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Il raccolto - Sardegna Cultura

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Scrittori di <strong>Sardegna</strong><br />

21


Stampa: Lito Terrazzi, Firenze, novembre 2003<br />

Riedizione dell’opera:<br />

<strong>Il</strong> <strong>raccolto</strong>, Milano, Leader, 1969<br />

Periodico settimanale n. 21<br />

del 24-12-2003<br />

Direttore responsabile: Giovanna Fois<br />

Reg. Trib. di Nuoro n. 1 del 16-05-2003<br />

© Copyright 2003<br />

<strong>Il</strong>isso Edizioni - Nuoro<br />

www.ilisso.it - e-mail ilisso@ilisso.it<br />

ISBN 88-87825-82-3<br />

Paride Rombi<br />

IL RACCOLTO<br />

nota introduttiva di Cristina Lavinio


NOTA INTRODUTTIVA<br />

<strong>Il</strong> <strong>raccolto</strong>, pubblicato nel 1969 dalla Leader di Milano,<br />

era stranamente uscito prima (nel 1965) in traduzione<br />

tedesca. Passato ingiustamente quasi inosservato, avrebbe<br />

invece meritato perlomeno il medesimo successo di Perdu, il<br />

romanzo con cui Paride Rombi vinse il primo “Premio Deledda”<br />

nel 1952. L’intero ciclo del grano, dall’aratura e la<br />

semina fino alla sarchiatura e alla trebbiatura, la fatica e<br />

l’incertezza del lavoro contadino, condizionato nei suoi risultati<br />

dai capricci del tempo e delle stagioni, sono al centro<br />

di questo romanzo. Scandito dai ritmi del lavoro contadino<br />

tradizionale, il racconto è ambientato in uno spazio apparentemente<br />

reale e descritto con grande precisione etnografica:<br />

siamo a Serri e dintorni, in una zona centrale e povera<br />

della <strong>Sardegna</strong>. Con un linguaggio molto preciso e accurato,<br />

ricco di tecnicismi, il narratore si sofferma a illustrare, oltre<br />

che fasi e momenti del lavoro nei campi, anche modi di vivere<br />

e pratiche sociali che vanno dalla lavorazione del pane<br />

alle sagre e feste, con il ballo tondo e i costumi tradizionali.<br />

Ma ogni elemento realistico assume anche un valore simbolico<br />

e metaforico. <strong>Il</strong> racconto finisce per istituire infatti un<br />

implicito ma strettissimo parallelismo tra i ritmi del ciclo del<br />

grano e la vicenda di Giuanni Cinus e di sua figlia Pasqua,<br />

ragazza sedicenne sedotta, “(in)seminata” e poi trascurata<br />

dal giovane padrone Fieli Pòrcina. Alla fine, il <strong>raccolto</strong> di<br />

Giuanni Cinus sarà memorabile per la grande quantità di<br />

grano prodotto, tanto da diventare leggendario nei racconti<br />

dei cantastorie, ma coinciderà con il “<strong>raccolto</strong>” drammatico e<br />

sanguinoso con cui si concluderà la vicenda di Pasqua.<br />

I personaggi, inoltre, possiedono fin dall’inizio un che<br />

di visionario. Giuanni Cinus, diventato inaspettatamente,<br />

da povero bracciante agricolo, fittavolo della tenuta dei<br />

5


Pòrcina, già nelle prime pagine del romanzo, in una giornata<br />

novembrina, ha una «specie di “visione”» che poi continuerà<br />

a ricordare: «un’“imbriacata”, … così lui stesso diceva,<br />

frutto del sole che lo stordiva e della stanchezza che gli spezzava<br />

le ossa». È la visione di uno straordinario e felice esito<br />

del suo lavoro, secondato da piogge e venti favorevoli nelle<br />

fasi più delicate e con tanto, tantissimo grano da festeggiare<br />

con il banchetto tradizionale nel giorno dell’inserro. Ma nella<br />

visione di Giuanni Cinus, che puntualmente si avvererà,<br />

manca la dimensione drammatica che accompagnerà il suo<br />

“<strong>raccolto</strong>”: solo il lettore, col senno di poi, potrà coglierne<br />

qualche segnale premonitore sia nell’accenno alla dinìa, al<br />

fato, sia nell’improvviso apparire di Pasqua che chiama il<br />

padre «alla disperata», da lontano, svegliandolo dal sogno ad<br />

occhi aperti. Si potrebbe ricordare che anche in Perdu, nel<br />

sogno iniziale del bambino, che vede e sente bestie feroci, e il<br />

nonno tra queste, che fanno del male a sua madre, c’è già la<br />

chiave anticipatrice e premonitrice rispetto all’intera vicenda.<br />

In questo secondo romanzo però visioni e fantasie dei due<br />

personaggi principali sono ben lontane dall’esaurirsi in alcune<br />

pagine emblematiche: attraversano costantemente i loro<br />

pensieri, ne determinano un che di svagato e distratto, in un<br />

agire che, soprattutto in Pasqua, appare spesso come il risultato<br />

di uno stato alterato di non totale presenza a se stessi.<br />

Emblematica in questo senso è la lunga descrizione narrativizzata<br />

del ballo tondo. Le fasi del ballo sono osservate prima<br />

dall’esterno, da sotto il palco, dalla ragazza sconvolta per<br />

l’incontro inatteso con Fieli Pòrcina. Ma poi la descrizione<br />

procede in modo via via più coinvolto e interno al ballo stesso,<br />

dato che Pasqua, come in trance, sale sul palco, balla e<br />

non riconosce in Fieli il ballerino con cui si esibisce in un<br />

duetto. <strong>Il</strong> ritmo incalzante assunto dalla descrizione finisce<br />

per corrispondere a quello del ballo stesso, vibrante e passionale,<br />

al di là dell’apparente immobilismo delle posture contraddetto<br />

dal movimento velocissimo e abilissimo dei piedi<br />

dei ballerini. Le fasi del ballo tondo, che mai era stato descritto<br />

con altrettanta precisione ed efficacia, sono illustrate<br />

6<br />

in tutta la loro metaforicità di avances, corteggiamento, seduzione<br />

e coinvolgimento amoroso, oltre che nell’intreccio di<br />

amore e morte cui sembrano alludere. Solo che poi, per Pasqua<br />

che balla, tali simboli si traducono in realtà, e il suo<br />

ballo culmina nella promessa della donazione totale di sé a<br />

un partner in cui lei vede con l’immaginazione il suo Fieli,<br />

senza accorgersi che proprio con Fieli sta ballando.<br />

In una scrittura letterariamente raffinata e insieme capace<br />

di aderire credibilmente allo sguardo e/o alla voce dei<br />

personaggi, ricorrendo a una lingua che non rifugge né dagli<br />

inserti dialettali, né da espressioni colte e talvolta auliche, il<br />

romanzo è ben lungi dal trattare in modo convenzionale sia<br />

la storia narrata sia l’ambiente in cui essa si sviluppa. È un<br />

ambiente sardo cui il narratore/autore guarda con distacco<br />

spaziale e insieme con adesione emozionale (non a caso dice<br />

spesso laggiù da noi dato che, quando scrive il romanzo,<br />

Rombi non vive più da tempo nell’Isola); è un mondo che<br />

l’autore conosce bene e che risulta reinventato da tale conoscenza<br />

diretta, sfuggendo così ai luoghi comuni che spesso,<br />

nella stessa narrativa prodotta in <strong>Sardegna</strong>, sono rimbalzati<br />

da una pagina letteraria all’altra nel trattarne; ed è un<br />

mondo che, nel contempo, è attraversato dalla vocazione modernamente<br />

visionaria di Paride Rombi. Un autore tutto da<br />

riscoprire e da includere con il debito rilievo nel novero dei<br />

migliori tra gli scrittori nati in <strong>Sardegna</strong> e che alla <strong>Sardegna</strong><br />

hanno guardato per ambientarvi la propria narrativa.<br />

7<br />

Cristina Lavinio


I<br />

L’ARATURA<br />

L’anno incomincia a settembre, laggiù da noi. Apposta<br />

questo mese si chiama, laggiù, “capodanno”.<br />

A agosto si volta. La terra si è riposata, sgranchita, crogiolata<br />

ben bene al sole; si è tanto conceduta alle dolcezze<br />

dell’ozio, che crepe si sono aperte nella sua pelle, come piaghe,<br />

malattia appunto da gente impigrita e viziosa. È venuto<br />

il momento di toccarla di fuoco e di ferro, e farle passare<br />

il sonno.<br />

Anzitutto infatti si va sulla terra col fuoco. Purificare,<br />

incenerire. Le stoppie avanzate dall’anno scorso, scampate<br />

alla fame dei buoi, degli asini, delle pecore e di quanti animali<br />

sono stati lasciati – dopo i lunghi divieti – entrare nei<br />

coltivi, distrutte col fuoco, ché fra l’altro la cenere ingrassa<br />

il campo e non costa una lira, tolto giusto la fatica occorrente,<br />

che del resto è leggera.<br />

Conoscete i debbi. <strong>Il</strong> contadino entra nei campi e distribuisce<br />

qua e là, con una spina infiammata, nidi di fuoco.<br />

A caso li distribuisce, servendosi di quella torcia come farebbe<br />

un piromane. Poi sta lì, a osservare il risultato, mentre<br />

la fiamma cova se stessa fra palle di fumo. Poi, quando dal<br />

nido lingue di fuoco s’alzano vittoriose come piume di gallo,<br />

corre a crearne altri, di questi nidi, attingendo dai primi<br />

altro fuoco, e ne scruta allo stesso modo la covata. Finché le<br />

fiamme si apprendono, dandosi la mano da nido a nido, e<br />

si forma tutta una fronte uniforme di fuoco. Allora il contadino<br />

corre a munirsi di bastone o tridente. Ma non succede<br />

come nei falò, o negli incendi di boschi o fienili, che, tutt’a<br />

un tratto, il fuoco divampa e si fa subito grande e ruggisce.<br />

Qui no, non gonfia né cresce; avanza a passettini e saltelli,<br />

lecca le stoppie quasi di soppiatto e le mangia un ciuffo alla<br />

volta, come un animale che bruca. E difatti si sente un rumore<br />

crosciante continuo, come di vasto masticamento.<br />

9


Ma una volta investite dalle piccole innumerevoli alacri<br />

lingue, lo stesso le stoppie si sentono senza rimedio perdute:<br />

sussultano e si torcono come dita disperate, poi subito si flettono,<br />

rassegnate al disastro, dopo il truce breve terrore. E il<br />

fuoco avanza, sempre subdolo e insidioso, continuando l’opera<br />

sua. E bisogna sorvegliarlo perché non straripi e pascoli in<br />

luogo proibito, la macchia o il fondo del vicino. E proprio<br />

per questo il contadino gli è sempre addosso col suo bastone,<br />

lo batte, gli taglia il passo, lo vigila e lo governa come fa il<br />

mastino col gregge, che va di là e viene qua, sempre in moto,<br />

attento a ogni scappata.<br />

Finché, finito che sia, la terra universa è nera, purificata,<br />

monda. Così che è pronta per l’aratura. Capodanno.<br />

Questo podere di Serri, sulla strada per Tula, anch’esso<br />

aveva patito questo, tosto che fu capodanno. A opera del nuovo<br />

fittavolo, di nome Giovanni Cinus (Giuanni Cinus, secondo<br />

la nostra parlata) arrivato qui il mese scorso, al quindici di<br />

agosto, quando si “volta”.<br />

Marito moglie e tre figli. E due cani, Lampu e Tronu,<br />

più le poche masserizie. Mentre il resto: la casa l’arredo il<br />

pozzo un terzo cane le bestie da lavoro il “bastante” e insomma<br />

tutto, eccettuatane l’aria che è del Signore Iddio,<br />

era proprietà dello stesso padrone del fondo, Nanni Pòrcina,<br />

anche se in legge intestato al figlio di lui, Raffaele Pòrcina,<br />

del quale presentemente non si sapeva, siccome partito<br />

in guerra, se fosse vivo o morto.<br />

<strong>Il</strong> podere di Serri – la “tenuta”, com’era detta – compare<br />

Pòrcina l’aveva avuta attraverso i suoi ascendenti dalla<br />

dissoluzione dei feudi, era terra che un tempo era appartenuta<br />

ai baroni Amat, ancora ne restava lo stemma sull’arco<br />

del cancello della corte, “Quos Deus amat” diceva la scritta,<br />

a chi riusciva a decifrarla. E lo stemma era rappresentato da<br />

uno scudo, attraversato per sbieco da doppia banda, con<br />

sovrammessa una testa mozzata, o barbuta che fosse, dalla<br />

quale si partiva uno zampillo di gale. Quos Deus amat,<br />

quelli che Dio ama, e beati loro.<br />

Per questo la casa è grande, alta sulla collina, circondata<br />

da lecci: una villa-masseria costruita per gente di rango. Declassata<br />

oggi, s’intende, nel trapasso all’ereditario dei Pòrcina<br />

10<br />

e in grazia della gestione dei fittavoli sin qui succedutisi nel<br />

possesso, alla pura funzione di masseria. Senza più, cioè, il<br />

belletto di un tempo. Offesa dallo scadimento dei muri, dall’impiego<br />

irrazionale dei vani, dall’addossamento all’esterno,<br />

a guisa di empiastri, di baracchette e gabbioni. E deturpata<br />

per sopraggiunta da barbacani pioli e corni, per appendervi<br />

ogni sorta di oggetti di vista iniqua, come canestri pale da<br />

forno sacchi brache disfatte ciarpame. Tre generazioni di<br />

Pòrcina e non so quante mani per cui è passata nel frattempo<br />

sono bastate a questo.<br />

Eppure è ancora bella, così solitaria sull’altura, e inattesa,<br />

in mezzo a tanta desolazione. Perché la strada per Tula<br />

rasenta sì la tenuta, ma si tiene lontana dalla fattoria, né si<br />

scorgono intorno, per largo giro, altre costruzioni alzate dalla<br />

mano dell’uomo, se ne togli i muretti nuragici (tre mila<br />

anni) e quello che resta, un rovinio, di un nuraghe vero e<br />

proprio, del resto discosto almeno un miglio dalla fattoria,<br />

nella direzione del mare. E solo a due ore di strada s’incontra<br />

l’imbrancamento delle poche case di Serri, strette come<br />

funghi alla ceppaia attorno alla piccola chiesa.<br />

E ora ci sono i Cinus, al posto di quelli che Dio amava.<br />

Gente non proprio di qui, ma venuta da Baronia, un paese<br />

un po’ più a monte e a levante, nello stesso mandamento.<br />

Una famiglia un po’ sghemba, a dire il vero. Lui, il capo<br />

famiglia, ossuto storto e piccolotto, che sembra non essere<br />

mai bene a piombo, né in piedi né seduto, eppure ben saldo<br />

e forte, un perastro di monte, subito ti accorgi che il legno è<br />

quello. La moglie, Mariangela Siddi, rudere di una passata<br />

bellezza, intozzata dall’età, dai parti e dalle fatiche, e rimasta<br />

alla giovinezza soltanto negli occhi, che non son voluti invecchiare.<br />

Poi la figlia primogenita, Pasqua, sedici anni, che ricrea<br />

quel che la madre dovette essere all’età sua, un’arancia di<br />

Baronia. Poi ancora il secondo figlio, ’Ntoni, quattordici anni,<br />

lungo e chiodo, tale che sembra uno che è spaventato lui<br />

stesso di quanto è cresciuto. E infine il terzo, Dio ne scampi,<br />

che ti mette sgomento a vederlo. Un uomo, quello? Ha corpo<br />

d’uomo, certo, ma pare aver preso, quanto alla testa, da<br />

Lampu e Tronu, i due cani da guardia. Un cinocefalo, come<br />

si dice. Ricorda un po’ quelle figure di dei dell’antico Egitto,<br />

11


terminanti su in alto con una testa di sciacallo. E sannuto<br />

mugolante e sbavante, come proprio è del cane. E, come ti<br />

accorgi che gli è abituale, intento a affondare i denti nel polso<br />

destro che difatti, del tanto mordere, reca l’impronta nell’osso.<br />

Dinanzi a una creatura di questa fatta, che pensavi se ne<br />

parlasse soltanto nei libri, anche uno dal cuore gagliardo può<br />

restare interdetto, e fare che si domandi per quale ventura o<br />

gioco o “scherzo” – come appunto suol dirsi, che è davvero la<br />

parola adatta: una bella allegria – abbia la natura condotto le<br />

cose in modo che nell’occulto di un grembo di donna questo<br />

si sia prodotto, e sia maturato e venuto alla luce.<br />

Costoro, dunque, al posto di quelli che avevano dalla<br />

loro la predilezione di Dio.<br />

Questo di venire fittavolo a Serri era stato per Giuanni<br />

Cinus un po’ come vincere un terno al lotto, per come il<br />

fatto era successo.<br />

Capita un giorno compare Pòrcina in Baronia, ché anche<br />

là lui ha terreni e case e bestie. È padrone di mezzo<br />

mondo, lui; metà del paese, si può dire, è sua. E niente di<br />

strano che intoppi in Giuanni Cinus, e che si intrattenga<br />

con lui a parlare, come va e come non va. Non per nulla ha<br />

battezzato a suo tempo – e quale degnazione fu quella – la<br />

primogenita Cinus, Pasqua nostra, la quale difatti ritiene del<br />

privilegio di un tale padrino una certa punta di orgoglio.<br />

Ma quel giorno, evidentemente, nelle fattezze di Nanni<br />

Pòrcina, si è incarnato Nostro Signore. La sorte di Giuanni<br />

Cinus, bracciante di Baronia, si gioca in questo incontro.<br />

«Compare, mi è venuta un’idea» dice Nanni Pòrcina<br />

dopo i convenevoli d’uso. «Ho da farvi una proposta».<br />

«Dite, dite pure, compare» corrisponde Giuanni Cinus<br />

con l’abituale sottomissione. Si è, come si conviene parlando<br />

a uno che sta più in alto, cavato il cappello e se lo rigira<br />

fra le mani e si fa vento, per non sapere che altro fare. È luglio,<br />

d’altronde, è caldo. Sta’ a vedere – intanto pensa – che<br />

il compare gli propone un ingaggio a battere grano in qualche<br />

suo podere.<br />

«Ho» dice Nanni Pòrcina «quel terreno di Serri, sulla<br />

strada di Tula, sapete, la tenuta».<br />

12<br />

«So, so» ribatte lui «la conosco». E annuisce col capo<br />

che sembra che faccia ripetuti inchini. Capito: è là che si<br />

tratta di andare a battere grano. Ma ben venga: di fronte a<br />

uno che ti offre lavoro e pane, che hai da dirgli: no, passo?<br />

«Appartiene, è vero» prosegue compare Pòrcina «a mio<br />

figlio Raffaele, l’avete presente. Cosa volete, il nonno, morendo,<br />

ha deciso così. Ma è soldato, la guerra è finita e lui<br />

non torna. E, dopo tutto, posso certo disporre io, quello che<br />

è bene».<br />

E chi lo discute? Altro che, se può disporre lui. Non<br />

sarà il pronto, che gli manca, o il piglio del comando. Alto<br />

della persona, forte e ben piantato sulle gambe fasciate da<br />

gambali di cuoio, fronteggia Giuanni Cinus tapino tapino<br />

che, anche fisicamente, se ne sente soggiogato.<br />

«Certo, compare, certo» assevera. Rende senza difficoltà<br />

al potente la sua umile testimonianza servile. Ma, «Voglia di<br />

lavorare ne avete?» lo interpella bruscamente Nanni Pòrcina.<br />

Voglia di lavorare? Discorsi! Voglia di levarmi la fame,<br />

dovete dire, compare. E dice, tormentando il cappello:<br />

«Me lo chiedete?».<br />

«Avviene» dice l’altro pigliandola un po’ alla lontana<br />

«che col quindici agosto scade l’affitto con ’Eppi Trastus,<br />

per la tenuta di Serri. Non voglio ridargliela, abbiamo avuto<br />

questioni».<br />

’Eppi Trastus, sicuro, ma lui che c’entra?, dice a se stesso.<br />

Ma a voce alta dice soltanto:<br />

«Ah!».<br />

Ora però non è più fermo, impalato, dinanzi al compare.<br />

Gli formicolano i piedi. Dove va questo discorso? Un ingaggio,<br />

era quello che lui sperava, non più di questo.<br />

«Poco fa mi è venuta l’idea, vedendovi,» proferisce l’altro,<br />

ed è appunto in questo momento che Nanni Pòrcina si<br />

tramuta in Domine Dio «di darla a voi, la tenuta».<br />

Irrigidito di colpo, un’altra volta. <strong>Il</strong> cappello non ruota<br />

più.<br />

«La tenuta di Serri?» domanda che pare singhiozzi.<br />

E, sempre in figura di Nanni Pòrcina, Iddio Nostro Signore<br />

dice in parole umane:<br />

«Solo che volete è vostra».<br />

13


Dopo di che, cessato di essere il guscio dell’Altissimo e<br />

ridiventato Nanni Pòrcina, il compare aggiunge: «Ma vi avverto,<br />

compare Cinus: voglia di lavorare. Serri è grande. Ve<br />

la sentite?».<br />

Grande è davvero, ora lo sa: più di centocinquanta quadre<br />

di terra solo i coltivi, hai voglia a aver voglia di lavorare.<br />

E i patti: «Compare, inutile che qui giochiamo a gatto<br />

e topo. Le condizioni le sapete: quello che viene a voi, quello<br />

vi do, e niente altro; e quello che viene a me, quello voglio.<br />

Per il resto vi dico: arrangiatevi, e che Dio vi assista».<br />

Sapeva, sì, certo, le condizioni del dare e del prendere,<br />

da parte di Nanni Pòrcina. E non c’era da sperare in altri<br />

aiuti: prestiti, acconti, abbuoni. Niente. O prendere o lasciare.<br />

E, scelto che avesse di prendere, questo mare di terra<br />

da mettere a seme, che era cosa da sperdersi: gesummaria<br />

quanta ce n’era.<br />

Ma poteva lasciare? Da quando era nato, che terra aveva<br />

mai posseduto? <strong>Il</strong> tanto da contenere i suoi piedi, ecco<br />

l’eredità che gli aveva lasciato suo padre. Lavorare terra,<br />

questo sì. Arare zappare rivoltare terra e lasciarci l’anima,<br />

insieme col sudore, a impregnarla: questo sì. Ma sempre<br />

terra d’altri, “aliena”, non mai roba sua propria, quando<br />

mai? E neppure roba che possedesse come affittuario e<br />

massaio, che è già in qualche modo essere padrone, almeno<br />

a metà. No, sempre e soltanto giornaliere, lui era stato. Perciò,<br />

che venga uno e gli dica: “Vuoi essere massaio?”, questa,<br />

se non è beffa, è cosa miracolosa, altro che stare a discutere<br />

se prendere o lasciare.<br />

Così ragionava fra sé, ora, mentre ispezionava il possesso.<br />

Si fermava appositamente e batteva col tacco il terreno.<br />

E non tanto per saggiarne la compattezza – del resto evidente,<br />

dopo mesi di secco – quanto per convincersi proprio<br />

di questo: che veramente, su quella terra lì, lui era massaio,<br />

non già uomo a giornata.<br />

Ma subito lo riprendeva lo scoramento. Misurava il perimetro<br />

con gli occhi. Cristo, era proprio tanta, un’estensione<br />

da impazzire. E chi l’avrebbe aiutato a lavorarla? ’Ntoni,<br />

forse? O Jeremia? Sul “bastante”, di nome appunto Jeremia,<br />

14<br />

non si poteva contare, dovendo costui badare alle pecore e<br />

stare lontano, verso Tula o, come lui diceva, “in parte di sole”,<br />

dov’era l’ovile.<br />

Non c’era santi, non restava che lui. Si palpava istintivamente<br />

le punte degli omeri, la mano destra sulla spalla sinistra<br />

e viceversa. Spalle mie, coraggio, sarete voi i miei “bastanti”.<br />

E metteva un puntiglio quasi feroce nel giurare che sì, a<br />

costo di schiantarsi, doveva farcela. Era il suo anno fatato,<br />

questo: o questa volta o mai più. Pensava ai giorni di Baronia,<br />

da bracciante, a aspettare un lavoro saltuario, incerto e<br />

sempre provvisorio. E nell’attesa sbadigliare, cascare, come si<br />

dice da noi, che certo non è il sonno a aprirti le barre. Che<br />

sonno? Fame, è. E viceversa, ora, ringraziandone Dio, lavoro<br />

non gliene sarebbe mancato di certo, bastava guardarsi intorno.<br />

Ebbene? E allora sotto, dài, non c’era da aspettare.<br />

Fu poi in una giornata novembrina, nel corso dell’aratura,<br />

che egli ebbe quella specie di “visione” che così assiduamente,<br />

dopo, avrebbe ricordata e che, quando più tardi ne<br />

accennò con qualcuno senza aver l’aria di prendere la cosa<br />

troppo sul serio, fece correre voce che quel giorno lui era stato<br />

“cantato” dalle yanas, le piccole capricciose ciane volanti<br />

delle campagne, fate e streghe a un tempo, capaci di conoscere<br />

il futuro e condizionare il destino degli uomini.<br />

Ma fu soltanto un sogno a occhi aperti, mentre era giù<br />

che penava a arare. Un’“imbriacata”, appunto, così lui stesso<br />

diceva, frutto del sole che lo stordiva e della stanchezza che<br />

gli spezzava le ossa, e del resto va’ un po’ a capirli, i pensieri,<br />

come vengono e chi li manda, si hanno e basta.<br />

Arava da “capodanno”, che è come dire era pazzo. Dopo<br />

i debbi che si son ricordati, aveva pigliato e cominciato<br />

a arare.<br />

Lavoro cane. Dura a frangersi come macigno era la terra,<br />

fenduta da innumerevoli crepe, a causa della lunga siccità. Ma<br />

lui, più duro ancora, dentro col ferro. Pazzo da legare, certo, a<br />

giudizio di qualsiasi uomo assennato. Ma che importa? Lui<br />

arava. E avanti per tutto settembre, e ottobre, e questa prima<br />

decade di novembre: ché infatti già cominciava la terza luna.<br />

15


Era ostinazione e rabbia. Una specie di sfida ch’egli lanciava<br />

a Nanni Pòrcina, a se stesso, alla malasorte che lo aveva<br />

sin qui accompagnato, insomma a tutto e tutti, perfino<br />

a questa porca di terra su cui penava e che suscitava in lui –<br />

lui stesso avrebbe trovato difficile spiegarlo – uno strano<br />

sentire: come un odio che si esaltasse fino all’amore, o un<br />

amore che avesse la forza e il sapore acre dell’odio.<br />

E aveva soprassalti di cupo orgoglio, in questo atteggiamento<br />

di contrapposizione e di sfida. Dite che non ce la<br />

farò, compare Pòrcina riverito? E proviamo a scommettere,<br />

forza. Volete scommettere, eh? Quello che volete, io sono<br />

pronto. Eh, voi non mi conoscete, non sapete chi sono. Ma<br />

io mi sento capace di spezzare il ferro coi denti, rompere le<br />

pietre a testate, sderenare un bue, con rispetto parlando,<br />

compare mio, al servizio e piacere vostro e della vostra casata.<br />

E ve lo proverò.<br />

Ma non è vero che sia così. Mitizza se stesso per incitarsi.<br />

Per forte che sia, gli circola pur sempre nelle vene quel<br />

sangue gramo che innumerevoli generazioni sconfitte, abbrutite<br />

dalla fatica e insidiate da antichi mali, la malaria, le<br />

privazioni, la fame, gli hanno trasmesso. Solo il “punto” lo<br />

tiene su, questa brama che si è impossessata di lui come una<br />

febbre, da quando gli hanno detto che sarebbe stato massaio,<br />

fittavolo a Serri.<br />

Fatto sta che è così che gli capita – ara che ara – di fare<br />

quel tale sogno della prima metà di novembre.<br />

Faticava quel giorno, come da mesi, in quel suo lavoro<br />

silenzioso e paziente. Arava adesso la parte della collina che<br />

degrada verso la strada per Tula, fino allo scoscendimento<br />

che chiamano “Le fosse”.<br />

Mezzo dorso di questa collina era già arato, quando il<br />

sole riuscì finalmente a liberarsi dal viluppo di nuvole che<br />

sostavano nel levante e venne fuori e illuminò vividamente<br />

la campagna, tolte alcune chiazze d’ombra che ancora restavano<br />

qua e là.<br />

Giusto quando ci fu questa irruzione della luce lui si<br />

fermò, tirando le funi di comando per fermare anche i buoi.<br />

Allora si eresse sulla persona schiacciando i pugni contro le<br />

16<br />

reni, e a occhi chiusi levò la faccia verso il sole, mentre i<br />

buoi, scuotendo le cervici, facevano che il giogo oscillasse<br />

come l’asse di una stadera.<br />

Si volse quindi a considerare il lavoro compiuto e quello<br />

ancora da compiere, intanto che con una larga pezzuola<br />

rossa si asciugava il sudore. Le ombre delle nuvole parevano<br />

concentrarsi nella parte non dissodata, mentre la parte già<br />

arata era quasi tutta nel sole, e il sole scintillava sulle zolle<br />

umide e brune, le faceva somigliare a quei coppi di paglia e<br />

fango che si fabbricano laggiù e che, dopo fatti, si mettono<br />

appunto a asciugare al sole.<br />

Continuando a strofinarsi il fazzoletto sul collo e sul viso,<br />

seguiva assorto le ombre delle nuvole. Un gruppo indugiava<br />

sulla siepe di canne lungo l’estrema bassura, come impigliate<br />

nel loro intrico; e una ancora, isolata e immobile,<br />

aduggiava la grande quercia al margine del sentiero, anche<br />

essa come frenata dalle fronde venerande. Ma le altre scorrevano<br />

libere, agili, scivolavano via sulla terra con leggerezza,<br />

agevolmente superavano alture, gobbe, muretti, mucchi<br />

di sassi, perdendosi infine oltre la selva sulle colline a levante.<br />

Cose leggere trascorrenti e silenziose: come i pensieri.<br />

Tratto forse da questo spettacolo, sollevò gli occhi al cielo<br />

a osservare le nuvole di cui le ombre erano la proiezione. Ve<br />

n’erano che, ferme sulla linea dell’orizzonte sporgevano in alto<br />

i musi arrotondati, come prode di mondi celesti rocciosi e<br />

morbidi, con intervalli di vuoti e di golfi sereni. E altre che,<br />

simili a bioccoli o interi velli di lana appena tosata, galleggiavano<br />

pigre dentro l’azzurro, spostandosi verso scirocco.<br />

Ma, scarsamente commosso dalla parte estetica e scenica<br />

di ciò che vedeva, considerava piuttosto che, così com’erano,<br />

le nuvole non promettevano pioggia, solo indicavano la direzione<br />

del vento, del resto fiacco, che le portava.<br />

“E fermatevi, figlie di cane” imprecava mentalmente “e<br />

sgravatevi, che Dio vi fulmini”.<br />

Pensava alla durezza che la terra opponeva al lavoro dell’aratro<br />

e al doppio di fatica che questo gli costava. E sfido,<br />

da quand’è che non pioveva? Da marzo, salute a noi. A che<br />

demonio servivano mai le nuvole, se non si scioglievano in<br />

pioggia?<br />

17


Ma peste se quelle erano nuvole da acqua. Soffici, candide,<br />

ben sprimacciate e leggere, dondolavano nel cielo per<br />

pura bella vista, sterili più che vesciche piene di vento. Poteva<br />

piangere in greco, che non si sarebbero sciolte.<br />

Allora il suo pensiero si spingeva più in alto, oltre le nuvole<br />

e l’azzurro, arrivava fino ai confini superni, invisibili,<br />

dove abita Dio. E bussava, implorava. Ma non con mansuetudine,<br />

sì invece con un che di protervo e di irato, pur nell’invocazione.<br />

Fa’ che piova, Dio, fa’ questa grazia. È novembre,<br />

ormai, te lo ricordi? O ti sei addormentato? E serrava le<br />

mascelle, digrignava i denti, all’idea che non ci fosse maniera<br />

di rompere il sonno nella testa di Dio. Oh, dico a te, oh,<br />

gli gridava, in un impeto di rabbia muta e impotente.<br />

Niente. Non era niente. Bisognava rassegnarsi e andare<br />

avanti.<br />

Rimise la pezzuola intorno al collo, l’annodò, si sputò nelle<br />

mani, dette una voce ai buoi e riprese a pigiare sulla stiva.<br />

Nell’atto che i buoi piegarono concordemente il capo e<br />

tesero i garretti, l’aratro sentì lo strappo, il vomere si immerse<br />

come un coltello nel vivo della terra e la fendeva e la rivoltava,<br />

la terra scivolava dentro la parte convessa del ferro,<br />

il quale nel tagliarla la sollecitava uniformemente dal basso,<br />

dopo di che la rovesciava, allora la terra si spezzettava in tante<br />

zolle e queste prendevano quell’aspetto di embrici, e la loro<br />

convessità superiore, modellata dal vomere, era liscia liscia.<br />

<strong>Il</strong> vomere intanto passava oltre e, nel rompere così la<br />

terra, balenava come argento, levando nel contempo un rumore<br />

lieve, continuo, quasi un sibilo. Al quale rispondeva,<br />

con una sorta di calma lentezza, il tintinno dei campani.<br />

Braccia ci vorrebbero, pensava, e annata d’acqua, e il buon<br />

volere di Cristo. Troppe cose in una volta, mi pare, zietto.<br />

S’interrompeva per smottare, schivare un sasso o incitare<br />

i buoi. Lasciava infatti cadere ogni tanto, sulla groppa di<br />

questi, ma senza eccessiva violenza, un colpo sibilante della<br />

lunga sferza di cuoio che pendeva dalla cima dello stimolo.<br />

Questo si dice “toccare”. Ché, per l’effetto che ne segue, significa<br />

anche, per estensione, andare.<br />

Già, troppe cose. Prima uno sospira il pane, poi vorrebbe<br />

il companatico, poi il vino, poi magari un letto caldo e una<br />

donna che gli gratti dove gli prude. Com’è che si dice? La<br />

18<br />

botte piena e la moglie ubriaca, già. Mentre certuni hanno<br />

soltanto la moglie, piena, il santo che li fa nascere. “Ah, puah”<br />

si diceva disgustato, e sputò. “Chissà poi chi le decide queste<br />

cose, se è il destino o che”.<br />

Ancora si interruppe perché era arrivato alla fine del solco<br />

e bisognava voltare. Anche “voltare” è parola che il linguaggio<br />

ha tratto da questa operazione per attribuirle un significato<br />

più esteso, traslato. Infatti significa anche cambiare,<br />

mutare sorte. Lingua di bifolchi e di popoli agricoltori.<br />

«Voltate, belli» disse a voce alta, parlando ai buoi come<br />

fossero cristiani. E come quelli non obbedivano, tirò irritato<br />

la guida di sinistra con tanta forza che poco meno strappava<br />

l’orecchio all’animale. «Ih, ti farai prezioso, sì?, Boccadi-rosa»<br />

disse. E piantò la punta dello stimolo nella culatta<br />

tenera di Bocca-di-rosa, in misura sufficiente perché l’animale,<br />

toccato in tal modo, “toccasse” a sua volta e facesse<br />

svelto la conversione, trascinando di forza il compagno.<br />

Ora bisognava riattaccare, e questa volta in salita, su<br />

per il fianco della collina. «Vai, vai» disse incitando e misurando<br />

con l’occhio il punto dove affossare il vomere perché<br />

il nuovo solco corresse parallelo al precedente.<br />

Lenti e cadenzati ripresero a suonare i campani. Lui si<br />

rimise curvo, a schiena in giù, a premere sui manici della<br />

stiva, senza che per ciò la sinistra lasciasse le guide e la destra<br />

lo stimolo.<br />

I pensieri tornarono, come passeri sul seminato, dopo<br />

che un rumore o grido o altro accidente li abbia per un momento<br />

cacciati via. I pensieri dell’amarezza. Cos’è che hai<br />

avuto, di tanto desiderare, in tutta la tua vita? Su, bello mio,<br />

fatti coraggio, sputa. Di’, non è questo?<br />

Sputò materialmente, intanto che la parola, nelle anse<br />

del cerebro, si formò come un sole. «Mer-da» sillabò quasi<br />

gridando. E concluse: «Così sia».<br />

Senza sforzo, senza che lui li sollecitasse in nessun modo,<br />

vennero i ricordi agri, una specie di epitome o ricapitolazione<br />

della sua vita. I giorni gli sfilavano nella memoria veloci,<br />

come detriti galleggianti nella correntia di un torrente.<br />

<strong>Il</strong> sole frattanto, ormai ben alto nel cielo, gli scaldava la<br />

testa, aizzava le ghiandole sudorifere, aiutava a fare che la<br />

pentola dove i pensieri si contenevano, li bollisse a dovere.<br />

19


«Dinìa» disse sfangando nel mutar solco e quasi inciampando.<br />

Come già l’altra, pronunziò ad alta voce anche questa<br />

desueta parola, che esprime, là, più ancora che la sorte avversa,<br />

qualcosa di molto simile al fato dei popoli antichi.<br />

Lui era nato sotto il segno della dinìa. Dal passato lontano<br />

fino al presente, era stato così. E il segno più vistoso di<br />

questa dinìa era rappresentato da Momo.<br />

<strong>Il</strong> pensiero di Momo gli fu come un aculeo che gli penetrasse<br />

le costole e là indugiasse. «Hài, hài» gridò allora<br />

con forza ai buoi. E giusto nelle costole di uno di essi avventò<br />

per impulso irragionevole la punta dello stimolo,<br />

quasi a partire con quello il dolore, quasi non fosse giusto<br />

che lui solo patisse. E ve la tenne e rigirò senza pietà, incurante<br />

del balzo in avanti che la bestia, punta così di sorpresa,<br />

faceva di colpo.<br />

Da tutto questo, ecco, scaturì per reazione quel bisogno<br />

di aprire l’animo alla speranza, che si risolvette in ebbrezza.<br />

Oh basta, madonna, basta, si disse a un tratto, non bisogna<br />

pensare a questo, ora. Bisogna pensare a altro, a altro.<br />

A cosa?<br />

Al fatto che cambierà. Questo porco di destino doveva<br />

cambiare, non era possibile che durasse eternamente. Perché<br />

mai, se no, sarebbe venuto quel giorno compare Pòrcina<br />

a proporgli di fare il massaio a Serri, mutando la sua vita<br />

da così a così? L’aveva chiamato lui, quel giorno, compare<br />

Pòrcina? No, sangue di Giuda, Dio in persona lo aveva<br />

mandato. E lo avesse pure mandato il demonio non fa differenza.<br />

<strong>Il</strong> certo è che da quel momento bisognava partire.<br />

A questo doveva pensare.<br />

Impressa questa svolta al flusso dei pensieri, si immerse<br />

con godimento nell’onda nuova. Ah, refrigerio! Va’, va’, si diceva,<br />

vedrai che d’ora in poi sarà diverso. E soggiacendo allo<br />

stesso impulso di partecipazione di prima, batteva sulla culatta<br />

di Bocca-di-rosa, non più con lo stimolo stavolta, ma a palmo<br />

aperto, da amico a amico, e diceva anche alla bestia «Va’, va’».<br />

Abbastanza torpida abitualmente, la fantasia gli si sbrigliò.<br />

Vedeva le cose con occhi diversi: gli orizzonti, le nuvole,<br />

20<br />

il precipizio del cielo gli si facevano prossimi e come ruotanti<br />

in cerchio, e gli sembrava che di questo cerchio lui fosse il<br />

centro e l’asse di rotazione.<br />

Ma il miracolo nacque dal bruno della terra. La rassegnazione<br />

delle glebe, tutte pari, coppute, rovesciate bocconi; quei<br />

solchi tutti in fila, allineati e paralleli come piccole onde rapprese<br />

e nere, tutto questo scomparve. Una pelurie verde ricoprì<br />

il fianco della collina. Poi crebbe. Poi, passandovi dentro<br />

un vento, suonò come l’organo della chiesa di Baronia.<br />

Grano, era; il “suo” grano. Tutto il possesso di Serri, arato<br />

da “capodanno”, buttava impazzito. E prodigiosamente,<br />

incredibilmente, cresceva e maturava in un lampo, ancora<br />

era verde e già era biondo, già ci si poteva entrare con le falci.<br />

E ci si entrava difatti e si mieteva, si trebbiava, si misurava<br />

e insaccava. E misurare faceva impazzire, insaccare scollava<br />

le braccia, era una quantità inverosimile: misericordia,<br />

cos’era mai?<br />

Questo, a un tratto. Come un’ebrietà, già lo si disse. Come<br />

un delirio. Lui, tale era la sua sensazione, realmente “vedeva”<br />

questo.<br />

Quel distillato di vino che là chiamano “Filo di ferro”<br />

oppure “arzente”, a berne oltre il ragionevole può fare di<br />

questi scherzi. Lui era in un certo senso in queste condizioni.<br />

Come se, cioè, avesse in corpo, che figurati se era il tipo,<br />

buona provvista di questo “Filo di ferro”. Come se il cervello<br />

gli andasse in combustione per il fuoco scaturito da una<br />

buona ciucciata di questo “arzente”.<br />

E quei campi pieni di verde, le messi mature, le biche<br />

di grano mietuto e tutto il resto, stettero per un certo tratto<br />

davanti a lui, assurdi, ma nitidissimi.<br />

«Hài, hài!» gridava ai buoi, smemorandosi. Nello stordimento<br />

di quel suo andare monotono dietro l’aratro; nella<br />

secchezza dell’aria, percorsa appena da bave di vento; nelle<br />

lame d’argento e d’oro che il sole gli sbatteva davanti agli<br />

occhi, lui navigò – è difficile dire quanto – in questo stato<br />

di irrealtà.<br />

Poi ci si sveglia, si sa, e ci si scrolla: si è uomini! E il mondo<br />

si rimette normale, che fino a quel momento era stato coi<br />

piedi all’aria.<br />

21


Ma appunto è come il risveglio da un sogno, che il sogno<br />

è andato, però la sua sensazione perdura. Già consapevole,<br />

ora, che tutto era stato inganno, lui, non di meno, deliberatamente<br />

indugiava nella beatitudine dell’illusione. Che<br />

bello sarebbe stato, se tutto questo fosse potuto accadere.<br />

E perché non poteva?, si chiese a un tratto. Perché? Forse<br />

la cosa era davvero irrealizzabile? E chi lo diceva? E perché<br />

non pensare, invece, che lui, sì, lui in persona, poteva fare<br />

che il sogno, se sogno era, diventasse realtà?<br />

Di nuovo sentiva montare in sé l’ira e l’orgoglio. Sollecitava<br />

lui stesso, ora, i fantasmi, che prima erano sorti spontanei<br />

nella sua immaginazione. Vedeva bene che la terra, nuda<br />

come un ginocchio, altro non era che il campo della sua<br />

presente fatica. Ma le imponeva lui stesso, ora, come un<br />

creatore, il suo vello di messi. Dovrai ben sentire lo sprone,<br />

cagna, e figliare. Aspetta e vedrai. Vedeva bene ch’era solo,<br />

lui, dietro l’aratro nella enorme vastità della campagna. Ma<br />

già si vedeva, nei giorni del <strong>raccolto</strong>, circondato dai mietitori.<br />

Uomini tolti a giornata, assoldati da lui (proprio lui che<br />

era stato giornaliere a sua volta) perché la messe era tanta<br />

che non bastavano braccia.<br />

Riprecipitava, era chiaro, nell’irreale.<br />

“Mano alle falci, fratelli” avrebbe detto ai mietitori “e dateci<br />

dentro fino a schiattare”.<br />

E quelli a mietere, zann, zann, sentiva il crocchio delle<br />

canne del grano raggiunte dalla falce, che gli suonava alle<br />

orecchie più grato del canto dei grilli. Ma presto, saggiata la<br />

consistenza dell’incannato: “O Giuanni Cinus” quelli avrebbero<br />

detto stupiti “ma questo è grano o è canna da fiume?”.<br />

E lui, pomposo: “Ehi, ehi, mietete, poltroni, che già è grano”<br />

avrebbe risposto ridendo e pieno di sussiego. Però lo<br />

stupore dei giornalieri non sarebbe finito lì: sarebbe stata la<br />

quantità delle messi a lasciarli allibiti: “Ma come” avrebbero<br />

detto “tu piovi qui, mai visto e mai conosciuto, e tempo un<br />

anno ti tiri su questo po’ di <strong>raccolto</strong>! E chi sei, Sant’Isidoro?<br />

Hai mangiato alle volte ossa di morti?”.<br />

Facezie. Ossa di morti? Sì, domandassero alle ossa delle<br />

sue spalle, piuttosto, che ci si erano scollate a crescerlo,<br />

questo <strong>raccolto</strong>. Ma non se la sarebbe presa con gli uomini.<br />

22<br />

Le loro erano battute scherzose dei giorni della mietitura,<br />

che è il tempo dell’allegrezza.<br />

E naturalmente ci sarebbe stato alla fine anche il banchetto,<br />

il giorno dell’inserro, perché la tradizione va rispettata.<br />

Arrosto di pecora e vino, sicuro, così vuole l’uso e così sarebbe<br />

stato. E lì ancora arguzie, e frecciate, e allegrezza. “Ma<br />

pecore, di’, ne hai compare Cinus, in numero bastante per<br />

sfamarci tutti?”, avrebbero chiesto per punzecchiarlo. E lui a<br />

nicchiare, a dargli corda: “Ehi, ehi, ce ne sarà da ingozzarvi,<br />

non abbiate timore”. “E anche agnelle da latte, hai, no?”<br />

avrebbero magari aggiunto, con maliziosa allusione a Pasqua.<br />

Ma non si sarebbe adontato neanche per questo. Dica<br />

la bocca tutto quello che vuole una volta che le mani stiano<br />

al loro posto. E poi, in questi casi, che s’ha da badare a una<br />

parola di più? Era festa, perdio.<br />

Ancora invischiato in queste fantasticherie, stupì che<br />

qualcuno, a un tratto, lo chiamasse alla disperata: «Ba’, o ba’,<br />

ooh!».<br />

Senza fermare l’aratro si volse e vide chi lo chiamava.<br />

Era Pasqua, ferma al limite del terreno arato, presso la<br />

quercia. Lontana un buon tratto da lui, gridava per farsi<br />

udire e faceva cenni, a braccia alzate, non si capiva cosa dicesse.<br />

Così da lontano, anzi, gesticolante e urlante, pareva<br />

invocasse disperatamente adiutorio.<br />

23


II<br />

LA SEMINA<br />

Si fa un atto di fede. Si affida il grano alla terra (e in<br />

questo caso quadre e quadre di grano, che è già di per sé un<br />

patrimonio) nella speranza che lei lo moltiplichi, dopo averlo<br />

inghiottito e marcito. Ché se il grano non muore…<br />

E non altro che questo è, seminare.<br />

Così era anche per Giuanni Cinus, che ora aveva quel<br />

demone, e impaziente aveva incominciato a gettare.<br />

Si sarebbe dovuto attendere che prima piovesse, perché<br />

meglio la terra si disponesse a quell’atto: rorida e morbida e<br />

desiderosa di generare. Ma non piovve. San Martino venne<br />

e passò senza una goccia dal cielo. I giorni limpidi; i monti<br />

profilati sugli orizzonti con specchiata nettezza, assente anche<br />

un velo di bruma. E che? Si doveva aspettare fino al<br />

Bambino, per seminare?<br />

Così la seconda aratura fu fatta e il seme gettato, quando<br />

dalle zolle sanguigne della prima aratura il vento, anziché<br />

quel fiato umido che sembra emani la terra di questa stagione,<br />

levava a tratti polvere, che difatti viaggiava in barriere<br />

verticali intermittenti, oppure mulinava a imbuto, frullandola<br />

il vento nei suoi risucchi, finché si abbatteva oltre i<br />

confini sui lentischi e le palme.<br />

Inutile aspettare ancora. Eppure, un poco, era come<br />

prendere il seme e disfarsene, anziché consegnarlo alla terra<br />

come un capitale messo a frutto.<br />

Attendevano alla bisogna il vecchio e ’Ntoni. <strong>Il</strong> ragazzo<br />

dietro l’aratro a ripassare di traverso sui solchi per eseguire<br />

la copertura; il vecchio più a monte, a spargere a spaglio il<br />

seme, che traeva dalla bisaccia.<br />

Entrava la mano dell’uomo nel grembo della bisaccia,<br />

ne usciva stretta a pugno, poi il braccio ruotava nell’aria, il<br />

24<br />

pugno si apriva e il seme era sventagliato lontano. E bisognava<br />

a ogni manciata dire le parole tramandate: “In nome<br />

di Dio, in nome di Dio, in nome di Dio”.<br />

Ma di ogni manciata pareva ogni volta si impadronisse il<br />

vento, polvere e seme si mescolavano nella rapina, sinché,<br />

più pesanti, i chicchi precipitavano; allora sopravveniva l’aratro<br />

che frangeva le zolle e li seppelliva.<br />

<strong>Il</strong> caso, dunque. Più che la volontà dell’uomo, il caso stabiliva<br />

se il seme – ogni singolo seme – dovesse annidarsi lì, e<br />

lì morire, e lì rinascere. E questo migliaia e migliaia di volte.<br />

<strong>Il</strong> vecchio andava su e giù per il campo compiendo l’opera<br />

sua. La bisaccia diventava via via meno greve finché si<br />

svuotava, allora bisognava portarsi sulla piazza di camminamento<br />

e rifornirsi. E daccapo. Sfangare tra i solchi e gettare<br />

gettare gettare. In nome di Dio.<br />

Quanto alla terra, indifferente essa riceveva il seme, dentro<br />

quelle sue innumerevoli grosse labbra tumefatte dei solchi;<br />

indifferente lo deglutiva, tosto che il vomere o i piedi di<br />

’Ntoni o gli zoccoli dei buoi pestavano sulle zolle. Né pareva<br />

possibile sperare che un giorno, da tanto cospargimento,<br />

fosse per nascere un qualsiasi frutto. O almeno ci voleva, come<br />

si è detto, un atto di fede.<br />

Fu al termine di questi lavori che a Serri capitarono visite.<br />

Sedevano ora, a sera, nel piazzale antistante la fattoria.<br />

Nella luce residua del giorno, protratta fuor di misura come<br />

accade nel sud, e che si faceva perlacea, poi verdastra, poi<br />

rossa e infine viola, prima di spegnersi. La famiglia al completo:<br />

padre, madre e figli. Intenti alle placide opere delle<br />

ore dell’ozio, quel fare che si dice che inganni il tempo; o all’ozio<br />

al tutto, com’era il caso di Momo.<br />

Questi infatti, incapace di dedicarsi a alcunché, si limitava<br />

a mugolare e portare in giro, a passettini, la propria infelice<br />

persona, trasferendosi dalle ginocchia della madre a quelle<br />

di Pasqua o appressandosi a ’Ntoni o, con una certa cautela e<br />

apprensione, al padre. Recando a ciascuno, comunque fosse,<br />

lo stupore di quei suoi occhi così profondi in un viso così<br />

poco grato.<br />

25


Quella sera come le altre: Mariangela Siddi filava lana e<br />

Pasqua la secondava. ’Ntoni cavava forcelle per fionda da rami<br />

di ulivo. <strong>Il</strong> vecchio, lui, fabbricava giocattoli per il vento<br />

e inganni per gli uccelli, oggetti con i quali ingannava frattanto<br />

le proprie mani, poco inclini a restare inoperose.<br />

Fabbricava aeroplani, banderuole, aquiloni. Su corti fusi<br />

di canna applicava enormi eliche, pure di canna, ruotanti su<br />

un perno. <strong>Il</strong> tutto poi sistemava in cima a una pertica e l’aeroplano<br />

era fatto. L’alzava per prova contro il vento: funzionava.<br />

Urtata dal vento l’elica si scuoteva, brandeggiava, pigliava a girare<br />

con sempre maggiore scioltezza e infine con furia e tutta<br />

l’apparecchiatura ronzava e vibrava. Ridevano i geni del vento<br />

e il dio degli uccelli – ché questo doveva essere il marchingegno<br />

per spaventarli – e Momo dal canto suo uggiolava e sbavava.<br />

E così per le banderuole, fatte di intrecci di foglie di palma<br />

inastate anch’esse su pertiche. E per gli aquiloni, provvisti<br />

di una coda di filacce di tela che il vento scioglieva come capelli<br />

e faceva schioccare. Piantati qua e là per il campo e messi<br />

in azione dal vento, tutti questi apparecchi avevano lo scopo,<br />

insieme con gli spauracchi, di fare il babau ai passeri, sgominandone<br />

ardire e ingordigia. Ma sono migliaia di anni che i<br />

passeri conoscono il trucco.<br />

In questo oziare dunque indugiavano, tutt’e cinque lì<br />

fuori, in attesa che il giorno, nei grandi letti celesti, se ne<br />

morisse e si celebrasse subito dopo, nel ponente, il mortorio.<br />

A un tratto, da tramontana, venne col vento rumore di<br />

zoccoli. E fu Pasqua che prima l’avvertì.<br />

«Gente?» domandò. Perché accadeva raramente che qualcuno,<br />

e poi a quell’ora, passasse per la strada di Serri, e meno<br />

ancora che salisse alla fattoria.<br />

Ascoltarono. Piccolo trotto. <strong>Il</strong> cavaliere non doveva aver<br />

troppa fretta né strapazzare fuor di misura il cavallo. <strong>Il</strong> tloctloc,<br />

del resto, giungeva incerto, ora si udiva ora dileguava.<br />

Sinché il centauro apparve sulla collina, stagliato contro<br />

il cielo.<br />

Là egli sostò, si tolse il cappello e lo agitò nel saluto.<br />

Lampu e Tronu, i due cani guardiani, si slanciarono alla sua<br />

volta abbaiando; mentre Tricò, cane da caccia, si limitò senza<br />

schiamazzi a drizzare le orecchie.<br />

26<br />

«Straneo, è» disse Mariangela Siddi. «E chi può essere?».<br />

«<strong>Il</strong> cavallo» il vecchio disse «mi pare quello di compare<br />

Pòrcina».<br />

E Pasqua: «Non sarà il figlio, tornato da soldato?».<br />

Frattanto il cavaliere, chetati i mastini, veniva al passo a<br />

questa volta, ancora agitando il cappello.<br />

«Ma è lui, sicuro» disse Mariangela Siddi.<br />

«È lui, è vero» disse anche Giuanni Cinus levandosi.<br />

Giunto a portata di voce, il nuovo venuto parlò:<br />

«Salute alla nuova gente di Serri, miei padroni» disse.<br />

«Salute al padrone vero» gridò di rimando Giuanni Cinus<br />

rispondendo per tutti. Ma una punta di apprensione e<br />

quasi di contrarietà si insinuò nel suo animo nel dire questo.<br />

Se il figlio di Nanni Pòrcina era tornato, dopo anni di<br />

assenza, non sarebbe accaduto ora che il compare revocasse<br />

il contratto di affitto stipulato l’estate scorsa? Ma scacciò<br />

questo pensiero, che gli sembrava in contrasto con il rispetto<br />

dovuto all’ospite, e ripeté con fermezza: «Salute».<br />

Gli altri non dissero nulla. Aspettarono che il cavaliere<br />

venisse a paro, balzasse giù dall’arcione e si facesse dappresso,<br />

le briglie affrancate al polso. <strong>Il</strong> cavallo, venendogli dietro<br />

