Poetante originantesi nella Ŗgola infernaleŗ del poièin orale, Ŗfummi<br />

mammaŗ Ŗpoetandoŗ e perciò Ŗdrammaŗ: se le prime due citazioni sono semanticamente parallele<br />

alla fonte, la terza attua una deviazione semantica, rispetto al locus testuale, virando la ri-<br />

183


184<br />

conoscenza verso le fonti in una desemantizzazione-risemantizzazione che la deflagra, con un coup<br />

de thèatre repentinamente decontestualizzante, in Tragedia Esistenziale. Lřoperazione sublimante<br />

del passaggio di testimone dalla Tradizione Comica del parlar muliercolo-nutriente dei Padri Ŕ che<br />

non fermano Ŗpeso di drammaŗ senza la dipendenza simbiotica dal Poema Madre - arriva alla Figlia<br />

dal Ŗdrammaŗ dellřassenza di Ŗmammaŗ: per-versione che ha ben maggior Ŗpesoŗ di una dracma.<br />

ŖE lascia il corpo vilmente disfattoŗ (Pur XXIV, 87), citazione decontestualizzata, variantata e<br />

risemantizzata: disambiguando le allegorie, lřatto nutritivo che sřinscena facendo il verso al Poema<br />

Madre del Padre non può dissimulare fino in fondo lřopera di contraffazione dei Soggetti Attanti,<br />

altrimenti teatrale, tragica, che esige. La scena allegorico-reale del Ŗcorpoŗ della Figlia Anoressica<br />

Ŗvilmente disfattoŗ dalla Madre Cattiva, che Ŗlascia il corpoŗ (Ŗanche tu mi lasciŗ, in Vegetativa)<br />

dellřin-fante a bocca asciutta - Ŗmacroŗ fa il corpo il poema, e così le stratificazioni e i cortocircuiti<br />

sensoriali del dittato inseguono il senso per fini compensativo-dissimulatorii - è metonimicamente<br />

assai prossimo alle terzine che nel XXIV, nel canto della Ŗsanta greggiaŗ dei Padri Poeti Materni,<br />

inneggiano alla gloria del Dittato Amoroso Salvifico dello Spiro, della Voce che si fa Nutrice, per la<br />

Figlia, sostituendo il di lei corpo morto che cade nel di Lei Corpo Vocato. Frana rumorosamente su<br />

se stessa lřopzione de-sublimante? Eř il rischio che ho corso ne Lo Dittatore Amore, melologando a<br />

perdere la Voce dei Padri. Nel finale il testo denuncia il quando e il come del misfatto incestuoso<br />

(Ŗmalinteso, malefattaŗ) della presa di posizione di Lei scrivente-orante nellřassunzione del Latte<br />

Paterno come nutrimento costitutivo del Sé-Me poetante a de(-nu-)trimento del soggetto femminile<br />

reale: nel Ŗmomento dellřincaglioŗ, della formalizzazione, di un Ŗrigurgitoŗ (le citazioni del Poema<br />

tornano a gola) Ŗviolentoŗ (contronatura) Ŗdi presameŗ (lřin-caglio poetico del dittato del Padre)<br />

Ŗpresa me da te per fameŗ. Chi si prende in affidamento la Figlia, al-levandola alla Madre Cattiva<br />

è il Padre-Corpus poematico. Questione cogente del prossimo frammento.<br />

BOCCHINO<br />

Come il presame fa nel latte<br />

coagula colloso sperma in bocca - ingoio, sorrido -<br />

il sangue mi s'incolla nel cervello (sorriso opalescente)<br />

e dove coli sboccian le boccàgnole I Con gli angoli della bocca cadenti<br />

o fuoco di Sant'Antonio da preziosissimo sangue.<br />

Comparsa nel segno dell'eccitamento :sciagura I<br />

la pappa in capo ella mi manduca<br />

mostrandomi il partito preso delle cose,<br />

cosa succede cosa succede, oh Sacrocuore,<br />

se si sposa la luna.<br />

Ma chi la vendica, chi la vendica ora la mendica,<br />

la luna?<br />

Questa sboccata boccalona<br />

questa simpaticona<br />

che attonita ti chiama, (per nove giorni, per nove notti<br />

- finché non fece la luna -)<br />

o scemo della luna,<br />

il mezzo sorriso che schiocchi<br />

che mi schiocca ogni morino quando abbocca.<br />

Poi per nove giorni per nove notti<br />

ti mangiasti un bigoncio di suppa<br />

184


secondo l'usanza d'omicida Cupido<br />

ti mangiasti la suppa cupidigia,<br />

biasciavi come un vecchio sdentato,<br />

o scemo della luna, succhiando ti colava<br />

dagli angoli della bocca, biasciandomi<br />

me pappa, scemo della luna sdentato (ingoiavi, sorridevi)<br />

e abbioccato sulla mia tomba mamma (sorriso impeccabile:<br />

c'è una LUCE! sul tuo volto)<br />

rumorosamente t'ingoiasti impunito - ingoio anch'io sorrido -<br />

la vita infanta<br />

il cuore infranto.<br />

Finché non si spense la luna<br />

(Moderare con quiete)<br />

(pispigliando) CHI CERCA NUTRIMENTO CHE NON NUTRE<br />

BARCOLLA DA BRAMA A VOLUTTA'<br />

E NELLA VOLUTTA' LA SETE DI BRAMA LO CONSUMA.<br />

185<br />

Il titolo, iperconnotativo, e i primi versi, allegorizzano, stigmatizzandolo con un termine fra i più<br />

volgari per designare la fellatio ma scelto per indicare che essa è lavoro di una piccola bocca, di una<br />

bocca in-fantile, esemplarmente che il concepimento del linguaggio poietico in atto avviene tramite<br />

rapporto orale con il Padre, il cui nutrimento poetico-vocale è, appunto, latte paterno, sperma: perversione<br />

del normale meccanismo con-fusionale latte-voce che origina lřatto poetico al suo<br />

insorgere. Per circuire allegoricamente questo luogo del testo poematico, vertiginosamente cruciale,<br />

torna il termine desueto, arcaico come il processo stesso di cui si parla, Ŗpresameŗ, già in clausola<br />

del testo precedente. Il luogo di riferimento per questa designazione metaforica è una postilla tratta<br />

dal commento dellřOttimo, o dellřAnonimo Fiorentino, a Purg XXV, 37-59, in cui Stazio apre una<br />

parentesi dottrinaria prescientifica circa le credenze partenogenetiche dellřatto concezionale e<br />

quindi dellřorigine dellřanima umana, secondo cui la generazione dellřhomunculus-seme è opera del<br />

solo padre, essendo la madre-matrice mero ricettacolo e luogo di sviluppo di esso. Il sanguesperma,<br />

Ŗcoagulandoŗ con il mestruo materno non sgorgato, Ŗcome il presame fa nel latteŗ<br />

(Anonimo Fiorentino), comincia ad esercitare la sua Ŗvirtute informativaŗ, Ŗvirtù chřè dal cor del<br />

generanteŗ, ovvero lřinsufflazione nel feto dellřŗanima vegetativaŗ. La Virtù In-formativa,<br />

scientificamente così definita dai teorici contemporanei dellřOralità Secondaria come specificità<br />

della scrittura poetica contemporanea, arriva qui a coincidere alla lettera, con il modello<br />

prescientifico allegorizzante la coincidenza perversa fra oralità primaria e secondaria dal Ŗcorŗ del<br />

Padre Ŗgeneranteŗ! Figlia di Solo Padre: potenza delle simbologie partenogenetiche nella cultura<br />

occidentale, così testardamente misogina… Alla costituzione dellřanima vegetitiva segue la<br />

manducazione del Verbo, ormai concepito oralmente e cordialmente, passando da Padre a Figlia di<br />

bocca in bocca, in un bocchino che succhiando metabolizza i coaguli versali, colati e digesti nella<br />

lattazione, dal Poema del Padre (boccàgnole ec-citazionali) e così facendo la Figlia della Tradizione<br />

si fa Ŗsboccata boccalonaŗ, cresce in poetricio (meretricio poetico incestuoso). Ma chi spiega il<br />

processo è Stazio, il Fratello, emblema, qui diminutivo, di un fratellino reale la cui nascita sottrae la<br />

mamma sadico-fallica, anoressando ancor più la bocchina della sorella… I processi metabolico-<br />

metamorfici del linguaggio si sviluppano rapidamente Ŕ come le evoluzioni di una morula<br />

linguistica eccitata geneticamente Ŕ in contenuti riferentesi a gelosie transbiografiche che cagliano<br />

nella tripla ripetizione, in funzione decontestualizzata, rincontestualizzantesi in mini-invettiva,<br />

ingiurioso-esorcizzante, volta alla presenza di un fratellino rivale in lattazioni, tramite una<br />

185


186<br />

minicitazione dantesca, anchřessa incagliata in una perifrasi parascientifica di tipo astronomico, lo<br />

Ŗscemo della lunaŗ (Pur X, 14), che non è la letterale mezzaluna ma il nuovo Řcocco di mammař, la<br />

cui nascita infranse il cuore appena in-formato dellřin-fanta. Ahi! Lo Dittatore Amore!<br />

COM'E' COM'E' QUESTO DIMAGRIMENTO?<br />

Ad un tratto s'incupisce e fa boccuccia<br />

e scoppio di pianto violento (VAMPATA)<br />

vacilla e brocciolando cocciuta<br />

balza en travesti sull'infame boccascena<br />

della vita infanta testarda.<br />

Eppur non tragge, no, la voce viva ai denti<br />

la voce vaca nella sede sua,<br />

la voce spenta - e s'impappìna, traballa -<br />

ché nella bocca secca tranquirisce la mente<br />

per il sapor della pietade acerba.<br />

Indi si morde le mani fino all'osso a sangue<br />

e proprio non sa come non sa come come<br />

la sua mente trastullando<br />

trastullando s'indementa<br />

quand'è vacante la sintassi di sue vaghe membra<br />

sparte nel profondo della testa.<br />

Onfalo bianco, piatto piatto d'un encefalo,<br />

mi mostri il partito preso delle cose:<br />

la costrizione della mente (onde mi struggo ed ardo<br />

per chi arsi ed ardo ancor<br />

canto e cantai)<br />

la coscrizione della mente (onde mi snervo e spolpo<br />

onde mi snervo e 'mbianco<br />

sudo e addiaccio)<br />

di cui conven che sempre scriva e canti.<br />

Ed in guai si converte ogni mio gioco: (CALDANA)<br />

alla mamma piacciono i maschi<br />

odiamo i nostri poveri amanti.<br />

Data la conclusione della precedente, lřazione anoressante è pienamente avviata a recepire le sue<br />

concause. La boccuccia dellřin-fanta grida la mancanza della gest(az)ione materna nonostante la<br />

sostituzione partenogenetica. Qui non il Padre/Madre Dante ma la Madre Cattiva Beatrice è il<br />

personaggio principale del referente poietico: l‟inf-anta che resta a bocca asciutta è pertanto<br />

condannata alla frammentarietà del discorso per secchezza di fauci da terrore abbandonico. E Dante<br />

Ŗfantolinoŗ ammutolito dal Ŗrespittoŗ inibitorio al cospetto della Ŗmammaŗ Ŗprotervaŗ Beatrice<br />

(Purg XXX, 44; 70) è qui il modello del performante del Ŗdrammaŗ (Ivi, v. 46) del Me poetantebalbettante,<br />

castrata nel crescere del canticare, ridotta ad una sorta di fantozziana diminuzione<br />

dellřIo scrivente-orante, condannato, dallřassenza del materno, al non essere, impedita a godere il<br />

186


187<br />

Sommo Bene Vocale elargito dal Padre. Da Ŗeppur non traggeŗ a Ŗpietade acerbaŗ i luoghi<br />

parodicamente centonizzati e risemantizzati sono tratti da Purg XXX, 79-81 e XXXIII 25-33, luoghi<br />

testuali puntualmente riferentisi agli effetti di paralisi vocale, poietica, che riconducono il corpo del<br />

Sé Poetante al corpo muto dellřio femminile, cui la dipendenza dalla Madre Anoressante<br />

destinerebbe. Corpo muto e smagrito che smarrisce la sintassi delle sue membra allegoriche,<br />

poematiche e anatomiche: il corpus an(im)atomo-poematico promesso e non mantenuto dal<br />

Padre/Madre. La maschera del Me in continuando a poemare è qui un altro Alter Ego Fraterno di<br />

Dante, il sodale Forese, le cui fattezze corporee si disfano nella magrezza cui lo condannerebbe il<br />

suo peccato di gola-lingua per-verso, allegoresi senza tregua del destino che congiunge in Comèdìa<br />

cibo (mancanza di) e poesia. Purg. XXIII, 40-44: disfatto nellřaspetto corporeo, sparito come corpo<br />

reale e ridotto a qualcosa di riconoscibile solo Ŗnel profondo della testaŗ Ŕ nel messaggio inviato<br />

dallřencefalo non piatto, ma parlante, puranco se purgatorialmente dis-onfalato dalla pena<br />

dellřaffamamento perpetuo che lo consumerà fino a purgazione avvenuta -, Forese è riconoscibile,<br />

in quanto quel poeta che fu, solo dalla voce, nuovamente extrema ratio di futuro riscatto. Perché<br />

proprio la Voce Poetante, per la virtù Mistica che Dante le conferisce, lo salverà, in quanto<br />

appartenente alla Ŗsanta greggiaŗ (Purg XXIV, 73) privilegiata metafisicamente, quella della Santità<br />

Poietica dei Fabbri del Volgare (fra cui anche il bécero Forese: salvati dal turpiloquio!…), molto<br />

vicini, per la teoresi dantesca, alla Voce Dolce del murmurare divino (si pensi soltanto alla<br />

vertiginosa estasi mistica che permea lřaudizione dantesca della Voce ossimorica, dolce/aspra<br />

dellřŗagugliaŗ-Ŗalodettaŗ nel Cielo di Giove, che premia la Giustizia Ideologica Ŕ Poietica per<br />

Dante -, ben più misticamente, a mio modesto avviso, della Visione Trinitaria Tutta Luce del gran<br />

finale del Sacrato Poema).<br />

RECITA DI FINE ANNO AL RONDO' DI BACCO<br />

Infarinato capo di penitente vèglia<br />

indi balzai sul boccascena<br />

in fin di vita infanta (LUCI DELLA RIBALTA!)<br />

io fui alle medie<br />

la Contessa Maffei Claretta<br />

monologante in vesta iettatoria violetta<br />

sola scrosciata d'applausi (fui lieto calice io, proprio io)<br />

io proprio io<br />

l'acclamata Claretta fra grida e schiamazzi<br />

delle compagne tutte e anche de' maschi.<br />

La Contessa Claretta Maffei - va' pensiero cantavamo -<br />

Rosi la pasionaria (va' 'ia va' 'ia)<br />

io fui alle medie appena sessantenne<br />

qual sessantenne illibata in menopausa<br />

da tutti a gran voce prescelta:<br />

per voto unanime della classe<br />

lì sola sul boccascena a scaniconi<br />

col tombolo in mano lì (- anche tu mi lasci -)<br />

tombò la mia carcassa su una sedia, stravaccata<br />

vèglia io fui burattina tutta fiacca<br />

- rilasciata -<br />

tranne il tentennante testoncino<br />

di cocco e biacca<br />

(- tìnnano i bicchieri lustri):<br />

libiam nei lieti calici! -<br />

187


(LUCE!) e (VAMPATA!)<br />

Così furon distrutti li miei spirti<br />

tutti tranne li spiriti del viso - facciona di luna -<br />

Poi si spensero le luci (ECCESSO)<br />

(: ma la virtù quello sguardo m'indulse).<br />

Da allora le mense bruttate<br />

e gola d'inferno teatro.<br />

SIPARIO<br />

188<br />

Si conclude così il primo capitulum del rito dřiniziazione al linguaggio del Padre. ŖIn fin di vita infantaŗ<br />

il Soggetto Poetante Femminile veste la maschera del suo Sé-Me transpersonale, o meglio<br />

prende finalmente corpo, corpo di parole, il Sé-lei come voce in maschera di una Poetrice, Viatrix-<br />

Attrice sul Ŗboccascenaŗ, attante nella scena della bocca poetica, collusa col teatro, della Poesia del<br />

Padre/Madre Fiorentino. Maschera, Simia del Padre, sua grottesca con-sorte: Ŗcocco e biaccaŗ<br />

(prelievo da Purg. VII, 73, desemantizzato rispetto alla fonte) sono emblemi della sua, di Lei-lei,<br />

maschera teatrale melo-drammatico-logica: la Ŗgola dřinfernoŗ, matrice poietica, diventa Ŗteatroŗ<br />

delle mutazioni dellřIo-Tu in Sé-Me. Ma siamo appena agli inizi Ŕ questo processo avverà<br />

propriamente ne Lo Dittatore Amore Ŕ: bisogna fare ancora i conti con il retaggio linguistico del<br />

padre reale, altra origine dialettale che non commenterò, attenendomi a quanto di ancora dantesco<br />

affiora nel secondo capitulum del poemetto, il cui abbrivio riconferma il discorso sulle origini<br />

partenogenetico-incestuose dellřanima poetante allo stadio oral-vegetativo.<br />

VEGETATIVA<br />

(II)<br />

Ma ancor più giùe giùe<br />

là dove è pianto e stridore di denti<br />

nella natura amorale dell'estate Du'lucertole s'appiccano in corsa<br />

larghe gambette in fuga per otto<br />

ha' voglia a sterpagliare ogn'anno<br />

Versailles se la rimagna la natura Per tomolate, a perdita d'occhio<br />

E vedo che già non son né un né due a mischiar lor colore<br />

mentre ti faccio ancora le sguerguenze (anchéggio anch'io, saltello)<br />

falsificando me in altrui forma.<br />

Ha' voglia a disterpare a diserbare<br />

tutt'intorno ci smangiucchia la natura<br />

e vedo già che non son né due né una<br />

ma bimbìa rossa alfine, certo, rossa malpelo tacco-punta<br />

tacco-punta<br />

anchéggio anch'io, saltello<br />

S'abbarbica la buganvillea<br />

e le sue foglie di foglie<br />

188


i fiori suoi di foglie sanguisuchi - sto sulle spine io, ti spio -<br />

tutto ti rimagnano lu Filiciaru<br />

tutta ti risucano la casa della mente<br />

cinico re, mio possidente.<br />

189<br />

La metamorfosi allegorizzata dellřIo-Tu nel Sé-Me che consegue allřinizio del processo di<br />

metabolizzazione della Lingua dei Padri riecheggia inevitabilmente il canto per eccellenza del<br />

metamorfosarsi dei corpi in altri corpi in maniera virtuosisticamente teatral-linguistica: il XXV<br />

dellřInferno, in cui lřapice del virtuosismo Dante lo raggiunge Ŕ a dispetto dei Padri Classici Ŕ nei<br />

momenti magmatico-grotteschi in cui la Creatura non è Ŗné un né dueŗ: fuor di metafora si tratta del<br />

trapasso dell‟Identificazione del Soggetto Femminile Poetante da un Io-Tu ad un Sé-Me che, per<br />

attestarsi, veste la Maschera della Figlia Incestuosa, più unica che rara maschera nella letteratura<br />

nostrana (figura altamente censurata dal moralismo ginofobo del Canone Patriarchista): Mirra.<br />

ŖFalsificando me in altrui formaŗ sostituisce metonimicamente, risemantizzandolo contestualmente<br />

alla presa di parola della Figlia Incestuosa, Inf. XXX, 41: Ŗfalsificando sé in altrui formaŗ. Tragica<br />

allegoria: questo peccato di contraffazione dell‟Io femminile (del Tu!), della presa di posizione<br />

come Personaggio Auctor-Actor della Femmina Fonica (La Poetrice) è, secondo la lezioneinterpretazione<br />

del Padre Dante, paradossalmente, più grave addirittura dellřatto di lussuria<br />

incestuosa della ragazza. Inf. XXX, 37-41: Mirra è Ŗscellerataŗ non tanto perché Ŗdivenne/al padre,<br />

fuor del dritto amore, amicaŗ quanto perché Ŗvenneŗ Ŗa peccar con essoŗ Ŗcosìŗ celando la sua vera<br />

immagine, il suo viso, il visus spirtal-spirituale del Tu femminile! Velato per commerci carnali: per<br />

prendersi dal Padre il corpus poematico; lřhomunculus vegetativo sottratto a tale amplesso, il<br />

concepimento generativo che ne deriva, giace taciuto nel tenebroso sottotesto ovidiano (in cui si<br />

narra che dallřamplesso di Mirra col padre Ciniro Ŕ che qui si trasforma a lapsus in Ŗcinico<br />

possidenteŗ Ŕ sortì una gravidanza) che qui, scelleratamente, il poemare della Figlia rimette in<br />

funzione, ignobilmente smadonnandosi:<br />

LE PARTI IGNOBILI<br />

Ma ancor più giùe giùe<br />

ubi non trovo dante ubi consistam<br />

là dove l'altra origine m'appesta Le parole tendono ad essere<br />

inadeguate al tanto temuto<br />

contenuto<br />

una sbiobbina cammina tutta di trache,<br />

non sarà mica la storpia<br />

di quella poesia di mio padre? (mi lusso anch'io, anchéggio)<br />

E vedo che già non son né un né due<br />

mentre cresce di grano e io non granisco. Per tomolate, a perdita d'occhio<br />

Che il gemellaggio è improbabile<br />

lo rivelano le proporzioni, Nessuno aveva i suoi occhi e il suo odore<br />

se l'una si china sull'altra (anch'io m'inchino a te, mi chino)<br />

per sganciarle i bottoni.<br />

Ma come La Vecchia anche lei<br />

è di grossa caviglia<br />

e tutta a lui centimane s'appiglia<br />

189


(pispigliando) ADOPERANDO PER LA PRIMA VOLTA LE MANI FINALMENTE CAPII<br />

PERCHE' MIO PADRE ERA STATO UN UOMO FELICE.<br />

190<br />

Dove Dante non è più donante lřubi consistam informativo, nellřinferno dellřincesto reale<br />

dissimulato in poemando i primi versi auto-nomantisi del Sé-Me transpersonale che inizia a<br />

registrarsi in quanto voce propria, la Poesia del Padre/Madre viene detonata in Ŗpoesia di mio<br />

padreŗ, accidente autobiografico trascurabile, rimovibile a petto della futura melologia della Vita<br />

Nova poietica del Sé: il Ŗgemellaggioŗ che fin qui ha funzionato Ŕ fin qui Autorizzato Ŕ diviene<br />

ormai Ŗimprobabileŗ, letterariamente improponibile. Bisogna passare ad altro, prenderSi un Nome<br />

Proprio, iniziare a far coincidere il Me Poetante con la Dittatrice del Sé:<br />

NEI COLORI PRIMARI - COME DICEVA LA DUSE - “OGGI REALIZZO”<br />

Toh!, una bòtta sulla coscia<br />

ergo esisto, dunque sono: questo:<br />

terra grassa, campagna<br />

occhio e cuore di bue.<br />

Esisto e dunque sto<br />

intr'a ddu' alivari<br />

Donna Rosina s'annoda languida treccia<br />

e guarda gemere il miele dai fichi,<br />

mmhh... gua' che goduria (che giulebbe)<br />

intr'a ddu' alivari ccà<br />

c'è lei proprio lei lei<br />

lei poppone lei scarponcelli slacciati<br />

lei di caviglia pesante lei<br />

la nobil contadina d''a Poèria,<br />

chidda c''u ficu se ll'ingoia intero,<br />

'u ssai? Glop, intero!<br />

Il latte di fico mi brucia il labbro (spia rossa s'accende)<br />

dunque esisto e sono<br />

in cassetta di sicurezza<br />

l'anello il bracciale e la spilla R<br />

l'eredità dell'ava platinata e brillante R<br />

che qui giace in pace sorridendomi mesta<br />

acquitrinosa livida ametista R<br />

E allora un'altra bòtta sulla coscia e via<br />

mi strofino mi scortico un polpaccio,<br />

arrossisco tutta e sono ancora e sempre<br />

ancora e sempre ancora e sempre (VAMPATA!)<br />

Donna Rosarina dei Poèrio (- Quando era sbronzo concionava come il<br />

celebre avvocato di Casabona, almeno<br />

così gli pareva, poeraccio -)<br />

Donna Rosarina la Paccia - vino, vino per tutti, offro io! -<br />

Donna Rosarina 'u Poeta - offro io! -<br />

l'orator di piazza, l'orator latinorum,<br />

che di necessità qui si registra<br />

190


anche se credo invero non esista.<br />

Lui cresce nel grano mentre granisco:<br />

'u pane 'e Capizzaglia<br />

affogato nel vino<br />

mi gonfia la panza.<br />

191<br />

Nel non-Nome del Padre, per irrisolta inibizione partenogenetica, lřIn-fanta Innominata diventa<br />

finalmente, nel mezzo del cammino del Sé nascente, Donna Rosarina Poeta, Donna e Poeta, un poř<br />

perché, come vorrebbe la letteratura femminista, Poeta in latino è femminile (anche se non siamo<br />

ancora esentate, nonostante tutto, da un complesso narcisistico di virilità…), un poř perché la<br />

definizione Poetrice non è giustamente esentabile da parodizzazioni grottesche; A(u)(t)trice, Ŗche di<br />

necessità qui si registraŗ (Purg. XXX, 63) Ŗanche se credo invero non esistaŗ in quanto Io, Lei-lei<br />

essendo, beckettianamente, s-faccia-tamente/teatralmente un Not I, una Bocca Anonimamente<br />

Transpersonale. Come il Padre/Figlio al cospetto di un Sé/Madre del proprio dire paradisiaco<br />

destituisce, per esaustione di mitopoiesi stilnovistica, il potere inibitorio del Tu/Madre-Musa<br />

Angelicata, purgandosi del peccato lussurioso che in gioventù lo travi(s)ò dal Sommo Bene<br />

Teologico, il Sé della Figlia di solo Padre abbatte il di Lui narcisistico Io Lirico-poematico<br />

esclusivamente fallico-nutritivo, che per Lei-lei, in quanto tale, semplicemente non avrà più<br />

necessità teleologica di sussistere, se lei infine si assume la responsabilità poietica di un proprio Sé<br />

corpo-linguistico. Ora che il concepimento e la filiazione orale (Ŗmi gonfia la panzaŗ) del di lei<br />

linguaggio poietico, sia pur concresciuto partenogeneticamente da quello di Lui/Loro, è stato informato<br />

dal Ŗdanteŗ, può attendere ad ulteriori sviluppi poietici, arrotandosi i denti (granire: verbo<br />

che indica movimenti della bocca infantile in fase incipiente di dentizione) in vista di altre<br />

manducazioni. Ahi! Lo Dittatore Amore!<br />

191


Su Thèrése di Florinda Fusco<br />

192<br />

Nell'attualità porta ad un suo straordinario esito il processo di scrittura poematica di Florinda Fusco,<br />

in cui l'autorizzazione del Sé-corpo alla scrittura epica diventa presa di possesso, accesso e<br />

dilagazione dello spazio grafico del poema 'in lungo e in largo', abolendo la schiavitù metrica.<br />

Abbandonate le categorie canoniche versali del Poema dei Padri, abbandonate le controfigure<br />

metriche e/o parodiche di Rosselli-Vicinelli-Lo Russo-Valduga, la forma poema al contempo si<br />

disgrega definitivamente rinunciando alla tentazione della canonizzazione patriarchista fra le fila<br />

dei Santi Padri e finalmente osando dare corpo testuale alla Santità delle Sante Madri tramite il farsi<br />

parola del Sé-corpo femminile a prescindere dal canone poematico maschile.<br />

La Santità del corpo-voce-scrittura-immagine della Fusco ha per vessillo un titolo ipertestuale che<br />

dichiara implicitamente il modello testuale di riferimento: Thérèse è il nome delle due mistiche<br />

scrittrici più feconde, famose e amate dalla tradizione canonica (in questo caso in senso<br />

ecclesiastico oltre che letterario, ma è evidente che storicamente le poche donne non analfabete<br />

appartenevano alla società ecclesiastica, visto che la secolarità riduceva le donne al rango di mogli o<br />

amanti, annullandone la personalità), la Grande Teresa d'Avila e la Piccola Teresa di Lisieux, un<br />

Nome, insomma, quello di Thérèse, che copre emblematicamente l'intero arco della spazialità e<br />

temporalità po-epica femminile dal punto di vista storiografico della scrittura come autonarrazione<br />

(la ricerca del Sé) che precede la recentissima nascita della poesia poematica delle donne,<br />

poematica, ovvero svincolata dalla gabbia lirica amorosa di maniera e volta alla ricerca di modelli<br />

altri.<br />

La sacralità del nuovo modello testuale esalta la ricerca del Sé corpo linguistico nello spazio<br />

dilatato della scrittura, dove il bianco lungo e largo che circonda il flusso po-ematico diventa luogo<br />

di espansione, appropriazione a abbandono al linguaggio del Sé come corpo poematico, luogo<br />

fecondo di dissanguamento e dissipazione dell'antica unità versale fonoritmica del poema classico<br />

in un continuo decentramento atono/aritmico/telegrafico di linee (così Fusco definisce i suoi versi)<br />

esplose dal Ŗquadratoŗ rosselliano (di cui la stessa Fusco ha trattato criticamente) e dalla<br />

compattezza fonoritmica del (dis)sacrato poema Sequenza orante ne la Comèdia del Sé tracciata<br />

dalla sottoscritta. Si tratta dunque di tutt'un'altra storia rispetto a presunte matrici<br />

neoneoavanguardistiche (di cui già si lamentava Ŕ e a ragione Ŕ Rosselli, ma tant'è, il Gruppo '63 e<br />

successori hanno tentato di inglobare noi femmine poematiche nel loro discorso, un'operazione<br />

criticamente inaccettabile dal punto di vista storico-letterario, anche se va riconosciuta agli<br />

esponenti del Gruppo '63 la bontà di averci benedette autrici).<br />

Nelle linee-vettori della esplosione del versificare poematico di Lo Russo (Lo Dittatore Amore.<br />

Melologhi in particolare) e di Fusco viene meno la necessità del verso tradizionalmente inteso, che<br />

collassando si trasforma in extensions di un Sé corpolinguistico da inventare, un'eroina epica che<br />

abbandona la pesantezza (in senso weiliano) dell'Io poematico canonico a favore<br />

dell'ŗinvuotamentoŗ (parola usata da Fusco ne La signora con l'ermellino) dell'Io, sostituito dalle<br />

tracce trapelanti, flebili e rigogliose al contempo, della grazia (nel senso weiliano del termine) del<br />

Sé, piuttosto imparentato, se proprio vogliamo trovare un antecedente fuori dal canone poetico<br />

italico, al monologante Not I di Beckett piuttosto che alle scomposizioni teatsuali delle<br />

neoavanguardie.<br />

Le matrici poematiche femminili di Fusco, piattaforme di lancio testuale per l'inveramento nella sua<br />

scrittura del Sé-corpo di linguaggio, sono filosofiche: i nuclei aforistici di Weil e Arendt compaiono<br />

nel bianco della pagina come puntelli di sostegno ideale e ideologico; e poetiche: le sue linee sono i<br />

vettori che il quadrato armato della Rosselli di Variazioni belliche Ŕ da lei criticamente scassinato Ŕ<br />

dirama nello spazio bianco del suo impaginare l'esperienza. Ma non meno presenti alla sua scrittura<br />

Ŕ forse solo come adesione al progetto-poema, mi paiono i panegirici della libertà dei libella di<br />

Rosselli e della sottoscritta, che hanno dato l'avvio al trangugiamento e rimetabolizzazione delle<br />

fonti poematiche canoniche, facendo da apripista a questa scrittura che si è liberata dal versificare in<br />

antiche lingue toscane definitivamente archiviando la parodia del colosso patriarchista.<br />

192


193<br />

Ma una per tutte, attestandolo con estrema lucidità nella grande intrapresa ipertestuale e<br />

multimediale del poema (che ormai è già scrittura altra, oltre ogni genere) Thérèse, Fusco esplicita<br />

che il modello per la nuova Santità non sono i Santi Padri, ma le Sante Madri, le mistiche scrittrici.<br />

Il modello storico del poema Ŕ nella nuova accezione di autonarrazione sperimentale ed<br />

esperienziale del Sé Femminile Ŕ è la testualità scritta-orale delle Sante, attive testualmente dal<br />

medioevo ad oggi, quindi una vera e propria tradizione canonica che le poetesse fanno propria: la<br />

vera e propria fonte canonica. La scrittura mistica femminile europea è il modello del poema<br />

italiano femminile dal secondo Novecento in poi; lavora nel sottotesto e nel linguaggio della<br />

Rosselli, esplode in Sequenza orante, struttura e dilaga nell'ipertesto di Fusco, dove però lascia<br />

decantare il piglio eroico e, recuperando il vecchio stratagemma manzoniano del manoscritto<br />

ritrovato Ŕ ma parodicamente e paradossalmente rivendicandone il piano di realtà! - lo trasforma in<br />

diario di una qualunque, una donna comune, una donna socialmente diversa ma non più identificata<br />

con l'icona della poetessa epica, orante alle folle, come ancora ingenuamente aspirava Rosselli.<br />

Dunque, se la scrittura delle sante era storicamente autorizzata dai Padri (i confessori, Dio), se la<br />

scrittura delle poetesse poematiche era testualmente autorizzata dall'obbedienza alla Santità dei<br />

Santi Padri del canone letterario a dire il Sé scrivente in versi (parodicamente in Rosselli-Lo Russo,<br />

acquiescentemente imitativo nel caso della Valduga che neometricamente fa il verso ai Padri per il<br />

puro piacere del testo, senza smarcarsi dall'obbedienza), Thérèse è il personaggio-autore del proprio<br />

macrotestuale Diario, in cui si canta e in cui si narra, si disegna e si fotografa la conquista di un Sé<br />

Transpersonale sperimentato in tutte le sue declinazioni, dall'Io Esperienziale dell'Autrce, al Noi<br />

della ragazza ignota del manoscritto ritrovato: l'Io-Sé si consegna alla scrittura: questa è la resa<br />

poematica della flussuosità di Florinda. Se l'Autorizzazione (= l'essere autrice) delle progenitrici<br />

proveniva non dall'Io-Sé ma dall'Altro da Sé (l'Io/Dio), se il modello di Auctoritates viene<br />

rovesciato dalla rivoluzione poetica del secondo Novecento, l'Autrice del Duemila può spaziare fra i<br />

molti Io e i molti Sé in vertiginose espansioni dilatazioni contrazioni e dissanguamenti mistici di un<br />

Grande Corpo Testuale che si confessa liberamente scegliendo la sua tradizione, le sue fonti, i suoi<br />

modelli multimediali. La confessione, nel senso letterario anglosassone del termine, resta però un<br />

modello valido per la scrittura. Cantare-narrare la propria e altrui storia femminile rimane, in Fusco,<br />

un atto del donare: la scrittura visiva del poema, il suo spazio di immagini, è una vestizione<br />

divinizzante del corpo femminile al fine di farne (=poièin) un Sé corpo.orante/scrivente. Un donarsi<br />

espropriante eppure per-formativo nello spazio letterario: qualcosa di simile accade nelle due<br />

Ŗboschiveŗ Biagini e Pugno, Io altrettanto Sé/lvaticamente accorpantesi nel testo, nelle formule<br />

dissipative del testo in quanto continuità poematica del proprio darsi-disintegrarsi-disseminarsi<br />

corporeo. Ciò che mi sembra accomunare queste poetesse di inizio millennio è la presa di poessesso<br />

dello spazio letterario del poema in quanto risultante di un'Autorizzazione del Sé Corpo da parte di<br />

un Sé Intellettuale liberato, tanto per usare un'espressione veterofemminista, ovvero non più<br />

soggiacente alle regole mistiche dello scrivere per bocca e mano dell'Altro, ma Ŕ non immemore di<br />

ciò la Fusco Ŕ per bocca e mano di un Sé collettivo femminile cui viene riconosciuta l'Auctoritas.<br />

Non saprei se nel caso di Biagini e Pugno agisca questa consapevolezza, e neppure se le<br />

Auctoritates Femminili siano le stesse mistiche e filosofe della Fusco, ma l'importante è segnalare<br />

che il modello del poema attuale non è più il canone letterario italiano.<br />

Dopo la decostruzione delle auctoritates poetiche novecentesche operata dal poema rosselliano del<br />

'58, si aprono gli spazi per nuove auctoritates nel poema femminile e queste nuove auctoritates non<br />

appartengono più al canone letterario bensì al canone mistico. Il nuovo riferimento, già adombrato<br />

in un folto grappolo di lessemi rosselliani facenti riferimento all'ambito linguistico della mistica<br />

medioevale, sono i vari libri dell'esperienza delle autrici mistiche, uno per tutti l'antonomastico<br />

Libro dell'esperienza della medioevale francescana Beata Angela da Foligno, ipotesto di Sequenza<br />

orante. Nel caso di Thérèse antonomastico invece è il titolo, che riunisce sotto un unico cartello<br />

l'esperienza corporea e spirituale delle mistiche (dalle oranti peruviane in lingua quechua a Simone<br />

Weil), attestando senza remore che i nuovi modelli da cui la scrittura femminile può svilupparsi e<br />

andare oltre il corpus poematico strictu sensu appartengono alla grande tradizione mondiale, oltre<br />

193


194<br />

che europea, dell'orazione femminile, l'unica pratica scritta-orale delle donne lungo i secoli che<br />

abbia creato un corpus solido, pur ricevendo fin qui dall'Altro (dall'Alto) l'autorità. Il Sé corpolinguistico<br />

è lo spazio tempo sacralizzato di un dentro autoriale che inizia a farsi spazio verso un<br />

fuori da modificare mediante il dilagare di estensioni verbo-visivo-sonore delle proprie reliquie<br />

corporeo-esperienziali, alla ricerca delle configurazioni identitarie di una generazione nata dal Sé<br />

partenogenetico invocato come risolutivo del conflitto autoriale dall'ultima lassa de La libellula<br />

rosselliana: l'identificazione del Ŗnuovo Soleŗ di un Sé che si autogenera scrivente-oranteautoraffigurante<br />

la propria genealogia di autrice. Panegirico della libertà, il giro del pane è lo<br />

spazio aperto di questa scrittura che sperimenta il luogo-poema, lo spazio immenso della scrittura e<br />

del suo silenzio bianco, come tèmenos, luogo sacro e territorio vergine dove può liberamente<br />

accadere (vigilanti le auctoritates mistiche) il parto fluido di un Sé Femmina rossellianamente<br />

bellicosa – anche se non meno bellicosa e misticamente abitante la ricerca del Santo Graal<br />

dell'esperienza fu la poematicità di Patrizia Vicinelli – nei confronti del nemico che non è più il<br />

Demonio ma la sua incarnazione mediocre, la Signora Borghese, già ampiamente vituperata dalla<br />

letteratura primonovecentesca ma soprattutto vero e proprio feticcio del Sé Negativo pugnalato<br />

dalla grande poesia femminile in lingua inglese, dalla Sexton alla Duffy, e in Italia dalla Rosselli<br />

alla Vicinelli fino a noi: la Signora come bieca caduta dell'immagine femminile di Madonna il<br />

Travestito ovvero della donna come proiezione passiva del Sé maschile. Ecco, il poema femminile<br />

contemporaneo sta tentando di disegnare altri modelli femminili, e com'è ovvio non è affatto facile<br />

trovarli ed imporli al pubblico. La nostra ricerca si configura come un processo esponenziale di<br />

Alterità, ma il nome-titolo Thérèse suscita in me l'esultanza di un approdo stabile, di un punto di<br />

arrivo e di risposta all'invocazione disperata delle madri Rosselli-Vicinelli: la Santità della Fragilità<br />

Guerriera, la debolezza forte, l'inermità imbattibile, dono della flessuosità e flussuosità di questa<br />

scrittura. La scrittura di Florinda Fusco ha rotto un argine, ha oltrepassato un no trespassing ancora<br />

inibitorio nei miei poemi (già dilaganti oltre la versificazione e verso la ritmicità) Musa a me stessa<br />

e Sequenza orante, ampliando la frontiera della nostra ricerca ancora in corso e molto lontana, mi<br />

pare, dall'epilogo, avendo solo ora acquisito, la creatura, un nome proprio, l'assunzione di un<br />

Modello-Autrice, di un exemplum forte in quanto già in partenza ipertestuale.<br />

Il Non Io che sfonda l'orizzonte lirico, che diventando Sé Transpersonale rifonda il poema<br />

radicandolo nei piedi saldamente ancorati alla terra della quotidianità e nei capelli elettrizzati verso<br />

l'Altrove di Anne Sexton, filamenti espansi verso l'Oltre, la Santità delle Sante come sublime<br />

zavorra di un corpo-qui-e-ora, assunto su di Sé e al contempo rigettato lonano, oltre i confini della<br />

quotidianità, le Madonne Celestiali che Rosselli e Lo Russo hanno parodicamente assunto a<br />

contromodello di denuncia si sono trasformate nel loro negativo fotografico ne Il libro delle<br />

madonne scure, primo passo di una riappropriazione della storia del proprio Sé (autobiografico in<br />

senso transpersonale, ripeto) a partire dal riferimento implicito alle acque scure di un parto difficile:<br />

la partenogenesi dell'Immagine di un Sé inquinata dall'onnipotente denegatore e denigratore<br />

dell'esistenza intellettuale e fisica, e anzi intellettuale in quanto fisica della femmina, della portatrice<br />

di vagina (con eufemismo intesa handicap, mancanza) come luogo di pensiero non come non-luogo,<br />

vuoto di passività da riempire. Il luogo della femminilità diventa luogo di scrittura che si produce a<br />

partire dal e nel vuoto solo apparente del bianco della pagina: si tratta di capire, leggendo Fusco,<br />

che per la gemmazione verbale è più importante il pieno-vuoto del supporto-libro-pagina che la<br />

freudiana penna-pene che la riempie. L'aspetto paradossalmente bellicoso sta nel porre<br />

implicitamente fine al mito cattolico della Dormitio Virginis come Assunzione al cielo della<br />

Scritttura della Femmina Narcotizzata, ovvero nel ridisegnare la Santità Femminile come<br />

Oblazione, una bellicosità tutta generatrice, nel segno della scrittura come espansione di questo Sé<br />

Vergine, neonato e partoriente al tempo stesso. La santità di Madame grazia e oltrepassa la Sposa<br />

dalle ovaie di ferro? Quale Sé scrivendo la sostituirà? Thérèse oltrepassa Madama La Signora e la<br />

sua Ŗfaccia di uomo truccataŗ, la mia Madonna come Travestito in Musa a me stessa. ŖIl centro<br />

della carne è ancora vuotoŗ: ancora sono esposti rossetti, trucchi, extensions, cappelli, scarpe,<br />

rivestimenti della carne se non più Vestizioni delle Sante Suore Scrittici per mano di Dio-Auctor. Il<br />

194


195<br />

suo martorio (come direbbe Iolanda Insana, altra Grande Madre della scrittura poematica femminile<br />

contemporanea) di Ragazza Cristica ancora agisce ne Il libro delle madonne scure, ancora vi insiste<br />

a dominare la figura della Mistica espropriata del Sé dall'Altro da Sé maschile, insiste ad esistere<br />

come Amata Modella anche se alternativa alla Madonna Stilnobbista.<br />

Anche Silvia Cassioli, in Unghie, plantari, gambe di legno e altri ex-voto fantastici (Napoli, d'if,<br />

2009), ha esposto in lasse poematiche, con sapiente leggerezza comica, grazia e potenza, questa<br />

mèsse reliquiaria dell'antico oblato Sé-corpo femminile duro a morire nella (in)coscienza collettiva.<br />

Il modello identificato come identitario del Sé ma da superare è la figura emblematica della<br />

Ragazza Cristica, dell'agnella espiatoria della colpa di fare il verso ai Padri, la sacrificata tragica del<br />

poema epico, dei frammenti sparsi e persi del grande genere poema nel crogiuolo dei generi<br />

novecentesco: il Corpo come dono-sacrificio di Sé, del Sé ancestrale da espiare, espletare, espirare<br />

in versi. Il Libro delle madonne scure conclude così: Ŗquesto è il mio corpo cucilo senza memoriaŗ.<br />

La Donna Assenza è il Santo Graal delle linee di Fusco, lanciate alla ricerca del Corpo Sé da cucirecostruire,<br />

quella che nei miei Melologhi si autoproclamava ad alta voce Ŗme madonnara follaŗ.<br />

Madame de Il libro delle madonne scure è la stessa dramatis persona Ŕ in tutt'altre modalità<br />

espressive Ŕ di Madonna-Musa de Lo Dittatore Amore. La mia parodia troppo Ŗa tesiŗ - frutto<br />

ipermaturo di una decadenza tardonovecentesca? - è superata dalla scrittura del nuovo millennio di<br />

Florinda Fusco, che ne sposa gli Oggetti, i desiderata: liquidare il Sé Corpo come Assenza,<br />

divenirlo materia ovvero spirito della terra, Grande Madre di un ritorno che si dilata verso il futuro<br />

percorrendo la Ŗvia piccolaŗ della Santa Teresa francese e la via grande della Santa Teresa<br />

spagnola, entrambe diversamente eroine, Modelle di Santità, Atlete del Cuore, Madonne del<br />

Carmelo che da sempre rincorre la costruzione di un Sé Donna-Verbo (specialmente nella vasta<br />

dottissima scrittura della carmelitana fiorentina Santa Maria Maddalena de' Pazzi). Co(s)micità del<br />

gap maddalenico l'autodefinirsi Amante dell'Amore di Cristo; Simone Weil citata dalla Fusco:<br />

ŖSapere che come essere pensante e finito io sono Iddio Crocifissoŗ. La Ragazza Cristica, morendo<br />

al mondo (e che altro resta da fare se non morire ad un mondo, ad una società, che nega alle donne<br />

l'appropriazione del proprio Sé tuttora?!), diventa Sé tramite l'identificazione con il Verbo, ovvero<br />

tramite la Scrittura: e qui affiora il lato meno urlante e più radicale della parodia: il (dis)Sacrato<br />

Poema delle donne ha da affermarsi come Auctoritas se vuole affermare un'altra immagine sociale<br />

dell'esser femmina. Ma finalmente nella scrittura di Fusco è deceduta la dura necessità storica di<br />

ionizzare (forza e limite della retorica parodica che ha dovuto assumersi la scrittura delle donne fin<br />

qui, fino ad ora per ragioni eminentemente storico-sociali) sui concetti patriarchisti di Bellezza e<br />

Verità (pilastri del Canone): Florinda può finalmente scrivere Ŕ far dire a Thérèse - : Ŗpadre perché<br />

non mi hai abbandonato?ŗ<br />

La formula orante come esclamazione e invocazione, lo Ŗstrillo d'angeloŗ della Rosselli, ci<br />

accomuna tutte: scaturisce dalla voce di un corpo collettivo che insisto a chiamare Poema perché ha<br />

avuto l'ardire eroico di rivoltarsi all'angelismo senile del canone.<br />

In Thérèse l'eroina epica (l'attante) si confonde con l'autrice, ovvero con colei a cui viene attribuita<br />

dall'autrice reale l'autorialità, l'auctoritas di fonte: l'autrice reale, l'autrice fittizia e l'attante<br />

collaborano alla messa in opera del poema, il cui vero Autore è dunque un Noi, quello che ho fin<br />

qui chiamato il Sé collettivo, transpersonale: abolita la sottomissione gerarchica del Tu femminile<br />

ad un Io autoriale onnipotente, il conflitto con l'idea di Auctoritas si risolve nella flussuosità<br />

ipertestuale che insisto, forse ormai solo per comodità, a chiamare poema. Diciamo insomma che la<br />

ricerca del Sé, vera giustificazione del poema di fondazione, si articolava nella forma parodicointerrogativa<br />

rispetto all'Auctoritas nelle scritture di Vicinelli-Rosselli-Lo Russo, mentre in Fusco,<br />

data per acquisita l'entità autoriale collettiva Ragazza Cristica, il tono può cominciare a farsi<br />

assertivo, tanto da sfociare addirittura in un inno weiliano della Ragazza Cristica: L'Inno di Thérèse,<br />

un peana della scrittura femminile contemporanea, un inno generazionale alla rigenerazione del<br />

canone, senza schermi ironici, senza paura, con pàthos massimalista, di dire un Sì quasi<br />

zarathustriano per assertività: Ŗgeneriamo un Padre nuovoŗ, Ŗuna creatura che generi un creatoreŗ,<br />

195


196<br />

Ŗla lingua che pronunci il Verboŗ, Ŗla Sposa della terraŗ, il ŖCantico della nuova Sposaŗ,<br />

controcanto solenne del mio parodico melologo Causa di beatificazione, non meno avvinto al<br />

solenne linguaggio mistico ma filtrandolo attraverso una non coincidenza fra l'Io e il Tu, fra<br />

l'Autrice e la Santa. Nella reiterata pratica della scrittura esperita come liquidità mistico-cosmica del<br />

grande corpo della generatrice, Mater, Filia, Sponsa, ovvero della generatrice come creatura e<br />

creatrice al pari del Padre (ché tale è l'icona della Ragazza Cristica) ha preso finalmente Corpus<br />

una genealogia di poetesse, anzi di autrici oramai alla ricerca solo di un nome identificativo, ché<br />

poetessa è termine avvertito come obsoleto, poeta al femminile come veterofemminista, e poetrice Ŕ<br />

come scherzando dico da qualche anno Ŕ decisamente non accreditabile. Ma del resto se nemmeno<br />

il poema è più poema anche la poetessa può non essere più poetessa. Siamo di fronte ad una nuova<br />

testualità e dunque ad una nuova autorialità, esito di una innovativa genealogia poematica<br />

femminile.<br />

Il classico espediente letterario del manoscritto ritrovato allude alla serietà filologica con cui<br />

l'Autrice ipertestuale dà corposità e concretezza figurativa al concetto fondamentale della<br />

collettività del Sé poematico femminile in continuità con la tradizione delle scrittrici mistiche. Ma<br />

forse definitivamente di un Sé transgender dell'autorialità: non è assolutamente detto che questa<br />

genealogia infatti non includa autori maschi perché, sia chiaro, quando parlo di poesia femminile<br />

intendo dire che esistono delle tematiche e delle formule stilistiche e di genere che hanno<br />

interessato alcune autrici rendendo possibile un discorso critico che coinvolga più soggetti in un<br />

medesimo percorso esperienziale definibile poema. Anzi, la nuova frontiera autoriale è l'anonimia<br />

(che non è l'anonimato...): l'ipertesto, poematico o no, da tempo la sperimenta. Il nobile espediente<br />

del casuale e falso reperimento di un manoscritto si ribalta in Thérèse Ŕ e con questo torna a farsi<br />

sentire la forza della retorica parodica Ŕ nel reale dato di fatto esperienziale del reperimento, casuale<br />

ma vero di un manoscritto che forse è di una donna, in quanto che l'autrice del diario si nomina<br />

Thèrèse: la liberazione del Sé unitario coscienziale passando attraverso la forma-diario (già esperita<br />

dalla Rosselli in varie modalità), e per di più diario mistico (il diario è la forma preferita dalle<br />

autrici mistiche), passando quindi attraverso una tradizione cristiana gnosticamente e<br />

multiculturalmente rigenerata, diventa apocrifa, anonima, transgender e sovverte il macrofenomeno<br />

dell'angelicazione del Tu oggetto dell'Io Autore soggetto: l'auctor dell'ipertesto non è né maschio<br />

né femmina. Si realizza il sogno della Ragazza Cristica/Anne Sexton che nella poesia (ipertestuale<br />

ante litteram in quanto frammento di un suo copione teatrale oltre che parte della raccolta Live or<br />

Die con cui l'autrice vinse il Pulitzer nel 1969) Frequentando gli angeli asserisce, in clausola, Ŗnon<br />

sono più una donna/ di quanto Cristo fu un uomoŗ (il testo è del '63!).<br />

Thérèse, nome e appellativo, operosa opera a più mani di una suororità arcaica e contemporanea,<br />

piccola e grande, bambina ragazza e donna, né angelo né madonna, come gridavano le femministe<br />

in piazza negli Anni Settanta, Thérèse opera multimediale, multicentrica multi-, è un approdo<br />

letterario certo e un incoraggiante inizio, un'apertura felice.<br />

Rosaria Lo Russo<br />

196


Bibliografia di riferimento di Rosaria Lo Russo:<br />

Sequenza orante implorazione derelizione derelizione implorazione, Firenze, Gazebo, 1995.<br />

Comèdia, Milano, Bompiani, 1998 (ristampa anche Sequenza orante col titolo così semplificato).<br />

197<br />

Lo Dittatore Amore. Melologhi, Milano, Effigie, 2004 (contenente il testo e la performance vocale in cd<br />

audio Musa a me stessa).<br />

Comèdia & Comedìa (anònimo florentino), in AA.VV., Dante en América Latina,. Actas primer congreso<br />

internacional sobre Dante Alighieri en Latinoamérica. Salta 4-8 de Octubre de 2004., al cuidado de Nicola<br />

Bottiglieri e Teresa Colque, 2 voll., Edizioni dell'Università degli Studi di Cassino, 2007, pp. 1023-1044,<br />

ristampato, in traduzione italiana, Comèdia & Comedìa (anonimo fiorentino), in AA. VV., La scoperta della<br />

poesia, a cura di Massimo Rizzante e Carla Gubert, Pesaro, Metauro, 2008, pp. 61-92.<br />

Acque paterne. Sylvia Plath Full Fathom Five, in "L'Area di Broca. Semestrale di letteratura e conoscenza",<br />

XXII, 60, luglio-dicembre 1994.<br />

Figlia di solo padre, in "Semicerchio. Rivista di poesia comparata", XI, 1/2, 1994.<br />

Per Amelia Rosselli, a due anni dalla morte, invitandola a d esistere, in "Via Dogana. Rivista di pratica<br />

politica", 42, febbraio 1999.<br />

I Santi Padri e la Figlia dal cuore devastato, in AA.VV., La furia dei venti contrari. Variazioni Amelia<br />

Rosselli, a c. di Andrea Cortellessa, libro + cd + dvd (cd e dvd a c. di Rosaria Lo Russo), Firenze, Le Lettere,<br />

2007 .<br />

Il canto della “Libellula”, in AA.VV., ŖScrivere è chiedersi come è fatto il mondoŗ. Per Amelia Rosselli, Atti<br />

del Convegno Università della Calabria 13 dicembre 2006, a cura di Caterina Verbaro, Soveria Mannelli,<br />

Rubbettino, 2008.<br />

L‟attante di Vicinelli-Rosselli è un cavaliere antico, in AA. VV., La repubblica dei poeti. Gli anni del mulino<br />

di Bazzano, a cura di Daniela Rossi e Enzo Minarelli, Udine, Campanotto, 2010.<br />

Altri riferimenti bibliografici:<br />

Roland Barthes, Il piacere del testo. Contro le indifferenze della scienza e il puritanesimo dell‟analisi<br />

ideologica, Torino, Einaudi, 1975 (titolo dellředizione originale Le plaisir du texte, Editions de Seuil, Paris,<br />

1973).<br />

Julia Kristeva, Materia e senso. Pratiche significanti e teoria del linguaggio, Torino, Einaudi, 1980.<br />

Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Bari, Laterza, 1983; 2003<br />

(titolo dellředizione originale Preface to Plato, Harvard University Press, Cambridge, Massachussets, 1963).<br />

A.A.V.V., Scrittrici mistiche italiane, a cura di Giovanni Pozzi e Claudio Leonardi, Genova, Marietti, 1988.<br />

Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Bologna, Il Mulino, 1992.<br />

Walter Vandereycken Ŕ Ron Van Deth, Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche. Il rifiuto del cibo<br />

nella storia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1995 (titolo originale From Fasting Saints to Anorexic Girls,<br />

1994).<br />

Anne Sexton, Poesie d‟amore, a c. di Rosaria Lo Russo, Firenze, Le Lettere, 1996.<br />

Amelia Rosselli, La libellula, in Le poesie, Milano, Garzanti, 1997.<br />

Anne Sexton, L‟estrosa abbondanza, a c. di R. Lo Russo, A. Satta Centanin, E. Zuccato, Milano, Crocetti,<br />

1997.<br />

Gabriele Frasca, La galassia metrica. Per un‟ ulteriore scienza nuova, in ŖModerna. Semestrale di teoria e<br />

critica della letteratura, I, 2. 1999.<br />

Gabriele Frasca, Le forme fluide, in ŖModerna. Semestrale di teoria e critica della letteratura, III, 2. 2001.<br />

Anne Sexton, Poesie su Dio, a cura di R. Lo Russo, Firenze, Le Lettere, 2003 (si veda in particolare la<br />

postfazione La ragazza cristica).<br />

Florinda Fusco, Amelia Rosselli: la propagazione bloccata, in AA.VV., ŖTrasparenze. Supplemento non<br />

periodico a ŖQuaderni di poesiaŗ, Genova, San Marco dei Giustiniani, 17-19, 2003.<br />

Patrizia Vicinelli, Non sempre ricordano. Poesia prosa performance, a c. di Cecilia Bello Minciacchi, con un<br />

saggio di Niva Lorenzini e con un'antologia multimediale a c. di Daniela Rossi, Firenze, le Lettere, 2009<br />

197


198<br />

Julia Kristeva, Teresa, mon amour, Roma, Donzelli, 2009<br />

Manifesto politico-letterario Fragili Guerriere di Daniela Rossi e Rosaria Lo Russo, reperibile in vari siti<br />

web.<br />

Florinda Fusco, Tre opere. La signora con l'ermellino, Il libro delle madonne scure, Linee, Roma, Oèdipus,<br />

2009.<br />

Florinda Fusco, Thérèse, Roma, Edizioni Polimata, 2010.<br />

198


La nascita del canone femminile<br />

199<br />

Esiste un canone poetico alternativo a quello che Amelia Rosselli attribuiva ironicamente, nel<br />

poemetto la Libellula del ř58, ai ŖSanti Padriŗ della tradizione letteraria italiana? Esiste cioè un<br />

canone unico e maschile nella nostra letteratura o è lecito parlare dellřesistenza di un canone altro?<br />

Ovvero di un canone femminile nato e sviluppatosi nella scrittura delle donne?<br />

Rosaria Lo Russo con grande coraggio discute, nel saggio uscito in questa sede, una questione<br />

lasciata ai margini dal dibattito intellettuale italiano.<br />

Eř doveroso parlare di coraggio, perché questo della Lo Russo è il primo saggio italiano che<br />

affronta tale discorso con grande risolutezza, addentrandosi pienamente in una questione oltre che<br />

complessa, scomoda: scomoda perché tacitamente mette in discussione lřimpostazione e le scelte<br />

autoriali delle storie delle letterature italiane dei nostri Ŗsanti padri criticiŗ, e perché un simile<br />

discorso, fatto da una donna, potrebbe essere facilmente e banalmente giudicato come un atto di un<br />

femminismo retrò o come una rivendicazione di categoria o, ancor peggio, personale. E cosìř,<br />

tranne piccoli accenni trovati qua e là, la questione è generalmente taciuta. Colpisce, dunque, il<br />

tono sicuro e assertivo della Lo Russo, il tono di una voce pronta a dire tutto ciò che pensa, a<br />

mettere per iscritto ciò su cui ha meditato evidentemente per anni, e che non teme alcuna risposta<br />

critica perché fortemente consapevole di ciò che scrive.<br />

Per affrontare la questione del canone femminile vorrei partire da unřaffermazione innegabile,<br />

ovvero che negli ultimi sessantřanni è proliferata in Italia una scrittura poetica femminile di<br />

notevole interesse e di grande spessore.<br />

Parlare di poesia femminile non significa ghettizzarla, come qualcuno teme, significa al contrario<br />

riconoscerle ciò che le è proprio, sia dal punto di vista culturale che biologico, significa poterla<br />

leggere con lenti nuove e non con le lenti consunte consegnateci dalla tradizione critica italiana e<br />

modellate unicamente sulla letteratura maschile. La scrittura poetica femminile non può più temere<br />

di essere ghettizzata, dopo il suo debordante irrompere nella scena letteraria di questi anni. La<br />

poesia femminile ormai mostra di avere una grande consapevolezza di sé ed è arrivato il momento<br />

che anche la critica affronti la questione con forza e con chiarezza.<br />

Se in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, si è forse ecceduto negli studi di gender, di contro, nel<br />

nostro paese ve ne sono toppo pochi, come ha giustamente sottolineato Paolo Giovannetti in una<br />

discussione milanese avvenuta in margine a letture poetiche del settembre passato. E tutto ciò è<br />

dimostrato dal fatto che in Italia, anche istituzionalmente, non esistano cattedre di genere . Oserei<br />

parlare di unř assenza del discorso critico di gender, specialmente se il settore preso in esame è<br />

quello letterario.<br />

La tesi portata avanti dalla Lo Russo è che a partire dalla Libellula del ř58 di Amelia Rosselli,<br />

erompe con forza nella letteratura italiana un canone femminile, che si distanzia per le sue<br />

specificità da quello della tradizione letteraria. Lo stesso canone si riafferma con la poesia della<br />

Vicinelli e più tardi con quello della Lo Russo stessa, e si definisce sempre più nella poesia<br />

femminile degli ultimi anni.<br />

In particolare per la Lo Russo tale canone si articola una scrittura dominata da unřIo Esperienziale,<br />

ovvero un io femminile che fa piena esperienza di sé sino a divenire un Sé trans personale<br />

(attingendo ad una definizione delle poetesse americane della metà del secolo scorso), ovvero un Sé<br />

che comprende lřesperienza di ogni singola autrice, ma al contempo la trascende, arrivando ad<br />

affermarsi come un Sé collettivo femminile.<br />

Questo corpo collettivo femminile sceglie la forma che gli è più congeniale per esprimere la propria<br />

esperienza biologica e culturale, ovvero una nuova forma poematica con uno statuto orale-vocale.<br />

E così in una scrittura cantata sgorga un epos che racconta la storia e la contemporaneità dal loro<br />

punto di vista, che consegna alla letteratura un nuovo sguardo sulle cose.<br />

E in questo senso la Lo Russo pone in stretta relazione la Libellula rosselliana, con i poemetti della<br />

Vicinelli, ovvero Non sempre ricordano e I fondamenti dell‟essere della Vicinelli, Comedia e Lo<br />

Dittatore Amore della Lo Russo stessa, e infine il mio poemetto uscito recentemente, Thérèse. Ma<br />

199


200<br />

la sua analisi, sinora concentrata in primo piano su tali lavori poetici, ambisce chiaramente ad un<br />

proseguimento di studi critici su altre opere poetiche femminili contemporanee.<br />

Il Sé collettivo femminile che la Lo Russo scorge in queste opere, da più di cinquantřanni, come lei<br />

stessa sottolinea, emette un potente e ardito grido, che sovverte e innova la tradizione letteraria e<br />

culturale italiana, grido che sia la critica accademica che militante fa finta di non sentire.<br />

