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Daniela Locatelli, Il mito dellÕuomo macchina e ... - Arbor scientiarum

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<strong>Il</strong> <strong>mito</strong> dell’uomo <strong>macchina</strong><br />

e la contestazione del meccanicismo in Inghilterra (secc. XVII-XVIII)<br />

<strong>Daniela</strong> <strong>Locatelli</strong><br />

Questo lavoro mira a ricostruire e la nascita e la fortuna del paradigma meccanicistico, esemplare<br />

nel tema dell’uomo-<strong>macchina</strong>, in Francia, a cavallo tra i secoli XVII e XVIII. Mio scopo è, altresì,<br />

evidenziare come, per ragioni squisitamente teologiche, tale modello sia stato messo in crisi e sostanzialmente<br />

rifiutato nell’Inghilterra coeva, da Newton e dai suoi contemporanei.<br />

1.1. Mersenne o la nascita del meccanicismo in Francia<br />

Nello stesso anno 1625, anno nel quale Cartesio andava progettando il Thaumantis regia ed<br />

esprimeva in pubblico la propria opinione sull’anima delle bestie, veniva edito a Parigi un lavoro<br />

dalle dimensioni notevoli di Padre Marin Mersenne, dal titolo La Vérité des Sciences. In tale opera,<br />

la quale può essere considerata vera e propria enciclopedia delle scienze, troviamo trattati che<br />

spaziano dalla taumatofisica, ossia scienza degli artifici atti a produrre meraviglie, definita come<br />

parte della Pneumatica, in cui ci si serve dell’aria e del vento, all’Idraulica, all’Automatofisica, che<br />

sembra far vivere le cose inanimate (fantasmi della tradizione alessandrina?), alla Neurospastica,<br />

alla quale fanno capo quegli artifici che si ottengono con l’argento vivo (pochi lustri dopo, il<br />

mercurio torricelliano ripreso da Boyle in Inghilterra).<br />

Proprio a partire da questo trattato, Mersenne sviluppa e perfeziona sempre meglio quell’opinione<br />

che ritiene gli animali meri meccanismi privi di anima e di ragione. A tale questione egli aveva già<br />

accennato in precedenza nelle Quaestiones in Genesim del 1623 ed in L’impieté des Deistes del<br />

1624, ma solo ne La vérité des Sciences egli ne farà uno dei suoi argomenti preferiti.<br />

A causa delle notevoli dimensioni del trattato, che andava ben oltre le mille pagine, e risaputo che<br />

l’autore ne annunciò la vicina pubblicazione nel primo volume de L’impieté des Deistes, è possibile<br />

quindi pensare che La vérité des Sciences sia stata iniziata al più tardi nel 1623. In tale prospettiva,<br />

l’abbozzo cartesiano del Thaumantis regia del 1625 verrebbe ad essere di almeno un paio di anni<br />

posteriore all’opera compiuta di Mersenne.<br />

Si è da sempre sostenuto che Padre Mersenne abbia avuto un ruolo portante per diversi<br />

protagonisti della rivoluzione scientifica ed in particolare nei confronti di Cartesio, lo si è sempre<br />

visto come un suo comprimario, una sorta di onesto lavoratore capace di comprendere e divulgare<br />

correttamente le geniali trovate dell’amico e corrispondente. Per quel che si riferisce alla nascita del<br />

meccanicismo e in particolare all’idea dell’animale-<strong>macchina</strong>, siamo convinti che Mersenne, se<br />

proprio non ha preceduto del tutto Cartesio, non si è certamente limitato ad essere il divulgatore e<br />

l’esegeta delle opinioni cartesiane in merito. I due filosofi sono pervenuti agli stessi risultati, l’uno<br />

indipendentemente dall’altro, solo in seguito alla loro conoscenza: tale idea venne poi messa in<br />

comune, o meglio assegnata a Cartesio, favorito in questo anche dalla costituzionale umiltà del<br />

padre minimo. 1<br />

Verosimilmente, la loro collaborazione ebbe inizio intorno al 1625: è altresì vero che i due filosofi<br />

frequentarono lo stesso collegio gesuitico de La Flêche, ma la differenza di età, otto anni, che<br />

andava intercorrendo fra i due all’epoca della scuola, esclude che vi sia stato qualcosa di più di una<br />

conoscenza di vista. Caratterialmente essi si schierano agli opposti: al modesto, umile e disponibile<br />

Padre Mersenne, segretario della nascente repubblica letteraria, si oppone il superbo, egocentrico e<br />

pieno di sé Cartesio.<br />

1 Cfr. P.A. ROSSI, Metamorfosi dell’idea di natura, Genova 1999, anche per le mie pagine che seguono.


Tra due persone così è evidente che mai potrà esservi un rapporto paritetico, a meno che il primo<br />

non si adegui con paziente modestia alla boria dell’altro; la storia attribuisce a Mersenne il merito di<br />

essere stato per l’amico utile dal punto di vista logistico, mentre, ancora oggi, la storiografia<br />

filosofica descrive il religioso come una sorta di gregario di Cartesio: in tale prospettiva risulta<br />

quindi assai difficile rivalutare la figura di Mersenne come quella di uno dei padri fondatori del<br />

meccanicismo. 2 A saper ben leggere Mersenne ci si accorge di quanto egli abbia, invece, saputo<br />

ascoltare, comprendere, rielaborare e dare culturalmente forma alle più interessanti idee del suo<br />

tempo: egli non si limitò a prendere nota delle teorie di Galileo, di Cartesio, di Pascal, di Hobbes, di<br />

Gassendi e di tantissimi altri ancora, egli si rese partecipe forte di tutta una serie di sue impostazioni<br />

originali che influirono in modo deciso sulla nascita della rivoluzione scientifica.<br />

Le Quaestiones celeberimae in Genesim, con l’aggiunta integrativa delle Observationes et<br />

emendationes ad Francisci Giorgi problemata, sono scritte contro gli atei, i deisti e le “divinatrices<br />

et magicas artes ceteraque portenta doctrinarum ejus generis”. Al fine di non incorrere nel pericolo<br />

di divulgare, confutandole, le “cattive filosofie” e le “false scienze”, egli le “impugna ed espugna”,<br />

inserendole nell’esegesi ortodossa delle Sacre Scritture.<br />

In verità, il testo biblico gli serve più che altro da pietra di paragone su cui saggiare le opinione<br />

dei naturalisti, in particolare di Campanella, Pomponazzi, Paracelso, dei maghi, degli astrologi e dei<br />

cabalisti come Pico della Mirandola e Gerolamo Cardano, e dei deisti, atei o sorςiers suoi<br />

contemporanei, come Vanini, Charron, Fludd. In realtà non è mai il testo sacro che gli serve da<br />

maglio demolitore del pensiero magico-naturalistico ed egli è sempre ben disposto a ricredersi in<br />

nome di una serena disamina condotta da ambedue le parti con lo strumento della ragione. Non è un<br />

caso, infatti, che Mersenne, in nome della stima intellettuale, distingua tra il Cardano astrologo e il<br />

grande matematico, tenda costantemente la mano a Campanella ed intrattenga rapporti d’amicizia<br />

con “eretici” quali Galileo e Hobbes. Laddove i naturalisti, gli atei e i libertini, i deisti e gli eretici<br />

hanno collaborato ad aprire nuove strade alla ragione, egli si fa loro difensore, ma quando sospetta<br />

in qualcuno un attacco contro la libertà dell’uomo, Mersenne abbandona la penna per la spada.<br />

La seconda opera mersenniana, L’impieté des Deistes, Athées et Libertins de ce temps, è dedicata,<br />

in particolare, alla confutazione dei Dialoghi bruniani, alla polemica contro l’astrologia divinatrice<br />

di Gerolamo Cardano e, più genericamente, alla demolizione della filosofia naturalistica con<br />

particolare riguardo alla teoria dell’Anima del Mondo:<br />

Dio, i cui progetti tutti tendono alla sua gloria, mi fece riconoscere, primo fra tutti in questo Regno, la<br />

nascita di questo monopolio di libertini e per effetto della sua misericordia e provvidenza, mi obbligò il<br />

mio zelo e il mio dovere a intenzionare i miei sforzi ad arrestare il corso ed a fermare il progresso di tale<br />

malaugurato progetto.<br />

<strong>Il</strong> controprogetto di Mersenne è quello di dimostrare che la ragione, sia essa teoretica che pratica,<br />

è lo strumento privilegiato che Dio ha dato all’uomo per comprendere qualcosa dei segreti della<br />

natura e dello spirito o, in altre parole, la costruzione della scienza positiva è intesa alla<br />

riconversione a Dio, mentre l’incredulità non può essere la condizione basilare della scienza, dato<br />

che sia la scienza sia la morale ci parlano di Dio. In queste opere giovanili, pervase da un ardente<br />

spirito polemico, Mersenne non se la prende, come dettava la moda del tempo, con la filosofia<br />

naturalistica di Aristotele, ma con le sue degenerazioni magico-naturalistiche dei secoli XV e XVI.<br />

A coloro che avevano elevato la sensibilità a forma di conoscenza e quindi l’animale<br />

all’intelligenza, onde poterne fare una della parti dell’Anima del Mondo, Mersenne mette in chiaro<br />

come non gli vada affatto a genio l’idea dell’unità e dell’unicità dell’Intelletto.<br />

Per tale ragione, nelle Quaestiones in Genesim, incomincia a mettere in dubbio la tesi<br />

dell’intelligenza delle bestie, convinto in tal modo di togliere parte degli argomenti ai naturalisti che<br />

avevano affermato che il Mondo ha una sola ed unica anima, la quale vegeta, sente e ragiona.<br />

2 R. LENOBLE, Mersenne ou la naissance du mécanisme, Paris 1943.<br />

2


A differenza di Cartesio, egli non parte dal dubbio, ma inizia a rilevare una prima certezza: ciò<br />

che mi fa riconoscere come io non è una qualche verità che posseggo, ma la consapevolezza di<br />

desiderare la verità che non posseggo. Mersenne non va a caccia di certezze universali, egli è<br />

convinto che nell’aldilà potremo rimanere stupiti di quanto il mondo sia diverso da quel che<br />

pensavamo: per lui è sufficiente conoscere le cose per quel tanto che ci sono proporzionate. La sua<br />

scienza non è mimesi dell’universale ma rilevamento di rapporti; la ragione non è intesa ad<br />

impadronirsi delle verità eterne, ma più semplicemente a tracciare un sistema di relazioni fra le cose<br />

tale da superare il mondo empirico e ridare proporzione a ciò che i sensi hanno sproporzionato.<br />

Sotto tale aspetto, Mersenne ha certamente contribuito in misura più incisiva di Cartesio alla<br />

creazione di quella svolta teoretica da cui la scienza esce affrancata dalla filosofia.<br />

In particolare la ragione, così tipica dell’essere umano e in maniera così assoluta assente negli<br />

animali, non è per Mersenne solo intelligenza ma, fondamentalmente, è libera volontà, massima<br />

perfezione dell’uomo, da esso condivisa solo con Dio e con gli Angeli, tanto che se la perdesse si<br />

ritroverebbe a non essere più uomo, perdendo allo stesso tempo l’humanité et la raison, et cessere<br />

d’estre capable de youyr de la felicité eternelle. .<br />

Ritorna qui la stessa tematica che aveva portato Cartesio alla negazione dell’anima alle bestie:<br />

l’uomo è il solo a condividere con i Puri Spiriti la libertà; essa è il marchio autentico della<br />

spiritualità, tanto che chi non possiede libera volontà non ha di conseguenza nemmeno l’anima.<br />

Quindi l’uomo, come animale che vuole liberamente, che desidera la verità, che anela<br />

all’immortalità della sua parte spirituale, ha un’anima unica, individuale, responsabile dell’agire e<br />

capace di scegliere; esso non è sottoposto ad alcun destino, la sua parte materiale deve rispettare sì<br />

le leggi naturali e sottomettersi alle regole che reggono il gioco fenomenico, ma la sua parte<br />

spirituale non ha nulla a che vedere con tutto ciò e, di conseguenza, il mondo fenomenico non ha<br />

alcuna influenza su di essa.<br />

<strong>Il</strong> corpo dell’uomo appartiene alla Natura ed è sottoposto alle sue leggi, ma l’uomo, come<br />

persona, appartiene ad un ordine incommensurabile con quello fisico, dato che egli è stato messo a<br />

parte della Grazia. La scena di questo mondo passerà così come la sua storia, ma la parola di Dio, il<br />

cammino dell’uomo verso la Verità, la sua grandezza di figlio divino, non passeranno. L’uomo<br />

inizia a capire quel che per lui conta, ciò per cui valga la pena giocare la propria vita, appartiene ad<br />

un ordine differente da quello naturale e, di conseguenza, non si rivolge ad esso per cercare le<br />

proprie radici, ma solo per convertirlo al piano della salvezza.<br />

Lo scienziato può, a questo punto, rompere con il “tabù del naturale”: egli ora sa che le sue opere<br />

materiali appartengono alla natura, mentre egli ha un destino storico che le trascende. Nel momento<br />

in cui la Natura perde la propria prerogativa di giustificare non solo il mondo materiale, ma anche<br />

l’uomo, allora essa può divenire una <strong>macchina</strong>.<br />

Nelle Quaestiones in Genesim Mersenne sostiene che l’uomo sia unione di anima e corpo e che<br />

esso possa essere definito solo con il ricorso ad ambedue i concetti. Nell’ambito della conoscenza,<br />

cioè in quell’ambito nel quale si cerca la certezza razionale dell’esperienza in sé, egli afferma che<br />

nessuna delle due può operare senza il supporto dell’altra. Se è vero che la ragione è la facoltà che<br />

stabilisce i rapporti fra i dati empirici, che da soli non parlano, è altresì vero che essa non può<br />

esercitarsi se non quando ha a che fare con la conoscenza sensibile, visto, ad esempio, che nel sonno<br />

la mente, privata delle sensazioni, rimane impotente.<br />

Ma se così fosse – gli obiettarono gli scettici – cioè se la conoscenza razionale facesse corpo<br />

unico con quella sensibile, così come mente e corpo fanno parte integrante dell’uomo, allora essa<br />

risentirebbe delle ben note inadeguatezze della percezione sensoriale, ossia agli errori dei sensi<br />

corrisponderebbero quelli della ragione. A Mersenne si pose il problema di far partecipare la<br />

conoscenza empirica della stessa conoscenza razionale: diversamente da Cartesio, che dichiarò di<br />

basare le sue uniche certezze sul Cogito, gli interessano più l’ottica e l’acustica rispetto alla<br />

metafisica, egli quindi ha bisogno sia dei sensi che della ragione. Contemporaneamente a Galilei,<br />

egli accertò la soggettività delle qualità delle qualità sensibili, dichiarando che nella percezione i<br />

3


sensi non si limitano a registrare passivamente, ma integrando i dati a seconda del loro<br />

temperamento.<br />

In La verité des Sciences Mersenne aggiunse che “i diversi temperamenti dei sensi sono la ragione<br />

per cui gli oggetti ci sembrano diversi” o, meglio ancora “gli oggetti dei sensi ci sembrano diversi<br />

secondo le diverse disposizioni dell’organo”, ragion per cui sulla sola conoscenza sensibile non è<br />

3 possibile costruire alcuna scienza che goda delle caratteristiche dell’oggettività e del rigore. Per<br />

istituire, quindi, una fisica senza far astrazione dei dati della psicologia, Mersenne rispose, ne<br />

L’impieté des Deistes, che questo sarebbe possibile se si matematizzassero natura e scienza.<br />

In definitiva, la soluzione è per Mersenne quella di dimostrare che la conoscenza sensibile, senza<br />

il conforto della ragione, non è conoscenza, ma pura registrazione di impressioni, e di conseguenza<br />

non può essere meccanizzata. L’idea, che cominciò a svolgersi fin dal 1623 nelle Quaestiones in<br />

Genesim, prese forma compiuta solo nel 1634, quindi, probabilmente, in concomitanza alla<br />

discussione del cartesiano Traité de l’homme, ma ciò non deve farci pensare ad un prestito di idee,<br />

piuttosto ad un prestito di argomentazione. Galileo, che aveva proposto l’idea di eliminazione delle<br />

nozioni qualitative dalla scienza, fece notare che, se oltre al moto e alla vegetazione, anche la<br />

sensazione è il risultato di un concorso di azioni puramente meccaniche, allora l’intera sfera delle<br />

attività animali avrebbe potuto essere meccanizzata e considerata analoga a quella di qualsiasi<br />

