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Davide Arecco, La diffusione inglese ... - Arbor scientiarum

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<strong>La</strong> <strong>diffusione</strong> <strong>inglese</strong> dell’alchimia paracelsiana<br />

dai puritani a Newton<br />

<strong>Davide</strong> <strong>Arecco</strong><br />

Una delle questioni aperte tra gli storiografi della scienza moderna è quella relativa al periodo<br />

di nascita effettiva della chimica in Europa. In particolare, ci si continua a domandare se essa non<br />

sia esistita già prima del Settecento (prima cioè della rivoluzione quantitativa lavoisieriana). Inoltre,<br />

la ricerca storica ancora non è riuscita a considerare in una maniera veramente esaustiva ed insieme<br />

libera da vincoli pregiudiziali la discendenza o meno della moderna chimica dalla vecchia alchimia,<br />

disciplina dai contorni e confini quanto mai labili e sfumati. A fronte di oltre mezzo secolo di studi<br />

e ricerche, diversi sono i problami da risolvere. Segnatamente: si può già parlare di chimica prima<br />

dell’età dell’Illuminismo? Se sì, dove, quando e con chi? Esiste un legame storico, accertabile, tra la<br />

chimica e l’alchimia? In caso di risposta affermativa, a quale tipo di corrente alchemica occorre fare<br />

riferimento per invocare una presunta affinità disciplinare? Non sarebbe forse più corretto parlare di<br />

contiguità, piuttosto che di continuità? E’ realmente impresa facile distinguere tra le due, separare il<br />

campo dell’una da quello dell’altra? Nel tentare ciò, non dovrebbe essere necessario prendere anche<br />

in considerazione fattori extra-storici, quali quelli di natura geografica? Se speculazioni alchemiche<br />

e scoperte chimiche hanno talora convissuto, in quale forma la cosa si è verificata? Lungo quali vie<br />

e con quali finalità, a seconda delle differenti realtà contestuali? Si tratta, ovviamente, di quesiti ai<br />

quali non è possibile rispondere in questa sede, qui riassunti al semplice scopo di porre in evidenza<br />

lo stato dell’arte (oltremodo problematico e aperto) sull’argomento in discussione.<br />

Molti passi avanti, è vero, sono stati fatti in questi ultimi anni. Qualche storico della scienza –<br />

penso a Hannaway – ha iniziato a studiare i libri di testo di chimica – una pruduzione dalle marcate<br />

finalità didattiche, quindi – ad uso degli studenti inglesi e centro-europei. Ne è venuta una conferma<br />

del fatto che la cultura alchimistica venne fruita e consumata al di fuori degli ambienti universitari,<br />

anzi in contrasto con essi e non lontano (specie nei paesi protestanti) da posizioni sia politicamente<br />

sia religiosamente assai radicali. Nella prima Inghilterra moderna, in particolare, nuove idee sociali<br />

e tradizione alchemica maturarono un matrimonio precoce e duratuto, fino a coagularsi in maniera<br />

originale e pressoché inestricabile. Il collante fu il millenarismo, l’entusiastica attesa dei settari per<br />

una nuova era di rinascita spirituale. Nei confronti di tali aspettative, le università rimasero sorde, se<br />

non apertamente ostili. Solo lentamente, non senza dubbi e ritrosie, il mondo dei colleges avrebbe –<br />

ma solo in parte – cambiato parere a partire da metà Seicento circa, anche in virtù del mutato clima<br />

e dei rivolgimenti istituzionali in atto nella storia <strong>inglese</strong>. Ad ogni modo, nemmeno la caduta della<br />

monarchia di Carlo I, e la momentanea fine dell’anglicanesimo realista ad opera dei parlamentari di<br />

Cromwell, può venire considerata alla stregua d’uno spartiacque nella storia della cultura scientifica<br />

e della sua trasmissione-assimilazione. Il regicidio che nel 1649 inaugurò l’Interregno repubblicano<br />

fa data nella storia politica, ecclesiastica ed economica, ma non in quella della scienza. Nonostante i<br />

coraggiosi mutamenti introdotti, il passato si dimostrò inaspettatamente tenace e orgoglioso. Antichi<br />

insegnamenti e vecchi metodi di studio stentarono a morire. Aristotele – proprio lui, il campione dei<br />

nemici popish ed il simbolo della supina accettazione cattolico-romana dell’autorità – rappresentava<br />

ancora il nucleo essenziale e fondante dei curricula universitari. Non solo. Ciò sarebbe valso anche<br />

per la Cambridge dei primi anni Sessanta, a Restaurazione stuartista appena avvenuta. Su un libro di<br />

testo sostanzialmente aristotelico, la Physiologia peripatetica (1642) di Johannes Magirus, pastore<br />

luterano tedesco, studiò il giovane Newton, le cui annotazioni sono contenute in un notebook, che si<br />

conserva oggi presso la University Library di Cambridge. L’apprendimento delle novità filosofiche,<br />

là dove avveniva, si verificava sempre e comunque entro argini fideistici.<br />

A ribellarsi contro l’ortodossia dottrinaria dell’ordine costituito, nella prima metà del secolo<br />