così tira-tira, sbuffava e si scrollava.<br />

«Salute!» anche l’ospite replicò, tendendo la mano a<br />

Giuanni Cinus.<br />

La stretta di mano fu accompagnata, da una parte e dall’altra,<br />

secondo un rituale antico, da una parola che si potrebbe<br />

tradurre: “Abbastanza bene, vero?”, ma che è, senza<br />

che la gente più lo sappia, il comparativo latino beatius,<br />

conservatosi quasi incorrotto per quest’uso singolare.<br />

L’ospite si volse subito dopo a Mariangela:<br />

«Ave Maria, Mariangela Siddi» disse compunto. E anche<br />

s’inchinò con bella grazia, quasi dovesse ricevere a sommo<br />

del capo il segno della benedizione. Anche questo fa<br />

parte dell’uso antico.<br />

Mariangela si limitò a rispondere benevolmente «Ave<br />

Maria». Non gli dette però la mano. Non dà una donna la<br />

mano a un uomo. Neppure accennò a ogni modo a segni<br />

di benedizione.<br />

Fu la volta di Pasqua. Anche a lei l’ospite disse «Ave<br />

27


Maria». Ma cessò di sorridere e non s’inchinò. Stette anzi un<br />

bel po’ a osservarla con meraviglia, tenendole gli occhi bene<br />

in faccia, in aperta violazione degli usi. Non guarda un uomo<br />

così fissamente una donna, specie se “vergine”. Tanto che lei<br />

ne fu così confusa che seppe solo dire, impoltigliando un po’<br />

le parole: «Padrone mio».<br />

A ’Ntoni e Momo, poi, un’occhiata soltanto, e un cenno<br />

della mano. Ma l’occhiata diretta a Momo fu colma di<br />

raccapriccio.<br />

Giuanni Cinus, frattanto, vinto quel tale momento di<br />

disappunto, cominciò a patriarcheggiare con comica ma non<br />

affettata solennità. «Benvenuto, ospite» disse «se vieni in pace».<br />

Poi, abbassando di mezzo tono la voce e acquistando in<br />

affabilità ciò che perdeva in pompa aggiunse: «Qui sei a casa<br />

tua, figlio mio. Comandaci in ciò che possiamo. Metti da<br />

parte la bestia e siedi in mezzo a noi. Che piacere vederti.<br />

Che cosa possiamo offrirti?». Infine dava ordini, con aria<br />

d’importanza e battendo le mani: «’Ntoni» ingiungeva «il cavallo.<br />

E tu, donna, uno scanno per l’ospite. E tu, Pasqua, acqua,<br />

vino, pane». E all’ospite, ancora: «Vuoi rinfrescarti? Fermarti<br />

a mangiare con noi? O bere, almeno?».<br />

Divertito e ridente, il giovane si schermiva:<br />

«Santo cielo» diceva «ma che? Mi trattate come un vescovo.<br />

No, no, grazie, non voglio nulla, non ho bisogno di<br />

nulla. Volevo solo avere il piacere di vedervi, salutarvi, e basta,<br />

state tranquilli».<br />

Rideva. Aveva dei piccoli baffi sottili, neri pece, che nel<br />

viso, sollevandosi il labbro, s’inflettevano, staccavano col<br />

bianco dei denti giovani e forti e col rosso delle labbra, abbastanza<br />

pronunziate e un po’ insolenti. Era del resto un bel<br />

giovane, abbastanza consapevole di esserlo, e disinvolto, sciolto<br />

di modi, superbo, il che gli consentiva ora di mostrarsi verso<br />

costoro piacevolmente condiscendente e benigno. Per come<br />

era alto, forte e sicuro di sé, prendeva chiaramente dal<br />

padre; ma una cert’aria felina e insieme estrosa doveva venirgli<br />

da ascendenze materne, si sapeva che la madre era un’Angotzi<br />

di Tula, gente conosciuta per avventure e bizzarrie.<br />

Rifiutò sulle prime di cedere le briglie del cavallo a<br />

’Ntoni: «Grazie, no, vado subito» disse. E, come Mariangela<br />

28<br />

e Pasqua uscivano dalla casa con un catino pieno d’acqua e<br />

una caraffa di vino (usciva perfino Momo con uno sgabello<br />

di sughero malcerto fra le braccia) «Ah» disse ancora «che<br />

qui proprio mi pare che mi fate accoglienza migliore che<br />

mio padre e mia madre. Sapete, non sono abituato, dove sono<br />

stato finora non mi trattavano con tanti riguardi».<br />

Non volle tuttavia né lavarsi né bere e neppure sedersi.<br />

«Passavo da queste parti» spiegò «e ho pensato di dirottare<br />

per venire a trovare i nuovi occupanti di Serri. Dopo<br />

tutto, dovrei essere io il proprietario della tenuta, secondo il<br />

testamento di mio nonno. Voi, compare Cinus» si volse direttamente<br />

al vecchio «avete fatto un lavoro magnifico. Avete<br />

arato mezzo mondo, come avete fatto? Se butta in proporzione<br />

ci seppelliremo nel grano».<br />

Lusingato da questi apprezzamenti, il vecchio si diffuse<br />

in spiegazioni. E concluse:<br />

«Anni sono, sangue mio, che aspettavo un’occasione. E<br />

questa mi dice il cuore che potrebbe essere l’occasione».<br />

L’occasione di che? L’ospite non chiese chiarimenti, né<br />

il vecchio ne fornì. Una specie di pudore gli vietava di far<br />

parte a un estraneo, in maniera più precisa, di quali fossero<br />

le sue speranze.<br />

«Acqua, ci vorrebbe» commentò Fieli Pòrcina.<br />

Alla vista dell’acqua nel catino, frattanto, il cavallo nitrì.<br />

«È lui che vuol bere» celiò il nuovo venuto. E rise. E di<br />

nuovo si mostrarono i denti forti e bianchi messi in risalto<br />

dalle virgole nere dei baffi.<br />

Giuanni Cinus tolse con autorità le briglie dalla mano<br />

dell’ospite e portò il cavallo all’abbeveratoio, seguito da ’Ntoni<br />

che si incaricò di attingere acqua dal pozzo. A sua volta<br />

Mariangela Siddi tornò verso casa per recare bicchieri, e così<br />

il giovane si trovò solo con Pasqua, non contando come un<br />

di più la presenza di Momo. Finì per sedersi sullo sgabello<br />

portato da quest’ultimo.<br />

«Per l’anima mia, Pasqua Cinus» disse «questo è ben più<br />

che le staia di terra messe a seme da tuo padre. Sei diventata<br />

uno splendore. Ma cos’è che ti hanno fatto? Che ti hanno<br />

dato da mangiare in tutti questi anni? E sei ancora tu, non è<br />

vero? Non è che alle volte ti hanno cambiata? Una bambina,<br />

29


ti ricordavo, proprio così, un piccolo topo campagnolo o un<br />

leprotto. E invece, adesso…».<br />

Lei abbassava gli occhi e arrossiva. Quello che ascoltava le<br />

pareva molto ardito, se non proprio sconveniente. Sei diventata<br />

uno splendore. Quando mai si è sentito un uomo parlare<br />

così a una donna, e “vergine” per giunta. Si guardò bene perciò<br />

dal rispondere. E tuttavia le pareva, attraverso quelle parole,<br />

di fare d’improvviso un’esperienza gradevole e strana. Acquistare<br />

una cognizione di sé fino a quel punto ignota, come<br />

vedersi allo specchio la prima volta. Splendore, lei?<br />

Tornavano il vecchio e ’Ntoni, tornava Mariangela. Si<br />

parlò degli anni passati, dei mutamenti, della guerra. Di lui<br />

disperso. Cos’è, un disperso? Be’, un vivo creduto morto o<br />

un morto creduto vivo, dipende. Si tornò a parlare di colture<br />

di annate e di questa abbondante eccezionale seminagione<br />

fatta da Giuanni Cinus.<br />

<strong>Il</strong> vecchio si ripeté, pur sempre sibillino:<br />

«Eh, ragazzo mio, questa volta è deciso: adesso o mai<br />

più. Io so quel che dico».<br />

<strong>Il</strong> giovane non colse (come avrebbe potuto del resto?) il<br />

senso recondito di questo aut-aut. E anch’egli si ripeté: «Acqua<br />

ci vorrebbe». E chiarì: «Qui la terra è baldracca, io la conosco.<br />

Oh, scusatemi» il pentimento si indirizzava a Mariangela<br />

e Pasqua «volevo dire poco di buono. A volte dà<br />

che è una bellezza, è capace che ci si piglia il dieci, il venti,<br />

perfino il trenta, secondo come gli gira. A volte invece si<br />

può riempirla di seme quanto si vuole, e spaccarsi la schiena<br />

a lavorarla, e niente, non vuol sentirne, capite? Ma tutto a<br />

mio parere dipende dall’acqua, se piove o non piove. E, certo,<br />

se l’acqua non viene, compare Cinus…».<br />

«Questa volta verrà» il vecchio disse.<br />

«Ne sembrate convinto» l’ospite replicò.<br />

«Lo sono, infatti».<br />

«Ma se non piove? Dico: se, corna facendo, non dovesse<br />

piovere?».<br />

«Pioverà» disse Giuanni Cinus in tono perentorio.<br />

Fieli Pòrcina si alzò. «Ve lo auguro,» disse, «e, in fin dei<br />

conti, è un augurio che faccio anche a me stesso. Ma sono<br />

proprio io a dovervi avvertire di non mietere prima che il<br />

grano sia al punto giusto?».<br />

30<br />

Sorto in piedi anche lui, Giuanni Cinus gli era davanti<br />

tracagnotto e caparbio. Non sorrideva, a differenza di Fieli<br />

Pòrcina.<br />

«Aspetta e vedrai» affermò arcanamente.<br />

L’ospite partiva, manifestando l’opinione che, a buon<br />

conto, almeno per il momento, il cielo non sembrava disposto<br />

a concedere pioggia. Provasse compare Cinus a affatturare<br />

le nuvole – così proprio disse, ridendo – non si sa<br />

mai. Per intanto stessero di buon animo e tante grazie per<br />

l’accoglienza. Sì, certo, poteva darsi, chissà, che, capitando,<br />

tornasse a farsi vedere, perché no? Adesso però doveva andare,<br />

era tardi, addio addio.<br />

Su lui che si allontanava, messo il cavallo al trotto, nel<br />

tardo e ancor rosso crepuscolo, dolcemente scendeva la notte,<br />

lungo l’arco settentrionale del cielo. Un trepido colore<br />

oliva, un languore, pigliava il cielo da quella parte. E staccava<br />

ancor più la luna, già quasi piena, netta e lucente su quel<br />

velluto, come un oblò. Si smemoravano gli occhi che la fissavano.<br />

Sei diventata uno splendore. Era vero? Che strano.<br />

«Pasqua! Pasqua!» chiamava la madre dall’interno della<br />

casa.<br />

«Eccomi» rispondeva.<br />

31


III<br />

LE PIOGGE<br />

Verso gli ultimi di novembre si produsse il mutamento.<br />

Due schiere si formarono agli opposti poli del cielo: l’una<br />

accampata nel levante, con pennoni e sfioccate bandiere color<br />

ferrigno: l’altra nell’occidente, tumida e fosca, con vessilli<br />

di fiamma. A lungo restò l’una e l’altra acquattata nel proprio<br />

quartiere, come spiando le mosse dell’avversario. Indi<br />

qualcuno, qualcosa, dovette dare il segnale. Pattuglie volarono<br />

rapide, traversarono il cielo, entrarono in contatto fra loro.<br />

Si fusero, si accapigliarono: uno scontro all’arma bianca<br />

del tutto silenzioso. Ma gli eserciti mossero dai rispettivi accampamenti<br />

con una lentezza calcolata e possente. <strong>Il</strong> sole<br />

scomparve, che galleggiava a tre quarti nel cielo; e ne restò<br />

come la memoria e la brace, in quel rosso fondo che da allora<br />

prese a diffondersi per tutti i confini. L’urto successe nella<br />

zona centrale di questa dissoluzione del sole. Spararono le<br />

artiglierie. I tuoni rimbombarono col fragore di una catastrofe<br />

e il suono rotolò poi per le colline di Serri, destando le<br />

volpi e le lepri e inducendo il cinghiale a rintanarsi. Le pecore<br />

e le mandrie, dal canto loro, rabbrividirono nei chiusi.<br />

Fu un conflitto corto e rabbioso, orchestrato dai venti alti.<br />

Lampi rapidi e le spezzate scintillanti fratture dei fulmini.<br />

Poi tutto fu grigio opaco e la pioggia finalmente prese a cadere.<br />

Vennero dapprima soldoni radi, schizzanti a capriccio,<br />

che la terra ghermiva ingorda. Poi subito le monete infittirono<br />

e insieme rimpicciolirono, e ne crollavano al suolo manciate,<br />

come rovesciate da ciotole. Infine tutta pari, da terra fino<br />

alle nuvole, l’aria fu interamente acqua, a veli, a lame, che<br />

una forza scagliava in basso, sghembe, come cieche sferzate.<br />

Fu una bevuta che mai, per la terra di Serri. S’intende<br />

con le debite distinzioni. Dove la terra non era messa a cultura<br />

fu soprattutto un pauroso lavacro, l’acqua crollò sui<br />

mirti, i lentischi, le palme, frustò le tamerici, si schiantò sulle<br />

32<br />

rocce affioranti; e scivolò. Rigagnoli si formarono lungo i<br />

sentieri; i letti dei ruscelli, in secca da febbraio, accolsero fiumane<br />

limacciose, turgide da traboccare, e le incanalarono in<br />

fretta verso il mare, impazienti di liberarsene. Non senza depositare<br />

qua e là, nelle bassure, ristagni vari, che poi avrebbero,<br />

a furia finita, guardato a lungo il cielo, come occhi pieni<br />

di sbigottimento. Ma sui coltivi non così: l’acqua non scivolava,<br />

la terra non finiva mai di inzupparsene. Una sete antica,<br />

tormentosa, trovava per un momento di che placarsi. Fumava,<br />

finanche, sotto lo scroscio. Rossa sanguigna, aperta<br />

dal lavoro di lama del vomere, riceveva la benedizione dell’acqua<br />

sulla carne scuoiata come un fresco balsamo. E se ne<br />

intenerivano i chicchi, nel chiuso grembo; e i germogli, destati<br />

dalla misteriosa forza vitale, ricevevano l’annunzio.<br />

Quando cessò, Giuanni Cinus prese a scendere giù per<br />

la strada carraia, fino alla quercia. Veniva col passo rollante,<br />

un po’ ebro, della gente dei campi, che così stranamente somiglia<br />

alla camminata dei marinai. Guardava a destra e a<br />

manca, le mani affondate nelle tasche dei calzoni e annuiva.<br />

La strada era coperta da una belletta argillosa che gli si appiccicava<br />

alle suole delle scarpe, ingrossandone spropositatamente<br />

lo spessore; ma da questo, lungi da averne noia, lui<br />

traeva inconsciamente conforto, era un modo, che so, di<br />

sentirsi ancorato alla terra, e quasi in essa radicato, come<br />

una pianta.<br />

<strong>Il</strong> mento sporto in avanti, il labbro inferiore sopravanzante<br />

il compagno, continuava a annuire. Verrà, si diceva, vedrai<br />

che verrà. L’impasto di terra e acqua nel quale si era convertito<br />

il lavoro suo lo rassicurava e gli dava fierezza. Era<br />

come uno che facesse constatazione di un fatto da lui teorizzato<br />

e preveduto sulla base di calcoli e ragionamenti. Compare<br />

Pòrcina riverito, a vostra disposizione. Degnatevi di dare<br />

un’occhiata a questa grazia di Dio e sappiatemi dire. L’avete<br />

messa sì o no in buone mani la tenuta di Serri? E anche al<br />

giovane Pòrcina si rivolgeva, anzi a lui soprattutto, che si era<br />

mostrato tanto saputo sulla possibilità che piovesse. Ebbene,<br />

giovanotto, adesso che diciamo? Tzè, far la fattura alle nuvole,<br />

eh? E ecco che Giuanni Cinus, se non ti dispiace, anche<br />

di questo è capace, capitando.<br />

33


Sfiorava intanto con lo sguardo il seminato, quant’era<br />

ampio. Come se vi passasse sopra la mano, carezzevolmente.<br />

<strong>Il</strong> gesto dell’uomo che saggia così, al tatto, con inusitata cautela<br />

e dolcezza, il ventre gravido della sua donna, quando gli<br />

dicono – e nulla si vede ancora da fuori – che figlierà.<br />

Anche là dentro, nel grembo della terra, dormiva il seme<br />

che lui vi aveva gettato. Ora germoglierebbe. Lui, anzi – e<br />

qui si sentiva non solo maschio e fecondatore ma, per assurdo,<br />

anche femmina e madre, immedesimato alla terra – lui,<br />

dunque, quasi se lo sentiva germogliare dentro, il seme. Premere<br />

il germoglio contro la scorza e violentarla e forzarla,<br />

finché scoppiasse, e mettere il collo di fuori, e insomma nascere.<br />

Come quando, per dire, nell’uovo della gallina tanto<br />

preme e dà di becco il pulcino prigioniero, che si apre alla fine<br />

un varco per venire alla luce. E lo sentiva crescere nelle viscere<br />

sue, nutrirsi della sostanza sua, succhiare il sangue suo.<br />

Per una specie di esasperata trasposizione, lui press’a poco<br />

così sentiva.<br />

Verrà, verrà, si ripeteva con forza. E in questo grido muto<br />

– implorazione o comando che fosse – ogni speranza, fiducia,<br />

illusione era quagliata e rappresa. In questo sintetizzati<br />

e coagulati i giorni – pena e amore – spesi a spingere tenacemente<br />

dietro l’aratro, centocinquanta e passa moggia mica<br />

un imbuto di terra da grano, e le sole sue braccia, le sole sue<br />

gambe, le sole sue reni per aiuto, e per consòlo lo sputo sulle<br />

mani, che gli sembrava friggesse al contatto della pelle, da<br />

tanto che gli bruciavano. Voglia di lavorare ne avete, compare<br />

Cinus? Così voi siate arrostito, compare Pòrcina, fatto salvo<br />

il San Giovanni: questo che vedete qua intorno cos’è, cacca<br />

di pecora?<br />

Giunto alla quercia sostò, ancora si guardò intorno, infine<br />

invertì la marcia e prese a percorrere in senso inverso e ancor<br />

più lentamente il cammino già fatto. Siccome ora saliva,<br />

alzava ogni tanto lo sguardo al cielo. Sgombravano ormai le<br />

nuvole, fattesi aeree e chiare, fuggendo verso levante. Cavalleria<br />

leggera. Ricompariva anche il sole, intatto, e rideva. Restava<br />

tuttora da consumarsi buona parte del giorno. E come il<br />

sole rompeva dai cirri e con le dita toccava, come un pianista,<br />

le cose, il mondo tornava nuovo, raccomodato e splendente.<br />

34<br />

Fieli Pòrcina, di lì a giorni, tornava, come aveva promesso.<br />

In calessino, questa volta. <strong>Il</strong> cavallo baio che lo tirava,<br />

balzano a quattro con stella bianca in fronte, suonava<br />

tutto di bubboli come i tamburelli dei giocolieri. E il veicolo,<br />

poi. Rossi i raggi delle ruote e la gondola, azzurri invece<br />

i cerchi, i profilati e i cuscini. Sulla strada di Serri, e poi sul<br />

raccordo sconnesso che mena alla fattoria, sembrava stesse<br />

passando il cocchio di Nostra Signora di Monserrato, con<br />

tutto quello scintillio.<br />

Arrivava alla casa, chiamava:<br />

«Ohè, gente, oh! Non c’è nessuno, qui? Tutti morti?».<br />

La voce gli usciva ilare, rimbalzava gaiamente sulla facciata.<br />

Prima apparve sulla soglia della cucina la faccia canina<br />

di Momo. Lampu e Tronu, rimasti chiusi nella corte, si sgolavano<br />

di abbaiare.<br />

Gesù, si disse a quella vista il visitatore, ora abbaia anche<br />

questo. E a voce alta, rivolto in su, ridomandava:<br />

«C’è nessuno?».<br />

Pasqua infine si affacciò, che rigovernava le stanze di sopra:<br />

«Oh, Fieli Pòrcina» disse «bentornato!».<br />

«Ben trovata, Vostra Mercé» il giovane disse dal basso, inchinandosi.<br />

E ripeté per la terza volta: «C’è nessuno? Dico:<br />

nessuno oltre Sua Grazia?».<br />

La ragazza, confusa, disse: «C’è Momo» e accennava di<br />

sotto. Aggiunse, poi: «Mamma è via, andata per spese a<br />

Serri, e ba’ e ’Ntoni con le bestie in parte di sole. Mi spiace.<br />

Non credo che… Non vi fermate, vero?».<br />

<strong>Il</strong> suo dilemma: se essere, come è prescritto, “entrante”<br />

con l’ospite, dacché l’ospite è sacro; o se, non essendo consentito<br />

a una “vergine”, sola in casa, intrattenersi con un forestiero,<br />

dovesse congedarlo. In un caso come nell’altro una<br />

delle regole risultava per forza violata. Come proponendo a<br />

se stessa una soluzione intermedia, tornò perciò a dire:<br />

«C’è Momo».<br />

«Ho inteso, sì» disse l’ospite. «C’è Momo». Né poté<br />

trattenersi dall’aggiungere sottovoce: «Ma c’è anche questa<br />

grazia di Dio che sei tu, se Dio vuole».<br />

35


Nessuno tranne lei e Momo, ripeteva intanto a se stesso.<br />

Lei e Momo, hai detto poco. Lei lassù, fresca come il mattino<br />

(quanti anni avrà? Diciassette? Macché, anche meno.<br />

Però, Dio la consoli) fuoruscente dal davanzale con quelle<br />

cose, con quel po’ di (macché diciassette: venti, ne mostra);<br />

e questo qua, mamma mia, che non sai se è cristiano o se è<br />

cane. Ma come fanno a essere parenti, fratello e sorella, è<br />

possibile? Non sarà che Mariangela Siddi, alle volte, in tempo<br />

di calura, sonnecchiando all’aperto, se l’è vista col Maligno,<br />

incarnatosi apposta in cane per usarle le sue attenzioni?<br />

«Sì che resto, se si può» disse a voce alta, torcendo gli occhi<br />

da Momo e ancorandoli per loro gioia lassù, a quel po’<br />

di, che sopravanzava dal davanzale.<br />

«Scendo» lei disse allora. Ma già nello scendere si pentiva<br />

di averlo in questo modo incoraggiato a restare. Inutilmente<br />

si ridiceva c’è Momo, si sentiva lo stesso a disagio.<br />

Scesa che fu, tolse di peso Momo dalla soglia dov’era<br />

ancorato e venne avanti reggendolo sotto le ascelle e tenendolo<br />

innanzi a sé, come il più strano dei paraventi.<br />

Lui, l’ospite, era tuttora nel carrozzino, quella cosa rutilante<br />

che sembrava pigliasse fuoco, così acceso ne era il colore.<br />

(Nanni Pòrcina, chissà, l’aveva tenuto in rimessa tutto il<br />

tempo della sua assenza; e solo adesso, ripassato a pennellino,<br />

l’aveva fatto tirare fuori). Un’ombra, tra di corruccio e di riso,<br />

passò sul suo volto, quando la vide avanzare facendosi scudo<br />

di Momo e gli parve intuirne l’ingenuo perché. E pronto il<br />

sangue Angotzi gli suggerì la pensata. Balzò a terra agilmente,<br />

tolse Momo dalle mani della ragazza – che interdetta, lasciò<br />

fare – e venne e lo collocò bello bello sul carrozzino.<br />

«Op-là» fece, adagiandolo sui cuscini e spazzolandosi<br />

poi le mani: «Ecco fatto».<br />

Lo aveva trasportato, si può dire, in punta di dita, come<br />

se dovesse mutar di posto a una cosa, o straordinariamente<br />

di pregio, o del tutto schifosa. E adesso, a operazione finita,<br />

si spolverava le mani.<br />

«Qui starà a meraviglia» disse convinto.<br />

Momo, a dire il vero, nella breve traslazione, viaggiando<br />

così a mezz’aria, aveva alquanto springato di gambe e uggiolato<br />

a significare che no, no, non voleva essere strappato<br />

36<br />

dalle mani di Pasqua. Ma quando fu, con ogni circospezione,<br />

depositato sul carrozzino, d’incanto si placò, ipnotizzati<br />

i suoi occhi e frastornata l’anima da tutta quella festa e novità<br />

che facevano i colori, le gale, i fiocchi, i finimenti, il<br />

supporto per le guide, il pozzetto per il manico della frusta,<br />

la frusta, i fanali e specialmente quel suonare, drrinn, di tutti<br />

i bubboli del cavallo, ogni volta che l’animale scuoteva il<br />

collo o scalciava o anche soltanto aveva quei tremiti della<br />

pelle che servono ai cavalli per scacciare i tafani.<br />

Si era volto frattanto Fieli Pòrcina a Pasqua, rimasta lì<br />

impalata senza dire una sillaba, le braccia penzoloni, le mani<br />

riunite all’altezza del grembo e, con la stessa leziosa galanteria<br />

di poco anzi, burlesca e confidenziale a un tempo, le fece<br />

la riverenza (era senza cappello, stavolta) e disse di nuovo,<br />

spagnoleggiando:<br />

«Vostra Mercé!».<br />

Questo appellativo “Vostra Mercé” l’usano ancora, laggiù,<br />

specie la gente anziana, rivolgendosi a persone di riguardo:<br />

e, in realtà, per come suona correntemente nella parlata<br />

rustica, deformato da una specie di crasi o impasto di consonanti,<br />

a un orecchio non troppo esperto potrebbe oggimai<br />

suonare come qualcosa di molto simile a “Sua Maestà”.<br />

E era appunto così che a lei si rivolgeva in questo momento<br />

Fieli Pòrcina. A lei, così vestita da casa, col davantaglio<br />

da casa e in zoccoli di ginepro, lui azzimato e lustro,<br />

smontato appena dalla carrozza lucente. Buffamente le s’inchinava<br />

e la riveriva a quel modo: “Sua Maestà”.<br />

Sua Maestà Pasqua Cinus, dal canto suo, ancora tutta<br />

sbigottita, altro non seppe rispondere se non:<br />

«Serva vostra» dicendolo tuttavia – deve essere attestato<br />

– con tanta ingenua grazia titubanza e delicatezza che parve<br />

davvero, alla fine, regale degnazione.<br />

Né lei andò più in là di questo, nei convenevoli. Né in<br />

altro. Stava lì a osservarlo, non sapeva che dire e che fare.<br />

Fece e disse in compenso tutto lui.<br />

Andò e pigliò prima di tutto uno scanno, lo collocò vicino<br />

a lei e fece in modo che, volere o no, si sedesse. Poi sedette<br />

a sua volta, issandosi con uno scatto agile sul muretto del<br />

pozzo.<br />

37


«Ah, si sta bene qui» disse come preambolo.<br />

Per creanza lei convenne con un cenno del capo che sì,<br />

si stava bene. Personalmente, tuttavia, era ancora sulle spine.<br />

Faceva bene o male a restarsene qui con lui? Tanto più che<br />

lui magari le avrebbe tornato a dire la frase dell’altra volta:<br />

sei diventata uno splendore. O qualcosa di simile. E temeva.<br />

E non sapeva con precisione cosa temesse: se la frase, o lui,<br />

o se stessa.<br />

Viceversa lui non disse cose del genere. (Le pensava,<br />

però, mentre parlava d’altro. <strong>Il</strong> pensiero, come lo sguardo, si<br />

dissociavano da ciò che diceva. La persona di lei, il viso, i<br />

fianchi, il busto. Quel po’ di. Cristo se è fatta bene. Chissà se.<br />

Quanti anni avrà? Sarebbe come tornare a mangiare pane di<br />

casa. È donna del mio paese, della mia razza, un gusto ormai<br />

perduto. E può darsi che batti e batti. Ah, bah, all’inferno).<br />

Parlava di sé. Con leggerezza e quasi con allegria. Tornato<br />

dalla guerra, già. Oh sì, appena tornato erano solo pochi<br />

giorni quand’era stato qui la prima volta. Be’, proprio dalla<br />

guerra no, quella era finita da un pezzo, ma lui era stato fatto<br />

prigioniero, a un certo punto, così era stato portato lontano<br />

e aveva poi dovuto aspettare il suo turno. Per giunta<br />

l’avevano dato disperso, insomma non sapevano neppure i<br />

comandi se fosse morto o scampato. La guerra? Eh, meglio<br />

non parlarne. Camminare spostarsi avere fame sete freddo<br />

caldo e la mala ventura. Sparare anche, certo, e uccidere occorrendo,<br />

perché no? Se non uccidi ti uccidono, cosa credeva?<br />

In nessun posto come in guerra uno si fa l’idea di quello<br />

che è veramente la vita. Prendimi che ti prendo, mangiami<br />

che ti mangio, e chi ha più forza o furbizia o fortuna l’ha<br />

vinta, così è la vita. Poi le stellette, puah. Ti pigliano di qui e<br />

ti mettono là, come una coffa di letame che bella bellezza.<br />

In compenso lo avevano fatto girare molto, e sempre gratis,<br />

questo sì, treni piroscafi autocarri automobili e anche il cavallo<br />

di San Francesco naturalmente, tutto senza pagare, regalato,<br />

gratis.<br />

E qui, vedendo che lei l’ascoltava silenziosa ma attenta e<br />

come rapita, citava nomi di luoghi lontani, sconosciuti, difficili.<br />

Riferiva episodi, rappresentava scene, mimava persone.<br />

Eh? Che ne diceva lei, eh?<br />

38<br />

Poi tornava a se stesso. Sapeva lei, Pasqua Cinus, quanti<br />

anni lui aveva quando era partito soldato?<br />

Anzi lui, propriamente, diceva partito “a servire il re”, secondo<br />

l’espressione ancora in uso laggiù. Ma qui occorreva<br />

spiegare che, però, nel frattempo, il re non c’era più, era stato<br />

più o meno licenziato, qualcosa di non troppo diverso da<br />

quando Nanni Pòrcina suo padre aveva licenziato a capodanno<br />

’Eppi Trastus il fittavolo precedente. <strong>Il</strong> re? Licenziare<br />

il re? Ma com’era possibile? Era la prima domanda che lei<br />

poneva così espressa. E lui a chiarire che, eppure, era proprio<br />

così, anche per i re delle volte viene il momento di “voltare”.<br />

Dunque sapeva quanti anni aveva a quel tempo? Venti<br />

neppure compiuti. E ora, invece, sapeva quanti? Sei di più,<br />

sei, capito? Sei anni della sua vita che invece se li era appropriati<br />

il governo, e in che modo se li era appropriati, e per<br />

cosa, poi. E doveva dire anche grazie che era tornato, mica<br />

tutti erano lì a raccontarla. E tutto questo cosa voleva dire?<br />

Voleva dire che basta, per lui, dopo questa esperienza. Basta<br />

con guerre vittorie sconfitte basta con tutto. Andassero gli altri<br />

la prossima volta a farsele, le guerre. Lui per suo conto, da<br />

qui in avanti, una sola cosa voleva fare, sapeva lei cosa? No,<br />

cosa? Vivere!, santo cielo. Vivere come gli pareva e piaceva.<br />

Si era venuto accalorando, nel dire questo. O meglio si<br />

era caricato di una collera repressa che traspariva dagli occhi,<br />

anche se il tono restava scanzonato. Le fatiche affrontate, i<br />

rischi corsi, le privazioni sofferte, le paure, l’obbedienza, le<br />

umiliazioni, il graduato inglese che gli diceva “son of a bitch”<br />

e altro e altro e altro. E a che scopo? Ma, soprattutto, il furto<br />

che gli pareva di aver patito. Anni della sua vita che gli<br />

erano stati rubati, usurpati, e con che diritto? E tutto ciò<br />

che con essi era andato perduto: le gioie le feste gli amici le<br />

donne. Certo, sì, anche le donne. Come questa per esempio<br />

la piccola Cinus guarda che roba. Chissà che sapore. Ah<br />

Cristo, e in nome di chi, di che? No, no, aveva accumulato<br />

verso la vita un credito che hai voglia a pagare. E lui, non<br />

c’era santi, voleva rifarsi. <strong>Il</strong> perduto è perduto, è vero, ma di<br />

qualcosa ci si può sempre rifare. E così sarebbe stato, perdio.<br />

Ne aveva il diritto, Cristo, il diritto.<br />

39


Queste cose però le pensava soltanto, non le diceva.<br />

Dire, diceva piuttosto che aveva voglia di vivere. E Pasqua,<br />

toccata dalle parole e ignara dei pensieri, esclamava impietosita:<br />

«Poverino». Che in lingua nostra, in verità, suona diverso:<br />

si dice con una parola nella quale in qualche modo,<br />

non so perché, entra un’idea di oscuro, di buio.<br />

«Ah, bah» lui concludeva «lasciamo perdere». Dopo<br />

tutto, tantissimi come lui. E tantissimi peggio ancora, anche<br />

se è vero che ognuno prega solo il suo santo. In fin dei<br />

conti era tornato, con tutte le ossa a posto, e eccolo in questo<br />

momento occupato a conversare piacevolmente con<br />

una bella ragazza.<br />

Qui Pasqua trasalì e parve non ritrovarsi. Era stata con<br />

lui alla guerra, poi in prigionia; aveva vagabondato per tutti<br />

i luoghi toccati dal suo racconto, lontani e misteriosi, da<br />

dubitare che realmente esistessero. Ma adesso, bruscamente,<br />

l’accenno galante alla sua persona la faceva approdare alle<br />

rive di se stessa. Bella ragazza? Oh!<br />

Era venuta ascoltandolo tutto quel tempo in uno stato<br />

di incantata meraviglia. La figura di lui, il suo fare, i modi<br />

stessi del suo parlare – quell’accento curioso che egli dava al<br />

dialetto, mettendovi, a causa della lunga assenza, un che di<br />

esitante e quasi di straniero – la ponevano in soggezione nel<br />

significato pieno della parola: la soggiogavano. Nulla di simile<br />

le era mai accaduto prima. Né sapeva da che cosa questo<br />

fosse, né come e perché. Dipendeva dalle cose che lui diceva?<br />

Abituata ai discorsi dei familiari, dei bastanti, della<br />

gente della sua condizione; adusa alle frasi fatte, alle cose risapute,<br />

ai pensieri ovvii (eccetto qualche segreta temeraria<br />

sortita della sua immaginazione, in momenti particolari); assuefatta<br />

a considerare il mondo entro i confini geografici<br />

delle colline di Serri o, fino all’anno prima, dei monti di Baronia:<br />

legata insomma al suo ambiente come la civetta al<br />

trespolo nelle case delle fattucchiere; questo parlare del giovane<br />

di cose così inconsuete, questo slargo improvviso degli<br />

orizzonti, e la strana parlata, e il passare bizzarro di lui dall’umor<br />

lieto all’umor nero e viceversa; e il timbro, ancora,<br />

della voce, e chissà che altro, esercitavano su di lei il fascino<br />

40<br />

delle cose nuove e inattese. Ma era forse nella persona di lui<br />

come tale che s’incentrava il motivo dell’attrazione. Lui per<br />

sé. Lui in quanto “diverso”. Era sì, il figlio di Nanni Pòrcina,<br />

figlio del suo padrino, suo fratello in religione. Ma arrivava<br />

dalla luna, più ancora che dai paesi che aveva nominati.<br />

E recava con sé, aveva in sé, lei non sapeva che forza e<br />

che seduzione. Non era come i giovani da lei conosciuti sin<br />

qui, fatti tutti su una misura che poteva comprendere. Era,<br />

a un tempo, presente e ignoto, leggibile e inaccessibile, vicino<br />

da potersi toccare e insieme come veduto da miglia di<br />

lontananza.<br />

Sicuramente inoltre emanava da lui qualche cosa (ma<br />

cosa?) d’impreveduto e mutevole, era come se rivelasse una<br />

natura violenta e dolce, contraddittoria, sorprendente, cattivante.<br />

E poi c’era anche che aveva fatto la guerra. Anche<br />

questo gli conferiva, agli occhi di lei, una sorta di alone. Lui<br />

adesso ne parlava quasi con sufficienza e fastidio a motivo di<br />

quello che vi aveva patito, poverino; ma certo, al momento<br />

giusto, si era portato con valore e coraggio. La guerra, secondo<br />

lei, era qualcosa che per se stessa glorifica.<br />

Così press’a poco lei si rappresentava la figura di lui. Ma<br />

quanto alle reazioni sue proprie e più intime, non le era facile<br />

gettare lo scandaglio e toccare il fondo. Troppo lungo il<br />

collo del pozzo, e troppo alta l’acqua. Più che un sentimento<br />

(e quale?) erano moti confusi quelli che avvertiva. Quando<br />

lui la osservava – e altro in verità non faceva da quando<br />

era lì – e avveniva che lo sguardo di lui si urtasse nelle iridi<br />

scure di lei – che era più raro – una sensazione indefinibile<br />

si comunicava al suo essere. Si sarebbe detto un freddo improvviso<br />

o una paura. Perché, sebbene impercettibilmente,<br />

ma proprio fisicamente, lei avvertiva dei brividi. Solo che<br />

questi, poi, non restavano un fatto esterno, penetravano anche<br />

dentro, si comunicavano all’anima, giù nel profondo,<br />

proprio la polpa dell’anima, suscitando, là, sconosciuti, risonanze,<br />

echi, languori, e un indefinibile bisogno di tenerezza.<br />

Qui del resto ogni suo sforzo di comprensione si afflosciava<br />

e la vela sbatteva. In queste inconsuete avventurose<br />

immersioni in se stessa, era come un palombaro al quale a<br />

41


un bel momento non arrivi più aria: annaspava, si smarriva,<br />

doveva per forza tornare a galla. Ma questo è il punto. Aveva<br />

sì o no intravisto, frugando nel fondo, il luccichio del metallo,<br />

la cassa scoperchiata piena di gemme e monete d’oro?<br />

Momo, sul carrozzino, continuava a viaggiare per strade<br />

fatate e prati azzurri. Aveva anche cessato di mugolare e di<br />

mordersi il polso, e neppure sbavava molto, sebbene fosse<br />

questo in lui il segno di una grande eccitazione. Si sentiva<br />

barone gnomo staffiere del re principe delle yanas, ricreava la<br />

sua fantasia tutte le immagini delle fiabe ascoltate dalla bocca<br />

di Pasqua. Partendo da quel fenomenale trastullo che era<br />

il calesse, e libero finalmente di toccare quel che volesse –<br />

poiché quei due, Pasqua e l’altro, non mostravano certo di<br />

interessarsi soverchiamente a lui – poteva sognare a suo agio,<br />

uscire per una volta dalla prigione di se stesso. Gli bastava<br />

dondolarsi al molleggio delle balestre, e subito era uno che<br />

correva, volava, frustava il cavallo, largo, largo, passa la carrozza<br />

del re. O che il cavallo scalciasse, e suonassero i bubboli:<br />

lui trasaliva, bisognava frenare, afferrarsi alle guide, troppo<br />

scapicollata si faceva la corsa.<br />

Tutto questo interruppe (e interruppe ad un tempo il<br />

colloquio fra Pasqua e l’ospite) l’arrivo di Mariangela Siddi.<br />

Per Momo, ahimè, fu la fine del viaggio.<br />

Accortosi di lei ai guaiti di Momo – il quale, infatti,<br />

scorta la madre e volendo che questa capisse quanto lui si<br />

sentiva felice, aveva ripreso a uggiolare – Raffieli Pòrcina<br />

balzò in piedi e fu pronto a riverirla:<br />

«Servo vostro, Mariangela Siddi» disse cerimonioso.<br />

«Oh voi, Fieli Pòrcina» disse la donna «buongiorno a<br />

voi. È molto che siete qui?».<br />

Lui avvertì una punta di preoccupazione riguardo a Pasqua,<br />

in questa frase pur detta come per buona creanza e rispose:<br />

«Oh no, sono appena arrivato. Un minuto solo prima<br />

di voi». E aggiunse con intenzione: «Non abbiate timore».<br />

Mariangela corse da Momo e, incurante del suo recalcitrare,<br />

ma anche come davvero, lei sì, avesse a che fare con<br />

42<br />

cosa preziosa, tolse Momo dal calessino e lo ricollocò con<br />

delicatezza per terra.<br />

Pasqua, sorta in piedi anche lei, stava lì senza parlare né<br />

muoversi, come chiamata a scolparsi. Congiunti i polsi all’altezza<br />

del grembo: l’aspetto dell’ecce homo.<br />

La madre la fissò, parve voler dire qualcosa, non disse<br />

nulla, si volse invece a Raffieli Pòrcina e, tanto per dire<br />

qualcosa disse con noncuranza:<br />

«Avete visto che le vostre profezie erano avventate?».<br />

Cascò dalle nuvole:<br />

«Profezie?» domandò.<br />

«Dicevate» disse Mariangela Siddi «che l’acqua non sarebbe<br />

venuta, invece avete visto, è venuta, con l’aiuto di<br />

Dio».<br />

«Ah» esclamò. «Già, l’acqua. Certo, certo, è venuta, altro<br />

che, ringraziamone Dio».<br />

La donna gli chiese se si trattenesse.<br />

«No, vado» rispose. «Ero solo di passata e volevo vedere<br />

di nuovo, ma di giorno e con comodo, questa gran meraviglia<br />

messa su da Giuanni Cinus. Ah, meraviglia, parola mia».<br />

<strong>Il</strong> tono, scanzonato com’era, era malizioso. Alludeva al<br />

possesso oppure alla figlia? Ma Mariangela Siddi non era<br />

Pasqua e riprese:<br />

«Meraviglia davvero, padrone mio, è costata sangue. E<br />

non potete credere quanto Giuanni Cinus ne sia geloso.<br />

Uno che venisse, Dio non voglia, a fare guasti, state certo<br />

che Giuanni Cinus saprebbe come trattarlo, il giorno che<br />

lo cogliesse sul fatto».<br />

<strong>Il</strong> giovane rise, afferrando l’intenzione. Malizia data,<br />

malizia resa. Mentre Pasqua, notò, tuttavia lì impalata, nulla<br />

coglieva di queste schermaglie. Tutta zucchero e niente sale,<br />

si disse ancora.<br />

Si avviò per andarsene:<br />

«Salutatemi a compare Cinus» disse «e ditegli a nome<br />

mio: abbondanza e fortuna come si merita. Statemi bene,<br />

Mariangela Siddi. Pasqua, madre mia, avrai detto sì e no sei<br />

parole, da quando sono arrivato. Posso almeno salutarti? State<br />

con Dio, addio».<br />

43


Montava, dava di voce al cavallo e partiva, reiterando<br />

cenni di commiato.<br />

<strong>Il</strong> carrozzino descrisse una conversione sul selciato, le<br />

ruote stridettero, i cani abbaiarono, ci fu una fuga di galline.<br />

Poi il cavallo mosse più svelto quelle sue zampe calzate di<br />

bianco, il sole s’impadronì di tutto quel fuoco dei raggi delle<br />

ruote, lo impastava e frullava, ne faceva una gaia girandola<br />

fiammea, che spiccava violentemente sul bianco della strada,<br />

il verde della macchia e il bruno dei campi arati.<br />

44<br />

IV<br />

IL VERDE SULLA COLLINA<br />

Uno più uno più uno più uno, senza fine. Migliaia di<br />

migliaia. Decine di migliaia di migliaia. E ciascuna piantina<br />

tre fili quattro fili magari più, corti tenerissimi come velluto,<br />

tutta una distesa una piantina di fila all’altra una sorta di<br />

uniforme ininterrotta pelurie verde. La collina si era messa<br />

la veste della domenica, fasciata le spalle e i fianchi di questo<br />

scialle verde, aderente e morbido. Signore Dio, ti ringrazio.<br />

Si chinava tra le zolle, accarezzava quel nulla vegetale, alto<br />

tre dita, che sbucava dalla terra, uno dei tanti: un ciuffettino<br />

di peli. Avrebbe voluto fargli riparo con le mani piegate<br />

a coppa, affinché il vento, il freddo, non lo aduggiassero.<br />

Ma uno; e gli altri?, le migliaia di altri?<br />

Continuava comunque a carponare sul terreno, sostare,<br />

alzarsi, tornare a chinarsi. Perdendosi nello stesso tempo nei<br />

vani pensieri, inesprimibili, che prendono l’uomo allorché<br />

si soffermi a osservare le piccole cose, i prodigi minuscoli, le<br />

cose insomma che tutti i giorni sono sotto gli occhi di tutti<br />

e alle quali per questo nessuno fa caso. Pensare: si seppellisce<br />

nella terra un seme, che è cosa secca, inerte e come morta.<br />

E invece qualcosa vive là dentro il seme, segretamente,<br />

nascostamente. Poi l’umido della terra mette in movimento<br />

questo qualcosa, il seme come tale si spappola e muore, ma<br />

la vita che è in lui preme con tutta la forza per venir fuori.<br />

E viene fuori difatti, e diventa pianta, destinata col tempo a<br />

produrre altri semi. E così il giro ricomincia. Morte vita vita<br />

morte, sempre così. La smania che ha la vita di dissolversi<br />

nella morte e l’orrore della morte conficcato in ogni vita.<br />

Chissà chi sa spiegarle, queste contraddizioni. E gli uomini,<br />

del resto? Forse diversi? Anche loro, gira e rigira, la stessa<br />

cosa: vita, morte, disgusto della vita, paura della morte. E il<br />

bisogno di tramandare la vita nei figli. Chissà perché. Grani<br />

di frumento, anche loro: semenza d’uomini. E come i semi<br />

45


succedersi, di pianta in pianta: generazioni e generazioni.<br />

Chissà da quando. Chissà fino a quando. E a che pro’ alla fine?<br />

Beato chi può saperlo.<br />

Sorto in piedi come se, col fatto di alzarsi, volesse davvero<br />

trarsi da questi vaneggiamenti, spingeva ora lo sguardo<br />

per tutto il possesso, quanto poteva con gli occhi abbracciarne.<br />

Srotolandosi lungo la china, la luce radente del sole toccava<br />

di sbieco l’erba, crepitava nella guazza notturna, infondeva<br />

in quel vello lieve, animandone indicibilmente il verde,<br />

una specie di ingenua esultanza, una felicità puerile.<br />

Così anche avveniva di quegli oggetti che Giuanni Cinus<br />

aveva costruiti e poi collocati qua e là per i campi: gli aeroplani,<br />

le banderuole, gli aquiloni. Come il vento li urtava, facendoli<br />

vibrare o girare, mettevano suono. E sia la vista (quel<br />

ruotare, quel torcersi, quello sbattere di code e di stracci) sia<br />

il suono (un ronzio monocorde, o un battere ritmico, e palpiti)<br />

risultavano gradevoli, aggiungevano anch’essi una loro<br />

nota di festa all’insieme del quadro.<br />

Ma foschi si intromettevano, spuntando a intervalli nell’ampio<br />

spazio, i tristi fagotti degli spauracchi. Impiccati o<br />

spenzolanti dai loro fittoni, o in questi infilzati e ischidionati;<br />

il tronco impettito e baldo, pieno di paglia e di crine, le gambe<br />

invece flosce, mence, stancamente sgambettanti; e le braccia<br />

crocefisse, spalancate e disperate; e infine, niente testa né<br />

piedi né mani; ebbene, essi no, non facevano festa, non mettevano<br />

nel quadro gaiezza. Anzi, con quell’aspetto grottesco<br />

di suppliziati, vi introducevano una strana nota di pena.<br />

Venendo poi via, il vecchio lemme lemme si incamminava<br />

per la strada carraia verso la fattoria. Passava sotto la quercia,<br />

abitata da uccelli. Ma né i frulli o i cinguettamenti di<br />

questi, né i fremiti delle foglie, valevano a distrarlo. Era là,<br />

sul seminato, con gli occhi e con l’anima, assorto. Custodiva<br />

come un ladro, assaporandolo adagio, il pensiero di quel miracolo:<br />

grano suo, viene, viene. Vi s’involgeva dentro, vi si<br />

crogiolava. Era la speranza che cominciava timidamente a pigliare<br />

spessore. E anche altro, era. <strong>Il</strong> rapporto suo con la terra,<br />

quel senso di comunione quasi fisica in cui si poneva con<br />

essa. Che era insieme, come già si notò, attaccamento e odio,<br />

46<br />

brama e rancore, amore, disperazione, rabbia, fornicazione.<br />

Qualcosa che veniva a lui non pure dagli anni della sua vita<br />

di escluso e di senza-terra, ma da più indietro ancora. Che gli<br />

era stato trasmesso dal padre, e dal padre del padre, e così via<br />

enumerando, una processione infinita. Uomini come lui diseredati<br />

eppure incatenati alla terra, legati a essa dallo stesso<br />

odio-amore. I quali, null’altro avendo da lasciare ai seguenti,<br />

questo retaggio almeno gli trasmettevano, come un contagio,<br />

attraverso il sangue. E questa era la sola cosa di loro che avesse<br />

ragione del tempo, rotolando nel tempo la cosa tramandata<br />

come una sfera di ferro inconsumabile. Io questo lascio a<br />

te in eredità e tu lo trasmetterai; e io a te; e io a te; e così di<br />

mano in mano dall’una all’altra generazione, come quando si<br />

doma un fuoco con secchi d’acqua, che si fa la catena.<br />

E lui era l’ennesimo, e per il momento ultimo anello<br />

della catena. Era quello che, nella grama persona sua, riassumeva<br />

una moltitudine.<br />

Perciò, ora, il fatto che questo grano fosse suo, generato<br />

da una terra in suo possesso, svegliava in lui quell’istinto, gli<br />

dava il gusto della rivincita, il piacere del valente che, ripetutamente<br />

respinto da una femmina aspra, l’ha infine messa giù<br />

e forzata e riempita, ha sfogato su di essa la lunga brama, ahah,<br />

portalo ora, in corpo l’hai, femmina mala, il seme mio.<br />

E non c’era dubbio: quant’era vasto il possesso, la terra<br />

mostrava bene la sua gravidanza.<br />

Era piovuto più volte, dopo quel primo acquazzone che<br />

si è descritto, e ancora piovve abbondantemente tutta la fine<br />

di novembre e i primi di dicembre. Fu questo che dette<br />

ancora slancio ai germogli. Una manna, per le speranze di<br />

Giuanni Cinus.<br />

Frattanto crollarono i tempi, con l’avvento di dicembre,<br />

e il freddo si fece sentire, portato dal grande vento.<br />

Dicembre si chiama, laggiù, “mese delle idi”, come interpretano<br />

i dotti, i quali da queste sopravvivenze linguistiche<br />

traggono volentieri motivo per disputare e almanaccare sui come<br />

e i perché di esse. Ma la gente comune non sa più nulla di<br />

cosa siano queste “idi” e pronunzia pertanto tranquillamente<br />

come se fosse – perché il suono assomiglia – “mese delle ire”.<br />

47


E non a torto: ire. Ci sono infatti realmente, le ire, in<br />

dicembre. Sono il maestrale, le bufere, le furie.<br />

<strong>Il</strong> maestrale, specialmente. Che non è aria che si muove,<br />

ma cavalli a galoppo, carri da guerra con lame alle ruote e<br />

voci, soprattutto in ora notturna: urla di guerrieri e pianto<br />

di donne, ululati di cani, gemiti di trapassati e forse la voce<br />

stessa, sconosciuta, di Dio. Delle volte, si può dire, intere<br />

mandrie di buoi affamati, assetati, assaliti da tafani, le femmine<br />

rese pazze dal tormento delle mammelle non munte,<br />

non eguaglierebbero, mugliando, il muglio di questo vento.<br />

Anche a Serri, come in tutte le terre volte al mare occidentale,<br />

puntualmente esso arrivò, coi giorni di dicembre.<br />

Invisibili arcieri scagliavano davanti a lui, come avanguardia<br />

d’assalto, sottilissime frecce acute come aghi. Sullo scrimine<br />

delle colline, ai confini del possesso, pruni e perastri, ginepri,<br />

pini marini, olivi selvatici, procombevano ginocchioni<br />

implorando misericordia. Li si può vedere da molte parti lì<br />

intorno, questi alberi, cresciuti nella lotta col maestrale. Li<br />

scorgi sulle alture, sghembi, o affatto prostrati, piegati i<br />

tronchi nella direzione opposta a quella donde il vento proviene,<br />

e le chiome gettate indietro, come tragiche prefiche.<br />

E anche le palme tendevano al cielo quelle loro mani dischiuse,<br />

deprecanti, come scongiurassero basta! Ma figurarsi.<br />

Basti dire, del maestrale, che non gli resistono neppure le<br />

rocce, sui fianchi delle colline, contro le quali difatti si avventa,<br />

e le rode e le scava, lavorandole a volte come groviera,<br />

e poi facendone attraverso tutti quei buchi, le sue ocarine.<br />

Anche nella tenuta dunque eccolo in giostra, il maestrale.<br />

Aggirava la collina, infilava il valloncello al di là della casa,<br />

sorprendeva questa alle spalle e le torneava sui fianchi,<br />

poi fuggiva e tornava, mulinando detriti e terra sull’enorme<br />

rondò dell’aia.<br />

Tuttavia, a parte il tenere i Cinus, se mai, il più possibile<br />

tappati in casa, non poteva neppure il maestrale nuocere veramente<br />

al grano, se non per l’aridità che importava alla terra.<br />

Troppo in erba le piantine, ancora, e poco alte dal suolo, per<br />

riceverne l’urto e patirne lo sgarbo. E anche quel secco che ne<br />

veniva al terreno, dopo tutto il piovuto, era solo della crosta,<br />

non del profondo. Lavoro per l’erpice, non danno grande.<br />

48<br />

Piogge e vento si sarebbe detto tenessero Fieli Pòrcina<br />

lontano da Serri, dove non si faceva vedere ormai da un pezzo.<br />

Ma eccolo ricapitare a metà dicembre, ancora col calessino<br />

e, questa volta, in compagnia del padre.<br />

Ma di volo, così almeno dissero. Non volevano neppure<br />

scendere, erano in viaggio per Tula, era stato compare Pòrcina<br />

a ordinare di dirottare, voleva fare, disse, un saluto al compare<br />

e alla famiglia, e al tempo stesso vedere coi propri occhi<br />

questa famosa seminagione di Serri della quale già si contavano<br />

e cantavano le meraviglie.<br />

Le accoglienze – oh, che bella sorpresa, ma come mai,<br />

quale buon vento e così via – furono espansive e cordiali alla<br />

fattoria, come del resto era nell’indole del padrone di casa e<br />

dei suoi. Mobilitati tutti i Cinus, compreso Momo, nessuna<br />

più grande occasione. Pasqua mandata alla corte perché togliesse<br />

“un quanto d’uova”, se gli ospiti al caso gradissero<br />

“mordicchiare” qualcosa. ’Ntoni spedito in legnaia a recar<br />

ceppi da alimentare il camino. Momo commesso a tenere<br />

chetati i cani, come imparentato con loro. E Mariangela Siddi,<br />

lei, intenta a farsi in quattro per compiacere agli ospiti;<br />

che poi, nella propria concitazione per la visita inattesa del<br />

“padrone magno”, come lei continuava a chiamare compare<br />

Pòrcina, teneva frattanto in piedi, girandogli intorno indaffarata,<br />

smuovendo sedie, approntando tovaglie e stoviglie,<br />

senza risolversi a dirgli sedete dunque. E infine lui, Giuanni<br />

Cinus, che, tronfio come un tacchino per le lodi che riceveva<br />

(«Ho visto quello che avete fatto e mi compiaccio altamente»<br />

diceva Nanni Pòrcina. «Siete di scorza dura, voi,<br />

compare») pareva perfino più sciolto nei rapporti con il<br />

compare. Pareva anzi che il petto, per un gioco di reni e scapole,<br />

gli sporgesse più in fuori del solito e che il torace – detto<br />

altrimenti il casso – introitasse più aria.<br />

Nella confusione, frattanto, Fieli Pòrcina ebbe modo<br />

d’essere solo con Pasqua: nell’atto che lei usciva dalla corte<br />

dove appunto era andata per uova, lui essendo venuto fuori<br />

a sua volta per governare il cavallo.<br />

Scorgendola le venne incontro:<br />

«Pasqua» esclamò «sorella mia!». E fece un gesto che<br />

non fu chiaro a nessuno. Come volesse, chi sa, abbracciarla.<br />

49


O afferrarla per la vita e alzarla di peso, insomma cose così,<br />

tutte da stimarsi, come si vede, sconsiderate, ma dove siamo?<br />

E infatti lei si guardò, gesummaria, dal fare un passo,<br />

un moto qualsiasi che fosse per apparire consentaneo. <strong>Il</strong> gesto<br />

perciò di lui non fu <strong>raccolto</strong>. Ma le parole, e l’intenzione,<br />

e diciamo l’essenza del gesto, quelle le intese e le accolse<br />

e fece per parte sua ciò che forse era ugualmente contro le<br />

regole: gli sorrise. Gli occhi, che aveva cupi e abitualmente<br />

severi, rivelarono con la sorpresa un’allegrezza improvvisa e<br />

flagrante.<br />

«Come sei bella!» lui disse, quasi sottovoce.<br />

«Oh» disse lei. «Oooh!».<br />

E non più che questo. Ma il volto le si atteggiò (non fu<br />

ben chiaro se lui se ne accorse, probabilmente non se ne accorse)<br />

come cosa che viene offerta. Un po’ di rossore le salì<br />

alle guance, la bocca ebbe un breve tremito, gli occhi impauriti<br />

ingrandirono. Per un momento, lei tutta quanta così<br />

deditizia, fu dono. Ma lui, che peccato, probabilmente non<br />

se ne accorse.<br />

Del resto fu cosa di istanti. A capo dei quali, un niente,<br />

non fu più. Né ci fu altro. Lei che già stava rientrando in casa,<br />

varcò la soglia e scomparve. E lui, spicciatosi col cavallo,<br />

finì per seguirla.<br />

Eppure da qualche parte rimase scritto che questo era accaduto,<br />

e per quanto si avesse cura, dopo, di cancellare e<br />

strofinare, il segno affiorava sempre, chiaro e strano, sul nero<br />

della lavagna.<br />

Oppure se ne accorse?<br />

Infatti fu proprio lui che, nel corso di quella stessa visita,<br />

al momento dei commiati, lanciò all’improvviso l’idea.<br />

«Compare Cinus, che ne dite? Se siete d’accordo, la notte<br />

del Bambino vengo col carro grande vi carico tutti e vi<br />

porto in chiesa a Serri, a pregare Dio. Eh, che ne dite?».<br />

Per modo che vi fu, giorni dopo, questa cosa straordinaria,<br />

di un viaggio in carro dell’intera famiglia Cinus (con<br />

Fieli Pòrcina come cocchiere) alla volta di Serri. Nel cuore,<br />

come suol dirsi, della notte.<br />

<strong>Il</strong> carro grande è di quelli col tetto di incannato a volta<br />