<strong>macchina</strong>.<br />

In tutto questo vortice di idee, che rappresentarono il perno motore della cultura moderna, l’idea<br />

dell’animale-<strong>macchina</strong> si trova in una posizione costantemente attivatrice. Nata in ambito etico e<br />

psicologico, essa ha generato una serie di concettualizzazioni dalle quali sortiranno la scienza e la<br />

filosofia meccanicistica. 4<br />

1.2. L’uomo-<strong>macchina</strong> nel Seicento: Cartesio e i cartesiani<br />

In apertura al suo Traité de l’homme, apparso postumo nel 1664, Cartesio scrive:<br />

je suppose que les Corps n’est autre chose qu’une statue ou machine de terre que Dieu forme tout<br />

exprés, pur la rendre la plus semblable à nous qu’il est possibile: en sorte que, non seulement luy donne<br />

au dehors la couleur et la figure de tous non membres, mais aussi qu’il met au dedans toutes les pieces qui<br />

sont requises pour faire qu’elle marche, qu’elle mange, qu’elle respire et enfin qu’elle imite toutes celles<br />

den nos fonctions qui peuvent estre imaginées proceder de la matière, et ne dependre que de la disposition<br />

des organes. Nous voyons des horloges, des fontaines artificielles, des moulins, et autres semblables<br />

machines, qui n’estant faites que par des hommes, ne laissent pas d’avoir la force de ce mouvoir d’elles<br />

mesmes en plusieurs diverses facons; et il me semble que ie ne sourais imaginer tant de sortes de<br />

monvements en celle-ci, que ie suppose estre faite des mains de Dieu, ny luy attribuer tant d’artifice, que<br />

vous n’ayez sujet de penser qu’il en eut avoir encore d’avantage 5 .<br />

Con queste parole si apre il manifesto dell’antropologia meccanicistica; esso, probabilmente, non<br />

ebbe sulla cultura del XVII secolo la presa che avrebbe avuto qualora fosse stato pubblicato, come<br />

l’autore sperava di fare, entro un unico grande discorso che inglobasse il Mondo delle cose materiali<br />

e quello dell’Uomo. Un sistema che rappresentasse, in definitiva, il sostituto meccanicistico<br />

dell’idea classica di Cosmo ed in cui uomo e natura avrebbero dovuto essere oggettivati sugli stessi<br />

concetti base di moto e di figura. <strong>Il</strong> porsi, in seguito, il problema della trascendenza dell’uomo<br />

rispetto alla natura corporea, impostarne i termini e le ipotesi di lavoro, avrebbe significato il<br />

3 P.A. ROSSI, Metamorfosi dell’idea di natura, cit., pp. 70-71.<br />

4 Ivi.<br />

5 R. CARTESIO, Traité de l’homme, in Oeuvres, ed. Adam-Tannery, XI, 119-215.<br />

4


concepimento di quella scientia mirabilis che il “sogno mistico” del novembre 1619 gli aveva fatto<br />

intravedere 6 .<br />

Sta comunque di fatto che se l’idea unitaria di Cartesio non si compì che dopo la sua morte, egli<br />

ebbe modo di pubblicarne in vita, sia pur in forma di frammenti monografici, alcune parti e di<br />

accennare più volte alla sua concezione meccanicistica, sia nel Discours de la méthode sia<br />

nell’Epistolaire con Mersenne, il quale si premurava sempre di far circolare le idee dell’amico. La<br />

cultura scientifica dell’epoca, d’altra parte, era talmente pervasa e penetrata dall’interpretazione<br />

meccanicistica dei fenomeni fisici e biologici, che quando l’opera unitaria di Cartesio vide<br />

finalmente la luce, essa interessò e stupì soltanto l’ambiente filosofico, mentre i medici, che pur la<br />

lessero certamente con interesse, elogiandone la sintesi sistematica e la chiarezza espositiva, si<br />

stancarono ben presto delle pure “verosimiglianze” ivi contenute che, accanto alle fantasticherie e<br />

agli errori, la rendevano scientificamente approssimativa. 7 In realtà il Traité de l’homme è un’opera<br />

che venne alla luce già morta, in un’epoca cioè in cui il meccanicismo biologico era già stato<br />

passato al vaglio dalle scuole di iatrofisica e iatrochimica ed aveva ricevuto più di una verifica<br />

sperimentale.<br />

Nel 1661, ossia un anno prima della pubblicazione in latino del De Homine, era uscito il De<br />

Pulmonibus del Malpighi, sintesi e unificazione della modellistica iatromeccanica e iatrochimica, in<br />

cui la <strong>macchina</strong> circolatoria di Harvey veniva completata e resa definitiva, chiudendo la catena del<br />

transito sanguigno con la scoperta della <strong>macchina</strong> alveolo-capillare in grado di svolgere la duplice<br />

azione, ossia quella miscelatoria, in cui l’ematosi si compie, e quella fermentativa, in cui hanno atto<br />

sia le termogenesi sia la fluidificazione sanguigna. Quando, l’anno successivo, viene pubblicata<br />

l’opera cartesiana, ricompare lo spettro del moto cardiaco per gonfiamento e sgonfiamento del<br />

viscere, che già aveva trovato spazio nella Quinta Parte del Discours de la mèthode, in maniera<br />

insolente peraltro, essendo questa teoria non altro che un residuo della fisiologia scolastica.<br />

Sta comunque di fatto che l’opera di Cartesio ebbe maggior fortuna dei suoi reali meriti: la<br />

medicina del XVIII secolo le riconoscerà la paternità della genesi della fisiologia meccanicista, allo<br />

stesso modo con cui a Cartesio verrà accreditata la nascita del meccanicismo in fisica, dimenticando<br />

Galileo, Gassendi, Huygens e padre Mersenne, così come ci si dimenticherà di Borelli, Sylvius e<br />

Malpighi quando si tratterà di stabilire la paternità della Weltanschauung meccanicista del vivente.<br />

La storia delle idee riconoscerà al De Homine il merito di essere stato il primo moderno trattato di<br />

fisiologia e la storia della scienza penserà anzitutto a Cartesio quando traccerà la storia della nascita<br />

del meccanicismo biologico.<br />

Solo il Seicento, il suo secolo, accolse tale opera con i giusti accorgimenti: Hobbes e Pascal la<br />

reputeranno, però a torto, filosoficamente irrilevante; Bellini, Malpighi e la scuola di iatrochimica la<br />

troveranno scientificamente opinabile. In realtà, Cartesio aveva scritto tale trattato dal 1632 e va<br />

quindi riconosciuto che se trentadue anni più tardi esso appariva scientificamente sorpassato, nel<br />

momento della sua stesura sarebbe stato dallo stesso punto di vista, interessante. La storia di<br />

quest’opera, delle sue traversie teoretiche e dei suoi dubbi umani, è narrata dallo stesso Cartesio a<br />

Mersenne:<br />

"il y a déjà 12 ou 13 ans que j’avais décrit toutes les fonctions du corp humain, ou de l’animal, mais le<br />

papier où ie les ai mises est si brouillé que i’aurais moi-meme beaucoup la peine à le lire; toutefois, je ne<br />

pus m’empecher, il y a 4 ou 5 ans, de le preter à un intime ami, lequelle en fit une copie, laquelle en a<br />

encore été transcrite depuis par deux autres, avec ma permission, mais sans que je les aie relues et<br />

corrigées. Et je les avais priés de ne le faire voir à personne, come aussi je ne l’ai jamais voulu faire voir à<br />

Regius, parce que je savais son humeur, et que, pensant faire imprimer nos opinions touchant cette<br />

matière, je ne desirais pas qu’un autre leur ôtat la grace de la nouveté. Mais il a eu, malgré moi, una copie<br />

de cet écrit, sans que je ne puissedeviner, en ancune facon, par quelle moyen il l’a eu et il en a tiré cette<br />

6 Nella notte tra il 10 e l’11 novembre 1619 Cartesio, che allora aveva ventitre anni, trovò i “fondamenti di una<br />

scienza mirabile” e, un anno dopo, lo stesso giorno, iniziò “a capire i fondamenti di quella mirabile scoperta” (R.<br />

CARTESIO, Discorso sul metodo, a cura di LUCIA URBANI ULIVI, Milano 2002, p. 11).<br />

7 P.A. ROSSI, Metamorfosi dell’idea di natura, cit., al quale mi rifaccio per la stesura di questo paragrafo.<br />

5


elle piece du mouvement des muscles. <strong>Il</strong> en eut pu tirer beaucoup d’autres choses, pour grossir son<br />

livre..." 8<br />

Sia come sia, il De Homine esce troppo tardi per influenzare, più di quel tanto, la fisiologia<br />

meccanicista. Al contrario, il suo peso sarà molto rilevante nell’ambiente delle interpretazioni<br />

filosofiche del meccanicismo biologico e per la costruzione del dualismo antropologico.<br />

Quel che invece ebbe un determinante rilievo proprio per la genesi del pensiero biologico<br />

meccanicista fu l’impostazione che Cartesio diede, fin dai Principia Philosophiae (1644), al<br />

problema della naturalità artificiale. L’ampliamento del concetto di Natura, fino a fargli contenere<br />

l’ambito concettuale della <strong>macchina</strong>, rappresenta la condizione sufficiente per poter predicare la<br />

naturalità circa i prodotti della tecnica e la possibilità di utilizzare questi ultimi come modelli teorici<br />

in grado di dar ragione della struttura e dell’uso dei diversi organi che compongono il corpo umano.<br />

<strong>Il</strong> merito di quest’idea, o della sua dimostrazione, è senza dubbio di Cartesio, sebbene ciò faccia<br />

parte di quella “caduta di tabù del naturale”, segno dei profondi mutamenti culturali del secolo, che<br />

trovò le sue stesse radici nella nascita della scienza moderna, come abbandono del sapere di tipo<br />

filosofico. In definitiva, Cartesio rappresenta il momento della formalizzazione di un’idea che<br />

peraltro era implicita nelle condizioni stesse della nascita del concetto moderno di Natura.<br />

La nascita dell’antropologia meccanicistica del XVII secolo è legata alla caduta di quello che è<br />

chiamato “tabù del naturale”. <strong>Il</strong> tema dell’uomo-<strong>macchina</strong>, ovviamente, non può essere svolto se<br />

non dopo la comparsa dell’idea che l’opera dell’ingegno umano ha gli stessi diritti di “naturalità”<br />

dei prodotti della natura. <strong>Il</strong> pensiero classico aveva considerato la natura come la sollurs ars che la<br />

lezione ciceroniana nulla ars imitari solertiam naturae potest aveva codificato, con l’aggettivazione<br />

perfettiva di arte completa. Da questo derivò una plurisecolare rotta speculativa, la quale, avendo<br />

qualificato il prodotto della natura secondo la sua caratteristica di “forma primaria”, non aveva<br />

potuto considerare imperfetta ed incompleta un’attività imitativa in grado di agire solo sulla sfera<br />

dell’accidentale, dato che il prodotto della tecnica era qualificato secondo la sua caratteristica di<br />

essere “forma secondaria”.<br />

L’imperfetta imitazione del prodotto naturale da parte di quello artificiale non è legata quindi<br />

all’incompetenza dell’artigiano, ma è fondata su una necessità ontologica. Sta poi di fatto che,<br />

storicamente, è l’artificiale che viene spiegato in termini di naturalia e non l’opposto, cioè è<br />

l’universo del naturale che viene allargato fino ad includervi anche l’artificiale; Harvey, nel De<br />

generatione animalium, condanna la sviante prospettiva di chi considera il mondo con l’occhio fisso<br />

all’ambito della produzione tecnica, dato che è necessario invece capovolgere la prospettiva e<br />

giudicare gli artificialia assumendo come modello il mondo naturale 9 .<br />

Tant’è vero che il risultato dell’operazione di abbattimento della barriera tra arte e natura è<br />

espresso nella proposizione cartesiana “tutto ciò che è artificiale è di per ciò stesso naturale” e non<br />

dalla proposizione “tutto ciò che è naturale è di per se stesso artificiale”, che è il principio della<br />

sorçellerie. Ciò avrebbe implicato, infatti, una drastica riduzione dell’universo naturale, fino a farlo<br />

coincidere con quello artificiale; la prima strada tentata al riguardo è quella della filosofia<br />

naturalistica del XV-XVI secolo, dove la natura viene considerata come il prodotto della divina<br />

magia. La seconda strada è quella di fare dell’universo intero una <strong>macchina</strong> e di Dio il suo<br />

demiurgo. La visione di Dio come artigiano superiore, anche se fa la sua prima comparsa alla fine<br />

del XVII secolo, non è un’idea guida del pensiero teologico-naturalistico del Seicento.<br />

Erroneamente, si ritiene che a partire dal Seicento si inizino a considerare “naturali” i congegni<br />

meccanici. Per quel che riguarda l’esegesi dei testi a nostra disposizione, non vi è autore del XVII<br />

secolo tanto poco accorto da non vedere che di macchine in grado di realizzare o perlomeno di<br />

avvicinarsi alla perfezione dei prodotto naturali, non vi è alcuna traccia. Mersenne, a proposito<br />

scrive che<br />

8 R. CARTESIO, Correspondence, a cura di C. Adam C. – G. Milhaud, Paris, 1936 (A Mersenne, 23 novembre 1646,<br />

VII, pp. 1-2).<br />

9 W. HARVEY, De genaratione animalium, in Opera Omnia, Londra 1766, p. 385.<br />

6


tuttavia non vi sarebbe tanta bellezza, né tanta industria quanta ve n’è nella composizione e nel<br />

movimento di un moscerino, che da solo racchiude e contiene più meraviglie di tutto ciò che l’arte degli<br />

uomini possa fare o rappresentare 10 ,<br />

mentre Cartesio aggiunge:<br />

il che non sembrerà affatto strano a coloro i quali, sapendo quanti diversi automi e macchine semoventi<br />

può costruire l’industria umana con l’impiego di pochissimi pezzi in confronto alla grande quantità di<br />

ossa, muscoli, nervi, arterie, vene ed altre parti che compongono il corpo di ogni animale, considereranno<br />

questo corpo come una <strong>macchina</strong> che, essendo stata fatta dalle mani di Dio, è incomparabilmente meglio<br />

ordinata, ed ha in sé movimenti tanto più meravigliosi di quelli che mai gli uomini possono inventare 11 .<br />

Più tardi, Bossuet affermerà che<br />

non esiste genere di <strong>macchina</strong> che non si trovi nel corpo umano…(ma)…Nessuno scalpello, nessun<br />

tornio, nessun pennello può avvicinarsi alla sensibilità con cui la natura tornisce e arrotonda i suoi<br />

oggetti 12 .<br />

Questi sono tre autori nei quali il connubio arte-natura è già stato celebrato non solo con il rito<br />

baconiano, ma sostanzialmente con quello galileiano; in altre parole Mersenne, Cartesio e Bousset,<br />

pur avendo già raggiunto la piena consapevolezza della sostanziale non diversità fra naturale e<br />

artificiale, non reputano certamente discriminatoria la maggior perfezione del prodotto naturale nei<br />

confronti dei prodotto dell’umano ingegno, in ordine alla definizione del concetto di Natura.<br />

Infatti, ancor prima di Cartesio, Bacone aveva avvertito che “la natura supera infinitamente il<br />

senso e l’intelletto per la finezza delle sue operazioni…” 13 , mentre Galileo aveva rincarato: “non<br />

possiamo noi dire con ragione la fabbrica d’una statua ceder d’infinito intervallo alla formazione di<br />

un uomo vivo, anzi anco alla formazion di un vilissimo verme?” 14 .<br />

Vi è comunque un brano dei Principia Philosophiae in cui sembrerebbe possibile far affermare a<br />

Cartesio che, almeno per quel che lo riguarda, le cose sono andate esattamente in tal maniera:<br />

l’esempio di molti corpi costruiti dall’umano artificio mi è stato davvero utile; infatti non ho<br />

riconosciuto alcuna differenza tra le macchine che gli artigiani costruiscono ed i diversi corpi che la sola<br />

natura compone, se non per il fatto che mentre le azioni della <strong>macchina</strong> dipendono dal movimento di certe<br />

canne o molle, o altri congegni, le quali dato che debbono essere proporzionate alle mani di coloro che le<br />

costruiscono sono sempre tanto grandi che le loro forme e movimenti sono visibili, al contrario le canne e<br />

le molle che provocano le azioni dei corpi naturali sono generalmente troppo piccole per essere percepite<br />

dai nostri sensi 15 .<br />

Insomma, Cartesio afferma che, dopo aver confrontato le macchine con i corpi naturali, ci si<br />

accorge che, in via di principio, sono simili, restando, in via di fatto, la sola differenza della<br />

maggior complessità strutturale dei corpi naturali e della loro mirabile composizione di parti<br />

miniaturizzate.<br />

Sottoponendo il brano ad un’analisi poco più approfondita, si avverte chiaramente che Cartesio<br />

non sta affermando di aver raggiunto la consapevolezza che non vi sia differenza tra naturalia e<br />

artificialia, ma semplicemente che, dopo aver preso visione del lavoro degli artigiani, ciò gli è stato<br />

10 M. MERSENNE, Harmonie universelle, Paris 1636, p. 231.<br />

11 R. CARTESIO, Discours de la Méthode, V, pp.195-197. Trad. L.U.Ulivi, Milano 2002.<br />

12 B. BOSSUET, Traité de la connaissance de Dieu et de soi meme, Paris 1677, p. IV.<br />

13 F. BACON, Novum Organum, in The Works of Francis Bacon, London 1857-1874, vol. I, p. 10.<br />

14 G. GALILEI, Dialogo dei massimi sistemi, in Le Opere di Galileo Galilei, Ed. Naz., Firenze 1890-1909, vol. VII, pp.<br />

11.<br />

15 R. CARTESIO, Principia Philosophiae, ed. cit., II, 102.<br />

7


utile per verificare un’idea che già si era fatto e formato seguendo il “metodo”, ossia l’idea che<br />