XVII, furono gli iatrochimici. Gli alchimisti seguaci di Paracelso, tramite il medium del belga Van


Helmont, sferrarono il più irriverente degli attacchi al corpo di conoscenze tramandate dal passato<br />

accademico. 1 <strong>La</strong> nuova alchimia dell’archeus promosse una riforma della chimica, e più in generale<br />

del sapere, in tutto e per tutto parallela ad un più grande progetto di renovatio neo-evangelica. Se la<br />

rivoluzione scientifico-religiosa portata avanti dai paracelsiani inglesi venne da loro intesa, in senso<br />

etimologico, come una vera e propria restaurazione, come il ritorno a perdute forme di sapienza – è<br />

l’ideale rinascimentale della prisca theologia, rintracciabile in molti luoghi delle carte manoscritte<br />

newtoniane – razionalismo e misticismo contribuirono all’edificazione di tale utopia, combinandosi<br />

vicendevolmente ed alimentando con generosità mai sopite ansie escatologiche. 2 L’alchimia <strong>inglese</strong><br />

si mosse costantemente in bilico tra esigenze scientifiche e afflato messianico, ponendosi come una<br />

sorta di tramite fra queste due istanze. Ispirandosi all’insegnamento esoterico-occulto di Paracelso,<br />

la trattatistica helmontiana codificò una pratica spargirica strettamente connessa a complesse forme<br />

di esplorazione mistica del divino, prendendo piede meglio che altrove in Inghilterra. 3<br />

L’alchimista paracelsiano doveva identificare tanto i principi quanto le origini delle sostanze<br />

che manipolava nell’atanòr. <strong>La</strong> principale caratteristica della chimica seicentesca era il suo rapporto<br />

con la più ampia filosofia naturale. <strong>La</strong> chimica in quanto scienza autonoma in pratica non esisteva,<br />

fusa e confusa con l’alchimia. Sia Paracelso sia Van Helmont, d’altro canto, posero la propria arte<br />

al servizio della medicina. I loro sforzi erano rivolti alla preparazione di farmaci e composti. Dietro<br />

l’angolo vi era sempre l’ombra della ciarlataneria. 4 Alfiere e responsabile di tutto ciò fu lo svizzero<br />

Paracelso, nei primi decenni del XVI secolo, con il quale la chimica-alchimia raggiunse forse il suo<br />

massimo sviluppo europeo. E’ difficile leggere le pagine paracelsiane senza concluderne che da lui i<br />

fenomeni presentati servivano soprattutto ad illustrare una filosofia religiosa. L’influenza esercitata<br />

dalle sue teorie fu considerevole lungo tutto il Seicento e non solo in Inghilterra. Pure in Francia, in<br />

un milieu intellettuale assai diverso da quello <strong>inglese</strong>, le disquisizioni di Paracelso sui tre principi<br />

(sale, zolfo e mercurio) non rimasero estranee a studiosi quali Beguin e Lemery, i quali le tennero –<br />

anzi – ben presenti nelle loro investigazioni di laboratorio. Nella tradizione paracelsiana metafisica<br />

scientifica ed empirismo ippocratico si auto-alimentavano in misura scambievole. I libri pubblicati<br />

da Van Helmont e dai sostenitori inglesi di Paracelso – abbiamo una ininterrotta tradizione di testi<br />

che si estende per tutto il secolo XVII, con una maggiore quantità di codici a stampa nell’Inghilterra<br />

puritana – consistevano, per la maggior parte, in prescrizioni mediche che potevano ricordare (ma a<br />

torto) i ricettari medievali, con in più un pizzico di teoria.<br />

Accettando e facendo sua una concezione qualitativa della natura, la iatrochimica si poneva in<br />

conflitto con la visione quantitativa che dominò sempre più le scienze fisiche nel Seicento. Tutta la<br />

tradizione paracelsiana dei principi attivi, un aspetto del naturalismo rinascimentale, era parimenti<br />

in contrasto con la nascente filosofia meccanicistica. Tra gli iatrochimici inglesi era usuale, seppure<br />

non universale, considerare attivi i tre principi di Paracelso ed accettare – oltre ad essi – due principi<br />

passivi, la terra e l’acqua. Van Helmont, che fu forse l’ultimo grande seguace di Paracelso, riteneva<br />

che un principio attivo, analogo al mercurio di Paracelso, fosse la componente fondamentale di tutti<br />

i corpi. Una visione diametralmente opposta alla concezione del meccanicismo.<br />

