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Scrittori di <strong>Sardegna</strong><br />
21
Stampa: Lito Terrazzi, Firenze, novembre 2003<br />
Riedizione dell’opera:<br />
<strong>Il</strong> <strong>raccolto</strong>, Milano, Leader, 1969<br />
Periodico settimanale n. 21<br />
del 24-12-2003<br />
Direttore responsabile: Giovanna Fois<br />
Reg. Trib. di Nuoro n. 1 del 16-05-2003<br />
© Copyright 2003<br />
<strong>Il</strong>isso Edizioni - Nuoro<br />
www.ilisso.it - e-mail ilisso@ilisso.it<br />
ISBN 88-87825-82-3<br />
Paride Rombi<br />
IL RACCOLTO<br />
nota introduttiva di Cristina Lavinio
NOTA INTRODUTTIVA<br />
<strong>Il</strong> <strong>raccolto</strong>, pubblicato nel 1969 dalla Leader di Milano,<br />
era stranamente uscito prima (nel 1965) in traduzione<br />
tedesca. Passato ingiustamente quasi inosservato, avrebbe<br />
invece meritato perlomeno il medesimo successo di Perdu, il<br />
romanzo con cui Paride Rombi vinse il primo “Premio Deledda”<br />
nel 1952. L’intero ciclo del grano, dall’aratura e la<br />
semina fino alla sarchiatura e alla trebbiatura, la fatica e<br />
l’incertezza del lavoro contadino, condizionato nei suoi risultati<br />
dai capricci del tempo e delle stagioni, sono al centro<br />
di questo romanzo. Scandito dai ritmi del lavoro contadino<br />
tradizionale, il racconto è ambientato in uno spazio apparentemente<br />
reale e descritto con grande precisione etnografica:<br />
siamo a Serri e dintorni, in una zona centrale e povera<br />
della <strong>Sardegna</strong>. Con un linguaggio molto preciso e accurato,<br />
ricco di tecnicismi, il narratore si sofferma a illustrare, oltre<br />
che fasi e momenti del lavoro nei campi, anche modi di vivere<br />
e pratiche sociali che vanno dalla lavorazione del pane<br />
alle sagre e feste, con il ballo tondo e i costumi tradizionali.<br />
Ma ogni elemento realistico assume anche un valore simbolico<br />
e metaforico. <strong>Il</strong> racconto finisce per istituire infatti un<br />
implicito ma strettissimo parallelismo tra i ritmi del ciclo del<br />
grano e la vicenda di Giuanni Cinus e di sua figlia Pasqua,<br />
ragazza sedicenne sedotta, “(in)seminata” e poi trascurata<br />
dal giovane padrone Fieli Pòrcina. Alla fine, il <strong>raccolto</strong> di<br />
Giuanni Cinus sarà memorabile per la grande quantità di<br />
grano prodotto, tanto da diventare leggendario nei racconti<br />
dei cantastorie, ma coinciderà con il “<strong>raccolto</strong>” drammatico e<br />
sanguinoso con cui si concluderà la vicenda di Pasqua.<br />
I personaggi, inoltre, possiedono fin dall’inizio un che<br />
di visionario. Giuanni Cinus, diventato inaspettatamente,<br />
da povero bracciante agricolo, fittavolo della tenuta dei<br />
5
Pòrcina, già nelle prime pagine del romanzo, in una giornata<br />
novembrina, ha una «specie di “visione”» che poi continuerà<br />
a ricordare: «un’“imbriacata”, … così lui stesso diceva,<br />
frutto del sole che lo stordiva e della stanchezza che gli spezzava<br />
le ossa». È la visione di uno straordinario e felice esito<br />
del suo lavoro, secondato da piogge e venti favorevoli nelle<br />
fasi più delicate e con tanto, tantissimo grano da festeggiare<br />
con il banchetto tradizionale nel giorno dell’inserro. Ma nella<br />
visione di Giuanni Cinus, che puntualmente si avvererà,<br />
manca la dimensione drammatica che accompagnerà il suo<br />
“<strong>raccolto</strong>”: solo il lettore, col senno di poi, potrà coglierne<br />
qualche segnale premonitore sia nell’accenno alla dinìa, al<br />
fato, sia nell’improvviso apparire di Pasqua che chiama il<br />
padre «alla disperata», da lontano, svegliandolo dal sogno ad<br />
occhi aperti. Si potrebbe ricordare che anche in Perdu, nel<br />
sogno iniziale del bambino, che vede e sente bestie feroci, e il<br />
nonno tra queste, che fanno del male a sua madre, c’è già la<br />
chiave anticipatrice e premonitrice rispetto all’intera vicenda.<br />
In questo secondo romanzo però visioni e fantasie dei due<br />
personaggi principali sono ben lontane dall’esaurirsi in alcune<br />
pagine emblematiche: attraversano costantemente i loro<br />
pensieri, ne determinano un che di svagato e distratto, in un<br />
agire che, soprattutto in Pasqua, appare spesso come il risultato<br />
di uno stato alterato di non totale presenza a se stessi.<br />
Emblematica in questo senso è la lunga descrizione narrativizzata<br />
del ballo tondo. Le fasi del ballo sono osservate prima<br />
dall’esterno, da sotto il palco, dalla ragazza sconvolta per<br />
l’incontro inatteso con Fieli Pòrcina. Ma poi la descrizione<br />
procede in modo via via più coinvolto e interno al ballo stesso,<br />
dato che Pasqua, come in trance, sale sul palco, balla e<br />
non riconosce in Fieli il ballerino con cui si esibisce in un<br />
duetto. <strong>Il</strong> ritmo incalzante assunto dalla descrizione finisce<br />
per corrispondere a quello del ballo stesso, vibrante e passionale,<br />
al di là dell’apparente immobilismo delle posture contraddetto<br />
dal movimento velocissimo e abilissimo dei piedi<br />
dei ballerini. Le fasi del ballo tondo, che mai era stato descritto<br />
con altrettanta precisione ed efficacia, sono illustrate<br />
6<br />
in tutta la loro metaforicità di avances, corteggiamento, seduzione<br />
e coinvolgimento amoroso, oltre che nell’intreccio di<br />
amore e morte cui sembrano alludere. Solo che poi, per Pasqua<br />
che balla, tali simboli si traducono in realtà, e il suo<br />
ballo culmina nella promessa della donazione totale di sé a<br />
un partner in cui lei vede con l’immaginazione il suo Fieli,<br />
senza accorgersi che proprio con Fieli sta ballando.<br />
In una scrittura letterariamente raffinata e insieme capace<br />
di aderire credibilmente allo sguardo e/o alla voce dei<br />
personaggi, ricorrendo a una lingua che non rifugge né dagli<br />
inserti dialettali, né da espressioni colte e talvolta auliche, il<br />
romanzo è ben lungi dal trattare in modo convenzionale sia<br />
la storia narrata sia l’ambiente in cui essa si sviluppa. È un<br />
ambiente sardo cui il narratore/autore guarda con distacco<br />
spaziale e insieme con adesione emozionale (non a caso dice<br />
spesso laggiù da noi dato che, quando scrive il romanzo,<br />
Rombi non vive più da tempo nell’Isola); è un mondo che<br />
l’autore conosce bene e che risulta reinventato da tale conoscenza<br />
diretta, sfuggendo così ai luoghi comuni che spesso,<br />
nella stessa narrativa prodotta in <strong>Sardegna</strong>, sono rimbalzati<br />
da una pagina letteraria all’altra nel trattarne; ed è un<br />
mondo che, nel contempo, è attraversato dalla vocazione modernamente<br />
visionaria di Paride Rombi. Un autore tutto da<br />
riscoprire e da includere con il debito rilievo nel novero dei<br />
migliori tra gli scrittori nati in <strong>Sardegna</strong> e che alla <strong>Sardegna</strong><br />
hanno guardato per ambientarvi la propria narrativa.<br />
7<br />
Cristina Lavinio
I<br />
L’ARATURA<br />
L’anno incomincia a settembre, laggiù da noi. Apposta<br />
questo mese si chiama, laggiù, “capodanno”.<br />
A agosto si volta. La terra si è riposata, sgranchita, crogiolata<br />
ben bene al sole; si è tanto conceduta alle dolcezze<br />
dell’ozio, che crepe si sono aperte nella sua pelle, come piaghe,<br />
malattia appunto da gente impigrita e viziosa. È venuto<br />
il momento di toccarla di fuoco e di ferro, e farle passare<br />
il sonno.<br />
Anzitutto infatti si va sulla terra col fuoco. Purificare,<br />
incenerire. Le stoppie avanzate dall’anno scorso, scampate<br />
alla fame dei buoi, degli asini, delle pecore e di quanti animali<br />
sono stati lasciati – dopo i lunghi divieti – entrare nei<br />
coltivi, distrutte col fuoco, ché fra l’altro la cenere ingrassa<br />
il campo e non costa una lira, tolto giusto la fatica occorrente,<br />
che del resto è leggera.<br />
Conoscete i debbi. <strong>Il</strong> contadino entra nei campi e distribuisce<br />
qua e là, con una spina infiammata, nidi di fuoco.<br />
A caso li distribuisce, servendosi di quella torcia come farebbe<br />
un piromane. Poi sta lì, a osservare il risultato, mentre<br />
la fiamma cova se stessa fra palle di fumo. Poi, quando dal<br />
nido lingue di fuoco s’alzano vittoriose come piume di gallo,<br />
corre a crearne altri, di questi nidi, attingendo dai primi<br />
altro fuoco, e ne scruta allo stesso modo la covata. Finché le<br />
fiamme si apprendono, dandosi la mano da nido a nido, e<br />
si forma tutta una fronte uniforme di fuoco. Allora il contadino<br />
corre a munirsi di bastone o tridente. Ma non succede<br />
come nei falò, o negli incendi di boschi o fienili, che, tutt’a<br />
un tratto, il fuoco divampa e si fa subito grande e ruggisce.<br />
Qui no, non gonfia né cresce; avanza a passettini e saltelli,<br />
lecca le stoppie quasi di soppiatto e le mangia un ciuffo alla<br />
volta, come un animale che bruca. E difatti si sente un rumore<br />
crosciante continuo, come di vasto masticamento.<br />
9
Ma una volta investite dalle piccole innumerevoli alacri<br />
lingue, lo stesso le stoppie si sentono senza rimedio perdute:<br />
sussultano e si torcono come dita disperate, poi subito si flettono,<br />
rassegnate al disastro, dopo il truce breve terrore. E il<br />
fuoco avanza, sempre subdolo e insidioso, continuando l’opera<br />
sua. E bisogna sorvegliarlo perché non straripi e pascoli in<br />
luogo proibito, la macchia o il fondo del vicino. E proprio<br />
per questo il contadino gli è sempre addosso col suo bastone,<br />
lo batte, gli taglia il passo, lo vigila e lo governa come fa il<br />
mastino col gregge, che va di là e viene qua, sempre in moto,<br />
attento a ogni scappata.<br />
Finché, finito che sia, la terra universa è nera, purificata,<br />
monda. Così che è pronta per l’aratura. Capodanno.<br />
Questo podere di Serri, sulla strada per Tula, anch’esso<br />
aveva patito questo, tosto che fu capodanno. A opera del nuovo<br />
fittavolo, di nome Giovanni Cinus (Giuanni Cinus, secondo<br />
la nostra parlata) arrivato qui il mese scorso, al quindici di<br />
agosto, quando si “volta”.<br />
Marito moglie e tre figli. E due cani, Lampu e Tronu,<br />
più le poche masserizie. Mentre il resto: la casa l’arredo il<br />
pozzo un terzo cane le bestie da lavoro il “bastante” e insomma<br />
tutto, eccettuatane l’aria che è del Signore Iddio,<br />
era proprietà dello stesso padrone del fondo, Nanni Pòrcina,<br />
anche se in legge intestato al figlio di lui, Raffaele Pòrcina,<br />
del quale presentemente non si sapeva, siccome partito<br />
in guerra, se fosse vivo o morto.<br />
<strong>Il</strong> podere di Serri – la “tenuta”, com’era detta – compare<br />
Pòrcina l’aveva avuta attraverso i suoi ascendenti dalla<br />
dissoluzione dei feudi, era terra che un tempo era appartenuta<br />
ai baroni Amat, ancora ne restava lo stemma sull’arco<br />
del cancello della corte, “Quos Deus amat” diceva la scritta,<br />
a chi riusciva a decifrarla. E lo stemma era rappresentato da<br />
uno scudo, attraversato per sbieco da doppia banda, con<br />
sovrammessa una testa mozzata, o barbuta che fosse, dalla<br />
quale si partiva uno zampillo di gale. Quos Deus amat,<br />
quelli che Dio ama, e beati loro.<br />
Per questo la casa è grande, alta sulla collina, circondata<br />
da lecci: una villa-masseria costruita per gente di rango. Declassata<br />
oggi, s’intende, nel trapasso all’ereditario dei Pòrcina<br />
10<br />
e in grazia della gestione dei fittavoli sin qui succedutisi nel<br />
possesso, alla pura funzione di masseria. Senza più, cioè, il<br />
belletto di un tempo. Offesa dallo scadimento dei muri, dall’impiego<br />
irrazionale dei vani, dall’addossamento all’esterno,<br />
a guisa di empiastri, di baracchette e gabbioni. E deturpata<br />
per sopraggiunta da barbacani pioli e corni, per appendervi<br />
ogni sorta di oggetti di vista iniqua, come canestri pale da<br />
forno sacchi brache disfatte ciarpame. Tre generazioni di<br />
Pòrcina e non so quante mani per cui è passata nel frattempo<br />
sono bastate a questo.<br />
Eppure è ancora bella, così solitaria sull’altura, e inattesa,<br />
in mezzo a tanta desolazione. Perché la strada per Tula<br />
rasenta sì la tenuta, ma si tiene lontana dalla fattoria, né si<br />
scorgono intorno, per largo giro, altre costruzioni alzate dalla<br />
mano dell’uomo, se ne togli i muretti nuragici (tre mila<br />
anni) e quello che resta, un rovinio, di un nuraghe vero e<br />
proprio, del resto discosto almeno un miglio dalla fattoria,<br />
nella direzione del mare. E solo a due ore di strada s’incontra<br />
l’imbrancamento delle poche case di Serri, strette come<br />
funghi alla ceppaia attorno alla piccola chiesa.<br />
E ora ci sono i Cinus, al posto di quelli che Dio amava.<br />
Gente non proprio di qui, ma venuta da Baronia, un paese<br />
un po’ più a monte e a levante, nello stesso mandamento.<br />
Una famiglia un po’ sghemba, a dire il vero. Lui, il capo<br />
famiglia, ossuto storto e piccolotto, che sembra non essere<br />
mai bene a piombo, né in piedi né seduto, eppure ben saldo<br />
e forte, un perastro di monte, subito ti accorgi che il legno è<br />
quello. La moglie, Mariangela Siddi, rudere di una passata<br />
bellezza, intozzata dall’età, dai parti e dalle fatiche, e rimasta<br />
alla giovinezza soltanto negli occhi, che non son voluti invecchiare.<br />
Poi la figlia primogenita, Pasqua, sedici anni, che ricrea<br />
quel che la madre dovette essere all’età sua, un’arancia di<br />
Baronia. Poi ancora il secondo figlio, ’Ntoni, quattordici anni,<br />
lungo e chiodo, tale che sembra uno che è spaventato lui<br />
stesso di quanto è cresciuto. E infine il terzo, Dio ne scampi,<br />
che ti mette sgomento a vederlo. Un uomo, quello? Ha corpo<br />
d’uomo, certo, ma pare aver preso, quanto alla testa, da<br />
Lampu e Tronu, i due cani da guardia. Un cinocefalo, come<br />
si dice. Ricorda un po’ quelle figure di dei dell’antico Egitto,<br />
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terminanti su in alto con una testa di sciacallo. E sannuto<br />
mugolante e sbavante, come proprio è del cane. E, come ti<br />
accorgi che gli è abituale, intento a affondare i denti nel polso<br />
destro che difatti, del tanto mordere, reca l’impronta nell’osso.<br />
Dinanzi a una creatura di questa fatta, che pensavi se ne<br />
parlasse soltanto nei libri, anche uno dal cuore gagliardo può<br />
restare interdetto, e fare che si domandi per quale ventura o<br />
gioco o “scherzo” – come appunto suol dirsi, che è davvero la<br />
parola adatta: una bella allegria – abbia la natura condotto le<br />
cose in modo che nell’occulto di un grembo di donna questo<br />
si sia prodotto, e sia maturato e venuto alla luce.<br />
Costoro, dunque, al posto di quelli che avevano dalla<br />
loro la predilezione di Dio.<br />
Questo di venire fittavolo a Serri era stato per Giuanni<br />
Cinus un po’ come vincere un terno al lotto, per come il<br />
fatto era successo.<br />
Capita un giorno compare Pòrcina in Baronia, ché anche<br />
là lui ha terreni e case e bestie. È padrone di mezzo<br />
mondo, lui; metà del paese, si può dire, è sua. E niente di<br />
strano che intoppi in Giuanni Cinus, e che si intrattenga<br />
con lui a parlare, come va e come non va. Non per nulla ha<br />
battezzato a suo tempo – e quale degnazione fu quella – la<br />
primogenita Cinus, Pasqua nostra, la quale difatti ritiene del<br />
privilegio di un tale padrino una certa punta di orgoglio.<br />
Ma quel giorno, evidentemente, nelle fattezze di Nanni<br />
Pòrcina, si è incarnato Nostro Signore. La sorte di Giuanni<br />
Cinus, bracciante di Baronia, si gioca in questo incontro.<br />
«Compare, mi è venuta un’idea» dice Nanni Pòrcina<br />
dopo i convenevoli d’uso. «Ho da farvi una proposta».<br />
«Dite, dite pure, compare» corrisponde Giuanni Cinus<br />
con l’abituale sottomissione. Si è, come si conviene parlando<br />
a uno che sta più in alto, cavato il cappello e se lo rigira<br />
fra le mani e si fa vento, per non sapere che altro fare. È luglio,<br />
d’altronde, è caldo. Sta’ a vedere – intanto pensa – che<br />
il compare gli propone un ingaggio a battere grano in qualche<br />
suo podere.<br />
«Ho» dice Nanni Pòrcina «quel terreno di Serri, sulla<br />
strada di Tula, sapete, la tenuta».<br />
12<br />
«So, so» ribatte lui «la conosco». E annuisce col capo<br />
che sembra che faccia ripetuti inchini. Capito: è là che si<br />
tratta di andare a battere grano. Ma ben venga: di fronte a<br />
uno che ti offre lavoro e pane, che hai da dirgli: no, passo?<br />
«Appartiene, è vero» prosegue compare Pòrcina «a mio<br />
figlio Raffaele, l’avete presente. Cosa volete, il nonno, morendo,<br />
ha deciso così. Ma è soldato, la guerra è finita e lui<br />
non torna. E, dopo tutto, posso certo disporre io, quello che<br />
è bene».<br />
E chi lo discute? Altro che, se può disporre lui. Non<br />
sarà il pronto, che gli manca, o il piglio del comando. Alto<br />
della persona, forte e ben piantato sulle gambe fasciate da<br />
gambali di cuoio, fronteggia Giuanni Cinus tapino tapino<br />
che, anche fisicamente, se ne sente soggiogato.<br />
«Certo, compare, certo» assevera. Rende senza difficoltà<br />
al potente la sua umile testimonianza servile. Ma, «Voglia di<br />
lavorare ne avete?» lo interpella bruscamente Nanni Pòrcina.<br />
Voglia di lavorare? Discorsi! Voglia di levarmi la fame,<br />
dovete dire, compare. E dice, tormentando il cappello:<br />
«Me lo chiedete?».<br />
«Avviene» dice l’altro pigliandola un po’ alla lontana<br />
«che col quindici agosto scade l’affitto con ’Eppi Trastus,<br />
per la tenuta di Serri. Non voglio ridargliela, abbiamo avuto<br />
questioni».<br />
’Eppi Trastus, sicuro, ma lui che c’entra?, dice a se stesso.<br />
Ma a voce alta dice soltanto:<br />
«Ah!».<br />
Ora però non è più fermo, impalato, dinanzi al compare.<br />
Gli formicolano i piedi. Dove va questo discorso? Un ingaggio,<br />
era quello che lui sperava, non più di questo.<br />
«Poco fa mi è venuta l’idea, vedendovi,» proferisce l’altro,<br />
ed è appunto in questo momento che Nanni Pòrcina si<br />
tramuta in Domine Dio «di darla a voi, la tenuta».<br />
Irrigidito di colpo, un’altra volta. <strong>Il</strong> cappello non ruota<br />
più.<br />
«La tenuta di Serri?» domanda che pare singhiozzi.<br />
E, sempre in figura di Nanni Pòrcina, Iddio Nostro Signore<br />
dice in parole umane:<br />
«Solo che volete è vostra».<br />
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Dopo di che, cessato di essere il guscio dell’Altissimo e<br />
ridiventato Nanni Pòrcina, il compare aggiunge: «Ma vi avverto,<br />
compare Cinus: voglia di lavorare. Serri è grande. Ve<br />
la sentite?».<br />
Grande è davvero, ora lo sa: più di centocinquanta quadre<br />
di terra solo i coltivi, hai voglia a aver voglia di lavorare.<br />
E i patti: «Compare, inutile che qui giochiamo a gatto<br />
e topo. Le condizioni le sapete: quello che viene a voi, quello<br />
vi do, e niente altro; e quello che viene a me, quello voglio.<br />
Per il resto vi dico: arrangiatevi, e che Dio vi assista».<br />
Sapeva, sì, certo, le condizioni del dare e del prendere,<br />
da parte di Nanni Pòrcina. E non c’era da sperare in altri<br />
aiuti: prestiti, acconti, abbuoni. Niente. O prendere o lasciare.<br />
E, scelto che avesse di prendere, questo mare di terra<br />
da mettere a seme, che era cosa da sperdersi: gesummaria<br />
quanta ce n’era.<br />
Ma poteva lasciare? Da quando era nato, che terra aveva<br />
mai posseduto? <strong>Il</strong> tanto da contenere i suoi piedi, ecco<br />
l’eredità che gli aveva lasciato suo padre. Lavorare terra,<br />
questo sì. Arare zappare rivoltare terra e lasciarci l’anima,<br />
insieme col sudore, a impregnarla: questo sì. Ma sempre<br />
terra d’altri, “aliena”, non mai roba sua propria, quando<br />
mai? E neppure roba che possedesse come affittuario e<br />
massaio, che è già in qualche modo essere padrone, almeno<br />
a metà. No, sempre e soltanto giornaliere, lui era stato. Perciò,<br />
che venga uno e gli dica: “Vuoi essere massaio?”, questa,<br />
se non è beffa, è cosa miracolosa, altro che stare a discutere<br />
se prendere o lasciare.<br />
Così ragionava fra sé, ora, mentre ispezionava il possesso.<br />
Si fermava appositamente e batteva col tacco il terreno.<br />
E non tanto per saggiarne la compattezza – del resto evidente,<br />
dopo mesi di secco – quanto per convincersi proprio<br />
di questo: che veramente, su quella terra lì, lui era massaio,<br />
non già uomo a giornata.<br />
Ma subito lo riprendeva lo scoramento. Misurava il perimetro<br />
con gli occhi. Cristo, era proprio tanta, un’estensione<br />
da impazzire. E chi l’avrebbe aiutato a lavorarla? ’Ntoni,<br />
forse? O Jeremia? Sul “bastante”, di nome appunto Jeremia,<br />
14<br />
non si poteva contare, dovendo costui badare alle pecore e<br />
stare lontano, verso Tula o, come lui diceva, “in parte di sole”,<br />
dov’era l’ovile.<br />
Non c’era santi, non restava che lui. Si palpava istintivamente<br />
le punte degli omeri, la mano destra sulla spalla sinistra<br />
e viceversa. Spalle mie, coraggio, sarete voi i miei “bastanti”.<br />
E metteva un puntiglio quasi feroce nel giurare che sì, a<br />
costo di schiantarsi, doveva farcela. Era il suo anno fatato,<br />
questo: o questa volta o mai più. Pensava ai giorni di Baronia,<br />
da bracciante, a aspettare un lavoro saltuario, incerto e<br />
sempre provvisorio. E nell’attesa sbadigliare, cascare, come si<br />
dice da noi, che certo non è il sonno a aprirti le barre. Che<br />
sonno? Fame, è. E viceversa, ora, ringraziandone Dio, lavoro<br />
non gliene sarebbe mancato di certo, bastava guardarsi intorno.<br />
Ebbene? E allora sotto, dài, non c’era da aspettare.<br />
Fu poi in una giornata novembrina, nel corso dell’aratura,<br />
che egli ebbe quella specie di “visione” che così assiduamente,<br />
dopo, avrebbe ricordata e che, quando più tardi ne<br />
accennò con qualcuno senza aver l’aria di prendere la cosa<br />
troppo sul serio, fece correre voce che quel giorno lui era stato<br />
“cantato” dalle yanas, le piccole capricciose ciane volanti<br />
delle campagne, fate e streghe a un tempo, capaci di conoscere<br />
il futuro e condizionare il destino degli uomini.<br />
Ma fu soltanto un sogno a occhi aperti, mentre era giù<br />
che penava a arare. Un’“imbriacata”, appunto, così lui stesso<br />
diceva, frutto del sole che lo stordiva e della stanchezza che<br />
gli spezzava le ossa, e del resto va’ un po’ a capirli, i pensieri,<br />
come vengono e chi li manda, si hanno e basta.<br />
Arava da “capodanno”, che è come dire era pazzo. Dopo<br />
i debbi che si son ricordati, aveva pigliato e cominciato<br />
a arare.<br />
Lavoro cane. Dura a frangersi come macigno era la terra,<br />
fenduta da innumerevoli crepe, a causa della lunga siccità. Ma<br />
lui, più duro ancora, dentro col ferro. Pazzo da legare, certo, a<br />
giudizio di qualsiasi uomo assennato. Ma che importa? Lui<br />
arava. E avanti per tutto settembre, e ottobre, e questa prima<br />
decade di novembre: ché infatti già cominciava la terza luna.<br />
15
Era ostinazione e rabbia. Una specie di sfida ch’egli lanciava<br />
a Nanni Pòrcina, a se stesso, alla malasorte che lo aveva<br />
sin qui accompagnato, insomma a tutto e tutti, perfino<br />
a questa porca di terra su cui penava e che suscitava in lui –<br />
lui stesso avrebbe trovato difficile spiegarlo – uno strano<br />
sentire: come un odio che si esaltasse fino all’amore, o un<br />
amore che avesse la forza e il sapore acre dell’odio.<br />
E aveva soprassalti di cupo orgoglio, in questo atteggiamento<br />
di contrapposizione e di sfida. Dite che non ce la<br />
farò, compare Pòrcina riverito? E proviamo a scommettere,<br />
forza. Volete scommettere, eh? Quello che volete, io sono<br />
pronto. Eh, voi non mi conoscete, non sapete chi sono. Ma<br />
io mi sento capace di spezzare il ferro coi denti, rompere le<br />
pietre a testate, sderenare un bue, con rispetto parlando,<br />
compare mio, al servizio e piacere vostro e della vostra casata.<br />
E ve lo proverò.<br />
Ma non è vero che sia così. Mitizza se stesso per incitarsi.<br />
Per forte che sia, gli circola pur sempre nelle vene quel<br />
sangue gramo che innumerevoli generazioni sconfitte, abbrutite<br />
dalla fatica e insidiate da antichi mali, la malaria, le<br />
privazioni, la fame, gli hanno trasmesso. Solo il “punto” lo<br />
tiene su, questa brama che si è impossessata di lui come una<br />
febbre, da quando gli hanno detto che sarebbe stato massaio,<br />
fittavolo a Serri.<br />
Fatto sta che è così che gli capita – ara che ara – di fare<br />
quel tale sogno della prima metà di novembre.<br />
Faticava quel giorno, come da mesi, in quel suo lavoro<br />
silenzioso e paziente. Arava adesso la parte della collina che<br />
degrada verso la strada per Tula, fino allo scoscendimento<br />
che chiamano “Le fosse”.<br />
Mezzo dorso di questa collina era già arato, quando il<br />
sole riuscì finalmente a liberarsi dal viluppo di nuvole che<br />
sostavano nel levante e venne fuori e illuminò vividamente<br />
la campagna, tolte alcune chiazze d’ombra che ancora restavano<br />
qua e là.<br />
Giusto quando ci fu questa irruzione della luce lui si<br />
fermò, tirando le funi di comando per fermare anche i buoi.<br />
Allora si eresse sulla persona schiacciando i pugni contro le<br />
16<br />
reni, e a occhi chiusi levò la faccia verso il sole, mentre i<br />
buoi, scuotendo le cervici, facevano che il giogo oscillasse<br />
come l’asse di una stadera.<br />
Si volse quindi a considerare il lavoro compiuto e quello<br />
ancora da compiere, intanto che con una larga pezzuola<br />
rossa si asciugava il sudore. Le ombre delle nuvole parevano<br />
concentrarsi nella parte non dissodata, mentre la parte già<br />
arata era quasi tutta nel sole, e il sole scintillava sulle zolle<br />
umide e brune, le faceva somigliare a quei coppi di paglia e<br />
fango che si fabbricano laggiù e che, dopo fatti, si mettono<br />
appunto a asciugare al sole.<br />
Continuando a strofinarsi il fazzoletto sul collo e sul viso,<br />
seguiva assorto le ombre delle nuvole. Un gruppo indugiava<br />
sulla siepe di canne lungo l’estrema bassura, come impigliate<br />
nel loro intrico; e una ancora, isolata e immobile,<br />
aduggiava la grande quercia al margine del sentiero, anche<br />
essa come frenata dalle fronde venerande. Ma le altre scorrevano<br />
libere, agili, scivolavano via sulla terra con leggerezza,<br />
agevolmente superavano alture, gobbe, muretti, mucchi<br />
di sassi, perdendosi infine oltre la selva sulle colline a levante.<br />
Cose leggere trascorrenti e silenziose: come i pensieri.<br />
Tratto forse da questo spettacolo, sollevò gli occhi al cielo<br />
a osservare le nuvole di cui le ombre erano la proiezione. Ve<br />
n’erano che, ferme sulla linea dell’orizzonte sporgevano in alto<br />
i musi arrotondati, come prode di mondi celesti rocciosi e<br />
morbidi, con intervalli di vuoti e di golfi sereni. E altre che,<br />
simili a bioccoli o interi velli di lana appena tosata, galleggiavano<br />
pigre dentro l’azzurro, spostandosi verso scirocco.<br />
Ma, scarsamente commosso dalla parte estetica e scenica<br />
di ciò che vedeva, considerava piuttosto che, così com’erano,<br />
le nuvole non promettevano pioggia, solo indicavano la direzione<br />
del vento, del resto fiacco, che le portava.<br />
“E fermatevi, figlie di cane” imprecava mentalmente “e<br />
sgravatevi, che Dio vi fulmini”.<br />
Pensava alla durezza che la terra opponeva al lavoro dell’aratro<br />
e al doppio di fatica che questo gli costava. E sfido,<br />
da quand’è che non pioveva? Da marzo, salute a noi. A che<br />
demonio servivano mai le nuvole, se non si scioglievano in<br />
pioggia?<br />
17
Ma peste se quelle erano nuvole da acqua. Soffici, candide,<br />
ben sprimacciate e leggere, dondolavano nel cielo per<br />
pura bella vista, sterili più che vesciche piene di vento. Poteva<br />
piangere in greco, che non si sarebbero sciolte.<br />
Allora il suo pensiero si spingeva più in alto, oltre le nuvole<br />
e l’azzurro, arrivava fino ai confini superni, invisibili,<br />
dove abita Dio. E bussava, implorava. Ma non con mansuetudine,<br />
sì invece con un che di protervo e di irato, pur nell’invocazione.<br />
Fa’ che piova, Dio, fa’ questa grazia. È novembre,<br />
ormai, te lo ricordi? O ti sei addormentato? E serrava le<br />
mascelle, digrignava i denti, all’idea che non ci fosse maniera<br />
di rompere il sonno nella testa di Dio. Oh, dico a te, oh,<br />
gli gridava, in un impeto di rabbia muta e impotente.<br />
Niente. Non era niente. Bisognava rassegnarsi e andare<br />
avanti.<br />
Rimise la pezzuola intorno al collo, l’annodò, si sputò nelle<br />
mani, dette una voce ai buoi e riprese a pigiare sulla stiva.<br />
Nell’atto che i buoi piegarono concordemente il capo e<br />
tesero i garretti, l’aratro sentì lo strappo, il vomere si immerse<br />
come un coltello nel vivo della terra e la fendeva e la rivoltava,<br />
la terra scivolava dentro la parte convessa del ferro,<br />
il quale nel tagliarla la sollecitava uniformemente dal basso,<br />
dopo di che la rovesciava, allora la terra si spezzettava in tante<br />
zolle e queste prendevano quell’aspetto di embrici, e la loro<br />
convessità superiore, modellata dal vomere, era liscia liscia.<br />
<strong>Il</strong> vomere intanto passava oltre e, nel rompere così la<br />
terra, balenava come argento, levando nel contempo un rumore<br />
lieve, continuo, quasi un sibilo. Al quale rispondeva,<br />
con una sorta di calma lentezza, il tintinno dei campani.<br />
Braccia ci vorrebbero, pensava, e annata d’acqua, e il buon<br />
volere di Cristo. Troppe cose in una volta, mi pare, zietto.<br />
S’interrompeva per smottare, schivare un sasso o incitare<br />
i buoi. Lasciava infatti cadere ogni tanto, sulla groppa di<br />
questi, ma senza eccessiva violenza, un colpo sibilante della<br />
lunga sferza di cuoio che pendeva dalla cima dello stimolo.<br />
Questo si dice “toccare”. Ché, per l’effetto che ne segue, significa<br />
anche, per estensione, andare.<br />
Già, troppe cose. Prima uno sospira il pane, poi vorrebbe<br />
il companatico, poi il vino, poi magari un letto caldo e una<br />
donna che gli gratti dove gli prude. Com’è che si dice? La<br />
18<br />
botte piena e la moglie ubriaca, già. Mentre certuni hanno<br />
soltanto la moglie, piena, il santo che li fa nascere. “Ah, puah”<br />
si diceva disgustato, e sputò. “Chissà poi chi le decide queste<br />
cose, se è il destino o che”.<br />
Ancora si interruppe perché era arrivato alla fine del solco<br />
e bisognava voltare. Anche “voltare” è parola che il linguaggio<br />
ha tratto da questa operazione per attribuirle un significato<br />
più esteso, traslato. Infatti significa anche cambiare,<br />
mutare sorte. Lingua di bifolchi e di popoli agricoltori.<br />
«Voltate, belli» disse a voce alta, parlando ai buoi come<br />
fossero cristiani. E come quelli non obbedivano, tirò irritato<br />
la guida di sinistra con tanta forza che poco meno strappava<br />
l’orecchio all’animale. «Ih, ti farai prezioso, sì?, Boccadi-rosa»<br />
disse. E piantò la punta dello stimolo nella culatta<br />
tenera di Bocca-di-rosa, in misura sufficiente perché l’animale,<br />
toccato in tal modo, “toccasse” a sua volta e facesse<br />
svelto la conversione, trascinando di forza il compagno.<br />
Ora bisognava riattaccare, e questa volta in salita, su<br />
per il fianco della collina. «Vai, vai» disse incitando e misurando<br />
con l’occhio il punto dove affossare il vomere perché<br />
il nuovo solco corresse parallelo al precedente.<br />
Lenti e cadenzati ripresero a suonare i campani. Lui si<br />
rimise curvo, a schiena in giù, a premere sui manici della<br />
stiva, senza che per ciò la sinistra lasciasse le guide e la destra<br />
lo stimolo.<br />
I pensieri tornarono, come passeri sul seminato, dopo<br />
che un rumore o grido o altro accidente li abbia per un momento<br />
cacciati via. I pensieri dell’amarezza. Cos’è che hai<br />
avuto, di tanto desiderare, in tutta la tua vita? Su, bello mio,<br />
fatti coraggio, sputa. Di’, non è questo?<br />
Sputò materialmente, intanto che la parola, nelle anse<br />
del cerebro, si formò come un sole. «Mer-da» sillabò quasi<br />
gridando. E concluse: «Così sia».<br />
Senza sforzo, senza che lui li sollecitasse in nessun modo,<br />
vennero i ricordi agri, una specie di epitome o ricapitolazione<br />
della sua vita. I giorni gli sfilavano nella memoria veloci,<br />
come detriti galleggianti nella correntia di un torrente.<br />
<strong>Il</strong> sole frattanto, ormai ben alto nel cielo, gli scaldava la<br />
testa, aizzava le ghiandole sudorifere, aiutava a fare che la<br />
pentola dove i pensieri si contenevano, li bollisse a dovere.<br />
19
«Dinìa» disse sfangando nel mutar solco e quasi inciampando.<br />
Come già l’altra, pronunziò ad alta voce anche questa<br />
desueta parola, che esprime, là, più ancora che la sorte avversa,<br />
qualcosa di molto simile al fato dei popoli antichi.<br />
Lui era nato sotto il segno della dinìa. Dal passato lontano<br />
fino al presente, era stato così. E il segno più vistoso di<br />
questa dinìa era rappresentato da Momo.<br />
<strong>Il</strong> pensiero di Momo gli fu come un aculeo che gli penetrasse<br />
le costole e là indugiasse. «Hài, hài» gridò allora<br />
con forza ai buoi. E giusto nelle costole di uno di essi avventò<br />
per impulso irragionevole la punta dello stimolo,<br />
quasi a partire con quello il dolore, quasi non fosse giusto<br />
che lui solo patisse. E ve la tenne e rigirò senza pietà, incurante<br />
del balzo in avanti che la bestia, punta così di sorpresa,<br />
faceva di colpo.<br />
Da tutto questo, ecco, scaturì per reazione quel bisogno<br />
di aprire l’animo alla speranza, che si risolvette in ebbrezza.<br />
Oh basta, madonna, basta, si disse a un tratto, non bisogna<br />
pensare a questo, ora. Bisogna pensare a altro, a altro.<br />
A cosa?<br />
Al fatto che cambierà. Questo porco di destino doveva<br />
cambiare, non era possibile che durasse eternamente. Perché<br />
mai, se no, sarebbe venuto quel giorno compare Pòrcina<br />