“ogni conoscenza che gli uomini possono avere della natura – scrive alcune righe prima del brano di<br />

cui sopra – è ricavata da ciò (ossia dai principi della geometria e della meccanica) dato che tutte le<br />

altre nozioni che si hanno delle cose sensibili sono confuse ed oscure” 16 . Difatti, a ben ricordare, è<br />

così che egli conclude:<br />

così come è certo che tutte le regole della meccanica fanno parte della fisica, allo stesso modo tutto ciò<br />

che è artificiale è di per ciò stesso naturale 17 .<br />

1.3. L’uomo-<strong>macchina</strong> nel Settecento: La Mettrie e i materialisti<br />

Dopo aver studiato medicina prima a Parigi, poi a Leida, in Olanda, allievo dell’illustre Hermann<br />

Boerhaave, medico spinoziano sostenitore di un radicale meccanicismo fisiologico, Julian Offray de<br />

La Mettrie si colloca tra gli esponenti più radicali e lucreziani dell’<strong>Il</strong>luminismo francese.<br />

Ancora oggi conosciuto più come filosofo che come studioso di medicina, egli, grazie al proprio<br />

passato di medico militare, ebbe modo di poter osservare sulla sua stessa persona le conseguenze<br />

psichiche di una malattia organica: ciò gli permise di potersi fermamente convincere della stretta<br />

interdipendenza che intercorre tra anima e corpo, fino a ricondurre le cause dei processi psichici a<br />

modificazioni ed eventi di sola natura corporea.<br />

Tali attente osservazioni finirono con la radicalizzazione in senso fortemente materialista di quella<br />

che era stata la sua formazione originaria, incentrata su Locke e Newton, sviluppando anche linee di<br />

pensiero diffuse in ambiente inglese e rese successivamente pubbliche attraverso l’opera Histoire<br />

naturelle de l’âme, del 1745, in seguito Traité de l’âme, opera che attirò su La Mettrie ogni genere<br />

di persecuzione, sia da parte dei religiosi che dei politici. L’Olanda, al tempo libera e tollerante, non<br />

si rivelò affatto luogo sicuro, tanto che il nostro filosofo fu costretto a rifugiarsi a Berlino, sotto la<br />

protezione del grande Federico II di Prussia, considerato il sovrano protettore dei Lumi e monarca<br />

illuminato lui stesso, amico anche di Voltaire e Algarotti, Eulero, d’Alembert e Lagrange.<br />

Alla corte di Federico II il medico-filosofo rimase fino al 1751, anno della morte, libero di potersi<br />

finalmente dedicare ai suoi studi preferiti e scrivendo, in un arco di tempo assai breve, quelle opere<br />

che gli avrebbero aperto le porte del pensiero scientifico, dall’Homme machine del 1747<br />

all’Homme-plante dell’anno successivo, da Anti-Sénèque del 1750 al Système d’Epicure del 1751,<br />

dalle Réflections philosophiques sur l’origine des animaux del 1750 a Les animaux plus que<br />

machines dello stesso anno, sino al meno conosciuto Discours préliminaire, appositamente scritto<br />

per l’edizione completa delle Oeuvres philosophiques, uscita a Berlino a cura dell’autore stesso<br />

proprio nel 1751, anno della scomparsa. L’anno seguente sarà proprio lo stesso sovrano, Federico II<br />

di Prussia, a volerne fortemente scrivere l’elogio accademico, pubblicato poi sulle pagine più che<br />

prestigiose della Histoire de l’Académie Royale de Berlin, istituzione della quale il medico e<br />

filosofo francese era stato figura d’elite.<br />

Se in un primo momento La Mettrie si presentò come un tenace e convinto fautore del<br />

meccanicismo cartesiano, in seguito ne respinse il dualismo ontologico tra res cogitans e res<br />

extensa, risolvendo la prima nella seconda, ossia il pensiero nella realtà: la differenza tra animale e<br />

uomo gli parve essere infatti solo di tipo quantitativo, e non qualitativo. All’interno della metafisica<br />

cartesiana tutto ciò che poteva essere attribuito all’anima poteva essere spiegato facendo ricorso al<br />

solo concetto di modificazione inerente alla materia. Lo stesso pensiero umano ne usciva come una<br />

sorta di prolungamento della sensazione che di fatto lo produce, comune a ogni animale e di<br />

carattere interamente materiale. Andando molto al di là del modello cartesiano di spiegazione fisica<br />

della realtà naturale, La Mettrie arrivò sino al punto di affermare che tutta la materia è senziente,<br />

anche per quei livelli che apparentemente paiono essere più inerti e bassi, andando così a sostenere<br />

16 Ivi.<br />

17 Ivi.<br />

8


l’ipotesi molto suggestiva dell’unità dell’intero universo, visto come una grande catena di esseri,<br />

gerarchicamente collocati dal più semplice fino al più complesso, in maniera cioè crescente.<br />

Nella sfera propria dell’etica, da vero seguace dell’epicureismo e dell’atomismo di ispirazione<br />

lucreziana, viva tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, La Mettrie rifiutò<br />

fermamente ogni tipo di trascendenza, reputando quale unico vero fine dell’agire umano l’utilità<br />

sociale ed il piacere individuale, paradigmi etici in sé assai semplici e coerenti all’interno della sua<br />

ferrea epistemologia, in cui il secondo elemento, ossia il piacere, può essere condannato solo nella<br />

misura in cui si riveli nocivo per le altre persone. Al servizio della sua morale materialista La<br />

Mettrie elaborò tutta una minuziosa precettistica capace di studiare caso per caso le più diverse<br />

situazioni per consentire all’uomo di conseguire il massimo piacere possibile. Lo specchio di una<br />

vocazione marcatamente enciclopedica, non lontana da quella di Denis Diderot, che con il<br />

trascorrere degli anni declinò dall’originaria e controversa fedeltà a Newton, espressa negli scritti<br />

matematici, all’adesione fatalista a un materialismo ateo e privo di illusioni, che resta sempre e<br />

comunque una delle alternative possibili del pensiero umano. Diderot concepì un’opera, forse la sua<br />

filosofica più audace, Le rêve de d’Alembert (1769), come un lungo dialogo a quattro voci e<br />

suddiviso in tre tempi, attraverso il quale illustrò al lettore una visione fortemente meccanicistica e<br />

materialista dell’uomo come del mondo, secondo la quale non può esistere un io pensante distinto<br />

dalla materia, ma solo una materia sensibile da cui promana l’intera catena dell’essere e della<br />

conoscenza. Doveroso quindi ricordare in questa sede quanto sia vivo della gnoseologia di La<br />

Mettrie, ma anche di Condillac, nella provocazione intellettuale che identifica qui una<br />

comprensione in sé profondamente autentica del messaggio illuminista, quella per la quale non<br />

esistono domande che non possano essere formulate, né pensieri che non possano essere pensati.<br />

A differenza di Voltaire che, anche nei suoi momenti di maggiore pessimismo, non pose mai in<br />

dubbio l’esistenza di un ordine sovrannaturale, seppur incurante della felicità umana e collocato<br />

negli intermundia cui a noi è negato l’accesso, La Mettrie era tra quelli meno sicuri che fosse<br />

proprio così: lo si può leggere tra le pagine dell’Homme machine, in cui egli formulava la questione<br />

in maniera precisa, chiedendosi se la ragione dell’esistenza umana non coincidesse poi con<br />

l’esistenza stessa cui presiede. Forse solo il caso sta dietro il nostro essere nel mondo, in maniera<br />

però non precisata o precisabile.<br />

Un tema ripreso e ampliato, tre anni più tardi, nel Système d’Epicure, è quello in cui sono le leggi<br />

fisiche del movimento a produrre la realtà nel pensiero. È la natura a costruire, all’interno della<br />

<strong>macchina</strong> umana, una seconda <strong>macchina</strong>, che fa da serbatoio alle idee e altre ancora ne produce,<br />

sino alla conclusione, solo apparentemente paradossale, in virtù della quale la natura ha creato,<br />

senza pensare, una <strong>macchina</strong> pensante. <strong>Il</strong> medesimo problema venne posto da un altro naturalista<br />

francese, il Maupertius, matematico e geodeta newtoniano, nel suo Essai de cosmologie (1750), che<br />

fece incrinare le solide argomentazioni circa la dimostrazione a posteriori dell’esistenza di un<br />

creatore consapevole. Un interrogativo filosofico che più tardi sarebbe stato espresso in versi<br />

memorabili dal poeta e pittore inglese William Blake, in un clima già romantico.<br />

Un ventennio più tardi sarebbe toccato al barone d’Holbach, nelle pagine del suo Système de la<br />

nature, il compito di negare senza troppi giri di parole la finalità divina e il provvidenzialismo quali<br />

giustificazioni ultime dell’essere e dell’agire umani.<br />

La Provvidenza aveva seguito con ciò la strada dell’Artefice divino. Lo spettacolo della natura<br />

non poteva più impartire alcuna lezione metafisica: la natura non era più che un’onda passeggera<br />

nel grande oceano del tempo. La tendenza generale del pensiero scientifico contribuì, insieme ad<br />

una più pessimistica concezione della Provvidenza, ad imporre agli scrittori della metà del secolo<br />

una riluttante scelta fra un assoluto scetticismo e un rigoroso determinismo. La grande massa della<br />

popolazione dell’Europa occidentale continuava ad accettare la verità letterale della Bibbia e a<br />

credere nell’esistenza d’un ordine cristiano. Ma coloro che stavano all’avanguardia dei nuovi<br />

movimenti scientifici e intellettuali si erano ormai accorti che Mosè non era uno storico attendibile.<br />

Estraniatisi da una Chiesa che insisteva sulla verità letterale della Rivelazione, essi non trovavano<br />

più neppure nella religione naturale prove accettabili d’un ordine finalistico e provvidenziale. Solo<br />

9


due posizioni sembravano poter resistere. Quella che, secondo Hume, negava la possibilità per<br />

l’uomo di giungere ad una conoscenza oggettiva di qualsiasi genere; e quella che, sull’esempio di<br />

d’Holbach, accettava l’idea d’un universo di materia in movimento, in cui tutto accadeva per<br />

necessità, e in cui la risposta ad ogni domanda stava nell’impossibilità di qualcosa di diverso.<br />

Accettando l’idea d’un universo statico, o d’un mondo dotato di movimento casuale, e non regolato<br />

su alcuno schema identificabile, la filosofia sembrava tornare al materialismo classico di Lucrezio e<br />

di Epicuro. Se le cose erano in uno stato di flusso disorganizzato, il prodotto del determinismo<br />

naturale non poteva essere che una successione di forme caleidoscopiche 18 .<br />

La Mettrie, in qualità di medico, era rimasto molto colpito dalla misura in cui i pensieri sono<br />

determinati dalle condizioni fisiche proprie di un uomo, che è <strong>macchina</strong> tra le macchine.<br />

Perfettamente al corrente delle acquisizioni più nuove su delirio e reazioni muscolari, queste<br />

presenti anche in animali morti, egli era orientato a leggere in codeste reazioni una nuova forma di<br />

movimento che fosse proprietà meccanica inerente alla totalità della materia, spiegando il<br />

complesso articolarsi delle varie attività umane in ragione di tale moto. Un materialismo quindi<br />

iatrofisico, che non escludeva necessariamente l’esistenza di Dio, se La Mettrie medesimo<br />

affermava in maniera esplicita di non discutere affatto la realtà di un Essere Supremo. La bilancia,<br />

al contrario, sembrava essere inclinata in suo favore. Dio non era comunque il più Grande artefice<br />

dell’universo cui avevano sacrificato sia newtoniani sia massoni del primo <strong>Il</strong>luminismo britannico,<br />

profeti di una teologia naturale posta a salvaguardia del cosmo.<br />

In realtà, La Mettrie aveva radicalizzato quelle amare conclusioni alle quali era giunta la scuola<br />

scozzese del London Merchant (1731) di Hume, percorrendo analoghi intendimenti espressi da<br />

Voltaire stesso in Micromégas (1753). Si è prima fatto cenno alla pretesa superiorità delle facoltà<br />

legate all’intuizione, non solo in campo morale. Anche come fonte del pensiero, egli assegnava al<br />

potere dell’immaginazione una velocità e un’audacia percettiva assai maggiori che non alla più<br />

lenta ragione umana. Sarebbe senza dubbio piuttosto difficile, alla luce di quanto scritto finora,<br />

veder cantare le mai esauste lodi dell’immaginazione dal precursore dei robot.<br />

Eppure è proprio questo che accade con La Mettrie. L’uomo <strong>macchina</strong> non si merita di affermare<br />

senza mezzi termini che l’immaginazione sia nettamente superiore alla ragione, quale fonte di idee,<br />

nelle scienze come nelle arti. Così scrive, in merito all’immaginazione, il padre degli automi: “È<br />

tramite il suo lusinghiero pennello che il gelido scheletro della ragione si ricopre di rosea carne<br />

vivente”; una suggestiva commistione , capace di evocare nell’anacronistica mente del moderno<br />

lettore temi e atmosfere legati al movimento cyberpunk. Teorie filosofiche nate dalle ricerche<br />

mediche quelle di La Mettrie, sempre e comunque incompatibili non solamente con il Genesi<br />

biblico, ma anche con qualsiasi altro genere di fede che faccia ricorso più o meno manifesto a un<br />

piano provvidenziale. Teorie che comunque non implicavano nemmeno il principio di una<br />

evoluzione organica di tipo continuo.<br />

A ben guardare, si tratta di una forma di naturalismo filosofico e scientifico che ha per fine il<br />

restituire la guida della condotta umana alla legge o forza operante in tutta le realtà naturale. Se<br />

nell’Histoire naturelle de l’âme, sua prima opera, La Mettrie si era ancora permesso qualche piccola<br />

concessione al tradizionale impianto metafisico di riferimento, nell’Homme machine sviluppa in<br />

tutta la sua coraggiosa coerenza la tesi materialisica dell’unica causalità corporea nell’uomo,<br />

presentandola quasi fosse una mera ipotesi basata sulla sola esperienza, per nulla contraddetta dalla<br />

presenza di facoltà di natura superiore: siamo molto oltre l’originario meccanicismo di Cartesio e<br />

della scuola francese del ‘600.<br />

L’uomo <strong>macchina</strong> di La Mettrie risulta essere, quindi, un robot così composito da non poterne<br />

scoprire l’intera strutturazione, se non analizzando uno alla volta gli organi meccanici che lo<br />

compongono. Ogni attività mentale è prodotta e determinata da movimenti corporei, nei quali<br />

agiscono e si rispecchiano i movimenti dell’intero universo. <strong>Il</strong> corpo stesso non è altro che un<br />

orologio, i cui umori sono orologiai e la <strong>macchina</strong> che costituisce il corpo umano è in assoluto la<br />

18 N. HAMPSON, Storia e cultura dell’<strong>Il</strong>luminismo, trad. it. Bari 1976, pp. 98-99.<br />

10


più perfetta di tutte, come una costruzione di neuro-ingegneria dietro la quale alcuni storici della<br />

cultura europea si sono illusi di veder aleggiare trionfante il fantasma dell’edonismo più libertino.<br />

Un puro <strong>mito</strong> letterario, che si trova in realtà sconfessato in La Mettrie fin dalla lettera dedicatoria<br />

dell’Homme machine, rivolta al grande fisiologo svizzero Albrecht von Haller, in cui si vede<br />

apertamente esaltato il fine piacere racchiuso nello studio, ritenuto dall’autore il solo autentico<br />

scopo dell’ attività scientifica.<br />

Scrittore inquieto e paradossale, La Mettrie frequentò il famoso Collegio d’Harcourt, dove studiò<br />

filosofia e storia naturale secondo l’impostazione cartesiana e seguì poi i corsi di medicina presso la<br />

facoltà parigina, sino a conseguire il diploma di dottore a Reims nel 1733. A seguito della parentesi<br />

olandese, fece ritorno nella natia Saint-Malo per esercitarvi la professione. Le Observations de<br />

médecine pratique (1743) costituiscono una sorta di bilancio di questa prima fase di attività,<br />

rivelando un notevole talento per l’osservazione concreta e sperimentale. Sei anni prima aveva fatto<br />

stampare anche un interessante Traité du vertige, cui era seguito nel 1739 il Nouveau traité des<br />

maladies vénériennes.<br />

La vera svolta di questi anni fu la traduzione di varie opere di Boerhaave, il grande maestro<br />

assiduamente frequentato a Leida. Uscirono così, a breve distanza tra loro, il Système sur les<br />

maladies vénériennes (1735), gli Aphorismes sur la connaissance et la cure des maladies (1738), il<br />

Traité de la matière médicale (1739), i due volumi di Institutions de médecine (1740), il Traité de<br />

la petite vérole (1740) e infine l’Abregé de la théorie chymique de la terre (1741). Opere importanti<br />

non solo perché contribuirono a far conoscere in Francia le più recenti conquiste della scuola<br />

iatromeccanica olandese, ma anche e soprattutto perché La Mettrie, nel volgere in francese i testi<br />

boerhaaviani, li integrò e li arricchì di note utili a inquadrare l’angolatura dalla quale li lesse uno dei<br />

massimi médecin-philosophes nella prima metà del XVIII secolo.<br />

La vita di La Mettrie iniziò a farsi tumultuosa nel momento in cui si trasferì nella capitale: medico<br />

personale del duca di Grammont e poi del reggimento delle guardie francesi, si trovò coinvolto nelle<br />

vicende della guerra di successione austriaca e fu presente, come chirurgo militare, alle battaglie di<br />