50<br />

di bovida, ha ruote alte e è tirato da un cavallo. È il carrettone,<br />

come anche dicono.<br />

A cassetta, con Fieli Pòrcina, ha preso posto Giuanni<br />

Cinus, chiuso nel suo mantello di orbace come in un abito<br />

sacerdotale. Le donne e i ragazzi invece dentro, al riparo del<br />

tetto.<br />

Avanti, hjuuh, si va, dopo ultimati i preparativi. Da<br />

quando è arrivato alla fattoria, che era già notte, Fieli Pòrcina<br />

è stato premuroso e faccendiero al di là del pensabile. Si<br />

è occupato di tutto: delle coperte, di Momo, dei lumini,<br />

dei pani dolci per l’offerta e perfino di far prendere uno<br />

scialle pesante a Mariangela Siddi, inquantoché la notte è<br />

calma, dice, ma gelida e traditora. E eccolo ora nella parte<br />

di auriga, che mai Nanni Pòrcina stesso ebbe carrettiere più<br />

coscienzioso.<br />

Per la strada di Serri, dal fondo alterno, il cavallo procede<br />

al passo. Stridono i cerchioni di ferro delle ruote contro<br />

i sassi e il pietrisco, poi di colpo ammutoliscono, il fondo è<br />

diventato argilloso o sabbioso, si odono soltanto le sonagliere<br />

del cavallo e, a tratti, il cigolio dei mozzi delle ruote<br />

attorno all’assale, che danno suoni simili a gemiti.<br />

’Ntoni e Momo, tutti eccitati per questo insolito viaggio<br />

notturno, se ne stanno rannicchiati gomito a gomito<br />

contro la mastra posteriore, come affacciati a un balcone, a<br />

osservare la notte. Giungono loro, nei momenti in cui le<br />

ruote “fanno tela” nella sabbia, le voci pacate dei due che,<br />

dall’altra parte del carro, andando andando, ragionano tra<br />

loro. Loro invece non parlano; solo a intervalli lunghissimi<br />

’Ntoni sussurra qualcosa all’orecchio di Momo. E neanche<br />

le donne, rannicchiate all’interno, parlano: Mariangela Siddi<br />

sta recitando il rosario.<br />

I due ragazzi sono incantati di ciò che vedono. La notte<br />

è opalescente, anche se illune. Nel baratro del cielo, se alzi lo<br />

sguardo in su, si vedono ardere manciate di stelle, tutte immobili<br />

là dove sono, nonostante il loro assiduo arcano ammiccamento.<br />

Invece giù in terra, ai lati e dietro e tutto intorno<br />

fin dove giunge lo sguardo, è tutto nero, e su questo nero<br />

si disegnano, in un nero ancora più intenso, forme che non<br />

si sa veramente se sono alberi, fichidindia, rocce, oppure<br />

51


fantasmi, o mostri lì accovacciati e aspettanti. È misteriosa,<br />

la notte; anche Momo ne è affascinato, al punto che neppure<br />

guaisce.<br />

A un certo punto ’Ntoni gli spiega che, se si chiudono<br />

gli occhi, il carro sembra che invece di andare avanti cammini<br />

indietro, proprio così, prova e vedrai. E Momo prova,<br />

ed è vero, chissà com’è possibile.<br />

E intanto la madre. Le avemarie che si srotolano. I misteri<br />

gaudiosi, i dolorosi, i gloriosi. Lei prega in dialetto, come<br />

sempre ha fatto: “Deus ti salvet, Maria, plena de gratia”.<br />

Le labbra danno un suono leggero di schiocchi, come un<br />

sommesso lappare. “Benedicta ses tu intra tot’is feminas”. È<br />

già passata, di ave in ave, attraverso le fasi, ineffabili, dell’Annunzio<br />

alla Vergine, della Visita a Santa Elisabetta, della<br />

Nascita, della Presentazione, dello Smarrimento e successivo<br />

gioioso Ritrovamento. Sono questi i misteri “gaudiosi”.<br />

Adesso sta percorrendo, sempre a ritmo di avemarie, le tappe<br />

susseguenti, il rovescio della medaglia, prezzo e espiazione<br />

del gaudio. Sono i misteri “dolorosi”. E in questi si contempla<br />

il Getsemani, la Flagellazione, il Calvario, la Nona<br />

Ora, il Sepolcro; è ben diverso. E per quanto meccanica sia<br />

la preghiera, e assai teorica la “contemplazione” dei misteri,<br />

coglie lei, forse, a tratti, il senso ch’essi racchiudono. <strong>Il</strong> tempo<br />

delle Sette Spade. La tragedia del Figlio come occasione e<br />

cagione del dramma della Madre. <strong>Il</strong> Figlio come porzione di<br />

sé, come frutto. “Benedictus est su fructu de is intrangias<br />

tuas”. La versione dialettale è realistica, quasi brutale. Frutto<br />

del seno? Macché: delle viscere, delle entraglie. Linguaggio<br />

da allevatori di ovini.<br />

Ma il suo pensiero si dissipa, di tanto in tanto, scappa<br />

su altri oggetti, pur senza abbandonare del tutto il filo dei<br />

“misteri”. Simile all’ape che va, torna, rivà, esegue quella sua<br />

danza piena di cerchi titubanze assaggi e fughe, sul grande<br />

enorme fiore, vastissimo per un’ape, del girasole.<br />

L’assaggio, prima. Perché no, dopo tutto? Le buone disposizioni<br />

si possono rivelare da un nulla, per esempio questa<br />

premura di venire a prenderci per portarci alla Messa. Le titubanze.<br />

Altrimenti, perché? La fuga. Ma va’, va’, queste sono<br />

illusioni. Magari lui pensa a altro e chissà quante altre<br />

52<br />

donne avrà già attorno: senza parlare della famiglia. <strong>Il</strong> cauto<br />

riaccostamento. Ma allora perché? <strong>Il</strong> nuovo assaggio, prolungata<br />

suzione. Certo, però, i giovani d’oggi non sono come un<br />

tempo. Fanno, disfanno, s’innamorano per conto loro, senza<br />

curarsi dei genitori. Può darsi che anche lui sia così, che ne<br />

sappiamo. Anzi, è così senz’altro. Del resto a giudicare da come<br />

la guarda, lasciami dire. Non sarò nata ieri, io. Certo bisognerà<br />

starci attenti, ogni cosa va fatta a modo. Le famiglie,<br />

padrone mio, anche se la pensate diversamente, c’entrano e<br />

come. La folata di vento, il brandeggio dell’ape sui sepali.<br />

Ma i parenti di lui che ne direbbero? La reazione, la presa decisa<br />

delle zampette per resistere al vento. Be’, e che cosa<br />

avrebbero in fin dei conti da dire? Noi si è gente onesta, nessuno<br />

ci può imprecare alle spalle. È cosa che conta, questa. <strong>Il</strong><br />

mutamento di zona, infine. Ma lei, lei, cosa prova, cosa pensa,<br />

cosa fa? Scommetto che neppure se n’è accorta, cuore<br />

mio. Bah, dopo tutto, meglio così. Se è grano si ha da vedere<br />

alla spiga, per ora è erba.<br />

A quando a quando si interrompeva, ogni volta che le<br />

dita, scorrendo sui grani l’avvertivano che era giunta alla decima<br />

avemaria della “posta”. Poi ripigliava. E transitava frattanto<br />

dai misteri dolorosi a quelli “gloriosi”.<br />

E lei, Pasqua, che pure era l’oggetto di tutto questo, lei<br />

stava lì, rincantucciata nel suo angolo, in pace. Non era<br />

propriamente neppure occupata a pensare. Era in una specie<br />

di dormiveglia dolce, nel quale, più che di pensieri, si<br />

vive di strane, suadenti sensazioni pastose. Annegava in<br />

queste, vi si seppelliva, così come la sua figura nell’ombra.<br />

Sentiva certo battere alla soglia dell’anima presenze esteriori:<br />

il pispiglio della madre, le voci del padre e dell’altro, il<br />

pigolio dei ragazzi. Ma indifferente si rifiutava di aprire<br />

l’uscio: stessero fuori. E nemmeno di sé aveva una chiara<br />

coscienza. Era piuttosto un assistere che un partecipare a<br />

ciò che passava in lei. <strong>Il</strong> molle gioco delle fantasie, come<br />

lenzuola in volo. Sei innamorata? Sì! E di chi, parla, di chi?<br />

Di Raffieli Pòrcina? Ah, bah, non diciamo sciocchezze. Allora<br />

di chi? Ma di me, no? di me stessa. E rideva fra sé di<br />

questo, quasi quasi le pareva che fosse vero. Essere innamorata<br />

di sé, to’. Era bello.<br />

53


La voce sonora impaurita di ’Ntoni, più che il traballamento<br />

e l’arresto del carro, la trapassò come un dardo. La voce<br />

che chiedeva:<br />

«O ba’, cos’è? Che è successo?».<br />

Tranquillamente Raffieli Pòrcina si rimetteva a cassetta,<br />

che si era poco prima precipitato di botto, giù dal carro, e<br />

dava di voce al cavallo: «Tocca, hijù» diceva.<br />

Niente, non era niente, spiegava calmo Giuanni Cinus,<br />

imbucando la testa all’interno del carro per tranquillizzare le<br />

donne e i ragazzi. Un’ombra, va e cerca, aveva all’improvviso<br />

spaventato il cavallo. Una volpe, forse, riferiva Giuanni Cinus.<br />

Anzi lui propriamente disse mraxiani. In dialetto la volpe<br />

si chiama così. Questo sostantivo, da noi, è maschile.<br />

L’abitato di Serri non era che un gruppo di qualche decina<br />

di case, tutte malandate, in mezzo alle quali sorgeva la<br />

chiesa. In questa le funzioni venivano celebrate soltanto in<br />

occasione di speciali solennità, e erano officiate dal coadiutore<br />

di Tula, un prete ormai in disarmo, vecchio come la terra.<br />

E il Natale, festa per eccellenza di pastori e contadini, era naturalmente<br />

una di queste solennità. Era quella, anzi, nella<br />

quale, oltre agli abitanti di Serri, accorrevano alla funzione i<br />

contadini degli stazzi e dei casolari dei dintorni e i pastori<br />

degli ovili spersi nelle solitudini; gente che assai raramente si<br />

muoveva dai luoghi suoi, ma che non esitava a farlo, in piena<br />

notte e nel freddo della fine di dicembre, per onorare e<br />

festeggiare il Bambino. E portavano, per farsi e fargli luce,<br />

piccoli lumi a olio, di quello denso e odoroso delle bacche di<br />

lentischio; e, come offerta, chi appena poteva, focacce dolci i<br />

contadini, e i pastori agnelli. Tradizione, questa, antichissima,<br />

forse un innesto cristiano su riti pagani anteriori.<br />

Si udivano quindi anche quella notte belare agnelli sul<br />

sagrato della chiesa e mescolarsi a questi belati il vocio allegro<br />

della gente e il suono delle cornamuse, nonché di quegli<br />

speciali strumenti a canne multiple, fatti proprio di canna,<br />

che là chiamano launeddas.<br />

La comitiva dei Cinus era da poco arrivata, che già la gente<br />

faceva ressa per entrare in chiesa. L’usanza era che ciascuno<br />

54<br />

recasse la propria offerta schierandosi presso l’altare, quelli del<br />

pane con le corbe del pane, gli altri portando gli agnelli, vivi,<br />

a cavalco del collo, a guisa di sciarpe, come nella figura del<br />

Buon Pastore. E tutti volevano essere in prima fila, il più vicino<br />

possibile al destinatario dei doni.<br />

Districandosi fra la calca Fieli Pòrcina pilotò bravamente<br />

il pittoresco drappello fin presso l’altare. La famiglia Cinus,<br />

come originaria di Baronia, era “stranea” ancora, a Serri, e<br />

dunque un po’ impacciata dall’ambiente e non atta a farsi<br />

largo. E di più i ragazzi, già un po’ intontiti dal sonno e sbattuti<br />

dal pigia-pigia, tendevano a sbandarsi.<br />

Fieli Pòrcina provvide lui. Preoccupandosi, diceva, delle<br />

gonne di Pasqua e di Mariangela, che non andassero bruciate<br />

dai fuochi in tutto quel trapestio, si destreggiò per fare in<br />

modo che Momo, ’Ntoni e Giuanni Cinus si collocassero<br />

davanti, mentre in seconda schiera si piazzava lui stesso, con<br />

Mariangela da un lato e Pasqua dall’altro.<br />

Di quest’ultima, poi, soprattutto si dava cura. Al fine di<br />

proteggerla da urtoni e sgarbi, le pigliava ogni tanto il braccio<br />

e l’accostava più a sé (lei aveva le mani impacciate dal panierino)<br />

e addirittura le cingeva, sempre a quel fine, le spalle<br />

o la vita, indugiando nel gesto un po’ più del necessario.<br />

E era ben questo che le dava turbamento. Ogni volta che<br />

la cosa si ripeteva, lei aveva un soprassalto, il corpo le si irrigidiva<br />

e gelava. Ma a dispetto della sua volontà qualcosa di strano,<br />

di grato, si produceva in lei. Dentro, chissà dove. Come la<br />

sensazione di sciogliersi. E, accorgendosene, si spaventava.<br />

Al Gloria la chiesa, già piena di frastuono che era, sembrò<br />

crollare. <strong>Il</strong> sacrista dette di piglio alla campanella a mano<br />

e cominciò a suonare. <strong>Il</strong> Bambino nasceva al mondo in<br />

quel preciso momento, fategli festa, gioite, gioite, voleva dire<br />

con questo. E fu il segnale. Tutti si dettero a loro volta a<br />

suonare con mani frenetiche gli strumenti atti a dar suono<br />

dei quali a questo scopo erano venuti forniti: campanelle<br />

campani da buoi bubboli per cavalli gregali da capre, tutto<br />

era buono, tutto faceva festa e allegrezza. Sveglia Gesù Bambino,<br />

benvenuto nel mondo e sta’ di buon animo, che siamo<br />

qua noi per accoglierti e farti compagnia. Gloria a te,<br />

pace a te, alleluia alleluia.<br />

55


Esultanza tradotta in frastuono. Le offerte, perché lui le<br />

vedesse e se ne rallegrasse, erano alzate a braccia tese. E anche<br />

questo cresceva il frastuono, in quanto gli agnelli, già<br />

spaventati dallo scampanio subitaneo, belavano da sgolarsi.<br />

E infine giovanotti volenterosi si attaccavano alle funi delle<br />

campane esterne e giù a rintoccare, quei colpi brevi e rapidi<br />

che là dicono “rampiccare”, affinché il fatto fosse annunziato<br />

ai lontani. Che peraltro, per chi era dentro la chiesa, erano<br />

martellate crudeli.<br />

E poteva Gesù, nato allora allora, udire in tutto quel<br />

pandemonio la voce del cuore di Pasqua, isolarla fra tutte e<br />

riconoscerla, così sommessa, dubbiosa, e intendere ciò che<br />

diceva? Aiutami Signore, diceva, aiutami. Ho confezionato<br />

con le mie stesse mani i pani dolci per te, la nostra offerta, la<br />

mia offerta. Ho anche messo più miele del necessario, perché<br />

apprezzassi il pensiero. Ma io, Signore, io…<br />

<strong>Il</strong> cuore le si fondeva per eccesso di tenerezza e non sapeva<br />

più proseguire. I lumi, tutti quei lumi, le si stampavano<br />

nella mente (li avrebbe poi riveduti, come in un sogno,<br />

nei giorni lontani venturi) e così i pani via via collocati sopra<br />

una mensa vicino all’altare, e la frenesia dei campani, e il<br />

pianto straziante di tutti gli agnelli.<br />

Venivano poi un paio di addetti in mezzo alla folla e raccoglievano<br />

le offerte. Collocavano i pani sull’apposita mensa,<br />

e ammucchiavano gli agnelli impastoiati nel breve spazio del<br />

presbiterio. E proprio questa scena la colpiva singolarmente.<br />

Quelle mani che si tendevano a ricevere i doni. Anche i suoi<br />

pani, sì, eccoli, prendeteli. Bisognava bene che così fosse, certo:<br />

ci doveva pur essere qualcuno a incaricarsi di raccogliere<br />

le offerte. Eppure quel loro fare così sbrigativo e ruvido le dava<br />

pena. Le pareva che, più che ricevere un dono, commettessero<br />

una specie di usurpazione.<br />

Nel viaggio di ritorno, poi, tutte queste sensazioni – i lumi<br />

i pani i campani i belati – le tornavano nel pensiero più<br />

pungenti, a contrasto col silenzio enorme della campagna, il<br />

buio e la pace dei luoghi che attraversavano.<br />

All’interno del carro, ’Ntoni e Momo, appoggiati alla<br />

sponda dal medesimo lato dov’era lei ciondolavano a ogni<br />

56<br />

scossone come fantocci di pezza. Vinti dal sonno, crollati. E<br />

anche Mariangela Siddi si era appisolata. Così a lei non restava<br />

che perdersi, come già del resto all’andata, in quel fluttuante<br />

oblioso sentire, nel quale tutto quanto: gioia, pena, paure,<br />

Fieli Pòrcina, cornamuse, lumi, pani, la mano che tocca il gomito,<br />

la mano che stringe, i belati, la mano che indugia attorno<br />

alla vita, ora che faccio, e i campani e il finimondo: tutto<br />

si mescolava e si confondeva, solo affiorava sulla superficie<br />

della coscienza quel desiderio, vago anch’esso, che già conosceva,<br />

di lungo, pacificante, piangente-ridente abbandono.<br />

Infine all’arrivo (di punto in bianco si era arrivati), usciva<br />

dalla celeste vastità della notte la voce così terrena di Fieli<br />

Pòrcina che si congedava dagli ospiti, in accenti peraltro del<br />

tutto natalizi e quasi liturgici: «Pace a voi, Giuanni Cinus, e<br />

a voi, Mariangela Siddi, e a te Pasqua, sorella mia».<br />

Soccombendo poco dopo al sonno, raccoglievano le sue<br />

orecchie sull’origliere le strane parole: “Pace a te Pasqua, sorella<br />

mia”. E furore di campani, e belati. Pace a te.<br />

57


V<br />

I DENTI DELL’ERPICE<br />

Ora bisognava erpicare. Le piantine s’erano alzate altre<br />

due dita e cespugliavano già le foglie alla base. Momento<br />

giusto per erpicare. Rompere la crosta del terreno intorno<br />

alla pianta, darle respiro e spazzare via dagl’interstizi le erbe<br />

parassite.<br />

Suonando arrivava giù per la strada carraia la cremagliera<br />

dell’erpice. I buoi condotti da ’Ntoni fumavano dalle narici<br />

nell’aria fredda. Denti in su, stretto negli snodi come<br />

un soffietto, l’erpice era per il momento non altro che una<br />

puntuta matassa di maglie di ferro, strascinata pesantemente<br />

sul battuto della strada.<br />

Ma alla quercia i buoi sostarono, l’erpice fu rivoltato e<br />

allargato. Allora la matassa si sciolse, le maglie si dilatarono<br />

a forma di rombo sui loro perni, l’intero apparecchio fu come<br />

una mano molteplice unghiata che si spalanchi.<br />

Entrò nel campo. «Hài, hài!» gridò con forza ’Ntoni a<br />

incitamento dei buoi. Le bestie tirarono e la gran mano di<br />

ferro cominciò il suo lavoro. Raspava la terra di malagrazia,<br />

come se adempisse contraggenio a questa operazione di togliere<br />

alla terra il prurito. E tuttavia, al contrario di quello<br />

che veniva fatto di temere, le piantine del grano non erano<br />

da essa travolte. Uscivano dalla strapazzata vispe e intatte,<br />

scuotendosi dalla momentanea paura, liete di averla passata<br />

liscia. La terra, invece, vedeva franta la sua crosta indurita e i<br />

lembi delle zolle, azzannate dai denti ferrei, ricadevano di<br />

qua e di là, soffocavano quel piccolo tremore d’erba che accennava<br />

a far barba fra canna e canna. Tratto tratto, le punte<br />

incontravano un sasso seppellito. <strong>Il</strong> ferro allora suonava,<br />

strappava, passava oltre. Per il resto non si levava altro suono<br />

che quello dei campani, più il cicalare dei passeri e, dalla<br />

macchia, gl’interrogativi dei tordi e dei merli e le sghignazzate<br />

delle gazze e delle cornacchie.<br />

58<br />

Dai bordi, all’ombra della quercia, Giuanni Cinus seguiva<br />

con lo sguardo il lavoro del ragazzo, attendendo di dargli il<br />

cambio. Silenziosamente incitava: vai, vai. Erano le sue stesse<br />

mani, ingigantite nell’erpice, che brancicavano e frugavano la<br />

terra. E anche questo era un modo di tormentosamente possederla.<br />

Falle il solletico, ’Ntoni. Che rida e si scuota. È ancora<br />

sonnacchiosa, ma vedrai come fresca e vogliosa è, dopo<br />

questa pettinata.<br />

’Ntoni eseguiva. Per fare che lo strumento meglio gravasse<br />

la terra, vi saliva ogni tanto lui stesso sopra, dritto librato<br />

su un piede solo, lasciandosi trascinare.<br />

Era un lavoro di pazienza, non faticoso; lo poteva fare<br />

anche ’Ntoni. E tuttavia il ragazzo, quando mancava ancora<br />

qualche voltata al cambio, già cedeva alla noia e lasciava che<br />

i buoi rallentassero e ammusassero, attirati dalla tenera erba<br />

del grano. Ma il vecchio, pronto, via gli cacciava il sonno<br />

dalla testa, gridando e imprecando:<br />

«Sprona, ’Ntoni, tocca, così sia toccato dal fuoco, ti stai<br />

addormentando?».<br />

E quando veniva il suo turno, lui no di sicuro, non cedeva<br />

alla sonnolenza. Su e giù, pettina pettina pettina: faceva,<br />

con questa rude striglia, la toletta al seminato. E ravviava<br />

i capelli alla propria speranza.<br />

Ora lei era cambiata. Era smemorata, distratta. E aveva<br />

bruschi salti, capovolgimenti improvvisi di umore. A volte<br />

era presa da una gioia sfrenata, che sarebbe esplosa violenta<br />

se non fosse che dietro a lei, a parte la mitezza della sua indole,<br />

secoli di compressione e inibizione muliebre stavano a<br />

fare da freno. A volte l’assaliva al contrario un’irragionevole<br />

pena, il desiderio di piangere senza un perché. Ma fra questi<br />

momenti e limiti, terza si collocava con maggiore frequenza<br />

una condizione di apatia, o pigrizia, o gravezza di tutto l’essere,<br />

che le toglieva ogni interesse per qualsiasi cosa.<br />

«Pasqua, che hai?» le chiedeva la madre. E magari la riprendeva<br />

e gridava per la sua lentezza o per qualche maldestro,<br />

ben lontana dall’indovinare le cause di questo mutamento.<br />

«Nulla» lei rispondeva ogni volta. E era così, in fondo,<br />

per quello che ne sapeva.<br />

59


A volte, allo stremo della tensione, era presa dal bisogno<br />

di sfogare su qualcuno il proprio affetto e quasi di disfarsi in<br />

tenerezza. E allora era Momo che riceveva e subiva, fino a<br />

esserne sopraffatto, questa repentina tempesta amorosa. Abbracci<br />

che lo soffocavano, pizzichi, baci, parole senza senso<br />

scimmiottanti il parlare infantile, gridate in crescendo e con<br />

strana passione proprio alla conca delle orecchie (le unghie<br />

di lei conficcate nelle sue misere spalle) che lo lasciavano<br />

senza fiato.<br />

D’altra parte, di tutti i componenti la famiglia, Momo<br />

era il solo che rendesse plausibili queste effusioni a causa<br />

della sua età e infelicità. In più lui era, di suo, nella condizione<br />

di chi di una parola, un atto, un’elemosina d’amore<br />

mai si sarebbe saziato, da chiunque e comunque venisse.<br />

Tant’è che fu specialmente a partire da quei giorni che<br />

Pasqua prese a essergli la persona più cara e amata della famiglia,<br />

compresavi la madre. <strong>Il</strong> che sarebbe stato, come si<br />

vedrà a suo tempo e com’era già scritto nei grandi libri, causa<br />

non ultima di ciò che si preparava a succedere.<br />

<strong>Il</strong> fatto è che Raffieli Pòrcina, nei suoi approcci con la<br />

ragazza, inspiegabilmente temporeggiava.<br />

D’accordo, prenderla. Ma come, quando e a quali condizioni,<br />

ecco ciò che lo rendeva perplesso. In certi momenti<br />

era determinato a far presto, che c’era da aver paura, tanto<br />

era chiaro, lei ci stava. E tuttavia, il pensiero che toccasse<br />

pur sempre a lui fare il primo passo lo infastidiva. Come<br />

preferisse, chissà, che il frutto cadesse da solo dall’albero, e<br />

non restasse, se mai, che da chinarsi a raccattarlo. In altri,<br />

poi, era come se lo cogliesse una specie di pietà per la vittima.<br />

E peggio ancora, come se sentisse verso di lei qualcosa<br />

di indefinibile, di periglioso, di mai provato, al punto che si<br />

domandava con sgomento se questo non fosse per caso<br />

amore, possibile mai?<br />

Per questo era cauto, vago, esitante e alla fine incoerente.<br />

Passava, da un giorno all’altro, dalla sua gaia e un po’ spagnolesca<br />

galanteria alla freddezza, perfino alla bruschezza e<br />

alla ruvidità, qualche volta. E tutto questo come a capriccio,<br />

illogicamente.<br />

60<br />

Ora che i giochi sono fatti e i destini consumati, sarebbe<br />

piuttosto facile parlare di presentimenti. Dire: aveva un arcano<br />

presentimento di quello che, nel grembo dell’avvenire,<br />

si preparava a succedere. Ne era intimorito e trattenuto come<br />

un cavallo da ombre. Ma chi può dirlo? <strong>Il</strong> dopo è al di là<br />

del muro. E il muro è opaco.<br />

Né lei del resto si può dire che fosse disposta a ammettere,<br />

neppure con se stessa, che i propri turbamenti avessero a<br />

che fare con lui. Tanto valeva ammettere che ne era innamorata.<br />

E invece no, chi lo dice? Innamorata, lei? Ma quando<br />

mai. Base prima, non era in età da pensare all’amore, non era<br />

“basilico da mettere in balcone”, figurarsi. Seconda poi, e che<br />

era? Stoppa, era? Come poteva innamorarsi di uno che non<br />

la calcolava per niente, e in certi momenti neppure sembrava<br />

accorgersi della sua esistenza? E dunque. E poi.<br />

Ma poi le veniva da ricordare la notte del Bambino, lo<br />

strano viaggio, le attenzioni di lui, le strette furtive, e tutto il<br />

resto, e allora si smarriva in una fuga di pensieri, non pure<br />

precisi, soltanto lucenti. Al punto che la madre, sorprendendola<br />

a volte così assorta, doveva richiamarla: «Ehi, dico, ti<br />

sei incantata?».<br />

Ma ecco che capitò (e fu il 17 gennaio festa di Sant’Antonio<br />

abate, primo giorno di carnevale) quel fatto che tanta<br />

importanza avrebbe assunto, nella storia personale di Pasqua,<br />

e di riflesso, per quanto ne fossero essi ignari, in quella<br />

di tutti i Cinus.<br />

Fieli Pòrcina era in visita a Serri, ormai come d’uso, e<br />

c’era alla fattoria anche altra gente, persone di Serri e di Arresi.<br />

A un tratto però, buonasera, lui piglia e parte, così a<br />

piedi com’è. Ha lasciato il cavallo, dice, sulla strada per Serri,<br />

deve andare a riprenderlo.<br />

Ma doveva aver fatto prima chissà che giro, essere ripassato<br />

dietro la fattoria, perché a un certo punto lei se lo ritrovò<br />

inaspettatamente davanti lungo la strada per Sìnniri, mentre a<br />

sua volta stava recandosi, con l’anfora in capo, alla sorgente.<br />

«Oh, voi» esclamò sorpresa.<br />

E lui:<br />

61


«E tu?».<br />

Era sorpreso anche lui. Era chiaro che nemmeno lui si<br />

aspettava di incontrarla.<br />

«Sto andando alla sorgente, come vedete» lei disse. E, con<br />

subita determinazione di cui lì per lì non avrebbe saputo<br />

spiegare il motivo, aggiunse:<br />

«Perché non venite anche voi, a accompagnarmi fin là?<br />

Ho paura». E rise, dicendo questo.<br />

Ricordarsi i suoi dissidi con sé. Voleva offrirsi la prova che<br />

non lo temeva, non aveva paura di lui, non le importava<br />

niente di lui. E che la sua presenza, quand’anche avesse accettato<br />

– ma non avrebbe accettato – non la turbava per nulla.<br />

Lui non rispose né ah e né bah. Fece dietro front e la<br />

seguì. Aveva accettato.<br />

Così andarono: lei qualche passo avanti e lui dopo, dato<br />

che il sentiero li costringeva a procedere in fila indiana.<br />

E non parlavano, nessuno dei due.<br />

«Non parlate, oggi, Fieli Pòrcina. Siete diventato muto?»<br />

lei domandò a un certo punto, ancora con insolito ardire.<br />

Neanche questa volta lui rispose. Poi se ne uscì inaspettatamente<br />

in questa domanda:<br />

«Perché non mi dai del tu?».<br />

Altro silenzio. Dentro il quale, sul fondo battuto della<br />

strada di Sènniri, si udivano picchiare gli zoccoli di ginepro<br />

che lei calzava e il suono un po’ più sordo dei passi di lui.<br />

Quando ormai la risposta sembrava non dovesse venire<br />

più, lei disse senza voltarsi a guardarlo:<br />

«Darvi del tu? Perché mai?».<br />

Ma la risposta da parte di lui non venne.<br />

«Siete proprio muto, oggi» lei osservò. «Io vi dispiaccio?».<br />

E siccome lui si ostinava a tacere, lei finalmente si voltò a<br />

guardarlo. Di tre quarti. <strong>Il</strong> viso fresco, puro. Ben marcate le<br />

sopracciglia nere sugli occhi neri, la restante parte del viso<br />

chiara come un lume. Sembrava proprio che la portasse<br />

stampata sul viso, quella domanda puerile: io vi dispiaccio?<br />

«No» si decise alla fine a rispondere lui. «Oh no, certo<br />

che no». E sentiva fortissimo, ora, quel tale sgomento su ciò<br />

che provasse realmente per lei.<br />

62<br />

Ma erano ormai arrivati. Una nicchia nella spalla della<br />

collina. Una parete di roccia, attraversata da una fessura: era<br />

quella la sorgente. L’acqua, non più che una vena, veniva da<br />

lì, scorreva per un tratto lungo i bordi di quell’interstizio,<br />

poi un cannello la convogliava nella coppa di sotto, scavata<br />

in un gradino della medesima roccia.<br />

Lei mise giù l’anfora e la collocò nella coppa. In testa le<br />

rimase il cercine di panno, una specie di ciambella che, per<br />

come era alta e ritorta, somigliava a una corona di stracci, in<br />

bilico sul viluppo delle trecce.<br />

Immersa l’anfora nell’acqua della coppa, ve la tenne ferma,<br />

premendo le mani sui bracci del recipiente, in attesa<br />

che si riempisse.<br />

Fu allora.<br />

Lui, che era dietro, si avvicinò di un passo, le tenne ferme<br />

le mani sul recipiente e come lei si voltava stupita, le fu<br />

col viso sul viso. <strong>Il</strong> bacio andò a finire un po’ sghembo, fuori<br />

bersaglio, quasi all’altezza dell’occhio. Ma l’errore fu presto<br />

corretto. Le mani di lui si alzarono dai manici dell’anfora<br />

(quelle di lei invece restarono inerti, là dov’erano) le afferrarono<br />

il viso, e questa volta la cosa avvenne a modo.<br />

Più impaurita che altro, lei aveva istintivamente abbassato<br />

le palpebre. Fu perciò in questo buio improvviso che<br />

sopportò, quasi avulsa da sé, la sopraffazione inattesa. Avvertiva<br />

sulla bocca, sensazione sconosciuta, la pressione dell’altra<br />

bocca. Per un po’ tutto fu fermo. Poi la pressione si fece<br />

forte, il bacio si mosse, dissuggellò le sue labbra, le schiuse,<br />

schiuse anche i denti, lei ebbe un senso di soffocazione e terrore.<br />

Intanto anche lui si staccò, poi ritornò, una due volte,<br />

quante volte lei anzi neanche lo seppe, e di nuovo quel contatto<br />

sulla bocca quella pressione quel fuoco, lei sempre<br />

inerte e come paralizzata.<br />

E tutto questo fu fatto in silenzio, nel prodigioso silenzio<br />

dell’universo, fuorché quel cantare sommesso dell’acqua<br />

nella coppa di raccolta, nella quale l’anfora, frattanto, aveva<br />

avuto ben modo di riempirsi e traboccare.<br />

Né, finito che fu, lei disse nulla né fece nulla, come diventata<br />

anche lei di pietra e d’acqua a somiglianza della sorgente.<br />

63


Ma onde erano passate in lei. E lampi. E poi tuoni. Carri<br />

pesanti stridevano su rocce nude, sentiva i cerchioni di<br />

ferro slittare e mordere il liscio della roccia, quel grattare del<br />

ferro sul liscio che allega i denti. Lei però, per un lungo momento,<br />

anche dopo che fu cessato, non disse nulla.<br />

<strong>Il</strong> cercine, come lui la baciava, le era ceduto. Era finito<br />

per terra nella fanghiglia. Lei lo raccattò, lo disfece, lo lavò<br />

nella coppa della sorgente, lo strizzò, lo rifece, lo rimise così<br />

bagnato sopra i capelli: quella sua povera corona di stracci.<br />

Soltanto allora, appena voltandosi, disse:<br />

«Avete fatto questo, Raffieli Pòrcina. Perché lo avete<br />

fatto?».<br />

Lo disse a mezza voce, senza ira, senza rimprovero, quasi<br />

con un accento di mite rassegnazione. Le bastava soltanto<br />

che lui dicesse qualcosa.<br />

Invece non disse nulla.<br />

Stava lì impalato, evitando di guardarla, incapace anche<br />

di muoversi: una statua di sale (di dentro però, anche lui, altra<br />

cosa: il sangue gli rombava nelle orecchie come un torrente).<br />

Né lei ripeté la domanda. Lasciò passare un tempo e poi:<br />

«Possiamo andare» disse piano, rimettendosi sul capo<br />

l’anfora grondante.<br />

Quelli che poi seguirono – la restante metà di gennaio –<br />

furono giorni bizzarri, se non matti del tutto.<br />

Gennaio, là, ha a volte ritorni strambi, o anticipi, di primavera.<br />

Cieli aperti infiniti, un azzurro così denso che puoi<br />

toccarlo, e quindi sole, tepore. Al punto che certi alberi (e i<br />

mandorli, fra questi, sono i più ingenui) cadono nell’inganno,<br />

credono già finite le “ire” e tornata la bella stagione. Così<br />

prendono e fioriscono. Ma non è vero. Di colpo riecco i<br />

freddi, i nembi, il vento. E addio prime fiorite, la gelata le<br />

brucia. Poi magari, di lì a due giorni, ancora bonaccia; il cielo<br />

ti guarda stupefatto che sembra che dica: io?<br />

E non è che si voglia dire soltanto della stagione, questo.<br />

Anche a lei, Pasqua, in qualche modo accadeva così, dopo<br />

quello che era successo alla sorgente.<br />

Essere baciata da un uomo! Baciare un uomo! Più ci<br />

pensava e meno riusciva a capacitarsene.<br />

64<br />

Nei giorni successivi era tornata più volte alla sorgente e<br />

si era sorpresa ad ascoltare a lungo il suono leggero dell’acqua<br />

nella coppa sotto il cannello. Mai prima di allora quel<br />

suono le aveva fatto un effetto così. Le sembrava una musica,<br />

e la testa cominciava a girarle.<br />

Poi si soffermava sulla portata del fatto, e sulle sue implicazioni.<br />

Quella domanda un po’ balorda, è vero, che ancora tutta<br />

stordita aveva rivolto a Raffieli Pòrcina subito dopo l’accaduto:<br />

avete fatto questo, perché lo avete fatto?, se la ripeteva<br />

infinite volte, mentalmente rivolgendosi a lui: perché lo<br />

avete fatto, perché?<br />

E si rispondeva convinta: ma perché ti ama, scema, se<br />

no perché? Allora appunto si aprivano i cieli e fiorivano i<br />

mandorli e lei si sentiva come inondata di bene. Così stracarica,<br />

anzi, di bene, che le pareva di sciogliersi. Invidiatemi,<br />

perdonatemi: io sono amata.<br />

Ma subito insorgevano i dubbi. E chi dice che sia così?<br />

Un uomo può baciare una donna anche per gioco, magari<br />

per farle onta, mica solo per amore. Chi ti assicura, di’, che<br />

lui ti ami?<br />

E allora era la volta che i cieli si oscuravano, si alzava il<br />

vento, i fiori avvizzivano. Non erano più le trombe angeliche<br />

che lei sentiva, ma suono di corni, di quelli che si levavano a<br />

notte, per le nozze dei vedovi, a opera dei buontemponi, nelle<br />

strade del paese, a Baronia. Provava umiliazione e vergogna,<br />

per quello che aveva fatto.<br />

Di più era ossessionata dal sortilegio connesso all’accaduto.<br />

Conosceva la ventura. Se una vergine si lascia baciare<br />

da un uomo, da quel momento è “segnata”, è cosa sua. Gli<br />

appartiene per sempre, volere o no. Peggio per lei che si è<br />

lasciata ingannare o sorprendere. Doveva essere più vigilante<br />

e più scaltra al momento giusto, affinché il fatto non avvenisse.<br />

Se è avvenuto, addio, non c’è più niente da fare, è<br />

troppo tardi.<br />

Lei, questo, lo aveva sempre sentito dire, da quand’era<br />

bambina. Se ne portavano esempi quanti se ne volevano, di<br />

donne che gli era intervenuto così. Baciate a tradimento da<br />

65


un uomo, avevano dovuto sposare per forza l’autore dell’inganno,<br />

fosse pure un lebbroso, un bandito, un vecchio di<br />

cent’anni. E senza andare tanto lontano, lo si raccontava<br />

dell’ava sua stessa, nonna Vissenta, la madre di suo padre.<br />

Che dicevano fosse una bella ragazza, ai tempi suoi e desiderata<br />

da molti, tanto che, dicevano, poteva con quella faccia e<br />

quel corpo aspirare a quale si sia partito, non aveva che da<br />

scegliere a suo piacimento. Invece che ti fa? Un giorno un<br />

uomo, dopo averla appostata mentre lei, sola sola, sta attingendo<br />

acqua da un pozzo (e guarda che combinazione), le<br />

piomba a tradimento alle spalle e, sc-ciac!, la bacia, senza lasciarle<br />

neppure il tempo di dire ah. Ed è fatta: perché dopo<br />

hai voglia di ribellarti e scalciare.<br />

E fortuna che lui era un brav’uomo, dopo tutto, e anche<br />

bello, se è per questo, sebbene notevolmente più anziano di<br />

lei e spiantato. E così non era stato troppo doloroso per lei<br />

pigliarselo e anzi, per quello che se ne sapeva, erano sempre<br />

vissuti d’amore e d’accordo, dopo, anche se poveri in canna<br />

(al punto che Pasqua, nel proprio intimo, aveva sempre<br />

conservato il sospetto che nonna Vissenta, sotto sotto, non<br />

fosse stata troppo “sorpresa” dalla macchinazione dello spasimante).<br />

Restava comunque il fatto che a quella “regola” non si<br />

poteva sfuggire. E così sarebbe stato anche per lei. Si era fatta<br />

baciare da un uomo? Peggio per lei. In quella via si era<br />

messa, in quella doveva marciare.<br />

E anche questo provocava in lei reazioni alterne. A momenti<br />

gioiva di trovarsi in una condizione così. Era “segnata”,<br />

ora? E benissimo, ne era felice. “Accettava” con giubilo di<br />

appartenere a Raffieli Pòrcina, essere sua, roba sua, come un<br />

animale o un oggetto. A momenti, invece, questa stessa prospettiva<br />

le cagionava sgomento, paura e disperazione.<br />

Perché il punto, ancora e sempre, era quello: se lui l’amava<br />

o no. E secondo che fosse certa o dubbiosa su ciò, in lei<br />

schiarivano o si rabbuiavano i cieli.<br />

Che poi si dice “amare”, ma la parola è qui usata alquanto<br />

impropriamente. Nella parlata di laggiù, infatti, questo<br />

verbo non esiste, o almeno la lingua tende a respingerlo, come<br />

troppo esplicito e sguaiato. Si può dire, se mai, “amore”<br />

66<br />

(e più che altro nelle canzoni), ma “amare”, io “amo”, tu<br />

“ami” non si può dire. Una specie di pudicizia lessicale. Per<br />

esprimere il concetto si ricorre a un traslato e si dice “stimare”.<br />

Che finisce, è vero, per significare la stessa cosa, ma sembra<br />

mettere in chiaro che solo chi stima ama, e viceversa.<br />

E lei non faceva che ripetersi, a vicenda, appunto questo:<br />

mi “stima”, non mi “stima”. Tale era, dopo il fatto del 17 gennaio,<br />

il gioire e il patire suo.<br />

«Ecco ecco» gridava ’Ntoni «c’è rimasta, è qui, è qui!».<br />

Anche questo succedeva una mattina di quella fine di<br />

gennaio: la cattura di una lepre per mezzo di una trappola<br />

tesa da Giuanni Cinus la sera avanti.<br />

La bestiola si dibatteva tuttora come impazzita, ma si<br />

vedeva chiaramente che le sue forze erano sul punto di cedere.<br />

Doveva aver lottato tutta la notte per liberarsi.<br />

Erano, a levante delle proprietà, file ineguali di quei muretti<br />

antichissimi ai quali si è già accennato, fatti di blocchi<br />

squadrati e possenti e ricoperti di un muschio dorato o rossiccio<br />

che ha mille anni. Visti dall’alto, si direbbero ossa o tendini<br />

rimasti a nudo delle strutture interne della terra. E hanno<br />

alla base (ingegneria dei neolitici) preordinati intervallati pertugi<br />

per l’efflusso dell’acqua. Appunto di questi si servono a<br />

volte contadini per catturare le lepri. E ecco come.<br />

Si prende un lastrone di pietra convenientemente pesante<br />

e lo si colloca di traverso nell’apertura, in modo che resti<br />

un po’ sollevato da una parte, grazie a uno stecco verticale<br />

che lo sorregge. Questo stecco è poi collegato con un altro<br />

orizzontale, anch’esso leggermente sollevato da terra e, affinché<br />

la trappola non si scopra, mascherato da lamine schistose<br />

sottili. La lepre, imboccando l’apertura per raggiungere il<br />

colto, grava del proprio peso lo stecco che fa da corda, il<br />

quale a sua volta agisce sul sostegno verticale e lo spinge via.<br />

Così il lastrone ritomba in basso e l’animale è ghermito prima<br />

che riesca a scapolarsi.<br />

Da esca funziona il colto. È la stessa presenza, cioè, di<br />

qua dal muro, di campi a grano o legumi oppure di orti, a<br />

invogliare le lepri, pungolate del resto dalla fame, dato che di<br />

quella stagione poco o nulla si trova nella macchia. Così esse<br />

67


tentano queste sortite attraverso gl’infidi varchi. E preparano<br />

loro i contadini quest’accoglienza.<br />

Anche Giuanni Cinus, da quando era arrivato alla tenuta,<br />

approntava di tanto in tanto lungo i muretti apparecchi<br />

del genere. E quella mattina uno di essi, come si vede, aveva<br />

funzionato e per questo ’Ntoni, scoperta la preda con l’aiuto<br />

di Tricò, gridava adesso a gran voce per far accorrere il padre.<br />

Tricò frattanto sorvegliava il roditore, contemplando<br />

impassibile e come fuso nel bronzo i suoi ultimi spasimi. <strong>Il</strong><br />

muso del cane sfiorava così da vicino il pelo della piccola<br />

vittima, da scavarle col fiato delle fossette nella pelliccia.<br />

La lepre era stata colpita dal sasso nella metà posteriore<br />

del corpo, doveva avere le reni spezzate. Le zampe di dietro,<br />

difatti, per quello che se ne poteva vedere, apparivano inerti.<br />

Né certo le poche forze che le restavano – quell’annaspare<br />

degli arti anteriori e la torsione disperata del capo – sarebbero<br />

valse ormai a sottrarla al suo destino.<br />

Chino sulla buca, la testa accostata alla testa del cane,<br />

’Ntoni osservava anche lui l’animale morente. Ma, a contrasto<br />

con la calma implacabile di Tricò, era tutto eccitato,<br />

si batteva manate sulle ginocchia, si sgolava di chiamare:<br />

«È qui, è qui, ba’» abbaiava.<br />

Arrivava poi Giuanni Cinus, si chinava a sua volta, afferrava<br />

la bestiola pigliandole le orecchie come fossero foglie<br />

di lattuga, la liberava finalmente dal sasso, la sollevava,<br />

la soppesava.<br />

«Buona, è» osservava. E la palpava nel petto e fra le cosce,<br />

la trovava bella grassa, femmina, gravida («Gravida?», chiedeva<br />

’Ntoni) e insomma buona preda, peccato ce ne fosse una<br />

sola. Poi, afferratala con la sinistra per le zampe di dietro affinché<br />

stesse giù col capo, con la destra, di taglio, le picchiò<br />

tre quattro colpi precisi e secchi sulla cervice, da quell’esperto<br />

che era, sinché la bestiola non spenzolò affatto inerte.<br />

Tricò, per tutta reazione, si passò fuori della bocca la<br />

lingua rosea. Ma ’Ntoni, che andava scrutando il muso della<br />

lepre, incuriosito da quella morte, osservava ora con la<br />

sua voce sempre un po’ troppo sonora e stridente:<br />

«Oh, ba’, guarda, hai visto che occhi?». E li mostrava,<br />

rovesciando verso l’alto la testa della lepre.<br />

68<br />

Era morta con gli occhi sbarrati. E il fatto colpiva ’Ntoni:<br />

quegli occhi sbarrati e morti. Uno come ’Ntoni, pensare.<br />

Ma attraversavano intanto il colto, seguiti da Tricò, e entravano<br />

nel frutteto dietro la fattoria, nell’atto in cui Pasqua<br />

si faceva loro incontro con Momo in braccio. Superato quel<br />

turbamento ’Ntoni si era impadronito della lepre e cercava<br />

con questa di impaurire la sorella, mettendogliela sotto gli<br />

occhi e fingendo che fosse viva.<br />

«Attenta che ti morde» gridava.<br />

Attraversavano il frutteto. E proprio lì si poteva vedere<br />

come gennaio fosse riuscito ancora una volta a sedurre i<br />

mandorli. Erano tutti fioriti. Bianchi, stracarichi: una veste<br />

nuziale fatta di fiori. Altri alberi, qua e là, nudi; ma loro, impavidi,<br />

questa inconsulta fenomenale gala. E erano fiori delicati,<br />

casti, che il sole aveva dischiuso a uno a uno con tocchi<br />

lievi: apriti, apriti. Domani, dopodomani, fra sei giorni, il<br />

vento li avrebbe un po’ alla volta sfioccati, o spazzati di colpo.<br />

Ne avrebbe fatto pattume.<br />

Impaurita dallo scherzo di ’Ntoni, Pasqua scappava e<br />

gridava:<br />

«No, no, smettila, ’Ntoni, ho paura, ho paura!».<br />

69


VI<br />

I PAPAVERI<br />

A fine marzo i papaveri esplosero. Erano venuti su quatti<br />

quatti fra il grano, la testa dura e ottusa bilanciata sull’esile<br />

collo. Neppure i denti dell’erpice erano valsi a sloggiarli.<br />

Fiori del sonno, avevano sonnecchiato essi stessi tutto quel<br />

tempo, ospiti illegittimi vissuti a ufo all’ombra dei legittimi<br />

vicini. Ma il marzo li scaldò, li gonfiò, infine li costrinse a<br />

dichiararsi. Ed essi come fuochi vennero fuori, le corolle<br />

sguaiate, i petali molli e cedevoli e un che di impudico nell’insieme,<br />

con quella pisside al centro – sigillata da un coperchio<br />

sparso di radi peli – che custodiva la droga del sonno,<br />

del sogno e dell’oblio.<br />

Nel frattempo anche le canne del grano erano cresciute,<br />

arrivavano ormai al ginocchio, se non pure alla coscia di<br />

Giuanni Cinus. <strong>Il</strong> vento delicato primaverile vi passava sopra<br />

la mano ed esse docilmente si piegavano al suo passaggio,<br />

la superficie del campo marezzava, trascolorava, era come<br />

se lunghi brividi di eccitazione e piacere la percorressero.<br />

Ed era appunto allora che, oscillando le canne e aprendosi<br />

un poco il folto, sanguigni sbucavano fuori, dondoloni anche<br />

loro, i fiori di carne, simili a coaguli rosso-vivo che picchiettavano<br />

con violento contrasto l’infinita distesa, l’infinita<br />

innocenza del verde.<br />

Nel frattempo si era posto il problema del sarchiare. Dare<br />

ossigenazione e scioltezza alla terra (che là dicono “rifiorimento”),<br />

mediante quel lavoro di orafo dell’uomo armato di<br />

marretta, che va di fila in fila, di cespo in cespo, e qui scalza<br />

là incalza, qui rompe un grumo là affastella e rimette in sesto<br />

il motto delle radici.<br />

È un lavoro che si può fare e non fare, dipende se si vuol<br />

mettere fretta alla terra o se ci si affida ad essa e alla buona<br />

ventura. Ma, con tutto che il grano veniva su che pareva<br />

70<br />

avesse la smania nelle radici, figurarsi se Giuanni Cinus poteva<br />

titubare nella scelta. Perché l’erpice, sì, rompe la crosta e fa<br />

il grattigno alla terra, ma certo non ha occhi né cervello, unghie<br />

soltanto, ha. Mentre la zappa si tira dietro un uomo, e<br />

questo ha ben occhi per vedere e giudizio per regolarsi: sa<br />

dove mettere e dove levare, quando dare di lama e quando di<br />

spigolo o tacco o “occhio”; insomma quello che fa lo fa a<br />

senno, non come viene viene.<br />

Senonché, zappettare un possesso di quella posta non è<br />

cosa da farsi da un uomo solo, sia anche un lavoratore addannato.<br />

E che?, verrebbe certo la stagione di mietere, avanti<br />

che abbia finito.<br />

In altre parole ci volevano dei giornalieri.<br />

Ma come pagarli, ecco il punto. A fine settimana, quelli<br />

lì, mica stanno a sentire storie, vengono e dicono: allora, bell’uomo,<br />

questa è la mano e qua metti lo zinghe-zanghe, non<br />

è che lavorino per divertirsi, nessuno più di lui lo sapeva.<br />

E che cosa gli dava per paga, ai giornalieri, avemarie?<br />

E invece la fortuna gli venne incontro anche stavolta,<br />

che sembrava che ormai, qualunque desiderio gli fosse saltato<br />

in testa, bastava dicesse ah, e eccolo servito. Gli occorreva<br />

denaro fresco per ingaggiare degli uomini? E benissimo,<br />

pronto. Ecco che anche il gregge, laggiù all’ovile, aveva l’annata<br />

seconda, le pecore figliavano che era una bellezza. E di<br />

più Jeremia Campus, il “bastante” addetto al gregge, il quale<br />

in breve tempo gli si era curiosamente affezionato (era innamorato<br />

di Pasqua Cinus!), aveva messo a sua disposizione la<br />

propria quota, vendesse e incassasse lui stesso il denaro, a fine<br />

anno si sarebbe parlato di conti, non stesse in pena: e<br />

che?, la fiducia era forse morta, adesso?<br />

Così, insomma, ecco che Giuanni Cinus faceva levata<br />

d’uomini, in giro per gli stazzi, contrattava e ingaggiava gente,<br />

lui che, finora, e da quando era ragazzo, contrattato e ingaggiato<br />

era stato lui stesso. Anzi era proprio questa, forse,<br />

una delle ragioni che lo spingevano a farlo. Rovesciate le posizioni:<br />

ora sono “io”, malasorte, che piglio uomini.<br />

È vero che arrivava negli stazzi, invece che a cavallo, a<br />

dorso d’asino. Un po’ perché il cavallo, disavvezzo com’era a<br />

servirsene, preferiva l’usasse ’Ntoni, più giovane e agile. Un<br />

71


po’ perché gli sembrava, chissà, di dar troppo nell’occhio,<br />

era trattenuto da una specie di rispetto umano. E, certo,<br />

quello di venirsene in sella a un asino a reclutare braccianti<br />

non era propriamente un fare da massaio.<br />

Ma in fin dei conti uno non si giudica esclusivamente<br />

dalla cavalcatura. La parte che fa, è quella che conta. Anzi,<br />

nel contrattare, lui pignoleggiava anche un poco, tirava di<br />

prezzo, s’impuntava; insomma, non voleva sfigurare, cosa<br />

credevano?<br />

Senza dubbio era singolare e anche piuttosto comico vederlo<br />

arrivare su quel palafreno, smontare, assicurare la bestia<br />

al palo e, con aria d’importanza, mettersi a marcanteggiare.<br />

Tu, come ti chiami, vuoi fare “un quanto” di giornate<br />

a sarchiare? Perché no, e quanto? Tanto. Uhm, e dove? Come<br />

dove: da me. Sottolineava indicibilmente quel “da me”,<br />

e più che mai gonfiava il petto e induriva la mascella; ancora<br />

un po’ e gli spuntavano fuori i bargigli, come al tacchino.<br />

Così c’era ora, questa novità dei braccianti, nella tenuta.<br />

Non era più Giuanni Cinus a perdercisi dentro, solo come<br />

un cane.<br />

Lavoravano a squadre di sei, una di fronte all’altra, partenti<br />

dagli opposti bordi del campo e dirette a incontrarsi<br />

nel mezzo.<br />

E becchettavano così di conserva la terra, con quell’attrezzo,<br />

la marretta, che è quasi nient’altro che manico, ha<br />

solo una piccola lingua in cima, ma alacre e tagliente e, dopo<br />

qualche giornata d’uso, tale che pare d’argento.<br />

Lavoro cane anche questo, altro che, alla sera hai da sentire<br />

che mani e che schiena e che reni. Eppure, a tirare la<br />

“scalata” era sempre lui, il vecchio, che pure avrebbe potuto<br />

limitarsi a sorvegliare. La chiamano così, i contadini, “scalata”:<br />

ed è il ritmo che riesce a tenere ciascuna squadra, regolato<br />

sul passo dell’uomo di punta, in gara con quelli della<br />

squadra antagonista. E lui appunto era quello che tirava la<br />

“scalata” per la sua squadra, trascinandosi dietro gli altri e, di<br />

riflesso – per ragioni di “punto” – la squadra opposta. E tirava<br />

davvero alla diavola, era difficile tenerne il passo, e difatti<br />

gli dicevano, mezzo ridendo mezzo imprecando: «Eh, ma<br />

72<br />

così ci farete rompere le ossa, in capo a un paio di giri; e che<br />

ci avete in corpo, le dimonia?».<br />

Quanto alle donne, la vita alla fattoria continuava a essere<br />

quella di sempre: la cura della casa, la lana, il focolare, la<br />

cura del cortile, le grandi biche quindicinali del bucato e,<br />

soprattutto, la eterna ricorrente interminabile fatica del pane.<br />

La quale durava sostanzialmente da un capo all’altro della<br />

settimana, la domenica esclusa, per poi ricominciare e durare<br />

e finire e ricominciare da capo. Eccola, infatti: il lunedì<br />

mondare il grano (cosa che là dicono “purgare”), lavarlo,<br />

farlo asciugare; il martedì, recare le corbe al molino centimolo,<br />

bardare l’asino, bendarlo, legarlo alla stanga e sorvegliare<br />

l’opera sua; il mercoledì, “spollinare”, un lavoro di<br />

braccia spalle mani e fiato, che consiste nello scernere, prima<br />

col setaccio poi con lo scuotimento di appositi panieri, il<br />

fiore dalla semola e questa dal cruschello e questo dalla crusca<br />

vera e propria; il giovedì lavoro leggero, predisporre la<br />

“mensa”, le “scivelle”, l’acqua e lavare il sale; il venerdì preparare<br />

la legna per il forno e, dopo il tramonto, togliere il<br />

lievito dal bagno d’olio e seppellirlo in una palla di pasta; il<br />

sabato, infine, alzarsi alle due di notte e finalmente intraprendere<br />

la confezione del pane, poi lasciarlo “riposare”, poi<br />

cuocerlo, poi sfornarlo, mettere nella madia quello per casa,<br />

nelle bisacce e nei tascapani quello per gli uomini, nelle ceste<br />

di canna quello d’orzo per i cani. E riposarsi il settimo<br />

giorno come Domine Dio.<br />

La differenza se mai era che Pasqua, la quale pure attendeva<br />

assieme alla madre a tutti questi lavori con la stessa cura<br />

di sempre, si sentiva tuttavia come straniata da essi e, in<br />

genere, da ciò che la circondava. E la ragione era che Fieli<br />

Pòrcina, dopo il fatto della sorgente, sembrava avesse deciso<br />

di punto in bianco di disertare Serri. Lo si era visto fuggevolmente<br />

alla Candelora (diceva che andava a maschere, era<br />

tempo di carnevale e allegria; voleva divertirsi, diceva; e a lei,<br />

Pasqua, boh, parole affatto usuali, come se non fosse memoria)<br />

e ancora una o due volte, sempre di passata, durante<br />

febbraio. Poi addio.<br />

Da principio lei, come si è visto, non aveva dato grande<br />

73


importanza alla cosa, presa fra l’altro com’era, si è anche detto,<br />

da quei suoi moti alterni di umore, schiarire e incupire<br />

dei cieli, secondo che pensasse che lui l’amava o no. Ma poi<br />

questa strana fuga, alla quale finalmente faceva caso, ecco<br />

che risolveva, e nel modo più amaro, il suo dilemma: lui<br />

non la amava affatto, ecco tutto, era stato soltanto un capriccio,<br />

il fatto della sorgente. E questo, appunto, la sconcertava.<br />

Lei che tanta importanza aveva dato a quel fatto, e<br />

vi aveva costruito castelli; lei ch’era nata quel giorno, poteva<br />

dire; lei che si era detta: la prossima volta, quando verrà, me<br />

lo dirà, vedrai, che mi “stima”; ebbene ecco qua, era accontentata<br />

e servita a modo. Lui diceva basta, è finita, cosa credevi?<br />

E prendeva il largo, statevi bene.<br />

Non era, propriamente, neanche dolore, il suo. E nemmeno<br />

rancore, ira, dispetto. Era soprattutto stupore. Come<br />

essere stati in un posto, mettiamo Serri, Arresi, Arcangia, o<br />

Baronia stessa, e tornarvi e non trovarvi più nulla di quello<br />

che c’era, le case la chiesa il municipio, nulla, tutto crollato.<br />

Lei così: desolazione. Dov’erano le case, il vuoto; dov’era<br />

la chiesa, calcinacci; e in quell’angolo nascosto, a lei sola noto,<br />

dov’erano cresciuti fiori, tutto spazzato. E case chiesa fiori<br />

non sono che un modo di dire, erano le cose che lei s’era fabbricata<br />

dentro, nei momenti dei cieli benigni, allorché riviveva<br />

la scena del 17 gennaio. E si aggirava fra queste rovine con<br />

passo da ladro, per non svegliare echi; vagabondava in se<br />

stessa in uno stato d’intontimento.<br />

Era come scissa, viveva in due differenti e separati universi:<br />

l’esterno e quello suo proprio, interiore. Ed era nel<br />

primo che accadevano fatti, scontati che fossero. Nell’altro<br />

invece, quiete profonda. Ma quel tipo di quiete, che non osi<br />

gridare ah, per paura che da tutte le bocche, da tutti gli antri<br />

gridino aaahhh, un’eco montante irridente che si risolve in<br />

una sghignazzata.<br />

La presenza dei giornalieri non portava troppe varianti<br />

nel tran tran della vita delle donne. Arrivavano essi dai luoghi<br />

loro che ancora non era giorno, e andavano dritti al lavoro,<br />

instradati (e messi alla frusta) da Giuanni Cinus. Staccavano<br />

quindi alle undici per consumare un boccone, ciò che<br />

74<br />

si esprime con un verbo che potrebbe tradursi con “mordicchiare”.<br />

Ma questo facevano sui bordi stessi del campo o sull’aia,<br />

seduti su un sasso o per terra, per essere pronti a riattaccare<br />

subito dopo. La sera, infine, quando mancavano poco<br />

meno di due braccia all’entrare del sole, staccavano definitivamente<br />

e “voltavano” ossia se ne tornavano definitivamente<br />

alle loro case.<br />

Raro che qualcuno salisse sino alla fattoria, se non era<br />

per chiedere, appunto all’ora del “mordicchiare”, una brocca<br />

d’acqua.<br />

I più erano anziani e padri di famiglia, ma ve n’erano<br />

anche di giovani ed erano soprattutto questi ultimi che più<br />

di frequente pativano la sete. Ronzavano attorno alla casa e,<br />

non appena appariva Pasqua, invocavano:<br />

«Bella vergine, si può avere un po’ d’acqua dalle tue<br />

mani?».<br />

E bevevano lentissimamente, impiegavano un tempo<br />

enorme a dar fondo al recipiente. Profittando per sbirciarla o<br />

osservarla, quali con sguardi fuggenti, quali maliziosi, quali<br />

sfrontati.<br />

Ma questo essere oggetto di desideri maschili – che ora,<br />

stranamente, avvertiva fulmineo, quando un tempo, sei mesi<br />

avanti, non ne avrebbe avuto neppure remotamente sentore<br />

– non le causava compiacimento, anzi, la faceva sprofondare<br />

ancora di più nel perduto universo che chiudeva in se stessa.<br />

Alla festa del Rimedio, verso la fine di marzo, Mariangela<br />

e Pasqua scesero a Arcangia, nel capoluogo, per assistere<br />

alle funzioni.<br />

L’occasione richiamava colà gran quantità di gente da<br />

tutti i villaggi gli stazzi e i casolari dei dintorni. Era una specie<br />

di raduno di primavera. A parte le funzioni religiose vi<br />

avevano luogo rappresentazioni di giocolieri, balli in piazza,<br />

gare di “poeti” improvvisatori, corse di cavalli e, a sera, spettacolo<br />

immancabile, i fuochi artificiali. E naturalmente vi si<br />

davano convegno – allineando i loro banchi, protetti da tende<br />

(le “parate”) in file ininterrotte sull’uno e sull’altro lato<br />

delle vie principali – venditori di torrone, biscotti, bibite, noci<br />

e nocciole, mandorle dolci e salate, ceci arrosto, carrube e,<br />

75


oltre a questi, merciai ambulanti che esponevano e offrivano<br />

le cose più disparate, trombe trombette palloni lingue-di-menelik<br />

caldaie in rame bracieri giare pentole, pizzi e ricami,<br />

pale da forno, forconi. E infine, per condimento, cosa anche<br />

questa immancabile, il gruppo di quelli che venivano alla festa<br />

per voto, una spolverata d’imbroglioni ladruncoli e femmine<br />

male, e lo scelto e spaventevole campionario dei mendicanti,<br />

la maggior parte deformi o mutilati.<br />

Attorno alle “parate”, ai banconi, ai palchi, lungo le vie<br />

e nei crocicchi (Arcangia poi constava essenzialmente di<br />

due vie principali più un paio di piazze e, a margine del<br />

paese, la “crociera”, com’era detta, ossia l’incontro di tre<br />

strade maestre con quella che s’inoltrava nell’abitato), la<br />

gente si assiepava, si pigiava, vociava, salvo uno stretto passaggio<br />

lasciato al centro per il deflusso, del resto lentissimo,<br />

della folla.<br />

E la festa era questa, in fondo: essere per una volta una<br />

moltitudine; sentire il calore, l’odore, la confricazione di gomiti<br />

dei propri simili, cosa abbastanza insolita e tutto sommato<br />

piacevole per gente abituata a trascorrere la maggior<br />

parte del tempo dispersa nelle solitudini.<br />

Per le pressioni della madre, benché personalmente riluttante,<br />

Pasqua si era agghindata per questa festa degli abiti<br />

migliori, come del resto faceva ogni giovane donna.<br />

Indossava una gonna a balza, lunga fino ai talloni secondo<br />

il costume di là e fittamente pieghettata a scanalature verticali.<br />

E le pieghe, di fuori, tolta la balza, erano di un azzurro<br />

appena accennato, come la biancheria dopo tolta dal turchinetto,<br />

in pratica un color ghiaccio; invece all’interno di ciascuna<br />

scanalatura il colore era rosso vivo come i fiori dei papaveri.<br />

Sicché, aprendosi queste pieghe nell’alternanza dei<br />

passi o nel moto della persona, la gonna a vicenda sbiancava<br />

o rosseggiava, appariva a momenti quel fuoco interno e l’incendiava<br />

e svaniva. La balza poi, larga mezzo palmo e corrente<br />

d’altrettanto più su dell’orlo inferiore, era anch’essa azzurra,<br />

ma di un azzurro violento notturno. <strong>Il</strong> busto era chiuso,<br />

fuorché sul davanti dove non è riparo che il lino della camicetta,<br />

dal giubbone di broccatello, ruvido per le volute di filigrana<br />

e squillante per i colori i fiori e i bordi squamati in oro.<br />

76<br />

E completavano l’abbigliamento, oltre la camicetta – sbuffata<br />

sul petto e fuoriuscente a palloncino dagli spacchi delle maniche<br />

del giubbone e a pizzi e gale sui polsi – le “broches”, gli<br />

orecchini, le quattro coppie di gemelli grossi come campanellini<br />

che stringevano i manicotti, il cappio di seta a fiocchi<br />

che regolava la scollatura. <strong>Il</strong> capo invece nudo, o poco meno:<br />

