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Daniela Locatelli, Il mito dellÕuomo macchina e ... - Arbor scientiarum

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Lo scarso interesse legato, invece, alla soluzione cartesiana del problema della fondazione del<br />

sapere si riflette innanzitutto nel fatto che nell’opera dell’inglese non vi sia alcun accenno al tema<br />

del cogito ergo sum, se non per una questione in un certo senso secondaria rispetto alla funzione<br />

primaria dell’argomento, ossia per la distinzione dell’anima dal corpo; anche in questo caso More<br />

attribuisce scarso peso alla dimostrazione cartesiana, negando al pensatore francese la validità della<br />

deduzione necessaria dell’esistenza di una sostanza incorporea, chiaramente distinta dall’estensione,<br />

dalla constatazione dell’esistenza di una funzione pensante. Chiaro è ciò che a More preme di più:<br />

egli conduce la discussione su questo tema in difesa della dottrina dell’estensione spirituale, messa<br />

in pericolo dalla rigorosa distinzione cartesiana; ciò nondimeno, è un fatto che, dell’intero discorso<br />

cartesiano relativo al cogito, il platonico inglese richiami solo questo elemento, trascurando invece<br />

il momento dell’autofondazione del pensiero, perché è molto meno sensibile a quest’ultimo<br />

problema e alla sua soluzione. Una riprova di questa impostazione la si può trovare in una lettera<br />

scritta intorno al 1650 dallo stesso More ad Anne Finch, la futura Lady Conway, per rispondere ad<br />

alcuni quesiti posti dalla gentildonna, che andava allora istruendosi nella filosofia cartesiana 27 . Una<br />

delle questioni poste dalla Conway recitava all’incirca in questo modo: se è vero quel che afferma<br />

Cartesio nell’articolo quattro dei Principia, che non abbiamo segnali per distinguere il sonno dalla<br />

veglia, non è possibile alcuna conoscenza vera. Nella risposta, More, lungi dal richiamarsi al cogito,<br />

incomincia col minimizzare la portata dell’affermazione cartesiana, dettata secondo lui dalla<br />

preoccupazione di mettere meglio in luce l’eccellenza del suo metodo, per poi concludere con un<br />

rimando all’articolo trenta dei medesimi Principia, in cui la garanzia di Dio sanziona il retto uso<br />

“della facoltà naturale che Egli ci ha dato, di discernere quel che è vero o falso, nel sonno e nella<br />

veglia”.<br />

More si rivela, con la sua vivissima curiosità, il suo entusiastico trasporto verso le questioni<br />

naturali, dai macroscopici fenomeni ciclici celesti alle irripetibili variazioni e alle microscopiche<br />

strutture degli esseri viventi, un uomo del suo tempo, partecipe di quell’esaltazione generale che in<br />

Inghilterra portava, proprio in quegli anni, alla fondazione della Royal Society, coronamento di un<br />

ideale baconiano perseguito per decenni dai “virtuosi”, seguaci ossequienti di un metodo di ricerca<br />

estremamente aderente al dato sperimentale. More, che con questi “virtuosi” intrattenne eccellenti<br />

rapporti, si distingueva però da essi per il suo atteggiamento verso la natura, instancabilmente<br />

interrogata: egli cercava di inquadrare i fenomeni naturali entro una prospettiva che troppo<br />

impregnata di misticismo speculativo da platonismo rinascimentale, compromesso inoltre da<br />

interessi cabalistico-teosofici, sentendo poi la presenza del divino nella natura con una<br />

partecipazione emotiva tale da richiamare aspetti metafisici.<br />

Nella bellezza dei fiori, nell’efficacia curativa di decine di piante meticolosamente elencate,<br />

nell’eleganza di forme e nell’istinto degli animali, nella funzionalità degli organi del corpo umano,<br />

More ravvisa i molteplici segni della provvidenza divina, inseriti in una visione finalistica generale,<br />

nella quale l’opera di Dio interviene attraverso un’infinita variazione di grado, realizzando<br />

un’integrazione continua con lo spirituale e il meccanico, che fa qui pensare a Leibniz. Ciò che va<br />

accomunando due pensatori tanto diversi alla matrice comune del neoplatonismo, è proprio la<br />

determinazione di una scala gerarchica degli esseri naturali, configurata da More come una discesa,<br />

che parte dall’uomo “culmine della creazione”, il cui principio è la ragione nella sua massima<br />

sottigliezza e riflessione, attraverso la spiritualità-razionalità sempre meno perfetta degli animali e<br />

delle piante, ai fenomeni della natura inorganica, fino ai moti e alle mutazioni dei minerali e dei<br />

metalli, in cui sopravvive, benché estremamente oscurata, “un’ultima e remotissima ombra” della<br />

natura divina. Ed è proprio a causa di questa estrema rarefazione in loro del principio “vitale” che i<br />

fenomeni della natura inorganica possono essere riconsiderati da un punto di vista meccanicistico, il<br />

che consente a More di introdurre il discorso cartesiano.<br />

Caratteristica del platonico inglese è la ricerca costante di equilibrio tra l’interpretazione<br />

vitalistica e la spiegazione meccanicistica dei fatti naturali, in una tensione che più tardi nel tempo<br />

27 Si tratta di una delle tre lettere scritte da More alla Conway escluse dalla raccolta della Nicolson, Conway Letters,<br />

London 1930, a causa del loro contenuto strettamente filosofico.<br />

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