Alle spalle della chimica <strong>inglese</strong> del Seicento stava dunque l’alchimia. Gli iatrochimici vissuti<br />

in Inghilterra nel XVII secolo non mancarono di concretezza e, con difficoltà, si abbandonarono ai<br />

voli della fantasia propri degli ermetisti. <strong>La</strong> concezione alchimistica della natura reputava i metalli<br />

fondamentalmente identici tra di loro. <strong>La</strong> sola differenza era il grado di maturità, da cui derivava la<br />

divisione gerarchica in oro, argento, piombo e così via. L’alchimista <strong>inglese</strong>, che seguiva Paracelso,<br />

esprimeva la sua visione organica della natura nei termini più estremi. Il suo vocabolario era pieno<br />

1 F.S. TAYLOR, The Alchemists, New York 1949.<br />

2 G. CAROCCI, <strong>La</strong> rivoluzione <strong>inglese</strong> (1640-1660), Roma 1998, pp. 46 e segg.<br />

3 J.B. VAN HELMONT, Oriatrike, London 1662.<br />

4 D. GENTILCORE, Healers and Healing in Early Modern Italy, Manchester 1998; D. GENTILCORE, Ethnography<br />

of everyday life in Early Modern Italy (1550-1796), Oxford 2002; D. GENTILCORE, Was there a ‘popular medicine’ in<br />

Early Modern Europe, in «Folklore», CXV, 2004, pp. 151-166.


di parole dotate di una connotazione inequivocabile, arrivate tutte sino a Newton: fermentazione,<br />

vegetazione, generazione e maturazione tra queste.<br />

Nei suoi lunghi processi lo iatrochimico paracelsiano tendeva a utilizzare i calori organici. Se<br />

il maggior numero dei chimici più importanti della prima metà del secolo seguì, entusiasticamente o<br />

meno, Paracelso, nella seconda si convertì al modello meccanicista. Valutando tale rioerientamento<br />

avvenuto in seno al pensiero chimico, va riconsiderata anche la storia interna della iatrochimica. Al<br />

momento in cui furono formulati i principi paracelsiani, essi valevano per un numero molto limitato<br />

di dati, gran parte dei quali organici. In fondo, si impiega ancora il termine paracelsiano di «spirito»<br />

per definire i prodotti di alcune distillazioni, che costituiscono una parte importante nel corpo delle<br />

informazioni di base. Nel corso del secolo XVII, la quantità delle cognizioni chimiche si estese in<br />

misura ragguardevole. Il grosso delle nuove conoscenze, inoltre, concerneva quella che, oggi, è nota<br />

come chimica inorganica e si rese indispensabile uno sforzo rilevante per inserirle nelle categorie<br />

concettuali della teoria paracelsiana. Occorreva un corpo teorico, a un tempo coerente ed utile nella<br />

catalogazione delle reazioni e dei preparati. Fu questo il compito che si assunsero, ispirandosi a Van<br />

Helmont, i puritani inglesi, fautori dell’alchimia paracelsiana. Nemmeno la Francia fece eccezione,<br />

con il Cours de chimie pubblicato per la prima volta da Nicolas Lemery nel 1675. Numerose furono<br />

le sue edizioni e traduzioni, che esercitarono una vasta influenza. Il libro di Lemery, praticamente,<br />

era tutto decicato al terzo principio di Paracelso, il sale, ricompreso in uno schema organizzativo, a<br />

sua volta reso evidente dal tentativo di ridurre la parte maggiore delle reazioni alla neutralizzazione<br />

di un acido da parte di un alcale. Poiché era stato Van Helmont il primo a descrivere tale processo<br />

di neutralizzazione, l’importanza sua e dell’ascendente paracelsiano nella chimica di Lemery è un<br />

altro aspetto del debito di quest’ultimo verso l’alchimia. Anche le disquisizioni del francese su aqua<br />

fortis, aqua regia e spirito mercuriale ne sono una conferma.<br />

L’opera del medico e iatrochimico John Mayow (1640-1679) illustra ulteriormente con quale<br />

facilità la filosofia meccanicistica potesse servire in Inghilterra a sostenere un punto di vista circa la<br />

chimica di tipo tradizionale e paracelsiano. Alchimista e fisiologo nato vicino a Looe, nel Cornwall,<br />

all’età di quindici anni Mayow entrò al Wadham College di Oxford, del quale divenne «scholar» un<br />

anno dopo. Nel 1660, dopo l’incoronazione di Carlo II, fu eletto «fellow» ad All Souls. Si laureò in<br />

legge, ottenendo il baccellierato nel 1665 e il titolo di dottore nel 1670. Svolse, da quel momento, la<br />

professione di medico a Bath, dove dimostrò notevoli doti cliniche. Nel 1678, dietro indicazione di<br />