a proporgli di fare il massaio a Serri, mutando la sua vita<br />
da così a così? L’aveva chiamato lui, quel giorno, compare<br />
Pòrcina? No, sangue di Giuda, Dio in persona lo aveva<br />
mandato. E lo avesse pure mandato il demonio non fa differenza.<br />
<strong>Il</strong> certo è che da quel momento bisognava partire.<br />
A questo doveva pensare.<br />
Impressa questa svolta al flusso dei pensieri, si immerse<br />
con godimento nell’onda nuova. Ah, refrigerio! Va’, va’, si diceva,<br />
vedrai che d’ora in poi sarà diverso. E soggiacendo allo<br />
stesso impulso di partecipazione di prima, batteva sulla culatta<br />
di Bocca-di-rosa, non più con lo stimolo stavolta, ma a palmo<br />
aperto, da amico a amico, e diceva anche alla bestia «Va’, va’».<br />
Abbastanza torpida abitualmente, la fantasia gli si sbrigliò.<br />
Vedeva le cose con occhi diversi: gli orizzonti, le nuvole,<br />
20<br />
il precipizio del cielo gli si facevano prossimi e come ruotanti<br />
in cerchio, e gli sembrava che di questo cerchio lui fosse il<br />
centro e l’asse di rotazione.<br />
Ma il miracolo nacque dal bruno della terra. La rassegnazione<br />
delle glebe, tutte pari, coppute, rovesciate bocconi; quei<br />
solchi tutti in fila, allineati e paralleli come piccole onde rapprese<br />
e nere, tutto questo scomparve. Una pelurie verde ricoprì<br />
il fianco della collina. Poi crebbe. Poi, passandovi dentro<br />
un vento, suonò come l’organo della chiesa di Baronia.<br />
Grano, era; il “suo” grano. Tutto il possesso di Serri, arato<br />
da “capodanno”, buttava impazzito. E prodigiosamente,<br />
incredibilmente, cresceva e maturava in un lampo, ancora<br />
era verde e già era biondo, già ci si poteva entrare con le falci.<br />
E ci si entrava difatti e si mieteva, si trebbiava, si misurava<br />
e insaccava. E misurare faceva impazzire, insaccare scollava<br />
le braccia, era una quantità inverosimile: misericordia,<br />
cos’era mai?<br />
Questo, a un tratto. Come un’ebrietà, già lo si disse. Come<br />
un delirio. Lui, tale era la sua sensazione, realmente “vedeva”<br />
questo.<br />
Quel distillato di vino che là chiamano “Filo di ferro”<br />
oppure “arzente”, a berne oltre il ragionevole può fare di<br />
questi scherzi. Lui era in un certo senso in queste condizioni.<br />
Come se, cioè, avesse in corpo, che figurati se era il tipo,<br />
buona provvista di questo “Filo di ferro”. Come se il cervello<br />
gli andasse in combustione per il fuoco scaturito da una<br />
buona ciucciata di questo “arzente”.<br />
E quei campi pieni di verde, le messi mature, le biche<br />
di grano mietuto e tutto il resto, stettero per un certo tratto<br />
davanti a lui, assurdi, ma nitidissimi.<br />
«Hài, hài!» gridava ai buoi, smemorandosi. Nello stordimento<br />
di quel suo andare monotono dietro l’aratro; nella<br />
secchezza dell’aria, percorsa appena da bave di vento; nelle<br />
lame d’argento e d’oro che il sole gli sbatteva davanti agli<br />
occhi, lui navigò – è difficile dire quanto – in questo stato<br />
di irrealtà.<br />
Poi ci si sveglia, si sa, e ci si scrolla: si è uomini! E il mondo<br />
si rimette normale, che fino a quel momento era stato coi<br />
piedi all’aria.<br />
21
Ma appunto è come il risveglio da un sogno, che il sogno<br />
è andato, però la sua sensazione perdura. Già consapevole,<br />
ora, che tutto era stato inganno, lui, non di meno, deliberatamente<br />
indugiava nella beatitudine dell’illusione. Che<br />
bello sarebbe stato, se tutto questo fosse potuto accadere.<br />
E perché non poteva?, si chiese a un tratto. Perché? Forse<br />
la cosa era davvero irrealizzabile? E chi lo diceva? E perché<br />
non pensare, invece, che lui, sì, lui in persona, poteva fare<br />
che il sogno, se sogno era, diventasse realtà?<br />
Di nuovo sentiva montare in sé l’ira e l’orgoglio. Sollecitava<br />
lui stesso, ora, i fantasmi, che prima erano sorti spontanei<br />
nella sua immaginazione. Vedeva bene che la terra, nuda<br />
come un ginocchio, altro non era che il campo della sua<br />
presente fatica. Ma le imponeva lui stesso, ora, come un<br />
creatore, il suo vello di messi. Dovrai ben sentire lo sprone,<br />
cagna, e figliare. Aspetta e vedrai. Vedeva bene ch’era solo,<br />
lui, dietro l’aratro nella enorme vastità della campagna. Ma<br />
già si vedeva, nei giorni del <strong>raccolto</strong>, circondato dai mietitori.<br />
Uomini tolti a giornata, assoldati da lui (proprio lui che<br />
era stato giornaliere a sua volta) perché la messe era tanta<br />
che non bastavano braccia.<br />
Riprecipitava, era chiaro, nell’irreale.<br />
“Mano alle falci, fratelli” avrebbe detto ai mietitori “e dateci<br />
dentro fino a schiattare”.<br />
E quelli a mietere, zann, zann, sentiva il crocchio delle<br />
canne del grano raggiunte dalla falce, che gli suonava alle<br />
orecchie più grato del canto dei grilli. Ma presto, saggiata la<br />
consistenza dell’incannato: “O Giuanni Cinus” quelli avrebbero<br />
detto stupiti “ma questo è grano o è canna da fiume?”.<br />
E lui, pomposo: “Ehi, ehi, mietete, poltroni, che già è grano”<br />
avrebbe risposto ridendo e pieno di sussiego. Però lo<br />
stupore dei giornalieri non sarebbe finito lì: sarebbe stata la<br />
quantità delle messi a lasciarli allibiti: “Ma come” avrebbero<br />
detto “tu piovi qui, mai visto e mai conosciuto, e tempo un<br />
anno ti tiri su questo po’ di <strong>raccolto</strong>! E chi sei, Sant’Isidoro?<br />
Hai mangiato alle volte ossa di morti?”.<br />
Facezie. Ossa di morti? Sì, domandassero alle ossa delle<br />
sue spalle, piuttosto, che ci si erano scollate a crescerlo,<br />
questo <strong>raccolto</strong>. Ma non se la sarebbe presa con gli uomini.<br />
22<br />
Le loro erano battute scherzose dei giorni della mietitura,<br />
che è il tempo dell’allegrezza.<br />
E naturalmente ci sarebbe stato alla fine anche il banchetto,<br />
il giorno dell’inserro, perché la tradizione va rispettata.<br />
Arrosto di pecora e vino, sicuro, così vuole l’uso e così sarebbe<br />
stato. E lì ancora arguzie, e frecciate, e allegrezza. “Ma<br />
pecore, di’, ne hai compare Cinus, in numero bastante per<br />
sfamarci tutti?”, avrebbero chiesto per punzecchiarlo. E lui a<br />
nicchiare, a dargli corda: “Ehi, ehi, ce ne sarà da ingozzarvi,<br />
non abbiate timore”. “E anche agnelle da latte, hai, no?”<br />
avrebbero magari aggiunto, con maliziosa allusione a Pasqua.<br />
Ma non si sarebbe adontato neanche per questo. Dica<br />
la bocca tutto quello che vuole una volta che le mani stiano<br />
al loro posto. E poi, in questi casi, che s’ha da badare a una<br />
parola di più? Era festa, perdio.<br />
Ancora invischiato in queste fantasticherie, stupì che<br />
qualcuno, a un tratto, lo chiamasse alla disperata: «Ba’, o ba’,<br />
ooh!».<br />
Senza fermare l’aratro si volse e vide chi lo chiamava.<br />
Era Pasqua, ferma al limite del terreno arato, presso la<br />
quercia. Lontana un buon tratto da lui, gridava per farsi<br />
udire e faceva cenni, a braccia alzate, non si capiva cosa dicesse.<br />
Così da lontano, anzi, gesticolante e urlante, pareva<br />
invocasse disperatamente adiutorio.<br />
23
II<br />
LA SEMINA<br />
Si fa un atto di fede. Si affida il grano alla terra (e in<br />
questo caso quadre e quadre di grano, che è già di per sé un<br />
patrimonio) nella speranza che lei lo moltiplichi, dopo averlo<br />
inghiottito e marcito. Ché se il grano non muore…<br />
E non altro che questo è, seminare.<br />
Così era anche per Giuanni Cinus, che ora aveva quel<br />
demone, e impaziente aveva incominciato a gettare.<br />
Si sarebbe dovuto attendere che prima piovesse, perché<br />
meglio la terra si disponesse a quell’atto: rorida e morbida e<br />
desiderosa di generare. Ma non piovve. San Martino venne<br />
e passò senza una goccia dal cielo. I giorni limpidi; i monti<br />
profilati sugli orizzonti con specchiata nettezza, assente anche<br />
un velo di bruma. E che? Si doveva aspettare fino al<br />
Bambino, per seminare?<br />
Così la seconda aratura fu fatta e il seme gettato, quando<br />
dalle zolle sanguigne della prima aratura il vento, anziché<br />
quel fiato umido che sembra emani la terra di questa stagione,<br />
levava a tratti polvere, che difatti viaggiava in barriere<br />
verticali intermittenti, oppure mulinava a imbuto, frullandola<br />
il vento nei suoi risucchi, finché si abbatteva oltre i<br />
confini sui lentischi e le palme.<br />
Inutile aspettare ancora. Eppure, un poco, era come<br />
prendere il seme e disfarsene, anziché consegnarlo alla terra<br />
come un capitale messo a frutto.<br />
Attendevano alla bisogna il vecchio e ’Ntoni. <strong>Il</strong> ragazzo<br />
dietro l’aratro a ripassare di traverso sui solchi per eseguire<br />
la copertura; il vecchio più a monte, a spargere a spaglio il<br />
seme, che traeva dalla bisaccia.<br />
Entrava la mano dell’uomo nel grembo della bisaccia,<br />
ne usciva stretta a pugno, poi il braccio ruotava nell’aria, il<br />
24<br />
pugno si apriva e il seme era sventagliato lontano. E bisognava<br />
a ogni manciata dire le parole tramandate: “In nome<br />
di Dio, in nome di Dio, in nome di Dio”.<br />
Ma di ogni manciata pareva ogni volta si impadronisse il<br />
vento, polvere e seme si mescolavano nella rapina, sinché,<br />
più pesanti, i chicchi precipitavano; allora sopravveniva l’aratro<br />
che frangeva le zolle e li seppelliva.<br />
<strong>Il</strong> caso, dunque. Più che la volontà dell’uomo, il caso stabiliva<br />
se il seme – ogni singolo seme – dovesse annidarsi lì, e<br />
lì morire, e lì rinascere. E questo migliaia e migliaia di volte.<br />
<strong>Il</strong> vecchio andava su e giù per il campo compiendo l’opera<br />
sua. La bisaccia diventava via via meno greve finché si<br />
svuotava, allora bisognava portarsi sulla piazza di camminamento<br />
e rifornirsi. E daccapo. Sfangare tra i solchi e gettare<br />
gettare gettare. In nome di Dio.<br />
Quanto alla terra, indifferente essa riceveva il seme, dentro<br />
quelle sue innumerevoli grosse labbra tumefatte dei solchi;<br />
indifferente lo deglutiva, tosto che il vomere o i piedi di<br />
’Ntoni o gli zoccoli dei buoi pestavano sulle zolle. Né pareva<br />
possibile sperare che un giorno, da tanto cospargimento,<br />
fosse per nascere un qualsiasi frutto. O almeno ci voleva, come<br />
si è detto, un atto di fede.<br />
Fu al termine di questi lavori che a Serri capitarono visite.<br />
Sedevano ora, a sera, nel piazzale antistante la fattoria.<br />
Nella luce residua del giorno, protratta fuor di misura come<br />
accade nel sud, e che si faceva perlacea, poi verdastra, poi<br />
rossa e infine viola, prima di spegnersi. La famiglia al completo:<br />
padre, madre e figli. Intenti alle placide opere delle<br />
ore dell’ozio, quel fare che si dice che inganni il tempo; o all’ozio<br />
al tutto, com’era il caso di Momo.<br />
Questi infatti, incapace di dedicarsi a alcunché, si limitava<br />
a mugolare e portare in giro, a passettini, la propria infelice<br />
persona, trasferendosi dalle ginocchia della madre a quelle<br />
di Pasqua o appressandosi a ’Ntoni o, con una certa cautela e<br />
apprensione, al padre. Recando a ciascuno, comunque fosse,<br />
lo stupore di quei suoi occhi così profondi in un viso così<br />
poco grato.<br />
25
Quella sera come le altre: Mariangela Siddi filava lana e<br />
Pasqua la secondava. ’Ntoni cavava forcelle per fionda da rami<br />
di ulivo. <strong>Il</strong> vecchio, lui, fabbricava giocattoli per il vento<br />
e inganni per gli uccelli, oggetti con i quali ingannava frattanto<br />
le proprie mani, poco inclini a restare inoperose.<br />
Fabbricava aeroplani, banderuole, aquiloni. Su corti fusi<br />
di canna applicava enormi eliche, pure di canna, ruotanti su<br />
un perno. <strong>Il</strong> tutto poi sistemava in cima a una pertica e l’aeroplano<br />
era fatto. L’alzava per prova contro il vento: funzionava.<br />
Urtata dal vento l’elica si scuoteva, brandeggiava, pigliava a girare<br />
con sempre maggiore scioltezza e infine con furia e tutta<br />
l’apparecchiatura ronzava e vibrava. Ridevano i geni del vento<br />
e il dio degli uccelli – ché questo doveva essere il marchingegno<br />
per spaventarli – e Momo dal canto suo uggiolava e sbavava.<br />
E così per le banderuole, fatte di intrecci di foglie di palma<br />
inastate anch’esse su pertiche. E per gli aquiloni, provvisti<br />
di una coda di filacce di tela che il vento scioglieva come capelli<br />
e faceva schioccare. Piantati qua e là per il campo e messi<br />
in azione dal vento, tutti questi apparecchi avevano lo scopo,<br />
insieme con gli spauracchi, di fare il babau ai passeri, sgominandone<br />
ardire e ingordigia. Ma sono migliaia di anni che i<br />
passeri conoscono il trucco.<br />
In questo oziare dunque indugiavano, tutt’e cinque lì<br />
fuori, in attesa che il giorno, nei grandi letti celesti, se ne<br />
morisse e si celebrasse subito dopo, nel ponente, il mortorio.<br />
A un tratto, da tramontana, venne col vento rumore di<br />
zoccoli. E fu Pasqua che prima l’avvertì.<br />
«Gente?» domandò. Perché accadeva raramente che qualcuno,<br />
e poi a quell’ora, passasse per la strada di Serri, e meno<br />
ancora che salisse alla fattoria.<br />
Ascoltarono. Piccolo trotto. <strong>Il</strong> cavaliere non doveva aver<br />
troppa fretta né strapazzare fuor di misura il cavallo. <strong>Il</strong> tloctloc,<br />
del resto, giungeva incerto, ora si udiva ora dileguava.<br />
Sinché il centauro apparve sulla collina, stagliato contro<br />
il cielo.<br />
Là egli sostò, si tolse il cappello e lo agitò nel saluto.<br />
Lampu e Tronu, i due cani guardiani, si slanciarono alla sua<br />
volta abbaiando; mentre Tricò, cane da caccia, si limitò senza<br />
schiamazzi a drizzare le orecchie.<br />
26<br />
«Straneo, è» disse Mariangela Siddi. «E chi può essere?».<br />
«<strong>Il</strong> cavallo» il vecchio disse «mi pare quello di compare<br />
Pòrcina».<br />
E Pasqua: «Non sarà il figlio, tornato da soldato?».<br />
Frattanto il cavaliere, chetati i mastini, veniva al passo a<br />
questa volta, ancora agitando il cappello.<br />
«Ma è lui, sicuro» disse Mariangela Siddi.<br />
«È lui, è vero» disse anche Giuanni Cinus levandosi.<br />
Giunto a portata di voce, il nuovo venuto parlò:<br />
«Salute alla nuova gente di Serri, miei padroni» disse.<br />
«Salute al padrone vero» gridò di rimando Giuanni Cinus<br />
rispondendo per tutti. Ma una punta di apprensione e<br />
quasi di contrarietà si insinuò nel suo animo nel dire questo.<br />
Se il figlio di Nanni Pòrcina era tornato, dopo anni di<br />
assenza, non sarebbe accaduto ora che il compare revocasse<br />
il contratto di affitto stipulato l’estate scorsa? Ma scacciò<br />
questo pensiero, che gli sembrava in contrasto con il rispetto<br />
dovuto all’ospite, e ripeté con fermezza: «Salute».<br />
Gli altri non dissero nulla. Aspettarono che il cavaliere<br />
venisse a paro, balzasse giù dall’arcione e si facesse dappresso,<br />
le briglie affrancate al polso. <strong>Il</strong> cavallo, venendogli dietro<br />
così tira-tira, sbuffava e si scrollava.<br />
«Salute!» anche l’ospite replicò, tendendo la mano a<br />
Giuanni Cinus.<br />
La stretta di mano fu accompagnata, da una parte e dall’altra,<br />
secondo un rituale antico, da una parola che si potrebbe<br />
tradurre: “Abbastanza bene, vero?”, ma che è, senza<br />
che la gente più lo sappia, il comparativo latino beatius,<br />
conservatosi quasi incorrotto per quest’uso singolare.<br />
L’ospite si volse subito dopo a Mariangela:<br />
«Ave Maria, Mariangela Siddi» disse compunto. E anche<br />
s’inchinò con bella grazia, quasi dovesse ricevere a sommo<br />
del capo il segno della benedizione. Anche questo fa<br />
parte dell’uso antico.<br />
Mariangela si limitò a rispondere benevolmente «Ave<br />
Maria». Non gli dette però la mano. Non dà una donna la<br />
mano a un uomo. Neppure accennò a ogni modo a segni<br />
di benedizione.<br />
Fu la volta di Pasqua. Anche a lei l’ospite disse «Ave<br />
27
Maria». Ma cessò di sorridere e non s’inchinò. Stette anzi un<br />
bel po’ a osservarla con meraviglia, tenendole gli occhi bene<br />
in faccia, in aperta violazione degli usi. Non guarda un uomo<br />
così fissamente una donna, specie se “vergine”. Tanto che lei<br />
ne fu così confusa che seppe solo dire, impoltigliando un po’<br />
le parole: «Padrone mio».<br />
A ’Ntoni e Momo, poi, un’occhiata soltanto, e un cenno<br />
della mano. Ma l’occhiata diretta a Momo fu colma di<br />
raccapriccio.<br />
Giuanni Cinus, frattanto, vinto quel tale momento di<br />
disappunto, cominciò a patriarcheggiare con comica ma non<br />
affettata solennità. «Benvenuto, ospite» disse «se vieni in pace».<br />
Poi, abbassando di mezzo tono la voce e acquistando in<br />
affabilità ciò che perdeva in pompa aggiunse: «Qui sei a casa<br />
tua, figlio mio. Comandaci in ciò che possiamo. Metti da<br />
parte la bestia e siedi in mezzo a noi. Che piacere vederti.<br />
Che cosa possiamo offrirti?». Infine dava ordini, con aria<br />
d’importanza e battendo le mani: «’Ntoni» ingiungeva «il cavallo.<br />
E tu, donna, uno scanno per l’ospite. E tu, Pasqua, acqua,<br />
vino, pane». E all’ospite, ancora: «Vuoi rinfrescarti? Fermarti<br />
a mangiare con noi? O bere, almeno?».<br />
Divertito e ridente, il giovane si schermiva:<br />
«Santo cielo» diceva «ma che? Mi trattate come un vescovo.<br />
No, no, grazie, non voglio nulla, non ho bisogno di<br />
nulla. Volevo solo avere il piacere di vedervi, salutarvi, e basta,<br />
state tranquilli».<br />
Rideva. Aveva dei piccoli baffi sottili, neri pece, che nel<br />
viso, sollevandosi il labbro, s’inflettevano, staccavano col<br />
bianco dei denti giovani e forti e col rosso delle labbra, abbastanza<br />
pronunziate e un po’ insolenti. Era del resto un bel<br />
giovane, abbastanza consapevole di esserlo, e disinvolto, sciolto<br />
di modi, superbo, il che gli consentiva ora di mostrarsi verso<br />
costoro piacevolmente condiscendente e benigno. Per come<br />
era alto, forte e sicuro di sé, prendeva chiaramente dal<br />
padre; ma una cert’aria felina e insieme estrosa doveva venirgli<br />
da ascendenze materne, si sapeva che la madre era un’Angotzi<br />
di Tula, gente conosciuta per avventure e bizzarrie.<br />
Rifiutò sulle prime di cedere le briglie del cavallo a<br />
’Ntoni: «Grazie, no, vado subito» disse. E, come Mariangela<br />
28<br />
e Pasqua uscivano dalla casa con un catino pieno d’acqua e<br />
una caraffa di vino (usciva perfino Momo con uno sgabello<br />
di sughero malcerto fra le braccia) «Ah» disse ancora «che<br />
qui proprio mi pare che mi fate accoglienza migliore che<br />
mio padre e mia madre. Sapete, non sono abituato, dove sono<br />
stato finora non mi trattavano con tanti riguardi».<br />
Non volle tuttavia né lavarsi né bere e neppure sedersi.<br />
«Passavo da queste parti» spiegò «e ho pensato di dirottare<br />
per venire a trovare i nuovi occupanti di Serri. Dopo<br />
tutto, dovrei essere io il proprietario della tenuta, secondo il<br />
testamento di mio nonno. Voi, compare Cinus» si volse direttamente<br />
al vecchio «avete fatto un lavoro magnifico. Avete<br />
arato mezzo mondo, come avete fatto? Se butta in proporzione<br />
ci seppelliremo nel grano».<br />
Lusingato da questi apprezzamenti, il vecchio si diffuse<br />
in spiegazioni. E concluse:<br />
«Anni sono, sangue mio, che aspettavo un’occasione. E<br />
questa mi dice il cuore che potrebbe essere l’occasione».<br />
L’occasione di che? L’ospite non chiese chiarimenti, né<br />
il vecchio ne fornì. Una specie di pudore gli vietava di far<br />
parte a un estraneo, in maniera più precisa, di quali fossero<br />
le sue speranze.<br />
«Acqua, ci vorrebbe» commentò Fieli Pòrcina.<br />
Alla vista dell’acqua nel catino, frattanto, il cavallo nitrì.<br />
«È lui che vuol bere» celiò il nuovo venuto. E rise. E di<br />
nuovo si mostrarono i denti forti e bianchi messi in risalto<br />
dalle virgole nere dei baffi.<br />
Giuanni Cinus tolse con autorità le briglie dalla mano<br />
dell’ospite e portò il cavallo all’abbeveratoio, seguito da ’Ntoni<br />
che si incaricò di attingere acqua dal pozzo. A sua volta<br />
Mariangela Siddi tornò verso casa per recare bicchieri, e così<br />
il giovane si trovò solo con Pasqua, non contando come un<br />
di più la presenza di Momo. Finì per sedersi sullo sgabello<br />
portato da quest’ultimo.<br />
«Per l’anima mia, Pasqua Cinus» disse «questo è ben più<br />
che le staia di terra messe a seme da tuo padre. Sei diventata<br />
uno splendore. Ma cos’è che ti hanno fatto? Che ti hanno<br />
dato da mangiare in tutti questi anni? E sei ancora tu, non è<br />
vero? Non è che alle volte ti hanno cambiata? Una bambina,<br />
29
ti ricordavo, proprio così, un piccolo topo campagnolo o un<br />
leprotto. E invece, adesso…».<br />
Lei abbassava gli occhi e arrossiva. Quello che ascoltava le<br />
pareva molto ardito, se non proprio sconveniente. Sei diventata<br />
uno splendore. Quando mai si è sentito un uomo parlare<br />
così a una donna, e “vergine” per giunta. Si guardò bene perciò<br />
dal rispondere. E tuttavia le pareva, attraverso quelle parole,<br />
di fare d’improvviso un’esperienza gradevole e strana. Acquistare<br />
una cognizione di sé fino a quel punto ignota, come<br />
vedersi allo specchio la prima volta. Splendore, lei?<br />
Tornavano il vecchio e ’Ntoni, tornava Mariangela. Si<br />
parlò degli anni passati, dei mutamenti, della guerra. Di lui<br />
disperso. Cos’è, un disperso? Be’, un vivo creduto morto o<br />
un morto creduto vivo, dipende. Si tornò a parlare di colture<br />
di annate e di questa abbondante eccezionale seminagione<br />
fatta da Giuanni Cinus.<br />
<strong>Il</strong> vecchio si ripeté, pur sempre sibillino:<br />
«Eh, ragazzo mio, questa volta è deciso: adesso o mai<br />
più. Io so quel che dico».<br />
<strong>Il</strong> giovane non colse (come avrebbe potuto del resto?) il<br />
senso recondito di questo aut-aut. E anch’egli si ripeté: «Acqua<br />
ci vorrebbe». E chiarì: «Qui la terra è baldracca, io la conosco.<br />
Oh, scusatemi» il pentimento si indirizzava a Mariangela<br />
e Pasqua «volevo dire poco di buono. A volte dà<br />
che è una bellezza, è capace che ci si piglia il dieci, il venti,<br />
perfino il trenta, secondo come gli gira. A volte invece si<br />
può riempirla di seme quanto si vuole, e spaccarsi la schiena<br />
a lavorarla, e niente, non vuol sentirne, capite? Ma tutto a<br />
mio parere dipende dall’acqua, se piove o non piove. E, certo,<br />
se l’acqua non viene, compare Cinus…».<br />
«Questa volta verrà» il vecchio disse.<br />
«Ne sembrate convinto» l’ospite replicò.<br />
«Lo sono, infatti».<br />
«Ma se non piove? Dico: se, corna facendo, non dovesse<br />
piovere?».<br />
«Pioverà» disse Giuanni Cinus in tono perentorio.<br />
Fieli Pòrcina si alzò. «Ve lo auguro,» disse, «e, in fin dei<br />
conti, è un augurio che faccio anche a me stesso. Ma sono<br />
proprio io a dovervi avvertire di non mietere prima che il<br />
grano sia al punto giusto?».<br />
30<br />
Sorto in piedi anche lui, Giuanni Cinus gli era davanti<br />
tracagnotto e caparbio. Non sorrideva, a differenza di Fieli<br />
Pòrcina.<br />
«Aspetta e vedrai» affermò arcanamente.<br />
L’ospite partiva, manifestando l’opinione che, a buon<br />
conto, almeno per il momento, il cielo non sembrava disposto<br />
a concedere pioggia. Provasse compare Cinus a affatturare<br />
le nuvole – così proprio disse, ridendo – non si sa<br />
mai. Per intanto stessero di buon animo e tante grazie per<br />
l’accoglienza. Sì, certo, poteva darsi, chissà, che, capitando,<br />
tornasse a farsi vedere, perché no? Adesso però doveva andare,<br />
era tardi, addio addio.<br />
Su lui che si allontanava, messo il cavallo al trotto, nel<br />
tardo e ancor rosso crepuscolo, dolcemente scendeva la notte,<br />
lungo l’arco settentrionale del cielo. Un trepido colore<br />
oliva, un languore, pigliava il cielo da quella parte. E staccava<br />
ancor più la luna, già quasi piena, netta e lucente su quel<br />
velluto, come un oblò. Si smemoravano gli occhi che la fissavano.<br />
Sei diventata uno splendore. Era vero? Che strano.<br />
«Pasqua! Pasqua!» chiamava la madre dall’interno della<br />
casa.<br />
«Eccomi» rispondeva.<br />
31
III<br />
LE PIOGGE<br />
Verso gli ultimi di novembre si produsse il mutamento.<br />
Due schiere si formarono agli opposti poli del cielo: l’una<br />
accampata nel levante, con pennoni e sfioccate bandiere color<br />
ferrigno: l’altra nell’occidente, tumida e fosca, con vessilli<br />
di fiamma. A lungo restò l’una e l’altra acquattata nel proprio<br />
quartiere, come spiando le mosse dell’avversario. Indi<br />
qualcuno, qualcosa, dovette dare il segnale. Pattuglie volarono<br />
rapide, traversarono il cielo, entrarono in contatto fra loro.<br />
Si fusero, si accapigliarono: uno scontro all’arma bianca<br />
del tutto silenzioso. Ma gli eserciti mossero dai rispettivi accampamenti<br />
con una lentezza calcolata e possente. <strong>Il</strong> sole<br />
scomparve, che galleggiava a tre quarti nel cielo; e ne restò<br />
come la memoria e la brace, in quel rosso fondo che da allora<br />
prese a diffondersi per tutti i confini. L’urto successe nella<br />
zona centrale di questa dissoluzione del sole. Spararono le<br />
artiglierie. I tuoni rimbombarono col fragore di una catastrofe<br />
e il suono rotolò poi per le colline di Serri, destando le<br />
volpi e le lepri e inducendo il cinghiale a rintanarsi. Le pecore<br />
e le mandrie, dal canto loro, rabbrividirono nei chiusi.<br />
Fu un conflitto corto e rabbioso, orchestrato dai venti alti.<br />
Lampi rapidi e le spezzate scintillanti fratture dei fulmini.<br />
Poi tutto fu grigio opaco e la pioggia finalmente prese a cadere.<br />
Vennero dapprima soldoni radi, schizzanti a capriccio,<br />
che la terra ghermiva ingorda. Poi subito le monete infittirono<br />
e insieme rimpicciolirono, e ne crollavano al suolo manciate,<br />
come rovesciate da ciotole. Infine tutta pari, da terra fino<br />
alle nuvole, l’aria fu interamente acqua, a veli, a lame, che<br />
una forza scagliava in basso, sghembe, come cieche sferzate.<br />
Fu una bevuta che mai, per la terra di Serri. S’intende<br />
con le debite distinzioni. Dove la terra non era messa a cultura<br />
fu soprattutto un pauroso lavacro, l’acqua crollò sui<br />
mirti, i lentischi, le palme, frustò le tamerici, si schiantò sulle<br />
32<br />
rocce affioranti; e scivolò. Rigagnoli si formarono lungo i<br />
sentieri; i letti dei ruscelli, in secca da febbraio, accolsero fiumane<br />
limacciose, turgide da traboccare, e le incanalarono in<br />
fretta verso il mare, impazienti di liberarsene. Non senza depositare<br />
qua e là, nelle bassure, ristagni vari, che poi avrebbero,<br />
a furia finita, guardato a lungo il cielo, come occhi pieni<br />
di sbigottimento. Ma sui coltivi non così: l’acqua non scivolava,<br />
la terra non finiva mai di inzupparsene. Una sete antica,<br />
tormentosa, trovava per un momento di che placarsi. Fumava,<br />
finanche, sotto lo scroscio. Rossa sanguigna, aperta<br />
dal lavoro di lama del vomere, riceveva la benedizione dell’acqua<br />
sulla carne scuoiata come un fresco balsamo. E se ne<br />
intenerivano i chicchi, nel chiuso grembo; e i germogli, destati<br />
dalla misteriosa forza vitale, ricevevano l’annunzio.<br />
Quando cessò, Giuanni Cinus prese a scendere giù per<br />
la strada carraia, fino alla quercia. Veniva col passo rollante,<br />
un po’ ebro, della gente dei campi, che così stranamente somiglia<br />
alla camminata dei marinai. Guardava a destra e a<br />
manca, le mani affondate nelle tasche dei calzoni e annuiva.<br />
La strada era coperta da una belletta argillosa che gli si appiccicava<br />
alle suole delle scarpe, ingrossandone spropositatamente<br />
lo spessore; ma da questo, lungi da averne noia, lui<br />
traeva inconsciamente conforto, era un modo, che so, di<br />
sentirsi ancorato alla terra, e quasi in essa radicato, come<br />
una pianta.<br />
<strong>Il</strong> mento sporto in avanti, il labbro inferiore sopravanzante<br />
il compagno, continuava a annuire. Verrà, si diceva, vedrai<br />
che verrà. L’impasto di terra e acqua nel quale si era convertito<br />
il lavoro suo lo rassicurava e gli dava fierezza. Era<br />
come uno che facesse constatazione di un fatto da lui teorizzato<br />
e preveduto sulla base di calcoli e ragionamenti. Compare<br />
Pòrcina riverito, a vostra disposizione. Degnatevi di dare<br />
un’occhiata a questa grazia di Dio e sappiatemi dire. L’avete<br />
messa sì o no in buone mani la tenuta di Serri? E anche al<br />
giovane Pòrcina si rivolgeva, anzi a lui soprattutto, che si era<br />
mostrato tanto saputo sulla possibilità che piovesse. Ebbene,<br />
giovanotto, adesso che diciamo? Tzè, far la fattura alle nuvole,<br />
eh? E ecco che Giuanni Cinus, se non ti dispiace, anche<br />
di questo è capace, capitando.<br />
33
Sfiorava intanto con lo sguardo il seminato, quant’era<br />
ampio. Come se vi passasse sopra la mano, carezzevolmente.<br />
<strong>Il</strong> gesto dell’uomo che saggia così, al tatto, con inusitata cautela<br />
e dolcezza, il ventre gravido della sua donna, quando gli<br />
dicono – e nulla si vede ancora da fuori – che figlierà.<br />
Anche là dentro, nel grembo della terra, dormiva il seme<br />
che lui vi aveva gettato. Ora germoglierebbe. Lui, anzi – e<br />
qui si sentiva non solo maschio e fecondatore ma, per assurdo,<br />
anche femmina e madre, immedesimato alla terra – lui,<br />
dunque, quasi se lo sentiva germogliare dentro, il seme. Premere<br />
il germoglio contro la scorza e violentarla e forzarla,<br />
finché scoppiasse, e mettere il collo di fuori, e insomma nascere.<br />
Come quando, per dire, nell’uovo della gallina tanto<br />
preme e dà di becco il pulcino prigioniero, che si apre alla fine<br />
un varco per venire alla luce. E lo sentiva crescere nelle viscere<br />
sue, nutrirsi della sostanza sua, succhiare il sangue suo.<br />
Per una specie di esasperata trasposizione, lui press’a poco<br />
così sentiva.<br />
Verrà, verrà, si ripeteva con forza. E in questo grido muto<br />
– implorazione o comando che fosse – ogni speranza, fiducia,<br />
illusione era quagliata e rappresa. In questo sintetizzati<br />
e coagulati i giorni – pena e amore – spesi a spingere tenacemente<br />
dietro l’aratro, centocinquanta e passa moggia mica<br />
un imbuto di terra da grano, e le sole sue braccia, le sole sue<br />
gambe, le sole sue reni per aiuto, e per consòlo lo sputo sulle<br />
mani, che gli sembrava friggesse al contatto della pelle, da<br />
tanto che gli bruciavano. Voglia di lavorare ne avete, compare<br />
Cinus? Così voi siate arrostito, compare Pòrcina, fatto salvo<br />
il San Giovanni: questo che vedete qua intorno cos’è, cacca<br />
di pecora?<br />
Giunto alla quercia sostò, ancora si guardò intorno, infine<br />
invertì la marcia e prese a percorrere in senso inverso e ancor<br />
più lentamente il cammino già fatto. Siccome ora saliva,<br />
alzava ogni tanto lo sguardo al cielo. Sgombravano ormai le<br />
nuvole, fattesi aeree e chiare, fuggendo verso levante. Cavalleria<br />
leggera. Ricompariva anche il sole, intatto, e rideva. Restava<br />
tuttora da consumarsi buona parte del giorno. E come il<br />
sole rompeva dai cirri e con le dita toccava, come un pianista,<br />
le cose, il mondo tornava nuovo, raccomodato e splendente.<br />
34<br />
Fieli Pòrcina, di lì a giorni, tornava, come aveva promesso.<br />
In calessino, questa volta. <strong>Il</strong> cavallo baio che lo tirava,<br />
balzano a quattro con stella bianca in fronte, suonava<br />
tutto di bubboli come i tamburelli dei giocolieri. E il veicolo,<br />
poi. Rossi i raggi delle ruote e la gondola, azzurri invece<br />
i cerchi, i profilati e i cuscini. Sulla strada di Serri, e poi sul<br />
raccordo sconnesso che mena alla fattoria, sembrava stesse<br />
passando il cocchio di Nostra Signora di Monserrato, con<br />
tutto quello scintillio.<br />
Arrivava alla casa, chiamava:<br />
«Ohè, gente, oh! Non c’è nessuno, qui? Tutti morti?».<br />
La voce gli usciva ilare, rimbalzava gaiamente sulla facciata.<br />
Prima apparve sulla soglia della cucina la faccia canina<br />
di Momo. Lampu e Tronu, rimasti chiusi nella corte, si sgolavano<br />
di abbaiare.<br />
Gesù, si disse a quella vista il visitatore, ora abbaia anche<br />
questo. E a voce alta, rivolto in su, ridomandava:<br />
«C’è nessuno?».<br />
Pasqua infine si affacciò, che rigovernava le stanze di sopra:<br />
«Oh, Fieli Pòrcina» disse «bentornato!».<br />
«Ben trovata, Vostra Mercé» il giovane disse dal basso, inchinandosi.<br />
E ripeté per la terza volta: «C’è nessuno? Dico:<br />
nessuno oltre Sua Grazia?».<br />
La ragazza, confusa, disse: «C’è Momo» e accennava di<br />
sotto. Aggiunse, poi: «Mamma è via, andata per spese a<br />
Serri, e ba’ e ’Ntoni con le bestie in parte di sole. Mi spiace.<br />
Non credo che… Non vi fermate, vero?».<br />
<strong>Il</strong> suo dilemma: se essere, come è prescritto, “entrante”<br />
con l’ospite, dacché l’ospite è sacro; o se, non essendo consentito<br />
a una “vergine”, sola in casa, intrattenersi con un forestiero,<br />
dovesse congedarlo. In un caso come nell’altro una<br />
delle regole risultava per forza violata. Come proponendo a<br />
se stessa una soluzione intermedia, tornò perciò a dire:<br />
«C’è Momo».<br />
«Ho inteso, sì» disse l’ospite. «C’è Momo». Né poté<br />
trattenersi dall’aggiungere sottovoce: «Ma c’è anche questa<br />
grazia di Dio che sei tu, se Dio vuole».<br />
35
Nessuno tranne lei e Momo, ripeteva intanto a se stesso.<br />
Lei e Momo, hai detto poco. Lei lassù, fresca come il mattino<br />
(quanti anni avrà? Diciassette? Macché, anche meno.<br />
Però, Dio la consoli) fuoruscente dal davanzale con quelle<br />
cose, con quel po’ di (macché diciassette: venti, ne mostra);<br />
e questo qua, mamma mia, che non sai se è cristiano o se è<br />
cane. Ma come fanno a essere parenti, fratello e sorella, è<br />
possibile? Non sarà che Mariangela Siddi, alle volte, in tempo<br />
di calura, sonnecchiando all’aperto, se l’è vista col Maligno,<br />
incarnatosi apposta in cane per usarle le sue attenzioni?<br />
«Sì che resto, se si può» disse a voce alta, torcendo gli occhi<br />