Allřinterno di ogni opera vi sono, nonostante tratti comuni fondamentali, delle marcate differenze e<br />

una segnata indipendenza. In particolare ci terrei a sottolineare il peculiare percorso della Vicinelli<br />

che giunge nei Fondamenti dell‟ essere, a mio avviso il suo capolavoro, ad un ulteriore passaggio<br />

da un Sé collettivo ad una completa desoggettivazione del racconto: il racconto non ha più un Sé,<br />

ma ha un mondo che si racconta da solo. Lřattenzione al quotidiano e alla cruda realtà sociale di<br />

Non sempre ricordano, qui si estinguono a favore di una tensione cosmologica e di una totale e<br />

liberatoria consegna al suono come fondamento cosmico. Lřampiezza cosmologica con personaggi<br />

mitologici, allegorico-cristiani e apocalittici rimanda, inoltre, fortemente agli scritti di una delle più<br />

grandi mistiche europee Ildegarda di Bingen. I cerchi, le sfere, le colombe, le nuvole in movimento,<br />

le ruote, la luce in alternanza alle tenebre,le volte stellate, le stelle raggianti, le geometrie celesti, le<br />

distanze perfette, le fiamme, gli angeli, gli specchi e gli abissi fanno parte di una visionarietà che si<br />

fa tuttřuno col suono e che è comune ad entrambe. Scrive Ildegarda di Bingen: «Allřinterno degli<br />

spazi aerei del mezzogiorno, ecco apparire una ruota […] nella parte superiore appariva un cerchio<br />

di fuoco chiaro che dominava un cerchio di fuoco nero. […]. Al centro della sfera dřaria sottile si<br />

distingueva unřaltra sfera, la cui circonferenza era in eguale distanza dallřaria densa, bianca e<br />

luminosa […].La figura dellřuomo occupava il centro di questa ruota gigante. Il cranio era in alto, e<br />

i piedi toccavano la sfera dellřaria densa, bianca e luminosa». (da Il libro delle opere divine di<br />

Ildegarda di Bingen).<br />

Thérèse riprende il passaggio compiuto dalla Vicinelli da un Sè femminile collettivo ad una<br />

desoggettivazione in senso cosmologico, ma proprio tale passaggio, nella Vicinelli implicito e<br />

taciuto, qui è assunto a nodo tematico fondamentale.<br />

Il canone femminile che la Lo Russo coglie e che non concerne lřoggetto del racconto, ma i modi e<br />

la lingua di questo, non nasce dal nulla, come lei stessa intuisce, ma ha una sua preistoria: i suoi<br />

fondamenti sono forgiati dalla scrittura mistica femminile sin dal Medioevo.<br />

Le vecchie auctoritates maschili sono distrutte parodicamente dalla Rosselli e dalla Lo Russo e<br />

sono soppiantate da nuove auctoritates che appartengono, appunto, al canone mistico femminile.<br />

Non è un caso che vi siano testi di Amelia Rosselli o della stessa Rosaria Lo Russo abbiano come<br />

ipotesti due grandi mistiche, rispettivamente Maria Maddalena deř Pazzi e Angela da Foligno. Né è<br />

un caso che il mio poemetto Thérèse prenda il nome da due grandi mistiche Teresa dřAvila e<br />

Thérèse de Liseux, due volti in un certo senso opposti, che si fanno portavoce di unřesperienza<br />

mistica femiminile plurivocale e secolare, e molto articolata e differenziata al suo interno. E i<br />

rimandi prima fatti dei Fondamenti dell‟essere agli scritti di Ildegarda di Bingen hanno forse in<br />

questo senso un significato.<br />

Eř nella letteratura mistica femminile che nasce la parola femminile. Ed è sorprendente come<br />

questo nodo critico nel nostro paese sia stato ignorato, così come sono state ignorate le<br />

meravigliose pagine di tante mistiche che hanno scritto per secoli chiuse nelle loro stanze, nelle loro<br />

celle monastiche o in piccole comunità terziarie.<br />

Il fatto che la parola femminile abbia origine nella mistica ha delle ragioni storico-sociali solide. Eř<br />

infatti la religione, e in particolare, il loro rapporto diretto con Dio, che sia in epoca medievale che<br />

moderna riesce a conferire alla donna quellřautorità e insieme quellřaudacia, negate loro dal tessuto<br />

sociale in cui vive, per potersi esprimere. Esprimersi significa non solo e non semplicemente<br />

riuscire a parlare autorevolmente agli altri o dare vita a documenti scritti, ma comporta finalmente<br />

lřimporsi, nel tessuto sociale e culturale, di un nuovo punto di vista, che è un punto di vista<br />

eccezionalmente trasgressivo rispetto al sapere dominante.<br />

Mistica femminile è sinonimo di trasgressione sociale e insieme letteraria. Allo statuto sociale della<br />

donna costretta alla marginalità e al silenzio, le mistiche oppongono un modello di figura<br />

200


201<br />

femminile protagonista dello spazio sociale in cui vivono e padrona della propria parola. Per la<br />

prima volta nella storia della donna, le mistiche hanno la forza e il coraggio di rompere lo spazio del<br />

silenzio: supportate e incoraggiate dallřidea di un mandato divino che permette loro di infrangere le<br />

regole imposte dagli uomini, esse riescono ad esprimere le proprie idee religiose, filosofiche e<br />

sociali, a raccontare la propria esperienza, a raccontare la propria realtà, la propria esperienza,<br />

dando vita ai primi documenti di scrittura femminile che appaiono nella storia europea. La scrittura<br />

delle religiose costituisce un atto di autonomia e dřindipendenza ostinata da parte della donna, che<br />

spezza i canoni tradizionali sia del sapere che della letteratura maschile.<br />

Ed è al loro urlo ostinato e sconvolgente che la poesia femminile contemporanea si riallaccia con<br />

forza: è lì che trova le sue radici, i suoi fondamenti.<br />

Soffermiamoci adesso su alcuni di questi testi di mistica femminile che formano insieme a tanti altri<br />

un corpus letterario secolarmente accantonato e che costituisce la culla della parola femminile: è qui<br />

che la donna inizia a guardare consapevolmente se stessa, inizia a raccontarsi, a gridarsi.<br />

Scrive Maria Maddalena deřPazzi: «Dico così che prima nel piede sinistro il sangue annichilava e<br />

lřanima acquistava la cognizione di sé. Nel piè desto il sangue purificava e lřanima si fortificava.<br />

Nella mano sinistra, il sangue illuminava, e lřanima acquistava la cognizion di Dio. Nella man<br />

destra il sangue illustrava e lřanima si edificava nella carità. El costato nutriva e lřanima si<br />

transformava nel sangue, tanto che non intendeva poi altro che sangue, non vedeva altro che<br />

Sangue, non gustava altro che sangue, non gustava altro che sangue, non sentiva altro che sangue,<br />

non pensava altro che di sangue, non parlava e non poteva pensare se non di sangue. E tutto ciò che<br />

operava la sommergeva e profondava in esso sangue […]» (dai Colloqui di Maria Maddalena de<br />

ŘPazzi). Ciò che colpisce è la forte corporeità dellřesperienza che si racconta, lř incisiva ritmicità del<br />

discorso che diviene un vero e proprio canto e la violenza della parola come dellřesperienza.<br />

A tal proposito Amelia Rosselli, che attinge in più parti, al repertorio di Maddalena deřPazzi ha<br />

affermato in unřintervista del Ř91:«la donna con la sua fisiologicità corporale […]ha qualcosa non di<br />

diverso da scrivere, ma di più fisiologico da distinguere anche sul piano contenutistico».<br />

Ma la violenza e la corporeità non sono tratti che appartengono a pieno anche alla poesia di Patrizia<br />

Vicinelli e di Rosaria Lo Russo? Maria Maddalena deřPazzi, inoltre, usava con naturalezza una<br />

forma poematica orale (le sue consorelle trascrivevano ciò che lei urlava) con un uso poetico della<br />

lingua e dei ritmi, scelta che accomuna la grande mistica cinquecentesca ad opere poetiche<br />

femminili contemporanee.<br />

Si legga ancora da Angela da Foligno, la cui scrittura aveva già folgorato Battaille:« talora lřira<br />

cresce talmente che a malapena mi posso astenere dal farmi a pezzi; e mi sono procurata<br />

tumefazioni al capo e altrove. [….] Allora urlo verso Dio, e ad alta voce gli dico più e più volte<br />

senza pausa-figlio mio, figlio mio, non lasciarmi, figlio mio-[….]Sono sprofondata in questa<br />

orribilissima tenebra[…]. E allora urlo, chiamo la morte. […] Gridavo di voler morire. E tutte le<br />

mie giunture si disgiungevano. […]Fu allora che mi chiamò e mi disse che dovessi mettere la mia<br />

bocca nella piaga del suo fianco. E mi sembrava di scorgere e di bere il suo sangue [….]E pregai<br />

Dio che mi facesse spargere tutto il mio sangue[…]mi spogliai di tutti i miei vestiti e mi offrii<br />

totalmente a lui»<br />

(da Angela da Foglio, Il Libro dell‟esperienza). Anche qui siamo sconcertati dal suo urlo di tenebra,<br />

dalla fisicità e insieme dalla violenza dellřesperienza e della scrittura che si fanno un tuttřuno.<br />

Credo che sia innegabile la potenza letteraria di queste pagine. Ed accanto a queste ve ne sono in<br />

Italia molte altre dimenticate come, per citare solo qualche nome, Domenica del Paradiso, Caterina<br />

da Genova, Veronica Giuliani o Caterina Ricci (lřunica mistica studiata in Italia è Caterina da<br />

Siena), che insieme ad altre mistiche europee formano un corpus letterario esorbitante. Come<br />

possiamo averle negate alla nostra tradizione culturale e letteraria?Perché ce ne siamo<br />

espropriati?Occorrerebbe guardare con sguardo rinnovato alle impostazioni critiche predefinite e<br />

aprire le nostre storie letterarie a questo capitolo sorprendente della letteratura italiana ed europea.<br />

Rosaria Lo Russo, con forte consapevolezza letteraria, attinge per la sua Sequenza orante in<br />

Comedia, ad Angela da Foligno, una delle iniziatrici della lingua poetica femminile. E unendo la<br />

201


202<br />

sua voce a quella di Angela, sovrapponendo le due voci, non fa che ripercorrere la storia della<br />

parola femminile. Lavorando in modo dissacrante sulla lingua dantesca, La Lorusso permette alla<br />

propria lingua di nascere: una lingua senza padri, una lingua che può riconoscere solo delle madri.<br />

La sua Comedia, che Pagliarani ha definito giustamente Ŗgrandioso concerto vocaleŗ, è espressione<br />

imponente di una parola femminile corale. La sua voce diventa il suo corpo, il suo corpo diviene la<br />

sua voce. E il corpo canta. Ma il corpo di Comedia è i corpi di tutte le donne e canta con le voci di<br />

tutte le donne. E a noi arriva questo dono, voci angeliche e voci terrene che ci attraversano, ci<br />

accerchiano. «Rosi, rosicchia/canta e canticchia»: Rosaria sa che non può raccontare lřidentità<br />

femminile se non con il canto, estremizzando in senso musicale ciò che Amelia Rosselli aveva fatto<br />

con la Libellula.<br />

La poematicità epica nella Lo Russo si consegna completamente allřaspetto fonico: è il suono<br />

stesso che si fa epico. Canto ed epos divengono sinonimi. La scrittura deve impossessarsi<br />

pienamente dellřidentità femminile per potersi fare portavoce di tutte le identità femminili. E in<br />

questo processo non può che partire dal proprio corpo. Allřorigine del canto vi è la formazione del<br />

corpo: «E fui fatta femmina,\ mollemente uscita viva dal guaio della nascita». Ed è il corpo stesso<br />

che si fa Parola, invertendo il percorso dellřIncarnazione del Verbo.<br />

«Ma tutta nuda\ rivestita di Cristo\ che godimento essere sbranata»: la donna-Cristo deve donare<br />

tutto il suo sangue per permettere alla parola di nascere. Eř solo dalla sofferenza vissuta col proprio<br />

corpo, che brandelli di carne si fanno suoni, parole.<br />

Così come Angela da Foligno aveva donato il suo corpo a Cristo, chiedendogli di martirizzarlo,<br />

Rosaria Lo Russo consegna il suo corpo alla parola, chiedendole di farlo proprio, smembrandolo<br />

con violenza:«tu schizza e strappa e straccia e strazia me lřemoroissa io cosa biondina e tutta monda<br />

tutta bocca io tutta cavernosa carnosa io spasimo convulsa io sponsa spossata spossessata […]<br />

annientami sperperami scutuiami le ossa i denti le membra mie tutte inermi inerti!». Ed è proprio<br />

nel dolore del proprio corpo che risuonano i canti stonati della folla femminile: «tutte le stonature<br />

delle abbandonate». Ritornando alla questione centrale del canone femminile, come nel caso di<br />

Rosaria Lo Russo e Angela da Foligno, è arrivato il momento dřintraprendere un percorso critico<br />

incrociato che va dalla poesia femminile contemporanea sino alle origini della parola letteraria<br />

femminile e al contempo dalle origini della parola letteraria femminile sino alla scrittura di oggi.<br />

E solo in questo modo, ovvero scavando nelle radici e nei fondamenti della scrittura, riusciremo<br />

probabilmente a capire a pieno la poesia femminile contemporanea: voci possenti come quella di<br />

Amelia Rosselli e di Patrizia Vicinelli, così come la grande forza poetica di Rosaria Lo Russo, che<br />

ha segnato incisivamente la poesia italiana contemporanea, e insieme la strenua ricerca poetica<br />

femminile che in questi ultimi anni sta sgorgando in Italia con notevoli risultati.<br />

Florinda Fusco<br />

202


ALTRI SCENARI<br />

203<br />

203


Ascoltando Le fleuve di Yves Bonnefoy<br />

Le fleuve<br />

Mais non, toujours<br />

Dřun déploiement de lřaile de lřimpossible<br />

Tu třéveilles, avec un cri,<br />

Du lieu, qui nřest quřun rêve. Ta voix, soudain,<br />

Est rauque comme un torrent. Tout le sens, rassemblé,<br />

Y tombe, avec un bruit<br />

De sommeil jeté sur la pierre.<br />

Et tu te lèves une éternelle fois<br />

Danse cet été qui třobsède.<br />

À nouveau ce bruit dřun ailleurs, proche, lointain;<br />

Tu vas à ce volet qui vibre… Dehors, nul vent<br />

Le choses de la nuit sont immobiles<br />

Comme une avancée dřeau dans la lumière.<br />

Regarde,<br />

Lřarbre, le parapet de la terrasse,<br />

Lřaire, qui semble peinte sur le vide,<br />

Les masses du safre clair dans le ravin<br />

À peine frémissent-ils, reflet peut-être<br />

Dřautres arbres et dřautres pierres sur un fleuve.<br />

Regarde ! De tout tes yeux regarde ! Rien dřici,<br />

Que ce soit cette combe, cette lueur<br />

Au faîte dans lřorage, ou le pain, le vin,<br />

Nřa plus cet à jamais de silencieuse<br />

Respiration nocturne qui mariait<br />

Dans lřantique sommeil<br />

Les bêtes et les choses anuitées<br />

À lřinfini sous les manteau dřétoiles.<br />

Regarde<br />

La main qui prend le sein,<br />

Et reconnaît la forme, en fait saillir<br />

La douce aridité, la main sřélève,<br />

Médite son écart, son ignorance,<br />

Et brûle retirée dans le cri désert.<br />

Le ciel brille pourtant des mêmes signes,<br />

Pourquoi le sens<br />

A-t-il coagulé au flanc de lřOurse,<br />

Blessure inguérissable qui divise<br />

Dans le fleuve de tout à travers tout<br />

De son caillot, comme un chiffre de mort,<br />

Lřafflux étincelant des vies obscures ?<br />

Tu regardes couler le fleuve terrestre,<br />

En amont, an aval la même nuit<br />

Malgré tous ces reflets qui réunissent<br />

Vainement les étoiles aux fruits mortels.<br />

204<br />

204


Et tu sais mieux, déjà, que tu rêvais<br />

Quřun barque, chargée de terre noire<br />

Sřécartait dřune rive. Le nautonier<br />

Pesait de tout son corps contre la perche<br />

Qui avait pris appui, tu ignorais<br />

Où, dans les boues sans nom du fond du fleuve.<br />

Ô terre, terre,<br />

Pourquoi la perfection du fruit, lorsque le sens<br />

Comme une barque à peine pressentie<br />

Se dérobe de la couleur et de la forme,<br />

Et dřoù ce souvenir qui serre le cœur<br />

De la barque dřun autre été aux ras des herbes ?<br />

Dřoù, oui, tant dřévidence à travers tant<br />

Dřénigme, et tant de certitude encore, et même<br />

Tant de joie, préservée ? Et pourquoi lřimage<br />

Qui nřest pas lřapparence, qui nřest pas<br />

Même le rêve trouble, insiste-t-elle<br />

En dépit du déni de lřêtre ? Jours profonds,<br />

Un dieu jeune passait à gué le fleuve,<br />

Le berger sřéloignait dans la poussière,<br />

Des enfants jouaient haut dans le feuillage,<br />

Rires, batailles, dans la paix, les bruits du soir,<br />

Et lřesprit avait là son souffle, égal…<br />

Aujourdřhui le passeur<br />

Nřa dřautre rive que bruyante, noire.<br />

Et Boris de Schloezer, quand il est mort<br />

Entendant sur lřappontement une musique<br />

Dont ses proches ne savaient rien (était-elle, déjà,<br />

La flûte de la délivrance révélée<br />

Ou un ultime bien de la terre perdue,<br />

«Œuvre» transfigurée ?) Ŕ derrière soi<br />

Nřa laissé que ces eaux brûlées dřénigme.<br />

Ô terre,<br />

Etoiles plus violentes nřont jamais<br />

Scellé lřorée du ciel de feux plus fixes,<br />

Appel plus dévorant de berger dans lřarbre<br />

Nřa jamais ravagé été plus obscur<br />

………………………………………….<br />

………………………………………….<br />

Terre,<br />

Quřavait-il aperçu, que comprenait-il,<br />

Quřaccepta-t-il ?<br />

Il écouta, longtemps,<br />

Puis il se redressa, le feu<br />

De cette œuvre qui atteignait,<br />

Qui sait, à une cime<br />

205<br />

205


De déliements, de retrouvailles, de joie<br />

Illumina son visage.<br />

Bruit, clos,<br />

De la perche qui heurte le flot boueux,<br />

Nuit<br />

De la chaîne qui glisse au fond du fleuve.<br />

Ailleurs,<br />

Là où jřignorais tout, où jřécrivais,<br />

Un chien peut-être empoisonné griffait<br />

Lřamère terre nocturne.<br />

206<br />

Le fleuve è il primo poemetto di Dans le leurre du seuil (1975) di Yves Bonnefoy, uno dei libri di<br />

poesia più intensi del secondo Novecento, il che mi dà confidenza a scriverne, se la bellezza è un<br />

incoraggiamento a conviverla. Mi riprometto di coglierne il senso con unřattitudine filosofante,<br />

dandone anche un saggio di traduzione. Prima leggo la poesia in francese, poi nella versione italiana<br />

di Diana Grange Fiori e infine la ritraduco, non perché essa non sia fatta al meglio, ma perché<br />

tradurre in modo proprio è indispensabile per capire una poesia.<br />

Ma no, sempre<br />

Dispiegando lřala dellřimpossibile<br />

Ti svegli, con un grido<br />

Dal luogo, che è soltanto un sogno. La voce, subito,<br />

È roca come un torrente. Il senso, radunato,<br />

Vi cade, con un rumore<br />

Di sonno gettato sulla pietra.<br />

ŖTi svegli.ŗ Prima ancora di poterci pensare quel Ŗtuŗ sono io, e insieme è lřio dellřautore rivolto a<br />

se stesso. Soltanto in un secondo tempo mi domando se non sia la voce di un personaggio che si<br />

rivolge a qualcun altro in carne e ossa. Ma per ora non importa saperlo.<br />

Il risveglio è un passaggio, repentino e brusco, da un mondo a un altro. Mentre il sonno è infatti una<br />

giacenza nella natura animale, e quindi nel piano dei viventi pienamente coerente, il risveglio è<br />

lřingresso fulmineo, scioccante, dellřanimale dormiente nel mondo umano che, mentre non smette<br />

di essere animale, si accorge svegliandosi di essere anche extranaturale, nel senso che la coscienza,<br />

mentre dispiega la sua ala, attinge la sua potenza proprio allřimpossibile di quellřala, cioè al suo<br />

essere, da uomo-uccello, un vivente razionale e animale al contempo.<br />

Ti svegli da un lieu qui n‟est qu‟un rêve, da un mondo fisico reale nel sonno. Che cosa significa<br />

allora il sogno? Sappiamo per certo che anche gli altri animali sognano, e quindi esso può ancora<br />

essere una rielaborazione che la natura fa attraverso noi. Mi immergo infatti in questa poesia come<br />

in una prima esperienza e in una prima lingua, neanche del tutto e solo lessicale, senza nulla voler<br />

ricordare della psicoanalisi e dellřinterpretazione dei sogni di Freud. Prendo cioè sul serio che la<br />

poesia sia una forma diversa di pensiero, o addirittura dal pensiero, non necessariamente sempre<br />

culturale, benché non saprei dire che cosa esattamente sia naturale. E quindi per me il sogno è<br />

soltanto un sogno, e cioè nulla che significa simbolicamente qualcosa del mio inconscio, ma<br />

soltanto un luogo che non esiste più, ma nel quale pure io vivevo, e il tema del quale forse non è<br />

mai davvero esistito.<br />

E quindi quel Ŗtuŗ, quel risvegliato, al quale lřautore si rivolge, se è ancora un autore, e che<br />

comunque non è più soltanto un autore, io lo prendo per me, se la voce si rivolge a me, tanto più in<br />

quanto riconosco che ogni volta che mi sveglio è di fatto un cri, cioè la sovversione di un ordine, e<br />

uno choc, una rivoluzione dellřanimale nellřumano.<br />

206


II<br />

207<br />

Ignorando la mia cultura e storia intellettuale per smemorare in questo poemetto, non intendo infatti<br />

ignorare la mia esperienza di vivente, cioè di un essere che vive il risveglio proprio come dice la<br />

voce che sto ascoltando, e cioè come unřapertura alare dellřimpossibile, in un gesto in cui<br />

lřimpossibile accade e dà a questo uomo-uccello la spinta a vivere. La mia voce è roca quando mi<br />

alzo dal letto e mi gratifica leggere che lo sia come un torrente, come unřeco naturale, e non come<br />

un semplice difetto di nitidezza civile, segno di un fiotto vitale che scroscia dal sonno.<br />

Una voce dentro la quale il senso cade in un torrente vocale, avec un bruit De sommeil jeté sur la<br />

pierre. La mia voce, ancora animale, non riesce ad avere un senso da me elaborato, ma il fatto che<br />

sono sveglio e aprente lřala dellřimpossibile, prima ancora di esserne cosciente, è una pietra, una<br />

cosa dura, nella quale il senso è rassemblé. Con finezza la Grange Fiori traduce Ŗadunatoŗ, il che<br />

comporta una concertazione, quasi la preparazione di un assalto deciso contro di me, in conformità<br />

a un linguaggio lontanamente militare (leurre, avancée) non assente dal poemetto. Ma ho preferito<br />

Ŗradunatoŗ, essendo per Bonnefoy la vita una radunanza che non consegue a un ordine. Il senso<br />

cade dentro di me nel flusso animale che si ridesta, per fortuna senza rompermi, preso comřè nelle<br />

mie acque scroscianti di vita, più potente dellřimpossibile dellřala.<br />

E tu ti levi unřeternale volta<br />

In questřestate che třassilla.<br />

Di nuovo questo rumore dřun altrove, da presso, da lungi:<br />

Vai a questa imposta che vibra… Di fuori, senza vento,<br />

Le cose della notte sono immobili<br />

Come unřavanzata dřacqua nella luce.<br />

Guarda,<br />

Lřalbero, il parapetto della terrazza,<br />

Lřaria, che sembra dipinta sul vuoto,<br />

Le masse di zaffera chiara nel vallone,<br />

Appena fremono, riflessi forse<br />

Dřaltri alberi e dřaltre pietre su un fiume.<br />

ŖE tu te lèves une éternelle foisŗ. Eternelle vale Ŗeternaŗ ma in francese la voce non ha un suono<br />

secco, semmai infinitivo, e quindi la tradurrei Ŗeternaleŗ, con una parola più fluida. E infatti mi levo<br />

non già Ŗper lřennesima voltaŗ né Ŗuna volta per sempreŗ, bensì, in un paradosso non solo<br />

grammaticale: una tantum eternalmente, nellřistante semper nunc, non già in una dimensione<br />

atemporale.<br />

Finalmente, appena lucido, grazie al rumore di quella pietra che mi ha fatto rendere conto che sono<br />

un uomo, non più un animale dormiente. E in realtà siamo dei centauri, nel sonno e nella veglia, ma<br />

mentre nel sonno, da animali, non sappiamo che vagamente di essere uomini storici e civili, nella<br />

veglia, da uomini, sappiamo di essere animali.<br />

Quella pietra di senso mi ha fatto accorgere che lřistante non è solo lo choc, la rivoluzione<br />

sensoriale, la sovversione del sonno animale, ma che sono nellřora-sempre, sempre per una sola<br />

volta: e per fortuna sono pur sempre un animale, benché cosciente, appartengo a un tutto non fatto<br />

da me. Altrimenti mai avrei còlto quello che Nietzsche chiama, dialogando con il Canto notturno di<br />

Leopardi, il Ŗpiolo dellřattimoŗ, al quale la pecora del pastore è legata: il sempre qui e ora<br />

dellřanimale.<br />

Scopriremo nel corso della poesia che quel Ŗtuŗ si riferisce a un uomo, Boris de Schloezer, per il<br />

quale questo è stato lřultimo risveglio, e quindi Ŗlřultima-prima voltaŗ, grave di unřeternalità<br />

speciale, visto che egli morirà alla fine della poesia. E quel cri acquista un più crudo senso. Ma la<br />

poesia non è un requiem solo per Boris, come accade dal punto di vista narrativo, che non è il più<br />

207


208<br />

profondo, giacché pur sempre cronico, anzi non è proprio un requiem, bensì lřaffacciarsi sulla<br />

soglia insidiosa del senso nel risveglio e nella morte di ciascuno in lui.<br />

Non si tratta allora di immedesimarsi, gesto sentimentale ed empatico, bensì di identificarsi, gesto<br />

tragico, nel senso della serietà radicale del processo, possibile solo poeticamente, e mai solo<br />

liricamente. Liricamente infatti godiamo il contrasto tra la nostra vita reale e la situazione narrata<br />

nella poesia, commuovendoci perché è a noi e di noi che si parla, ma senza che ne subiamo le<br />

conseguenze. Poeticamente invece siamo sempre noi realmente in gioco: Tu sei io.<br />

III<br />

Il senso, prima caduto sulla pietra con un rumore di sonno, cade ora nella veglia, proche, lointain.<br />

Lřimposta, questo battente della finestra (ce volet), vibra ma non cřè vento. Cosa insolita, questa,<br />

che ci mette in guardia sul carattere della finestra, di questa soglia insidiosa. Il titolo del libro dice<br />

infatti: Dans le leurre du seuil e io che, come il passeur, il traghettatore, o, meglio, il traghettante,<br />

di cui si parlerà, passo, traducendo, dal francese allřitaliano al francese, intuisco cosa significa<br />

trovarsi davanti a una finestra che vibra anche se non cřè vento; cosa significa, visto che tutte le<br />

parole del poemetto, in quanto stampate sulla carta, sono immobili come ora le cose. Eppure la<br />

soglia vibra. Leurre della soglia tra i due luoghi, tra le due vite, tra le due lingue, eppure senza<br />

vento, immote. Questa finestra vibrante nellřimmoto è allora unřesca, sì, insidiosa, in quanto ci<br />

porta fuori dalla casa, ma non con lřintenzione di farci del male. Siamo noi che diventiamo<br />

fortunosamente preda, come nel mito di Diana e Atteone, caro a Giordano Bruno, da cacciatori che<br />

pretendiamo di essere. Non è una disfatta ma una ventura e una tentazione vitale, tuttřaltro che un<br />

semplice tranello insidioso, almeno per il momento. Anche se, come si vedrà, nellřordine fattuale<br />

sarà una trappola a tutti gli effetti.<br />

Le cose della notte sono nere e immobili e richiamano invece il contrario: une avancée d‟eau dans<br />

la lumière, unřavanzata dřacqua nella luce. Non siamo nel paesaggismo sensoriale e musicato, alla<br />

Débussy. In un simbolismo capovolto, cioè, nel quale, sia pure, la superficie conti più del<br />

significato alto e nascosto, in quel Ŗmistero in piena luceŗ di cui parla Jankélévitch a suo riguardo.<br />

Dove siamo allora? Come può la notte immobile evocare la luce che avanza? Come la notte fisica<br />

può essere unřalba spirituale per me? Io mi sveglio e il senso è la morte! Sono io che svegliandomi,<br />

e non appena albeggio, già vengo colpito, come da una pietra, dallřavanzata dřacqua nella luce che<br />

è la notte nera e immota.<br />

Nellřossimoro, si invertono i segni del fisico e dello psichico, in una mistica terrestre, e tutto ciò<br />

non è più così drammatico, anzi diventa addirittura una grazia tragica: vedo la buia luce, vedo<br />

lřimmobile vibrazione.<br />

Si arriva così a un passaggio artistico: L‟aire, qui semble peinte sur le vide, ŖLřaria, che sembra<br />

dipinta sul vuotoŗ, il che potrebbe essere una notazione pittorica: impresa di quella maestra degli<br />

artisti che è la natura. Ma si tratta altrettanto di un passaggio filosofico, in quanto la natura si apre<br />

nellřevidenza del suo darsi vuota, cioè non riempita da dèi, increata. E tuttavia dipingente la vita<br />

che lřaria ci dà.<br />

IV<br />

Anche i versi che seguono partecipano di questa pittura notturna, quasi extrasensoriale, non nel<br />

senso che si dia un realismo metafisico, bensì, credo, in quello che è questa pittura dřaria sul vuoto<br />

che la parola poetica ha il potere di consentire, nella sua ek-stasis, nel suo essere fuori di sé, facoltà<br />

sua propria, più raramente attinta dai pittori, se non sommi.<br />

208


Guarda! Con tutti gli occhi guarda! Nulla di qua,<br />

sia questa valle, sia questo lucore<br />

In cima al temporale, o il pane, il vino,<br />

Non ha quel per sempre di silente<br />

Respirazione notturna che maritava<br />

Nellřantico sonno<br />

Le bestie e le cose annottate<br />

Allřinfinito sotto il manto di stelle.<br />

209<br />

E infatti si tratta di guardare, non del noein rispetto allřeidos, non con lo sguardo intellettivo<br />

puntato sulla forma pura platonica, sullřIdea metafisica invisibile, ma di guardare Ŗcon tutti gli<br />

occhiŗ in unřintuizione ottica sub specie aeternitatis. Non del lucore, del lampo, visto come segno<br />

di Grazia. Il pane e il vino, che vengono nominati, forse alludendo a una incarnazione cristiana e<br />

sacrificale dei beni primi della vita, non sono essi per Bonnefoy a suscitare il momento ispirato,<br />

bensì questa respirazione, di uno pneuma, spiritus, flatus, soffio della notte, che è sponsale,<br />

anticamente maritando le bestie e le cose allřinfinito manto delle stelle.<br />

La natura terrestre e la celeste, in un luogo che non so quale sia (non serve il nome, visto che in Le<br />

fleuve non cřè), ma certo remoto dalle luci e dai rumori della città, nella memoria dellřantica<br />

respirazione della campagna, quando gli animali dei contadini dormienti, ora ritrovati, essendo<br />

anche noi uno di quegli animali, di colpo si svegliano. Siamo infatti in una trance tuttora animale.<br />

E continuando nellřascolto di questa voce:<br />

Guarda,<br />

La mano che prende il seno,<br />

Ne riconosce la forma, ne trasale<br />

La dolce aridità, la mano sřalza,<br />

Medita il suo scarto, lřignoranza.<br />

E brucia ritratta nel grido deserto.<br />

Il cielo brilla intanto degli stessi segni<br />

La mia sensazione, non so quanto fondata, mi porta a vedere non un uomo che tocca il seno di una<br />

donna bensì una donna che tocca il proprio, avendo intuito quella respirazione di bestie e pensando<br />

alle sue mammelle, perché per lei si tratta di respirazione generativa, di parto e nutrimento materno.<br />

Si riconosce donna, madre, parente di quelle bestie e ritorna, con un altro choc, più personale, a<br />

quello scarto tra sé e loro, alla sua ignoranza, al suo impossibile, non si sa se di non avere avuto<br />

figli, di non averli più con sé, di non essere più giovane. Fatto sta che si ritrae scottata (brûle) ripete,<br />

ora volontariamente, il grido del suo risveglio mentre il cielo, prima matrimoniale, ora che annuncia<br />

il deserto della donna, si manifesta nondimeno nello stesso identico modo.<br />

Perché mai il senso<br />

Al fianco dellřOrsa hai coagulato,<br />

Ferita inguaribile che spartisce<br />

Nel fiume di tutto attraverso tutto<br />

Col suo grumo, come una cifra di morte,<br />

Lřafflusso scintillante delle vite buie?<br />

Tu guardi colare il fiume terrestre,<br />

A monte, a valle nella stessa notte<br />

Malgrado questi riflessi che riuniscono<br />

Le stelle invano ai frutti mortali.<br />

209


V<br />

210<br />

Io non so se la voce di questa poesia riconosca già a fondo, nel 1975, la presenza di Leopardi ma<br />

non è così decisivo saperlo. La domanda che pone infatti vibra di un comune bisogno di verità, che<br />

si può dire poeticamente, ma non spiegare con una parafrasi, giacché è invece la poesia a spiegare<br />

(ex-plicare, spianare le pieghe) quello che il mio pensiero complica (complico, cum-plico),<br />

sventagliando essa il suo senso nella dizione e nellřascolto incantatorio spirituale che, pensandoci<br />

io, sia pure in modo intuitivo, avvolgo pur sempre nelle pieghe di un mantello critico. Come se<br />

temessi che la poesia prendesse freddo senza di me o io, piuttosto, senza di lei.<br />

Ed è per assurdo che la interpreto, non per complicarla a me o ad altri, secondo il mio cono<br />

esistenziale, ma per convincermi una volta per tutte che ascoltare un tale poemetto è già una<br />

occasione di conoscenza, di fronte alla quale il commento non è che un modo per sbendare gli<br />

occhi, per dire il da me dicibile in vista di un aldilà indicibile, ma indicibile sulla scala del dicibile,<br />

giacché poeticamente in atto nei versi. Come se ci fosse una scala che allřimprovviso non ha più<br />

pioli, e che ricomincia ad averli più in basso, al punto che io possa scendere a patto che sia disposto<br />

a fidarmi, poggiando sullřinvisibile.<br />

Va da sé che mi si potrebbe chiedere di domandare allřautore stesso a che cosa alludesse, dicendo<br />

ad esempio: ŖPerché mai il senso Al fianco dellřOrsa hai coagulato?ŗ E se il soggetto del verso sia<br />

la ferita, autrice del coagulo, o sia un Ŗtuŗ indefinito. Una tentazione alla quale resisto. In una<br />

scrittura poetica è infatti possibile che siano entrambi i soggetti, e simultaneamente.<br />

Nel fiume del Ŗtutto attraverso tuttoŗ, dove ogni cosa attraversa ed è attraversata, nessuna essendo il<br />

mezzo o lo scopo dellřaltra, il senso, che al risveglio cadeva nella tua voce con un rumore di sonno<br />

gettato sulla pietra, ora è un grumo coagulato (da chi?) a fianco dellřOrsa. Che cosa cřè al fianco<br />

dellřOrsa, cioè di una costellazione tra le più care ai poeti, forse il buio nero e vuoto che cřè tra<br />

stella e stella, Ŗcifra di morteŗ nello Ŗafflusso scintillante delle vite buieŗ?<br />

Ricordiamo lřossimoro della notte luminosa, tipico della lingua mistica, intesa come lingua della<br />

pienezza nellřimmanenza radicale, e che sono ora le vite buie a scintillare, non le stelle bensì le<br />

nostre vite dormienti che respirano. E pensiamo che Ŗtuŗ, ossia che Je, fissando un punto a fianco<br />

dellřOrsa, un solo punto, un grumo di sangue, nel fiume del tutto sciamante (malgrado le nozze tra<br />

le bestie e le stelle, della terra e del cielo) vedo una ferita inguaribile che spartisce le cose. In essa il<br />

sangue non si raggruma, se non per poco, eppure io ci vedo un grumo che spartisce tutto. Forse<br />

perché esso fa coagulare la ferita, che quindi dovrebbe restare aperta per non spartire e disunire la<br />

realtà? Ecco una domanda che è bene resti aperta, perché si risponda con un gesto. Alla domanda:<br />

chi sono allora io? Io che respiro nellřimmensa notte con ogni altro animale? Rispondo fissando<br />

quel fianco: Sono io quel grumo nero o quella ferita che spartisce il fiume scintillante delle vite<br />

buie, colui che perde lřossimoro vitale e mistico della morte-vita, della notte-luce.<br />

Cřè uno sradicamento nel mio guardare, al momento in cui guardo me nel cielo, mi stacco di colpo<br />

quale coscienza lucida dalla trance geniale della natura. Sono un uomo che si sa mortale. Il mio<br />

risveglio è un impossibile che si rivela cruento. Ecco che lřinsidia della soglia si manifesta, aprendo<br />

la finestra e guardando fuori:<br />

E tu ben sai, già, tu che sognavi<br />

Una barca carca di terra nera<br />

Scostarsi da una riva. Il nocchiero<br />

Pesava con tutto il corpo sulla pertica<br />

Puntata non sapeva dove<br />

Nei fanghi senza nome in fondo al fiume.<br />

Vado avanti a guardare, ma già più dentro me, non sapendo ancora il mio nome ma vivendo la mia<br />

ferita come separazione di me dal mondo e, molto peggio, delle cose del cielo e della terra tra loro.<br />

210


211<br />

Mi ricordo il sogno che stavo facendo, e che ora si rivela invece una realtà. Sognavo una barca<br />

carca di terra nera scostarsi da una riva. Lřaggettivo dantesco che ho usato, Ŗcarcaŗ, mi fa scoprire<br />

che la strofa mi richiama il nocchiero di Dante, unřaltra insorgenza della mia memoria culturale, ma<br />

fatta tuttřuno con la nostra immaginazione della morte.<br />

Il nocchiero pesava con tutto il corpo: siamo già nel mondo fisico della gravità, del peso dellřuomo<br />

che punta nel fango la pertica, non sa dove, dřaccordo, ma che importa?, visto che ora quello che<br />

conta è lřesito: lřavviare alla morte. Non la morte vitale, la fecondità matrimoniale notturna, ma la<br />

morte che cade in me, direi rubando un verso dal contesto, Ŗcome per acqua cupa cosa graveŗ<br />

(ancora Dante, Paradiso, III, v. 123), come il senso che, allřinizio del poemetto, cade sulla pietra.<br />

O terra, terra,<br />

Perché la perfezione del frutto, quando il senso<br />

Come una barca appena presentita<br />

Si sottrae al colore e alla forma,<br />

E donde il sovvenire che ti stringe il cuore<br />

Della barca dellřaltra estate a raso dřerba?<br />

Donde, sì, tanta evidenza attraverso<br />

Tanto enigma, e tanta certezza, e così<br />

Tanta gioia, preservata? E perché lřimmagine<br />

Che non è apparenza, che non è<br />

Neanche il sogno torbido, insiste<br />

Benché ci neghi lřessere? Giorni profondi,<br />

Un dio giovane passava a guado il fiume,<br />

Il pastore sřallontanava nella polvere,<br />

Bambini giocavano in alto nel fogliame,<br />

Risa, battaglie nella pace, i brusii della sera,<br />

e lo spirito aveva colà il suo soffio, eguale…<br />

VI<br />

Leopardi si ripresenta, non tanto perché sento nominare lřOrsa delle Ricordanze, il pastore del<br />

Canto notturno, invocare i ŖGiorni profondiŗ, che mi richiamano, più che Ŗgli anni profondiŗ di<br />

Baudelaire, lřetà fiorita (per Charles fiorente il male) del Ŗgarzoncello scherzosoŗ de Il sabato del<br />

villaggio, vedendo bambini giocare; non soltanto per lřinvocazione: ŖO terra, terraŗ ma perché<br />

Bonnefoy in questi versi è Leopardi o, se si preferisce, Leopardi è Bonnefoy. Insomma quando si<br />

attinge lřilluminazione notturna di questo poetare ciascun poeta è lřaltro, compartecipa della vita<br />

dellřaltro, a distanza di decenni e in luoghi remoti, prima che lřaltro esista.<br />

E insorgono gli stessi interrogativi, sia pure rifratti nel proprio sentire e filosofare diverso, ora<br />

inconscio. Leopardi invoca la luna e Bonnefoy la terra. Entrambi domandano, ma a chi si<br />

rivolgono? Nessuno dei due crede esista un dio. Nessuno dei due accetterebbe si parlasse per loro,<br />

in modo sia pure tutto proprio, di spirito religioso. Nessuno dei due pensa che una filosofia possa<br />

darci la verità ultima delle cose.<br />

Entrambi domandano, e non pongono già quesiti, ma invocano. Leopardi si riferisce alla luna, a una<br />

pietra lucente, Bonnefoy alla terra. Leopardi ha un movimento ascensionale, dalla terra verso<br />

lřinfinito, escluso e consentito da Ŗquesta siepeŗ, Bonnefoy vive un moto gravitazionale. A vedere<br />

bene, in questa luce notturna, dentro questa respirazione di bestie, la terra non è realmente invocata,<br />

in una prosopopea, da Bonnefoy, serbando un eros laterale di sorella, mentre in Leopardi è molto<br />

forte la spinta filiale e ribelle verso la madre natura Ŗmadre di partoŗ e Ŗdi voler matrignaŗ. Brutta<br />

cosa il volere, e di più in questa notte, quasi diventando matrigna la volontà di per sé.<br />

211


212<br />

Non cřè la dea madre terra, né l‟alma Venus di Lucrezio, per Bonnefoy… Ma è solo Bonnefoy? È<br />

solo lřautore della poesia che parla? O è questo tu, che sono ormai io, almeno finché dura il filtro,<br />

che chiama la terra a testimone, non come fonte rivelativa, non come depositaria di un segreto -<br />

questo è il punto - nessuno per il poeta possedendone la chiave nella natura stessa.<br />

Perché allora la perfezione del frutto? La perfezione cioè di una vita che si compie fino a dare il suo<br />

frutto completo, quando il senso, la morte, è come una barca che, Ŗappena presentitaŗ, leggerissima,<br />

si scosta dalla vita, anche se il nocchiero pesa con tutto il corpo sulla pertica, e Se dérobe de la<br />

couleur et de la forme, Ŗsi sottrae al colore e alla formaŗ: scivola nella morte incolore e amorfa?<br />

ŖDonde tanta evidenza attraverso Tanto enigmaŗ. La vita è sempre evidente, di giorno o di notte. Il<br />

significato allora non è: Ŗè evidente che tutto è un enigmaŗ (ŖTutto è arcano fuor che il nostro<br />

dolorŗ, scrive Leopardi nellřUltimo canto di Saffo), non si tratta di un enigma di pensiero annodato<br />

nella natura (che solo un dio potrebbe sciogliere o che resta tragicamente stretto) né di un trionfo<br />

dellřevidenza sullřenigma, infatti è notte di morte.<br />

Anche la morte è sempre evidente. Proprio le due evidenze contrastanti generano un enigma<br />

essendo esse tuttřuno. Io mi sarei aspettato magari, lo confesso, il contrario: ŖDonde tanto enigma /<br />

attraverso tanta evidenzaŗ, ma proprio la mia aspettativa segnala che sarei disposto a cedere le due<br />

evidenze, della vita e della morte, in cambio dello scioglimento dellřenigma, magari in unřaltra vita,<br />

oppure in unřilluminazione che avessi in questa. E Yves Bonnefoy no, proteso comřè a tenersi<br />

saldo e convinto, senza resisterle, alla finitezza, unico modo di attingere lřattitudine poetica la<br />

quale, prima ancora che filosofica o di pensiero, è un bisogno di verità e di dire sì alla vita-morte<br />

radicale.<br />

A Bonnefoy sta a cuore non retrocedere mai dallřavamposto dellřevidenza, affrontando a piè fermo<br />

lřinamabile enigma. Da solo, se necessario, ma solo se necessario. Ciò che egli chiama la<br />

Ŗpresenzaŗ infatti è proprio il convivere lřevidenza, accettandola poeticamente nella vita-morte, con<br />

un altro: quale rara occasione, che ci attesta che senza Boris questa poesia non avrebbe potuto<br />

esserci. Operazione tuttřaltro che immediata, giacché nella vita o nella morte, per sé naturalmente<br />

prese, non cřè nessun enigma, finché una persona spirituale e pensante non è costretta a metterle in<br />

relazione, quando muore un amico.<br />

Lřevidenza è originaria, soltanto dopo giungendo il nostro pensiero enigmatico e spirituale, che è il<br />

pensiero stesso della morte, e perciò anti-poetico. La presenza poetica non mi salva dalla mia morte,<br />

dice quel pensiero, che ne è per me la fine assoluta, il limitare nero, ma può attraversare lřenigma<br />

della morte di un altro? Solo a una condizione: se questo altro, poeticamente (e cioè in verità), sono<br />

io. E sono io se lřamo. Non dimentichiamo che si tratta dellřintuizione di un io-tu: che ho ormai<br />

fissato io quel grumo di fianco allřOrsa, che ho già perso la respirazione concorde della natura e,<br />

pur trovandomici in mezzo, e respirando quasi grazie a essa, ho ormai diviso le cose terrene e le<br />

celesti, e mi sono diviso io stesso.<br />

Svegliandomi, infatti, io sono già preso da vivo nel sogno di quella barca acherontica nella quale<br />

traghetterò. Ecco allora che il pensiero, già nel suo risveglio, è alleato della morte. Il pensiero è<br />

molto più naturale di quanto non si pensi, è addirittura troppo naturale, quasi la natura animale<br />

stessa si trovasse a pensare la morte in noi. La poesia non è allora per Bonnefoy alleata della natura,<br />

anzi è unřimpresa civilizzatrice e illuminata, legata a unřattitudine antropologica di educazione<br />

fraterna allřevidenza, come ne La Ginestra leopardiana.<br />

Si comprende perché per Bonnefoy poesia non sia solo letteratura e arte ma lřattitudine decisiva<br />

verso la vita e la verità. Che questo è, se non lřunico modo per essere poeta, il più potente e<br />

generoso. E questo spiega anche quanto Bonnefoy perseveri nel sostenere la verità civilizzatrice<br />

della poesia, in vista di una società più vigorosa, limpida e fraterna.<br />

Significativo mi sembra allora anche il fatto che il poeta conduca da decenni la sua campagna<br />

contro i mali del pensiero concettuale, proprio lui che così intensamente e intuitivamente pensa, ma<br />

212


213<br />

non mai contro la saldezza di una paideia etica, premessa a priori del poetare inteso come potenza<br />

di civiltà, e ora, in Le fleuve, espressa nellřamore fraterno più duro e meno vile, quello che non si<br />

arrende davanti alla morte dellřamico, anche se sa che egli non vivrà più.<br />

VII<br />

Lřimmagine delle cose non è semplice apparenza, non è illusione, e non è neanche quel sogno<br />

torbido acherontico che ho fatto, visto che sono vivo su questa soglia, quanto insidiosa, ma senza la<br />

quale non esisterebbe poesia. E allora? Allora nei giorni profondi un dio passava a guado il fiume,<br />

un pastore sřallontanava nella polvere, bambini giocavano nel fogliame. Tutto qua? Sì, dèi, pastori,<br />

bambini già erano un tempo, nel passato, nellřelegia, nella pastorale del passato. Allora colui che<br />

separa è già dopo, già nel tempo cronologico, già fuori del transtemporale poetico? La battaglia si fa<br />

cruda. Dobbiamo infatti rispondere di no: egli sogna con la più umane delle nostalgie un eden lirico<br />

in quanto non è cosa facile entrare in carne e ossa nel poetico, che è sempre contemporaneo, sempre<br />

ora.<br />

Egli domanda, invoca, pensa il paradosso, sia pure, vive il contrasto vitale connaturato al mondo,<br />

mondo tuttora aperto, che la mia morte e nessuna morte potrà mai chiudere e recingere. Ma è<br />

separato, sdoppiato, capovolto dal risveglio, di nuovo verso il sonno e il sogno. E non trova altro<br />

che un tempo perduto, divino, pastorale, infantile, ridente, non perché armonico - tale mondo non è<br />

mai esistito - ma perché le battaglie erano nella pace, perché la pace era il concerto dellřarmonia e<br />

della disarmonia, come in Eraclito.<br />

Eppure le stelle sono le stesse, la natura è la stessa, nella respirazione vasta delle bestie che<br />

continuano gli sponsali con le stelle.<br />

Oggi il traghettante<br />

Altra riva non ha che rumorante, nera,<br />

E Boris de Schloezer, quandřegli è morto<br />

Udendo sul pontile una musica<br />

Ai prossimi inaudita (essa era già<br />

Il flauto della libertà rivelata<br />

O un bene estremo della terra persa,<br />

ŖOperaŗ trasfigurata?) Ŕ dietro di sé<br />

Non lasciò che le acque bruciate dřenigma.<br />

O terra,<br />

Stelle più violente mai non hanno<br />

Sigillato lřempireo di più fissi fuochi,<br />

Appello divorante di pastore nellřalbero<br />

Mai devastò unřestate più scura.<br />

Il traghettatore sognato, sogno non era, è lui stesso, prossimo allřunica riva che gli resta Ŗbruyante,<br />

noireŗ. E il risveglio, nellřinsidia della soglia, è risveglio di morte. E quel tu allora, poiché non cřè<br />

la morte ma solo gli uomini che muoiono, compare di colpo con un nome: Boris De Schloezer.<br />

Ora, in questo trasvenare continuo delle persone e delle figure lřuna nellřaltra, Boris stesso diventa<br />

le passeur, ma allora non più il traghettatore di anime dantesco ma lo stesso traghettante, passante<br />

tra le sponde della vita e della morte.<br />

So ben poco di Boris de Schloezer, ho letto che Bonnefoy lo stimò un uomo così intimo alla poesia<br />

e generoso da presentarlo a Paul Celan, ma in realtà so lřessenziale di lui da questa poesia, perché<br />

lřamore che il poeta gli porta non si chiude con lui ma scorre verso ogni suo ascoltatore. Lřamore<br />

infatti è sempre transitivo. Giacché lřimmedesimazione, lřho detto, è qualcosa di empatico e di<br />

sentimentale, di lirico, se vogliamo, mentre lřidentificazione è lřoperazione specifica della poesia.<br />

213


214<br />

Completa ma intermittente, per me, in questo caso, prima essendo io tutto nellřaltro e poi tornando<br />

me, e infatti ecco che non sono più io transtemporale, perché Ŗil est mortŗ e io sono vivo. Eppure<br />

poeticamente, nel, io, Bonnefoy, io Boris, e io, lřascoltatore, siamo i destinatari dellřesortazione:<br />

Regarde! De tout tes yeux regarde ! E non mi distinguo più dallřio Boris il quale, in quel punto di<br />

separazione, con lřenigma di traverso allřevidenza, ascolta una musica inaudita.<br />

Musica delle sfere? La musica che secondo il pitagorico Simmia nel Fedone è quella dellřanima che<br />

promana dal corpo ma che, rompendosi il corpo, pur essendo essa lo scopo dello strumento fisico,<br />

non potrà più risuonare? Musica che realmente egli ascoltava prima di morire? Rivelazione<br />

dellřenigma, che non è una cosa pensata o detta, un vero concettuale, ma la libertà stessa? Oppure<br />

Ŗun bene estremo della terra persaŗ, lřultima fascinazione di unřevidenza enigmatica, che è tuttora<br />

un bene perché, non essendo libertà, impossibile, è tuttavia ancora quel torrente roco?<br />

No, Boris morto non lascia tale e quale a prima lřenigma dellřevidenza. Un uomo amato che muore<br />

brucia quelle acque. Non intendiamo noi allora continuare a respirare nel concerto, vederlo come<br />

uno degli infiniti morti, condizione di una vita infinita e impersonale che trasmuta attraverso noi, in<br />

un meccanicismo impietoso, perché quel morente, ogni morente, è unico, è la persona che amo,<br />

sono io. Le stelle fisse sigillano lřempireo (che così traduco in termini solo astronomici), il limitare<br />

del cielo, come prima. Ma noi non siamo più gli stessi. Esse ci appaiono ora con una violenza mai<br />

sperimentata, e lřappello del pastore, il richiamo di unřarmonia di dèi e di bambini che giocano ci<br />

suona tremendo: Ŗmai devastò unřestate più scuraŗ.<br />

Non la morte propria, mai presente, ma quella dellřamico, la morte in vita, convissuta. La cosa più<br />

violenta che ci sia, precipitata infatti nel passato-presente. La morte che è sempre stata, nel sempre<br />

passato, origine prima dellřevidenza, non sua clausola e sigillo. Sigillo ne sono semmai le stelle,<br />

violentemente. La morte di prima che tutto esistesse, dalla quale siamo nati. Nella quale torniamo<br />

perché non ne siamo mai usciti.<br />

Ecco che ascoltando questi versi, tornato io lřuomo mezzo prosastico che scrive, già un poř<br />

dimentico della visione, e un poř barcollante col mio moi che si rimpossessa del Je, mi dico, in una<br />

risonanza di ciò che ero, che la poesia può essere non solo una forma di conoscenza e di<br />

rigenerazione, ma lřaccompagnatrice, lo spirito, amoroso e rischioso, dellřincontro tra due esseri,<br />

quasi unřallenatrice assai severa dellřanima, che tu puoi versare in un ascolto a oltranza della nostra<br />

finitudine, come in Bonnefoy, o in una fede Ŗimpossibileŗ, che chiede pari coraggio e pietà, vivendo<br />

la stessa esperienza Ma lřuomo semipoetico dice allřuomo semiprosastico che la poesia fa la tua<br />

esperienza, non essendo essa un fine ma nemmeno un mezzo, non essendo passata né futura ma in<br />

atto.<br />

Seguono ne Il fiume due file di puntini che non staccano ma sospendono la musica, in una pausa<br />

lunga di silenzio. Quasi una punteggiatura ritmica, una gestione artigianale e tipografica del silenzio<br />

tra materia e spirito. E di nuovo la voce:<br />

Terra,<br />

Che aveva scorto, che comprendeva,<br />

Che accettò?<br />

Egli ascoltò, a lungo,<br />

Poi si raddrizzò, il fuoco<br />

Di questřopera che attingeva,<br />

Chi sa, a una cima<br />

Di scioglimenti, di ritrovamenti, gioie<br />

Illuminò il suo volto.<br />

Brusio, chiuso<br />

Della pertica urtante il fiotto di fango<br />

214


Notte<br />

Della catena che slitta in fondo al fiume.<br />

Altrove,<br />

Là dove ignoravo tutto, dove scrivevo,<br />

Un cane forse avvelenato graffiava<br />

Lřamara terra notturna.<br />

215<br />

Ancora una chiamata a testimone della terra, più che unřallocuzione rivolta a essa, se la senti di<br />

fianco e non la guardi. Vi fu una chiara rivelazione, una visione, e soprattutto unřaccettazione, un<br />

consenso di Boris? Forse gli schiarì il volto il senso che la sua opera puntasse alla sua cima proprio<br />

sciogliendosi, ritrovandosi, gioendo nella morte? Colui che scrive la poesia non può saperlo, non<br />

può che sentire un rumore chiuso, la pertica del nocchiero nel fiotto fangoso o la catena che slitta:<br />

Là où jřignorais tout, où jřécrivais,<br />

Un chien peut-être empoisonné griffait<br />

Lřamère terre nocturne.<br />

Enrico Capodaglio<br />

215


Un lontano saluto<br />

216<br />

Dresda come appare prima che sia distrutta, nel fotogramma aereo da ovest, è un radiante traversato<br />

dai ponti Augustus, Albert e Carola; lřesse dellřElba la taglia, quasi scaturita dalla mente di un<br />

geometra taoista. A quellřaltezza il braille dellřabitato, in legno dolce, era ancora fittissimo.<br />

Dallřisola ferroviaria, che non vediamo, a Racknitzhöhe, oggi vi sono cinque fermate di tram: Gret-<br />

Palucca-Straße (dal nome della ballerina amica di Beckett, che lřintrodusse in città quando egli vi<br />

giunse nel gennaio del 1937); Lenné Platz, dove si apre a due passi il giardino zoologico (come i<br />

pachidermi in fiamme di Berlino, raccontati da W.G. Sebald, qui morirono tutti coloro che<br />

cercavano scampo, mentre gli struzzi invece fuggirono); poi Strehlener Platz, la lunga salita fino a<br />

Zellescher Weg, infine Racknitzhöhe. Abbiamo percorso questo tragitto tante volte, il selciato<br />

produce un rumore, in macchina, che da bambino sai subito di essere a Dresda.<br />

Questo fotogramma aereo è lřapertura del Porzellan di Durs Grünbein (Suhrkamp, 2005), lui che ha<br />

mandato a memoria ogni tavoletta pretoriana della sua città: «Chiudi gli occhi, e la prima cosa che<br />

vedi: rovine / Ancora dopo quarantřanni, impresse a fuoco sulla rètina. / Conosci la pianta della città<br />

come le linee della tua mano».<br />

Dal fascio di binari della stazione di Dresda Ŕ lřentelechia di varie poesie in Zona grigia, mattina<br />

(raccolta dřesordio di Grünbein, concepita fra il 1985 e il 1988) Ŕ è Jakob Abs a proiettare, sopra i<br />

grafici della cabina di scambio, tutti i transiti futuri, anticipandone la presenza; faceva aggetto, sui<br />

versi di questo primo volume, un metodo che diresti congetturale, intessuto di particole del<br />

discorso, di mosaici vocali, di una verità da rinvenire in rebus (nel dialogo a distanza fra Johnson e<br />

Gadda la cerniera del poliziesco epistemologico), e che ora, in Porzellan, conduce per forza di<br />

scrittura alla ricostruzione di un luogo nella memoria, unřarea urbana fragile e non più esistente<br />

(Beckett aveva battezzato la città Řporcelaine Madonnař). Di quanto spazio ha bisogno, nella<br />

memoria, unřassenza? Tale è questa sovrapposizione impossibile, con la bisettrice della Prager<br />

Straße, i nuovi centri commerciali, gli Hertie, i Karstadt, gli Häuser des Buches, e che porta dritto<br />

allřAltstadt, lřincisione su rame della città vecchia, alla collezione di porcellane, al fiume.<br />

Con Porzellan viene interrotta la persistente sonata cartesiana (il lare di La Haye en Touraine è vivo<br />

in ogni forma allřinterno del mondo poetico di Grünbein, fino allřultima raccolta di saggi Der<br />

cartesische Taucher) per volgere, dopo i 33 epitaffi di Den Teueren Toten (1994), allřelegia e al<br />

planh più doloroso.<br />

Il poemetto «della fine della mia città», come è nella campitura del sottotitolo, attraversa la<br />

distruzione di Dresda con un sistema di 49 strofe, nel solco dei Tableaux parisiens di Baudelaire,<br />

composte da dieci versi lunghi dřandamento trocaico, variamente rimate, sviluppanti una rete di<br />

responsioni ritmiche a largo raggio. Lřincordatura di questi versi, quasi tesa da un ŘErcole al trivioř<br />

Ŕ facciamo man bassa di una formula di Gabriele Frasca, anchřegli pienamente inscritto, dagli anni<br />

ottanta, in una parabola estetica che attrae i relitti della tradizione nella centrifuga della modernità -,<br />

dà nuova prova del furibondo culto formale che già ne contrassegnava il ductus. Il loro smalto<br />

retorico è il referto dřuna cristallografia più che decennale (il poema è stato pensato fra il 1992 e il<br />

2005): lřalessandrinismo armato di Grünbein, per la sua città, stende un encausto su carta.<br />

Lřinnesco dellřopera è dato dallřesperienza degli anni successivi allřannientamento di Dresda, in<br />

qualità di testimone secondario: «[...] un severo grigio unificato / chiuse le ferite, e dellřincanto<br />

rimase Ŕ amministrazione. / Non perché necessario fu macellato, il pavone sassone. / I licheni<br />

crebbero, inestirpabili, sulle fioriture dřarenaria. / Elegia, ritorna come singhiozzo. A che pro<br />

rimuginare?». E tuttavia si tratta di una memoria che non potrà consolare («No, il ricordo, la<br />

provvista di leggende / è da lungo tempo esaurita, e ogni nostos viene punito») né potrà farlo una<br />

memoria meccanica del verso, perché il rituale magico che trapiantasse gli oggetti in una teca di tesi<br />

e arsi, pietrificherebbe Ŕ a non opporre uno scudo di scepsi e ironia Ŕ quale testa di Medusa della<br />

classicità. Ora flâneur ora archeologo, cronista, geografo e storico, lřio lirico di Porzellan non<br />

conosce sdegno per la distruzione né ripicca sentimentale, i suoi metodi, è stato detto, sono quelli<br />

216


217<br />

dei sondaggi, della descrizione, dellřerosione di strati e lřanalisi di fonti e resti materiali (Friedmar<br />

Apel).<br />

Walter Kempowski, il grande custode di cose tedesche, avrebbe contrappuntato, dalle pagine del<br />

suo Der rote Hahn (*Banderuola rossa, 2001), ovvero, comřera suo uso, dai pochi pungenti fogli a<br />

prefazione dei propri collage: «Non la smetteremo mai di meravigliarci della mancanza di scrupoli<br />

di coloro che schiacciano i pulsanti rossi, e del coraggio e dellřenergia di quelli che devono sempre<br />

mettersi a riordinare tutto».<br />

Grünbein aveva già disegnato, in Lezione sulla scatola cranica, una Dresda che aggalla come in un<br />

tardo fissaggio, «un puzzle, tutto regale, con cui la guerra poté disinnescare gli orrori di un mondo<br />

di distruzione» (nella traduzione di A. M. Carpi); adesso egli muove, a sessantřanni dai<br />

bombardamenti effettuati tra il 13 e il 15 febbraio 1945, verso la compresenza dei tempi, e dunque<br />

in quel camminamento che non guarderà alla storia se non a partire da unřidea del presente: «Una<br />

fine simile, che porcata da melodramma. / Quanto tempo sarà passato? Ragazzi, e chi se lo ricorda. /<br />