incorniciato cioè dal puro splendore dei capelli, questi ritorti<br />

in trecce e le trecce raccolte in su, a crocchia, a torre, il tutto<br />

sovrastato soltanto da un’esigua inamidata pezzuola di pizzo,<br />

come un corporale.<br />

Usciva tutto questo addobbo dall’arca odorosa di nardo<br />

che Mariangela Siddi aveva recato come corredo da sposa ai<br />

tempi suoi e che soltanto in occasioni come queste, quasi religiosamente<br />

si apriva. E, nell’ornarla via via di questi capi<br />

preziosi, Mariangela veniva contemplando la figlia con tenerezza,<br />

rivedeva se stessa in lei, e pensieri le salivano alla superficie<br />

dell’anima, anch’essi odorosi di nardo e abitualmente<br />

custoditi nelle chiuse arche dell’anima. A opera finita volle<br />

perfino carezzarla, la figlia, che mai accadeva, e disse: «Va’ là<br />

che sei un incanto, sposa mia specchio d’oro».<br />

Esaurite le devozioni, uscivano ora dalla chiesa per vedere<br />

e mostrarsi. Ma indugiando Mariangela con alcune comari<br />

delle parti sue, che soltanto in queste occasioni le era<br />

dato incontrare, Pasqua se ne venne pian piano, aggregata<br />

anche lei ad altre giovani, pure di Baronia e state sue intime,<br />

passando in rassegna i banchi dei torronai e di tutti i rivenduglioli<br />

che si son detti.<br />

Lo vide da lontano, subito. Era là, davanti a una “parata”,<br />

in un branco di giovanotti sghignazzanti e gesticolanti.<br />

Sapeva, che lo avrebbe rivisto. Se una ragione c’era, che<br />

l’aveva persuasa a cedere alle insistenze della madre (era però<br />

la stessa ragione che per altro verso la faceva riluttare) era<br />

questa: che lo avrebbe rivisto. E però si era detta: starai calma,<br />

quieta, non farai che ti agiti e ti mostri tutta sossopra.<br />

Non ti vuole, lui, non ti vuole, vuoi capirlo? Eppure, adesso,<br />

il cuore faceva un tuffo, sentiva che il viso le si sbiancava,<br />

perfino le gambe avevano un cedimento. <strong>Il</strong> marchio di fuoco,<br />

la nonna Vissenta, lui.<br />

77


Ma per reazione (era figlia di Giuanni Cinus) stringeva<br />

i denti e voltava il capo dall’altra parte.<br />

Lui viceversa non si era accorto di lei. Era appoggiato<br />

con l’uno e l’altro gomito al bancone di mescita della “parata”<br />

e si mostrava di profilo. Nel fitto della folla – pur rifiutandosi<br />

di ammettere che i suoi occhi ogni poco tornavano<br />

là – lei stessa lo scorgeva e lo perdeva. Notò perfino, sempre<br />

giurandosi che, sì, sprecava tempo a badare a lui, che tracannava<br />

del vino da un capace boccale a manico.<br />

<strong>Il</strong> gruppo di ragazze di cui essa faceva parte passò poco<br />

dopo davanti alla “parata” dov’era lui, e i giovanotti ch’erano<br />

con lui si voltarono a osservarle, dandosi di gomito e rompendo<br />

in risate, un po’ bevuti com’erano.<br />

Anche lui alla fine si voltò e venne e si collocò in prima<br />

fila fra i sodali, sempre reggendo in mano il boccale. I capelli<br />

erano squassati, scarmigliati; lo sguardo torbido.<br />

Sgranò gli occhi, li strabuzzò, guardò ancora stralunato;<br />

poi si passò una mano sugli occhi (nell’altra il bicchiere) indi<br />

sul muso e di nuovo sugli occhi; e infine disse:<br />

«Pasqua!».<br />

Ma così sottovoce che probabilmente nessuno lo udì, più<br />

col frastuono che c’era. Ma lei sì lo stesso lo udì, e se non lo<br />

udì materialmente lesse sulle sue labbra che lui pronunziava<br />

il suo nome, e se non fu nemmeno questo vuol dire che<br />

qualche cosa, un’onda, trasmise il richiamo e lei lo captò.<br />

Dopo di che, per un attimo, lei non era più lì, si trovò nuovamente<br />

nello spiazzo della sorgente, il giorno che muore, il<br />

silenzio trattenuto, e quei lampi, e quei tuoni, e perché lo<br />

avete fatto?<br />

Tuttavia procedette, a braccetto con le compagne, quel<br />

che la calca consentiva.<br />

I giovanotti, ora, lanciavano frecciate e motti salaci all’indirizzo<br />

delle colombelle, facevano a voce alta apprezzamenti<br />

sull’una e sull’altra, lei non esclusa, hai visto che occhi, che<br />

bocca, che questo e che quello, bella già da ninnare, ti ha<br />

detto niente la mamma? Ubriachi. <strong>Il</strong> vino scioglieva loro la<br />

lingua e la fantasia. Dal canto loro le ragazze affettavano di<br />

ignorarli, senza tuttavia adontarsi più che tanto, anzi; in fin<br />

dei conti era festa.<br />

78<br />

Egli s’intromise:<br />

«Smettetela» disse, volgendosi bieco ai compagni.<br />

Lo canzonavano, gli davano sulla voce:<br />

«O Fieli Pòrcina» esclamavano «e che? E quando mai?<br />

Marta rifiuta il grano, adesso? Che forse c’è tua sorella, fra<br />

quelle lì?».<br />

Allora Pasqua si ricordò di quando lui l’aveva salutata dicendo:<br />

Pace a te, Pasqua, sorella mia. Nel profumo e nel mistero<br />

della notte.<br />

S’intrometteva come un barrito l’urlo di un torronaio:<br />

«Ah che cosa dolce, ah che cosa buona, è miele, è miele!»<br />

intervallato dai colpi, rintronanti sul legno del bancone,<br />

di quel mannarino del quale si servono i torronai per affettare<br />

il torrone.<br />

Egli scagliò per terra – quasi sui propri piedi, nel poco<br />

spazio che c’era – il boccale, che andò in mille pezzi.<br />

«In malora!» disse, non fu possibile capire a chi. E, questa<br />

volta a voce altissima, come suggestionato dal grido del<br />

torronaio urlò dietro il gruppo delle ragazze che già era andato<br />

oltre: «Pasquaaa!» che pareva lo sbudellassero.<br />

Essa si irrigidì. Era allibita. Dio mio che vergogna, Gesù<br />

quale disdoro! Chiamarla così, davanti a tutti, per strada,<br />

una “vergine”! Doveva essere proprio ubriaco o uscito pazzo<br />

per comportarsi così.<br />

Frattanto le compagne, anch’esse sbalordite ma nello<br />

stesso tempo messe sulla graticola dalla curiosità, la trascinavano<br />

via cercando di confondersi in mezzo alla folla. E intanto<br />

l’assalivano con domande e pissi-pissi.<br />

«Ma cos’è? Ti ha chiamata! Perché ha gridato così? Che<br />

vuole? Lo conosci? È pazzo? È il tuo innamorato? È ubriaco?<br />

Ti stima?».<br />

Non sapeva cosa rispondere né voleva del resto. Affrettava<br />

ancora di più il passo: andiamo, andiamo via. E, nel moto,<br />

più che mai vampava la gonna quell’alternante infiammato<br />

rossore.<br />

Sulla piazza si ballava il ballo tondo.<br />

È una danza sopravvissuta laggiù da migliaia di anni, dal<br />

tempo delle origini, dalle prime migrazioni, l’età di Micene<br />

79


e Cnosso, di Teseo, di Giasone, soprattutto di quel Dedalo<br />

che, secondo una variante della leggenda, qui per l’appunto<br />

sarebbe approdato, dopo lo sciagurato fantastico volo e<br />

avrebbe inventato e costruito i primi nuraghi.<br />

I ballerini erano già raccolti in quel momento sul palco<br />

e si accingevano a eseguire le figure del ballo al suono di un<br />

organetto.<br />

Erano divisi in due gruppi: maschi da una parte femmine<br />

dall’altra. Né pareva che stessero per eseguire una danza,<br />

ma che attendessero di celebrare un rito, per come erano<br />

compassati e compresi. Più tardi lo sarebbero stati ancora di<br />

più, sarebbero apparsi straniati e assorti, quasi misticamente<br />

rapiti. <strong>Il</strong> perché è che un ballo così è effettivamente ciò che<br />

rimane di un rito magico, del quale soltanto a poco a poco,<br />

e andando alla radice dei simboli, è dato scoprire la chiave e<br />

afferrare il significato.<br />

Prima che la danza avesse inizio, l’organetto enunziò il<br />

motivo: due temi, tre temi, non di più; che sarebbero stati<br />

via via ripetuti, con crudele monotonia, fino all’esasperazione.<br />

Motivi semplici, elementari, né allegri né tristi in se stessi,<br />

ma che potevano diventare allegri o tristi col variare del<br />

ritmo. E lenti, dapprima; soltanto dopo sarebbero venuti<br />

l’accelerazione e il batti-batti.<br />

Frattanto quattro schiere – due maschili due femminili,<br />

l’una all’altra contrapposte – formarono un quadrato. I componenti<br />

di ciascuna schiera, fianco a fianco, aderivano così<br />

strettamente fra loro da formare un tutto unico, una specie<br />

di muro compatto.<br />

Si attaccò, le schiere presero a muoversi.<br />

Non danzavano, propriamente, piuttosto vibravano.<br />

Stando ferma la persona, il busto eretto, lo sguardo dritto davanti<br />

a sé, l’intera figura perfettamente a piombo, si determinava<br />

in ciascun gruppo una specie di scrollo, dato dal muoversi<br />

ritmico e rapido ma quasi inavvertibile dei piedi; scrollo<br />

che dai piedi si propagava fino al capo come per effetto di<br />

brividi. Poi i piedi presero a muoversi più velocemente, però<br />

sempre segnando soltanto il passo, senza avanzare né indietreggiare.<br />

Finché a un tratto una delle due schiere maschili,<br />

come se levitasse, eseguì non tanto un avanzamento quanto<br />

80<br />

una specie di traslazione in avanti, verso la contrapposta<br />

schiera femminile. Un muro si spostava verso un muro,<br />

mosso da vibrazioni. Ma giunto sulla linea del muro fermo,<br />

il muro in movimento faceva alt, come toccato da scossa<br />

elettrica e, sempre conglutinato e integro, riguadagnava rinculando<br />

il punto di partenza. Indi il secondo muro maschile<br />

ripeteva l’operazione in senso inverso: spostamento, alt,<br />

arretramento. E così, a vicenda, le due schiere femminili.<br />

Nello spostamento di queste, le gonne muliebri, scuotendosi,<br />

accennavano a scampanare.<br />

A questo punto la musica dell’organetto mutava ritmo.<br />

Secondo tema: il dio incombe, l’ora è venuta. <strong>Il</strong> quadrato<br />

dei ballerini si trasformava in un cerchio: un semicerchio di<br />

uomini, uno di donne. Poi questo cerchio, come la rosa dei<br />

beati, incominciava a ruotare. Un quarto di giro a dritta, alt.<br />

Un quarto di giro a rovescio. Un quarto più un quarto di<br />

giro di nuovo a dritta, e ancora un quarto di giro a rovescio<br />

e così via, finché non fosse raggiunta l’interversione delle<br />

posizioni iniziali. E questo era il momento nel quale finalmente<br />

dal gruppo si staccava l’uno; nel quale il singolo per<br />

la prima volta entrava in scena.<br />

Terzo tema: esaltazione e declino dell’eroe, brevità della<br />

gioia. Dopo un silenzio e uno strappo deprecatorio straziante,<br />

l’organetto ripigliava spavaldo, poi incalzante, infine frenetico.<br />

I piedi dei danzatori (il tronco sempre rigido, impettito,<br />

mai flesso) si muovevano adesso con una accelerazione<br />

incredibile, continuando la rosa, a scatti alterni, a ruotare.<br />

Intanto il ballerino che era uscito dal gruppo e si era collocato,<br />

isolato, al centro della ruota, si sbizzarriva per conto proprio<br />

nelle figure della danza: andava e veniva, saltava, si piegava<br />

fulmineamente sulle ginocchia, faceva perno su se stesso<br />

come un frullino, minacciando di crollare schiantato. Egli<br />

era solo e perso nel paradiso delle delizie; era frastornato eccitato<br />

e folle, ma non conosceva la gioia. Allora l’Eterno gli<br />

mandò un sonno profondo e, toltagli una costola…<br />

Schizzò anche dalla schiera femminile l’essere singolo.<br />

Scaturì all’improvviso dal perimetro del cerchio, venne a sua<br />

volta all’interno di esso, scosse le gonne, le roteò: si ebbe<br />

un’idea di frullo, l’illusione di uno sbattere di ali di farfalla.<br />

81


Allora si levò un grido da tutti i coreuti maschi: «Hijùuh!».<br />

Era stata inventata la gioia, l’allegrezza era penetrata nel mondo.<br />

Ballerino e ballerina – il solo e la sola – giostravano ora nel<br />

cerchio, si rincorrevano, si sfioravano: lui l’impeto la brama e<br />

l’ira, lei l’idolo sfuggente e enigmatico, la preda continuamente<br />

a portata di mano eppure imprendibile. E gridavano i maschi:<br />

«Hijùuh!» e pestavano il piede, incitando. Ma rispondevano a<br />

cadenza le donne battendo anche loro il piede e simulando<br />

paura e rifiuto.<br />

Alla scena finale poi – lei finalmente catturata e in atto<br />

ormai d’essere tolta – qualcosa accadeva, entrambi i ballerini<br />

si irrigidivano senza tradire più un moto.<br />

La gioia era finita, subentrava la nera morte. Ma, tetragono<br />

e indifferente, il gruppo riassorbiva i due, inglobandoli<br />

di nuovo in sé per fare posto a due altri. Con i quali la scena<br />

si ripeteva, e così di seguito, quanti erano i ballerini.<br />

E dicevano le compagne a Pasqua:<br />

«Su, saliamo, saliamo anche noi».<br />

Lei non voleva, resisteva, ma no. Ma era trascinata, sospinta,<br />

saliva. E una volta salita sulla pedana prendevano<br />

quasi di forza i suoi piedi a danzare e il suo corpo a vibrare.<br />

Contro ogni sua volontà. Era il blocco nel quale era stretta.<br />

E la musica, l’istinto, il nume.<br />

Avanzare, retrocedere. Questo certo fu il ballo più strano<br />

che avesse mai ballato. Per rincuorarla, dopo il fatto di<br />

Fieli Pòrcina, le avevano detto: Su, su, prendi un bianchetto.<br />

Da una venditrice di paste dolci che se ne stava appollaiata<br />

accanto alla sua corba come una chioccia che abbia lasciato<br />

momentaneamente la cova. Ancora avanzare, ancora<br />

retrocedere. E contenevano, questi bianchetti, rosolio. E loro<br />

dicevano (giù, batti il piede): Prendine un altro, sono<br />

buoni, ti farà bene. E ne aveva preso un altro e anche quest’altro<br />

(il piede, batti il piede) conteneva rosolio. E insomma<br />

prendine ancora uno ti farà bene, e lei a prenderlo, e ancora<br />

un altro, e lo prendeva, fatto sta che (conversione, cara,<br />

non lasciarti distrarre) doveva averle fatto proprio bene questo<br />

rosolio, perché si sentiva la testa che (batti il piede) non<br />

capiva più niente, se era o non era. Mai capitata una cosa simile<br />

a lei, figlia di mamma (batti, batti il piede).<br />

82<br />

Ballava si muoveva eseguiva gli spostamenti, come la portava<br />

la schiera della quale faceva parte, nella quale era come<br />

incastrata. Quel muovere rapido dei garretti la stordiva ancora<br />

di più che già non fosse, le dolevano i fianchi, il petto ansava.<br />

<strong>Il</strong> grido repentino di “Hijùuh!” la sorprendeva ogni volta come<br />

un allarme, lo confondeva con quell’altro, col grido di lui<br />

che sbraitava “Pasqua!”, in presenza di tutto il mondo, e anche<br />

lei aveva voglia di gridare: Basta, basta! e che la lasciassero<br />

andare. Ma era presa e trascinata, qui sei e qui resti, non poteva<br />

fuggire. E ballare, vibrare. Finché ogni pensiero perdeva<br />

qualsiasi senso, lei era per così dire sradicata, estirpata da se<br />

medesima. Si fa parte di un tutto che ti tiene e ti preme. Però<br />

anche, vedi?, ti sorregge e ti culla. Se anche ti abbandoni, se<br />

cedi, se svieni, non cadi, non temere. Importante per ora è<br />

che continui a ballare. Poi, è vero, verrà il tuo turno, ma che<br />

conta? È cosa breve, due salti, due piroette, ed è finita. E poi?<br />

Poi cosa?, poi sei ripresa, soccorsa, basta. Chi mi riprenderà,<br />

Fieli Pòrcina? No, cara, che dici?, il gruppo, il tutto. Ah, be’,<br />

perché quel furfante di Fieli Pòrcina, vergogna, chiamarla così,<br />

in mezzo alla strada, spramato: Pasquaaa! Chi crede di essere?<br />

Che diritti ha? Come ha potuto permettersi? Non ci pensare,<br />

cara, ora balla: attenta, preparati, sta per venire il tuo<br />

turno. No no, io ci penso e come: che diritti ha?, eh, me lo sai<br />

dire? Allora si ricordava la sorgente, la solita storia della nonna<br />

Vissenta, il bacio che si era stampato sulla sua bocca: ecco<br />

quali diritti. <strong>Il</strong> marchio, no? E si domandava se si vedesse, se si<br />

accorgessero tutti che aveva quel marchio, e voleva quasi quasi<br />

portarsi la mano alla bocca per nasconderlo, perché nessuno<br />

lo vedesse. Poi si disse decisa non me ne importa. Macché diritti,<br />

era ubriaco. Ecco com’era finito: ubriaco. Divertirsi, parlava<br />

sempre di divertirsi. Ah, bella roba, puah: bere e ubriacarsi,<br />

questo era il divertimento. E solo per questo si era messo a<br />

sbraitare e a comprometterla, chiamarla così in faccia a tutti, a<br />

Cristo e al popolo, che chissà cos’avranno pensato sentendolo.<br />

Eppure quel grido, a dispetto dell’ira e dell’onta, le rintronava<br />

nella teca del cranio non come un grido di scherno,<br />

di vanteria o di dominio, ma come il grido di un naufrago,<br />

qualcosa di disperato. E era questo, più ancora che l’affronto,<br />

che la struggeva. Tornava a udirlo, il suo nome (attenta cara,<br />

83


fra poco tocca a te) urlato come da sponde lontane: Pasqua!,<br />

Pasqua!, dove sei, aiuto, aiuto! Muoveva in fretta i piedi, più<br />

in fretta, più in fretta, non già perché così comandava la danza<br />

o il ritmo dell’organetto, bensì perché cercava di correre<br />

incontro a lui, e correre non poteva, era stretta ai due lati dalla<br />

morsa del gruppo, era nella condizione di chi nel sogno<br />

vorrebbe affrettarsi ma urta contro un ostacolo, non si sa cosa,<br />

e sgamba, lotta, insiste, che patimento. Senonché tutt’a<br />

un tratto i lacci cedono, le dighe sono sfondate, può liberarsi,<br />

andare. Coraggio, cara, muoviti dunque, scuotiti, va’, è arrivato<br />

il tuo turno.<br />

E andava. Era al centro del cerchio, al centro del mondo,<br />

tutti che la osservavano. Che fare, ora? Era come abbacinata.<br />

Voi che lo sapete, vi prego, ditemi dov’è il mio amore. Ma è<br />

li, non vedi?, danza, sorella, danza. Danzava. Eseguiva le scene,<br />

le fughe, le reversioni. Estatica e quasi ieratica. Senza vedere<br />

nulla, senza sapere nulla, fuorché quest’unico fatto; che<br />

andava, finalmente sciolta, a passo di danza, incontro a colui<br />

che amava. Tutto il resto dimenticato o ignoto, vero soltanto<br />

questo: egli l’aveva chiamata e lei andava. L’esultanza, la gioia<br />

bacchica, sul ritmo ossessivo dell’organetto, s’impossessavano<br />

infine di lei. I fianchi più non dolevano, il petto – coi due<br />

emisferi gemelli che lo gravavano: lei, eretto il busto (mai<br />

flesso), li portava come doni, le pareva a momenti, nel moto<br />

sussultorio, ch’essi suonassero come due crepitacoli – più<br />

non ansava. Avvertiva anzi, in tutto l’essere, una sensazione<br />

sconosciuta, nuova, strana, e così smemorante che, pur inebriandosene,<br />

ne aveva paura. Dov’è il mio amore? A lui porto<br />

i miei doni, ditemi per piacere, se lo sapete, dov’è. E il cerchio,<br />

il coro: Ma è proprio lì, non vedi? È lì, guardalo, è lì.<br />

Che ne sapeva chi fosse il ballerino che danzava con lei?<br />

Che le importava? È il caso che sceglie, in questo ballo, le<br />

coppie. A lei importava di giungere, a guado, le sponde lontane.<br />

La gonna a doppia faccia si apriva e si rinserrava. Cos’era,<br />

lei? Era gelo. Cos’era, lei? Era fuoco. Danzava tra gelo e fuoco,<br />

gelava e bruciava, la danza era gioia e pena, ditele soltanto<br />

dov’è il suo amore. E gridavano, in coro: «Hijùuh!».<br />

Ma adesso stai per giungere, devi solo eseguire la figura<br />

finale, lasciarti ghermire, predare. Lui ti rincorrerà un’ultima<br />

84<br />

volta e tu cedi, donati, tu non fuggire. Così, brava, così. E ora?<br />

Ora è venuta la grande ora: devi morire. Sì, cara, morire. È facile,<br />

sai. Batti con forza due colpi sulla pedana e poi ti immobilizzi,<br />

riversa, le braccia incrociate sul petto, addio addio. Così,<br />

bene, bravissima, che bella morte!<br />

Le giunse improvviso l’applauso. La folla ammassata intorno<br />

al palco, ammirata, applaudiva. Perché? Cos’era successo,<br />

dov’era?<br />

Erano l’ultima coppia, lei e quell’altro che aveva danzato<br />

con lei. <strong>Il</strong> ballo era terminato: applaudivano.<br />

Lei guardava intorno stupita; osservava il cavaliere. Le<br />

tornava la coscienza come da distanze infinite. Che strano,<br />

guarda, gli somigliava, costui: la fronte, gli occhi, la bocca.<br />

Lui disse sommessamente:<br />

«Pasqua!».<br />

Vi fu confusione, trambusto. I ballerini lasciavano il palco,<br />

passando la urtavano.<br />

Non era possibile. <strong>Il</strong> rosolio di quei bianchetti? Le girava<br />

la testa. Ma lui disse ancora, impacciato e confuso:<br />

«Pasqua!».<br />

E non era possibile adesso ingannarsi, non era possibile<br />

che fosse il rosolio.<br />

Diceva ancora:<br />

«Sì, sono proprio io, svegliati, cuore mio. Scusami per<br />

poco fa, perdonami. Sai, sono un po’ male in sesto, ma solo<br />

qualche bicchiere, ti assicuro, non è che… perché, vuoi saperlo?,<br />

io di te… io ti…». Impastate e incerte le parole a causa<br />

della lingua ancora legata e poi dell’ansimo, dopo tutto<br />

quel turbinare. Però abbastanza in forze e ancora lucido. <strong>Il</strong><br />

concetto, in ogni caso, solare: io di te, io ti.<br />

Crepitavano gli ultimi battimani. I ballerini scendevano<br />

dalla scaletta salutando i plaudenti come atleti vittoriosi.<br />

Io di te, io ti. Applausi.<br />

Lei riusciva soltanto a dire, stralunata:<br />

«Vustè?».<br />

Applausi. La tiravano via le amiche, rischiava se no che<br />

sul palco restasse solamente lei con quell’uno. <strong>Il</strong> solo e la sola.<br />

Alla vista del mondo.<br />

85


<strong>Il</strong> più vicino torronaio berciava: «Ma cos’è, questo, eh?<br />

E provatelo. È miele, è delizia!».<br />

Ancora applaudivano.<br />

L’indomani, a Serri, Momo ebbe un attacco del suo male.<br />

Ne soffriva qualche volta, ma a intervalli lunghissimi. Per<br />

fortuna la crisi fu corta, si protrassero le convulsioni pochi<br />

minuti, poi il ragazzo giacque inerte. Bisognò a ogni modo<br />

essere lesti a cacciargli una pezzuola fra i denti, prima che le<br />

mascelle si saldassero e ci fosse pericolo che si tranciasse la lingua.<br />

Ci volle però del tempo per vederlo rinvenire. E quando<br />

rinvenne, la prima persona che invocò, mugolando e farfugliando,<br />

non fu la madre, ma Pasqua.<br />

L’incidente spaventò un poco tutti, e fra l’altro evitò che<br />

Giuanni Cinus fosse informato della chiassata di Fieli Pòrcina,<br />

per la quale Mariangela, nel viaggio di ritorno, aveva fatto<br />

aspro rimprovero a Pasqua, la sua opinione essendo che,<br />

certo, se una cosa simile era potuta succedere, una qualche<br />

colpa doveva averla anche lei, col suo comportamento, chissà.<br />

Una volta a Serri, tuttavia, con Momo in quello stato, ci<br />

fu altro cui pensare.<br />

I giornalieri, nel frattempo, non avevano avuto pietà dei<br />

papaveri. A colpi di marretta ne avevano fatto strage. Di più<br />

era accaduto che uno di costoro, proprio uno fra quelli che<br />

più di frequente venivano a chiedere acqua alla fattoria, in<br />

un impulso di rustica cavalleria aveva voluto raccoglierne un<br />

mazzo da offrire a Pasqua (un mazzo?, un fascio, un’intera<br />

bracciata), omaggio alla giovane e avvenente datrice d’acqua.<br />

Omaggio che Pasqua, dal canto suo, presente la madre,<br />

aveva accettato confusa.<br />

<strong>Il</strong> mazzo era poi finito – cessatone nel giro di un giorno<br />

il rutilante splendore – in mezzo ai sarmenti e alla legna del<br />

forno.<br />

Soltanto alcuni, di questi papaveri, si tennero da parte.<br />

Furono per qualche giorno la medicina di Momo. Infuso<br />

di papaveri. Gli fa bene, lo calma, sentenziava Mariangela.<br />

E non a torto. Essendo questa la virtù dei papaveri: infondere<br />

sonno e oblio.<br />

86<br />

VII<br />

IL GRANO IN FIORE<br />

È cosa che dura un giorno, due giorni. O quanto? Molti<br />

non ne conoscono neppure l’esistenza: il grano ha un fiore?,<br />

il frumento?, domandano. E corrono magari a documentarsi.<br />

E scoprono che sicuro, anche il grano, il frumento (frumens<br />

triticum) ha un fiore, non è pianta asessuata né crittogama,<br />

ma fanerogama: nozze alla luce del sole, precisamente. E appunto<br />

il fiore è il presupposto, diciamo, di queste nozze, il<br />

tramite e la condizione senza la quale…<br />

Uscivano tenerissimi dalle camicie ancora verdi. Ma che<br />

erano? Virgole, erano. Difficile immaginare fiore più piccolo,<br />

mite e dimesso di questo.<br />

Innanzi tutto il colore. Supponiamo il cielo, in quell’ora<br />

verginale quando non è ancora l’annunzio ma la speranza<br />

del giorno, un desiderio, anzi, che il giorno verrà, minacciato<br />

per assurdo dal timore che il sole, per una volta, potrebbe<br />

non sorgere. Un qualcosa così, un grigio avorio con una<br />

memoria di azzurro, un caffelatte chiaro chiaro spruzzato di<br />

un’ombra di marmellata di prugne. Insignificante? E pensate<br />

alla mescolanza di gialli grigi e oltremarini per ottenere<br />

una sfumatura così.<br />

Poi la grazia. In genere i fiori hanno pompa, profumo,<br />

vanità; ma questi? Sono solo un ronciglio, un ricciolino. Non<br />

sono da confondere con le barbe del grano, le ariste, ben più<br />

ostentate e visibili. Quelle sono le ciglia, le dita, le antenne,<br />

secondo che più vi piace, delle spighe. Mentre questi non ne<br />

sono che il momentaneo ornamento e il capriccio. E profumo,<br />

certo ne hanno, ma solo olfatti privilegiati possono coglierlo,<br />

è raro e prezioso, distillato arcanamente, sa di pulito,<br />

di fresco, “di pioggia” e, nelle ore più piene del giorno – un<br />

presentimento? – di pane. Infine, quanto alla vanità, la loro è<br />

proprio quella di non averne e di esser casti, puri, soavi.<br />

Ma come fanno, alla fine, a adempiere alla loro funzione<br />

di fiori? Attirano insetti, api? Chi sono i pronubi?<br />

87


Pronubo è il vento, lui solo. Nella spiga che va formandosi,<br />

essi sbucano dall’involucro di quelli che saranno poi i chicchi,<br />

come tanti sonaglini. Quanto più carica è di vita, più la<br />

spiga se ne agghinda e se ne imbellisce, a guisa di un ninnolo<br />

che getti lateralmente zampilli. Allora il vento come un bambino<br />

s’impadronisce di questi ninnoli e, secondo il capriccio<br />

suo, con delicatezza o rudezza li scuote. Così si compie il rito<br />

nuziale del grano e, da fiore a fiore, il commercio sessuale dello<br />

scambio del polline.<br />

Hanno soltanto che, essendo così fragili, durano un tempo<br />

incredibilmente breve. Un giorno, due giorni. O quanto?<br />

Ed ecco per tutte le chine, a Serri, il grano metteva fiore.<br />

Distesa enorme, fiori infiniti. Venti, trenta per ogni spiga;<br />

quante saranno state le spighe? E bisognava ben credere che<br />

gli zefiri dell’aprile – i putti dalle gonfie gote, alati, galleggianti<br />

nell’aria, che si vedono nei vecchi atlanti – avessero lavorato<br />

a dovere per produrre un così vasto, diffuso, simultaneo<br />

risveglio.<br />

Nessun paragone possibile fra lo spettacolo che offriva oggi<br />

l’ingenuità di questi fiori, e la rossa carnale opulenza ostentata<br />

fino a due settimane prima dai fiori dei papaveri. E non<br />

l’apparenza soltanto. Portavano promesse diverse: questi l’inganno,<br />

la droga, la mistura che smemora e adduce fantasmi;<br />

quelli il seme che nutre, la farina, il pane.<br />

Ma non è a queste cose, s’intende, che pensava Giuanni<br />

Cinus, mentre saliva quel pomeriggio per la strada di Sinniri,<br />

grama e infossata, a cavallo dell’asino. Pensava piuttosto che<br />

da questi cincinni, fra poco, hai da vedere che ingrano.<br />

Veniva dalla campagna di Tula, l’ovile delle pecore, in<br />

“parte di sole”. La strada che percorreva sprofondava in quel<br />

punto di almeno tre braccia, rispetto al piano della campagna:<br />

una spaccatura del banco argilloso, la quale si trasformava,<br />

durante i rovesci d’acqua, nel letto di un torrente. La ripa, a<br />

filo della trincea, era ben più alta della testa di un uomo a cavallo<br />

di un asino. Dalla sponda di destra, per lui che veniva in<br />

su, incominciava il possesso. E appunto su questa ripa, non<br />

essendo bisogno di siepi, veniva a morire la distesa del grano.<br />

Perciò il grano, a lui che l’osservava dal basso, appariva, su<br />

quello zoccolo di terra rossa strapiombante, eccelso, ancora<br />

88<br />

più alto di quanto non fosse in realtà, e così impetuoso nello<br />

spingersi fin sullo scrimine, da far temere che un po’ un po’<br />

traboccasse. Certo non sfuggivano, ai suoi occhi esercitati,<br />

sulla costa delle spighe, quei pallidi diafani fiori. Ed era proprio<br />

da loro che misurava l’ingrano.<br />

«Hài, tvrr!» diceva incitando la bestia.<br />

Incitava anche se stesso.<br />

Coraggio, si diceva, coraggio. Vedrai che ce la farai; devi<br />

farcela, al punto in cui siamo. E dove lo trovi, dimmi, un grano<br />

che butta così? Se viene come promette, nel grano potrai<br />

affogarci, te lo dico io. Davvero ti si è rovesciato il destino.<br />

Ancora una volta si ricordava (ora gli era abituale) il sogno<br />

della mattina di novembre. Piano piano ogni cosa accadeva<br />

come l’aveva immaginata: lo spuntare dei germogli, l’incannato,<br />

e ora le spighe e questi fiori. E che cosa di meglio,<br />

che “stoccata” poteva desiderare, più di così? Sembrava che il<br />

destino altro pensiero non avesse che di realizzare la sua visione:<br />

togliere via via le cose dai regni del nulla e farle succedere.<br />

Con lui, beninteso, a fargli da levatrice, perché, perdio, non è<br />

che lui se ne stesse con le braccia incrociate, a aspettare che<br />

succedessero, ah. Domandare alle sue spalle e alle sue reni.<br />

Di nuovo guardava in su, di nuovo la speranza gli cresceva<br />

di dentro come un lievito (quella palla di pasta, tenuta<br />

in serbo nella madia, che giusto è detta “crescente”).<br />

Se tiene, Cristo, se appena tiene, ne riparleremo al momento<br />

di contare le quadre. Pensava a Nanni Pòrcina, e a<br />

quell’altro ciondolone del figlio, Fieli Pòrcina (che chissà, a<br />

proposito, com’è che non s’era più visto, da qualche tempo, a<br />

Serri) il quale, anche lui, tz!, faceva l’incredulo, si dava le arie<br />

di uno che ci va cauto, in fatto di previsioni, con tutti i suoi<br />

se e i suoi ma. Bene, bene, al <strong>raccolto</strong>, a riparlarne, quando<br />

sarebbe stato il momento di levare e insaccare.<br />

Se tiene, naturalmente. E qui sputava e faceva le corna<br />

contro il malocchio e l’influsso del Maligno, che ci mancherebbe<br />

anche questa. Crepa, tie’, Mala Bestia, diceva mentalmente<br />

rivolto al Maligno. <strong>Il</strong> quale proprio così: “Bestia”, è<br />

detto in lingua nostra, alla maniera della Scrittura: la Bestia<br />

per antonomasia, la Bestia dell’Apocalisse. E frattanto batteva<br />

colpi su quest’altra assai più concreta, mansueta e del tutto<br />

89


incolpevole bestia che aveva sotto, e vale a dire l’asino, lo toccava<br />

di verga sul collo e di calcagno sotto la pancia, quasi fosse<br />

proprio l’asino l’incarnazione della Bestia maledetta e perversa,<br />

che poi lui, sta’ a vedere, con tutta sicurezza veniva<br />

cavalcando per la strada di Sinniri.<br />

Ma intanto quel pensiero, appena affacciato, rispuntava.<br />

Già, come mai quel bel tomo di Fieli Pòrcina non si era fatto<br />

più vivo da un pezzo a Serri? Tuttavia non si curò di dare alla<br />

domanda una risposta. Dopo tutto, bah, è affar suo, si disse,<br />

a me che me ne viene? Lo saprà lui, il perché.<br />

Tranquillo, come uno che si è posta una domanda, in<br />

fondo casuale e oziosa, e per nulla se ne turba, mentre a cavallo<br />

del proprio asino se ne va, passo passo, in pace.<br />

E viceversa, proprio a quell’ora, sulla strada per Serri, tutta<br />

un’altra direzione, Fieli Pòrcina aveva effettivamente a che<br />

fare, in qualche modo, coi pensieri di Giuanni Cinus. Era,<br />

cioè, in compagnia di sua figlia, Pasqua Cinus, fiore di grano.<br />

L’aveva raggiunta – lui a cavallo – lungo la strada di Serri,<br />

che andava a spese. Sola.<br />

«E dove vai madre mia?».<br />

Dall’alto dell’arcione (il cavallo che rampava), giuntole a<br />

ridosso lanciato, e di colpo fermatosi. Bravure dei cavallerizzi<br />

di Arcangia, famosi nelle feste patronali per come montano<br />

alla brava i cavalli corridori.<br />

Lei si era scansata e voltata, tutt’occhi, per il momentaneo<br />

sgomento che il cavallo potesse travolgerla. E lo guardava ora<br />

di sotto in su a bocca aperta, quel viso acerbo di donna e di<br />

bambina che la pezzuola bianca chiudeva tutto attorno, come<br />

in cornice.<br />

La stessa cosa di quando lo aveva finalmente ravvisato<br />

sul palco, dopo la scena del ballo, alla festa del Rimedio:<br />

«Vustè!» disse. Come se lo vedesse sprizzare dalla terra o<br />

calare da una nuvola.<br />

Non lo aveva più visto da allora, un tempo per lei lunghissimo,<br />

e tante cose erano passate nell’animo suo, che avevano<br />

lui per oggetto. E da lontano l’invocava: vieni, vieni (ora<br />

non fingeva più con se stessa), e non veniva. E ora eccolo qui<br />

all’improvviso, baldo sul suo cavallo, e bello come Sant’Efisio<br />

benedetto. La sua meraviglia scaturiva da questo.<br />

90<br />

«Io, sì» lui diceva ridendo. «E chi, se no? <strong>Il</strong> mio fantasma?».<br />

<strong>Il</strong>are e sciolto. Passati, naturalmente – e oggimai dimenticati<br />

– i fumi di quel giorno. E con essi, chissà, anche per<br />

lui, tante altre cose: esitanze, inibizioni. Da quella scena del<br />

ballo nella quale lui, fumi o non fumi, vedendola tutta stordita<br />

e smarrita, aveva capito che il frutto era proprio maturo<br />

e fatto, molte delle ragioni che dicevano no, erano venute<br />

meno. E se non era partito subito ventre a terra per Serri era<br />

perché, a parte l’incertezza di poterla trovare sola, residuava<br />

in lui, se mai, quel tanto di indolenza ch’era proprio della sua<br />

indole e che chiamano, là, malas intrangias, cattive viscere.<br />

Ora anche questo non c’era più. Cadeva o non cadeva questo<br />

frutto dall’albero? Certo che cadeva, eccolo che cadeva.<br />

La sorte, anzi (poiché anche stavolta l’incontro era predisposto<br />

dal caso) si sarebbe detto che glielo facesse, il frutto, rotolare<br />

fra i piedi. Infatti quando, poco prima, sopravvenendo<br />

alle sue spalle, l’aveva scorta da lontano, si era detto che il<br />

giorno ormai era venuto, che il frutto era lì per terra, non restava<br />

che chinarsi a raccattarlo. E lui, ebbene, questa volta si<br />

chinava. Per questo lui era allegro.<br />

Lei no, invece, non lo era. Da quel giorno del ballo –<br />

poca che ne aveva già prima – non aveva avuto più pace. Riguardo<br />

a lui come riguardo a se stessa. Egli l’amava, non l’amava,<br />

che voleva da lei? E lei, a sua volta, cosa voleva? Non<br />

capiva più, non si capiva più. Sbalordiva di sé, per quello che<br />

le succedeva. Ancora pochi mesi prima lei era diversa, assolutamente<br />

diversa. Spensierata, aperta, allegra come un uccello.<br />

E ora, invece. Da quando aveva conosciuto costui, aveva tanto,<br />

nella sua testa, macinato pensieri (il paragone lei lo faceva<br />

col grano nella mola azionata dall’asino, quando entra nella<br />

tramoggia e subito l’ingranaggio lo afferra e lo stritola riducendolo<br />

in farina, che se la tocchi, difatti, è ancora tiepida,<br />

per il travaglio di questo stritolamento) quanto mai in tutti i<br />

giorni e gli anni fino allora vissuti. E sempre in quell’alternanza<br />

che si è più indietro veduta, la quale però non riguardava<br />

soltanto il fatto se lui l’amasse o no, ma tutto un insieme<br />

di cose, era diventata una condizione sua propria, il suo<br />

modo d’essere, sebbene per altro verso non le mancasse né<br />

animo, né decisione, né ostinazione. Si sentiva felice infelice<br />

91


innocente colpevole dannata glorificata. Era sulla cima dei<br />

monti. Era nel fondo degli abissi più fondi. Perché le accadeva<br />

questo, dov’era, chi era, cosa cercava? Per questo, a salvamento,<br />

invocava lui e, lui non tornando (altro mistero: perché?),<br />

evocava la sua immagine – sì, proprio, come lui diceva<br />

ora scherzando, il suo fantasma – e colloquiava con lui lungamente,<br />

domande e risposte, faceva tutto lei, la parte sua propria<br />

e quella di lui, discorsi bizzarri, un gioco di finte, negazioni<br />

insincere, confessioni senza pudore.<br />

E questo sforzo di illudersi, per lunghi momenti, che<br />

fosse a tu per tu con lui, per ritrovarsi alla fine con ombre, il<br />

vano, il niente, la spossava e la estenuava.<br />

Ma ecco lui ora le era dinanzi, inaspettato, ridente. Non<br />

sarà stato davvero un fantasma?<br />

Vedendola tuttora assorta, seria, e come incantata, lui<br />

disse:<br />

«Be’, che fai? Ti sei finalmente convinta che sono proprio<br />

io in carne ed ossa?».<br />

Fece di sì con la testa e accennò anche a sorridere. Sì,<br />

certo, convinta. Ma il fatto che dovesse tenere la faccia levata<br />

in su e stringere gli occhi per la troppa luce e quindi<br />

vederlo tra ciglio e ciglio, era tale che non si dissipava del<br />

tutto in lei la sensazione di contemplare alcunché d’improbabile.<br />

Lui si scusò di non essere più potuto tornare a Serri, da<br />

quella volta del Rimedio.<br />

«Ma ho sempre pensato a te, in tutti questi giorni, sai?<br />

Sempre» aggiunse.<br />

Lei zitta, la faccia in su. Lo fissava. Poi disse, come già<br />

prima:<br />

«Vustè?».<br />

Incredula. Lui infatti chiese:<br />

«Perché, non ci credi?».<br />

Si arrese. Rispose che ci credeva. Ma ancora per cenni:<br />

dall’alto, lui vide le labbra stringersi e il capo oscillare su e giù.<br />

Non proprio persuasa. Così così. Ma per compiacenza, insomma,<br />

sì.<br />

«E tu» lui ancora «hai mai pensato a me, qualche volta,<br />

in tutto questo tempo?».<br />

92<br />

Detto anche questo così per dire, e sempre ridendo. E anche<br />

lei sorrideva, ma per una specie di pietà di se stessa. Qualche<br />

volta! Pensato a lui qualche volta! E non mangiava non<br />

beveva non dormiva, non faceva un lavoro, che nel pane nell’acqua<br />

nei sogni negli oggetti che toccava non fosse lui. E disse,<br />

col tono che le veniva da questa sorridente tristezza:<br />

«Sì, qualche volta».<br />

«Ah, bene» lui. «E vediamo: in bene o in male?».<br />

Cosa poteva rispondere?<br />

«In bene, in bene, state tranquillo» disse col medesimo<br />

tono.<br />

«Allora non sei in collera con me, siamo sicuri?».<br />

Questa volta, dall’alto (lui non si dava pena di smontare<br />

di sella), vide la testa di lei accennare di no.<br />

«Sai» disse «quel giorno al Rimedio ero un poco bevuto<br />

e quando sei passata, non so come, era tanto che non ti vedevo,<br />

mi è venuto da chiamarti gridando, bah. Ma poi mi<br />

sono accorto che avevo fatto male e allora ho pensato di venire<br />

al ballo e quando ti ho visto sul palco sono salito, volevo<br />

ballare con te. Credo di averti anche detto che mi dispiaceva<br />

per prima».<br />

Lei lo interruppe.<br />

«Non pensateci più» disse. «È cosa passata».<br />

«Allora siamo in pace?».<br />

Un tempo per la risposta.<br />

«In pace» infine disse.<br />

Mentre ancora parlava, lui capiva ch’era venuto il momento.<br />

<strong>Il</strong> cavallo, tratto tratto, alzava infastidito la grande testa<br />

inarcando il collo, per modo che il cavaliere doveva richiamarlo<br />

e quietarlo col morso. Lei era in piedi presso le zampe<br />

anteriori dell’animale: non arrivava la sua statura all’altezza del<br />

garrese.<br />

Lui fece l’atto di schiaffeggiarsi la fronte.<br />

«Ma io ti tengo qui ferma in piedi, che pezzo d’asino.<br />

Vuoi che ti prenda in groppa con me? Posso accompagnarti<br />

un pezzetto e così ti risparmi la strada. E intanto parliamo un<br />

po’. Dove vai?».<br />

«A Serri» rispose. Tremava un po’. Intuiva confusamente<br />

anche lei ch’era venuto il momento. E tremava.<br />

93


Lui domandò, fissandola:<br />

«Vuoi?».<br />

Guardava verso l’alto, il viso trepido, quasi rorido, offerto<br />

e sofferto, come se per mille segni implorasse: Non<br />

farmi salire, Fieli Pòrcina, abbi pietà di me; e nel medesimo<br />

tempo come se per altri mille segni dicesse: Su, prendimi,<br />

Fieli Pòrcina, che aspetti? Toglimi in groppa, in fretta e portami<br />

dove vuoi.<br />

E non rispose nulla, né sì né no.<br />

Lui si chinò finalmente, piegandosi tutto di lato. Stese il<br />

braccio per afferrarla. Lei non vide, sentì. Le palpebre, per<br />

un moto loro proprio, si erano affrettate a sbarrare gli occhi.<br />

<strong>Il</strong> braccio girò intorno alla vita, e più su, sotto le ascelle, e<br />

avvolse, pieghevolmente; la mano, che arrivava sul morbido,<br />

era essa stessa concata e morbida. Poi i muscoli del braccio<br />

indurirono, fecero forza, tirarono. Lei si sollevava sulle punte<br />

dei piedi per secondarlo.<br />

Ma non fu, come pensava, un lento issare. Una forza, di<br />

schianto, la sradicò dalla terra, lei si trovò ad un tratto nel<br />

vuoto (così deve sentirsi, sbigottito e tremante, negli artigli<br />

della poiana, il capretto predato) e un istante dopo abbattuta<br />

contro qualcosa, abbrancata tuttora da lui, stretta contro<br />

la sua persona. Non l’aveva levata in groppa, ora capiva, tra<br />

onde, sì invece lì sull’arcione, sul duro dell’arcione e del collo<br />

del cavallo, e quindi piegata riversa e premuta contro di<br />

lui, e ora lui si curvava sopra di lei, lei non vedeva, sentiva, e<br />

stringevano le sue braccia come catene, e sentiva che il capo<br />

le veniva voltato, lei sapeva perché, e difatti premevano ora<br />

le labbra sulle sue labbra l’anello bruciante, lo strano fuoco,<br />

dolore ardore amore, lei non ne aveva perduto memoria dall’ultima<br />

volta quella sera alla sorgente e indugiavano a lungo,<br />

quanto?, un tempo che lei non seppe, che lei non visse,<br />

spento il sole, il respiro, più nulla; oppure, era questo al<br />

contrario il tempo, il vero, prefigurato le tante volte nelle<br />

fantasie rischiando e vendendo l’anima sua peccato e inferno,<br />

e paradiso, che ora di nuovo miracolosamente viveva?<br />

Quanto a lui come da un’anfora, pareva bere. Un lunghissimo<br />

sorso. Si ha sete e si beve. Così si fa, nei brucianti<br />

meriggi, con le piccole anfore serbate in fresco che contengono<br />

l’acqua appositamente lasciata per bere. Si toglie da terra<br />

94<br />

l’anfora (è leggera) si appoggia alle labbra e glu glu, “gorgoletta”<br />

si chiama difatti.<br />

<strong>Il</strong> cavallo, al montare del nuovo peso, aveva dato mezzo<br />

passo di fianco per rimettersi in equilibrio sugli appiombi; e<br />

scavezzava. Egli strinse i ginocchi e partì al passo, tenendo la<br />

ragazza ancora così, semiriversa supina stretta al petto, reggendole<br />

le spalle col braccio sinistro mentre la destra badava<br />

alle briglie. Non era insoddisfatto di sé: queste cose vanno<br />

fatte d’impulso prima che dicano no no, ma sì, però, si mettano<br />

a tergiversare come fanno i rivenduglioli. E inoltre con<br />

calma, vanno fatte, ma insieme con ragionevole fretta. Strane<br />

creature le donne. Se gli chiedi il permesso educatamente<br />

e per favore insorgono ma quando mai ma come ti permetti<br />

che quasi ti senti un verme. E poi, quand’è, ti muoiono fra<br />

le braccia. Eccone qua per esempio la prova. Su su, svegliati<br />

dolcezza mia, sta’ buona, agnella mia, che per ora è passata.<br />

Gli accadde, può darsi, di dirle veramente, percettibilmente<br />

quelle parole “sta’ buona”; perché a lei parve di udirle<br />

nello stato in cui era; ma consolanti, placabili, amorose.<br />

E stava buona difatti, e chi si muoveva? Così rannicchiata<br />

com’era contro la persona di lui e sorretta dal braccio di<br />

lui, ritrovava dolcezze di antichi giorni. Nell’ambio del cavallo,<br />

quel sentirsi così stretta dalle braccia di lui la faceva sentire<br />

come cullata, le faceva la ninna-nanna. Muoversi? Mai<br />

più. Un dito che avesse mosso, si sarebbe svegliata. Non osava<br />

neppure sollevare le palpebre, per paura “che facessero rumore”.<br />

Stare così, tra veglia e sogno: tutti i pensieri fuori dell’uscio.<br />

E godersi questo nulla e questo tutto, galleggiare<br />

come una nuvola. Non che dormisse, via: udiva bene lo scalpito<br />

degli zoccoli del cavallo (o era il sangue che batteva contro<br />

le tempie?); vedeva tra i ventagli delle ciglia il lontano<br />

profondo cielo vertiginoso baratro: là sono i santi le sante gli<br />

angeli gli arcangeli e le dolci Marie, il Signore corrusco Sua<br />

Maestà Domine Dio. Percepiva anche gli odori e i profumi,<br />

l’odore della pelle del cavallo, aspro, e quello del tessuto della<br />

casacca di lui che sapeva di lui, e, a tratti, i profumi vaganti<br />

primaverili. Avvertiva certo tutte queste sensazioni, però come<br />

attraverso un filtro, in modo che sì la avvolgessero, e anche<br />

la turbassero, ma senza svegliarla. E più intensa, forte, tale<br />

da sprofondarla ancor più nel languore, avvertiva quella<br />

95


sensazione inusitata lasciata dal bacio, quel cerchio intorno<br />

alla bocca, quel fuoco dentro, quel.<br />

E alla fine, in ogni caso, tutto come fuori di lei, ed estraneo.<br />

Pasqua, colomba mia, che ti hanno fatto? Nulla, mi hanno<br />

fatto, sono stata baciata, ebbene? Che c’è di strano? Questo<br />

è il mio uomo e io gli appartengo come la sua bisaccia, mi<br />

prende e mi bacia, che c’è di strano? Si serve, sicuro. Se ha fame<br />

mangia se ha sete beve, io sono l’acqua io sono il pane, c’è<br />

forse qualcosa di strano?<br />

Vedendo però che non si scuoteva, lui si chinò su di lei<br />

temendo che fosse svenuta, e una punta di terrore l’assalì,<br />

quando vide i suoi occhi sbarrati e fissi: li aveva ora finalmente<br />

spalancati. Trattenne da manca il cavallo, scartò dalla<br />

strada di Serri (del resto deserta e abbacinante, non un’anima<br />

intorno) e prese e s’inoltrò nella macchia. E qui fermò il<br />

cavallo, lasciò perdere le redini, la strinse con entrambe le<br />

braccia, la scosse una due volte, la chiamò sottovoce, con<br />

una sollecitudine che fu dolce, quant’era pressante, e persino<br />

tenera, delicata:<br />

«Pasqua, Pasqua, fiore mio!».<br />

Continuava a fissarlo con quei suoi occhi grandi, bruni,<br />

semitici, il velluto cupo delle iridi, l’iride che si accaparrava la<br />

maggior parte dell’occhio. Né palpebrò. Né si contrasse nel<br />

viso un muscolo. <strong>Il</strong> terrore di lui si accrebbe, dilagò, si mutò<br />