Robert Hooke, allora principale collaboratore di Robert Boyle, entrò a far parte della Royal Society<br />

e si trasferì a Londra. A seguito di un matrimonio del quale possediamo scarsissime notizie, nella<br />

capitale <strong>inglese</strong> morì nel settembre 1679.<br />

Mayow pubblicò a Oxford, nel 1668, due trattati sulla respirazione e la combustione, nei quali<br />

provava la veridicità delle osservazioni sperimentali di Boyle. Nel 1674 li fece ristampare, in forma<br />

rivista ed ampliata, aggiungendovi una dissertazione De sal-nitro et spiritu nitro-aereo, un’altra De<br />

respiratione foetus in utero et ovo e uno studio iatrofisico – precedente le indagini portate avanti dal<br />

galileiano Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) dopo la sua fuoriuscita dalla fiorentina Accademia<br />

del Cimento – De motu musculari et spiritibus animalibus. I contenuti di quest’opera, che vennero<br />

più volte ripubblicati (anche nei singoli capitoli) in Inghilterra e tradotti in olandese, tedesco e pure<br />

francese, attestano una precocità e un avanzamento da parte di Mayow realmente notevoli.<br />

Nell’ambito della medicina, lo iatrochimico <strong>inglese</strong> consacrò le sue energie all’investigazione<br />

dei tessuti muscolari, mentre le sue ricerche sulla circolazione del sangue e sul movimento del cuore<br />

si inscrivevano in una tenace e consapevole ripresa delle scoperte compiute da William Harvey solo<br />

pochi decenni prima. 5 In campo chimico, seguendo la vulgata paracelsiana di Van Helmont e degli<br />

alchimisti puritani, Mayow scoprì la sostanza da lui definita, con un efficace neo-logismo, «spiritus<br />

nitro-aereus» – talora abbreviato, per semplicità e comodità, in «nitro-aereus» – con cui identificò<br />

uno dei costituenti della porzione dell’acido nitrico, formato dall’unione di un alcale ‘fisso’ con uno<br />

5 J. MAYOW, Medico-physical works, Oxford 1926 (altra edizione Edinburgh 1907).


spirito aereo. Mayow pensava in proposito al fuoco o soffio vitale (pneuma) degli stoici, il pensiero<br />

dei quali era particolarmente rifiorito nell’Inghilterra seicentesca. 6<br />

Boyle aveva parlato, in quello stesso arco di anni, di quintessenza vitale. Mayow la chiamò da<br />

parte sua spirito nitro-aereo intendendo sottolineare così la sua analogia con la polvere da sparo, con<br />

bussola e stampa a caratteri mobili una delle tre icone baconiane della scienza moderna. Come disse<br />

lo stesso Mayow, il salnitro ha fatto in filosofia naturale altrettanto rumore quanto in battaglia. Con<br />

la sua definizione di «spiritus nitro-aereus», inteso alla stregua di un’entità separata e distinta dalla<br />

massa generale dell’aria, Mayow precedette Priestley e segnatamente <strong>La</strong>voisier nell’individuazione<br />

(che appartiene storicamente al secolo successivo) dell’esistenza dell’ossigeno.<br />

Mayow era, terminata l’esperienza del Commonwealth, uno dei numerosi sperimentatori che<br />

si interessavano alle analogie tra respirazione e combustione. Era risaputo che, quando si accendeva<br />

una candela in un contenitore chiuso sopra l’acqua, questa saliva in esso, mentre il volume dell’aria<br />

diminuiva col progressivo consumarsi della candela. Gli esperimenti di Mayow determinarono ora<br />

che lo stesso fenomeno avveniva (più o meno nelle medesime proporzioni) quando un animale – si<br />

pensi alla colomba bianca di Boyle, innocente vittima del baconiano advancement of learning – era<br />

destinato a spirare entro un analogo contenitore sigillato. <strong>La</strong> riduzione di volume non solo suggeriva<br />

la distruzione di una qualche parte dell’aria, ma gli esperimenti condotti con la pompa ad aria dagli<br />

sperimentatori che si riunivano attorno a Boyle sin dai tempi dell’Invisible College confermarono la<br />

conclusione, rivelando che la presenza dell’aria era necessaria, sia per la combustione, sia per la vita<br />

degli organismi. Mayow aggiunse, di suo, un altro esperimento a questi già noti. Chiuse un animale<br />

di piccole dimensioni in un recipiente insieme con materiale combustibile cui poteva dare fuoco con<br />

uno specchio ustorio (proveniente dalla tradizione archimedea, ripreso ora tanto da galileiani quali il<br />

felsineo Bonaventura Cavalieri quanto da gesuiti come Athanasius Kircher). Quando l’animale morì<br />

non fu possibile incendiare il materiale combustibile. Pertanto, respirazione e combustione erano tra<br />

loro strettamente collegate e richiedevano la medesima sostanza dell’aria. Mayow la definì appunto<br />

come spirito nitro-aereo, nome derivante dal salnitro a cui accenna il titolo latino del suo saggio, per<br />

esprimere il fatto che le sostanze contenenti salnitro (come la polvere da sparo di cui sopra), le quali<br />

possedevano spirito nitro-aereo, potevano bruciare in assenza d’aria. 7<br />

Dopo il lavoro di <strong>La</strong>voisier nella seconda metà del secolo XVIII sul ruolo dell’ossigeno nella<br />