Per il non ritorno conosco solo una parola: oggi». È lo stesso disincanto, alimentato dal senso di<br />

postumità dellřesistenza, che si ha quando il greenhorn domanda, in un luogo del poema, se la<br />

memoria sia ancora lancinante: «Se tutto ciò faccia ancora male? Solo uno spettatore può chiederlo,<br />

città nella valle» Ŕ forse qualcuno riconoscerà lřepiteto, greenhorn (pivello), che Karl May attribuì a<br />

una sua figura prima che questa divenisse il temibile Old Shatterhand della saga di Winnetou;<br />

presso Dresda, a Radebeul, vřè il museo dedicato a questo scrittore, fortezza dřinfanzia negli slarghi<br />

aperti dalla guerra aerea. Qui «il genius loci, lui che tutto restaura», non ha mai cessato di riattivare,<br />

in quieta maniacalità, interi blocchi di passato: la nuova apertura della Frauenkirche (nel medesimo<br />

anno di pubblicazione di Porzellan), chiesa andata distrutta in quei giorni, come quasi tutto resto,<br />

pone ufficialmente termine alle ricostruzioni del dopoguerra.<br />

Una memoria biologica, preconscia, respinge dai versi di Porzellan lřatrabile del Diavolo («Passato!<br />

Che parola sciocca! Perché Ŗpassatoŗ? / Passato e puro nulla: identità completa» Ŕ Faust II, vers.<br />

Fortini), tale che il vecchio abitante di Dresda può asserire: «La memoria, altroché. Proviene da<br />

certe regioni del cervello / E poi vi fa ritorno. E lřorigine, la casa sono / un mucchietto di sabbia in<br />

una duna mobile di neuroni [...] È come una lettura del pensiero, quando dalle grondaie, / di notte al<br />

bancone Dresda risorge … un lontano saluto, / attraverso lo spazio e il tempo Ŕ dallřipotalamo».<br />

Con queste Řschegge sotto la palpebra per una vita interař, Grünbein ha fissato lo sguardo su un<br />

intervallo temporale da dove dirama ogni strada dei nostri giorni, e da cui sembra provenire il<br />

sorriso ionico, forse anche eginetico, di una Sibilla che ripeta lřacuminato responso: ibis redibis non<br />

morieris in bello.<br />

Domenico Pinto<br />

[Questo articolo è apparso su «Alias», supplemento del quotidiano il manifesto, sabato 2 agosto<br />

2008.]<br />

217


Ritmi in chiaroscuro:<br />

Le polarità de I vespri veneziani di Anthony Hecht<br />

218<br />

Per tutta la sua lunga carriera poetica, lo statunitense Anthony Hecht (New York, 1923 Ŕ<br />

Washington D.C., 2004) ha intrattenuto un profondo e fruttuoso rapporto con la storia e la cultura<br />

italiana. Molte delle sue poesie più notevoli Ŕ ad esempio ŖA Hillŗ, ŖBehold the Lilies of the Fieldŗ,<br />

ŖOstia Anticaŗ, ŖThe Costŗ, ŖSee Naples and Dieŗ, per nominarne solo alcune da una lunga lista Ŕ<br />

fanno uso di temi e situazioni italiane e di epoca romana. Nessun poeta statunitense ha scritto in<br />

modo più ricco o più stimolante di quello che per Hecht era diventato il paese adottivo della sua<br />

immaginazione. Si tratta di un rapporto cominciato nel 1951-1952 alla American Academy di<br />

Roma, dove trascorse un anno avendo ricevuto la prima Rome Fellowship in Literature, e<br />

conclusosi con una residenza presso il Liguria Study Center for the Arts and Humanities a<br />

Bogliasco nell'anno della sua scomparsa, il 2004, dove scrisse le sue ultime poesie. Allo stesso<br />

modo, l'effetto dell'Italia sulla sua invenzione poetica può essere rintracciato dalle pirotecnie<br />

barocche di ŖIn the Gardens of the Villa d'Esteŗ nel suo primo libro, A Summoning of Stones (1954),<br />

fino ai finissimi accenni in poesie come ŖLong-Distance Visionŗ e ŖThe Darkness and the Light Are<br />

Both Alike to Theeŗ, tra le liriche sommesse e perturbanti del suo ultimo libro The Darkness and<br />

the Light (2001).<br />

Al centro del canone italiano di Hecht, e in verità vicino al centro della sua intera opera, si<br />

colloca il magnifico monologo drammatico in pentametri giambici non rimati, suddiviso in sei parti,<br />

intitolato ŖI Vespri Venezianiŗ, la poesia che dà il titolo alla sua quarta raccolta, apparsa nel 1979.<br />

Con i suoi quasi 900 versi è con ampio margine la poesia più lunga di Hecht, a meno che non si<br />

voglia considerare (come si potrebbe) l'esuberante e macabra sequenza ŖThe Presumptions of<br />

Deathŗ, dal volume Flight Among the Tombs, come un'unica poesia. Si potrebbe parlare a lungo<br />

della relazione tra ŖI Vespri Venezianiŗ e il resto dell'opera di Hecht, in quanto si tratta di una<br />

poesia cruciale per capire l'ampiezza dello spettro e l'entità del suo lavoro; come a lungo si potrebbe<br />

parlare della relazione di questa poesia con il ricco corpus di opere letterarie in lingua inglese che<br />

trattano di Venezia, del quale costituisce un elemento di assoluto rilievo. Ma mi limiterò ad alcune<br />

brevi notazioni, dopo qualche osservazione preliminare, che possano essere d'aiuto al lettore<br />

italiano che ancora non conosce Hecht ad apprezzare alcuni degli aspetti splendidi e terribili del<br />

capolavoro italiano di Hecht, in cui sono intessuti inestricabilmente sfavillanti passaggi lirici di<br />

elaborata tessitura e sbalorditiva limpidezza con i fili più tenebrosi di un racconto tragico e<br />

sgomentante.<br />

Forse la prima cosa che colpisce il lettore de ŖI Vespri Venezianiŗ è la cornucopia di<br />

abbacinanti brani descrittivi. Ad esempio, vicino all'inizio della prima sezione, troviamo<br />

[...] la vista, un mattino uggioso,<br />

sotto il corrimano di una ringhiera in ferro<br />

verniciata di nero lustro, di sei gocce dřacqua<br />

appese, sospese, che succhiano in se stesse,<br />

come malsano nutrimento, il nero<br />

cascante della ringhiera stessa,<br />

ma coronate di semilune brillanti di cromo<br />

in cui il mondo veniva splendidamente sfigurato,<br />

come volti visti in cucchiai, come riverberi<br />

in figliazioni gelatinose, nella bottarga di bollicine,<br />

quel minuto wampum argenteo lungo gli steli,<br />

ingialliti e ingranditi, dei fiori vecchi<br />

chiusi nella lente dřacqua marcia e vetro<br />

nelle stanze di sopra, quando qualcuno è morto.<br />

218


219<br />

Ci troviamo di fronte a un'osservazione perfetta, in cui il mondo viene reso nuovo dall'occhio<br />

penetrante del poeta. Ma porta con sé anche delle risonanze tematiche che verranno sviluppate nel<br />

corso della poesia: esperienze visionarie come questa esistono Ŗsospeseŗ, suscitate da una specie di<br />

Ŗmalsano nutrimentoŗ, e il mondo visto attraverso una tale brillantezza è Ŗsfiguratoŗ, per quanto<br />

Ŗsplendidamenteŗ; inoltre, le similitudini ci conducono a quella nota elegiaca conclusiva alla quale<br />

il poemetto tornerà dopo poco, quando comincerà a fornire alcuni dettagli narrativi (Era mia madre<br />

che era morta. / Dopo lunga malattia, tanto tempo fa). Oppure, per fornire un altro esempio di tour<br />

de force descrittivo, si veda questo resoconto dell'inizio di un temporale:<br />

[...] I lampioni pubblici<br />

si accendono fievoli nellřoscurità raccolta dellřinverno.<br />

Il brontolio del tuono cominciaŕuna valanga<br />

che rotola lungo corridoi levigati di rumore,<br />

traballanti carri di condannati a morte che brancolano<br />

nello spazio vuoto e petroso di una cantina. E poi<br />

come un sussurro di foglie secche, comincia la pioggia.<br />

Macchia il selciato, forma un pulviscolo<br />

di cristalli lucenti smorzati da toni plumbei<br />

a dieci centimetri da terra. Scialli ventosi di pioggia<br />

rabbrividiscono e velano la facciata della cattedrale<br />

di trine sferzanti mentre i lampioni trattengono<br />

globi immobili di bruma rifrangente alti nellřaria<br />

e lřasfalto nero è corso da rughe dřoro<br />

in pozze e dispersioni di umori, rivoli svelti<br />

di rame liquido, di ottone fuso che si attorce.<br />

La sinestesia qui è sbalorditiva, con il passaggio che si sposta dalla vista all'udito e poi di nuovo alla<br />

vista, come anche da effetti delicati a effetti drammatici all'interno di quei sensi, con modulazioni<br />

calibratissime: l'accendersi dei lampioni precede il tuono, e una volta che quel brontolio si è spento,<br />

il sussurro della pioggia si trasforma in macchie sul selciato, che presto saranno cancellate dai forti<br />

rovesci. Ma la poesia continua sottolineando che momenti del genere, in cui Ŗlřanima [è] intrisa di<br />

impalpabili particolariŗ, costituiscono una fuga da Ŗtutta lřangoscia di questo mondo / nel rifugio<br />

del tempo presenteŗ: il presente lirico esiste in una relazione di contrappunto con il passato<br />

narrativo che deve essere Ŗmisericordiosamente dissoltoŗ. Oppure, per citare un esempio ancora più<br />

scintillante, troviamo questo climax orchestrale, vicino alla fine del poemetto, in quella che<br />

potrebbe essere considerata la più spettacolare raffigurazione di un cielo in tutta la letteratura in<br />

lingua inglese:<br />

Sullo sfondo di un diorama del celeste più tenue<br />

cagli di nuvole, cumuli di nuvole, cespugli di nuvole sřassolano.<br />

Enormi torte nuziali, meringhe impossibili,<br />

soffici barriere coralline e tumuli friabili<br />

passano in auguste processioni e calme greggi.<br />

Immensi stadi, tribune e anfiteatri,<br />

sembrano le opulente lettighe ornate di nappe<br />

degli dei; o fasce da neonato lavate, parrucche bien coiffées,<br />

raccolti bianco-latte, peonie cinesi<br />

che visibilmente rimproverano la nostra grettezza.<br />

Nonostante tutte le loro presenze spettrali, esse<br />

di sera assumono una nobiltà multicolore.<br />

219


Verso est il cielo comincia a volgere<br />

a un lilla così esangue da sembrare un umore del grigio,<br />

gradualmente, come la morte di un uomo virtuoso.<br />

Strie di argentana bordano sfarzose<br />

le lente chiglie a fondo piatto, quei lobi ondeggianti<br />

tra i quali piume e fasci di luce sventagliano<br />

rossi e arancio-pesca sfumati in cornalina,<br />

che approssimano al centro un fulgore cedrino,<br />

la fornace ardente nella gola del forno<br />

che infuoca e fonde nuvole di moscatello<br />

con pennellate dřoro.<br />

220<br />

Ma immediatamente la poesia sottolinea di nuovo la distanza ironica tra una tale corroborante<br />

meraviglia e la tenebra indifferente del narratore: ŖIo guardo e riguardo, / come se potessi essere<br />

salvato solo col guardareŗ.<br />

Salvato da cosa? Solo gradualmente, a spizzichi e bocconi, ci vengono presentati i dettagli<br />

della vita del narratore. Sua madre è morta che lui era bambino. Lui è un espatriato americano che<br />

abita grazie a una rendita annuale a Venezia, città dalla quale è stato attratto per la sua peculiare<br />

commistione di bellezza e decadenza. Viene da Lawrence, nel Massachusetts. Ha prestato servizio<br />

come paramedico nella Seconda Guerra Mondiale, dove è stato testimone di orrori indicibili. Nelle<br />

prime tre delle sei sezioni del poemetto, questi sono tutti i fatti che ci vengono forniti. Poi le<br />

informazioni cominciano ad accumularsi più rapidamente. È cresciuto nel negozio dello zio. La sua<br />

famiglia era costituita da immigrati lituani. Il padre, venuto in America con la giovane sposa per<br />

raggiungere lo zio, poco dopo il suo arrivo partì verso il west da solo, e non sarebbe più tornato. Lo<br />

zio venne sconvolto dalla morte della madre del narratore, che ebbe luogo quando questi aveva sei<br />

anni. Quando raggiunse i diciotto anni, il corpo del padre venne rispedito a casa dall'Ohio: poco<br />

dopo la sua partenza, il padre era stato derubato, colpito in testa, e internato come pazzo, prima che<br />

qualcuno si accorgesse che quello che diceva non era il blaterare di un folle ma un normale discorso<br />

in lituano; lo zio, contattato dalle autorità e preoccupato del possibile scandalo, e forse anche per<br />

motivi ancora più sinistri, aveva lasciato che il fratello rimanesse in manicomio. Lo zio aveva avuto<br />

grande successo nelle sue attività commerciali. Il narratore si era arruolato nell'esercito<br />

immediatamente dopo il funerale del padre, e in seguito era stato congedato per Ŗdebolezza<br />

mentaleŗ. Nel tempo, era arrivato a sospettare che lo zio, che l'aveva nominato suo erede, fosse in<br />

realtà il suo vero padre. Il narratore vive disprezzandosi profondamente, sentendosi Ŗil suo<br />

colpevole erede, il beneficiario / dei suoi soldi e dei suoi criminiŗ.<br />

Un riassunto succinto come il precedente presenta in modo pesante quello che Hecht espone<br />

con lentezza, con grande arte e notevole suspence, quando questi Ŗfattiŗ emergono sullo sfondo di<br />

meditazioni sui più vari argomenti, quali la durata della vita dei virus e i più fini dettagli del galateo<br />

codificato da Emily Post. Perché ciò che è messo in mostra lungo tutto il poemetto è naturalmente la<br />

sensibilità del narratore: colto, raffinato, capace di percepire le più sottili nuances visive e sonore,<br />

ma anche amaro, fatalistico, attratto dai foschi lati oscuri delle cose. Ma qui, necessariamente, ci si<br />

avvicina al paradosso che chiunque commenti un monologo drammatico si trova ad affrontare.<br />

Quanto della tessitura della poesiaŕle sue visioni rapsodiche o da incubo (per quanto le epifanie<br />

che ho citato in precedenza dimostrino la grande bellezza del poemetto, vi si trovano delle<br />

immersioni Ŕ opposte a queste Ŕ nel deforme e nel grottesco), le sue ossessioni, le sue evasioni e<br />

circonlocuzioniŕva attribuito alla voce narrante e quanto all'autore? Se nei brani critici finora<br />

disponibili su questa poesia si può trovare un difetto comune, sta, secondo me, in una tendenza ad<br />

accettare la finzione che muove il poemetto alla lettera trattando ŖXŗ (così i critici hanno<br />

denominato il protagonista) come se fosse quasi il creatore della poesia, invece di esserne l'entità<br />

creata. I monologhi drammatici, nei grandi maestri del genere vissuti nel diciannovesimo secolo,<br />

Browning e Tennyson, come nei loro eredi del ventesimo secolo, quali Frost ed Hecht, sono sempre<br />

220


221<br />

uno stampo, una maschera della voce che permette al poeta di dire ciò che intende dire con la libertà<br />

fornita da una tale presa di distanza, ma quasi sempre con vestigia di identificazione sotterranea fra<br />

poeta e personaggio. Così l'abilità di Browning a rappresentare le articolazioni dei mondi interiori<br />

dei suoi personaggi sia storici che immaginari trova un corrispettivo nell'insistenza di Fra' Filippo<br />

Lippi nel collocare persone reali nelle sue raffigurazioni sacre, sorprendendo gli osservatori e<br />

spesso raccogliendo la disapprovazione dei suoi superiori. Quindi le visioni attenuate di Titone, la<br />

cui maledizione era l'immortalità, riecheggiano l'ambivalenza dello stesso Tennyson riguardo al<br />

prolungare la tradizione visionaria romantica della quale egli stesso è erede. E quindi le oscillazioni<br />

di ŖXŗ tra le squisite descrizioni del mondo che vede attorno a sé, colme di elaborati ornamenti<br />

retorici, e le inquietanti meditazioni sulle forze malefiche che modellano le nostre vite e i nostri<br />

caratteri, portano con sé più che una limitata corrispondenza con i ritmi in chiaroscuro della poesia<br />

matura di Hecht, che passa da una polarità all'altra di tenebra e luce, e che tiene in equilibrio lo stile<br />

alto della sua arte lirica Ŕ le sue eleganti e complicate forme strofiche e la sua musica composta e<br />

risonante Ŕ con il torvo e impervio materiale che coraggiosamente, e ripetutamente, sceglie come<br />

proprio argomento quando contempla gli episodi de-umanizzanti e sconsolanti del lungo catalogo di<br />

atti inumani compiuto dall'uomo nei confronti dell'uomo.<br />

Hecht è stato più chiaro di alcuni dei suoi criticiŕe considerevolmente onesto, come<br />

poetaŕriguardo a tale demarcazione. Nell'ottimo libro che raccoglie una lunga intervista di Philip<br />

Hoy, nella collana Between the Lines, Hecht scrive:<br />

ŖI Vespri Veneziani parlano di un personaggio inventato, in gran<br />

parte si tratta di un uomo che ho conosciuto a Ischia, ma in parte di<br />

mio fratello e, necessariamente, in parte di me. Ma per lo più, il<br />

personaggio è inventato. È un uomo profondamente travagliato,<br />

nevrotico, disadattato, e la sua infelicità non fa altro che aumentare<br />

la sua introspezioneŗ. [p. 64]<br />

Questo commento si trova nel contesto di una spiegazione sulla distinzione tra il narratore de ŖI<br />

Vespri Venezianiŗ e il narratore di ŖGreen: An Epistleŗ (una poesia pubblicata nella sua raccolta<br />

precedente, Millions of Strange Shadows), rispetto al quale Hecht prova un livello assai maggiore di<br />

identificazione: ŖIo stesso, sia come voce riconoscibile che come presenza sono di gran lunga più<br />

coinvolto in 'Green' di quanto sia consapevole di essere nei 'Vespri'ŗ. Tale distinguo è importante,<br />

ma lo sono anche altre ammissioni (Ŗnecessariamente in parte meŗ; Ŗdi quanto non sia consapevole<br />

di essereŗ). Poco oltre, nella stessa intervista, Hecht parla più ampiamente sia delle origini della<br />

poesia che del ruolo del narratore:<br />

C'eraŕc'è la città stessa, lo splendore decaduto, ora centro di<br />

pellegrinaggio turistico come in passato era stata centro di<br />

pellegrinaggio religioso e di commercio, con questi due aspetti<br />

intimamente interconnessi... Volevo scrivere una poesia che<br />

catturasse un po' di questa brillantezza e decadenza, e pensandoci<br />

su mi venne in mente la storia di un uomo, che adottai come voce<br />

della poesia. Era una persona che avevo conosciuto a Ischia, un<br />

uomo profondamente tormentato e moralmente angosciato la cui<br />

storia famigliare è sostanzialmente quella raccontata nella mia<br />

poesia... Mi era parso che quest'uomo, senza nome nella mia<br />

poesia, con il suo malessere e il suo riserbo stoico potesse essere<br />

una specie di raffigurazione della città in rovina, della sua<br />

sospensione tra grande potenza e attrazione turistica, eppure ancora<br />

dotata di un'innegabile bellezza. La mia intenzione era di<br />

intrecciare questi due elementi, uomo e città, in modo che il lettore<br />

li potesse ritenere adeguatamente accostatiŗ. [p. 77]<br />

221


222<br />

Non si può fare a meno di notare il leggero spostamento d'accento tra le due dichiarazioni<br />

precedenti. Il personaggio che era stato detto Ŗper lo più [...] inventatoŗ viene adesso identificato<br />

come fermamente basato sull'uomo conosciuto da Hecht a Ischia (anche se nella seconda citazione,<br />

in passaggi che non ho riportato, Hecht dice comunque che le sofferenze del fratello e le proprie<br />

esperienze di guerra sono incluse nella persona del narratore). Non voglio qui stare a sofisticare<br />

sulle dichiarazioni di Hecht, né sull'approccio dei suoi commentatori, ma semplicemente<br />

sottolineare che ci si trova su un terreno altamente instabile quando si cerca di delineare la voce<br />

parlante di una poesia distinguendola dall'autore, territorio in cui perfino uno scrittore puntiglioso<br />

come Hecht si trova a scivolare nella direzione dell'auto-contraddizione e dell'evasività. Per quanto<br />

strettamente il narratore de ŖI Vespri Venezianiŗ sia modellato sull'uomo di Ischia, egli esiste solo<br />

nella, e per la, poesia a cui serve Ŕ in un certo senso Ŕ sia da veicolo che da soggetto (cioè sia come<br />

immagine che contenuto della metafora). E se Hecht in massima parte mantiene le distanze da lui, ci<br />

sono dei momenti in cui quella distanza si riduce. Si può leggere, ad esempio, un verso come ŖIo<br />

sono il capo sfibrato di una lunga linea,ŗ senza avvertire un accenno al sentimento di essere un<br />

superstite nel mondo poetico da parte di un poeta assolutamente consapevole della tradizione in cui<br />

si colloca e che scrive negli ultimi decenni del ventesimo secolo, un'epoca in cui la sopravvivenza<br />

dello stile alto splendidamente esemplificato nelle poesie di Hecht è arrivata a essere seriamente<br />

minacciata?<br />

La descrizione delle origini di questa poesia da parte di Hecht pone l'accento principale non<br />

tanto sulla voce narrante ma sull'ambiente: Venezia stessa è stata la principale ispirazione di Hecht.<br />

Non ho qui lo spazio per tratteggiare in dettaglio il ruolo che la città svolge nella poesia, né sono il<br />

critico più adatto a farlo: il lettore interessato potrà consultare i saggi illuminanti di Gregory<br />

Dowling e di Jonathan Post. Ma dovrei, per quanto di sfuggita, accennare almeno ad alcuni degli<br />

antecedenti letterari, la maggior parte dei quali si intreccia con l'ambiente evocato da questa poesia<br />

altamente allusiva: forse il più importante è Le pietre di Venezia di John Ruskin, citato in una delle<br />

epigrafi del poemetto; Morte a Venezia di Thomas Mann; i vari romanzi di Henry James che<br />

raccontano le esperienze dei vari espatriati americani in Italia; Volpone di Ben Johnson; e,<br />

ovviamente, come sempre con Hecht, Shakespeare Ŕ in particolare Otello (pure fonte di una delle<br />

epigrafi), Il mercante di Venezia, e, per quanto concerne la storia incestuosa sullo sfondo, Amleto.<br />

Diversi di questi nessi intertestuali potrebbero da soli giustificare un intero saggio dedicato a<br />

ciascuno di essi. Vorrei, invece, suggerire un'ulteriore relazione letteraria, per quanto generale, alla<br />

luce dei versi conclusivi della poesia, una connessione che illumina per contrasto la natura della<br />

caratteristica giustapposizione della poesia (e del poeta) per quanto riguarda presente e passato,<br />

lirica e narrativa, luce e tenebra.<br />

Dopo lo spettacolo delle nuvole ispirato da Tiepolo, descritto con una bravura che lascia<br />

senza fiato, la poesia finisce:<br />

[...] Io guardo e riguardo,<br />

come se potessi essere salvato solo col guardareŕ<br />

io, che non mi sono mai guadagnato il pane, che<br />

non sono meglio di un virus parassita,<br />

o della feccia del sottomondo veneziano,<br />

istupidito e confuso nei miei ultimi anni,<br />

che mai, nemmeno una volta, fui un bimbo assennato.<br />

L'ultimo verso ovviamente riecheggia il proverbio ŖIl bimbo assennato conosce il proprio padreŗ.<br />

Ma io credo che vi sia un più profonda risonanza semi-sepolta lì, che costituisce una variazione<br />

raggelante su uno dei testi fondamentali della poesia inglese moderna, le meditazioni di William<br />

Wordsworth sulla relazione tra bambino e uomo adulto in poesie fondamentali come ŖVersi<br />

composti alcune miglia a monte dell'Abbazia di Tinternŗ, ŖOde: premonizioni di immortalità nei<br />

222


223<br />

ricordi della prima infanziaŗ, e Il preludio. In queste opere e altrove, Wordsworth insiste<br />

sull'influenza salutare delle esperienze dell'infanzia sullo sviluppo del senso morale dell'adulto, e Il<br />

preludio pone in particolare rilievo l'idea dei Ŗpunti del tempoŗ, momenti di rivelazione epifanica<br />

che, per quanto spesso conturbanti nel loro contesto, contribuiscono a guidare la crescita della<br />

mente del poeta. Questi momenti Ŗelevatiŗ danno centro e direzione all'intero arco narrativo della<br />

vita del poeta, e la relazione tra lirica e narrativa, passato e presente, bambino e uomo adulto, è<br />

dialettica: l'entusiasmo infantile per la natura, e le prime percezioni giovanili del Ŗbagliore<br />

visionarioŗ, per quanto si rivelino effimere, trovano risposta in seguito nella Ŗpiena ricompensaŗ<br />

dell'amore verso l'umanità dell'uomo più maturo, amore più misurato e che rende più misurati. E la<br />

più grande poesia di Wordsworth, in effetti, serve da terzo termine in questa dialettica Ŕ<br />

equilibrando e riconciliando gli altri due termini. Ma ne ŖI Vespri Venezianiŗ (e anche altrove<br />

nell'opera di Hecht) l'infanzia non è affatto fonte di benessere: anzi, i motivi più bui de ŖI Vespri<br />

Venezianiŗ cominciano nella losca storia d'amore famigliare di cui il bambino diviene consapevole<br />

solo in retrospettiva. Per quanto il poemetto sia ricco di momenti che assomigliano ai Ŗpunti del<br />

tempoŗ di Wordsworth, tali momenti non hanno alcun effetto benefico (se non che a volte<br />

provocano un sollievo momentaneo), e in alcun modo contribuiscono alla formazione positiva del<br />

narratore, anche se talora possano brevemente rallegrarlo. Perciò le polarità di questa poesia<br />

esistono non in termini di una dialettica, che deve essere elaborata per arrivare a una conciliazione,<br />

ma come motivi contrappuntistici la cui giustapposizione non fa che sottolineare la differenza tra Ŗil<br />

rifugio del tempo presenteŗ, con i suoi dettagli fini, e la meditazione sul passato (o sul futuro), con<br />

le sue ambiguità torbide e insolubili. Per quanto meraviglioso il mondo vivo che i nostri sensi, al<br />

massimo della loro raffinatezza, imparano ad apprezzare, la storia delle nostre vite è materia da<br />

incubo. E se ciò è specialmente, e in modo magistrale, vero de ŖI Vespri Venezianiŗ, qualcosa di<br />

simile si potrebbe dire di altre pietre di paragone hechtiane, quali ŖA Hillŗ, ŖGreen: An Epistleŗ e<br />

ŖApprehensionsŗ.<br />

Circa vent'anni fa, a un congresso di scrittori, un mio amico si imbatté nel poeta Howard<br />

Nemerov, che stava leggendo ŖI Vespri Venezianiŗ. Quando il mio amico gli chiese cosa stesse<br />

leggendo, Nemerov rispose: ŖLa più grande poesia lunga dei nostri tempiŗ. L'amico, curioso, chiese<br />

il motivo di tale affermazione, al che Nemerov si limitò a sospirare e disse che la sua opinione era<br />

basata più su una sua convinzione che su una teoria. Vi sono, senz'altro, poesie lunghe e anche<br />

molto lunghe con cui sarebbe difficile confrontare ŖI Vespri Venezianiŗ, come ad esempio The<br />

Changing Light at Sandover di James Merrill, che si estende su decine di migliaia di versi: la poesia<br />

di Hecht è più un epillio che un'epica. Ma, questo detto, data la maestria tecnica e la sbalorditiva<br />

commistione e complessità dei temi, lo sfolgorio dello stile e l'austerità e la rilevanza della sostanza,<br />

l'opinione di Nemerov andrebbe presa seriamente in considerazione.<br />

Joseph Harrison<br />

[Postfazione a: Anthony Hecht, I vespri veneziani, LřObliquo, 2011. Traduzione di Damiano Abeni]<br />

NdA: Il lettore interessato potrà consultare le seguenti opere che mi sono state straordinariamente<br />

utili nel formulare i miei pensieri su questa poesia: Anthony Hecht in Conversation with Philip Hoy,<br />

Between the Lines (Londra, 2001); Gregory Dowling, ŖCalm Suspension, Capitolo 5, Someone's<br />

Road Home: Questions of Home end Exile in American Narrative Poetryŗ (Udine, Campanotto<br />

Editore, 2003); Jonathan F. S. Post, ŖThe Genesis of Venice in Anthony Hecht's The Venetian<br />

Vespersŗ (Baltimora: The Hopkins Review, Spring 2010).<br />

223


Seguendo il Dart<br />

224<br />

Nel 2002 Alice Oswald pubblica Dart (Faber y Faber), un lungo poema ispirato al fiume omonimo<br />

che scorre nelle terre sud-occidentali della Gran Bretagna, e attraversa la brughiera a cui dà il nome,<br />

Dartmoor, un altopiano disseminato di grandi torrioni granitici, verso il mare. In cosa meglio di un<br />

fiume si rivela un territorio: esso contiene tracce dei vari paesaggi, percorre zone sconosciute, parla<br />

con il timbro delle terre che spezza, conosce e trasporta in sé Ŕ è una mappa di voci. ŖQuesto poema<br />

è fatto del linguaggio di tutti coloro che vivono e lavorano sul Dartŗ, spiega la Oswald nella nota<br />

introduttiva. Per due anni la poetessa ha registrato conversazioni con persone che si sono trovate a<br />

coabitare con il Dart: naturalisti, nuotatori, addetti alla manutenzione degli impianti fognari,<br />

stagnini, pescatori, turisti, operai di vario genere, osservatori di anguille, barcaioli, bracconieri,<br />

raccoglitori di ostriche, e poi sognatori, ninfe arboree, individui notturni e pericolosi, i vivi come i<br />

morti. Lřopera si sviluppa come il corso della corrente, dove tutto - materia residuale, ricordi,<br />

sporcizia, animali, riflessi, radici perdute - si mescola in modo caotico, trovando poi una direzione.<br />

Le cose si adattano le une alle altre, apparentemente indistinte nei colori acquatici, da cui il ritmo<br />

poetico deve nuovamente trarle. Il poema quindi si struttura in modo complesso e frammentario<br />

come un discorso nellřacqua: non è un ennesimo testo sul fiume quale metafora della vita, piuttosto<br />

tende a divenire un dato fiume. Ne emergono brani di monologhi più o meno articolati; a parti<br />

maggiormente versificate seguono stralci di prosa; a pagine quasi prive di punteggiatura altre dove<br />

le parole sgocciolano, si riducono al bianco del silenzio, dando lřimpressione esatta di rivoli che<br />

filtrano per i passaggi stretti nel pietrame. Il Dart che canta, il Dart che avanza nellřimpeto della<br />

piena, in secca nella stagione calda, allřimprovviso profondo o accogliente in un bozzo per i<br />

bagnanti, dà la forma poematica ai contenuti, allřentrata in scena dei vari attori. Si può avere spesso<br />

lřimpressione di trovarsi nel mezzo di una conversazione già avviata, che velocemente si fa brusio e<br />

scivola in unřaltra storia; noi lettori dobbiamo orientarci da soli, avendo come unica bussola le<br />

epigrafi sulla destra che indicano luoghi e personaggi, recuperare il nostro proprio respiro nel<br />

continuo sciabordio, nellřaccumularsi dei rumori nella scrittura. La ricerca di memorie, lo scandirsi<br />

delle identità fluide e interconnesse, lo scrollarsi del fiume dai ciottoli e dai corpi Ŕ attraverso<br />

queste fasi Dart si scrive e si interroga, come il camminante in apertura del testo:<br />

Consulta la sua mappa. Una vasta landa selvaggia color della pioggia.<br />

Queste devono essere le pietre, il movimento improvviso,<br />

il verso delle rane che cantano nel nuovo anno.<br />

Chi è che fuoriesce dalla terra?<br />

Il Dart, che giace nellřoscurità, grida: Chi è?<br />

cercando di evocarsi on la parola …(1)<br />

Pensando la Oswald come poetessa della natura, del paesaggio con le sue molte anime, è inevitabile<br />

non ricondurla alla lezione di Ted Hughes, e in particolare al suo River (1983), dove compare lo<br />

stesso Dart presso cui il poeta era solito andare a pescare. Tuttavia le poesie di River sono pervase<br />

da un misticismo biocentrico: celebrano lřessenza divinizzata del fiume Caduto dal cielo, giace<br />

sopra/ il grembo di sua madre, spezzato dal mondo (…)/ Così il fiume è un dio/ Alle ginocchia tra<br />

le canne, guardando gli uomini,/ o spenzolante dalla porta di una diga/ È un dio, e inviolabile./<br />

Immortale. E si purificherà di ogni morte. (Fiume). O ancora, in Dart occidentale lřacqua ha in sé<br />

spirito e sangue, la forza fisica e il fiato invisibile dellřesistente. Il territorio abitato dalle acque<br />

fluviali supera lřInghilterra, portando tracce di fiabe e leggende antiche, dalle estremità<br />

settentrionali dellřAmerica al Giappone, configurandosi in una mitologia personale, che va oltre il<br />

contingente dei luoghi e del vissuto. Diversamente Dart della Oswald è un essere vivo che si muta<br />

sempre in qualcosa dřaltro, ma questo avviene proprio in virtù dellřadesione ad un territorio<br />

224


225<br />

specifico, allřinteragire con lřumano. In altre parole: laddove i fiumi di Hughes creano il mondo<br />

circostante, Dart lo determina fortemente, ma è a sua volta evocato, reso riconoscibile<br />

dallřavvicendarsi di coloro che lo popolano. Questo fiume non è un dio, ma a suo modo lo diventa Ŕ<br />

supera i limiti temporali delle vite che raccoglie, nel loro intrecciarsi attraverso i racconti. Così<br />

perfino il soprannaturale è sempre in stretto dialogo con lřuomo, rispettando in questo la tradizione<br />

folklorica del paese per cui lřambiguità e il pericolo, ma anche il fascino di certe creature del<br />

destino, non sono mai troppo lontani dalle residenze umane, e il remoto e il fantastico dimorano<br />

negli elementi. Un buon esempio è lřincontro con Jan Coo, creatura che, come suggerisce il nome<br />

onomatopeico, nasce dal soffio prolungato del vento, assimilabile ad un monito, una voce<br />

piangente. Folletto della brughiera o fantasma di un annegato, si aggira nel Dartmoor come un<br />

presagio funesto, annuncia la sete del fiume, che inghiotte coloro che vi cadono.<br />

Pioggia. Non un granché di mattinata. Jan Coo il suo nome<br />

lavoro di routine, svuotare i secchi significa Lo Sconosciuto dei Boschi,<br />

e pascolare le mucche Ŕ ti conosco, frequenta il Dart<br />

Jan Coo. Un soffio sopra un pozzo profondo.<br />

Le mucche lo conoscono, quando cerca il forcone nel buio.<br />

Sanno la verità su di lui Ŕ un uomo strano -<br />

Sono fradicio, al diavolo queste mani intorpidite.<br />

Una scossa nei boschi. Un salmone sotto una pietra.<br />

So chi sono, vengo<br />

dal piccolo cumulo di pietre su a Postbridge, Postbridge è dove<br />

tu mi avrai visto nutrire il bestiame, puoi capire che sono io la prima strada attraversa<br />

dal logorarsi dellřacqua sullřosso. il Dart<br />

Sono lento e malato, sto<br />

cercando di convincere me stesso a lasciare questo posto,<br />

ma le radici crescono sulla mia bocca, il mio piede è<br />

dentro una latta arrugginita. Una notte lo farò.<br />

E così una notte scivola via giù lungo il fiume,<br />

ci disse che poteva sentire le voci uoooou<br />

noi sappiamo cosa significa, Jan Coo Jan Coo.<br />

Una piuma asciutta, bianca sullřacqua.<br />

La mattina dopo tornò a casa era annegato.<br />

Non avrebbe mai dovuto nuotare da solo.<br />

Ora è così magro che puoi vedere la luce<br />

attraverso la sua pelle, puoi vedere lo sporco nel suo diaframma.<br />

Ora è lo sposo del Dart Ŕ lřho visto<br />

prendere la forma del cielo, un uccello, una lama,<br />

una foglia caduta, una pietra, possa giacere a lungo<br />

nel nodo inesplicabile del corpo del fiume(2)<br />

Vivere con il fiume, significa essere consapevoli della sua forza necessaria come delle sue trappole,<br />

del mistero che sta in lui e che non ha niente di trascendentale Ŕ è lřumidore di una pietra notturna<br />

su cui scivolare accidentalmente, lřingorgo dřacqua e di melma che impedisce di vedere il fondo. È<br />

un pescatore stavolta a parlare:<br />

225


so come muovermi nellřoscurità, ci vedo la notte, sono stato qui sveglio nelle ore piccole<br />

aspettando che qualcuno mi randellasse ma<br />

non fa paura se sai quello che stai facendo. Cřè un cordone di sabbia litorale, ci puoi camminare<br />

superando i gorghi ma<br />

ho preso allřamo un braccio una volta, pietrificato, ho sollevato lentamente un corpo, era solo un<br />

maglione(3)<br />

226<br />

Attraverso lřalternarsi del naturale allřultraterreno nelle vicende del fiume, si riconquista un<br />

equilibrio per cui il Dart non è solo la massa acquosa, la Ŗfrecciaŗ, lo Ŗstraleŗ, traducendone il<br />

nome, che fende la terra verso il mare, ma la linfa che anima il tutto, il connettore di ogni passato<br />

con il futuro. Una sezione è dedicata dunque agli stagnini morti, un incedere di nomi e domande che<br />

rammenta lřapertura dellřAntologia di Spoon River di Edgar Lee Masters -<br />

Dovřè Ernie? Sottoterra.<br />

dovřè Redvers Webb? Pure lui.<br />

Tom, John e Solomon Warne, Dick Jorey, Lewis<br />

Evely?<br />

Alcuni sono fotografie, altri polvere.<br />

Si dirigono da Est a Ovest lungo le vene di stagno<br />

venticinque metri sotto Hexworthy, ognuno con una candela di sego<br />

sul cappello. (4)<br />

Le identità si fondono con i toponimi, le esistenze concluse ritornano nei luoghi del lavoro, come se<br />

il procedere contrastato delle acque fosse la folla dei defunti, che solo qui ancora si può ascoltare.<br />

Subito dopo viene svelato che ŖDart è lřantico nome devoniano per querciaŗ, epigrafe che introduce<br />

una guardia forestale e una ninfa dřacqua. Tendendo lřorecchio cřè qualcun altro che parla sotto la<br />

voce dellřuomo; sotto il bosco fisico che cambia ci sono leggende, desideri, memoria - la ninfa nel<br />

segreto dellřalbero, la guardia al suo esterno, entrambi parte di uno stesso sistema; la prima scandita<br />

dal ritmo franto dei versi, il secondo dal distendersi della prosa dove gradualmente entra il pensiero<br />

dellřaltra -<br />

Alberi come quello, quando cadono lřintero posto è diverso, aria diversa, creature diverse<br />

riempiono il vuoto (…). Dicono che tutti i fiumi erano alberi caduti una volta.(5)<br />

Tendendo lřorecchio si scende e si è trasformati, come succede al giovane nuotatore che avverte<br />

tutto se stesso farsi pesce e liquidità, tuffandosi nel Dart -<br />

Menyahari Ŕ gridiamo a mezzřaria.<br />

Saltiamo da un albero in uno stagno, diventiamo<br />

grandi come pesci. Tutti nuotano qui<br />

sotto Still Pool Copse, di sabato<br />

colpendo lřacqua con le mani nude, è bello una volta che sei<br />

dentro.<br />

È fredda? È tagliente?<br />

Sto fermo guardando giù attraverso i faggi.<br />

226


Quando getto un sasso posso contare fino a cinque prima<br />

dello splash.<br />

Poi salto, un guizzo dorato nella testa,<br />

attraverso il nero e il freddo, il rosso e il freddo, il marrone e tiepido,<br />

dando allřacqua il mio peso e la mia taglia così da<br />

immaginarla,<br />

acqua con le mie ossa, acqua con la mia bocca e la mia<br />

conoscenza<br />

quando il mio corpo era a suo modo unřonda in cui nuotare,<br />

una lunga pinna da capo a coda(6)<br />

227<br />

A coloro che fanno esperienza del fiume per pura passione o ai suoi molti echi leggendari,<br />

subentrano gli operai, per cui il Dart è necessità primaria da sfruttare, prima che da ammirare,<br />

godendo della sua pulizia o bellezza. Gli uomini del lanificio, ad esempio, che attingono lřacqua del<br />

fiume per lavare la lana e creare le varie tinte<br />

William Withycombe, Alex Shawe, John Dawe,<br />

William Friend<br />

ed io. Custode del lanificio, unřoperazione completamente<br />

verticale,<br />

si aggiunge una certa quantità di detergente, non-ionico,<br />

ragionevolmente biodegradabile,<br />

perché è necessario, quando vedi come arriva la lana,<br />

unta di pittura bluastra, merdosa e sudata con escrementi<br />

che pendono ovunque.<br />

Sfortunatamente le pecore non usano carta igienica.<br />

Va sempre tutto bene, si lamentano i pescatori<br />

ma io ci vedo come cormorani che vivono del fiume.<br />

Dipendiamo da lui per via della sua acqua leggera<br />

perché scorre sopra il granito ed è relativamente priva di<br />

calcio<br />

mentre invece i pescatori per cosa per divertimento(7)<br />

Oppure operai dellřindustria casearia, dato che lřacqua veniva usata per raffreddare il latte, o<br />

lřoperatore degli impianti fognari,<br />

Mi occupo dellřintero Dartmoor, il metabolismo di tutto il Sud-Ovest, che inizia con le nuvole e si<br />

scarica giù per gli edifici e i corpi fino a questo reticolo di tubi sotterraneo, e tutto che finisce con<br />

me qui sopra il mio ponte(8)<br />

la cui testimonianza si lega al racconto medievale del nipote di Enea e dei suoi compagni in esilio,<br />

guidati da una dea verso un‟isola di boschi indisturbati, che remarono risalendo il Dart per divenire<br />

i primi re della Britannia.<br />

Il fiume è dunque anche la grande dimenticanza che permette di proseguire, sapendo che ogni volta<br />

che una storia verrà raccolta da un mucchio di cose inutili e nuovamente raccontata, le parole si<br />

cuciranno in modo diverso sia per chi le ascolta che per chi le produce, reinventando una stessa<br />

227


228<br />

materia originaria. Una singola immagine è capace di avvicinare epoche ed individui diversi, dalla<br />

fogna a ciò che è in basso, sotto molti strati di coscienza come un mito, allřapprodo in una landa<br />

ignota dove avanza un gigante armato di pietre e riporta al momento attuale, ad un Ŗcostruttore di<br />

muri di sassiŗ, uno stonewaller, che si aggira per lřestuario del Dart cercando le pietre ideali,<br />

levigate e depositate dalla corrente. Forse occorre procedere lungo il poema come in uno stato di<br />

sogno, in cui ciò che ci sembra di riconoscere assume una consistenza imprevista e un altro aspetto<br />

appena lo si tocca. Non è, a mio avviso, un caso se tra le varie apparizioni quasi centrale vi è un<br />

sognatore, buona parte del cui discorso è tra parentesi, come in un bisbiglio:<br />

Il sonno era allřopera e dalla mente la foschia<br />

si distese come tornasole verso la luna, la pioggia<br />

pendeva luminosa a mezzřaria quando scesi<br />

e trovai un cumulo di scisto infranto<br />

sotto lřaffrettarsi tremante dellřacqua.(9)<br />

Nelle visioni del sognatore lo stesso sé-sognante del fiume avanza e allora le sue acque potrebbero<br />

non essere che la foschia in cui, smarrendoci, siamo guidati a scoperte inattese, siamo sopra una<br />

cartina tornasole, che mostra i contorni dei personaggi - omini del sonno, che ci sfiorano un attimo,<br />

ogni grano di sabbia unřeco, prima di immergersi ancora nel buio dellřonda. Procedendo verso la<br />

fine, dove il fiume si congiunge al mare, sono i costruttori di barche, i naviganti che ci<br />

accompagnano e tutto quello che dicono, per quanto veridico, sembra straordinario, accresce<br />

atmosfera incantata del poema. Dart partecipa infine della più pura arte orale, si muove tra storie<br />

condivise, quelle storie che sono realmente accadute e che proprio per questo hanno realmente<br />

qualcosa di stupefacente, diventano nostre nonostante non fossimo là. Non è mai prevedibile dove<br />

ci coglierà la meraviglia. Come il racconto di scampata morte (e ritorno da una sposa rossa come le<br />

donne delle fate) di un traghettatore:<br />

Lavoravo la notte che la scialuppa di salvataggio del Penhilly<br />

affondò:<br />

fradicio, terrorizzato, congelato Ŕ lřultimo uomo là fuori sul fiume.<br />

Ma non ho mai visto fantasmi. Tornai a casa che annegavo.<br />

Entrai nella casa e cřera la mia bella moglie dai capelli rossi,<br />

non cřera uomo sopra i venticinque che non la<br />

desiderasse.<br />

Penso a lei in autunno, quando gli alberi prendono questo<br />

colore stupefacente dalle parti di Old Mill Creek.<br />

Vado laggiù e spengo il motore. Silenzio.<br />

Dopo un poř puoi sentire i rumori tenui della bassa marea.<br />

O in inverno, puoi sentire steli di ghiaccio che si scheggiano sotto<br />

la barca.(10)<br />

O la voce dei vecchi pescatori di granchi, che ricordano la loro gioventù scapestrata, ma anche la<br />

bellezza dellřuscire per mare, incontrando ogni tipo di animale nascosto:<br />

Avevamo una cattiva fama, facevamo un poř di casino in città, ma che potevamo fare? A quindici<br />

anni avevamo un sacco di denaro, era come se i granchi fossero merce gratis, potevamo andare<br />

avanti a tirarli su dal mare anno dopo anno, era come una trappola per far soldi. Per non parlare di<br />

cosa certi pescatori tirano su, non è che mettono sempre i loro cesti dove sono i granchi.<br />

(…)<br />

228


Ma dimmi un altro lavoro dove puoi vedere lřaurora intera ogni mattina. Nessun cartellino da<br />

timbrare, nessuna campanella. In estate puoi tuffarti, vedere le balene che saltano, prendere<br />

tartarughe grandi come un dory.(11) Dai una pacca sul lato della barca e dimmi un altro lavoro<br />

dove un delfino ti spaventa, ti guarda dritto negli occhi e poi si lascia toccare. Non sai cosa sei<br />

finché non lo hai visto(12)<br />

229<br />

Balene, delfini, tartarughe. Animali che segnano la conclusione di un percorso terracqueo, per<br />

aprirsi a ciò che è vasto e incontenibile allřocchio umano - quando sei per mare è tutto mare. Oltre<br />

la foce del Dart, su quel confine suggestivo, fatto di insenature e piccole grotte, bocche di un paese<br />

infero al cui ingresso si ammassano pelliccia, peli, unghie, ossa, si spinge sul suo wave-ski,<br />

lřosservatore di foche:<br />

ogni inverno si riuniscono qui,<br />

venti foche in questo spazio dietro il mare, tutte avvolte<br />

e al caldo nel grasso, come lřanima nel suo cilindro di carne.<br />

Con le loro bocche di nonna, con il loro occhi languidi di cane<br />

che chiedono<br />

chi è che si muove nellřoscurità? Io.<br />

Sono io, anonimo, soliloquio dellřacqua,<br />

tutti i nomi, tutte le voci, Muta-Forma, sono Proteo,<br />

chiunque egli sia, il pastore delle foche,<br />

che guida i miei molti sé da caverna a caverna …(13)<br />

Nel folklore celtico, sebbene in altre isole più a nord, le foche sono magiche. Lasciano sulla<br />

spiaggia le loro pelli per danzare in forma di donne, hanno qualcosa di noi. Melanconici mammiferi<br />

marini, cercano la terra per riprodursi, abitano due mondi. Il Dart si abbandona a loro, le conduce,<br />

divide il suo carico di tempo nei loro corpi tra le onde Ŕ il viaggio che ora comincia è tutto da<br />

immaginare.<br />

Francesca Matteoni<br />

Note.<br />

(1) He consults his map. A huge rain-coloured wilderness./This must be the stones, the sudden movement,/the sound of<br />

frogs singing in the new year./The Dart, lying low in darkness calls out Who is it?/Trying to summon itself by<br />

speaking…<br />

(2) [Jan Coo: his name Means So-and-So of the Woods, he haunts the Dart]Rain. Not much of a morning./Routine<br />

work, getting the buckets out/ and walking up the cows – I know you,/Jan Coo. A wind on a deep pool./ Cows know him,<br />

looking for the fork in the dark./ They know the truth of him – a strange man –/ I‟m soaked, fuck these numb hands./A<br />

tremor in the woods. A salmon under a stone./[ Postrbridge is where the first road crosses the Dart].I know who I am,<br />

I/come from the little heap of stones up by Postbridge,/ you‟ll have seen me/ feeding the stock, you can tell it‟s me/<br />

because of the wearing action of water on bone./ Oh I‟m slow and sick, I‟m/ trying to talk myself round to leaving this<br />

place,/ but there‟s roots growing round my mouth, my foot‟s/ in a rusted tin. One night I will./ And so one night he<br />

sneaks away downriver,/ told us he could hear voices woooo/ we know what means, Jan Coo, Jan Coo./ A white feather<br />

on the water keeping dry./ Next morning it came home to us he was drowned./ He should never have swum on his own./<br />

Now he‟s so thin you can see the light/ through his skin, you can see the filth in his midriff./ Now he‟s the groom of the<br />

Dart – I‟ve seen him/ taking the shape of the sky, a bird, a blade,/ a fallen leaf, a stone – may he lie long/ in the<br />

inexplicable knot of the river‟s body<br />

(3) I know my way round darkness, I‟ve got night vision, I‟ve been up here in the small hours waiting for someone to<br />

cosh me but/it‟s not frightening if you know what you‟re doing. There‟s a sandbar, you can walk on it right across the<br />

weirpool but/ I hooked an arm once, petrified, slowly pulling a body up, it was only a cardigan<br />

229


230<br />

(4) where‟s Ernie? Under the ground./where‟s Redvers Webb? Likewise./ Tom, John and Solomon Warne, Dick Jorey,<br />

Lewis /Evely?/ Some are photos, others dust./Heading East to West along the tin lodes,/ 80 foot under Hexworthy, each<br />

with a tallow candle in/ his hat./<br />

(5) Trees like that, when they fall the whole place feels different, different air, different creatures entering the gap. (…)<br />

They say all rivers where once fallen trees.<br />

(6) Menyahari – we scream in mid-air./ We jump from a tree into a pool, we change ourselves/<br />

into the fish dimension. Everybody swims here/ under Still Pool Copse, on a saturday,/ slapping the water with bare<br />

hands, it‟s fine once you‟re/ in./ Is it cold? Is it sharp?/ I stood looking down through beech trees./ When I threw a<br />

stone I could count five before the/splash./ Then I jumped in a rush of gold to the head,/through black and cold, red and<br />

cold, brown and warm,/ giving water the weight and size of myself in order to/ imagine it,/ water with my bones, water<br />

with my mouth and my/ understanding/ when my body was in some way a wave to swim in,/ one continuous fin from<br />

head to tail<br />

(7) William Withycombe, Alex Shawe, John Dawe,/ William Friend/ and I. Keeper of the Wollen Mills, a fully vertical/<br />

operation,/ adding a certain amount of detergent, non-ionic,/ reasonably biodegradable,/ which you have to, when you<br />

see how the wool comes in,/ greasy with blue paint, shitty and sweaty with droppings/ dangling off it./ Unfortunately<br />

sheep don‟t use loopaper./ It‟s all very well the fishermen complaining/ I see us like cormorants, living off the river./ We<br />

depend on it for its soft water/ because it runs over granite and it‟s relatively free of/ calcium/ whereas fishermen for<br />

what for leisure<br />

(8) I‟m in charge as far as Dartmoor, the metabolism of the whole South West, starting with clouds and flushing down<br />

through buildings and bodies into this underground grid of pipes, all ending up with me up here on my bridge<br />

(9) Sleep was at work and from the mind the mist/ spread up like litmus to the moon, the rain/ hung glittering in mid-air<br />

when I came down/and found a little patch of broken schist/ under the water‟s trembling haste.<br />

(10) I was working in the night the Penhilly lifeboat went/ down:/ soaking, terrified, frozen – the last man out on the<br />

river./ But I never saw any ghosts. I came home drowning./ I walked into the house and there was my beautiful/ redhaired<br />

wife,/ there wasn‟t a man over twenty-five that didn‟t fancy/ her. / I think of her in autumn, when the trees go<br />

this/ amazing colour round Old Mill Creek./ I go down there and switch off my engine. Silence./ After a while you hear<br />

the little sounds of the ebb./ Or in winter, you can hear stalks of ice splintering under/ the boat.<br />

(11) Il dory è una piccolo barca da pesca, issata a bordo di alter barche: http://www.nautica.it/info/cultura/dory.htm<br />

(12) We got a reputation, smashing up the town a bit, what could we do? Age fifteen we were big money, it was like<br />

crabs were free commodity, we could go on pulling them from the sea year after year, it was like a trap for cash. Not to<br />

mention what some crabbers pull up, they don‟t always set their pots where the crabs are.<br />

(…)/ But tell me another job where you can see the whole sunrise every morning. No clocking in, non time bell. In<br />

summer you can dive in, see whales jumping, catch turtles the size of a dory. You slap your hands on the boatside and<br />

tell me another job where a dolphin spooks you, looks you straight in the eye and lets you touch him. You don‟t know<br />

what you are till you‟ve seen that<br />

(13) each winter they gather here,/ twenty seals in this room behind the sea, all swaddled/and tucked in fat, like the soul<br />

in is cylinder of flesh./ With their grandmother mouths, with their dog-soft/ eyes asking/ who‟s this moving in the dark?<br />

Me./ This is me, anonymous, water‟s soliloquy,/ all names, all voices, Slip-Shape, this is Proteus,/ whoever that is, the<br />

shepherd of the seals,/ driving my many selves from cave to cave …<br />

230


Poema degli elementi, della catastrofe e del progresso:<br />

Secondo natura di W.G. Sebald<br />

231<br />

Nel 1975, Hans Magnus Enzensberger pubblica una storia del progresso e del pensiero occidentale<br />

in 37 ballate alla quale dà lřeloquente titolo Mausoleum. Lřopera ripercorre il destino di altrettanti<br />

individui che, fra la metà del Trecento a quella del Novecento, hanno contribuito allo sviluppo del<br />

pensiero filosofico, politico e scientifico occidentale. Il poema in stazioni di Enzensberger muove<br />

da Giovanni deř Dondi (1318-1389) per giungere a Ernesto Guevara de la Serna (1928-1967),<br />

ripercorrendo le gesta dei corifei di un progresso iniziatosi nel Medioevo grazie alla realizzazione<br />

dellřAstrarium, un complesso orologio astronomico creato dal medico e astrologo:<br />

Un assoluto prototipo, insuperato<br />

per quattrocento anni.<br />

Un meccanismo plurimo, di ruote<br />

ellittiche e dentate,<br />

connesse ad ingranaggio,<br />

e il primo bilanciere;<br />

unřinaudita fabbrica. (1)<br />

Il tentativo di dominare il tempo, benché vano, si configura come il primo passo dellřuomo verso il<br />

progresso e ad esso, per limitarsi alle sole prime ballate di Mausoleum, (con)seguono lřinvenzione<br />

dellřŖarte / dello scrivere artificialeŗ di Gutenberg (1395-1468), lřelaborazione del pensiero politico<br />

di Niccolò Machiavelli (1467-1527), le inchieste sugli aztechi del primo antropologo della storia<br />

dellřumanità, Bernardino de Sahagún (1499-1590), nonché le scoperte astronomiche di Ticho Brahe<br />

(1546-1601). Il De viris illustribus di Enzensberger non è però un mero encomio della scienze e<br />

della tecnica create dallřuomo, quanto piuttosto unřattenta critica del progresso e dei suoi esiti più<br />

aberranti, poiché lo Ŗangry young menŗ(2) delle lettere tedesche appare ben consapevole che ŖIl<br />

sogno della ragione genera mostriŗ(3). Le ballate sono, così, un teatro di esposizione delle creature<br />

prodotte dalla ragione umana lungo lřasse del tempo. Inoltre, Mausoleum offre una messa in scena<br />

della storia del progresso strutturata a guisa di percorsi museali che<br />

non sono quelli ben ordinati a cui siamo abituati nella vita reale; essi vanno al contrario<br />

pensati come spazi plurimi, non lineari ma labirintici. In verità, a ben vedere, se si volesse<br />

trovare una metafora davvero calzante, non bisognerebbe neanche parlare di loci memoriae,<br />

ma di loculi, nel senso cimiteriale del termine: il mausoleo, non ci dimentichiamo, non è<br />

che una tomba, per quanto prestigiosa o riccamente adorna. Fuori di metafora, intendo<br />

riferirmi alla possibilità che la poesia, intesa come spazio di memoria, possa disattendere al<br />

suo compito di riattivare un sapere critico, diventando invece uno spazio di non-dialogo o<br />

un reperto archeologico di una comunicazione ormai inerte(4).<br />

Nella metafora del mausoleo si coagulano molteplici significati: da un lato, essa rimanda al luogo in<br />

cui la poesia, ormai incapace di dialogare e comunicare, giace nel secondo Novecento, dallřaltro<br />

lato, lřimmagine del mausoleo è funzionale alla volontà del poeta di lanciare il proprio memento<br />

mori ad unřumanità che persegue ciecamente il mito del progresso, non accorgendosi che, come si<br />

legge nella ballata dedicata allřamericano economista del lavoro Frederick Winslow Taylor (1856-<br />

1915), Ŗlo sfruttamento della scienza diventa scienza dello sfruttamentoŗ(5).<br />

Per dimostrare questa teoria, la storia del progresso di Enzensberger coinvolge i maggiori<br />

astronomi, filosofi, scienziati ed esploratori della storia occidentale dellřumanità, i quali hanno<br />

elaborato sistemi di pensiero sempre più complessi, con lřintento di dominare la natura. Al centro<br />

della riflessione di Enzensberger si trova qui il concetto di Bewußtseins-Industrie, che dà il titolo a<br />

231


232<br />

un celebre saggio dello scrittore apparso nel 1962 e con il quale viene designata quella Ŗindustria<br />

della coscienzaŗ nella quale sono dialetticamente implicate la sfera pubblica e la coscienza<br />

individuale. Sensibile è qui lřinflusso della Dialettica dell‟illuminismo di Th. W. Adorno e M.<br />

Horkheimer, della quale Enzensberger condivide la tesi che vede nella tecnologia e nei mezzi di<br />

comunicazione uno strumento affinatosi nel tempo per manipolare la verità storica, ma anche per<br />

emanciparsi dalla natura, ampliando i confini della concezione della Kulturindustrie (Ŗindustria<br />

culturaleŗ) offerta dai filosofi di Francoforte(6). Scienza e coscienza diventano con Mausoleum i<br />

poli della dialettica m(a)useale di Enzensberger relativa alla storia dellřindustria culturale e dello<br />

sfruttamento naturale, di cui la poesia è caduta vittima. Qui non si può peraltro dimenticare che,<br />

ancora allřaura inattuale della poesia nella società di massa, Enzensberger ha dedicato dieci anni<br />

prima di Mausoleum la raccolta Museum der modernen Poesie (Museo della poesia moderna,<br />

1960), il cui titolo rimanda ancora alla condizione antica, frusta e museale dellřars poetica nella<br />

contemporaneità, dove la poesia, non appena viene prodotta, diventa subito un vuoto oggetto da<br />

museo incapace di insegnare alcunché, ma solo spendibile come object trouvé da esposizione.<br />

Nel solco di queste riflessioni di Enzensberger sul progresso, sulla società e sulla poesia si<br />

collocano anche i tre quadri lirici Ŕ rispettivamente strutturati in 8, 21 e 7 brevi componimenti Ŕ di<br />

Nach der Natur. Ein Elementargedicht (Secondo natura. Un poema degli elementi, 1988), opera con<br />

cui W.G. Sebald ha ripercorso la vita di altrettanti individui, incastonandone il destino nella storia<br />

europea delle idee. Queste tre elegie postmoderne, dominate da un sentimento di ineffabile<br />

malinconia, svelano al loro lettore quella medesima concezione labirintica della storia che soggiace<br />

alle ballate di Enzensberger e induce Sebald a ricercare le Ŗanse del tempoŗ(7). Esse sono spazi al di<br />

là del tempo cronologico, chiamati dallřautore anche Ŗvortici della storiaŗ, in cui si esperisce una<br />

percezione a tale punto intensa del reale da esorbitare in una vera e propria illuminazione. Si tratta,<br />

per il nostro autore, di Ŗun sentimento di assoluta assenza, unřimmagine post-storica, e non si sa con<br />

precisione in quale direzione il vortice ti porti, indietro nel passato, oppure avanti nel futuro. Ma si<br />

sa che ciò che viene indicato come destino collettivo dellřumanità ha molto a che fare con queste<br />

cose, con questa follia organizzata della nostra specieŗ (8).<br />

A fronte degli sforzi compiuti dai più illustri esponenti della filosofia e della scienza occidentale per<br />

dominare lo spazio e il tempo, questi vortici permangono incastrati nelle Ŗstereometrieŗ(9) di<br />

questřultimo come Ŗmacchie di nebbia che nessun occhio dissolveŗ(10). Così, recita lřesergo posto<br />

da Sebald a epigrafe del secondo dei quatto racconti lunghi di Die Ausgewanderten (Gli emigrati,<br />

1996), intitolato Paul Bereyter, personaggio dietro al quale si cela Armin Müller, il maestro<br />

elementare dello scrittore suicidatosi nel 1984. Leggendo il motto, la mente sarebbe tentata di<br />

correre allo schopenhaueriano velo di Maya, ovvero al fenomenico tessuto di apparenze che<br />

avvolge la realtà e cela il noumeno. Non si tratta però in questo caso di unřindiretta allusione a<br />

Schopenhauer, quanto piuttosto di una delle molte citazioni nascoste, tratte da Sebald dalla<br />

tradizione letteraria e filosofica tedesca, che nutrono la trama delle sue opere narrative, liriche e<br />

saggistiche. Infatti, lřautore bavarese attinge dal paragrafo 14 della Vorschule der Ästhetik<br />