da Momo e ancorandoli per loro gioia lassù, a quel po’<br />
di, che sopravanzava dal davanzale.<br />
«Scendo» lei disse allora. Ma già nello scendere si pentiva<br />
di averlo in questo modo incoraggiato a restare. Inutilmente<br />
si ridiceva c’è Momo, si sentiva lo stesso a disagio.<br />
Scesa che fu, tolse di peso Momo dalla soglia dov’era<br />
ancorato e venne avanti reggendolo sotto le ascelle e tenendolo<br />
innanzi a sé, come il più strano dei paraventi.<br />
Lui, l’ospite, era tuttora nel carrozzino, quella cosa rutilante<br />
che sembrava pigliasse fuoco, così acceso ne era il colore.<br />
(Nanni Pòrcina, chissà, l’aveva tenuto in rimessa tutto il<br />
tempo della sua assenza; e solo adesso, ripassato a pennellino,<br />
l’aveva fatto tirare fuori). Un’ombra, tra di corruccio e di riso,<br />
passò sul suo volto, quando la vide avanzare facendosi scudo<br />
di Momo e gli parve intuirne l’ingenuo perché. E pronto il<br />
sangue Angotzi gli suggerì la pensata. Balzò a terra agilmente,<br />
tolse Momo dalle mani della ragazza – che interdetta, lasciò<br />
fare – e venne e lo collocò bello bello sul carrozzino.<br />
«Op-là» fece, adagiandolo sui cuscini e spazzolandosi<br />
poi le mani: «Ecco fatto».<br />
Lo aveva trasportato, si può dire, in punta di dita, come<br />
se dovesse mutar di posto a una cosa, o straordinariamente<br />
di pregio, o del tutto schifosa. E adesso, a operazione finita,<br />
si spolverava le mani.<br />
«Qui starà a meraviglia» disse convinto.<br />
Momo, a dire il vero, nella breve traslazione, viaggiando<br />
così a mezz’aria, aveva alquanto springato di gambe e uggiolato<br />
a significare che no, no, non voleva essere strappato<br />
36<br />
dalle mani di Pasqua. Ma quando fu, con ogni circospezione,<br />
depositato sul carrozzino, d’incanto si placò, ipnotizzati<br />
i suoi occhi e frastornata l’anima da tutta quella festa e novità<br />
che facevano i colori, le gale, i fiocchi, i finimenti, il<br />
supporto per le guide, il pozzetto per il manico della frusta,<br />
la frusta, i fanali e specialmente quel suonare, drrinn, di tutti<br />
i bubboli del cavallo, ogni volta che l’animale scuoteva il<br />
collo o scalciava o anche soltanto aveva quei tremiti della<br />
pelle che servono ai cavalli per scacciare i tafani.<br />
Si era volto frattanto Fieli Pòrcina a Pasqua, rimasta lì<br />
impalata senza dire una sillaba, le braccia penzoloni, le mani<br />
riunite all’altezza del grembo e, con la stessa leziosa galanteria<br />
di poco anzi, burlesca e confidenziale a un tempo, le fece<br />
la riverenza (era senza cappello, stavolta) e disse di nuovo,<br />
spagnoleggiando:<br />
«Vostra Mercé!».<br />
Questo appellativo “Vostra Mercé” l’usano ancora, laggiù,<br />
specie la gente anziana, rivolgendosi a persone di riguardo:<br />
e, in realtà, per come suona correntemente nella parlata<br />
rustica, deformato da una specie di crasi o impasto di consonanti,<br />
a un orecchio non troppo esperto potrebbe oggimai<br />
suonare come qualcosa di molto simile a “Sua Maestà”.<br />
E era appunto così che a lei si rivolgeva in questo momento<br />
Fieli Pòrcina. A lei, così vestita da casa, col davantaglio<br />
da casa e in zoccoli di ginepro, lui azzimato e lustro,<br />
smontato appena dalla carrozza lucente. Buffamente le s’inchinava<br />
e la riveriva a quel modo: “Sua Maestà”.<br />
Sua Maestà Pasqua Cinus, dal canto suo, ancora tutta<br />
sbigottita, altro non seppe rispondere se non:<br />
«Serva vostra» dicendolo tuttavia – deve essere attestato<br />
– con tanta ingenua grazia titubanza e delicatezza che parve<br />
davvero, alla fine, regale degnazione.<br />
Né lei andò più in là di questo, nei convenevoli. Né in<br />
altro. Stava lì a osservarlo, non sapeva che dire e che fare.<br />
Fece e disse in compenso tutto lui.<br />
Andò e pigliò prima di tutto uno scanno, lo collocò vicino<br />
a lei e fece in modo che, volere o no, si sedesse. Poi sedette<br />
a sua volta, issandosi con uno scatto agile sul muretto del<br />
pozzo.<br />
37
«Ah, si sta bene qui» disse come preambolo.<br />
Per creanza lei convenne con un cenno del capo che sì,<br />
si stava bene. Personalmente, tuttavia, era ancora sulle spine.<br />
Faceva bene o male a restarsene qui con lui? Tanto più che<br />
lui magari le avrebbe tornato a dire la frase dell’altra volta:<br />
sei diventata uno splendore. O qualcosa di simile. E temeva.<br />
E non sapeva con precisione cosa temesse: se la frase, o lui,<br />
o se stessa.<br />
Viceversa lui non disse cose del genere. (Le pensava,<br />
però, mentre parlava d’altro. <strong>Il</strong> pensiero, come lo sguardo, si<br />
dissociavano da ciò che diceva. La persona di lei, il viso, i<br />
fianchi, il busto. Quel po’ di. Cristo se è fatta bene. Chissà se.<br />
Quanti anni avrà? Sarebbe come tornare a mangiare pane di<br />
casa. È donna del mio paese, della mia razza, un gusto ormai<br />
perduto. E può darsi che batti e batti. Ah, bah, all’inferno).<br />
Parlava di sé. Con leggerezza e quasi con allegria. Tornato<br />
dalla guerra, già. Oh sì, appena tornato erano solo pochi<br />
giorni quand’era stato qui la prima volta. Be’, proprio dalla<br />
guerra no, quella era finita da un pezzo, ma lui era stato fatto<br />
prigioniero, a un certo punto, così era stato portato lontano<br />
e aveva poi dovuto aspettare il suo turno. Per giunta<br />
l’avevano dato disperso, insomma non sapevano neppure i<br />
comandi se fosse morto o scampato. La guerra? Eh, meglio<br />
non parlarne. Camminare spostarsi avere fame sete freddo<br />
caldo e la mala ventura. Sparare anche, certo, e uccidere occorrendo,<br />
perché no? Se non uccidi ti uccidono, cosa credeva?<br />
In nessun posto come in guerra uno si fa l’idea di quello<br />
che è veramente la vita. Prendimi che ti prendo, mangiami<br />
che ti mangio, e chi ha più forza o furbizia o fortuna l’ha<br />
vinta, così è la vita. Poi le stellette, puah. Ti pigliano di qui e<br />
ti mettono là, come una coffa di letame che bella bellezza.<br />
In compenso lo avevano fatto girare molto, e sempre gratis,<br />
questo sì, treni piroscafi autocarri automobili e anche il cavallo<br />
di San Francesco naturalmente, tutto senza pagare, regalato,<br />
gratis.<br />
E qui, vedendo che lei l’ascoltava silenziosa ma attenta e<br />
come rapita, citava nomi di luoghi lontani, sconosciuti, difficili.<br />
Riferiva episodi, rappresentava scene, mimava persone.<br />
Eh? Che ne diceva lei, eh?<br />
38<br />
Poi tornava a se stesso. Sapeva lei, Pasqua Cinus, quanti<br />
anni lui aveva quando era partito soldato?<br />
Anzi lui, propriamente, diceva partito “a servire il re”, secondo<br />
l’espressione ancora in uso laggiù. Ma qui occorreva<br />
spiegare che, però, nel frattempo, il re non c’era più, era stato<br />
più o meno licenziato, qualcosa di non troppo diverso da<br />
quando Nanni Pòrcina suo padre aveva licenziato a capodanno<br />
’Eppi Trastus il fittavolo precedente. <strong>Il</strong> re? Licenziare<br />
il re? Ma com’era possibile? Era la prima domanda che lei<br />
poneva così espressa. E lui a chiarire che, eppure, era proprio<br />
così, anche per i re delle volte viene il momento di “voltare”.<br />
Dunque sapeva quanti anni aveva a quel tempo? Venti<br />
neppure compiuti. E ora, invece, sapeva quanti? Sei di più,<br />
sei, capito? Sei anni della sua vita che invece se li era appropriati<br />
il governo, e in che modo se li era appropriati, e per<br />
cosa, poi. E doveva dire anche grazie che era tornato, mica<br />
tutti erano lì a raccontarla. E tutto questo cosa voleva dire?<br />
Voleva dire che basta, per lui, dopo questa esperienza. Basta<br />
con guerre vittorie sconfitte basta con tutto. Andassero gli altri<br />
la prossima volta a farsele, le guerre. Lui per suo conto, da<br />
qui in avanti, una sola cosa voleva fare, sapeva lei cosa? No,<br />
cosa? Vivere!, santo cielo. Vivere come gli pareva e piaceva.<br />
Si era venuto accalorando, nel dire questo. O meglio si<br />
era caricato di una collera repressa che traspariva dagli occhi,<br />
anche se il tono restava scanzonato. Le fatiche affrontate, i<br />
rischi corsi, le privazioni sofferte, le paure, l’obbedienza, le<br />
umiliazioni, il graduato inglese che gli diceva “son of a bitch”<br />
e altro e altro e altro. E a che scopo? Ma, soprattutto, il furto<br />
che gli pareva di aver patito. Anni della sua vita che gli<br />
erano stati rubati, usurpati, e con che diritto? E tutto ciò<br />
che con essi era andato perduto: le gioie le feste gli amici le<br />
donne. Certo, sì, anche le donne. Come questa per esempio<br />
la piccola Cinus guarda che roba. Chissà che sapore. Ah<br />
Cristo, e in nome di chi, di che? No, no, aveva accumulato<br />
verso la vita un credito che hai voglia a pagare. E lui, non<br />
c’era santi, voleva rifarsi. <strong>Il</strong> perduto è perduto, è vero, ma di<br />
qualcosa ci si può sempre rifare. E così sarebbe stato, perdio.<br />
Ne aveva il diritto, Cristo, il diritto.<br />
39
Queste cose però le pensava soltanto, non le diceva.<br />
Dire, diceva piuttosto che aveva voglia di vivere. E Pasqua,<br />
toccata dalle parole e ignara dei pensieri, esclamava impietosita:<br />
«Poverino». Che in lingua nostra, in verità, suona diverso:<br />
si dice con una parola nella quale in qualche modo,<br />
non so perché, entra un’idea di oscuro, di buio.<br />
«Ah, bah» lui concludeva «lasciamo perdere». Dopo<br />
tutto, tantissimi come lui. E tantissimi peggio ancora, anche<br />
se è vero che ognuno prega solo il suo santo. In fin dei<br />
conti era tornato, con tutte le ossa a posto, e eccolo in questo<br />
momento occupato a conversare piacevolmente con<br />
una bella ragazza.<br />
Qui Pasqua trasalì e parve non ritrovarsi. Era stata con<br />
lui alla guerra, poi in prigionia; aveva vagabondato per tutti<br />
i luoghi toccati dal suo racconto, lontani e misteriosi, da<br />
dubitare che realmente esistessero. Ma adesso, bruscamente,<br />
l’accenno galante alla sua persona la faceva approdare alle<br />
rive di se stessa. Bella ragazza? Oh!<br />
Era venuta ascoltandolo tutto quel tempo in uno stato<br />
di incantata meraviglia. La figura di lui, il suo fare, i modi<br />
stessi del suo parlare – quell’accento curioso che egli dava al<br />
dialetto, mettendovi, a causa della lunga assenza, un che di<br />
esitante e quasi di straniero – la ponevano in soggezione nel<br />
significato pieno della parola: la soggiogavano. Nulla di simile<br />
le era mai accaduto prima. Né sapeva da che cosa questo<br />
fosse, né come e perché. Dipendeva dalle cose che lui diceva?<br />
Abituata ai discorsi dei familiari, dei bastanti, della<br />
gente della sua condizione; adusa alle frasi fatte, alle cose risapute,<br />
ai pensieri ovvii (eccetto qualche segreta temeraria<br />
sortita della sua immaginazione, in momenti particolari); assuefatta<br />
a considerare il mondo entro i confini geografici<br />
delle colline di Serri o, fino all’anno prima, dei monti di Baronia:<br />
legata insomma al suo ambiente come la civetta al<br />
trespolo nelle case delle fattucchiere; questo parlare del giovane<br />
di cose così inconsuete, questo slargo improvviso degli<br />
orizzonti, e la strana parlata, e il passare bizzarro di lui dall’umor<br />
lieto all’umor nero e viceversa; e il timbro, ancora,<br />
della voce, e chissà che altro, esercitavano su di lei il fascino<br />
40<br />
delle cose nuove e inattese. Ma era forse nella persona di lui<br />
come tale che s’incentrava il motivo dell’attrazione. Lui per<br />
sé. Lui in quanto “diverso”. Era sì, il figlio di Nanni Pòrcina,<br />
figlio del suo padrino, suo fratello in religione. Ma arrivava<br />
dalla luna, più ancora che dai paesi che aveva nominati.<br />
E recava con sé, aveva in sé, lei non sapeva che forza e<br />
che seduzione. Non era come i giovani da lei conosciuti sin<br />
qui, fatti tutti su una misura che poteva comprendere. Era,<br />
a un tempo, presente e ignoto, leggibile e inaccessibile, vicino<br />
da potersi toccare e insieme come veduto da miglia di<br />
lontananza.<br />
Sicuramente inoltre emanava da lui qualche cosa (ma<br />
cosa?) d’impreveduto e mutevole, era come se rivelasse una<br />
natura violenta e dolce, contraddittoria, sorprendente, cattivante.<br />
E poi c’era anche che aveva fatto la guerra. Anche<br />
questo gli conferiva, agli occhi di lei, una sorta di alone. Lui<br />
adesso ne parlava quasi con sufficienza e fastidio a motivo di<br />
quello che vi aveva patito, poverino; ma certo, al momento<br />
giusto, si era portato con valore e coraggio. La guerra, secondo<br />
lei, era qualcosa che per se stessa glorifica.<br />
Così press’a poco lei si rappresentava la figura di lui. Ma<br />
quanto alle reazioni sue proprie e più intime, non le era facile<br />
gettare lo scandaglio e toccare il fondo. Troppo lungo il<br />
collo del pozzo, e troppo alta l’acqua. Più che un sentimento<br />
(e quale?) erano moti confusi quelli che avvertiva. Quando<br />
lui la osservava – e altro in verità non faceva da quando<br />
era lì – e avveniva che lo sguardo di lui si urtasse nelle iridi<br />
scure di lei – che era più raro – una sensazione indefinibile<br />
si comunicava al suo essere. Si sarebbe detto un freddo improvviso<br />
o una paura. Perché, sebbene impercettibilmente,<br />
ma proprio fisicamente, lei avvertiva dei brividi. Solo che<br />
questi, poi, non restavano un fatto esterno, penetravano anche<br />
dentro, si comunicavano all’anima, giù nel profondo,<br />
proprio la polpa dell’anima, suscitando, là, sconosciuti, risonanze,<br />
echi, languori, e un indefinibile bisogno di tenerezza.<br />
Qui del resto ogni suo sforzo di comprensione si afflosciava<br />
e la vela sbatteva. In queste inconsuete avventurose<br />
immersioni in se stessa, era come un palombaro al quale a<br />
41
un bel momento non arrivi più aria: annaspava, si smarriva,<br />
doveva per forza tornare a galla. Ma questo è il punto. Aveva<br />
sì o no intravisto, frugando nel fondo, il luccichio del metallo,<br />
la cassa scoperchiata piena di gemme e monete d’oro?<br />
Momo, sul carrozzino, continuava a viaggiare per strade<br />
fatate e prati azzurri. Aveva anche cessato di mugolare e di<br />
mordersi il polso, e neppure sbavava molto, sebbene fosse<br />
questo in lui il segno di una grande eccitazione. Si sentiva<br />
barone gnomo staffiere del re principe delle yanas, ricreava la<br />
sua fantasia tutte le immagini delle fiabe ascoltate dalla bocca<br />
di Pasqua. Partendo da quel fenomenale trastullo che era<br />
il calesse, e libero finalmente di toccare quel che volesse –<br />
poiché quei due, Pasqua e l’altro, non mostravano certo di<br />
interessarsi soverchiamente a lui – poteva sognare a suo agio,<br />
uscire per una volta dalla prigione di se stesso. Gli bastava<br />
dondolarsi al molleggio delle balestre, e subito era uno che<br />
correva, volava, frustava il cavallo, largo, largo, passa la carrozza<br />
del re. O che il cavallo scalciasse, e suonassero i bubboli:<br />
lui trasaliva, bisognava frenare, afferrarsi alle guide, troppo<br />
scapicollata si faceva la corsa.<br />
Tutto questo interruppe (e interruppe ad un tempo il<br />
colloquio fra Pasqua e l’ospite) l’arrivo di Mariangela Siddi.<br />
Per Momo, ahimè, fu la fine del viaggio.<br />
Accortosi di lei ai guaiti di Momo – il quale, infatti,<br />
scorta la madre e volendo che questa capisse quanto lui si<br />
sentiva felice, aveva ripreso a uggiolare – Raffieli Pòrcina<br />
balzò in piedi e fu pronto a riverirla:<br />
«Servo vostro, Mariangela Siddi» disse cerimonioso.<br />
«Oh voi, Fieli Pòrcina» disse la donna «buongiorno a<br />
voi. È molto che siete qui?».<br />
Lui avvertì una punta di preoccupazione riguardo a Pasqua,<br />
in questa frase pur detta come per buona creanza e rispose:<br />
«Oh no, sono appena arrivato. Un minuto solo prima<br />
di voi». E aggiunse con intenzione: «Non abbiate timore».<br />
Mariangela corse da Momo e, incurante del suo recalcitrare,<br />
ma anche come davvero, lei sì, avesse a che fare con<br />
42<br />
cosa preziosa, tolse Momo dal calessino e lo ricollocò con<br />
delicatezza per terra.<br />
Pasqua, sorta in piedi anche lei, stava lì senza parlare né<br />
muoversi, come chiamata a scolparsi. Congiunti i polsi all’altezza<br />
del grembo: l’aspetto dell’ecce homo.<br />
La madre la fissò, parve voler dire qualcosa, non disse<br />
nulla, si volse invece a Raffieli Pòrcina e, tanto per dire<br />
qualcosa disse con noncuranza:<br />
«Avete visto che le vostre profezie erano avventate?».<br />
Cascò dalle nuvole:<br />
«Profezie?» domandò.<br />
«Dicevate» disse Mariangela Siddi «che l’acqua non sarebbe<br />
venuta, invece avete visto, è venuta, con l’aiuto di<br />
Dio».<br />
«Ah» esclamò. «Già, l’acqua. Certo, certo, è venuta, altro<br />
che, ringraziamone Dio».<br />
La donna gli chiese se si trattenesse.<br />
«No, vado» rispose. «Ero solo di passata e volevo vedere<br />
di nuovo, ma di giorno e con comodo, questa gran meraviglia<br />
messa su da Giuanni Cinus. Ah, meraviglia, parola mia».<br />
<strong>Il</strong> tono, scanzonato com’era, era malizioso. Alludeva al<br />
possesso oppure alla figlia? Ma Mariangela Siddi non era<br />
Pasqua e riprese:<br />
«Meraviglia davvero, padrone mio, è costata sangue. E<br />
non potete credere quanto Giuanni Cinus ne sia geloso.<br />
Uno che venisse, Dio non voglia, a fare guasti, state certo<br />
che Giuanni Cinus saprebbe come trattarlo, il giorno che<br />
lo cogliesse sul fatto».<br />
<strong>Il</strong> giovane rise, afferrando l’intenzione. Malizia data,<br />
malizia resa. Mentre Pasqua, notò, tuttavia lì impalata, nulla<br />
coglieva di queste schermaglie. Tutta zucchero e niente sale,<br />
si disse ancora.<br />
Si avviò per andarsene:<br />
«Salutatemi a compare Cinus» disse «e ditegli a nome<br />
mio: abbondanza e fortuna come si merita. Statemi bene,<br />
Mariangela Siddi. Pasqua, madre mia, avrai detto sì e no sei<br />
parole, da quando sono arrivato. Posso almeno salutarti? State<br />
con Dio, addio».<br />
43
Montava, dava di voce al cavallo e partiva, reiterando<br />
cenni di commiato.<br />
<strong>Il</strong> carrozzino descrisse una conversione sul selciato, le<br />
ruote stridettero, i cani abbaiarono, ci fu una fuga di galline.<br />
Poi il cavallo mosse più svelto quelle sue zampe calzate di<br />
bianco, il sole s’impadronì di tutto quel fuoco dei raggi delle<br />
ruote, lo impastava e frullava, ne faceva una gaia girandola<br />
fiammea, che spiccava violentemente sul bianco della strada,<br />
il verde della macchia e il bruno dei campi arati.<br />
44<br />
IV<br />
IL VERDE SULLA COLLINA<br />
Uno più uno più uno più uno, senza fine. Migliaia di<br />
migliaia. Decine di migliaia di migliaia. E ciascuna piantina<br />
tre fili quattro fili magari più, corti tenerissimi come velluto,<br />
tutta una distesa una piantina di fila all’altra una sorta di<br />
uniforme ininterrotta pelurie verde. La collina si era messa<br />
la veste della domenica, fasciata le spalle e i fianchi di questo<br />
scialle verde, aderente e morbido. Signore Dio, ti ringrazio.<br />
Si chinava tra le zolle, accarezzava quel nulla vegetale, alto<br />
tre dita, che sbucava dalla terra, uno dei tanti: un ciuffettino<br />
di peli. Avrebbe voluto fargli riparo con le mani piegate<br />
a coppa, affinché il vento, il freddo, non lo aduggiassero.<br />
Ma uno; e gli altri?, le migliaia di altri?<br />
Continuava comunque a carponare sul terreno, sostare,<br />
alzarsi, tornare a chinarsi. Perdendosi nello stesso tempo nei<br />
vani pensieri, inesprimibili, che prendono l’uomo allorché<br />
si soffermi a osservare le piccole cose, i prodigi minuscoli, le<br />
cose insomma che tutti i giorni sono sotto gli occhi di tutti<br />
e alle quali per questo nessuno fa caso. Pensare: si seppellisce<br />
nella terra un seme, che è cosa secca, inerte e come morta.<br />
E invece qualcosa vive là dentro il seme, segretamente,<br />
nascostamente. Poi l’umido della terra mette in movimento<br />
questo qualcosa, il seme come tale si spappola e muore, ma<br />
la vita che è in lui preme con tutta la forza per venir fuori.<br />
E viene fuori difatti, e diventa pianta, destinata col tempo a<br />
produrre altri semi. E così il giro ricomincia. Morte vita vita<br />
morte, sempre così. La smania che ha la vita di dissolversi<br />
nella morte e l’orrore della morte conficcato in ogni vita.<br />
Chissà chi sa spiegarle, queste contraddizioni. E gli uomini,<br />
del resto? Forse diversi? Anche loro, gira e rigira, la stessa<br />
cosa: vita, morte, disgusto della vita, paura della morte. E il<br />
bisogno di tramandare la vita nei figli. Chissà perché. Grani<br />
di frumento, anche loro: semenza d’uomini. E come i semi<br />
45
succedersi, di pianta in pianta: generazioni e generazioni.<br />
Chissà da quando. Chissà fino a quando. E a che pro’ alla fine?<br />
Beato chi può saperlo.<br />
Sorto in piedi come se, col fatto di alzarsi, volesse davvero<br />
trarsi da questi vaneggiamenti, spingeva ora lo sguardo<br />
per tutto il possesso, quanto poteva con gli occhi abbracciarne.<br />
Srotolandosi lungo la china, la luce radente del sole toccava<br />
di sbieco l’erba, crepitava nella guazza notturna, infondeva<br />
in quel vello lieve, animandone indicibilmente il verde,<br />
una specie di ingenua esultanza, una felicità puerile.<br />
Così anche avveniva di quegli oggetti che Giuanni Cinus<br />
aveva costruiti e poi collocati qua e là per i campi: gli aeroplani,<br />
le banderuole, gli aquiloni. Come il vento li urtava, facendoli<br />
vibrare o girare, mettevano suono. E sia la vista (quel<br />
ruotare, quel torcersi, quello sbattere di code e di stracci) sia<br />
il suono (un ronzio monocorde, o un battere ritmico, e palpiti)<br />
risultavano gradevoli, aggiungevano anch’essi una loro<br />
nota di festa all’insieme del quadro.<br />
Ma foschi si intromettevano, spuntando a intervalli nell’ampio<br />
spazio, i tristi fagotti degli spauracchi. Impiccati o<br />
spenzolanti dai loro fittoni, o in questi infilzati e ischidionati;<br />
il tronco impettito e baldo, pieno di paglia e di crine, le gambe<br />
invece flosce, mence, stancamente sgambettanti; e le braccia<br />
crocefisse, spalancate e disperate; e infine, niente testa né<br />
piedi né mani; ebbene, essi no, non facevano festa, non mettevano<br />
nel quadro gaiezza. Anzi, con quell’aspetto grottesco<br />
di suppliziati, vi introducevano una strana nota di pena.<br />
Venendo poi via, il vecchio lemme lemme si incamminava<br />
per la strada carraia verso la fattoria. Passava sotto la quercia,<br />
abitata da uccelli. Ma né i frulli o i cinguettamenti di<br />
questi, né i fremiti delle foglie, valevano a distrarlo. Era là,<br />
sul seminato, con gli occhi e con l’anima, assorto. Custodiva<br />
come un ladro, assaporandolo adagio, il pensiero di quel miracolo:<br />
grano suo, viene, viene. Vi s’involgeva dentro, vi si<br />
crogiolava. Era la speranza che cominciava timidamente a pigliare<br />
spessore. E anche altro, era. <strong>Il</strong> rapporto suo con la terra,<br />
quel senso di comunione quasi fisica in cui si poneva con<br />
essa. Che era insieme, come già si notò, attaccamento e odio,<br />
46<br />
brama e rancore, amore, disperazione, rabbia, fornicazione.<br />
Qualcosa che veniva a lui non pure dagli anni della sua vita<br />
di escluso e di senza-terra, ma da più indietro ancora. Che gli<br />
era stato trasmesso dal padre, e dal padre del padre, e così via<br />
enumerando, una processione infinita. Uomini come lui diseredati<br />
eppure incatenati alla terra, legati a essa dallo stesso<br />
odio-amore. I quali, null’altro avendo da lasciare ai seguenti,<br />
questo retaggio almeno gli trasmettevano, come un contagio,<br />
attraverso il sangue. E questa era la sola cosa di loro che avesse<br />
ragione del tempo, rotolando nel tempo la cosa tramandata<br />
come una sfera di ferro inconsumabile. Io questo lascio a<br />
te in eredità e tu lo trasmetterai; e io a te; e io a te; e così di<br />
mano in mano dall’una all’altra generazione, come quando si<br />
doma un fuoco con secchi d’acqua, che si fa la catena.<br />
E lui era l’ennesimo, e per il momento ultimo anello<br />
della catena. Era quello che, nella grama persona sua, riassumeva<br />
una moltitudine.<br />
Perciò, ora, il fatto che questo grano fosse suo, generato<br />
da una terra in suo possesso, svegliava in lui quell’istinto, gli<br />
dava il gusto della rivincita, il piacere del valente che, ripetutamente<br />
respinto da una femmina aspra, l’ha infine messa giù<br />
e forzata e riempita, ha sfogato su di essa la lunga brama, ahah,<br />
portalo ora, in corpo l’hai, femmina mala, il seme mio.<br />
E non c’era dubbio: quant’era vasto il possesso, la terra<br />
mostrava bene la sua gravidanza.<br />
Era piovuto più volte, dopo quel primo acquazzone che<br />
si è descritto, e ancora piovve abbondantemente tutta la fine<br />
di novembre e i primi di dicembre. Fu questo che dette<br />
ancora slancio ai germogli. Una manna, per le speranze di<br />
Giuanni Cinus.<br />
Frattanto crollarono i tempi, con l’avvento di dicembre,<br />
e il freddo si fece sentire, portato dal grande vento.<br />
Dicembre si chiama, laggiù, “mese delle idi”, come interpretano<br />
i dotti, i quali da queste sopravvivenze linguistiche<br />
traggono volentieri motivo per disputare e almanaccare sui come<br />
e i perché di esse. Ma la gente comune non sa più nulla di<br />
cosa siano queste “idi” e pronunzia pertanto tranquillamente<br />
come se fosse – perché il suono assomiglia – “mese delle ire”.<br />
47
E non a torto: ire. Ci sono infatti realmente, le ire, in<br />
dicembre. Sono il maestrale, le bufere, le furie.<br />
<strong>Il</strong> maestrale, specialmente. Che non è aria che si muove,<br />
ma cavalli a galoppo, carri da guerra con lame alle ruote e<br />
voci, soprattutto in ora notturna: urla di guerrieri e pianto<br />
di donne, ululati di cani, gemiti di trapassati e forse la voce<br />
stessa, sconosciuta, di Dio. Delle volte, si può dire, intere<br />
mandrie di buoi affamati, assetati, assaliti da tafani, le femmine<br />
rese pazze dal tormento delle mammelle non munte,<br />
non eguaglierebbero, mugliando, il muglio di questo vento.<br />
Anche a Serri, come in tutte le terre volte al mare occidentale,<br />
puntualmente esso arrivò, coi giorni di dicembre.<br />
Invisibili arcieri scagliavano davanti a lui, come avanguardia<br />
d’assalto, sottilissime frecce acute come aghi. Sullo scrimine<br />
delle colline, ai confini del possesso, pruni e perastri, ginepri,<br />
pini marini, olivi selvatici, procombevano ginocchioni<br />
implorando misericordia. Li si può vedere da molte parti lì<br />
intorno, questi alberi, cresciuti nella lotta col maestrale. Li<br />
scorgi sulle alture, sghembi, o affatto prostrati, piegati i<br />
tronchi nella direzione opposta a quella donde il vento proviene,<br />
e le chiome gettate indietro, come tragiche prefiche.<br />
E anche le palme tendevano al cielo quelle loro mani dischiuse,<br />
deprecanti, come scongiurassero basta! Ma figurarsi.<br />
Basti dire, del maestrale, che non gli resistono neppure le<br />
rocce, sui fianchi delle colline, contro le quali difatti si avventa,<br />
e le rode e le scava, lavorandole a volte come groviera,<br />
e poi facendone attraverso tutti quei buchi, le sue ocarine.<br />
Anche nella tenuta dunque eccolo in giostra, il maestrale.<br />
Aggirava la collina, infilava il valloncello al di là della casa,<br />
sorprendeva questa alle spalle e le torneava sui fianchi,<br />
poi fuggiva e tornava, mulinando detriti e terra sull’enorme<br />
rondò dell’aia.<br />
Tuttavia, a parte il tenere i Cinus, se mai, il più possibile<br />
tappati in casa, non poteva neppure il maestrale nuocere veramente<br />
al grano, se non per l’aridità che importava alla terra.<br />
Troppo in erba le piantine, ancora, e poco alte dal suolo, per<br />
riceverne l’urto e patirne lo sgarbo. E anche quel secco che ne<br />
veniva al terreno, dopo tutto il piovuto, era solo della crosta,<br />
non del profondo. Lavoro per l’erpice, non danno grande.<br />
48<br />
Piogge e vento si sarebbe detto tenessero Fieli Pòrcina<br />
lontano da Serri, dove non si faceva vedere ormai da un pezzo.<br />
Ma eccolo ricapitare a metà dicembre, ancora col calessino<br />
e, questa volta, in compagnia del padre.<br />
Ma di volo, così almeno dissero. Non volevano neppure<br />
scendere, erano in viaggio per Tula, era stato compare Pòrcina<br />
a ordinare di dirottare, voleva fare, disse, un saluto al compare<br />
e alla famiglia, e al tempo stesso vedere coi propri occhi<br />
questa famosa seminagione di Serri della quale già si contavano<br />
e cantavano le meraviglie.<br />
Le accoglienze – oh, che bella sorpresa, ma come mai,<br />
quale buon vento e così via – furono espansive e cordiali alla<br />
fattoria, come del resto era nell’indole del padrone di casa e<br />
dei suoi. Mobilitati tutti i Cinus, compreso Momo, nessuna<br />
più grande occasione. Pasqua mandata alla corte perché togliesse<br />
“un quanto d’uova”, se gli ospiti al caso gradissero<br />
“mordicchiare” qualcosa. ’Ntoni spedito in legnaia a recar<br />
ceppi da alimentare il camino. Momo commesso a tenere<br />
chetati i cani, come imparentato con loro. E Mariangela Siddi,<br />
lei, intenta a farsi in quattro per compiacere agli ospiti;<br />
che poi, nella propria concitazione per la visita inattesa del<br />
“padrone magno”, come lei continuava a chiamare compare<br />
Pòrcina, teneva frattanto in piedi, girandogli intorno indaffarata,<br />
smuovendo sedie, approntando tovaglie e stoviglie,<br />
senza risolversi a dirgli sedete dunque. E infine lui, Giuanni<br />
Cinus, che, tronfio come un tacchino per le lodi che riceveva<br />
(«Ho visto quello che avete fatto e mi compiaccio altamente»<br />
diceva Nanni Pòrcina. «Siete di scorza dura, voi,<br />
compare») pareva perfino più sciolto nei rapporti con il<br />
compare. Pareva anzi che il petto, per un gioco di reni e scapole,<br />
gli sporgesse più in fuori del solito e che il torace – detto<br />
altrimenti il casso – introitasse più aria.<br />
Nella confusione, frattanto, Fieli Pòrcina ebbe modo<br />
d’essere solo con Pasqua: nell’atto che lei usciva dalla corte<br />
dove appunto era andata per uova, lui essendo venuto fuori<br />
a sua volta per governare il cavallo.<br />
Scorgendola le venne incontro:<br />
«Pasqua» esclamò «sorella mia!». E fece un gesto che<br />
non fu chiaro a nessuno. Come volesse, chi sa, abbracciarla.<br />
49
O afferrarla per la vita e alzarla di peso, insomma cose così,<br />
tutte da stimarsi, come si vede, sconsiderate, ma dove siamo?<br />
E infatti lei si guardò, gesummaria, dal fare un passo,<br />
un moto qualsiasi che fosse per apparire consentaneo. <strong>Il</strong> gesto<br />
perciò di lui non fu <strong>raccolto</strong>. Ma le parole, e l’intenzione,<br />
e diciamo l’essenza del gesto, quelle le intese e le accolse<br />
e fece per parte sua ciò che forse era ugualmente contro le<br />
regole: gli sorrise. Gli occhi, che aveva cupi e abitualmente<br />
severi, rivelarono con la sorpresa un’allegrezza improvvisa e<br />
flagrante.<br />
«Come sei bella!» lui disse, quasi sottovoce.<br />
«Oh» disse lei. «Oooh!».<br />
E non più che questo. Ma il volto le si atteggiò (non fu<br />
ben chiaro se lui se ne accorse, probabilmente non se ne accorse)<br />
come cosa che viene offerta. Un po’ di rossore le salì<br />
alle guance, la bocca ebbe un breve tremito, gli occhi impauriti<br />
ingrandirono. Per un momento, lei tutta quanta così<br />
deditizia, fu dono. Ma lui, che peccato, probabilmente non<br />
se ne accorse.<br />
Del resto fu cosa di istanti. A capo dei quali, un niente,<br />
non fu più. Né ci fu altro. Lei che già stava rientrando in casa,<br />
varcò la soglia e scomparve. E lui, spicciatosi col cavallo,<br />
finì per seguirla.<br />
Eppure da qualche parte rimase scritto che questo era accaduto,<br />
e per quanto si avesse cura, dopo, di cancellare e<br />
strofinare, il segno affiorava sempre, chiaro e strano, sul nero<br />
della lavagna.<br />
Oppure se ne accorse?<br />
Infatti fu proprio lui che, nel corso di quella stessa visita,<br />
al momento dei commiati, lanciò all’improvviso l’idea.<br />
«Compare Cinus, che ne dite? Se siete d’accordo, la notte<br />
del Bambino vengo col carro grande vi carico tutti e vi<br />
porto in chiesa a Serri, a pregare Dio. Eh, che ne dite?».<br />
Per modo che vi fu, giorni dopo, questa cosa straordinaria,<br />
di un viaggio in carro dell’intera famiglia Cinus (con<br />
Fieli Pòrcina come cocchiere) alla volta di Serri. Nel cuore,<br />
come suol dirsi, della notte.<br />
<strong>Il</strong> carro grande è di quelli col tetto di incannato a volta<br />
50<br />
di bovida, ha ruote alte e è tirato da un cavallo. È il carrettone,<br />
come anche dicono.<br />
A cassetta, con Fieli Pòrcina, ha preso posto Giuanni<br />
Cinus, chiuso nel suo mantello di orbace come in un abito<br />
sacerdotale. Le donne e i ragazzi invece dentro, al riparo del<br />
tetto.<br />
Avanti, hjuuh, si va, dopo ultimati i preparativi. Da<br />
quando è arrivato alla fattoria, che era già notte, Fieli Pòrcina<br />
è stato premuroso e faccendiero al di là del pensabile. Si<br />
è occupato di tutto: delle coperte, di Momo, dei lumini,<br />
dei pani dolci per l’offerta e perfino di far prendere uno<br />
scialle pesante a Mariangela Siddi, inquantoché la notte è<br />
calma, dice, ma gelida e traditora. E eccolo ora nella parte<br />
di auriga, che mai Nanni Pòrcina stesso ebbe carrettiere più<br />
coscienzioso.<br />
Per la strada di Serri, dal fondo alterno, il cavallo procede<br />
al passo. Stridono i cerchioni di ferro delle ruote contro<br />
i sassi e il pietrisco, poi di colpo ammutoliscono, il fondo è<br />
diventato argilloso o sabbioso, si odono soltanto le sonagliere<br />
del cavallo e, a tratti, il cigolio dei mozzi delle ruote<br />
attorno all’assale, che danno suoni simili a gemiti.<br />
’Ntoni e Momo, tutti eccitati per questo insolito viaggio<br />
notturno, se ne stanno rannicchiati gomito a gomito<br />
contro la mastra posteriore, come affacciati a un balcone, a<br />
osservare la notte. Giungono loro, nei momenti in cui le<br />
ruote “fanno tela” nella sabbia, le voci pacate dei due che,<br />