in freddo panico.<br />

«Pasqua, Pasqua, fiore, amore mio!» invocò terrorizzato.<br />

Che fosse morta, orrore, ma com’era possibile?<br />

Immobile ancora, lei si decise a sorridere. Gli occhi, prima.<br />

Poi, come cerchi partenti dal centro di caduta di un sasso<br />

nell’acqua, il sorriso si allargò, estendendosi a tutto il viso.<br />

E a bassissima voce:<br />

«Ancora. Dillo ancora».<br />

A lui compariva sulla fronte qualche goccia di sudore; il<br />

sangue, al venir meno dello spavento, violentemente refluiva<br />

indietro: oh, quando si dice!<br />

«Che cosa?» domandava.<br />

«Quelle parole» lei disse «quelle che hai detto prima». A<br />

fior di labbra. Come se articolasse le parole alla muta, senza alcun<br />

suono. Stracarica di dolcezza, una brocca che traboccava.<br />

96<br />

«Quali parole?». Non riusciva a afferrare.<br />

«Quelle che hai detto prima: “Pasqua, Pasqua, fiore mio,<br />

amore mio”».<br />

Afferrava finalmente. Di questo, vedi, si accontentano.<br />

E ripeté, per secondarla, le parole del suo desiderio. La breve<br />

paura passata lo rendeva benigno e la benignità, è scritto, è<br />

una qualità dell’amore.<br />

Bevve le sue parole, come lui le pronunziava. E, per assaporarle<br />

più a fondo, chiuse di nuovo le palpebre. E si disposero<br />

le ciglia in modo che, nella particolare inclinazione del capo<br />

e per l’incidenza del sole, un po’ d’ombra – una tenue<br />

trama d’ombra – si spruzzò sotto di esse, sulla parte superiore<br />

delle gote.<br />

«Ancora» disse.<br />

Ripeté con pazienza. Sapete che fu detto dell’amore, che<br />

non solo è benigno ma anche paziente. E domandò:<br />

«Sei in collera?».<br />

Si ridischiusero gli occhi, piano, come conchiglie. E dentro<br />

era l’enorme perla, nera, rarissima. E fatto questo le valve<br />

delle conchiglie silenziosamente si rinserravano. Se avesse<br />

compreso, lui, chi può dirlo; ma voleva dire: collera? E cos’è?<br />

Ma lui, adesso, era calamitato da quelle ombre. Quell’imbastito<br />

leggero, una spolverata, che le straordinarie ciglia<br />

proiettavano sulla sommità delle gote, e fitto fitto vibravano.<br />

Anche una cosa così, un nulla – più che lo stesso<br />

tenere lei fra le braccia, così languida – può girare gli interruttori<br />

e attivare i circuiti. Sul suo viso, bianco come pane<br />

nuziale, quelle ombre.<br />

Ma lei s’era tratta su, sciogliendosi un po’ da lui, e chiedeva:<br />

«Mi vuoi bene?» dandogli, senz’accorgersene, del tu e servendosi<br />

naturalmente del solito verbo “stimare”.<br />

Se ne servì anche lui per assentire senza indugio. E fu tanto<br />

pronto nel farlo (lui, sì, aveva notato il tu) che parve, e lui<br />

stesso si credette, assolutamente sincero.<br />

«Davvero?» lei disse.<br />

«Davvero».<br />

«Allora non sono in collera».<br />

Un silenzio.<br />

97


«Non hai paura di me, non è vero?» lui chiese, sondando.<br />

Rituffata la faccia nel petto di lui scosse il capo, in segno<br />

di diniego. Paura? No, perché mai? Poi di nuovo si staccò,<br />

l’osservò, sorrideva. La pezzuola da testa le era ricaduta dietro<br />

la nuca, nel volo che aveva fatto; le forti nere trecce s’erano<br />

in parte slegate. Era fresca e monda, una luna, un’anguria<br />

d’inverno.<br />

«Tieniti ferma, aspetta» disse lui, e balzò da cavallo. Poi,<br />

tendendole le braccia perché smontasse a sua volta, l’invitava:<br />

«Vieni».<br />

Allora lei si accorse ch’erano in mezzo alla macchia.<br />

«Ma non dovevi portarmi a Serri?» domandò. «Un pezzo<br />

di strada, lo avevi promesso». Ancora gli dava del tu, ancora<br />

senz’accorgersene.<br />

«Dopo» egli disse «dopo» continuando a sollecitarla col<br />

gesto delle braccia tese.<br />

«Dopo cosa?» lei chiese, lasciandosi tuttavia scivolare<br />

giù dall’arcione.<br />

Egli l’accolse e la strinse e la sollevò. La portava come un<br />

fascio di spighe quando ammucchiano i contadini i covoni<br />

per fare le biche. E così l’adagiò, come un fascio di spighe.<br />

Ma successe una cosa strana, l’ultima alla quale egli<br />

avrebbe potuto pensare. Per quanto lui, messi in azione i circuiti,<br />

avesse ben chiaro il fine, e a quello mirasse, e la sferza<br />

lo frustasse implacabile non fu, quel giorno, nulla. Lei lo sopraffece<br />

e lo vinse, non già lottando, sì invece disarmandolo<br />

con una strepitosa rappresentazione di candore e d’amore.<br />

Fin da principio, ritrovatasi distesa supina sull’erba, e lui, accanto<br />

a lei, tuttora ginocchioni nell’atto che l’aveva così adagiata,<br />

lei lo attirava, lei stessa, su di sé, palesemente per nulla<br />

conscia di quello che potesse agitarsi in lui e solo perché portasse,<br />

lui, più vicino al suo il proprio viso, e così carezzarlo<br />

con dolcezza snervante, intanto che gli diceva, chissà donde<br />

apprese, parole appassionate (quelle, forse, che prodigava su<br />

Momo?): “Fiore d’oro, passerotto, pulcinetto, cuore di Pasqua,<br />

grande balcone d’oro”, e intanto che gli passava le mani<br />

sul viso, tutta un’esplorazione tattile trepida, come volessero,<br />

98<br />

esse, le mani, riconoscerne i tratti e imprimersene la memoria,<br />

o ricrearlo, foggiarlo, o prenderne possesso, non so.<br />

Ma di colpo, sorpresa, si traeva a sedere e negli occhi<br />

sgranati le si leggeva, senz’ombra di infingimento, un fanciullesco<br />

effettivo stupore:<br />

«Oh!» diceva «Oh!» e si copriva con le mani la bocca.<br />

«Eh? Che c’è?» lui chiedeva, con una punta di allarme,<br />

ammaestrato dalla paura di prima. «Cos’è successo?».<br />

«Ma io vi ho dato del tu, Fieli Pòrcina, oh!».<br />

Se n’era accorta, finalmente. E le pareva una cosa enorme,<br />

tanto che non comprese quando lui, stupito a sua volta,<br />

le chiese:<br />

«Ebbene?».<br />

«Perdonatemi» disse.<br />

«Ma sono stato io stesso,» lui disse «non ti ricordi, a<br />

chiederti di darmi del tu. Quel giorno alla sorgente, non ti<br />

ricordi?».<br />

«È vero, sì, già, quella volta…» rispose.<br />

«Dunque puoi farlo. Su, provati, dammi del tu».<br />

Canticchiò le parole di uno stornello. <strong>Il</strong> messaggio che<br />

manda l’innamorata all’innamorato: «Io sono io quando ti<br />

vedo e quando non ti vedo non sono più io. La mia anima è<br />

malata e la sua medicina sei tu». S’interruppe per chiedergli<br />

con una smorfia infantile: «Così?». Poi compitò, sempre in<br />

dialetto: «Tu, sei, l’amore, mio» nella qual frase (che è anche<br />

un verso di chissà quante canzoni) poteva vedersi come la<br />

parola amore, quanto più la lingua recalcitra a accettarla,<br />

tanto più splende e fa spicco. E finalmente sfavillandole gli<br />

occhi di divertita malizia, ricordandosi delle parole di lui<br />

dopo la scena del ballo, gli fece il verso, portando l’indice<br />

alternativamente sul proprio petto e su quello di lui: «Io di<br />

te, io ti!» pigolava e rideva.<br />

E rise anche lui, afferratone il senso, tanto la caricatura<br />

era fatta con grazia e comicamente.<br />

«Ah così» disse. «Ora mi prendi anche in giro?».<br />

Lei scosse il capo, no. Si fece seria.<br />

«Ascoltatemi» disse dopo una pausa di riflessione. «Io bisogna<br />

che ve lo dica, non m’importa come mi giudicherete,<br />

99


non m’importa se grideranno. Ah, ma questo non potete capirlo».<br />

Si riferiva alle sue “voci”. Era convinta di sentire delle<br />

voci, nei momenti di solitudine, quando si rifugiava nel pensiero<br />

di lui, specie di notte. Voci di accusa, di rimprovero, di<br />

condanna, per il fatto che lei, di sua libera iniziativa, contro<br />

le regole del costume, si era innamorata di lui. Ma di tutto<br />

questo non era il caso di parlare, adesso.<br />

Lui, a ogni modo:<br />

«Chi, grideranno? Tuo padre e tua madre?».<br />

«No» rispose. «Che ne sanno loro di quello che sto per<br />

dirvi?».<br />

«Allora chi?».<br />

«Le anime del purgatorio» disse enigmatica. E proseguì,<br />

incurante del viso che lui faceva, mostrando di non comprendere:<br />

«Come può stimare una creatura la più, la più»<br />

esitò, non trovando il paragone e, in mancanza di meglio, «la<br />

più creatura» disse «ebbene così io vi stimo, con tutta l’anima<br />

mia. Dovrei vergognarmi a dire queste cose, non è vero? E a<br />

dirle proprio a voi, per di più. Ma l’ho detto: non m’importa,<br />

e poi se è vero, se è così, perché vergogna? Voglio anche<br />

dirvi che mi sono innamorata di voi fin dalla prima volta che<br />

siete venuto da noi, ve ne ricordate? Da allora. E non ve ne<br />

siete accorto; per forza, come potevate? Mica potevo battervi<br />

sulla spalla e dirvi: sapete cosa mi capita? Mi sono innamorata<br />

di voi. Del resto, dopo, io ho fatto di tutto, sapeste, per.<br />

Di tutto. Io devo essere pazza, devo essere proprio “cantata”.<br />

Non ci sono riuscita. Voi nulla immaginavate di questo. Anche<br />

dopo, anche quando… Vi ricordate quel giorno alla sorgente?<br />

Certo vi sarò sembrata di sasso, no? Ma dentro sapeste.<br />

E il ballo, ricordate? Io non mi ero nemmeno accorta che<br />

eravate voi. Ero, non so, nella luna, fuori del mondo. Eppure,<br />

anche senza sapere che eravate voi, lì con me, io camminavo,<br />

non è che ballassi, camminavo proprio in cerca di voi,<br />

che pazza che sono, non è vero?».<br />

Le luccicavano gli occhi dicendo questo, si commuoveva,<br />

l’anima le prorompeva quasi con violenza di fuori. Ma imperterrita<br />

proseguiva, sempre su questo tono, a confidarsi, a<br />

100<br />

confessarsi, a fare quella che – se le parti fossero state invertite<br />

– sarebbe stata ciò che dicono la “dichiarazione”.<br />

E non basta, andava avanti. Attingeva da sé quanto poteva<br />

di segreto, di intimo, di più geloso, e lo portava alla luce.<br />

Come togliesse dal mastello i capi lavati, anche quelli che non<br />

si mostrano, e li stendesse sul filo, alla vista del mondo.<br />

E questo era, anche, che, contro tutti i suoi propositi, se<br />

anche non sgominava del tutto le furie, lo faceva stare lì incantato,<br />

e perfino un po’ stordito, a ascoltarla. Questa donna<br />

del suo paese – macché donna, una ragazzina, una che fino a<br />

ieri si trastullava con bambole di stracci – che non si peritava<br />

non solo di amare, ma di dire che amava, e di dirlo senza ritegno,<br />

disarmatamente, anzi con così strano appassionato infantile<br />

fervore. E naturalmente il sapere, e il sentirsi apertamente<br />

e con tanta forza confermato, che di questo amore, di<br />

questo culto, proprio lui era non pure l’oggetto, ma il tabernacolo<br />

e il dio. Tutto questo, sì – per l’esperienza che aveva di<br />

questi luoghi: queste donne così schive, taciturne, restie in<br />

amore, almeno in quello detto, confessato, svelato – tutto<br />

questo, è vero, finiva per sconcertarlo, finiva per ingenerare in<br />

lui una sorta di ammirazione, in ogni caso rendeva inattuabili<br />

i piani, almeno per ora, com’era possibile, ora, in questo stato<br />

di grazia, di poesia?<br />

Quand’ebbe finito, esausta, piangente-ridente, lui disse<br />

infatti, che già era lirismo:<br />

«Sei una ragazza meravigliosa, Pasqua, e molto cara».<br />

<strong>Il</strong> che, come reazione di lei, parve far leva piuttosto sulla<br />

tentazione del pianto, che del riso.<br />

Poi, lui, volle di nuovo baciarla. Come per entusiasmo;<br />

questo, almeno.<br />

E lei consentì.<br />

Ma alla seconda (gli occhi di lui che si empivano di curiose<br />

scintille), non consentì, ridendo gli metteva per museruola<br />

le dita sulle labbra.<br />

«Perché?» lui domandava.<br />

«Devo essere a Serri» disse.<br />

«E poi?».<br />

«Poi a casa».<br />

101


«E quando ti rivedrò, vorrai? Allora vorrai?».<br />

«Aspetta di rivedermi» disse, ridendo e tornando al tu.<br />

Si era alzata, sfuggendo alla sua presa, e avvicinata al cavallo.<br />

E mentre ancora lui la inseguiva, era saltata in sella<br />

d’un balzo, senza appoggiarsi alla staffa: un roteare di gonne,<br />

una giravolta e hop-là.<br />

«Vuoi che ti prenda in groppa così ti risparmi un pezzetto<br />

di strada?» lo scimmiottava. E godeva di vederlo così imbambolato.<br />

Ma poi si tirava indietro, si metteva lei in groppa, perché<br />

lui potesse montare in sella, il maschio, il cavaliere, era lui.<br />

Toccando di tacco e avviandosi, lui domandava:<br />

«E allora, Vostra Mercé, dove vuoi che ti porti?».<br />

«A Serri» lei gorgheggiò «portami a Serri».<br />

Come annunciasse una meta favolosa. Serri, infatti, come<br />

tutti sanno, era una città di cristallo e d’oro.<br />

102<br />

VIII<br />

SPIGHE<br />

Non si sa come avviene. Ma dal cincinno del fiore scorre<br />

la misteriosa virtù fin nell’occulto di quella prigione piccolissima<br />

nella quale poi il seme prende corpo e sostanza. Accade<br />

allora che la tunica si gonfi – la veste di ciascun chicco – e<br />

poiché numerosi sono i chicchi d’ogni singola spiga, questa<br />

intumesce e reclina, sempre più, via via che la gravezza del<br />

peso l’opprime e l’affatica.<br />

Questo non si produce in un giorno soltanto, naturalmente.<br />

È lenta cosa e bisogna aspettare. Ma un giorno, verde<br />

che è ancora e le barbe tutte tese, si vede che la spiga pende<br />

in giù, il suo collo si flette in giù, è un atto di pudicizia per<br />

quella maternità vegetale che la spiga nasconde, le ariste stesse<br />

sono come ciglia vereconde di occhi di sposa incinta.<br />

Di questa verecondia, di questo universale spettacolo di<br />

pudibonda modestia, Giuanni Cinus aveva certo motivo di<br />

rallegrarsi. Diavolo, era cresciuta sin troppo la canna; ci sarebbe<br />

mancato che alla fine le spighe riuscissero vuote. Può<br />

capitare, ah. La beffa di certe annate: un rigoglio magnifico<br />

della pianta fino alla cima, ma poi la spiga vuota: un campo<br />

di paglia e di pula. E sarebbe stato un bell’affare.<br />

Perciò si rallegrava che la fecondazione fosse avvenuta al<br />

momento giusto e fosse la spiga ingravidata a dovere. E soppesava,<br />

per saggio, questa o quella spiga, avanzando per il campo.<br />

Avanzava come in un mare. <strong>Il</strong> mare, all’aprirsi, crosciava,<br />

levavano le canne e le foglie, ma specialmente le barbe, un<br />

suono vagamente metallico, raschioso, gradevole. Egli allungava<br />

la mano, afferrava a caso una spiga, la palpava, stringeva.<br />

<strong>Il</strong> ventaglio delle barbe frusciava nella mano, i dentelli da sega<br />

delle barbe s’incagliavano nel ruvido della pelle opponendo<br />

resistenza, ma lui veniva al sodo, alla corposità dell’ingrano,<br />

misurava, stimava.<br />

103


Ingranisce da sei, da otto, da dodici, si diceva di volta in<br />

volta. Ingranivano molte da sedici e non poche da ventiquattro<br />

e talune perfino da trentadue, cose mai viste. Chissà, si diceva,<br />

se quelli delle “cattedre di agricoltura” che capitano ogni<br />

tanto in giro a dare suggerimenti ai contadini (“a insegnare a<br />

babbo come si fa a avere figli”), ne avevano mai studiato sui<br />

loro libri, cose così.<br />

Gli si erano, da marzo in qua, già si è notato, al cospetto<br />

di questo bendidio che veniva con tanto slancio, raddrizzate<br />

perfino, non si dice le gambe, ché quelle ahimè non c’era rimedio,<br />

ma le reni e la schiena, ora aveva imparato a pigliare<br />

l’andatura del vero massaio spasseggiandosi su e giù per la<br />

strada carraia ai bordi del campo, i pollici infilati negli scolli<br />

ascellari del giustacuore. Che nessuno magari poteva vederlo<br />

pompeggiare così, ma lui che c’entra pompeggiava lo stesso.<br />

Non alto proprio che era, quel mare verde in certi tratti<br />

minacciava di sommergerlo, c’erano dei momenti che sul fiore<br />

del verde restava a galleggiare soltanto il cappello, quasi a<br />

prova che lui, almeno in questa forma, ci annegava davvero,<br />

come aveva sognato, nel grano suo.<br />

Non si scorgevano invece più tutti quegli apparecchi<br />

ch’erano stati collocati a suo tempo nel campo, nei giorni<br />

della semina: banderuole aeroplani aquiloni. <strong>Il</strong> vento di dicembre<br />

ne aveva fatto sterminio: spezzati i sostegni, fatti volare<br />

gli stracci, disperse le varie parti. E quello che ne restava<br />

era seppellito nel folto.<br />

Unici gli spauracchi, sopravvivevano; per alto che fosse<br />

il grano, essi non scomparivano del tutto. Almeno a mezzo<br />

busto, impalati sui loro fittoni, ancora emergevano, impavidi.<br />

Avevano patito le piogge, le sassaiole della grandine, i<br />

ceffoni del vento, i nubili, i sereni. Niente, resistevano. Strapazzati<br />

s’intende, scapitozzati, sconquassati, inutili oggimai:<br />

che passeri volevano impaurire più. Eppure non cedevano.<br />

E quella loro crocifissione, e i visceri di fuori – paglia e crine<br />

– come fossero sbudellati, e il vacillare incoerente come dicessero<br />

no, secondo lo spirare del vento, tutto questo, sì,<br />

conservava come un senso di malaugurio, oltreché di grottesco<br />

e compassionevole. Ma a quelli, si sa, Giuanni Cinus<br />

non faceva attenzione.<br />

104<br />

Lui e lei.<br />

Lei.<br />

Molti incontri.<br />

Aveva sempre qualcosa da fare, lei, adesso, a Serri. “O ma’,<br />

posso andare a meriggio a Serri?”. “Ma figlia mia per che fare?<br />

Non ci sei stata già l’altro ieri?”. E i pretesti: andava per petrolio<br />

e tornava con zucchero: “Ohi che testa, ohi ma’ mia, dimenticata!”.<br />

E bisognava riandare.<br />

La madre, d’altra parte, tranquilla, sul conto di lei; persuasa<br />

che queste sue andate a Serri muovessero dal bisogno, legittimo<br />

dopo tutto alla età sua, di veder gente, distrarsi, e al tempo<br />

stesso di camminare e stancarsi: carne che cresce carne che<br />

si rimesce. In ogni caso lontanissima dal pensare che Pasqua,<br />

ma siamo impazziti?, si potesse permettere certe temerità. Certo<br />

non le sfuggiva, considerate tante cose e, da ultimo, il fatto<br />

della festa del Rimedio, il pericolo rappresentato da Fieli Pòrcina.<br />

Ma figurarsi se Pasqua. Chi più di sua madre, andiamo,<br />

poteva conoscerne l’animo? Le bastava guardarla e ne indovinava<br />

anche i pensieri: era trasparente come l’acqua, leggibile<br />

come la volta del cielo. No, non faceva per vantarsi ma aveva<br />

una figlia che molte se lo sognavano, nelle sue condizioni, di<br />

averne una simile. Fin troppo ingenua, anzi, se mai era da farle<br />

un rimprovero. Non si dice che una, be’, quand’è ragazza,<br />

sia troppo intraprendente; ma un pizzico di malizia, via. Come<br />

appunto nel caso di Fieli Pòrcina. Ognuno al proprio posto,<br />

s’intende, e il giusto rispetto, e piano con le confidenze.<br />

Ma se l’uomo ti fa capire qualcosa, anche essere ciechi, sordi, è<br />

troppo. Ma come si dice? Meglio avere le pastoie che correre e<br />

ruzzolare. E chi dorme non pecca, se non altro.<br />

E se così ignara e serena era la madre, sul conto di Pasqua,<br />

figurarsi Giuanni Cinus. Un padre, certo, ha da essere<br />

cane da guardia, riguardo alle figlie femmine, se ne abbia.<br />

Ma i ladri, dove sono, contro i quali abbaiare e avventarsi?<br />

E se, per avventura avessero a risultare ladri gli amici chi dice<br />

al cane: busca?<br />

E lei andava a Serri.<br />

Era come se un fuoco si fosse impadronito di lei. Lui lui<br />

lui. Vederlo. Sentirne la voce. Stare con lui.<br />

105


A prezzo di acuti rimorsi: l’inganno alla madre, al padre,<br />

questa continua finzione, questa doppiezza. Senza parlare del<br />

tormento di quelle “voci” che le pareva di udire, di notte,<br />

mentre giaceva, insonne, sul suo saccone, accanto al letto di<br />

Momo, il cui sommesso guaire nel sonno, fra l’altro, faceva<br />

ad esse da controcanto.<br />

Ira ed esecrazione. Ma che fai, sciagurata? A che punto ti<br />

sei ridotta. Vedi cosa sei. Lo sai, di’, cosa sei? Vergogna, vergogna.<br />

Hai perduto la dignità. Non fai che mentire, e prima<br />

non mentivi mai. Non ridi più. Non hai più pace. L’unica cosa<br />

che conta è lui, tu sei strame, legna da forno. Corri, corri<br />

da lui, scodinzola, su. E lo chiami amore. Perdizione, è, altro<br />

che amore.<br />

Lei rispondeva, contrattaccava. Cercava di difendere se<br />

stessa e lui, e soprattutto di difendere, rivendicare, quel suo<br />

amore. Sì, è vero, lo amo, e non me ne vergogno, nossignore.<br />

Non m’importa cos’ero e cosa non ero. Non m’importa di<br />

mentire o di non mentire. Sì, certo, correrò, volerò da lui, tutte<br />

le volte che lo potrò. Non m’importa se rido o se piango.<br />

Piango, ebbene? Mi va di piangere. Sono felice di piangere. (E<br />

piangeva davvero, a volte, nel buio e nel silenzio, e realmente<br />

gliene veniva una specie di strana, dolceamara consolazione).<br />

Prendeva sonno sfinita, in questa lotta con ombre. Ma, fatto<br />

giorno, indomito il pensiero tornava a lui, impaziente lei<br />

aspettava il momento di riessere ancora con lui.<br />

E, una volta con lui, poi, non più lotte né voci né ombre.<br />

Tutto si rischiarava. Era ben questo, anche, il richiamo. Mia<br />

colomba, che indugi: vieni.<br />

Questi incontri avvenivano, come già il primo, lungo la<br />

strada di Serri, in giorni e ore che di volta in volta loro due<br />

stabilivano. Poi, ma più tardi e non sempre, in una casa isolata<br />

a metà strada fra Tula e Arcangia, deviando dalla strada<br />

per Serri, a un’ora di cammino dalla fattoria.<br />

E, quello che è strano – e che consolidava l’affidamento di<br />

lei, dando ala al suo abbandono – è che non erano molto dissimili,<br />

i primi di questi incontri, da quello che si è descritto.<br />

Diverse, e magari complesse, da parte di lui, le ragioni:<br />

il gusto dell’attesa, come un centellinare del vino forte; il<br />

106<br />

desiderio, chissà, di una capitolazione spontanea; le contraddizioni,<br />

anche, della sua indole un po’ capricciosa. Ma la<br />

principale era questa: che lui – già sicuro dell’esito, per questo<br />

paziente condiscendente – era anche per certo affascinato<br />

dal costume amoroso di lei. Del modo come lei sapeva ogni<br />

volta, in maniera sempre nuova varia e imprevedibile, “inventare”<br />

l’amore. Lui, in fin dei conti, cos’è che cercava? E lei<br />

invece portava altro, ma a piene mani: gioia riso candore<br />

amore. Amore susurrato narrato cantato e ballato. Amore fidente,<br />

adolescente, amore amato. Come volesse, lei, seppellirlo<br />

nella propria tenerezza e nello stesso tempo inscenare,<br />

solo per lui, una specie di festa, di sorprendente spettacolo.<br />

Perché io ho solo una bocca per ridere se il mio ridere<br />

ti rallegra. Due soli occhi (e li strizzava), se i miei occhi ti<br />

piacciono? Due sole mani, queste due sole piccole mani (le<br />

voltava e le rivoltava di sotto e di sopra), se mi servono per<br />

carezzarti?<br />

Chi le insegnava questo, chi?, lui si chiedeva trasecolato.<br />

E dove era detto che nella terra di Serri, o di Arcangia, o di<br />

Baronia, questa pianta allignasse, questa cosa di nuovo genere,<br />

di una donna amorosa che, parlando, dicesse canzoni. Io<br />

sono il tuo pane, il tuo tascapane, il manico del tuo coltello.<br />

Dove le aveva imparate, costei, cose così? Tenevano al caso<br />

in Baronia, dove lei era cresciuta, scuole di questo?<br />

E così si scordava, ascoltandola, dell’altra cosa. O almeno<br />

procrastinava. Come preso lui stesso dal gioco, entusiasmato,<br />

esaltato. Pago – per ora – di quest’essere spettatore (e destinatario,<br />

insieme) di questa cosa inconsueta e festosa, lieve e lucente,<br />

come quella pioggia minuta, diffusa, pruinosa, di quando<br />

piove e c’è il sole.<br />

<strong>Il</strong> fatto è che lei estraeva da sé tutto questo non senza suo<br />

proprio stupore. Queste cose che diceva, che faceva; questa<br />

gioia che provava e di cui si sentiva stipata, fino a frangersi;<br />

questo bene che le urgeva di dentro e del quale era impaziente,<br />

bisognosa di far dono, tutto questo riusciva nuovo in una<br />

certa misura a lei stessa, era la prima a stupirsene, si contemplava<br />

e si diceva: son proprio io?<br />

Sa l’anfora ciò che contiene? E lei così, in qualche modo.<br />

L’agitavano l’inclinavano, e traboccava di fuori ciò ch’era in lei:<br />

107


questa essenza di nardo, questo vino resinato odoroso. E non<br />

è neppure che fosse Fieli Pòrcina in quanto tale, il mescitore.<br />

Ma se mai ciò che operava – l’impulso, la forza, l’in sé dell’amore<br />

– in grazia e per mano di lui.<br />

Certo poteva avvenire – è da mettere nell’ordine delle cose<br />

possibili – che questo intervento fosse mancato; e allora<br />

nessuno, e lei nemmeno, avrebbe mai saputo che ricchezza e<br />

che dono erano in lei: il vino e il nardo perduti, inconsumati.<br />

(Di quelle anfore antiche, finite in fondo al mare e rimaste incastrate<br />

nelle carcasse delle navi sommerse, non avviene così?<br />

A volte qualcheduna, dopo migliaia di anni, ne riportiamo alla<br />

luce, tutta ingrommata di alghe e di residui di mitili; ebbene?<br />

Tenacemente sigillata l’imboccatura, ancora, ma il contenuto<br />

svanito, svaporato. Nessuno ha potuto godere di ciò<br />

ch’essa portava. <strong>Il</strong> tempo di quelli per i quali era stata riempita<br />

per sempre consumato).<br />

E anche poteva accadere, certo che il tocco fosse troppo<br />

brusco o il maneggio maldestro; e troppo in fretta spandesse<br />

l’anfora ciò che portava, andando essa stessa, magari, in frantumi.<br />

Se poi, fuor di metafora, fu proprio così per Pasqua,<br />

oppure no, è cosa che è da aspettarsi a vedere. Non tralasciandosi<br />

qui il notare, se mai, la singolare situazione nella quale –<br />

a pensarci – si trova colui che racconta una storia. Che lui sa<br />

già quello che per gli altri, che vengono ascoltandolo, è ancora<br />

il futuro; e non può mutarlo. E non è un po’ una parafrasi,<br />

modesta che sia, di ciò che a una sfera più alta, affaticò grandi<br />

menti? Veniamo noi ascoltando, vivendo, una storia a noi<br />

ignota nei suoi sviluppi futuri, ma già scritta per sempre?<br />

Per accordi con Pasqua, allo scopo di stornare sospetti,<br />

Fieli Pòrcina non mancava di farsi vedere ogni tanto alla fattoria,<br />

come già aveva fatto a due giorni di distanza dal primo<br />

incontro con Pasqua. E recitava in queste visite abbastanza<br />

bene la commedia; con Pasqua che, ancora più brava<br />

di lui (“Prima non sapevi mentire, sciagurata, e ora invece”),<br />

gli teneva bordone.<br />

Salutava con ostentazione i padroni di casa: «Come va,<br />

compare Cinus?», «Ave Maria, Mariangela Siddi». Ed era<br />

condiscendente anche con ’Ntoni, e perfino con Momo si<br />

108<br />

mostrava benevolo, che pure gli metteva addosso, ogni volta<br />

che lo vedesse, quello strano spavento. Quello che lui, dopo,<br />

a cose fatte, avrebbe interpretato come un “me lo diceva<br />

il cuore”.<br />

E Pasqua, naturalmente, faceva oggetto di speciale effusione:<br />

«Pasqua, sorella mia, che piacere vederti, come stai?<br />

Nessun amore in vista?».<br />

A volte, su questo terreno, il gioco si spingeva sino a limiti<br />

perigliosi. Come una volta che, presente Mariangela (vi<br />

erano già stati fra loro diversi incontri, ai margini della strada<br />

di Serri), disse alla ragazza:<br />

«E allora, bene mio, che nuove abbiamo? Te lo sei fatto<br />

o no, l’innamorato, dall’ultima volta che ci siamo visti?».<br />

E lei:<br />

«L’innamorato, io, Fieli Pòrcina? Che dite mai. E chi mai?<br />

Sapete bene che non vedo nessuno, all’infuori di voi qualche<br />

volta. E seconda cosa non sono in età di questo, io, domandatelo<br />

a mia madre. Sapete quanti anni ho? Vi sembro basilico<br />

da mettere alla finestra?».<br />

Lui:<br />

«Quanto a questo, se voi mi permettete, Mariangela Siddi,<br />

direi che sì. Salvo il rispetto che vi è dovuto, s’intende».<br />

Pasqua spingeva la propria improntitudine fino a replicare:<br />

«Oh, e voi per esempio mi prendereste, voi, come basilico<br />

da mettere alla vostra finestra?».<br />

Lui diventava cauto, sentiva che il terreno si faceva scivoloso:<br />

«Eh, dico, perché no? Ma sono cose da non trattare leggermente<br />

come fai tu, che ve ne pare, Mariangela Siddi?».<br />

E Mariangela infatti riprendeva la figlia, scandalizzata<br />

dalla sua audacia. Sebbene l’argomento, poi, non è che. Ma<br />

conveniva col giovane. Non sono cose da scherzarci.<br />

Con Giuanni Cinus invece, se anche lui era presente, Fieli<br />

Pòrcina parlava d’affari, di lavori e, c’è da chiederlo?, dell’attesa<br />

del <strong>raccolto</strong>.<br />

Una volta, anzi, il vecchio volle portarlo torno torno al<br />

possesso perché vedesse con i suoi occhi che roba, e che non<br />

erano parole.<br />

109


«Vedrai, vedrai, ragazzo mio, che battitura sarà. Hai visto<br />

come impregnano le spighe? (Ne strappava qualcuna, la mostrava,<br />

la sfaldava nel pugno, tornava a mostrarla). Foia, hanno,<br />

guarda, come femmine in calore. È affare ancora di un<br />

mese, un mese e mezzo, ed è fatta, l’annata è nostra».<br />

Lo trattava con confidenza, lo chiamava “ragazzo mio”,<br />

voleva che si sentisse, com’era giusto, cointeressato alla cosa.<br />

<strong>Il</strong> risultato era scarso, da quest’ultimo punto di vista.<br />

«Spero m’inviterete» diceva Fieli Pòrcina, per pura compiacenza<br />

«il giorno che insaccherete».<br />

«Invitarti?» il vecchio replicava. «Tu devi esserci» sottolineava<br />

quel “devi”. «Tu sei il padrone di Serri, mi pare, no?<br />

E allora. E poi con te ho un conto da regolare, proprio quel<br />

giorno».<br />

Drizzava le orecchie: conto da regolare?<br />

«Per l’amore di Dio, compare Cinus, non parliamo di<br />

padroni e non padroni. Qui il padrone siete voi, e basta.<br />

Quanto a me, quel giorno, se ci sarò, ci sarò come ospite e<br />

testimone. E poi che conto?». Lasciava per ultimo ciò che<br />

più gli premeva. «Di che genere è questo conto che dite?».<br />

«Tu sei uno» diceva Giuanni Cinus premendogli un dito<br />

sullo sterno «che non hai mai creduto veramente che avrei tirato<br />

su da questa terra questo po’ di grazia di Dio. E magari<br />

anche adesso non sei del tutto convinto. Perciò quel giorno<br />

voglio che vieni e vedrai».<br />

Respirava. Questi i conti, figurarsi. Questo il torto. Eppure<br />

anche di questo, un giorno, avrebbe serbato memoria,<br />

quando le sorti sarebbero state giocate: conti da regolare, torti,<br />

io sarò testimone. Ma per ora, va’, batteva la mano sulla<br />

spalla del vecchio e sogghignava.<br />

E ogni volta che partiva, poi, tutti i Cinus sullo spiazzo<br />

davanti alla casa, grandi saluti, grande cordialità.<br />

«Torna quando ne hai voglia, non farti scrupolo» gli<br />

gridava Giuanni Cinus.<br />

«In buonora e portatevi bene» rincalzava Mariangela. E<br />

anche gli altri, compreso Momo, agitavano le mani.<br />

Balzava a cavallo, voltava e toccava.<br />

«In buonora anche a voi, salute a voi» diceva di rimando.<br />

110<br />

E andando si ripeteva quegl’ignari, affettuosi, commiati: non<br />

farti scrupolo; portatevi bene. Eh no? Come no?, si diceva.<br />

Avvenne.<br />

Lei ne aveva adesso, a distanza di due ore dal fatto, una<br />

memoria remota e dolente.<br />

E stupore.<br />

Questo, dunque.<br />

Giaceva supina sul letto, gli occhi sbarrati nel buio,<br />

schiacciata da uno spaventoso silenzio. Non “voci”, questa<br />

volta, non ombre. <strong>Il</strong> sonno stesso di Momo, per una volta, affatto<br />

silenzioso.<br />

Questo.<br />

Come quando, a volte, lo sguardo è perduto nel vuoto,<br />

incollato a un oggetto, un qualcosa, una macchia sulla parete.<br />

A che pensi? A nulla. E realmente il pensiero si è come incantato:<br />

un granello di polvere è entrato in una delle tante dentate<br />

sfere e tutto il meccanismo è bloccato. Ma il quadrante segna<br />

quell’ora, quel minuto, quel secondo, come un tempo<br />

pietrificato, avulso dal tempo vero e in tal modo pervenuto a<br />

una specie di eternità.<br />

Lei così. Immobile. La mente inchiodata a un punto:<br />

quel punto. <strong>Il</strong> fatto ridotto a tanto: sintesi e idea. <strong>Il</strong> resto<br />

nebbia. Né sapeva neppure quando accaduto, se oggi, ieri, o<br />

duemila anni fa. E che importa, del resto? Semmai dal punto<br />

(la mente come la superficie di una lavagna) prendeva a<br />

svolgersi a un tratto una specie di spirale, prima lenta, poi<br />

rapida, poi ancora più rapida, fino a quando diventava velocissima<br />

e vorticosa, un turbine. E lei nelle spire di questo, lei<br />

come puro pensiero. E nel vortice, col moto, dopo essere<br />

stata attirata e succhiata fino al centro del cerchio, fino al<br />

fondo dell’imbuto, a un altro determinato momento, per<br />

moto inverso e centrifugo, era sfrombolata lontano. Indi di<br />

nuovo il punto, di nuovo la coda di serpe che ne sgorgava,<br />

la spirale che si scriveva sul fondo della lavagna, la girandola<br />

che se ne alzava, e il volo, e l’impatto.<br />

Questo?<br />

Era “vergine” solo di nome, ora. Non era dunque più lei?<br />

111


Era andata là Pasqua, ma non era tornata Pasqua, un’altra<br />

era tornata, mentre Pasqua, quella vera, là era rimasta; là<br />

dove si stracciavano sulle tamerici, navigando l’azzurro, le<br />

nuvole chiare.<br />

Oppure non era avvenuto nulla, e tutto era soltanto sensazione<br />

di un sogno? Forse era così, un incontro come un altro,<br />

uno dei tanti, che lei, col sogno.<br />

Ma no, no, era vero, tutto vero, quale sogno.<br />

E qui l’assalivano – uscita appena da quel senso di turbine<br />

– le crude rappresentazioni del reale. Erano folletti, decine<br />

di piccoli diavoli armati di tridente coi rebbi barbati, che<br />

venivano e offrivano ciascuno, sulla punta di quegli arnesi,<br />

brandelli di realtà. Questo dove lo metti? E questo? E questo?<br />

Senza che, però, il quadro riuscisse a comporsi nella sua<br />

interezza.<br />

Aveva paura di uscire di senno. <strong>Il</strong> materasso sul quale giaceva<br />

si gonfiava levitava galleggiava nel vuoto, con lei sempre<br />

sopra, e poi scendeva giù, non si fermava al livello di prima,<br />

calava sempre più giù, sprofondava fin chissà dove, nel cuore<br />

della terra, nei luoghi infernali.<br />

“Hai peccato!” squittavano danzando i cento piccoli diavoli.<br />

“Hai peccato, ora paghi”. A somiglianza di quei giochi<br />

di bambini, nei quali c’è uno che sta al centro, in castigo, e<br />

gli altri gli ruotano intorno cantando la filastrocca: “Fai la<br />

penitenza, fai la riverenza, un due tre”. Solo che qui non un<br />

gioco, ma un supplizio; e non bambini, ma diavoli.<br />

E si provava a implorare pietà: basta, fermatevi.<br />

Si fermavano e uno principiava a dire con voce acutissima,<br />

sproporzionata alle sue dimensioni: “Sentiamo, cos’hai<br />

da dire?”. E tutti gli altri assentendo: “Sentiamo”.<br />

Lei balbettava, s’impappinava, batteva i denti e tremava.<br />

Che cosa poteva dire a sua discolpa? E tutto il grottesco tribunale<br />

scoppiava in un’enorme risata e ripigliava la danza.<br />

Con sforzo allora lei sollevava il capo dall’origliere e ogni<br />

cosa svaniva, si ristabiliva il silenzio.<br />

A questo punto, pian piano sollevava le mani e cercava<br />

di toccarsi. Erano pesantissime e doveva fare molto sforzo.<br />

E tutta la persona del resto era come fatta di piombo e proprio<br />

per questo, parendole aver perduto la sensazione di sé,<br />

112<br />

la cognizione del proprio corpo, tentava, toccando, di ritrovarsi.<br />

Senza sollevare il busto, ché non poteva, si toccava le<br />

gambe, le cosce. Poi risaliva. Le anche, sì, e l’incavo dei fianchi,<br />

e le costole, il seno, le spalle, finché le mani incontrandosi<br />

si fermavano attorno alla gola. Tutto era “suo”, ritrovava<br />

se stessa. Ma caute, dopo un indugio, ripartivano le mani<br />

a esplorare la faccia, la testa. E inorridiva. Quella no, non<br />

era sua!, scorrevano le mani sul volto – la bocca il naso gli<br />

occhi la gronda delle orbite le sopracciglia – e non si riconosceva.<br />

E quello che era lì – uno che era venuto, come sbucato<br />

dal nulla, e adesso era qui fermo accanto a lei, era come<br />

fatto di fumo – diceva: “Certo, ti è stata cambiata, non lo<br />

sapevi? L’hai riconosciuta, vero? Ebbene, d’ora in avanti andrai<br />

in giro con questa”. E lei, che pure non capiva, singhiozzava:<br />

“Ma che? Perché?”. Ma quello, non si capiva chi<br />

era, né perché era lì, sentenziava: “Certo, è la tua condanna:<br />

d’ora in avanti somiglierai a Momo. Del resto che hai da dire,<br />

non sei sua sorella?”.<br />

E qui finalmente affiorò il pensiero di lui. Alla voce impassibile<br />

del fantasma fatto di fumo, il pensiero corse a lui e<br />

cercò di evocarlo: vieni, vieni. Affinché la difendesse davanti<br />

al nuovo accusatore.<br />

Ma fiocamente l’immagine di lui rispondeva all’appello.<br />

Lei doveva plasmarla, con uno sforzo di volontà, come dovesse<br />

rifabbricarla. E fortuna che le sue mani ne avevano in<br />

sé memoria. Da tutte le volte che si erano soffermate amorose<br />

sul volto di lui, che parevano appunto, volersene imbevere.<br />

Ora lavoravano con zelo a rifarlo e alla fine riuscivano e il<br />

volto di lui era finalmente davanti a lei. E quell’essere fatto di<br />

fumo, come fumo si sciolse.<br />

“Perché non parli” lei domandò “vedi che mi succede”.<br />

Ma non parlò. Era, del resto, soltanto un volto, una specie di<br />

ritratto a mezzo busto, appeso a una parete. Allora lei provò a<br />

levarsi, rialzarsi sul tronco, almeno girarsi su un fianco per appressarsi<br />

a quel quadro, e animarlo, e supplicarlo: parla, parla.<br />

Ma non poteva. Nessun movimento le riusciva possibile, per<br />

modificare la posizione supina in cui giaceva. Non levarsi e<br />

nemmeno girarsi sul fianco. Così era e così doveva restare: supina,<br />

riversa. La stessa posizione di “quel” momento.<br />

113


Allora sì, irruppero drammaticamente, e tutte insieme,<br />

frenetiche, tumultuose, le sensazioni di “quel” momento, l’ingranaggio<br />

si “disincantò”, venne soffiato via il granello di polvere,<br />

l’intoppo che lo bloccava. Né lei era più stesa sul suo<br />

saccone ma giaceva su erba, foglie e sterpi, la nuda terra. E in<br />

alto correvano nuvole. E risentiva pativa i baci la pioggia di<br />

baci i piccoli morsi il breve fiato le mani impazzite l’ardore<br />

come un’onda la rottura di un argine. Riviveva i suoi sforzi a<br />

frenare questa onda: gridi gridi tendi le braccia ma che puoi<br />

fare parare l’urto placare le acque con vane promesse ora no<br />

dopo sì ma ora no ora no ora no? E dopo questo la strana lotta,<br />

diventati come nemici, gli occhi di lui quasi pieni di odio<br />

dov’è il mio amore? E la carne battuta le braccia spezzate la<br />

rabbia di lui fermati infine, oh amore perché perché? E poi all’improvviso<br />

quel senso di freddo acuto scompiglio di vesti via<br />

le tovaglie da tutti gli altari. Le mani che stringevano come tenaglie,<br />

e lei atterrita questo solo avvertiva nessuno che l’aiuta<br />

non c’è nessuno, scendi Signore e prenditi l’anima mia. E parole<br />

spezzate, susurrate, ora, ansanti: sta’ buona, sta’ buona,<br />

adesso sta’ buona, come può stare buona se è crocifissa inchiodata<br />

alla terra cosa può fare? E infine per dei secondi l’improvviso<br />

silenzio l’improvviso mistero gli occhi suoi dilatati<br />

che accolgono tutte le nuvole una parola amore che non è<br />

detta solo un affanno greve truce e: aaahhh!, il grido che ancora<br />

correva per tutta la terra di Serri.<br />

Le battevano schiaffi sulle guance, ricordava il ritorno,<br />

centinaia di metri d’acqua sopra la testa e gli schiaffi: riemergi,<br />

ritorna a galla. Riemergeva pian piano, attratta da quel latteggiare<br />

della luce su in alto, ritrovava stupefatta il sole il cielo<br />

le nuvole alte, tutta quella gran luce. E muoveva le mani,<br />

esplorava: dov’era?<br />

Ma non là, era, adesso. Era qui nella sua stanza, nella casa<br />

del padre.<br />

E questo, e l’idea del padre (della madre nessuna, per<br />

ora: del padre) deviavano di nuovo il senso di ciò che provava.<br />

Un sasso fu gettato nell’acqua immota della coscienza:<br />

mio Dio cos’ho fatto! Che suonò come un gong.<br />

<strong>Il</strong> pensiero della madre venne più tardi, non fu terrore<br />

114<br />

fu scioglimento pietà di sé desiderio di pianto. E il pianto<br />

stesso, pietoso, infine giunse.<br />

Momo si svegliò, travagliato da incubi. Dovette sentire<br />

subito i singhiozzi, pur soffocati, lì accanto. I letti non distavano<br />

che un paio di braccia. Tese l’orecchio e stette in ascolto,<br />

cercando con ogni sforzo di trattenere il mugolio.<br />

Non poteva essere certo Pasqua che piangeva, com’era<br />

possibile? Pasqua era grande, non un bambino. E poi è impossibile<br />

che persone come Pasqua abbiano ragione di piangere.<br />

Invece dovette convincersi che sì, era proprio lei, non<br />

c’erano dubbi.<br />

La cosa lo sconcertava, il sonno gli andava via. Per quale<br />

ragione mai, una come Pasqua, poteva piangere? E proprio<br />

ora, in piena notte, al buio? Sottoponeva il cervello a uno<br />

sforzo ostinato. Perché? Forse i grandi si vergognano a piangere<br />

di giorno in presenza di tutti, e aspettano di essere soli,<br />

al buio, per farlo? A ogni modo perché piangeva? Era stata<br />

sgridata, picchiata? O cosa? Ricordava che ieri, appena tornata<br />

da Serri, era stata affettuosa con lui, come sempre, anzi più<br />

di sempre. Era solo un po’ stanca, diceva, e che le faceva un<br />

po’ male la testa; ma aveva lo stesso giocato un po’ con lui, e<br />

perfino riso. E dunque. O forse fingeva? Anche se aveva giocato<br />

con lui stava già male? O, peggio, qualcuno le aveva fatto<br />

del male? E chi mai?<br />

Ripiegò su un’altra idea. Forse Pasqua piangeva nel sogno,<br />

tutto qui. Lui ben conosceva il tormento di certi sogni:<br />

qualcuno che ti insegue, tu cerchi di fuggire e non puoi, l’inseguitore<br />

ti raggiunge, ti afferra, comincia a picchiarti, per<br />

forza piangi. Lui di tutto questo aveva assai lunga, dolorosa<br />

esperienza. Ma allora, pensò, bisognava svegliarla. Così, una<br />

volta sveglia, tutto sarebbe finito, si sarebbe accorta che non<br />

era cosa vera.<br />

Provò a chiamare, a bassa voce:<br />

«Pasqua!».<br />

Cessarono i singhiozzi all’istante. Gli sembrò straordinario;<br />

possibile si fosse svegliata così in fretta? E poiché non gli<br />

veniva, da lei, risposta, provò a richiamare:<br />

«Pasqua, Pasqua!».<br />

115


Aveva sentito sin dalla prima volta, naturalmente, e, terrorizzata,<br />

aveva reinghiottito i singhiozzi. Lì per lì aveva avuto<br />

l’impressione, assurda, che non Momo fosse che la chiamava,<br />

ma una voce arcana. Poi comprese e fu presta ad<br />

alzarsi. Se Momo era sveglio, se la chiamava, qualcosa gli dava<br />

pena. E subito gli fu accanto, lo carezzava:<br />

«Cos’hai, Momo, figlio d’oro, perché ti sei svegliato?».<br />

In verità Momo, farfugliando, cercava di far intendere<br />

che non di lui si trattava, ma di lei. Ma gli era difficile esprimersi,<br />

e poi così al buio.<br />

Lei, d’altra parte, persuasa più che mai che un qualche<br />

male, un’afflizione, una paura, avessero svegliato Momo, solo<br />

di questo si dava cura, più che d’intendere, che pure era<br />

allenata a farlo, i suoi farfugliamenti. Se Momo aveva male,<br />

suo compito era di assistere Momo, consolarlo, aiutarlo, fargli<br />

coraggio. Non era più questione di sé, ora, né del suo<br />

dramma e delle sue proprie angosce, ma del male di Momo,<br />

del suo soffrire. Momo era suo figlio. Carezzandolo, placandolo,<br />

lei si sentiva madre, aveva viscere di madre.<br />

Come poteva saperlo? Chi l’avvertiva? Chi l’informava?<br />

E come, poi?<br />

Ma il fatto è che lei “era” madre.<br />

Le spighe, quando è l’ora, ingraniscono. <strong>Il</strong> vento le sbatte<br />

e le scuote e sparge i fermenti e i pollini. A caso. E basta<br />

che spiri un giorno. Basta una sola volta, a volte. Così avviene.<br />

<strong>Il</strong> vento è cieco.<br />

116<br />

IX<br />

LA MESSE<br />

Indorano prima le foglie, che fanno cespuglio alla base.<br />

Sono cedevoli e esili, non hanno nerbo né succo. Così avvizziscono<br />

in fretta, ripiegano asfissiate su se stesse, il calore le<br />

tosta e le brucia e da quel momento sono paglia e strame.<br />

Si esercita allora sopra le spighe, che stanno in alto, il pesante<br />

ferro da stiro del sole. Restano strinate anzitutto le ariste,<br />

quelle povere ciglia, che sono anch’esse prive di linfa. La<br />

spiga invece resiste ancora, enfia ancora, sugge ancora vita,<br />

ma in pari tempo il suo involucro illanguidisce, prende pallore,<br />

finché è torrefatto dalla gran vampa.<br />

La canna infine è l’ultima che si fa smorta, per essa tuttora<br />

passando la spinta inconoscibile che ha consentito alla<br />

pianta di tirarsi su a quell’altezza; e anche quando è ben secca,<br />

non flette né frange, muore in piedi.<br />

Perciò non diventa il grano, di colpo, oro. È un languore<br />

graduale, lento, che tocca e stinge la base e la cima, poi si<br />

estende, finché la secchezza raggiunge la canna e la strangola.<br />

Solo allora nella pianta si spegne definitivamente il verde primaverile<br />

che la rallegrò, sostituendosi ad esso il giallo affocato<br />

e arso, che tende più tardi al ramato, colore dell’oro vecchio,<br />

con chiazze come di ruggine. E finalmente la messe è<br />

pronta. È venuto il momento di entrare e di mietere.<br />

Ma per tutto il tempo che questo durò – che è cosa che<br />

si compie da sé, l’uomo non c’entra – per Giuanni Cinus<br />

non vi era propriamente e una volta tanto più nulla da fare,<br />

almeno riguardo al grano, fuorché aspettare e vedere. Se lo<br />

covava ormai con una specie di golosa impazienza, il suo grano,<br />

ne spiava l’imbiondimento con lo stesso animo che è della<br />

massaia quando, sollevato il coperchio, traguarda attraverso<br />

la bocca del forno per vedere che il pane indori, e in che<br />

misura, non avvenga che la cottura sia troppo rapida e ci sia<br />

117


da spicciarsi e dar manate a levarlo. E questo fin dall’aprile,<br />

dopo che fu fatta la sarchiatura. <strong>Il</strong> sole, dal canto suo, se la pigliava<br />

comoda, perché non è che il sole di aprile, e quello di<br />

maggio neppure, abbiano forza bastante. Bisognò, per questo,<br />

attendere sino a giugno, e che il sole mettesse la criniera<br />

del leone; allora sì, cominciò a furoreggiare, e la terra incanutì,<br />

quasi dappertutto, picchiata dal maglio rovente. Giugno,<br />

da noi, appunto a causa di questa violenza del sole, che<br />

rende l’aria incandescente, è detto, con singolare anacronismo,<br />

il “mese dei lampi”.<br />

Fu questo che cosse a dovere il grano.<br />

Gl’incontri fra Pasqua e Raffieli Pòrcina non si erano interrotti,<br />

dopo quello in cui era avvenuto “il fatto” (lei così lo<br />

designava) e che risaliva ai primi di aprile. Quello stesso giorno,<br />

riaccompagnandola a cavallo fino all’imbocco della strada<br />

carraia che sale alla fattoria, mezzo morta che era, Fieli<br />

Pòrcina le aveva detto, aiutandola a scendere:<br />

«Venerdì oggi otto al solito posto, addio».<br />

E solo queste parole, nient’altro. Non avevano del resto<br />

detto una sola parola per tutto il tragitto; né prima, a partire<br />

da “quel” momento. E, al congedo, il rescritto: venerdì oggi<br />

otto. Un appuntamento, un invito? Macché, secco: un ordine.<br />

E tuttavia lei era andata.<br />

E ancora era andata, le altre volte, ogni volta che lui voleva.<br />

Chinava la testa, assentiva, va bene. Ora si sentiva più che<br />

mai legata a lui, e per sempre. Se un bacio rubato era stato<br />

per lei paragonabile al marchio di fuoco che si imprime col<br />

ferro rovente sulla coscia di un animale affinché sia stabilito<br />

chi è il padrone, a che cosa avrebbe ora paragonato quest’altro<br />

ben più intenso e definitivo legame che la univa a lui e<br />

che derivava dall’essere stata lei stessa, lei tutta intera, oggetto<br />

di appropriazione? A quei segni, ancora più crudeli, di possesso<br />

e riconoscimento che si usano per il bestiame minuto,<br />

le pecore per esempio, e che consistono nello sforbiciamento<br />

delle orecchie secondo tagli convenzionali (per sbieco-avanti,<br />

per sbieco-indietro, mozzate in quadro, mozzate a coda di<br />

rondine) fino a arrivare se occorre alla completa ablazione.<br />

Orecchie mozzate anche lei; pecora, ormai. E supponi che le<br />

118<br />

chiedessero: di quale ovile?, aveva di che rispondere: be’?, perché,<br />

non si vede?<br />

Ormai non era più niente senza di lui. Era stata come<br />

svuotata, privata della sua “stessità”. Ridotta a oggetto e assegnata<br />

a lui. Per questo lui poteva farne quel che voleva, ora<br />

realmente lei gli apparteneva senza riserve, corpo e anima.<br />

Né poteva sapere (non lo seppe, e del resto solo in forma di<br />

angoscioso sospetto, che alla seconda luna) di quell’altra cosa<br />

che frattanto si era prodotta in lei nell’occulto, giacché delle<br />

possibili conseguenze di ciò che avveniva fra loro non si curava,<br />

o meglio non ci pensava affatto, ignara e intontita che<br />

era, più che smemorata. Del resto il legame non era questo,<br />

era il fatto che lui l’aveva tolta dallo stato di “vergine”, si era<br />

preso la sola cosa, ricchezza o dote o dono, che era personalmente<br />

in grado di offrire. Così adesso gli si abbandonava facilmente,<br />

passivamente, quando e quante volte a lui piacesse.<br />

Lui voleva così? Smaniava, se no? Provava godimento a far<br />

questo? E allora sia, lei obbediva.<br />

E tuttavia, per parte sua, senza trasporto né reale partecipazione.<br />

Cadeva bensì la resistenza, ma non sorgeva in sua<br />

vece lo slancio. Anzi l’atto del piacere, lungi dal coinvolgerla,<br />

piuttosto la sconvolgeva, a tal punto da cagionarle una specie<br />

di tramortimento. Che non era quindi, come lui viceversa<br />

era portato a credere, eccesso di ardore (la scoperta che aveva<br />

fatto, ripensando al vestito di lei in quella occasione del ballo:<br />

l’equazione gonna-Pasqua, il gelo e il fuoco!), ma proprio<br />

spavento, né più né meno. Non che sentisse avversione per<br />

lui o rancore, per questo che lui chiedeva, ché anzi no, nel<br />

fatto lei assentiva (io sono il tuo pane il tuo tascapane il manico<br />

del tuo coltello, ricordi?); ma è che, da un lato non le<br />

riusciva di convincersi che questo fosse essenziale, consustanziale<br />

all’amore, dall’altro vi avvertiva, che è peggio, non so<br />

che onta o sconsacrazione. D’altra parte la carne e il sangue –<br />

in un’età dopo tutto ancora così acerba – per il momento<br />

non si svegliavano.<br />

E avveniva che in lei non era più, nei suoi rapporti con<br />

lui, nemmeno quell’esuberanza così singolare dalla quale era<br />

stata pervasa un tempo, né quella gioia. Le forme e i modi<br />

d’essere della sua tenerezza; l’inusitato amore che la faceva<br />

119


tanto diversa, agli occhi di lui, dalle donne della sua razza e<br />

della sua condizione; il bisogno che lei provava di effondersi;<br />

le parole straordinarie che le venivano spontanee alle labbra e<br />

che lui definiva canzoni; tutto questo, adesso – non sapeva<br />

bene lei stessa perché – non aveva più corso o almeno gradualmente<br />

scemava.<br />

Quanto a lui, quello fu proprio il tempo (quanto durò,<br />

che fu breve: il tempo di consumarsi la primavera) nel quale il<br />

suo sentimento fu più vicino e più somigliante all’amore. <strong>Il</strong><br />