(Iniziazione allřestetica, 1804) di Jean Paul Richter(11). In questřopera il romantico tedesco si<br />

produce in larga misura in una discussione concernente il Ŗgenio artisticoŗ, richiamandosi nel passo<br />

in questione alle figure di Socrate, Jakob Böhme e Georg Hamann. Ponendosi lřobiettivo di<br />

confutare i fondamenti razionali della filosofia kantiana, Richter traccia un percorso nella storia<br />

della ribellione geniale al primato della ratio¸ la quale trova i suoi punti più alti nella lotta di<br />

Socrate al pensiero sistematico della tradizione antisofistica del V sec. a. C., nel misticismo tedesco<br />

del XVI secolo di Böhme e nella filosofia irrazionale e visionaria di Hamann. Perciò, a proposito<br />

dei tre illustri personaggi, nellřIniziazione all‟estetica si legge:<br />

A qualche indole divina è imposta a forza una forma informe, come a Socrate il corpo da<br />

satiro; perché è alla forma e non alla materia interiore che il tempo reagisce. Così lo<br />

specchio poetico, con cui Jakob Böhme riflette il cielo e la terra, stava appeso in un luogo<br />

oscuro; e al vetro manca anche in qualche punto la lamina. Così il grande Hamann è un<br />

232


cielo profondo colmo di stelle telescopiche, e ci sono macchie di nebbia che nessun occhio<br />

dissolve(12).<br />

233<br />

Pare dunque che Sebald non abbia consacrato la propria narrazione al pessimismo di Die Welt als<br />

Wille und Vorstellung (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819), ma abbia deciso di porre<br />

le vicende di Bereyter, il quale è pure jeanpaulianamente un collezionista di oggetti, sotto lřegida<br />

della speculazione romantica sul genio. Cionondimeno, la concezione romantica della natura, della<br />

storia e della metafisica giocano un ruolo importante nella produzione lirica e narrativa di Sebald.<br />

Già il rimando allřIniziazione all‟estetica ci riporta sulle tracce delle speculazioni hegeliane,<br />

relative alla necessità di fondare nellřOttocento una nuova mitologia occidentale capace di<br />

esprimere lřaccordo profondo tra la vita dellřuomo e le forze della natura, abbozzate nel<br />

paradigmatico Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus (Più antico programma<br />

dell‟idealismo tedesco, 1797) e esplicitate nelle dense Vorlesungen uber die Philosophie der<br />

Geschichte (Lezioni sulla filosofia della storia, pubblicate postume nellředizione dei Werke del<br />

1848) pure con lřintento di dibattere la questione dellřesistenza dellřanima e superare una visione<br />

melancolica della storia occidentale(13).<br />

Le tre lunghe liriche di Secondo natura possono essere iscritte sia nellřalveo della speculazione<br />

concernete il genio e la peregrinazione dello spirito occidentale dalla Grecia alla Germania,<br />

dibattuta agli albori della Moderne anche da Friedrich Nietzsche, sia nellřambito della hegeliana<br />

necessità di elaborare una nuova Ŕ cioè moderna e contemporanea Ŕ mitologia capace di esprimere<br />

il rapporto dellřuomo con la natura. Non a caso, infatti, Sebald traccia con questřopera un percorso<br />

attraverso tre epoche storiche, dalle quali si evince il tragitto seguito dal Geist tedesco dalla gotica<br />

oscurità del Medioevo alla bulimica follia del vedere dellřetà barocca, dalla volontà tassonomica e<br />

razionalista dellřilluminismo fino alla postmoderna dialettica negativa del personalissimo mito della<br />

distruzione elaborato dallo scrittore e inscenato nelle sue opere(14).<br />

Nach der Natur è già dal titolo un manifesto di poetica, poiché esso fornisce al lettore una precisa<br />

indicazione per lřermeneutica del testo. La preposizione nach possiede in tedesco un valore modale<br />

e temporale, perciò Secondo natura è una valida traduzione italiana del titolo, che veicola lřintento<br />

dellřopera di celebrare in versi liberi le distruttive leggi naturali, ma Dopo la natura sarebbe stata<br />

una scelta altrettanto possibile, perché Sebald restituisce in particolare nellřultima parte del poema<br />

lřimmagine di una creazione resa esangue e post-naturale dallřazione della civilizzazione e della<br />

tecnicizzazione. Nutrono qui il pensiero sebaldiano le teorie sul tramonto dellřOccidente elaborate<br />

da Oswald Spengler negli anni Venti del Novecento, le quali rimandano per filosofico giocoforza al<br />

pensiero nietzscheano sul tramonto degli idoli e sulla fedeltà alla terra di Also sprach Zarathustra<br />

(Così parlò Zarathustra, 1883-1885), mentre nellřultima parte del poemetto sono chiari i richiami ai<br />

capisaldi della Dialektik der Aufklärung (Dialettica dell‟illuminismo, 1947) di Th. W. Adorno e<br />

Max Horkheimer.<br />

Benché nella presente lettura di Secondo natura si sia volutamente deciso di lasciare al margine<br />

della riflessione il pensiero dei maestri della Scuola di Francoforte(15), ancora da unřopera di<br />

Horkheimer è possibile muovere per comprendere il significato profondo di Secondo natura, il cui<br />

sottotitolo è pure incentrato su una significativa duplicità semantica che si lascia difficilmente<br />

incanalare. Sebald ha scelto come sottotitolo del trittico lřindicazione di genere Elementargedicht:<br />

si tratta di un neologismo che non trova riscontri nella tradizione letteraria tedesca e, già per questo<br />

motivo, richiede unřattenzione particolare. Lřoriginalità dellřopera è infatti tutta contenuta in quel<br />

termine che si colloca sul crinale di due significati: da un lato, Ŗpoema degli elementiŗ e, dallřaltro,<br />

Ŗpoema elementareŗ. Se il primo significato del composto tedesco, scelto anche come sottotitolo<br />

della traduzione italiana, è il più immediato e ha caratterizzato diverse letture di Secondo natura<br />

nellřottica di un poema dedicato, sulla scia del De rerum natura di Lucrezio, ai quattro elementi che<br />

sostanziano il creato, la seconda accezione del termine non è stata sinora oggetto di particolare<br />

attenzione(16). Eppure, la dicotomia semantica veicolata dal sottotitolo del poema è di per sé<br />

eloquente delle intenzioni che hanno mosso la penna di Sebald nel momento in cui ha composto le<br />

233


234<br />

sue tre elegie postmoderne, affidando ai loro protagonisti il compito di ricostruire lřalternarsi delle<br />

fasi di declino e ascesa dello spirito tedesco lungo lřasse del tempo. Qual è quindi il significato del<br />

composto Ŗpoema elementareŗ e perché Sebald lo ha posto a sottotitolo di Secondo natura?<br />

Innanzitutto, è necessario contingentare il momento storico in cui Sebald colloca Come la neve sulle<br />

Alpi, il primo dei tre poemetti che compongono il trittico, il cui protagonista è il pittore Matthias<br />

Grünewald (c. 1475-1528). Esso è pervaso da una religiosità medievale scandita da riti cristiani,<br />

magistralmente riprodotti dallřartista nelle sue tavole, che rendono manifesto il profondo<br />

ancoramento alla religione e alla trascendenza dellřepoca in cui egli visse e operò, ossia durante il<br />

nascere e lřaffermarsi della riforma luterana. Il periodo storico in cui si snoda il primo medaglione<br />

biografico del poema è quindi centrale per lo spirito tedesco, poiché la biografia di Grünewald si<br />

incrocia con almeno due eventi che hanno comportato profondi cambiamenti nella Germania del<br />

Cinquecento: lřaffissione delle tesi da parte di Lutero al portone del Duomo di Wittenberg il 31<br />

ottobre 1517 e il cosiddetto Bauerkrieg, la guerra ingaggiata dai contadini tedeschi del sud contro lo<br />

status quo dei Principati che raggiunse il proprio acme fra il 1524 e il 1526. Se questřultima, infine,<br />

si concluse con la repressione e lřordine precedente venne ristabilito, la riforma luterana, le cui<br />

ricadute sulla forma mentis del vecchio Continente fu pari solo alla riforma anglicana, impresse un<br />

andamento nuovo al corso della storia tedesca ed europea. Sul versante delle scoperte geografiche e<br />

scientifiche non va, inoltre, dimenticato che solo venticinque anni prima della scomunica di Lutero,<br />

Cristoforo Colombo aveva scoperto lřAmerica, e che trentřun anni più tardi sarebbe nato Tycho<br />

Brahe, lřastronomo che, dopo avere studiato a Wittenberg, fece costruire sullřisola di Hven della<br />

natia Danimarca il palazzo-osservatorio di Uraniborg. Pur restando fedele al modello astronomico<br />

geocentrico, benché il suo principale allievo che rispondeva al fatidico nome di Keplero cercasse di<br />

persuaderlo in ogni modo ad adottare la pianta eliocentrica del sistema solare, Brahe confutò la<br />

teoria aristotelica sullřimmutabilità delle sfere celesti universalmente accettata sino ad allora.<br />

Gli anni in cui si consumò la vita di Grünewald furono, perciò, di centrale importanza per la storia<br />

economica, politica, sociale e scientifica dellřOccidente, perciò nel poema gli eventi chiave<br />

dellřepoca sono ricordati in versi fulminei, che condensano in una semplice pennellata di parole<br />

interi archi di tempo:<br />

Della sesta tromba<br />

già sřintende il suono, e la povera lettera<br />

ha da esser pronunciata. Con tintinnare di sonagli<br />

sřannuncia festa solenne, è Pentecoste,<br />

la piena delle acque<br />

sřapprossima, spumeggianti<br />

si uniscono i pianeti<br />

nella casa dei Pesci, lřastro<br />

rosso entra in congiunzione<br />

con Saturno, il segno dei contadini, e un fuoco fantastico<br />

risplenderà quando sřannuncia,<br />

un miserabile arruffone verrà riconosciuto<br />

come il Messia Septentrionalis. (17)<br />

Durante la vita del pittore avvenne quel cambiamento epistemologico e antropologico Ŕ ossia il<br />

passaggio dal Medioevo al Rinascimento tedesco, ricondotto nella citazione tratta da Secondo<br />

natura anche ad influssi astrali Ŕ che Max Horkheimer ha descritto in un modo particolarmente<br />

significativo, se si considera la seguente citazione in relazione agli intenti che hanno mosso la penna<br />

di Sebald durante la stesura di Come la neve sulle alpi:<br />

Nel Rinascimento furono poste le fondamenta della moderna scienza della natura. Il senso<br />

di questa scienza consiste nel rilevare, con il ricorso sistematico allřesperimento, talune<br />

234


egolarità nel corso della natura, per esser in grado, in virtù della loro conoscenza, di<br />

provocare o evitare a proprio piacimento il prodursi di determinati effetti; in altre parole:<br />

per dominare nella misura più larga possibile la natura. Mentre nel medioevo il<br />

comportamento intellettuale degli uomini era diretto essenzialmente a conoscere il senso e<br />

lo scopo del mondo e della vita, per cui esso si era in larghissima parte esaurito<br />

nellřinterpretazione della Rivelazione, oltre che dellřautorità della chiesa e dellřantichità, gli<br />

uomini del Rinascimento, in luogo di ricercare quel fine trascendente che si voleva<br />

individuare a partire dalla tradizione, comunicarono a interrogarsi sulle cause terrene,<br />

accertabili mediante lřosservazione sensibile(18).<br />

235<br />

Di questo epocale momento di passaggio sono testimoni le opere di Grünewald, di cui non a caso<br />

Sebald propone estese ékphrasis in apertura di Secondo natura. Esse denunciano lřirrequietezza di<br />

uno spirito nobile del tempo, capace di sostanziare la propria oggettiva Ŗosservazione sensibileŗ del<br />

creato con quello che, parlando della pittura di Jan Peter Tripp, Sebald ha definito Ŗil sostrato<br />

metafisico della realtàŗ (19). Dinnanzi alle scoperte scientifiche e geografiche del tempo, che<br />

misero in scacco le credenze religione di Grünewald, lřarte poté ancora fornire al pittore un ubi<br />

consistam grazie al quale sublimare le proprie angosce e paure. Così, lřesordio di Secondo natura<br />

pare annunciare unřopera ageografica, il cui ecfrastico incipit si configura come lřestremo tentativo<br />

di Sebald, attuato grazie alle opera di Grünewald, di salvare dallřiconoclastia protestante le<br />

immagini del Cristianesimo e, con esse, la medesima religione della Salvatore. Sebald descrive<br />

unřintera teoria di Santi avvalendosi dellřékphrasis della pala dřaltare di Lindenhardt dipinta da<br />

Grünewald nel 1503 circa. Questa piccola tavola costituisce, inoltre, il pre-testo dellřintero<br />

poema(20), poiché racconta quella storia naturale della sofferenza propria dellřumanità che percorre<br />

tutta lřopera dello scrittore in un Ŗintreccio fra pessimismo cosmico e storico, dove al «mattatoio<br />

della distruzione», in cui si manifesta quellř«insano bricoleur» che è la natura, fa da contrappunto lo<br />

«sventurato corso della storia» con le mille declinazioni della volontà di potenzaŗ(21).<br />

Nellřeconomia del poema, la descrizione della pala dřaltare di Lindenhardt prelude allřékphrasis del<br />

vero capolavoro di Grünewald: unřimponete opera di pittura e architettura realizzata nel monastero<br />

di SantřAntonio a Isenheim e costituita da quattro grandi ante mobili, dipinte su entrambi le facce,<br />

da due sportelli fissi e da una predella dipinti su di unřunica faccia. Grünewald lavorò circa quattro<br />

anni a questa pala alta tre e larga sei metri, sulla cui prima faccia sono raffigurati, da sinistra a<br />

destra, San Sebastiano, la Crocefissione e Sant‟Antonio, mentre nella predella è rappresentato il<br />

Compianto sul Cristo morto. La seconda faccia, visibile aprendo i primi sportelli della pala,<br />

presenta la Annunciazione, la Allegoria della Natività e la Resurrezione. La terza faccia, che appare<br />

dopo aver aperto ulteriori sportelli, presenta al centro le statue lignee di Sant‟Antonio abate,<br />

Sant‟Agostino e San Girolamo, mentre nella predella si trovano le sculture del Cristo fra gli<br />

apostoli, eseguite da Niklaus Hagenauer di Strasburgo e da Desiderius Beychel nei primi anni del<br />

secolo, fiancheggiate da due pannelli ancora dipinti da Grünewald, raffiguranti i Santi eremiti<br />

Antonio e Paolo e le Tentazioni di Sant‟Antonio(22).<br />

Al cospetto di questa storia del cristianesimo e dellřumanità, Sebald rimane però colpito da un<br />

particolare non certo trascurabile per chi, come il nostro autore, ha da sempre posto il concetto di<br />

Ŗsventuraŗ (Unglück)(23) al centro delle proprie opere liriche, narrative e saggistiche:<br />

Ma la vita in quanto tale, così come raggiunge<br />

ovunque e inesausta spaventoso compimento,<br />

non compare mai sulle ante dellřaltare,<br />

le cui figure già sono affrancate<br />

dalla sventura dellřesistenza, se non in quella<br />

tregenda irreale e folle che Grünewald,<br />

ha costruito intorno al SantřAntonio della Tentazione,<br />

per la chioma trascinato a terra da un orrido mostro. (24)<br />

235


236<br />

Le dettagliate ékphrasis delle opere di Grünewald, attorno alle quali Sebald struttura le otto liriche<br />

di Secondo Natura dedicate al pittore bavarese non senza indugiare su particolari della vita del<br />

maestro, adombrano così lřinsorgenza di una concezione non religiosa, se non già nichilistica, del<br />

creato. Grazie ai suoi dipinti, secondo Sebald, è infatti possibile maturare la convinzione che<br />

Grünewald non concepisse la creazione come opera di Dio, ma con orrore come lř<br />

immagine della nostra insana presenza<br />

sulla superficie terrestre,<br />

di una rigenerazione che corre<br />

lungo ripidi tracciati,<br />

le cui forme parassitarie,<br />

avvinghiate lřuna allřaltra e<br />

lřuna allřaltra dipartite e già concresciute,<br />

come infero sciame irrompono,<br />

nella quieta dellřanacoreta.<br />

Così Grünewald descrisse,<br />

usando tacito il pennello,<br />

le urla, le grida, i gorgoglii<br />

e i farfuglii dřuna recita patologica,<br />

alla quale, come ben sapeva, lui stesso e la sua arte<br />

appartenevano. (25)<br />

A sua volta lřuomo, come emerge chiaramente dal poema sebaldiano, è una forma parassitaria della<br />

creazione e, perciò, cerca di ricondurre la natura al proprio dominio, poiché Ŗignara di equilibriŗ e Ŗ<br />

ciecaŗ essa<br />

compie, lřuno dopo lřaltro,<br />

esperimenti privi di costrutto<br />

e, come insano bricoleur, ecco<br />

distrugge quanto appena ha creato.<br />

Sperimentare fino al limite postremo,<br />

è lřunico suo scopo, germinare,<br />

perpetuarsi e riprodursi,<br />

anche in noi e attraverso di noi, e mediante<br />

i congegni nati dalle nostre menti,<br />

in unřunica accozzaglia,<br />

mentre, alle spalle, gli alberi verdi<br />

già perdono le foglie e,<br />

nudi, come spesso di vedono nei quadri<br />

di Grünewald, svettano incontro al cielo,<br />

ricoperti i rami morti<br />

dřuna stillante materia paludosa. (26)<br />

I dipinti di Grünewald sono come tavoli autoptici sui quali lřuomo viene sezionato e scansionato in<br />

profondità per pervenire alla verità dellřesistente. Come chi cerca di scoprire cosa sia il tempo<br />

smontando un orologio, Sebald attraverso le opere del pittore bavarese penetra nella carne<br />

dellřuomo nel tentativo di comprendere, infine, il significato della creazione. Anche a questo<br />

obiettivo mira il poema, che proprio perciò si può definire Ŗelementareŗ: Secondo natura si snoda<br />

attraverso i tre fondamentali ontologici dellřuomo (la nascita, la vita e la morte) cercando di<br />

individuare gli elementi portanti di unřantropologia etica che distingua lřuomo dagli animali.<br />

Sempre agito dai suoi elementi, come suggerisce già intuitivamente il titolo del poema, lřessere<br />

236


237<br />

umano ingaggia in ogni istante della sua vita una lotta antagonista con la natura attraverso la quale<br />

emanciparsi dalla sua azione, pur nella consapevolezza che infine sarà essa a predominare. Al<br />

centro di questa lotta si trova il tempo, la divinità della modernità come lřha definita Sebald(27),<br />

alla cui azione anche i tre protagonisti di Secondo natura cercano di opporsi.<br />

La sfida contro il tempo e la lotta contro la sperimentazione della natura trovano il proprio esito<br />

nellřidea di progresso germinata nel Medioevo dallřŖedificio di una metafisicaŗ(28) definitivamente<br />

sgretolatosi. La consapevolezza del di Grünewald di vivere in momento di svolta per la storia dello<br />

spirito occidentale si lascia cogliere appieno dallřosservazione delle sue opere, tutte immerse<br />

nellřestremo Ŗbagliore della luce / che strapiomba nellřAldilàŗ(29). Un Ŗoscuramento<br />

catastroficoŗ(30) avvolge i dipinti di Grünewald, cosicché su di essi si allunga sempre lřombra<br />

lunga della distruzione: Ŗqui è dipinta in uno stato di erosione grave / e di abbandono lřeredità del<br />

logoramento / che alla fine divora anche le pietreŗ(31). I paesaggi naturali che fanno da sfondo alla<br />

storia del cristianesimo raffigurata dal pittore sono perciò statici, immobili e colti nellřistante in cui<br />

lřoscurità Ŗnon si dirada, anzi si fa più fitta al pensiero di quanto poco riusciamo a trattenere, di<br />

quante cose cadano incessantemente nellřoblio con ogni vita cancellata, di come il mondo si svuoti<br />

per così dire da solo, dal momento che le storie, legate a innumerevoli luoghi e oggetti di per sé<br />

incapaci di ricordo, non vengano udite, annotate o raccontate ad altri da nessunoŗ(32).<br />

La poetica del ricordo e la storia naturale della distruzione che soggiacciono alle opere di Sebald<br />

trovano perciò il proprio precipitato visuale nelle tavole dellřaltare di Isenheim, le cui descrizioni<br />

sono pure funzionali, nellřeconomia di Secondo natura, a narrare la storia del progresso. A tale<br />

proposito, la pala di Isenheim si dimostra essere profetica degli esiti più aberranti e distanti dalla<br />

natura cui lřuomo è pervenuto nel XX secolo attraverso il culto dissennato di una tecnologia ispirata<br />

allřideale di un progresso in continua evoluzione. Come ha magistralmente scritto Elias Canetti,<br />

autore molto amato da Sebald, riferendosi alla pala di Isenheim nella sua autobiografia Il frutto de<br />

fuoco:<br />

Troppo spesso, forse, il compito più insostituibile dellřarte è stato quello dimenticato: non è<br />

la catarsi, né la consolazione, né il talento di disporre ogni elemento in funzione di un lieto<br />

fine. Perché il lieto fine non ci sarà. Ma peste, e piaghe, e tormento, e orrore - e se la peste<br />

ha smesso di infierire, al suo posto inventiamo orrori più atroci […] Tutti gli orrori che<br />

incombono sullřumanità sono anticipati in questo dipinto. (33)<br />

Alla luce di questa citazione, si può concludere che la prima elegia di Secondo natura possa essere<br />

considerata anche il pre-testo dellřintero poema elementare di Sebald, i cui due successivi<br />

medaglioni lirici Ŕ intitolati …E se trovassi dimora sul più lontano dei mari e La notte oscura<br />

prende il largo – proseguono lřepos in versi della storia naturale dellřumanità, dello spirito<br />

occidentale e del progresso.<br />

Il secondo viaggiatore dello spirito di Secondo natura è lřesploratore e medico Georg Wilhelm<br />

Steller (1709-1746); egli si pose al servizio di Vitus Behring, seguendolo nella spedizione del 1741<br />

in Siberia, durante la quale questřultimo incontrò la morte. Con Behring Ŕ ma come è noto con lo<br />

stesso Sebald Ŕ, Steller condivide quella passione per la catalogazione e lřarchiviazione<br />

dellřesistente, figlia del culto illuministico della ragione, dietro la cui tassonomica ossessione si<br />

spalanca lřhorror vacui congenito a qualsiasi concezione meccanicistica e nichilistica dellřuomo<br />

che esclude lřesistenza del divino. Profondamente illuminista, perciò votato alla causa<br />

dellřesplorazione razionale del mondo come espressione del progresso e del processo di<br />

emancipazione dellřuomo dalla natura, Steller è, infatti, ossessivamente alla ricerca di Ŗcostruzioni<br />

della scienza nella sua mente, / miranti a porre un limite / al disordine del mondoŗ(34). Dopo avere<br />

Ŗrinnegato la teologia / per abbracciare le scienze naturaliŗ(35) in giovane età, egli matura una<br />

percezione del mondo retta da uno sguardo catalogatore che trova nella letteratura tedesca<br />

ottocentesca un nobile esponente, esplicitamente ricordato da Sebald nel secondo medaglione di<br />

Secondo natura. Si tratta di Adalbert von Chamisso che, nel 1815, venne nominato botanico della<br />

237


238<br />

nave russa Rurik, a bordo della quale intraprese un viaggio scientifico intorno al mondo. Per<br />

raccontare le tappe dellřesplorazione dellřartico intrapresa da Steller, Sebald si avvale dei diari di<br />

viaggio di Chamisso e del resoconto ufficiale della spedizione, sempre a firma dellřautore<br />

romantico, Reise und die Welt (Viaggio attorno al mondo, 1836) (36). Grazie al metodo del<br />

Ŗbricolageŗ associativo e allusivo che regge la struttura del poemetto sebaldiano(37), la spedizione<br />

di Steller e il viaggio di Chamisso, pur cronologicamente inconciliabili, non solo vengono associati,<br />

ma persino assimilati e sovrapposti lřuna allřaltro. Steller è come unřombra del passato che si<br />

proietta su Chamisso, il quale Ŗparla […] della macchina a vapore, / come del primo animale a<br />

sangue caldo / uscito dalle mani dellřuomoŗ(38). La continuità Ŗumbratileŗ fra Chamisso e Steller<br />

induce a ricordare lřopera più celebre dello scrittore romantico: Storia straordinaria di Peter<br />

Schlemihl (1814), il cui povero protagonista vende la propria ombra a un misterioso uomo in grigio<br />

in cambio di una magica borsa, dalla quale si possono estrarre in continuazione monete. Dopo una<br />

serie di traversie fantastiche, Peter Schlemihl getta la borsa magica e dona le proprie ricchezze al<br />

fedele servitore Bendel, decidendo di abbandonare il mondo civile, in cui lřassenza dellřombra gli<br />

crea difficoltà insormontabili, per intraprendere un viaggio attraverso il mondo; dopo avere rifiutato<br />

il baratto con lřuomo in grigio della propria anima con lřombra, Schlemihl inizia lřesplorazione del<br />

mondo con lřausilio di aiuti magici, nello specifico degli stivali dalla sette leghe. Se nellřelegia che<br />

Sebald dedica a Steller nulla riemerge del meraviglioso dello Schlemihl, ma anzi questo aspetto è<br />

rifiutato a priori dalla mentre razionale dellřesploratore settecentesco, nella chiusa del quadro lirico,<br />

non viene certamente dimenticata la conclusione della storia straordinaria del personaggio di<br />

Chamisso. Egli, infatti, alla fine del racconto troverà la serenità nello studio delle scienze naturali<br />

lontano dalla società. Parimenti, Steller compie nella chiusa del secondo quadro lirico del poema un<br />

atto di regressione nella natura, sulla quale condurrà negli anni che lo separano dalla morte uno<br />

studio scientifico del tutto paragonabile a quello schlemihliano descritto nella conclusione della<br />

Storia straordinaria di Chamisso Ŕ ciò tanto nei mezzi, attraverso i quali esso è condotto, quanto<br />

nel fine, la felicità, che esso si prefigge:<br />

Steller colleziona materiale botanico,<br />

riempie cartocci di semi già secchi,<br />

descrive, classifica, disegna,<br />

seduto nella sua nera tenda da viaggio,<br />

per la prima volta, in vita sua, felice. (39)<br />

Una volta rifiutata la cosiddetta civiltà, Steller diviene un naturalista, ma anche un antropologo ante<br />

litteram che scrive Ŗmemoriali in difesa / delle popolazioni indigeneŗ e Ŗcomprende appieno la<br />

differenza tra natura e societàŗ(40). Così, il cerchio della ricerca di se stesso, di cui le<br />

peregrinazioni di Steller sono espressione, si chiude: lřesploratore settecentesco, dopo avere<br />

abbandonato la metafisica e intrapreso la strada del naturalista, approda a una nuova e più profonda<br />

consapevolezza antropologica e scientifica grazie allřincontro con lřaltro da sé reso possibile dal<br />

viaggio stesso(41). Grazie allřexemplum di Steller, Sebald ha evidentemente voluto rendere<br />

omaggio a quegli antropologi e scienziati di epoche diverse che hanno influito in modo decisivo<br />

sulla sua formazione e sul suo metodo letterario, come Chamisso, Alexander von Humboldt e<br />

Claude Lévy-Strauss. Eppure, ma anche perciò, la lettura di Secondo natura non può essere<br />

semplicemente incanalata nei rigidi binari della celebrazione della scienza e delle sue scoperte,<br />

perché anche laddove il poema pare concedere tutto alla ragione e al freddo calcolo, intesi come<br />

viatici per comprendere la struttura profonda della natura, il sentimento e la fede si manifestano<br />

come possibili alternative gnoseologiche del creato. Così, ad esempio, il monologo interiore che<br />

accompagna lřuscita di Steller dalla società civile per abbandonarsi romanticamente alla natura<br />

potrebbe persino disorientare, se messo in quadratura con lřapproccio razionale al mondo al quale<br />

lřesploratore è stato sino a quel momento fedele:<br />

238


Se Ti compiaci di questo viaggio,<br />

egli diceva fra sé, sii Tu<br />

sprone dei nostri passi,<br />

conforto lungo il cammino, ombra<br />

nella calura del meriggio,<br />

luce nelle tenebre,<br />

riparo dal gelo e dalla pioggia,<br />

veicolo nellřora della stanchezza,<br />

aiuto nel bisogno,<br />

così che sotto la Tua guida<br />

giungiamo indenni<br />

al luogo che ci è destinato;<br />

abbi cura Tu, Signore,<br />

affinché sopra di noi sia propizia<br />

la congiunzione astrale. (42)<br />

239<br />

Ritrovata nel ŖSignoreŗ la propria Ŕ e ancora schlemihliana Ŕ Ŗombraŗ, Steller può finalmente<br />

comprendere la natura nella sua complessità, divenendo il simbolo di una riuscita sintesi fra<br />

ragione, fede e sentimento(43). Una magia inspiegabile circonfonde dřaltronde lřintera storia di<br />

Steller: dallřesergo tratto da Klopstock che introduce al lettore il medaglione lirico ai diversi<br />

rimandi alla pittura romantica di Kaspar David Friedrich presenti nei versi(44), la natura si<br />

manifesta a Steller nel kantiano sublime dinamico e statico, mentre la volontà dello scienziato di<br />

comprenderla razionalmente si infrange, come la nave sulla quale egli viaggia verso la Siberia, sugli<br />

scogli posti alla ragione dallřistinto e dal sentimento. Come Grünewald, lo Steller che attraversa Ŗun<br />

unico grigio / senza meta, senza né sopra né sotto, / la natura in un processo / di distruzione / in uno<br />

stato di pura insaniaŗ(45) assurge a testimone della tragica consapevolezza che attanaglia lo<br />

Zeitgeist dellřepoca cui vive: a prescindere dalla fiducia nella ragione, è impossibile comprendere<br />

solo per suo tramite la natura(46).<br />

Il sentimento, rappresentato anche dallřombra di cui Steller si riappropria nellřestrema parte della<br />

propria vita, è necessario per approcciare con il cuore la natura e pervenire a una profonda<br />

conoscenza dellřumanità. Questa sebaldiana convinzione, veicolata da diversi passi di Secondo<br />

natura(47), riemerge anche dalle opere in prosa dello scrittore, come già dal titolo dalla raccolta di<br />

quattro racconti Schwindel. Gefühle. (Vertigini. Sentimenti) apparsi nel 1995 nella collana Die<br />

andere Bibliothek diretta da Hans Magnus Enzensberger. Ascrivendo al sentimento un ruolo<br />

centrale nel processo di conoscenza della realtà, essi offrono una rappresentazione del passato,<br />

contemporaneamente fittizia e documentaria, che non esita a confrontarsi con i Ŗbalenii dellřirreale<br />

nel mondo realeŗ (48). Il sentimento assume, perciò, una valenza duplice nellřopera di Sebald: esso<br />

traduce, a livello emozionale, la Ŗvertigineŗ evocata dal ricordo e assume al contempo un valore<br />

consolatorio, innalzandosi a Řstrategiař di salvezza psicologica di un soggetto che non è in grado di<br />

affrontare un lavoro di memoria dominato dalla melancolia. La scrittura di Sebald si concreta,<br />

infatti, in biografie melancoliche che rendono lo spazio lirico e narrativo un luogo delegato allo<br />

scavo archeologico nella Storia e nella memoria collettiva europee condotto nella consapevolezza<br />

che il passato possa essere falsificato e manipolato. Come scrive Enzensberger nella ballata di<br />

Mausoleum dedicata a Piranesi, Ŗlřarcheologiaŗ non è, infatti che Ŗun nuovo concetto in Europa,<br />

una nuova follia. Il passato vien salvato, depredato. Lřantichità è una utopia. Da riesumare e<br />

riprodurre. [...] Dalle cave della storia sgorga un fiume di falsiŗ(49).<br />

Perciò, la terza sezione di Secondo natura si configura come spazio di evocazione dei tabù collettivi<br />

della Germania del secondo Novecento, in cui Ŗlřelemento autobiografico è soltanto un punto di<br />

partenza che viene relativizzato dalla sapiente arte di Ŗperdersiŗ e di Ŗritrovarsiŗ nella coscienza<br />

altruiŗ (50). Questo procedimento retorico, posto da Sebald a fondamento della terza stazione del<br />

suo poema elementare, rappresenta la prospettiva da cui lřautore si è avvicinato nel 1999 ai traumi<br />

239


240<br />

rimossi della collettività tedesca con Luftkrieg und Literatur (trad. it. Storia naturale della<br />

distruzione, 2004), contestato saggio in cui il germanista ha affrontato la questione dellřassenza<br />

nella letteratura del dopoguerra di rappresentazioni estetiche convincenti della guerra di<br />

bombardamento perpetrata dagli alleati sulla Germania durante la seconda guerra mondiale. In<br />

questa circostanza, lřelemento biografico ha consentito cioè a Sebald di mantenere lřoggettività del<br />

reporter e, al contempo, di muovere dal proprio vissuto(51), enucleando gli eventi del passato che<br />

hanno gettato unřombra lunga sulla sua vita, come si legge in Storia naturale della distruzione:<br />

Ho trascorso lřinfanzia e lřadolescenza in una zona che si estende lungo il margine<br />

settentrionale delle Alpi, zona largamente risparmiata dalle immediate conseguenze delle<br />

cosiddette operazioni militari. Alla fine della guerra avevo appena un anno ed è quindi<br />

difficile che, di quellřepoca segnata dalla distruzione, io possa avere serbato impressioni<br />

fondate su eventi reali. Eppure ancora oggi, quando guardo fotografie o documentari del<br />

periodo bellico, ho come la sensazione di esserne il figlio, come se di là, da quegli orrori<br />

che non ho vissuto, cadesse su di me unřombra alla quale non potrò mai sfuggire del tutto.<br />

(52)<br />

Di ombre che riemergono dal passato, Sebald parla diffusamente nella terza parte di Secondo<br />

natura, il cui esergo, tratto dalla prima Egloga delle Bucoliche di Virgilio, già allude esplicitamente<br />

al ritorno del rimosso che esse rappresentano: Ŗet iam summa procul villarum culmina fumant,<br />

maioresque cadunt altis de montibus umbraeŗ(53). Sebald parla nel terzo medaglione lirico<br />

dellřopera delle ombre del proprio passato attraverso la restituzione letteraria della propria memoria<br />

individuale: La notte oscura prende il largo, così il titolo della terza sezione del poema, si apre con<br />

il tentativo dello scrittore di restituire attraverso lřausilio di fotografie Ŕ non riprodotte in Secondo<br />

natura, che è il solo testo dellřautore privo di apparato iconografico Ŕ la storia della sua famiglia a<br />

partire dal 9 gennaio 1905, Ŗquando il nonno e la nonna / in una carrozza aperta / partirono, nel<br />

freddo pungente, / da Kloster Lechfeld alla volta / di Obermeitingen, per convolare a nozzeŗ(54).<br />

Sebald ricostruisce poi, avvalendosi sempre di una tecnica associativa, la propria infanzia e il<br />

proprio peregrinare nella seconda metà del Novecento attraverso i resti e le rovine dello spirito<br />

occidentale, ricordando i propri viaggi in Europa e il suo trasferimento in Inghilterra, dove visse dai<br />

primi anni Sessanta sino alla morte(55). Dinnanzi al definitivo tramonto dello spirito occidentale nel<br />

secondo Novecento, causato dal colpo mortale del nazionalsocialismo agli ideali etici che lo<br />

sostanziavano, lřautore non può che affidarsi ai capisaldi della tradizione nazionale per<br />

intraprendere un progetto di ricostruzione dalle fondamenta della cultura tedesca Ŗper la salvezza<br />

dellřOccidenteŗ(56). Anche perciò, nella terza lirica di Secondo natura espliciti sono i rimandi a<br />

Paracelso, secondo il quale Ŗda septentrione nulla giunge di buonoŗ(57), sebbene il riferimento<br />

allřalchimista più celebre della tradizione germanica riconduca, al contempo, il poema nellřorbita<br />

della magia e dellřascendenza degli astri sul destino individuale e collettivo. Lřattenzione in diversi<br />

passi di Secondo natura ai quadri astrali e alle costellazioni, sotto i quali si sono svolti eventi<br />

decisivi della storia europea, è ribadita da Sebald sin dallřincipit della seconda lirica che compone il<br />

terzo quadro del poema:<br />

Quando il giorno dellřAscensione<br />

dellřanno quarantaquattro io venni al mondo,<br />

davanti a casa nostra stava giusto passando,<br />

al suono della banda dei pompieri,<br />

la processione propiziatoria diretta ai campi fioriti<br />

del maggio. La mamma, sulle prime,<br />

lo ritenne un buon auspicio, ignara<br />

che la costellazione di quellřora<br />

fosse sotto lřegida del freddo pianeta Saturno<br />

e che sui monti<br />

240


già sřannunciasse il temporale, destinato<br />

a disperdere gli oranti e a fulminare uno<br />

dei quattro, intenti a portare il baldacchino. (58)<br />

241<br />

Riti ancestrali e tradizione ermetica sono qui chiaramente evocati, inducendo anche ad una lettura di<br />

Secondo natura come un poema elementale. Oltre a ad essere elementare e relativo ai quattro<br />

elementi, la cui azione costituisce il basso continuo della storia naturale della distruzione, si<br />

potrebbe, infatti, leggere questřopera come un poema riconducibile alla cultura ermetica, alchemica<br />

e misteriosofica di Paracelso e dei suoi successori, che scorge nel creato la presenza delle<br />

leggendarie creature Ŗelementaliŗ costituite da uno dei quattro elementi: aria (silfidi), acqua<br />

(nereidi, ondine e ninfe), fuoco (salamandre) o terra (elfi, gnomi e driadi). In questa prospettiva<br />

elementare ed elemantale trova una spiegazione anche il misterioso ŖTàtaro lillipuzianoŗ che nella<br />

terza parte di Secondo natura puntualmente si manifesta in occasione di una catastrofe:<br />

In antropologia,<br />

questa figura, spesso associata a certe forme<br />

di automutilazione, coincide<br />

con quella dellřadepto, che<br />

scala il monte innevato e lassù<br />

resta a lungo, si dice, fra le lacrime. (59)<br />

Questo personaggio riemerge dallřinfanzia bavarese di Sebald e ricorda il Ŗmanichino vestito da<br />

turcoŗ guidato da quel Ŗnano gobboŗ che, nella prima Tesi sul concetto di storia di Walter<br />

Benjamin, si configura come prefigurazione della rammemorazione, oltre a rappresentare la verità<br />

delle cose che sfugge a un approccio completamente razionale alla natura:<br />

È noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa di un<br />

giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava al vittoria. Un manichino<br />

vestito da turco, con un narghilè in bocca, sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio<br />

tavolo. Con un sistema di specchi veniva data lřillusione che vi si potesse guardare<br />

attraverso da ogni lato. In verità cřera seduto dentro un nano gobbo , maestro nel gioco<br />

degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. (60)<br />

ŖEmblema di una catastrofe silenziosa che si compire, / priva di echi, davanti allo spettatoreŗ, come<br />

Sebald lo definisce rendendo implicitamente omaggio allřopera fondamentale di Hans Blumenberg<br />

Katastrophe mit Zuschauer (Catastrofe con spettatore), il Tàtaro lillipuziano Ŗparlaŗ infatti Ŗdi una<br />

pietra della memoria, / della meta di un pellegrinaggio e di un cubetto / di ghiaccio, colorato con<br />

uno iota di blu di Prussiaŗ(61). È qui allusa una posizione sopraelevata da cui osservare la catastrofe<br />

dello spirito occidentale dopo il nazismo avvalendosi anche di quella metafisica del ricordo<br />

segnatamente sebaldiana(62), che ancora trova un suo presupposto fondamentale nella convergenza<br />

fra ragione e sentimento, fede e materialismo proposta da Benjamin nelle Tesi sul concetti di storia,<br />

allorquando il fine della Ŗrammemorazioneŗ, di cui il nano gobbo è prefigurazione, viene<br />

individuato come segue: Ŗla rammemorazione può fare dellřincompiuto (la felicità) un compiuto e<br />

del compiuto (il dolore) un incompiuto. Questa è teologia; ma nella rammemorazione noi facciamo<br />

unřesperienza che ci vieta di concepire la storia in modo fondamentalmente ateologicoŗ (63).<br />

Grazie alla vertigine della rammemorazione è possibile raggiungere la postazione sopraelevata dalla<br />

quale Sebald ha guardato, come lřangelo della storia di Benjamin, la catastrofe verso la quale<br />

inesorabilmente è scorsa la storia del progresso, nella quale si è sedimentata una<br />

lunga serie dřinfinitesime paure<br />

dal passato prossimo e remoto,<br />

241


non traducibili nella lingua parlata<br />

del presente […].(64)<br />

242<br />

Obiettivo della terza sezione del poema sebaldiano è stata perciò anche la ricerca di una lingua della<br />

sventura (Unglück) sospesa fra parola umana, elementare ed elementale, oltre che basata sulla<br />

dialettica della memoria. Tale Ŗlingua del fuocoŗ(65) ha reso possibile una poetica del ricordo<br />

capace di gettare uno sguardo sulla civiltà contemporanea e sulla catastrofe dello spirito<br />

occidentale, Ŗil cui estremo referente nel ventesimo secolo è lřOlocausto, e il cui paradigma<br />

interpretativo continua ad essere determinato dal precetto di Adorno relativo alla poesia dopo<br />

Auschwitzŗ(66). Secondo natura, richiamandosi alla parola poetica della tradizione letteraria<br />

tedesca Ŕ in particolare, nella terza sezione del poema a Friedrich Hölderlin, Albrecht von Haller,<br />

Adelbert von Chamisso e Franz Kafka Ŕ rappresenta, quindi, il laboratorio di sperimentazione in<br />

vitro di una lingua della sventura e della distruzione di cui Auschwitz è lřestremo indicibile. La<br />

macchina della morte nazista, frutto aberrante del progresso, rivela emblematicamente che lo<br />

sviluppo della tecnologia può ingenerare il regresso morale e generare mostri indomabili dallřuomo.<br />

Così, non stupisce constatare che, ricordando il momento in cui giunse a Zurigo, lo scrittore<br />

restituisca in versi il proprio incontro con un ingegnere, il quale si confida a Sebald con queste<br />

parole:<br />

Quante macchine<br />

avevo costruito, quanti impianti,<br />

progettato, finché non persi<br />

la fede nella scienza, al cui servizio<br />

tutta la vita avevo speso.<br />

Ero giunto in una morta<br />

ansa del tempo, come quel Tàtaro<br />

rosso bendato e dalla ricurva penna bianca<br />

avevo vinto la montagna,<br />

e di lassù guardavo la città<br />

che, immagine sbiadita<br />

del gran diluvio, si stendeva lì<br />

davanti a me.(67)<br />

Richiamandosi implicitamente alla speculazione di Lévy-Strauss sulla cultura e sulla<br />

civilizzazione(68), il bricoleur Sebald ha cercato con il suo poema degli elementi di fissare i limiti<br />

di una poetica della catastrofe naturale e, al contempo, dellřapocalisse cagionata sulla terra<br />

dallřinsania di unřumanità votatasi al culto del progresso tecnico-scientifico e ormai incapace di<br />

vivere Secondo natura. Si tratta di una lingua imperscrutabile agli occhi della ragione, ma forse non<br />

a quelli del genio, i quali grazie al sentimento possono spingersi oltre le Ŗmacchie di nebbia che<br />

nessun occhio dissolveŗ.<br />

Raul Calzoni<br />

Note.<br />

(1) Hans Magnus Enzensberger, Mausoleum. Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, trad. it. di V. Alliata,<br />

Torino, Einaudi 1979, p. 5.<br />

(2) Sulla camaleontica figura di Enzensberger nella letteratura tedesca del dopoguerra sino alla caduta del Muro di<br />

Berlino, cfr. M. Kane (a cura di), After the “Dead of Literature”. West German Writing of the 1970s, Oxford University<br />

Press, Oxford 1989.<br />

(3) Hans Magnus Enzensberger, Mausoleum. Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, cit., p. 27 [Corsivo<br />

originale].<br />

242


243<br />

(4) R. Concetti, M(a)us(ol)ei delle scienze. Riflessioni sulla lirica di Hans Magnus Enzensberger e Durs Grunbein, in F.<br />

Montesperelli (a cura di), Tra Frankenstein e Prometeo. Miti della scienza nell‟immaginario del „900, Liguori, Roma<br />

2006, p. 216<br />

(5) Hans Magnus Enzensberger, Mausoleum. Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, cit., p. 95.<br />

(6) Sul concetto di Ŗindustria della coscienzaŗ nei suoi addentellati con la riflessione della Scuola di Francoforte, cfr. S.<br />

Mamprin, Tra letteratura e giornalismo. La produzione saggistica di Hans Magnus Enzensberger, Campanotto, Pasian<br />

di Prato (UD) 2009, in particolare p. 15 e seg.<br />

(7) W. G. Sebald, Secondo natura. Un poema degli elementi, trad. it. di A. Vigliani, Einaudi, Milano 2009, p. 93.<br />

(8) Così Sebald nellřintervista ŖHitlers pyromanische Phantasien: W. G. Sebaldŗ, in V. Hage, Zeugen der Zerstörung.<br />

Die Literaten und der Luftkrieg, Fischer, Frankfurt am Main 2003, p. 278.<br />

(9) La concezione stereometrica del tempo nellřopera sebaldiana è stata oggetto di diverse letture, che sono perlopiù<br />

germinate dallřinterpretazione del seguente passo dellřultimo romanzo dellřautore, Austerlitz: ŖA mio giudizio, disse<br />

Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più lřimpressione<br />

che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore<br />

stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione dřanimo, e quanto più<br />

ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti lřaspetto di esseri<br />

irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luceŗ; W.G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, Milano 2002, p.<br />

199. Con Enzensberger, Sebald condivide una concezione del tempo di matrice benjaminiana, che non è lineare, ma<br />

appunto stereometrica e il cui simbolo più esemplificativo è la ŖBrezelŗ di cui Benjamin così parla in un articolo del<br />

1916 steso per la Literarische Welt e poi raccolto nelle Illuminationen: ŖIl tempo si inarca nella natura come una<br />

Brezelŗ, W. Benjamin, in Gesammelte Werke, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhauser, Suhrkamp,<br />

Frankfurt am Main 1980, vol. IV/1, p. 432. Sulla concezione del tempo nellřopera di Sebald, cfr. E. Locher, ŖřThe Time<br />

is out of Jointř. Gli spettri di W.G. Sebaldŗ, in Cultura Tedesca, n. 29 (2005) (W.G. Sebald. Storia della distruzione e<br />

memoria letteraria, a cura di W. Busch), pp. 67-91.<br />

(10) W.G. Sebald, Gli emigrati, trad. it. di A. Vigliani, Milano, Adelphi, 2010, p. 6.<br />

(11) Questa sorprendente ascendenza è stata rilevata per prima da E. Agazzi in La poetica di Jean Paul all‟epoca di Das<br />

älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus. Questioni aperte e risposte possibili sul rapporto tra morale ed<br />

estetica, in ŖCultura tedescaŗ, n. 27 (2004), pp. 63-79.<br />

(12) Jean Paul, Vorschule der Ästhetik, in Id., Gesammelte Werke, a cura di N. Miller, Hanser, München 1996, Parte I,<br />

vol. 5, § 14, p. 64.<br />

(13) Si tratta di unřinclinazione della cultura occidentale che nei suoi intrecci con la magia e la scienza trova<br />

espressione lungo la tradizione letteraria ed artistica tedesca sino ai giorni nostri, come emerge in modo perspicuo Ŕ e<br />

con particolare riferimento allřopera di Thomas Mann Ŕ dallřaffascinante e denso studio di L. Crescenzi, Melanconia<br />

occidentale. La Montagna magica di Thomas Mann, Carocci, Roma 2011.<br />

(14) Cfr. Sulla genesi e sugli esiti del mito e della distruzione nellřopera W.G. Sebald, cfr. R. Calzoni, Poetica della<br />

distruzione e culto delle rovine in Austerlitz di W.G. Sebald, in D. Borrelli Ŕ P. Di Cori (a cura di), Rovine future.<br />

Contributi per ripensare il presente, Lampi di stampa, Milano 2010, pp. 113-128.<br />

(15) Lřermeneutica dellřopera sebaldiana attraverso il pensiero di Adorno ed Horkheimer è stata dominante nella<br />

ricezione critica di Secondo natura. Pur non tacendo in questa sede lřimportanza del pensiero dei francofortesi sulla<br />

poetica della memoria e della natura sebaldiane, si è operata la scelta di concentrarsi sugli aspetti antropologici di<br />

Secondo natura, mentre per una riuscita lettura in chiave adorniana del poema si rinvia a P. Wampfler, »blind /ein<br />

wüstes Experiment«. Bricolage und Experiment in W.G. Sebald »Nach der Natur«, in M. Bies Ŕ M. Gamper (a cura di),<br />

»Es ist ein Laboratorium, ein Laboratorium für Worte«: Literatur und Experiment III 1890-2010, Wallstein, Göttingen<br />

2010, pp. 202-233 (in particolare, cfr. pp. 202-216).<br />

(16) Cfr. G. Bond, On the Misery of Nature and the Nature of Misery: W.G. Sebald‟s Landscapes, in Jonathan J. Long -<br />

Anne Whitehead (a cura di), W. G. Sebald. A Critical Companion, Edinburgh University Press: Edinburgh 2004, pp. 31-<br />

44. Per una lettura del poema segnatamente orientata dalle teorie dellřetica eco-centrica, cfr. C. Riordan, Econcentrism<br />

in Sebald‟s After Nature, ibidem, pp. 45-57.<br />

(17) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 35. Sullřinflusso melancolico di saturno sul temperamento individuale e<br />

collettivo, non si può dimenticare qui il fondamentale R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia.<br />

Studi su storia della filosofia naturale, medicina, religione e arte, trad. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1983, per la<br />

cui non trascurabile genesi dai fondamentali scritti di Carl Giehlow, cfr. L. Crescenzi, Melancolia occidentale. La<br />

montagna magica di Thomas Mann, cit., pp. 27-37.<br />

(18) M. Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia. Da Machiavelli a Hegel, trad. it. di G. Backhaus,<br />

Einaudi, Torino 1978, p. 2.<br />

(19) W.G. Sebald, Wie Tag und Nacht Ŕ Über die Bilder Jan Peter Tripps, in Id., Logis in einem Landhaus, Fischer,<br />

Frankfurt am Main 2003 4 , p. 181.<br />

(20) Per una cartografia dei pre-testi sebaldiani, cfr. S. Schedel, »Wer weiß, wie es vor Zeiten wirklich gewesen ist?«<br />

Textbeziehungen als Mittel der Geschichtsdarstellung bei W.G. Sebald, Königshausen & Neumann, Würzburg 2004, p.<br />

36 e seg.<br />

(21) A. Vigliani, Storia naturale della sofferenza. Tracce di pessimismo cosmico nell‟opera di W.G. Sebald, in ŖNuova<br />

correnteŗ, n. 146 (2010), pp. 291-292.<br />

243


244<br />

(22) Sulla centralità del Polittico di Isenheim nella tradizione letteraria tedesca fra Espressionismo e secondo<br />

Novecento, cfr. M. Cervi, Il Polittico di Isenheim nella poetica di Erik Neutsch, in R. Calzoni (a cura di), Forme del<br />

sacro. Numero monografico della rivista ŖElephant & Castle. Laboratorio dell'immaginarioŗ, n. 2 (2010):<br />

http://cav.unibg.it/elephant_castle/web/saggi/il-em-polittico-di-isenheim-em-nella-poetica-di-erik-neutsch/35<br />

(23) Il termine si esplicita in Die Beschreibung des Unglücks, il titolo di una raccolta di saggi dedicata da Sebald nel<br />

1985 alla letteratura austriaca che si richiama al romanzo del 1972 Wunschloses Unglück di Peter Handke (Infelicità<br />

senza desideri, trad. it. di B. Bianchi, nota di G. Cusatelli, Milano, Garzanti 1976). Volutamente si rende qui il tedesco<br />

Unglück con Ŗsventuraŗ (in luogo di Ŗinfelicitàŗ, Ŗsciaguraŗ, Ŗdisgraziaŗ), poiché in questo termine italiano si ravvisa<br />

una stratificazione semantica che bene si accorda alla poetica elementare di Sebald. ŖSventuraŗ raccoglie in sé<br />

lřŖinfelicitàŗ quasi ontologica dei personaggi del trittico lirico e, al contempo, veicola il fatalismo che caratterizza la<br />

percezione della storia dello scrittore e dal quale dipendono pure le Ŗsciagureŗ e le Ŗdisgrazieŗ di cui cadono vittima i<br />

protagonisti delle sue prose.<br />

(24) W.G. Sebald, Secondo natura. Un poema degli elementi, cit., p. 28.<br />

(25) Ibidem, p. 29.<br />

(26) Ibidem, pp. 29-30.<br />

(27) Come nella mitologia classica, il tempo si configura ancora in Austerlitz come una divinità: nella modernità esso è<br />

la divinità attorno alla quale Sebald costruisce il proprio mito della distruzione in immagini e parole. Sin dallřinizio del<br />

romanzo lřattenzione dellřio narrante si rivolge a questa divinità, sulla quale Austerlitz e il suo interlocutore si<br />

confrontano durante il loro primo incontro nella stazione di Anversa. Da esperto di storia dellřarchitettura, Austerlitz<br />

conosce nel dettaglio le fasi di realizzazione della stazione, nei punti elevati della quale - egli osserva - Ŗvengono<br />

introdotte in ordine gerarchico le divinità del XIX secolo: la miniera, lřindustria, il traffico, il commercio e il capitaleŗ<br />

(W.G. Sebald, Austerlitz, cit., p. 109). La lunga descrizione dellřampio atrio della stazione si conclude con un<br />

riferimento allřorologio della stazione, attraverso il quale Austerlitz propone un significativo parallelo: ŖE fra queste<br />

figure simboliche, disse Austerlitz, quella che sta al vertice è il tempo, rappresentato dalle lancette e dal quadrante. Una<br />

ventina di metri al di sopra della scalinata a forma di croce che unisce lřatrio ai binari (unico elemento barocco<br />

nellřintero complesso), là dove nel Pantheon si poteva vedere lřimmagine del sovrano a diretto prolungamento del<br />

portale, proprio là si trova lřorologio; in quanto governatore della nuova onnipotenza, esso è situato ben al di sopra dello<br />

stemma reale e del motto Eendracht maakt machtŗ (ibidem, p. 112).<br />

(28) Ibidem, p. 33.<br />

(29) Ibidem, p. 32.<br />

(30) Ibidem, p. 30.<br />

(31) Ivi.<br />

(32) W. G. Sebald, Austerlitz, cit., p. 31.<br />

(33) E. Canetti, Il frutto del fuoco: La scuola dell‟ascolto. Vienna 1926-1928, a cura di G. Cusatelli, Bompiani, Milano<br />

1993, pp. 1031-1032.<br />

(34) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 60.<br />

(35) Ibidem, p. 42.<br />

(36) Sui diversi significati del Ŗviaggioŗ nellřopera di Sebald e sul rapporto dellřautore con la tradizione della letteratura<br />

odeporica tedesca, cfr. M. Zisselsberger (a cura di), Undiscover'd country: W.G. Sebald and the poetics of travel,<br />

Camden House, New York 2010.<br />

(37) Sulla tecnica poetica associativa e à la bricoleur di Sebald, cfr. B. Hutchinson, W. G. Sebald, Die dialektische<br />

Imagination, Walter de Gruyter, Berlin 2009, p. 54 e seg. e S. Seitz, Geschichte als bricolage – W. G. Sebald und die<br />

Poetik des Bastelns, Vandenhoeck & Ruprecht Unipress, Göttingen 2011.<br />

(38) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 58.<br />

(39) Ibidem, p. 70.<br />

(40) Ibidem, p. 70-71.<br />

(41) Cfr., a tale proposito, R. Bonadei, I sensi del viaggio, Franco Angeli, Milano 2007, in particolare p. 21 e seg.<br />

(42) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., pp. 68-69.<br />

(43) Steller diventa, così, antesignano di un metodo scientifico improntato allřideale della Humanität che più tardi<br />

Goethe, pur nellřassenza di una prospettiva teologica, avrebbe saputo elaborare compiutamente per condurre uno studio<br />

della natura rispettoso della molteplicità dei sue manifestazioni fenomeniche. Mi permetto di rimandare, a tale<br />

proposito, a R. Calzoni, L‟esperimento di Goethe fra scienza e “Humanität”, in ŖTesti e linguaggiŗ, n. 5 (2011), pp. 81-<br />

96.<br />

(44) Lřesergo tratto da I mondi (1746) di Frierch Gottlieb Klopstock recita: ŖIn alto, sempre più in alto, onda, tu ti<br />

innalzi! / Ah, lřultima sei, lřultima! La nave sřinabissa. / E mentre continua cupa nel canto suo di morte, / Sullřimmane<br />

fossa, sempre aperta, va ululando la tempestaŗ .<br />

(45) Ibidem, p. 61<br />

(46) Cfr., a tale proposito, T. van Hoorn, Auch eine Dialektik der Aufklärung. Wie W.G. Sebald Georg Wilhelm Steller<br />

zwischen Kabbala und magischer Medizin verortet (Nach der Natur), in ŖZeitschrift für Germanistik. Neue FolgeŖ, n.<br />

19 (2009), pp. 108-120.<br />

(47) La Ŗcontrizione del cuoreŗ e la Ŗmelanconiaŗ come forma di resistenza al tempo e alla distruzione emergono<br />

esplicitamente come Leitmotiv delle interpretazioni sebaldiane dellřopera di Peter Weiss, cfr. Die Zerknirschung des<br />

244


245<br />

Herzens. Über Erinnerung und Grausamkeit im Werk von Peter Weiss, in ŖOrbis Litterarum: International Review of<br />

Literary StudiesŖ, n. 41 (1986), pp. 265-278; reprint in W.G. Sebald, Campo Santo, a cura di S. Meyer, Hanser, Wien-<br />

München 2003, pp. 128-148.<br />

(48) Cfr. W.G. Sebald, Asuterlitz, Adelphi, Milano 2002, p. 104: ŖE proprio in questi fenomeni irreali […] in questo<br />

balenio dellřirreale nel mondo reale, in questi particolari effetti luminosi nel paesaggio che si stende davanti a noi o<br />

nello sguardo di una persona amata, proprio qui si accendono i nostri sentimenti o, in ogni caso, quelli che noi riteniamo<br />

taliŗ.<br />

(49) H. M. Enzensberger, Mausoleum. Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, cit., p. 33.<br />

(50) E. Agazzi, Il collezionista di ricordi. La lotta contro l‟oblio nella scrittura di W. G. Sebald, in Id., La memoria<br />

ritrovata. Tre generazioni di scrittori e la coscienza inquieta di fine Novecento, Bruno Mondadori, 2004, p. 58. Si veda,<br />

con particolare riferimento alle descrizioni delle opere dřarte offerte in Secondo Natura intese come espediente retorico<br />

autobiografico, C. Albes, Porträt ohne Modell. Bildbeschreibung und autobiographische Reflexion in W.G. Sebalds<br />

›Elementargedicht‹ Nach der Natur, in C. Öhlschläger Ŕ M. Niehaus (a cura di), W.G. Sebald. Politische Archäologie<br />

und melancholische Bastelei, Erich Schmidt, Berlin 2006, pp. 47-75.<br />

(51) Sebald assume così nella narrazione i tratti riconosciuti da Bachtin allřautore «dialogico» che, allřinterno di un<br />

testo polifonico, non rinuncia alla propria Ŗsuperiorità articolato riaŗ: ŖIl nostro punto di vista non afferma affatto una<br />

passività dellřautore, il quale non farebbe altro che operare un montaggio degli altrui punti di vista, delle altrui verità,<br />

rinunciando del tutto al proprio punto di vista, alla propria verità. Non si tratta affatto di questo, ma di unřinterazione<br />

completamente nuova, particolarmente tra la propria e lřaltrui verità. Lřautore è profondamente attivo, ma la sua attività<br />

ha un carattere particolare, dialogico. [...] Si tratta di unřattività che interroga, provoca, risponde, acconsente, obietta<br />

ecc., cioè di unřattività dialogica, non meno attiva dellřattività che conferisce compimento, deifica, dà spiegazioni<br />

causali e uccide, cioè soffoca la voce altrui con argomenti sprovvisti di senso. […] È per così dire lřattività di Dio nei<br />

riguardi dellřuomo che permette allřuomo di svelarsi da solo fino in fondo (nello sviluppo immanente), di giudicarsi da<br />

solo, di confutarsi da soloŗ, M. Bachtin, L‟autore e l‟eroe. Teoria letteraria e scienze umane [1979], trad. it. di G.<br />

Garritano, Einaudi, Torino 1988, p. 322. Per una articolata definizione di Ŗsuperiorità articolatoriaŗ dellřautore, non<br />

solamente in riferimento alla teoria letteraria di Bachtin, cfr. G. Bottiroli, Teoria dello stile, La Nuova Italia Scientifica,<br />

Firenze 1997, pp. 236-242.<br />

(52) W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, trad. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2004, pp. 74-75.<br />

(53) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 75 (Ŗe già fumano i tetti dei casolari che spuntano in lontananza / e più grandi<br />

calano dallřalto dei monti le ombreŗ).<br />

(54) Ibidem, pp. 77-78.<br />

(55) Per unřarticolata biografia dellřautore, cfr. J. Catling Ŕ R. Habbitt (a cura di), Saturn‟s Moons: W.G. Sebald – A<br />

Handbook, Legenda, Oxford 2011.<br />

(56) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 102.<br />

(57) Ibidem, p. 90.<br />

(58) Ibidem, p. 81. Lřattenzione posta da Sebald alla propria carta astrologica ricorda segnatamente lřesordio di Aus<br />

meinem Leben. Dichtung und Wahrheit, lřautobiografia di Goethe del 1811, in cui si legge: ŖA mezzogiorno del 28<br />

agosto 1749, con il dodicesimo tocco della campana, venni al mondo a Francoforte sul Meno. La costellazione era<br />

favorevole; il Sole si trovava nel segno della Vergine e aveva raggiunto lo zenit nella giornata; Giove e Venere lo<br />

guardavano amichevolmente, Mercurio senza ostilità, Saturno e Marte tenevano un contegno indifferente. Solo la Luna,<br />

che in quel momento era piena, esercitava una forza contraria tanto maggiore, in quanto allo stesso tempo era entrata la<br />

sua ora planetaria. Essa si oppose quindi alla mia nascita, che non poté avvenire se non dopo passata tale ora. A questi<br />

aspetti favorevoli, di cui in seguito gli astrologi seppero valutare lřalta portata, devo probabilmente la mia salvezza….ŗ,<br />