dall’altra parte del carro, andando andando, ragionano tra<br />
loro. Loro invece non parlano; solo a intervalli lunghissimi<br />
’Ntoni sussurra qualcosa all’orecchio di Momo. E neanche<br />
le donne, rannicchiate all’interno, parlano: Mariangela Siddi<br />
sta recitando il rosario.<br />
I due ragazzi sono incantati di ciò che vedono. La notte<br />
è opalescente, anche se illune. Nel baratro del cielo, se alzi lo<br />
sguardo in su, si vedono ardere manciate di stelle, tutte immobili<br />
là dove sono, nonostante il loro assiduo arcano ammiccamento.<br />
Invece giù in terra, ai lati e dietro e tutto intorno<br />
fin dove giunge lo sguardo, è tutto nero, e su questo nero<br />
si disegnano, in un nero ancora più intenso, forme che non<br />
si sa veramente se sono alberi, fichidindia, rocce, oppure<br />
51
fantasmi, o mostri lì accovacciati e aspettanti. È misteriosa,<br />
la notte; anche Momo ne è affascinato, al punto che neppure<br />
guaisce.<br />
A un certo punto ’Ntoni gli spiega che, se si chiudono<br />
gli occhi, il carro sembra che invece di andare avanti cammini<br />
indietro, proprio così, prova e vedrai. E Momo prova,<br />
ed è vero, chissà com’è possibile.<br />
E intanto la madre. Le avemarie che si srotolano. I misteri<br />
gaudiosi, i dolorosi, i gloriosi. Lei prega in dialetto, come<br />
sempre ha fatto: “Deus ti salvet, Maria, plena de gratia”.<br />
Le labbra danno un suono leggero di schiocchi, come un<br />
sommesso lappare. “Benedicta ses tu intra tot’is feminas”. È<br />
già passata, di ave in ave, attraverso le fasi, ineffabili, dell’Annunzio<br />
alla Vergine, della Visita a Santa Elisabetta, della<br />
Nascita, della Presentazione, dello Smarrimento e successivo<br />
gioioso Ritrovamento. Sono questi i misteri “gaudiosi”.<br />
Adesso sta percorrendo, sempre a ritmo di avemarie, le tappe<br />
susseguenti, il rovescio della medaglia, prezzo e espiazione<br />
del gaudio. Sono i misteri “dolorosi”. E in questi si contempla<br />
il Getsemani, la Flagellazione, il Calvario, la Nona<br />
Ora, il Sepolcro; è ben diverso. E per quanto meccanica sia<br />
la preghiera, e assai teorica la “contemplazione” dei misteri,<br />
coglie lei, forse, a tratti, il senso ch’essi racchiudono. <strong>Il</strong> tempo<br />
delle Sette Spade. La tragedia del Figlio come occasione e<br />
cagione del dramma della Madre. <strong>Il</strong> Figlio come porzione di<br />
sé, come frutto. “Benedictus est su fructu de is intrangias<br />
tuas”. La versione dialettale è realistica, quasi brutale. Frutto<br />
del seno? Macché: delle viscere, delle entraglie. Linguaggio<br />
da allevatori di ovini.<br />
Ma il suo pensiero si dissipa, di tanto in tanto, scappa<br />
su altri oggetti, pur senza abbandonare del tutto il filo dei<br />
“misteri”. Simile all’ape che va, torna, rivà, esegue quella sua<br />
danza piena di cerchi titubanze assaggi e fughe, sul grande<br />
enorme fiore, vastissimo per un’ape, del girasole.<br />
L’assaggio, prima. Perché no, dopo tutto? Le buone disposizioni<br />
si possono rivelare da un nulla, per esempio questa<br />
premura di venire a prenderci per portarci alla Messa. Le titubanze.<br />
Altrimenti, perché? La fuga. Ma va’, va’, queste sono<br />
illusioni. Magari lui pensa a altro e chissà quante altre<br />
52<br />
donne avrà già attorno: senza parlare della famiglia. <strong>Il</strong> cauto<br />
riaccostamento. Ma allora perché? <strong>Il</strong> nuovo assaggio, prolungata<br />
suzione. Certo, però, i giovani d’oggi non sono come un<br />
tempo. Fanno, disfanno, s’innamorano per conto loro, senza<br />
curarsi dei genitori. Può darsi che anche lui sia così, che ne<br />
sappiamo. Anzi, è così senz’altro. Del resto a giudicare da come<br />
la guarda, lasciami dire. Non sarò nata ieri, io. Certo bisognerà<br />
starci attenti, ogni cosa va fatta a modo. Le famiglie,<br />
padrone mio, anche se la pensate diversamente, c’entrano e<br />
come. La folata di vento, il brandeggio dell’ape sui sepali.<br />
Ma i parenti di lui che ne direbbero? La reazione, la presa decisa<br />
delle zampette per resistere al vento. Be’, e che cosa<br />
avrebbero in fin dei conti da dire? Noi si è gente onesta, nessuno<br />
ci può imprecare alle spalle. È cosa che conta, questa. <strong>Il</strong><br />
mutamento di zona, infine. Ma lei, lei, cosa prova, cosa pensa,<br />
cosa fa? Scommetto che neppure se n’è accorta, cuore<br />
mio. Bah, dopo tutto, meglio così. Se è grano si ha da vedere<br />
alla spiga, per ora è erba.<br />
A quando a quando si interrompeva, ogni volta che le<br />
dita, scorrendo sui grani l’avvertivano che era giunta alla decima<br />
avemaria della “posta”. Poi ripigliava. E transitava frattanto<br />
dai misteri dolorosi a quelli “gloriosi”.<br />
E lei, Pasqua, che pure era l’oggetto di tutto questo, lei<br />
stava lì, rincantucciata nel suo angolo, in pace. Non era<br />
propriamente neppure occupata a pensare. Era in una specie<br />
di dormiveglia dolce, nel quale, più che di pensieri, si<br />
vive di strane, suadenti sensazioni pastose. Annegava in<br />
queste, vi si seppelliva, così come la sua figura nell’ombra.<br />
Sentiva certo battere alla soglia dell’anima presenze esteriori:<br />
il pispiglio della madre, le voci del padre e dell’altro, il<br />
pigolio dei ragazzi. Ma indifferente si rifiutava di aprire<br />
l’uscio: stessero fuori. E nemmeno di sé aveva una chiara<br />
coscienza. Era piuttosto un assistere che un partecipare a<br />
ciò che passava in lei. <strong>Il</strong> molle gioco delle fantasie, come<br />
lenzuola in volo. Sei innamorata? Sì! E di chi, parla, di chi?<br />
Di Raffieli Pòrcina? Ah, bah, non diciamo sciocchezze. Allora<br />
di chi? Ma di me, no? di me stessa. E rideva fra sé di<br />
questo, quasi quasi le pareva che fosse vero. Essere innamorata<br />
di sé, to’. Era bello.<br />
53
La voce sonora impaurita di ’Ntoni, più che il traballamento<br />
e l’arresto del carro, la trapassò come un dardo. La voce<br />
che chiedeva:<br />
«O ba’, cos’è? Che è successo?».<br />
Tranquillamente Raffieli Pòrcina si rimetteva a cassetta,<br />
che si era poco prima precipitato di botto, giù dal carro, e<br />
dava di voce al cavallo: «Tocca, hijù» diceva.<br />
Niente, non era niente, spiegava calmo Giuanni Cinus,<br />
imbucando la testa all’interno del carro per tranquillizzare le<br />
donne e i ragazzi. Un’ombra, va e cerca, aveva all’improvviso<br />
spaventato il cavallo. Una volpe, forse, riferiva Giuanni Cinus.<br />
Anzi lui propriamente disse mraxiani. In dialetto la volpe<br />
si chiama così. Questo sostantivo, da noi, è maschile.<br />
L’abitato di Serri non era che un gruppo di qualche decina<br />
di case, tutte malandate, in mezzo alle quali sorgeva la<br />
chiesa. In questa le funzioni venivano celebrate soltanto in<br />
occasione di speciali solennità, e erano officiate dal coadiutore<br />
di Tula, un prete ormai in disarmo, vecchio come la terra.<br />
E il Natale, festa per eccellenza di pastori e contadini, era naturalmente<br />
una di queste solennità. Era quella, anzi, nella<br />
quale, oltre agli abitanti di Serri, accorrevano alla funzione i<br />
contadini degli stazzi e dei casolari dei dintorni e i pastori<br />
degli ovili spersi nelle solitudini; gente che assai raramente si<br />
muoveva dai luoghi suoi, ma che non esitava a farlo, in piena<br />
notte e nel freddo della fine di dicembre, per onorare e<br />
festeggiare il Bambino. E portavano, per farsi e fargli luce,<br />
piccoli lumi a olio, di quello denso e odoroso delle bacche di<br />
lentischio; e, come offerta, chi appena poteva, focacce dolci i<br />
contadini, e i pastori agnelli. Tradizione, questa, antichissima,<br />
forse un innesto cristiano su riti pagani anteriori.<br />
Si udivano quindi anche quella notte belare agnelli sul<br />
sagrato della chiesa e mescolarsi a questi belati il vocio allegro<br />
della gente e il suono delle cornamuse, nonché di quegli<br />
speciali strumenti a canne multiple, fatti proprio di canna,<br />
che là chiamano launeddas.<br />
La comitiva dei Cinus era da poco arrivata, che già la gente<br />
faceva ressa per entrare in chiesa. L’usanza era che ciascuno<br />
54<br />
recasse la propria offerta schierandosi presso l’altare, quelli del<br />
pane con le corbe del pane, gli altri portando gli agnelli, vivi,<br />
a cavalco del collo, a guisa di sciarpe, come nella figura del<br />
Buon Pastore. E tutti volevano essere in prima fila, il più vicino<br />
possibile al destinatario dei doni.<br />
Districandosi fra la calca Fieli Pòrcina pilotò bravamente<br />
il pittoresco drappello fin presso l’altare. La famiglia Cinus,<br />
come originaria di Baronia, era “stranea” ancora, a Serri, e<br />
dunque un po’ impacciata dall’ambiente e non atta a farsi<br />
largo. E di più i ragazzi, già un po’ intontiti dal sonno e sbattuti<br />
dal pigia-pigia, tendevano a sbandarsi.<br />
Fieli Pòrcina provvide lui. Preoccupandosi, diceva, delle<br />
gonne di Pasqua e di Mariangela, che non andassero bruciate<br />
dai fuochi in tutto quel trapestio, si destreggiò per fare in<br />
modo che Momo, ’Ntoni e Giuanni Cinus si collocassero<br />
davanti, mentre in seconda schiera si piazzava lui stesso, con<br />
Mariangela da un lato e Pasqua dall’altro.<br />
Di quest’ultima, poi, soprattutto si dava cura. Al fine di<br />
proteggerla da urtoni e sgarbi, le pigliava ogni tanto il braccio<br />
e l’accostava più a sé (lei aveva le mani impacciate dal panierino)<br />
e addirittura le cingeva, sempre a quel fine, le spalle<br />
o la vita, indugiando nel gesto un po’ più del necessario.<br />
E era ben questo che le dava turbamento. Ogni volta che<br />
la cosa si ripeteva, lei aveva un soprassalto, il corpo le si irrigidiva<br />
e gelava. Ma a dispetto della sua volontà qualcosa di strano,<br />
di grato, si produceva in lei. Dentro, chissà dove. Come la<br />
sensazione di sciogliersi. E, accorgendosene, si spaventava.<br />
Al Gloria la chiesa, già piena di frastuono che era, sembrò<br />
crollare. <strong>Il</strong> sacrista dette di piglio alla campanella a mano<br />
e cominciò a suonare. <strong>Il</strong> Bambino nasceva al mondo in<br />
quel preciso momento, fategli festa, gioite, gioite, voleva dire<br />
con questo. E fu il segnale. Tutti si dettero a loro volta a<br />
suonare con mani frenetiche gli strumenti atti a dar suono<br />
dei quali a questo scopo erano venuti forniti: campanelle<br />
campani da buoi bubboli per cavalli gregali da capre, tutto<br />
era buono, tutto faceva festa e allegrezza. Sveglia Gesù Bambino,<br />
benvenuto nel mondo e sta’ di buon animo, che siamo<br />
qua noi per accoglierti e farti compagnia. Gloria a te,<br />
pace a te, alleluia alleluia.<br />
55
Esultanza tradotta in frastuono. Le offerte, perché lui le<br />
vedesse e se ne rallegrasse, erano alzate a braccia tese. E anche<br />
questo cresceva il frastuono, in quanto gli agnelli, già<br />
spaventati dallo scampanio subitaneo, belavano da sgolarsi.<br />
E infine giovanotti volenterosi si attaccavano alle funi delle<br />
campane esterne e giù a rintoccare, quei colpi brevi e rapidi<br />
che là dicono “rampiccare”, affinché il fatto fosse annunziato<br />
ai lontani. Che peraltro, per chi era dentro la chiesa, erano<br />
martellate crudeli.<br />
E poteva Gesù, nato allora allora, udire in tutto quel<br />
pandemonio la voce del cuore di Pasqua, isolarla fra tutte e<br />
riconoscerla, così sommessa, dubbiosa, e intendere ciò che<br />
diceva? Aiutami Signore, diceva, aiutami. Ho confezionato<br />
con le mie stesse mani i pani dolci per te, la nostra offerta, la<br />
mia offerta. Ho anche messo più miele del necessario, perché<br />
apprezzassi il pensiero. Ma io, Signore, io…<br />
<strong>Il</strong> cuore le si fondeva per eccesso di tenerezza e non sapeva<br />
più proseguire. I lumi, tutti quei lumi, le si stampavano<br />
nella mente (li avrebbe poi riveduti, come in un sogno,<br />
nei giorni lontani venturi) e così i pani via via collocati sopra<br />
una mensa vicino all’altare, e la frenesia dei campani, e il<br />
pianto straziante di tutti gli agnelli.<br />
Venivano poi un paio di addetti in mezzo alla folla e raccoglievano<br />
le offerte. Collocavano i pani sull’apposita mensa,<br />
e ammucchiavano gli agnelli impastoiati nel breve spazio del<br />
presbiterio. E proprio questa scena la colpiva singolarmente.<br />
Quelle mani che si tendevano a ricevere i doni. Anche i suoi<br />
pani, sì, eccoli, prendeteli. Bisognava bene che così fosse, certo:<br />
ci doveva pur essere qualcuno a incaricarsi di raccogliere<br />
le offerte. Eppure quel loro fare così sbrigativo e ruvido le dava<br />
pena. Le pareva che, più che ricevere un dono, commettessero<br />
una specie di usurpazione.<br />
Nel viaggio di ritorno, poi, tutte queste sensazioni – i lumi<br />
i pani i campani i belati – le tornavano nel pensiero più<br />
pungenti, a contrasto col silenzio enorme della campagna, il<br />
buio e la pace dei luoghi che attraversavano.<br />
All’interno del carro, ’Ntoni e Momo, appoggiati alla<br />
sponda dal medesimo lato dov’era lei ciondolavano a ogni<br />
56<br />
scossone come fantocci di pezza. Vinti dal sonno, crollati. E<br />
anche Mariangela Siddi si era appisolata. Così a lei non restava<br />
che perdersi, come già del resto all’andata, in quel fluttuante<br />
oblioso sentire, nel quale tutto quanto: gioia, pena, paure,<br />
Fieli Pòrcina, cornamuse, lumi, pani, la mano che tocca il gomito,<br />
la mano che stringe, i belati, la mano che indugia attorno<br />
alla vita, ora che faccio, e i campani e il finimondo: tutto<br />
si mescolava e si confondeva, solo affiorava sulla superficie<br />
della coscienza quel desiderio, vago anch’esso, che già conosceva,<br />
di lungo, pacificante, piangente-ridente abbandono.<br />
Infine all’arrivo (di punto in bianco si era arrivati), usciva<br />
dalla celeste vastità della notte la voce così terrena di Fieli<br />
Pòrcina che si congedava dagli ospiti, in accenti peraltro del<br />
tutto natalizi e quasi liturgici: «Pace a voi, Giuanni Cinus, e<br />
a voi, Mariangela Siddi, e a te Pasqua, sorella mia».<br />
Soccombendo poco dopo al sonno, raccoglievano le sue<br />
orecchie sull’origliere le strane parole: “Pace a te Pasqua, sorella<br />
mia”. E furore di campani, e belati. Pace a te.<br />
57
V<br />
I DENTI DELL’ERPICE<br />
Ora bisognava erpicare. Le piantine s’erano alzate altre<br />
due dita e cespugliavano già le foglie alla base. Momento<br />
giusto per erpicare. Rompere la crosta del terreno intorno<br />
alla pianta, darle respiro e spazzare via dagl’interstizi le erbe<br />
parassite.<br />
Suonando arrivava giù per la strada carraia la cremagliera<br />
dell’erpice. I buoi condotti da ’Ntoni fumavano dalle narici<br />
nell’aria fredda. Denti in su, stretto negli snodi come<br />
un soffietto, l’erpice era per il momento non altro che una<br />
puntuta matassa di maglie di ferro, strascinata pesantemente<br />
sul battuto della strada.<br />
Ma alla quercia i buoi sostarono, l’erpice fu rivoltato e<br />
allargato. Allora la matassa si sciolse, le maglie si dilatarono<br />
a forma di rombo sui loro perni, l’intero apparecchio fu come<br />
una mano molteplice unghiata che si spalanchi.<br />
Entrò nel campo. «Hài, hài!» gridò con forza ’Ntoni a<br />
incitamento dei buoi. Le bestie tirarono e la gran mano di<br />
ferro cominciò il suo lavoro. Raspava la terra di malagrazia,<br />
come se adempisse contraggenio a questa operazione di togliere<br />
alla terra il prurito. E tuttavia, al contrario di quello<br />
che veniva fatto di temere, le piantine del grano non erano<br />
da essa travolte. Uscivano dalla strapazzata vispe e intatte,<br />
scuotendosi dalla momentanea paura, liete di averla passata<br />
liscia. La terra, invece, vedeva franta la sua crosta indurita e i<br />
lembi delle zolle, azzannate dai denti ferrei, ricadevano di<br />
qua e di là, soffocavano quel piccolo tremore d’erba che accennava<br />
a far barba fra canna e canna. Tratto tratto, le punte<br />
incontravano un sasso seppellito. <strong>Il</strong> ferro allora suonava,<br />
strappava, passava oltre. Per il resto non si levava altro suono<br />
che quello dei campani, più il cicalare dei passeri e, dalla<br />
macchia, gl’interrogativi dei tordi e dei merli e le sghignazzate<br />
delle gazze e delle cornacchie.<br />
58<br />
Dai bordi, all’ombra della quercia, Giuanni Cinus seguiva<br />
con lo sguardo il lavoro del ragazzo, attendendo di dargli il<br />
cambio. Silenziosamente incitava: vai, vai. Erano le sue stesse<br />
mani, ingigantite nell’erpice, che brancicavano e frugavano la<br />
terra. E anche questo era un modo di tormentosamente possederla.<br />
Falle il solletico, ’Ntoni. Che rida e si scuota. È ancora<br />
sonnacchiosa, ma vedrai come fresca e vogliosa è, dopo<br />
questa pettinata.<br />
’Ntoni eseguiva. Per fare che lo strumento meglio gravasse<br />
la terra, vi saliva ogni tanto lui stesso sopra, dritto librato<br />
su un piede solo, lasciandosi trascinare.<br />
Era un lavoro di pazienza, non faticoso; lo poteva fare<br />
anche ’Ntoni. E tuttavia il ragazzo, quando mancava ancora<br />
qualche voltata al cambio, già cedeva alla noia e lasciava che<br />
i buoi rallentassero e ammusassero, attirati dalla tenera erba<br />
del grano. Ma il vecchio, pronto, via gli cacciava il sonno<br />
dalla testa, gridando e imprecando:<br />
«Sprona, ’Ntoni, tocca, così sia toccato dal fuoco, ti stai<br />
addormentando?».<br />
E quando veniva il suo turno, lui no di sicuro, non cedeva<br />
alla sonnolenza. Su e giù, pettina pettina pettina: faceva,<br />
con questa rude striglia, la toletta al seminato. E ravviava<br />
i capelli alla propria speranza.<br />
Ora lei era cambiata. Era smemorata, distratta. E aveva<br />
bruschi salti, capovolgimenti improvvisi di umore. A volte<br />
era presa da una gioia sfrenata, che sarebbe esplosa violenta<br />
se non fosse che dietro a lei, a parte la mitezza della sua indole,<br />
secoli di compressione e inibizione muliebre stavano a<br />
fare da freno. A volte l’assaliva al contrario un’irragionevole<br />
pena, il desiderio di piangere senza un perché. Ma fra questi<br />
momenti e limiti, terza si collocava con maggiore frequenza<br />
una condizione di apatia, o pigrizia, o gravezza di tutto l’essere,<br />
che le toglieva ogni interesse per qualsiasi cosa.<br />
«Pasqua, che hai?» le chiedeva la madre. E magari la riprendeva<br />
e gridava per la sua lentezza o per qualche maldestro,<br />
ben lontana dall’indovinare le cause di questo mutamento.<br />
«Nulla» lei rispondeva ogni volta. E era così, in fondo,<br />
per quello che ne sapeva.<br />
59
A volte, allo stremo della tensione, era presa dal bisogno<br />
di sfogare su qualcuno il proprio affetto e quasi di disfarsi in<br />
tenerezza. E allora era Momo che riceveva e subiva, fino a<br />
esserne sopraffatto, questa repentina tempesta amorosa. Abbracci<br />
che lo soffocavano, pizzichi, baci, parole senza senso<br />
scimmiottanti il parlare infantile, gridate in crescendo e con<br />
strana passione proprio alla conca delle orecchie (le unghie<br />
di lei conficcate nelle sue misere spalle) che lo lasciavano<br />
senza fiato.<br />
D’altra parte, di tutti i componenti la famiglia, Momo<br />
era il solo che rendesse plausibili queste effusioni a causa<br />
della sua età e infelicità. In più lui era, di suo, nella condizione<br />
di chi di una parola, un atto, un’elemosina d’amore<br />
mai si sarebbe saziato, da chiunque e comunque venisse.<br />
Tant’è che fu specialmente a partire da quei giorni che<br />
Pasqua prese a essergli la persona più cara e amata della famiglia,<br />
compresavi la madre. <strong>Il</strong> che sarebbe stato, come si<br />
vedrà a suo tempo e com’era già scritto nei grandi libri, causa<br />
non ultima di ciò che si preparava a succedere.<br />
<strong>Il</strong> fatto è che Raffieli Pòrcina, nei suoi approcci con la<br />
ragazza, inspiegabilmente temporeggiava.<br />
D’accordo, prenderla. Ma come, quando e a quali condizioni,<br />
ecco ciò che lo rendeva perplesso. In certi momenti<br />
era determinato a far presto, che c’era da aver paura, tanto<br />
era chiaro, lei ci stava. E tuttavia, il pensiero che toccasse<br />
pur sempre a lui fare il primo passo lo infastidiva. Come<br />
preferisse, chissà, che il frutto cadesse da solo dall’albero, e<br />
non restasse, se mai, che da chinarsi a raccattarlo. In altri,<br />
poi, era come se lo cogliesse una specie di pietà per la vittima.<br />
E peggio ancora, come se sentisse verso di lei qualcosa<br />
di indefinibile, di periglioso, di mai provato, al punto che si<br />
domandava con sgomento se questo non fosse per caso<br />
amore, possibile mai?<br />
Per questo era cauto, vago, esitante e alla fine incoerente.<br />
Passava, da un giorno all’altro, dalla sua gaia e un po’ spagnolesca<br />
galanteria alla freddezza, perfino alla bruschezza e<br />
alla ruvidità, qualche volta. E tutto questo come a capriccio,<br />
illogicamente.<br />
60<br />
Ora che i giochi sono fatti e i destini consumati, sarebbe<br />
piuttosto facile parlare di presentimenti. Dire: aveva un arcano<br />
presentimento di quello che, nel grembo dell’avvenire,<br />
si preparava a succedere. Ne era intimorito e trattenuto come<br />
un cavallo da ombre. Ma chi può dirlo? <strong>Il</strong> dopo è al di là<br />
del muro. E il muro è opaco.<br />
Né lei del resto si può dire che fosse disposta a ammettere,<br />
neppure con se stessa, che i propri turbamenti avessero a<br />
che fare con lui. Tanto valeva ammettere che ne era innamorata.<br />
E invece no, chi lo dice? Innamorata, lei? Ma quando<br />
mai. Base prima, non era in età da pensare all’amore, non era<br />
“basilico da mettere in balcone”, figurarsi. Seconda poi, e che<br />
era? Stoppa, era? Come poteva innamorarsi di uno che non<br />
la calcolava per niente, e in certi momenti neppure sembrava<br />
accorgersi della sua esistenza? E dunque. E poi.<br />
Ma poi le veniva da ricordare la notte del Bambino, lo<br />
strano viaggio, le attenzioni di lui, le strette furtive, e tutto il<br />
resto, e allora si smarriva in una fuga di pensieri, non pure<br />
precisi, soltanto lucenti. Al punto che la madre, sorprendendola<br />
a volte così assorta, doveva richiamarla: «Ehi, dico, ti<br />
sei incantata?».<br />
Ma ecco che capitò (e fu il 17 gennaio festa di Sant’Antonio<br />
abate, primo giorno di carnevale) quel fatto che tanta<br />
importanza avrebbe assunto, nella storia personale di Pasqua,<br />
e di riflesso, per quanto ne fossero essi ignari, in quella<br />
di tutti i Cinus.<br />
Fieli Pòrcina era in visita a Serri, ormai come d’uso, e<br />
c’era alla fattoria anche altra gente, persone di Serri e di Arresi.<br />
A un tratto però, buonasera, lui piglia e parte, così a<br />
piedi com’è. Ha lasciato il cavallo, dice, sulla strada per Serri,<br />
deve andare a riprenderlo.<br />
Ma doveva aver fatto prima chissà che giro, essere ripassato<br />
dietro la fattoria, perché a un certo punto lei se lo ritrovò<br />
inaspettatamente davanti lungo la strada per Sìnniri, mentre a<br />
sua volta stava recandosi, con l’anfora in capo, alla sorgente.<br />
«Oh, voi» esclamò sorpresa.<br />
E lui:<br />
61
«E tu?».<br />
Era sorpreso anche lui. Era chiaro che nemmeno lui si<br />
aspettava di incontrarla.<br />
«Sto andando alla sorgente, come vedete» lei disse. E, con<br />
subita determinazione di cui lì per lì non avrebbe saputo<br />
spiegare il motivo, aggiunse:<br />
«Perché non venite anche voi, a accompagnarmi fin là?<br />
Ho paura». E rise, dicendo questo.<br />
Ricordarsi i suoi dissidi con sé. Voleva offrirsi la prova che<br />
non lo temeva, non aveva paura di lui, non le importava<br />
niente di lui. E che la sua presenza, quand’anche avesse accettato<br />
– ma non avrebbe accettato – non la turbava per nulla.<br />
Lui non rispose né ah e né bah. Fece dietro front e la<br />
seguì. Aveva accettato.<br />
Così andarono: lei qualche passo avanti e lui dopo, dato<br />
che il sentiero li costringeva a procedere in fila indiana.<br />
E non parlavano, nessuno dei due.<br />
«Non parlate, oggi, Fieli Pòrcina. Siete diventato muto?»<br />
lei domandò a un certo punto, ancora con insolito ardire.<br />
Neanche questa volta lui rispose. Poi se ne uscì inaspettatamente<br />
in questa domanda:<br />
«Perché non mi dai del tu?».<br />
Altro silenzio. Dentro il quale, sul fondo battuto della<br />
strada di Sènniri, si udivano picchiare gli zoccoli di ginepro<br />
che lei calzava e il suono un po’ più sordo dei passi di lui.<br />
Quando ormai la risposta sembrava non dovesse venire<br />
più, lei disse senza voltarsi a guardarlo:<br />
«Darvi del tu? Perché mai?».<br />
Ma la risposta da parte di lui non venne.<br />
«Siete proprio muto, oggi» lei osservò. «Io vi dispiaccio?».<br />
E siccome lui si ostinava a tacere, lei finalmente si voltò a<br />
guardarlo. Di tre quarti. <strong>Il</strong> viso fresco, puro. Ben marcate le<br />
sopracciglia nere sugli occhi neri, la restante parte del viso<br />
chiara come un lume. Sembrava proprio che la portasse<br />
stampata sul viso, quella domanda puerile: io vi dispiaccio?<br />
«No» si decise alla fine a rispondere lui. «Oh no, certo<br />
che no». E sentiva fortissimo, ora, quel tale sgomento su ciò<br />
che provasse realmente per lei.<br />
62<br />
Ma erano ormai arrivati. Una nicchia nella spalla della<br />
collina. Una parete di roccia, attraversata da una fessura: era<br />
quella la sorgente. L’acqua, non più che una vena, veniva da<br />
lì, scorreva per un tratto lungo i bordi di quell’interstizio,<br />
poi un cannello la convogliava nella coppa di sotto, scavata<br />
in un gradino della medesima roccia.<br />
Lei mise giù l’anfora e la collocò nella coppa. In testa le<br />
rimase il cercine di panno, una specie di ciambella che, per<br />
come era alta e ritorta, somigliava a una corona di stracci, in<br />
bilico sul viluppo delle trecce.<br />
Immersa l’anfora nell’acqua della coppa, ve la tenne ferma,<br />
premendo le mani sui bracci del recipiente, in attesa<br />
che si riempisse.<br />
Fu allora.<br />
Lui, che era dietro, si avvicinò di un passo, le tenne ferme<br />
le mani sul recipiente e come lei si voltava stupita, le fu<br />
col viso sul viso. <strong>Il</strong> bacio andò a finire un po’ sghembo, fuori<br />
bersaglio, quasi all’altezza dell’occhio. Ma l’errore fu presto<br />
corretto. Le mani di lui si alzarono dai manici dell’anfora<br />
(quelle di lei invece restarono inerti, là dov’erano) le afferrarono<br />
il viso, e questa volta la cosa avvenne a modo.<br />
Più impaurita che altro, lei aveva istintivamente abbassato<br />
le palpebre. Fu perciò in questo buio improvviso che<br />
sopportò, quasi avulsa da sé, la sopraffazione inattesa. Avvertiva<br />
sulla bocca, sensazione sconosciuta, la pressione dell’altra<br />
bocca. Per un po’ tutto fu fermo. Poi la pressione si fece<br />
forte, il bacio si mosse, dissuggellò le sue labbra, le schiuse,<br />
schiuse anche i denti, lei ebbe un senso di soffocazione e terrore.<br />
Intanto anche lui si staccò, poi ritornò, una due volte,<br />
quante volte lei anzi neanche lo seppe, e di nuovo quel contatto<br />
sulla bocca quella pressione quel fuoco, lei sempre<br />
inerte e come paralizzata.<br />
E tutto questo fu fatto in silenzio, nel prodigioso silenzio<br />
dell’universo, fuorché quel cantare sommesso dell’acqua<br />
nella coppa di raccolta, nella quale l’anfora, frattanto, aveva<br />
avuto ben modo di riempirsi e traboccare.<br />
Né, finito che fu, lei disse nulla né fece nulla, come diventata<br />
anche lei di pietra e d’acqua a somiglianza della sorgente.<br />
63
Ma onde erano passate in lei. E lampi. E poi tuoni. Carri<br />
pesanti stridevano su rocce nude, sentiva i cerchioni di<br />
ferro slittare e mordere il liscio della roccia, quel grattare del<br />
ferro sul liscio che allega i denti. Lei però, per un lungo momento,<br />
anche dopo che fu cessato, non disse nulla.<br />
<strong>Il</strong> cercine, come lui la baciava, le era ceduto. Era finito<br />
per terra nella fanghiglia. Lei lo raccattò, lo disfece, lo lavò<br />
nella coppa della sorgente, lo strizzò, lo rifece, lo rimise così<br />
bagnato sopra i capelli: quella sua povera corona di stracci.<br />
Soltanto allora, appena voltandosi, disse:<br />
«Avete fatto questo, Raffieli Pòrcina. Perché lo avete<br />
fatto?».<br />
Lo disse a mezza voce, senza ira, senza rimprovero, quasi<br />
con un accento di mite rassegnazione. Le bastava soltanto<br />
che lui dicesse qualcosa.<br />
Invece non disse nulla.<br />
Stava lì impalato, evitando di guardarla, incapace anche<br />
di muoversi: una statua di sale (di dentro però, anche lui, altra<br />
cosa: il sangue gli rombava nelle orecchie come un torrente).<br />
Né lei ripeté la domanda. Lasciò passare un tempo e poi:<br />
«Possiamo andare» disse piano, rimettendosi sul capo<br />
l’anfora grondante.<br />
Quelli che poi seguirono – la restante metà di gennaio –<br />
furono giorni bizzarri, se non matti del tutto.<br />
Gennaio, là, ha a volte ritorni strambi, o anticipi, di primavera.<br />
Cieli aperti infiniti, un azzurro così denso che puoi<br />
toccarlo, e quindi sole, tepore. Al punto che certi alberi (e i<br />
mandorli, fra questi, sono i più ingenui) cadono nell’inganno,<br />
credono già finite le “ire” e tornata la bella stagione. Così<br />
prendono e fioriscono. Ma non è vero. Di colpo riecco i<br />
freddi, i nembi, il vento. E addio prime fiorite, la gelata le<br />
brucia. Poi magari, di lì a due giorni, ancora bonaccia; il cielo<br />
ti guarda stupefatto che sembra che dica: io?<br />
E non è che si voglia dire soltanto della stagione, questo.<br />
Anche a lei, Pasqua, in qualche modo accadeva così, dopo<br />
quello che era successo alla sorgente.<br />
Essere baciata da un uomo! Baciare un uomo! Più ci<br />
pensava e meno riusciva a capacitarsene.<br />
64<br />
Nei giorni successivi era tornata più volte alla sorgente e<br />
si era sorpresa ad ascoltare a lungo il suono leggero dell’acqua<br />
nella coppa sotto il cannello. Mai prima di allora quel<br />
suono le aveva fatto un effetto così. Le sembrava una musica,<br />
e la testa cominciava a girarle.<br />
Poi si soffermava sulla portata del fatto, e sulle sue implicazioni.<br />
Quella domanda un po’ balorda, è vero, che ancora tutta<br />
stordita aveva rivolto a Raffieli Pòrcina subito dopo l’accaduto:<br />
avete fatto questo, perché lo avete fatto?, se la ripeteva<br />
infinite volte, mentalmente rivolgendosi a lui: perché lo<br />
avete fatto, perché?<br />
E si rispondeva convinta: ma perché ti ama, scema, se<br />
no perché? Allora appunto si aprivano i cieli e fiorivano i<br />
mandorli e lei si sentiva come inondata di bene. Così stracarica,<br />
anzi, di bene, che le pareva di sciogliersi. Invidiatemi,<br />
perdonatemi: io sono amata.<br />
Ma subito insorgevano i dubbi. E chi dice che sia così?<br />
Un uomo può baciare una donna anche per gioco, magari<br />
per farle onta, mica solo per amore. Chi ti assicura, di’, che<br />
lui ti ami?<br />
E allora era la volta che i cieli si oscuravano, si alzava il<br />
vento, i fiori avvizzivano. Non erano più le trombe angeliche<br />
che lei sentiva, ma suono di corni, di quelli che si levavano a<br />
notte, per le nozze dei vedovi, a opera dei buontemponi, nelle<br />
strade del paese, a Baronia. Provava umiliazione e vergogna,<br />
per quello che aveva fatto.<br />
Di più era ossessionata dal sortilegio connesso all’accaduto.<br />
Conosceva la ventura. Se una vergine si lascia baciare<br />
da un uomo, da quel momento è “segnata”, è cosa sua. Gli<br />
appartiene per sempre, volere o no. Peggio per lei che si è<br />
lasciata ingannare o sorprendere. Doveva essere più vigilante<br />
e più scaltra al momento giusto, affinché il fatto non avvenisse.<br />
Se è avvenuto, addio, non c’è più niente da fare, è<br />
troppo tardi.<br />
Lei, questo, lo aveva sempre sentito dire, da quand’era<br />
bambina. Se ne portavano esempi quanti se ne volevano, di<br />
donne che gli era intervenuto così. Baciate a tradimento da<br />
65
un uomo, avevano dovuto sposare per forza l’autore dell’inganno,<br />
fosse pure un lebbroso, un bandito, un vecchio di<br />
cent’anni. E senza andare tanto lontano, lo si raccontava<br />
dell’ava sua stessa, nonna Vissenta, la madre di suo padre.<br />
Che dicevano fosse una bella ragazza, ai tempi suoi e desiderata<br />
da molti, tanto che, dicevano, poteva con quella faccia e<br />
quel corpo aspirare a quale si sia partito, non aveva che da<br />
scegliere a suo piacimento. Invece che ti fa? Un giorno un<br />
uomo, dopo averla appostata mentre lei, sola sola, sta attingendo<br />
acqua da un pozzo (e guarda che combinazione), le<br />
piomba a tradimento alle spalle e, sc-ciac!, la bacia, senza lasciarle<br />
neppure il tempo di dire ah. Ed è fatta: perché dopo<br />
hai voglia di ribellarti e scalciare.<br />
E fortuna che lui era un brav’uomo, dopo tutto, e anche<br />
bello, se è per questo, sebbene notevolmente più anziano di<br />
lei e spiantato. E così non era stato troppo doloroso per lei<br />
pigliarselo e anzi, per quello che se ne sapeva, erano sempre<br />
vissuti d’amore e d’accordo, dopo, anche se poveri in canna<br />
(al punto che Pasqua, nel proprio intimo, aveva sempre<br />
conservato il sospetto che nonna Vissenta, sotto sotto, non<br />
fosse stata troppo “sorpresa” dalla macchinazione dello spasimante).<br />
Restava comunque il fatto che a quella “regola” non si<br />
poteva sfuggire. E così sarebbe stato anche per lei. Si era fatta<br />
baciare da un uomo? Peggio per lei. In quella via si era<br />
messa, in quella doveva marciare.<br />
E anche questo provocava in lei reazioni alterne. A momenti<br />
gioiva di trovarsi in una condizione così. Era “segnata”,<br />
ora? E benissimo, ne era felice. “Accettava” con giubilo di<br />
appartenere a Raffieli Pòrcina, essere sua, roba sua, come un<br />
animale o un oggetto. A momenti, invece, questa stessa prospettiva<br />
le cagionava sgomento, paura e disperazione.<br />
Perché il punto, ancora e sempre, era quello: se lui l’amava<br />
o no. E secondo che fosse certa o dubbiosa su ciò, in lei<br />
schiarivano o si rabbuiavano i cieli.<br />
Che poi si dice “amare”, ma la parola è qui usata alquanto<br />