piacere di mordere finalmente il frutto, dopo tanto desiderare<br />

e aspettare e indugiare: certo questo. Ma anche altro. <strong>Il</strong> desiderio<br />

di dare qualcosa in cambio per questo? Chissà. Ma sicuramente<br />

la ricezione e il soggiacimento all’incanto che si sprigionava<br />

da lei. Da lei capace di “confessare” l’amore e di<br />

rappresentarlo in canzoni. Da lei infantile e fresca, ma anche<br />

voluttuosa (il gelo e il fuoco!) come questi deliqui nei quali<br />

cadeva gli confermavano. Da lei infine, anche nelle grazie rivelate<br />

della sua persona, bellissima. Tutto questo lo infiammava<br />

e esaltava. E anche se la cosa si traduceva, è vero, in febbre<br />

più che altro dei sensi, questo era pur sempre un modo, e il<br />

solo a lui noto forse, di amare. Tornava a lei, usava con lei e<br />

“di” lei, con una specie di ardore insaziabile, un po’ come lei,<br />

nel tempo delle “canzoni”, era corsa sciamannata a lui. In un<br />

certo senso le parti si erano adesso invertite, il vento che prima<br />

spirava da est, ora spirava da ovest. E tenne, il vento,<br />

quanto tenne, si disse, la primavera, la quale scalza e con tutti<br />

i vestiti a sbrendoli, ma soda e fiorente sotto di essi, venne e<br />

danzò e rise per la terra di Serri, gettando a manciate fiori e<br />

spargendo su tutte le piante la voglia di procreare (perfino alla<br />

vecchia quercia mise i sussulti), per arrendersi infine boccheggiante<br />

all’estate.<br />

Ma le lune, anche, si erano nel frattempo succedute: le<br />

calanti, nuove, crescenti e le piene lune (nel cielo sempre<br />

più sgombro, sempre più netta si disegnava la ritornante,<br />

secondo le fasi sue, e fu proprio una luna stregata, immensa<br />

e vicinissima, quella che vi si stampò, sgorgando dalle colline<br />

a levante poco dopo il tramonto del sole, al compiersi<br />

del plenilunio di giugno). E lei seppe. Prima fu il dubbio<br />

120<br />

angoscioso, violentemente cancellato dalla stessa paura che<br />

suscitava: possibile! Poi le fitte punture d’ago dell’incertezza.<br />

E infine la certezza, agghiacciante. Recata, questa – dopo i<br />

pallori, le nausee, le vampe, che le facevano da precursori –<br />

da una sensazione sconosciuta che lei avvertì, negli abissi di<br />

sé, assolutamente nuova, assolutamente inaudita: la presenza<br />

estranea, la “cosa”, mossasi laggiù, non sapeva se carezzevole<br />

non sapeva se graffiante, subdola e però vera, indubitabile.<br />

La luna, no? I contadini dicono, quand’è così tonda, che<br />

è stupida. Tonta come la luna, dicono di una persona. Perché<br />

è come una faccia senza fine sbigottita. E lei così, anche, lei<br />

Pasqua, quand’ebbe toccato quella certezza.<br />

E questo coincise, vedi un po’, con la caduta del vento<br />

che si diceva; col fatto cioè che Fieli Pòrcina, giusto allora,<br />

satollo, veniva smorzando i propri entusiasmi gl’impeti i deliri,<br />

e considerando se non gli convenisse diradare alquanto<br />

le sue galoppate lungo la strada per Serri. Eh! s’era pur preso<br />

il suo contento, voleva disfarsi?<br />

Così venne giugno, quello dei lampi, e lampeggiò e incrudelì<br />

sulle messi. Lei, dallo stupore-spavento, era passata<br />

alla disperazione e all’orgasmo. Proprio nei giorni che Fieli<br />

Pòrcina, lui, entrava in eclissi.<br />

<strong>Il</strong> “bastante” entrò, dopo essersi pulite le scarpe, una dopo<br />

l’altra, contro la pietra della soglia, dalla parte di fuori.<br />

«Ave Maria, Pasqua Cinus» disse.<br />

«Dio sia con voi, Jeremia» disse Pasqua, quasi spaventata.<br />

Non sapeva come cominciare. Era goffo e impacciato,<br />

lei gli metteva soggezione: ne era innamorato!<br />

Con la mano libera accennò alle sue spalle. <strong>Il</strong> pollice teso<br />

indietro, il resto delle dita stretto a pugno, muoveva la mano<br />

a mezz’aria mentre diceva:<br />

«La padrona, Mariangela Siddi, mi ha dato il permesso<br />

di entrare».<br />

«E io vi caccio, forse, Jeremia?» disse Pasqua, senza sorridere.<br />

Non era mai stata bella come in quel punto, non lo sarebbe<br />

stata mai più. Sciolti i capelli, allentata la gala della camicetta,<br />

liberi il busto e le braccia dall’armatura del giubbone,<br />

121


sembrava sprizzasse per sortilegio da una qualche virtù della<br />

terra, e fosse messa in quella stanza, e la illuminasse. Tolte le<br />

labbra, vive da apparire sanguinanti, e un certo rossore delle<br />

gote, tutto il restante colore della sua figura era giocato su un<br />

contrasto di bianco e di nero. I capelli, neri, così esondanti. E<br />

gli occhi. E la gonna da casa. E ancora le tomaie dei calzari.<br />

Bianche invece le parti scoperte della persona, il viso soprattutto,<br />

solitamente sottratto al sole e alla vista da imbacuccanti<br />

occultanti pezzuole: virtù delle donne di là, una cosa cui esse<br />

tengono in maniera specialissima, mania islamica forse, remote<br />

ascendenze. E la camicetta. E un rettangolo di grembiule<br />

che le pendeva davanti. E non so se più questo colore bianco,<br />

o quel nero, spandesse luce. Gli occhi, certo, neri profondi,<br />

troppo profondi, ardevano come lumi e divoravano il viso,<br />

effondevano una strana, percettibile, irreale luce nera.<br />

«Oh, voi, Pasqua Cinus, certo non mi cacciate» incominciava<br />

Jeremia. «Io chi sono? Voi, me, neppure mi vedete».<br />

Convinto, quasi, che sul serio non lo vedesse, se ne stava<br />

imbambolato a osservarla, dimentico di ciò che recava.<br />

Recava, e le teneva prigioniere nel pugno, una coppia di<br />

tortore vive.<br />

«Cosa avete di bello lì, Jeremia?» lei chiedeva.<br />

Trasaltava per la propria smemoratezza.<br />

«Oh Dio, dove ho la testa» si scusava. E allentava la stretta<br />

della mano, chiamando in pari tempo in soccorso l’altra<br />

mano e di entrambe facendo nido. «Tortore, sono» disse.<br />

«Una piccola cosa per voi».<br />

Veniva avanti, le mostrava. Un fare mite, il suo, come<br />

miti si mostravano le tortore, le quali volgevano le teste sui<br />

colli snodati facendo sommessamente tùu tùu.<br />

«Un regalo?» diceva Pasqua, questa volta sorridendo. E le<br />

veniva da commuoversi, quasi da abbracciare Jeremia. E magari<br />

lo avrebbe fatto (le accadeva, ora, di cadere in eccessi incontenibili<br />

di non sapeva che bene), non avesse conosciuto i<br />

sentimenti di lui – quella forma di amore estatica silenziosa e<br />

tapina – e il turbamento che certo gliene sarebbe venuto.<br />

Non seppe tuttavia resistere all’impulso di fargli una domanda<br />

che sapeva ugualmente per lui tormentosa. Né le era<br />

chiaro il perché.<br />

122<br />

«Jeremia» disse, con una singolare e quasi disperata morbidezza<br />

di voce «voi mi volete bene?».<br />

Al poveraccio spuntarono le lacrime agli occhi.<br />

«Oh» disse «Pasqua Cinus, cosa mi chiedete».<br />

Era lì con le due tortore, le offriva, offriva con quelle se<br />

stesso, così pareva. Persuaso, a un tempo, che nessuna delle<br />

due offerte valeva più dell’altra, per lei.<br />

«Oh, Pasqua Cinus» ripeteva.<br />

«Male faccio» essa disse, cercando di sorridere «a non<br />

decidermi a prendere voi. Voi mi prendereste, non è vero?<br />

Mi sposereste, Jeremia Campus?».<br />

Non chiaro, ancora, ciò che la muoveva a dir questo. Far<br />

getto di sé, buttarsi via? Be’, e perché? Forse diversa, lei, da<br />

costui? E intanto quella certezza, che le mangiava come un<br />

avvoltoio il cuore.<br />

«Oh, padroncina» piagnucolava dal canto suo Jeremia.<br />

«Oh oh».<br />

Le pareva che già le cantasse così facendo l’attìttidu, che<br />

è il canto delle prefiche. Lei morta e Jeremia ginocchioni a<br />

piedi del catafalco a farne lamentazione, in canto e in pianto,<br />

ohi ohi. Quale innamorato, quale sposo sarebbe stato Jeremia:<br />

si sarebbe privato di respirare, per lasciarle più aria. Era<br />

della sua stessa pasta. Era suo fratello, Jeremia. E infatti:<br />

«Fatevi coraggio, su, fratello mio» disse proprio così. «E<br />

che, sono morta? E poi» sorrise «chissà che non avvenga, eh?<br />

Intanto, grazie del buon pensiero. Siete il migliore uomo di<br />

tutta la terra, voi; avete un cuore delicato».<br />

Prese con circospezione le tortore.<br />

«Sono sposo e sposa?» domandò.<br />

«Ah sì, e si stimano molto» disse Jeremia, allusivo.<br />

«Ah» essa disse. «Già!».<br />

Egli spiegava che si sarebbero in brevissimo tempo addomesticate.<br />

Doveva tenerle, così in coppia com’erano, dentro<br />

una gabbia o cassetta, fino a quando non “imparassero il<br />

luogo”. Dopo potevano essere lasciate girare per casa libere,<br />

non avrebbero disturbato nessuno.<br />

Ascoltava e non ascoltava. Le era entrato nella mente un<br />

altro pensiero.<br />

«Bene, Jeremia, bene» disse. «Andate voi stesso per piacere<br />

123


nella corte e trovatemi questa cassetta. Dopo tornate qui che<br />

ho un premio e una commissione per voi. E poi sistemerete<br />

voi stesso queste due tortorelle».<br />

Andava, come no? Nostra Signora in persona gli aveva<br />

dato un comando, e un altro ne era in vista, e veniva annunziato<br />

un premio. Correva.<br />

<strong>Il</strong> messaggio era: “Pasqua Cinus, sorella tua, manda a salutarti.<br />

Ha bisogno di vederti stasera stessa, a tuo comodo, o<br />

domani al più tardi, per un affare di grande delicatezza e che<br />

riguarda anche ‘un’altra persona’. Dice che preferisce tu stesso<br />

le dica dove potrete incontrarvi, lungo la strada di Serri, ché<br />

essa senza fallo vi si recherà, non appena avrà avuto risposta.<br />

Dice che non devi assolutamente mancare, gente ne soffrirebbe,<br />

e molto, più di quanto tu possa pensare. Dice infine<br />

espressamente questo: che la spiga è piena e la messe matura,<br />

se tu, padrone, potrai comprendere, come lei spera. Io tuo<br />

servo sono qui per dirti questo in fiducia, per conto di chi<br />

mi manda”.<br />

Si ripeteva Jeremia l’imbasciata, parola per parola, conforme<br />

gli era stata insegnata, come se si trattasse del padrenostro.<br />

Sui lenti papiri del suo cervello Pasqua Cinus aveva scritto<br />

con mano ferma e punte di buona lega.<br />

Arrivò, trovò chi cercava, lo tolse in disparte e recitò la<br />

lezione senza lasciare una sillaba. E aspettava concentrato la<br />

risposta, che doveva riportare.<br />

«Ah!» disse il destinatario, come prima reazione. Via via<br />

che il sempliciotto parlava la fronte gli si era venuta corrugando,<br />

le sopracciglia aggrottando. Luce malevola era nata<br />

nelle sue iridi. La frase: “La spiga è piena e la messe matura”<br />

chiese che gli fosse lentamente ripetuta.<br />

«Così ha detto?» domandava.<br />

«Così» asseverava il messaggero, portandosi la mano al<br />

petto. Parola non vi appulcro, pareva dire.<br />

«Bene» disse Raffieli Pòrcina. «Bene». E dettò la risposta,<br />

che poi si sforzò, ma con ben altra maniera e dolcezza che<br />

non quelle di Pasqua, di cacciare nel cranio del nunzio.<br />

«Hai capito mammùt?» domandava.<br />

«Ho capito» rispondeva Jeremia.<br />

124<br />

«Ripeti dunque».<br />

E ripeteva.<br />

La risposta era: “Fieli Pòrcina rende il saluto. Oggi non<br />

può e domani neppure. Venerdì, può, se va bene per Pasqua<br />

sorella sua. Solo quel giorno non prima si sarebbe recato a<br />

Serri, solito posto, come richiesto. La mattina sul tardi, diciamo<br />

le dieci, sperava andasse bene. Lui non credeva le spighe<br />

fossero piene. A volte sembra, e non è. A ogni modo si vedrebbe.<br />

Stesse in pace”.<br />

Lei era venuta sulla strada di Sìnniri, per sentire la risposta,<br />

a evitare che Jeremia rimontasse, al ritorno, sino alla fattoria<br />

e le chiedessero che incombenza gli aveva dato, ché poi<br />

non avrebbe avuto pretesto di partire per Serri. Per questo si<br />

era spinta sino all’incrocio per Tula.<br />

E ecco egli veniva, l’araldo, e al vederla, ancora di lontano,<br />

gli ringiovanivano i piedi: era già là a aspettarlo, lei: venuta<br />

apposta per lui! Ma gli veniva la faccia del can barbone<br />

quando, raggiuntala e riferito il messaggio, le vedeva il volto<br />

appenarsi, e farlesi tristi e smarriti gli occhi, e la bocca tremare<br />

un po’. Colpa sua, che non aveva portato una nuova migliore.<br />

Era tentato di dire che aveva scherzato, il messaggio<br />

era un altro, tutt’affatto diverso, stesse a sentire; e inventarne<br />

lì per lì uno effettivamente diverso, che potesse piacerle. Ma<br />

inventarlo! E in che modo? Testa sua maledetta: l’involucro<br />

grande uno staio, ma il cervello un gheriglio di noce.<br />

Pure, dal gheriglio, presto presto spremuto un’idea venne<br />

fuori. Poteva aggiungere al messaggio un codicillo, ci<br />

stesse o no. Di questo andare e venire di lettere per bocca di<br />

messaggero, qualche cosa il suo cuore, se non la mente, confusamente<br />

intuiva. Inghiottì saliva e disse, scandalosamente<br />

mentendo:<br />

«Manda a dire anche questo, che stiate di buon animo<br />

che lui vi pensa e vi stima sempre».<br />

Metteva sé come tappeto, e che l’altro, avanti, passasse<br />

sopra, purché lei si rallegrasse.<br />

Ma l’effetto fu disastroso, rispetto a quello che si aspettava.<br />

Invece di sparirle dal volto, quella pena si accentuò, che a<br />

vederla gli faceva male. E avvenne una cosa strana, che finì<br />

125


d’intontirlo: la ragazza si coprì il viso con entrambe le mani,<br />

poi gli venne addosso, si afferrò a lui e, così premuta contro<br />

la sua persona, ruppe in singhiozzi che sembrava disfarsi.<br />

Trasognato la resse, dopo aver barcollato, ma non osava<br />

toccarla. Le mani gli svolazzavano intorno al capo di lei come<br />

pipistrelli accecati dalla luce del giorno. Caduta per terra,<br />

fai conto, un’ostia consacrata, che vorresti raccattarla e come<br />

fai?, se si sa che è sacrilegio. E almeno chiamarla, avrebbe voluto:<br />

Pasqua! Pasqua!, soavemente. E non seppe fare altro, alla<br />

fine, che mettersi anche lui a singhiozzare.<br />

Solitudine intorno, per miglia. E questi due che, lì in<br />

piedi e abbracciati, piangevano.<br />

Venerdì laggiù ha un nome un po’ fuori delle regole,<br />

connesso, dicono, con l’usanza giudaica del digiuno serale all’inizio<br />

del sabato: cenàpura, così è detto.<br />

Era, questa parola, contenuta nel messaggio di lui – ne<br />

era anzi parte essenziale, la sola che aprisse un varco, uno spiraglio<br />

alla speranza – ed era quella che lei si ripeteva come ingrullita,<br />

tornando sui suoi passi per la strada di Sìnniri, dopo<br />

aver lasciato al crocicchio Jeremia.<br />

Gli aveva chiesto di venire d’urgenza, spiegandone chiaramente,<br />

se voleva capire, le ragioni, e mandava a dire, imperturbato:<br />

cenàpura. Cioè fra sette giorni, dato che oggi era<br />

appunto cenàpura. Ma oggi lui non poteva, né domani, né<br />

dopo, né dopo ancora. Portasse pazienza, aveva da fare. Da<br />

fare cosa? Aveva capito sì o no il messaggio? E dunque, se<br />

l’aveva capito – ma sì che l’aveva capito; se l’era fatto ripetere,<br />

lei, per prova, da Jeremia: un pappagallo – cosa aspettava,<br />

cosa? Lei moriva di angoscia, era terrorizzata, disperata, e<br />

lui, con calma: sì che verrò, ma cenàpura. Poteva avere cose<br />

più urgenti da fare di questa? In un caso così si parte subito,<br />

si corre, si vola.<br />

Mai aveva pensato a lui con animo così deluso. Si sentiva<br />

respinta, abbandonata a se stessa, sola.<br />

Sola era poi davvero, in quel punto, mentre avanzava per<br />

la strada di Sìnniri violentemente scavata dentro l’argilla, e<br />

che pareva dar sangue. Avanti e dietro di lei non un’anima,<br />

nel lungo budello della strada tagliata dritta come una spada.<br />

126<br />

E lei nel fondo della ferita, alzandosi da una parte e dall’altra,<br />

quasi minacciassero franarle addosso, le ripe verticali, strapiombanti,<br />

anzi, erose in basso dal passaggio dell’acqua durante<br />

le acquate autunnali. Rinserrata lì dentro, immersa nell’aria<br />

pesa, quasi bollente che lì stagnava. E solo levandosi<br />

verso lo scrimine delle due ripe poteva trovare, almeno lo<br />

sguardo, evasione. Scorgere sui cornicioni, di qua le messi già<br />

bionde, e di là file di arbusti. Più, nell’altissimo, un fulgore<br />

abbagliante e intemerato, l’universo del sole e di tutti gli azzurri,<br />

l’inaccessibile cielo.<br />

E adesso che avrebbe fatto? A chi rivolgersi, con chi confidarsi,<br />

come uscire da quella situazione tremenda. Nessuno,<br />

non c’era nessuno, tranne lui. <strong>Il</strong> padre no, orrore. La madre?<br />

Ma con quale coraggio, si domandava. Si vedeva dinanzi alla<br />

madre, trafitta dai suoi occhi: no, impossibile. E non rimaneva<br />

che lui.<br />

<strong>Il</strong> riverbero della vampa canicolare le dava nausee. O era<br />

il suo stato, quell’altra cosa. Procedeva sbandando, come<br />

ubriaca, stordita. <strong>Il</strong> pianto stesso di poco prima, appoggiata<br />

alla spalla di Jeremia, l’aveva come stremata, esausta. Andavano<br />

dentro di lei i pensieri come nel cielo uccelli: a caso, in<br />

ogni direzione, per rotte folli. Si chiamava da se stessa, sdoppiandosi:<br />

Pasqua! Pasqua! gridava, quasi che il “sé” che cercava<br />

si fosse disperso svanito nel nulla. Avrebbe aspettato quel<br />

giorno, certo, bisognava che lui sapesse com’era la cosa, si<br />

convincesse, forse non aveva capito. Non è vero aveva capito<br />

e come, a volte sembra e non è aveva mandato a dire dunque<br />

ecco la prova che aveva capito non ci vuol molto e poi Jeremia.<br />

A volte sembra e non è? Ma era matto senza questa certezza<br />

sicura avrebbe arrischiato lei di mandargli messaggio<br />

per bocca d’altri così per gioco sai ho il vago dubbio ma dove<br />

siamo. E se no doveva capire la sua tragedia invece no sette<br />

giorni. Sette giorni: uno due tre quattro cosa avrebbe fatto fino<br />

a quel giorno cosa. Sette giorni sette notti sette pugnalate<br />

nel costato. Pensare pensare pensare. Come liberarsi di questi<br />

pensieri tormenti smanie blatte schifose. Questo ronzio senza<br />

fine. No, lui doveva aiutarla. Solo lui poteva dirle fai questo<br />

vediamo si accomoderà. E doveva farlo. Per quello che c’era<br />

stato doveva. In memoria di. In nome del.<br />

127


Gli parve di vederlo, nell’aria bruciante. Scaturito dal<br />

nulla in quell’aria che vibrava. Quasi alzava le braccia per<br />

corrergli incontro. Quanto bene, tutto quel bene. Lei era stata<br />

una cisterna e ci si poteva calare il secchio e attingere attingere<br />

senza fine bene. E tu? Ma non conoscevi il sentiero Raffieli<br />

Pòrcina? Ah, no, le scorciatoie, l’amore soltanto amore<br />

non poteva bastare. Ma non importa, non importa aspetterò<br />

sì caro fra sette giorni: cenàpura.<br />

Giunse alla fattoria in preda al capogiro, come avesse bevuto<br />

vino forte.<br />

S’imbatté dietro la casa nella figura ciondolante di ’Ntoni.<br />

«Che hai, Pasqua?» chiese il ragazzo vedendola stravolta.<br />

Si riscosse:<br />

«Nulla, ho, nulla».<br />

Ogni voce dei familiari che le giungesse ogni sguardo che<br />

la osservasse la metteva in allarme, ora. L’assurda paura che la<br />

“cosa” già si vedesse, che scoprissero la sua gravidanza.<br />

«Nulla» ripeté. «È il sole». Cercò di sorridere.<br />

Figurarsi se ’Ntoni.<br />

«Sai, Pasqua» disse il ragazzo, già dimentico «che a giorni<br />

avremo gente qui a Serri?».<br />

«Sì?» disse Pasqua, pur non importandole niente. «Chi<br />

viene?».<br />

«Mietitori» ’Ntoni disse. «E spigolatrici si intende».<br />

«Ba’ vuole già mietere?» lei chiedeva.<br />

«Sì, oggi otto, cenàpura» rispose.<br />

Andò, con pretesti e menzogne, che già erano infatti sul<br />

grano con le falci.<br />

Sulla strada di Serri lunga infinita. Bruciava l’aria nel fervore<br />

dell’ora e frinivano a schiattare le cicale.<br />

E non venne.<br />

128<br />

X<br />

LE FALCI<br />

Con la sinistra si afferra un ciuffo, e si chiama manipolo.<br />

Le gambe a compasso, la schiena curva; la destra che stringe<br />

la falce. È argentea come la luna, la falce, e tanto sottile che<br />

dici: terrà? Ma ha quel fare avvolgente e viperino, denti minuti<br />

e acuti e durezza di tempra: tiene e come. Così lunata e<br />

insinuante, cala fino all’altezza del tallo e recinge tutto il manipolo,<br />

quanto sia ampio. Quindi esegue il lavoro suo, addenta<br />

e trancia. Non occorre neppure una grande forza, nell’atto<br />

in sé. Polso, occorre, e perizia. E va da sola. Devi solo<br />

secondarla, torcere il polso, tirare a te. Udrai crocchiare le<br />

canne come fiammiferi strofinati, un suono familiare e gradevole.<br />

Ed è fatta: il manipolo è tuo, ti resta nella sinistra come<br />

un trofeo, definitivamente spiccato dalle sue origini, dalla<br />

terra che lo ha nutrito e cresciuto. Non resta che legarlo (due<br />

o tre pagliuche, riprese in su mentre l’abbranchi, bastano) e<br />

riporlo. Con altri manipoli andrà a formare i covoni, e questi<br />

le biche, finché il carro non venga, nel giorno stabilito, per<br />

recare il tutto alla battitura.<br />

Lavoravano dunque finalmente le falci, nel campo di<br />

Giuanni Cinus, e anche alla disperata, perché un manipolo è<br />

un conto, ma altro affare è ripetere l’operazione infinite volte,<br />

e andare avanti l’intero giorno, e poi l’altro, e l’altro e così<br />

via. Allora mietere non è più tanto piacevole, sloga i polsi e<br />

slomba le reni – afferra stringi taglia annoda flettiti alzati –<br />

diventa insomma fatica grama, e in più hai sopra di te un sole<br />

che ti arrostisce; sotto, l’afrore del grano che ti ubriaca; e<br />

sopra sotto fuori e dentro, onnipresente, l’impalpabile dorato<br />

pulviscolo della paglia, che t’impasta la bocca ingessa le fauci<br />

tormenta gli occhi e incrosta la pelle sudata da farti grattare<br />

anche nel sonno. Senza dire che questo di Giuanni Cinus era<br />

un grano dannato, travaglioso, richiedeva un dippiù di fatica<br />

per come era alto e forte di canna, sembrava che la terra fosse<br />

129


imasta per secoli in attesa di seme e che ora si fosse sfogata<br />

tutta in una volta della voglia di generare.<br />

I mietitori erano quindici, Giuanni Cinus compreso. Che<br />

figurati se si era tirato indietro proprio in questo momento,<br />

lui, chi l’avrebbe tenuto dal togliersi una soddisfazione così,<br />

tanto valeva castrarlo. Era lui, anzi, una volta di più, quello<br />

che tirava la “scalata”, e puoi immaginare se sonnecchiava. E,<br />

dietro a lui, per stargli al passo, sotto anche gli altri, ci davano<br />

dentro alla diavola, sgobbavano da maledetti.<br />

I più, fra i mietitori, lavoravano scamiciati, ogni tanto<br />

dal folto emergevano le loro schiene nude in figura di torsi di<br />

bronzo, e lucevano al sole. Nel fronte a mezzaluna che ciascun<br />

mietitore si deve aprire via via che avanza, l’aria era greve<br />

e spessa che si poteva affettare, già quando il sole era appena<br />

a due braccia dall’orizzonte. In queste condizioni era raro<br />

che parlassero, così affaccendati e affranti. Ma attaccando al<br />

mattino, al fresco, non disdegnavano di motteggiare. E era<br />

allora che, rivolti a Giuanni Cinus, mezzo ridendo mezzo<br />

imprecando dicevano:<br />

«O Giuanni Cinus ti venga un cancro, ma questo è grano<br />

o è canna da fiume, che ci si addanna a tagliare».<br />

Dicevano:<br />

«E dove hai preso la semente, te l’hanno data le streghe?».<br />

Dicevano:<br />

«Ma che? Hai fatto un patto con il demonio, Sua Mercé<br />

Satanasso?».<br />

Facezie. Alle quali lui rispondeva grugnendo, bofonchiando<br />

(il fiato corto che aveva in quella foga) e tirando<br />

avanti a falciare. E solo ogni tanto: «Ehi ehi, cantate» badava<br />

a dire. Ma ciò che lo colpiva era che quelle erano le frasi,<br />

identiche spiccicate, che lui “sapeva” sarebbero state dette, da<br />

quando la scena che ora andava svolgendosi gli si era rappresentata<br />

precisa davanti agli occhi quel giorno di novembre.<br />

Tutto, fin nei particolari, si era avverato a puntino. Addirittura,<br />

adesso, queste parole; c’era da cominciare a allarmarsi.<br />

E che? Gli girava per la testa una cosa, e accadeva? Ma allora<br />

era davvero “cantato”, affatturato, non credi?<br />

Ma presto si riprendeva, scrollava le spalle, ma va’. Cantato<br />

un accidenti, affatturato un corno, che gli facessero un po’<br />

130<br />

il piacere. <strong>Il</strong> demonio, le streghe, le fatture, le minchionerie.<br />

In malora. Unica cosa era godersi, assaporare come un liquore<br />

la gioia di questo grano favoloso, questa graziadidio mai vista.<br />

Questo non era sogno, immaginazione, guarda. Quali streghe?<br />

Afferrava il manipolo: vieni, bello. E collocava la falce,<br />

torceva, tirava. La brancata di spighe gli restava nella sinistra<br />

e, per districarla, l’alzava quanto poteva, più in alto della sua<br />

statura, come un tirso, una torcia per fare lume. Quasi volesse,<br />

chissà, mostrarla al mondo, al sole, all’universo: eh? E legava<br />

il mannello in un amen, passava a un altro, stesso lavoro,<br />

giù, su, guardate questo; e questo; e questo. E procedeva che<br />

gli chiedevano se avesse il pepe, dietro, cònno da cui era nato,<br />

o se l’incalzasse la morte.<br />

«Ehi ehi» lui diceva «cantate». Mormorassero pure, ché la<br />

bocca l’avevano apposta, purché tenessero il passo. E, per<br />

massacrante che fosse, lo tenevano.<br />

Dietro poi i mietitori, disposte in seconda schiera, venivano<br />

le spigolatrici. Piegate in giù, quasi gattoni, la persona<br />

incernierata sulle anche, la testa ricoperta da grandi pezzuole.<br />

Volumi di gonne e panieri, colombi in pastura. Spigolando,<br />

stuzzicavano i maschi, si scambiavano con essi risate e oscenità.<br />

E leste leste becchettavano senza fermarsi, prontezza<br />

d’occhio e di mano, oltreché di lingua. Tutto ciò che riuscivano<br />

a raccattare – le spighe scampate alla falce – era roba loro,<br />

è la regola. Per questo raspavano, a testa bassa, con tanto zelo.<br />

Sette giorni durò il messare (ché questo è il verbo) e tutt’e<br />

sette fu senza vento, una “tempestate” di sole. I mietitori, più<br />

che avanzava il giorno, e la fatica, e il loro stesso schieramento,<br />

più si sentivano ardere, avevano ogni tanto bisogno di<br />

dissetarsi, perciò occorreva approntare giare, con acqua tenuta<br />

in fresco o vino annacquato, e recarle. E questo era incarico<br />

soprattutto di ’Ntoni, che aveva troppo fragili ancora i<br />

polsi e tenere le reni per durare a falciare. Ma anche Pasqua,<br />

se del caso, era chiamata alla bisogna; la quale rollava a volte<br />

fra le stoppie come ubriaca nel recare i recipienti, mentre le<br />

occhiate dei maschi il fortore del grano l’asciuttezza dell’aria<br />

il caldo torrido le davano nausee. A parte che poi doveva, insieme<br />

alla madre, occuparsi anche del resto, l’usanza essendo,<br />

131


a differenza che nei lavori invernali, che si desse ai mietitori<br />

di che sfamarsi, allo stacco del mezzogiorno, altrimenti che<br />

mietitura sarebbe?<br />

In pratica soltanto Momo, anche in quel gran daffare, restava<br />

disoccupato.<br />

Momo e gli spiriti, Momo e i fantasmi della sua solitudine.<br />

Aveva tutto il tempo e la libertà per giocare, vagare, fare<br />

quel che volesse. Ma finiva per starsene per ore immobile, sul<br />

bordo dell’aia, a mugolare sommessamente. Erano quelli i<br />

momenti nei quali pensieri, impulsi, moti confusi, bussavano<br />

alle soglie della sua mente e, entrati dentro, si accapigliavano.<br />

Come quel grano cresciuto al buio che si prepara per i<br />

“sepolcri”, il quale conserva, fino a ammalarsene, l’anelito<br />

verso la luce che gli è negata.<br />

La sua pena più acuta, presentemente, era Pasqua. <strong>Il</strong> suo<br />

attaccamento per lei, già intenso che era, si era ancora accresciuto,<br />

si era fatto possessivo, esclusivo, geloso. Un attaccamento<br />

che aveva anch’esso, come tante cose di lui, alcunché<br />

di canino: umile, cioè, e sottomesso, pago di un nulla, adorante;<br />

ma, per ciò stesso, istintivo, impetuoso e quasi disperato.<br />

E adesso ecco che Pasqua lo trascurava, o almeno non<br />

aveva per lui le attenzioni di un tempo. E non – ne era certo<br />

– per colpa sua, ma perché c’era qualcosa che la tormentava.<br />

Non aveva dimenticato il suo pianto di quella notte. I<br />

singhiozzi e il cessare di essi, e poi quel protestare: io, Momo?,<br />

ma va’, avrai sognato! Mentiva, era sicuro che mentiva. E forse<br />

anche altre volte, dopo di quella, aspettava la notte per<br />

piangere. Ché lui ci stava attento, si costringeva a star sveglio,<br />

perfino, per vedere se lei. E niente, è vero; ma non vuol dire.<br />

Chi gli garantiva che, caduto che lui fosse nel sonno, che lo<br />

prendeva a tradimento a una cert’ora, lei allora ne approfittava.<br />

E a parte questo i silenzi di lei, la perduta abitudine di ridere<br />

e giocare con lui, quel suo sottrarsi, quel suo appartarsi.<br />

Di nascosto lui la seguiva, se appena poteva, la spiava. E sapeva,<br />

lui, cosa credeva? Si faceva delle volte bianca bianca, si premeva<br />

la mano a pugno sulla bocca dello stomaco, sembrava<br />

una che volesse rivedere. E se si accorgeva di lui, presto presto<br />

cambiava espressione, faceva finta di niente, mentiva ancora:<br />

132<br />

Momo indiscreto ficcanaso e tontolone, rideva. E diceva<br />

niente, è niente, eh, un po’ di male allo stomaco, qualche cosa<br />

che ho mangiato, così diceva. Bugia, perché un’altra volta, di<br />

lì a due giorni, aveva rimesso davvero, cos’è allora che mangiava?<br />

E anche raccomandava di non dir niente di questo fatto,<br />

perché?<br />

Inutile farle domande, del resto difficili per lui da formulare.<br />

Faceva la tonta: io, Momo, io? Sempre questa canzone.<br />

Tutto questo, non importa se così appunto, in qualche<br />

modo lui ruminava con sforzo nel suo cervello. E si sforzava<br />

a voler penetrare il perché di questo, il mistero che dietro il<br />

modo di fare di Pasqua, così mutato, si celava. Soffriva perché,<br />

per chi, a causa di chi? <strong>Il</strong> padre, la madre, ’Ntoni? O lui<br />

stesso, Momo? O chi ancora? E, chi si fosse, una cosa era certa:<br />

che lui voleva difendere Pasqua da questo tale, e liberarla<br />

dalla sua pena. <strong>Il</strong> male era questo: che non sapeva.<br />

Mandava adesso a dire: Vado domani a Serri. Secco, così.<br />

Niente altro.<br />

Si era vista avvicinare da costui, mentre saliva alla fattoria<br />

da uno di quei viaggi a portar acqua ai mietitori; reggeva<br />

per il manico, ciondoloni, l’anfora vuota.<br />

«Voi siete Pasqua Cinus, padrona, potrei giurarlo» aveva<br />

detto. Uno di quei pescivendoli che vanno in giro per gli<br />

stazzi in bicicletta, recando sul bagagliaio una cassetta con<br />

dentro il pesce.<br />

«Be’, e come fate a esserne così sicuro» lei aveva chiesto.<br />

«E che volete?».<br />

Quello tagliava corto:<br />

«Ho commissione per voi» affermava.<br />

«Da parte di chi?».<br />

«Mi manda Raffieli Pòrcina, certo lo conoscete» diceva<br />

l’uomo. E riferiva il messaggio. Profittava anche per chiedere<br />

se potesse offrire della sua merce.<br />

«Gradireste?» interrogava, indicando la cassetta.<br />

«Grazie, no» lei diceva. Quei pesci stecchiti, pietrificati<br />

dal sole, quei morti occhi sbarrati e vitrei, e più ancora la<br />

mucillagine dei polpi, che il venditore, per invogliarla, voltava<br />

e rimescolava cacciandovi dentro la mano, le davano il<br />

voltastomaco. Pareva che le frugassero così le viscere.<br />

133


«State bene» si congedava l’uomo.<br />

«Aspettate. Vi ha detto l’ora?».<br />

«Domani sera, ha detto. Due ore prima dell’entrata del<br />

sole».<br />

«Va bene. Dio vi rimeriti».<br />

L’uomo voltava e andava.<br />

Non ci vado, si disse subito, fermamente risoluta. Domani<br />

sera va a Serri. Bene, che vada. Al messaggio mandato da<br />

lei, che sì ch’era pieno di angoscia, aveva risposto: spiacente,<br />

semmai cenàpura. E neanche quel giorno era venuto. E ora<br />

invece, che a lui faceva comodo, spediva l’ingiunzione: vado<br />

domani a Serri. Che voleva dire: vienimi incontro corri,<br />

Tricò. Ma cosa credeva, che lei era proprio un cane? Bastava<br />

un fischio e correva, come Tricò. Lei non era Tricò, non era<br />

un cane. Andasse pure l’indomani a Serri, e in buonora, lei<br />

qui era e qui restava.<br />

Ma sapeva che no, che sarebbe andata. Corsa anzi, davvero<br />

come Tricò. <strong>Il</strong> dramma che da giorni, giorno per giorno<br />

viveva. Quel non sapere che fare, con chi consigliarsi, con chi<br />

parlare. La paura che, come un mostro, era sempre accampata<br />

in lei, notte e giorno, e cresceva, mutava in spasimo. La<br />

crocifissione dei rimorsi, con chiodi e corona di spine. E,<br />

unica contropartita, la fiducia che lui, lui soltanto, poteva<br />

comprenderla, consolarla, aiutarla. Tutto questo era già bastante<br />

per farle capire che sarebbe andata, Tricò o no, e farle<br />

anzi desiderare che fosse già adesso, domani. E poi anche<br />

non so che brama, a dispetto di tutto, di rivederlo. Memoria<br />

dei giorni in cui gli diceva: quando vorrai chiamami, e io<br />

correrò, io verrò correndo con zampe di lepre, io verrò come<br />

un uccello in quale si voglia luogo tu sia.<br />

Ripigliava a camminare, issandosi la giara sull’anca. Assumeva<br />

l’andatura, tanto più ch’era in salita, che quel peso,<br />

così recato, impone, pur quando l’anfora è vuota: un certo<br />

sbilanciamento all’indietro e di lato del busto e il dondolio<br />

del bacino, un che di offerto e negato, dato e sottratto, al<br />

mutare dei passi: la camminata delle donne di là, inconsapevolmente<br />

voluttuosa.<br />

Si rimangiava quella sua impuntatura iniziale: va bene,<br />

domani. Doveva fare l’offesa? Fare questione di dignità? In<br />

134<br />

quelle condizioni? Ma va’. Inclinava anche alla morbidezza:<br />

sì, caro, domani. E continuava a camminare, lenta e impigrita,<br />

dondolante a quel modo: un po’ di offerta, un po’ di diniego,<br />

a cadenza. Nel sole.<br />

Remoto, da misteriose distanze, e tuttavia bene in lei,<br />

venne quel moto. Come quando un pulcino che hai tolto in<br />

mano e costretto al buio e al silenzio, ha un lieve trasalimento.<br />

Erano ancora le prime volte che lei avvertiva questo, e ne<br />

restava ogni volta agghiacciata. Sapeva, cos’era. Non di meno<br />

provava ogni volta quello sconcerto che viene da un fatto<br />

oscuro e pauroso. La sensazione di una presenza – indefinita,<br />

priva di volto, di contorni, di tutto, eppure reale – acquattata<br />

in lei. Chi sei?, lei chiedeva. Perché vieni? Io non voglio. E si<br />

figurava la cosa, il coso, “lui”, insomma, intento ottusamente<br />

a fabbricare se stesso, nei misteriosi recessi: accumulare materiale,<br />

suggere linfa, sangue, costruirsi. Di questo solo preoccupato,<br />

a questo solo attendendo. Ignaro di lei, indifferente al<br />

travaglio alla pena alla tragedia di lei, supremamente incurante<br />

di tutto ciò che non fosse essenziale al suo farsi. E informe<br />

e molle, là nelle viscere. Simile – adesso capiva – a quelle cose<br />

flaccide e gelatinose della cassetta del pescivendolo, che l’avevano<br />

rivoltata. Un essere immondo, un intruso, di prepotenza<br />

accampato in lei. Perché? Chi l’aveva chiamato? Chi gli<br />

aveva chiesto di essere?<br />

Ma placatosi questo impulso, ch’era quasi di rancore, rovesciava<br />

la domanda. Anche lui, certo, poteva ribattere: Ho<br />

chiesto io, forse, di vivere?<br />

E questa constatazione la sgomentava. Per ciò che lei<br />

stessa poteva ben porre, per sé, lo stesso interrogativo, farne<br />

quasi un’accusa a suo padre e a sua madre: Ho chiesto io,<br />

forse, di vivere? E anche loro, a loro volta. E tutti, medesimamente,<br />

risalendo all’indietro nella scala dei viventi. E non<br />

c’era risposta.<br />

Accelerava allora il passo come se volesse fuggire. Basta!,<br />

gridava mentalmente, basta! Le sembrava di impazzire. Ogni<br />

volta che il suo pensiero imboccava una qualche strada, sempre<br />

doveva esserci sul suo passaggio una trappola che si chiudeva,<br />

un intrico di spini, un muro seminato su in alto di<br />

cocci di vetro. Basta basta basta. Aspettare fino a domani.<br />

135


Oh sì sarebbe andata, sicuro che sarebbe andata, bisognava<br />

che uscisse da questo imbroglio da questo frastuono da questo<br />

orrore. Lui certo le insegnerebbe la via. Domani. Non vedeva<br />

l’ora che fosse domani.<br />

Altre volte ridente, in festa, quando s’incontrava con lui.<br />

Questa volta invece gli era davanti dolente, impaurita; scomparsa<br />

la gioia. Eppure, quei suoi occhi scuri morbidi ancora<br />

bevevano avidamente la figura di lui, come una luce. E li rischiarava.<br />

Lui era apparso crucciato, fin da lontano. Non era venuto<br />

come altra volta col cavallo lanciato per poi di botto fermarsi;<br />

ma al passo, e senza neppure curarsi di affrettare l’andatura.<br />

Salutò lei per prima, alla moderna: ciao. Come le aveva<br />

insegnato lui. Sforzandosi di sorridergli.<br />

Anche lui disse ciao, ma mantenne quella mutria e non<br />

smontò da cavallo. Domandò anzi:<br />

«Vuoi salire?» quasi si trattasse di fare come le tante volte,<br />

e non fosse accaduto nulla. E invece.<br />

Scosse la testa, no, come poteva pensarlo?<br />

Lui borbottò qualcosa, che non potevano restare lì se<br />

dovevano parlare, qualcuno poteva vederli.<br />

«Che importa, ora?» lei disse.<br />

Allora lui scese e si tirava dietro il cavallo.<br />

Camminarono un poco in silenzio. <strong>Il</strong> cavallo ogni tanto<br />

emetteva degli sbuffi che invariabilmente la facevano sussultare.<br />

Camminando a fianco a lui, lei, più piccola faceva un<br />

passo e mezzo per ciascuno di lui. In statura lui la sopravanzava<br />

quasi di un palmo.<br />

«Volevi vedermi, mi vedi» lui disse.<br />

Lei fece sì con la testa, che lo vedeva.<br />

«Ebbene, e allora?» egli insistette.<br />

«La cosa più importante» disse Pasqua «la sai già. Ti ho<br />

mandato commissione».<br />

«Uhm, quel babbeo» lui disse. E poi chiese: «Ma sei proprio<br />

sicura?».<br />

«Sicura» rispose. Ripensava alla frase di lui, mandata a dire<br />

di rimando con Jeremia: a volte sembra e non è. Lo si poteva<br />

dire di tante cose.<br />

«Come fai a essere sicura» lui protestava. «Potresti sbagliarti.<br />

Un ritardo, per esempio. Capita, a volte».<br />

136<br />

Protestò a sua volta che non c’erano dubbi, era più che sicura.<br />

Aveva mai provato a essere donna, lui? A avere un bambino<br />

dentro? A sentirlo voltare? E le tornò memoria di quella<br />

vita là, che negli abissi di lei si andava formando, indaffarata.<br />

Strano, si disse: sin qui non aveva pensato neppure una volta<br />

che quella vita avesse un legame anche con lui, anzi recasse in<br />

qualche modo il sigillo di lui, lui ne era il padre, che poi, ecco<br />

qua, veniva a dire potresti sbagliarti, ecco come la sentiva, lui,<br />

la “paternità”. Ma già, che ci vuoi fare, lui era maschio, e il<br />

maschio che ci mette? È la femmina che poi.<br />

Nuovo silenzio; camminavano. Lei guardava i calzoni di<br />

fustagno di lui, color oliva; le scarpe morbide; i propri zoccoli<br />

di ginepro. E le ombre.<br />

<strong>Il</strong> sole, da dietro, staccava le loro ombre sulla polvere della<br />

strada stirandole enormemente. Ma sempre l’ombra di lui<br />

sopravanzava quella di lei. A lato poi di quella di lui brandeggiava<br />

una terza ombra, informe e bislunga, che era quella del<br />

cavallo. Le due ombre più piccole, di lui e di lei, sembrava<br />

che si baciassero: era l’ombra lunga che baciava quella corta,<br />

con lievità, sui capelli. Ma sempre s’intrometteva quella terza,<br />

petulante e grottesca.<br />

«Non possiamo camminare per l’eternità su questa strada,<br />

se dobbiamo parlare» disse lui, irritato «voltiamo da qualche<br />

parte».<br />

«Va bene» essa disse.<br />

Presero per un varco, lungo una siepe, e si inoltrarono.<br />

Macchie di cisti, ginepri marini, mirti. I mirti formavano famiglie<br />

compatte, areole, cespugli fitti con spalliere e rientranze<br />

concave, come sofà.<br />

«Fermiamoci qui» lui disse. Pareva diventato un po’ più<br />

morbido.<br />

Legò il cavallo a un tronco di ginepro, dieci passi distante<br />

(così faceva anche allora, lei pensò; e le sembrò fosse passato<br />

un secolo, da allora, e non erano che venti giorni; ma<br />

quel che c’era in mezzo) fece che lei sedesse nel posto indicato<br />

da lui e si sedette a sua volta, due passi più in là. Tenevale<br />

gambe flesse e le ginocchia piegate, e occupava le mani<br />

settando e sfacendo le foglie di un ramo di mirto, che ogni<br />

tanto mordicchiava o portava alle nari.<br />

Senza guardarla, parlando al mirto, disse:<br />

137


«Devi essere abbastanza infuriata con me perché non mi<br />

sono fatto vedere, ma ti assicuro…».<br />

Lo interruppe con un gesto: non occorreva. E poi, infuriata?<br />

Non era la parola giusta, si trattava di ben altro. Ma come<br />

fare a spiegarglielo? Non seppe che cosa dire e stette zitta.<br />

«Bene» lui disse, piccato del suo silenzio. «Hai tanto insistito<br />

che volevi parlarmi. Parla dunque. Che vuoi?». Ridiventato<br />

brusco e perentorio.<br />

Lei si era messa, nel punto indicato da lui, accoccolata<br />

contro un cespuglio, ginocchia unite, braccia conserte sulle<br />

ginocchia e il capo piegato in giù, fino a poggiare la fronte<br />

sull’incontro dei polsi. Immobile, come scolpita, modellata in<br />

terracotta.<br />

Si riscosse a quel parlare, alzò la testa e l’osservò un lungo<br />

istante. Ferma nel resto. Solo la testa si alzò. E l’osservava.<br />

«Sono disperata, Fieli» disse semplicemente.<br />

E né pianti né scene madri, questo soltanto; e a voce bassa,<br />

anche. Ma lo fissava come con spasimo, viveva tutta negli<br />

occhi.<br />

Lui gettò il rametto dietro le spalle, dopo averne fatto<br />

scempio.<br />

«Lo so» disse levandosi e prendendo a camminare. «Ma il<br />

punto non è questo, il punto è un altro, è come uscirne. Per<br />

questo ti ho domandato di dirmi che cosa vuoi».<br />

Cosa voleva? Ma questo, appunto: che lui l’aiutasse, la<br />

salvasse, le dicesse lui stesso che cosa doveva fare. Che altro,<br />

se no? Come se lei già non sapesse che proprio quello era il<br />

punto, come diceva lui. Ma ci si era consumata la testa, a<br />

pensarci, senza venirne a capo: fare che cosa, decidere che cosa.<br />

Era tutto così assurdo. E precisamente era qui perché lui<br />

le illuminasse la mente, glielo chiedeva come a un santo.<br />

Lui continuava a passeggiare su e giù davanti a lei. Da<br />

un cespuglio strappò un altro rametto e ne fece una pertica<br />

con la quale si frustava i calzoni. Era sorpreso e quasi irritato<br />

della sua calma, si aspettava chissà che smanie. Ed era irritato<br />

dei lunghi silenzi, quel muto interrogare e aspettare di lei.<br />

«Io lo so» disse a un certo punto «quello che tu vorresti».<br />

«Che cosa?» lei domandò prontamente. Come dovesse<br />

essere lui a spiegarle finalmente ciò che lei stessa voleva. Per<br />

138<br />

parte sua, non lo sapeva ormai più neppure lei, nel trambusto<br />

che aveva in testa.<br />

«Si prende» disse lui «e si fa un bel matrimonio».<br />

Lei ripeté: matrimonio. Ma solo muovendo le labbra,<br />

senza emettere suono. Ma si accorse che lui aveva pronunziato<br />

quelle parole con sarcasmo, perché? Matrimonio, certo:<br />

era giusto. Non era giusto? E dunque perché quel tono?<br />

Sciolse le braccia da sopra i ginocchi, lasciò che le mani<br />

(continuando i suoi occhi a fissare lui) si cercassero e si trovassero,<br />

intrecciassero le dita fra loro. E le ricollocò, così unite,<br />

sulle ginocchia.<br />

«A me, Fieli» disse candidamente «questo andrebbe bene».<br />

Aveva pensato in precedenza a questa eventualità? L’aveva<br />

considerata come un possibile scioglimento del dramma? Se<br />

lo stava chiedendo; e non sapeva, non ricordava, era tanto<br />

confusa. Ma, certo, se qualcosa attendeva di nascere dalla sua<br />

mente, dopo tante doglie, era questo. E lui, per quanto con<br />

mal garbo, era stato la levatrice.<br />

«Lo avrei giurato» egli disse tagliente.<br />

Essa rifletté. Impiegò un tempo infinito a comprendere.<br />

«A te non farebbe piacere» disse finalmente, a bassa voce.<br />

Aveva finalmente estratto la conclusione.<br />

Lui tornò a sedersi, cercò di cambiare argomento. Vediamo,<br />

i suoi sapevano nulla? No. Sua madre? No. Suo padre,<br />

’Ntoni e quell’altro, come è che si chiama? No. E non poteva<br />

essere che sua madre, almeno lei, sai questi fatti di donne, si<br />

fosse accorta da sola, avesse afferrato, intuito? No, no e no.<br />

Gli rispondeva, lo secondava, ma era come se lui, ponendo<br />

quelle domande, camminasse, camminasse, portandosi<br />

sempre più al largo. Mentre lei era rimasta al cippo di<br />

partenza: non gli faceva piacere. Matrimonio? No, non gli<br />

faceva piacere. Questo era il dato fondamentale dal quale,<br />

conquistatone infine il senso, non le riusciva di disancorarsi.<br />

Sapete, Fieli Pòrcina si sposa. Oh, e con chi? Mah, con una<br />

di Baronia che adesso abita a Serri, una certa Pasqua Cinus.<br />

No, questo, a lui, non piaceva.<br />

E a questo punto le tornava alla mente il pensiero dell’altro,<br />

il terzo, quello là che, ammucchia ammucchia, era affaccendato<br />

a preparare se stesso. Perché in fondo non era poi solo<br />

139


questione di lui e di lei, ma anche del sopraggiunto, di questo<br />

ignoto. Che sarebbe stato di lui? Non avrebbe avuto un<br />

padre? No, certo: perché a lui, al padre, non piaceva.<br />

E era anche questione di altri, del resto, non credere. Suo<br />

padre e sua madre, per esempio, dove li metti? Presentarsi a<br />

Giuanni Cinus e dirgli: «Padre, ascolta: mi capita così e così,<br />

aspetto un figlio, ma il padre della creatura, Raffieli Pòrcina,<br />

mi sposa» era ancora una cosa pensabile. Dura e da far tremare,<br />

ma pensabile. Ma andare e dirgli: «Padre, così e così, ma<br />

Fieli Pòrcina non può sposarmi perché, purtroppo, non gli<br />

piace» questo no, più ancora che essere atroce, proprio non<br />

era pensabile. E tuttavia che c’era da fare: a lui non piaceva.<br />

Mentre lei rifletteva a tutto questo, Fieli Pòrcina si era seduto,<br />

alzato, tornato a sedere. Diceva adesso:<br />

«Ascolta, Pasqua. Una maniera per uscire da questo impiccio<br />

ci deve essere. Dobbiamo trovarla. Io ti voglio aiutare,<br />

ho già parlato con gente, ho già cominciato a muovermi.<br />

Mi hanno assicurato che si può, che c’è il modo, capisci?<br />

Basterà un po’ di coraggio da parte tua».<br />

Anche se ancora involta nell’onda di quei pensieri, afferrava<br />

ora, fulmineamente, il senso delle parole.<br />

«Capisco, capisco, sì, sì» diceva dolce. Capiva e come. E<br />

scorava. Neanche il figlio, dunque. Via il figlio, via la vergogna.<br />

Tanto semplice. Era questo l’aiuto che era in grado di<br />

darle? E si immaginava che lei e il figlio (questo già nato e già<br />

in grado di camminare) venissero alla soglia di Fieli Pòrcina e<br />

bussassero come mendichi, e proprio lui si facesse sull’uscio e<br />

loro dicessero, tendendo la mano: In nomine ’e Deus, ma non<br />

per chiedere l’elemosina, chiedere altro, un po’ di “sentire”,<br />

un po’ di bene. Ma lui niente, senza neanche dire “Perdona”,<br />

che così si accompagna il rifiuto, seccamente ribatteva la porta<br />

e li lasciava lì fuori.<br />

Ma intanto le si incidevano nella mente come infuocate<br />

le parole che lui diceva: “Una maniera per uscire da questo<br />

impiccio ci deve essere… Basterà un po’ di coraggio”. O lei<br />

era allucinata, o una punta di ferro, il becco di una roncola<br />

passata alla forgia gliele stampava nel cervello, l’acuta algia di<br />

questo lavoro di encausto faceva sì che le parole non solo<br />

bruciassero ma fiammeggiassero. E adesso sì, si staccava dal<br />

140<br />

cippo al quale si era tenuta fino a questo momento abbrancata.<br />

E avanzava veloce, andava oltre, oltre. Una luce abbagliante<br />

aveva squarciato di colpo il buio, come una serie di<br />

lampi continui senza intervallo, e lei tuffata dentro questa<br />

gran luce come inebriata a perdifiato correva. Non si trattava<br />

più tanto del figlio, ma di lei, di lei: “un po’ di coraggio”.<br />

Però con la mente, questo. <strong>Il</strong> suo corpo, invece, sempre lì<br />

come prima, <strong>raccolto</strong>, una statuetta; e lui, ingannato da questa<br />