J. W. von Goethe, Dalla mia vita. Poesie e verità, trad. it. e cura di A. Cori, 2 voll., UTET, Torino 1957, Vol. I, p. 63.<br />

Si tratta di un riferimento nascosto che conferma lřattenzione di Sebald per lřopera di Goethe e per la cultura ermetica,<br />

che lo stesso autore di Dalla mia vita. Poesia e verità frequentò in gioventù, cfr. M. Freschi, Goethe. L‟insidia della<br />

modernità, Donzelli, Roma 1999, p. 9 e seg.<br />

(59) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 82.<br />

(60) W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Rachetti, Einaudi, Torino 1997, p. 21.<br />

(61) W.G. Sebald, Secondo natura, cit., p. 82.<br />

(62) Esemplificativo di questřultima è, nellřultimo romanzo di Sebald, Ŗil modo in cui Austerlitz costruiva i suoi<br />

pensieri nellřatto stesso di conversare, come riuscisse a sviluppare le frasi più armoniose da una sorta di svagatezza e<br />

come la trasmissione delle sue conoscenze attraverso il racconto rappresentasse per lui lřavvicinamento graduale a una<br />

sorta di metafisica della storia, in cui il ricordo tornava ancora una volta a vivereŗ, W. G. Sebald, Austerlitz, cit., p. 19.<br />

(63) W. Benjamin, Sul concetto di storia, p. 121<br />

(64) W. G. Sebald, Secondo natura, p. 83.<br />

(65) Sullřelaborazione sebaldiana di questa lingua della sventura, che trova i suoi presupposti nel culto<br />

hofmannsthaliano della Ŗtradizione esicastica dellřortodossia, basata sulle tecniche esoteriche incentrate sul cuore e<br />

sulla conoscenza del cuoreŗ (M. Freschi, La Vienna di fine secolo, Editori Riuniti, Roma 1997, p. 48), cfr. R. Calzoni,<br />

La lingua del fuoco di W.G. Sebald, in ŖNuova Correnteŗ, cit., pp. 225-257.<br />

(66) R. J. A. Kilbourn, ŖřCatastrophe with Spectatorř: Subjectivity, Intertextuality and the Representing of History in<br />

Die Ringe des Saturnř, in A. Fuchs Ŕ J. J. Long (a cura di), W.G. Sebald and the Writing of History, cit., p. 141.<br />

245


246<br />

(67) Ibidem, p. 93.<br />

(68) Innegabile, nellřultimo passo citato, lřinflusso sul poema sebaldiano del Pensiero selvaggio di Claude Lévy-<br />

Strauss che, per enucleare le caratteristiche del bricoleur, mette come il nostro autore questřultimo in relazione<br />

allřingegnere: Ŗil bricoleur è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, a differenza<br />

dellřingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime e di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la<br />

realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso, e, per lui, la regola del gioco consiste nellřadattarsi<br />

sempre allřequipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via «finito» di arnesi e materiali, peraltro eterocliti,<br />

dato che la composizione di questo insieme non è in rapporto col progetto del momento, né dřaltronde con nessun<br />

progetto particolare, ma è il risultato contingente di tutte le occasioni che si sono presentate di rinnovare o arricchire lo<br />

stock o di conservarlo con i residui di costruzioni e di distruzioni antecedentiŗ, C. Lévy-Strauss, Il pensiero selvaggio,<br />

trad. it. di P. Caruso, il Saggiatore, Milano 2010, p. 30. Si ricorda, inoltre, qui che lo stesso Sebald in unřintervista ha<br />

dichiarato di Ŗlavorare secondo il sistema del bricolage Ŕ nel senso di Lévy-Straussŗ (S. Löffler, Dienst unter dem<br />

Schlot. Ein Schriftsteller wird entdeckt. Mit Interview: Wildes Denken, in ŖProfilŖ, n. 19 (1993), p. 106.<br />

246


INCURSIONI<br />

247<br />

247


Nota su Spostamento, una piccola „Georgica‟ per la memoria<br />

248<br />

ŖIn Spostamento Frene manifesta in modo particolarmente profondo il collassare dellřanimo con la<br />

tragica scomparsa di un parente carissimo, quasi nel percorso di una paventata a pur necessaria<br />

maniera di sincrono annichilimento. Gentile e improbabile 'psicopompo' il suo animo accompagna<br />

quella discesa che pur non può non avere in filigrana una scommessa di rivalsa o addirittura una<br />

furia nel confronto con la testa di Medusa che rimane allřangolo, non eliminabile relitto, ma pur<br />

confinato in una marginalità.ŗ Queste parole di Andrea Zanzotto, che risalgono a circa dieci anni fa,<br />

descrivono alla perfezione la tensione che aveva mosso la mia mano, alla fine degli anni Novanta,<br />

nel momento in cui iniziai la scrittura di questo testo, che reca per sottotitolo Poemetto per la<br />

memoria, pubblicato nel 2000. Nella mia memoria culturale, in quel momento stavano agendo i<br />

ricordi di testi poematici essenziali nella mia formazione, come Dei Sepolcri e The Waste Land, ma<br />

devo dire che quello che più mi ha mossa è stato il ricordo della IV Georgica, con la carica possente<br />

della bugonia, laddove si realizza al massimo grado la capacità virgiliana di trasformare l'elemento<br />

didattico-didascalico in elemento ontologico. La bugonia ritorna come citazione in maniera esplicita<br />

alla fine di Spostamento, precisamente nel testo X. Finali, dove appunto parlo di un'Ŗape lucigufaŗ<br />

che Ŗfinge per ognuno il regno futuroŗ; ebbene, quell'ape è anche la stessa, però, che l'apicultore<br />

deve spostare dall'arnia quando questa è invasa da parassiti (Ŗlucifugaŗ infatti designa la malattia<br />

dell'ape, diventata fotofobica), che a qual punto va trattata in maniera specifica. Dunque, è alla fine<br />

che risulta chiaro come io esprima una speranza-disperata o un disperazione-sperante, per ciò che<br />

concerne la materia trattata - morte e resurrezione. Non a caso ho iniziato dal fondo del libro, per<br />

parlare del suo contenuto, perché questo libro è stato progettato come struttura vuota in maniera<br />

precisa, e le sua varie parti, numerate con numeri romani, non sono state scritte in ordine; avevo<br />

solo presente una struttura speculare con un picco centrale, corrispondente in questo caso al testo V.<br />

Dell'irradiazione, vero fulcro tematico del poemetto con la sua focalizzazione sulla luce, attorno al<br />

quale andavano via via a formarsi, o incasellarsi in maniera tematica e formale, gli altri testi: il IV<br />

che richiama il IX (sono le due sequenze del libro, entrambe polifoniche, accomunate da una<br />

particolare vicinanza, o empatia, col soggetto descritto), il III che richiama l'VIII (comune il<br />

richiamo al superamento, all'altezza, al concetto dell'andare oltre), il II che richiama il VII (che<br />

parlano entrambi dell'impatto simbolico del tempo, cronologico e meteorologico), l'I che richiama il<br />

VI (due riflessioni, particolari e generali, sull'esistenza); il testo V, invece, è insieme centro del<br />

poemetto e speculare al testo X (ritornano, tra l'altro, parole chiave come Ŗluceŗ e Ŗcranio opacoŗ);<br />

infine, la Definizione in apertura è speculare alla Clausola. Attorno alla classicità del poemetto<br />

virgiliano, ho imperniato tutta una serie di altre citazioni classiche, usate però ancora in maniera più<br />

spinta, nel senso che il retroscena ironico è ancora più esplicito: penso per esempio al tacitiano<br />

Ŗorme del vincitoreŗ, ma anche al Seneca dell'epigrafe finale, o all'Orazio del Ŗmonumento più<br />

immortale della cartaŗ in Clausola, e via dicendo. In questo senso, Spostamento è nato come<br />

poemetto didascalico, ma anche ipertestuale, citazionista; insomma, è nato come un vero e proprio<br />

palinsesto. Scrivo tutto questo per significare che nella mia poetica la forma poematica corrisponde,<br />

in definitiva, alla massima tensione compositiva, perché la esprime all'ennesima potenza, direi in<br />

una sorta di moltiplicazione speculare; e in questo senso è da sempre presente, a più riprese, nella<br />

mia scrittura, se non altro come frutto del tentativo di fissare almeno qualcosa di quella terribile<br />

fluidità che è il reale. E proprio ora che purtroppo la testa di Medusa mi ha sottratto la persona a cui<br />

dissi quelle parole, su questo fatto privato non rimane ormai se non la discesa del giusto silenzio, un<br />

pudore che è apertura al mondo.<br />

Giovanna Frene<br />

248


In dialogo con Marco Giovenale<br />

249<br />

Alessandro Broggi: Come hai strutturato le tue raccolte recenti, per esempio La casa esposta o<br />

Criterio dei vetri o Shelter ?<br />

Marco Giovenale: Rispetto a La casa esposta e Shelter, di fatto Criterio dei vetri si presenta come<br />

una raccolta strutturata secondo una non imprevedibile struttura a sezioni definibili in linea di<br />

massima progressive: da ambienti interni a esterni e di nuovo a interni (ma la descrizione è<br />

incompleta). Questo tipo di struttura si ripeterà in altre opere in uscita prossimamente. La stessa<br />

disposizione dei materiali in sezioni ha in generale, a prescindere dalla funzione che si attribuisce a<br />

ciascuna sezione in particolare, qualcosa che offre da una parte organizzazione e dallřaltra<br />

Řfissazioneř in forma nota. Le sezioni sono insomma vulnerabili a una precisa critica: quella di<br />

funzionare da facili scatole ordinatrici, eventualmente anche estrinseche rispetto al complesso (e<br />

alla complessità) dei materiali che ordinano. Possono essere sprovviste di quella plasticità in grado<br />

di replicare o mutare o contrastare su un piano architettonico alcune peculiarità testuali.<br />

Detto in breve: in generale ci possono essere partizioni interne ai libri che specchiano le scelte<br />

formali di questi; e ci sono invece partizioni che funzionano come lineari pareti divisorie. Criterio<br />

dei vetri si avvale di questřultima modalità. Diverso il caso de La casa esposta e di Shelter. Non so<br />

quanto (entrambi i libri) possano cadere nella definizione di poema; certo sono Ŗopereŗ (o fotografie<br />

di esplosioni di opere).<br />

La casa esposta è costituita da una sequenza di sezioni di poesie e (poche) prose, seguita da una<br />

sequenza di fotografie priva di titolo, e si conclude con delle note esplicative, per poi riaprirsi (come<br />

un arco che si stacca da una struttura apparentemente finita) con una sezione ulteriore ed estrema di<br />

prose Ŕ di diverso font Ŕ scalene e fortemente spiazzanti rispetto allřorganizzazione sintatticamente<br />

meno franta e disorientante del resto del libro. La Ŗforma del poemaŗ Ŕ o meglio la forma dellřopera<br />

Ŕ è in questo caso ad arcate successive, tutte diverse e in sostanza pensate per disegnare una figura<br />

incompiuta, addirittura fallata, aperta su un fianco (di conclusione che non conclude) o più fianchi<br />

(se pensiamo pure alla sezione muta di fotografie).<br />

Shelter presenta una macrostruttura ancora diversa: si tratta di una serie di sezioni tutte<br />

invariabilmente intitolate Ŗclinica 1ŗ. Ci sono sì tre blocchi principali, segnati con numeri romani.<br />

Ma la scansione vera (non una banale sottoscansione) è data dalle ricorrenze, entro i blocchi, di<br />

Ŗclinica 1ŗ.<br />

Questo ritorno-fuga ingabbiante nella clinica (sempre Ŗ1ŗ, sempre Ŗprimaŗ, senza progressione<br />

dunque) ha dellřisteria, della disperazione e dissipazione. Sisifo occupa uno spazio orizzontale. Non<br />

ha rupi che ne elevino lo sguardo più di tanto. Il tema dello Ŗshelterŗ, ossia riparo ma anche<br />

prigione così esibisce in unřaltra accezione la sua tastiera: non solo le poesie parlano di questo, di<br />

chiusura entro cliniche, luoghi ostili o salvifici e comunque imprigionanti, ma anche le fughe di<br />

stanze che a loro volta imprigionano le pagine e il flusso completo del libro traducono un ritorno<br />

nellřidentico. (E non un vero Řeterno ritorno dellřidenticoř, perché in verità è ancor più disperante<br />

che variazione si dia, esista, entro i confini del cerchio, dellřiterazione, del tornare ossessivo).<br />

AB: Le strutture che descrivi sono nate come griglie preesistenti rispetto ai testi, o si sono fatte a<br />

loro volta modificare dai materiali? E quelle intervenute erano modalità organizzative a cui<br />

pensavi da tempo oppure sono stati proprio i testi a richiederle?<br />

MG: La casa esposta era un libro in fondo già pronto da qualche anno, o formatosi come classica<br />

raccolta Řa sezioniř, come Criterio dei vetri. Allřaltezza del 2005 circa era diverso da come poi è<br />

249


250<br />

divenuto. Al tempo era principalmente testuale. Sono state da un lato la nascita delle fotografie che<br />

ne costituiscono la parte centrale, e dallřaltro la nascita e crescita delle prose (contrastanti,<br />

diversissime da quel che il libro già era), a rivoluzionare tutto. Foto e prose hanno scardinato la<br />

struttura costituendone unřaltra. Riformulando il libro. Alcune foto del resto erano già entrate come<br />

parte di una piccola sequenza pubblicata come plaquette a fogli sciolti (o cartoline) indipendenti per<br />

la Camera verde nel 2006: Superficie della battaglia. Quindi un concorso di cose, lřemersione di<br />

differenti materiali, visivi e testuali, ha oggettivamente riorientato il libro; che, per inciso, non<br />

sarebbe nato se non avesse avuto lřopportunità di venir ospitato dalla collana fuoriformato diretta da<br />

Andrea Cortellessa per Le Lettere. Proprio lřinteresse di Cortellessa per le fotografie ha anzi, e<br />

gliene sono tuttřora grato, innescato il progetto che è diventato poi il libro La casa esposta.<br />

I testi fondanti di Shelter sono nati nel 2003, e a quellřaltezza lřidea della Ŗclinica 1ŗ non si era<br />

presentata allřorizzonte. Ma già tra 2004 e 2005, con lřaumentare del numero dei testi, quella<br />

soluzione mi sembrò il criterio di ordinamento e proprio di strutturazione forte del libro. Anche in<br />

questo caso i testi hanno agito da codificatori e co-edificatori della struttura entro cui si sarebbero<br />

trovati raccolti. Ma Ŕ appunto Ŕ il criterio è stato interno. I testi del libro hanno portato a pensare le<br />

sezioni dello stesso. Mentre per la Casa erano state foto e prose Ŕ in qualche modo Řesterneř Ŕ a<br />

modificare la macrostruttura.<br />

Se passo a uno sguardo complessivo, più ampio, devo dire che poi delle costanti o isotopie<br />

tematiche (che sono Ŕ in quanto isotopie Ŕ strutturali e strutturanti) attraversano molti dei testi scritti<br />

a partire dal 2000-2001 e molte delle raccolte che li tengono assieme (uscite fra il 2003 de Il segno<br />

meno, il 2007 di Criterio dei vetri e La casa esposta, e il 2010 di Storia dei minuti e Shelter): la<br />

malattia mentale e fisica, lo spostamento forzato da abitazione ad abitazione (ma come scasamento,<br />

rivoluzione, non banale Ŗtraslocoŗ), lřinappartenenza a certi luoghi, la clinica, la chiusura o<br />

reclusione, il senso di separazione ma anche la necessità di separazione dai Řsimiliř e pure dal simile<br />

in generale Ŕ come categoria. Queste le isotopie tematiche, le ricorrenze Ŕ a loro volta ossessive.<br />

AB: Pensi che ci sia dialogo e comunicazione tra i vari modi tuoi di strutturazione dei libri? I tuoi<br />

vari libri, in qualche modo, “comunicano” fra loro, e a che livello? Tematicamente la cosa è<br />

chiara, ma formalmente?<br />

MG: Una forma di comunicazione tra modi o tempi o libri, comunicazione assolutamente non<br />

progettata ma che vedo Ŕ perfino con una certa sorpresa Ŕ attuarsi a ogni nuovo volume, è<br />

lřinclusione ogni volta di uno o perfino più testi appartenenti ad altro libro precedente. Lřesempio<br />

più cospicuo potrebbe essere Il segno meno, che pressoché integralmente è riportato nella Casa<br />

esposta e ne diventa sezione quasi dřavvio. Ma da quel punto in avanti gli esempi si moltiplicano.<br />

In ognuno dei libri che seguono ci sono prestiti, ritorni, echi, variazioni rivariate, eccetera.<br />

Su un piano forse più ampio, e da rilievi meno meccanici, una serie di dati costanti nelle cose che<br />

vado scrivendo soprattutto dalla fine degli anni Novanta a oggi è certo rilevabile. Riguarda la<br />

sintassi costantemente spezzata-ricostruita, lřombra o latenza e il non detto, il procedere così per<br />

lacune, la modalità di scrittura che ho pensato di definire (altrove) Ŗdelle allegorie caveŗ,<br />

lřiperframmentazione narrativa, la tendenziale riduzione della presenza grammaticale dellřio, e altri<br />

dispositivi su cui il troppo autoannotarmi fin qui dimostrato mi impedisce di insistere. (Solo una<br />

postilla, però: le opere che ho fin qui citato non sono opere di cut-up: nessuna. Lo ripeto perché mi<br />

sono trovato di fronte a fraintendimenti Ŕ spesso Ŕ di recente. Nessuno dei libri citati fin qui, esclusa<br />

la sezione intitolata tranne un oggetto, ne La casa esposta, sono esito di cut-up, sought poetry,<br />

eavesdropping, e di tutti i meccanismi che invece un libro come Quasi tutti, pubblicato da Polimata<br />

nel 2010, raccoglie).<br />

250


251<br />

AB: Le singole raccolte tue si inseriscono in un progetto più ampio? E come comunicano, sia le<br />

raccolte singole, sia il progetto (se c‟è), con i modi di costruzione del macrotesto che pensi di<br />

riscontrare nella poesia o nella prosa contemporanea italiana?<br />

MG: Il progetto ampio a cui penso ha un nome, per certi aspetti, paradossale: Delle restrizioni. Il<br />

paradosso è apparente, se si pensa che la varietà di stili in campo, le tante o troppe linee aperte (da<br />

una parte lřasse Criterio-Casa-Minuti-Shelter, dallřaltra Numeri primi, in altro versante ancora<br />

Quasi tutti, e poi ancora LIE LIE) configurano una raggiera di limiti, non di accumuli. Di negazioni<br />

di quel motto che dice che Ŗtutto è permessoŗ, solitamente attribuito/riportato alle scritture di<br />

ricerca o perfino di avanguardia. So e sento che davvero tutto è permesso (avendo criteri nel<br />

permettersi tutto o troppo). Allora la poetica consisterà precisamente nellřapplicare delle restrizioni<br />

al tutto. Farne un complicato Ŗquasi tuttoŗ. Dove il quasi è dirimente. Ma il titolo Delle restrizioni<br />

non è (solo) tendenzialmente metatestuale. Le restrizioni anzi sono principalmente di carattere<br />

biografico, reale: ti stringe e blocca un luogo, un dolore che è indissipabile, è soffocazione.<br />

Mi sento in frontale contrasto con i modi di costruzione di raccolta di gran parte dei materiali che<br />

vedo uscire in lingua italiana. Ma su questo aspetto preferisco non diffondermi.<br />

AB: A tuo modo di vedere, una persistenza e rinascita di epica e narratività investe le forme (e la<br />

plausibile sostanza) della poesia e/o prosa contemporanea italiana? Vedresti collocato in qualche<br />

modo il tuo lavoro, anche a contrasto o in posizione defilata, in quegli ambiti? Come,<br />

eventualmente?<br />

MG: Daccapo preferirei glissare. Dico solo che non mi interessano tante forme neoepiche,<br />

neonarrative, neomelodicanzonettistiche e neopoematiche. Non dico che Ŕ certo a mio gusto Ŕ in<br />

tutte sia ravvisabile una contrazione e castrazione di ogni possibile nuovo o inedito o sensato. Forse<br />

però sì.<br />

AB: Ci sono esperienze e scritture recenti non italiane che ti hanno influenzato, o verso i cui<br />

risultati guardi con interesse, in questo senso? E sul piano progettuale, sia in rapporto al contesto<br />

italiano sia in rapporto a quello in altre lingue, a cosa stai lavorando? Quali direzioni ti sembrano<br />

prendere le (nuove o rielaborate) strutture e scritture tue in fieri?<br />

Devo dire che poche volte mi sono sentito altrettanto libero (e confermato nella mia ricercaattestazione-felicità<br />

di libertà), e contemporaneamente grato e in sintonia, come nelle ore di lettura<br />

di Rodrigo Toscano, Christophe Tarkos, Jean-Marie Gleize. Tuttavia questo senso di libertà (e di<br />

assorbimento di suggestioni) riguarda, devo dire, principalmente la prosa. Come autore di versi non<br />

penso di aver fatto molto altro, negli anni, che modificare (e perfino corrompere) una certa mia<br />

Řricezione di Eliotř (e Ashbery), imprinting di troppi anni fa.<br />

Sulle direzioni imminenti della scrittura e della ricerca, posso dire che la forma avviata con LIE LIE<br />

(La camera verde, 2011) ossia la forma del poemetto-prosetto apparentemente dislessico e proprio<br />

come tale fortemente politico, sembra funzionare per me come possibile nuova traccia di ricerca.<br />

Tanto che un secondo testo, scritto in omaggio a una ancor più estrema poetica delle lacune, nasce<br />

in queste settimane recenti precisamente nella stessa direzione. Ed fra lřaltro legato (dunque<br />

sottoposto a una ulteriore restrizione) a/da una sequenza di composizioni e video di un musicista<br />

che stimo molto: il mio testo ne deriva. Per scriverlo ho lavorato sia con testi pensati=nati<br />

direttamente, cioè non citati, non prelevati da alcuna fonte, sia con ricerche su google, ma con una<br />

particolarità: ho ogni volta omesso il centro della ricerca stessa, nei materiali (e nellřuso dei<br />

materiali) in campo. Lacuna, mancata nominazione, deviazione di itinera narrativi: sono questi i<br />

modi e moti che formano-deviano il testo (quello, almeno).<br />

251


252<br />

Accanto a una maniera simile, nellřintendere e praticare il googlism statunitense (molto poco flarf<br />

in verità), continuo a scrivere poesie Řdirettamenteř, o a raccoglierne di scritte e pubblicabili in<br />

future sistemazioni di sequenze passate. Altrettanto, continuo a lavorare a frammenti (iperŖcoltiŗ, e<br />

brevi) che ho chiamato Ossidiane, e che costituiscono un libro parallelo e un costante a parte di tutti<br />

questi anni, avendo iniziato a raccoglierne nel 2001 e avendone accumulate molte, meglio<br />

moltissime, in questi dieci anni. Ma questa è vicenda ancora diversa, di cui ho parlato in sedi come<br />

questa oppure questa.<br />

252


Pensare in poema<br />

Un cerchio in forma di parole<br />

Ordine/disordine<br />

Spontaneismo<br />

Linguaggio<br />

poetico<br />

Fare della<br />

poesia<br />

Intuizione<br />

Intenzione<br />

Lřincerto<br />

dellřopera che<br />

viene<br />

Resti del futuro<br />

253<br />

Dal momento in cui lřintelletto è chiamato in causa, tutto è in causa; tutto è disordine<br />

ed ogni reazione contro il disordine è della sua stessa specie. Del resto questa<br />

confusione è la condizione stessa della sua fecondità: ne contiene la promessa poiché<br />

questa fecondità dipende dallřinatteso piuttosto che dallřatteso, e per il fatto stesso che<br />

lřignoriamo, piuttosto che da ciò che sappiamo. […] Mi sforzo di non dimenticare mai<br />

che ciascuno è la misura delle cose.<br />

Paul Valéry(1)<br />

[…] sospetto perfettibile qualunque cosa venga di getto. Lo spontaneo, anche se<br />

eccellente, anche se incantevole, non mi sembra mai abbastanza mio.<br />

Paul Valéry(2)<br />

Si può dire senza esagerare che il linguaggio comune è il frutto del disordine della vita<br />

in comune […]; mentre il linguaggio del poeta, per quanto utilizzi necessariamente<br />

elementi forniti da questo disordine statistico, costituisce, invece, uno sforzo<br />

dell‟uomo isolato per creare un ordine artificiale e ideale, per mezzo di una materia di<br />

origine ordinaria.<br />

Paul Valéry(3)<br />

Ho sempre fatto i miei versi osservandomi farli […] (TDP,p. 49)<br />

Il poeta ha essenzialmente «lřintuizione» di un tipo di combinazioni a parte. Una certa<br />

combinazione di oggetti (di pensiero) che non ha valore per lřuomo comune, ha per lui<br />

unřesistenza e si fa notare. (TDP, p. 47-48)<br />

[…] personaggi, paesaggi, aspetti, atteggiamenti; le altre, voci informi, note…<br />

Le parole per ora non sono altro che cartigli.<br />

Altre parole o brandelli di frasi non hanno un loro ruolo, ma vogliono essere utilizzati<br />

e fluttuano.<br />

Vedo tutto e non vedo niente.<br />

Altre immagini mi fanno vedere condizioni del tutto diverse. Sembrano presentare gli<br />

stati di un individuo che subisce la poesia, le sue illuminazioni, le sue attese, le sue<br />

ansie, i suoi presentimenti che devono essere creati, stimolati, ingannati o soddisfatti.<br />

Ho quindi diversi livelli di idee, le une di risultato, le altre di esecuzione; sopra di tutte<br />

lřidea dellřincerto; ed infine quella della mia attesa, pronta a cogliere gli elementi già<br />

realizzati, scrivibili, che si concedono o si concederebbero, anche se non limitati<br />

allřargomento. (TDP, pp. 41-42)<br />

Esiste quasi sempre un primo stato, una fase emotiva che non tende ad alcuna forma<br />

finita, determinata e organizzata, ma che può produrre elementi parziali di espressione,<br />

frammenti, che troveranno, un giorno, - o forse mai - il loro tutto… In questo stato<br />

appaiono una parola, una formula, unřimmagine, un dispositivo, che, ritrovati più<br />

tardi, verranno a collocarli in una composizione, a servire inopinatamente da genere, o<br />

da soluzione… posso chiamare questi frammenti: resti del futuro…<br />

Paul Valéry(4)<br />

253


254<br />

Il potere del cerchio, la forza del limite, lřequilibrio degli estremi sono i punti sui quali la<br />

progettualità del poema si fonda. Una misura che sfida lřinconsapevole e lřimpreciso con la<br />

testimonianza e lřazione di un fare, che si concretizza lentamente nellřopera a venire. È questo per<br />

me il senso di un pensare in poema, o meglio di un dettare in poematicità.<br />

Ho sempre pensato/costruito/architettato le mie raccolte poetiche seguendo la misura della<br />

poematicità, percorrendo la strada lunga dellřassemblaggio e del montaggio, più che quella della<br />

raccolta di poesie. Ho sempre realizzato il libro di poesia più che una silloge di poesie, cercando di<br />

restare fedele al mio respiro che, nella lunghezza dellřespressività, più che nella agilità delle<br />

correlazioni oggettive o soggettive, si è fatto concreto.<br />

Lavorare nellřidea del poema è come restare in compagnia di un evento creativo che lascia<br />

Ŗconnessoŗ lřautore al proprio progetto costantemente, perpetuamente, dandogli lřopportunità di<br />

agire e realizzare il proprio principio di realtà, comunque e dovunque. Lavorare per poema non è<br />

cercare di perpetuare un tema, non è restare ancorati passivamente ad un argomento scelto, ma è<br />

lasciarsi trasferire dalla scrittura e dalla poetica, tra gli innumerevoli strati dellřesperienza che si<br />

depositano intorno e tra i fatti emotivi e concreti della vita di tutti i giorni, innestandovi<br />

particelle/bolle di grazia che determinano quello stato poetico che produce piacere.<br />

Il poema e lřidea di poematicità ha quindi a che fare, nella mia operatività scrittorea, con una sorta<br />

di stato emotivo/percettivo, che si rende fattivo per quiete e passione, ma anche reale per pensiero e<br />

progetto.<br />

Lavorare in poema significa dunque presentare/rappresentare una visone laboratoriale della poesia e<br />

del suo linguaggio; è come ebbe a dire più volte Antonio Porta: ŖMettersi a bottegaŗ. Un'officina<br />

scritturale e operativa, dove la materia e il materiale sanno come essere compresenti sul tavolo della<br />

lingua e del linguaggio, sparsi e impilati tra gli attrezzi del mestiere, che ogni poeta dovrebbe<br />

possedere e saper adoperare. È proprio un dedicare tempo anche alla lingua poetica di farsi più<br />

aderente a ciò che si dovrà portare alla luce, che dovrà mostrarsi.<br />

Pensare in poema significa anche rimanere connessi al Ŗluogo dell'elaborazioneŗ, in quell'esatto<br />

punto in cui la lingua e il linguaggio si installano e precisamente, tra l'esperienza e la sua<br />

decifrazione/trans-posizione in parola.<br />

La lunghezza, la misura, il tema come la vita esperita e la sua stessa storia/narrazione, sono gli<br />

elementi principali con i quali il poeta ha che Ŗfareŗ.<br />

Un Ŗfareŗ che si concreziona proprio in virtù di quella speciale Ŗconnessioneŗ al proprio stato<br />

ispirativo ed esperienziale che, insieme, fanno da eco alla dettatura poetica che accade, o meglio che<br />

è a- venire.<br />

Non sono mai riuscito ad esaurirmi/terminarmi in una singola poesia, in un unico testo. Preferisco<br />

lo spazio poematico, dove la lunghezza e la durata del testo mi corrobora, collocandomi in un tempo<br />

sempre in movimento, in un tempo narrativo capace di resistere alla sua stessa consapevolezza.<br />

Antonio Porta Ŕ maestro a cui devo molto Ŕ scriveva così a tale proposito:<br />

ŖCosa significa scrivere una poesia lunga? Significa non potersi fermare al<br />

momento lirico, continuare il discorso e svilupparlo, con gli stessi<br />

personaggi, con le stesse situazioni, ricavarlo e svilupparlo, perché questo fa<br />

il linguaggio della poesia così come lřho concepito […].ŗ(5)<br />

Il bisogno di spazio e di tempo hanno sempre avuto per me la necessità di una Ŗconnessioneŗ, sia di<br />

tempo che di spazio.<br />

Feci un sogno molto tempo fa; un sogno ad occhi aperti. Uno di quegli strani momenti in cui sai che<br />

a rivelarsi sono delle intenzioni, più che delle evidenze: una sorta rêverie.<br />

254


255<br />

Lavoravo in un campo di fogli come fossi in un campo seminato a grano, al tempo della mietitura.<br />

Percorrevo dunque con un rastrello l'intera area, facendo mucchi/covoni di fogli che poi,<br />

diligentemente, ponevo sopra un carro e li trasportavo in una sorta di fienile rialzato, quasi un piano<br />

da terra.<br />

Quel luogo era per me il Ŗfogliaioŗ: un posto asciutto dove stipare quella strana raccolta/raduno di<br />

fogli che, presumibilmente, mi sarebbero serviti per l'inverno, per il tempo della Ŗnon raccoltaŗ, per<br />

riempire lo spazio della mancanza o della futura assenza.<br />

Al risveglio da quella blanchottiana rêverie, mi è risultato chiaro il disegno/significato ultimo di<br />

quell'esperienza onirica e fantasmatica: era il mio modo procedere nella creatività poetica, era il mio<br />

metodo di scrittura, era il mio Ŗfareŗ poesia.<br />

Raccogliere frammenti e stiparli in un luogo sempre possibile, riparato, al sicuro.<br />

Raccolgo infatti frammenti, resti, residui di ispirazione e di idee in un quaderno/fogliaio che porto<br />

sempre con me, ovunque vada, riparandolo e proteggendolo gelosamente.<br />

Da questo Ŗmagazzinoŗ riprendo, risistemo, riguardo, ma soprattutto rimonto la consequenzialità<br />

della parola depositata, dei frammenti salvati dal loro stesso corrompersi.<br />

Questo materiale fatto di urgenze emotive, sbadigli lessicali, interruzioni filosofiche, lapsus volitivi<br />

e parole trascelte, decantate nel tempo, lo centellino/assaporo, sapendo che in realtà esso non è altro<br />

che un distillato d'esperienza, colto nell'angolo esatto di un'intersecazione tra il caso e il puntuale,<br />

tra la volontà e il desiderio, tra il rumore e il silenzio di una parola originaria che rimpatria.<br />

Un angolo d'incidenza Ŕ come ebbe a dire Vittorio Sereni Ŕ tra la vita e la poesia su e col quale<br />

gestire tutto lřintero dettato poetico che accade nel passaggio del mondo.<br />

Un passaggio che si farà inquadratura del vero e che implica realtà ed esistenza, respiro e fiato,<br />

azzardo e paura.<br />

Alla domanda ŖCome scrive le sue poesie?ŗ amo rispondere: ŖCome un regista con la sua macchina<br />

da presaŗ. Non scrivo poesie ma Ŗgiroŗ poesie. La teoria del montaggio di Sergei M. Ejzenstejn o la<br />

maestria cinematografica di Jean-Luc Godard, mi hanno sempre affascinato, diventando questi<br />

riferimenti, i cardini portanti che da sempre abitano la mia poesia, scorgendo in loro il fulcro del<br />

mio discorso poematico.<br />

Cřè un testo, nel mio ultimo libro Interni con finestre (ed. La Vita Felice, 2009), nel quale il nome<br />

di Godard compare come elemento tracciante, lasciandolo gravitare nei versi come un omaggio, un<br />

segno di riconoscenza e di ammirazione:<br />

*<br />

Sapevo come diventare<br />

grande, come stare qui. Lo<br />

dicevo alla luce e al buio e<br />

neanche sottovoce.<br />

È come abitare una camera oscura. Ci si fa<br />

notte intorno e un occhio solo fruga la via, la<br />

scuola, il parco e in lontananza, il cubo bianco<br />

della casa appena fatta. C‟erano gli orti qui,<br />

le strade senza uscita, il doppio senso delle<br />

macchine. Sono così le due o tre cose che so di<br />

lei: le prove accumulate, prese di mira, le<br />

scene montate fuori, portate dentro. E intanto<br />

dalla stanza Godard fuggiva via.<br />

255


256<br />

Il montaggio è dunque per me, il terreno soggiacente al pensare in poema. Un terreno sul quale<br />

impostare un lavoro di assemblamento riflessivo ed emozionale, oltre che percettivo, che sappia<br />

farsi carico sia del materiale, che della materia alla quale si deve riferire/ancorare.<br />

Il pensare in poema chiede coerenza e durata. Saranno queste le sue marche e le sue misure prime.<br />

L'idea centrale di una raccolta, infatti, è ciò che ossessiona e preme al poeta alle prese con la sua<br />

opera. Un'idea che non è un tema da svolgere o un compito da eseguire, per forza e a tutti i costi,<br />

ma una sorta di predisposizione intenzionale/percettiva, ma anche uno stato dell'animo colto in un<br />

preciso momento ed in una precisa epoca della propria vita.<br />

Il pensare in poema porta/trascina con sé tutta unřoperatività che lo sostiene e lo corrobora nel<br />

tempo.<br />

Una prima fase inizia con una raccolta di dati, impressionismi, stupori che diventano elementi<br />

concreti o metafore di istanti quotidiani, ma anche riflessioni, capaci di costruire il perimetro<br />

circolare del poema e infine, ma non ultimo, la gestione dell'incerto che sostiene sempre un'opera<br />

che avviene.<br />

Posizionando tali paletti/confini il creatore del poema si abbandona all'invasione del mondo e alla<br />

cosiddetta Ŗispirazione poeticaŗ, procedendo poi nell'affondo verticale della temporalità e della<br />

profondità emotiva, che saprà come distillarsi in parola. Attraverso questi due stadi del pensare in<br />

poema lo spazio creativo incomincia la sua sedimentazione, partecipando a quello che Maria<br />

Zambrano ha definito essere uno Ŗstato di graziaŗ.<br />

È in questo processo che poeticamente abito il mondo, entrando in diretta compagnia con le parole<br />

che sanno come restarmi accanto e leali. Parole capaci di farsi interpellare, rispondere, mettere in<br />

forma. Parole in grado di restare ospiti e rendere ospitalità al senso e a una lingua che, nella sua<br />

dinamicità, opererà nel suo dettato scritturale, inverandosi.<br />

Una seconda fase del pensare in poema è proprio il lavoro di Ŗmontaggioŗ, la parte che considero<br />

essere la più decisiva e la più creativa.<br />

La moviola - che nel lavoro cinematografico era il quaderno/video operativo del regista, lo<br />

strumento magico per la resa finale (purtroppo ormai obsoleto) - anche in poesia e in chi pensa in<br />

poema è mentale; è come se girasse alla velocità desiderata e i frammenti di versi radunati e<br />

trattenuti da un'intenzionalità operativa e scrittorea, si installano uno nell'altro e uno dopo l'altro<br />

creando l'immagine, raccontando una storia, facendo una narrazione capace di rendere in chiaro la<br />

soggiacente idea originaria.<br />

Il montaggio è la resa del pensare in poema; è il suo mantenimento: la sua sfida.<br />

È dunque lřintenzionalità ad essere il motore della creatività poematica, il suo adamitico gesto<br />

iniziale al quale prestare fede e attenzione. Un ascolto che riesce addirittura ad essere rintracciabile<br />

nel tempo. È sempre Porta che rende chiaro quanto detto:<br />

ŖEcco io non potrò mai spiegare che cosa significa la mia poesia, ma vi<br />

posso dire invece con che intenzione è nata, con che intenzionalità, quale<br />

progetto le è sotteso e che tipo di organizzazione della percezione ho<br />

scelto.ŗ (6)<br />

È dunque unřorganizzazione della percezione questa, che si procura il tempo e il corpo del tempo,<br />

facendo del linguaggio una taratura esistenziale necessaria e utile alle sua tracciablità.<br />

Ma è anche il corpo della resistenza dei versi che si fanno via via espressione, senso e significato di<br />

ciò che l'opera compone: mette insieme.<br />

Il poema gestisce la forza di una natalità continua, festeggia al suo interno, una ricorrenza<br />

battesimale.<br />

Esso porta in sé anche la forza continua del rimpatrio, la determinazione del riconoscimento e della<br />

sua memoria, innestando nella sua progettualità una narrazione incessante, proprio tra il suo restare<br />

256


257<br />

in connessione con il poema e il suo allontanarsi per sussistenza Ŕ e cioè nel procedere fattivo e<br />

quotidiano di una vita activa in movimento. Nel poema infatti, lřautore opera una serie di<br />

avvicinamenti e allontanamenti continui dai propri temi e dalle proprie impressioni, restituendoci<br />

poi una serie di visoni e punti di vista cariche del loro stesso deambulare.<br />

Il poeta infatti deve potersi portare lontano da sé, dalla sua terra, dal suo orizzonte percettivo per<br />

poterli realizzare e ancora scrutare, inverando in sé la radicalità del movimento stesso, il dolore<br />

della lontananza e dellřallontanamento e il piacere del ritorno. Un piacere questo che è la<br />

realizzazione di un ritrovamento memoriale della parola esatta. Una parola capace di farsi testimone<br />

e testimonianza nella carità del suo rimpatrio.<br />

Egli nel suo ritorno a casa opera una scelta di dati e provviste colte durante il suo viaggio/viaggiare.<br />

Nella raccolta dei dati sarà dunque - oltre lřesperienza vissuta, e la vita - anche lřesperienza della<br />

letteratura a farsi vivente ed agente. Molte sono le fonti che in questa procedura del pensare in<br />

poema rientrano a far parte del corpo centrale dellřopera messa in poema.<br />

Molte sono le Ŗguideŗ, in stile zambraniano a fare di questo procedere per stratificazioni, una via<br />

dove installarsi per illuminare e condurre. Autori, passi, citazioni che accanto a i miei versi<br />

proemiali, diventano stati di meditazione allertati, capaci cioè di recuperare unřinformazione, un<br />

accenno che sappiano predisporre lřintenzione, accomodare la comprensione del testo che si<br />

squaderna.<br />

Ma un punto chiave del pensare in poema è proprio ciò che Antonio Porta mřinsegnò essere: il<br />

potere della progettualità.<br />

Una condizione dello scrivere e del pensare la scrittura poetica che Antonio Porta sottolineava<br />

essere Ŗun tipo di organizzazioneŗ, un modo di Ŗorientare il materialeŗ percettivo del reale. A<br />

proposito del suo poemetto Airone dice:<br />

Ŗ[…] è un tipo di progetto, un tipo do organizzazione, che consente un<br />

orientamento preciso, un modo di orientare il materiale che la mia<br />

percezione raccoglie, o ha raccolto in un lungo periodo.ŗ (7)<br />

Ma è soprattutto il potere della sua bellezza nel Ŗfareŗ del procedere, la compagnia del suo<br />

Ŗpensamentoŗ, ma anche la sua sana difficoltà di resistere nel tempo, ad essere unřevidenza positiva<br />

per comprendere la concretezza del suo Ŗfareŗ e lřoperatività del suo lavoro artigianale: un autentico<br />

Ŗandareŗ a tentoni tra le intenzioni, ma anche quellřandare in bottega, quale luogo della formazione<br />

della vita.<br />

In questo luogo/fucina del Ŗfareŗ della poesia ci sono attrezzi sparsi sul banco dellřartigiano, vicino<br />

al tornio, alla grata, al foglio bianco, al lapis: il diario di lavoro.<br />

Un quaderno nel quale e con il quale poter gestire il progetto e il suo concrezionarsi nel tempo e<br />

nelle idee. Un luogo della laboriosità, dove trovare e governare lřimpianto emotivo della lingua e la<br />

sua devozione grammaticale nel senso.<br />

Un diario che nella sua quotidianità e nella sua costante connessione al reale, permette che il<br />

Ŗmondo della vitaŗ proceda senza farsi interrompere. È proprio il potere della progettualità a creare<br />

quello spazio esatto della sopravvivenza, il calco misurato nel quale poter restare ed avere sempre<br />

unřimmedesimazione nel testo. Un collegamento che si concretizza nellřidea del poema e che può<br />

continuare la sua Ŗruminazioneŗ, nonostante il quotidiano fare delle cose e della vita posti altrove.<br />

Infatti il progetto permette la conservazione del poetico in ogni istante, in ogni momento, inverando<br />

il mantenimento di quello stato di grazia, nel quale la visone dřinsieme si carica di istanti fondativi<br />

di pensiero e sensazioni, di esperienza e desiderio, di azione e utopia.<br />

Il poema si pone dunque in ascolto e si direziona allřascolto, impostando traiettorie pensabili,<br />

portando alla luce una scrittura che Roland Barthes definirebbe essere Ŗun compromesso, un atto di<br />

libertà e un ricordo”, che si realizza in definitiva, in quel segno che impone la sua forma col senso<br />

e il suo contenuto col suono di un puro dire per necessità e verità: la parola.<br />

257


258<br />

Una parola messa appunto in forma di poema, capace di espandersi e incamminarsi scalza in un<br />

cantiere aperto, coraggiosa e decisa a Ŗfareŗ di sé, qualcosa di stabile e visibile: portare da sé a sé la<br />

testimonianza del suo Ŗpassareŗ e del suo Ŗessereŗ ad un interlocutore: allřAltro.<br />

Il pensare in poema ha in sé, infatti, una carica e unřimpostazione intenzionale, che lo rende sempre<br />

in movimento verso qualcosa, verso qualcuno, sia esso una visone, una cosa, un affetto o solo<br />

unřidea. Esso si pone in movimento per trovare e mai per cercare. Trovare ciò che si dispone e non<br />

cercare ciò che non si conosce. Infatti è proprio nel trovare che si va a creare quellřorizzonte<br />

dřattesa che lřopera invera facendosi, restando nella cerchiatura dellřintenzionalità creatrice, capace<br />

di saper gestire anche la parola poetica nata dalla sua fuga.<br />

Dice José Angel Valente in Letteratura e ideologia:<br />

ŖLřoggetto della poesia impone alla parole capace di ospitarla la sua<br />

condizione di legge. In definitiva, ciò che chiamiamo forma non è altro che<br />

il destino che la realtà impone alla parola. […] Il tema è intenzionale, si<br />

cerca, si propone o si impone. Lřoggetto è sovraintenzionale, si incontra, è<br />

la zona di realtà che la parola inventa, cioè, trova.ŗ (8)<br />

Nel poema, dunque, ma soprattutto nel pensare in poema tutto parte e inizia con un salto<br />

spericolato, per concludersi con un balzo saldo a terra e questo perché, pensare in poema, è anche<br />

un estremo tentativo di ordine e misura; è un porsi nella mediazione tra due termini decisivi: lřuomo<br />

e il reale.<br />

È in questo spazio che il pensare in poema attualizza un incamminamento capace di diventare una<br />

presa visone sui resti di un futuro ancora posto alle spalle. Di un tempo che restando indietro, resta<br />

infarcito di passato e memoria. Ma in realtà esso è già un residuo di avvenire che fa capo alla sua<br />

possibilità dřesistere oltre sé e mediante sé. Un residuo già parlante e ancora dicente che si fa carico<br />

di una storia che dal proprio territorio interviene, per penetrare nello spazio che ancora deve<br />

Ŗavvenireŗ, come un accadimento improvviso.<br />

Pensare in poema è un poř come restare allertati dallo stupore; uno stupore che deve esplodere<br />

nellřimmediata prossimità e che ancora non è prossimo a nulla. Lřadiacenza è la strada del poema, è<br />

ciò che ci pone vicino alla storia e alla narrazione di una condizione, che fa del parola una poesia<br />

connessa al proprio tempo e al proprio stupore: unřattesa.<br />

Pensare in poema è porsi in attesa dunque, lasciando che il tutto accada nella sua destinazione e<br />

causa, trovando nella sua tracciabilità esistenziale, un senso possibile come impossibile, credibile<br />

come incredibile capace di farsi ascoltare ma soprattutto, in grado di Ŗfarsi credereŗ.<br />

Stefano Raimondi<br />

Note.<br />

(1) Paul Valéry, ŖPrima lezione del corso di poeticaŗ in La caccia magica, Guida Editori, Napoli 1985, p. 144.<br />

(2) Paul Valéry, ŖIntorno al «Cimetére marin»ŗ in La caccia magica,op. cit.,p. 78.<br />

(3) Paul Valéry, ŖTaccuini di un poetaŗ in La caccia magica, op. cit., p. 57. Per comodità dřora in poi le citazioni<br />

provenienti da questo testo saranno segnalate dalla sigla TDP con la relativa numerazione di pagina.<br />

(4) Paul Valéry, ŖLa creazione artistica»ŗ in La caccia magica,op. cit.,p. 34.<br />

(5) Antonio Porta, Il progetto della poesia, in Ŗil Verriŗ n.1, nona serie. p. 21.<br />

(6) Antonio Porta, Il progetto della poesia, in Ŗil Verriŗ n.1, nona serie. p. 19.<br />

(7) Antonio Porta, Il progetto della poesia, in Ŗil Verriŗ n.1, nona serie. p. 19.<br />

(8) Cfr. in Maria Zambrano, I luoghi della poesia, Bompiani, Milano 2011, p. 153.<br />

258


LETTURE<br />

259<br />

259


Fabiano Alborghetti<br />

SEZIONE DEL LAVORO<br />

260<br />

"Gondrano era sempre stato un forte lavoratore, ma ora sembrava che in lui vi fossero non uno ma tre cavalli: vi erano<br />

giorni in cui tutto il lavoro della fattoria sembrava pesare sulle sue possenti spalle. La sua risposta a ogni problema, a<br />

ogni difficoltà era: "Lavorerò di più!" frase che aveva adottato quale suo motto personale."<br />

G. Orwell, La fattoria degli animali.<br />

anni 72, ex perito meccanico<br />

Ogni tanto stař a Mendrisio<br />

per trovare un poř di pace:<br />

con le Benzodiazepine stař tranquillo<br />

fino a che non sale lřansia<br />

e si mette a far qualcosa, ogni cosa<br />

a dire il vero e una volta lřhan trovato<br />

che spostava le panchine perché fossero ordinate<br />

e parlava con la gente<br />

per spiegare dettagliato come fare quel lavoro<br />

come senza un buon lavoro<br />

ogni uomo non è niente.<br />

Dirigeva con le mani una squadra di persone.<br />

Sono scesi in ambulanza per convincerlo a tornare<br />

stare fermo, riposare. Ripeteva: la pensione!<br />

è la mensa dei battuti ed arrendere<br />

è un morire, è il perdere sé stessi, impazzire.<br />

*<br />

anni 52, impiegata d‟ufficio<br />

Hai la testa come un ceppo di castagno<br />

te lo dico onestamente<br />

che non puoi ogni week-end ammazzarti di lavoro<br />

ramazzare il giardinetto, fare almeno tre bucati<br />

ripassare i pavimenti riordinare nellřarmadio<br />

ogni tanto puoi star ferma ma è come un dire al muro<br />

La vita è atomi e vuoto<br />

di cui non dovremmo temere (…)<br />

Tony Harrison, Vuoti.<br />

Quanto sei piccolo, quanto infantile al confronto<br />

con lui, la sua maestà, la ricchezza.<br />

Hans Magnus Enzensberger, Aesculus hippocastanum.<br />

260


anche se lřaltra domenica di lavori non ce nřera<br />

e sei stata sul divano a guardare fissa il niente<br />

come chiusa in una gabbia come se subissi un torto.<br />

Ripetevi un poř scontenta: ma qualcosa c‟è da fare…<br />

*<br />

anni 37, operaio<br />

Posso fare ciò che vuole assicuro allřimpiegato<br />

mentre scorre il mio C.V. e rispondo pertinente<br />

a ogni sorta di domanda, mentre fingo sicurezza<br />

e mi spingo appena indietro, accavallo anche le gambe<br />

mentre so che la cravatta è perfetta col vestito<br />

mentre so che lřapparenza è il biglietto del successo<br />

e nascondo il tremolare delle mani, per la fame.<br />

*<br />

anni 31, montatore elettricista e custode<br />

No, non sogno la pensione<br />

né una rendita sommaria<br />

sogno proprio dřesser ricco, cosi ricco<br />

da far schifo, suscitare delle invidie:<br />

è per questo che io gioco, gioco tutto<br />

quel che posso. Ogni sabato cřè il Lotto<br />

lřEuromillion, il Totogoal e se posso a Ponte Tresa<br />

vado poi alla sala corse.<br />

La domenica a Lugano vado al Kursaal per il poker<br />

a Mendriso per le Slot ma non vinco mai abbastanza<br />

troppo spesso anzi perdo e mi sono indebitato.<br />

Ora faccio due lavori<br />

per coprire il buco in banca ma lo so che manca poco<br />

tra non molto sarò ricco<br />

credo proprio sia stasera<br />

ma stasera faccio il tardi. Da domani mi rifaccio.<br />

*<br />

261<br />

261


Anni 22, accompagnatrice<br />

Da sei mesi sono in proprio<br />

sono in tutti i siti web<br />

con le foto fatte bene da un fotografo mio amico<br />

che ho pagato con lřamore<br />

ma non è un mio cliente. Ora alzo mille franchi<br />

ogni giorno di lavoro<br />

e metà va dritta a casa, dove studiano i miei figli<br />

un pochino nei vestiti, nellřaffitto e nei locali<br />

dove vado per lavoro perché il business va cercato.<br />

I mie figli stanno bene e li chiamo ogni sera<br />

gli ripeto che poi torno ma che devo lavorare<br />

e poi chiudo col magone, e poi bevo del liquore<br />

che mi aiuta a mascherare quella voglia di star sola<br />

senza un corpo che mi preme che mi spinge dentro il seme<br />

ma poi penso che ogni colpo fa star bene i miei bambini<br />

ed allora io sorrido e al cliente questo piace<br />

sembra quasi che io godo, sembra tutto naturale.<br />

Eř per questo che lavoro molto più di altre amiche:<br />

quel sorriso cambia tutto, sembro quasi la ragazza<br />

sembro amica o fidanzata, sembra tutto naturale<br />

sembra che cřè un bel rapporto e non sia a pagamento<br />

sembra che io son felice, e il cliente è più contento…<br />

*<br />

anni 24, ricezionista d‟albergo<br />

Mentre provo lřuniforme guardo attorno il guardaroba<br />

con le pile di tovaglie ed i sacchi di lenzuola<br />

e le donne affaccendate che discendono dai piani<br />

e qualcuna mi saluta con lo sguardo indagatore<br />

per sparire appena dopo e lasciarmi alla misura<br />

a quel panico sottile di chi inizia un posto nuovo<br />

alle cose da imparare per far parte del sistema.<br />

262<br />

Notizia.<br />

Fabiano Alborghetti nasce nel 1970, vive in Cantone Ticino. È direttore artistico di PoesiaPresente<br />

per la Svizzera e del festival MONZAPOESIA; cura la sezione poesia del Magazine UNO; ha<br />

262


263<br />

creato e conduce il programma La Voce di Gwen per Radio Gwen (lřunico programma di diffusione<br />

della poesia in una web-radio svizzera).<br />

Ha pubblicato Verso Buda (<strong>LietoColle</strong>2004), L‟opposta riva (ibid. 2006 Ŕ in traduzione per la<br />

Marick Press di Detroit, USA), le plaquette dřarte lugano paradiso (Osnago, Pulcinoelefante, 2007)<br />

Ruota degli esposti (Mendrisio, edizioni fuoridalcoro, 2008, con chine di Gianni Bolis), Registro<br />

dei fragili (Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2009 Ŕ prefazione di Fabio Pusterla - in traduzione<br />

francese per le Editions DřEn Bas di Losanna) e Supernova (Forlì, LřArcolaio, 2011). Sue poesie<br />

sono state tradotte per rivista in una decine di lingue. Grazie a Pro Helvetia, ha rappresentato<br />

ufficialmente la Svizzera negli USA, in Slovenia e in Colombia.<br />

263


Dina Basso<br />

Aju mmiscatu bbadduzzi i ciraponga<br />

ppi capiri cchì culuri niscissa<br />

'mmiscannu i nostri occhi:<br />

mi vinna na cosa<br />

ca para un griggiu streusu,<br />

u stissu 'i ma nanna.<br />

Ci fussa cchì scantarisi d'on figghiu<br />

ca ancora a nnasciri e già sapemu<br />

c'avissa chiummu e ciniri 'nta l'occhi.<br />

264<br />

Ho mischiato palline di plastilina / per capire che colore verrebbe fuori / mischiando i nostri occhi: /<br />

mi è venuta una cosa / che sembra un grigio strano / lo stesso di mia nonna. / Ci sarebbe da<br />

spaventarsi di un figlio / che ancora deve nascere e già sappiamo / che avrebbe piombo e cenere<br />

negli occhi.<br />

*<br />

Nun mi jettu mai a mmari<br />

dře scogghi<br />

ca ma scantu ca lřacqua<br />

nun mi vola e mi sputa<br />

e nun sapennu mancu<br />

natari<br />

provu a ghittarimi<br />

sutta Řu piumoni<br />

supra di tia<br />

e arrivari di testa<br />

malacavà, di panza.<br />

Ppi fortuna nun si mari<br />

e nunnřaju murutu<br />

ancora<br />

arrestu sulu sciancata<br />

di na jamma<br />

e di lřautra<br />

macari.<br />

Non mi tuffo mai nel mare / dagli scogli / ché ho paura che lřacqua / non mi voglia e mi sputi / e<br />

non sapendo nemmeno / nuotare / provo a buttarmi / sotto al piumone / sopra di te / e arrivare di<br />

testa / mal che vada, di pancia. / Per fortuna non sei mare / e non sono morta / ancora / resto solo<br />

zoppa / da una gamba / e dallřaltra / pure.<br />

*<br />

Třassumigghiunu lřomini<br />

ca Řncontru ppa strata<br />

tři fazzu tutti<br />

assumigghiari:<br />

Ŗsuddu avissa a varva<br />

264


forsi lřocchi cchiù scuri<br />

putissa essiri idduŗ<br />

e unu ava i ta scarpi<br />

unu a ta bborsa<br />

u barista u ta accentu<br />

mentri mi duna u rrestu;<br />

aju ttruvatu macari<br />

i ta stissi ucchiala,<br />

Řnta fotu di unu ca morsa<br />

cumbattennu no quarantacincu.<br />

Mřammanca sulu<br />

di dariti Řna ucca<br />

e poi quasi quasi<br />

třaju ricugghiutu tuttu<br />

suddu nun fussa ca<br />

a mo addizzioni<br />

nunnřarrisulta<br />

mancu unu.<br />

265<br />

Ti assomigliano gli uomini / che incontro per strada / te li faccio tutti / assomigliare: / Ŗse avesse la<br />

barba / forse gli occhi più scuri / potrebbe essere luiŗ / e uno ha le tue scarpe / uno la tua borsa / il<br />

barista il tuo accento / mentre mi porge il resto; / ho trovato anche / i tuoi stessi occhiali / nella foto<br />

di uno che è morto / combattendo nel quarantacinque. / Mi manca soltanto / di darti una bocca / e<br />

poi quasi quasi / ti ho raccolto tutto / se non fosse che / alla mia addizione / non risulta / nemmeno<br />

uno.<br />

*<br />

È tuttu<br />

un rapa e chiuda<br />

di cirneri, u campeggiu<br />

a tenda è un furnu<br />

o centru o cauru<br />

niautri fatti i crita<br />

(di quali costa na staccammu?)<br />

ni lassamu cuciniari<br />

Ŕ ma nuddu ni misa accura<br />

né prima né ddopu.<br />

Ninnřaccurgemu<br />

niscennu allřaria<br />

allřacqua e o ventu<br />

ca moddu è u Řintra<br />

ma fora cchiù ddura<br />

e bbruciata e sarbaggia<br />

a peddi supecchiu<br />

sřha fattu crusta.<br />

Coccadunu ni parra<br />

ggiustu ppi dirini<br />

ca ni sta troppu bbona<br />

A Renata<br />

265


lřabbronzatura<br />

ma cchiù ca autru fujunu<br />

appena capisciunu<br />

ca chidda ca toccunu<br />

è terracotta.<br />

266<br />

È tutto / un apri e chiudi / di cerniere, il campeggio / la tenda è un forno / nelle ore centrali / noi<br />

fatte di creta / (da quale costola ci siamo staccate?) / ci lasciamo cucinare / Ŕ ma nessuno ci aveva<br />

avvisate / né prima né dopo. / Ce ne accorgiamo / uscendo allřaria / allřacqua e al vento / che<br />

morbido è il di dentro / ma fuori più dura / e bruciata e selvaggia / la pelle in eccesso / si è fatta<br />

crosta. / Qualcuno ci parla / giusto per dirci / che ci sta troppo bene / lřabbronzatura / ma più che<br />

altro scappano / appena capiscono / che quella che toccano / è terracotta.<br />

*<br />

Sudili sula<br />

suda i linzola<br />

sbatta u peri<br />

cerca di nesciri<br />

da visioni<br />

ca torna a Řuastari:<br />

u ventu malignu<br />

ca isa a vistina<br />

i culonni, cchiù ddřuna<br />

lassati a mità<br />

u diavulu cancia<br />

faccia tri vvoti<br />

(du omini prima<br />

e ppoi si fa nicu)<br />

cancia culuri<br />

partennu do iancu<br />

i Řssorba tutti<br />

anzemi o caudu<br />

e nun si po teniri<br />

mancu ntè vrazza<br />

e nun si po mancu taliari<br />

ma cunta<br />

cuntulu a ttutti chiddu cřha vistu<br />

ca nun si dicissa<br />

ca hai sulu u bbeni<br />

e ccu sřamprissiona<br />

sřarripassassa<br />

u signu da cruci<br />

e ppi precauzioni<br />

ccřaricchi Řntuppati.<br />

Sudali sola / suda i lenzuoli / sbatte il piede / cerca di uscire / dalla visione / che torna a guastare: / il<br />

vento maligno / che alza il vestito / le colonne, più dřuna / lasciate a metà / il diavolo cambia /<br />

faccia tre volte / (due uomini prima / e poi si fa piccolo) / cambia colore / partendo dal bianco / li<br />

assorbe tutti / assieme al caldo / e non si può prendere / nemmeno in braccio / e non si può<br />

nemmeno guardare / ma racconta / raccontalo a tutti quello che hai visto / che non si dicesse mai /<br />

266


267<br />

che hai solo il bene / e chi sřimpressiona / si ripassasse / il segno della croce / e per precauzione /<br />

con le orecchie tappate.<br />

*<br />

Tagghiu a striscia di Gaza<br />

ca è a toř strata:<br />

furtinu addiventa u quartieri<br />

carru armatu lřautobussu<br />

e surdati i kebabbari<br />

ca tenunu a ccura<br />

u ta purtuni<br />

e u ta silenziu<br />

cingolatu.<br />

Ma u ma arsenali è chiddu<br />

de surdati simpliciunazzi:<br />

cioccolatta<br />

un pezzi Ři sapuni<br />

i ggettoni da ggiostra<br />

a sciallina niura<br />

ca quannu unu morsi<br />

daveru, Řn Palestina<br />

sřarraccumannau<br />

dřarristani cristiani<br />

e ju dda matina<br />

taliannuti bbonu<br />

mi misi anticchia a chianciri<br />

e u pigghiai Řn parola.<br />

Taglio la striscia di Gaza / che è la tua strada: / fortino diventa il quartiere / carro armato l'autobus /<br />

e soldati i kebabbari / che fanno la guardia / al tuo portone / e al tuo silenzio / cingolato. / Ma il mio<br />

arsenale è quello / dei soldati semplicioni: / cioccolata / un pezzo di sapone / i gettoni della giostra /<br />

lo scialle nero / che quando uno è morto / davvero, in Palestina / si è raccomandato / di restare<br />

umani / e io quella mattina / guardandoti bene / mi sono messa un poco a piangere / e lřho preso in<br />

parola.<br />

*<br />

Hanu dittu i colonnelli<br />

a tilivisioni<br />

ca sta brruciannu tuttu<br />

e i previsioni su<br />

di ventu ca scunocchia:<br />

cancia sulu a ddirezzioni<br />

poi è u stissu<br />

u fetu i stirpagghia<br />

cocca caserma<br />

ppi fari, macari i fimmini<br />

u militari<br />

i tagghi dře provincii<br />

ca aju Řncuminciatu<br />

267


livannu a to supra a cartina<br />

e ripizzannu u vacanti<br />

cca masticogna<br />

ca i moli stissi asputunu:<br />

nřarrinesciunu<br />

a maciniari;<br />

no senti u caudu?<br />

sulu u gestu fa sudura!<br />

Spartemuni lřurtimu<br />

Řmuccunieddu Ři bbirra<br />

e suddu arresta<br />

un muzzicuni Ři ventu.<br />

268<br />

Hanno detto i colonnelli / in televisione / che sta bruciando tutto / e le previsioni sono / di vento da<br />

spezzare le gambe: / cambia solo la direzione / poi è uguale / il puzzo di sterpaglia / qualche<br />

caserma / per fare, anche le donne / il militare / i tagli delle province / che ho cominciato / togliendo<br />

la tua dalla cartina / e rimpiazzando il vuoto / con la gomma da masticare / che i molari stessi<br />

sputano: / non riescono / a macinare; / non senti il caldo? / solo il gesto fa sudare! // Dividiamoci<br />

lřultimo / sorso di birra / e se ne resta / un morso di vento.<br />

*<br />

Třavanzunu<br />

i mo jammi<br />

chiddi ca ora cchiù nun sentu<br />

e ogni passu para ca nunnřè u mia.<br />

U rrestu, Řnveci mu tegnu<br />

ca ccřè dda linia<br />

supra cui nun si va<br />

allřaltezza di nřossu<br />

- u nnomi dillu tu:<br />

è na specii i duana<br />

di dda si passa<br />

a nautru statu<br />

e i forzi armati su sparmati<br />

mura mura<br />

isati nta na para dřuri.<br />

U sacciu ca a mappa<br />

nunnřè u territoriu<br />

ca lřAfrica nunnřè<br />

spartuta cca squadretta<br />

ma cu studia a cartina<br />

e poi nun parta<br />

sřaccuntenta da latata<br />

unni cumparunu<br />

sulu i cunfini.<br />

Ti avanzano / le mie gambe / quelle che ora più non sento / e ogni passo pare che non sia il mio. / Il<br />

resto, invece me lo tengo / che cřè quella linea / sopra cui non si va / allřaltezza di un osso / - il<br />

nome dillo tu: / è una specie di dogana / da lì si passa / a un altro stato / e le forze armate sono<br />