Dettingen (1743), Friburgo (1744) e Fontenoy (1745). Tornato a Parigi, frequentò Maupertuis e<br />

Fontenelle, nonché la Marchesa Du Châtelet. <strong>Il</strong> clamore delle proteste e delle condanne che incontrò<br />

la sua Histoire naturelle de l’âme lo costrinse a peregrinare tra gli ospedali militari di Lille e<br />

Bruxelles, Anversa e Worms. A gettare altra cenere sul fuoco provvide poi lo stesso La Mettrie, con<br />

la nota satira sui medici e la medicina del suo tempo contenuta in vari scritti, quali il Politique de<br />

Machiavel (1746), la Faculté vengée (1747), riedita poi con il titolo Les charlatans démasqués e<br />

l’Ouvrage de Pénelope (1748), tutti probabili frutti di esperienze e riflessioni di amaro carattere<br />

personale.<br />

<strong>Il</strong> medico e filosofo francese fu costretto alla fuga in Olanda, ove scrisse l’Homme machine, che<br />

iniziò a circolare anonimo nell’inverno del 1747, coraggiosamente fatto stampare da Elie de Luzac,<br />

giovane studioso e libraio pieno d’entusiasmo. La meritata pace arrivò, infine, presso la corte di<br />

Federico II, finalmente un milieu intellettualmente propizio e stimolante, come lo era stato anni<br />

prima la Leida di Boerhaave e dei newtoniani olandesi.<br />

Un anno prima dell’improvvisa scomparsa, avvenuta tra l’altro a soli quarantadue anni, La Mettrie<br />

redasse il Mèmoire sur la dyssentherie ed il Traité de l’asthme et de la dyssentherie, in cui faceva<br />

esplicito e gradito ritorno ad interessi medici mai realmente trascurati, un vero ed autentico motore<br />

della sua speculazione filosofica, peraltro mai pienamente affrancatasi dal modello cartesiano come<br />

dalle reminiscenze ippocratiche espresse, per la prima volta, nelle Lettres sur l’art de conserver la<br />

santé et de prolonger la vie (1738). Si trattava delle ultime prove da parte di un uomo che fu in vita<br />

tanto irritante quanto scomodo, solo in apparenza spensierato ma in realtà incline a tristezze e<br />

malinconie, come ebbe a osservare una volta Voltaire. 19<br />

Un sapere, il suo, di matrice schiettamente empirica, nato sulle pagine di Cartesio e sviluppatosi<br />

lungo il solco della grande tradizione iatrofisica anglo-olandese e italiana (Lancisi tra gli altri), ma<br />

19 VOLTAIRE, Oeuvres complètes, XXXVII, Paris 1877, p. 320.<br />

11


aperto anche a intelligenti confronti con altri modelli epistemologici, quali quelli rappresentati dai<br />

sistemi medici di Glisson e Stahl, Leibniz e Whytt, più attenti a fornire una spiegazione adeguata<br />

circa l’indubbio dinamismo operante nella realtà dei corpi viventi, senza con ciò rinviare<br />

necessariamente al postulato dei motori metafisici tradizionali.<br />

Non manca nel primo La Mettrie il recupero di un certo animismo, che il razionalismo del<br />

Seicento aveva posto in secondo piano nella nuova mappa del sapere, ridisegnata da Bacone e<br />

Locke in senso fortemente antiscolastico. A ciò si va ad aggiungere una parziale rivalutazione della<br />

storia naturale aristotelica, ricordata spesso con un rispetto e una stima realmente insospettabili.<br />

La stessa anima ha un’esistenza fisica indissolubilmente legata alla materia, anzi è essa stessa di<br />

natura materiale, pura estensione meccanica. La Mettrie desidera lumeggiare le forze operanti<br />

nell’organismo vivente, evitando l’uso delle ipotesi, screditate sia dal cartesianismo che dalla scuola<br />

empiristica. <strong>Il</strong> fenomenismo dell’uomo <strong>macchina</strong> è portato avanti con rara coscienza epistemica.<br />

Secondo Sergio Moravia, «a La Mettrie appare ora indispensabile che le forze agenti nel corpo<br />

vivente abbiano un’origine e una giustificazione reale e non più metafisica. Non per nulla è al<br />

medico, e non già al filosofo, che La Mettrie assegna l’onore e l’onere di studiare i segreti ressorts<br />

materiali che permettono, nell’uomo, l’esercizio delle funzioni vitali anche più complesse». 20<br />

Prese di posizione nelle quali si riflettono anche i forti echi sotterranei di quella letteratura<br />

clandestina, di stampo libertino e materialista, che lo storico sa particolarmente diffusa in gran parte<br />

dell’Europe savante nel primo Settecento. Non senza innegabili note di originalità, le stesse che lo<br />

portano a ipotizzare una nuova anima e un nuovo corpo, sino ad attribuire l’irritabilità halleriana<br />

non soltanto alle fibre muscolari, per concepirla quale sorgente del movimento. E’ lungo questa via<br />

che La Mettrie arriva a definire l’uomo alla stregua di un apparato meccanico, non solo in senso<br />

metaforico, come poteva ancora essere per la iatrofisica secentesca. Come ogni <strong>macchina</strong>, anche la<br />

<strong>macchina</strong> uomo è capace in linea teorica di un moto perpetuo, purché sia alimentata in modo<br />

regolare. Simile in questo a un pendolo, le sue parti componenti vengono sottoposte a una specie di<br />

oscillazione naturale, da rinnovarsi continuamente.<br />

La stessa vita dell’organismo corporeo si risolve nel movimento puramente meccanico di questo,<br />

non esclusa l’anima e le sue attività. L’uomo di La Mettrie è composto di solidi e di liquidi.<br />

L’illuminista francese parla di elasticità dei vasi, nei quali non esita a far scorrere, sia pure sotto una<br />

nuova veste, quei medesimi esprits animaux cui tanto aveva sacrificato la stessa tradizione di<br />

pensiero che egli va contribuendo a demolire. Paradossi dei quali la storia, non solo delle idee, è<br />

piena. La metodica lamettriana è strettamente fondata su presupposti euristici di tipo analogico e<br />

comparativo, particolarmente fortunati nell’età dei Lumi, con i quali viene tratteggiato «uno schema<br />

della natura profondamente unitario, non diverso da quello elaborato da altri savants e philosophes<br />

di indirizzo dinamicistico-vitalistico», come Cabanis e Laennec nel secondo Settecento. 21<br />

E’ attraverso il ricorso consapevole a segni e simboli che egli crea quell’universo culturale cui<br />

finisce per appartenere e che gli consente a sua volta di uscire dal proprio status di minorità naturale<br />

nei confronti delle altre specie animali, fino ad elaborare la propria civiltà, intesa qui quale spazio<br />

ideale di valori in cui riconoscersi. Talvolta, al fine di dévoiler analiticamente i concetti che va<br />

illustrando, lo stile intenso e appassionato di La Mettrie si fa addirittura violento, se non<br />

dissacratorio, la pars destruens dell’argomentare pare prendere decisamente il sopravvento sulla<br />

construens. Esiti preconizzati da mille messaggi lanciati più o meno tra le righe delle opere<br />

maggiori, secondo linee di sviluppo comuni anche al Telliamed, il noto roman philosophique circa<br />

le origini della vita pubblicato dal Maillet nel 1748, le cui conclusioni vengono consensualmente<br />

sottoscritte nelle pagine del Système d’Epicure. E quando i suggerimenti non paiono essere nuovi,<br />

lo è il modo attraverso il quale essi vengono rivissuti e interpretati. 22<br />

20 Introduzione a LA METTRIE, Opere filosofiche, trad. it. a cura di S. MORAVIA, Roma – Bari 1994, p. XIX.<br />

21 Ivi, p. XXVII.<br />

22 D. ARECCO, L’uomo <strong>macchina</strong> di La Mettrie tra iatrofisica cartesiana ed enciclopedismo illuminista, in «Nuova<br />

Civiltà delle Macchine», III-IV, 2002, pp. 131-141.<br />

12


2.1. <strong>Il</strong> meccanicismo inglese di Hobbes<br />

<strong>Il</strong> più sistematico, e se vogliamo anche geniale, tentativo di realizzare una politica come scienza,<br />

facendo leva sulle basi del meccanicismo galileiano e cartesiano, fu compiuto dal filosofo inglese<br />

Thomas Hobbes. Egli lavorò alla costruzione di un sistema materialistico-meccanicistico<br />

omnicomprensivo che, partendo da elementi più semplici, e procedendo per successive<br />

composizioni, fosse in grado di spiegare ogni fenomeno, da quelli fisici a quelli gnoseologici, da<br />

quelli etici e quelli politici. In tale maniera, la visione meccanicistica della natura, inaugurata da<br />

Galilei per quel che riguardava il mondo fisico ed estesa in seguito da Cartesio al mondo animale,<br />

veniva ora assunta da Hobbes quale spiegazione non solo filosofica, ma anche scientifica, di tutto il<br />

reale.<br />

Compito della filosofia, secondo Hobbes, è essenzialmente quello di procurare utilità all’uomo,<br />

ma questa non consiste, come sosteneva Bacone, solo nel dominio esercitato sulla natura, bensì<br />

nell’assicurare all’uomo la pace, intesa come garanzia di sopravvivenza fisica. Per conseguire tale<br />

scopo è la filosofia stessa a dover costruire scientificamente le regole del vivere umano, che si<br />

riassumono poi in realtà nella giustificazione dell’assolutismo politico, quale unica condizione per<br />

garantire all’uomo la concordia e la stabilità.<br />

L’unica scienza capace di fornire la basi a tale concezione politica è, per Hobbes, la meccanica,<br />

ossia la matematica applicata allo studio della natura. Solo ciò di cui tale scienza si occupa, i corpi<br />

materiali e i loro movimenti nello spazio, costituisce la vera realtà: tutto il resto, cioè le essenze<br />

immateriali, le qualità, i fini, è impressione puramente soggettiva e perciò non esiste.<br />

Anche Hobbes quindi, come già Bacone e Cartesio, fonda la propria filosofia su una concezione<br />

rigidamente meccanicistica della realtà, con la differenza che, per lui, tale filosofia è pratica anche<br />

per il suo oggetto, il mondo dell’etica e della politica. Sul meccanicismo egli fonda infatti la nuova<br />

scienza politica, inaugurando l’innovativa, e tipicamente moderna, concezione della politica come<br />

scienza 23 .<br />

È nell’opera inedita Elements of Law, del 1640, che Hobbes inserisce il primo abbozzo del De<br />

corpore, formulando così la prima versione del suo meccanicismo e sviluppando attraverso di esso<br />

il prodursi delle senzazioni, la formazione delle immagini, il manifestarsi del piacere e di quel<br />

dolore che, a sua volta, dà origine alle passioni. Si tratta di una riduzione audacemente<br />

materialistica di tutte quelle funzioni che, per consuetudine, venivano attribuite all’anima e che qui<br />

vengono ora interpretate in termini di movimento: tutto viene ricondotto alle sensazioni, le quali<br />

sono prodotte dal movimento dei corpi esterni, che si trasmette agli organi di senso. Tutti i<br />

fenomeni, quindi, sia esterni sia interni all’uomo, non sono altro che movimenti meccanici, connessi<br />

secondo rapporti di causa ed effetto.<br />

Hobbes intende in questo modo spiegare tutta la vita mentale dell’uomo, sia conoscitiva, sia<br />

affettiva e volitiva. <strong>Il</strong> nostro conoscere è in divenire, le immagini appaiono e scompaiono: ogni<br />

sensazione è un complesso di movimenti originati dalla pressione dei corpi esterni sui nostri organi<br />

di senso, pressione che produce un movimento trasmissibile dai nervi fino al cervello e al cuore.<br />

<strong>Il</strong> meccanicismo hobbesiano, come vedremo, sarà impugnato da Newton in ragione dei suoi<br />

aspetti materialistici, ‘colpevoli’ di lasciare aperta la porta all’ateismo. Una preoccupazione, nel<br />

tardo Seicento, non solo newtoniana, ma comune a pressoché tutti i teologi naturali di orientamento<br />

whig-latitudinario. 24<br />

2.2. I platonici di Cambridge: Henry More e Anne Conway<br />

I platonici di Cambridge furono un gruppo di pensatori inglesi del Seicento che gravitavano<br />

attorno all'università di Cambridge. Fra gli altri emergono le figure di Henry More (1614-1687) e<br />

23 E. BERTI, Storia della filosofia dal Quattrocento al Settecento, Bari 1991, p. 94.<br />

24 D. ARECCO, I Fatti e le Idee. Scienza, religione e società nell’Inghilterra moderna, Genova 2007.<br />

13


di Anne Conway (1630-1679), che si opposero fermamente alla nascente fisica sperimentale<br />

meccanicista per proporre una cosmologia spiritualista e riannodare i legami fra teologia, filosofia e<br />

scienza.<br />

More soprattutto fu molto attivo nel dibattito filosofico dell'epoca: ebbe una fitta corrispondenza<br />

con Cartesio, di cui inizialmente condivise il pensiero, ma col quale successivamente entrò in<br />

polemica. Si può quindi affermare che More sia mai stato “cartesiano”? Certamente no, se con quel<br />

termine si intende la rigida appartenenza a una scuola, o anche una elaborazione, entro certi limiti<br />

autonoma, che si svolga all’interno della scuola stessa 25 . Eppure, andando oltre la rigida<br />

attribuzione di etichette, vi è un periodo della vita intellettuale di More in cui egli più che mai si<br />

richiama a temi cartesiani, che integra ed inserisce nell’eclettica struttura del proprio pensiero,<br />

senza neanche preoccuparsi molto che la loro utilizzazione sia o meno consona allo “spirito” del<br />

sistema cartesiano. Tale periodo va, all’incirca, dagli anni dei poemi giovanili fino al 1665-’68: in<br />

questa accezione usiamo quindi per More il termine di “cartesiano”. Egli giustificava il proprio<br />

entusiasmo per la filosofia cartesiana soprattutto con la considerazione del giovamento che ne<br />

traeva la causa della religione, “sommo fine di ogni filosofia”. Che il sistema cartesiano potesse<br />

avere questa funzione era assunto allora ampiamente condiviso tra i platonici inglesi, ma forse tra di<br />

loro nessuno ne fu mai tanto convinto quanto More che, anche quando le sue simpatie verso<br />

Cartesio erano ormai smorzate, continuava a ribadire che il concetto di materia omogenea<br />

consentiva di inferirne l’esistenza di Dio e l’immaterialità e separabilità dal corpo dell’anima<br />

sostanziale.<br />

Nel giovane More il tentativo era quello di inquadrare la filosofia cartesiana entro una prospettiva<br />

che, attraverso successivi passaggi, la riallacciasse addirittura al sapere mosaico: in questo modo,<br />

chiaramente, egli non faceva che seguire quel noto procedimento attraverso il quale la religione<br />

giudaica prima, il cristianesimo poi, avevano potuto beneficiare del supporto razionale e collaudato<br />

della filosofia platonica. Non è un caso quindi che More stesso si professi platonico, così come lo<br />

era stato Marsilio Ficino, autore di una analoga operazione di recupero nei confronti del sapere<br />

ermetico durante il XV secolo.<br />

L’operazione di recupero della filosofia cartesiana, entro il gran corpo della filosofia perenne,<br />

benché More avesse molto chiara la paradossalità della cosa, trovava la propria giustificazione in<br />

tutta una serie di fattori, religiosi e culturali, non ultima proprio quella necessità di superare la<br />

profonda ostilità che gli ambienti conservatori nutrivano nei confronti di Cartesio, ostilità la cui<br />

forza verrà più tardi documentata dal ripensamento dello stesso More.<br />

Presupposto fondamentale, quindi, dal quale More muoveva, senza dubbio influenzato da quelle<br />

dottrine teosofico-ermetiche ben presenti nella cultura inglese del secolo, è che le verità espresse di<br />

volta in volta dalle filosofie storiche fossero già interamente note a Mosè. L’innovazione che More<br />

opera rispetto alla tradizione consiste nel privilegiare il filone fisico atomistico della filosofia<br />

pagana, come quello che più di ogni altro avrebbe tratto da Mosè le proprie dottrine; per fornire, a<br />

tal fine, un’ulteriore prova della sua erudizione filologica, il platonico inglese trasse dal Vossius la<br />

notizia secondo la quale, nei secoli precedenti la guerra di Troia, era vissuto un tale Moschus,<br />

autore primo della filosofia atomistica. Posto che il termine Moschus stia evidentemente per<br />

Mosche, nome con il quale in lingua ebraica era identificato proprio Mosè, More può tirare le<br />

conclusioni che tanto gli stanno care, richiamando in seguito tutti i rapporti possibili instaurabili tra<br />

Pitagora, Filolao, Democrito e Cartesio.<br />

<strong>Il</strong> platonico inglese, quindi, non è particolarmente interessato al metodo cartesiano e alla peculiare<br />

configurazione che vi assume la razionalità, neppure il cogito richiama la sua attenzione. Per lui la<br />

filosofia cartesiana è soprattutto una “fisica” che gli fornisce strumenti concettuali atti ad<br />

organizzare ed interpretare i fenomeni naturali, o a spiegare in termini razionali la cosmogonia<br />

biblica, mentre sullo sfondo prende forma il disegno del fine apologetico generale, ossia l’inferire,<br />

dall’ordine di una natura così spiegata, l’esistenza di Dio, con il correlato tradizionale<br />