apparente tranquillità le diceva:<br />

«Facciamo così. Quando sarà il momento, spero tra qualche<br />

giorno, vengo, ti prendo e ti accompagno dove sarà stabilito,<br />

penso io. Occorrerà della cautela, per via dei tuoi. Meglio<br />

una notte. Facciamo una delle prossime notti. Ti avviserò<br />

e poi verrò. Così poi ti riporto io stesso fino a casa. È affare<br />

breve».<br />

Lei rispondeva sì sì, mansueta, attenta.<br />

Cosa le costava rispondere sì? Ma era oltre, ben oltre.<br />

“Uscire da questo impiccio. Un po’ di coraggio”. Quei lampi,<br />

sparati rapidi, facevano più chiaro del giorno. Si sentiva in pari<br />

tempo eccitata e placata. Cosa le costava rispondere sì?<br />

Lo stesso fu quando le propose, già acceso:<br />

«Vuoi?».<br />

Non era accaduto nulla, oppure, che torna uguale, nulla<br />

contava più nulla. Neanche questo. E allora? Sia.<br />

Diceva sì, faceva di sì anche col capo, riusciva persino a<br />

sorridere, perché lui avesse l’illusione.<br />

<strong>Il</strong> mirto, vieppiù che appressava la sera, mandava odore<br />

da stordire. E lei appunto se ne stordiva, se ne drogava.<br />

Ricordarsi che il manipolo, una volta reciso, è in balia di<br />

chi miete.<br />

141


XI<br />

LA BATTITURA<br />

A un segnale le bestie entravano e incominciava la sarabanda.<br />

“Hài, hài, jàah, juhù”: grida gutturali, battimani, baccano,<br />

accompagnavano quel ballo tondo di nuovo genere<br />

che si ballava sul grano.<br />

Dai campi, dov’era ammucchiato in tante biche, il grano<br />

era stato portato coi carri sulle pietre dell’aia. Carri e carri, da<br />

biche e biche. Lavoro per i denti dei grandi tridenti di legno<br />

che dalla bica alzavano al carro, e dal carro riabbassavano al<br />

suolo, i biondi covoni. Lavoravano questi tridenti come colossali<br />

forchette. Entravano nelle costole dei covoni e li sollevavano<br />

pari pari, come bocconi enormi. Poi, sull’aia, i covoni venivano<br />

sfatti. Slacciata la cintura, il covone si comportava come<br />

un barile che perde i cerchi; e i manipoli erano le doghe. Sfatti<br />

anche i manipoli – e questo era lavoro per i tridenti di ferro,<br />

più piccoli e maneggevoli, ma duri e atti a azzannare – il grano<br />

veniva sparso, a strati, a formare l’immensa ciambella. Fa’ conto<br />

un cuscino rotondo, spesso più di sei palmi e largo che cento<br />

braccia non ne misuravano il diametro.<br />

Ed era a questo punto che entravano in ballo le bestie.<br />

Vacche e manzi, a schiere di sette o otto, tenuta insieme ciascuna<br />

schiera da funi, di corno in corno, e i musi castigati da<br />

museruole di corda o di filo di ferro, a guisa di cilicio contro<br />

le tentazioni svegliate dall’odore appetitoso del grano. E così<br />

aveva inizio, sull’alto soffice palco lucente d’oro, l’inverosimile<br />

danza.<br />

Un certo numero di mandriani, cinque o sei, governavano<br />

questa quadriglia dal centro dell’aia per mezzo delle lunghe<br />

funi di guida. E già erano uno spettacolo a sé, nel più<br />

grande e generale spettacolo che si svolgeva sull’aia, per come<br />

manovravano le loro funi con piroette e acrobazie. Della<br />

straordinaria girandola, essi erano il perno, le funi i raggi e le<br />

bestie le pale estreme.<br />

142<br />

Le quali bestie, nello spettacolo, svolgevano una parte di<br />

primo piano, specie se si considera che ai loro zoccoli era<br />

principalmente affidata, in fin dei conti, la funzione del trebbiare.<br />

Animali pazienti, tradizionalmente mansueti, erano qui<br />

viceversa come ritornati selvaggi, per come eseguivano questo<br />

girotondo impazzito. Incitati da ogni parte, frastornati dal<br />

chiasso, sbandanti, tirati verso il centro, ricacciati di nuovo in<br />

fuori, ballavano il più strano rondò che si possa immaginare,<br />

all’impazzata, sfangando nella paglia fino alla pancia, frullandola<br />

col loro moto, starnutendo, soffiando, portando in giro<br />

in quel carosello tutta una portentosa fioritura di corna. Né<br />

facevano che raramente, di quando in quando, il tentativo di<br />

tuffare il muso in quella deliziosa pastura, così accessibile e<br />

così abbondante da esservi immersi dentro e sguazzarvi; la<br />

museruola li disingannava, la folle corsa li dissuadeva.<br />

Ma poi c’era ancora altro a crescere il trambusto, il pandemonio<br />

che si faceva sull’aia, dentro e fuori la gran ciambella<br />

del grano. Una mecca di gente era piovuta per l’occasione<br />

alla fattoria, quali per dare aiuto quali come semplici curiosi.<br />

E si assiepavano attorno all’aia, vociavano, battevano le mani,<br />

facevano chiasso, per incitare e frastornare vieppiù i buoi e<br />

perché “così si era sempre fatto”. E v’erano quelli – specialmente<br />

ragazzi – che nell’eccitazione saltavano in mezzo al<br />

grano, s’intrufolavano temerariamente in mezzo alle bestie, le<br />

rincorrevano di schiera in schiera, svelti a scansarsi per non<br />

farsi travolgere dalla schiera sopravveniente, si afferravano alle<br />

loro code lasciandosi per un po’ trascinare. E v’era chi, più<br />

spavaldo, giungeva a saltare in groppa a una bestia aggrappato<br />

alle corna, e chi addirittura si issava lungo diritto sulla culatta<br />

di un bue in corsa, magari su un piede solo, salvo a rovinare<br />

giù abbasso. Facevano insomma cose da marionette, da<br />

“scioglidramma”, come là dicono.<br />

Ed era tutto l’insieme, e questo specialmente, che dava<br />

come un tono di ebbrezza e di festa pagana alla battitura.<br />

Bastava cogliere le apostrofi, gl’incitamenti, le imprecazioni<br />

ch’essi lanciavano agli animali, per rendersene conto.<br />

Cose folli, anche queste: le bestie chiamate con nomi incredibili<br />

– Bella-baciata, Bocca-di-miele, Luna-gioiosa, Garofano,<br />

Sempre-sposa – insultate come cristiani – ah cornuto, ah<br />

143


figlia di vacca, ah cagone (qualcuno poi c’era sempre che, a<br />

ogni eiezione di escrementi, raccolta in fretta una manciata<br />

di paglia, o a mano nuda occorrendo, pronto riceveva il dono,<br />

che veniva poi subito scaraventato lontano) – o fatte comunque<br />

oggetto di parole insensate. Non vera ira: divertimento,<br />

allegrezza; era festa.<br />

Tutto questo durava, con maggiore o minore intensità,<br />

praticamente quanto durava il giorno, poiché s’incominciava<br />

a trebbiare poco dopo l’aurora, svaporata che fosse dal<br />

grano la rugiada notturna, e senza interruzione si andava<br />

avanti fino a metà pomeriggio, quando le bestie erano<br />

esauste. Per la più parte, in ogni caso, sotto il dardeggiare<br />

del sole.<br />

Così, ai poli estremi, erano il sole su in alto e, sotto, il<br />

grano. Non bisogna infatti dimenticare che sotto gli zoccoli<br />

delle bestie, la festa degli uomini, l’eccitazione e le grida, era<br />

la pena silenziosa, la lenta rassegnata triturazione del grano.<br />

Essi dicevano hoc anno per dire quest’anno. Dicevano che<br />

Giuanni Cinus, hoc anno, poteva ridere in faccia a quale si<br />

voglia persona, con un <strong>raccolto</strong> così. Che quantità di grano<br />

così, tutta ammucchiata su un’aia, dove ne trovi? In Trexenta,<br />

forse. Qui neppure i vecchi ricordavano un’aia simile. Dicevano<br />

che era lievitato, il grano di Giuanni Cinus, e gli chiedevano<br />

ridendo chi gli avesse dato il “crescente”. Altri gli<br />

chiedevano se, alla conta, saprebbe cavarsela, con tanto bendidio.<br />

«Saprai contarle, le quadre eh, Giuanni Cinus?».<br />

Battute così, che un po’ lisciavano un po’ mordevano e<br />

che erano anch’esse segno di festa e allegrezza.<br />

E lui, al solito, annuiva del capo, li lasciava sfogare: «Ehi<br />

ehi, cantate». Ma dentro.<br />

Come uno che entri a ventura in una grotta, spintovi<br />

dall’uragano o da altra momentanea necessità. E gli avvenga<br />

che, voltando col piede un sasso, scopra, che so, un’anfora,<br />

un barile di monete d’oro. Che fa? Guarda e non crede ai<br />

suoi occhi, poi, esitante, ne afferra una, di moneta, e l’osserva<br />

più da vicino, dubitoso, la soppesa, l’annusa se vuoi: è o<br />

non è? Poi decisamente affonda la mano nel mucchio, fruga,<br />

saggia quante ce n’è; e si domanda se stia sognando. Infine<br />

144<br />

rovescia l’otre, sparpaglia il contenuto, lo riammucchia e ci<br />

vorrebbe cacciare dentro la faccia, che cosa bella, gli sembra<br />

di impazzire.<br />

Anche lui più o meno così, di dentro.<br />

Girava intorno all’aia, si fermava ogni tanto, raccoglieva<br />

una spiga, la sbriciolava nel pugno, soffiava via sul palmo la<br />

paglia lieve e stava a contemplarne come incantato i chicchi<br />

mondi, radi, lunghi, colore del croco. Eh, era grano.<br />

E lo beccavano in quella i motteggiatori:<br />

«E che fate, compare Cinus? L’annusate se sa di grano?».<br />

«Mah, che devo dirvi?» rispondeva piccato. «Mi pareva<br />

non fosse grano, ma oro in mondiglia».<br />

Ridevano, lui e loro, e poi parlavano del giorno dell’inserro,<br />

domandavano se avrebbe fatto, con un <strong>raccolto</strong> così,<br />

festa grande, com’era giusto, che ne pensava? E rispondeva<br />

che stessero di buon animo, malfidati che erano, ognuno<br />

avrebbe avuto il suo, quel giorno, e a misura colma, a cùccuru,<br />

così diceva.<br />

E anche di queste parole, coloro che le sentirono e assistettero<br />

al dopo, si sarebbero rammentati, può darsi, di lì a<br />

tempo. Della misura a colmo che lui aveva detto che ciascuno<br />

avrebbe avuto.<br />

Ma intanto s’informavano del pranzo, che certo aveva<br />

da essere, in queste condizioni, memorabile. No?<br />

«Cani affamati» li rimbrottava benevolo «già ci pensate?».<br />

E ancora assicurava che ce ne sarebbe stato per tutti, pane di<br />

grano nuovo, gnocchi e carne, da saziarli quanti erano, struzzi,<br />

bocche da forno.<br />

«E vino?» domandavano ostinati.<br />

Certo, anche vino.<br />

«Vino maschio non abbiate timore» assicurava. «Forte, in<br />

creanza, come una schioppettata e rosso e porporino come il<br />

sangue spicciato».<br />

Non sapendo che dopo.<br />

«E anche il ballo?» lo mettevano in croce. «È l’usanza,<br />

compare Cinus».<br />

«E perché no?» rispondeva. «<strong>Il</strong> ballo, volete? E avrete<br />

anche il ballo».<br />

E si sarebbe visto, il giorno, che ballo.<br />

145


Per tenere Momo lontano dall’aia, con tutto il trambusto<br />

che c’era di bestie e cristiani, ’Ntoni escogitò di portare<br />

il fratello a caccia. Che anche lui, dopo tutto, non è che gli<br />

spiacesse, ma Momo era a buon conto una copertura.<br />

«Eh, Momo, vuoi venire con me a caccia?» facendo il gesto,<br />

perché capisse, di sparare il fucile: pùm pùm.<br />

Momo aveva, è vero, paura degli spari, ma l’idea di andare<br />

con ’Ntoni, a vedere come si spara, lo sedusse, e accettò<br />

mugolando: sì sì.<br />

E tutt’e due, staccata da ’Ntoni la doppietta dal chiodo,<br />

partivano chiotti chiotti per l’avventura, pigliando per il<br />

frutteto dietro la casa e scomparendo oltre la siepe.<br />

Momo non staccava un momento lo sguardo dall’arma,<br />

che il fratello bilanciava dandosi arie. Era al tempo stesso atterrito<br />

e affascinato dal luciferino strumento. Gli piaceva la<br />

sua forma, così lineare e essenziale: un piede, il “calcio” diceva<br />

’Ntoni – e pareva effettivamente essere atto a calciare – sagomato<br />

e potente: qualcosa tra la clava e lo zoccolo equino.<br />

Poi lo snodo, quella specie di vite di vespa. Poi, nella parte<br />

metallica, l’occhiello coi due “grilletti” di comando dei “cani”,<br />

così diceva ’Ntoni. E questi due “cani”, su in alto, due<br />

cosi con le orecchie diritte, effettivamente, e come messi di<br />

guardia. E infine le due canne, rettilinee brunite lucenti, con<br />

in cima come due occhi, ma cavi e ciechi. Anche se, ben si<br />

sapeva, vedevano e come. E tutto questo predisposto in funzione<br />

del cuore di fuoco, misterioso, che l’oggetto chiudeva<br />

dentro. E che voce, aveva: due boati, buùm, buùm. Ma soprattutto<br />

ammaliava Momo il potere arcano dello strumento,<br />

di generare in se stesso il fuoco e poi lanciarlo, insieme<br />

col piombo, senza fallire il bersaglio, e provocare la morte.<br />

Era questa una cosa terribile, e come faceva?<br />

«Vedi, si fa così» prendeva a spiegare ’Ntoni, una volta<br />

che si trovarono abbastanza lontani dalla fattoria, dietro un<br />

mammellone di roccia; zoppica-zoppica, anche Momo s’era<br />

portato bravamente fin là che neanche ’Ntoni lo avrebbe creduto<br />

possibile.<br />

E prima di tutto faceva vedere, ’Ntoni, come il fucile era<br />

fatto dentro, e di che pane si nutre. Un colpo di traverso sopra<br />

il ginocchio, ed ecco, oh?, che si spezzava.<br />

146<br />

«Guarda un po’ qua, Momo» diceva ’Ntoni, mostrandogli<br />

questi altri due buchi che anche da questa parte, ora, apparivano.<br />

Accostava l’occhio e vedeva due tunnel lucenti paralleli<br />

infiniti, percorsi da qualcosa che vi si torceva dentro a serpentina<br />

giù giù e, là in fondo, come due soldini di cielo.<br />

Poi ’Ntoni mostrava come il fucile va caricato.<br />

«Queste sono le cartucce» spiegava, traendole dal rigonfio<br />

della tasca dei calzoni.<br />

Quelle Momo le conosceva, le aveva viste altre volte: un<br />

piccolo cilindro rosso con disegnato un uccello, i bordi ribattuti<br />

su in alto e, sotto, il culaccino di ottone, con un pomello<br />

roseo, il “fulminante”, sul fondo. Sapeva anche dove fossero<br />

custodite e dove ’Ntoni perciò le avesse prese. Frattanto<br />

’Ntoni una dopo l’altra le infilava nelle due canne, e con uno<br />

scatto, zàc, ricomponeva il fucile tale quale era prima.<br />

E adesso attento, diceva ’Ntoni, gli faceva vedere come si<br />

spara. I grilletti, chiaro? Lì era il segreto. Però bisognava prima<br />

imbracciare il fucile e mirare. Mirare? Ma sì, prendere la<br />

mira, facendo correre l’occhio lungo tutta la striscia fra le due<br />

canne fino al mirino, lo vedi questo coso?<br />

Dimostrazione. ’Ntoni imbracciava il fucile, poggiandone<br />

il calcio all’altezza della spalla, fra quest’osso e l’attacco<br />

del braccio, così. «Sta’ buono lì» diceva ’Ntoni al fucile.<br />

E l’affusto – sì, questo – tenuto a squadra col corpo e sorretto<br />

con la sinistra; la destra invece, guarda, incaricata del<br />

comando di sparo.<br />

Tanta l’attenzione, quasi spasmodica, che Momo prestava,<br />

che dimenticava la paura.<br />

«Attento!» diceva di nuovo ’Ntoni, anche lui eccitato.<br />

E le dita premettero.<br />

Momo fissava l’arma e le dita di ’Ntoni, non il bersaglio.<br />

E vide l’arma scalciare contro la spalla di ’Ntoni, vide il fucile<br />

materialmente scrollarsi, come un essere vivo, e dare di colpo<br />

indietro, con quel suo zoccolo. Ma anche vide, dall’opposta<br />

parte, miracolosamente aprirsi, e fiorire un istante, due favolose<br />

corolle di fuoco. E udì due boati, vicinissimi, grandi, eppure<br />

non così forti come credeva e temeva.<br />

«Guarda, Momo, guarda!» gridava ’Ntoni, additando una<br />

147


pala di ficodindia centrata dall’impallinata e che pendeva<br />

adesso, tranciata in basso, sul suo moncone.<br />

Momo fuori di sé, frastornato, isterico, spiccava salti inconsulti<br />

e perigliosi sulle sue gambe così insicure. «Visto visto<br />

visto!» farfugliava. <strong>Il</strong> ficodindia schiantato. Metti sia un drago,<br />

un malfattore, un nemico. <strong>Il</strong> fucile te lo fulmina senza rimedio,<br />

con quel soffio di fuoco. Batteva le mani per il<br />

trionfo e gridava, da riuscire chiarissimo: «A me! A me! Voglio<br />

anch’io!».<br />

«Tu no, Momo, non puoi» diceva ’Ntoni.<br />

Ma era peggio, si esasperava, si buttava per terra, voleva.<br />

’Ntoni dovette cedere:<br />

«E va bene, uffa, sta’ buono. Vieni, ti aiuto io».<br />

Momo si avvicinava. Tremava come una foglia: l’orgasmo<br />

del gran momento, la residua paura. Si disponeva, le<br />

braccia già levate, come aveva visto fare al fratello.<br />

’Ntoni gli collocò il fucile tra le braccia, standogli dietro<br />

e aiutandolo a reggerlo.<br />

«Così, aspetta, così» diceva.<br />

Ma le dita di Momo, malformate che fossero, scacciavano<br />

quelle di ’Ntoni, via, via. Da solo. Voleva sparare da solo.<br />

In questo contrasto il grilletto venne premuto, il colpo<br />

partì, Momo lanciò un urlo. <strong>Il</strong> rinculo del fucile, violento, lo<br />

aveva colpito in pieno viso.<br />

Fu un grido così acuto che lo udirono alla fattoria, e gente<br />

subito accorse, e Pasqua fra gli altri, che infatti raccolse<br />

Momo da terra, il viso imbrattato di sangue, e così in braccio<br />

lo portava e lo consolava, dopo aver detto, lei come gli altri,<br />

un mondo di vituperi a ’Ntoni. <strong>Il</strong> quale poi si ebbe un’ancora<br />

più energica ripassata dal padre.<br />

Eppure non tanto era stato, quello di Momo, comunque<br />

fosse suonato, un grido di dolore, quanto piuttosto di trionfo,<br />

un evviva; gioioso sì, fino a risultare doloroso. Aveva sconfitto,<br />

una volta per tutte, la paura; aveva sparato, si sentiva felice. <strong>Il</strong><br />

dolore vero e proprio quasi quasi non lo sentiva.<br />

Dalla stanza dove “spollinavano” doveva spesso spostarsi<br />

al mulino centimolo e viceversa. E doveva passare, sia all’andata<br />

che al ritorno, davanti all’aia, con tutti quelli che erano lì.<br />

148<br />

Non che fosse straniata, assente. Udiva, seppure a pezzi,<br />

in quell’andare e venire, i discorsi della madre e di questa<br />

Crisanta, una parente di Baronia venuta in questi giorni di<br />

grande impegno per dare aiuto. Come pure là fuori, si accorgeva<br />

che ogni volta che appariva le grida degli uomini si venivano<br />

spegnendo (occhi di maschi, allora, erano sopra di lei,<br />

come nibbi; mani di desiderio la brancicavano) sostituite da<br />

frasi che, sotto apparenze diverse, avevano lei per bersaglio,<br />

lei lo capiva (fingevano di continuare a incitare le bestie: «Accosta<br />

un po’, accosta, Bocca-di-miele», «Ih che già corri, Speciosa,<br />

ih che non pungo», «Aspettami che ti carezzo, ah, Bocca-baciata»;<br />

anche i nomi, scelti con intenzione). E infine<br />

udiva nel tempo che si tratteneva nella stanzetta del mulino<br />

il lento stritolamento dei chicchi che scendevano per l’esofago<br />

della tramoggia e finivano fra le due mole.<br />

Percepiva nettissimo tutto questo, vedeva, sentiva; ma<br />

era come sogno, emanazione di un mondo privo di realtà.<br />

Come l’eco; come le cose riflesse nell’acqua. Esistono? È solo<br />

illusione. Soltanto a quel grido, stamane, di Momo, si era riscossa,<br />

e prontamente era corsa in aiuto. Poi basta. Di nuovo<br />

tutto tornava sogno.<br />

“Quel” pensiero, la occupava: quell’unico solo pensiero.<br />

Quello che era penetrato in lei, folgorante, mentre parlava<br />

con Fieli Pòrcina, nel loro ultimo incontro. Non se n’era più<br />

andato. Si era conficcato, anzi, in lei, ben profondo, e radicato.<br />

E lei lo nutriva, gli forniva alimento. Come quell’altra<br />

“cosa” (ci pensava con struggimento) che portava nel grembo.<br />

Si diceva che sì, non c’era altro partito per lei, l’unica<br />

strada era quella. E si sforzava fino allo strazio di studiare il<br />

come e il quando.<br />

Ma non era immunizzata contro il terrore. Aveva attimi<br />

di cedimento. A volte la coglieva, quasi di sorpresa, una violenta<br />

pietà per se stessa, e come una sconfinata, non saputa<br />

dolcezza. Pensava alla sua gioventù, agli anni che ancora poteva<br />

vivere, a certi suoi sogni lontani puerili felici; e quasi<br />

esitava. Ma una contraria volontà, ottusa e tetragona, quasi<br />

anteriore e superiore a lei stessa, diceva che no, niente, quelle<br />

erano cose da nemmeno considerare, “debolezze” dell’anima,<br />

non vedi in che croce, in che tribolo si trovava?<br />

149


Una specie di sfida fra lei e il destino. Una partita ostinata<br />

a chi scaglia più forte e più lontano l’accetta. Tu così? E io<br />

allora. Questo. Un orgoglio. E per questo più chiuso e cupo<br />

il proposito. Neanche c’entrava più, ridotta la cosa all’essenza,<br />

la condotta di Fieli Pòrcina, il disinganno venuto da lui,<br />

la delusione. Non questo. Di più. Dispetto a Fieli Pòrcina?<br />

Povera cosa sarebbe stata rispetto al resto. Altro. Di più. Io e<br />

te. Tu e io.<br />

Tu, chi?<br />

Che ne sapeva: tutto. <strong>Il</strong> mondo, la vita, la sorte, tutto.<br />

Magari Dio?<br />

<strong>Il</strong> pensiero di Dio, è vero, la sgomentava. Così immenso<br />

alto e terribile. Ma possibile che, se sa tutto, non arrivasse a<br />

comprenderla e a avere pietà di lei? Nella sua bontà, misericordia,<br />

giustizia, lui doveva compatirla, comprenderla, leggere<br />

davvero nel suo cuore e perdonarla. Lui almeno. Lui<br />

soprattutto. Comprendendo che, nelle condizioni in cui era,<br />

lei non aveva altra scelta.<br />

Pareggiava così anche quanto di pauroso la tormentava<br />

circa il “peccato”: le fiamme, la pece bollente, gli arpioni dei<br />

diavoli. Mi laverai di issopo e sarò mondato. Questa stessa<br />

che lei si infliggeva, non era espiazione, agli occhi pietosi di<br />

Dio?<br />

<strong>Il</strong> problema assillante, a ogni modo, era rappresentato<br />

dal come, dal quando. Non le riusciva di risolverlo. Arretrava,<br />

meglio, ogni volta che si provava a risolverlo. Rubava un<br />

giorno, un altro, ancora un altro, e non se lo diceva, ma era<br />

perché il “come”, nei tanti modi possibili, l’atterriva. Trovare<br />

una maniera non truce, non violenta, quasi inavvertibile: si<br />

poteva? “Come per mano non sua, ecco”: si poteva?<br />

Mentre l’idea del “dopo” poteva contemplarla con animo<br />

staccato e quasi gelidamente. <strong>Il</strong> dolore dei suoi, certo, oh cari.<br />

Ma se stessa distesa immobile riusciva a vedersi. Non<br />

piangete per me, io sono in pace, addio. E però la pena risorgeva,<br />

intatta, se appena le sfilavano dinanzi alla mente i singoli<br />

visi: Momo, il padre, la madre, ’Ntoni.<br />

E anche lui, certo. Lui! Com’era stato tutto diverso da<br />

come s’immaginava. Odio, forse? Rancore, forse? No, in<br />

150<br />

coscienza. Ma amore? I fuochi si erano tutti spenti, consumati,<br />

sul monte. Notte di San Giovanni, quanto sei stata<br />

breve.<br />

Durò più di cinque giorni tutto quel pestare e impazzare<br />

sull’aia. I giri delle bestie sulla balera chi li contava? Ma il<br />

grano, batti e ribatti, finì per frangersi.<br />

151


XII<br />

IL CAPANNO SULL’AIA<br />

A sera, cessato tutto il trambusto di uomini e bestie durato<br />

ininterrotto fin dal mattino – e rientrate le bestie nei chiusi,<br />

gli uomini invece indugiando nei conversari serali – si alzavano<br />

sull’aia i baracchini. Uno o due, secondo che desse il caso,<br />

il servizio di guardia essendo regolato da un turno, ma senza<br />

che fosse escluso un rinforzo, se qualcuno si offriva volontario.<br />

Uso, anche questo, antichissimo. Vigilanza sul <strong>raccolto</strong>,<br />

prezioso bene. Paura del saccheggio e del fuoco. Paura che il<br />

nemico, il pirata, il malvivente, il vicino – malizia vendetta o<br />

invidia – venga e distrugga in una notte quello che è stato fatica<br />

dei mesi andati e pane, che è più, dei mesi che verranno.<br />

Consistevano in un capanno primitivo di canne, dall’ingresso<br />

a triangolo, con sovrammessa una mantellina di paglia<br />

per la rugiada. Un uomo – un adulto – vi ricoverava la testa<br />

e il busto, magari a stento. Quanto bastava, tuttavia, le notti<br />

di luglio essendo così brevi. Un bambino, si capisce, ci stava<br />

invece quant’era lungo, nel caso avesse la statura di Momo.<br />

Momo infatti s’incapricciò, nello stato di irrequietezza<br />

che gli era proprio da qualche tempo, che voleva per una<br />

notte dormire sull’aia. ’Ntoni sì, ci dormiva, perché lui no?<br />

Non era però l’invidia per il fratello, la causa, ma proprio il<br />

desiderio di fare questa esperienza. Si immaginava che là distesi,<br />

sulla paglia odorosa e morbida, nascosti dentro il capanno<br />

come la lumaca nel guscio (un luogo tutto per sé,<br />

suo soltanto), e intorno la notte arcana, si dovessero provare,<br />

chissà, sensazioni straordinarie. Sentirsi, a differenza che a<br />

casa, circondati da vicino, premuti, anzi, dalla notte, e come<br />

messi a parte del suo segreto. Per questo implorava, uggiolava.<br />

Almeno una volta, una sola.<br />

Non erano propensi a accontentarlo, specialmente la<br />

madre. E fu Pasqua, una volta di più, il suo avvocato. Ma<br />

perché non volevano? Cosa poteva succedergli? Un attacco<br />

152<br />

del male? Non era mai capitato di notte, non capiterà questa<br />

volta. Allora perché? È una creatura già tanto infelice; perché<br />

rifiutargli anche questo contento? Non basta quel tanto che<br />

gli è negato? (Metteva un calore particolare in questa perorazione.<br />

Sentiva di non parlare soltanto per Momo). Del resto,<br />

diceva, proprio stanotte toccava a Jeremia dormire sull’aia.<br />

Sicuramente Jeremia poteva badare a Momo.<br />

«Vero, Jeremia» lo interpellava «che avrete cura di Momo?».<br />

«Come di un figlio» assicurava il bastante. «Come degli<br />

occhi miei, che vi vedono».<br />

Non sarebbe stato proprio così, a dire il vero, ma cosa importa,<br />

il proposito era sincero, e manifesto lo slancio.<br />

«E tu, Momo» interrogava ancora «è vero che sarai bravo,<br />

non piangerai, non dirai che hai avuto paura perché hai<br />

visto i fantasmi. Rispondi: è vero?».<br />

Momo giurava; gl’indici messi in croce, appressati alle<br />

labbra e ripetutamente baciati: mio giuramento!, è così, è vero,<br />

è vero.<br />

E va bene, per questa volta, dicevano. Così l’assenso era<br />

accordato.<br />

«Ma la colpa sarà tua, Pasqua, ricordalo» ammoniva Mariangela<br />

Siddi non del tutto persuasa «se il bambino si spaventa<br />

o qualsiasi cosa gli capiti».<br />

«D’accordo» rispondeva. «Sarà mia». Con un po’ di fastidio.<br />

E, anche questa volta, pensava a qualcosa di più che al<br />

puro fatto di Momo. Io mi assumo tutte le colpe, ormai. Tutte.<br />

Quanto a Momo, a ogni modo, restava persuasa che non<br />

sarebbe successo nulla. Appagato nel suo desiderio e col conto<br />

che, anche grazie all’aiuto di lei, l’aveva avuta vinta sui genitori,<br />

avrebbe dormito tranquillo come un agnello, lei pensava.<br />

Non sapeva che invece.<br />

Un capanno per Jeremia, un capanno separato per lui,<br />

Momo. Aiutava lui stesso a costruirlo: le canne, prima; poi<br />

la paglia sfioccata sul tetto; poi altra paglia sciorinata all’interno<br />

perché il giaciglio risultasse il più soffice e alto possibile:<br />

e infine, come corredo, due teli di sacco, lenzuolo e coperta.<br />

Era pronto.<br />

153


Impaziente vi entrava dentro che la sera era ancora nel<br />

cielo. Incurante che gli dicessero: «Ma che? È ancora giorno!».<br />

Non importa, per lui era già notte.<br />

Si arroncigliò sulla paglia, attento a che neppure i piedi<br />

(che poi non c’era questo pericolo) non spuntassero di fuori,<br />

e insomma che il baracchino lo contenesse tutto intero. Giaceva<br />

voltato sul fianco, le gambe rattratte, le braccia strette<br />

al corpo, il capo incassato fra i pugni. Ritrovava senza saperlo<br />

la posizione diffidente e agguerrita del feto, che meglio gli<br />

consentiva di assaporare quel suo piacere infantile. Dire che<br />

questo, in fin dei conti, era per lui poter fare “quello che<br />

fanno i grandi”.<br />

Stette così un tempo che non fu in grado di calcolare.<br />

Gli giungevano confuse, dal pergolato davanti alla casa, le<br />

voci di coloro che là indugiavano. Poi decrebbero. Poi cessarono.<br />

Dai bordi dell’aia gli giunse il saluto di ’Ntoni:<br />

«Buonanotte, Momo, sei sveglio?».<br />

Certo lo era, che c’entra. Ma si guardò dal rispondere.<br />

Non vedeva l’ora di restar solo, e che arrivasse la notte.<br />

Così fece anche col padre, quando ne udì, poco dopo, la<br />

voce:<br />

«Tutto bene, Momo? (Nessuna risposta). Buonanotte».<br />

E, se mai, lo colpiva la premura inconsueta del padre, e<br />

perfino quella dolcezza – più che inconsueta: ignota – che gli<br />

pareva di cogliere nella voce di lui. <strong>Il</strong> padre, mai? (E non sapeva<br />

del cuore. Che proprio in quei giorni, nell’esultanza frastornante<br />

di un tale <strong>raccolto</strong>, giusto al pensiero di Momo,<br />

antica pena, s’inteneriva, come mai gli era accaduto, e si domandava<br />

che fosse. Era, vuoi mai vedere, presagio?).<br />

Dopo, veniva anche la madre (ma tutti, allora! Poi il<br />

dubbio: e Pasqua?); lei si spingeva fino al capanno, sentì che<br />

frusciava la paglia sotto i suoi passi, poi la sentì che diceva:<br />

«Momo, figlio mio, vuoi proprio restare qui? Non vorresti<br />

venirtene a dormire a casa?».<br />

Ringhiava, quasi: ma che? E sentiva sulle gambe la mano<br />

di lei, carezzevole, e la voce rassegnata: «Buonanotte».<br />

Era adesso la volta di Jeremia, che veniva a coricarsi nel<br />

suo capanno qui a fianco:<br />

«Figlio» diceva sostando «qualunque cosa, e tu fa’ un<br />

154<br />

grido: questa vecchia carcassa sta qui a due passi. Ti sentirò<br />

respirare. Buonanotte».<br />

E Pasqua?<br />

Ma era già prima qui, che lui si accorgesse che stava arrivando.<br />

E penetrava nel baracchino, lei, agile che era, stendendosi<br />

accanto a lui.<br />

«Ebbene, e il mio sposo?» diceva. Da riconoscersi soltanto<br />

a questo, le parole che sapeva trovare! «Contento, l’agnello<br />

mio? Saprà fare a meno per questa notte della sua Pasqua?».<br />

È vero! – balzava a sedere sul giaciglio – non ci aveva<br />

pensato! Come avrebbe fatto stanotte Pasqua (così rovesciava<br />

il concetto) a fare a meno della sua vicinanza? E se le fosse<br />

tornato quel male, quello che la faceva piangere? Almeno<br />

almeno, avendo vicino lui, poteva chiamarlo.<br />

Ma lei lo metteva giù, sorridendo: ma cos’è, non voleva<br />

mica tornare indietro? E perché? Forse temeva che fosse lei a<br />

avere paura? Ma no ma no, lei era grande, non aveva paura, e<br />

poi di cosa. E del resto di niente bisognava avere paura (le<br />

dava sgomento il senso “altro” di queste parole) e perciò anche<br />

lui, come uomo, non doveva averne, d’accordo? Dormisse<br />

dunque, ora, buono buono, ché già era notte. E facesse<br />

tanti bei sogni, tanti. E domani Pasqua gli avrebbe chiesto:<br />

ebbene, allora, cos’ha sognato lo sposo mio? E lui glieli<br />

avrebbe raccontati. E sarebbero stati bellissimi. Va bene così?<br />

Buonanotte.<br />

E se ne andava e, prima di andarsene – cosa che appariva<br />

eccezionale anche se veniva da Pasqua – gli teneva le mani<br />

lungamente sugli occhi, e poi, chinatasi, glieli baciava,<br />

perché?<br />

Adesso gli era davvero intorno e vicinissima, ora, la notte.<br />

La notte che ha tutti quegli occhi, quei suoni, quel respiro.<br />

Dall’entrata riusciva a scorgere, anche stando così disteso,<br />

una porzione di cielo. E gli pareva che questo avesse, rappresentati<br />

dalle stelle, tanti occhi, piccoli come quelli di certi insetti<br />

e fitti fitti ammiccanti. Oppure paragonava le stelle a<br />

scintille, le “gemme” del fuoco, con i loro crepitii; solo, non si<br />

spegnevano. Notava ancora come ve ne fossero azzurre, bianche,<br />

dorate e rossigne, chissà perché; e alcune piccolissime,<br />

155


quasi invisibili, altre più grandi e brillanti e, tutto intorno, fornite<br />

di raggi ineguali. E gli era dolce avere il cielo così vicino.<br />

Ma anche ai suoni prestava attenzione, benché più noti,<br />

coi quali la notte si esprime: versi di uccelli notturni, di volpi<br />

lontane, d’altri animali. E il canto dei galli dalle gole di<br />

bronzo. E tutti come introdotti, al venir della notte, dall’ampio<br />

vibrare delle lime dei grilli.<br />

E infine quell’alitare pacato dell’aria, che non è vento,<br />

certo, ma il fiato della notte, il suo respirare tranquillo.<br />

Perché paura? Lui non aveva paura. Era bello, anzi, starsene<br />

lì rannicchiato, e vedere e sentire questo. Lo aveva desiderato,<br />

no? Chissà perché Pasqua. Per suo conto non aveva<br />

neppure sonno: poteva restare sveglio anche tutta la notte,<br />

stando così.<br />

Si addormentò invece ben presto, benché dolcemente,<br />

cullato da sensazioni gradevoli. <strong>Il</strong> giaciglio sapeva di grano,<br />

di sole, di pane, profumi che gli erano familiari fin dalla nascita<br />

e nei quali perciò affondava sofficemente, soavemente.<br />

Quando si svegliò – ignaro affatto di ciò che l’avesse svegliato,<br />

e lento anzi a capacitarsi di dove fosse e perché – nel<br />

triangolo d’ingresso del baracchino non c’erano più, come<br />

prima, le stelle-occhi-d’-insetto; al loro posto era venuta a accamparsi,<br />

proprio all’incontro dei due montanti, una prodigiosa<br />

pupilla, ma sì, la luna.<br />

Lui stette un pezzo intontito a fissarla, proprio con l’idea<br />

assurda che fosse un occhio. E l’occhio fissava lui, senza un<br />

battito di palpebra. Al punto che lui, tuttora soggiogato, si<br />

sollevò a mezzo, facendo leva sui gomiti. E solo allora realizzò:<br />

è la luna.<br />

Si mise poi seduto, per liberare le mani, e col dorso di<br />

queste si stropicciava gli occhi, ancora senza chiedersi come<br />

mai fosse sveglio. <strong>Il</strong> sonno però era andato.<br />

Ora la notte, pur sempre percorsa da un indefinibile vibrare,<br />

era però come insordita da coltri pesanti. Improvviso<br />

cantò un gallo, nella corte qui vicino, e il silenzio fu squarciato<br />

come da un taglio di spada. Ma le coltri si ricomposero nella<br />

loro mollezza, al cessare del canto del gallo. <strong>Il</strong> quale perciò<br />

156<br />

restò come un interrogativo sospeso, privato di una risposta.<br />

Poco dopo gli parve che i cani da guardia, nell’altra corte, ringhiassero<br />

sordamente, e che qualcuno cercasse di chetarli. Possibile?<br />

Ed ecco udì dei passi, cauti, come di gente che si muovesse<br />

con circospezione lungo il bordo dell’aia, dalla parte<br />

della casa, abbastanza distante però dal punto in cui si trovava<br />

lui. E gli parve che si trattasse di più persone, almeno due. Ma<br />

possibile?<br />

Ancora passi, bisbigliamenti, zittii. Forse erano gli uomini<br />

che andavano a rifornire di profenda le bestie. Ma, in questo<br />

caso, perché così zitti e così guardinghi? E se fossero ladri?<br />

Se fossero rapinatori, sgarrettatori di bestiame, banditi?<br />

Fece per chiamare Jeremia; glielo aveva detto: chiamami.<br />

E stava giusto per farlo quando udì, assolutamente percettibile,<br />

e inconfondibile, una voce che diceva:<br />

«E non gridare, almeno. Non serve a niente, eccetto che<br />

a svegliare qualcuno».<br />

Di nuovo si stropicciava gli occhi, imbalordito ancora di<br />

più: era sveglio?<br />

Era la voce di Pasqua.<br />

Sapeva già da due giorni che sarebbe venuto stanotte.<br />

Aveva mandato “commissione”: si tenesse pronta così e così,<br />

indicata la notte, l’ora, “come d’accordo”. Col solito linguaggio<br />

a più sensi, studiato in modo che lo stesso messaggero,<br />

e altri che nel caso fossero stati presenti, non si mettessero<br />

malizia.<br />

Lei non aveva potuto – o voluto – contravvertirlo di<br />

non venire. Ma sapeva per certo, nel diverso divisamento<br />

nel quale frattanto era entrata, che in nessun modo avrebbe<br />

accettato l’“aiuto” che lui si professava disposto a fornirle.<br />

Le sue decisioni, ormai, erano definitivamente prese.<br />

Aveva alla fine risolto anche i problemi del come e del quando.<br />

E si era talmente fermata, fissata nel suo proposito, che<br />

già si sentiva, già era dell’altra schiera. “Viveva da morta”, le<br />

accadeva di dirsi.<br />

Ancora una volta, di fuori, niente: era quella di sempre.<br />

Pasqua fa’ questo e lo faceva, vieni e veniva, va’ e andava e<br />

157


insomma tutto quello che capitava e che bisognava facesse.<br />

E anche come “carattere”, come “naturale”, lo stesso. L’inclinazione,<br />

e anche il lungo esercizio, alla mitezza, facevano che<br />

lei continuasse a essere mite, premurosa, sollecita; insomma<br />

un pezzo di pane, come diceva Mariangela Siddi.<br />

Ma il mutamento era nel modo. Come essere in casa d’altri,<br />

ospite per pochi giorni: fai ciò che fai, mangi bevi dormi<br />

dai una mano d’aiuto, ma puoi mettere, lì, radici? Fra poco<br />

verrà il giorno della partenza e saluterai: addio, io vado, e quei<br />

giorni lì passati che vuoi che contino non saranno più nulla.<br />

E, invece, meritevole d’impegno quell’unica cosa. <strong>Il</strong> distacco,<br />

il che serve, il morire dell’interesse per una specie di<br />

mal di cuore dell’anima, qui non più. Qui dura e tagliente la<br />

volontà come punta di selce. Fosse o non fosse, la cosa, una<br />

fuga, un atto di rinunzia o di viltà o di paura, lei vi si disponeva<br />

non di meno con inflessibile volontà e disperato coraggio.<br />

Lei, poi: la mite, la dolce-ridente, l’impetuosa in amore.<br />

E la ragione era ancora quella: che, cioè, sotto apparenze<br />

di cedimento, la sua era in realtà ribellione. Si erano chiusi<br />

gli anelli di una catena intorno a lei e come tagliarli? Ma<br />

non ammetteva che vincessero quelli (chi?) che avevano lavorato<br />

a saldarli.<br />

In queste condizioni, come poteva secondare il progetto<br />

di Fieli Pòrcina, accettare il suo “aiuto”? Nulla contava più,<br />

ormai.<br />

Ciò non ostante non si curò, ricevuto il suo avviso, di<br />

mandare ambasciata che non venisse. E difatti, all’ora fissata,<br />

quella notte appunto, egli venne.<br />

Pasqua!, pensava Momo trasecolato. Che diavolo faceva<br />

lì? Con chi era? E perché?<br />

Lo assalì, immotivato quanto fulmineo, il pensiero che<br />

questo fosse da mettere in relazione con la pena misteriosa di<br />

cui Pasqua soffriva. O più che il pensiero un sentire istintivo,<br />

come di certi animali che avvertono il pericolo.<br />

Scartò il partito, non seppe bene il perché, di chiamare<br />

Jeremia, il quale del resto dormiva sodo, lo si sentiva russare.<br />

Al contrario, deciso che ebbe di andare lui stesso a vedere,<br />

mise ogni cura nel muoversi perché il bastante non si<br />

158<br />

svegliasse. Così se ne uscì quatto quatto dal baracchino e<br />

prese a avanzare carponi verso il bordo dell’aia. Attento a<br />

non far rumore, non far frusciare la paglia, non tossire, non<br />

mugolare.<br />

Non aveva bisogno di farsi coraggio: non provava paura.<br />

Troppo occupata la mente, o si dica l’essere, da quello stupore:<br />

Pasqua?<br />

Del resto ci si vedeva come di giorno. La luna inondava<br />

il cielo, e il mondo, del suo fulgore. Una chiarità quasi irreale.<br />

La luce diffusa, soffusa, quasi spruzzata sulle cose; e le cose<br />

rinate e ribattezzate in essa. Tali e quali, cioè, e nuove, a<br />

un tempo. La fronte della casa, i carri, gli attrezzi, il cappello<br />

di paglia di ’Ntoni appeso a un piolo, le connessure dei sassi<br />

nell’acciottolato e perfino l’erbetta, stenta, negl’interstizi. Poi<br />

la grande rotonda d’oro dell’aia, i covoni ancora da battere<br />

ammontonati sui bordi, e fuga di campi verso la china, e le<br />

colline là in fondo, segnate da ombre viola.<br />

Continuò a avanzare gattoni anche dopo che fu fuori<br />

dell’aia. Ma non sapeva dove dirigersi. Per quanto tendesse<br />

l’orecchio, più nulla udiva, che potesse guidarlo, né voci bisbigli<br />

o altro, nulla.<br />

Nell’incertezza fece mezzo giro dell’aia, e nulla. Si spinse<br />

fino al muretto verso la stalla, e nulla. Retrocedeva smarrito,<br />

incerto se gridare, chiamare: Pasqua!<br />

Alla terza bica si arrestò, irrigidendosi: gente piangeva.<br />

Era sicuro che da qualche parte, lì vicino, qualcuno piangeva.<br />

Oppure ansimava forte, non riusciva a capire bene.<br />

Si fece attentissimo, localizzò il punto dal quale i gemiti<br />

(i sospiri?) venivano e, strisciando il più cautamente possibile<br />

per evitare ogni rumore, avanzò piano piano, adagio adagio,<br />

per rendersi conto.<br />

Fieli Pòrcina non capiva. Realmente non si raccapezzava.<br />

Sfidava chiunque a dire se questa non era una cosa inconcepibile,<br />

idiota e senza senso. Ma come, non voleva. Ma<br />

se si era rimasti d’accordo non più di sei giorni prima. Dieci,<br />

undici, che importa, c’è proprio da stare a sottilizzare su<br />

questo, ora. Ma non si rendeva conto, lei, che era per il suo<br />

bene, che tutto, cosa credeva, sarebbe finito in un padrefiglio,<br />

e che ogni cosa, dopo, sarebbe stata diversa, lei liberata<br />

159


da un incubo, ritornata la serenità, la gioia, lo capiva questo?<br />

E si rendeva conto che tutto era pronto, contrattato, anche<br />

pagato, sì, e che a quell’ora la persona attendeva, erano poi<br />

anche cose di grande delicatezza, non è che si dice be’ se non<br />

è oggi è domani fate con comodo, e invece loro qui, come<br />

scemi a discutere, ma siamo matti? Non le importava? Ah!,<br />

non le importava, eh? E mi congratulo. <strong>Il</strong> suo onore era in<br />

gioco, il suo avvenire, si può dire la sua vita erano in gioco,<br />

ma a lei non importava. E si poteva verbigrazia sapere perché?<br />

Così! Interessante, già, così! Ma sacramento, era impazzita,<br />

alle volte? E poi, la voleva sapere una cosa? Se a lei no, a<br />

lui sì, importava, Cristo, sì gl’importava, anche per lei, anche<br />

nell’interesse di lei, giuraddio che lui non riusciva a… (Era<br />

poi stato a questo punto che lei l’aveva interrotto, e, per chetarlo,<br />

temendo che alzasse ancora di più la voce, lei stessa l’aveva<br />

alzata un’ottava di troppo nel pronunziare le parole<br />

ch’erano giunte alle orecchie di Momo).<br />

Ripigliava più a bassa voce, lui, ma sempre incalzante.<br />

Be’, gli voleva spiegare, allora, come intendeva risolvere la situazione?<br />

Come credeva di poter uscire da questo maledetto<br />

accidente? Sentiamo, lui l’ascoltava.<br />

Erano, sin qui, rimasti a ridosso di un muro della corte,<br />

in un breve trapezio d’ombra. (Lei aveva anche, in precedenza,<br />

dovuto zittire i cani, quei sordi ringhi che Momo, a sua<br />

volta, sì appunto).<br />

E era a questo punto che lei aveva detto, con una voce<br />

un po’ strana:<br />

«Vieni» aveva detto «spostiamoci da qui e ficchiamoci<br />

da qualche altra parte, per piacere, se dobbiamo discutere.<br />

Non possiamo restare qui, in piazza e sotto la luna. Vieni».<br />

Così avevano raggiunto lo spiazzo dove si alzavano, in figura<br />

di enormi cippi, le biche, e s’erano messi seduti in una<br />

specie di nicchia (scelta da lei) formata dall’accostamento di<br />

due di queste biche e tale che, per essere la sua concavità volta<br />

all’aperta campagna, avrebbe evitato che le loro voci si ripercuotessero<br />

da questa parte, verso la casa e l’aia.<br />

Una volta lì, lui aveva ripreso – con maggior forza anzi,<br />

e rudezza, siccome franco dal timore che potessero facilmente<br />

sentirlo – a tormentarla di domande per quel rifiuto<br />

160<br />

ostinato e irragionevole che lei opponeva, a chiederle in nome<br />

di Dio di dire (“sputar fuori”, il termine che lui usava)<br />

quale ne fosse il perché, insomma a scuoterla in tutti i modi<br />

nella speranza di riuscire ancora a convincerla.<br />

Ma lei divagava, svariava. Non si può dire che così. Invece<br />

di stare al punto, seguire il discorso, rispondere a tono, o<br />

lo fissava assorta senza dir nulla o, se interloquiva, usciva in<br />

battute impensate, da stare a guardarla a bocca aperta. «Di<br />

notte, lo sai, la tua voce è profonda profonda», per esempio.<br />

«Eh? Cosa?» lui «Ma che dici!». Lei, con naturalezza: «Sì, è<br />

vero, profonda». Oppure, passato un tempo, mentre lui si<br />

accalorava: «È con Stori che sei venuto?» il nome (l’astore) di<br />

uno dei suoi cavalli. «Stori?» lui, disorientato «Ma si può sapere<br />

che diavolo…». Era il cavallo che lui cavalcava il giorno<br />

del loro primo incontro sulla strada per Tula; a lui era passato<br />

totalmente dalla memoria. E a un tratto, poi, languida, tenera,<br />

da sembrare trasfigurata: «Io, Fieli, vorrei, vorrei…». Né si<br />

seppe per ora ciò che vorrebbe, né lui reagì, altro che domandandole:<br />

«Be’, che ti prende?».<br />

Non chiaro a lei stessa ciò che le prese. Né se, proponendo<br />

proprio lei d’intanarsi in quel cantuccio, già fosse in lei,<br />

oppure no, la coscienza e il desiderio di quello che ora stava<br />

avvenendo. Un congedo dal mondo? Un addio a tutto, e a<br />

lui principalmente, che tanto era stato amato? Lei era, adesso,<br />

come placata, serena. Come spensierata, perfino. Viaggio<br />

deciso, itinerario programmato, esaurita la fase dei preparativi<br />

febbrili. Non si attende se non il segnale della partenza e<br />

che siano tolti i barcarizzi e sciolte le gomene. E che il vento<br />

si alzi e dica: va’.<br />

Forse già per questo era scesa giù abbasso, udito che ebbe<br />

il richiamo di lui, fatto col verso che emette la volpe<br />

quando è affamata o in amore. Aveva, a quel richiamo, sentito<br />

agitarsi in lei sensazioni inattese, strane. Chi era costui<br />

che veniva di notte (era la prima volta, dacché si conoscevano)<br />

sotto la sua finestra, e la chiamava? Non era il suo innamorato?<br />

“Io dormo ma il mio cuore veglia. Ecco la voce del<br />

mio diletto che bussa: aprimi, sorella mia, amica mia, mia<br />

colomba, perfetta mia. Ché il mio capo è coperto di rugiada<br />

e i miei riccioli delle gocce della notte. Oh, mi son tolta già<br />

161


la veste, come la rimetterei? Mi sono lavata già i piedi, come<br />

tornerei a insudiciarli?”.<br />

Era scesa già con quest’animo, forse.<br />

E adesso, a riessere ancora con lui, lì rannicchiata, in<br />

quel nido, e l’odore del grano, e la luna (proprio da quella<br />

parte sbatteva la luna), il suo cuore non tenne, fu pazzo, cieco<br />

e pazzo.<br />

Come quei fringuelli ai quali bruciano gli occhi con aghi<br />

arroventati, poi li mettono per richiamo su un albero, dentro<br />

una gabbia, e loro cantano. È inverno e cantano, sono straziati,<br />

infelici e cantano, rovesciano in canto, ciechi come sono,<br />

la loro pena.<br />

Press’a poco così, lei, giunta a quel punto.<br />

La stessa singolarità di questo (il primo) incontro notturno.<br />

L’urto del suo sentire col sentire affatto diverso di lui, da<br />

provocare in lei una specie di lacerazione, di dolore, di muto<br />

grido: neanche adesso, dunque, comprendi? La pietà per se<br />

stessa, struggente. La pietà, anche, per lui, per un lui ricreato,<br />

redento, foggiato per assurdo sul richiamo di poco fa, quel<br />

verso lamentoso della volpe affamata (o in amore?). E mettici<br />

pure l’impulso a stordirsi, dimenticarsi, in quell’ora stregata.<br />

E infine qualcosa che non è niente, una gratuità, ed è tutto.<br />

Che vuoi da me, Fieli Pòrcina, che vuoi sapere? No, caro,<br />

non darti pensiero di questo, il tuo aiuto non serve, non<br />

ne ho bisogno, non ho più bisogno di nulla. Sta’ tranquillo,<br />

tutto è a posto, tutto è sul punto di essere consumato. Guarda:<br />

sono forse io in pena? Al contrario, mi vedi. Sono serena,<br />

perfino allegra, certo devo essere anche un po’ matta, un po’<br />

ubriaca, con questa luna, non te ne accorgi? Lo so: dovrei<br />

cacciarti, mandarti via, trattarti da quel birbante che altro<br />

non sei, Fieli Pòrcina, dolcezza mia. Ma non posso non voglio<br />

e neanche m’importa, questa è l’ultima volta, l’ultima,<br />

che ti guardo, ti tocco, amore mio.<br />

Lui stralunava. Non è che quelle parole lei le dicesse realmente,<br />

no. Ma la morbidezza e dolcezza che erano in lei e che<br />

da lei emanavano ne traducevano così il senso che a lui pareva<br />

davvero di intenderle. E stralunava. Era venuto qui per<br />

tutt’altro, non questo. E si trovava al contrario approntato<br />

questo, un incontro così, un convegno d’amore?<br />

162<br />

Fu lei, effettivamente, a un dato momento a attirarlo.<br />

Cosa che mai era accaduta prima. La prima volta. L’ultima<br />

volta. “Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se incontrate il<br />

mio diletto, ditegli che io languisco d’amore”.<br />

E che cosa avrebbe fatto, lui, ora, lei sembrava sollecitarlo,<br />

Fieli Pòrcina cuore mio specchio d’oro, cosa farai.<br />

Guardava inebetito, vicinissimo che l’aveva, il viso di lei.<br />

Nel riflesso della luna, bianco come la luna. Che avrebbe fatto?<br />

Gli si comunicava, gli si contagiava, un po’ dell’insania<br />

che era in lei.<br />

Qualcosa che avrebbe ricordato tutta la vita. Sarebbero<br />

passati anni, decenni. Si sarebbe sposato, avrebbe avuto figli,<br />

soddisfazioni, contrarietà, il bene e il male che la vita può<br />

dare. Si sarebbero sovrapposte, nella successione dei giorni,<br />

immagini e sensazioni infinite. Ma mai avrebbe dimenticato,<br />

né mai più ritrovato, fra le proprie esperienze, esperienza<br />

così. Questo abbandono, questa dazione, derelizione totale.<br />

Questa donna che sperperava, che scialacquava l’amore.<br />

Questo fiume senz’argini né anse né foce. Questo corpo che<br />

bruciava (o era l’anima?) e queste mani, labbra, viso, che<br />

sprigionavano mai conosciute dolcezze, delicatezze, ardori,<br />

furori, tramortimenti, resurrezioni, acqua di fonte e metallo<br />

in fusione. “Ricopritemi di mele, seppellitemi di fiori, perché<br />

languisco d’amore”.<br />

Fin quando, in lei, la tensione durata troppo, l’ubriacatura<br />

e quel turbine, si scioglievano infine in pace, dapprima<br />

prendeva a piangere del tutto silenziosa, ancora sorridente,<br />

poi veramente rompeva in singhiozzi, che cercava vanamente<br />

di soffocare, intanto che lui (gli ansimi!) tuttora lottava<br />

col demone.<br />

E appunto questo udiva Momo, lì vicino, trasecolato:<br />

un pianto e un ansimare.<br />

Inchiodato a due metri da lì, sempre carponi, udiva<br />

questo. Pasqua, era, senza alcun dubbio, che singhiozzava.<br />

Tal quale quella notte, si disse subito. Mentre l’ansimo,<br />

con altrettanta certezza, era di uno che incrudeliva sopra di<br />

lei, quello per il quale lei s’era mutata, quello che la faceva<br />

soffrire.<br />

163


Avanzò per coprire quel poco spazio, con minor rumore<br />

che se fosse stato una mosca. Si torse, si snodò, a evitare che<br />

anche solo un fuscello di paglia crocchiasse. <strong>Il</strong> tempo che impiegò<br />

nel far questo non ha misura.<br />

Ma venne e vide. E non seppe mai capire, dopo, perché<br />

non si fosse messo a gridare.<br />

Lei e lui. Lì giacenti. Ancor stretti.<br />

La luna, come un bengala, gli faceva lume. Nitida ogni<br />

cosa fino a essere allucinante. Lei, di tre quarti, e sta bene, già<br />

lo sapeva. Ma lui! Chi immaginava: Raffieli Pòrcina! Anche<br />

lui voltato a mezzo e pigliato di sbieco dalla luna, ma perfettamente<br />

riconoscibile. E sconvolto, stravolto, procombente<br />

su lei riversa, lei che cercava di mansuefarlo, calmarlo, senza<br />

pur smettere di singhiozzare. E tutto il resto, ancora.<br />

La faccia del ragazzo come la faccia della luna: istupidita,<br />

ferma, impietrita.<br />

Né disse nulla né fece nulla, gridare, alzarsi. Rinculò e<br />

tornò.<br />

164<br />

XIII<br />

VENTO PER VENTILARE<br />

Trebbiato che si sia, resta ancora da ventilare. In un certo<br />

senso l’operazione più importante, togliere via la paglia e<br />

avere finalmente il grano, mondo, pulito, da farne pane. Ma<br />

per questo non basta il lavoro dell’uomo. Ci vuole il vento.<br />

E il vento non è in tuo potere.<br />

Non ricordi? “<strong>Il</strong> vento soffia dove vuole. Tu ne senti la<br />

voce, ma non sai da dove viene né dove va”. Ebbene.<br />

Sull’aia tutto è pronto. La grande rotonda del grano trebbiato,<br />

come appunto fosse una torta, già divisa per lungo in<br />

tante fette, separate da spazi vuoti nei quali andranno a posarsi<br />

la paglia e la pula. Pronte le funi, gli strascichi e le “mani<br />

di ferro” per la rimozione di paglia e pula da questi valli.<br />

Pronti i tridenti e le pale per quelli che spaleranno. E pronti<br />

naturalmente anche gli uomini, sia per l’operazione ora detta,<br />

sia per il lavoro vero e proprio del ventilare.<br />

L’unica cosa che manca è appunto quella essenziale, il<br />

vento. Che verrà, se verrà, quando più piaccia a Dio, per il<br />

momento altro non c’è da fare che rassegnarsi a aspettare.<br />

Si guarda negli orizzonti con cura. Verrà? Quando verrà?<br />

Si osservano le nuvole, i cirri sfioccati alti, i vapori marini.<br />

Se ne studia e se ne discute la forma, la direzione, la velocità<br />

di spostamento. Si dice: «Guardate là, là, che ve ne pare?».<br />

Per sentirsi magari rispondere: «Macché, puah, è aria-fabbrica»<br />

miraggio.<br />

Anche i colori del cielo possono dare indicazioni. Quelle<br />

caligini che si dispongono giro giro fra terra e cielo. Quello<br />

sbiancare incerto che appanna a volte l’intera calotta celeste.<br />

Ma soprattutto il cielo al tramonto, quelle favolose catastrofi<br />

cromatiche che precedono e seguono, d’estate più che mai,<br />

la scomparsa del sole.<br />

«Sarà vento di sole» dice uno, convinto. E speriamo che<br />

no, Dio ci assista. <strong>Il</strong> “vento di sole”, il levante – il quale è<br />