combustione e nella respirazione, Mayow fu salutato come un precursore della scoperta del grande<br />

chimico francese. In realtà, però, il suo lavoro può essere compreso assai meglio in relazione con la<br />

tradizione paracelsiana degli alchimisti puritani. <strong>La</strong> stessa espressione «spiritus nitro-aereus» viene<br />

dal loro mondo. <strong>La</strong> chiave per intenderlo è la sua interpretazione della diminuizione di volume della<br />

aria. Secondo la nostra chimica, l’ossigeno si combina col carbonio sia nella respirazione sia nella<br />

combustione, formando in tal modo biossido di carbonio che si scioglie nell’acqua. Mayow, invece,<br />

affermava che a diminuire fosse l’elasticità dell’aria. Lo iatrochimico <strong>inglese</strong> considerava lo spirito<br />

nitro-aereo non un gas che costituisce parte dell’aria, ma la causa meccanica dell’elasticità dell’aria<br />

in questione. In termini già moderni, egli parlava di particelle nitro-aeree, incuneate nelle particelle<br />

dell’aria, sì da rendere queste ultime elastiche. Forse un’adeguata analogia – un procedimento caro<br />

ai discepoli di Paracelso, ma da lui non usata – potrebbe essere la particella di aria vista come tubo<br />

vuoto che riceve solidità ed elasticità da pezzi di ferro elettrificati per strofinio (le particelle nitroaeree),<br />

che corrono al suo interno. Se l’impostazione corpuscolare data ai problemi palesa il ricorso<br />

all’atomismo di Boyle e degli altri virtuosi inglesi, la particella nitro-aerea di Mayow non era altro<br />

che un principio attivo di Paracelso rivestito di panni meccanicistici: è la causa fisica dell’elasticità<br />

dell’aria, lo è anche della combustione; separata dall’aria, in sede di respirazione, alimenta la vita<br />

animale; quando fermenta con le particelle salino-sulfuree nel sangue, produce il calore animale, e<br />

quando reagisce di nuovo con altre particelle uguali (giunte attraverso i nervi), causa la contrazione<br />

6<br />

M. BALDI, «Mind Senior the the World». Stoicismo e origenismo nella filosofia platonica del Seicento <strong>inglese</strong>,<br />

Milano 1996.<br />

7<br />

R.S. WESTFALL, <strong>La</strong> rivoluzione scientifica del XVII secolo, Bologna 1984, p. 93.


dei muscoli, rivelandosi così la fonte del moto animale. Lo spirito nitro-aereo è inoltre responsabile<br />

della vita vegetale.<br />

Si inizia qui a sospettare il ruolo anomalo che il salnitro – nitrato di potassio – rivestiva nella<br />

teoria di Mayow. Ingrediente della polvere da sparo, il salnitro veniva allora estratto dalla terra, una<br />

volta abbondantemente concimata. Era quindi associato ad un fertilizzante. Infine, da esso si poteva<br />

ricavare lo spirito di nitro o acido nitrico. Nello spirito nitro-aereo di Mayow si mescolano, insieme,<br />

almeno tre elementi differenti: in quanto agente della combustione e della vita animale, si trattava<br />

dell’ossigeno; in quanto agente della vita vegetale, dell’azoto; in quanto spirito acido, dello ione di<br />

idrogeno (per dirla con la terminologia e il lessico successivi). <strong>La</strong> chimica del Seicento, impregnata<br />

di alchimia, non era naturalmente ancora abbastanza sofisticata per introdurre ed operare una simile<br />

rete di precisazioni e distinzioni. Per quanto riguardava Mayow, le particelle nitro-aeree non erano<br />

altro che la traduzione meccanicistica dello spirito attivo della tradizione paracelsiana. 8<br />

Una situazione non dissimile contraddistingue, prima e dopo la morte di Mayow, le ricerche<br />

dei natural philosophers a lui contemporanei. Chiaramente, il più importante chimico dell’epoca fu<br />

Boyle. Tutta la sua produzione scientifica può essere letta come un’esposizione costante e congiunta<br />

della storia naturale di Bacone e della filosofia meccanicista, da poco in auge. A Boyle interessava,<br />

più di tutto, estendere la prima attraverso la seconda. Eppure, prima di conseguire ingenti risultati<br />

nel dominio della chimica moderna, rimase anch’egli attratto e sedotto dall’alchimia. Ciò avvenne<br />

negli anni cinquanta del Seicento, quando era membro del gruppo di Oxford, che avrebbe in seguito<br />

costituito la Royal Society (1662). 9 Fu dedicandosi alle pratiche alchemiche che Boyle pervenne –<br />

un apparente paradosso – alla convinzione profonda che una nuova iatrochimica potesse offire alla<br />

filosofia meccanicistica l’unica possibilità di mettere a punto una teoria della materia che risultasse<br />