268


269<br />

spalmate / lungo i muri / alzati in un paio dřore. / Lo so che la mappa / non è il territorio / che<br />

lřAfrica non è / divisa col righello / ma chi studia la cartina / e poi non parte / si accontenta del lato /<br />

dove compaiono / solo i confini.<br />

Notizia.<br />

Dina Basso è nata nel 1988 ed è cresciuta a Scordia, in provincia di Catania. Nel 2002 ha pubblicato<br />

alcune sue poesie in dialetto siciliano sulla Gazzetta ufficiale dei dialetti per la casa editrice Prova<br />

dřAutore; l'anno dopo ha curato, sempre per la stessa, il volume di fotografia O scuru, di cui è stata<br />

autrice di didascalie e di una poesia. Sue poesie sono state pubblicate dalle riviste ŖLe Voci della<br />

Lunaŗ, ŖTrattiŗ, ŖPeriferieŗ, ŖFermentiŗ, ŖLa Terrazzaŗ. È arrivata seconda al ŖPremio<br />

MezzagoArteŗ 2009 e i suoi testi sono stati pubblicati nell'antologia del premio ŖQuesto dolore che<br />

mangiaŗ. Con la sua opera prima, Uccalamma – Bocca dell‟ anima (Le voci della Luna, 2010) ha<br />

vinto per la sezione ŖAutore Giovaneŗ il premio Gozzano 2010 e la IX edizione del Premio D. M.<br />

Turoldo, sezione under 25. Dal 2007 vive a Bologna, dove lavora e studia Scienze dell'educazione.<br />

269


Francesco Filia<br />

Da La neve<br />

(I frammento, Napoli 2007)<br />

La neve, quella vera, non lřabbiamo mai vista<br />

se non nella bocca a nord del vulcano<br />

nei pochi giorni di cristallo dellřinverno come una minaccia<br />

che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza<br />

ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa<br />

e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa<br />

fino al midollo. Ce ne accorgiamo dai sorrisi tirati<br />

dei passanti, dai gesti circospetti di chi vive per strada<br />

dalle urla dei ragazzi impresse nellřaria, dal nostro esitare.<br />

E non ci sono di conforto i nostri sogni agitati in piena estate<br />

lo scambiare la notte per il giorno o il ricordo di una madre<br />

il tepore della sua ombra. E se anche qualcuno di noi<br />

si chiede qual è il respiro di queste strade, del loro teso<br />

vibrare, della luce che apre spazio tra palazzi e i nostri<br />

incerti passi affrettati rimarrà come un brusio di fondo<br />

tra risate e un colpo di clacson. Tra misericordia<br />

e cielo non cřè più tempo per esitare. Lřassedio<br />

è dentro le case. Eř tra la mano e il buio di stanze abbandonate<br />

e non serve ritrarsi di scatto, anche le mura sapranno chi siamo<br />

scrutando la paura nei nostri occhi e allora potremo solo obbedire<br />

ascoltando il silenzio che si insinua tra il vocio e il magma di piazze<br />

e strade, che invade portoni e giardini a mezzacosta, che copre<br />

frammenti di dialoghi affamati di bocche e cuori e allora, tra vestiti<br />

gettati e lřodore di arance cadute, saremo veri e senza età<br />

come chi dovrà morire sul serio.<br />

In attesa che i conti tornino, moriremo, lo sai<br />

aspettando la risacca del nuovo giorno saremo<br />

condannati a raccattare unřombra che custodisca<br />

i nostri passi, dal rumore di serrande abbassate.<br />

In attesa che lřaria faccia di nuovo attrito<br />

con la nostra pelle bruciata, con il respiro<br />

soffocato di ogni cellula non potremo che annuire<br />

al più lento dei nostri esitare, allo sbaglio<br />

che sapevamo di compiere, che non abbiamo<br />

evitato. Ogni gesto è il suo contrario come<br />

un mai e un sempre, le due facce di un foglio<br />

soffiato, del rumore e del silenzio, da due labbra<br />

(XXII frammento, Napoli 2007)<br />

Una riflessione<br />

270<br />

…noi siamo già quel che voi<br />

sarete domani.<br />

270


che non possiamo separare che non sanno<br />

intonare neppure un tenue canto di morte che<br />

non sanno più consolarsi con un lontano<br />

c‟era una volta…<br />

(XXV frammento, Napoli 2007)<br />

La madonna della neve<br />

Cřè giunto in sogno con la forza di un respiro brinato<br />

il luogo delle promesse non mantenute dei prodigi<br />

mai compiuti, di una rosa che sboccia di sole spine.<br />

Che ad agosto non nevica si sa, i miracoli non esistono<br />

se non nella gioia dei semplici, di noi che aspettiamo<br />

un passato che riscatti il perimetro delle nostre attese.<br />

Con uno scongiuro non riuscito abbiamo predisposto<br />

il rituale per salvare le nostre facce davanti, quelle<br />

che abbiamo offerto allřoffesa di ogni giorno al rito<br />

di sangue e purezza di ogni nascita allřattimo che trasforma<br />

il più nudo dei casi in ciò di cui non si è potuto mai fare a meno.<br />

La cenere dei falò i copertoni delle auto abbandonate<br />

la scaramanzia dei nostri cellulari accesi tutto è pronto<br />

per un oltre di forme geometriche e cristalli da sciogliersi<br />

al sole per essere nel silenzio di esagoni poggiati uno<br />

sullřaltro di fiocchi che definiscano il recinto<br />

delle nostre preghiere, per un dono che non chiede<br />

nulla in cambio, se non lřultimo dei nostri respiri.<br />

(XXVI frammento, Napoli 2010)<br />

Desiderantes<br />

Osserveremo il colmo di questo cielo, il silenzio<br />

graffiato di stelle, la carovana dei pianeti, il buio<br />

al bordo di un desiderio senza rimedio.<br />

Attenderemo i tanti non più tornati, anche per chi<br />

non attende più, nessuna promessa nulla<br />

restituirà le parole mai dette, la linea<br />

che ci congiunge allo strappo<br />

in fondo a questo gelo, che ci lega<br />

al vento che ci travolgerà, a questřimperio dřamore<br />

e morte, al respiro che scende sempre più al fondo<br />

di strade impazzite tra porfido e sangue, allřofferta<br />

quotidiana di ferite senza redenzione. Non cřè pace<br />

che tenga tra le ombre di questa piazza<br />

che scivola lungo mura sprofondate, un buio<br />

di costellazioni abita nascosto tra conchiglie<br />

e pietre, tra sentinelle e un domani che sfugge<br />

alle nostre spalle. Fiocchi si sciolgono tra le dita<br />

un ultimo barlume nel fondo di questa pupilla.<br />

271<br />

271


Aprile 2009 – Aprile 2010<br />

Prima o poi pagheremo per questo silenzio<br />

Di fogli bianchi e posate. Pagheremo<br />

Per non aver detto la parola che ci avrebbe<br />

Salvato, urlare lřerrore che ci ha trascinato<br />

Al fondo di noi stessi, tra strade<br />

Interrotte e una carezza. La gioia sarebbe<br />

riascoltare la mia voce senza vergogna.<br />

Un muto assenso o un mugugno, il non detto<br />

Da noi condiviso, un affondo nel nero di fari<br />

E siepi, nel pasto comune di madri e figli.<br />

Porto tutto alla bocca come un bambino<br />

Che impara a conoscere. Ricordo solo<br />

Un monologo senza senso di lalie e parole<br />

Spezzate, un nemico senza volto, un buio.<br />

da “Gli anni sottratti”<br />

Continuo a tormentare con i denti la lingua<br />

Quel pezzo di vita tra una poppata e un letto<br />

Di formiche e non potrò che essere travolto<br />

Da una valanga di coperte e buio e cadere, ancora,<br />

Cadere, dove un viso non ha più contorni ma ghigni<br />

Fino a quel centro di fuoco e luce, di sangue<br />

E mito, quel centro che chiamano inizio.<br />

Dove tutto è iniziato, quando un prima e un dopo<br />

Coincisero. Ogni cosa è in ordine: il grigio<br />

Scrostato di queste mura, la bolla dřaria<br />

Sotto al pavimento, la morte composta<br />

Di un padre in un letto. Ci sono cose<br />

Che non sřimparano. E adesso ricorda<br />

Di nuovo, cosa significa gioire.<br />

La pietra viva delle ore taglia<br />

Memoria e pelle ustionata.<br />

Implode lřargento dei minuti<br />

Non averlo capito lo chiamo colpa<br />

Lo spazio vuoto tra un desiderio<br />

E la sua immagine. Unřattesa<br />

Una vertigine di sedimenti e vie di fuga.<br />

(epilogo)<br />

Ogni tentativo dřordine è fallito<br />

Vigerà un ricordo, unřattrazione<br />

Limature di ferro polarizzate<br />

Un non luogo a procedere<br />

272<br />

272


Il profumo di un ospite andato via.<br />

Lřinquietudine sarà un domandare<br />

Ulteriore, forse un riserbo.<br />

273<br />

Notizia.<br />

Francesco Filia vive e insegna a Napoli, dov'è nato nel 1973. È stato vincitore della sezione inediti<br />

del premio Dario Bellezza (edizione 2001) e finalista di altri premi, tra cui il premio Città di<br />

Tortona 2008. Sue poesie e recensioni dei suoi testi sono apparse sulle riviste ŖLa Clessidraŗ,<br />

ŖCapoversoŗ, ŖLa Mosca di Milanoŗ, ŖTrimbiŗ, ŖPoesiaŗ e su vari blog e riviste on-line, tra cui<br />

ŖNazioneindianaŗ, ŖVDBDŗ, ŖPoieinŗ, ŖPoetrydreamŗ, ŖPoetry Waveŗ, ŖSagaranaŗ e ŖSinestesieŗ;<br />

nelle antologie "Periferie", a cura di Michele Sovente (Napoli, 2004); "Città sotto l'apparenza"<br />

(Milano, 2004); "Armi di pace" e "Oltre la pace" (Il Laboratorio, 2005 e 2006); "Subway- Poeti<br />

italiani Underground", a cura di Davide Rondoni e con introduzione di Milo De Angelis (Net,<br />

2006); nell'antologia "Da Napoli, verso", a cura di Antonio Spagnuolo e Stelvio Di Spigno (Kairos,<br />

2007); nel catalogo di artisti e poeti per i sessant'anni della Repubblica Italiana (Il Laboratorio,<br />

2006), con una poesia visiva in collaborazione con Gabriele Illiano; nel libretto "La città comune"<br />

(Il Laboratorio, 2007); nell'antologia "Il miele del silenzio", a cura di Giancarlo Pontiggia<br />

(Interlinea, 2009); nellřantologia ŖParole in circuitoŗ, a cura di Raffaele Piazza (Fermenti, 2010).<br />

Ha pubblicato il poema in frammenti "Il margine di una città" , con prefazione di Raffaele Piazza e<br />

dieci tavole di Pasquale Coppola (Il Laboratorio, 2008).<br />

273


Giuseppe Fonte<br />

Da Ruggero<br />

IV<br />

Ruggero dřintanto, ignaro dei fatti,<br />

bazzica ancora lontano dagli altri.<br />

Appena il vecchiardo scompare lontano,<br />

indossa i calzoni tenendoli in mano.<br />

Adesso un sollievo, neanche a sperarlo,<br />

rinfresca ancor più il suo docile sguardo.<br />

Non ha più problemi, non ha impedimenti,<br />

è pronto a battaglie e a combattimenti.<br />

Eppure nel mentre cercava le braghe,<br />

fuggendo da donne, fuggendo da spade,<br />

dimentico era di una grande questione:<br />

aiutare di certo, ma quali persone?<br />

Appurato che guerra vuole portare<br />

a padroni dispotici e briganti fermare,<br />

riman da chiarire chi sia chi tra molti<br />

è ferito di più e abbisogna soccorsi:<br />

ŖIl mondo è in pericolo sempre costante,<br />

ma io sono solo, e da solo soř errante.<br />

Il mondo mi cerca, di eroi ha bisogno,<br />

ma solo non posso, altrimenti mi infogno.<br />

Occorre capire, il più presto che posso,<br />

chi è bene che aiuti, a chi dare soccorso.<br />

Già unřesperienza mi ha fatto capire<br />

che a caso, così, non si può intervenire.<br />

Certo non posso soccorre i bruti,<br />

il premio sarebbe una pioggia di sputi.<br />

Ma come riuscire, ma come si sceglie?<br />

qui accade che notti diventino veglie!ŗ<br />

E preso da questi pensieri che ha in mente,<br />

ritorna a far cerchi con passo furente.<br />

Cammina nervoso, e sta sulle sue,<br />

tantřè che alle dieci si aggiungono due.<br />

Intanto allřopposto di quella vietta,<br />

quella in cui sřapre la chiesa che svetta,<br />

una donna leggera, vestita di fiori,<br />

arriva col passo chřè dei corridori.<br />

274<br />

274


Ha capelli ondulati, castani e vivaci;<br />

occhi gentili, ma occhi rapaci.<br />

È snella, elegante nel modo di fare,<br />

sotto quel sole è onde nel mare.<br />

In mano trasporta, e sono ingombranti,<br />

cartoni con scritte, non certo pesanti.<br />

Ruggero è pensoso, Ruggero cammina,<br />

non nota la dama che gli si avvicina.<br />

Invero la dolce e leggera ragazza,<br />

anchřessa è impegnata, diretta alla piazza.<br />

Per questo anche lei, che certo è in ritardo,<br />

cammina veloce ed è basso lo sguardo.<br />

Non nota Ruggero finché non ci sbatte,<br />

i cartoni che cadono simili a carte.<br />

Persino Ruggero, che ha in mano lo scudo,<br />

cade per terra sbattendoci il muso.<br />

Gli sanguina il naso, e lřelmo gli casca,<br />

una scena mai vista da torre Velasca.<br />

Senza pensarci nemmeno un istante<br />

si leva di colpo e si mostra prestante.<br />

Alza lřombrello, per fare spavento,<br />

il sangue gli cola a fiotti sul mento.<br />

Vorrebbe dar pane per quella focaccia,<br />

lavare lřoffesa e spaccare una faccia.<br />

Ma i conti che ha fatto non tornano tutti,<br />

non sa che davanti non ha farabutti,<br />

ma una dolce donzella, serena e leggiadra,<br />

il cui intento non era sbarrargli la strada.<br />

Quando sřaccorge di quel lieto volto,<br />

non pensa più al naso, ma resta sconvolto.<br />

Creatura più bella, più chiara, più lieve,<br />

visto non ha, in trentřanni di pene.<br />

È come stordito, che dico è ammattito,<br />

la bocca spalanca ed è ammutolito.<br />

Il sangue continua a sgorgare copioso<br />

e a terra egli cade, con botto mostruoso.<br />

Non sa quanto tempo è rimasto sdraiato,<br />

ma appena apre gli occhi è così illuminato;<br />

non è tanto il sole, che pure è di fronte,<br />

ma è quella splendida, candida fronte.<br />

La povera donna è un poř imbarazzata,<br />

275<br />

275


sventola carte per lřaria strozzata,<br />

appena Ruggero si desta stordito,<br />

lei subito china, con fare impaurito,<br />

con un fazzoletto lo asciuga dal sangue,<br />

la mano gli pone a sfiorargli le guance:<br />

ŖTi prego perdonami, sono distratta,<br />

oggi fa caldo e la testa mi smatta,<br />

poi sono in ritardo e non ti ho notato,<br />

scusami, scusami, se ti ho calpestato.ŗ<br />

Ruggero che ancora non pare ripreso<br />

dallřurto, dal sangue, dal naso ormai offeso,<br />

non sa cosa dire, e non dice niente,<br />

la guarda arrossendo, incredulamente.<br />

ŖOddio che sbadata che sono, perdona.<br />

Ma qui non accade che passi persona,<br />

così io correvo, correvo veloce,<br />

ahimè cřeri tu, ti ho colpito feroce.<br />

Ma adesso che cřè che non parli, che hai?<br />

Oddio! Oddio! Che guai! Che guai!<br />

ŖNo, prego, tranquilla, non è certo nienteŗ<br />

Ruggero ormai desto si alza imponente.<br />

Cerca lo scudo che è insanguinato,<br />

riprende la lancia e lřelmo piumato.<br />

ŖÈ solo un graffietto, non fartene cura,<br />

son altre le cose di cui avere pauraŗ,<br />

dice cercando di dar lřimpressione<br />

di esser guarito, ma la confusione<br />

si affolla continua per quelle cervella,<br />

peggio di un fabbro che forte martella.<br />

Allora la dama, che si è sollevata,<br />

gli tende la mano e gli dice ammantata:<br />

ŖPiacere, mi chiamano tutti Isidoro,<br />

è un nome gentile, fa rima con oro.<br />

Sai, stavo andando, e molto di fretta,<br />

qui dietro, sai, dove cřè una piazzetta…ŗ<br />

Così si interrompe, non chiude la frase,<br />

qualcosa la svia, la cambia di fase.<br />

ŖChe stupida sono, non ho fatto attenzione,<br />

forse anche tu sei pronto allřazione.<br />

Bene! E che bravo, ci hai proprio azzeccato,<br />

un elmo, una lancia, uno scudo ammaccato.<br />

276<br />

276


È tutto appropriato alla nostra battaglia,<br />

forse ti manca una corazza di maglia.<br />

Eccola tieni, non è molto dorata,<br />

ma certo alle vesti che porti è adeguata.ŗ<br />

Gli dice porgendogli due larghi cartoni,<br />

annodati con spago con su paroloni:<br />

in uno cřè scritto con nero dřinferno:<br />

ŖPrecario sarà chi detiene il governoŗ<br />

Nellřaltro di contro, scritto di rosso:<br />

ŖPrecario vuol dire abitare in un fossoŗ<br />

Ruggero la indossa, leggera armatura,<br />

con questa non può più temere paura.<br />

Nel mentre Isidoro con alta protesta:<br />

ŖEvviva! Evviva! Si va in manifesta!<br />

Ruggero non sa che cosa è accaduto,<br />

se è un sogno, se è sveglio, se è ancora svenuto.<br />

Eppure una cosa gli appare lampante<br />

ha capito che aiuto portare allřistante.<br />

ŖSarò paladino di queste persone,<br />

alle quali appartengo per mia vocazione,<br />

che ormai mi son posto, che lieta fortuna!<br />

Arrivo schiavisti, abbiate paura!ŗ<br />

Mentre a ciò pensa la dama lo prende,<br />

lo porta con lei dovřè lřaltra gente.<br />

Ruggero di fianco a quella donzella,<br />

non può non notare che il sedere scodella.<br />

Assieme si partano, lascian la chiesa,<br />

che povera, sola, da anni indifesa,<br />

in Ruggero sperava di avere un amico,<br />

ma in lei sfuma il sogno, poiché si è partito.<br />

277<br />

Notizia.<br />

Giuseppe Fonte è nato a Vimercate nel 1987. Studia Lettere Moderne a Milano. Nel 2008 ha<br />

partecipato al concorso Subway-Letteratura con la poesia Ultima tratta, classificandosi secondo.<br />

Ha collaborato con lřassociazione A.P.E. alla stesura e alla realizzazione di spettacoli-lezione gioco.<br />

Nel 2010 ha pubblicato, per AbsoluteVille, Il poema di Isidoro (un estratto) – Giuseppe Fonte e la<br />

nuova narrazione in versi, a cura di Vincenzo Frungillo, contenente anche un componimento<br />

poetico intitolato Oltre la siepe.<br />

277


Luca Minola<br />

Il silenzio dei grigi<br />

da ascoltare.<br />

La sera e gli strappi<br />

dei colori, un tramonto.<br />

Liscia la mano<br />

lisce le dita che muovono<br />

i pastelli.<br />

La punta che vedi,<br />

sei cielo a secondi.<br />

*<br />

Mattino sulle labbra.<br />

Apri le finestre,<br />

gli anni sbocciano<br />

in superficie.<br />

Vivremo respirando<br />

va sempre lřunghia a scavare.<br />

Terra su terra.<br />

Radice su radice.<br />

Sarà eterno il nostro mattino.<br />

*<br />

E quando la luce nelle insegne luminose<br />

esplose, ci fece di cera il petto<br />

(tornando da occidente, i fuochi<br />

di una guerra ingiusta).<br />

Dai sensi persi a raffica<br />

la sabbia di cui mi lavo<br />

ancora solo.<br />

Come la nascita.<br />

Lřelettricità delle foglie in autunno.<br />

*<br />

Parola cortese si dice il buio<br />

278<br />

278


con le spalle a punte<br />

di stelle illuminate.<br />

Il tavolo della cucina:<br />

misura umana.<br />

Cicatrici dei punti, spazi<br />

aperti nelle frasi,<br />

il tempo offeso<br />

lasciato con lo sguardo.<br />

*<br />

Dei propri polmoni fumare<br />

la cenere residua,<br />

inalati i gesti.<br />

Secondi da buttare<br />

gli orologi fissano tempi nuovi.<br />

Ti crescerà nella testa<br />

la luna e vissuta e nel profondo<br />

e mangiata avrai la lingua.<br />

*<br />

La lingua mancata,<br />

carta vetrata dei sogni.<br />

Il taglio delle cartilagini,<br />

ai piedi i cuori del combattente.<br />

Il battere armato della sveglia<br />

( tutto esplode).<br />

Viene giù la terra.<br />

*<br />

Dopo cřè la stanza dei ricami,<br />

la toppa del maglione<br />

da ricucire ( il tuo incubo),<br />

lacci, cotone, il viso che hai<br />

mostrato per rendermi<br />

le ossa al tempo, credi<br />

la frammentazione della lana.<br />

*<br />

279<br />

279


Donami uomini<br />

da illuminare<br />

nelle bombe dei mercati<br />

resi luce dalla luce.<br />

Miccia accesa, rumori<br />

di corpi che strisciano<br />

sul balzo della strada.<br />

Ancora ali fatte di cera,<br />

si fa ancora la carne.<br />

*<br />

Scheletri dei corpi.<br />

Il ribollire dellřautunno<br />

negli abiti il cotone freddo.<br />

Mani di garze, foglie<br />

di garze: i castagni.<br />

*<br />

Non ero io<br />

oltre la penombra<br />

a portarti le mani lì,<br />

verso il seno<br />

stupendo e rifatto.<br />

280<br />

Notizia.<br />

Luca Minola è nato a Bergamo nel 1985, dove tuttora vive. È iscritto alla facoltà di ŖScienze<br />

Umanisticheŗ ad indirizzo letterario nella stessa città. Ha pubblicato alcune sue poesie sulla rivista<br />

ŖPoeti e Poesiaŗ. Altri suoi lavori sono apparsi su riviste on-line quali ŖAbsolute Poetryŗ, ŖLa<br />

Rechercheŗ e Ŗ Poetarum Silvaŗ.<br />

280


Luciano Neri<br />

PRIME FIGURE MANCANTI<br />

I.<br />

(scontri ad Exharia)<br />

La loro testimonianza una casa diroccata,<br />

ad ogni rincorsa una stanza buia: immagini<br />

perse senza commento mentre ai colpiti<br />

unřoffesa vera, la morte di un innocente.<br />

II.<br />

(espatriati)<br />

Fuga dai luoghi, dal collasso bianco.<br />

Non si riusciva a trovarli nella memoria urbana<br />

dei disarmi. Era necessario vagare per i vialetti alberati<br />

nelle vicinanze di Ermou, oppure il tragitto partiva<br />

dagli scavi del quartiere fantasma di Omonia.<br />

In aiuto potevano arrivare i cani di strada<br />

dal Pireo, tracce infantili marine come argine<br />

senza adulti.<br />

III.<br />

(giorni a Berlino con D. nel ř97)<br />

Si parlava di venire allřEvangelico a trovare un simulacro.<br />

Questa la scena vera: nel circolo sanguigno un cimitero<br />

di globuli rossi, una memoria zuppa di nutrienti ospedalieri<br />

in un corpo quasi luce. Tra il respiro e le vene unřinfermiera<br />

di guardia: dal greto inquinato della rimozione fino alla veglia<br />

un sentiero funereo. Ogni avventura rianimata cambiando ago<br />

nel sangue, scenario, da lì passa la voce.<br />

IV.<br />

(timidezze di D. e rimozione fino a Kreuzberg)<br />

dal greto del fiume fino al sentiero funereo<br />

della rimozione una dama in pelle nera…<br />

mentre quellřaltra gente a chiedere dove era finita<br />

e noi italiani a dire la povertà ti tramortisce<br />

al buio del quartiere orientale… Ŕ ma quelli ci guardavano<br />

281<br />

281


fissi anche anni dopo denutriti perché avevano fame,<br />

il carrello della spesa vuoto, senza promemoria.<br />

V.<br />

(partita a scacchi)<br />

Le stagioni rigenerate sul corpo della povera Ana,<br />

il mondo esterno a scrutare un dolore ormai autoimmune… Ŕ<br />

una scacchiera a grandezza dřuomo al centro del parco.<br />

Ai quattro lati panchine gremite e dietro solo di pochi anni<br />

tribune di soldati e civili Ŕ i confini presidiati dalle armi<br />

a 30 Km, intorno lřeconomia della ricostruzione,<br />

mentre poco più lontano, lungo i binari, il tunnel<br />

sotto colate di cemento Ŕ le mosse dei fanti nel pensiero<br />

comune di ogni giocatore, il rancore sepolto nellřaria<br />

attraverso il cifrario degli scomparsi.<br />

VI.<br />

(primo viaggio di Leo)<br />

Sei in ogni bambino, al parco con la mamma<br />

dentro un aneddoto a colori dellřHaggadah,<br />

al Consiglio di Jajce: esatte le parole a una terra<br />

lontana. Ora tra le memorie adulte un sonno pesantissimo<br />

lo distoglieva, i passeggeri impietriti. Vedeva la rotta<br />

marina irreale nelle loro pagine deserte, un fantasma<br />

alla ricerca di luce. Il labiale degli insonni era la lettura<br />

scomparsa che preferiva, sembianze bianche inconsolabili<br />

private di corpo.<br />

VII.<br />

(correzione del tema)<br />

Nel luogo della fuga e in quello della cattura<br />

posto di blocco e fine della corsa. Ecco lřepilogo:<br />

scambio di persona nella cella di un camion.<br />

Poi i chilometri fino allřItalia. Ora la sembianza<br />

del morto nel corpo del giovane un campo minato<br />

di segni Ŕ nel bianco del racconto un trasporto dřacqua,<br />

una vita al buio.<br />

VIII.<br />

Una casa in piedi per miracolo, ancora segnata<br />

282<br />

282


dai colpi di mortaio, le rose sui muri, il suo scheletro piegato.<br />

Ora il tema di quelle memorie è scontato senza velature<br />

fino al riparo della scrittura, tanto che il loro confine<br />

si riduce a una fiammella di candela, giusto per lo sguardo<br />

dei senza perdono gli interni muti rassegnati dei paesaggi.<br />

IX.<br />

(il fuoco amico)<br />

Malgrado due figli vitali e una casa ricostruita<br />

fa fatica a ricordare i nomi sotto i colpi<br />

del fuoco amico Ŕ il mio affittuario era tra gli ottimisti<br />

pensava che lřassedio sarebbe durato poche ore.<br />

Ora non distingue il presente dal passato,<br />

quello che dice dal futuro. La sua vita è una linea<br />

stesa disarticolata: senza inizio né fine è come fosse<br />

già morto senza il conteggio di tempi, luoghi e ricordi.<br />

X.<br />

(itinerario e mappa con ritratto)<br />

Ragazza russofinnica in partenza<br />

nel soggiorno il deserto delle ombre<br />

in mezzo alle ombre il giovane soldato<br />

luce bassa itinerario interno mappa<br />

dopo anni di assedio tutto come prima<br />

inalterato Ŕ dallřanticamera risvegli<br />

e fughe, scarpe disordinate di bambini<br />

e adulti. Il soggiorno comunicante<br />

con la cucina isolata (strettoia ospitale)<br />

intorno le camere, tre, a ripostiglio.<br />

Dalla cucina una fabbrica abbandonata,<br />

pozzanghere e fango, due macchine bruciate,<br />

altre ombre profughe appartate Ŕ da lì<br />

la vista dei fumatori (marca Drina)<br />

e le colline sovrastanti Ŕ intorno ancora<br />

la natura, oltre le finestre e le fessure<br />

delle crepe Ŕ nel bianco di notte soldati<br />

fantasmi odorano di grappa imbracciano<br />

fucili, camminano dispersi senza confini.<br />

283<br />

Notizia.<br />

Luciano Neri (1970) vive a Genova, dove lavora come insegnante. Ha pubblicato Dal cuore di<br />

Daguerre (Firenze 2001), La spedizione del controtempo (in ŖNono quaderno italiano di poesia<br />

contemporaneaŗ, Milano 2007) e Lettere nomadi (Novi 2010). Suoi testi sono presenti su varie<br />

283


284<br />

riviste e blog di letteratura. I testi qui proposti sono parte di una raccolta inedita dal titolo Figure<br />

mancanti.<br />

284


Gilda Policastro<br />

I cari altri<br />

Non come vita<br />

Gli altri sono:<br />

mangiare il panino a morsi,<br />

gridare al telefono e<br />

sputare<br />

mentre lo fanno<br />

I gesti che non durano,<br />

la bambina dire ciao dalla porta,<br />

e lui che ci hai dormito, una notte,<br />

la mattina non ne sai il nome più<br />

- ma non è come pensi<br />

Gli altri sono:<br />

il ventre che spinge<br />

sotto le calze, e sopra i seni<br />

le mani,<br />

ma pensare che non resiste,<br />

e okey, ci sentiamo domani<br />

Unřunica forma, o misura, ha il fare,<br />

il resto è represso<br />

dal vestito di madre,<br />

dal divieto,<br />

e più chiedono, gli altri, più ingombrano,<br />

meno ci stai<br />

con gli altri sono:<br />

i figli, morire, tu-figlia-loro-morti,<br />

e le coperte, e il velo<br />

e i pigiami e le giacche<br />

gli altri le porteranno, le butteremo,<br />

e quel giorno non verrai<br />

nel sogno a rimproverare<br />

non come vita, ma più di dormire o meno,<br />

adesso non ricordare, non dire il nome, che non sai<br />

degli altri, che a te chiedono, loro,<br />

di non andartene<br />

e che hanno paura,<br />

non vanno a letto, non si sdraiano come dřamore,<br />

eppure non passa, non va-e-non-viene, e sono a metà<br />

*<br />

285<br />

285


All‟ombra<br />

non eri quando hai<br />

chiamato che<br />

il resto dellřattendere,<br />

o lřombra,<br />

che risana<br />

di poco, ancora Non fa<br />

ponti, ma barriere<br />

lřandarsene<br />

è stabile, stabilire la cura se<br />

dura chiamami, quando sai<br />

qualcosa, anche tardi<br />

ho spento o si è spento:<br />

nel cellulare dei morti<br />

arrivano i messaggi<br />

e nei messaggi dei vivi,<br />

le condoglianze<br />

ne conto trentacinque,<br />

di amici che stringono forte,<br />

che abbracciano stretto,<br />

che comprendono<br />

la pena e noi<br />

mangiamo il riso al buffet dřospedale,<br />

guardiamo nei piatti, ridiamo<br />

perché se nřè andato il rantolo,<br />

i piedi a terra<br />

come fanno,<br />

tutti, ha detto la zia, che piange<br />

Che piangono gli altri, sempre,<br />

e non vedi che hai bloccato la fila,<br />

allřamica, che muoiono sempre<br />

gli altri<br />

e noi, a consolarci<br />

*<br />

Il conto dei morti<br />

Seconda, la nonna Sabella chřè dritta<br />

di fronte al fuoco:<br />

lřhanno imbalsamata nella coperta di pelliccia,<br />

se no ci ricasca<br />

come le ruscedde<br />

per il nonno Peppino,<br />

chřè primo, e che siede di spalle<br />

286<br />

286


di fronte al tiggì delle sette<br />

le sere, e nessuno può andarci davanti<br />

tranne le volte che chiede Ma li compri i carciofi,<br />

tu, a Roma,<br />

che sono grandi, e se ci vado<br />

la domenica a passeggio<br />

in via Nazionale<br />

che pure quella<br />

è grande,<br />

ma dopo<br />

è lo zio che spinge<br />

davanti al tiggì delle cinque, mentre<br />

la nonna, per dormire, si prende la ragazza<br />

Marianna, poi lřultima lřha fatta cadere<br />

dentro al bagno del femore rotto,<br />

e la madre si è depressa di quei pomeriggi<br />

che sedeva sul portico<br />

al mare,<br />

che i morti sono statici,<br />

non si muovono mai<br />

dalle foto dal basso,<br />

in mezzo ai fiori, e sopra ai lumini<br />

- li cambia il padre ogni cinque giorni, regolare-<br />

Ma che dopo cambia i treni,<br />

o gli auto, a tre per volta,<br />

e quando scendi, ancora viali,<br />

e corridoi,<br />

lunghissimi - Percorso giallo-,<br />

fino alla sera che è in un posto fuori dal Gra,<br />

che si va:<br />

ci arrivano in tre, con la Clio rotta<br />

e che cosa ce lřavete portato a -<br />

poi muoiono anche altri, certi che non conosci o parenti degli amici<br />

(il padre Simone, la mamma Dora),<br />

che è questo che dicono vivere,<br />

quando certe volte ti scrivi con qualcuno:<br />

sai chi è morto<br />

*<br />

La cottura del pesce<br />

ti odiano perché sei viva<br />

le ottantenni delle amiche, in eurostar, e<br />

a una certa età tutto è invidiabile, aggiunge, mentre<br />

dei figli si raccontano poi o del pesce, che va bollito<br />

nella sua stessa acqua, per insaporire:<br />

le ascoltiamo ne ridiamo,<br />

continuiamo lui a leggere io a dormire,<br />

guardando i prati, le montagne, i porti<br />

coi primi bagnanti al sole di pasqua<br />

287<br />

287


abbiamo cercato le tracce<br />

nei conti da pagare, nei soliti fiori,<br />

li metti tu, che ho sfondato la sedia, lřultima volta e<br />

poi dalle cartelline sono emersi<br />

i romanzi, che iniziava quellřanno,<br />

mentre i parenti debitori sono in vacanza, al mare,<br />

e, ci sentiamo, state tranquilli, la prossima volta<br />

sei stai bene è peggio, perché fai la tua vita<br />

vuota di ombre,<br />

e se male ti ci pare di sprecarla, proprio perché<br />

il prete dice che non si vive per poco e si muore per sempre<br />

ma il contrario, o ci si rincontra, e quasi<br />

vien da sperare di no, per loro<br />

che potrebbero ricominciare a litigare,<br />

dei parenti debitori, o dei romanzi<br />

ti odieranno finché sei vivo o vorranno<br />

sentire della musica, ballare perfino<br />

(lui va a scuola di tango)<br />

come si può adesso in noi che stiamo<br />

oppure smettere le corse, i romanzi<br />

e andare a vivere dove non siamo che nati,<br />

ricomprare la sedia, bollire il pesce nella sua stessa acqua,<br />

leggere coi cugini chřè morta la vecchia, bruciata<br />

mentre era fuori per la spesa la badante, e<br />

dire che è tutto inutile, le scelte, quando il destino bussa,<br />

e passa<br />

288<br />

Notizia.<br />

Gilda Policastro è nata a Salerno, cresciuta in Basilicata e vive attualmente a Roma. Italianista,<br />

critica, scrittrice, ha pubblicato libri di critica e di teoria letteraria e il romanzo Il farmaco<br />

(Fandango, 2010). In versi ha esordito con la raccolta Stagioni e altre, nel Decimo Quaderno di<br />

Poesia (Marcos y Marcos, 2010). Ha partecipato a rassegne e performance, vincendo, tra lřaltro, il<br />

premio ŖAntonio Delfiniŗ, edizione 2009, e il premio Mazzacurati-Russo con il prosimetro La<br />

famiglia felice (dřif, 2010). Il suo ultimo libro in versi è Antiprodigi e passi falsi (2011), con cd<br />

realizzato insieme al musicista e compositore Massimiliano Sacchi per la collana "Inaudita" di<br />

Transeuropa.<br />

288


Andrea Raos<br />

Da Lettere nere. Un'autografia (13 marzo 1996 - 21 gennaio 1999)<br />

2.<br />

LA VENUTA DELLřAMANTE MERAVIGLIOSO<br />

fantasma della prima persona<br />

e spina singolare nella carne,<br />

289<br />

et je ne puis approuver que ceux qui cherchent en gémissant.<br />

Pascal<br />

è indubbio che potrebbe ricordare ogni dettaglio. e dunque, o è pura e semplice finzione o sta<br />

evitando di scontrarsi con qualcosa che già sospetta essere troppo doloroso per lui. osservato a<br />

lungo, in questi giorni, non sembra che sia poi così cambiato rispetto a come lo si ricordava. pure è<br />

certo che lentamente, forse troppo lentamente, si sta avvicinando al cosiddetto punto-limite. lo si<br />

può notare da certi scatti dřumore inusuali, una voracità accresciuta. il sogno, la piaga. tuttavia, non<br />

può ancora dirsi lo stato alterato, lřanimo convulso a pareggiare i conti, dřun ricordare completo.<br />

constata almeno che ha prodotto ferite profonde con tradimenti e menzogne della specie più banale,<br />

facendosi adatto ai contesti o alla sua percezione di ciò che ci si aspettava da lui in quel momento.<br />

vie dřuscita non ne ha. non ne vede, cosa chiede. non mostra esitazioni, dřaltra parte, quando si<br />

tratta di rivivere certi eventi particolari, purché a lui favorevoli. ha già tentato di definirlo un gettare<br />

luce su fatti ignoti a tutti. favorevoli nel senso più concreto, come potrebbe esserlo il prestito a<br />

fondo perduto di una somma di denaro, o un regalo imprevisto. questo non molto spesso. non è mai<br />

stato molto abile, dice, con i regali. o troppo o troppo poco. come che sia, di fatto non è la prima<br />

cosa alla quale si pensa quando si pensa a lui. si visualizza piuttosto una presenza incostante ma<br />

florida, lucida e vivace. che sono tanti aggettivi per non dire nulla. una sola traduzione del suo<br />

volto, una pazienza illimitata, è messa in dubbio dalla piega angolosa dellřorecchio sinistro, dallo<br />

scattare improvviso e frenetico, spesso, delle palpebre. non può credere che sia vero ciò che dicono<br />

di lui. rifiuta di accettare la malvagità, è così che la definisce con il tono di chi vuole insultare,<br />

lřoggettività della statistica, lo stillicidio dellřinfinito potenziale, chiede a noi se non vediamo<br />

numeri complessi che ruotano, sfere di cristallo sospese nel vuoto, saldate al buio incastrato a sua<br />

volta dentro sfere dřalabastro, in eterno per simpatia vibranti per materia su materia, alle soglie<br />

della coscienza, nellřanticamera della memoria, che scorrono a fluire lentamente finché sembrano a<br />

guardarle palloni aerostatici di forma inusuale avvicinarsi e allontanarsi, ad inghiottirlo quasi od a<br />

sfuggirgli, con la lentezza tremenda figlia della sua allucinazione. durante questo scorrere di tempo<br />

considera le migliaia di secoli bambini che ha passato a navigare a vista in questo sogno. comunque,<br />

rifiutare il riassunto di una vita è forse semplice istinto di sopravvivenza della maschera dellřio<br />

individuale, quella riversata nellřoggi, lřattuale, della volpe che si recide la zampa per sfuggire alla<br />

trappola, nel qual caso la metafora istantanea del sangue sulla neve avrebbe trasparenza superiore<br />

ancora a quella della neve stessa, o in ogni caso per semplice lucidità di sovraffollamento, che<br />

sarebbe allora mentale, dopo praterie per centinaia di chilometri, sino alla scogliera, con soste<br />

irregolari e brevi, costellate di striduli richiami, scatti dettati dal panico, zigzag dopo zigzag sino ad<br />

affastellarsi in un fantastico domino già afflosciato in forma di città luminescente, il lemming<br />

insegue il picco più profondamente inciso per sbocciare a milioni, alla superficie dellřoceano a<br />

milioni contro le onde, milioni di onde come solo movimento, grido il balzo banale già sbocciato<br />

addosso all'acqua calcolabile allřimpatto. questa la certezza da uomo dřaffari della terra e sfigurato<br />

da tagli coincidenti con la volta celeste che lo conduce per viottoli, volte e torrenti, autostrade e<br />

rigagnoli, elettricità. un caso mai inventato. per questo non chiarire, mai, il campo dřesperienza. si<br />

limita ad enumerare una serie di possibili fattori scatenanti. che cosa appunto nasca da ciò, non lo<br />

289


290<br />

dice, oppure tenta forse di comunicarlo per vie meno diritte. movimenti di una spalla, sguardi<br />

diretti, sguardi, sguardi di sfuggita, il suo gesto abituale di sfregarsi la fronte. una cosa che racconta<br />

spesso, probabilmente per sviare lřattenzione, è unřaccurata descrizione del giardino della casa in<br />

cui è cresciuto fino ai cinque anni. fatto sorprendente, forse al limite dell'attonita mistificazione, per<br />

chi sostenga la fallacia, la morte implicita in qualsiasi vita vista in forma di autobiografia, sarebbe<br />

in questa luce veramente questa vita in quanto cuore vuoto e colmo di un fango acidulato e grigio,<br />

pulsante con la regolarità di unřinfezione, ogni mattina da riconcepire in quanto contraddizione e<br />

vanità di ogni cercare, voler cadere nella tentazione del piede in fallo, del vuoto ricco di senso che<br />

dovrebbe nutrire, dissetare chi, e parla di chiunque, ma al posto suo pensando sempre, forse, e poi<br />

ancora, basandosi sul suo valore e la miseria altrui, su chi frequenta i cuori di coloro che eccellono e<br />

degli umili, a chi col cuore vuoto cerca pace fra tutti costoro, chi dice di riuscire a rimanere, in<br />

quellřeredità detta, navigante a vista nel male originato dalla fine del male, ma sa bene che in fondo<br />

non è nulla, invece, e in ogni modo, e non è lui, ma in particolare, ed è sorprendente vedere come si<br />

accalora, allřimprovviso, per sottolineare, è questo, con veemenza, lřaspetto estraneo, quasi ostile,<br />

degno di una giungla inesplorata, rivestito nella sua immaginazione dalla serra in rovina nellřangolo<br />

più lontano dallřabitazione vera e propria. una serra piuttosto grande, se i suoi ricordi sono esatti.<br />

purtroppo, dice, è su questi soli che può basarsi, perché è passato davanti al giardino, molti anni<br />

dopo, ma i proprietari successivi lřavevano abbattuta. più nulla. a tal punto che non si nasconde il<br />

timore che non sia mai esistita e che di conseguenza lui stia costruendo su fantasmi. ebbene, di quel<br />

luogo in pieno decadimento, cui era proibito anche solo avvicinarsi a causa delle vetrate in pezzi<br />

che disseminavano il prato di aculei trasparenti, lřimmagine più vivida che gli sia rimasta è quella di<br />

un gatto, fulvo e bianco, che fu scoperto imprigionato negli angoli spioventi del metallo. un gatto<br />

ferito, curato da tutti con grande attenzione e affetto. dal suo punto di vista, nellřottica delle sue<br />

preoccupazioni attuali, lřaspetto più degno di interesse dellřintero episodio è che non ha<br />

assolutamente alcun ricordo di che fine abbia fatto quel gatto. svanito nel nulla. per qualcosa vi è<br />

qualcuno con memoria della fine? il salvataggio, lui, sì, forse proprio perché quellřatto aveva<br />

racchiuso in sé la sensazione forte, lo strappo dellřavvicinarsi, attratti dal persistere del gemito, alla<br />

zona proibita, ma non così la sorte successiva, nel quotidiano, dellřanimale. forse fuggito, lasciando<br />

un ciuffetto di peli intricati in una cornice di rovi. oppure morto. anzi, oggi sicuramente morto,<br />

soggiunge ridacchiando. mortissimo proprio. soffio che non trasporta più nulla, sarà a dir tanto<br />

montagnola di sabbia fra altre mille, su una spiaggia deserta, allřombra di una schiera silenziosa di<br />

pini marittimi, al massimo sarà lřincunearsi dřun aculeo fra la corteccia e il tronco, però allora<br />

sullřorlo sfrangiato di un cecidio, che può chiamarsi anche galla, quel tumore che si forma nelle<br />

piante come reazione allřintrodursi di un organismo, vegetale o animale, il penetrare di un<br />

organismo estraneo, in cui a quel punto sarà qui, in compagnia sua, a respirare allora lřaria<br />

ghiacciata del non respirare più, il capogiro del non potersi più dire per domani avrei voglia di<br />

inventarmi una vita diversa. ma ben poca cosa, lui lo sa e lo ha sempre detto a chiunque volesse<br />

ascoltarlo, sarebbe comunque sopravvivere a, grazie a una teoria di sinonimi in cui però restare<br />

senza fiato anche solo per avere chiuso per la durata di un battito gli occhi. perché questo ricorda. il<br />

timore di una cantina buia dal fondo sconcertante e immenso, i più orrendi pericoli. eppure questo<br />

non gli serve che a sbloccare unřaltra idea che scorre da un fiume più lontano, un fiume calmo, dato<br />

che sepolto in fondo alla memoria giace lì qualcosa che appartiene, il sangue e lřanima ed il<br />

muschio venoso che di questo corpo bacia tutte, ognuna cavità, che appartengono, lui dice, allřoggi.<br />

la pazienza che chiede per questa immagine abusata di oggi e ricordare è perché ritiene di poter dire<br />

tramite essa una cosa importante, una cosa che potrebbe fargli attraversare indenne la fiamma di un<br />

momento della vita. perché quando ci si trova immersi nel buio, questo è il punto, quando si sta<br />

immobili nel fondo fisso dellřoscuro, viene spontaneo ritenere che la vista fra i sensi più di tutti sia<br />

del tutto inutile, che si possano stringere le palpebre e affidarsi, nel difficoltoso incedere, allřudito e<br />

al tatto, oppure attraversando i meandri dellřodorato leggere lřambiente. è vero, in fondo a cosa<br />

serviva quel giorno guardare piangendo attraverso il vetro rigato di pioggia senza vedere nulla se<br />

non ad aumentare il carico di sofferenza di ogni umano, a dare nostalgia, martoriarsi e palpitare di<br />

290


291<br />

piaga per ogni breve accendersi del mondo visibile, dovunque e quale fosse in ogni istante? eppure<br />

proprio in questo risiede, secondo lui, ciò che in fondo è forse proprio necessario: spalancare gli<br />

occhi nellřoscurità, non cedere al non poter vedere. e non è questo un rivelarsi al vero o al vuoto,<br />

non già toccare il fondo o spacciarsi per gioioso o per amante o disperato o lucido, no, ma prender<br />

fuoco solamente, a partire dalle palpebre e allargarsi e tendersi scendendo sempre più veloce sino a<br />

diventare guizzo e turbine nei punti che lambiscono lřesterno, sapere che non si vedrà mai di sé<br />

questo lampo, non percepito e mai visto per converso allora il nero, nulla chiede, non cřè niente, e<br />

da dietro le palpebre, da fusi alle pupille, divenuti per un attimo quel guizzo, navigare sino ai lembi<br />

estremi del sistema nervoso centrale a vacillare sul bordo della pelle ed immediatamente su di<br />

nuovo, risalire incespicando dalla periferia della mente contro il flusso del sangue e delle<br />

sensazioni, tornare e ritrovarsi dopo ancora a quello stesso passo esitante nella stanza affondata<br />

nellřoscuro. cosa è stato? dunque non vi sia posto qui per questo frammentario immaginare un rivo<br />

dřacqua o di sudore, sentito scorrere sul dorso, modulato dalle pieghe della spina vertebrale,<br />

generante un suo pensiero sulle sensazioni, in sé sgradevoli, ma che possono portare la<br />

consolazione, amara e parziale, insapore e proprio poco sostanziale, il tempo che comunque scorre,<br />

di questo e grazie a questo scorrimento, in questo corpo che lo prende e lo sopporta in pieno. no, ma<br />

sia, che piaccia o no, sia questo nascere nel nero, dentro la felicità. e subito dopo, corpi semplici. ci<br />

ha già provato innumerevoli volte, si è sgolato, ha pianto, ha annerito risme di carta - perché sono<br />

queste le sue forme, le sue volte mentali a sesto acuto in geografia -, ma ancora adesso non rinuncia,<br />

tenta ancora di raccontare questo sogno che ha fatto tempo fa, un rapporto diretto con la storia del<br />

gatto. in realtà dunque quel felino minuscolo si è trovato coinvolto in un complotto internazionale,<br />

il rapimento di un personaggio importante, anzi, ancora meglio, la figlia di uno scienziato, così è<br />

perfetto nel suo immaginario. le autorità hanno messo al gatto un collare fosforescente per seguirlo<br />

nel buio. amico da sempre della ragazza, compagno di giochi e miagolii colmi di ogni delizia,<br />

lřintelligente bestiola lřha rintracciata allřolfatto nel labirinto della metropoli. lřindagine si conclude<br />

con un pieno successo. o altri libri di questo tipo, che divorava con ansia ed affetto allřepoca degli<br />

eventi. e dunque gatti come corpi semplici, le due parole che ha sognato, corpi anchřesse,<br />

vividamente incise su un fondo scuro in modo da risaltare abbaglianti, fanno definizione del felino<br />

minuscolo e mortale che cerca la ragazza attraverso lřurlare dei gas di scarico e il gemere sommesso<br />

delle macchine umane. questo nostro stare inchiodati come mici su un albero, in questa metropoli, è<br />

pertanto un lampeggiare di profili su un fondo bianco, rinascere aspirati da un tubo di scarico, una<br />

sostanza che bacia la coscienza, non dire parolacce, trattenersi, sentirne colare lřabbraccio umido e<br />

vischioso, di questa coscienza come di ogni altra, sotto la maglia di cotone che avvolge cosce e<br />

polpacci, percorrerti ridacchiando la pelle. e poi un altro sogno di felicità bruscamente interrotta,<br />

oppure dal finale interlocutorio. un uomo anziano, ovvia proiezione del sognante in un qualunque<br />

decennio futuro, che cammina per raggiungere la sommità di una duna fra un numero incalcolabile<br />

di altre, un paesaggio dolcemente scosceso. su questa, possiamo immaginare, intende assistere al<br />

sorgere del sole, spettacolo che, come sa chi ci è stato, ha nel deserto un peso nuovo. in quel<br />

momento, proprio nel preciso momento in cui ha finito di arrancare a fatica sul pendio e sta per<br />

accovacciarsi tranquillo sulla sabbia ancora fredda dallřaver subito la notte qui al suo estinguersi,<br />

viene punto da uno scorpione e muore prima di vedere il disco celeste spezzare la linea<br />

dellřorizzonte per trasformare in nuovo giorno la danza ondulata, abituale, dei richiami a un altro<br />

grido più contratto che un istante prima vi tessevano le rondini (chi avrebbe mai detto che è pieno di<br />

rondini il deserto, ed è così eppure). la fine dellřuomo non fa parte del sogno, che si interrompe<br />

appena prima giacché a quanto pare non è mai possibile sognare la propria morte, è invece una<br />

proiezione pseudologica nata dal rimuginare ora colante tipico del risveglio dopo una notte<br />

tormentata. lei invece, la ragazza adesso donna di stanotte, come tutti quelli che ha sognato, non è<br />

come quelli che sognava, è ancora un altro e un altro ancora e viscido mai sempre non tornare, che<br />

lemure di qualcosa di simile ad un incontro principe, un evento, agli occhi suoi ha in sé tutti gli<br />

squarci e le prospettive possibili di unřevoluzione non inevitabile dellřesistenza. poteva non essere<br />

quella che è. potrà non divenire quella che già fu. ovvero il cammino che si sarebbe potuto<br />

291


292<br />

imboccare, tra i rovi con passo esitante, per uscire da una rumorosa assenza, individuare percorsi<br />

per entrare nella serra fatiscente e uscirne con il gatto fra le braccia senza tremare e senza ferirsi o<br />

perdersi. tracciare un cammino non mistico, non intellettuale o razionale, sola logica vitale, pensare,<br />

sopravvivere, sé stessi, non questo sto per diventare. ovvero il saper vedere appena al di là, da<br />

qualche parte, su un orizzonte poco o nulla definito, ma certo, ecco che cosa cercavo, ecco cosa<br />

avrei sempre voluto fare, ecco che sto facendo ciò che sento. lui la chiama, cercando di riderci<br />

sopra, quellřineffabile, rara e preziosa sensazione dellřessere dřaccordo con ciò che si fa o si dice, si<br />

pensa o sente. ma deve stare invece attento a non tagliarsi, non un semplice soffio delle spine sulla<br />

gamba indifesa nellřinventato sentiero inquinato da mali universali ed onniscienti, da serpenti, che<br />

suonano per lui di richiami stridenti nella mente e si colorano nel nome della voce di chi lo mise al<br />

mondo, per pomeriggi interminabili e calure prive di discorso o evoluzione lineare, ma veramente il<br />

vetro rotto che lo accecherà nel sole e farà brillare, in seguito, la terra di un autunno più rosso e<br />

denso in ogni zolla del più cattivo succo è cosa da dimenticare. sta cercando per vie impervie di<br />

calcolare le potenzialità esplosive dřun fulmineo ritorno alla radice, uno scavare alla base del male,<br />

valutando che questo potrebbe portare a un chiarimento, se non addirittura a una riparazione, una<br />

scomparsa, un essere cancellata dalla terra e dalla memoria di una qualunque catena di eventi.<br />

perché in quel sogno appariva tutto così semplice, così ovvio, così lontano dal tormentoso e<br />

costante punzecchiare del reale, come se in un solo soffio appannato di respiro fosse rinato,<br />

gloriante e luminosa questa vita, un trascorrere i propri giorni al mondo grazie al modo di una linea<br />

unica, non retta ma continua, sottile ma non fragile, incostante nel costante mutare ma forte invece,<br />

molto forte nel mostrare ridendo la propria direzione attraverso lřabbaglio quotidiano, e allora<br />

questo e altro si domanda tormentandosi le mani tormentate, facendosi pesare la sua assenza<br />

mentale di ali robuste a sufficienza per affrontare un tale immaginario volo immaginato in cui si sa<br />

schiacciato da un teorema, sa da sempre e per sempre la vita un fascio di parallele, ma ecco<br />

allřimprovviso due rette che lo intersecano. i segmenti di esistenza che ne risultano comunque<br />

proporzionali, compi un gesto e non sfuggi alla conseguenza, allřeco, allřamplificarsi e ripercuotersi<br />

che ti crolla addosso con lřimmensità di una colpa universale non tua ma proprietà di ognuno e al<br />

tempo stesso solo tua per ciò che hai commesso non sapendolo, per ciò che hai ben fatto volendolo,<br />

per ciò che non hai mai neppure pensato, ma che sicuramente ci pensavi in fondo, e hai solo da<br />

sperare allora e speri in effetti che le rette siano composte di infiniti punti per sperare quindi di<br />

dissolverti infine nel continuo e nel ruotare armonico di un qualunque infinito e cessare di esistere<br />

come entità separata e condannata a sperare e, a tuo modo, come credi, se anche ti fa piacere<br />

crederlo o anche se cerchi di non pensarci, tuttavia non ci riesci e resti sofferente di un dolore che le<br />

parole non trattengono con sé, non in quanto troppo grande ma perché privo di nome, di che non<br />

chiedere nientřaltro e poi cosa sperare più. a questo sostiene di essere giunto. vuole continuare e<br />

quindi continuerà, dice parafrasando in modo più inconsapevole di quanto non creda, nel momento<br />

in cui afferra unřasticella di legno leggerissima con la quale ha manifestato lřintenzione di tracciare<br />

e traccia effettivamente segni criptati sulla sabbia, destinati ad eccitare la fantasia dei bambini che<br />

potrebbero passare giocando su questa spiaggia. potrà sembrare strano ma lui sembra abbastanza<br />

convinto che ce ne siano, sostiene di averne già visti che giocavano a rincorrersi, a una ragionevole<br />

distanza da lui, apparendo e scomparendo dietro i ligustri sparpagliati a siepe e strangolati da<br />

rizocarpi e licnidi, da geografici e canini che, si dice, possono volendo strangolare un uomo e anche,<br />

poco più vicino al pulsare del mare, dietro i ciuffi di lavanda che costellano lřarea da lui prescelta in<br />

quanto campo e in quanto immaginazione, solo come una minuscola immaginazione, scomparire e<br />

riapparire pochi istanti dopo nuovamente al di là di quella stessa siepe di ligustri che contempla per<br />

ore, mossi dolcemente dal vento, lui e lei, a velocità diverse ma degne nel tremante cercarsi, degne<br />

di due amanti. ora che non sente né calma né sete, così afferma con il ritmare solito le frasi che gli<br />

emerge dal rumore sordo rimandatogli da ogni passo o dal battere il circolo del fiato che mille e<br />

mille volte al giorno gli concedono i polmoni, ora che né sonno né furia, adesso può pensare a<br />

giocare a qualche indovinello con lřinnocenza dei suoi piccoli. i bambini. quelli che ha visto e quelli<br />

che non ha visto, quelli che ha rifiutato con un moto di fastidio e quelli che ha accettato sorridendo<br />

292


293<br />

un poř smarrito, ma che però, torna sulle sue frasi come ripensandoci, come per aggrottare<br />

corrucciato la fronte, ma che però ha respinto forse anche loro, soprattutto loro, in un suo limbo di<br />

gratuita violenza, quelli con cui non sa di che cosa discorrere e quelli che lascia invece andare<br />

sullřonda dei loro magri ricordi e di aspettative sbilenche come quarti di luna, che ascolta creare<br />

spettri di futuro senza, a giudicare dal suo sguardo, capire una sola parola o lřunica parola che<br />

continuano, dicono, continuano a dire di continuo, potrebbero anche parlare nella sua lingua o in<br />

una delle sue lingue, potrebbero anche esprimersi a gesti o inscenare una danza rituale, lasciare<br />

nellřincertezza od ordinare in codici, ma perché non potrebbero fuggire terrorizzati alla vista di un<br />

serpente enorme e senza dubbio immaginario, ma forse si spaventerebbero ridendo dei colori di<br />

guerra con cui hanno adornato il suo viso sgocciolante fango. quello che è, lui sì, del tutto inventato,<br />

nei tratti angolosi e bruschi, nelle labbra viola dopo un bagno troppo lungo, con il sole già quasi<br />

scomparso. deliziarsi loro della sua furia incongrua. naturalmente non sa dire che cosa cambierebbe<br />

in tutto questo, da che punto di vista, in cosa qualcosa sarebbe più facile. non cambierebbe nulla,<br />

no, ripete fra sé scuotendo per ore e ore ritmicamente la testa, spezzandosi le unghie già ròse contro<br />

la parete. in cosa stia lo svilupparsi di un momentaneo tocco fra due correnti opposte che rimontano,<br />

qui sta secondo lui il paradosso, il discendere calmo per miliardi di volte il medesimo fiume sino a<br />

colmare eternamente il ribollire di unřacqua totalmente immaginaria. ogni cosa accadrebbe proprio<br />

lì, nel punto in cui il liquore degno di tutte le fantasmagorie di lampi originerebbe incubi travestiti<br />

da sogni, case o serre votate alla rovina, animali mai esistiti o già scomparsi. oppure solamente<br />

cenere. ma questřacqua in cui già si tuffano piangendo alcuni. ma voler dimenticare anche solo di<br />

averli mai visti. potrebbe così ricostruire lřintera scena, facendo in modo che tutta la banda delle sue<br />

presenze riesca a ritrarsi, in preda allřorrore, alcuni già cianotici o bluastri in volto, e addormentarsi<br />

o spegnersi contorti in pose divertenti, ancora in preda al proprio inutile lavorio di maschere<br />

sostenute da unřidea. lo chiama lo scorrere del tempo, spera in lui, lřavvicinarsi, il restare a un passo<br />

a malapena. non una parola di ciò che dice è credibile, non una sillaba nella sua mente è là dove<br />

dovrebbe essere. ma si capiva che lo capiva, ed era chiaro che lo voleva, ma di lontano, da là dove<br />

già non era più lui perché annichilito dal fulgore, ma tramontava, come sempre, è quasi freddo<br />

allřimprovviso, è violacea la pietra, e la sua ombra ingigantendosi al tempo stesso scompariva,<br />

sembrava massaggiarsi distrattamente unřanca come per attrarre lřattenzione di una folla muta ed<br />

assente, per dire che ci sono anchřio qui, e pure quanto è duro non esserci benché si stia sentendo<br />

che si esiste o così almeno credo, e poi dice ma certo che è così, come potrei provare altrimenti<br />

questa lacerante, di mancare di un qualunque oggetto essenziale, fondamentale, non ricordo come si<br />

chiamava quando cřera, ma ogni volta così dolce ed improvvisa, sensazione, e in questo esplode in<br />

lui il ricordo o mostra allora di svanire, di essere bambino ed impietrirsi in un ghigno scavato e<br />

piegato quasi in due nellřurlo che sulla spiaggia vetrificata dalla folgore non ribatte, non trema, non<br />

evoca altri accenti o desta echi, né in lui balena altra realtà in cui bambino, disegnando e giocando,<br />

tremulo, mai nato, scaglia ora il balbettio che è proprio suo nel freddo che lo attornia, a moř di<br />

melodia, per scacciare con la paura lřassedio, per dire andate via, con i fantasmi che lo stringono in<br />

amore e voglia di non sollevare mai più i polmoni a chiedere spasmodici respiro, a qualunque scoria<br />

e memoria, che pure sogna e prova desiderio, tanto che adesso è solamente cenere il suo fiato e, per<br />

preparare la venuta del suo sogno e la discesa sulla terra di quel mostro sogghignante che chiama<br />

balbettando e dice che è il suo amante meraviglioso cřè unicamente questo a moř di litania, e lecca<br />

allora comunque la sabbia per vedere ciò che è vero delle grafie dipinte, del poco che ricorda,<br />

sperando di scannare il disegno scomposto, piegato a cicatrice, che lo opprime nel profondo, vomita<br />

la sabbia appena ingurgitata, fa sorridere, scintillano allřaprirsi, le due palpebre sfiorate contro un<br />

bordo affilato di conchiglia, oppure siano, stavolta appena più distanti, prati in numero immenso,<br />

costellati di chiazze alberate dietro le quali può celarsi ogni ignota minaccia, ogni odiare lřumano<br />

che lřuniverso sa ospitare nel ventre generoso, ma forse non ha colpa se reitera così anche lui per<br />

sempre o molto a lungo a moř di litania così, che per il fatto di concepire disordinata una tale fedeltà<br />

al mondo, lui dice allora che sta comunque uscendo, benché le condizioni atmosferiche non siano<br />

per nulla favorevoli, di tutto questo cosa si può dire, tanto che dopo qualche giorno di schiarita il<br />

