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Simone Eros Beduschi, Metafisica e filosofia ... - Arbor scientiarum

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<strong>Metafisica</strong> e <strong>filosofia</strong><br />

nella tradizione cinese<br />

<strong>Simone</strong> <strong>Eros</strong> <strong>Beduschi</strong><br />

Il Maestro disse: A quindici anni mi impegnai a imparare;<br />

a trenta sapevo reggermi in piedi;<br />

a quaranta non ebbi più dubbi;<br />

a cinquanta conobbi la volontà del Cielo;<br />

a sessanta il mio orecchio si fece obbediente;<br />

a settanta posso seguire i desideri dell'animo senza infrangere le regole.<br />

Confucio, Analecta, 2:4<br />

La tradizione che viene comunemente (e forse impropriamente) chiamata “<strong>filosofia</strong> cinese” ha<br />

un’origine antichissima: nasce probabilmente nel Paleolitico con l’I King, il Libro dei Mutamenti.<br />

Lungi dall’essere il residuo di antiche superstizioni, esso rappresenta invece il fondamento<br />

autentico, l’origine di ogni sviluppo successivo all’interno del pensiero cinese. Scopo di questo<br />

articolo è illustrare, nei limiti del possibile, i capisaldi della concezione cinese della realtà, a livello<br />

cosmologico, gnoseologico ed antropologico, quali sono rinvenibili nell’I King e nel testo<br />

fondamentale della tradizione taoista, il Tao Teh King, senza ovviamente dimenticare il<br />

Confucianesimo. L’aspetto prevalentemente politico di quest’ultimo non deve far pensare che esso<br />

preveda una realizzazione dell’uomo soltanto nella vita politica. Confucio creò un sistema rituale e<br />

una dottrina morale e sociale, che si proponevano di rimediare alla decadenza spirituale della Cina,<br />

in un epoca di profonda corruzione e di gravi sconvolgimenti politici. Confucio non volle mai,<br />

invece, trattare questioni soprannaturali e che trascendessero l'esperienza umana.<br />

Nel confucianesimo non c'è alcuno spunto soteriologico e questo rende difficile considerarlo<br />

una religione. Proprio per questo, esso è stato considerato alla stregua di una dottrina sociologica.<br />

Tuttavia, il fatto che non sia una religione non significa affatto che esso non possieda una forte<br />

istanza trascendente e metafisica, che fa tutt’uno con l’aspetto politico. L’aspetto metafisico (anche<br />

se non religioso in senso occidentale) e quello socio-politico sono, nel Confucianesimo,<br />

indistinguibili, analogamente a quanto accade per la struttura della πόλις greca. Il pensiero cinese<br />

non utilizza, a differenza della <strong>filosofia</strong> greca, categorie logiche basate sulla causalità, o sui principi<br />

di identità e di non contraddizione. Con un’approssimazione molto più vicina al suo senso autentico<br />

di tante altre interpretazioni occidentali, si è cercato di trovare nel pensiero cinese una concezione<br />

analoga ma opposta a quella parmenidea. Infatti, come viene precisato nel Tao Teh King, la realtà<br />

viene mantenuta tale dal continuo rapportarsi dei due principi Yin e Yang, detti anche il Chiaro e<br />

l’Oscuro, il Padre e la Madre, e così via. Essi costituiscono ogni dicotomia presente nel cosmo, e si<br />

risolvono l’uno nell’altro incessantemente. Non vi è dunque contraddizione tra i due, ma unione<br />

della diade nel Senza-nome ineffabile: il Tao. Mentre per Parmenide l’Essere è concepito nel suo<br />

essere limitato, visibile in ciò che è dotato di una forma, nel Taoismo il vero principio è il Non-<br />

Essere, da cui invece l’Essere dipende. Per evitare equivoci, ricordiamo che il Non-Essere di cui qui<br />

si parla non coincide con quello parmenideo, assimilabile al Nulla totale, alla mancanza di Essere,<br />

bensì con quel Non-Essere che include in potenza le cose che sono e quelle che non sono. A favore<br />

di questa interpretazione pesa l’effettiva opposizione tra la logica occidentale e quella cinese, che si<br />

concentra su ciò che è instabile, che avviene hic et nunc, sull’attributo invece che sul soggetto.<br />

Tuttavia, dobbiamo sottolineare che considerare il Tao come un principio del Divenire di tipo<br />

eracliteo, causa di tutta la realtà, può portare soltanto a fraintendimenti. Il pensiero cinese non<br />

concepisce in alcun modo qualcosa che ricordi vagamente l’Αρχή greco. Se volessimo a tutti i costi<br />

trovare un principio simile nella tradizione filosofica occidentale, sarebbe opportuno confrontare il