impostata su basi rigorosamente sperimentali. Un progetto controcorrente e coltivato all’inizio nella<br />

solitudine e nel silenzio dei grandi alchimisti del passato. Un progetto, comunque, al quale il fratello<br />

del conte di Cork dedicò per intero la propria carriera scientifica.<br />

Nello Sceptical Chymist (1661), uno dei suoi primi e più famosi libri, Boyle fornì la storica<br />

enunciazione di elemento. Era dell’idea, tema dominante di cui sono pervase tutte le sue opere, che<br />

le reazioni chimiche non fossero altro che il rimescolamento delle particelle (le stesse di cui aveva<br />

parlato Mayow) e che tutte le proprietà chimiche andassero intese come il prodotto di particelle di<br />

materia in movimento. Nonostante tale affermazione, ribadiva a più riprese di non avere mai letto le<br />

opere cartesiane. Il motivo, forse, può cercarsi non in una mancanza di umiltà – appunto che, vista<br />

alla luce della devozione e della moralità sempre mostrate dal Boyle, appare fuorviante – quanto<br />

piuttosto in ragione della sua fede baconiana e del connesso rifiuto (pre-newtoniano) di formulare<br />

qualsivoglia ipotesi. Con la sua chimica, in particolare, Boyle mirava ad applicare le concezioni del<br />

nuovo orizzonte meccanicistico alle vecchie reazioni dell’alchimia paracelsiana <strong>inglese</strong>. Lui stesso,<br />

del resto, aveva avuto trascorsi puritani mai rinnegati. Uno dei suoi saggi maggiormente rivelatori,<br />

anche del suo rapporto di affinità con Mayow, ha per titolo The Redintegration of Salpetre, scritto<br />

non per caso in linguaggio vernacolare, antica abitudine degli educatori e polemisti repubblicani del<br />

primo Seicento.<br />

Come già in Lemery e Mayow, la chimica di Boyle – che non era per lui lo sviluppo di teorie<br />

soddisfacenti, ma solamente lo strumento per dimostrare la validità della nuova filosofia naturale –<br />

conservava dietro la facciata meccanizzante un fondo considerevole della tradizione paracelsiana e<br />

di Van Helmont e dei puritani inglesi. 10 Quando decise di scomporre il salnitro di Mayow nelle sue<br />

parti costituenti, usò il fuoco come agente per la decomposizione, senza esitare per un attimo. I due<br />

prodotti ottenuti gli si presentarono rispettivamente come uno spirito volatile (aereo, avrebbe detto<br />

Mayow) e un sale fisso. Boyle ammetteva che lo spirito acido rappresentasse l’ingrediente attivo del<br />

8 Ibidem, pp. 94-95.<br />

9 M. ORNSTEIN, The Role of Scientific Societies in the Seventeenth Century, Chicago 1928.<br />

10 A. CLERICUZIO, The Internal <strong>La</strong>boratory. The Chemical Reinterpretation of Medical Spirits in England (1650-<br />

1680), in Alchemy and chemistry in the 16th and 17th centuries, a cura di P. RATTANSI, Dordrecht 1994, pp. 55-83.


salnitro. <strong>La</strong> nozione paracelsiana di sostanza attiva entrava quasi di forza nella coscienza di chi, già<br />

alchimista, si faceva ora chimico. 11<br />

L’analogia meccanicistica del movimento sembrava a Boyle tanto ovvia che egli non si fermò<br />

a chiedersi se le sostanze attive fossero davvero compatibili con la nuova modellistica dei fenomeni<br />

naturali. Boyle accettava privo di remore la teoria (alchemica) che i metalli crescessero sulla terra e<br />

che venissero generati da principi seminali (secondo l’espressione helmontiana). Gli esperimenti di<br />

Van Helmont erano per lui coerenti con l’ideale della mechanicall philosophy in base alla quale tutti<br />

i corpi sono formati da una materia uniforme che si differenzia soltanto per la forma ed il moto delle<br />

sue particelle. Boyle citò e rifece più volte le prove sperimentali dello iatrochimico fiammingo. <strong>La</strong><br />

sua concezione, pertanto, suggeriva la mutabilità universale delle sostanze, per cui una era passibile<br />

di trasformazione in un'altra. Echi della trasmutazione alchemica e, forse, della ricerca mitica della<br />

pietra filosofale con la quale ottenere dal piombo (il metallo più vile) l’oro (quello più nobile). Non<br />

divergenti, portando nella stessa direzione, sono le considerazioni di Boyle in merito all’argento e al<br />

mercurio. Lo stesso chimico <strong>inglese</strong> continuò per tutta la vita a cercare il modo di trasformare l’oro<br />

e a scambiarsi ricette segrete con altri ben noti alchimisti, quali Locke e Newton. Continuò a vedere<br />

nei metalli corpi misti e a ritenere (secondo le indicazioni della scuola paracelsiana) più elementari<br />

sostanze quali l’aqua vitae. Confutando Aristotele, lo Sceptical Chymist riscrisse Paracelso. Newton<br />