25 A. PACCHI, Cartesio in Inghilterra, Bari 1973.<br />

14


dell’immortalità dell’anima. Ciò emerge in particolare nell’Antidotus adverus Atheismum e nell’<br />

Immortalitatis Animae, dove l’assunzione e la discussione di tutta una serie di dottrine cartesiane<br />

presentano un carattere più sistematico; diversamente avviene nella Conjectura, opera in cui il<br />

ricorso a Cartesio si verifica caso per caso, ossia ogni qualvolta una singola dottrina si presti a<br />

chiarire questo o l’altro versetto, questo o quell’altro termine.<br />

Tuttavia, in generale, la prospettiva che risulta dagli scritti che intercorrono tra il 1649 e il 1662<br />

mantiene una fondamentale unità nel tempo: in questa prima fase del proprio pensiero Henry More<br />

adotta i moduli del meccanicismo cartesiano, in polemica con la tradizionale spiegazione<br />

aristotelico-scolastica della realtà naturale. A un certo livello egli può quindi dirsi cartesiano, anche<br />

se già ritiene che la spiegazione meccanicistica non possa risalire alle ragioni ultime delle cose e,<br />

soprattutto, non possa coprire ogni ambito della ricerca naturale.<br />

Anche in questa fase cartesiana del suo pensiero, More ha sempre mantenuto un certo distacco<br />

critico nei riguardi del pensatore francese; la principale causa degli errori a lui imputati viene<br />

individuata da More nell’eccessivo amore per la necessità e certezza delle dimostrazioni<br />

matematiche, amore che spinse Cartesio a tentare di estendere la spiegazione meccanicistica<br />

all’intera sua filosofia. Questo può sembrare strano, visto che proprio il meccanicismo, o almeno<br />

quella che è la sua prospettiva “democritea”, sembra essere l’orientamento che nobilita la filosofia<br />

cartesiana, riallacciandola alla filosofia mosaica; inoltre, va considerato che tra le ragioni invocate<br />

esplicitamente da More per giustificare il suo entusiasmo per il cartesianesimo, egli fece riferimento<br />

proprio alla spiegazione in chiave meccanicistica della sensazione e all’interpretazione,<br />

meccanicistica anch’essa, dei fenomeni naturali. Non solo: More riprese pari pari da Cartesio la<br />

teoria cosmogonica, secondo la quale Dio non fece altro che imprimere alla materia indifferenziata<br />

una certa quantità di movimento vorticoso, affinché ne scaturisse, attraverso distinzioni e<br />

ricombinazioni di parti, l’intera varietà delle cose. <strong>Il</strong> fatto è che il platonico inglese, benché non si<br />

stanchi di esaltare questo tipo di scienza che va ricercando le cause corporee connettendo materia e<br />

movimento, in un discorso deduttivo la cui necessità riflette la stessa struttura necessaria delle leggi<br />

attribuite loro da Dio, non è disposto ad applicare tale strumento interpretativo cartesiano<br />

all’universalità dello scibile naturale, rivelando un interesse piuttosto scarso verso la rigorosa<br />

estensione della spiegazione meccanicistica a tutti i fenomeni, compresi quelli organici, secondo<br />

l’orientamento peculiare della filosofia alla quale si ispirava. Newton lo avrebbe seguito lungo<br />

questa strada.<br />

Tra gli scritti di maggiore rilievo, in cui More affronta il problema della dimostrazione<br />

dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, in questa fase ancora cartesiana del suo<br />

pensiero, si possono annoverare l’Antidotus adversus Atheismum e l’Immortalitatis Animae 26 .<br />

In entrambi More fa sovente ricorso a Cartesio, ma ne utilizza temi e dottrine senza accettare in<br />

blocco il sistema cartesiano, ignorando soprattutto la giustificazione fondamentale data dal<br />

pensatore francese alla sua gnoseologia attraverso il cogito, che costituisce la dimostrazione della<br />

verità delle idee chiare e distinte, al di là della fondazione della loro certezza sull’evidenza e prima<br />

di ritrovare nella veracità divina una garanzia definitiva e generale della validità del sapere umano.<br />

Questa rigorosa, e discussa, impostazione gnoseologica sembra sfuggire al platonico inglese, il<br />

quale, non avendo seguito Cartesio sul suo terreno, si troverà in difficoltà ad accettare le<br />

dimostrazioni a priori dell’esistenza di Dio, tranne la prova ontologica, volgendo invece tutto il<br />

proprio interesse al meccanicismo cartesiano, che gli sembrava potesse fornire validi appoggi alle<br />

prove a posteriori.<br />

Ecco perché egli accoglie con tanto entusiasmo Cartesio ed i concetti cardine della visione<br />

meccanicistica della realtà naturale, pur riservandosi di porre in luce un ulteriore intervento divino,<br />

anch’esso comunque di carattere meccanico, ancorché mediato da un’azione spirituale, nella<br />

complessa produzione dei fenomeni della natura organica.<br />

26 Titoli completi: Antidotus adversus Atheismus: sive ad naturales mentis humanae facultates provocatio an non sit<br />

Deus e Immortalitatis Animae quatenus ex Cognitione Naturae Rationisque Lumine est demonstrabilis.<br />

15


Lo scarso interesse legato, invece, alla soluzione cartesiana del problema della fondazione del<br />

sapere si riflette innanzitutto nel fatto che nell’opera dell’inglese non vi sia alcun accenno al tema<br />

del cogito ergo sum, se non per una questione in un certo senso secondaria rispetto alla funzione<br />

primaria dell’argomento, ossia per la distinzione dell’anima dal corpo; anche in questo caso More<br />

attribuisce scarso peso alla dimostrazione cartesiana, negando al pensatore francese la validità della<br />

deduzione necessaria dell’esistenza di una sostanza incorporea, chiaramente distinta dall’estensione,<br />

dalla constatazione dell’esistenza di una funzione pensante. Chiaro è ciò che a More preme di più:<br />

egli conduce la discussione su questo tema in difesa della dottrina dell’estensione spirituale, messa<br />

in pericolo dalla rigorosa distinzione cartesiana; ciò nondimeno, è un fatto che, dell’intero discorso<br />

cartesiano relativo al cogito, il platonico inglese richiami solo questo elemento, trascurando invece<br />

il momento dell’autofondazione del pensiero, perché è molto meno sensibile a quest’ultimo<br />

problema e alla sua soluzione. Una riprova di questa impostazione la si può trovare in una lettera<br />

scritta intorno al 1650 dallo stesso More ad Anne Finch, la futura Lady Conway, per rispondere ad<br />

alcuni quesiti posti dalla gentildonna, che andava allora istruendosi nella filosofia cartesiana 27 . Una<br />

delle questioni poste dalla Conway recitava all’incirca in questo modo: se è vero quel che afferma<br />

Cartesio nell’articolo quattro dei Principia, che non abbiamo segnali per distinguere il sonno dalla<br />

veglia, non è possibile alcuna conoscenza vera. Nella risposta, More, lungi dal richiamarsi al cogito,<br />

incomincia col minimizzare la portata dell’affermazione cartesiana, dettata secondo lui dalla<br />

preoccupazione di mettere meglio in luce l’eccellenza del suo metodo, per poi concludere con un<br />

rimando all’articolo trenta dei medesimi Principia, in cui la garanzia di Dio sanziona il retto uso<br />

“della facoltà naturale che Egli ci ha dato, di discernere quel che è vero o falso, nel sonno e nella<br />

veglia”.<br />

More si rivela, con la sua vivissima curiosità, il suo entusiastico trasporto verso le questioni<br />

naturali, dai macroscopici fenomeni ciclici celesti alle irripetibili variazioni e alle microscopiche<br />

strutture degli esseri viventi, un uomo del suo tempo, partecipe di quell’esaltazione generale che in<br />

Inghilterra portava, proprio in quegli anni, alla fondazione della Royal Society, coronamento di un<br />

ideale baconiano perseguito per decenni dai “virtuosi”, seguaci ossequienti di un metodo di ricerca<br />

estremamente aderente al dato sperimentale. More, che con questi “virtuosi” intrattenne eccellenti<br />

rapporti, si distingueva però da essi per il suo atteggiamento verso la natura, instancabilmente<br />

interrogata: egli cercava di inquadrare i fenomeni naturali entro una prospettiva che troppo<br />

impregnata di misticismo speculativo da platonismo rinascimentale, compromesso inoltre da<br />

interessi cabalistico-teosofici, sentendo poi la presenza del divino nella natura con una<br />

partecipazione emotiva tale da richiamare aspetti metafisici.<br />

Nella bellezza dei fiori, nell’efficacia curativa di decine di piante meticolosamente elencate,<br />

nell’eleganza di forme e nell’istinto degli animali, nella funzionalità degli organi del corpo umano,<br />

More ravvisa i molteplici segni della provvidenza divina, inseriti in una visione finalistica generale,<br />

nella quale l’opera di Dio interviene attraverso un’infinita variazione di grado, realizzando<br />

un’integrazione continua con lo spirituale e il meccanico, che fa qui pensare a Leibniz. Ciò che va<br />

accomunando due pensatori tanto diversi alla matrice comune del neoplatonismo, è proprio la<br />

determinazione di una scala gerarchica degli esseri naturali, configurata da More come una discesa,<br />

che parte dall’uomo “culmine della creazione”, il cui principio è la ragione nella sua massima<br />

sottigliezza e riflessione, attraverso la spiritualità-razionalità sempre meno perfetta degli animali e<br />

delle piante, ai fenomeni della natura inorganica, fino ai moti e alle mutazioni dei minerali e dei<br />

metalli, in cui sopravvive, benché estremamente oscurata, “un’ultima e remotissima ombra” della<br />

natura divina. Ed è proprio a causa di questa estrema rarefazione in loro del principio “vitale” che i<br />

fenomeni della natura inorganica possono essere riconsiderati da un punto di vista meccanicistico, il<br />

che consente a More di introdurre il discorso cartesiano.<br />

Caratteristica del platonico inglese è la ricerca costante di equilibrio tra l’interpretazione<br />

vitalistica e la spiegazione meccanicistica dei fatti naturali, in una tensione che più tardi nel tempo<br />

27 Si tratta di una delle tre lettere scritte da More alla Conway escluse dalla raccolta della Nicolson, Conway Letters,<br />

London 1930, a causa del loro contenuto strettamente filosofico.<br />

16


si risolverà a totale favore del vitalismo; in questa fase, invece, More propende ancora per la<br />

meccanica, per cui l’intervento divino viene visto piuttosto come una continua correzione del moto<br />

da Dio stesso originariamente impresso alla materia, una specie di continuo miracolo meccanico, in<br />

parziale deroga alla regolarità di leggi meccaniche ugualmente stabilite da Dio, che raffina la<br />

propria azione quanto più la complessità dell’opera lo richieda. Si può nuovamente pensare a<br />

Newton, che in gioventù approfondì la lettura di Cartesio e fu amico di More; due cose, crediamo,<br />

collegabili.<br />

È a questo punto che il cartesianesimo, secondo More, inizia a peccare di eccessiva fiducia nella<br />

possibilità della matematica di risolvere tutti i problemi: Cartesio, come l’inglese osserva<br />

nell’Epistola ad V.C., ha il merito di aver fornito una chiara spiegazione delle cause immediate di<br />

quasi tutti i fenomeni sensibili da lui trattati in chiave meccanicistica; ma si tratta pur sempre di<br />

neppure la millesima parte dei fenomeni naturali; gli altri sono troppo complessi per poter essere<br />

stati prodotti mediante leggi tanto semplici. Senza contare che, se Dio avesse creato l’universo<br />

ricorrendo ad una azione puramente meccanica, avrebbe dato prova di scarsa sapienza: perché More<br />

ritiene che Dio si dimostri più sapiente intervenendo in modo continuo a correggere e raffrenare<br />

quei movimenti che seguendo una determinazione puramente meccanica, sviano dai suoi disegni,<br />

piuttosto che calcolando sin dall’origine un sistema materiale retto da leggi necessarie, strutturate in<br />

modo da produrre il mondo naturale in tutta la sua bellezza.<br />

Quale sia poi lo strumento in grado di assicurare la mediazione tra Dio e il mondo dei corpi in<br />

movimento, risulta a tale stadio abbastanza nebuloso: nell’epistola di cui sopra More accenna ad un<br />

principio più divino e santo del moto materiale, ad un non meglio determinato Spirito, nozione<br />

ancora vaga che si preciserà più tardi nel concetto di spirito plastico di matrice cudworthiana. Tutto<br />

sommato non aveva torto More nel definirsi, in quel periodo, cartesiano: in fondo egli ne aveva<br />

assorbito l’interpretazione meccanicistica della realtà naturale, cioè di quell’aspetto forse più<br />

inquietante della nuova filosofia agli occhi di conservatori e teologi; certo, egli si fermava dubbioso<br />

di fronte alla meravigliosa complessità di struttura e di funzione degli organismi viventi, ma va<br />

anche ricordato che il meccanicismo cartesiano ed hobbesiano era ben lungi dal fornire<br />

interpretazioni esaurienti in proposito, al di là di certi schemi esplicativi più generici che generali, di<br />

qualche esemplificazione particolare e di una ammirevole quanto cieca fiducia nelle capacità della<br />

ragione e nella grande <strong>macchina</strong>.<br />

La differente tensione speculativa tra More e Cartesio era comunque già emersa fin dai primi<br />

contatti tra loro, quando un More giovane ed entusiasta, dopo aver letto con estrema attenzione ed<br />

ammirazione il Discours, la Dioptrique e i Principia, aveva mosso a Cartesio una serie di quesiti e<br />

obiezioni che denunciavano in lui la presenza di un orientamento filosofico già ampiamente<br />

meditato e articolato, ma anche densamente personale, pur se sviluppatosi all’interno di una scuola<br />

non certo insensibile al richiamo rassicurante della tradizione.<br />

<strong>Il</strong> platonico inglese apprezzava in Cartesio un ingegno straordinariamente lucido e un pensiero<br />

rigoroso, ma gli sfuggiva l’impossibilità dell’adattamento, del compromesso, della distinzione<br />

sottile che concilia e soffoca le divergenze. Così, quando More insiste sul fatto che anche gli spiriti<br />

sono forniti di estensione, la risposta di Cartesio segna con estrema decisione la serietà di un<br />

metodo che non ammette confusioni compromissorie: il filosofo francese non è abituato a discutere<br />

sui nomi; se qualcuno vuol sostenere che Dio sia in qualche modo esteso, in ragione dell’attributo<br />

dell’ubiquità, faccia pure. Ma egli nega che si possa ritrovare, sia in Dio che negli angeli, nella<br />

nostra mente e in qualsiasi altra sostanza che non sia corpo, una vera estensione, quale viene<br />

comunemente da tutti concepita.<br />

Va detto che, tra i contemporanei, pochi compresero Cartesio fino in fondo, intendendo così bene<br />

la portata innovatrice del suo discorso, la rottura con il passato ed il rigore dell’impostazione<br />

metodica e speculativa, ma certo More, col suo bagaglio di credenze e pregiudizi, alle prese con un<br />

inestricabile groviglio di razionalità e teosofia, misticismo cabalistico e filosofia naturale, sembra<br />

meno degli altri adatto a comunicare con l’autore del Discours: egli mescola con indifferenza i suoi<br />

ingredienti, sostiene tesi fantasiose seppur ancor lecite nel suo secolo, come quella secondo la quale<br />

17


gli spiriti, sia buoni sia malvagi, sono dotati di sensibilità e involucro corporeo, discettando a lungo<br />

sul tipo di veicolo da assegnare ad angeli e demoni; eppure cerca il dialogo con un pensatore come<br />

Cartesio, il quale, implacabilmente, gli taglia ogni argomentazione, sottolineando la propria<br />

determinazione a non dar mai luogo a congetture, a non occuparsi di questioni intorno alle quali non<br />

abbia certam rationem.<br />

Nonostante tutto, il platonico inglese assorbì largamente dal cartesianesimo alcuni caratteri, quali<br />

appunto la ricerca di un’espressione rigorosa del pensiero, l’interesse per un’interpretazione<br />

meccanicistica dei fenomeni naturali e delle funzioni dei corpi animati.<br />

Quando però la consapevolezza della contraddizione si fece strada in lui, More fu costretto a<br />

rompere decisamente con il cartesianesimo, iniziando quella che va considerata come una vera e<br />

propria seconda fase del suo pensiero. Alla fine della sua vita, per More dire meccanicismo<br />

cartesiano era quasi come spalancare le porte al materialismo di Hobbes e all’ateismo. Una lezione<br />

ripresa da Newton.<br />

Si ritiene che dall’opera di Anne Conway, Leibniz abbia attinto riguardo all’uso e al significato<br />

del termine monade. Marjorie Hope Nicholson affermò in seguito che Leibniz attinse ben più di<br />

questo: sull’influenza effettiva delle idee della Conway sul sistema filosofica leibniziano, la critica è<br />

tuttora piuttosto divisa: ciò che è certo è che Leibniz ne conobbe direttamente il contenuto; del resto<br />

egli stesso riconosce esplicitamente una vicinanza di pensiero con la Conway. 28<br />