impropriamente. Nella parlata di laggiù, infatti, questo<br />
verbo non esiste, o almeno la lingua tende a respingerlo, come<br />
troppo esplicito e sguaiato. Si può dire, se mai, “amore”<br />
66<br />
(e più che altro nelle canzoni), ma “amare”, io “amo”, tu<br />
“ami” non si può dire. Una specie di pudicizia lessicale. Per<br />
esprimere il concetto si ricorre a un traslato e si dice “stimare”.<br />
Che finisce, è vero, per significare la stessa cosa, ma sembra<br />
mettere in chiaro che solo chi stima ama, e viceversa.<br />
E lei non faceva che ripetersi, a vicenda, appunto questo:<br />
mi “stima”, non mi “stima”. Tale era, dopo il fatto del 17 gennaio,<br />
il gioire e il patire suo.<br />
«Ecco ecco» gridava ’Ntoni «c’è rimasta, è qui, è qui!».<br />
Anche questo succedeva una mattina di quella fine di<br />
gennaio: la cattura di una lepre per mezzo di una trappola<br />
tesa da Giuanni Cinus la sera avanti.<br />
La bestiola si dibatteva tuttora come impazzita, ma si<br />
vedeva chiaramente che le sue forze erano sul punto di cedere.<br />
Doveva aver lottato tutta la notte per liberarsi.<br />
Erano, a levante delle proprietà, file ineguali di quei muretti<br />
antichissimi ai quali si è già accennato, fatti di blocchi<br />
squadrati e possenti e ricoperti di un muschio dorato o rossiccio<br />
che ha mille anni. Visti dall’alto, si direbbero ossa o tendini<br />
rimasti a nudo delle strutture interne della terra. E hanno<br />
alla base (ingegneria dei neolitici) preordinati intervallati pertugi<br />
per l’efflusso dell’acqua. Appunto di questi si servono a<br />
volte contadini per catturare le lepri. E ecco come.<br />
Si prende un lastrone di pietra convenientemente pesante<br />
e lo si colloca di traverso nell’apertura, in modo che resti<br />
un po’ sollevato da una parte, grazie a uno stecco verticale<br />
che lo sorregge. Questo stecco è poi collegato con un altro<br />
orizzontale, anch’esso leggermente sollevato da terra e, affinché<br />
la trappola non si scopra, mascherato da lamine schistose<br />
sottili. La lepre, imboccando l’apertura per raggiungere il<br />
colto, grava del proprio peso lo stecco che fa da corda, il<br />
quale a sua volta agisce sul sostegno verticale e lo spinge via.<br />
Così il lastrone ritomba in basso e l’animale è ghermito prima<br />
che riesca a scapolarsi.<br />
Da esca funziona il colto. È la stessa presenza, cioè, di<br />
qua dal muro, di campi a grano o legumi oppure di orti, a<br />
invogliare le lepri, pungolate del resto dalla fame, dato che di<br />
quella stagione poco o nulla si trova nella macchia. Così esse<br />
67
tentano queste sortite attraverso gl’infidi varchi. E preparano<br />
loro i contadini quest’accoglienza.<br />
Anche Giuanni Cinus, da quando era arrivato alla tenuta,<br />
approntava di tanto in tanto lungo i muretti apparecchi<br />
del genere. E quella mattina uno di essi, come si vede, aveva<br />
funzionato e per questo ’Ntoni, scoperta la preda con l’aiuto<br />
di Tricò, gridava adesso a gran voce per far accorrere il padre.<br />
Tricò frattanto sorvegliava il roditore, contemplando<br />
impassibile e come fuso nel bronzo i suoi ultimi spasimi. <strong>Il</strong><br />
muso del cane sfiorava così da vicino il pelo della piccola<br />
vittima, da scavarle col fiato delle fossette nella pelliccia.<br />
La lepre era stata colpita dal sasso nella metà posteriore<br />
del corpo, doveva avere le reni spezzate. Le zampe di dietro,<br />
difatti, per quello che se ne poteva vedere, apparivano inerti.<br />
Né certo le poche forze che le restavano – quell’annaspare<br />
degli arti anteriori e la torsione disperata del capo – sarebbero<br />
valse ormai a sottrarla al suo destino.<br />
Chino sulla buca, la testa accostata alla testa del cane,<br />
’Ntoni osservava anche lui l’animale morente. Ma, a contrasto<br />
con la calma implacabile di Tricò, era tutto eccitato,<br />
si batteva manate sulle ginocchia, si sgolava di chiamare:<br />
«È qui, è qui, ba’» abbaiava.<br />
Arrivava poi Giuanni Cinus, si chinava a sua volta, afferrava<br />
la bestiola pigliandole le orecchie come fossero foglie<br />
di lattuga, la liberava finalmente dal sasso, la sollevava,<br />
la soppesava.<br />
«Buona, è» osservava. E la palpava nel petto e fra le cosce,<br />
la trovava bella grassa, femmina, gravida («Gravida?», chiedeva<br />
’Ntoni) e insomma buona preda, peccato ce ne fosse una<br />
sola. Poi, afferratala con la sinistra per le zampe di dietro affinché<br />
stesse giù col capo, con la destra, di taglio, le picchiò<br />
tre quattro colpi precisi e secchi sulla cervice, da quell’esperto<br />
che era, sinché la bestiola non spenzolò affatto inerte.<br />
Tricò, per tutta reazione, si passò fuori della bocca la<br />
lingua rosea. Ma ’Ntoni, che andava scrutando il muso della<br />
lepre, incuriosito da quella morte, osservava ora con la<br />
sua voce sempre un po’ troppo sonora e stridente:<br />
«Oh, ba’, guarda, hai visto che occhi?». E li mostrava,<br />
rovesciando verso l’alto la testa della lepre.<br />
68<br />
Era morta con gli occhi sbarrati. E il fatto colpiva ’Ntoni:<br />
quegli occhi sbarrati e morti. Uno come ’Ntoni, pensare.<br />
Ma attraversavano intanto il colto, seguiti da Tricò, e entravano<br />
nel frutteto dietro la fattoria, nell’atto in cui Pasqua<br />
si faceva loro incontro con Momo in braccio. Superato quel<br />
turbamento ’Ntoni si era impadronito della lepre e cercava<br />
con questa di impaurire la sorella, mettendogliela sotto gli<br />
occhi e fingendo che fosse viva.<br />
«Attenta che ti morde» gridava.<br />
Attraversavano il frutteto. E proprio lì si poteva vedere<br />
come gennaio fosse riuscito ancora una volta a sedurre i<br />
mandorli. Erano tutti fioriti. Bianchi, stracarichi: una veste<br />
nuziale fatta di fiori. Altri alberi, qua e là, nudi; ma loro, impavidi,<br />
questa inconsulta fenomenale gala. E erano fiori delicati,<br />
casti, che il sole aveva dischiuso a uno a uno con tocchi<br />
lievi: apriti, apriti. Domani, dopodomani, fra sei giorni, il<br />
vento li avrebbe un po’ alla volta sfioccati, o spazzati di colpo.<br />
Ne avrebbe fatto pattume.<br />
Impaurita dallo scherzo di ’Ntoni, Pasqua scappava e<br />
gridava:<br />
«No, no, smettila, ’Ntoni, ho paura, ho paura!».<br />
69
VI<br />
I PAPAVERI<br />
A fine marzo i papaveri esplosero. Erano venuti su quatti<br />
quatti fra il grano, la testa dura e ottusa bilanciata sull’esile<br />
collo. Neppure i denti dell’erpice erano valsi a sloggiarli.<br />
Fiori del sonno, avevano sonnecchiato essi stessi tutto quel<br />
tempo, ospiti illegittimi vissuti a ufo all’ombra dei legittimi<br />
vicini. Ma il marzo li scaldò, li gonfiò, infine li costrinse a<br />
dichiararsi. Ed essi come fuochi vennero fuori, le corolle<br />
sguaiate, i petali molli e cedevoli e un che di impudico nell’insieme,<br />
con quella pisside al centro – sigillata da un coperchio<br />
sparso di radi peli – che custodiva la droga del sonno,<br />
del sogno e dell’oblio.<br />
Nel frattempo anche le canne del grano erano cresciute,<br />
arrivavano ormai al ginocchio, se non pure alla coscia di<br />
Giuanni Cinus. <strong>Il</strong> vento delicato primaverile vi passava sopra<br />
la mano ed esse docilmente si piegavano al suo passaggio,<br />
la superficie del campo marezzava, trascolorava, era come<br />
se lunghi brividi di eccitazione e piacere la percorressero.<br />
Ed era appunto allora che, oscillando le canne e aprendosi<br />
un poco il folto, sanguigni sbucavano fuori, dondoloni anche<br />
loro, i fiori di carne, simili a coaguli rosso-vivo che picchiettavano<br />
con violento contrasto l’infinita distesa, l’infinita<br />
innocenza del verde.<br />
Nel frattempo si era posto il problema del sarchiare. Dare<br />
ossigenazione e scioltezza alla terra (che là dicono “rifiorimento”),<br />
mediante quel lavoro di orafo dell’uomo armato di<br />
marretta, che va di fila in fila, di cespo in cespo, e qui scalza<br />
là incalza, qui rompe un grumo là affastella e rimette in sesto<br />
il motto delle radici.<br />
È un lavoro che si può fare e non fare, dipende se si vuol<br />
mettere fretta alla terra o se ci si affida ad essa e alla buona<br />
ventura. Ma, con tutto che il grano veniva su che pareva<br />
70<br />
avesse la smania nelle radici, figurarsi se Giuanni Cinus poteva<br />
titubare nella scelta. Perché l’erpice, sì, rompe la crosta e fa<br />
il grattigno alla terra, ma certo non ha occhi né cervello, unghie<br />
soltanto, ha. Mentre la zappa si tira dietro un uomo, e<br />
questo ha ben occhi per vedere e giudizio per regolarsi: sa<br />
dove mettere e dove levare, quando dare di lama e quando di<br />
spigolo o tacco o “occhio”; insomma quello che fa lo fa a<br />
senno, non come viene viene.<br />
Senonché, zappettare un possesso di quella posta non è<br />
cosa da farsi da un uomo solo, sia anche un lavoratore addannato.<br />
E che?, verrebbe certo la stagione di mietere, avanti<br />
che abbia finito.<br />
In altre parole ci volevano dei giornalieri.<br />
Ma come pagarli, ecco il punto. A fine settimana, quelli<br />
lì, mica stanno a sentire storie, vengono e dicono: allora, bell’uomo,<br />
questa è la mano e qua metti lo zinghe-zanghe, non<br />
è che lavorino per divertirsi, nessuno più di lui lo sapeva.<br />
E che cosa gli dava per paga, ai giornalieri, avemarie?<br />
E invece la fortuna gli venne incontro anche stavolta,<br />
che sembrava che ormai, qualunque desiderio gli fosse saltato<br />
in testa, bastava dicesse ah, e eccolo servito. Gli occorreva<br />
denaro fresco per ingaggiare degli uomini? E benissimo,<br />
pronto. Ecco che anche il gregge, laggiù all’ovile, aveva l’annata<br />
seconda, le pecore figliavano che era una bellezza. E di<br />
più Jeremia Campus, il “bastante” addetto al gregge, il quale<br />
in breve tempo gli si era curiosamente affezionato (era innamorato<br />
di Pasqua Cinus!), aveva messo a sua disposizione la<br />
propria quota, vendesse e incassasse lui stesso il denaro, a fine<br />
anno si sarebbe parlato di conti, non stesse in pena: e<br />
che?, la fiducia era forse morta, adesso?<br />
Così, insomma, ecco che Giuanni Cinus faceva levata<br />
d’uomini, in giro per gli stazzi, contrattava e ingaggiava gente,<br />
lui che, finora, e da quando era ragazzo, contrattato e ingaggiato<br />
era stato lui stesso. Anzi era proprio questa, forse,<br />
una delle ragioni che lo spingevano a farlo. Rovesciate le posizioni:<br />
ora sono “io”, malasorte, che piglio uomini.<br />
È vero che arrivava negli stazzi, invece che a cavallo, a<br />
dorso d’asino. Un po’ perché il cavallo, disavvezzo com’era a<br />
servirsene, preferiva l’usasse ’Ntoni, più giovane e agile. Un<br />
71
po’ perché gli sembrava, chissà, di dar troppo nell’occhio,<br />
era trattenuto da una specie di rispetto umano. E, certo,<br />
quello di venirsene in sella a un asino a reclutare braccianti<br />
non era propriamente un fare da massaio.<br />
Ma in fin dei conti uno non si giudica esclusivamente<br />
dalla cavalcatura. La parte che fa, è quella che conta. Anzi,<br />
nel contrattare, lui pignoleggiava anche un poco, tirava di<br />
prezzo, s’impuntava; insomma, non voleva sfigurare, cosa<br />
credevano?<br />
Senza dubbio era singolare e anche piuttosto comico vederlo<br />
arrivare su quel palafreno, smontare, assicurare la bestia<br />
al palo e, con aria d’importanza, mettersi a marcanteggiare.<br />
Tu, come ti chiami, vuoi fare “un quanto” di giornate<br />
a sarchiare? Perché no, e quanto? Tanto. Uhm, e dove? Come<br />
dove: da me. Sottolineava indicibilmente quel “da me”,<br />
e più che mai gonfiava il petto e induriva la mascella; ancora<br />
un po’ e gli spuntavano fuori i bargigli, come al tacchino.<br />
Così c’era ora, questa novità dei braccianti, nella tenuta.<br />
Non era più Giuanni Cinus a perdercisi dentro, solo come<br />
un cane.<br />
Lavoravano a squadre di sei, una di fronte all’altra, partenti<br />
dagli opposti bordi del campo e dirette a incontrarsi<br />
nel mezzo.<br />
E becchettavano così di conserva la terra, con quell’attrezzo,<br />
la marretta, che è quasi nient’altro che manico, ha<br />
solo una piccola lingua in cima, ma alacre e tagliente e, dopo<br />
qualche giornata d’uso, tale che pare d’argento.<br />
Lavoro cane anche questo, altro che, alla sera hai da sentire<br />
che mani e che schiena e che reni. Eppure, a tirare la<br />
“scalata” era sempre lui, il vecchio, che pure avrebbe potuto<br />
limitarsi a sorvegliare. La chiamano così, i contadini, “scalata”:<br />
ed è il ritmo che riesce a tenere ciascuna squadra, regolato<br />
sul passo dell’uomo di punta, in gara con quelli della<br />
squadra antagonista. E lui appunto era quello che tirava la<br />
“scalata” per la sua squadra, trascinandosi dietro gli altri e, di<br />
riflesso – per ragioni di “punto” – la squadra opposta. E tirava<br />
davvero alla diavola, era difficile tenerne il passo, e difatti<br />
gli dicevano, mezzo ridendo mezzo imprecando: «Eh, ma<br />
72<br />
così ci farete rompere le ossa, in capo a un paio di giri; e che<br />
ci avete in corpo, le dimonia?».<br />
Quanto alle donne, la vita alla fattoria continuava a essere<br />
quella di sempre: la cura della casa, la lana, il focolare, la<br />
cura del cortile, le grandi biche quindicinali del bucato e,<br />
soprattutto, la eterna ricorrente interminabile fatica del pane.<br />
La quale durava sostanzialmente da un capo all’altro della<br />
settimana, la domenica esclusa, per poi ricominciare e durare<br />
e finire e ricominciare da capo. Eccola, infatti: il lunedì<br />
mondare il grano (cosa che là dicono “purgare”), lavarlo,<br />
farlo asciugare; il martedì, recare le corbe al molino centimolo,<br />
bardare l’asino, bendarlo, legarlo alla stanga e sorvegliare<br />
l’opera sua; il mercoledì, “spollinare”, un lavoro di<br />
braccia spalle mani e fiato, che consiste nello scernere, prima<br />
col setaccio poi con lo scuotimento di appositi panieri, il<br />
fiore dalla semola e questa dal cruschello e questo dalla crusca<br />
vera e propria; il giovedì lavoro leggero, predisporre la<br />
“mensa”, le “scivelle”, l’acqua e lavare il sale; il venerdì preparare<br />
la legna per il forno e, dopo il tramonto, togliere il<br />
lievito dal bagno d’olio e seppellirlo in una palla di pasta; il<br />
sabato, infine, alzarsi alle due di notte e finalmente intraprendere<br />
la confezione del pane, poi lasciarlo “riposare”, poi<br />
cuocerlo, poi sfornarlo, mettere nella madia quello per casa,<br />
nelle bisacce e nei tascapani quello per gli uomini, nelle ceste<br />
di canna quello d’orzo per i cani. E riposarsi il settimo<br />
giorno come Domine Dio.<br />
La differenza se mai era che Pasqua, la quale pure attendeva<br />
assieme alla madre a tutti questi lavori con la stessa cura<br />
di sempre, si sentiva tuttavia come straniata da essi e, in<br />
genere, da ciò che la circondava. E la ragione era che Fieli<br />
Pòrcina, dopo il fatto della sorgente, sembrava avesse deciso<br />
di punto in bianco di disertare Serri. Lo si era visto fuggevolmente<br />
alla Candelora (diceva che andava a maschere, era<br />
tempo di carnevale e allegria; voleva divertirsi, diceva; e a lei,<br />
Pasqua, boh, parole affatto usuali, come se non fosse memoria)<br />
e ancora una o due volte, sempre di passata, durante<br />
febbraio. Poi addio.<br />
Da principio lei, come si è visto, non aveva dato grande<br />
73
importanza alla cosa, presa fra l’altro com’era, si è anche detto,<br />
da quei suoi moti alterni di umore, schiarire e incupire<br />
dei cieli, secondo che pensasse che lui l’amava o no. Ma poi<br />
questa strana fuga, alla quale finalmente faceva caso, ecco<br />
che risolveva, e nel modo più amaro, il suo dilemma: lui<br />
non la amava affatto, ecco tutto, era stato soltanto un capriccio,<br />
il fatto della sorgente. E questo, appunto, la sconcertava.<br />
Lei che tanta importanza aveva dato a quel fatto, e<br />
vi aveva costruito castelli; lei ch’era nata quel giorno, poteva<br />
dire; lei che si era detta: la prossima volta, quando verrà, me<br />
lo dirà, vedrai, che mi “stima”; ebbene ecco qua, era accontentata<br />
e servita a modo. Lui diceva basta, è finita, cosa credevi?<br />
E prendeva il largo, statevi bene.<br />
Non era, propriamente, neanche dolore, il suo. E nemmeno<br />
rancore, ira, dispetto. Era soprattutto stupore. Come<br />
essere stati in un posto, mettiamo Serri, Arresi, Arcangia, o<br />
Baronia stessa, e tornarvi e non trovarvi più nulla di quello<br />
che c’era, le case la chiesa il municipio, nulla, tutto crollato.<br />
Lei così: desolazione. Dov’erano le case, il vuoto; dov’era<br />
la chiesa, calcinacci; e in quell’angolo nascosto, a lei sola noto,<br />
dov’erano cresciuti fiori, tutto spazzato. E case chiesa fiori<br />
non sono che un modo di dire, erano le cose che lei s’era fabbricata<br />
dentro, nei momenti dei cieli benigni, allorché riviveva<br />
la scena del 17 gennaio. E si aggirava fra queste rovine con<br />
passo da ladro, per non svegliare echi; vagabondava in se<br />
stessa in uno stato d’intontimento.<br />
Era come scissa, viveva in due differenti e separati universi:<br />
l’esterno e quello suo proprio, interiore. Ed era nel<br />
primo che accadevano fatti, scontati che fossero. Nell’altro<br />
invece, quiete profonda. Ma quel tipo di quiete, che non osi<br />
gridare ah, per paura che da tutte le bocche, da tutti gli antri<br />
gridino aaahhh, un’eco montante irridente che si risolve in<br />
una sghignazzata.<br />
La presenza dei giornalieri non portava troppe varianti<br />
nel tran tran della vita delle donne. Arrivavano essi dai luoghi<br />
loro che ancora non era giorno, e andavano dritti al lavoro,<br />
instradati (e messi alla frusta) da Giuanni Cinus. Staccavano<br />
quindi alle undici per consumare un boccone, ciò che<br />
74<br />
si esprime con un verbo che potrebbe tradursi con “mordicchiare”.<br />
Ma questo facevano sui bordi stessi del campo o sull’aia,<br />
seduti su un sasso o per terra, per essere pronti a riattaccare<br />
subito dopo. La sera, infine, quando mancavano poco<br />
meno di due braccia all’entrare del sole, staccavano definitivamente<br />
e “voltavano” ossia se ne tornavano definitivamente<br />
alle loro case.<br />
Raro che qualcuno salisse sino alla fattoria, se non era<br />
per chiedere, appunto all’ora del “mordicchiare”, una brocca<br />
d’acqua.<br />
I più erano anziani e padri di famiglia, ma ve n’erano<br />
anche di giovani ed erano soprattutto questi ultimi che più<br />
di frequente pativano la sete. Ronzavano attorno alla casa e,<br />
non appena appariva Pasqua, invocavano:<br />
«Bella vergine, si può avere un po’ d’acqua dalle tue<br />
mani?».<br />
E bevevano lentissimamente, impiegavano un tempo<br />
enorme a dar fondo al recipiente. Profittando per sbirciarla o<br />
osservarla, quali con sguardi fuggenti, quali maliziosi, quali<br />
sfrontati.<br />
Ma questo essere oggetto di desideri maschili – che ora,<br />
stranamente, avvertiva fulmineo, quando un tempo, sei mesi<br />
avanti, non ne avrebbe avuto neppure remotamente sentore<br />
– non le causava compiacimento, anzi, la faceva sprofondare<br />
ancora di più nel perduto universo che chiudeva in se stessa.<br />
Alla festa del Rimedio, verso la fine di marzo, Mariangela<br />
e Pasqua scesero a Arcangia, nel capoluogo, per assistere<br />
alle funzioni.<br />
L’occasione richiamava colà gran quantità di gente da<br />
tutti i villaggi gli stazzi e i casolari dei dintorni. Era una specie<br />
di raduno di primavera. A parte le funzioni religiose vi<br />
avevano luogo rappresentazioni di giocolieri, balli in piazza,<br />
gare di “poeti” improvvisatori, corse di cavalli e, a sera, spettacolo<br />
immancabile, i fuochi artificiali. E naturalmente vi si<br />
davano convegno – allineando i loro banchi, protetti da tende<br />
(le “parate”) in file ininterrotte sull’uno e sull’altro lato<br />
delle vie principali – venditori di torrone, biscotti, bibite, noci<br />
e nocciole, mandorle dolci e salate, ceci arrosto, carrube e,<br />
75
oltre a questi, merciai ambulanti che esponevano e offrivano<br />
le cose più disparate, trombe trombette palloni lingue-di-menelik<br />
caldaie in rame bracieri giare pentole, pizzi e ricami,<br />
pale da forno, forconi. E infine, per condimento, cosa anche<br />
questa immancabile, il gruppo di quelli che venivano alla festa<br />
per voto, una spolverata d’imbroglioni ladruncoli e femmine<br />
male, e lo scelto e spaventevole campionario dei mendicanti,<br />
la maggior parte deformi o mutilati.<br />
Attorno alle “parate”, ai banconi, ai palchi, lungo le vie<br />
e nei crocicchi (Arcangia poi constava essenzialmente di<br />
due vie principali più un paio di piazze e, a margine del<br />
paese, la “crociera”, com’era detta, ossia l’incontro di tre<br />
strade maestre con quella che s’inoltrava nell’abitato), la<br />
gente si assiepava, si pigiava, vociava, salvo uno stretto passaggio<br />
lasciato al centro per il deflusso, del resto lentissimo,<br />
della folla.<br />
E la festa era questa, in fondo: essere per una volta una<br />
moltitudine; sentire il calore, l’odore, la confricazione di gomiti<br />
dei propri simili, cosa abbastanza insolita e tutto sommato<br />
piacevole per gente abituata a trascorrere la maggior<br />
parte del tempo dispersa nelle solitudini.<br />
Per le pressioni della madre, benché personalmente riluttante,<br />
Pasqua si era agghindata per questa festa degli abiti<br />
migliori, come del resto faceva ogni giovane donna.<br />
Indossava una gonna a balza, lunga fino ai talloni secondo<br />
il costume di là e fittamente pieghettata a scanalature verticali.<br />
E le pieghe, di fuori, tolta la balza, erano di un azzurro<br />
appena accennato, come la biancheria dopo tolta dal turchinetto,<br />
in pratica un color ghiaccio; invece all’interno di ciascuna<br />
scanalatura il colore era rosso vivo come i fiori dei papaveri.<br />
Sicché, aprendosi queste pieghe nell’alternanza dei<br />
passi o nel moto della persona, la gonna a vicenda sbiancava<br />
o rosseggiava, appariva a momenti quel fuoco interno e l’incendiava<br />
e svaniva. La balza poi, larga mezzo palmo e corrente<br />
d’altrettanto più su dell’orlo inferiore, era anch’essa azzurra,<br />
ma di un azzurro violento notturno. <strong>Il</strong> busto era chiuso,<br />
fuorché sul davanti dove non è riparo che il lino della camicetta,<br />
dal giubbone di broccatello, ruvido per le volute di filigrana<br />
e squillante per i colori i fiori e i bordi squamati in oro.<br />
76<br />
E completavano l’abbigliamento, oltre la camicetta – sbuffata<br />
sul petto e fuoriuscente a palloncino dagli spacchi delle maniche<br />
del giubbone e a pizzi e gale sui polsi – le “broches”, gli<br />
orecchini, le quattro coppie di gemelli grossi come campanellini<br />
che stringevano i manicotti, il cappio di seta a fiocchi<br />
che regolava la scollatura. <strong>Il</strong> capo invece nudo, o poco meno:<br />
incorniciato cioè dal puro splendore dei capelli, questi ritorti<br />
in trecce e le trecce raccolte in su, a crocchia, a torre, il tutto<br />
sovrastato soltanto da un’esigua inamidata pezzuola di pizzo,<br />
come un corporale.<br />
Usciva tutto questo addobbo dall’arca odorosa di nardo<br />
che Mariangela Siddi aveva recato come corredo da sposa ai<br />
tempi suoi e che soltanto in occasioni come queste, quasi religiosamente<br />
si apriva. E, nell’ornarla via via di questi capi<br />
preziosi, Mariangela veniva contemplando la figlia con tenerezza,<br />
rivedeva se stessa in lei, e pensieri le salivano alla superficie<br />
dell’anima, anch’essi odorosi di nardo e abitualmente<br />
custoditi nelle chiuse arche dell’anima. A opera finita volle<br />
perfino carezzarla, la figlia, che mai accadeva, e disse: «Va’ là<br />
che sei un incanto, sposa mia specchio d’oro».<br />
Esaurite le devozioni, uscivano ora dalla chiesa per vedere<br />
e mostrarsi. Ma indugiando Mariangela con alcune comari<br />
delle parti sue, che soltanto in queste occasioni le era<br />
dato incontrare, Pasqua se ne venne pian piano, aggregata<br />
anche lei ad altre giovani, pure di Baronia e state sue intime,<br />
passando in rassegna i banchi dei torronai e di tutti i rivenduglioli<br />
che si son detti.<br />
Lo vide da lontano, subito. Era là, davanti a una “parata”,<br />
in un branco di giovanotti sghignazzanti e gesticolanti.<br />
Sapeva, che lo avrebbe rivisto. Se una ragione c’era, che<br />
l’aveva persuasa a cedere alle insistenze della madre (era però<br />
la stessa ragione che per altro verso la faceva riluttare) era<br />
questa: che lo avrebbe rivisto. E però si era detta: starai calma,<br />
quieta, non farai che ti agiti e ti mostri tutta sossopra.<br />
Non ti vuole, lui, non ti vuole, vuoi capirlo? Eppure, adesso,<br />
il cuore faceva un tuffo, sentiva che il viso le si sbiancava,<br />
perfino le gambe avevano un cedimento. <strong>Il</strong> marchio di fuoco,<br />
la nonna Vissenta, lui.<br />
77
Ma per reazione (era figlia di Giuanni Cinus) stringeva<br />
i denti e voltava il capo dall’altra parte.<br />
Lui viceversa non si era accorto di lei. Era appoggiato<br />
con l’uno e l’altro gomito al bancone di mescita della “parata”<br />
e si mostrava di profilo. Nel fitto della folla – pur rifiutandosi<br />
di ammettere che i suoi occhi ogni poco tornavano<br />
là – lei stessa lo scorgeva e lo perdeva. Notò perfino, sempre<br />
giurandosi che, sì, sprecava tempo a badare a lui, che tracannava<br />
del vino da un capace boccale a manico.<br />
<strong>Il</strong> gruppo di ragazze di cui essa faceva parte passò poco<br />
dopo davanti alla “parata” dov’era lui, e i giovanotti ch’erano<br />
con lui si voltarono a osservarle, dandosi di gomito e rompendo<br />
in risate, un po’ bevuti com’erano.<br />
Anche lui alla fine si voltò e venne e si collocò in prima<br />
fila fra i sodali, sempre reggendo in mano il boccale. I capelli<br />
erano squassati, scarmigliati; lo sguardo torbido.<br />
Sgranò gli occhi, li strabuzzò, guardò ancora stralunato;<br />
poi si passò una mano sugli occhi (nell’altra il bicchiere) indi<br />
sul muso e di nuovo sugli occhi; e infine disse:<br />
«Pasqua!».<br />
Ma così sottovoce che probabilmente nessuno lo udì, più<br />
col frastuono che c’era. Ma lei sì lo stesso lo udì, e se non lo<br />
udì materialmente lesse sulle sue labbra che lui pronunziava<br />
il suo nome, e se non fu nemmeno questo vuol dire che<br />
qualche cosa, un’onda, trasmise il richiamo e lei lo captò.<br />
Dopo di che, per un attimo, lei non era più lì, si trovò nuovamente<br />
nello spiazzo della sorgente, il giorno che muore, il<br />
silenzio trattenuto, e quei lampi, e quei tuoni, e perché lo<br />
avete fatto?<br />
Tuttavia procedette, a braccetto con le compagne, quel<br />
che la calca consentiva.<br />
I giovanotti, ora, lanciavano frecciate e motti salaci all’indirizzo<br />
delle colombelle, facevano a voce alta apprezzamenti<br />
sull’una e sull’altra, lei non esclusa, hai visto che occhi, che<br />
bocca, che questo e che quello, bella già da ninnare, ti ha<br />
detto niente la mamma? Ubriachi. <strong>Il</strong> vino scioglieva loro la<br />
lingua e la fantasia. Dal canto loro le ragazze affettavano di<br />
ignorarli, senza tuttavia adontarsi più che tanto, anzi; in fin<br />
dei conti era festa.<br />
78<br />
Egli s’intromise:<br />
«Smettetela» disse, volgendosi bieco ai compagni.<br />
Lo canzonavano, gli davano sulla voce:<br />
«O Fieli Pòrcina» esclamavano «e che? E quando mai?<br />
Marta rifiuta il grano, adesso? Che forse c’è tua sorella, fra<br />
quelle lì?».<br />
Allora Pasqua si ricordò di quando lui l’aveva salutata dicendo:<br />
Pace a te, Pasqua, sorella mia. Nel profumo e nel mistero<br />
della notte.<br />
S’intrometteva come un barrito l’urlo di un torronaio:<br />
«Ah che cosa dolce, ah che cosa buona, è miele, è miele!»<br />
intervallato dai colpi, rintronanti sul legno del bancone,<br />
di quel mannarino del quale si servono i torronai per affettare<br />
il torrone.<br />
Egli scagliò per terra – quasi sui propri piedi, nel poco<br />
spazio che c’era – il boccale, che andò in mille pezzi.<br />
«In malora!» disse, non fu possibile capire a chi. E, questa<br />
volta a voce altissima, come suggestionato dal grido del<br />
torronaio urlò dietro il gruppo delle ragazze che già era andato<br />
oltre: «Pasquaaa!» che pareva lo sbudellassero.<br />
Essa si irrigidì. Era allibita. Dio mio che vergogna, Gesù<br />
quale disdoro! Chiamarla così, davanti a tutti, per strada,<br />
una “vergine”! Doveva essere proprio ubriaco o uscito pazzo<br />
per comportarsi così.<br />
Frattanto le compagne, anch’esse sbalordite ma nello<br />
stesso tempo messe sulla graticola dalla curiosità, la trascinavano<br />
via cercando di confondersi in mezzo alla folla. E intanto<br />
l’assalivano con domande e pissi-pissi.<br />
«Ma cos’è? Ti ha chiamata! Perché ha gridato così? Che<br />
vuole? Lo conosci? È pazzo? È il tuo innamorato? È ubriaco?<br />
Ti stima?».<br />
Non sapeva cosa rispondere né voleva del resto. Affrettava<br />
ancora di più il passo: andiamo, andiamo via. E, nel moto,<br />
più che mai vampava la gonna quell’alternante infiammato<br />
rossore.<br />
Sulla piazza si ballava il ballo tondo.<br />
È una danza sopravvissuta laggiù da migliaia di anni, dal<br />
tempo delle origini, dalle prime migrazioni, l’età di Micene<br />
79
e Cnosso, di Teseo, di Giasone, soprattutto di quel Dedalo<br />
che, secondo una variante della leggenda, qui per l’appunto<br />
sarebbe approdato, dopo lo sciagurato fantastico volo e<br />
avrebbe inventato e costruito i primi nuraghi.<br />
I ballerini erano già raccolti in quel momento sul palco<br />
e si accingevano a eseguire le figure del ballo al suono di un<br />
organetto.<br />
Erano divisi in due gruppi: maschi da una parte femmine<br />
dall’altra. Né pareva che stessero per eseguire una danza,<br />
ma che attendessero di celebrare un rito, per come erano<br />
compassati e compresi. Più tardi lo sarebbero stati ancora di<br />
più, sarebbero apparsi straniati e assorti, quasi misticamente<br />
rapiti. <strong>Il</strong> perché è che un ballo così è effettivamente ciò che<br />
rimane di un rito magico, del quale soltanto a poco a poco,<br />
e andando alla radice dei simboli, è dato scoprire la chiave e<br />
afferrare il significato.<br />
Prima che la danza avesse inizio, l’organetto enunziò il<br />
motivo: due temi, tre temi, non di più; che sarebbero stati<br />
via via ripetuti, con crudele monotonia, fino all’esasperazione.<br />
Motivi semplici, elementari, né allegri né tristi in se stessi,<br />
ma che potevano diventare allegri o tristi col variare del<br />
ritmo. E lenti, dapprima; soltanto dopo sarebbero venuti<br />
l’accelerazione e il batti-batti.<br />
Frattanto quattro schiere – due maschili due femminili,<br />
l’una all’altra contrapposte – formarono un quadrato. I componenti<br />
di ciascuna schiera, fianco a fianco, aderivano così<br />
strettamente fra loro da formare un tutto unico, una specie<br />
di muro compatto.<br />
Si attaccò, le schiere presero a muoversi.<br />
Non danzavano, propriamente, piuttosto vibravano.<br />
Stando ferma la persona, il busto eretto, lo sguardo dritto davanti<br />
a sé, l’intera figura perfettamente a piombo, si determinava<br />
in ciascun gruppo una specie di scrollo, dato dal muoversi<br />
ritmico e rapido ma quasi inavvertibile dei piedi; scrollo<br />
che dai piedi si propagava fino al capo come per effetto di<br />
brividi. Poi i piedi presero a muoversi più velocemente, però<br />
sempre segnando soltanto il passo, senza avanzare né indietreggiare.<br />
Finché a un tratto una delle due schiere maschili,<br />
come se levitasse, eseguì non tanto un avanzamento quanto<br />
80<br />
una specie di traslazione in avanti, verso la contrapposta<br />
schiera femminile. Un muro si spostava verso un muro,<br />
mosso da vibrazioni. Ma giunto sulla linea del muro fermo,<br />
il muro in movimento faceva alt, come toccato da scossa<br />
elettrica e, sempre conglutinato e integro, riguadagnava rinculando<br />
il punto di partenza. Indi il secondo muro maschile<br />
ripeteva l’operazione in senso inverso: spostamento, alt,<br />
arretramento. E così, a vicenda, le due schiere femminili.<br />
Nello spostamento di queste, le gonne muliebri, scuotendosi,<br />
accennavano a scampanare.<br />
A questo punto la musica dell’organetto mutava ritmo.<br />
Secondo tema: il dio incombe, l’ora è venuta. <strong>Il</strong> quadrato<br />
dei ballerini si trasformava in un cerchio: un semicerchio di<br />
uomini, uno di donne. Poi questo cerchio, come la rosa dei<br />
beati, incominciava a ruotare. Un quarto di giro a dritta, alt.<br />
Un quarto di giro a rovescio. Un quarto più un quarto di<br />
giro di nuovo a dritta, e ancora un quarto di giro a rovescio<br />
e così via, finché non fosse raggiunta l’interversione delle<br />
posizioni iniziali. E questo era il momento nel quale finalmente<br />
dal gruppo si staccava l’uno; nel quale il singolo per<br />
la prima volta entrava in scena.<br />
Terzo tema: esaltazione e declino dell’eroe, brevità della<br />
gioia. Dopo un silenzio e uno strappo deprecatorio straziante,<br />
l’organetto ripigliava spavaldo, poi incalzante, infine frenetico.<br />
I piedi dei danzatori (il tronco sempre rigido, impettito,<br />
mai flesso) si muovevano adesso con una accelerazione<br />
incredibile, continuando la rosa, a scatti alterni, a ruotare.<br />
Intanto il ballerino che era uscito dal gruppo e si era collocato,<br />
isolato, al centro della ruota, si sbizzarriva per conto proprio<br />
nelle figure della danza: andava e veniva, saltava, si piegava<br />
fulmineamente sulle ginocchia, faceva perno su se stesso<br />
come un frullino, minacciando di crollare schiantato. Egli<br />
era solo e perso nel paradiso delle delizie; era frastornato eccitato<br />
e folle, ma non conosceva la gioia. Allora l’Eterno gli<br />
mandò un sonno profondo e, toltagli una costola…<br />
Schizzò anche dalla schiera femminile l’essere singolo.<br />
Scaturì all’improvviso dal perimetro del cerchio, venne a sua<br />
volta all’interno di esso, scosse le gonne, le roteò: si ebbe<br />
un’idea di frullo, l’illusione di uno sbattere di ali di farfalla.<br />
81