– che, nel ventennio compreso tra il 1660 e il 1680, era un giovane e promettente insegnante presso<br />

l’Università di Cambridge – esaminò gli scritti di Boyle e ne estrasse materiale che ebbe un grande<br />

rilievo nelle sue speculazioni sulla struttura della materia. Queste ultime, nel 1706, furono stampate<br />

nell’edizione latina dell’Opticks, tradotta dall’<strong>inglese</strong> dal fedele teologo di Norwich Samuel Clarke,<br />

sotto forma di Queries, la più importante delle quali rimane la numero 31. Essa rappresentò forse il<br />

momento più alto nella storia del pensiero alchemico tra XVII e XVIII secolo.<br />

L’alchimia newtoniana era accoppiata da vicino a una filosofia meccanicistica della natura, al<br />

pari di quella di Boyle. Tuttavia, Newton asseriva altresì l’azione di forze interparticellari. Mentre<br />

Boyle era alla ricerca di un mezzo per attestare la totalità dei fatti naturali, scaturenti da particelle di<br />

materia in movimento nello spazio vuoto (contro tanto la scolastica aristotelica medievale quanto il<br />

vorticismo di Cartesio e dei cartesiani continentali, come Huygens), Newton scorgeva nei fenomeni<br />

la prova che le particelle materiali si attraggono e respingono tra di loro, in ragione della legge circa<br />

l’inverno del quadrato. <strong>La</strong> spiegazione newtoniana delle reazioni non era meno speculativa di quella<br />

di Boyle e la forza di attrazione (pensata analogamente a quella gravitazionale) non è più empirica<br />

della forma delle particelle di Boyle. Le osservazioni di Newton, peraltro, avevano il vantaggio non<br />

irrilevante di concentrare l’attenzione sull’aspetto più proficuo del lavoro svolto da Boyle, ossia il<br />

concetto di sostanza chimica contrassegnata da proprietà fisiche specifiche e peculiari. Ad esempio,<br />

Newton apprese da Boyle e dalle fonti inglesi di quest’ultimo la serie di reazioni di sostituzione più<br />

su indicata. Gli scritti chimici di Newton – riprendendo solo una parte, ripulita da contaminazioni di<br />

carattere esoterico-occulto, dei manoscritti alchemici – si occupavano non di classi ampie – quali i<br />

sali o gli spiriti di Paracelso – ma di prodotti specifici e reazioni specifiche. Il suo credo atomista, è<br />

probabile, dovette incoraggiarlo a credere ciò. L’attenzione della sperimentazione alchemica quindi<br />

si doveva concentrare sulle caratteristiche chimiche proprie di ogni singola sostanza. <strong>La</strong> Query 31, a<br />

conti fatti, rappresentò lo studio principale dietro l’indagine sulle affinità chimiche, che ricoprì un<br />

ruolo di valore primario nella scienza del primo Settecento e che contribuì a preparare la strada alla<br />

rivoluzione di pesi e misure introdotta da <strong>La</strong>voisier, alla vigilia della Rivoluzione francese. Tramite<br />

nuovi criteri, l’alchimia era divenuta chimica, entrando a pieno diritto nel più vasto territorio della<br />

scienza naturale. In Inghilterra, a partire grosso modo dalla metà del XVII secolo i chimici giunsero<br />

a occupare posizioni assai rispettate all’interno della società colta. Accanto agli scienziati, sedevano<br />

tra le fila della Royal Society (Boyle), ne erano i dimostratori sperimentali (Hooke), quando non ne<br />

diventavano i presidenti (Newton). Esponendo l’alchimia in termini adesso accettabili alla comunità<br />

11 C. SINGER, From Magic to Science, London 1928.


scientifica, essi resero rispettabile l’indagine chimica. 12 Il tempo del puritanesimo paracelsiano era<br />

alle spalle, anche se di quell’epoca la scienza <strong>inglese</strong> restaurata era la figlia.<br />

Le ricerche pneumatiche di Boyle, di Hooke e del quacchero Richard Lower, continuatore tra<br />

i più brillanti di Harvey, vennero riassunte e ulteriormente ampliate da John Mayow nei suoi cinque<br />

trattati medico-fisici del 1674. Mayow vi suggeriva che la parte vitale dell’aria, indispensabile alla<br />

respirazione e alla combustione, fosse composta di sottili particelle atomiche di tipo nitro-aereo. Le<br />

particelle dovevano essere presenti nel salnitro, giacché la polvere da sparo poteva accendersi anche<br />

in assenza d’aria. Esse erano contenute pure nell’acido nitrico, dal momento che l’antimonio dava il<br />

medesimo prodotto sia quando veniva trattato con acido nitrico sia quando era riscaldato nell’aria. Il<br />