L’opuscolo cui si fa riferimento, The Principles of the Most Ancient and Modern Philosophy,<br />

comparve per la prima volta ad Amsterdam nel 1690 in traduzione latina, ripubblicato in inglese<br />

due anni dopo.<br />

Solo da pochi anni si registra un accurato interesse nei confronti della filosofia di Anne Conway,<br />

rivalutando e sottolineando l’importanza della valenza biografia nello studio del pensiero<br />

femminile. Le lettere tra la Conway e i suoi grandi corrispondenti ci delineano la particolare<br />

atmosfera nella quale si muovevano gli intellettuali anglosassoni nel clima dei settarismi religiosi e<br />

delle nuove proposte scientifiche e filosofiche, che infiammavano la vita politica e sociale<br />

dell’Inghilterra al tempo della Restaurazione.<br />

Uno di questi corrispondenti fu Henry More con il quale ella intrattenne un’amicizia intellettuale<br />

che durò per circa trent’anni anni: iniziata nel 1650 continuò fino alla morte di lei nel 1679.<br />

Gli argomenti trattati non sono solo filosofici; si trovano infatti riferimenti ai membri del circolo<br />

neoplatonico di Cudworth, all’ambiente dalla Royal Society di Boyle, Glanvill e Newton, dettagli<br />

sulle cure mediche prestate alla donna da William Harvey, sulle pratiche guaritrici di Valentine<br />

Greatrakes e Francis van Helmont: tutto ciò ci consente di ampliare il nostro sguardo sia sulle<br />

consuetudini intellettuali della molto variegata cerchia di persone che per un motivo o per l’altro<br />

circondavano la Viscontessa, sia di cogliere alcuni dettagli della vicenda biografica di Henry More<br />

negli anni in cui andava costruendo la sua metafisica spiritualistica, anti-meccanicistica e anticartesiana.<br />

Quaccherismo, familismo, behmenismo, cabalismo, spinozismo e cartesianesimo sono gli<br />

argomenti più ricorrenti, così come le interpretazioni millenaristiche, che andavano interessando<br />

More e che – anche tramite quest’ultimo – segnarono Newton.<br />

Possiamo così seguire l’intrecciarsi delle relazioni di More con gli ambienti cabalistici tedeschi,<br />

vederlo affinare i suoi studi intorno alle prospettive millenaristiche, seguirlo negli scambi di<br />

opinioni, di testi ebraici e cabalistici con van Rosenroth e van Helmont, il quale prolungò,<br />

invogliato anche dell’insistenza di More e del visconte di Conway, il suo soggiorno in Inghilterra di<br />

otto lunghi anni, molti dei quali passati nella residenza dei Conway stessi, nella quale sembra<br />

avesse trasferito il proprio laboratorio alchemico.<br />

L’intensità degli interessi millenaristici di More, che si misura tra le altre cose con la tendenza ad<br />

una cristianizzazione dell’ebraismo (due temi poi newtoniani), viene tenuta tuttavia ben distinta da<br />

28 Cfr. G. MOCCHI, Contiguità filosofiche, Catanzaro 1999, anche per le mie pagine che seguono.<br />

18


quell’entusiasmo che contagia l’Europa delle sette e degli scismi. Ma forse è proprio essa la chiave<br />

di volta che consente alla cosmologia spiritualistica di Anne Conway di arrivare a poter costruire<br />

una teodicea in termini neoplatonici e cabalistici, proprio superando il dualismo che continua a<br />

permanere nella metafisica moreana (la quale, sotto questo aspetto, non riesce del tutto a liberarsi<br />

del fantasma di Cartesio).<br />

Molto discussi nelle lettere che i due si scambiarono sono proprio i due aspetti di antisettarismo e<br />

spiritualismo cabalistico che condurranno Lady Conway su posizioni nettamente più radicali:<br />

rifiutando la lettura apocalittica degli eventi del tempo, proposta dal suo maestro More (e<br />

sostanzialmente condivisa da Newton), abbraccerà la causa quacchera fino in fondo, decidendo di<br />

non dover rendere conto a nessuno delle proprie scelte. <strong>Il</strong> bersaglio comune è comunque lo stesso: il<br />

rischio di una deriva materialistica, se non atea, rappresentata dal meccanicismo cartesiano.<br />

Anne Finch, sposata Conway, conosceva il latino e forse anche il greco e l’ebraico. Forse<br />

attraverso gli studi compiuti dal suo fratellastro prediletto, John, a Cambridge, riuscì a definire i<br />

propri interessi nel campo filosofico, evidenti nelle prime lettere che scrisse a Henry More, che<br />

presto ne divenne il maestro e tradusse per lei i Principia di Cartesio, in seguito al quale Anne<br />

iniziò a porsi non una ma una lunga serie di domande.<br />

La stretta relazione di More con Anne continuò anche dopo il matrimonio di lei con Edward<br />

Conway e si sviluppò quasi come una sorta di terapia, dal momento che, per lei, la filosofia era<br />

forse l’unico sollievo alle atroci emicranie che la perseguitarono per la vita intera.<br />

Forse, proprio l’aver approfondito i temi teologici suggeriti dalla prospettiva cabalistica, in cui il<br />

problema del male metafisico si intreccia o spesso si identifica con quello del dolore nel mondo e<br />

del male morale, costituì per lei una sorta di antidoto intellettuale, ma anche religioso, per cercare di<br />

comprendere ed accettare le ragioni della sua così intensa sofferenza:<br />

tutti i dolori e le sofferenze stimolano la vita degli spiriti esistenti in ogni cosa che soffre. Come noi<br />

vediamo dalla nostra costante esperienza e come la ragione ci insegna, ciò deve accadere necessariamente<br />

perché attraverso i dolori e le sofferenze qualsiasi grossezza o densità sia contratta dallo spirito o dal corpo<br />

sia diminuita, e così lo spirito imprigionato in una tale grossezza o densità sia libero e diventi sempre più<br />

spirituale di conseguenza più attivo ed effettivo mediante i dolori. 29<br />

Questa valutazione filosofica del dolore come parte integrante del processo di purificazione è<br />

forse una delle caratteristiche più tipiche del pensiero di Anne. È altresì probabile che la prospettiva<br />

filosofica di More, che capovolge le indicazioni materialistiche di Cartesio, in favore di una<br />

dimensione decisamente centrale dello spirito anche nella prospettiva cosmologica, abbia potuto<br />

rispondere ad un quesito sempre presente nelle lettere della Conway: come è possibile che se mente<br />

e corpo, spirito e materia, sono separati, come il dualismo cartesiano prevede - e in parte anche<br />

quello moreano - possano interagire tra loro? Come è possibile che l’anima soffra così tanto per le<br />

pene del corpo?<br />

Nonostante essa sia unita al corpo essa non ha corporeità né natura corporea, perché allora sarà ferita e<br />

dorrà anche l’anima quando il corpo è ferito, nonostante siano di natura diversa? Se l’anima può<br />

penetrare così facilmente nel corpo, come può una cosa corporea ledere anche essa? 30<br />

Anne Conway aveva anche una importante relazione intellettuale con il suocero, grande<br />

collezionista di oltre tremila libri nella propria casa di Londra e di altri novemilanovecento in quella<br />

di Portmore. Anche suo marito Edward era uomo di ampie letture e condivise gli interessi filosofici<br />

di sua moglie - lui stesso era stato allievo di More, che gli dedicò l’Immortality of the Soul – e per<br />

quanto non nascondesse la propria avversione verso il quaccherismo, non ostacolò mai Anne nella<br />

sua definitiva adesione alla setta, da lei maturata anche attraverso il suo sempre maggiore<br />

29 A. CONWAY, Principles, ed. Lopston, London 1982, VII, pp.105.<br />

30 Ivi, VIII, pp.128.<br />

19


approfondimento per i temi cabalistici che andavano sviluppando i suoi amici più intimi, primo fra<br />

tutti van Helmont, che ebbe una parte non di poco conto nella composizione dell’opera cabalistica<br />

più importante del momento, la Kabbala denudata. Proprio a questo testo Lady Conway farà<br />

riferimento costante nella costruzione della sua visione filosofica. Helmont, si sa, sarebbe stato<br />

anche tra le letture di Newton. 31<br />

Nel 1650 dunque Anne Conway e Henry More, che a quel tempo era uno dei divulgatori più<br />

entusiasti della filosofia cartesiana in Inghilterra, iniziano a corrispondere proprio intorno a questa.<br />

Come cristiano impegnato, More era conscio dei pericoli che si celavano nel dualismo cartesiano e<br />

nella prospettiva meccanicistica, per la quale tutte le interazioni fisiche potevano spiegarsi in<br />

termini puramente meccanici come un risultato della materia in movimento. La reazione di More si<br />

indirizza soprattutto verso ciò che gli sembra più temibile, ossia che la teoria cartesiana aprisse alla<br />

duplice minaccia di ateismo e materialismo, cosa che egli denuncia con preoccupazione nei vari<br />

studi dedicati proprio all’analisi della prospettiva cartesiana.<br />

Curioso è il fatto che la corrispondenza tra Cartesio e More ebbe termine poco prima di iniziare<br />

quella con Anne Finch, alla quale More dedicò il suo Antidote against Atheism, iniziando così a<br />

informarla sui caratteri della nuova filosofia. More, che era certamente un maestro attento e<br />

rigoroso, non le propose la lettura delle Meditazioni o del Discours, ma quella dei Principia, anche<br />

perché colpito dalla sua singolare velocità e dalla semplicità di comprensione.<br />

Nelle prime lettere si caratterizza il ruolo esclusivamente didattico di More, ma nel tempo il<br />

carattere della loro relazione cambia e il soggetto della loro corrispondenza si allarga ad altre aree,<br />

portando la Viscontessa a scelte intellettuali più autonome.<br />

Lo sviluppo e i caratteri del pensiero di Lady Conway non ci vengono forniti solo dalle lettere:<br />

l’opuscolo postumo, quello comparso per la prima volta ad Amsterdam nel 1690, può infatti valere<br />

come una testimonianza della sua metafisica e della sua posizione critica nei confronti della<br />

filosofia meccanica.<br />

Tra i temi presenti nell’opera di Anne Conway sono, in questo frangente, di particolare interesse<br />

quei capitoli riferiti alla sua metafisica monista, che si pone come radicalmente antitetica sia a<br />

quella cartesiana sia alla hobbesiana, intervenendo con un suo specifico punto di vista nel dibattito<br />

tra meccanicisti e spiritualisti.<br />

La sua personale critica al cartesianesimo parte proprio dalla concezione di quest’ultimo del corpo<br />

come “mera massa morta, che non solo è carente di vita e di percezione di qualsiasi tipo ma che ne<br />

è anche incapace in tutta l’eternità”. 32 Ed è proprio la negazione di qualsiasi principio vitale nella<br />

materia che non consente alla spiegazione cartesiana della natura – che, alla pari di More, considera<br />

eccellente e ingegnosa – di riconoscere la presenza nella natura di “molte operazioni che sono più<br />

che meramente meccaniche”. La natura stessa “non è un semplice corpo organico simile ad un<br />

orologio in cui non vi è un principio vitale di movimento”, al contrario, essa è un corpo vitale,<br />

dotato di percezione, “molto più sublime di un mero meccanismo o movimento meccanico”. 33<br />

Ancor più da rigettare è Hobbes, per la sua riduzione di Dio a materia, poiché ciò implica una<br />

confusione tra l’essenza di Dio e quella delle creature, le medesima che opera Spinoza. Newton sarà<br />

d’accordo, pienamente.<br />

La seconda fondamentale differenza tra la filosofia della Conway e quella di Cartesio e Hobbes è<br />

che, per entrambi, la materia, o corpo, ha solo estensione e impenetrabilità: essi dunque fanno<br />

riferimento solo agli attributi della materia; ma in tal modo “essi, non hanno proceduto al di là della<br />

scorza o guscio, non sono mai giunti al nocciolo, essi hanno solo toccato la superficie senza<br />

discenderne il centro”. 34 Dunque, essi non sono giunti a riconoscere gli attributi più nobili di quella<br />

sostanza che essi chiamano materia, cioè “spirito o vita e luce”, nei quali sono da comprendere “la<br />

capacità di ogni tipo di sentire, percezione e cognizione,oltre che amore, e ogni virtù e potere, gioia<br />

31 P. HARRISON, Isaac Newton’s Library, Cambridge 1978, ad indicem.<br />

32 CONWAY, cit., IX, 2, 135.<br />

33 Ivi, 136.<br />

34 Ivi, 139.<br />

20


e godimento che le più nobili creatura hanno o possono avere, così come anche la più vile e la più<br />

spregevole”. 35<br />

Ora, tali attributi consentono a qualsiasi creatura di tramutarsi dallo stato attuale, ma è necessario<br />

operare una duplice distinzione: la prima riguarda queste capacità e la figura e l’estensione, la<br />

seconda riguarda l’azione vitale e il movimento locale o meccanico:<br />

questa capacità di acquisire le sopramenzionate perfezioni è comunque un attributo diverso dalla vita e<br />

dalla percezione, e queste sono comunque diverse dall’estensione e dalla figura; questa azione vitale è<br />

chiaramente differente dal movimento locale o meccanico, nonostante non sia separata o separabile da<br />

esso, e comunque esso è usto come suo strumento, almeno in ogni rapporto con le altre creature. 36<br />

Vita e figura, sostiene Anne, sono distinti attributi dell’unica sostanza. <strong>Il</strong> cambiamento di figura, il<br />

movimento locale e meccanico, che è altro dalla caratteristica vitale, non può agire senza una<br />

qualche vitalità. Straordinaria la vicinanza con il Newton dei manoscritti alchemici. Allo stesso<br />

modo, per Anne Conway le operazioni vitali o azioni hanno luogo con strumenti corporei:<br />

ho detto che vita e figura sono attributi differenti di un’unica sostanza, e così come uno e medesimo corpo<br />

può cambiarsi in un qualsiasi tipo di figura, e così come una figura più perfetta può comprenderne una<br />

inferiore, così, per la stessa ragione, uno e medesimo corpo può mutare da un livello di vita ad uno più<br />

perfetto, che sempre ne comprende in sé uno inferiore. […] la figura e la vita sono distinti da non<br />

incompatibili attributi di un’unica e medesima sostanza. La figura serve alle operazioni della vita. Così<br />

come noi vediamo nei corpi degli umani e dei bruti in che modo la figura degli occhi serva alla visione, la<br />

figura delle orecchie all’udito, la figura della bocca, dei denti e della lingua al linguaggio, la figura della<br />

mano e delle dita al lavoro, e la figura dei piedi alla deambulazione, così anche le figure di tutti gli altri<br />

rimanenti membri danno il loro uso e contributo grandemente alle operazioni vitali che gli spiriti<br />

preformano in questi membri. […] Di conseguenza, figura e vita coesistono in un’unica sostanza o corpo,<br />

laddove la figura è strumento della vita, senza la quale nessuna operazione vitale potrebbe essere<br />

compiuta. 37<br />

La fatale debolezza della spiegazione materialistica è che cerca di definire come funzioni vitali il<br />

risultato del movimento locale e meccanico; sono esse due operazioni distinte:<br />

allo stesso modo il movimento locale e meccanico, cioè il trasporto del corpo da un posto ad un altro, è un<br />

modo o operazione distinta dall’azione o operazione della vita benché esse siano inseparabili. 38<br />

Qualsiasi operazione vitale, come la visione per esempio, non avviene senza movimento locale,<br />

che è il suo strumento: senza la luce, che penetra l’occhio, l’atto della visione non si compie. Se<br />

dunque l’azione vitale è ben “più nobile e divina” nel suo modo di operare di quanto lo sia il moto<br />

locale, essi si incontrano in un’unica sostanza e agiscono insieme. Ciò tuttavia non deve far ritenere<br />

che il senso o la percezione derivino da un movimento locale o meccanico:<br />

il movimento vitale o azione avviene quando una cosa ne utilizza un’altra come uno strumento di cui si<br />

serve per eccitare un’azione vitale nel soggetto o nel percepiente. E questo movimento locale può<br />

trasmettersi attraverso vari corpi, per quanto siano distanti, con i quali essi siano uniti senza nessun nuovo<br />

movimento di corpo o di materia. 39<br />

Per comprendere come ciò accada, occorre distinguere due caratteristiche di ogni creatura, ossia<br />

l’estensione materiale e quella virtuale:<br />

35 Ivi.<br />

36 Ivi.<br />

37 Ivi, 139-140.<br />

38 Ivi, 140.<br />

39 Ivi, 141.<br />

21


così noi possiamo distinguere tra estensione materiale e virtuale, avendo ogni creatura questa duplice<br />

estensione. L’estensione materiale è quella che la materia corpo o sostanza ha in sé, ma senza movimento<br />

e azione. Questa estensione, propriamente parlando, non è né più grande né più piccola poiché rimane<br />

sempre la stessa. L’estensione virtuale è il movimento o l’azione che ha una creatura data<br />

immediatamente da Dio o ricevuta immediatamente da qualche creatura compagna. 40<br />