Tao con l’Idea del Bene descritta da Platone nella Πολιτεία come «al di là dell’Essere», e quindi<br />

come presupposto allo stesso tempo sia dell’Essere che del Non-Essere, con la differenza che il Tao<br />

non è propriamente assimilabile ad un’Idea platonica. È evidente, a questo punto, come sia più<br />

corretto parlare di metafisica, piuttosto che di semplice <strong>filosofia</strong>. Siamo non più in un ambito<br />

propriamente razionale, ma sovra-razionale, cioè in un dominio che comprende la Ragione, ma che<br />

ne è anche al di sopra, fondandola. Ricordiamo, per inciso, che la metafisica orientale è stata spesso<br />

bollata come “irrazionale” da certo pensiero occidentale, ignorante della distinzione tra ciò che è<br />

sopra la ragione e ciò che vi sottostà, e che merita perciò di essere chiamato propriamente<br />

irrazionale.<br />

Il Tao Teh King è pienamente comprensibile solo a livello di intuizione sovra-razionale ed<br />

ineffabile. Ogni tentativo di spiegazione basato sulla sola ragione, e quindi ogni tentativo filosofico,<br />

mai riuscirà a coglierne l’intima essenza. Usando la terminologia della tradizione cristiana, si<br />

potrebbe dire che sia accessibile solo tramite un’esperienza mistica, che può esprimersi solo con<br />

una teologia negativa, essendo i suoi elementi troppo semplici, troppo originari per essere trasposti<br />

in un linguaggio filosofico. Non si può comprendere il Tao, si può solo entrarne in possesso.<br />

L’unico modo per ottenerlo è farne esperienza. Nel testo ciò viene espresso in più modi: alla fine<br />

del capitolo LIV, l’Autore anticipa ogni possibile obiezione: «Come so che tutto ciò è universale<br />

sotto il Cielo? Per esperienza».<br />

In alcuni capitoli di poco precedenti, viene criticata la volontà degli uomini di parlare<br />

inutilmente: il Silenzio è la caratteristica di chi possiede il Tao e ne fa esperienza. L’autore<br />

incoraggia addirittura a liberarsi progressivamente di ogni tipo di conoscenza, di dimenticare un<br />

poco ogni giorno, quando l’atteggiamento dell’uomo comune è invece quello che coincide con<br />

l’aumento della conoscenza.<br />

Per questi motivi chi scrive è persuaso che il possesso del Tao sia assolutamente<br />

incompatibile, per non dire contrario, agli scopi tipici della <strong>filosofia</strong>, che per definizione è “amore<br />

della sapienza”. Chi possiede il Tao ne ha la certezza assoluta, non ha bisogno di alcun tipo di<br />

conoscenze che, come abbiamo visto poco sopra, vanno invece dimenticate. La <strong>filosofia</strong> è un<br />

percorso ascendente e preparatorio all’acquisizione della sapienza; il possesso del Tao è invece il<br />

culmine della realizzazione umana, raggiunta la quale è necessario spogliarsi di tutti gli elementi<br />

superflui. Le istanze, come si vede, sono diametralmente opposte. Soprattutto, il Tao non ha nulla a<br />

che vedere con la visione filosofica dominante in Occidente dagli albori della modernità, la stessa<br />

che fa dire a Kant, nella Critica della Ragion pura, che «in qualunque modo e con qualunque<br />

mezzo una conoscenza si riferisce a oggetti, quel modo, tuttavia, per cui tale riferimento avviene<br />

immediatamente, e che ogni pensiero ha di mia come mezzo, è l’intuizione. Ma questo ha luogo<br />

soltanto a condizione che l’oggetto ci stia davanti». Si parla ovviamente dell’opposizione<br />

gnoseologica tra soggetto e oggetto, sistematizzata per la prima volta da Cartesio. A differenza di<br />

quanto si potrebbe pensare, questa distinzione non è sempre esistita nella <strong>filosofia</strong> occidentale.<br />