293


294<br />

tempo sembra stia volgendo nuovamente al peggio, e tornerà ancora e ancora a camminare su quella<br />

spiaggia solida e lucente di una sabbia grigia e verso i bordi dolce e ambrata, che anche sia lřunica<br />

cosa che fa regolarmente, sia tracciata allora dalla linea del nadir come unřesplosione di fuochi<br />

artificiali la curvatura della terra e il sole, il drago enorme, che sia compassionevole e che volga su<br />

di lui la lingua di fiamma schiantata verticale sulle onde, rutilante di sconcertata indifferenza alla<br />

sorte od allřetà futura, un odio di calmare la volontà di morte, e sia con lui per lřattimo brevissimo<br />

di ogni quando si fa la rivoluzione, di sempre quando lřattirarsi lřuno allřaltro dei pianeti copre di<br />

una tenebra percorsa da schiocchi e sussurrii taglienti, sottili e quasi inesistenti un emisfero, un<br />

qualunque punto, un margine, una cresta della vita che incide ignaro ognuno per portare, alla<br />

prossima stagione, nuova pioggia a questa pioggia, cenere alla grandine, lampi che infanghino il<br />

buio, maschere rutilanti in un immenso circolo di ghiaccio, ed è già stato detto che la chiama la<br />

venuta dellřamante meraviglioso, la invoca ogni mattina, mostra che veramente lui ci crede. con<br />

voce spezzata soggiunge che non si tratta della morte, no, ma che sarà soltanto un semplice, un<br />

autentico amante,<br />

vero corpo conoscente<br />

per via della sua propria carità mortale.<br />

Notizia.<br />

Andrea Raos (1968) ha pubblicato Discendere il fiume calmo, nel Quinto quaderno italiano<br />

(Crocetti, 1996, a cura di Franco Buffoni), Aspettami, dice. Poesie 1992-2002 (Pieraldo, 2003),<br />

Luna velata (Marsiglia, cipM Ŕ les comptoirs de la nouvelle b.s., 2003), Le api migratori (Salerno,<br />

Oèdipus Ŕ collana Liquid, 2007) e I cani dello Chott el-Jerid (Milano, Arcipelago, 2010).<br />

294


Viviana Scarinci<br />

Datazione del mondo normale<br />

27 agosto<br />

questo continuare negli occhi<br />

che purezza rifulgeva<br />

questo chiamare in viso occhi<br />

che purezza resisteva<br />

a parità di sguardo<br />

una sperequazione insostenibile<br />

la dinamica del sentire<br />

piombata da mille spaventi<br />

lřindifferenza che fa il viso<br />

lřindifferenza che fanno le parole<br />

stando ferme al loro stame<br />

se io fossi te amerei, farei solo lřatto<br />

che fosse sbagliando sapendo solo alla cieca<br />

il movimento inabissato<br />

il fondale vivente<br />

una spanna dřaria<br />

*<br />

28 agosto<br />

dice che oggi le cose sono procedute<br />

per proclami di quello<br />

che le spinge a essere Dice che<br />

rinunciare le rende cattive<br />

e non rinunciare le rende così vigliacche<br />

da avvilirti di più<br />

lřimpotenza serve correnti<br />

danza in vena mobilissima la sua luce<br />

processa una furia oculata, un fittone<br />

capace di raggiungere il cuore della terra<br />

e toccarlo per avvelenarsi<br />

senza scampo lřamore<br />

è meno vivente, recede<br />

la sua prudenza millimetrica<br />

infondo a molte cose che non si sanno<br />

e si riconoscono così sole da vedersi per prime<br />

*<br />

295<br />

295


29 agosto<br />

la reazione solforica<br />

muove la scena<br />

per grandi blocchi<br />

tirarsi appresso<br />

un bambino ammutolito<br />

è come vagare sentendo<br />

un lontano bisogno<br />

di tornare dal viaggio<br />

in cui lo perdevi<br />

rifiutare dividere<br />

negare catalogare<br />

arrestare un attimo prima<br />

di avere capitolato<br />

passare da qui, mantenere<br />

segreta e covata esattezza<br />

nellřerrore<br />

*<br />

5 settembre<br />

questa datazione del mondo normale<br />

questo millimetrarsi in corpo<br />

altezze elargite dal caso<br />

la fausta intolleranza<br />

delle procure che mi affliggi<br />

scegliendomi ogni volta il nome<br />

io condanno<br />

e somministro la procura<br />

di crederti fino<br />

lřinesistenza del dono:<br />

credere allřinnocenza<br />

di non crederti innocente<br />

rispondere di credere creduta sempre<br />

quellřinnocenza<br />

averla creduta riparare qualcosa<br />

di fondo in opera con lřinnocenza<br />

del non innocente<br />

credere con calma ai segni<br />

che la inesistono e al suo preciso<br />

essere illogica che non può<br />

296<br />

296


essere solo specchiarti<br />

questa mancanza alle pratiche<br />

deve essere innocente<br />

una specie di fiotto che deduce importanze<br />

da una derrata commestibile<br />

i Campi Elisi di una libagione invenduta<br />

dove ci troviamo alle volte<br />

armati, a non bere<br />

*<br />

10 settembre<br />

cerco un luogo<br />

compatibile a questo consumo<br />

come un cancro adattabile<br />

alla quiete di unřingiuria motivata<br />

il pochissimo male che conservo<br />

guantato nello sterno effigia<br />

ogni respiro e non<br />

è facile allřesproprio questo<br />

lessico che unge lřarnese<br />

la vulva bianchissima e aneddotica<br />

delle fiabe promesse al macello<br />

*<br />

18 settembre<br />

pensavo di coglierti<br />

lřesattezza ricolma di espedienti<br />

pesavo il flusso invisibile<br />

esposto dentro, rivolto a filo<br />

intessuto contrariamente<br />

giacché lo vedessi inviolato<br />

esistente in ovvie perifrasi<br />

di cui il sogno era<br />

una cartina di tornasole<br />

lřeclissi di un conio avvenuto<br />

in tua assenza credula<br />

*<br />

18 settembre<br />

le loro persone per quanto esseri<br />

di convinta dolenza le vedo esistere<br />

non rinunciare lo scarto alterno<br />

le cose, lřaria che le trapassa<br />

297<br />

297


e le fa sospirose mietiture<br />

larvali giacenze non in atto la genesi<br />

delle cose, non ancora cose dette<br />

compiaciuti assemblaggi<br />

di là dallřaltrove che le esiste pur non<br />

esibendole in immensa parte<br />

e sopravvivendole discordi<br />

*<br />

18 settembre<br />

lřarmonia è confitta al segno<br />

violaceo, al livore frammisto<br />

lřalterco che picchia il capo<br />

contro lřuscio, come fosse lřosso<br />

smagato del corpo senza mente<br />

che assottiglia il varco tra i mondi<br />

*<br />

18 settembre<br />

capisco che è un fatto<br />

non vedersi che una particella<br />

della propria dimensione<br />

pulviscolari un miglio<br />

di netta percorrenza<br />

affabulate le direzioni<br />

sovrastanti lřudibile, invasati<br />

da un assunto stento, nominali<br />

*<br />

18 settembre<br />

ogni giorno è il tuo romanzo invisibile<br />

un effluvio lento che tornisce sagome<br />

viaggia nel riposto mentre vara questa luce<br />

298<br />

Notizia.<br />

Viviana Scarinci è nata nel 1973. Le sue poesie e prose sono state pubblicate su Nuovi Argomenti,<br />

Ali, La rivista Filosofi per caso , Atelier, Gradiva, Capoverso, il Segnale, Tratti. Fa parte della<br />

redazione del blog collettivo ŖViadellebelledonneŗ. È fondatrice insieme a Maria Roncacci e<br />

Tiziana Galanti dellřAssociazione culturale PoEtica. Gestisce con Monica Maggi il caffè letterario<br />

della Libreria Libra. Il suo sito web personale è http://vivianascarinci.wordpress.com.<br />

298


Fabio Teti<br />

Hic<br />

et on sait non on ne sait rien<br />

S. Beckett<br />

299<br />

299


*<br />

essendo poi lo stesso non sapere che sostanzia<br />

i materiali e scarsi nessi della frase fase dove lřanno<br />

non è quello e lui spalanca scatola in cui tiene<br />

plastica ocra dei soldati, trovata<br />

vuota, trovate anzi alcune<br />

parti di neviera<br />

lacune acacie poi la zucca<br />

cava marcia coi barbieri<br />

che in latino gli stenagliano<br />

via i denti Ŕ<br />

il solo fosforo vicino è alle lancette,<br />

quando si sveglia. continua la torsione della faglia.<br />

continua questa guerra<br />

dřipotetica frizione con la guerra<br />

*<br />

le dette in maggio, da Tauber,<br />

ripeti: a ogni estremità del corridoio.<br />

ripeti: a ogni estremità del corridoio<br />

cřera un dentista. ripeti: cřera un dentista<br />

che strappava dai corpi. ripeti:<br />

che strappava dai corpi<br />

i denti dřoro. Ŕ e queste<br />

in questo, tenère, e le altre;<br />

viale con coppie,<br />

sopra; con molte lu<br />

*<br />

no, se anche così è un coprire,<br />

se ne fai cosa di parole da una striscia<br />

di garza, dalle tue troppe ore al giorno di sono,<br />

e inascoltato il vuoto, occupato per fare<br />

che nulla accordi a nulla il<br />

moto, e «è dato il posto che<br />

è dato», carbonio stia<br />

serrato ad altro, carbonio Ŕ<br />

né fare dire dopo visti<br />

lei una lui uno (ora posarle<br />

lřorecchio sul ventre):<br />

che lì la banca li guarda;<br />

e che nel gastro<br />

le stragi<br />

...<br />

*<br />

300<br />

300


cřè un qui e il qui conta, è contratto, un<br />

da dove. Ŕ ratta sognata, da günther, diceva:<br />

«cřera». pure è ridisposta come ogni e va rifatta<br />

la struttura del risveglio Ŕ seguìto è il gas dove porta<br />

lřarco azzurro poi arancio<br />

lungo i quattro minuti della moka Ŕ<br />

stanno pesci con in bocca<br />

occhi staccati dal nervo<br />

nello spazio non è chiaro<br />

cosa chiamino a vedere<br />

ma un lavoro, ha imparato,<br />

è consentirne la<br />

presenza<br />

...<br />

*<br />

può trattarsi di descrivere i chilometri tra il sonno<br />

e il lavoro vanno storti dentro il buio dellřanamorfosi<br />

un problema è smentire la svelta cifra di<br />

rewind Ŕ li alludono; vedi in strada<br />

quanto fanno i cerchioni, sai chřè il moto<br />

di rotazione apparente: ciò sta a dire<br />

solo questo è più importante del punto<br />

da cui sporgi la visione: se passato, secondi, lřincrocio<br />

dovřè visto nel nero del vetro del suv<br />

quello dietro avvolto in lerci, panni, pian-<br />

tate testa e braccia nel bidone<br />

– se tu ti eri piegato per<br />

specchiarti<br />

...<br />

*<br />

storpiàti,<br />

nel modo di frainteso che<br />

muri metri che hanno dentro il versamento,<br />

e non lo hanno, di altri metri Ŕ e loro «andare e rivolvere,<br />

molte cose» e ad un istante «non vedi,<br />

sono fabio» Ŕ ma ha ragione:<br />

trovata foiba, foiba compresa<br />

ora nel proprio del nome, e<br />

non tenere di quello. (niente,<br />

lei alzata, dormendo, si è alzata,<br />

301<br />

301


«che fai qui», ti chiede,<br />

e le sclere:<br />

«che tu qui non dovresti esserci» Ŕ<br />

e avesse detto, certo, avesse invece<br />

detto essere cosa avresti poi potuto<br />

obiettare<br />

*<br />

o lřha calato, da mano a spalla nella gola;<br />

trovando il fondo, no, trovato il tenero dovřera<br />

quella, dovřera lřunghia, e scuro il fóndaco, ecco,<br />

coi seviziati… (cosa serrata nel cranio, fai non sedata).<br />

[ nome, anche diceva, è dopo grumo<br />

di sangue di carne, e ricevuto: e il ricevuto<br />

no, suo andare identico, murato,<br />

da un archivio a un archivio,<br />

e architettando: pareti, per scorte,<br />

poi scarti, parnasi: panneggi<br />

buoni, sapendo, al non sapere…<br />

[ la cava cavia invece che puoi farne,<br />

fra uno e uno: che tiene<br />

aria, dentro;<br />

che attraversata<br />

*<br />

qui le parole dallřafelio Ŕ sì il sole a filo<br />

sui parchimetri. possono andare, passare asciutti<br />

sopra asfalto i passi Ŕ quello che fanno<br />

è delocato, calce su chiostre, costati,<br />

le zolle zeppe dove esplodono,<br />

bruciando, brucando i vermi quelle<br />

sparse, caviglie parti, su terreno Ŕ tutto levato,<br />

spostato tutto. cioè pure lřafelio è tolto: niente deporre<br />

la versione, della lepre, quellřemisfero,<br />

la retina è costretta a travisare,<br />

per vedere, a fare il vero con<br />

distorcere, con incistare ora nellřaria<br />

il proprio poltergeist, la macchia<br />

cieca lì dal margine di nero e accade adesso:<br />

le buste in terra hanno una storta<br />

in epiteli, di scuoiati Ŕ è il malinteso,<br />

il male inteso, Ŕ se serve<br />

(e serve) serve a<br />

questo<br />

*<br />

302<br />

302


farlo passare, non è di antère, qui se con dire<br />

«io è una fistola» è slittato un altro marzo nel marzo,<br />

a insanguinare; frasi hai da questi, passi sul viale,<br />

mentre sei dentro: che baciano una testa mozzata di cane,<br />

che ingoiano una cruda carne morta di cane Ŕ<br />

è la lacuna dove li hanno-hai adunati,<br />

sulla sabbia, in ginocchio: se<br />

te non specchia il vetro rotto<br />

che con gomito, o pietra; né<br />

lascia dire la parola «abitacolo»<br />

la midriasi trascinata<br />

in pieno giorno<br />

...<br />

303<br />

NdA. Lřarticolo di Elena Dusi è stato pubblicato su Repubblica.it il primo febbraio del 2011, nella<br />

sezione «Scienze». | «le dette in maggio, da Tauber»: Henryk Tauber Ŕ immatricolato con il n°<br />

90.124 nel KL Auschwitz, dove giunse dalla prigione Montelupich di Cracovia il 19 gennaio del<br />

ř43 Ŕ rese una deposizione davanti alla Commissione dřinchiesta sui crimini nazisti in Polonia il 24<br />

maggio 1945 a Oświęcim. Traggo le sue parole da Testimoni della catastrofe. Deposizioni dei<br />

prigionieri del sonderkommando Auschwitz-Birkenau, a c. di Carlo Saletti, Ombre corte, 2004. |<br />

«andare e rivolvere, / molte cose»: Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore. | «günther» è il<br />

Günther Grass di Die Rattin (La Ratta, Einaudi 1987), ma è possibile leggervi in filigrana la figura<br />

di Günther Anders.<br />

Notizia.<br />

Fabio Teti è nato a Castel di Sangro il 17/12/1985. Attualmente, vive e studia a Roma. È redattore<br />

di «eexxiitt» e di «GAMMM», collabora inoltre a «puntocritico» e a «Poesia2.0». Suoi testi sono<br />

apparsi e sparsi on-line («Nazione indiana», «La dimora del tempo sospeso», «puntocritico»,<br />

«ESCargot», «eexxiitt», «Absolute Poetry») e su riviste («Semicerchio», «Sud», «Allegoria»). Le<br />

poesie qui presentate fanno parte del lavoro in fieri Nel malintendere (2007- ... ).<br />

303


I TRADOTTI<br />

304<br />

304


John Ashbery<br />

Da Cento domande a scelta multipla<br />

1. Il pensare può contribuire a risolvere i problemi perché<br />

A) i problemi esistono solo nella mente<br />

B) i problemi devono essere presi sul serio<br />

C) la mente trionfa sulla materia<br />

D) non pensare equivarrebbe a ignorare il problema<br />

E) comunque nessun problema può essere risolto del tutto<br />

F) è nostro dovere pensare un modo nostro per cavarci dai problemi<br />

2. Nella frase ŖHo passato le vacanze in montagnaŗ la parola Ŗmontagnaŗ è il<br />

A) soggetto<br />

B) predicato<br />

C) sostantivo<br />

D) verbo<br />

E) gerundio<br />

F) nessuna delle precedenti<br />

3. Cristoforo Colombo si servì di un uovo per provare che la terra è rotonda perché<br />

A) lřuovo è rotondo<br />

B) un uovo dà un senso di rotondità<br />

C) le uova non sono rotonde ma ellissoidali<br />

D) lřuovo è un oggetto familiare<br />

E) le uova si possono reperire sulle navi<br />

F) lřuovo è venuto prima<br />

4. Una falange è<br />

A) un gruppo di uomini<br />

B) un idolo egizio<br />

C) un termine che denota forza militare<br />

D) un partito politico<br />

E) una pianta che si trova in zone paludose<br />

F) una promessa che si fa a se stessi<br />

19. Se una libbra di Ŗmisto nociŗ è costituita da due once di noci, quattro once di nocciole, dal 20%<br />

di noci brasiliane e per il resto da noccioline americane, quante once di noccioline americane ci<br />

saranno?<br />

A) una<br />

B) 1½<br />

C) 1¾<br />

D) 2<br />

E) 2½<br />

F) 2¾<br />

43. Loro sarebbero spesso stati morti perché<br />

A) noi non siamo loro<br />

B) noi non loro<br />

C) della Ŗtremenda veritàŗ<br />

305<br />

305


D) non ci si poteva fidare di loro<br />

E) non mangiavano abbastanza<br />

F) la biografia ne enuncia il motivo<br />

44. ŖDuroŗ e/o Ŗbagnataŗ possono anche voler dire<br />

A) succoso<br />

B) esoterico<br />

C) triviale<br />

D) pomposo<br />

E) il quinto cavaliere<br />

F) monolitico<br />

60. McLuhan ŖLřarte è qualsiasi cosa con cui si riesca a farla francaŗ è per<br />

A) Marshall McLuhan<br />

B) ci si è chiesti<br />

C) sopra la casa<br />

D) performance<br />

E) performance espiare<br />

F) a un nuovo tasso<br />

70. Un problema per gli astronauti del futuro sarà<br />

A) lřigiene<br />

B) amici del cielo<br />

C) eccessiva perdita di peso dovuta alle radiazioni<br />

D) Ŗperdita dello spazioŗ<br />

E) la monotonia dei viaggi spaziali<br />

F) lřeccessiva eccitazione dei viaggi spaziali<br />

71. M è P, M è S, quindi S è<br />

A) S<br />

B) M<br />

C) P<br />

D) M più S<br />

E) MS 2<br />

F) P più M<br />

72. Il diritto di perquisizione è prerogativa esclusiva di<br />

A) belligeranti<br />

B) poliziotti<br />

C) sottufficiali<br />

D) attualmente sconsidera<br />

E) scritt promissoria<br />

F) promiscuità<br />

73. Un rallo gigante (Aramus guarana, un pesce) è un<br />

A) mutuo a lunga scadenza<br />

B) tra binari e aquiloni<br />

C) più che morto per strada<br />

D) marsupio<br />

E) rallo gigante (Aramus pictus, un uccello)<br />

F) appuntamento galante andato a monte<br />

306<br />

306


92. La gente fa domande su<br />

A) la crisi dřidentità<br />

B) nuovi materiali<br />

C) la sbalorditiva sovrappopolazione<br />

D) lřinondazione del casello autostradale<br />

E) le due stelle di valutazione<br />

F) una panchina solitaria<br />

94. eppure le vecchie consuetudini prevalgono ancora<br />

A) in altra città<br />

B) per abitudine<br />

C) perché loro sono riconoscenti<br />

D) Ŗlřobglobina delle piccole mentiŗ<br />

E) per il fattore personale<br />

F) per lřorigine indeterminata<br />

95. In realtà uno su 3 preferisce unřaltra ragione con cui convivere in<br />

A) armonia<br />

B) stato sociale<br />

C) dimora rupestre<br />

D) pace<br />

E) prosperità<br />

F) lunga amicizia<br />

100. se il disordine è sgominato, e così è<br />

A) il nuovo campidoglio di stato<br />

B) mini-ranch<br />

C) razzo per la luna<br />

D) in altre nazioni<br />

E) oltre il confine di stato<br />

F) nei vecchi ricordi<br />

[Versione di Damiano Abeni con Moira Egan]<br />

Notizia.<br />

Una notizia bibliografica completa sullřautore è leggibile su: http://en.wikipedia.org/wiki/John_Ashbery.<br />

307<br />

1970<br />

307


Francis Catalano<br />

Da Romamor<br />

Splendeur des yeux dessillés<br />

qui à l'obscurité s'habituent,<br />

il règne dans cette pièce une grandiose<br />

nuit d'encre, j'y trempe mes mots<br />

jusqu'à la racine afin<br />

que les objets familiers graduellement<br />

se hissent, réintègrent leur place,<br />

tremblants et friables<br />

comme le matériel d'une archéologie<br />

mentale, du silence remué.<br />

Splendore degli occhi aperti<br />

che sřabituano allřoscurità,<br />

in questa stanza regna una grandiosa<br />

notte dřinchiostro, in cui intingo le mie parole<br />

sino alla radice<br />

perché gli oggetti familiari gradualmente<br />

si alzino, tornino al loro posto,<br />

tremanti e friabili<br />

come il materiale di unřarcheologia<br />

mentale, del silenzio smosso.<br />

*<br />

Depuis le rectangle de la chambrette<br />

j'observe la poussière<br />

de la fenêtre se déposer,<br />

ensevelir mes pieds dessinés sur le marbre.<br />

Les ruines sont ce qu'elles sont :<br />

d'hier et d'aujourd'hui, miennes.<br />

Dal rettangolo della cameretta<br />

osservo la polvere<br />

posarsi dalla finestra,<br />

seppellire i miei piedi disegnati nel marmo.<br />

Le rovine sono quel che sono:<br />

di ieri e di oggi, mie.<br />

308<br />

Jouir une seule minute de vie initiale<br />

je cherche un pays innocent<br />

Giuseppe Ungaretti<br />

Jouir une seule minute de vie initiale<br />

je cherche un pays innocent<br />

Giuseppe Ungaretti<br />

308


*<br />

Huit octobre de l'an 2749 de Rome,<br />

tirer les volets verts à claire-voie<br />

et tout à coup, d'un même<br />

geste vif voir s'immiscer le jour,<br />

son éclat entier, les objets<br />

comme renaissant de la netteté de leur galbe,<br />

l'image de son exacte définition.<br />

Aussi, croire un instant être<br />

l'œil source de tout excès, toute clarté.<br />

Otto ottobre dellřanno 2749 di Roma,<br />

spalancare le persiane verdi<br />

e dřun colpo, con un solo<br />

gesto vivo vedere il giorno intromettersi,<br />

nel suo pieno splendore, gli oggetti<br />

come rinascessero dalla nettezza del loro profilo,<br />

lřimmagine dalla sua definizione esatta.<br />

Quindi credere per un istante<br />

che lřocchio sia la sorgente di ogni eccesso, di ogni chiarezza.<br />

*<br />

Vus d'en bas les toits de tuiles<br />

incurvées ont l'aspect flou<br />

du homard au fond de l'eau, sa vulnérabilité,<br />

sa couleur terre cuite,<br />

d'ici on dirait qu'au moindre péril<br />

ce qui abrite s'abrite aussi.<br />

Au pied de la fixité, au pas des portails,<br />

les antennules les voir<br />

courber, plier, tendre dans l'onde<br />

sens dessus dessous<br />

alors qu'à l'aube des premières émissions<br />

les antennes télé se frôlent<br />

là-haut sur des toitures.<br />

Visti dal basso i tetti di tegole<br />

incurvati hanno lřaspetto sfocato<br />

dellřaragosta sul fondo dellřacqua, la sua vulnerabilità,<br />

il suo color terra cotta,<br />

di qui si direbbe che al minimo pericolo<br />

anche ciò che protegge si protegga.<br />

Ai piedi della fissità, al passo dei portali<br />

vedere le antennule<br />

curvarsi, piegarsi, tendersi nellřonda<br />

sottosopra<br />

quando allřalba delle prime trasmissioni<br />

309<br />

309


le antenne Tv si sfiorano<br />

là in alto sui tetti.<br />

*<br />

Si le corps vraiment renferme<br />

des sentes de nerfs, d'artères,<br />

des kilomètres de veines<br />

et de veinules, une mer de globules,<br />

vaisseaux et sondes,<br />

si pour remplir une citerne<br />

ou affluer dans l'oreille<br />

suffit le sang d'un seul corps<br />

alors Venise ou l'Asie sont à portée de main<br />

et Vénus attend au bout du pont<br />

un don d'organe.<br />

Se davvero il corpo contiene<br />

sentieri di nervi, di arterie,<br />

chilometri di vene<br />

e venuzze, un mare di globuli,<br />

vascelli e sonde,<br />

se per riempire una cisterna<br />

o affluire allřorecchio<br />

basta il sangue di un solo corpo<br />

allora Venezia o lřAsia sono a portata di mano<br />

e Venere attende in fondo al ponte<br />

una donazione dřorgani.<br />

*<br />

Les églises sont les tendons mystiques<br />

d'une ville, leur corps<br />

au repos et ce matin j'entre dans celui,<br />

affaibli, échafaudé, de San Francesco<br />

a Ripa à Trastevere.<br />

Dans une chapelle, au fond<br />

gît le marbre de Ludovica Albertoni.<br />

Elle est là, blanche, étendue,<br />

vouée à une calme félicité,<br />

sa main droite offrant le sein, le pressant presque,<br />

une invite à un amour licencieux.<br />

M'approcher, glisser sur les plis<br />

de sa robe, l'envie de lécher<br />

le marbre, mordre,<br />

moi, agent érosif de l'immuable.<br />

Le chiese sono i tendini mistici<br />

di una città, il loro corpo<br />

310<br />

310


a riposo e questa mattina entro nel corpo<br />

indebolito, coperto d'impalcature,<br />

di San Francesco a Ripa in Trastevere.<br />

In una cappella, sul fondo<br />

giace la statua di marmo di Ludovica Albertoni.<br />

Lei è là, bianca, distesa,<br />

votata ad una calma felicità,<br />

la mano destra che offre il seno, quasi lo spreme,<br />

un invito a un amore licenzioso.<br />

Avvicinarmi, sfiorare le pieghe<br />

della sua veste, la voglia di leccare<br />

il marmo, mordere,<br />

io, agente erosivo dellřimmutabile.<br />

*<br />

Mon regard se pose, distrait<br />

sur l'énorme fenêtre panoramique<br />

et j'aperçois, au bas,<br />

à l'angle gauche du rectangle<br />

teinté cet étrange reflet de mon visage,<br />

immobile, surprenant,<br />

conforme à ces toiles du Titien,<br />

Carpaccio, Tintoret,<br />

où un personnage en premier plan<br />

détaché de la scène<br />

nous fixe du regard,<br />

créant une distance, l'inconfort<br />

presque d'un voyeur vu,<br />

d'un voleur démasqué.<br />

Il mio sguardo si posa, distratto<br />

sullřenorme finestra panoramica<br />

e percepisco, in basso,<br />

sullřangolo sinistro del rettangolo<br />

colorato questo strano riflesso del mio viso,<br />

immobile, sorprendente,<br />

conforme a quelle tele di Tiziano,<br />

Carpaccio, Tintoretto,<br />

dove un personaggio in primo piano<br />

staccato dalla scena<br />

ci fissa con lo sguardo,<br />

creando una distanza, quasi<br />

il disagio di un voyeur visto,<br />

di un ladro smascherato.<br />

*<br />

L'appareil photo que je trimballe<br />

en bandoulière est un virus,<br />

311<br />

311


parasite pathogène, troisième<br />

paupière pendante<br />

qui voile et dévoile le deuil,<br />

à bout de calli, pellicule tendue sans fin<br />

entre les nerfs de l'œil.<br />

La macchina fotografica che mi trascino<br />

a tracollo è un virus,<br />

parassita patogeno, terza<br />

palpebra pendula<br />

che vela e disvela il lutto,<br />

in fondo alle calli, pellicola tesa senza fine<br />

tra i nervi dell'occhio.<br />

*<br />

Étroite cité, œil baignant<br />

dans le formol,<br />

poisson soustrait à son habitat<br />

et arrosé régulièrement,<br />

ville-paupière ouvrant sur un campo<br />

ou un campiello<br />

puis s'abaissant sur les calli,<br />

callesselle ou fondamenta<br />

tel un regard plissé<br />

qui scrute au loin.<br />

Stretta città, occhio immerso<br />

nella formalina,<br />

pesce sottratto al suo habitat<br />

e irrorato regolarmente,<br />

città-palpebra che si apre su un campo<br />

o un campiello<br />

poi si abbassa sulle calli,<br />

calleselle o fondamenta<br />

come uno sguardo corrugato<br />

che scruta lontano.<br />

(da: F. Catalano, Romamor, Écrits des Forges, Trois-Rivières, Québec, 1999)<br />

[Traduzione di Italo Testa]<br />

312<br />

Notizia<br />

Francis Catalano è nato a Montreal nel 1961 da padre italiano e madre franco-canadese. Poeta e<br />

traduttore, ha pubblicato Qu‟une lueur des lieux (2010, Premio Quebecor del Festival Internazionale<br />

312


313<br />

della poesia di Trois-Rivières e finalista al Premio del Governatore generale del Canada). Tra gli<br />

altri titoli : Panoptikon (2005), M‟atterres (2002), Index (2001) et Romamor (1999). Con<br />

Didascalie per la lettura di un giornale/Instructions pour la lecture d‟un journal di Valerio<br />

Magrelli, ha vinto il Premio di traduzione John-Glassco 2005. Ha tradotto Yellow di Antonio Porta<br />

(2009) e altri autori italiani, in particolare per la rivista online lyrikline.org. Redattore della rivista<br />

di poesia « Exit », ha curato con Marco Giovenale e Laura Pugno una microantologia della poesia<br />

italiana dal titolo 63-93 e oltre (2005) e Le voci non dormano mai, numero dedicato alla poesia<br />

catalana (2010).<br />

313


Kurt Drawert<br />

314<br />

Kurt Drawert (Hennigsdorf, Brandeburgo 1956) ha fatto studi tecnici e umanistici a Dresda e<br />

a Lipsia. Nel ř93 si è trasferito allřOvest, prima a Brema poi a Darmstadt, dove ora risiede.<br />

Esordisce nella poesia nellř ř87, allřEst, con Zweite Inventur (Secondo inventario). Appartiene<br />

come Durs Gruenbein e Barbara Kohler a una generazione cresciuta allřEst con la coscienza di<br />

avervi appreso una lingua Ŗcolonizzataŗ, e saldo resta il suo legame coi ritmi della grande tradizione<br />

lirica tedesca otto- e novecentesca. Eř anche saggista e ha ottenuto prestigiosi premi nazionali come<br />

il Leonce und Lena, lřIngeborg Bachmann, lřUwe Johnson e il Nikolaus Lenau. Del 2008 è il<br />

romanzo Ich hielt meinen Schatten fuer einen andern und gruesste (Ho preso la mia ombra per<br />

unřaltra e lřho salutata) dove la figura di Kaspar Hauser, nota anche dal film di W. Herzog, diventa<br />

simbolo del nostro salto dallř Ŗetà della pietraŗ a unř Ŗera glaciale.<br />

Unřantologia delle Ŗpoesie di tre decenniŗ, Idylle, rueckwaerts, è uscita da Beck, Monaco<br />

2011. In italiano è apparsa solo la raccolta Collezione di primavera (Scheiwiller, Milano 2006, con<br />

testo a fronte, trad. di Anna Maria Carpi).<br />

I testi che qui offriamo sono recenti e da noi ancora inediti.<br />

1<br />

Vom Ende der Poesie<br />

Jedes Gedicht, sagte Herr Müller<br />

von der HypoVereinsbank,<br />

ist ein Schuldschein,<br />

und Sie schreiben zuviel.<br />

Ich also hängte diesen Teil<br />

meines Lebens<br />

wie an einen Haken für Schweine.<br />

Della fine della poesia<br />

Ogni poesia, diceva il signor Rossi<br />

dellřUnicredit,<br />

è una cambiale,<br />

e lei scrive troppo.<br />

Io perciò appesi questa parte<br />

della mia vita<br />

come a un gancio per i maiali.<br />

2<br />

Im Garten<br />

Als ich den Garten verließ,<br />

waren die Pflaumen noch sauer.<br />

Als ich zurückkam, ein Paradies<br />

für die Maden. Zwar blauer,<br />

doch innen schon faul. Ging ich<br />

zu früh? Kam ich zu spät?<br />

314


Die Früchte, die die Liebe sät,<br />

sie reiften gut, auch ohne mich,<br />

und ich weiß nicht, wie wunderbar,<br />

so jung, so schön, so frei von Schuld,<br />

was ich verlor durch Ungeduld,<br />

zu haben später war.<br />

So geht es hin, und leer, das Glück.<br />

Was bleibt, allein, ist Mißgeschick.<br />

In giardino<br />

Quando io lasciai il giardino<br />

le prugne non erano mature.<br />

Quando tornai, un paradiso<br />

per i vermi. Sì, più azzurre,<br />

ma dentro già marce. Ero partito<br />

troppo presto? Troppo tardi arrivato?<br />

I frutti che lřamore semina<br />

maturano anche senza di me,<br />

e io non so comřera splendido,<br />

così giovane, bello, così innocente<br />

ciò che perdetti per impazienza Ŕ<br />

averlo più tardi.<br />

Così passa, così vuota la felicità.<br />

Ciò che resta è solo malasorte.<br />

3<br />

Nach dem Sommer<br />

Vom letzten Mieter<br />

hängt noch das Schild<br />

an der Haustür, rostig.<br />

Überall fällt Gold<br />

aus der Fassung,<br />

splittert der Marmor.<br />

Auch gestorben<br />

wird schneller,<br />

als im vergangenen Jahr.<br />

Keine Mahnungen mehr,<br />

keine Anmeldezeiten,<br />

es muß gespart werden.<br />

315<br />

315


Der September lügt nicht.<br />

Wir winken<br />

in Richtung Süden,<br />

halten die Pässe im Anschlag.<br />

Zum Abfall<br />

kehren wir die Blüten.<br />

Dopo l’estate<br />

Dellřultimo inquilino<br />

resta ancora la targa<br />

fuori, sulla porta, arrugginita.<br />

Dappertutto piove oro<br />

dalla cornice,<br />

il marmo si scheggia.<br />

Anche a morire<br />

si fa più presto<br />

che lřanno passato.<br />

Niente più divieti,<br />

niente avvisi,<br />

bisogna risparmiare.<br />

Il settembre non mente.<br />

Noi salutiamo<br />

rivolti a sud,<br />

teniamo pronti i passaporti.<br />

Nellřimmondizia.<br />

spazziamo via i fiori.<br />

4<br />

Matrix Amerika<br />

(Fast alles Lügen, aber das macht nichts.)<br />

Und mein Unglück ist auch kein Unglück,<br />

sondern nur die Summe der verlorenen Tage.<br />

Mein Land war eine Rittmeisterpeitsche,<br />

ein vergifteter Brunnen, Abfall vom Hund.<br />

Ich werde es nicht mehr erwähnen,<br />

ostdeutsch verwundet und westdeutsch<br />

verwaltet, ich habe zu sprechen begonnen<br />

und war sofort allein. Alles ist mit allem<br />

316<br />

316


in keinem Gespräch, wir müssen damit rechnen,<br />

in keiner Sprache mehr verstanden zu werden,<br />

und ein Foto ist die größte aller Lügen.<br />

Meine Frau ist Fotografin. Am Abend kommt sie<br />

in mein Leben zurück. Auf Bildern zeigt sie,<br />

was sie alles nicht sah. Ich erzähle ihr<br />

von meinem Schweigen und lese weiter<br />

in einem fast leeren Buch. Die Seitenzahlen<br />

sind gut übersetzt, das hält mich wach.<br />

„Hast du auch kalte Hände?“, fragt sie<br />

und nimmt einen Schnappschuß<br />

von einer freien Stelle am Himmel. Vieles<br />

ist selten geworden, anderes ganz verschwunden.<br />

„Ja, ich habe auch kalte Hände, aber das kostet<br />

uns nichts.“ Dann, in einem Traum,<br />

wurde ich zum Tode verurteilt<br />

wegen Verleugnung einer Empfindung.<br />

Seitdem warte ich, daß jemand das Herz<br />

mir zerschneidet, sobald er es gefunden hat.<br />

Aber die Liebe ist nur eine Einbildung<br />

der Einsamen, möchte ich sagen, wie das Meer<br />

eine Erfindung der Seefahrer ist.<br />

Wir riechen nur fauliges Wasser,<br />

ein schwerer, säuerlicher Geruch, wie eingelegte<br />

Ochsenschwänze, in China verschifft<br />

und in Lower Manhattan an Land<br />

und an die Börse gezogen, wie Fische<br />

in einem Fangnetz, wie Gefühle in einem Satz<br />

über Gefühle. In der Wall Street höre ich zu,<br />

wie das Geld, ohne je eine Pause zu haben,<br />

arbeitet und arbeitet und arbeitet, ein Ton,<br />

den ich vom Innenraum einer Muschel her kenne,<br />

ein leises, fernes, sehr vornehmes Rauschen,<br />

ein Fluß voller Töne, wie Stockhausen,<br />

317<br />

317


als er in New York sein erstes Konzert gab.<br />

Ich brauche ein Ticket für zweifünfundzwanzig<br />

und hebe von meinen Schulden in der Bundesrepublik<br />

eine Minimalsumme ab. Hinter mir die Feuerwehr,<br />

bereit für den Einsatz, sobald ich einen Brand<br />

legen würde, vor mir die Zukunft, so klein<br />

wie eine Kreditkarte und so bunt wie eine Matratze<br />

aus Pappe (vom Supermarkt Morton Williams<br />

schräg gegenüber). „Have a good time here“,<br />

und dann deckt er sich mit seinen Zeitungen zu,<br />

die ich gern noch gelesen hätte, zum leisen,<br />

vornehmen Rauschen im Financial District.<br />

Matrix America<br />

(Quasi tutto è menzogna, ma non importa)<br />

E la mia infelicità non è poi infelicità,<br />

bensì la somma dei giorni perduti.<br />

Il mio paese era la frusta di un capitano di cavalleria,<br />

una sorgente avvelenata, uno sterco di cane.<br />

Non ne parlerò più,<br />

ferito dallřEst e amministrato dallřOvest<br />

ho cominciato a parlare<br />

ed ero subito solo. Conversazione<br />

con niente, dobbiamo tenere conto<br />

che non siamo più compresi da alcuna lingua.<br />

e una foto è la più grossa delle bugie.<br />

Mia moglie fa la fotografa. La sera rientra<br />

nella mia vita. Su delle foto mi indica<br />

tutto ciò che non ha visto. Io le parlo<br />

del mio silenzio e vado avanti a leggere<br />

un libro quasi vuoto. La numerazione delle pagine<br />

è ben tradotta e mi tiene sveglio.<br />

ŖAnche tu hai le mani fredde?ŗ, mi domanda lei<br />

e fa ancora unřistantanea<br />

318<br />

318


a un punto libero su in cielo. Molte cose<br />

sono diventate rare, altre del tutto scomparse.<br />

ŖSì, anchřio ho le mani fredde, ma non ci costa<br />

niente!ŗ Poi, in un sogno,<br />

ero stato condannato a morte<br />

per dissimulazione di un sentimento.<br />

Da allora attendo che mi affettino<br />

il cuore appena lo trovano.<br />

Ma lřamore è solo una fantasia<br />

dei solitari, direi, come il mare è<br />

unřinvenzione dei naviganti.<br />

Lřunico odore che ci arriva è dřacqua putrida,<br />

un odore pesante, acidulo, come di code<br />

vaccine in conserva, imbarcate in Cina<br />

e sbarcate a Lower Manhattan,<br />

e attratte alla borsa. come pesci<br />

in una rete, come sentimenti in una frase<br />

sui sentimenti. Da Wall Street ascolto<br />

come il denaro, senza far mai una pausa,<br />

lavora, lavora e lavora, un suono<br />

che ricordo, è lo spazio interno di un conchiglia,<br />

un fruscio sommesso, lontano, molto nobile,<br />

un flusso di note suo come in Stockhausen<br />

quando diede a New York il suo primo concerto.<br />

Mi occorre un ticket da venticinque per due<br />

e prelevo dai miei debiti nella Germania Federale<br />

una minima somma. Dietro di me i pompieri<br />

pronti a entrare in funzione non appena<br />

io avessi appiccato un incendio, davanti a me il futuro<br />

piccolo come una carta di credito e variopinto<br />

come un materasso di cartone (dal supermarket Morton Williams<br />

là di fronte, di sbieco). ŖHave a good time hereŗ<br />

e poi si copre coi suoi giornali<br />

che io avrei avuto ancora piacere di leggere nel sommesso<br />

nobile sussurro nel Financial District.<br />

319<br />

319


5<br />

Zwischentext. Liedhaft<br />

Wer nicht läuft, fällt ins Getriebe,<br />

und wer ins Getriebe fällt, ist tot.<br />

Und während ich das schnell notiere,<br />

fährt ein Fahrzeug in der Not,<br />

mich zu verschonen, an die Wand.<br />

Soviel zur Veränderung der Welt<br />

durch Poesie. Hier noch mit Geld<br />

zu regeln und praktischem Verstand.<br />

Doch ebenso ist einzusehen:<br />

wenn jeder aus dem Kreislauf fällt,<br />

weil irgendwo ein Köter bellt,<br />

und andernfalls sich nur bewegt,<br />

was die Bewegung selbst erregt,<br />

ist gut, wir bleiben einfach stehen.<br />

Testo intermedio. Come un lied<br />

Chi non corre cade nellřingranaggio<br />

e chi cade nellřingranaggio è morto.<br />

E mentre io alla svelta me lo noto<br />

un veicolo, costretto a evitarmi,<br />

va a sbattere contro il muro.<br />

Questo è tutto sulla questione se la poesia<br />

cambi il mondo. Da regolare ormai<br />

solo con soldi e intelligenza pratica.<br />

Ma al tempo stesso bisogna convenire:<br />

se ognuno esce dalla circolazione<br />

perché un botolo abbaia da qualche parte<br />

o altrimenti si muove seguendo<br />

solo ciò che il moto stimola da sé Ŕ<br />

va bene, noi restiamo semplicemente fermi.<br />

6<br />

Brighton Beach<br />

für Horst Samson<br />

Immerhin verstehe ich<br />

ein wenig vom russischen Wesen,<br />

und auch kyrillische Schrift<br />

320<br />

320


kann ich lesen.<br />

Aber was ich nicht verstehe,<br />

warum ich die Vergangenheit<br />

in der Gegenwart<br />

als Zukunft sehe.<br />

War das nicht alles<br />

einmal schon,<br />

in ferner Zeit, geschehen?<br />

Und ein Hohn<br />

der Geschichte?<br />

Die gerissenen Wände,<br />

die kalten Hände<br />

der alten Frau am Straßenrand?<br />

Was war das für ein Land,<br />

dem wir entkamen<br />

und das uns dennoch überlebt,<br />

weil alles weiterstrebt<br />

und nur die Form sich ändert?<br />

Ich gebe auf<br />

und werde es nicht wissen.<br />

Allein die Toten<br />

werden uns vermissen.<br />

Brighton Beach<br />

per Horst Samson<br />

Dopotutto io capisco<br />

qualcosa del modo di essere dei russi<br />

e so leggere anche<br />

la scrittura cirillica.<br />

Ma quello che non capisco è<br />

perché al presente vedo<br />

il passato<br />

come futuro.<br />

Non è accaduto già tutto<br />

una volta,<br />

in tempi lontani?<br />

E non una beffa<br />

la storia?<br />

I muri distrutti,<br />

le mani fredde<br />

della vecchia sul bordo della strada?<br />

321<br />

321


Che paese era quello<br />

da cui siamo fuggiti<br />

ma che ci sopravvive<br />

perché tutto tira a proseguire<br />

e solo la forma muta?<br />

Ci rinuncio,<br />

non lo saprò mai.<br />

Soltanto i morti<br />

sentiranno la nostra mancanza.<br />

[Cura e traduzione di Anna Maria Carpi]<br />

322<br />

322


Santiago Elordi<br />

Espero que me invites a tu cumpleaños<br />

(Carta a una reina)<br />

El informe del tiempo anuncia:<br />

ŖFrente frío desde Gales.ŗ<br />

Y sería prudente continuar así:<br />

En mi país nadie lleva corona<br />

Supongo que la montaña, el cielo, el mar<br />

Llevamos los chilenos en vez de una corona<br />

¡Basta de comparaciones!<br />

Tengo un amigo poeta que vive en Cincinnati<br />

Se llama Marcelo Ríoseco y me advirtió:<br />

ŖEn estos tiempos escribirle una carta a una reina<br />

Puede ser insoportablemente romántico.ŗ<br />

Mi amigo que vive en Cincinnati tiene razón<br />

Escribirte debe ser como los niños que juegan con amigos imaginarios<br />

Tiempo de una aclaración indispensable:<br />

Vine a Londres a visitar a mi novia, es una pintora británica<br />

La conocí en Chile, ella vitaba el desierto florido<br />

Lo encontró bello pero volvió a Inglaterra<br />

Mi pintora me ha llevado a museos, desfiles, restaurantes<br />

Los domingos que suelen ser aburridos<br />

Bajamos de su departamento en St. George Square<br />

Improvisamos un bar en un banco del parque<br />

Y les servimos gin and tonic a los vecinos<br />

Llevo un pañuelo de seda en la chaqueta<br />

ŖEstá bien, un pañuelo en la chaqueta<br />

¿Pero de qué se trata esta carta?ŗ<br />

Te estarás preguntando con razón<br />

No sé bien por qué te escribo<br />

Desde que estoy en Londres me siento bien<br />

Primera vez que vengo, llevo apenas una semana<br />

Y ya me gustaría morir aquí<br />

Llegar a tener una de esas placas azules<br />

En una de esas casas<br />

En una de esas casas de Notting Hill que dijera:<br />

Aquí vivió el poeta que le escribió una carta a la reina<br />

¿Qué te parece? Veremos que dice el futuro<br />

El otro día fuimos con mi pintora a una fiesta<br />

En la embajada de Chile<br />

Se celebraban los cien años del nacimiento de Neruda<br />

Me invitaron a leer un poema sobre las piedras<br />

Que se aman entre sí, y esas cosas<br />

No sé por qué me eligieron habiendo tantos poetas mapuches<br />

Que pasean por Europa dando recitales<br />

En todo caso dio lo mismo, nadie escuchó<br />

Mi lectura y todos aplaudieron<br />

Al fondo del salón había un cuadro emblemático:<br />

Una campesina lavando la ropa en un estero<br />

323<br />

323


Mientras un jinete la cortejaba desde su caballo<br />

Una porquería de cuadro costumbrista, sabes<br />

Al menos el jinete podría haberse bajado del caballo<br />

Si agarrar los pechos de la lavandera<br />

Era su intención. Mi amigo Marcelo Ríoseco<br />

Que vive en Cincinnati asegura que<br />

En nuestra historia como exiliados de Europa no ha surgido<br />

Ningún pintor independiente del paisaje<br />

¿El cocktail en la embajada? Empanada & choripanes<br />

No te perdiste nada bueno, mi reina<br />

Y los mismos grupos o bandos de siempre:<br />

En una esquina los artistas barbudos mesiánicos<br />

En la otra los exportadores de paltas a China<br />

Socarrones, arrogantes, más inflados que...<br />

No se me ocurre ninguna metáfora, mi querida reina<br />

Y esos secretarios criticando las monarquías<br />

Y ensalzando la repúblicas<br />

Comentando sobre lo frío que son los ingleses<br />

No sé para qué vienen a tu reino si todo lo critican<br />

¿No te parece? Por ningún motivo pierdo el hilo<br />

Tal vez en el fondo seamos todos ingleses<br />

Y no nos habíamos dado cuenta<br />

Como la niebla que a veces oculta tu palacio<br />

[...]<br />

Mi querida reina, creo que ha llegado el momento de presentarme<br />

Me llamo Santiago y nací en la ciudad de Santiago<br />

Es como nacer en Londres y llamarse Londres<br />

ŖRidículoŗ me dijo esta mañana mi pintora riendo<br />

En Green Park mientras yo perseguía<br />

Un pavo real entre las flores<br />

¿Adivinaste? Pertenezco al bando de los Poetas de la Nada<br />

[...]<br />

ŘSe triunfa por accidente, el resto es arrogancia.ř<br />

Te confieso que este verso no es mío<br />

Es de mi amigo poeta que vive en Cincinnati<br />

¿Lo recuerdas? El que me advirtió<br />

Que escribirle una carta a una reina<br />

Puede ser un peligro romántico<br />

¿Qué hacer o dejar de hacer?<br />

Como los pintores de la corte<br />

Me gustaría pintar con palabras tu retrato:<br />

Pequeñas manos, pequeños pies, mirada astuta<br />

Y una manada de perros falderos<br />

Siguiendo tus pasos por el invernadero.<br />

Como en los paisajes abstractos de Whistler<br />

Velado fluye el Támesis este invierno<br />

La niebla, Londres blanca como una torta de cumpleaños<br />

A propósito de cumpleaños, antes de comenzar esta carta<br />

Hice algunas investigaciones:<br />

El próximo mes cumplirás ochenta<br />

Espero que me invites a tu cumpleaños<br />

324<br />

324


Puedo ir con mi pintora, sabré comportarme<br />

No me tomaré el champagne hasta reventar<br />

No te daré la lata contándote que mi país<br />

Queda al fondo del mundo a la derecha<br />

Que todo se lo debemos al cobre<br />

[...]<br />

Te explico, haber nacido en la América del sur<br />

Obliga a conocer la tradición<br />

Una de las historias que más disfruto<br />

Es la del arzobispo primado de Irlanda, James Usher<br />

Tras realizar un minucioso estudio de las cronologías de la Biblia<br />

En 1650 precisó que el Universo<br />

Había sido creado por Dios<br />

El 22 de octubre de 4004 A.C. por la tarde<br />

La tierra es indiferente y el cielo gira en silencio<br />

Hace unas noches tuve un sueño<br />

Tú y yo navegábamos en una canoa<br />

Por los canales del sur de Chile<br />

Glaciales, selvas heladas, humos en las orillas<br />

De pronto un huracán<br />

Entramos en un remolino<br />

Y no podíamos salir<br />

Entonces extendiste un mantel de encaje liviano<br />

Sobre las olas locas<br />

¡Gracias a ese rito inútil fuimos salvados!<br />

[...]<br />

Se ama el amor y el amor nunca se alcanza<br />

¿Verdad? Lo que se realiza cansa, hastía<br />

Y lo que no se realiza hace sufrir<br />

La aspiración del corazón es algo que no está aquí<br />

¿Dónde está? ¡Horror! Atentados en el metro<br />

Cadáveres arrojados al jardín del Cónsul<br />

Inocentes quemados para hacer hablar a sus madres<br />

La princesa fue asesinada en un túnel de París<br />

Ha sucedido siempre, mi querida reina, que nada te quite el sueño<br />

No escuches las intrigas en los corredores<br />

Revisemos tu tarea:<br />

Ningún barco se hundirá por tu genio<br />

Deja que otro remo agite el agua<br />

En las horas difíciles tus guardias lustrarán sus botas<br />

La institutriz francesa, los fieles gaiteros<br />

Todos sin excepción, no desertarán<br />

Llama a tus asesores, ellos te dirán:<br />

“Duty first self second”<br />

[...]<br />

Te propongo un trato<br />

Pase lo que pase mantén el trono<br />

Que la rosa blanca nunca se marchite<br />

[...]<br />

Permíteme cambiar de tono:<br />

Ya no se trata de llorar porque la poesía<br />

325<br />

325


No volverá más a la naturaleza<br />

Al cielo, al mar, a la montaña<br />

Se trata de que la poesía se acaba<br />

No encuentra lugar en el mundo<br />

Ni dentro ni fuera de las pantallas<br />

Los espacios hoy están tránsito<br />

Aeropuertos, hoteles, Estación Victoria<br />

Hasta en el palacio de Buckingham<br />

La soledad separa el verbo<br />

Como las placas tectónicas los continentes<br />

Entonces el desafío es dejar de escribir<br />

Mantener la mente alerta y hablarles<br />

A los desconocidos en la fila de los bancos<br />

Sobre pintura china, alquimia, música barroca<br />

Sobre si Shakespeare fue realmente un empresario exitoso<br />

No debemos pagar ningún costo por ser poetas<br />

Nadie debiera pagar costos por nada<br />

Hoy los rebeldes llevan pañuelos de seda<br />

¿Me entiendes? Yo sé que me entiendes<br />

Tú debes conocer los pensamientos de Yeats<br />

En ellos se encuentran las claves del tiempo circular<br />

El espíritu sube y baja, se levanta<br />

Destruye como una ola<br />

Ninguna civilización debemos añorar, todo cambia<br />

Vuelve a comenzar, se repite<br />

¿Verdad mi querida reina?<br />

Anoche volví a soñar que flotábamos<br />

Por los fiordos del sur de Chile<br />

Pero esta vez iban unos cuantos más en la canoa<br />

Mi pintora, mis hijos, mi amigo que vive en Cincinnati<br />

Secretarios, guardias de palacio, Poetas de la Nada<br />

Todos los que aparecen en esta carta<br />

En medio del temporal íbamos cantando<br />

[...]<br />

Mi querida reina, esta carta no es un mensaje<br />

Dentro de una botella arrojada al mar, al cielo, a la montaña<br />

Ya no es necesario aparentar nada, hacer nada, justificar nada<br />

Por confesar esta verdad seré repudiado, lo sé<br />

Pero la digo para que el mar, el cielo, la montaña<br />

Los paisajes de lejos, mi propio país<br />

Las cosas que fueron y volverán a ser<br />

Sean venerados como tu corona:<br />

Una ilusión en tránsito<br />

La consagración del instante<br />

Y el asombro de la tierra<br />

¿Se te ocurre una propuesta mejor en estos tiempos?<br />

Entonces dale aire al aire<br />

Y a mí una piedra para terminar esta carta<br />

Como el viejo cazador penetrando en el bosque<br />

Es tiempo de liberar las sombras de los cuerpos<br />

Algo evidente está apareciendo<br />

326<br />

326


¿Lo podremos ver?<br />

Londres, Santiago, 2005-2007<br />

*<br />

Spero che mi inviti al tuo compleanno<br />

(Lettera a una regina)<br />

Il bollettino meteo annuncia<br />

ŖFronte freddo dal Gallesŗ<br />

E sarebbe prudente continuare così<br />

Nel mio paese nessuno porta la corona<br />

Presumo che la montagna, il cielo, il mare<br />

Portiamo noi cileni invece di una corona<br />

Basta paragoni!<br />

Ho un amico poeta che vive a Cincinnati<br />

Si chiama Marcelo Rioseco e mi ha avvertito<br />

ŖDi questi tempi scrivere una lettera a una regina<br />

Può essere insopportabilmente romanticoŗ<br />

Il mio amico che vive a Cincinnati ha ragione<br />

Scrivere a te devřessere come i bambini che giocano con amici immaginari<br />

Tempo di un chiarimento indispensabile<br />

Sono venuto a Londra a vedere la mia ragazza, è una pittrice britannica<br />

Lřho conosciuta in Cile, lei sfuggiva il deserto fiorito<br />

Lo trovò bello ma ritornò in Inghilterra<br />

La mia pittrice mi ha portato a musei, sfilate, ristoranti<br />

Le domeniche che di solito sono noiose<br />

Scendiamo dal suo appartamento a St. George Square<br />

Improvvisiamo un bar su una panchina del parco<br />

E serviamo gin tonic ai vicini<br />

Porto un fazzoletto di seta nella giacca<br />

ŖVa bene, un fazzoletto nella giacca<br />

Ma che vuol dire questa lettera?ŗ<br />

Ti starai domandando a ragione<br />

Non so bene perché ti scrivo<br />

Da che sto a Londra mi sento bene<br />

Prima volta che ci vengo, ci sto appena da una settimana<br />

E già mi piacerebbe morire qui<br />

Arrivare ad avere una di queste lapidi azzurre<br />

In una di queste case<br />

In una di queste case di Notting Hill che dicesse<br />

Qui visse il poeta che scrisse una lettera alla regina<br />

Che te ne pare? Vedremo che dirà il futuro<br />

Lřaltro giorno siamo andati con la mia pittrice a una festa<br />

Allřambasciata del Cile<br />

Si festeggiavano i cento anni dalla nascita di Neruda<br />

Mi hanno invitato a leggere una poesia sulle pietre<br />

Che si amano tra loro, e cose così<br />

Non so perché abbiano scelto me essendoci tanti poeti mapuche<br />

Che vanno a spasso per lřEuropa facendo recital<br />

327<br />

327


In ogni caso è andata come sempre, nessuno ha ascoltato<br />

La mia lettura e tutti hanno applaudito<br />

In fondo al salone cřera un quadro emblematico<br />

Una contadina che lava i panni in un ruscello<br />

Mentre un cavaliere la corteggia dal suo cavallo<br />

Una porcheria di quadro costumbrista, sai<br />

Al meno il cavaliere avrebbe potuto scendere dal cavallo<br />

Se afferrare i seni della lavandaia<br />

Era la sua intenzione. Il mio amico Marcelo Rioseco<br />

Che vive a Cincinnati assicura che<br />

Nella nostra storia di esiliati dřEuropa non è sorto<br />

Nessun pittore indipendente dal paesaggio<br />

Il cocktail allřambasciata? Empanadas e choripanes<br />

Non ti sei persa niente, mia regina<br />

E poi le consorterie e gli stessi gruppi di sempre<br />

A un angolo gli artisti barbuti messianici<br />

Allřaltro gli esportatori di avocado in Cina<br />

Beffardi, arroganti, più gonfi di un…<br />

Non mi viene nessuna metafora, mia amata regina<br />

E quei segretari che criticano le monarchie<br />

E esaltano la repubblica<br />

Facendo commenti sulla freddezza degli inglesi<br />

Non so perché vengono nel tuo regno se lo criticano tanto<br />

Non ti pare? Per nessun motivo perdo il filo<br />

Forse in fondo siamo tutti inglesi<br />

E non ce nřeravamo accorti<br />

Come la nebbia che a volte occulta il tuo palazzo<br />

[…]<br />

Mia amata regina, credo sia giunto il momento di presentarmi<br />

Mi chiamo Santiago e sono nato nella città di Santiago<br />

È come nascere a Londra e chiamarsi Londra<br />

ŖRidicoloŗ, mi ha detto stamattina ridendo la mia pittrice<br />

A Green Park mentre io inseguivo<br />

Un pavone tra i fiori<br />

Hai indovinato? Appartengo al gruppo dei Poeti del Nulla<br />

[…]<br />

ŖSi ha successo per caso, il resto è arroganzaŗ<br />

Ti confesso che questo verso non è mio<br />

È del mio amico poeta che vive a Cincinnati<br />

Ti ricordi? Quello che mi avvertì<br />

Che scrivere una lettera a una regina<br />

Può essere un pericolo romantico<br />

Che fare o non fare?<br />

Come i pittori di corte<br />

Mi piacerebbe dipingere con parole il tuo ritratto<br />

Piccole mani, piccoli piedi, sguardo astuto<br />

E un branco di cagnolini<br />

Che seguono i tuoi passi nella serra<br />

Come nei paesaggi astratti di Whistler<br />

Velato scorre il Tamigi questo inverno<br />

La nebbia, Londra bianca come una torta di compleanno<br />

328<br />

328


A propostio di compleanni, prima di cominiciare questa lettera<br />

Ho fatto alcune ricerche<br />

Il mese prossimo compirai ottantřanni<br />

Spero che mi inviterai al tuo compleanno<br />

Posso venire con la mia pittrice, saprò comportarmi<br />

Non berrò champagne fino a vomitare<br />

Non ti darò il pilotto raccontandoti che il mio paese<br />

Si trova in fondo al mondo a destra<br />

Che dobbiamo tutto al rame<br />

[…]<br />

Ti spiego, essere nati in America del Sud<br />

Obbliga a conoscere la tradizione<br />

Una delle storie che più mi piacciono<br />

È quella dellřarcivescovo primate dřIrlanda, James Usher<br />

Dopo aver realizzato un minuzioso studio delle cronologie della Bibbia<br />

Nel 1650 stabilì che lřUniverso<br />

Era stato creato da Dio<br />

Il 22 ottobre del 4004 a.C. nel pomeriggio<br />

La terra è indifferente e il cielo gira in silenzio<br />

Qualche notte fa ho fatto un sogno<br />

Io e te navigavamo su una canoa<br />

Attraverso i canali del sud del Cile<br />

Ghiacciai, foreste gelate, fumi sulle rive<br />

Allřimprovviso un uragano<br />

Siamo entrati in un vortice<br />

E non potevamo uscire<br />

Allora hai steso una tovaglia leggera di pizzo<br />

Sopra le onde impazzite<br />

Grazie a questo rito inutile siamo stati salvati!<br />

[…]<br />

Si ama lřamore e lřamore mai si raggiunge<br />

Vero? Ciò che si ottiene stanca, disgusta<br />

E ciò che non si ottiene fa soffrire<br />

Lřaspirazione del cuore è una cosa che non si trova qui<br />

Dovřè? Orrore! Attentati nella metro<br />

Cadaveri scagliati nel giardino del Console<br />

Innocenti bruciati per far parlare le loro madri<br />

La principessa fu assassinata in un tunnel di Parigi<br />

È accaduto sempre, mia amata regina, niente ti tolga il sonno<br />

Non ascoltare gli intrighi nei corridoi<br />

Ripassiamo il tuo compito<br />

Ningún barco se hundirá por tu genio<br />

Deja que otro remo agite el agua 135<br />

Nelle ore difficili le tue guardie lustreranno i loro stivali<br />

Lřisitutrice francese, i fedeli suonatori di cornamusa<br />

Tutti senza eccezione, non diserteranno<br />

Chiama i tuoi consiglieri, essi ti diranno<br />

ŖDuty first Self secondŗ<br />

[…]<br />

Ti propongo un patto<br />

135 Sono versi di Ezra Pound, che lasciamo nella loro versione spagnola.<br />

329<br />

329


Accada quel che accada mantieni il trono<br />

Che la rosa bianca giammai marcisca<br />

[…]<br />

Permettimi di cambiare tono<br />

Non è questione di piangere perché la poesia<br />

Non tornerà più alla natura<br />

Al cielo, al mare, alla montagna<br />

È che la poesia finisce<br />

Non trova posto nel mondo<br />

Né dentro né fuori dagli schermi<br />

Gli spazi oggi sono in transito<br />

Aeroporti, hotel, Victoria Station<br />

Perfino a Buckingham Palace<br />

La solitudine separa il verbo<br />

Come le placche tettoniche i continenti<br />

Allora la sfida è smettere di scrivere<br />

Mantenere la mente allerta e parlare<br />

Agli sconosciuti in fila in banca<br />

Di pittura cinese, alchimia, musica barocca<br />

Di se Shakespeare fu davvero un impresario di successo<br />

Non dobbiamo pagare niente per essere poeti<br />

In realtà nessuno dovrebbe pagare per niente<br />

Oggi i ribelli portano fazzoletti di seta<br />

Mi capisci? Io so che mi capisci<br />

Tu devi conoscere i pensieri di Yeats<br />

In essi si trovano le chiavi del pensiero circolare<br />

Lo spirito sale e scende, si alza<br />

Distrugge come unřonda<br />

Nessuna civiltà dobbiamo rimpiangere, tutto cambia<br />

Ricomincia, si ripete<br />

Vero, mia amata regina?<br />

Stanotte ho di nuovo sognato che navigavamo<br />

Per i fiordi del sud del Cile<br />

Ma stavolta eravamo più persone sulla canoa<br />

La mia pittrice, i miei figli, il mio amico che vive a Cincinnati<br />

Segretari, guardie di palazzo, Poeti del Nulla<br />

Tutti quelli che appaiono in questa lettera<br />

Nel cuore del temporale avanzavamo cantando<br />

[…]<br />

Mia amata regina, questa lettera non è un messaggio<br />

Dentro una bottiglia lanciata in mare, in cielo, in montagna<br />

Ormai non è necessario mostrare niente, fare niente, giustificare niente<br />

Per aver confessato questa verità sarò ripudiato, lo so<br />

Ma la dico perché il mare, il cielo, la montagna<br />

I paesaggi in lontananza, il mio stesso paese<br />

Le cose che furono e torneranno ad essere<br />

Siano venerati come la tua corona<br />

Una illusione in transito<br />

La consacrazione dellřistante<br />

E la meraviglia della terra<br />

Ti viene in mente unřidea migliore in questřepoca?<br />

330<br />

330


[Traduzione italiana di Matteo Lefèvre]<br />

Allora dai tempo al tempo<br />

E a me una pietra per terminare questa lettera<br />

Come il vecchio cacciatore che penetra nel bosco<br />

È tempo di liberare le ombre dai corpi<br />

Qualcosa di concreto sta apparendo<br />

Lo potremo vedere?<br />

331<br />

Londra-Santiago, 2005-2007<br />

Notizia.<br />

Santiago Elordi (Santiago, Chile, 1960) è poeta, narratore, documentarista, diplomatico e tanto<br />

altro. Ha vissuto in Cile, in Inghilterra e ora risiede in Italia. La sua opera si distingue per il ricorso<br />

a vari mezzi espressivi e per il richiamo di diverse tradizioni letterarie, che si riflettono in una<br />

permanente ricerca di nuove forme di comunicazione ed espressione. Tra le sue Ŗimpreseŗ, notevole<br />

lřideazione e la direzione del periodico «Noreste» (1988), curioso progetto postmodernista di<br />

giornale intessuto di notizie inventate, che rappresentò storicamente unřalternativa culturale per<br />

tutta una generazione durante gli anni della dura dittatura cilena. Tra i suoi libri di poesia, vale la<br />

pena ricordare Los ingleses de Sudamérica, di recente pubblicazione e da cui è tratto il testo che qui<br />

si propone.<br />

331


Charles Reznikoff<br />

Da Olocausto<br />

332<br />

Dedico questa traduzione ai detenuti di Guantánamo, Abu Ghraib, e chissà quanti altri.<br />