165


chiamato anche, come in antico, aestus – non è davvero quello<br />

che ci si augura quando s’ha da faticare l’intero giorno sotto<br />

l’a picco del sole. Sfianca, fa venire la “cagna”, a parte tutte<br />

le altre diavolerie, e poi dura almeno tre giorni e magari è capace<br />

di durare, sempre di tre in tre, perché questo è il suo ciclo,<br />

ventuno, ventisette giorni, chi può resistere?<br />

Ma si accerta l’indomani che non verrà. I panni da bucato<br />

di Mariangela Siddi, stesi sulle siepi di acetosella o appesi<br />

alle funi di fianco alla corte, giacciono immobili, inerti. Nessuna<br />

bava di vento li muove, non accusano un palpito. Camicie<br />

mutande brache sottane son spoglie morte, e le lenzuola,<br />

già belle stese sopra i cespugli, sono i relativi sudari.<br />

Allora cosa sarà, maestrale? Giuanni Cinus si pronunziava<br />

per questo, categorico, non avevano visto come caricava,<br />

da sera, il cielo?<br />

Invece niente, neppure quello.<br />

«E come va, compare Cinus, che una volta sapevate predire<br />

il tempo e profetare una quantità d’altre cose, perfino le<br />

quadre di grano che insaccherete, e adesso invece coi venti<br />

avete il presagio falloso e non ci azzeccate?».<br />

«Eh» diceva «che v’ho da dire? Sarà che il vento non è<br />

più quello, mah!».<br />

Ridevano, lo canzonavano anche un po’, bonariamente,<br />

mentre sedevano all’ombra, forzatamente in ozio, aspettando.<br />

Li divertiva quella battuta che il vento non era più quello.<br />

Dopo tre giorni ancora di piatta calma, il vento infine si<br />

decise a venire.<br />

Sornione, venne. Dapprima furono semplici brividi sulla<br />

superficie dell’acqua, nell’abbeveratoio delle bestie, e tremori<br />

impercettibili delle foglie degli eucaliptus. Ma cos’era? Un’idea.<br />

Poi cadde. E difatti subito l’aria si rimise a vibrare, da tanto<br />

che era rovente. Poi, a un tratto, i panni di Mariangela Siddi,<br />

quei morti dimenticati, sentirono formicolare gli spiriti, brache<br />

e mutande accennarono sgambettamenti, le sottane scampanarono,<br />

effimeri cuori d’aria palpitarono nei petti rigonfi<br />

delle camicie. E anche le lenzuola-sudari si scossero moderatamente<br />

sulle punte dell’acetosella.<br />

Finché, all’improvviso, proprio queste lenzuola sbatterono<br />

166<br />

le ali e fuggirono; e le inseguivano Pasqua Mariangela e quella<br />

Crisanta, con piccole grida. I restanti panni invece, assicurati<br />

alle funi, si limitarono a scuotersi e torcersi, ma così scompostamente<br />

che sembravano disperarsi, o sbellicarsi dalle risate.<br />

E fu il momento che convenne mobilitarsi e cominciare<br />

a ventilare.<br />

Si alza il tridente e si getta la forchettata per aria, all’altezza<br />

della cintola poco più poco meno. <strong>Il</strong> compito dell’uomo<br />

è questo, il resto lo fa il vento. <strong>Il</strong> quale s’impadronisce di<br />

quella manciata di paglia, la solleva, la scrolla dei chicchi<br />

che al caso contiene, ma in genere è solo paglia, e la trasporta<br />

tre passi più in là, nel vallo che l’attende. I chicchi, se ci<br />

sono, ricadono in basso trattenuti dal loro peso.<br />

Gli uomini che fanno questo sono più d’uno, sono gli<br />

addetti alla prima passata, liberano l’“anguilla”, come è detta<br />

ciascuna fetta in cui è stata partita l’aia, del tritume che viene<br />

su in fiore in fiore; per questo sono armati di tridente.<br />

Dietro di quelli, per il lavoro di fino, vengono gli uomini<br />

armati di pala. I quali, non più forchettate, ma cucchiaiate,<br />

lanciano in aria, a prova, e più che altro della pula che il grano<br />

viene liberato con questa operazione. E fitti fitti, infatti,<br />

stavolta, ritonfano in giù i chicchi, a ogni mandata, con un<br />

rumore morbido, mentre se ne stacca leggero un volo di corpuscoli<br />

d’oro.<br />

Ed è in questo che consiste il ventilare. Separare il grano<br />

dalla paglia, il greve dal leggero, l’utile dall’inutile, quello che<br />

sarà pane da quello che sarà strame.<br />

E a questa incombenza il vento si prestava docile, non<br />

troppo impetuoso, non incostante, perfino abbastanza fresco:<br />

libeccio. Lavoravano tridenti e pale, lavoravano gli strascichi,<br />

tirati da buoi a coppie, a liberare i valli. Ma già a metà del secondo<br />

giorno il vento ammosciò e cessò, può capitare, è capriccioso.<br />

E fermi tutti, tridenti pale e il resto, che si può fare?<br />

Ripigliò l’indomani, ma era giusto “vento di sole”,<br />

quello temuto, bisognò rifare le “anguille” secondo l’allineamento<br />

imposto da lui, è necessario che il vento spiri di<br />

costa, ci volle un bel po’ prima di ridar mano a ventilare,<br />

gli uomini imprecavano.<br />

167


E ringraziare che tenne (la regola del tre in tre!), se no<br />

questo gioco sai quante volte può capitare che s’abbia a fare?<br />

E anche può capitare che cresca a tal punto che si debba infrenarlo,<br />

bisogna che si tendano teli di sacco dalla parte del<br />

vento a schermo dei ventilanti, pensa se è un lavorare.<br />

Qui no, quanto a tenere, tenne da galantuomo. Ma per<br />

il resto, che Dio lo fulmini, quant’è di sollievo a chi è intento<br />

a tribolare così sull’aia, con la frescura che porta. Spirava da<br />

est, caldo, fiaccante. Recava con sé, nell’altissimo, voli di nuvolette<br />

bianchicce, innumerevoli simili a piume; come se, per<br />

dire, spennassero in cielo oche, per un banchetto di quelli, e<br />

le piume, dalle cucine, le sbattessero giù, l’immondezzaio che<br />

è il mondo. E questa condizione del cielo, quei vapori che<br />

non paravano, rifrangevano anzi come tanti piccoli specchi i<br />

raggi del sole, crescevano l’afa e il patire degli uomini.<br />

Comunque, passa e ripassa, dallo sbattere delle pale il<br />

grano a poco a poco veniva fuori: nudo, rossiccio, gremito.<br />

Sembrava ghiaia, tritume di porfido. Meravigliava che per<br />

questo, un breccino di questa fatta, fosse stato tanto sudare<br />

sperare e aspettare. E avessero, per questo, lavorato non solo<br />

gli uomini, ma le forze del suolo, le piogge, i venti, insomma<br />

dato mano e cielo e terra.<br />

Tanto più che sui bordi dell’aia, dove veniva ammassata,<br />

la paglia formava ormai delle alte pile, ravvicinate e numerose.<br />

Ben altra vista. Erano volumi piramidali fulgenti di oro<br />

massello; creavano, per quanto effimere, miraggi faraonici.<br />

L’ultimo atto fu quando il grano fu passato al crivello.<br />

Si fa per mondarlo delle residue impurità. Si piantano<br />

nel grano stesso tanti bastoni forcuti, si appendono a un<br />

dente di questi altrettanti crivelli per modo che restino sbiechi,<br />

si versa dentro i crivelli il grano e si setaccia, svuotando<br />

via via il crivello della mondiglia. È l’ultima ripulitura.<br />

E fatto anche questo il grano venne ammassato in un<br />

monte solo.<br />

E allora finalmente si vide.<br />

Un cono enorme alto franoso, sul quale qualcuno – e chi,<br />

se non lui? Ma Giuanni Cinus, incarnazione di Dio! – saliva a<br />

fatica a piantare là in cima, è l’usanza, un bidente. Non un<br />

168<br />

tridente, un bidente. Un simbolo. Contro l’invidia la jettatura<br />

il malocchio, tie’ queste corna. Che preservino il grano e diano<br />

a Giuanni Cinus, a scorno di chi gli vuol male, il modo di<br />

goderne in pace e in salute e così sia.<br />

E gli dicevano adesso per stuzzicarlo:<br />

«Quante quadre avete detto che saranno, compare Cinus?».<br />

Sicuro, tronfio, sbruffone, lui sparava:<br />

«Quattromilaottocentootto!».<br />

Quelli:<br />

«Anche le otto, lasciamo?».<br />

Lui:<br />

«Anche le otto».<br />

Era pronto su questa cifra a scommettere? Tutto quello<br />

che volevano, era pronto. Che margine di errore era disposto<br />

a concedere? Trenta, quaranta quadre, cinquanta al massimo.<br />

Su quattromilaottocento? Su quattromilaottocentootto,<br />

per essere precisi, bestie che erano. E la posta, qual era la<br />

posta? La fissassero loro, minchioni; chi è che lanciava la sfida?<br />

Ma lui come lui, cos’è ch’era disposto a dare, caso che<br />

perdesse?<br />

La risposta era tracotante, orgogliosa, da eroe:<br />

«Questo!» e additava il gran mucchio del grano, l’intero<br />

<strong>raccolto</strong>.<br />

«Tutto?» osservavano increduli.<br />

«Tutto» replicava infilando i pollici negli spacchi ascellari<br />

del giustacuore e tamburellando con le altre dita sul<br />

petto; e poi chiedeva: «E voi che offrite?».<br />

Divertiti si arrendevano a tanta spavalderia:<br />

«Canzoni» dicevano.<br />

Proprio nei giorni che ventilavano, Momo si sentì male.<br />

Non mangiava non beveva non si muoveva dal suo saccone.<br />

Tre giorni durò così. <strong>Il</strong> quarto fu assalito da convulsioni.<br />

Rabbrividiva e tremava tutto, si scuoteva, sbavava. A un certo<br />

punto si irrigidì, gli occhi gli si rovesciarono e cominciò a<br />

stridere i denti che spaventava. Un’altra crisi, insomma.<br />

Gli stavano intorno in molti, le donne principalmente,dato<br />

che si temeva potesse da un momento all’altro dare<br />

169


in furori. E discutevano sulle possibili cause di questo nuovo<br />

attacco del male di Momo.<br />

«È il vento» diceva più d’uno. «Questo vento scomunicato!».<br />

Era l’opinione che incontrava più credito. Certo, il bambino<br />

era “predisposto”, riconoscevano. Poverino, bastava vederlo.<br />

Ma a eccitare il male che aveva dentro, che altro poteva<br />

essere stato? Non c’era dubbio, il levante, il vento aestus.<br />

E giù tutta la sfilza dei mali di varia sorte che questo vento<br />

porta con sé. La secchezza, la fiacchezza, la “voglia di niente”, i<br />

tagli sulle labbra, il pus nelle palpebre dei bambini, le caldane,<br />

le piaghe. E poi le inquietudini, le “brutte voglie”, le stranezze<br />

e le bizzarrie, le “lune”, i “sogni mali”. Cosa ancora? La “temperie”<br />

della terzana, i deliri, le convulsioni, come appunto, poco<br />

più poco meno, erano queste di Momo. Dunque vedi.<br />

E concludevano che, posto questo, cessato che fosse il<br />

vento, cesserebbe anche la crisi.<br />

Fu e non fu così. Quello stesso giorno che ebbe l’attacco<br />

– e tutt’altro che smesso il vento – il ragazzo parve riprendersi.<br />

Le membra gli si sciolsero, le mascelle lo stesso, riaperse gli<br />

occhi, provò perfino a levarsi a mezzo sul letto. E fissava muto<br />

i presenti uno per uno, quanti erano lì.<br />

Ma com’ebbe veduto qualcosa, qualcuno, ridette in smanie,<br />

ricadde riverso, il male lo riassalì più violento e tormentoso<br />

che mai. Sembrava che il demonio lo possedesse, urlava,<br />

si dimenava, e ci vollero buone braccia per trattenerlo.<br />

Poi, ancora una volta, la tensione si allentò, ma, più che<br />

placarsi, cadde in un torpore strano, profondo, ogni tanto<br />

interrotto da tremiti di breve durata, come fosse travagliato<br />

da incubi o sogni angosciosi.<br />

E cessò anche questo del tutto, quando cessò, effettivamente,<br />

anche il vento.<br />

170<br />

XIV<br />

LE QUADRE COLME<br />

Attingevano con le pale dal mucchio e riempivano le quadre.<br />

Poi rovesciavano il contenuto di queste nei sacchi, gridandone<br />

via via il numero da un gruppo all’altro. Poi, chiusa<br />

e legata l’imboccatura, caricavano i sacchi sulle carriole e li<br />

portavano nel magazzino.<br />

In questo consistono la misurazione e l’“inserro”, due<br />

operazioni che vanno avanti di pari passo (si conta e si immagazzina)<br />

e che sono come il sigillo di tutto il lavoro – di<br />

tutto il “travaglio”, anzi, ché questo è il termine, – durato così<br />

a lungo da “capodanno” in poi.<br />

Lavoravano distribuiti in tre gruppi, attorno all’enorme<br />

cono. <strong>Il</strong> quale, scalzato alla base da quell’assiduo lavoro di<br />

scavo delle pale, e di più che franava con facilità lungo i fianchi,<br />

un po’ alla volta si abbassava e rimpiccioliva.<br />

Da parte sua Giuanni Cinus, pur limitandosi a sorvegliare,<br />

non è che, anche in questa circostanza, e quando mai, si<br />

smentisse. Si muoveva di continuo da un gruppo all’altro e<br />

dall’aia al magazzino, impartiva disposizioni, comandava che<br />

si sbrigassero, faceva la parte del batti-fianco. Sapete quell’aculeo<br />

a due punte che i maestri di carri incastrano a metà del timone,<br />

in modo che i buoi vi battano di necessità il fianco e,<br />

sentendone la carezza, accelerino l’andatura: è quello il battifianco.<br />

«Avanti, sveglia, morti di sonno, arriveremo a Natale,<br />

di questo passo!». E, se del caso, non esitava a farsi lui stesso<br />

sotto, “per far vedere come si fa”. E bisognava allora realmente<br />

vederlo, basso tarchiato e un po’ strambato che era, afferrare<br />

con una mano sola la quadra colma, che mica è uno scherzo,<br />

e alzarla pari pari fino all’imboccatura del sacco come fosse un<br />

boccale di vino, che rimanevano gli stessi giovani a bocca<br />

aperta. «Eh, che ne dite, visto come si fa?».<br />

Ma faceva questo per posa, per valentia, per sfogo della<br />

propria eccitazione, non per necessità. Gli uomini infatti<br />

171


lavoravano con lena e speditamente, senza bisogno di stimoli.<br />

Non vedevano essi stessi l’ora che fosse finita, era l’ultimo<br />

giorno, questo, l’ultimo atto. Poi, se Dio vuole, a parte la paga<br />

e lo speciale premio in natura – che avevano ragione di<br />

credere sarebbe stato generoso, con un <strong>raccolto</strong> così abbondante<br />

– li aspettava la fatica ben altrimenti gradevole di mangiare<br />

e di bere, già si stavano approntando sotto il pergolato i<br />

tavoli di fortuna per il banchetto e già cominciava a sentirsi<br />

odore di arrosto, era questo che li spronava assai più che le<br />

sparate di Giuanni Cinus. Glielo dicevano del resto, il tema<br />

del banchetto offriva loro lo spunto per continue battute,<br />

mentre insaccavano. Non avesse timore che loro già si sbrigavano;<br />

se dopo, come speravano, c’era da lavorare di mascelle<br />

quanto ora di braccia, altro che se si sbrigavano, non vedeva<br />

che già avevano la bava alla bocca? E ben a ragione d’altronde;<br />

con un’annata così, con un <strong>raccolto</strong> così, il giorno dell’inserro<br />

aveva da essere in tutti i sensi un giorno da ricordare.<br />

<strong>Il</strong> numero delle quadre cresceva in fretta, si toccavano le<br />

mille quadre, poi le millecento, duecento, trecento e così via.<br />

Si arrivava alle duemila, si doppiava questa cifra, si andava oltre.<br />

<strong>Il</strong> mucchio del grano, alto in principio come una casa,<br />

scemava visibilmente, anche se non accennava a esaurirsi, così<br />

si toccava la quota tremila, uno dei bastanti gridava: «Quarantasette!»,<br />

e l’altro faceva eco, per controllo: «Quarantasette!», e<br />

intendevano tremiladuecentoquarantasette, la pertica sulla<br />

quale, per ogni dieci quadre, s’incideva una tacca, era tutta già<br />

picchiettata in lungo e in tondo di questi tagli.<br />

C’è una parola, nella lingua di là, che significa stupore,<br />

ma che esprime, di più, un senso come di sbigottimento e<br />

perfino di allarme; ed è ispantu. Ebbene di questo tipo era la<br />

meraviglia che le proporzioni del <strong>raccolto</strong> suscitavano negli<br />

uomini, e in Giuanni Cinus non meno, via via che la conta<br />

le traduceva nella secca inoppugnabile verità delle cifre.<br />

Si temette a un certo punto che il grano potesse non starci,<br />

addirittura, nel magazzino. Uscivano stontonati i bastanti<br />

che attendevano allo stivaggio e dicevano a Giuanni Cinus:<br />

«Basta grano, padrone, non cape più» e doveva rassicurarli,<br />

dopo avere verificato di persona, che no, stessero tranquilli,<br />

“capiva” ancora, hai voglia.<br />

172<br />

Frattanto il numero delle quadre cresceva sempre, già si<br />

avvicinava in maniera incredibile – fino a corrispondere in<br />

pieno, magari? – alla stima che Giuanni Cinus ne aveva fatta,<br />

come per bravata, quando ancora si ventilava.<br />

<strong>Il</strong> mucchio come tale, adesso, era ormai demolito, si lavorava<br />

sui rimasugli.<br />

«Novanta!» annunziò uno di quelli della conta. E il compagno<br />

corrispose: «Novanta!». Sembrava belassero.<br />

Significava quattromilasettecentonovanta quadre, ne mancavano<br />

cioè soltanto diciotto, perché la “profezia” di Giuanni<br />

Cinus si rivelasse precisa all’unghia.<br />

E non era finita. Spalarono ancora e ne vennero altre undici<br />

quadre. Si saliva a quattromilaottocentouno.<br />

«Spazzate fino all’ultimo, che Dio vi danni» diceva<br />

Giuanni Cinus additando quel che restava «che anche quello<br />

viene buono».<br />

Spazzavano infatti i bastanti le pietre dell’aia, con scope<br />

di bruga, ricavandone ancora un mucchietto che spingevano<br />

verso quelli della conta.<br />

«Ce ne sarà per un due quadre» dicevano. Ma uno di<br />

quelli della conta:<br />

«Non vorrete mica metterci anche la mondiglia, adesso,<br />

compare Cinus» disse «basta per vincere».<br />

Lui s’infuriò:<br />

«Mondiglia?» disse. «Questa è mondiglia? E questa? E<br />

questa?». E ne pigliava dal piccolo mucchio manciate e le<br />

mostrava una dopo l’altra all’incredulo come volesse accusarlo,<br />

prove alla mano, di bestemmia e d’insulto. E disse, nel<br />

momentaneo accesso d’ira, parole che suonarono stranamente<br />

ispirate e solenni, com’erano vibranti: «È grano» disse «è<br />

sangue mio!».<br />

Al punto che l’altro si affrettava a chetarlo: «Lo so, lo so,<br />

compare Cinus, non avete bisogno di ricorrere a trucchi,<br />

voi, con quello che vedono i nostri occhi».<br />

Una quadra venne piena e fu regolarmente contata.<br />

L’altra, l’ultima, non risultò proprio piena ma fu contata lo<br />

stesso.<br />

«Quattromilaottocentotré!» dissero quasi in coro.<br />

Una cifra mai toccata, in nessuna annata, come <strong>raccolto</strong><br />

173


di un solo podere, a Serri. E, di più, la stima azzeccata quasi<br />

in pieno, cosa possono essere cinque quadre in uno sterminio<br />

così?<br />

«Ebbene, e allora» disse calmo Giuanni Cinus «me la<br />

date per vinta, o no, la scommessa? E adesso le canterete le<br />

vostre canzoni?».<br />

Sbollita l’ira, era tornato ridente.<br />

Ma non poteva intanto, un fatto così, non rimescolargli<br />

qualcosa dentro. Qualcosa di lento e di restio a mostrarsi di<br />

fuori, però presente e premente. Come quando uno si mette<br />

a incidere con un coltello la scorza di un vecchio albero, che<br />

non è che dalla ferita subito scappi la lacrima, ma questo non<br />

vuol dire che dentro, sotto la scorza, non ci sia linfa. E d’altra<br />

parte questo fatto, nel caso suo, incideva ben profondo, il<br />

coltello penetrava ben più in giù della vecchia dura scorza. <strong>Il</strong><br />

fatto, dico, che questo <strong>raccolto</strong>, così tenacemente perseguito,<br />

fosse ormai cosa certa, chiuso e legato nei sacchi e stivato nel<br />

magazzino. Lo strano sogno novembrino avverato. L’incerta<br />

visione di quel mattino, ormai così remota, avverata. L’essere<br />

lui insomma arrivato a conoscere questo giorno. Perché questo<br />

sì – ecco ciò che sentiva – era il “suo” giorno. Da agosto<br />

in qua, ogni giorno che era passato, era passato per questo.<br />

Con oggi qualcosa finiva e qualcosa incominciava, sentiva<br />

che era così. E neanche si domandava che cosa; gli bastava<br />

fermarsi a questo: che era così.<br />

Frattanto, lì tutt’intorno, gli uomini lo festeggiavano, lo<br />

complimentavano, gli dicevano buon pro’, a consumare quest’abbondanza<br />

in salute, che ben se lo meritava. E ancora assicuravano,<br />

per la millesima volta, che raccolti così non se<br />

n’erano mai visti a Serri, neanche a ricordo dei vecchi, e che<br />

lui certamente doveva averci qualche magia, beato lui, lo<br />

provava anche il fatto che aveva azzeccato così di netto (cinque<br />

quadre? puah, uno starnuto) la stima, cose mai viste.<br />

«Eh, ma non andatelo a dire in giro» lui celiava «che ci<br />

ho la magia!». Ed era per sopraffare, pigliandola in ridere,<br />

quel qualcosa di molle e denso che gli si muoveva di dentro,<br />

e gonfiava.<br />

Quanto all’ultima quadra, ordinò che non ne versassero<br />

il contenuto nel sacco. La lasciassero lì, così com’era, sull’aia.<br />

174<br />

«Perché mai?» gli chiedevano.<br />

«Niente, so io, lasciate fare» rispondeva enigmatico.<br />

Insieme con le altre donne e qualcuno dei bastanti Pasqua<br />

si affaccendava a apparecchiare per il banchetto.<br />

Si muoveva in quell’aria di festa, in quell’allegria rumorosa<br />

che le era intorno, come il moscone incappato dentro la stanza,<br />

il quale dà di continuo sul vetro, vede la luce là fuori, crede<br />

che tutto sia aria, si prova a passare, ma no, c’è quell’ostacolo<br />

invisibile e duro, che sbarra il volo; e tutto così resta di là, lo<br />

spazio, il cielo, i colori, la libertà.<br />

Lei tale. <strong>Il</strong> cuore cocciutamente sbatteva sul vetro come<br />

il moscone perché perché.<br />

Allorché si era posta, decisa finalmente a risolverli, i problemi<br />

che si son detti, del come e del quando, a un tratto<br />

l’idea le era venuta, dopo tante incertezze, alla mente come<br />

la cosa più ovvia: ma sì, guarda, come mai non ci aveva pensato<br />

prima. E, con fermezza, quasi con violenza, aveva stabilito:<br />

“Sarà il giorno dell’inserro!”.<br />

Questo giorno era venuto, ed era oggi; e la “cosa”, dunque,<br />

doveva succedere oggi, stasera stessa, fra poche ore.<br />

Era uso che quel giorno, finiti il banchetto e le feste, tutti<br />

coloro che in qualche modo avevano avuto parte, comprese<br />

le spigolatrici, nei lavori del mietere e del trebbiare (ma più<br />

che altro erano i giovani; gli anziani normalmente se ne esentavano)<br />

sciamassero verso il mare. Là si celebrava quello strano<br />

rito che era il bagno collettivo notturno; un lavacro nel<br />

mare che, tipico ed esclusivo di questa occasione, aveva anch’esso<br />

origini remotissime e, forse, almeno ai primordi, natura<br />

per l’appunto rituale.<br />

L’uso voleva che si partisse sul vespro, in modo che il<br />

bagno potesse farsi al primo calare della notte. E meglio se<br />

in cielo, in quel momento, splendeva la luna, meglio poi<br />

soprattutto se era notte di plenilunio; perché la luna, che<br />

presiede al mistero delle nascite e delle germinazioni, sarebbe<br />

stata di buon auspicio per la prossima annata.<br />

Ancora voleva l’uso che tutti quanti si entrasse in acqua<br />

del tutto nudi, sia maschi sia femmine – separati s’intende in<br />

175


due gruppi distinti – e che in tal modo ci si mondasse di tutte<br />

le impurità – la polvere che dà prurigine, il sudore, il fortore<br />

– connesse alla fatica ultima del cogliere il frutto annuale<br />

e ricorrente della terra. Dopo di che, risciacquati ma, si<br />

vuol dire, con un senso di “purgazione” e rinnovo che non<br />

era soltanto del corpo, si riprendeva intonando canti la via<br />

del ritorno.<br />

Questo dunque, voleva l’uso. Ed è da questo che Pasqua<br />

aveva tratto ispirazione per il suo piano. Attendere l’ora (il<br />

quando) che i giovani e le ragazze – e lei con queste – fossero<br />

entrati in mare e, per suo conto, avanzare nell’acqua nera<br />

fino al nero perfetto (il come).<br />

Se, fra i tanti modi presi in esame, analizzati e poi scartati,<br />

aveva finito per scegliere questo, due soprattutto erano<br />

stati i motivi. <strong>Il</strong> primo, più dichiarato, era questo: che, per<br />

questa via, così pensava, lei sarebbe arrivata al traguardo senza<br />

violenze, senza infierire su sé, ma anzi in maniera talmente<br />

dolce, talmente insensibile, che lei “neppure se ne sarebbe<br />

accorta”. Aveva paura, già lo si è visto, non pure dell’incontro,<br />

ma del modo di questo incontro. E una soluzione così,<br />

le toglieva questa paura. Quanto all’altro motivo, esso era<br />

più vago benché avvertito pur sempre: e consisteva nel desiderio<br />

di giungere all’appuntamento, chissà, in uno stato di<br />

purificazione e redenzione: come se l’acqua del mare, cioè,<br />

tutto lavasse via, e colpe, debolezze, abbandoni, sozzure, tutto,<br />

fossero anch’essi sciacquati e cancellati, prima che “essa”,<br />

l’ignota, venisse e le dicesse, sottovoce: andiamo.<br />

Aveva già preso parte un’altra volta, quand’era ancora in<br />

Baronia, a un bagno di mare così, e il ricordo che ne serbava<br />

le era servito – nei giorni che seguirono la sua decisione – a<br />

figurarsi le mille volte in tutti i particolari quello che sarebbe<br />

avvenuto. “Per abituare il cuore” si diceva.<br />

La visione del mare, anzitutto. Le onde provenienti dal<br />

largo sotto la luna. Non alte arruffate e rabbiose, ma lunghe,<br />

continue, e che si frangevano sulla sabbia dolcemente (così<br />

ricordava dell’altra volta, così sarebbe stato, secondo lei, anche<br />

stavolta). Le terminazioni di esse, sinuose, curve come<br />

labbra, avanzanti all’improvviso quasi a ghermirti, per gioco,<br />

176<br />

i piedi. I risvolti di schiuma, ampi e arabescati, come ricami<br />

di lenzuola da sposa. <strong>Il</strong> suono che le onde facevano, una specie<br />

di incessante innumerevole baciamento, e insieme di invito:<br />

vieni, vieni.<br />

Questo è il quadro. E poi lei. Lei che si spoglia con le<br />

compagne sulla battigia. Lei che, lasciate sulla spiaggia le vesti<br />

(e con esse ogni cosa: legami desideri rimpianti rimorsi,<br />

tutto), nuda e bianca si avvia verso il mare. Lei che, prima di<br />

entrare in acqua, chinata giù, tuffa la destra nel mare, come<br />

in una enorme sterminata acquasantiera, e si segna, così si fa.<br />

Lei infine che avanza, ancora con le compagne, nell’acqua,<br />

piano piano: l’acqua al polpaccio, al ginocchio, alla coscia, all’addome<br />

(i brividi anche, riusciva a rappresentarsi, in questo<br />

sforzo di “abituare il cuore”), e poi più su, alle anche, al seno,<br />

infine alla gola, che era solitamente – per gente come quella,<br />

del tutto inesperta del nuoto – il limite da non oltrepassare.<br />

E lì si sarebbero infatti fermate le compagne, con piccoli gridi,<br />

bbrrr!, e sbuffi e risa, principiando a dondolare nell’acqua<br />

nera e argentea, qua e là fosforescente, i loro corpi bianchi<br />

lattiginosi, che la vaga trasparenza avrebbe come slungati e<br />

resi flessuosi, intanto che i maschi, nell’altro settore, ben più<br />

strepitando fra loro e sguazzando e facendo dell’acqua un’immensa<br />

gazosa di schiuma, avrebbero fatto sentire, appunto<br />

all’indirizzo delle ragazze, i loro bramiti di maschi.<br />

Lei, no, invece, non si sarebbe fermata. Avrebbe continuato<br />

a avanzare. Non proprio nuotando, ché non era capace,<br />

ma galleggiando in qualche modo, muovendo le braccia,<br />

le gambe, bastava questo. E avrebbe cercato di portarsi (ancora<br />

il ricordo dell’altra volta) in quella via luminosa, larga,<br />

incredibile, che stampa la luna sul mare. L’avrebbe a ogni costo<br />

raggiunta, doveva, voleva. Perché era lì, solo lì, in quella<br />

via spettacolosa che partiva diritta e lucente perdendosi all’infinito,<br />

che si sarebbe lasciata infine afferrare.<br />

Afferrare? Non afferrare: abbracciare. Chiudere gli occhi.<br />

Concedersi: eccomi, prendimi! Come con “lui”, l’ultima volta.<br />

Perché così, certo, sarebbe stato. Una specie di amore. Un<br />

venir catturata da braccia di innamorato, dolcemente, amorosamente.<br />

E sentire lo stesso smemoramento, stordimento,<br />

ubriacamento magari, che aveva provato con “lui” l’ultima,<br />

177


unica volta. E tutto questo in quella grande strada di luna.<br />

Ricordare che così il primo come l’ultimo incontro avevano<br />

avuto per testimone la luna. E ricordare per ultime le prime<br />

parole: “Pasqua, sorella mia, sei diventata uno splendore”.<br />

Di questo, per giorni, nutriti i pensieri. Ma adesso era<br />

qui, il giorno designato era venuto e, malgrado l’ostinato allenamento,<br />

non poteva del tutto dire, se non mentendo, che il<br />

cuore si era “abituato”.<br />

Tante cose che si affollavano, e tutte insieme, e troppo in<br />

fretta, alla mente. E questo suo chiudersi nel silenzio. Tutti<br />

questi che ora le giravano intorno, così allegri, così vocianti,<br />

cosa sapevano? Sua madre stessa, suo padre, e non parliamo<br />

di ’Ntoni e di Momo, cosa sapevano? E “lui” del resto, lui<br />

soprattutto, cosa, me lo sai dire?<br />

Dall’eccitata spensierata animazione che le era intorno<br />

era portata, per contrasto, a fingersi la scena del “dopo”. I carri<br />

che tornavano, silenziosi, a notte fatta. Pasqua, Pasqua, sei<br />

tu? – la voce della madre. – Come mai così tardi, cos’è successo?<br />

E la notizia: Pasqua non c’è. Non c’è? Cosa dite? E allora<br />

i particolari, così e così, ma noi vi assicuriamo, Mariangela<br />

Siddi, che noi non c’entriamo, non sapevamo. E allora<br />

l’urlo, il trambusto, ma siete pazzi? Ma come è possibile? Ohi<br />

ohi, sì sì, eppure.<br />

Pianti, disperazione, tutta la casa a soqquadro: così si sarebbe<br />

conclusa questa giornata di allegrezza, la grande giornata<br />

di Giuanni Cinus povero vecchio. Ma avrebbero capito?<br />

No, niente, come potevano. Avrebbero detto, chissà, che<br />

era pazza, oppure una disgrazia, ah poverina, ah figlia d’oro,<br />

ecco il <strong>raccolto</strong>, ecco la bella annata!<br />

E lui, poi, lui, allorché fosse stato (e come?, e quando?)<br />

informato, che cosa avrebbe detto? Avrebbe capito, avrebbe<br />

intuito il vero, almeno lui?<br />

I pensieri le turbinavano dentro la testa come foglie in un<br />

risucchio di vento. Ruotando, alzandosi o precipitando, sbattendosi<br />

fra di loro, scompaginandosi. Ma ritornante, pungente,<br />

struggente, questo dominava su tutti: che non sapessero.<br />

Lei se ne andava, spariva, addio; e loro niente, nessuno niente,<br />

“come che mai”. La tentazione che aveva avuto, l’ultima<br />

178<br />

volta con lui, di rompere finalmente questo muro di silenzio,<br />

almeno con lui. E dirgli: eccola, anima mia, la verità. O gridargli,<br />

quasi con furore, quando anche lui si era acceso: sì sì,<br />

prendimi, godimi, sfogati dunque, perché tra poco non potrai<br />

più. E invece no, muta perfino allora, condannata al silenzio:<br />

perché?<br />

«Ma Pasqua, che fai, non ti muovi, e le tazze?» la richiamava<br />

la madre.<br />

Oh sì, le tazze, che scema, le tazze!<br />

E non passavano che pochi minuti, e daccapo:<br />

«Pasqua, figlia dell’anima, che ti succede, stai lì stranita.<br />

Su dunque, e i pani? Non li metti sui tavoli?».<br />

Si scuoteva: i pani? Oh sì, mi’ che sbadata, li aveva in<br />

mano! Ora li metteva, sì certo, subito, ma’, Vostra Mercé mi<br />

perdoni.<br />

E li metteva, infatti; e, nel metterli – sarà stato il richiamo,<br />

del resto dolce, della madre, o altro – il cuore le si scioglieva.<br />

Quei pani come nidi, fragranti, dorati, barocchi, che fanno<br />

laggiù, opera manifesta di femminili mani: di pazienza, di<br />

tenerezza, di fantasia, anche se modellati su schemi tramandati.<br />

Confezionati, si direbbe, con la medesima cura che se<br />

dovessero durare anni, e cosa durano invece?<br />

Uscivano, questi pani leziosi, dal paniere che lei recava, e<br />

proprio essi, siccome fatti col grano nuovo, erano la rarità del<br />

banchetto, la primizia dell’annata. Al punto che, prima di<br />

mangiarli, bisognava segnarsi e dire: in nome di Dio.<br />

Li collocava uno dopo l’altro secondo i posti già fissati<br />

dei commensali – compreso “lui”, l’invitato di maggior rango,<br />

che a buon conto tardava a apparire – accompagnando<br />

il gesto, di volta in volta, con un sentimento come di offerta<br />

e di donazione. Come se, cioè, non il pane soltanto, ma<br />

qualcosa di sé ove fosse possibile, venisse offrendo e distribuendo<br />

a ciascuno: il padre, i giornalieri, Jeremia, ’Ntoni,<br />

“lui” s’intende, ché anzi. Come se, insomma, in qualche<br />

modo si reputasse lei stessa pane: e del resto non era stata<br />

forse lei stessa mietuta trebbiata e passata alla macina; lavorata<br />

come pasta e passata al forno? E dunque prendessero<br />

179


tutti e mangiassero, pane vero e pane quest’altro, fatto d’anima<br />

o come sia.<br />

E, pensando questo, non si accorse se non ben tardi che<br />

i cani latravano, si udiva un galoppo e si levavano voci, saluti.<br />

Se ne accorse quando un bastante, che badava agli spiedi<br />

e al quale si trovò a passare vicino, disse, indicando col mento<br />

l’arrosto:<br />

«Arriva, ah. Ha sentito l’odore!».<br />

La quadra che era rimasta, secondo i suoi ordini, al centro<br />

dell’aia, Giuanni Cinus l’aveva infine presa e sollevata<br />

quanto poteva.<br />

E nessuno riuscì a capire – tutti lì che osservavano – che<br />

razza di cerimonia fosse mai questa, che lui faceva. Alzata infatti<br />

che l’ebbe, l’inclinò piano piano e cominciò a rovesciarne<br />

il contenuto per terra, tant’è che ci si chiedeva che fosse<br />

valso, allora, aver raccattato con diligenza, per poterla riempire,<br />

gli ultimi rimasugli del grano. E non per terra, neanche,<br />

ma addirittura sulla propria persona.<br />

Perché lo faceva? Offriva quel grano a Dio datore di grazie,<br />

alla terra generatrice, agli uccelli del cielo, a cosa? Lui non<br />

lo disse, in quel momento; e dopo fu troppo tardi. E parve<br />

più verosimile, infine, pensare che così, chissà, lui intendesse<br />

come lavarsi, battezzarsi nel proprio grano.<br />

Quel che si vide fu che, finito il rito, egli fu scosso da tali<br />

sussulti che pareva ridesse e piangesse nel medesimo tempo.<br />

L’ospite di riguardo, venuto a cavallo, era arrivato in quel<br />

punto.<br />

E adesso Giuanni Cinus, esauriti i convenevoli, batteva<br />

le mani e gridava:<br />

«Su, su, gente, è l’ora. Incomincia la festa, avvicinatevi,<br />

è l’ora».<br />

E, rivolto alle donne, quell’aria autoritaria comica e patetica<br />

che pure lo trasfigurava, alzava ancor più la voce:<br />

«Ehi, donne, be’, cosa aspettate? Ci siamo tutti, mi pare.<br />

E allora via, quello che è da servire, che sia servito: è l’ora».<br />

Che poi, come declina la lingua nostra, ha un tono anche<br />

più alto, solenne e antico: «Hora est, hora est!» lui diceva.<br />

E fu, infatti, allora.<br />

180<br />

Tutta questa grand’aria, questa esultanza emanava da lui<br />

non solo per la reale contentezza della quale era pervaso, ma<br />

anche perché voleva ben figurare con gli uomini, e specialmente<br />

col giovane Pòrcina, che poco fa aveva accolto “in<br />

pompa magna e a pregio”, come là letteralmente si dice, cioè<br />

con onori e gaudio, e che adesso con fare cerimonioso e confidenziale<br />

insieme – veniva accompagnando verso le mense,<br />

il braccio infilato sotto il braccio di lui.<br />

Fu allora.<br />

Momo era apparso. Non si sa da dove: sbucato dalla cucina,<br />

balzato dalla corte, sgattaiolato da un nascondiglio, sprizzato<br />

dal suolo, chissà. E non pareva neanche Momo, piuttosto<br />

il grottesco, la maschera, la caricatura di Momo, che è<br />

detto tutto.<br />

<strong>Il</strong> certo è che fu là, inatteso e inverosimile, piantato a<br />

metà circa della facciata della casa, le spalle appoggiate al<br />

muro, e che spianava un fucile. Questo si vide bene.<br />

Ma tutto, poi, succedette in un lampo, mille volte più<br />

lungo raccontare come si svolse, che il tempo in cui si svolse,<br />

che fra l’altro son da cucire, per ricomporre l’intera scena,<br />

brandelli isolati e dispersi dal resoconto dei testimoni.<br />

Tremava e sbavava tutto, fin dal suo primo apparire, ma<br />

intanto puntava il fucile, sembra accertato, in una direzione<br />

precisa, quella appunto donde se ne veniva, a braccetto con<br />

Giuanni Cinus, Raffieli Pòrcina. Anzi lanciò anche un grido,<br />

o piuttosto un latrato, all’indirizzo di lui, e non si era finito<br />

di sentire questo scramio, che già il colpo era partito, o meglio<br />

il doppio colpo: pàm pàm.<br />

Un po’ come nei passi, quando si spara al cinghiale.<br />

Prima è un molteplice ciangottamento di uccelli, cani che<br />

abbaiano, corni che suonano, voci che gridano, e lo stesso selvatico<br />

che schianta e che stronca. Ma al primo sparo tiene dietro<br />

un silenzio, magari brevissimo, che sembra sovrumano.<br />

Anche qui così. All’urlo di Momo, che tutti afferrarono,<br />

che nessuno capì, un urlo era seguito, clamore molteplice di<br />

tutti costoro che andavano prendendo posto sulle panche attorno<br />

ai tavoli: una specie di concorde-discorde levata di voci,<br />

come un volo di uccelli: «Oooohhhh».<br />

181


Gli spari si immersero, così si sarebbe detto, nel folto di<br />

questo volo di gridi. Senza tuttavia che niente, l’accorrere di<br />

qualcuno, il lancio di qualcosa, un sasso, uno sgabello, un oggetto<br />

qualsiasi, intervenisse a fermare il ragazzo.<br />

E sparati che furono i colpi, ecco anche qui prodursi<br />

quel silenzio, brevissimo e irreale, il mondo per un istante<br />

fatto di ghiaccio, che dicono sia, la glaciazione, fulminea, capace<br />

di sorprendere l’onda nel suo stesso arricciarsi, e così lasciarla,<br />

senza che possa più sfarsi. Lo stesso costoro. Solo che<br />

proprio un attimo prima, persone si urtarono e caddero, un<br />

tavolo si rovesciò con fragore, e ci fu quel trambusto.<br />

Ma un grido partì acutissimo, concomitante allo sparo.<br />

Un grido forsennato e femminile, solitario. Un chiodo che<br />

stride su un vetro, centomila chiodi su centomila vetri:<br />

«Nnnooo!».<br />

Nello schieramento dei primi, proprio cioè fra coloro<br />

che essendo a fianco e dietro Giuanni Cinus e Fieli Pòrcina,<br />

si trovavano più vicini a Momo e bersaglio del suo fucile, un<br />

vuoto di colpo si aperse, qualcuno cadde, la schiera arretrò,<br />

il terrore fece il resto. Tutti come nelle scene dei banditi,<br />

bocconi a terra: e non si sapeva chi morto e chi vivo.<br />

Due o tre, di quei primi, si vide confusamente, erano rotolati<br />

in avanti: non caduti, ma gettatisi a salvamento o traditi<br />

dal loro impeto. Ma uno intanto era proprio caduto abbattuto,<br />

giaceva infatti adesso di fianco scomposto, muoveva<br />

straccamente le braccia, le gambe, non dava un grido.<br />

E ecco, simile allo starnazzare di una gallina caduta di<br />

notte dal trespolo, la voce di un bastante, da lontano:<br />

«Ha ammazzato Raffieli Pòrcina!».<br />

Non era vero. Non era Raffieli Pòrcina che lo schioppo<br />

di Momo – cartucce a pallettoni, che usano per capi grossi –<br />

aveva atterrato. “Fa’ che non sia vero fa’ che non sia vero ti<br />

supplico tu puoi tu devi fare che non sia vero mio Dio devi<br />

farlo, se sei Dio!”. Mentalmente così gridava Pasqua, a denti<br />

stretti, rivolgendosi a Dio, perentoria ingiungendogli, più<br />

che supplicarlo, di fare che non fosse vero.<br />

Era caduta a sua volta, nel balzo che aveva fatto. E pressante<br />

atterrita incapace di muoversi continuava a gridare<br />

182<br />

dentro di sé: “Oh vi prego, ditemi chi è che è caduto, oppure<br />

no!, non lo dite, non voglio saperlo”.<br />

Ma “non” era Raffieli Pòrcina.<br />

All’apparire di Momo, giusto lei stava uscendo dalla cucina<br />

con la madre e Crisanta, recando la caldaietta degli gnocchi<br />

per cominciare a servire. Fulminea, mollato il manico del<br />

recipiente era schizzata in avanti come una freccia scoccata da<br />

una balestra. Da lei era partito, contemporaneamente allo<br />

sparo, il grande solitario inverosimile grido i chiodi sui vetri.<br />

Ma più rapida lei del grido. Un vento, più che una spinta,<br />

aveva investito alle spalle Raffieli Pòrcina nell’istante preciso<br />

che il colpo partiva. E il vento era lei, Pasqua Cinus, che aveva<br />

in un baleno intuito deciso e eseguito. Lei afferrava le onde<br />

del cervello di Momo seppe lei sola fra tanti lei unica quello<br />

che Momo sbucato da abissi veramente voleva stava per<br />

fare. E un solo pensiero fu in lei. E così quel pensiero si attuava<br />

rubava quel vento, d’un soffio giusto, il vero bersaglio<br />

dei pallettoni di Momo. Salvare Raffieli Pòrcina. Un pensiero<br />

non frutto di calcoli se io così ma lui allora, no. Neanche anzi<br />

un pensiero preciso, piuttosto un impulso istintivo toccarsi in<br />

un punto dove fa male strappare dal piede la spina del “baciapiede”<br />

stringere in tempo la palpebra perché non c’entri il<br />

bruscolino. E ora, rovinata nell’impeto per terra annichilita<br />

dallo sforzo e dalla violenza della caduta (conscia tuttavia che<br />

il suo scopo era stato raggiunto: salvare “lui”; verso di lui riversa<br />

ancora tendeva le braccia), si domandava non di meno<br />

chi altri mio Dio chi altri era caduto in sua vece. E follemente<br />

dubitando chi questo potesse essere, a Dio ai santi agli angeli<br />

e arcangeli e a ogni potenza celeste supplichevole a un<br />

tempo e furente si rivolgeva: vi scongiuro v’imploro vi comando<br />

di fare che non sia vero, o se è non parlate e ottenetemi<br />

di morire. Senza, tuttavia, ardire di muoversi e sincerarsi<br />

coi propri occhi.<br />

Colpito in pieno petto, una scarica doppia, Giuanni Cinus<br />

era crollato in avanti senza un grido né nulla, secco e leggero<br />

come un perastro schiantato dal fulmine.<br />

Non voce, grido o lamento. Solo quel gesto delle braccia<br />

levate in alto e deprecanti: Momo, figlio mio! Le quali ora,<br />

183


ovesciato egli bocconi, restavano vanamente protese in avanti,<br />

raspando appena, stancamente, il terreno.<br />

Quell’onda arricciata crollante ghiacciata in quel punto:<br />

là.<br />

Paradossali preziosi secondi – e nessuno che si scuotesse,<br />

facesse qualcosa, gridasse almeno – impiegati freneticamente<br />

da Momo per ricaricare il fucile.<br />

E di nuovo puntava.<br />

Si era accorto con folle lucidità, che Fieli Pòrcina era<br />

sfuggito ai suoi colpi. Ed era lui, invece, che voleva vedere<br />

abbattuto. E nient’altro che questo contava, ora.<br />

Lo scovava, difatti: occhi pungenti di pietra splendevano<br />

come diamanti.<br />

I colpi questa volta distinti: due colpi, due tempi.<br />

Liberarsi di ’Ntoni, prima, presto.<br />

Questi veniva infatti finalmente all’assalto, si era rotolato<br />

pur atterrito fin presso il padre, aveva capito che il vecchio<br />

era morente. E urlava scannato, ora, trattosi in piedi e<br />

scattato in avanti. Uccidere Momo, ucciderlo, è pazzo, pazzamente<br />

pensava. E così si slanciava, come un pazzo, contro<br />

il fratello. E Momo simmetrico pazzamente pensava disfarsi<br />

di ’Ntoni: pàm.<br />

’Ntoni si piegò, come avesse una fitta all’inguine, si torse<br />

curiosamente e crollò come un sacco rotolandosi infine a<br />

terra e così restituendosi di traverso accanto al padre.<br />

Sbarazzatosi di ’Ntoni, Momo aggiustò la mira, fra i<br />

corpi stesi, su Fieli Pòrcina, sapeva dove era.<br />

<strong>Il</strong> colpo partì, le sue mani forse non strinsero con sufficiente<br />

fermezza l’arma, e il calcio di questa, come già l’altra<br />

volta gli venne a sbattere violentemente contro la chiostra dei<br />

denti, secco e brutale come una mazzata. Svenne e non seppe<br />

più nulla.<br />

Accorrevano soltanto ora, finalmente riscossi, i soccorritori.<br />

E Momo, ormai già a terra, veniva aggredito, pestato,<br />

calcagnato selvaggiamente. «È indemoniato, è indemoniato»<br />

gridavano «è l’Inimico!».<br />

Ma Momo era sicuro, prima di perdere conoscenza, che<br />

il vero bersaglio questa volta non lo aveva mancato.<br />

184<br />

Senonché, ancora una volta – la seconda nello spazio di<br />

pochi minuti – una forza disperata si era intromessa fra la<br />

morte e Fieli Pòrcina. Ed era, come già prima, la prontezza di<br />

Pasqua Cinus.<br />

Forse il balzo che essa fece stavolta non fu neppure consapevolmente<br />

diretto a salvare la vita del giovane. Forse Pasqua<br />

cercò la morte sua stessa, resa folle da ciò che aveva, se<br />

non veduto, intuito.<br />

Sta di fatto che come vide essere l’arma nuovamente<br />

puntata da questa parte, riuscì a gettarsi con rapidità prodigiosa<br />

in avanti e di lato, un salto obliquo, finendo per ricadere<br />

a valanga sul dorso di Fieli Pòrcina.<br />

<strong>Il</strong> piombo, così, passò, ma lui non ne ebbe danno. Lei,<br />

gli era stata di schermo. Lei, ricevette per lui il colpo. In tal<br />

modo egli fu salvo.<br />

Quanto a lei, il proietto l’andò a colpire di striscio sul<br />

volto, proprio in corrispondenza del setto nasale e degli occhi.<br />

Sentì come dei denti d’arpione – le grinfie di ferro di<br />

una “mano di ferro” – arrivare sugli occhi e graffiare e stracciare.<br />

Poi anch’essa perdette i sensi e, precipitando nel buio,<br />

credette fosse giunto in quest’altra maniera anticipata e inattesa,<br />

l’abbraccio sconosciuto.<br />

I suoi occhi soltanto, invece, morirono, non lei. I morbidi<br />

miti tristi-ridenti occhi; quelli per i quali aveva detto una<br />

volta a Fieli Pòrcina: perché ho soltanto due occhi, se i miei<br />

occhi ti piacciono? Morirono.<br />

E anche quell’altra segreta vita, morì, che era in lei. L’essere<br />

che nell’occulto ancora fabbricava se stesso.<br />

Ecco dunque il bilancio complessivo di quell’annata, il<br />

giorno dell’inserro, sull’aia di Giuanni Cinus.<br />

Lui, Giuanni Cinus, freddato quasi di schianto dalla prima<br />

schioppettata di Momo. <strong>Il</strong> petto gli fu quasi squarciato. <strong>Il</strong><br />

sangue rigagnolò, il tempo che si rapprese, fin sulle pietre dell’aia,<br />

mescolandosi ai chicchi di grano che lui stesso vi aveva<br />

sparsi. Rovesciando i termini di una frase da lui detta a proposito<br />

del vino che sarebbe stato servito al banchetto, si vide<br />

che non vino come sangue fu versato quel giorno, ma sangue<br />

come vino, ché giusto era rosso e porporino, il sangue, come<br />

185


vino appena spillato. E l’impasto che si formò, fra il grano<br />

sparso sull’aia e quel sangue, sembrò simboleggiare in maniera<br />

struggente quel ch’era stato il rapporto fra l’uomo e il frutto<br />

del suo lavoro.<br />

Pasqua Cinus, sua figlia, rimasta per sempre cieca e, da<br />

quel giorno in avanti, immemore d’ogni cosa accaduta, ignara<br />

di sé e di tutti, ridotta a uno stato di ebetudine senza rimedio.<br />

(Solo in rare occasioni, nei giorni che verranno, accadrà<br />

che qualche nome, pronunziato in sua presenza, sveglierà<br />

come echi nelle anse del suo cervello e lei allora resterà per<br />

un poco sospesa, attenta, finché i fantasmi svaniranno e riprenderà<br />

la sua bocca scioccamente a sorridere).<br />

’Ntoni Cinus, il maschio primogenito, crudelmente sconciato,<br />

inetto a avere discendenza e paralizzato agli arti, e così<br />

destinato a andare con grucce di villaggio in villaggio, di festa<br />

in festa, a far numero con quei mendicanti mutilati o storpi<br />

che sostano nei crocicchi o presso le chiese invocando la pietà<br />

degli uomini.<br />

Mariangela Siddi, la moglie, caduta in uno stato di totale<br />

demenza, la quale sarà per esprimersi, nel tempo venturo, in<br />

freddi furori con strane grida, nomi di morti e di vivi, mani<br />

ogni tanto levate al cielo, o tuffate nei capelli, e occhi spiritati<br />

pieni di continuo spavento.<br />

Infine Momo Cinus, autore di tanto male, assassino incolpevole,<br />

ridotto ancor più tristo di quanto non già fosse,<br />

strappato ai suoi luoghi e portato lontano, nei tristi stabilimenti<br />

dove vivono altri suoi pari e dove passerà giorni tetri,<br />

lunghi, vuoti, privi di senso.<br />

Incolumi invece gli altri, quanti ve n’erano, ospiti e no.<br />

In primo luogo Raffieli Pòrcina, ospite per eccellenza, il quale<br />

non patì un solo graffio, come bene si addice a un ospite,<br />

la cui persona è sacra. E via via i bastanti, i giornalieri, le<br />

donne d’aiuto, tutti quelli che, testimoni del fatto, ne avrebbero<br />

poi rivelato i particolari e tramandato il ricordo. Essendo<br />

giusto che di un fatto così restassero quelli che videro; che<br />

se no si penserebbe: ma è vero? ma è possibile?<br />

E intatte, s’intende, e immagazzinate con cura quattromilaottocentodue<br />

quadre di buon frumento, dedotta come è<br />

186<br />

giusto dal computo quella quadra che Giuanni Cinus aveva<br />

disperso, chissà perché, sulle pietre dell’aia.<br />

Di questo <strong>raccolto</strong>, anche soltanto per le sue proporzioni,<br />

ancor oggi si parla, dalle parti di Serri, a ogni ritorno<br />

d’estate, non essendo fra l’altro accaduto mai più, dopo di<br />

allora, che in un’unica azienda si producesse una così strabocchevole<br />

quantità di grano. Al punto che esso, nel comune<br />

parlare, è passato in proverbio come “il <strong>raccolto</strong> di<br />

Giuanni Cinus”, a indicare una cosa fuor di misura e oggimai<br />

insuperabile.<br />

Anzi, di un tale “<strong>raccolto</strong> di Giuanni Cinus” e delle vicende<br />

che lo accompagnarono, hanno finito per impadronirsi<br />

i cantastorie, quelli che vanno – o almeno ancora andavano,<br />

fino a pochi anni fa – in giro per i villaggi a recitare i<br />

loro cantari e che laggiù, siccome raccontano le loro storie<br />

in versi e in rima, sono detti “poeti”.<br />

Non basta: alcuni di costoro, a quanto si è poi saputo,<br />

hanno anche escogitato di chiudere la descrizione del nascere<br />

crescere e maturare del grano di Giuanni Cinus e dei casi<br />

collaterali suoi e dei suoi congiunti, con una paragoge che,<br />

riferitaci, non dispiace a noi stessi, in mancanza di meglio,<br />

riportare qui di seguito nel chiudere a nostra volta la presente<br />

narrazione; la quale, se anche potrà sembrare meno “poetica”<br />

rispetto a quei modelli, sia almeno accreditata come altrettanto<br />

veridica.<br />

E le parole son queste, traducendo liberamente dal dettato<br />

originale.<br />

Essere la sorte degli uomini, il destino di certe vite, il<br />

perché delle cose che avvengono quando parrebbe giusto<br />

non avvenissero, o di quelle che non avvengono quando parrebbe<br />

giusto il contrario, uno degli enigmi insondabili (“muri<br />

senza passaggio”) dinanzi ai quali così di frequente s’imbatte<br />

la mente dell’uomo. Essere se mai di Dio (se mai si sappia,<br />

di Dio, chi o che cosa veramente egli sia), interpretare rettamente,<br />

secondo una speciale presumibile misura sua (una<br />

“quadra” nota a lui solo) ignota a chiunque altro, tutto quello<br />

che accade, con esatta nozione di cause e di fini.<br />

187


Essere, quello di Dio, un lavoro paragonabile alla parte<br />

che ha il vento nella ventilazione del grano: separare il grano<br />

dalla paglia, l’utile dall’inutile, il buono dal cattivo; ma lasciando<br />

soltanto a lui, per l’inadeguatezza del nostro giudizio,<br />

stabilire quello che è grano e quello che è paglia; in quanto<br />

che, se diversamente ci regolassimo, finiremmo il più delle<br />

volte per mettere sotto processo lo stesso Dio e concludere<br />

che la vita non è già un dono, ma un mistero insolubile e,<br />

francamente, una trappola assurda.<br />

Avvenire, in conclusione, che le cose che succedono rappresentano<br />

i punti, le gugliate, le trame, di una tela senza fine<br />

che continuamente si tesse. Con questo, tuttavia: che l’uomo,<br />

per sua sorte, sta sotto al telaio, e vede perciò e giudica quello<br />

soltanto che di sotto si vede, cioè un guazzabuglio di fili di<br />

nodi e di colori. Mentre solo il tessitore, è pensabile (ché se<br />

no non c’è salvezza) sa e sceglie e opera, e capisce l’ordito.<br />

Né egli potrebbe a ogni momento fermarsi e mostrare a<br />

chi sta sotto come stanno le cose, giacché troppo lungo e<br />

complicato sarebbe questo e, d’altra parte, troppo egli ha sempre<br />

e senza tregua da tessere.<br />

188


INDICE<br />

5 Nota introduttiva<br />

9 L’aratura<br />

24 La semina<br />

32 Le piogge<br />

45 <strong>Il</strong> verde sulla collina<br />

58 I denti dell’erpice<br />

70 I papaveri<br />

87 <strong>Il</strong> grano in fiore<br />

103 Spighe<br />

117 La messe<br />

129 Le falci<br />

142 La battitura<br />

152 <strong>Il</strong> capanno sull’aia<br />

165 Vento per ventilare<br />

171 Le quadre colme


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<strong>Cultura</strong> e Scrittura di un’Isola<br />

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