Ogni movimento che procede dalla natura interna di una creatura, non da qualche fonte estranea, è<br />

vitale:<br />

questo io chiamo un movimento di vita, che non è soltanto locale e meccanico come gli altri, ma ha in sé<br />

una vita, e una virtù vitale, e questa è l’estensione materiale di una creatura. 41<br />

Allora il movimento che si comunica da un corpo ad un altro avverrà in virtù di una sorta di atto<br />

creativo:<br />

come Dio e Cristo soltanto possono creare la sostanza di qualsiasi cosa, allora nessuna creatura può creare<br />

o dare l’essere a qualche sostanza, se non come strumento, come una creatura dà esistenza al movimento<br />

o all’azione vitale, non da se stessa, ma solo in subordinazione a Dio come suo strumento. Nello stesso<br />

modo il movimento in una creatura può produrre movimento in un’altra. E ciò è tutto quello che una<br />

creatura può fare per muovere se stessa o una sua creatura compagna, cioè come strumento di Dio. 42<br />

Dunque, nei corpi non va riconosciuto solo l’attributo della quantità e della figura, ma anche la<br />

presenza della vita e in ciò è possibile riconoscere un movimento prodotto dall’esterno ed una<br />

trasmissione di un movimento o azione vitale. Qui la somiglianza con quanto dirà un giorno Leibniz<br />

è davvero notevole.<br />

È evidente che Anne Conway propone una visione ancora più radicalmente spiritualista di quella<br />

di More, per quel che riguarda l’idea di estensione. Per More, infatti, qualsiasi cosa, se esiste, è<br />

estesa, ed evidentemente è Dio ad essere assolutamente esteso, non certo la materia. Ed è dalle<br />

caratteristiche della materia, dalla sua impenetrabilità per esempio, che è possibile definire la<br />

coesistenza di più spiriti nello stesso luogo e la loro reciproca penetrabilità, cosa che ai corpi non è<br />

possibile. Da qui More individuerà una gerarchia di spiriti mediani che intervengono nella piramide<br />

delle creature. Ad alcuni di essi spetta anche il compito di agire come un principio plastico in grado<br />

di far incarnare le anime nei corpi. Man mano che More si addentrerà nella disamina delle<br />

caratteristiche essenziali che distinguono la materia dallo spirito, giungerà ad affermare che lo<br />

spirito, oltre ad essere esteso, possiede una specifica qualità, la spissitudo essentialis. Tale attributo<br />

dello spirito sarà poi ancora di più spiegato e articolato all’interno della nozione di spazio infinito in<br />

un’opera della maturità, ossia l’Enchiridion metaphysicum. Questa spissitudo essentialis consente<br />

allo spirito di autodilatarsi, di autocontrarsi e di spingersi in qualsivoglia spazio, anche in quello<br />

interiore degli esseri umani. Anne Conway si spinge più in là, riconoscendo una “presenza<br />

intrinseca” divina in ogni sostanza creata:<br />

si può osservare qui un tipo di spiritualità divina o di sottigliezza in ogni movimento e in ogni azione di<br />

vita di cui nessuna sostanza creata o corpo è capace, cioè attraverso una presenza intrinseca, che, come<br />

sopra è stato provato, non compete a nessuna sostanza creata, e compete ad ogni movimento e azione<br />

qualsiasi. Infatti il movimento o azione non è una certa materia o sostanza, ma un suo modo di essere. E<br />

quindi la presenza intrinseca è nel soggetto stesso, così che il movimento possa passare da corpo a corpo<br />

anche alla più grande distanza se si trova un medio adatto, che lo trasmetta. 43<br />

40 Ivi, 142.<br />

41 Ivi.<br />

42 Ivi, 143.<br />

43 Ivi, 141.<br />

22


I bersagli sono quelli di sempre: Descartes, Hobbes, Spinoza e i deisti. Cattivi maestri e a un<br />

tempo cattivi compagni. Anne Conway non solo si dichiara anticartesiana e antihobbesiana 44 , ma<br />

rigetta con veemenza il dualismo cartesiano, sia per le implicazioni meccaniciste, sia soprattutto<br />

perché, escludendo qualsivoglia presenza vitale e spirituale nella materia non corporea, elimina<br />

radicalmente il presupposto monista, per cui tra spirito e materia esiste una differenza soltanto<br />

modale e non essenziale 45 .<br />

Alla base della sua veduta monista, la Conway pone una teologia fondata su un’ipotesi<br />

emanazionista di stampo neoplatonico, che coniuga nei termini previsti dalla versione cabalistica<br />

curata da von Rosenroth e van Helmont. La creazione si modula a partire da quegli attributi divini<br />

che sono comunicabili alle creature mediante un essere intermedio, ossia Cristo, che possiede sia gli<br />

attributi del Creatore che quelli delle creature.<br />

Le qualità delle sostanza non sono quindi riferibili alle caratteristiche delle cose create, cioè<br />

spirito e materia, ma alla presenza maggiore o minore nelle cose stesse di quegli attributi divini che<br />

sono comunicabili alle creature. Dunque il maggiore o minore grado di bontà e perfezione presente<br />

nelle cose create farà loro acquisire un minor o maggior grado di partecipazione al principio divino<br />

creativo, che è “Spirito luce e vita infinitamente sapiente, buono giusto valido onniscente<br />

onnipresente e onnipotente Creatore” 46 . La sostanza divina, che è principio creativo “senza né<br />

forma né immagine, o figura qualchessia”, pur essendo distinta dalle sue creature, “però da esse non<br />

è separata o divisa, ma intimamente connessa e in tutte presente”. 47 E proprio secondo l’Idea<br />

presente in Dio, allo stesso tempo sua immagine e suo verbo, dunque sua stessa essenza, che ogni<br />

cosa è stata creata. Anche la sapienza e la volontà divina sono un tutt’uno con la sua essenza:<br />

costituiscono cioè “i distinti modi o proprietà di un’unica e medesima sostanza”.<br />

2.3. Newton e i suoi seguaci<br />

Isaac Newton si trova oggi al secondo posto nella classifica dei cento uomini che hanno cambiato<br />

il mondo, dopo Maometto e prima di Gesù 48 ; tale posizione è giustificata dai contributi<br />

impareggiabili che egli diede alla scienza, princípi che hanno dato forma al mondo moderno oltre<br />

che al suo stile di pensiero scientifico.<br />

Newton fu prima di tutto un uomo schivo, lontano dal mondo. Gran parte della sua vita la<br />

trascorse a studiare ed a condurre i propri esperimenti in completa solitudine. Fu un<br />

anticonformista, rifuggì la semplice vita di campagna e rifiutò di prendere i voti, preferendo<br />

autoisolarsi all’università di Cambridge.<br />

Aderì all’arianesimo in un momento in cui, se lo si fosse venuto a sapere, la sua carriera sarebbe<br />

naufragata. Un unitarianesimo sociniano, il suo, tutto sommato non dissimile da quello di altri<br />

uomini colti del suo tempo (l’amico Locke, il fedele seguace Samuel Clarke, tra gli altri). In gran<br />

segreto, coltivò anche studi di alchimia e di storia sacra. La postuma Chronology – apparsa l’anno<br />

dopo la sua morte, nel 1728 – ne costituisce il solo esempio a stampa.<br />

Sir Isaac fu un alchimista. Passò parecchio del proprio tempo a studiare la cronologia della<br />

Bibbia, esaminando profezie, indagando sulla magia, cercando di rivelarne i segreti ermetici: quella<br />

44 “Nessuno ci obietti che questa filosofia altro non sia che cartesianesimo o hobbesismo sotto nuova veste. Per primo,<br />

la filosofia cartesiana dice che il corpo è mera massa morta, che non solo è carente di vita e di percezione di qualsiasi<br />

tipo ma che ne è anche incapace in tutta l’eternità. Questo grande errore deve essere imputato anche a tutti quelli che<br />

dicono che lo spirito e il corpo sono cose tra loro contrarie e non convertibili l’uno nell’altro, negando così al corpo<br />

ogni vita e perfezione, cosa che è completamente contraria al fondamento della nostra filosofia . In questo senso è<br />

lontanissima dall’essere un cartesianesimo in una nuova veste, tanto che essa può più realmente dirsi ant-icartesiana,<br />

relativamente ai suoi principi fondamentali” (Principles, IX, 2. 135-136).<br />

45 Ivi, 136.<br />

46 Ivi, I, 1-5, 63.<br />

47 Dio “in sé non ha né tenebra né corporeità, e quindi né forma né immagine, o figura qualchessia” (ibidem).<br />

48 M. HART, The 100, London 1993. Trad. it. Gli uomini che hanno cambiato il mondo, Roma 1997. In M. WHITE,<br />

Newton, L’ultimo mago, pp.7, trad. it. I.BLUM ed E. DIANA, Milano 2001.<br />

23


che si è rivelata a noi nel corso dei secoli è l’immagine di un genio che cercava la conoscenza in<br />

tutto ciò in cui s’imbatteva, un uomo spinto a indagare su tutti gli aspetti della vita. Una avidità di<br />

conoscenza, la sua, tanto esagerata da portarlo addirittura all’autolesionismo, all’esaurimento (come<br />

nell’anno nero 1693, in cui ruppe con Locke e si allontanò da tutti). Nella sua indagine alchemica<br />

Newton si convinse che essa avrebbe potuto offrirgli una via verso l’unificazione del sapere: se alla<br />

base dell’occulto fosse esistito un principio, allora quel principio poteva essere il collante in grado<br />

di unificare i principi fondamentali in una sintesi organica e razionale, capace di armonizzare ogni<br />

branca del sapere.<br />

Newton lavorò sperimentalmente alla trasmutazione dei metalli e ai segreti dell’arte, alle<br />

distillazioni: pratiche di laboratorio che riconsegnarono la Grande Opera alla scienza e alla tecnica.<br />

Come gli alchimisti alessandrini, Newton si rese conto di quanto fosse importante controllare la<br />

quantità di calore applicata a una sostanza nel corso dei processi alchemici.<br />

Come tutti gli alchimisti europei, anche Newton era motivato dalla convinzione che la saggezza<br />

alchemica avesse origine nella tradizione ermetica, derivante dal nome del dio Hermes; in più, alla<br />

figura mitica di Ermete Trismegisto venivano attribuiti importanti scritti sull’alchimia;<br />

naturalmente, era anche nell’interesse degli alchimisti favorire l’idea che la propria arte avesse<br />

origini così antiche e misteriose, giacché ciò poteva giustificare la loro malcelata presunzione di<br />

fondo. In Newton, le origini cui riportare la nascita storica dell’alchimia erano ad ogni buon conto<br />

quelle mosaiche. Del resto, egli era un biblista e in tale veste si muoveva.<br />

Per un certo periodo di tempo, in Inghilterra, l’alchimia era stata dichiarata illegale, da Enrico IV<br />

per la precisione: il fatto che essa fosse più o meno tollerata dipendeva dal sovrano in carica, ad<br />

esempio re Enrico VIII ed Elisabetta I furono molto coinvolti dagli alchimisti e attribuirono alla<br />

cultura di questi ultimi gran peso a corte.<br />

Ad influenzare le idee di Newton fu un infatti un medico di fama, il dottor John Dee, il maggior<br />

mago dell’età elisabettiana, l’alchimista che ricevette anche le attenzioni della regina Elisabetta I: i<br />

due condivisero l’interesse per la filosofia di una società esoterica denominata “Rosacroce”:<br />

l’opinione di Newton sulla mistica rosa-crociana non era peraltro positiva; a suo avviso, l’antica<br />

alchimia era stata corrotta da troppi maghi moderni e se ne doveva ora restaurare la purezza<br />

originaria, in maniera quantitativa. 49<br />

Quando Newton divenne studioso dell’alchimia, i rosacrociani avevano già fatto il loro tempo:<br />

ciò nondimeno essi influirono non poco sugli studi e sulle ricerche alchemiche di Newton. Tra i<br />

testi della sua biblioteca è l’opera in sei volumi di Elias Ashmole, Theatrum chemicum britannicum,<br />

nella quale figurano, tra i vari alchimisti, anche il medico Paracelso e il più importante seguace<br />

della tradizione ermetica, Cornelio Agrippa. Uomini fuorviati da sogni impossibili, convinti che il<br />

processo alchemico fosse una rappresentazione microcosmica della creazione. Medici, nel caso di<br />

Paracelso.<br />

Newton era semplicemente attratto dall’alchimia e da molti suoi scritti emerge chiara la<br />

convinzione che gli antichi avessero un tempo posseduto tale conoscenza e che essa si fosse<br />

dissipata nelle filosofie arcane. Inoltre era preoccupato che qualcun altro prima di lui potesse<br />

giungere alla scoperta della pietra filosofale. In superficie l’alchimia è una disciplina con una forte<br />

componente pratica e forse fu proprio grazie ad essa se in seguito si poterono mettere a punto le<br />

tecniche di purificazione necessarie alla produzione di farmaci. Newton mise mano ai suoi studi di<br />

chimica e di alchimia intorno al 1667 e compilò anche un glossario comprendente circa 7.000<br />

parole, accompagnate da breve definizione. Molti i suoi manoscritti sull’arte spargirica. Iniziò a<br />

raccogliere il materiale per allestire il proprio laboratorio e si introdusse anche in una cerchia di<br />

alchimisti e commercianti di libri specializzati, con una fitta rete in Europa.<br />

49 N. GUICCIARDINI, Matematica e alchimia in Newton, in «Nuova Civiltà delle Macchine», III, 2000, pp. 26-41.<br />

24


Mentore in questo nuovo campo di studi, che Newton sapeva bene di dover tenere segreto, fu<br />

Robert Boyle, aristocratico inglese che da giovane viaggiò a lungo per l’Europa e fu anche in Italia,<br />

dove conobbe l’opera di Galileo. Tornato in Inghilterra si dilettò con l’alchimia a tempo perso,<br />

compiendo vari esperimenti pseudo-scientifici. Trasferitosi ad Oxford, nel 1654 mise a punto alcuni<br />

esperimenti con una pompa ad aria progettata e costruita appositamente per lui da Robert Hooke, e<br />

nel frattempo diede anche vita all’Invisible College, la Royal Society nella sua forma primigenia. Si<br />

incontrarono nel 1675 e un anno dopo iniziarono anche una corrispondenza, quando Newton si<br />

interessò ad una pubblicazione del Boyle, Della reazione del mercurio con l’oro.<br />

A metà del XVII secolo gli alchimisti si erano raccolti intorno a Samuel Hartlib, giunto dalla<br />

Prussia polacca e subito inseritosi nella rete di maghi e alchimisti londinesi, fino a formare un<br />

gruppo, il così detto Hartlib Circle: esso intendeva offrire all’alchimia una base razionale, sposando<br />

la tradizione alchemica alla costruzione intellettuale della filosofia meccanicistica. Del gruppo<br />

faceva parte Boyle, ma ad introdurre Newton nella cerchia fu probabilmente Henry More, che,<br />

quando non si trovava a Cambridge, passava il proprio tempo a discutere di filosofia con Anne<br />

Conway. Per tutti loro il meccanicismo, nella sua vulgata cartesiana, era una frontiera molto<br />

pericolosa e il materialismo di Hobbes stava a dimostrarlo. Una lezione raccolta dai Boyle Lecturers<br />

tra fine Seicento e inizio Settecento – Richard Bentley in testa – interessati ad usare la scienza non<br />

per insidiare o offendere la fede, ma per difenderla e nobilitarla agli occhi di Dio. Nel caso specifico<br />

di Newton non si poteva accettare, ad esempio, l’idea del nostro pianeta come organismo<br />

autoregolantesi, il quale non avrebbe bisogno di essere sorretto e guidato dalla mano divina. Non si<br />

poteva a suo avviso fondare la spiegazione di ogni cosa solo su materia e movimento. In tal senso, il<br />

meccanicismo poteva funzionare solo come un ideale orientativo, come un modello in sé ipotetico<br />

atto a impostare una ricerca che alla fine lo avrebbe oltrepassato. Resta evidente qui l’influenza su<br />

Newton di More e dei platonici di Cambridge. <strong>Il</strong> Dio di Newton è parte dell’universo da Lui creato<br />

intervenendo – ciclicamente – in esso come per accordare una <strong>macchina</strong> imperfetta, un orologio che<br />

altrimenti tenderebbe a fermarsi. 50<br />

<strong>Il</strong> primo passo di Newton fu quello di iniziare a tenere un taccuino di appunti relativo alle attività<br />

che svolgeva il laboratorio: i primi esperimenti risalgono al 1669 e hanno a che fare con la natura<br />

dei metalli. Per l’alchimista il mercurio era il più importante di tutti i reagenti, in quanto, per<br />

tradizione, una sostanza denominata mercurio filosofale era il mezzo con il quale i metalli potevano<br />

essere trasmutati. <strong>Il</strong> mercurio era considerato la prima materia dei metalli, ossia lo spirito santo<br />

dell’alchimia, l’anima che doveva essere liberata dai metalli morti e inerti attraverso la<br />

trasmutazione.<br />

Non c’è da stupirsi quindi se i primi esperimenti compiuti da Newton implicassero il tentativo di<br />

produrre questo mercurio filosofale: le istruzioni di Boyle comportavano la soluzione del mercurio<br />

in acido nitrico, seguita dalla graduale aggiunta da limatura di piombo.<br />

Newton abbandonò presto i consigli di Boyle e passò ai propri esperimenti, usando ora come<br />

materiale di partenza l’antimonio, elemento che si ricava da un minerale naturale, l’antimonite:<br />

l’interesse degli alchimisti per tale sostanza derivavano dal fatto che essa, se purificata, sembrava<br />

avere affinità con l’oro, formando con esso una sorta di amalgama chiamato regulus, una sorta do<br />

composto cristallino; in particolare, quello ottenuto trattando l’antimonio del ferro produceva una<br />

configurazione cristallina stellata che venne chiamata Regolo di Marte.<br />

Newton descrisse il proprio metodo per produrre questo regulus in uno dei suoi primi saggi sulla<br />

prassi alchemica, anche se si rendeva conto che fosse solo un piccolo passo verso la tanto agognata<br />

pietra filosofale. Nel 1670, Newton iniziò poi le proprie lezioni al Trinity College di ottica, materia<br />