Tuttavia, essa ha avuto un influsso così vasto da minare per sempre le nostre categorie ermeneutiche<br />

allorché ci cimentiamo nell’impresa di leggere un testo di <strong>filosofia</strong> greca, o medievale. Questo<br />

dev’essere tenuto presente quando ci si trova ad affrontare un’interpretazione filosofica di un testo<br />

metafisico orientale, perché spesso i due modi di procedere risultano incommensurabili e si<br />

generano incomprensioni.<br />

Ram Adhar Mall, nel suo pregevole lavoro Interculturalità, tenta di trovare somiglianze tra la<br />

moderna <strong>filosofia</strong> occidentale e il pensiero orientale (che, ripetiamo, non ci sentiamo di classificare<br />

come semplice “<strong>filosofia</strong>”), esemplificando il suo approccio per mezzo dell’opinione di alcuni<br />

filosofi moderni europei: «nel Sei e Settecento la cultura della Cina fu considerata esemplare, e lo<br />

spirito cinese venne ammirato da Voltaire a Leibniz, Herder, Schiller, Goethe, e poi fino a Russell,<br />

poiché esso aveva elaborato una pura <strong>filosofia</strong> umana senza ricompensa o castigo ultraterreno» 1 .<br />

1 R.A. MALL, Interculturalità. Una nuova prospettiva filosofica, a cura di S. Crapiz, Genova 2002, p. 114.


Ora, se mi pare legittimo, in nome di un tentativo di confronto inter-culturale, tentare una<br />

mediazione tra questi due orizzonti così distanti, eppure vicini, forse sarebbe più corretto<br />

paragonare la tradizione cinese a quella dell’antica Grecia. Non mi pare vero, infatti, quanto<br />

afferma Fung-Yu-Lan, citato da Mall. Secondo lo studioso infatti «la <strong>filosofia</strong> cinese ha sviluppato<br />

una metodologia di scarso rilievo da un punto di vista occidentale o indiano, non perché incapace di<br />

elaborare un pensiero metodico, ma perché, volutamente, i Cinesi non hanno mai prestato soverchia<br />

attenzione alla metodologia stessa. Ottenere la conoscenza, infatti, è soltanto un mezzo e non un<br />

valore in sé e per sé. La greca theoria, ossia la conoscenza per la conoscenza, è alquanto lontana dal<br />

pensiero cinese. I filosofi della Cina evitano le discussioni metafisiche, poiché esse non hanno<br />

pressoché nulla a vedere con la felicità dell’uomo, la quale, comunque, non è semplicemente la<br />

felicità di un soggetto autorealizzantesi, come lo è invece per la tradizione europea o indiana, ma è<br />

il risultato dell’ordine e dell’armonia sociale» 2 . In questo passaggio la theoria, o Contemplazione,<br />

dei Greci viene interpretata forse in modo riduttivo, e la metafisica viene esclusa dal pensiero cinese<br />

in quanto disciplina che si occupa di discussioni. E questo è del tutto vero, poiché in Oriente la<br />

metafisica è solitamente fedele alla sua essenza, e perciò al di là del linguaggio e del pensiero.<br />

Credo che qualcosa di simile abbia fatto parte del pensiero greco arcaico e classico, in quanto<br />

non ancora “contaminato” dalla modernità. È evidente, infatti, che i filosofi sei e settecenteschi<br />

nominati sopra fossero desiderosi di far conoscere l’Oriente in quanto, a loro dire, privo del<br />

riferimento ad una trascendenza religiosa e ad un castigo ultraterreno. La Weltanschauung moderna<br />

non tollera, infatti, che l’uomo venga ostacolato dall’Alto nella sua prometeica ascesa e nel suo<br />

autoporsi al centro dell’Universo; obiettivo, questo, probabilmente giudicato privo di senso e<br />

tracotante da parte di una saggio cinese.<br />

La trascendenza, è bene ricordarlo una volta di più, è sempre alla base del pensiero orientale,<br />

anche se non nella forma specificamente religiosa tipica dell’Occidente storico. Il vero problema<br />

per qualsiasi interpretazione occidentale è che non esiste per i Cinesi una distinzione tra immanenza<br />

e trascendenza. La realtà è al tempo stesso interamente trascendente ed interamente immanente.<br />

Pensare che tutto ciò possa essere etichettato come “panteismo” significa non avere ancora la<br />

minima idea di ciò di cui si sta parlando. Pur rimanendo pregevole l’opera di Mall, mi sembra che<br />

per quanto riguarda il metodo da lui utilizzato nei confronti del sapere orientale sia necessario un<br />

atteggiamento ermeneutico, che valorizzi le peculiarità delle dottrine con le quali ci si confronta,<br />

ammettendo un’incapacità di fondo del pensiero occidentale nel comprendere ciò che per sua natura<br />

non può essere oggetto di comprensione, ma solo di esperienza diretta: trattasi di esperienza<br />

metafisica, che può essere realizzata (e non compresa) soltanto a livello sovra-razionale.<br />

Verrà ora dedicato spazio al confronto tra il taoismo e il “pensiero meditante” di Martin<br />