[7 marzo 2006]<br />

Tutto ciò che segue è basato su una pubblicazione del governo degli Stati Uniti, Trials of the<br />

Criminals before the Nuremberg Military Tribunal, e sugli atti del processo Eichmann tenutosi a<br />

Gerusalemme.<br />

II<br />

INVASIONE<br />

Cinque ebrei polacchi si impossessarono di un vagoncino<br />

e assoldarono un polacco per condurli a est<br />

per fuggire dalle SS che ora erano in città.<br />

Ma, quando si erano già lasciati la città alle spalle,<br />

allřimprovviso videro delle SS<br />

in attesa degli ebrei<br />

che tentavano di fuggire.<br />

Le SS ordinarono agli ebrei di scendere dal vagone<br />

e i cinque scesero.<br />

ŖAvete denaro?ŗ chiesero le SS<br />

e i cinque diedero tutto ciò che avevano.<br />

Le SS li perquisirono comunque<br />

e poi ordinarono loro di togliersi i vestiti<br />

e di stendersi al suolo<br />

e le SS cominciarono a picchiarli,<br />

dandosi il cambio<br />

e ridendo senza interruzione.<br />

Poi ordinarono agli ebrei di mettersi in ginocchio<br />

e di cantare canzoni ebraiche;<br />

gli ebrei cantarono lřinno sionista, Ha-tikvah.<br />

E poi dovettero strisciare dentro a un tubo di cemento<br />

prima che le SS se ne andassero.<br />

Dopo il pestaggio i cinque erano troppo deboli per continuare<br />

e, inoltre, non avevano denaro;<br />

e così tornarono in città Ŕ<br />

dritti filati in un ospedale ebraico.<br />

Noi siamo i civilizzati Ŕ<br />

gli Ariani;<br />

III<br />

RICERCA<br />

1<br />

332


e non sempre uccidiamo i condannati a morte<br />

solo perché ebrei<br />

come altri, meno civilizzati di noi, farebbero:<br />

noi li usiamo per il beneficio della scienza<br />

come topi o cavie:<br />

per scoprire i limiti della resistenza umana<br />

alle massime altezze<br />

per il bene dellřaviazione tedesca,<br />

costringerli a restare in bidoni di acqua ghiacciata<br />

o nudi allřesterno per ore e ore<br />

a temperature sotto lo zero;<br />

sì, studiare gli effetti del restare senza cibo<br />

e bere solo acqua salata<br />

per giorni e giorni<br />

per il bene della Marina tedesca;<br />

o ferirli e infilare trucioli di legno o pezzi di vetro smerigliato<br />

nelle ferite,<br />

o estrarre le ossa, i muscoli e i nervi,<br />

o bruciarne la carne Ŕ<br />

o avvelenare il loro cibo<br />

o infettarli con la malaria, il tifo, o altre febbri Ŕ<br />

tutto per il bene dellřesercito tedesco.<br />

Heil Hitler!<br />

Un certo numero di ebrei dovette bere acqua salata solo<br />

per scoprire quanto avrebbero resistito.<br />

Nel loro tormento<br />

si gettavano sugli stracci e sui cenci<br />

usati dal personale dellřospedale<br />

e ne succhiavano lřacqua sporca<br />

per calmare la sete<br />

che li faceva impazzire.<br />

2<br />

IV<br />

GHETTI<br />

Allřinizio cřerano due ghetti a Varsavia:<br />

uno piccolo e uno grande,<br />

e tra di essi un ponte.<br />

I polacchi dovevano passare sotto il ponte e gli ebrei sopra;<br />

e accanto cřerano guardie tedesche a sorvegliare che gli ebrei non si<br />

//mischiassero con i polacchi.<br />

A causa delle guardie tedesche,<br />

qualunque ebreo non si togliesse il cappello in segno di rispetto quando attraversava il ponte<br />

era ucciso Ŕ<br />

e molti furono uccisi Ŕ<br />

1<br />

333<br />

333


e alcuni senza motivo.<br />

Un vecchio trasportava pezzi di legna da ardere<br />

da una casa che era stata abbattuta Ŕ<br />

non era stata emanata alcuna ordinanza che lo vietasse Ŕ<br />

e faceva freddo.<br />

Un comandante delle SS lo vide<br />

e gli chiese dove aveva preso la legna,<br />

e il vecchio rispose che la aveva presa da una casa che era stata abbattuta.<br />

Ma il comandante estrasse la pistola,<br />

la puntò alla gola del vecchio<br />

e gli sparò.<br />

Un mattino dei soldati tedeschi e i loro ufficiali<br />

irruppero nelle case del quartiere dove erano stati raggruppati gli ebrei,<br />

gridando che tutti gli uomini dovevano uscire;<br />

e i tedeschi presero tutto quello che cřera negli armadi e nei ripostigli.<br />

Tra gli uomini cřera un vecchio con lřabito Ŕ e con il copricapo Ŕ della pia setta<br />

//ebraica chiamata Hassidim.<br />

I tedeschi gli misero in mano una gallina<br />

e gli dissero di ballare e cantare;<br />

poi dovette fingere di stare strangolando un soldato tedesco<br />

e di questo fu scattata una fotografia.<br />

Una voce si sparse nel ghetto:<br />

gli ebrei sarebbero stati portati in un altro posto<br />

con più cibo, cibo migliore, migliori alloggi Ŕ e lavoro.<br />

E difatti, a questo seguirono manifesti<br />

e ordini per cui quelli in certe parti del ghetto<br />

dovevano portare i loro bagagli, tutto lřoro e i gioielli che possedevano,<br />

e cibo per tre giorni Ŕ<br />

ma ciò che portavano non doveva eccedere un determinato peso Ŕ<br />

e dovevano recarsi in una certa piazza.<br />

Chi disobbediva sarebbe stato fucilato.<br />

E le famiglie nei distretti indicati vennero con i bambini e i bagagli.<br />

Ma alcuni uomini saltarono dai treni che li portavano via<br />

e tornarono indietro a avvertire gli ebrei ancora nel ghetto Ŕ<br />

o portati lì da altre parti Ŕ<br />

che i treni non andavano in un luogo in cui vivere<br />

ma in cui morire.<br />

E quando manifesti dello stesso tipo ricomparvero Ŕ<br />

per altri distretti Ŕ<br />

la gente cominciò a nascondersi.<br />

Ma molti andarono nella piazza indicata;<br />

2<br />

3<br />

5<br />

334<br />

334


perché davvero credevano che sarebbero stati risistemati:<br />

di sicuro i tedeschi non avrebbero ucciso gente sana e atta al lavoro.<br />

Un pomeriggio alle tre<br />

circa cinquanta ebrei erano in un bunker.<br />

Qualcuno spinse allřinterno il sacco che copriva lřentrata<br />

e udirono una voce:<br />

ŖVenite fuori!<br />

Altrimenti buttiamo una granata.ŗ<br />

Le SS e la polizia tedesca muniti di fruste<br />

erano pronti<br />

e cominciarono a picchiare quelli che erano nel bunker.<br />

Quelli che ne avevano la forza<br />

si allinearono come ordinato<br />

e furono portati in una piazza<br />

e messi su unřunica fila per essere fucilati.<br />

Allřultimo momento,<br />

un altro gruppo di SS arrivò e chiesero cosa stava succedendo.<br />

Uno di quelli che erano pronti a sparare rispose:<br />

avevano tirato gli ebrei fuori dal bunker<br />

e stavano per fucilarli come ordinato.<br />

Allora il comandante del secondo gruppo disse:<br />

ŖQuesti sono ebrei grassi.<br />

Tutti buoni per farne sapone.ŗ<br />

E così portarono gli ebrei a un treno da trasporto<br />

che non era ancora partito per un campo della morte Ŕ<br />

un treno merci russo senza scalini Ŕ<br />

e dovettero issarsi lřun lřaltro nei vagoni.<br />

Fra quelli che si erano nascosti<br />

cřerano quattro donne e una bambina di circa sette anni<br />

nascoste in una buca Ŕ un fossato coperto di foglie;<br />

e due SS andarono alla buca e ordinarono loro di uscire.<br />

ŖPerché vi siete nascoste?ŗ chiesero<br />

e cominciarono a picchiare le donne con delle fruste.<br />

Le donne imploravano salva la vita:<br />

erano giovani, erano pronte a lavorare.<br />

Fu ordinato loro di alzarsi e correre<br />

e le SS estrassero le rivoltelle e spararono a tutte e cinque;<br />

e poi continuarono a spingere i corpi con i piedi<br />

per vedere se erano ancora vive<br />

e per assicurarsi che erano morte<br />

gli spararono di nuovo.<br />

Una delle SS prese una donna con un bambino tra le braccia.<br />

6<br />

7<br />

8<br />

335<br />

335


Lei cominciò a implorare pietà: se sparavano a lei<br />

che lasciassero vivere il bambino.<br />

Era vicina a uno steccato tra il ghetto e dove vivevano i polacchi<br />

e oltre lo steccato cřerano dei polacchi pronti a prendere il bambino<br />

e stava per passarglielo quando era stata presa.<br />

LřSS le tolse il bambino dalle braccia<br />

e le sparò due volte,<br />

e poi tenne il bambino in mano.<br />

La madre, sanguinante ma ancora viva, strisciò fino ai suoi piedi.<br />

LřSS rise<br />

e squarciò il bambino come si lacererebbe uno straccio.<br />

Proprio in quel momento passò un cane randagio<br />

e lřSS si inginocchiò per accarezzarlo<br />

e prese un poř di zucchero da una tasca<br />

e lo diede al cane.<br />

VII<br />

CAMPI DI LAVORO<br />

Lo stato deve prendere possesso di quelli che non hanno mai avuto Ŕ<br />

o non hanno più Ŕ<br />

diritto di vivere nello stato,<br />

e lo stato deve rivolgere la loro forza finché dura<br />

al bene dello stato.<br />

Devono essere nutriti, alloggiati, e trattati in modo tale<br />

da poterli usare il più possibile<br />

con il minimo costo.<br />

Fate lavorare quanto più possibile i giovani e forti<br />

nei campi di concentramento Ŕ<br />

o in fabbrica o nei campi Ŕ<br />

e date loro il meno possibile<br />

vestiti e cibo.<br />

Lasciate morire quelli che non lavorano abbastanza in fretta<br />

o, se non lavorano,<br />

impiccateli<br />

e lasciateli penzolare<br />

perché gli altri li vedano.<br />

Heil Hitler!<br />

Allřepoca aveva ventřanni e fu portato con sua madre<br />

dalla fabbrica dove lavoravano<br />

a una piazza nella città<br />

e vi rimasero per ore insieme a molti altri.<br />

Prima che facesse notte<br />

furono tutti fatti salire su vagoni merci Ŕ<br />

1<br />

2<br />

336<br />

336


stipati, schiacciati dentro.<br />

Non cřera quasi luce<br />

e solo un piccolo finestrino in tutto il vagone<br />

e soffocavano.<br />

Il treno si mise in moto verso le otto di sera.<br />

Allřalba si fermò in una stazione;<br />

il giovane e sua madre erano accanto al finestrino<br />

e vide degli operai delle ferrovie polacche che attiravano lřattenzione di quelli<br />

//sul treno<br />

e facevano gesti per indicare che venivano trasportati per essere uccisi tutti.<br />

Ma il giovane non ci credeva.<br />

Il treno si rimise in moto<br />

e quando si fermò di nuovo<br />

quelli sul treno udirono delle grida, ŖTutti fuori!ŗ Ŕ<br />

e urla:<br />

i tedeschi avevano cominciato a picchiarli<br />

e a sparare a quelli che non si sbrigavano a scendere.<br />

Molti di loro Ŕ i vecchi e i malati e quelli che erano svenuti Ŕ<br />

furono uccisi sul treno o sulla banchina.<br />

Gli altri furono riuniti sulla banchina con i loro averi<br />

e condotti a un cancello che portava a un cortile recintato.<br />

Erano a Treblinka.<br />

Quando furono riuniti di nuovo nel cortile<br />

le donne furono spedite a sinistra, gli uomini a destra.<br />

Il giovane non voleva abbandonare sua madre<br />

ma fu colpito alla testa Ŕ<br />

forse una bastonata Ŕ<br />

e cadde al suolo.<br />

Quando si alzò sua madre era sparita<br />

e non la vide mai più.<br />

Di quel trasporto, furono selezionati circa quattrocento giovani.<br />

Allřestremità del campo dove cřerano le camere a gas<br />

cřera una grande fossa;<br />

era cintata da filo spinato<br />

e vicino allřentrata cřera una capanna dipinta di bianco<br />

con una Croce Rossa e la scritta ŖLazaretteŗ Ŕ<br />

una parola tedesca per indicare una sorta di ospedale Ŕ<br />

sul muro.<br />

Alcuni dei giovani rimasti dal trasporto<br />

dovevano gettare i corpi nella fossa Ŕ<br />

quelli uccisi sulla banchina della ferrovia,<br />

come anche quelli che erano svenuti ma erano ancora vivi.<br />

Il giovane che era venuto con sua madre<br />

dovette aiutare a selezionare gli averi di quelli portati alle camere a gas;<br />

vestiti, scarpe, strumenti, medicine, e giocattoli per bambini Ŕ<br />

tutto in alte pile nel cortile.<br />

E i trasporti arrivavano di continuo;<br />

grandi trasporti ogni giorno Ŕ anche due volte al giorno.<br />

In seguito dei letti di fiori furono disposti sulle banchine dove arrivavano i treni;<br />

337<br />

337


e cřerano cartelli con delle frecce che indicavano ŖAi treniŗ o ŖA Bialystockŗ,<br />

una città nota per il numero di ebrei che vivevano Ŕ o meglio che avevano<br />

//vissuto Ŕ lì;<br />

sicché quelli che arrivavano dapprima non sapevano dovřerano:<br />

sembrava una sorta di stazione di transito, uno snodo ferrioviario.<br />

Alcuni dei giovani che lavoravano nel campo tentarono di scappare<br />

ma la maggior parte fu presa;<br />

appesi per i piedi<br />

e le SS e gli ucraini venivano e li frustavano;<br />

e alla fine le SS li uccisero.<br />

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale<br />

lui viveva a Lodz con sua madre.<br />

La famiglia soffriva la fame<br />

e sua madre divenne gonfia dalla fame Ŕ<br />

come molti altri.<br />

Sua madre e la sua famiglia scapparono dal ghetto di Lodz<br />

e si rifugiarono in quello di Varsavia;<br />

ma lì le cose addirittura peggiorarono:<br />

sua madre aveva venduto tutto ciò che aveva<br />

e non aveva niente da mangiare.<br />

Allora gli disse di andare nei dintorni di Lublino<br />

dove vivevano altri membri della famiglia,<br />

e lui scappò in una piccola città.<br />

Una mattina udì gridi e strida:<br />

i tedeschi stavano portando gli ebrei nella piazza del mercato.<br />

Li ammassarono su dei treni merci<br />

e lui era tra loro.<br />

Cřera a malapena lo spazio per stare in piedi<br />

e molti svennero.<br />

Ma il viaggio durò solo due o tre ore<br />

e furono portati in un campo della morte.<br />

Quando scesero dal treno<br />

furono spinti in fretta a un piccolo cancello,<br />

le SS gridavano ŖSbrigatevi! Sbrigatevi!ŗ<br />

e lì gli uomini furono separati dalle donne e i bambini.<br />

Mentre questo accadeva<br />

una banda suonava.<br />

Gli uomini restarono lì tutta la notte<br />

ma le donne e i bambini furono subito portati nelle camere a gas.<br />

Molti ebrei non avevano creduto che ci sarebbe stato uno sterminio di massa Ŕ<br />

qualche uccisione, certo;<br />

e anche quando erano stipati nei treni merci,<br />

molti erano contenti di non stare andando in quello che sapevano essere un<br />

//campo di lavori forzati<br />

ma invece a est;<br />

erano corse voci secondo cui sarebbero stati portati in Ucraina a lavorare nei<br />

3<br />

338<br />

338


campi<br />

ora che la Germania lřaveva conquistata quasi tutta.<br />

Ma alcuni ricordarono un ebreo che era venuto in città e aveva detto:<br />

ŖNon credete a quanto vi dicono.<br />

Gli ebrei non vengono mandati in Ucraina;<br />

sono spediti nei campi della morte Ŕ<br />

e lì uccisi.ŗ<br />

Ma nessuno gli credeva;<br />

pensavano che volesse semplicemente seminare il panico.<br />

E anche nel campo dove erano stati mandati Ŕ<br />

a poche decine di metri dalle camere a gas Ŕ<br />

i tedeschi dissero agli uomini che entro poche settimane avrebbero raggiunto le<br />

//loro famiglie.<br />

Videro gli averi delle donne e dei bambini impilati;<br />

ma i tedeschi dissero:<br />

ŖHanno ricevuto dei vestiti nuovi.<br />

State per essere riuniti e spediti in Ucraina.ŗ<br />

In quel campo in realtà cřerano tre campi:<br />

uno per i calzolai, sarti, e altri artigiani;<br />

uno per quelli che lavoravano alla selezione dei vestiti di quelli che venivano<br />

//con i trasporti e erano gasati;<br />

e il terzo campo era quello dove cřerano le camere a gas.<br />

Il mattino dopo lřarrivo degli ebrei che erano appena venuti,<br />

i tedeschi cominciarono a selezionarli:<br />

a scegliere i giovani e atti al lavoro dicendo, Ŗduŗ Ŕ la parola tedesca per dire<br />

//Ŗtuŗ.<br />

In circa unřora e mezza la maggior parte degli uomini che erano venuti con il<br />

//trasporto<br />

erano stati portati nelle camere a gas<br />

e solo centocinquanta circa erano rimasti per lavorare;<br />

tra di loro il giovane che era scappato da Varsavia ai dintorni di Lublino.<br />

Gli fu affidato il compito di prendere e impilare i vestiti di quelli che erano<br />

//arrivati Ŕ<br />

e continuavano a arrivare Ŕ nei trasporti<br />

e di continuo vedeva quelli che erano arrivati scomparire.<br />

Dopo che il giovane ebbe lavorato per un poř il primo giorno,<br />

era inebetito<br />

e mentre restava lì, inebetito e incapace di muoversi –<br />

allřepoca aveva solo quindici anni Ŕ<br />

un ebreo andò da lui e gli disse, ŖRagazzo mio, se ti comporti così qui non<br />

//sopravvivrai.ŗ<br />

Quel giorno quando tornarono dal lavoro,<br />

lřufficiale di servizio li fece mettere sullřattenti<br />

e disse che la gente che era scomparsa era stata spedita in Ucraina.<br />

Poi disse: ŖChi è malato? Chi è stanco? Chi non vuole lavorare?<br />

Che esca dalla riga.ŗ<br />

Alcuni lo fecero. Sapevano cosa sarebbe successo loro<br />

ma erano stanchi di quanto era accaduto<br />

e uno di loro disse a quelli che erano rimasti in riga,<br />

339<br />

339


ŖOh, non lavorate! Potete riposarvi.ŗ<br />

La stessa cerimonia aveva luogo ogni sera.<br />

In un mese, dei centocinquanta del gruppo in cui era il ragazzo allřinizio<br />

erano rimasti una cinquantina.<br />

Una volta venne un trasporto da un altro campo.<br />

Qualcosa non aveva funzionato nella loro camera a gas<br />

e i nuovi arrivati passarono la notte nel cortile a cielo aperto.<br />

Erano quasi scheletri:<br />

non gli importava di nulla<br />

e riuscivano a malapena a parlare.<br />

Quando venivano picchiati, al massimo sospiravano.<br />

Agli ebrei che lavoravano nel campo<br />

fu ordinato di dare loro da mangiare;<br />

ma i nuovi arrivati non riuscivano a restare seduti<br />

e camminavano lřuno sullřaltro<br />

per prendere il poco cibo che veniva dato loro.<br />

Il mattino dopo furono portati nelle camere a gas.<br />

Nel cortile in cui avevano passato la notte<br />

cřerano parecchie centinaia di morti.<br />

Agli ebrei del campo in cui erano giunti fu detto:<br />

ŖSpogliate i corpi<br />

e metteteli nei vagoni.ŗ<br />

Ma questi ebrei erano troppo deboli per trasportare i corpi sulle loro spalle<br />

e dovettero trascinarli,<br />

prenderli per i piedi e trascinarli;<br />

e i tedeschi picchiavano quelli che trascinavano<br />

per farli andare più in fretta.<br />

Un ebreo abbandonò il corpo che stava trascinando per riposarsi un attimo<br />

e lřuomo che lui pensava fosse morto<br />

si drizzò,<br />

sospirò e con voce flebile disse,<br />

ŖÈ ancora lontano?ŗ<br />

Lřebreo che lo trascinava<br />

si chinò su di lui e gentilmente gli circondò le spalle con il braccio<br />

e a quel punto sentì una frustata sulla schiena:<br />

unřSS lo stava picchiando.<br />

Lasciò andare il corpo Ŕ<br />

e continuò a trascinarlo verso i vagoni.<br />

Nella stampa slovacca uscivano articoli<br />

su ciò che accadeva agli ebrei deportati dalla Polonia e dalla Slovacchia:<br />

erano al sicuro e stavano bene<br />

e cřerano foto di facce allegre e di ragazze sorridenti.<br />

Un giorno delle donne ebree in Slovacchia<br />

furono raccolte in uno scantinato<br />

e, alla fine, portate a Auschwitz con dei treni merci.<br />

4<br />

340<br />

340


Nella parte del campo in cui erano sistemate,<br />

i letti erano stretti e cřerano due donne su ognuno.<br />

E tutte erano mandate fuori a lavorare: a estrarre barbabietole dal suolo<br />

dove le barbabietole erano rimaste a marcire per anni,<br />

lasciate lì dai polacchi.<br />

A volte incappavano in un buon appezzamento;<br />

ma per chiunque osasse mettere in bocca una di quelle barbabietole,<br />

era morte certa.<br />

E a volte facevano dei lavori che non capivano perché dovessero essere fatti:<br />

pareggiare una collina in un campo<br />

o portare un mucchio di terra da un luogo a un altro.<br />

Il lavoro per loro cominciava quando ancora cřerano le stelle in cielo<br />

e finiva quando era ormai buio.<br />

Una donna venne con la sua bambina<br />

e una mattina le SS erano lì<br />

e gliela portarono via:<br />

era proibito alle madri tenere i bambini con sé.<br />

Più tardi, venne a sapere che la sua bambina era stata gettata nel fuoco<br />

in cui si bruciavano i morti,<br />

e la notte stessa si gettò contro il filo spinato elettrificato che circondava il<br />

//campo.<br />

In un altro campo in cui erano state portate donne ebree,<br />

furono messe a trasportare materiali da costruzione,<br />

travi di legno e simili.<br />

Sotto cřera una cava<br />

e le donne dovevano anche trasportare rocce dove nuove strade venivano<br />

//pavimentate Ŕ<br />

era un lavoro che facevano solo le donne:<br />

venivano imbrigliate a lunghe corde attaccate ai vagoni<br />

e dovevano trascinarli per un pendio ripido Ŕ<br />

con qualunque tempo Ŕ<br />

dodici ore al giorno,<br />

con scarpe di legno che scivolavano nel fango e nella neve.<br />

I treni dal Belgio finalmente arrivarono al campo:<br />

quando furono aperte le porte,<br />

un fetore, quasi insopportabile;<br />

e i corpi di quelli dentro caddero fuori Ŕ<br />

alcuni morti, gli altri svenuti;<br />

i corpi dei morti gonfi, arrossati e lividi,<br />

gli occhi fuori dalle orbite,<br />

i vestiti fradici di sudore e di escrementi.<br />

Ebrei dallřOlanda, dalla Francia e dallřUngheria, e più tardi dalla Grecia,<br />

furono portati nei campi su treni merci o carri bestiame Ŕ<br />

5<br />

6<br />

341<br />

341


tre o quattro treni al giorno Ŕ<br />

i carri affollati<br />

e sulla strada per notti e giorni,<br />

con niente per quelli dentro<br />

da mangiare o da bere;<br />

e quando i carri arrivavano al campo<br />

erano tirati fuori a frustate<br />

e colpi di calcio dei fucili.<br />

Venivano messi in fila di fronte al medico del campo<br />

e quando passavano di fronte a lui<br />

chiedeva lřetà dellřuomo Ŕ se non era evidente Ŕ<br />

e cosa facevano per vivere,<br />

e poi indicava con il pollice<br />

a destra o a sinistra;<br />

e quelli mandati a sinistra Ŕ tutti abili al lavoro Ŕ<br />

erano condotti a piedi nudi nel campo,<br />

anche quando il suolo era coperto di neve,<br />

e frustati per farli andare più in fretta.<br />

Uno dei soldati di guardia disse come battuta,<br />

indicando il fumo che usciva dai camini del crematorio,<br />

ŖLa sola strada per raggiungere la libertà!ŗ<br />

Alcuni di quelli mandati a destra<br />

venivano caricati su camion<br />

con un solo membro di una squadra di SS<br />

seduto di fronte a loro<br />

e erano gasati nel camion Ŕ<br />

se era un camion di quel tipo Ŕ<br />

e i loro corpi portati direttamente al crematorio.<br />

Ma la maggior parte era portata alle camere a gas<br />

dietro alberi che erano stati tagliati<br />

e messi in fila.<br />

Se le camere a gas erano affollate<br />

e non cřera spazio per i bambini più piccoli Ŕ o anche per gli adulti Ŕ<br />

venivano gettati su cataste di legna<br />

che erano state cosparse di benzina<br />

e bruciati vivi.<br />

Ma perché le loro grida non disturbassero troppo<br />

quelli che lavoravano<br />

unřorchestra di ebrei del campo<br />

era predisposta perché suonasse forte<br />

canzonette tedesche in voga.<br />

Quando il treno su cui si trovava un anziano dottore che era stato colonnello<br />

//dellřesercito austriaco<br />

giunse al campo della morte,<br />

lui mostrò i suoi diplomi<br />

e delle foto di lui in divisa da colonnello;<br />

7<br />

342<br />

342


ma questo non lo salvò.<br />

Le SS lo picchiarono a morte<br />

e strapparono i suoi diplomi.<br />

La routine giornaliera cominciava, dřestate, alle quattro del mattino;<br />

dřinverno alle sei.<br />

Venivano fatti marciare fino al terreno da parata del campo,<br />

dove un appello per numero e non per nome<br />

aveva luogo, e si faceva rapporto su chi era morto nel corso della notte.<br />

Poi a colonne di cinque venivano fatti marciare fino a dove stavano lavorando Ŕ<br />

una cava di pietra o dřargilla, una fabbrica di munizioni, o un cantiere.<br />

Quando la giornata di lavoro era finita,<br />

ciascuno in un campo Ŕ o molti Ŕ doveva raccogliere rocce o mattoni,<br />

un peso di almeno dieci libbre,<br />

e riportarle al campo.<br />

Forse soltanto per dimostrare che erano abbastanza forti<br />

per lavorare il giorno dopo.<br />

Di ritorno al campo<br />

venivano riuniti per un altro appello<br />

e poi venivano eseguite le punizioni;<br />

fustigazioni tra cinque e venticinque colpi<br />

e a volte su un uomo su dieci.<br />

In un campo dopo che venivano svegliati alle quattro del mattino<br />

e ricevuta una tazza di caffè<br />

lavoravano nelle cave tutto il giorno<br />

e tornavano al campo alle nove o dieci di sera.<br />

Allora gli davano una tazza di minestra acquosa<br />

e due o tre patate cattive.<br />

Arrivavano ai mucchi di paglia sui quali dormivano<br />

per mezzanotte.<br />

In due mesi, in quel campo tremilacinquecento morirono di fame.<br />

Tra le SS cřerano delle eccezioni.<br />

Alcuni ebrei di quel campo<br />

posavano i binari a scartamento ridotto<br />

da usare per trasportare i corpi;<br />

e lřincaricato era solito uccidere a martellate.<br />

Per quanto i lavoranti avessero paura di quellřSS,<br />

uno nuovo poteva essere ancora peggio;<br />

e quando videro uno nuovo, un ufficiale anziano per di più,<br />

erano, come minimo, a disagio.<br />

Uno degli ebrei si era caricato sulle spalle sezioni di binario<br />

e la nuova SS gli disse: ŖPerché ne prendi così tante?ŗ<br />

Così lřebreo ne posò una<br />

ma lřSS gliene fece posare ancora un poř e disse;<br />

ŖCřè tempo. Cammina piano.ŗ<br />

8<br />

9<br />

343<br />

343


Gli ebrei lo vedevano quando arrivavano i trasporti Ŕ<br />

gironzolava lì intorno e aveva lřaria di vergognarsi.<br />

A volte diceva loro una parola gentile.<br />

Ma rimase solo un mese;<br />

una sera venne nei loro baraccamenti e disse:<br />

ŖNon sapevo dove venivo mandato.<br />

Non sapevo di questo,<br />

e quando lřho scoperto ho subito chiesto un trasferimento.<br />

Adesso vi lascioŗ,<br />

e strinse la mano a alcuni ebrei<br />

e augurò loro di sopravvivere.<br />

Molte donne in Germania, il cui marito era stato mandato in un campo di<br />

//concentramento<br />

e lì ucciso,<br />

ricevevano il seguente messaggio che loro marito era stato costretto a scrivere:<br />

ŖSono in salute e mi trovo bene qui.ŗ<br />

oppure ŖSuo marito è morto dřinfarto;<br />

le spediamo unřurna con le ceneri<br />

e per questo voglia farci avere tre marchi e mezzo.ŗ<br />

[Da: Holocaust, Black Sparrow Press, Santa Barbara, 1975]<br />

[Traduzione di Andrea Raos]<br />

Notizia.<br />

Sulla vita e sullřopera di Reznikoff, si rimanda a: http://en.wikipedia.org/wiki/Charles_Reznikoff.<br />

10<br />

344<br />

344


Jacques Roubaud<br />

Da Quelque chose noire<br />

Meditazione dell‟8/5/85<br />

Sera dopo sera<br />

Il vettore di luce attraversa<br />

Lo stesso vetro<br />

Sřallontana<br />

E la notte<br />

Lo porta via<br />

Dove ti disponi<br />

Invisibile<br />

Nello spessore<br />

*<br />

Fotoromanzo<br />

Il romanzo si compone dřavventure raccontate nel tempo del loro accadere.<br />

345<br />

Lřimportanza e il senso di questa costrizione non sono dissimulati. Al contrario si dice<br />

esplicitamente che le cose raccontate accadono nel tempo in cui si raccontano.<br />

Ma non è tuttavia un diario.<br />

Perché il presente parla al presente senza essere affatto trascorso. Non cřè la discontinuità<br />

delle date, delle pagine, dei rimpianti, del diario.<br />

Cřè un tale, un uomo. Non viene nominato. Cřè la sua giovane moglie, che è morta.<br />

Il romanzo si svolge in diversi mondi possibili. In alcuni, la giovane donna non è morta.<br />

Il tempo è il presente. il tempo di ogni mondo possibile è il presente.<br />

I rumori, le epoche, persino i sapori, sono scritti alla luce del giorno, e le nuvole. Eř questo<br />

che, più di ogni altra cosa, mostra il rispetto della costrizione che governa la composizione del<br />

romanzo.<br />

Quando non resta che un solo mondo, in cui lei è morta, il romanzo è finito.<br />

*<br />

Romanzo, II<br />

Eř ancora un altro romanzo, forse lo stesso.<br />

Un uomo, abbandonato, a causa di una morte, riceve una telefonata. Questa telefonata è una<br />

chiamata della donna amata, e morta.<br />

345


346<br />

Lui riconosce la sua voce. Lei chiama da un mondo possibile, altro, simile in tutto a quello<br />

cui lui è abituato, con l'unica differenza che ,in quel mondo, lei non è morta.<br />

Ma cosa dirà lui? cosa è successo in quel mondo in trenta mesi? Lei che cosa gli dirà? lui<br />

come entrerà in questo mondo in cui lřorrore non ha avuto luogo, questo mondo dove la morte<br />

è abolita, dove continua la lotta contro la morte, dove si ostinano nel combattimento che qui,<br />

nel mondo in cui lui ancora sta ancora per sollevare il ricevitore, è stato perso?<br />

Lui alzerà la cornetta, e sentirà la sua voce. Il mondo in cui ancora si trova (il telefono ha<br />

appena iniziato a suonare ma lui non ha ancora mosso la mano per rispondere) sarà<br />

dimenticato.<br />

Questo mondo non sarà stato. Non sarà stato che come mondo possibile, in cui fu la morte<br />

ad accadere, e non la vita. Un mondo cui lui continuerà a pensare per tutto il tempo, benché<br />

non sia pensabile.<br />

Immaginando, nella sua immaginazione, quando si troverà in questo mondo, quello in cui<br />

lei sarà morta. Ma non sarà capace di immaginarselo veramente.<br />

Il telefono non suona. Sin tanto che non suona, il nuovo mondo, il mondo possibile è ancora<br />

possibile. Eř ancora possibile che il telefono suoni e che la voce in arrivo sia la voce della<br />

donna amata, e morta. Avendo smesso di essere morta, non essendola mai stata.<br />

Il telefono suonerà. la voce che lřuomo abbandonato a causa della morte sentirà, non sarà<br />

quella della donna amata. Sarà unřaltra voce, una voce qualunque. Lui la sentirà. Questo non<br />

proverà che lui sia vivo.<br />

*<br />

Romanzo, III<br />

Quellřanno, le notizie non furono buone. Uno morì prima della primavera, dřun cancro al<br />

polmone. Il suo ultimo libro restò incompiuto. Ci lavorò sino allřultimo momento.<br />

Subito dopo, in primavera, un altro tossì. Era di nuovo un cancro. Di nuovo al polmone. Gli<br />

fece visita dopo lřoperazione. Cřera un parco dove attendere, nel sole. Guardando la<br />

radiografia, si vedeva molto bene lřassenza, recente, di un polmone: per raffronto, unřassenza<br />

dřombra sulla lastra. Solo un arco nero, verso lřalto.<br />

Alla fine dřagosto, lřuomo di cui parliamo si recò a La Bourboule a prendere sua moglie,<br />

per ritornare con lei a Parigi. Fece tre cambi di treno, su delle linee secondarie. Lřattese<br />

allřuscita dello stabilimento balneare e camminarono risalendo la Dordonne, sin fuori la città,<br />

dove si abbracciarono. Erano le undici del mattino e troppo presto per andare in camera,<br />

allřhotel. La sua schiena si era indorata, lei respirava meglio.<br />

In dicembre, in somma, tutto era ancora possibile. Il primo gennaio dellřanno seguente<br />

(lřanno di cui parliamo), lei attaccò i loro due nomi sulla porta con sotto una data, seguita da un<br />

punto esclamativo:<br />

19..!<br />

346


347<br />

Visto a posteriori, quellřanno gli sembrò quasi paradisiaco: le ultime fotografie, come<br />

alleggerite dallřangoscia, bruscamente: il bimbo di Diana, gli occhi della madre, una immagine<br />

di Jean E., in un contorno raddoppiato da un riflesso, la sua mano didattica.<br />

Può interpretarlo come un presentimento, degli addii. Le immagini non ne sono appesantite.<br />

Si ricorda di felicità leggere, chiare, precarie. Le ore a chiacchierare in cucina. Christmas<br />

shopping a Manchester.<br />

Le nuvole che girano nei riquadri a specchio disposti, incollati contro il muro a sinistra dei<br />

cuscini. Le nuvole, che entravano così nel golfo di tetti a sinistra della chiesa, le guardavano,<br />

insieme, nel pomeriggio. Poi sřabbracciavano.<br />

Ma, è vero, quellřanno le notizie non furono buone.<br />

(Da: J. Roubaud, Quelque chose noire, Gallimard, Paris, 1986)<br />

[Traduzione di Italo Testa]<br />

Notizia<br />

Scrittore francese (n. Caluire-et-Cuire, Rodano, 1932). Professore di matematica, è autore di poesie,<br />

romanzi, saggi, originali progetti narrativi, sempre influenzati dai suoi vasti interessi letterari e<br />

linguistici, e dai suoi studi matematici. Si è interessato giovanissimo alla poesia aderendo al<br />

collettivo Change, quindi collaborando alla rivista Action poétique ed entrando a far parte<br />

dell'OULIPO. Nelle sue raccolte l'aspetto ludico si accompagna a una ricerca sulla parola, la<br />

scrittura e la metrica, che si avvale del ricorso alla logica matematica: ε (1967), 361 poesie<br />

suscettibili di quattro diversi modi di lettura; Mono no aware: le sentiment des choses (1970),<br />

ispirata agli haikai giapponesi; Trente et un au cube (1973);Quelque chose noir (1986). Autore di<br />

romanzi (La belle Hortense, 1985, trad. it. 1989; L'enlèvement d'Hortense, 1987, trad.<br />

it. 1988; L'exil d'Hortense, 1990) e di complessi progetti narrativi in cui si fondono memoria e<br />

riflessione metaletteraria (Autobiographie, chapitre dix, 1977; Le grand incendie de<br />

Londres, 1989; La boucle, 1994), R. ha scritto anche saggi (La vieillesse d'Alexandre: essai sur<br />

quelques états récents du vers français, 1978; La fleur inverse: essai sur l'art formel des<br />

troubadours,1986) e ha rielaborato la leggenda del Graal in Graal théâtre (in collab. con F.<br />

Delay, 3 voll., 1977-79) eGraal fiction (1978). Tra le altre pubblicazioni, si ricordano inoltre: Le<br />

chevalier silence, une aventure des temps aventureux (1997); Le crocodile (2001); Churchill 40 et<br />

autres sonnets de voyage (2004); Nous, les moins-que-rien, fils aînés de personne (2006). [fonte:<br />

http://www.treccani.it/enciclopedia/jacques-roubaud/]<br />

347


Vincent Tholomé<br />

The Vincent Tholomé’s Experiments: Une station service<br />

348<br />

La station service est. Essentiellement. En plastique et en<br />

métal. Bien que le caoutchouc. Ou quelque matière<br />

apparentée. Soit absolument nécessaire.<br />

Et. La station service est. En effet. Essentiellement. Essentiellement. En plastique et en métal. Bien<br />

que le caoutchouc. Ou quelque matière apparentée. Ou quelque matière apparentée. Soit. Enfin. Je<br />

crois. Absolument nécessaire. De sorte que la station service où. Ce 29 octobre. Ça se passe le 29<br />

octobre. Vincent tholomé fait. Le 29 octobre. Un petit arrêt à la station service. De sorte que. Des<br />

tôles et des plastiques colorés. Tiennent à distance des pompes à essence de la station service un ciel<br />

chargé mais par instants éclatant dřor. De sorte que. Dit vincent tholomé. Un toit en tôles et en<br />

plastiques colorés tient à distance les engins. Quelquefois japonais et durs. Notamment japonais et<br />

durs. Et pour tout dire essentiellement japonais et durs. Dit vincent tholomé. Dřun ciel chargé.<br />

Certes. Mais toutefois aussi éclairé dřor. Dit vincent tholomé. De sorte que. Alors que rien. Rien<br />

rien. Vraiment. Ne laissait croire à vincent tholomé. Quřen arrêtant ici leur engin dur et japonais.<br />

Nathalie toledo. Sa. Pour ainsi dire. Femme. Ils vivent ensemble depuis 10 ans. Ils comptent peutêtre<br />

un jour se marier. Ils comptent. Peut-être. Sřils se marient. Éviter lřune ou lřautre taxe<br />

exorbitante. De sorte quřon ne se marie pas. 29 octobre. Par amour. Mais par intérêt malgré<br />

lřamour. De sorte quřon se marie. 29 octobre. Malgré lřamour. Pensent-ils. Pensent vincent tholomé<br />

et nathalie toledo. Alors quřils claquent. 29 octobre. Les portières de leur véhicule. Un machin<br />

japonais et dur dur dur. De sorte que. Alors quřils sortent de leur engin. Disons. Dřhumeur joyeuse.<br />

Disons dřhumeur joyeuse. Ils viennent de parler de mariage. Ils viennent de se demander en<br />

mariage. Car. 29 octobre. Dans le véhicule de nathalie toledo. Dans un machin japonais et dur. Il<br />

faut le dire. Il faut le dire. Nathalie toledo et vincent tholomé viennent de se demander en mariage<br />

malgré lřamour.<br />

Car. 29 octobre. Dans un machin japonais et dur. Nathalie<br />

toledo et vincent tholomé viennent de se demander en<br />

mariage malgré lřamour.<br />

De sorte que. Ils sortent du véhicule malgré un ciel chargé. Ils rangent le véhicule correctement et à<br />

proximité de la pompe 2. De sorte que rien ne peut maintenant arriver à nathalie toledo ou à vincent<br />

tholomé. Et rien nřarrive. En effet. À la station service à nathalie toledo ou à vincent tholomé. Rien<br />

nřarrive dřabord à nathalie toledo ou à vincent tholomé. Puis. Alors quřil nřy avait aucune raison<br />

que. Quelque chose arrive à la station service à nathalie toledo ou à vincent tholomé. Quelque<br />

chose. De grave peut-être. De grave peut-être. Dit vincent tholomé. Pense plus tard vincent<br />

tholomé. Arrive à la station service à nathalie toledo et à vincent tholomé. Il se passe que nathalie<br />

toledo dit tiens à vincent tholomé en lui tendant la carte bancaire. Il se fait que nathalie toledo tient.<br />

Dans une poche de son sac. La carte bancaire. De sorte quřelle sort maintenant du véhicule côté<br />

pompe. De sorte que vincent tholomé sort. Quant à lui. Maintenant du véhicule côté machine à sous.<br />

Oui mais voilà. Ce nřest pas le tout dřavoir une carte bancaire. Il faut aussi son code.<br />

348


349<br />

Oui mais voilà. Ce nřest pas le tout dřavoir une carte<br />

bancaire. Il faut aussi son code.<br />

Oui mais voilà. Ce nřest pas le tout dřavoir une carte bancaire. Il faut aussi son code. Se dit vincent<br />

tholomé. Se dit-il. En marche vers la machine à sous. Une de ces machines où lřon introduit une<br />

carte bancaire puis son code. Puis le numéro de la pompe. Ici 2. Pompe 2. Pompe numéro 2. De<br />

sorte que. Alors que tout était en route pour passer ici comme on passe ailleurs. Comme. En<br />

général. On passe ailleurs. Négligemment. Par exemple. Dans un bureau de poste. On entre dans un<br />

bureau de poste puis on en sort. On passe ainsi à la poste. Généralement. Il nřy a rien à en dire.<br />

Généralement. On se rend. Par exemple après. On se rend à la boucherie. On entre et on sort de la<br />

boucherie et il nřy a rien à en dire. De sorte que. Alors que tout était en place à la station service<br />

pour quřon entre dans la station service puis quřon en sorte et il nřy aurait rien à en dire. Le fait est<br />

que. Vincent tholomé. Une fois de plus. Une fois de plus. Ne se souvient pas du code de sa carte<br />

bancaire. Et. Alors que vincent tholomé était en marche vers la machine à sous. Simple opération<br />

bancaire. Que nřimporte qui. En tout cas la plupart dřentre nous. En tout cas 90% dřentre nous. Il<br />

est démontré que 90% dřentre nous sřen sort machinalement avec une machine à sous. Vincent<br />

tholomé fait. Une fois de plus. Brusquement demi-tour à une station service. Vincent tholomé fait.<br />

Une fois de plus. Brusquement demi-tour à une station service.<br />

De sorte que nathalie toledo devient comme folle.<br />

De sorte que nathalie toledo. La. Presque. Femme de vincent tholomé. Ils cohabitent depuis 10 ans.<br />

Ils viennent de se demander. Il nřy a pas 10 minutes. En mariage. Malgré lřamour. Malgré lřamour.<br />

Cřest tout dire. Cřest tout dire. De sorte que nathalie toledo devient comme folle. Et. Alors que<br />

vincent tholomé nřa pas le temps de contourner le véhicule japonais et dur de nathalie toledo. Nřa<br />

pas le temps de rejoindre nathalie toledo à proximité de la pompe numéro 2. Nathalie toledo. En<br />

personne. En personne. Contourne elle-même le véhicule japonais et dur. De sorte que. Maintenant.<br />

Vincent tholomé est à la pompe numéro 2. Et nathalie toledo à la machine à sous. De sorte quřaprès<br />

la station service. Mettons 10 minutes après la station service. On ne sřest toujours rien dit. On est<br />

en route vers ailleurs et on le fait sans rien se dire. Dit vincent tholomé. Pense vincent tholomé.<br />

Ravagé. Littéralement. Littéralement. À lřintérieur. Par. Oui. Toute lřaffaire. Toute la scène de la<br />

station service. De sorte quřil loupe en plus les beaux panneaux publicitaires colorés du long de la<br />

route. De sorte quřil loupe les 47 vaches folles dans les prés sur sa droite. Incapable quřil est.<br />

Vincent tholomé. De sortir aujourdřhui. 29 octobre. 10 minutes après la station service. De la<br />

station service. Tant. Dit ensuite vincent tholomé. Nous avons. Tout de même. Tout de même.<br />

Vécu. À la station service. Une situation critique. Il faut le dire. Il ne faut. Il ne faut pas. Il ne faut<br />

pas avoir peur des mots. Dit ensuite. Plus tard. Dans la nature. Nathalie toledo.<br />

Il ne faut pas avoir peur des mots. Dit ensuite. Plus tard.<br />

Dans une forêt de sapins douglas. Nathalie toledo.<br />

349


The Vincent Tholomé Experiment: Una stazione di servizio<br />

350<br />

La stazione di servizio è. Essenzialmente. Di plastica e di<br />

metallo. Anche se la gomma. O una qualche materia simile.<br />

È assolutamente necessaria.<br />

E. La stazione di servizio è. In effetti. Essenzialmente. Essenzialmente. Di plastica e di metallo.<br />

Anche se la gomma. O una qualche materia simile. O una qualche materia simile. È. Insomma. Io<br />

credo. Assolutamente necessaria. Sicché la stazione di servizio in cui. Questo 29 ottobre. Questo<br />

succede il 29 ottobre. Vincent tholomé fa. Il 29 ottobre. Una piccola sosta alla stazione di servizio.<br />

Sicché. Lamiere e plastica colorata. Tengono a distanza dalle pompe di benzina della stazione di<br />

servizio un cielo carico ma che a tratti risplende dřoro. Sicché. Dice vincent tholomé. Un tetto di<br />

lamiera e plastica colorata tiene a distanza i mezzi. Qualche volta giapponesi e duri. Specialmente<br />

giapponesi e duri. E per dirla tutta essenzialmente giapponesi e duri. Dice vincent tholomé. Da un<br />

cielo carico. Certo. Ma comunque anche illuminato dřoro. Dice vincent tholomé. Sicché. E niente.<br />

Niente niente. Davvero. Faceva credere a vincent tholomé. Che fermandosi qui con il loro mezzo<br />

duro e giapponese. Nathalie toledo. Sua. Per così dire. Moglie. Vivono insieme da 10 anni. Un<br />

giorno contano forse di sposarsi. Contano. Forse. Se si sposano. Di evitare questa o questřaltra tassa<br />

esorbitante. Sicché non ci si sposa. 29 ottobre. Per amore. Ma per interesse nonostante lřamore.<br />

Sicché ci si sposa. 29 ottobre. Nonostante lřamore. Pensano loro. Pensano vincent tholomé e<br />

nathalie toledo. E sbattono. 29 ottobre. Le portiere della macchina. Un affare giapponese e duro<br />

duro duro. Sicché. Ed escono dal loro mezzo. Diciamo. Dřumore radioso. Diciamo dřumore<br />

radioso. Hanno appena finito di parlare di matrimonio. Si sono appena fatti la proposta di<br />

matrimonio. Dato che. 29 ottobre. Sul veicolo di nathalie toledo. Su un affare giapponese e duro.<br />

Bisogna dirlo. Bisogna dirlo. Nathalie toledo e vincent tholomé si sono appena fatti la proposta di<br />

matrimonio nonostante lřamore.<br />

Dato che. 29 ottobre. Su un affare giapponese e duro.<br />

Nathalie toledo e vincent tholomé si sono appena fatti la<br />

proposta di matrimonio nonostante lřamore.<br />

Sicché. Escono dal veicolo nonostante un cielo carico. Piazzano il veicolo correttamente e in<br />

prossimità della pompa 2. Sicché adesso non può succedere niente a nathalie toledo o a vincent<br />

tholomé. E non succede niente. In effetti. A nathalie toledo o a vincent tholomé alla stazione di<br />

servizio. In un primo momento a nathalie toledo o a vincent tholomé non succede niente. E poi. E<br />

non cřera nessun motivo che. Succedesse qualcosa a nathalie toledo o a vincent tholomé alla<br />

stazione di servizio. Qualcosa. Di grave forse. Di grave forse. Dice vincent tholomé. Pensa più tardi<br />

vincent tholomé. Succede alla stazione di servizio a nathalie toledo e a vincent tholomé. Succede<br />

che nathalie toledo dice toh a vincent tholomé mentre gli passa la carta di credito. Il fatto è che<br />

nathalie toledo tiene. In una tasca della borsa. La carta di credito. Sicché adesso lei esce dal veicolo<br />

dalla parte della pompa. Sicché adesso vincent tholomé esce. Quanto a lui. Dal veicolo dalla parte<br />

della macchinetta per i soldi. Sì ma ecco. Avere una carta di credito non è tutto. Ci vuole anche il<br />

codice.<br />

350


351<br />

Sì ma ecco. Avere una carta di credito non è tutto. Ci vuole<br />

anche il codice.<br />

Sì ma ecco. Avere una carta di credito non è tutto. Ci vuole anche il codice. Si dice vincent<br />

tholomé. Dice tra sé. Andando verso la macchinetta per i soldi. Una di quelle macchinette in cui si<br />

mette una carta di credito e poi il codice. E poi il numero della pompa. Qui 2. Pompa 2. Pompa<br />

numero 2. Sicché. Tutto stava andando per il giusto verso perché capitasse qui come capita dalle<br />

altre parti. Come. In generale. Capita dalle altre parti. Con disinvoltura. Per esempio. In un ufficio<br />

postale. Si entra in un ufficio postale e poi si esce. Così si passa alla posta. Generalmente. Non cřè<br />

niente da dire. Generalemente. Si va. Per esempio dopo. Si va dal macellaio. Si entra e si esce dal<br />

macellaio e non cřè niente da dire. Sicché. E alla stazione di servizio era tutto pronto per entrare alla<br />

stazione di servizio e poi uscire e non ci fosse niente da dire. Il fatto è che. Vincent tholomé. Ancora<br />

una volta. Ancora una volta. Non si ricorda il codice della sua carta di credito. E. Mentre stava<br />

andando verso la macchinetta per i soldi. Semplice operazione bancaria. Che chiunque. In ogni caso<br />

la maggior parte di noi. In ogni caso il 90% di noi. È dimostrato che al 90% di noi riesce automatico<br />

cavarsela con una macchinetta per i soldi. Vincent tholomé fa. Ancora una volta. Bruscamente<br />

unřinversione in una stazione di servizio. Vincent tholomé fa. Ancora una volta. Bruscamente<br />

unřinversione in una stazione di servizio.<br />

Così nathalie toledo dà quasi fuori di matto.<br />

Così nathalie toledo. La. quasi. Moglie di vincent tholomé. Abitano insieme da 10 anni. Si sono<br />

appena fatti la proposta. Neanche 10 minuti fa. Di matrimonio. Nonostante lřamore. Nonostante<br />

lřamore. È tutto dire. È tutto dire. Così nathalie toledo dà quasi fuori di matto. E. E vincent tholomé<br />

non ha il tempo di fare il giro del veicolo giapponese e duro di nathalie toledo. Non ha il tempo di<br />

raggiungere nathalie toledo in prossimità della pompa numero 2. Nathalie toledo. In persona. In<br />

persona. Fa lei il giro del veicolo giapponese e duro. Sicché. Adesso. Vincent tholomé si trova alla<br />

pompa numero 2. E nathalie toledo alla macchinetta per i soldi. Così che dopo la stazione di<br />

servizio. Mettiamo 10 minuti dopo la stazione di servizio. Non ci si è ancora detti niente. Si sta per<br />

strada andando da qualche altra parte e si va senza dirsi niente. Dice vincent tholomé. Pensa vincent<br />

tholomé. Devastato. Letteralmente. Letteralmente. Dentro. Da. Sì. Tutta questa storia. Tutta la scena<br />

della stazione di servizio. Sicché in più si lascia scappare i bei pannelli pubblicitari colorati lungo la<br />

strada. Sicché si lascia scappare le 47 mucche pazze sui prati alla sua destra. Incapace comřè.<br />

Vincent tholomé. Di uscire oggi. 29 ottobre. 10 minuti dopo la stazione di servizio. Dalla stazione<br />

di servizio. Da quanto. Dice poi vincent tholomé. Abbiamo. Comunque. Comunque. Vissuto. Alla<br />

stazione di servizio. Una situazione critica. Bisogna dirlo. Non bisogna. No non bisogna. No non<br />

bisogna aver paura delle parole. Dice poi. Più tardi. In mezzo alla natura. Nathalie toledo.<br />

Non bisogna aver paura delle parole. Dice poi. Più tardi. In<br />

mezzo a una foresta di abeti douglas. Nathalie toledo.<br />

(Dal blog: http://lescahiersdebenjy.over-blog.com/article-4611623.html; Lunedi 20 novembre 2006)<br />

[Traduzione di Michele Zaffarano]<br />

Notizia.<br />

Sullřautore e sullřopera si veda: http://www.maisondelapoesie.be/auteurs/auteur.php?id_auteur=330.<br />

351


Nika Turbina<br />

Inediti (e altri testi dimenticati)<br />

352<br />

I testi qui presentati sono inediti in traduzione, ad eccezione di II (già in Sono pesi queste mie<br />

poesie, Via del Vento, 2008) e di I e II (già in traduzione inglese in The Conversation Paperpress<br />

1.2). Sono estratti dallřarchivio dellřautrice, rimasto per lo più inedito (o edito solo in originale)<br />

dopo la sua prematura scomparsa. Attualmente è in preparazione unředizione trilingue (russo,<br />

inglese, italiano) che faccia luce sulle parti meno esplorate di questo percorso poetico e raccolga a<br />

margine alcuni appunti dal diario.<br />

I.<br />

Подожди,<br />

Я зажгу фонарь<br />

Осветить откос,<br />

По которому<br />

Ты скатишься во тьму.<br />

Lascia,<br />

accendo io le luci<br />

lungo la discesa<br />

che ti precipita<br />

nel buio.<br />

II.<br />

Новые слова замучили меня.<br />

То пропускаю буквы,<br />

То ударенье не туда поставлю.<br />

Забытым словом хвастаюсь давно.<br />

Оно легко ложится в речь.<br />

Значение его Ŕ Любовь Ŕ<br />

Мне подарило время<br />

В предчувствии покоя.<br />

Mi hanno tormentata le parole nuove.<br />

Ora qui tralascio qualche lettera,<br />

ora lì un accento manca.<br />

Mi sono vantata a lungo<br />

di quella che ho scordato.<br />

Così facile da dire.<br />

Mi regala il suo valore il tempo<br />

Ŕ che è l'Amore Ŕ<br />

nel presentimento della quiete.<br />

352


III.<br />

Белый лес.<br />

Белые глаза.<br />

Люблю белое.<br />

Хотелось снегурочкой (1) стать Ŕ<br />

Строка обгорелая.<br />

Bianco, il bosco.<br />

Bianchi, gli occhi.<br />

Sono bianche le cose che amo.<br />

Il mio desiderio di fanciulla di neve,<br />

ridotto a una riga bruciata.<br />

IV.<br />

Слышу звук свой<br />

Надорванный,<br />

В нем мысли и чувства<br />

Собраны.<br />

Строчку диких рисунков<br />

В стихах запишу Ŕ<br />

Почитать бы кому.<br />

Percepisco la segreta<br />

nota del dolore,<br />

dove si radunano<br />

i pensieri e i sentimenti.<br />

Del mio verso farò<br />

riga di selvaggi abbozzi<br />

da leggere a qualcuno.<br />

V.<br />

Я ŕ клоун.<br />

Хожу по обручальному кольцу.<br />

А с кем я обручен?<br />

Разве только<br />

С разноцветными шарами.<br />

Io sono un pagliaccio.<br />

Percorro un anello nuziale.<br />

A chi sto legato però?<br />

Forse a dei palloncini<br />

di mille colori soltanto.<br />

353<br />

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VI.<br />

Переводя себя на речь,<br />

Душа устала<br />

Земной бездушный мир стеречь.<br />

Любить, прощать,<br />

Меня терпеть.<br />

A forza di farsi parola,<br />

si sfinisce lřanima a vegliare<br />

la pace di un mondo senza cuore.<br />

Ad amare, perdonare,<br />

a sopportarmi.<br />

VII.<br />

Слеп народ, и, не желая думать,<br />

Принимает знаки, как могильный стон.<br />

Постоять у гроба мне недолго надо,<br />

Заберу с собою свет и доброту.<br />

La gente è cieca e per non darsi pena,<br />

accoglie come gemiti di tomba i segni.<br />

Inutile indugiare in piedi accanto ad una bara,<br />

porterò con me la luce e il bene.<br />

Note.<br />

(1) La fanciulla di neve (снегурочкой) è protagonista di una fiaba del folklore russo.<br />

[Traduzione di Federico Federici]<br />

Notizia.<br />

Informazioni biografiche sullřautrice sono leggibili su: http://en.wikipedia.org/wiki/Nika_Turbina.<br />

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