Allora si levò un grido da tutti i coreuti maschi: «Hijùuh!».<br />
Era stata inventata la gioia, l’allegrezza era penetrata nel mondo.<br />
Ballerino e ballerina – il solo e la sola – giostravano ora nel<br />
cerchio, si rincorrevano, si sfioravano: lui l’impeto la brama e<br />
l’ira, lei l’idolo sfuggente e enigmatico, la preda continuamente<br />
a portata di mano eppure imprendibile. E gridavano i maschi:<br />
«Hijùuh!» e pestavano il piede, incitando. Ma rispondevano a<br />
cadenza le donne battendo anche loro il piede e simulando<br />
paura e rifiuto.<br />
Alla scena finale poi – lei finalmente catturata e in atto<br />
ormai d’essere tolta – qualcosa accadeva, entrambi i ballerini<br />
si irrigidivano senza tradire più un moto.<br />
La gioia era finita, subentrava la nera morte. Ma, tetragono<br />
e indifferente, il gruppo riassorbiva i due, inglobandoli<br />
di nuovo in sé per fare posto a due altri. Con i quali la scena<br />
si ripeteva, e così di seguito, quanti erano i ballerini.<br />
E dicevano le compagne a Pasqua:<br />
«Su, saliamo, saliamo anche noi».<br />
Lei non voleva, resisteva, ma no. Ma era trascinata, sospinta,<br />
saliva. E una volta salita sulla pedana prendevano<br />
quasi di forza i suoi piedi a danzare e il suo corpo a vibrare.<br />
Contro ogni sua volontà. Era il blocco nel quale era stretta.<br />
E la musica, l’istinto, il nume.<br />
Avanzare, retrocedere. Questo certo fu il ballo più strano<br />
che avesse mai ballato. Per rincuorarla, dopo il fatto di<br />
Fieli Pòrcina, le avevano detto: Su, su, prendi un bianchetto.<br />
Da una venditrice di paste dolci che se ne stava appollaiata<br />
accanto alla sua corba come una chioccia che abbia lasciato<br />
momentaneamente la cova. Ancora avanzare, ancora<br />
retrocedere. E contenevano, questi bianchetti, rosolio. E loro<br />
dicevano (giù, batti il piede): Prendine un altro, sono<br />
buoni, ti farà bene. E ne aveva preso un altro e anche quest’altro<br />
(il piede, batti il piede) conteneva rosolio. E insomma<br />
prendine ancora uno ti farà bene, e lei a prenderlo, e ancora<br />
un altro, e lo prendeva, fatto sta che (conversione, cara,<br />
non lasciarti distrarre) doveva averle fatto proprio bene questo<br />
rosolio, perché si sentiva la testa che (batti il piede) non<br />
capiva più niente, se era o non era. Mai capitata una cosa simile<br />
a lei, figlia di mamma (batti, batti il piede).<br />
82<br />
Ballava si muoveva eseguiva gli spostamenti, come la portava<br />
la schiera della quale faceva parte, nella quale era come<br />
incastrata. Quel muovere rapido dei garretti la stordiva ancora<br />
di più che già non fosse, le dolevano i fianchi, il petto ansava.<br />
<strong>Il</strong> grido repentino di “Hijùuh!” la sorprendeva ogni volta come<br />
un allarme, lo confondeva con quell’altro, col grido di lui<br />
che sbraitava “Pasqua!”, in presenza di tutto il mondo, e anche<br />
lei aveva voglia di gridare: Basta, basta! e che la lasciassero<br />
andare. Ma era presa e trascinata, qui sei e qui resti, non poteva<br />
fuggire. E ballare, vibrare. Finché ogni pensiero perdeva<br />
qualsiasi senso, lei era per così dire sradicata, estirpata da se<br />
medesima. Si fa parte di un tutto che ti tiene e ti preme. Però<br />
anche, vedi?, ti sorregge e ti culla. Se anche ti abbandoni, se<br />
cedi, se svieni, non cadi, non temere. Importante per ora è<br />
che continui a ballare. Poi, è vero, verrà il tuo turno, ma che<br />
conta? È cosa breve, due salti, due piroette, ed è finita. E poi?<br />
Poi cosa?, poi sei ripresa, soccorsa, basta. Chi mi riprenderà,<br />
Fieli Pòrcina? No, cara, che dici?, il gruppo, il tutto. Ah, be’,<br />
perché quel furfante di Fieli Pòrcina, vergogna, chiamarla così,<br />
in mezzo alla strada, spramato: Pasquaaa! Chi crede di essere?<br />
Che diritti ha? Come ha potuto permettersi? Non ci pensare,<br />
cara, ora balla: attenta, preparati, sta per venire il tuo<br />
turno. No no, io ci penso e come: che diritti ha?, eh, me lo sai<br />
dire? Allora si ricordava la sorgente, la solita storia della nonna<br />
Vissenta, il bacio che si era stampato sulla sua bocca: ecco<br />
quali diritti. <strong>Il</strong> marchio, no? E si domandava se si vedesse, se si<br />
accorgessero tutti che aveva quel marchio, e voleva quasi quasi<br />
portarsi la mano alla bocca per nasconderlo, perché nessuno<br />
lo vedesse. Poi si disse decisa non me ne importa. Macché diritti,<br />
era ubriaco. Ecco com’era finito: ubriaco. Divertirsi, parlava<br />
sempre di divertirsi. Ah, bella roba, puah: bere e ubriacarsi,<br />
questo era il divertimento. E solo per questo si era messo a<br />
sbraitare e a comprometterla, chiamarla così in faccia a tutti, a<br />
Cristo e al popolo, che chissà cos’avranno pensato sentendolo.<br />
Eppure quel grido, a dispetto dell’ira e dell’onta, le rintronava<br />
nella teca del cranio non come un grido di scherno,<br />
di vanteria o di dominio, ma come il grido di un naufrago,<br />
qualcosa di disperato. E era questo, più ancora che l’affronto,<br />
che la struggeva. Tornava a udirlo, il suo nome (attenta cara,<br />
83
fra poco tocca a te) urlato come da sponde lontane: Pasqua!,<br />
Pasqua!, dove sei, aiuto, aiuto! Muoveva in fretta i piedi, più<br />
in fretta, più in fretta, non già perché così comandava la danza<br />
o il ritmo dell’organetto, bensì perché cercava di correre<br />
incontro a lui, e correre non poteva, era stretta ai due lati dalla<br />
morsa del gruppo, era nella condizione di chi nel sogno<br />
vorrebbe affrettarsi ma urta contro un ostacolo, non si sa cosa,<br />
e sgamba, lotta, insiste, che patimento. Senonché tutt’a<br />
un tratto i lacci cedono, le dighe sono sfondate, può liberarsi,<br />
andare. Coraggio, cara, muoviti dunque, scuotiti, va’, è arrivato<br />
il tuo turno.<br />
E andava. Era al centro del cerchio, al centro del mondo,<br />
tutti che la osservavano. Che fare, ora? Era come abbacinata.<br />
Voi che lo sapete, vi prego, ditemi dov’è il mio amore. Ma è<br />
li, non vedi?, danza, sorella, danza. Danzava. Eseguiva le scene,<br />
le fughe, le reversioni. Estatica e quasi ieratica. Senza vedere<br />
nulla, senza sapere nulla, fuorché quest’unico fatto; che<br />
andava, finalmente sciolta, a passo di danza, incontro a colui<br />
che amava. Tutto il resto dimenticato o ignoto, vero soltanto<br />
questo: egli l’aveva chiamata e lei andava. L’esultanza, la gioia<br />
bacchica, sul ritmo ossessivo dell’organetto, s’impossessavano<br />
infine di lei. I fianchi più non dolevano, il petto – coi due<br />
emisferi gemelli che lo gravavano: lei, eretto il busto (mai<br />
flesso), li portava come doni, le pareva a momenti, nel moto<br />
sussultorio, ch’essi suonassero come due crepitacoli – più<br />
non ansava. Avvertiva anzi, in tutto l’essere, una sensazione<br />
sconosciuta, nuova, strana, e così smemorante che, pur inebriandosene,<br />
ne aveva paura. Dov’è il mio amore? A lui porto<br />
i miei doni, ditemi per piacere, se lo sapete, dov’è. E il cerchio,<br />
il coro: Ma è proprio lì, non vedi? È lì, guardalo, è lì.<br />
Che ne sapeva chi fosse il ballerino che danzava con lei?<br />
Che le importava? È il caso che sceglie, in questo ballo, le<br />
coppie. A lei importava di giungere, a guado, le sponde lontane.<br />
La gonna a doppia faccia si apriva e si rinserrava. Cos’era,<br />
lei? Era gelo. Cos’era, lei? Era fuoco. Danzava tra gelo e fuoco,<br />
gelava e bruciava, la danza era gioia e pena, ditele soltanto<br />
dov’è il suo amore. E gridavano, in coro: «Hijùuh!».<br />
Ma adesso stai per giungere, devi solo eseguire la figura<br />
finale, lasciarti ghermire, predare. Lui ti rincorrerà un’ultima<br />
84<br />
volta e tu cedi, donati, tu non fuggire. Così, brava, così. E ora?<br />
Ora è venuta la grande ora: devi morire. Sì, cara, morire. È facile,<br />
sai. Batti con forza due colpi sulla pedana e poi ti immobilizzi,<br />
riversa, le braccia incrociate sul petto, addio addio. Così,<br />
bene, bravissima, che bella morte!<br />
Le giunse improvviso l’applauso. La folla ammassata intorno<br />
al palco, ammirata, applaudiva. Perché? Cos’era successo,<br />
dov’era?<br />
Erano l’ultima coppia, lei e quell’altro che aveva danzato<br />
con lei. <strong>Il</strong> ballo era terminato: applaudivano.<br />
Lei guardava intorno stupita; osservava il cavaliere. Le<br />
tornava la coscienza come da distanze infinite. Che strano,<br />
guarda, gli somigliava, costui: la fronte, gli occhi, la bocca.<br />
Lui disse sommessamente:<br />
«Pasqua!».<br />
Vi fu confusione, trambusto. I ballerini lasciavano il palco,<br />
passando la urtavano.<br />
Non era possibile. <strong>Il</strong> rosolio di quei bianchetti? Le girava<br />
la testa. Ma lui disse ancora, impacciato e confuso:<br />
«Pasqua!».<br />
E non era possibile adesso ingannarsi, non era possibile<br />
che fosse il rosolio.<br />
Diceva ancora:<br />
«Sì, sono proprio io, svegliati, cuore mio. Scusami per<br />
poco fa, perdonami. Sai, sono un po’ male in sesto, ma solo<br />
qualche bicchiere, ti assicuro, non è che… perché, vuoi saperlo?,<br />
io di te… io ti…». Impastate e incerte le parole a causa<br />
della lingua ancora legata e poi dell’ansimo, dopo tutto<br />
quel turbinare. Però abbastanza in forze e ancora lucido. <strong>Il</strong><br />
concetto, in ogni caso, solare: io di te, io ti.<br />
Crepitavano gli ultimi battimani. I ballerini scendevano<br />
dalla scaletta salutando i plaudenti come atleti vittoriosi.<br />
Io di te, io ti. Applausi.<br />
Lei riusciva soltanto a dire, stralunata:<br />
«Vustè?».<br />
Applausi. La tiravano via le amiche, rischiava se no che<br />
sul palco restasse solamente lei con quell’uno. <strong>Il</strong> solo e la sola.<br />
Alla vista del mondo.<br />
85
<strong>Il</strong> più vicino torronaio berciava: «Ma cos’è, questo, eh?<br />
E provatelo. È miele, è delizia!».<br />
Ancora applaudivano.<br />
L’indomani, a Serri, Momo ebbe un attacco del suo male.<br />
Ne soffriva qualche volta, ma a intervalli lunghissimi. Per<br />
fortuna la crisi fu corta, si protrassero le convulsioni pochi<br />
minuti, poi il ragazzo giacque inerte. Bisognò a ogni modo<br />
essere lesti a cacciargli una pezzuola fra i denti, prima che le<br />
mascelle si saldassero e ci fosse pericolo che si tranciasse la lingua.<br />
Ci volle però del tempo per vederlo rinvenire. E quando<br />
rinvenne, la prima persona che invocò, mugolando e farfugliando,<br />
non fu la madre, ma Pasqua.<br />
L’incidente spaventò un poco tutti, e fra l’altro evitò che<br />
Giuanni Cinus fosse informato della chiassata di Fieli Pòrcina,<br />
per la quale Mariangela, nel viaggio di ritorno, aveva fatto<br />
aspro rimprovero a Pasqua, la sua opinione essendo che,<br />
certo, se una cosa simile era potuta succedere, una qualche<br />
colpa doveva averla anche lei, col suo comportamento, chissà.<br />
Una volta a Serri, tuttavia, con Momo in quello stato, ci<br />
fu altro cui pensare.<br />
I giornalieri, nel frattempo, non avevano avuto pietà dei<br />
papaveri. A colpi di marretta ne avevano fatto strage. Di più<br />
era accaduto che uno di costoro, proprio uno fra quelli che<br />
più di frequente venivano a chiedere acqua alla fattoria, in<br />
un impulso di rustica cavalleria aveva voluto raccoglierne un<br />
mazzo da offrire a Pasqua (un mazzo?, un fascio, un’intera<br />
bracciata), omaggio alla giovane e avvenente datrice d’acqua.<br />
Omaggio che Pasqua, dal canto suo, presente la madre,<br />
aveva accettato confusa.<br />
<strong>Il</strong> mazzo era poi finito – cessatone nel giro di un giorno<br />
il rutilante splendore – in mezzo ai sarmenti e alla legna del<br />
forno.<br />
Soltanto alcuni, di questi papaveri, si tennero da parte.<br />
Furono per qualche giorno la medicina di Momo. Infuso<br />
di papaveri. Gli fa bene, lo calma, sentenziava Mariangela.<br />
E non a torto. Essendo questa la virtù dei papaveri: infondere<br />
sonno e oblio.<br />
86<br />
VII<br />
IL GRANO IN FIORE<br />
È cosa che dura un giorno, due giorni. O quanto? Molti<br />
non ne conoscono neppure l’esistenza: il grano ha un fiore?,<br />
il frumento?, domandano. E corrono magari a documentarsi.<br />
E scoprono che sicuro, anche il grano, il frumento (frumens<br />
triticum) ha un fiore, non è pianta asessuata né crittogama,<br />
ma fanerogama: nozze alla luce del sole, precisamente. E appunto<br />
il fiore è il presupposto, diciamo, di queste nozze, il<br />
tramite e la condizione senza la quale…<br />
Uscivano tenerissimi dalle camicie ancora verdi. Ma che<br />
erano? Virgole, erano. Difficile immaginare fiore più piccolo,<br />
mite e dimesso di questo.<br />
Innanzi tutto il colore. Supponiamo il cielo, in quell’ora<br />
verginale quando non è ancora l’annunzio ma la speranza<br />
del giorno, un desiderio, anzi, che il giorno verrà, minacciato<br />
per assurdo dal timore che il sole, per una volta, potrebbe<br />
non sorgere. Un qualcosa così, un grigio avorio con una<br />
memoria di azzurro, un caffelatte chiaro chiaro spruzzato di<br />
un’ombra di marmellata di prugne. Insignificante? E pensate<br />
alla mescolanza di gialli grigi e oltremarini per ottenere<br />
una sfumatura così.<br />
Poi la grazia. In genere i fiori hanno pompa, profumo,<br />
vanità; ma questi? Sono solo un ronciglio, un ricciolino. Non<br />
sono da confondere con le barbe del grano, le ariste, ben più<br />
ostentate e visibili. Quelle sono le ciglia, le dita, le antenne,<br />
secondo che più vi piace, delle spighe. Mentre questi non ne<br />
sono che il momentaneo ornamento e il capriccio. E profumo,<br />
certo ne hanno, ma solo olfatti privilegiati possono coglierlo,<br />
è raro e prezioso, distillato arcanamente, sa di pulito,<br />
di fresco, “di pioggia” e, nelle ore più piene del giorno – un<br />
presentimento? – di pane. Infine, quanto alla vanità, la loro è<br />
proprio quella di non averne e di esser casti, puri, soavi.<br />
Ma come fanno, alla fine, a adempiere alla loro funzione<br />
di fiori? Attirano insetti, api? Chi sono i pronubi?<br />
87
Pronubo è il vento, lui solo. Nella spiga che va formandosi,<br />
essi sbucano dall’involucro di quelli che saranno poi i chicchi,<br />
come tanti sonaglini. Quanto più carica è di vita, più la<br />
spiga se ne agghinda e se ne imbellisce, a guisa di un ninnolo<br />
che getti lateralmente zampilli. Allora il vento come un bambino<br />
s’impadronisce di questi ninnoli e, secondo il capriccio<br />
suo, con delicatezza o rudezza li scuote. Così si compie il rito<br />
nuziale del grano e, da fiore a fiore, il commercio sessuale dello<br />
scambio del polline.<br />
Hanno soltanto che, essendo così fragili, durano un tempo<br />
incredibilmente breve. Un giorno, due giorni. O quanto?<br />
Ed ecco per tutte le chine, a Serri, il grano metteva fiore.<br />
Distesa enorme, fiori infiniti. Venti, trenta per ogni spiga;<br />
quante saranno state le spighe? E bisognava ben credere che<br />
gli zefiri dell’aprile – i putti dalle gonfie gote, alati, galleggianti<br />
nell’aria, che si vedono nei vecchi atlanti – avessero lavorato<br />
a dovere per produrre un così vasto, diffuso, simultaneo<br />
risveglio.<br />
Nessun paragone possibile fra lo spettacolo che offriva oggi<br />
l’ingenuità di questi fiori, e la rossa carnale opulenza ostentata<br />
fino a due settimane prima dai fiori dei papaveri. E non<br />
l’apparenza soltanto. Portavano promesse diverse: questi l’inganno,<br />
la droga, la mistura che smemora e adduce fantasmi;<br />
quelli il seme che nutre, la farina, il pane.<br />
Ma non è a queste cose, s’intende, che pensava Giuanni<br />
Cinus, mentre saliva quel pomeriggio per la strada di Sinniri,<br />
grama e infossata, a cavallo dell’asino. Pensava piuttosto che<br />
da questi cincinni, fra poco, hai da vedere che ingrano.<br />
Veniva dalla campagna di Tula, l’ovile delle pecore, in<br />
“parte di sole”. La strada che percorreva sprofondava in quel<br />
punto di almeno tre braccia, rispetto al piano della campagna:<br />
una spaccatura del banco argilloso, la quale si trasformava,<br />
durante i rovesci d’acqua, nel letto di un torrente. La ripa, a<br />
filo della trincea, era ben più alta della testa di un uomo a cavallo<br />
di un asino. Dalla sponda di destra, per lui che veniva in<br />
su, incominciava il possesso. E appunto su questa ripa, non<br />
essendo bisogno di siepi, veniva a morire la distesa del grano.<br />
Perciò il grano, a lui che l’osservava dal basso, appariva, su<br />
quello zoccolo di terra rossa strapiombante, eccelso, ancora<br />
88<br />
più alto di quanto non fosse in realtà, e così impetuoso nello<br />
spingersi fin sullo scrimine, da far temere che un po’ un po’<br />
traboccasse. Certo non sfuggivano, ai suoi occhi esercitati,<br />
sulla costa delle spighe, quei pallidi diafani fiori. Ed era proprio<br />
da loro che misurava l’ingrano.<br />
«Hài, tvrr!» diceva incitando la bestia.<br />
Incitava anche se stesso.<br />
Coraggio, si diceva, coraggio. Vedrai che ce la farai; devi<br />
farcela, al punto in cui siamo. E dove lo trovi, dimmi, un grano<br />
che butta così? Se viene come promette, nel grano potrai<br />
affogarci, te lo dico io. Davvero ti si è rovesciato il destino.<br />
Ancora una volta si ricordava (ora gli era abituale) il sogno<br />
della mattina di novembre. Piano piano ogni cosa accadeva<br />
come l’aveva immaginata: lo spuntare dei germogli, l’incannato,<br />
e ora le spighe e questi fiori. E che cosa di meglio,<br />
che “stoccata” poteva desiderare, più di così? Sembrava che il<br />
destino altro pensiero non avesse che di realizzare la sua visione:<br />
togliere via via le cose dai regni del nulla e farle succedere.<br />
Con lui, beninteso, a fargli da levatrice, perché, perdio, non è<br />
che lui se ne stesse con le braccia incrociate, a aspettare che<br />
succedessero, ah. Domandare alle sue spalle e alle sue reni.<br />
Di nuovo guardava in su, di nuovo la speranza gli cresceva<br />
di dentro come un lievito (quella palla di pasta, tenuta<br />
in serbo nella madia, che giusto è detta “crescente”).<br />
Se tiene, Cristo, se appena tiene, ne riparleremo al momento<br />
di contare le quadre. Pensava a Nanni Pòrcina, e a<br />
quell’altro ciondolone del figlio, Fieli Pòrcina (che chissà, a<br />
proposito, com’è che non s’era più visto, da qualche tempo, a<br />
Serri) il quale, anche lui, tz!, faceva l’incredulo, si dava le arie<br />
di uno che ci va cauto, in fatto di previsioni, con tutti i suoi<br />
se e i suoi ma. Bene, bene, al <strong>raccolto</strong>, a riparlarne, quando<br />
sarebbe stato il momento di levare e insaccare.<br />
Se tiene, naturalmente. E qui sputava e faceva le corna<br />
contro il malocchio e l’influsso del Maligno, che ci mancherebbe<br />
anche questa. Crepa, tie’, Mala Bestia, diceva mentalmente<br />
rivolto al Maligno. <strong>Il</strong> quale proprio così: “Bestia”, è<br />
detto in lingua nostra, alla maniera della Scrittura: la Bestia<br />
per antonomasia, la Bestia dell’Apocalisse. E frattanto batteva<br />
colpi su quest’altra assai più concreta, mansueta e del tutto<br />
89
incolpevole bestia che aveva sotto, e vale a dire l’asino, lo toccava<br />
di verga sul collo e di calcagno sotto la pancia, quasi fosse<br />
proprio l’asino l’incarnazione della Bestia maledetta e perversa,<br />
che poi lui, sta’ a vedere, con tutta sicurezza veniva<br />
cavalcando per la strada di Sinniri.<br />
Ma intanto quel pensiero, appena affacciato, rispuntava.<br />
Già, come mai quel bel tomo di Fieli Pòrcina non si era fatto<br />
più vivo da un pezzo a Serri? Tuttavia non si curò di dare alla<br />
domanda una risposta. Dopo tutto, bah, è affar suo, si disse,<br />
a me che me ne viene? Lo saprà lui, il perché.<br />
Tranquillo, come uno che si è posta una domanda, in<br />
fondo casuale e oziosa, e per nulla se ne turba, mentre a cavallo<br />
del proprio asino se ne va, passo passo, in pace.<br />
E viceversa, proprio a quell’ora, sulla strada per Serri, tutta<br />
un’altra direzione, Fieli Pòrcina aveva effettivamente a che<br />
fare, in qualche modo, coi pensieri di Giuanni Cinus. Era,<br />
cioè, in compagnia di sua figlia, Pasqua Cinus, fiore di grano.<br />
L’aveva raggiunta – lui a cavallo – lungo la strada di Serri,<br />
che andava a spese. Sola.<br />
«E dove vai madre mia?».<br />
Dall’alto dell’arcione (il cavallo che rampava), giuntole a<br />
ridosso lanciato, e di colpo fermatosi. Bravure dei cavallerizzi<br />
di Arcangia, famosi nelle feste patronali per come montano<br />
alla brava i cavalli corridori.<br />
Lei si era scansata e voltata, tutt’occhi, per il momentaneo<br />
sgomento che il cavallo potesse travolgerla. E lo guardava ora<br />
di sotto in su a bocca aperta, quel viso acerbo di donna e di<br />
bambina che la pezzuola bianca chiudeva tutto attorno, come<br />
in cornice.<br />
La stessa cosa di quando lo aveva finalmente ravvisato<br />
sul palco, dopo la scena del ballo, alla festa del Rimedio:<br />
«Vustè!» disse. Come se lo vedesse sprizzare dalla terra o<br />
calare da una nuvola.<br />
Non lo aveva più visto da allora, un tempo per lei lunghissimo,<br />
e tante cose erano passate nell’animo suo, che avevano<br />
lui per oggetto. E da lontano l’invocava: vieni, vieni (ora<br />
non fingeva più con se stessa), e non veniva. E ora eccolo qui<br />
all’improvviso, baldo sul suo cavallo, e bello come Sant’Efisio<br />
benedetto. La sua meraviglia scaturiva da questo.<br />
90<br />
«Io, sì» lui diceva ridendo. «E chi, se no? <strong>Il</strong> mio fantasma?».<br />
<strong>Il</strong>are e sciolto. Passati, naturalmente – e oggimai dimenticati<br />
– i fumi di quel giorno. E con essi, chissà, anche per<br />
lui, tante altre cose: esitanze, inibizioni. Da quella scena del<br />
ballo nella quale lui, fumi o non fumi, vedendola tutta stordita<br />
e smarrita, aveva capito che il frutto era proprio maturo<br />
e fatto, molte delle ragioni che dicevano no, erano venute<br />
meno. E se non era partito subito ventre a terra per Serri era<br />
perché, a parte l’incertezza di poterla trovare sola, residuava<br />
in lui, se mai, quel tanto di indolenza ch’era proprio della sua<br />
indole e che chiamano, là, malas intrangias, cattive viscere.<br />
Ora anche questo non c’era più. Cadeva o non cadeva questo<br />
frutto dall’albero? Certo che cadeva, eccolo che cadeva.<br />
La sorte, anzi (poiché anche stavolta l’incontro era predisposto<br />
dal caso) si sarebbe detto che glielo facesse, il frutto, rotolare<br />
fra i piedi. Infatti quando, poco prima, sopravvenendo<br />
alle sue spalle, l’aveva scorta da lontano, si era detto che il<br />
giorno ormai era venuto, che il frutto era lì per terra, non restava<br />
che chinarsi a raccattarlo. E lui, ebbene, questa volta si<br />
chinava. Per questo lui era allegro.<br />
Lei no, invece, non lo era. Da quel giorno del ballo –<br />
poca che ne aveva già prima – non aveva avuto più pace. Riguardo<br />
a lui come riguardo a se stessa. Egli l’amava, non l’amava,<br />
che voleva da lei? E lei, a sua volta, cosa voleva? Non<br />
capiva più, non si capiva più. Sbalordiva di sé, per quello che<br />
le succedeva. Ancora pochi mesi prima lei era diversa, assolutamente<br />
diversa. Spensierata, aperta, allegra come un uccello.<br />
E ora, invece. Da quando aveva conosciuto costui, aveva tanto,<br />
nella sua testa, macinato pensieri (il paragone lei lo faceva<br />
col grano nella mola azionata dall’asino, quando entra nella<br />
tramoggia e subito l’ingranaggio lo afferra e lo stritola riducendolo<br />
in farina, che se la tocchi, difatti, è ancora tiepida,<br />
per il travaglio di questo stritolamento) quanto mai in tutti i<br />
giorni e gli anni fino allora vissuti. E sempre in quell’alternanza<br />
che si è più indietro veduta, la quale però non riguardava<br />
soltanto il fatto se lui l’amasse o no, ma tutto un insieme<br />
di cose, era diventata una condizione sua propria, il suo<br />
modo d’essere, sebbene per altro verso non le mancasse né<br />
animo, né decisione, né ostinazione. Si sentiva felice infelice<br />
91
innocente colpevole dannata glorificata. Era sulla cima dei<br />
monti. Era nel fondo degli abissi più fondi. Perché le accadeva<br />
questo, dov’era, chi era, cosa cercava? Per questo, a salvamento,<br />
invocava lui e, lui non tornando (altro mistero: perché?),<br />
evocava la sua immagine – sì, proprio, come lui diceva<br />
ora scherzando, il suo fantasma – e colloquiava con lui lungamente,<br />
domande e risposte, faceva tutto lei, la parte sua propria<br />
e quella di lui, discorsi bizzarri, un gioco di finte, negazioni<br />
insincere, confessioni senza pudore.<br />
E questo sforzo di illudersi, per lunghi momenti, che<br />
fosse a tu per tu con lui, per ritrovarsi alla fine con ombre, il<br />
vano, il niente, la spossava e la estenuava.<br />
Ma ecco lui ora le era dinanzi, inaspettato, ridente. Non<br />
sarà stato davvero un fantasma?<br />
Vedendola tuttora assorta, seria, e come incantata, lui<br />
disse:<br />
«Be’, che fai? Ti sei finalmente convinta che sono proprio<br />
io in carne ed ossa?».<br />
Fece di sì con la testa e accennò anche a sorridere. Sì,<br />
certo, convinta. Ma il fatto che dovesse tenere la faccia levata<br />
in su e stringere gli occhi per la troppa luce e quindi<br />
vederlo tra ciglio e ciglio, era tale che non si dissipava del<br />
tutto in lei la sensazione di contemplare alcunché d’improbabile.<br />
Lui si scusò di non essere più potuto tornare a Serri, da<br />
quella volta del Rimedio.<br />
«Ma ho sempre pensato a te, in tutti questi giorni, sai?<br />
Sempre» aggiunse.<br />
Lei zitta, la faccia in su. Lo fissava. Poi disse, come già<br />
prima:<br />
«Vustè?».<br />
Incredula. Lui infatti chiese:<br />
«Perché, non ci credi?».<br />
Si arrese. Rispose che ci credeva. Ma ancora per cenni:<br />
dall’alto, lui vide le labbra stringersi e il capo oscillare su e giù.<br />
Non proprio persuasa. Così così. Ma per compiacenza, insomma,<br />
sì.<br />
«E tu» lui ancora «hai mai pensato a me, qualche volta,<br />
in tutto questo tempo?».<br />
92<br />
Detto anche questo così per dire, e sempre ridendo. E anche<br />
lei sorrideva, ma per una specie di pietà di se stessa. Qualche<br />
volta! Pensato a lui qualche volta! E non mangiava non<br />
beveva non dormiva, non faceva un lavoro, che nel pane nell’acqua<br />
nei sogni negli oggetti che toccava non fosse lui. E disse,<br />
col tono che le veniva da questa sorridente tristezza:<br />
«Sì, qualche volta».<br />
«Ah, bene» lui. «E vediamo: in bene o in male?».<br />
Cosa poteva rispondere?<br />
«In bene, in bene, state tranquillo» disse col medesimo<br />
tono.<br />
«Allora non sei in collera con me, siamo sicuri?».<br />
Questa volta, dall’alto (lui non si dava pena di smontare<br />
di sella), vide la testa di lei accennare di no.<br />
«Sai» disse «quel giorno al Rimedio ero un poco bevuto<br />
e quando sei passata, non so come, era tanto che non ti vedevo,<br />
mi è venuto da chiamarti gridando, bah. Ma poi mi<br />
sono accorto che avevo fatto male e allora ho pensato di venire<br />
al ballo e quando ti ho visto sul palco sono salito, volevo<br />
ballare con te. Credo di averti anche detto che mi dispiaceva<br />
per prima».<br />
Lei lo interruppe.<br />
«Non pensateci più» disse. «È cosa passata».<br />
«Allora siamo in pace?».<br />
Un tempo per la risposta.<br />
«In pace» infine disse.<br />
Mentre ancora parlava, lui capiva ch’era venuto il momento.<br />
<strong>Il</strong> cavallo, tratto tratto, alzava infastidito la grande testa<br />
inarcando il collo, per modo che il cavaliere doveva richiamarlo<br />
e quietarlo col morso. Lei era in piedi presso le zampe<br />
anteriori dell’animale: non arrivava la sua statura all’altezza del<br />
garrese.<br />
Lui fece l’atto di schiaffeggiarsi la fronte.<br />
«Ma io ti tengo qui ferma in piedi, che pezzo d’asino.<br />
Vuoi che ti prenda in groppa con me? Posso accompagnarti<br />
un pezzetto e così ti risparmi la strada. E intanto parliamo un<br />
po’. Dove vai?».<br />
«A Serri» rispose. Tremava un po’. Intuiva confusamente<br />
anche lei ch’era venuto il momento. E tremava.<br />
93
Lui domandò, fissandola:<br />
«Vuoi?».<br />
Guardava verso l’alto, il viso trepido, quasi rorido, offerto<br />
e sofferto, come se per mille segni implorasse: Non<br />
farmi salire, Fieli Pòrcina, abbi pietà di me; e nel medesimo<br />
tempo come se per altri mille segni dicesse: Su, prendimi,<br />
Fieli Pòrcina, che aspetti? Toglimi in groppa, in fretta e portami<br />
dove vuoi.<br />
E non rispose nulla, né sì né no.<br />
Lui si chinò finalmente, piegandosi tutto di lato. Stese il<br />
braccio per afferrarla. Lei non vide, sentì. Le palpebre, per<br />
un moto loro proprio, si erano affrettate a sbarrare gli occhi.<br />
<strong>Il</strong> braccio girò intorno alla vita, e più su, sotto le ascelle, e<br />
avvolse, pieghevolmente; la mano, che arrivava sul morbido,<br />
era essa stessa concata e morbida. Poi i muscoli del braccio<br />
indurirono, fecero forza, tirarono. Lei si sollevava sulle punte<br />
dei piedi per secondarlo.<br />
Ma non fu, come pensava, un lento issare. Una forza, di<br />
schianto, la sradicò dalla terra, lei si trovò ad un tratto nel<br />
vuoto (così deve sentirsi, sbigottito e tremante, negli artigli<br />
della poiana, il capretto predato) e un istante dopo abbattuta<br />
contro qualcosa, abbrancata tuttora da lui, stretta contro<br />
la sua persona. Non l’aveva levata in groppa, ora capiva, tra<br />
onde, sì invece lì sull’arcione, sul duro dell’arcione e del collo<br />
del cavallo, e quindi piegata riversa e premuta contro di<br />
lui, e ora lui si curvava sopra di lei, lei non vedeva, sentiva, e<br />
stringevano le sue braccia come catene, e sentiva che il capo<br />
le veniva voltato, lei sapeva perché, e difatti premevano ora<br />
le labbra sulle sue labbra l’anello bruciante, lo strano fuoco,<br />
dolore ardore amore, lei non ne aveva perduto memoria dall’ultima<br />
volta quella sera alla sorgente e indugiavano a lungo,<br />
quanto?, un tempo che lei non seppe, che lei non visse,<br />
spento il sole, il respiro, più nulla; oppure, era questo al<br />
contrario il tempo, il vero, prefigurato le tante volte nelle<br />
fantasie rischiando e vendendo l’anima sua peccato e inferno,<br />
e paradiso, che ora di nuovo miracolosamente viveva?<br />
Quanto a lui come da un’anfora, pareva bere. Un lunghissimo<br />
sorso. Si ha sete e si beve. Così si fa, nei brucianti<br />
meriggi, con le piccole anfore serbate in fresco che contengono<br />
l’acqua appositamente lasciata per bere. Si toglie da terra<br />
94<br />
l’anfora (è leggera) si appoggia alle labbra e glu glu, “gorgoletta”<br />
si chiama difatti.<br />
<strong>Il</strong> cavallo, al montare del nuovo peso, aveva dato mezzo<br />
passo di fianco per rimettersi in equilibrio sugli appiombi; e<br />
scavezzava. Egli strinse i ginocchi e partì al passo, tenendo la<br />
ragazza ancora così, semiriversa supina stretta al petto, reggendole<br />
le spalle col braccio sinistro mentre la destra badava<br />
alle briglie. Non era insoddisfatto di sé: queste cose vanno<br />
fatte d’impulso prima che dicano no no, ma sì, però, si mettano<br />
a tergiversare come fanno i rivenduglioli. E inoltre con<br />
calma, vanno fatte, ma insieme con ragionevole fretta. Strane<br />
creature le donne. Se gli chiedi il permesso educatamente<br />
e per favore insorgono ma quando mai ma come ti permetti<br />
che quasi ti senti un verme. E poi, quand’è, ti muoiono fra<br />
le braccia. Eccone qua per esempio la prova. Su su, svegliati<br />
dolcezza mia, sta’ buona, agnella mia, che per ora è passata.<br />
Gli accadde, può darsi, di dirle veramente, percettibilmente<br />
quelle parole “sta’ buona”; perché a lei parve di udirle<br />
nello stato in cui era; ma consolanti, placabili, amorose.<br />
E stava buona difatti, e chi si muoveva? Così rannicchiata<br />
com’era contro la persona di lui e sorretta dal braccio di<br />
lui, ritrovava dolcezze di antichi giorni. Nell’ambio del cavallo,<br />
quel sentirsi così stretta dalle braccia di lui la faceva sentire<br />
come cullata, le faceva la ninna-nanna. Muoversi? Mai<br />
più. Un dito che avesse mosso, si sarebbe svegliata. Non osava<br />
neppure sollevare le palpebre, per paura “che facessero rumore”.<br />
Stare così, tra veglia e sogno: tutti i pensieri fuori dell’uscio.<br />
E godersi questo nulla e questo tutto, galleggiare<br />
come una nuvola. Non che dormisse, via: udiva bene lo scalpito<br />
degli zoccoli del cavallo (o era il sangue che batteva contro<br />
le tempie?); vedeva tra i ventagli delle ciglia il lontano<br />
profondo cielo vertiginoso baratro: là sono i santi le sante gli<br />
angeli gli arcangeli e le dolci Marie, il Signore corrusco Sua<br />
Maestà Domine Dio. Percepiva anche gli odori e i profumi,<br />
l’odore della pelle del cavallo, aspro, e quello del tessuto della<br />
casacca di lui che sapeva di lui, e, a tratti, i profumi vaganti<br />
primaverili. Avvertiva certo tutte queste sensazioni, però come<br />
attraverso un filtro, in modo che sì la avvolgessero, e anche<br />
la turbassero, ma senza svegliarla. E più intensa, forte, tale<br />
da sprofondarla ancor più nel languore, avvertiva quella<br />
95
sensazione inusitata lasciata dal bacio, quel cerchio intorno<br />
alla bocca, quel fuoco dentro, quel.<br />
E alla fine, in ogni caso, tutto come fuori di lei, ed estraneo.<br />
Pasqua, colomba mia, che ti hanno fatto? Nulla, mi hanno<br />
fatto, sono stata baciata, ebbene? Che c’è di strano? Questo<br />
è il mio uomo e io gli appartengo come la sua bisaccia, mi<br />
prende e mi bacia, che c’è di strano? Si serve, sicuro. Se ha fame<br />
mangia se ha sete beve, io sono l’acqua io sono il pane, c’è<br />
forse qualcosa di strano?<br />
Vedendo però che non si scuoteva, lui si chinò su di lei<br />
temendo che fosse svenuta, e una punta di terrore l’assalì,<br />
quando vide i suoi occhi sbarrati e fissi: li aveva ora finalmente<br />
spalancati. Trattenne da manca il cavallo, scartò dalla<br />
strada di Serri (del resto deserta e abbacinante, non un’anima<br />
intorno) e prese e s’inoltrò nella macchia. E qui fermò il<br />
cavallo, lasciò perdere le redini, la strinse con entrambe le<br />
braccia, la scosse una due volte, la chiamò sottovoce, con<br />