Heidegger, sicuramente una delle più interessanti proposte di dialogo con l’Oriente che l’Occidente<br />

abbia tentato in ambito filosofico, soprattutto a partire dalla conferenza Die Gelassenheit<br />

(«L’Abbandono»). Questo testo è parte dell’ultimo tratto della parabola speculativa del pensatore<br />

tedesco, e nasce dall’esigenza di un’ultima parola, di una proposta su come affrontare l’utilizzo<br />

distorto della tecnica, che ha portato al decadimento dell’Occidente e della sua metafisica.<br />

L’Abbandono concepito da Heidegger consiste nel lasciare che le cose ci parlino alla luce del<br />

loro Essere, che non deve più essere concepito come qualcosa da conchiudere nel concetto e da<br />

utilizzare, ma come qualcosa cui prestare ascolto, in modo da poterne cogliere il messaggio ultimo.<br />

Alcuni, come Chang Chung-yuan, hanno paragonato l’Abbandono heideggeriano al wu wei,il nonagire<br />

del Taoismo. Ci sono indubbiamente dei punti di contatto in apparenza, ma è bene specificare<br />

che le due cose sono di natura estremamente diversa. È forte la tentazione di paragonare queste due<br />

soluzioni così diverse senza tenere conto di una differenza fondamentale, che a monte di qualsiasi<br />

confronto le sistema agli antipodi. Da un lato, Heidegger afferma decisamente che si rende<br />

necessario un nuovo inizio del pensiero, che metta la parola fine alla metafisica, ormai realizzatasi<br />

completamente nel nichilismo della supremazia della tecnica e nella guerra mondiale. Lao Tze, e il<br />

2 Ivi, p. 117.


Taoismo in generale, propone invece di abbandonare per prima cosa proprio il pensiero speculativo<br />

per potere divenire saggi e così realizzarsi in modo perfetto. Ciò che per Heidegger vuole essere<br />

l’alba di una nuova era, per Lao Tze è soltanto un fastidioso impedimento a cui rinunciare in nome<br />

di qualcosa di molto più alto.<br />

Va inoltre ricordato che Heidegger annuncia la “fine della metafisica”, quando è evidente che<br />

tutto ciò che è metafisico, e dunque al di là delle categorie spazio-temporali, non può iniziare,<br />

evolversi o finire. La <strong>Metafisica</strong> non dipende affatto da una tradizione di pensiero o dagli individui<br />

che pretendono di parlarne. Essa è eterna e sovra-temporale. Nonostante Heidegger sia nel giusto<br />

quando critica le degenerazioni soggettivistiche della metafisica moderna e contemporanea, egli, ci<br />

venga passata l’espressione, butta via il bambino con l’acqua sporca, volendo eliminare la<br />

<strong>Metafisica</strong> tout court dopo aver preso in considerazione solamente il suo snaturamento avvenuto<br />

nella tradizione occidentale.<br />

Il non-agire di Lao Tze è, di fatto, quasi incomprensibile da capire per una mente occidentale<br />

che voglia affrontare il problema dal punto di vista esclusivamente filosofico. Heidegger<br />

definirebbe volentieri l’opera filosofica come qualcosa che, partendo dall’incertezza, cerca di<br />

conoscere qualcosa avventurandosi in una selva, che spesso conduce l’uomo a smarrirsi lungo<br />

sentieri interrotti (holzwege, nel linguaggio heideggeriano). Solo in casi rarissimi è possibile<br />

intravedere la Radura (lichtung). Lao Tze, invece, non agisce perché è sempre stato là, seduto al<br />

Centro della Radura che Heidegger mai raggiunse, pur provandoci con tutte le sue forze.<br />

A questo punto, è possibile tentare ancora l’utilizzo di una prospettiva interculturale sulla<br />

linea di Mall? A mio avviso è possibile, ed è anzi necessario se si vuole effettivamente porre<br />

rimedio alla marcescenza in cui è incorsa la nostra tradizione metafisica. Il monito da aver sempre<br />

presente è di non voler a tutti i costi prendere dal pensiero orientale soltanto ciò che sembra esserci<br />

“più vicino”. Al contrario, l’obiettivo di un’autentica ermeneutica interculturale dovrebbe essere<br />

quello di tentare la ricezione di ciò che è più distante dal nostro modo di vivere e di pensare, di<br />

chiederci soprattutto perché ci appare distante, in modo da mettere in atto una μετάνοια che produca<br />

cambiamenti sostanziali all’interno della stessa tradizione occidentale, senza per questo snaturarla<br />

nella sua essenza. Essa può e deve abbeverarsi all’inesauribile fonte dell’Oriente, senza per questo<br />

dover scadere in facili esotismi ed incomprensioni.

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