50 Si veda, su questi argomenti, D. KUBRIN, Newton and the Cyclical Cosmos. Providence and the Mechanical<br />

Philosophy, in «Journal of the History of Ideas», XXVIII, 1967, pp. 325-346, nonché il saggio di G.B. DEASON, La<br />

teologia riformata e la concezione meccanicistica della natura, in Dio e natura. Saggi sul rapporto tra cristianesimo e<br />

scienza, a cura di D.C. LINDBERG, tr. it. Firenze 1994, pp. 195-226.<br />

25


di studio con la quale il suo predecessore, Isaac Barrow, aveva concluso l’anno precedente, ma alla<br />

seconda lezione, e per quasi tutti i successivi diciassette anni, avrebbe parlato ad un’aula vuota. Era<br />

troppo grande per essere capito e l’ateneo cantabrigense troppo decaduto per offrirgli allievi degni<br />

di ascoltarlo. Crediamo che fu anche questo a spingerlo verso altre speculazioni, di segno esoterico<br />

e religioso, in grado come detto di imbrigliare e di esorcizzare gli aspetti più pericolosi dell’eredità<br />

di Cartesio, i cui scritti spinsero Newton a studiare l’ottica, 51 e del meccanicismo.<br />

Come professore, il suo primo sforzo scientifico fu questo ritorno all’ottica, infatti già a metà<br />

degli anni Sessanta aveva dimostrato che la luce bianca era composta di molti colori che potevano<br />

essere separati da un prisma, ottenendo luce rossa a un estremo dello spettro e luce blu all’altro. La<br />

memoria inviata alla Royal Society sul finire del 1671, la sua pubblicazione nei primi mesi del<br />

1672, le successive dispute con Hooke durate sino al 1675 sono storia nota.<br />

Newton trattò i fenomeni ottici con l’intento di dimostrare che la luce bianca è composta da tutto<br />

lo spettro dei colori e che il prisma scindeva la luce solare “pura” in quei colori perché rifrangeva in<br />

misura diversa le varie componenti dello spettro. In Of colours, del 1666 egli poté affermare, dopo<br />

aver fatto passare la luce rifratta da un prisma attraverso un secondo prisma, che i raggi<br />

esclusivamente rossi rifratti dal secondo prisma non davano altro colore che il rosso e così con il<br />

blu. Questa dimostrazione andava contro una comune credenza di allora, secondo la quale la natura<br />

della luce sarebbe stata modificata o alterata nel passaggio attraverso un mezzo come il vetro.<br />

Conclusioni alle quali Newton pervenne anche sulla scia dei propri studi alchemici. Una cosa simile<br />

si può dire per l’altro suo capolavoro scientifico.<br />

Le origini dei Principia mathematica possono farsi risalire all’incontro tra Edmund Halley, il<br />

grande astronomo, e Newton, avvenuto nel 1682 a Cambridge. L’astronomia ellittica di Keplero,<br />

ricalcolati i moti celesti, portò Newton a formulare la meccanica gravitazionale, mentre altri spunti<br />

gli vennero dalla cometa di Halley. In ogni caso, il sole centrale di cui parla Newton (lui, un<br />

copernicano convinto) era anche una rappresentazione del fuoco che ardeva al centro del pritaneo<br />

negli antichi culti. Un ulteriore richiamo ermetico, che ispirò in questo caso acquisizioni di tipo<br />

squisitamente scientifico. Un discorso simile può farsi anche per le queries dell’Opticks (1706).<br />

Venuto successivamente meno anche il ruolo dell’etere, Newton iniziò a dare sempre più peso a<br />

quell’idea alchimistica dei principi attivi, concetto già antico e assai radicato nella tradizione<br />

ermetica. Anche i principi attivi dell’alchimista era una sorta di spirito operante in natura: lo stesso<br />

Newton arrivò a percepire la gravità come una forza agente a distanza, resa proprio possibile da<br />

qualche principio attivo. <strong>Il</strong> concetto di spirito cominciò a fondersi con la concezione di Newton<br />

della gravità. <strong>Il</strong> bersaglio restava sempre e comunque l’ideale meccanicistico, con tutte le sue<br />

ricadute sul piano religioso. In questo senso, l’amico Locke – membro come Newton del partito<br />

liberale in parlamento, nel biennio 1689-1690 – non fece altro che sottoscrivere l’impostazione<br />

spiritualista newtoniana. Da Hobbes, infatti, Locke era lontano tanto sul piano politico (in quanto<br />

avversava l’assolutismo) quanto su quello filosofico (poiché, al pari di Newton e basandosi su di<br />

lui, respingeva esiti di tipo materialistico). 52<br />

51 M. MAMIANI, Isaac Newton filosofo della natura, Firenze 1976.<br />

52 M. WHITE, Newton. L’ultimo mago, tr. it. Milano 2001.<br />

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1. <strong>Il</strong> movimento non-movimento<br />

Appendice<br />

<strong>Il</strong> Cyberpunk<br />

Caratteristica che spesso accomuna le tendenze culturali dell’ultimo trentennio dello scorso<br />

secolo, in particolare quelle nate dalla letteratura, è quella che esse non diventino mai un vero e<br />

proprio movimento, non si strutturino, non riconoscano capiscuola: ognuno rivendica la propria<br />

originalità e autonomia. 53<br />

Così, anche per il cyberpunk, è difficile identificare tutti i punti di riferimento e gli esponenti di<br />

questo possibile movimento, giacché gli stessi protagonisti spesso non accettano nemmeno la<br />

definizione stessa di “movimento cyberpunk”. Ma, in sostanza cosa è il cyberpunk?<br />

Della letteratura di genere ci dà una interessante definizione la rivista italiana Decoder quando<br />

afferma di poterla delineare come la fantascienza radicale degli anni Novanta, una corrente che in<br />

pochi anni andò svecchiando e ribaltando gli schemi dell’ormai vetusta fantascienza classica, quella<br />

in stile Asimov per intenderci.<br />

<strong>Il</strong> caposcuola del cyberpunk viene comunque identificato all’unanimità in William Gibson, autore<br />

nel 1984 di Neuromancer, la cui traduzione italiana dal titolo in Neuromante non contribuì a<br />

rendere il gioco di parole dell’originale: neuromancer, infatti, contiene riferimenti al cervello o<br />

meglio al sistema nervoso, neuro, e allo stesso tempo ad aspetti occulti che richiamano il<br />

negromante. Inoltre il neologismo neuromancer evoca nel suono una sorta di “nuovo romantico”,<br />

alludendo quindi a un nuovo romanticismo cibernetico.<br />

È lo stesso Gibson a fornirci una convincente illustrazione del cyberpunk letterario, definendolo<br />

come nuova corrente nella scena della fantascienza degli anni Settanta: esso si è inserito in una<br />

tendenza di vecchio stampo, post-Tolkien, popolata di unicorni e sirene e un’altra di tipo militarista,<br />

fatta di astronavi ed eroi tradizionali. Gibson può essere quindi considerato in qualche misura uno<br />

scrittore di genere, inserito nei canoni della fantascienza. Gli autori cyberpunk, per altro, dichiarano<br />

esplicitamente di avere come “padri spirituali” e numi nella letteratura a loro precedente soprattutto<br />

autori che vengono considerati di fantascienza, in particolare Philip K. Dick e James G. Ballard. A<br />

questi e a un’altra serie di scrittori di fantascienza, che costituiscono lo sfondo del movimento<br />

cyberpunk, vanno affiancati almeno William Burroughs e Thomas Pynchon, scrittori che in Italia<br />

hanno avuto risonanza inferiore al ruolo giocato nel rinnovamento della letteratura anglosassone.<br />

<strong>Il</strong> 1984 è allora la data di nascita del cyberpunk. In breve il movimento incomincia a seminare<br />

proseliti nel mondo del cinema, della musica, dell’arte, dei fumetti. Ma quali sono gli aspetti che lo<br />

resero interessante persino dal punto di vista politico?<br />

Innanzitutto il fatto che nonostante esso fosse nato nella letteratura di fantascienza, il cyberpunk<br />

parlasse al presente, anzi, addirittura fosse proiettato in un futuro prossimo: le storie da esso<br />

descritte delineano perfettamente, o quasi, il mondo in cui noi oggi viviamo. Un mondo<br />

tecnologicizzato, in cui sempre maggiore è la presenza del computer. <strong>Il</strong> cyberpunk andava dilatando<br />

l’esistente, fino a farlo apparire mostruoso, rendendo sempre più evidenti i tratti principali di una<br />

realtà, tratti che potrebbero invece sfuggire alla descrizione realista.<br />

Ma la vera innovazione sta nel suo modo di guardare al futuro, un modo diverso da molta<br />

letteratura di fantascienza tradizionale: i protagonisti cyberpunk non sono i potenti del futuro o gli<br />

eroi classici delle vicende di azione fantascientifiche, al contrario, essi sono perdenti, sbandati,<br />

vinti, emarginati, folli. E pirati, pirati del computer, i cosiddetti hacker.<br />

<strong>Il</strong> punto di partenza dell’immaginario cyberpunk è infatti radicato nella realtà in cui noi oggi<br />

viviamo. Esistono gli hacker così come esiste uno scenario tecnologico che muta anche<br />

antropologicamente l’essere umano. <strong>Il</strong> personaggio cyberpunk è un mutante iperattrezzato alla<br />

53 F. GIOVANNINI, Cyberpunk e splatterpunk, Roma 2001.<br />

27


sopravvivenza nel nuovo habitat, decisamente superiore al vecchio sapiens sapiens, si muove alla<br />

conquista dei propri obiettivi contro tutto e contro tutti, solitario e nichilista, senza alcuna verità da<br />

tramandare e senza alcuna da cercare, intento solo alla soddisfazione delle proprie necessità.<br />

2. La <strong>macchina</strong><br />

Uno dei punti fondamentali di questo mondo futuro del cyberpunk sta nell’intreccio tra l’uomo e<br />

la <strong>macchina</strong>: solo chi è capace di usare le macchine si afferma e ha la possibilità di sopravvivere,<br />

superando anche le rigidità e i confini in cui il sistema dominante di questo futuro vorrebbe tenere i<br />

cittadini delle metropoli ipertecnologicizzate.<br />

Nella futura società descritta dal cyberpunk il rapporto tra l’uomo e la <strong>macchina</strong> è spinto fino alle<br />

sue estreme conseguenze. I pirati, gli hacker, coloro che vivono ai margini, sono tra coloro che più<br />

pienamente si ritrovano legati alle nuove macchine, ai computer, a tutti gli scenari avveniristici che<br />

lo scenario degli autori propone.<br />

Un intero filone della fantascienza classica parla di robot, descrive le visioni di questi ultimi o i<br />

loro conflitti con gli umani. <strong>Il</strong> cyberpunk parla invece di un universo molto più simile al nostro, in<br />

cui le macchine non si sono rese autonome, al contrario, si sono mescolate, incardinate, nella carne<br />

degli uomini. Le macchine si tramutano in vere e proprie estensioni del corpo, creando continuità<br />

tra l’uomo e lo strumento tecnologico, diventando vere e proprie protesi del corpo stesso: i<br />

personaggi dell’ideologia cyberpunk non si collegano al computer battendo le dita su di una tastiera,<br />

ma addirittura inserendo cavi dentro il proprio organismo, fino ad entrare, così, “dentro” la<br />

<strong>macchina</strong>.<br />

La realtà del cyberpunk è ipermateriale, è disvelamento delle possibilità inaudite della materia,<br />

compresa quella di cui è fatto l’uomo, non attraverso un atto produttivo, ma mediante un atto<br />

comunicativo e conoscitivo, legato alla tecnologia informatica 54 . La realtà del cyberpunk,<br />

attenzione, non è dunque solo virtuale, è un mondo diverso, chiamato cyberspazio: totalmente<br />

svincolato dalle esigenze del sistema produttivo, esso è un luogo al quale non si accede tramite la<br />

sola ragione, ma con l’intera sfera sensoriale, luogo dove alla conoscenza viene restituito il suo<br />

valore originario di esperienza dell’ignoto. Qui è come se le macchine fossero un’altra realtà, dotata<br />

di una sfera sensitiva peculiare, esseri trascendentali in virtù dei quali l’uomo agisce su se stesso e<br />

sul mondo, è mosso a conoscere e a conoscersi, a compiere riti alla ricerca di una ignota dimensione<br />

situata al di là della realtà visibile a occhio nudo. La <strong>macchina</strong> è quindi regno del metafisico che,<br />

combinandosi con le possibilità umane, viene amplificato e dotato di nuovi poteri, quello dei media<br />

per citarne uno.<br />

L’eroe cyberpunk non è solo un avventuriero cinico e disincantato: viaggiare nel cyberspazio<br />

consente anche un’esperienza mistica 55 . William Gibson ha spesso descritto gli stati di conoscenza<br />

totale raggiunti dai suoi personaggi durante le permanenze nello spazio virtuale. Entrare nel<br />

computer, avvicinarsi alla matrice, è come entrare in un luogo in cui non ci sono né vita né morte.<br />

Non a caso, tra i personaggi reali che costituiscono una sorta di “culto” per il movimento<br />

cyberpunk vi sono i vati della psichedelia, tra cui Timothy Leary, capo a suo tempo degli hippy<br />

americani come teorico dell’LSD, poi divenuto in seguito esponente del movimento cibernetico<br />

all’americana. Leary ha fondato una sua società, con lo scopo di diffondere nuovi giochi elettronici<br />

e nuove consolle per videogame, proponendo allo stesso tempo una riflessione filosoficoesistenziale<br />

sul nuovo mondo nel quale ci si sta addentrando.<br />

3. Non solo letteratura<br />

Se finora ci siamo soffermati solo sugli scrittori e sui loro personaggi cibernetici, è doveroso<br />

ricordare che il “fenomeno” cyberpunk coinvolse l’intero panorama comunicativo. Per il cinema<br />

54 P. PARDO, <strong>Il</strong> cyberpunk, Milano 2001.<br />

55 F. GIOVANNINI, Cyberpunk e splatterpunk, cit.<br />

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quindi, nonostante le difficoltà ad indicare pellicole pienamente etichettabili, è interessante<br />

ricordare alcuni titoli fondamentali per il genere, dalla trilogia di Alien, a cui diede vita nel 1979<br />

Ridley Scott, a Blade Runner, capolavoro del 1982 dello stesso regista, ai più recenti Terminator<br />

degli anni ‘80/’90 di James Cameron.<br />

Anche per il teatro è qui doveroso annoverare tra gli altri il più citato gruppo teatrale cyberpunk, i<br />

Mutoid Waste Company, di provenienza londinese, che inscena spettacoli all’aperto utilizzando<br />

rottami e materiali di recupero, senza poi dimenticare la troupe catalana della Fura dels Baus, dove<br />

attori stuntman manovrano oggetti e meccanismi cyberpunk.<br />

Terminiamo con la musica. All’immaginario cyberpunk apparteneva una serie di dischi risalente<br />

agli anni Sessanta, d’area psichedelia. Se da molti è ritenuto troppo ardito citare Stg. Pepper’s<br />

Lonely Hearts Club Band, l’album lisergico pubblicato dai The Beatles nel 1967, altri si ritengono<br />

invece d’accordo nel menzionare l’opera prima dei Pink Floyd, anch’essa del 1967, nata dalla<br />

mente psichedelica di Syd Barrett, ossia The Piper At The Gates Of Dawn, a cui fecero seguito altri<br />

album ritenuti cyber, da A Saucerful Of Secrets a Ummagumma. Altre suggestioni vennero<br />

dall’elettronica anni Settanta-primi Ottanta: qui vanno menzionati almeno i tedeschi Kraftwerk e il<br />

loro epigono pop-post punk Gary Numan (“uomo-nuovo”, calato nella nuova dimensione futurista):<br />

rimane impossibile dimenticare i loro scenari squadrati e geometrici, freddi e intellettuali.<br />

Quella citata da William Gibson è invece la futura musica dub-reggae, mentre si diffonde nel<br />

frattempo l’uso di definire cyberpunk la cosiddetta techno-house nordeuropea, l’hip-pop e, infine,<br />

l’elettronica, o musica prodotta da campionatori e tecnologie digitali. Vanno ascoltati senz’altro i<br />

padri indiretti di tali filoni musicali, ossia i Cabaret Voltaire e i Clock DVA, provenienti entrambi<br />

dall’industriale Sheffield e alfieri entrambi della new wave più sperimentale.<br />

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