una sollecitudine che fu dolce, quant’era pressante, e persino<br />
tenera, delicata:<br />
«Pasqua, Pasqua, fiore mio!».<br />
Continuava a fissarlo con quei suoi occhi grandi, bruni,<br />
semitici, il velluto cupo delle iridi, l’iride che si accaparrava la<br />
maggior parte dell’occhio. Né palpebrò. Né si contrasse nel<br />
viso un muscolo. <strong>Il</strong> terrore di lui si accrebbe, dilagò, si mutò<br />
in freddo panico.<br />
«Pasqua, Pasqua, fiore, amore mio!» invocò terrorizzato.<br />
Che fosse morta, orrore, ma com’era possibile?<br />
Immobile ancora, lei si decise a sorridere. Gli occhi, prima.<br />
Poi, come cerchi partenti dal centro di caduta di un sasso<br />
nell’acqua, il sorriso si allargò, estendendosi a tutto il viso.<br />
E a bassissima voce:<br />
«Ancora. Dillo ancora».<br />
A lui compariva sulla fronte qualche goccia di sudore; il<br />
sangue, al venir meno dello spavento, violentemente refluiva<br />
indietro: oh, quando si dice!<br />
«Che cosa?» domandava.<br />
«Quelle parole» lei disse «quelle che hai detto prima». A<br />
fior di labbra. Come se articolasse le parole alla muta, senza alcun<br />
suono. Stracarica di dolcezza, una brocca che traboccava.<br />
96<br />
«Quali parole?». Non riusciva a afferrare.<br />
«Quelle che hai detto prima: “Pasqua, Pasqua, fiore mio,<br />
amore mio”».<br />
Afferrava finalmente. Di questo, vedi, si accontentano.<br />
E ripeté, per secondarla, le parole del suo desiderio. La breve<br />
paura passata lo rendeva benigno e la benignità, è scritto, è<br />
una qualità dell’amore.<br />
Bevve le sue parole, come lui le pronunziava. E, per assaporarle<br />
più a fondo, chiuse di nuovo le palpebre. E si disposero<br />
le ciglia in modo che, nella particolare inclinazione del capo<br />
e per l’incidenza del sole, un po’ d’ombra – una tenue<br />
trama d’ombra – si spruzzò sotto di esse, sulla parte superiore<br />
delle gote.<br />
«Ancora» disse.<br />
Ripeté con pazienza. Sapete che fu detto dell’amore, che<br />
non solo è benigno ma anche paziente. E domandò:<br />
«Sei in collera?».<br />
Si ridischiusero gli occhi, piano, come conchiglie. E dentro<br />
era l’enorme perla, nera, rarissima. E fatto questo le valve<br />
delle conchiglie silenziosamente si rinserravano. Se avesse<br />
compreso, lui, chi può dirlo; ma voleva dire: collera? E cos’è?<br />
Ma lui, adesso, era calamitato da quelle ombre. Quell’imbastito<br />
leggero, una spolverata, che le straordinarie ciglia<br />
proiettavano sulla sommità delle gote, e fitto fitto vibravano.<br />
Anche una cosa così, un nulla – più che lo stesso<br />
tenere lei fra le braccia, così languida – può girare gli interruttori<br />
e attivare i circuiti. Sul suo viso, bianco come pane<br />
nuziale, quelle ombre.<br />
Ma lei s’era tratta su, sciogliendosi un po’ da lui, e chiedeva:<br />
«Mi vuoi bene?» dandogli, senz’accorgersene, del tu e servendosi<br />
naturalmente del solito verbo “stimare”.<br />
Se ne servì anche lui per assentire senza indugio. E fu tanto<br />
pronto nel farlo (lui, sì, aveva notato il tu) che parve, e lui<br />
stesso si credette, assolutamente sincero.<br />
«Davvero?» lei disse.<br />
«Davvero».<br />
«Allora non sono in collera».<br />
Un silenzio.<br />
97
«Non hai paura di me, non è vero?» lui chiese, sondando.<br />
Rituffata la faccia nel petto di lui scosse il capo, in segno<br />
di diniego. Paura? No, perché mai? Poi di nuovo si staccò,<br />
l’osservò, sorrideva. La pezzuola da testa le era ricaduta dietro<br />
la nuca, nel volo che aveva fatto; le forti nere trecce s’erano<br />
in parte slegate. Era fresca e monda, una luna, un’anguria<br />
d’inverno.<br />
«Tieniti ferma, aspetta» disse lui, e balzò da cavallo. Poi,<br />
tendendole le braccia perché smontasse a sua volta, l’invitava:<br />
«Vieni».<br />
Allora lei si accorse ch’erano in mezzo alla macchia.<br />
«Ma non dovevi portarmi a Serri?» domandò. «Un pezzo<br />
di strada, lo avevi promesso». Ancora gli dava del tu, ancora<br />
senz’accorgersene.<br />
«Dopo» egli disse «dopo» continuando a sollecitarla col<br />
gesto delle braccia tese.<br />
«Dopo cosa?» lei chiese, lasciandosi tuttavia scivolare<br />
giù dall’arcione.<br />
Egli l’accolse e la strinse e la sollevò. La portava come un<br />
fascio di spighe quando ammucchiano i contadini i covoni<br />
per fare le biche. E così l’adagiò, come un fascio di spighe.<br />
Ma successe una cosa strana, l’ultima alla quale egli<br />
avrebbe potuto pensare. Per quanto lui, messi in azione i circuiti,<br />
avesse ben chiaro il fine, e a quello mirasse, e la sferza<br />
lo frustasse implacabile non fu, quel giorno, nulla. Lei lo sopraffece<br />
e lo vinse, non già lottando, sì invece disarmandolo<br />
con una strepitosa rappresentazione di candore e d’amore.<br />
Fin da principio, ritrovatasi distesa supina sull’erba, e lui, accanto<br />
a lei, tuttora ginocchioni nell’atto che l’aveva così adagiata,<br />
lei lo attirava, lei stessa, su di sé, palesemente per nulla<br />
conscia di quello che potesse agitarsi in lui e solo perché portasse,<br />
lui, più vicino al suo il proprio viso, e così carezzarlo<br />
con dolcezza snervante, intanto che gli diceva, chissà donde<br />
apprese, parole appassionate (quelle, forse, che prodigava su<br />
Momo?): “Fiore d’oro, passerotto, pulcinetto, cuore di Pasqua,<br />
grande balcone d’oro”, e intanto che gli passava le mani<br />
sul viso, tutta un’esplorazione tattile trepida, come volessero,<br />
98<br />
esse, le mani, riconoscerne i tratti e imprimersene la memoria,<br />
o ricrearlo, foggiarlo, o prenderne possesso, non so.<br />
Ma di colpo, sorpresa, si traeva a sedere e negli occhi<br />
sgranati le si leggeva, senz’ombra di infingimento, un fanciullesco<br />
effettivo stupore:<br />
«Oh!» diceva «Oh!» e si copriva con le mani la bocca.<br />
«Eh? Che c’è?» lui chiedeva, con una punta di allarme,<br />
ammaestrato dalla paura di prima. «Cos’è successo?».<br />
«Ma io vi ho dato del tu, Fieli Pòrcina, oh!».<br />
Se n’era accorta, finalmente. E le pareva una cosa enorme,<br />
tanto che non comprese quando lui, stupito a sua volta,<br />
le chiese:<br />
«Ebbene?».<br />
«Perdonatemi» disse.<br />
«Ma sono stato io stesso,» lui disse «non ti ricordi, a<br />
chiederti di darmi del tu. Quel giorno alla sorgente, non ti<br />
ricordi?».<br />
«È vero, sì, già, quella volta…» rispose.<br />
«Dunque puoi farlo. Su, provati, dammi del tu».<br />
Canticchiò le parole di uno stornello. <strong>Il</strong> messaggio che<br />
manda l’innamorata all’innamorato: «Io sono io quando ti<br />
vedo e quando non ti vedo non sono più io. La mia anima è<br />
malata e la sua medicina sei tu». S’interruppe per chiedergli<br />
con una smorfia infantile: «Così?». Poi compitò, sempre in<br />
dialetto: «Tu, sei, l’amore, mio» nella qual frase (che è anche<br />
un verso di chissà quante canzoni) poteva vedersi come la<br />
parola amore, quanto più la lingua recalcitra a accettarla,<br />
tanto più splende e fa spicco. E finalmente sfavillandole gli<br />
occhi di divertita malizia, ricordandosi delle parole di lui<br />
dopo la scena del ballo, gli fece il verso, portando l’indice<br />
alternativamente sul proprio petto e su quello di lui: «Io di<br />
te, io ti!» pigolava e rideva.<br />
E rise anche lui, afferratone il senso, tanto la caricatura<br />
era fatta con grazia e comicamente.<br />
«Ah così» disse. «Ora mi prendi anche in giro?».<br />
Lei scosse il capo, no. Si fece seria.<br />
«Ascoltatemi» disse dopo una pausa di riflessione. «Io bisogna<br />
che ve lo dica, non m’importa come mi giudicherete,<br />
99
non m’importa se grideranno. Ah, ma questo non potete capirlo».<br />
Si riferiva alle sue “voci”. Era convinta di sentire delle<br />
voci, nei momenti di solitudine, quando si rifugiava nel pensiero<br />
di lui, specie di notte. Voci di accusa, di rimprovero, di<br />
condanna, per il fatto che lei, di sua libera iniziativa, contro<br />
le regole del costume, si era innamorata di lui. Ma di tutto<br />
questo non era il caso di parlare, adesso.<br />
Lui, a ogni modo:<br />
«Chi, grideranno? Tuo padre e tua madre?».<br />
«No» rispose. «Che ne sanno loro di quello che sto per<br />
dirvi?».<br />
«Allora chi?».<br />
«Le anime del purgatorio» disse enigmatica. E proseguì,<br />
incurante del viso che lui faceva, mostrando di non comprendere:<br />
«Come può stimare una creatura la più, la più»<br />
esitò, non trovando il paragone e, in mancanza di meglio, «la<br />
più creatura» disse «ebbene così io vi stimo, con tutta l’anima<br />
mia. Dovrei vergognarmi a dire queste cose, non è vero? E a<br />
dirle proprio a voi, per di più. Ma l’ho detto: non m’importa,<br />
e poi se è vero, se è così, perché vergogna? Voglio anche<br />
dirvi che mi sono innamorata di voi fin dalla prima volta che<br />
siete venuto da noi, ve ne ricordate? Da allora. E non ve ne<br />
siete accorto; per forza, come potevate? Mica potevo battervi<br />
sulla spalla e dirvi: sapete cosa mi capita? Mi sono innamorata<br />
di voi. Del resto, dopo, io ho fatto di tutto, sapeste, per.<br />
Di tutto. Io devo essere pazza, devo essere proprio “cantata”.<br />
Non ci sono riuscita. Voi nulla immaginavate di questo. Anche<br />
dopo, anche quando… Vi ricordate quel giorno alla sorgente?<br />
Certo vi sarò sembrata di sasso, no? Ma dentro sapeste.<br />
E il ballo, ricordate? Io non mi ero nemmeno accorta che<br />
eravate voi. Ero, non so, nella luna, fuori del mondo. Eppure,<br />
anche senza sapere che eravate voi, lì con me, io camminavo,<br />
non è che ballassi, camminavo proprio in cerca di voi,<br />
che pazza che sono, non è vero?».<br />
Le luccicavano gli occhi dicendo questo, si commuoveva,<br />
l’anima le prorompeva quasi con violenza di fuori. Ma imperterrita<br />
proseguiva, sempre su questo tono, a confidarsi, a<br />
100<br />
confessarsi, a fare quella che – se le parti fossero state invertite<br />
– sarebbe stata ciò che dicono la “dichiarazione”.<br />
E non basta, andava avanti. Attingeva da sé quanto poteva<br />
di segreto, di intimo, di più geloso, e lo portava alla luce.<br />
Come togliesse dal mastello i capi lavati, anche quelli che non<br />
si mostrano, e li stendesse sul filo, alla vista del mondo.<br />
E questo era, anche, che, contro tutti i suoi propositi, se<br />
anche non sgominava del tutto le furie, lo faceva stare lì incantato,<br />
e perfino un po’ stordito, a ascoltarla. Questa donna<br />
del suo paese – macché donna, una ragazzina, una che fino a<br />
ieri si trastullava con bambole di stracci – che non si peritava<br />
non solo di amare, ma di dire che amava, e di dirlo senza ritegno,<br />
disarmatamente, anzi con così strano appassionato infantile<br />
fervore. E naturalmente il sapere, e il sentirsi apertamente<br />
e con tanta forza confermato, che di questo amore, di<br />
questo culto, proprio lui era non pure l’oggetto, ma il tabernacolo<br />
e il dio. Tutto questo, sì – per l’esperienza che aveva di<br />
questi luoghi: queste donne così schive, taciturne, restie in<br />
amore, almeno in quello detto, confessato, svelato – tutto<br />
questo, è vero, finiva per sconcertarlo, finiva per ingenerare in<br />
lui una sorta di ammirazione, in ogni caso rendeva inattuabili<br />
i piani, almeno per ora, com’era possibile, ora, in questo stato<br />
di grazia, di poesia?<br />
Quand’ebbe finito, esausta, piangente-ridente, lui disse<br />
infatti, che già era lirismo:<br />
«Sei una ragazza meravigliosa, Pasqua, e molto cara».<br />
<strong>Il</strong> che, come reazione di lei, parve far leva piuttosto sulla<br />
tentazione del pianto, che del riso.<br />
Poi, lui, volle di nuovo baciarla. Come per entusiasmo;<br />
questo, almeno.<br />
E lei consentì.<br />
Ma alla seconda (gli occhi di lui che si empivano di curiose<br />
scintille), non consentì, ridendo gli metteva per museruola<br />
le dita sulle labbra.<br />
«Perché?» lui domandava.<br />
«Devo essere a Serri» disse.<br />
«E poi?».<br />
«Poi a casa».<br />
101
«E quando ti rivedrò, vorrai? Allora vorrai?».<br />
«Aspetta di rivedermi» disse, ridendo e tornando al tu.<br />
Si era alzata, sfuggendo alla sua presa, e avvicinata al cavallo.<br />
E mentre ancora lui la inseguiva, era saltata in sella<br />
d’un balzo, senza appoggiarsi alla staffa: un roteare di gonne,<br />
una giravolta e hop-là.<br />
«Vuoi che ti prenda in groppa così ti risparmi un pezzetto<br />
di strada?» lo scimmiottava. E godeva di vederlo così imbambolato.<br />
Ma poi si tirava indietro, si metteva lei in groppa, perché<br />
lui potesse montare in sella, il maschio, il cavaliere, era lui.<br />
Toccando di tacco e avviandosi, lui domandava:<br />
«E allora, Vostra Mercé, dove vuoi che ti porti?».<br />
«A Serri» lei gorgheggiò «portami a Serri».<br />
Come annunciasse una meta favolosa. Serri, infatti, come<br />
tutti sanno, era una città di cristallo e d’oro.<br />
102<br />
VIII<br />
SPIGHE<br />
Non si sa come avviene. Ma dal cincinno del fiore scorre<br />
la misteriosa virtù fin nell’occulto di quella prigione piccolissima<br />
nella quale poi il seme prende corpo e sostanza. Accade<br />
allora che la tunica si gonfi – la veste di ciascun chicco – e<br />
poiché numerosi sono i chicchi d’ogni singola spiga, questa<br />
intumesce e reclina, sempre più, via via che la gravezza del<br />
peso l’opprime e l’affatica.<br />
Questo non si produce in un giorno soltanto, naturalmente.<br />
È lenta cosa e bisogna aspettare. Ma un giorno, verde<br />
che è ancora e le barbe tutte tese, si vede che la spiga pende<br />
in giù, il suo collo si flette in giù, è un atto di pudicizia per<br />
quella maternità vegetale che la spiga nasconde, le ariste stesse<br />
sono come ciglia vereconde di occhi di sposa incinta.<br />
Di questa verecondia, di questo universale spettacolo di<br />
pudibonda modestia, Giuanni Cinus aveva certo motivo di<br />
rallegrarsi. Diavolo, era cresciuta sin troppo la canna; ci sarebbe<br />
mancato che alla fine le spighe riuscissero vuote. Può<br />
capitare, ah. La beffa di certe annate: un rigoglio magnifico<br />
della pianta fino alla cima, ma poi la spiga vuota: un campo<br />
di paglia e di pula. E sarebbe stato un bell’affare.<br />
Perciò si rallegrava che la fecondazione fosse avvenuta al<br />
momento giusto e fosse la spiga ingravidata a dovere. E soppesava,<br />
per saggio, questa o quella spiga, avanzando per il campo.<br />
Avanzava come in un mare. <strong>Il</strong> mare, all’aprirsi, crosciava,<br />
levavano le canne e le foglie, ma specialmente le barbe, un<br />
suono vagamente metallico, raschioso, gradevole. Egli allungava<br />
la mano, afferrava a caso una spiga, la palpava, stringeva.<br />
<strong>Il</strong> ventaglio delle barbe frusciava nella mano, i dentelli da sega<br />
delle barbe s’incagliavano nel ruvido della pelle opponendo<br />
resistenza, ma lui veniva al sodo, alla corposità dell’ingrano,<br />
misurava, stimava.<br />
103
Ingranisce da sei, da otto, da dodici, si diceva di volta in<br />
volta. Ingranivano molte da sedici e non poche da ventiquattro<br />
e talune perfino da trentadue, cose mai viste. Chissà, si diceva,<br />
se quelli delle “cattedre di agricoltura” che capitano ogni<br />
tanto in giro a dare suggerimenti ai contadini (“a insegnare a<br />
babbo come si fa a avere figli”), ne avevano mai studiato sui<br />
loro libri, cose così.<br />
Gli si erano, da marzo in qua, già si è notato, al cospetto<br />
di questo bendidio che veniva con tanto slancio, raddrizzate<br />
perfino, non si dice le gambe, ché quelle ahimè non c’era rimedio,<br />
ma le reni e la schiena, ora aveva imparato a pigliare<br />
l’andatura del vero massaio spasseggiandosi su e giù per la<br />
strada carraia ai bordi del campo, i pollici infilati negli scolli<br />
ascellari del giustacuore. Che nessuno magari poteva vederlo<br />
pompeggiare così, ma lui che c’entra pompeggiava lo stesso.<br />
Non alto proprio che era, quel mare verde in certi tratti<br />
minacciava di sommergerlo, c’erano dei momenti che sul fiore<br />
del verde restava a galleggiare soltanto il cappello, quasi a<br />
prova che lui, almeno in questa forma, ci annegava davvero,<br />
come aveva sognato, nel grano suo.<br />
Non si scorgevano invece più tutti quegli apparecchi<br />
ch’erano stati collocati a suo tempo nel campo, nei giorni<br />
della semina: banderuole aeroplani aquiloni. <strong>Il</strong> vento di dicembre<br />
ne aveva fatto sterminio: spezzati i sostegni, fatti volare<br />
gli stracci, disperse le varie parti. E quello che ne restava<br />
era seppellito nel folto.<br />
Unici gli spauracchi, sopravvivevano; per alto che fosse<br />
il grano, essi non scomparivano del tutto. Almeno a mezzo<br />
busto, impalati sui loro fittoni, ancora emergevano, impavidi.<br />
Avevano patito le piogge, le sassaiole della grandine, i<br />
ceffoni del vento, i nubili, i sereni. Niente, resistevano. Strapazzati<br />
s’intende, scapitozzati, sconquassati, inutili oggimai:<br />
che passeri volevano impaurire più. Eppure non cedevano.<br />
E quella loro crocifissione, e i visceri di fuori – paglia e crine<br />
– come fossero sbudellati, e il vacillare incoerente come dicessero<br />
no, secondo lo spirare del vento, tutto questo, sì,<br />
conservava come un senso di malaugurio, oltreché di grottesco<br />
e compassionevole. Ma a quelli, si sa, Giuanni Cinus<br />
non faceva attenzione.<br />
104<br />
Lui e lei.<br />
Lei.<br />
Molti incontri.<br />
Aveva sempre qualcosa da fare, lei, adesso, a Serri. “O ma’,<br />
posso andare a meriggio a Serri?”. “Ma figlia mia per che fare?<br />
Non ci sei stata già l’altro ieri?”. E i pretesti: andava per petrolio<br />
e tornava con zucchero: “Ohi che testa, ohi ma’ mia, dimenticata!”.<br />
E bisognava riandare.<br />
La madre, d’altra parte, tranquilla, sul conto di lei; persuasa<br />
che queste sue andate a Serri muovessero dal bisogno, legittimo<br />
dopo tutto alla età sua, di veder gente, distrarsi, e al tempo<br />
stesso di camminare e stancarsi: carne che cresce carne che<br />
si rimesce. In ogni caso lontanissima dal pensare che Pasqua,<br />
ma siamo impazziti?, si potesse permettere certe temerità. Certo<br />
non le sfuggiva, considerate tante cose e, da ultimo, il fatto<br />
della festa del Rimedio, il pericolo rappresentato da Fieli Pòrcina.<br />
Ma figurarsi se Pasqua. Chi più di sua madre, andiamo,<br />
poteva conoscerne l’animo? Le bastava guardarla e ne indovinava<br />
anche i pensieri: era trasparente come l’acqua, leggibile<br />
come la volta del cielo. No, non faceva per vantarsi ma aveva<br />
una figlia che molte se lo sognavano, nelle sue condizioni, di<br />
averne una simile. Fin troppo ingenua, anzi, se mai era da farle<br />
un rimprovero. Non si dice che una, be’, quand’è ragazza,<br />
sia troppo intraprendente; ma un pizzico di malizia, via. Come<br />
appunto nel caso di Fieli Pòrcina. Ognuno al proprio posto,<br />
s’intende, e il giusto rispetto, e piano con le confidenze.<br />
Ma se l’uomo ti fa capire qualcosa, anche essere ciechi, sordi, è<br />
troppo. Ma come si dice? Meglio avere le pastoie che correre e<br />
ruzzolare. E chi dorme non pecca, se non altro.<br />
E se così ignara e serena era la madre, sul conto di Pasqua,<br />
figurarsi Giuanni Cinus. Un padre, certo, ha da essere<br />
cane da guardia, riguardo alle figlie femmine, se ne abbia.<br />
Ma i ladri, dove sono, contro i quali abbaiare e avventarsi?<br />
E se, per avventura avessero a risultare ladri gli amici chi dice<br />
al cane: busca?<br />
E lei andava a Serri.<br />
Era come se un fuoco si fosse impadronito di lei. Lui lui<br />
lui. Vederlo. Sentirne la voce. Stare con lui.<br />
105
A prezzo di acuti rimorsi: l’inganno alla madre, al padre,<br />
questa continua finzione, questa doppiezza. Senza parlare del<br />
tormento di quelle “voci” che le pareva di udire, di notte,<br />
mentre giaceva, insonne, sul suo saccone, accanto al letto di<br />
Momo, il cui sommesso guaire nel sonno, fra l’altro, faceva<br />
ad esse da controcanto.<br />
Ira ed esecrazione. Ma che fai, sciagurata? A che punto ti<br />
sei ridotta. Vedi cosa sei. Lo sai, di’, cosa sei? Vergogna, vergogna.<br />
Hai perduto la dignità. Non fai che mentire, e prima<br />
non mentivi mai. Non ridi più. Non hai più pace. L’unica cosa<br />
che conta è lui, tu sei strame, legna da forno. Corri, corri<br />
da lui, scodinzola, su. E lo chiami amore. Perdizione, è, altro<br />
che amore.<br />
Lei rispondeva, contrattaccava. Cercava di difendere se<br />
stessa e lui, e soprattutto di difendere, rivendicare, quel suo<br />
amore. Sì, è vero, lo amo, e non me ne vergogno, nossignore.<br />
Non m’importa cos’ero e cosa non ero. Non m’importa di<br />
mentire o di non mentire. Sì, certo, correrò, volerò da lui, tutte<br />
le volte che lo potrò. Non m’importa se rido o se piango.<br />
Piango, ebbene? Mi va di piangere. Sono felice di piangere. (E<br />
piangeva davvero, a volte, nel buio e nel silenzio, e realmente<br />
gliene veniva una specie di strana, dolceamara consolazione).<br />
Prendeva sonno sfinita, in questa lotta con ombre. Ma, fatto<br />
giorno, indomito il pensiero tornava a lui, impaziente lei<br />
aspettava il momento di riessere ancora con lui.<br />
E, una volta con lui, poi, non più lotte né voci né ombre.<br />
Tutto si rischiarava. Era ben questo, anche, il richiamo. Mia<br />
colomba, che indugi: vieni.<br />
Questi incontri avvenivano, come già il primo, lungo la<br />
strada di Serri, in giorni e ore che di volta in volta loro due<br />
stabilivano. Poi, ma più tardi e non sempre, in una casa isolata<br />
a metà strada fra Tula e Arcangia, deviando dalla strada<br />
per Serri, a un’ora di cammino dalla fattoria.<br />
E, quello che è strano – e che consolidava l’affidamento di<br />
lei, dando ala al suo abbandono – è che non erano molto dissimili,<br />
i primi di questi incontri, da quello che si è descritto.<br />
Diverse, e magari complesse, da parte di lui, le ragioni:<br />
il gusto dell’attesa, come un centellinare del vino forte; il<br />
106<br />
desiderio, chissà, di una capitolazione spontanea; le contraddizioni,<br />
anche, della sua indole un po’ capricciosa. Ma la<br />
principale era questa: che lui – già sicuro dell’esito, per questo<br />
paziente condiscendente – era anche per certo affascinato<br />
dal costume amoroso di lei. Del modo come lei sapeva ogni<br />
volta, in maniera sempre nuova varia e imprevedibile, “inventare”<br />
l’amore. Lui, in fin dei conti, cos’è che cercava? E lei<br />
invece portava altro, ma a piene mani: gioia riso candore<br />
amore. Amore susurrato narrato cantato e ballato. Amore fidente,<br />
adolescente, amore amato. Come volesse, lei, seppellirlo<br />
nella propria tenerezza e nello stesso tempo inscenare,<br />
solo per lui, una specie di festa, di sorprendente spettacolo.<br />
Perché io ho solo una bocca per ridere se il mio ridere<br />
ti rallegra. Due soli occhi (e li strizzava), se i miei occhi ti<br />
piacciono? Due sole mani, queste due sole piccole mani (le<br />
voltava e le rivoltava di sotto e di sopra), se mi servono per<br />
carezzarti?<br />
Chi le insegnava questo, chi?, lui si chiedeva trasecolato.<br />
E dove era detto che nella terra di Serri, o di Arcangia, o di<br />
Baronia, questa pianta allignasse, questa cosa di nuovo genere,<br />
di una donna amorosa che, parlando, dicesse canzoni. Io<br />
sono il tuo pane, il tuo tascapane, il manico del tuo coltello.<br />
Dove le aveva imparate, costei, cose così? Tenevano al caso<br />
in Baronia, dove lei era cresciuta, scuole di questo?<br />
E così si scordava, ascoltandola, dell’altra cosa. O almeno<br />
procrastinava. Come preso lui stesso dal gioco, entusiasmato,<br />
esaltato. Pago – per ora – di quest’essere spettatore (e destinatario,<br />
insieme) di questa cosa inconsueta e festosa, lieve e lucente,<br />
come quella pioggia minuta, diffusa, pruinosa, di quando<br />
piove e c’è il sole.<br />
<strong>Il</strong> fatto è che lei estraeva da sé tutto questo non senza suo<br />
proprio stupore. Queste cose che diceva, che faceva; questa<br />
gioia che provava e di cui si sentiva stipata, fino a frangersi;<br />
questo bene che le urgeva di dentro e del quale era impaziente,<br />
bisognosa di far dono, tutto questo riusciva nuovo in una<br />
certa misura a lei stessa, era la prima a stupirsene, si contemplava<br />
e si diceva: son proprio io?<br />
Sa l’anfora ciò che contiene? E lei così, in qualche modo.<br />
L’agitavano l’inclinavano, e traboccava di fuori ciò ch’era in lei:<br />
107
questa essenza di nardo, questo vino resinato odoroso. E non<br />
è neppure che fosse Fieli Pòrcina in quanto tale, il mescitore.<br />
Ma se mai ciò che operava – l’impulso, la forza, l’in sé dell’amore<br />
– in grazia e per mano di lui.<br />
Certo poteva avvenire – è da mettere nell’ordine delle cose<br />
possibili – che questo intervento fosse mancato; e allora<br />
nessuno, e lei nemmeno, avrebbe mai saputo che ricchezza e<br />
che dono erano in lei: il vino e il nardo perduti, inconsumati.<br />
(Di quelle anfore antiche, finite in fondo al mare e rimaste incastrate<br />
nelle carcasse delle navi sommerse, non avviene così?<br />
A volte qualcheduna, dopo migliaia di anni, ne riportiamo alla<br />
luce, tutta ingrommata di alghe e di residui di mitili; ebbene?<br />
Tenacemente sigillata l’imboccatura, ancora, ma il contenuto<br />
svanito, svaporato. Nessuno ha potuto godere di ciò<br />
ch’essa portava. <strong>Il</strong> tempo di quelli per i quali era stata riempita<br />
per sempre consumato).<br />
E anche poteva accadere, certo che il tocco fosse troppo<br />
brusco o il maneggio maldestro; e troppo in fretta spandesse<br />
l’anfora ciò che portava, andando essa stessa, magari, in frantumi.<br />
Se poi, fuor di metafora, fu proprio così per Pasqua,<br />
oppure no, è cosa che è da aspettarsi a vedere. Non tralasciandosi<br />
qui il notare, se mai, la singolare situazione nella quale –<br />
a pensarci – si trova colui che racconta una storia. Che lui sa<br />
già quello che per gli altri, che vengono ascoltandolo, è ancora<br />
il futuro; e non può mutarlo. E non è un po’ una parafrasi,<br />
modesta che sia, di ciò che a una sfera più alta, affaticò grandi<br />
menti? Veniamo noi ascoltando, vivendo, una storia a noi<br />
ignota nei suoi sviluppi futuri, ma già scritta per sempre?<br />
Per accordi con Pasqua, allo scopo di stornare sospetti,<br />
Fieli Pòrcina non mancava di farsi vedere ogni tanto alla fattoria,<br />
come già aveva fatto a due giorni di distanza dal primo<br />
incontro con Pasqua. E recitava in queste visite abbastanza<br />
bene la commedia; con Pasqua che, ancora più brava<br />
di lui (“Prima non sapevi mentire, sciagurata, e ora invece”),<br />
gli teneva bordone.<br />
Salutava con ostentazione i padroni di casa: «Come va,<br />
compare Cinus?», «Ave Maria, Mariangela Siddi». Ed era<br />
condiscendente anche con ’Ntoni, e perfino con Momo si<br />
108<br />
mostrava benevolo, che pure gli metteva addosso, ogni volta<br />
che lo vedesse, quello strano spavento. Quello che lui, dopo,<br />
a cose fatte, avrebbe interpretato come un “me lo diceva<br />
il cuore”.<br />
E Pasqua, naturalmente, faceva oggetto di speciale effusione:<br />
«Pasqua, sorella mia, che piacere vederti, come stai?<br />
Nessun amore in vista?».<br />
A volte, su questo terreno, il gioco si spingeva sino a limiti<br />
perigliosi. Come una volta che, presente Mariangela (vi<br />
erano già stati fra loro diversi incontri, ai margini della strada<br />
di Serri), disse alla ragazza:<br />
«E allora, bene mio, che nuove abbiamo? Te lo sei fatto<br />
o no, l’innamorato, dall’ultima volta che ci siamo visti?».<br />
E lei:<br />
«L’innamorato, io, Fieli Pòrcina? Che dite mai. E chi mai?<br />
Sapete bene che non vedo nessuno, all’infuori di voi qualche<br />
volta. E seconda cosa non sono in età di questo, io, domandatelo<br />
a mia madre. Sapete quanti anni ho? Vi sembro basilico<br />
da mettere alla finestra?».<br />
Lui:<br />
«Quanto a questo, se voi mi permettete, Mariangela Siddi,<br />
direi che sì. Salvo il rispetto che vi è dovuto, s’intende».<br />
Pasqua spingeva la propria improntitudine fino a replicare:<br />
«Oh, e voi per esempio mi prendereste, voi, come basilico<br />
da mettere alla vostra finestra?».<br />
Lui diventava cauto, sentiva che il terreno si faceva scivoloso:<br />
«Eh, dico, perché no? Ma sono cose da non trattare leggermente<br />
come fai tu, che ve ne pare, Mariangela Siddi?».<br />
E Mariangela infatti riprendeva la figlia, scandalizzata<br />
dalla sua audacia. Sebbene l’argomento, poi, non è che. Ma<br />
conveniva col giovane. Non sono cose da scherzarci.<br />
Con Giuanni Cinus invece, se anche lui era presente, Fieli<br />
Pòrcina parlava d’affari, di lavori e, c’è da chiederlo?, dell’attesa<br />
del <strong>raccolto</strong>.<br />
Una volta, anzi, il vecchio volle portarlo torno torno al<br />
possesso perché vedesse con i suoi occhi che roba, e che non<br />
erano parole.<br />
109
«Vedrai, vedrai, ragazzo mio, che battitura sarà. Hai visto<br />
come impregnano le spighe? (Ne strappava qualcuna, la mostrava,<br />
la sfaldava nel pugno, tornava a mostrarla). Foia, hanno,<br />
guarda, come femmine in calore. È affare ancora di un<br />
mese, un mese e mezzo, ed è fatta, l’annata è nostra».<br />
Lo trattava con confidenza, lo chiamava “ragazzo mio”,<br />
voleva che si sentisse, com’era giusto, cointeressato alla cosa.<br />
<strong>Il</strong> risultato era scarso, da quest’ultimo punto di vista.<br />
«Spero m’inviterete» diceva Fieli Pòrcina, per pura compiacenza<br />
«il giorno che insaccherete».<br />
«Invitarti?» il vecchio replicava. «Tu devi esserci» sottolineava<br />
quel “devi”. «Tu sei il padrone di Serri, mi pare, no?<br />
E allora. E poi con te ho un conto da regolare, proprio quel<br />
giorno».<br />
Drizzava le orecchie: conto da regolare?<br />
«Per l’amore di Dio, compare Cinus, non parliamo di<br />
padroni e non padroni. Qui il padrone siete voi, e basta.<br />
Quanto a me, quel giorno, se ci sarò, ci sarò come ospite e<br />
testimone. E poi che conto?». Lasciava per ultimo ciò che<br />
più gli premeva. «Di che genere è questo conto che dite?».<br />
«Tu sei uno» diceva Giuanni Cinus premendogli un dito<br />
sullo sterno «che non hai mai creduto veramente che avrei tirato<br />
su da questa terra questo po’ di grazia di Dio. E magari<br />
anche adesso non sei del tutto convinto. Perciò quel giorno<br />
voglio che vieni e vedrai».<br />
Respirava. Questi i conti, figurarsi. Questo il torto. Eppure<br />
anche di questo, un giorno, avrebbe serbato memoria,<br />
quando le sorti sarebbero state giocate: conti da regolare, torti,<br />
io sarò testimone. Ma per ora, va’, batteva la mano sulla<br />
spalla del vecchio e sogghignava.<br />
E ogni volta che partiva, poi, tutti i Cinus sullo spiazzo<br />
davanti alla casa, grandi saluti, grande cordialità.<br />
«Torna quando ne hai voglia, non farti scrupolo» gli<br />
gridava Giuanni Cinus.<br />
«In buonora e portatevi bene» rincalzava Mariangela. E<br />
anche gli altri, compreso Momo, agitavano le mani.<br />
Balzava a cavallo, voltava e toccava.<br />
«In buonora anche a voi, salute a voi» diceva di rimando.<br />
110<br />
E andando si ripeteva quegl’ignari, affettuosi, commiati: non<br />
farti scrupolo; portatevi bene. Eh no? Come no?, si diceva.<br />
Avvenne.<br />
Lei ne aveva adesso, a distanza di due ore dal fatto, una<br />
memoria remota e dolente.<br />
E stupore.<br />
Questo, dunque.<br />
Giaceva supina sul letto, gli occhi sbarrati nel buio,<br />
schiacciata da uno spaventoso silenzio. Non “voci”, questa<br />
volta, non ombre. <strong>Il</strong> sonno stesso di Momo, per una volta, affatto<br />
silenzioso.<br />
Questo.<br />
Come quando, a volte, lo sguardo è perduto nel vuoto,<br />
incollato a un oggetto, un qualcosa, una macchia sulla parete.<br />
A che pensi? A nulla. E realmente il pensiero si è come incantato:<br />
un granello di polvere è entrato in una delle tante dentate<br />
sfere e tutto il meccanismo è bloccato. Ma il quadrante segna<br />
quell’ora, quel minuto, quel secondo, come un tempo<br />
pietrificato, avulso dal tempo vero e in tal modo pervenuto a<br />
una specie di eternità.<br />
Lei così. Immobile. La mente inchiodata a un punto:<br />
quel punto. <strong>Il</strong> fatto ridotto a tanto: sintesi e idea. <strong>Il</strong> resto<br />
nebbia. Né sapeva neppure quando accaduto, se oggi, ieri, o<br />
duemila anni fa. E che importa, del resto? Semmai dal punto<br />
(la mente come la superficie di una lavagna) prendeva a<br />
svolgersi a un tratto una specie di spirale, prima lenta, poi<br />
rapida, poi ancora più rapida, fino a quando diventava velocissima<br />
e vorticosa, un turbine. E lei nelle spire di questo, lei<br />
come puro pensiero. E nel vortice, col moto, dopo essere<br />
stata attirata e succhiata fino al centro del cerchio, fino al<br />
fondo dell’imbuto, a un altro determinato momento, per<br />
moto inverso e centrifugo, era sfrombolata lontano. Indi di<br />
nuovo il punto, di nuovo la coda di serpe che ne sgorgava,<br />
la spirale che si scriveva sul fondo della lavagna, la girandola<br />
che se ne alzava, e il volo, e l’impatto.<br />
Questo?<br />
Era “vergine” solo di nome, ora. Non era dunque più lei?<br />
111
Era andata là Pasqua, ma non era tornata Pasqua, un’altra<br />
era tornata, mentre Pasqua, quella vera, là era rimasta; là<br />
dove si stracciavano sulle tamerici, navigando l’azzurro, le<br />
nuvole chiare.<br />
Oppure non era avvenuto nulla, e tutto era soltanto sensazione<br />
di un sogno? Forse era così, un incontro come un altro,<br />
uno dei tanti, che lei, col sogno.<br />
Ma no, no, era vero, tutto vero, quale sogno.<br />
E qui l’assalivano – uscita appena da quel senso di turbine<br />
– le crude rappresentazioni del reale. Erano folletti, decine<br />
di piccoli diavoli armati di tridente coi rebbi barbati, che<br />
venivano e offrivano ciascuno, sulla punta di quegli arnesi,<br />
brandelli di realtà. Questo dove lo metti? E questo? E questo?<br />
Senza che, però, il quadro riuscisse a comporsi nella sua<br />
interezza.<br />
Aveva paura di uscire di senno. <strong>Il</strong> materasso sul quale giaceva<br />
si gonfiava levitava galleggiava nel vuoto, con lei sempre<br />
sopra, e poi scendeva giù, non si fermava al livello di prima,<br />