prodotto, in entrambi i casi, era più pesante dell’antimonio originario. L’aumento di peso era dovuto<br />

alle particelle nitro-aeree assorbite. Tali particelle venivano assorbite anche dal sangue, durante la<br />

respirazione, ed esse generavano calore animale unendosi alle particelle solforose – o combustibili –<br />

contenute nel sangue. Mayow non concepiva l’aria come una mescolanza di due gas, mescolanza di<br />

particelle nitro-aeree con altre inerti. Intendeva invece l’aria come una sostanza elementare, alle cui<br />

particelle si attaccavano quelle nitro-aeree. Le particelle di aria venivano da lui intese come piccole<br />

molle e allorché le particelle nitro-aeree se ne staccavano per effetto della combustione oppure della<br />

respirazione, le particelle di aria finivano con il perdere parte della loro elasticità. Di conseguenza,<br />

l’aria diminuiva di volume.<br />

<strong>La</strong> concezione che Mayow aveva del ruolo svolto dalle particelle nitro-aeree entro i processi<br />

chimici e vitali è ovviamente diversa da quella odierna. Egli voleva essere, a tutti i costi, un seguace<br />

della filosofia meccanicistica e per lui le operazioni delle particelle nitro-aeree erano in larga misura<br />

di natura meccanica. L’arrugginimento del ferro, ad esempio, era dovuto all’attrito meccanico di tali<br />

particelle, mentre la contrazione muscolare era una conseguenza del loro rapido movimento entro i<br />

muscoli. Nemmeno la sensazione della fame ed i meccanismi biologici della digestione si poterono<br />

sotrarre a questa chiave di lettura. E il calore e la luce consistevano nelle particelle nitro-aeree in<br />

rapido movimento, mentre il freddo e l’azzurro del cielo in quelle stesse particelle in stato di riposo;<br />

in tal modo Mayow innalzava il suo spirito nitro-aereo al rango di principio generale, molto simile a<br />

quello degli alchimisti paracelsiani di area puritana. Anzi, moltissime sue idee non erano altro che<br />

versioni meccanicistiche delle teorie vitaliste e panpsichiche, sostenute dagli iatrochimici inglesi ed<br />

elvetici. Come Paracelso, egli riteneva che vi fossero nella natura tre principi fondamentali. Per lui<br />

erano zolfo, sale e spirito nitro-aereo (al posto del mercurio paracelsiano, ma in tutto analogo a esso<br />

e adibito a svolgere identiche funzioni nei processi organici, nella produzione dei metalli come nei<br />

mutamenti di tutte le cose). 13<br />

Con Mayow l’opera della scuola <strong>inglese</strong> di alchimia arrivò, virtualmente, al capolinea. <strong>La</strong> sua<br />

tradizione, solo entro una certa misura, venne proseguita da Stephen Hales, durante la prima metà<br />

del secolo XVIII. Tuttavia non sopravvisse. Un merito indubbio rimane: l’avere contribuito con altri<br />

alla distruzione definitiva dei pregiudizi ellenistici di Galeno. Con Mayow, l’alchimia riuscì a farsi<br />

scienza sperimentale. <strong>La</strong> sua opera – non meno di quella di Huygens, Newton, Mariotte, Boyle ed<br />

Hooke – fu una sintesi effettiva di esperimento e teoria. 14 Tra le fonti di Mayow troviamo – oltre ai<br />

libri di Boyle, alla Micrographia (London 1665) di Hooke, agli studi del francese Jean Ray circa la<br />

calcinazione e la pressione atmosferica, alla trattatistica paracelsiana ed helmontiana – Sir Kenelm<br />

Digby, Michael Sendivogius (autore, nel 1604, di un misterioso libretto alchemico) e Spinoza. Una<br />

terna che tradisce letture ed interessi di carattere alquanto eterodosso. Mayow, da ultimo, si occupò<br />

con una certa competenza di macchine e strumenti, in linea con l’indirizzo dei baconiani inglesi.<br />

In proposito, lo iatrochimico era solito riportare, a riprova delle proprie osservazioni in merito<br />

all’esistenza di uno spirito nitro-aereo nell’aria, l’aneddoto relativo all’inventore olandese Cornelius<br />

Drebbel. Questi, quando navigava con il sottomarino in profondità nelle acque del Tamigi, dinanzi<br />

12 R.S. WESTFALL, <strong>La</strong> rivoluzione scientifica, cit., pp. 96-102.<br />

13 S. F. MASON, Chemical evolution. Origins of the elements, molecules and living systems, Oxford 1995.<br />

14 A.R. HALL, Da Galileo a Newton (1630-1720), Milano 1973, p. 114.


agli occhi stupefatti di re Giacomo I e della sua corte, rivivificò l’aria a bordo del suo mezzo con il<br />

salnitro. 15<br />

15 A.R. HALL, <strong>La</strong> rivoluzione scientifica (1500-1750), Milano 1986, pp. 197, 317-318.

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