calava sempre più giù, sprofondava fin chissà dove, nel cuore<br />
della terra, nei luoghi infernali.<br />
“Hai peccato!” squittavano danzando i cento piccoli diavoli.<br />
“Hai peccato, ora paghi”. A somiglianza di quei giochi<br />
di bambini, nei quali c’è uno che sta al centro, in castigo, e<br />
gli altri gli ruotano intorno cantando la filastrocca: “Fai la<br />
penitenza, fai la riverenza, un due tre”. Solo che qui non un<br />
gioco, ma un supplizio; e non bambini, ma diavoli.<br />
E si provava a implorare pietà: basta, fermatevi.<br />
Si fermavano e uno principiava a dire con voce acutissima,<br />
sproporzionata alle sue dimensioni: “Sentiamo, cos’hai<br />
da dire?”. E tutti gli altri assentendo: “Sentiamo”.<br />
Lei balbettava, s’impappinava, batteva i denti e tremava.<br />
Che cosa poteva dire a sua discolpa? E tutto il grottesco tribunale<br />
scoppiava in un’enorme risata e ripigliava la danza.<br />
Con sforzo allora lei sollevava il capo dall’origliere e ogni<br />
cosa svaniva, si ristabiliva il silenzio.<br />
A questo punto, pian piano sollevava le mani e cercava<br />
di toccarsi. Erano pesantissime e doveva fare molto sforzo.<br />
E tutta la persona del resto era come fatta di piombo e proprio<br />
per questo, parendole aver perduto la sensazione di sé,<br />
112<br />
la cognizione del proprio corpo, tentava, toccando, di ritrovarsi.<br />
Senza sollevare il busto, ché non poteva, si toccava le<br />
gambe, le cosce. Poi risaliva. Le anche, sì, e l’incavo dei fianchi,<br />
e le costole, il seno, le spalle, finché le mani incontrandosi<br />
si fermavano attorno alla gola. Tutto era “suo”, ritrovava<br />
se stessa. Ma caute, dopo un indugio, ripartivano le mani<br />
a esplorare la faccia, la testa. E inorridiva. Quella no, non<br />
era sua!, scorrevano le mani sul volto – la bocca il naso gli<br />
occhi la gronda delle orbite le sopracciglia – e non si riconosceva.<br />
E quello che era lì – uno che era venuto, come sbucato<br />
dal nulla, e adesso era qui fermo accanto a lei, era come<br />
fatto di fumo – diceva: “Certo, ti è stata cambiata, non lo<br />
sapevi? L’hai riconosciuta, vero? Ebbene, d’ora in avanti andrai<br />
in giro con questa”. E lei, che pure non capiva, singhiozzava:<br />
“Ma che? Perché?”. Ma quello, non si capiva chi<br />
era, né perché era lì, sentenziava: “Certo, è la tua condanna:<br />
d’ora in avanti somiglierai a Momo. Del resto che hai da dire,<br />
non sei sua sorella?”.<br />
E qui finalmente affiorò il pensiero di lui. Alla voce impassibile<br />
del fantasma fatto di fumo, il pensiero corse a lui e<br />
cercò di evocarlo: vieni, vieni. Affinché la difendesse davanti<br />
al nuovo accusatore.<br />
Ma fiocamente l’immagine di lui rispondeva all’appello.<br />
Lei doveva plasmarla, con uno sforzo di volontà, come dovesse<br />
rifabbricarla. E fortuna che le sue mani ne avevano in<br />
sé memoria. Da tutte le volte che si erano soffermate amorose<br />
sul volto di lui, che parevano appunto, volersene imbevere.<br />
Ora lavoravano con zelo a rifarlo e alla fine riuscivano e il<br />
volto di lui era finalmente davanti a lei. E quell’essere fatto di<br />
fumo, come fumo si sciolse.<br />
“Perché non parli” lei domandò “vedi che mi succede”.<br />
Ma non parlò. Era, del resto, soltanto un volto, una specie di<br />
ritratto a mezzo busto, appeso a una parete. Allora lei provò a<br />
levarsi, rialzarsi sul tronco, almeno girarsi su un fianco per appressarsi<br />
a quel quadro, e animarlo, e supplicarlo: parla, parla.<br />
Ma non poteva. Nessun movimento le riusciva possibile, per<br />
modificare la posizione supina in cui giaceva. Non levarsi e<br />
nemmeno girarsi sul fianco. Così era e così doveva restare: supina,<br />
riversa. La stessa posizione di “quel” momento.<br />
113
Allora sì, irruppero drammaticamente, e tutte insieme,<br />
frenetiche, tumultuose, le sensazioni di “quel” momento, l’ingranaggio<br />
si “disincantò”, venne soffiato via il granello di polvere,<br />
l’intoppo che lo bloccava. Né lei era più stesa sul suo<br />
saccone ma giaceva su erba, foglie e sterpi, la nuda terra. E in<br />
alto correvano nuvole. E risentiva pativa i baci la pioggia di<br />
baci i piccoli morsi il breve fiato le mani impazzite l’ardore<br />
come un’onda la rottura di un argine. Riviveva i suoi sforzi a<br />
frenare questa onda: gridi gridi tendi le braccia ma che puoi<br />
fare parare l’urto placare le acque con vane promesse ora no<br />
dopo sì ma ora no ora no ora no? E dopo questo la strana lotta,<br />
diventati come nemici, gli occhi di lui quasi pieni di odio<br />
dov’è il mio amore? E la carne battuta le braccia spezzate la<br />
rabbia di lui fermati infine, oh amore perché perché? E poi all’improvviso<br />
quel senso di freddo acuto scompiglio di vesti via<br />
le tovaglie da tutti gli altari. Le mani che stringevano come tenaglie,<br />
e lei atterrita questo solo avvertiva nessuno che l’aiuta<br />
non c’è nessuno, scendi Signore e prenditi l’anima mia. E parole<br />
spezzate, susurrate, ora, ansanti: sta’ buona, sta’ buona,<br />
adesso sta’ buona, come può stare buona se è crocifissa inchiodata<br />
alla terra cosa può fare? E infine per dei secondi l’improvviso<br />
silenzio l’improvviso mistero gli occhi suoi dilatati<br />
che accolgono tutte le nuvole una parola amore che non è<br />
detta solo un affanno greve truce e: aaahhh!, il grido che ancora<br />
correva per tutta la terra di Serri.<br />
Le battevano schiaffi sulle guance, ricordava il ritorno,<br />
centinaia di metri d’acqua sopra la testa e gli schiaffi: riemergi,<br />
ritorna a galla. Riemergeva pian piano, attratta da quel latteggiare<br />
della luce su in alto, ritrovava stupefatta il sole il cielo<br />
le nuvole alte, tutta quella gran luce. E muoveva le mani,<br />
esplorava: dov’era?<br />
Ma non là, era, adesso. Era qui nella sua stanza, nella casa<br />
del padre.<br />
E questo, e l’idea del padre (della madre nessuna, per<br />
ora: del padre) deviavano di nuovo il senso di ciò che provava.<br />
Un sasso fu gettato nell’acqua immota della coscienza:<br />
mio Dio cos’ho fatto! Che suonò come un gong.<br />
<strong>Il</strong> pensiero della madre venne più tardi, non fu terrore<br />
114<br />
fu scioglimento pietà di sé desiderio di pianto. E il pianto<br />
stesso, pietoso, infine giunse.<br />
Momo si svegliò, travagliato da incubi. Dovette sentire<br />
subito i singhiozzi, pur soffocati, lì accanto. I letti non distavano<br />
che un paio di braccia. Tese l’orecchio e stette in ascolto,<br />
cercando con ogni sforzo di trattenere il mugolio.<br />
Non poteva essere certo Pasqua che piangeva, com’era<br />
possibile? Pasqua era grande, non un bambino. E poi è impossibile<br />
che persone come Pasqua abbiano ragione di piangere.<br />
Invece dovette convincersi che sì, era proprio lei, non<br />
c’erano dubbi.<br />
La cosa lo sconcertava, il sonno gli andava via. Per quale<br />
ragione mai, una come Pasqua, poteva piangere? E proprio<br />
ora, in piena notte, al buio? Sottoponeva il cervello a uno<br />
sforzo ostinato. Perché? Forse i grandi si vergognano a piangere<br />
di giorno in presenza di tutti, e aspettano di essere soli,<br />
al buio, per farlo? A ogni modo perché piangeva? Era stata<br />
sgridata, picchiata? O cosa? Ricordava che ieri, appena tornata<br />
da Serri, era stata affettuosa con lui, come sempre, anzi più<br />
di sempre. Era solo un po’ stanca, diceva, e che le faceva un<br />
po’ male la testa; ma aveva lo stesso giocato un po’ con lui, e<br />
perfino riso. E dunque. O forse fingeva? Anche se aveva giocato<br />
con lui stava già male? O, peggio, qualcuno le aveva fatto<br />
del male? E chi mai?<br />
Ripiegò su un’altra idea. Forse Pasqua piangeva nel sogno,<br />
tutto qui. Lui ben conosceva il tormento di certi sogni:<br />
qualcuno che ti insegue, tu cerchi di fuggire e non puoi, l’inseguitore<br />
ti raggiunge, ti afferra, comincia a picchiarti, per<br />
forza piangi. Lui di tutto questo aveva assai lunga, dolorosa<br />
esperienza. Ma allora, pensò, bisognava svegliarla. Così, una<br />
volta sveglia, tutto sarebbe finito, si sarebbe accorta che non<br />
era cosa vera.<br />
Provò a chiamare, a bassa voce:<br />
«Pasqua!».<br />
Cessarono i singhiozzi all’istante. Gli sembrò straordinario;<br />
possibile si fosse svegliata così in fretta? E poiché non gli<br />
veniva, da lei, risposta, provò a richiamare:<br />
«Pasqua, Pasqua!».<br />
115
Aveva sentito sin dalla prima volta, naturalmente, e, terrorizzata,<br />
aveva reinghiottito i singhiozzi. Lì per lì aveva avuto<br />
l’impressione, assurda, che non Momo fosse che la chiamava,<br />
ma una voce arcana. Poi comprese e fu presta ad<br />
alzarsi. Se Momo era sveglio, se la chiamava, qualcosa gli dava<br />
pena. E subito gli fu accanto, lo carezzava:<br />
«Cos’hai, Momo, figlio d’oro, perché ti sei svegliato?».<br />
In verità Momo, farfugliando, cercava di far intendere<br />
che non di lui si trattava, ma di lei. Ma gli era difficile esprimersi,<br />
e poi così al buio.<br />
Lei, d’altra parte, persuasa più che mai che un qualche<br />
male, un’afflizione, una paura, avessero svegliato Momo, solo<br />
di questo si dava cura, più che d’intendere, che pure era<br />
allenata a farlo, i suoi farfugliamenti. Se Momo aveva male,<br />
suo compito era di assistere Momo, consolarlo, aiutarlo, fargli<br />
coraggio. Non era più questione di sé, ora, né del suo<br />
dramma e delle sue proprie angosce, ma del male di Momo,<br />
del suo soffrire. Momo era suo figlio. Carezzandolo, placandolo,<br />
lei si sentiva madre, aveva viscere di madre.<br />
Come poteva saperlo? Chi l’avvertiva? Chi l’informava?<br />
E come, poi?<br />
Ma il fatto è che lei “era” madre.<br />
Le spighe, quando è l’ora, ingraniscono. <strong>Il</strong> vento le sbatte<br />
e le scuote e sparge i fermenti e i pollini. A caso. E basta<br />
che spiri un giorno. Basta una sola volta, a volte. Così avviene.<br />
<strong>Il</strong> vento è cieco.<br />
116<br />
IX<br />
LA MESSE<br />
Indorano prima le foglie, che fanno cespuglio alla base.<br />
Sono cedevoli e esili, non hanno nerbo né succo. Così avvizziscono<br />
in fretta, ripiegano asfissiate su se stesse, il calore le<br />
tosta e le brucia e da quel momento sono paglia e strame.<br />
Si esercita allora sopra le spighe, che stanno in alto, il pesante<br />
ferro da stiro del sole. Restano strinate anzitutto le ariste,<br />
quelle povere ciglia, che sono anch’esse prive di linfa. La<br />
spiga invece resiste ancora, enfia ancora, sugge ancora vita,<br />
ma in pari tempo il suo involucro illanguidisce, prende pallore,<br />
finché è torrefatto dalla gran vampa.<br />
La canna infine è l’ultima che si fa smorta, per essa tuttora<br />
passando la spinta inconoscibile che ha consentito alla<br />
pianta di tirarsi su a quell’altezza; e anche quando è ben secca,<br />
non flette né frange, muore in piedi.<br />
Perciò non diventa il grano, di colpo, oro. È un languore<br />
graduale, lento, che tocca e stinge la base e la cima, poi si<br />
estende, finché la secchezza raggiunge la canna e la strangola.<br />
Solo allora nella pianta si spegne definitivamente il verde primaverile<br />
che la rallegrò, sostituendosi ad esso il giallo affocato<br />
e arso, che tende più tardi al ramato, colore dell’oro vecchio,<br />
con chiazze come di ruggine. E finalmente la messe è<br />
pronta. È venuto il momento di entrare e di mietere.<br />
Ma per tutto il tempo che questo durò – che è cosa che<br />
si compie da sé, l’uomo non c’entra – per Giuanni Cinus<br />
non vi era propriamente e una volta tanto più nulla da fare,<br />
almeno riguardo al grano, fuorché aspettare e vedere. Se lo<br />
covava ormai con una specie di golosa impazienza, il suo grano,<br />
ne spiava l’imbiondimento con lo stesso animo che è della<br />
massaia quando, sollevato il coperchio, traguarda attraverso<br />
la bocca del forno per vedere che il pane indori, e in che<br />
misura, non avvenga che la cottura sia troppo rapida e ci sia<br />
117
da spicciarsi e dar manate a levarlo. E questo fin dall’aprile,<br />
dopo che fu fatta la sarchiatura. <strong>Il</strong> sole, dal canto suo, se la pigliava<br />
comoda, perché non è che il sole di aprile, e quello di<br />
maggio neppure, abbiano forza bastante. Bisognò, per questo,<br />
attendere sino a giugno, e che il sole mettesse la criniera<br />
del leone; allora sì, cominciò a furoreggiare, e la terra incanutì,<br />
quasi dappertutto, picchiata dal maglio rovente. Giugno,<br />
da noi, appunto a causa di questa violenza del sole, che<br />
rende l’aria incandescente, è detto, con singolare anacronismo,<br />
il “mese dei lampi”.<br />
Fu questo che cosse a dovere il grano.<br />
Gl’incontri fra Pasqua e Raffieli Pòrcina non si erano interrotti,<br />
dopo quello in cui era avvenuto “il fatto” (lei così lo<br />
designava) e che risaliva ai primi di aprile. Quello stesso giorno,<br />
riaccompagnandola a cavallo fino all’imbocco della strada<br />
carraia che sale alla fattoria, mezzo morta che era, Fieli<br />
Pòrcina le aveva detto, aiutandola a scendere:<br />
«Venerdì oggi otto al solito posto, addio».<br />
E solo queste parole, nient’altro. Non avevano del resto<br />
detto una sola parola per tutto il tragitto; né prima, a partire<br />
da “quel” momento. E, al congedo, il rescritto: venerdì oggi<br />
otto. Un appuntamento, un invito? Macché, secco: un ordine.<br />
E tuttavia lei era andata.<br />
E ancora era andata, le altre volte, ogni volta che lui voleva.<br />
Chinava la testa, assentiva, va bene. Ora si sentiva più che<br />
mai legata a lui, e per sempre. Se un bacio rubato era stato<br />
per lei paragonabile al marchio di fuoco che si imprime col<br />
ferro rovente sulla coscia di un animale affinché sia stabilito<br />
chi è il padrone, a che cosa avrebbe ora paragonato quest’altro<br />
ben più intenso e definitivo legame che la univa a lui e<br />
che derivava dall’essere stata lei stessa, lei tutta intera, oggetto<br />
di appropriazione? A quei segni, ancora più crudeli, di possesso<br />
e riconoscimento che si usano per il bestiame minuto,<br />
le pecore per esempio, e che consistono nello sforbiciamento<br />
delle orecchie secondo tagli convenzionali (per sbieco-avanti,<br />
per sbieco-indietro, mozzate in quadro, mozzate a coda di<br />
rondine) fino a arrivare se occorre alla completa ablazione.<br />
Orecchie mozzate anche lei; pecora, ormai. E supponi che le<br />
118<br />
chiedessero: di quale ovile?, aveva di che rispondere: be’?, perché,<br />
non si vede?<br />
Ormai non era più niente senza di lui. Era stata come<br />
svuotata, privata della sua “stessità”. Ridotta a oggetto e assegnata<br />
a lui. Per questo lui poteva farne quel che voleva, ora<br />
realmente lei gli apparteneva senza riserve, corpo e anima.<br />
Né poteva sapere (non lo seppe, e del resto solo in forma di<br />
angoscioso sospetto, che alla seconda luna) di quell’altra cosa<br />
che frattanto si era prodotta in lei nell’occulto, giacché delle<br />
possibili conseguenze di ciò che avveniva fra loro non si curava,<br />
o meglio non ci pensava affatto, ignara e intontita che<br />
era, più che smemorata. Del resto il legame non era questo,<br />
era il fatto che lui l’aveva tolta dallo stato di “vergine”, si era<br />
preso la sola cosa, ricchezza o dote o dono, che era personalmente<br />
in grado di offrire. Così adesso gli si abbandonava facilmente,<br />
passivamente, quando e quante volte a lui piacesse.<br />
Lui voleva così? Smaniava, se no? Provava godimento a far<br />
questo? E allora sia, lei obbediva.<br />
E tuttavia, per parte sua, senza trasporto né reale partecipazione.<br />
Cadeva bensì la resistenza, ma non sorgeva in sua<br />
vece lo slancio. Anzi l’atto del piacere, lungi dal coinvolgerla,<br />
piuttosto la sconvolgeva, a tal punto da cagionarle una specie<br />
di tramortimento. Che non era quindi, come lui viceversa<br />
era portato a credere, eccesso di ardore (la scoperta che aveva<br />
fatto, ripensando al vestito di lei in quella occasione del ballo:<br />
l’equazione gonna-Pasqua, il gelo e il fuoco!), ma proprio<br />
spavento, né più né meno. Non che sentisse avversione per<br />
lui o rancore, per questo che lui chiedeva, ché anzi no, nel<br />
fatto lei assentiva (io sono il tuo pane il tuo tascapane il manico<br />
del tuo coltello, ricordi?); ma è che, da un lato non le<br />
riusciva di convincersi che questo fosse essenziale, consustanziale<br />
all’amore, dall’altro vi avvertiva, che è peggio, non so<br />
che onta o sconsacrazione. D’altra parte la carne e il sangue –<br />
in un’età dopo tutto ancora così acerba – per il momento<br />
non si svegliavano.<br />
E avveniva che in lei non era più, nei suoi rapporti con<br />
lui, nemmeno quell’esuberanza così singolare dalla quale era<br />
stata pervasa un tempo, né quella gioia. Le forme e i modi<br />
d’essere della sua tenerezza; l’inusitato amore che la faceva<br />
119
tanto diversa, agli occhi di lui, dalle donne della sua razza e<br />
della sua condizione; il bisogno che lei provava di effondersi;<br />
le parole straordinarie che le venivano spontanee alle labbra e<br />
che lui definiva canzoni; tutto questo, adesso – non sapeva<br />
bene lei stessa perché – non aveva più corso o almeno gradualmente<br />
scemava.<br />
Quanto a lui, quello fu proprio il tempo (quanto durò,<br />
che fu breve: il tempo di consumarsi la primavera) nel quale il<br />
suo sentimento fu più vicino e più somigliante all’amore. <strong>Il</strong><br />
piacere di mordere finalmente il frutto, dopo tanto desiderare<br />
e aspettare e indugiare: certo questo. Ma anche altro. <strong>Il</strong> desiderio<br />
di dare qualcosa in cambio per questo? Chissà. Ma sicuramente<br />
la ricezione e il soggiacimento all’incanto che si sprigionava<br />
da lei. Da lei capace di “confessare” l’amore e di<br />
rappresentarlo in canzoni. Da lei infantile e fresca, ma anche<br />
voluttuosa (il gelo e il fuoco!) come questi deliqui nei quali<br />
cadeva gli confermavano. Da lei infine, anche nelle grazie rivelate<br />
della sua persona, bellissima. Tutto questo lo infiammava<br />
e esaltava. E anche se la cosa si traduceva, è vero, in febbre<br />
più che altro dei sensi, questo era pur sempre un modo, e il<br />
solo a lui noto forse, di amare. Tornava a lei, usava con lei e<br />
“di” lei, con una specie di ardore insaziabile, un po’ come lei,<br />
nel tempo delle “canzoni”, era corsa sciamannata a lui. In un<br />
certo senso le parti si erano adesso invertite, il vento che prima<br />
spirava da est, ora spirava da ovest. E tenne, il vento,<br />
quanto tenne, si disse, la primavera, la quale scalza e con tutti<br />
i vestiti a sbrendoli, ma soda e fiorente sotto di essi, venne e<br />
danzò e rise per la terra di Serri, gettando a manciate fiori e<br />
spargendo su tutte le piante la voglia di procreare (perfino alla<br />
vecchia quercia mise i sussulti), per arrendersi infine boccheggiante<br />
all’estate.<br />
Ma le lune, anche, si erano nel frattempo succedute: le<br />
calanti, nuove, crescenti e le piene lune (nel cielo sempre<br />
più sgombro, sempre più netta si disegnava la ritornante,<br />
secondo le fasi sue, e fu proprio una luna stregata, immensa<br />
e vicinissima, quella che vi si stampò, sgorgando dalle colline<br />
a levante poco dopo il tramonto del sole, al compiersi<br />
del plenilunio di giugno). E lei seppe. Prima fu il dubbio<br />
120<br />
angoscioso, violentemente cancellato dalla stessa paura che<br />
suscitava: possibile! Poi le fitte punture d’ago dell’incertezza.<br />
E infine la certezza, agghiacciante. Recata, questa – dopo i<br />
pallori, le nausee, le vampe, che le facevano da precursori –<br />
da una sensazione sconosciuta che lei avvertì, negli abissi di<br />
sé, assolutamente nuova, assolutamente inaudita: la presenza<br />
estranea, la “cosa”, mossasi laggiù, non sapeva se carezzevole<br />
non sapeva se graffiante, subdola e però vera, indubitabile.<br />
La luna, no? I contadini dicono, quand’è così tonda, che<br />
è stupida. Tonta come la luna, dicono di una persona. Perché<br />
è come una faccia senza fine sbigottita. E lei così, anche, lei<br />
Pasqua, quand’ebbe toccato quella certezza.<br />
E questo coincise, vedi un po’, con la caduta del vento<br />
che si diceva; col fatto cioè che Fieli Pòrcina, giusto allora,<br />
satollo, veniva smorzando i propri entusiasmi gl’impeti i deliri,<br />
e considerando se non gli convenisse diradare alquanto<br />
le sue galoppate lungo la strada per Serri. Eh! s’era pur preso<br />
il suo contento, voleva disfarsi?<br />
Così venne giugno, quello dei lampi, e lampeggiò e incrudelì<br />
sulle messi. Lei, dallo stupore-spavento, era passata<br />
alla disperazione e all’orgasmo. Proprio nei giorni che Fieli<br />
Pòrcina, lui, entrava in eclissi.<br />
<strong>Il</strong> “bastante” entrò, dopo essersi pulite le scarpe, una dopo<br />
l’altra, contro la pietra della soglia, dalla parte di fuori.<br />
«Ave Maria, Pasqua Cinus» disse.<br />
«Dio sia con voi, Jeremia» disse Pasqua, quasi spaventata.<br />
Non sapeva come cominciare. Era goffo e impacciato,<br />
lei gli metteva soggezione: ne era innamorato!<br />
Con la mano libera accennò alle sue spalle. <strong>Il</strong> pollice teso<br />
indietro, il resto delle dita stretto a pugno, muoveva la mano<br />
a mezz’aria mentre diceva:<br />
«La padrona, Mariangela Siddi, mi ha dato il permesso<br />
di entrare».<br />
«E io vi caccio, forse, Jeremia?» disse Pasqua, senza sorridere.<br />
Non era mai stata bella come in quel punto, non lo sarebbe<br />
stata mai più. Sciolti i capelli, allentata la gala della camicetta,<br />
liberi il busto e le braccia dall’armatura del giubbone,<br />
121
sembrava sprizzasse per sortilegio da una qualche virtù della<br />
terra, e fosse messa in quella stanza, e la illuminasse. Tolte le<br />
labbra, vive da apparire sanguinanti, e un certo rossore delle<br />
gote, tutto il restante colore della sua figura era giocato su un<br />
contrasto di bianco e di nero. I capelli, neri, così esondanti. E<br />
gli occhi. E la gonna da casa. E ancora le tomaie dei calzari.<br />
Bianche invece le parti scoperte della persona, il viso soprattutto,<br />
solitamente sottratto al sole e alla vista da imbacuccanti<br />
occultanti pezzuole: virtù delle donne di là, una cosa cui esse<br />
tengono in maniera specialissima, mania islamica forse, remote<br />
ascendenze. E la camicetta. E un rettangolo di grembiule<br />
che le pendeva davanti. E non so se più questo colore bianco,<br />
o quel nero, spandesse luce. Gli occhi, certo, neri profondi,<br />
troppo profondi, ardevano come lumi e divoravano il viso,<br />
effondevano una strana, percettibile, irreale luce nera.<br />
«Oh, voi, Pasqua Cinus, certo non mi cacciate» incominciava<br />
Jeremia. «Io chi sono? Voi, me, neppure mi vedete».<br />
Convinto, quasi, che sul serio non lo vedesse, se ne stava<br />
imbambolato a osservarla, dimentico di ciò che recava.<br />
Recava, e le teneva prigioniere nel pugno, una coppia di<br />
tortore vive.<br />
«Cosa avete di bello lì, Jeremia?» lei chiedeva.<br />
Trasaltava per la propria smemoratezza.<br />
«Oh Dio, dove ho la testa» si scusava. E allentava la stretta<br />
della mano, chiamando in pari tempo in soccorso l’altra<br />
mano e di entrambe facendo nido. «Tortore, sono» disse.<br />
«Una piccola cosa per voi».<br />
Veniva avanti, le mostrava. Un fare mite, il suo, come<br />
miti si mostravano le tortore, le quali volgevano le teste sui<br />
colli snodati facendo sommessamente tùu tùu.<br />
«Un regalo?» diceva Pasqua, questa volta sorridendo. E le<br />
veniva da commuoversi, quasi da abbracciare Jeremia. E magari<br />
lo avrebbe fatto (le accadeva, ora, di cadere in eccessi incontenibili<br />
di non sapeva che bene), non avesse conosciuto i<br />
sentimenti di lui – quella forma di amore estatica silenziosa e<br />
tapina – e il turbamento che certo gliene sarebbe venuto.<br />
Non seppe tuttavia resistere all’impulso di fargli una domanda<br />
che sapeva ugualmente per lui tormentosa. Né le era<br />
chiaro il perché.<br />
122<br />
«Jeremia» disse, con una singolare e quasi disperata morbidezza<br />
di voce «voi mi volete bene?».<br />
Al poveraccio spuntarono le lacrime agli occhi.<br />
«Oh» disse «Pasqua Cinus, cosa mi chiedete».<br />
Era lì con le due tortore, le offriva, offriva con quelle se<br />
stesso, così pareva. Persuaso, a un tempo, che nessuna delle<br />
due offerte valeva più dell’altra, per lei.<br />
«Oh, Pasqua Cinus» ripeteva.<br />
«Male faccio» essa disse, cercando di sorridere «a non<br />
decidermi a prendere voi. Voi mi prendereste, non è vero?<br />
Mi sposereste, Jeremia Campus?».<br />
Non chiaro, ancora, ciò che la muoveva a dir questo. Far<br />
getto di sé, buttarsi via? Be’, e perché? Forse diversa, lei, da<br />
costui? E intanto quella certezza, che le mangiava come un<br />
avvoltoio il cuore.<br />
«Oh, padroncina» piagnucolava dal canto suo Jeremia.<br />
«Oh oh».<br />
Le pareva che già le cantasse così facendo l’attìttidu, che<br />
è il canto delle prefiche. Lei morta e Jeremia ginocchioni a<br />
piedi del catafalco a farne lamentazione, in canto e in pianto,<br />
ohi ohi. Quale innamorato, quale sposo sarebbe stato Jeremia:<br />
si sarebbe privato di respirare, per lasciarle più aria. Era<br />
della sua stessa pasta. Era suo fratello, Jeremia. E infatti:<br />
«Fatevi coraggio, su, fratello mio» disse proprio così. «E<br />
che, sono morta? E poi» sorrise «chissà che non avvenga, eh?<br />
Intanto, grazie del buon pensiero. Siete il migliore uomo di<br />
tutta la terra, voi; avete un cuore delicato».<br />
Prese con circospezione le tortore.<br />
«Sono sposo e sposa?» domandò.<br />
«Ah sì, e si stimano molto» disse Jeremia, allusivo.<br />
«Ah» essa disse. «Già!».<br />
Egli spiegava che si sarebbero in brevissimo tempo addomesticate.<br />
Doveva tenerle, così in coppia com’erano, dentro<br />
una gabbia o cassetta, fino a quando non “imparassero il<br />
luogo”. Dopo potevano essere lasciate girare per casa libere,<br />
non avrebbero disturbato nessuno.<br />
Ascoltava e non ascoltava. Le era entrato nella mente un<br />
altro pensiero.<br />
«Bene, Jeremia, bene» disse. «Andate voi stesso per piacere<br />
123
nella corte e trovatemi questa cassetta. Dopo tornate qui che<br />
ho un premio e una commissione per voi. E poi sistemerete<br />
voi stesso queste due tortorelle».<br />
Andava, come no? Nostra Signora in persona gli aveva<br />
dato un comando, e un altro ne era in vista, e veniva annunziato<br />
un premio. Correva.<br />
<strong>Il</strong> messaggio era: “Pasqua Cinus, sorella tua, manda a salutarti.<br />
Ha bisogno di vederti stasera stessa, a tuo comodo, o<br />
domani al più tardi, per un affare di grande delicatezza e che<br />
riguarda anche ‘un’altra persona’. Dice che preferisce tu stesso<br />
le dica dove potrete incontrarvi, lungo la strada di Serri, ché<br />
essa senza fallo vi si recherà, non appena avrà avuto risposta.<br />
Dice che non devi assolutamente mancare, gente ne soffrirebbe,<br />
e molto, più di quanto tu possa pensare. Dice infine<br />
espressamente questo: che la spiga è piena e la messe matura,<br />
se tu, padrone, potrai comprendere, come lei spera. Io tuo<br />
servo sono qui per dirti questo in fiducia, per conto di chi<br />
mi manda”.<br />
Si ripeteva Jeremia l’imbasciata, parola per parola, conforme<br />
gli era stata insegnata, come se si trattasse del padrenostro.<br />
Sui lenti papiri del suo cervello Pasqua Cinus aveva scritto<br />
con mano ferma e punte di buona lega.<br />
Arrivò, trovò chi cercava, lo tolse in disparte e recitò la<br />
lezione senza lasciare una sillaba. E aspettava concentrato la<br />
risposta, che doveva riportare.<br />
«Ah!» disse il destinatario, come prima reazione. Via via<br />
che il sempliciotto parlava la fronte gli si era venuta corrugando,<br />
le sopracciglia aggrottando. Luce malevola era nata<br />
nelle sue iridi. La frase: “La spiga è piena e la messe matura”<br />
chiese che gli fosse lentamente ripetuta.<br />
«Così ha detto?» domandava.<br />
«Così» asseverava il messaggero, portandosi la mano al<br />
petto. Parola non vi appulcro, pareva dire.<br />
«Bene» disse Raffieli Pòrcina. «Bene». E dettò la risposta,<br />
che poi si sforzò, ma con ben altra maniera e dolcezza che<br />
non quelle di Pasqua, di cacciare nel cranio del nunzio.<br />
«Hai capito mammùt?» domandava.<br />
«Ho capito» rispondeva Jeremia.<br />
124<br />
«Ripeti dunque».<br />
E ripeteva.<br />
La risposta era: “Fieli Pòrcina rende il saluto. Oggi non<br />
può e domani neppure. Venerdì, può, se va bene per Pasqua<br />
sorella sua. Solo quel giorno non prima si sarebbe recato a<br />
Serri, solito posto, come richiesto. La mattina sul tardi, diciamo<br />
le dieci, sperava andasse bene. Lui non credeva le spighe<br />
fossero piene. A volte sembra, e non è. A ogni modo si vedrebbe.<br />
Stesse in pace”.<br />
Lei era venuta sulla strada di Sìnniri, per sentire la risposta,<br />
a evitare che Jeremia rimontasse, al ritorno, sino alla fattoria<br />
e le chiedessero che incombenza gli aveva dato, ché poi<br />
non avrebbe avuto pretesto di partire per Serri. Per questo si<br />
era spinta sino all’incrocio per Tula.<br />
E ecco egli veniva, l’araldo, e al vederla, ancora di lontano,<br />
gli ringiovanivano i piedi: era già là a aspettarlo, lei: venuta<br />
apposta per lui! Ma gli veniva la faccia del can barbone<br />
quando, raggiuntala e riferito il messaggio, le vedeva il volto<br />
appenarsi, e farlesi tristi e smarriti gli occhi, e la bocca tremare<br />
un po’. Colpa sua, che non aveva portato una nuova migliore.<br />
Era tentato di dire che aveva scherzato, il messaggio<br />
era un altro, tutt’affatto diverso, stesse a sentire; e inventarne<br />
lì per lì uno effettivamente diverso, che potesse piacerle. Ma<br />
inventarlo! E in che modo? Testa sua maledetta: l’involucro<br />
grande uno staio, ma il cervello un gheriglio di noce.<br />
Pure, dal gheriglio, presto presto spremuto un’idea venne<br />
fuori. Poteva aggiungere al messaggio un codicillo, ci<br />
stesse o no. Di questo andare e venire di lettere per bocca di<br />
messaggero, qualche cosa il suo cuore, se non la mente, confusamente<br />
intuiva. Inghiottì saliva e disse, scandalosamente<br />
mentendo:<br />
«Manda a dire anche questo, che stiate di buon animo<br />
che lui vi pensa e vi stima sempre».<br />
Metteva sé come tappeto, e che l’altro, avanti, passasse<br />
sopra, purché lei si rallegrasse.<br />
Ma l’effetto fu disastroso, rispetto a quello che si aspettava.<br />
Invece di sparirle dal volto, quella pena si accentuò, che a<br />
vederla gli faceva male. E avvenne una cosa strana, che finì<br />
125
d’intontirlo: la ragazza si coprì il viso con entrambe le mani,<br />
poi gli venne addosso, si afferrò a lui e, così premuta contro<br />
la sua persona, ruppe in singhiozzi che sembrava disfarsi.<br />
Trasognato la resse, dopo aver barcollato, ma non osava<br />
toccarla. Le mani gli svolazzavano intorno al capo di lei come<br />
pipistrelli accecati dalla luce del giorno. Caduta per terra,<br />
fai conto, un’ostia consacrata, che vorresti raccattarla e come<br />
fai?, se si sa che è sacrilegio. E almeno chiamarla, avrebbe voluto:<br />
Pasqua! Pasqua!, soavemente. E non seppe fare altro, alla<br />
fine, che mettersi anche lui a singhiozzare.<br />
Solitudine intorno, per miglia. E questi due che, lì in<br />
piedi e abbracciati, piangevano.<br />
Venerdì laggiù ha un nome un po’ fuori delle regole,<br />
connesso, dicono, con l’usanza giudaica del digiuno serale all’inizio<br />
del sabato: cenàpura, così è detto.<br />
Era, questa parola, contenuta nel messaggio di lui – ne<br />
era anzi parte essenziale, la sola che aprisse un varco, uno spiraglio<br />
alla speranza – ed era quella che lei si ripeteva come ingrullita,<br />
tornando sui suoi passi per la strada di Sìnniri, dopo<br />
aver lasciato al crocicchio Jeremia.<br />
Gli aveva chiesto di venire d’urgenza, spiegandone chiaramente,<br />
se voleva capire, le ragioni, e mandava a dire, imperturbato:<br />
cenàpura. Cioè fra sette giorni, dato che oggi era<br />
appunto cenàpura. Ma oggi lui non poteva, né domani, né<br />
dopo, né dopo ancora. Portasse pazienza, aveva da fare. Da<br />
fare cosa? Aveva capito sì o no il messaggio? E dunque, se<br />
l’aveva capito – ma sì che l’aveva capito; se l’era fatto ripetere,<br />
lei, per prova, da Jeremia: un pappagallo – cosa aspettava,<br />
cosa? Lei moriva di angoscia, era terrorizzata, disperata, e<br />
lui, con calma: sì che verrò, ma cenàpura. Poteva avere cose<br />
più urgenti da fare di questa? In un caso così si parte subito,<br />
si corre, si vola.<br />
Mai aveva pensato a lui con animo così deluso. Si sentiva<br />
respinta, abbandonata a se stessa, sola.<br />
Sola era poi davvero, in quel punto, mentre avanzava per<br />
la strada di Sìnniri violentemente scavata dentro l’argilla, e<br />
che pareva dar sangue. Avanti e dietro di lei non un’anima,<br />
nel lungo budello della strada tagliata dritta come una spada.<br />
126<br />
E lei nel fondo della ferita, alzandosi da una parte e dall’altra,<br />
quasi minacciassero franarle addosso, le ripe verticali, strapiombanti,<br />
anzi, erose in basso dal passaggio dell’acqua durante<br />
le acquate autunnali. Rinserrata lì dentro, immersa nell’aria<br />
pesa, quasi bollente che lì stagnava. E solo levandosi<br />
verso lo scrimine delle due ripe poteva trovare, almeno lo<br />
sguardo, evasione. Scorgere sui cornicioni, di qua le messi già<br />
bionde, e di là file di arbusti. Più, nell’altissimo, un fulgore<br />
abbagliante e intemerato, l’universo del sole e di tutti gli azzurri,<br />
l’inaccessibile cielo.<br />
E adesso che avrebbe fatto? A chi rivolgersi, con chi confidarsi,<br />
come uscire da quella situazione tremenda. Nessuno,<br />
non c’era nessuno, tranne lui. <strong>Il</strong> padre no, orrore. La madre?<br />
Ma con quale coraggio, si domandava. Si vedeva dinanzi alla<br />
madre, trafitta dai suoi occhi: no, impossibile. E non rimaneva<br />
che lui.<br />
<strong>Il</strong> riverbero della vampa canicolare le dava nausee. O era<br />
il suo stato, quell’altra cosa. Procedeva sbandando, come<br />
ubriaca, stordita. <strong>Il</strong> pianto stesso di poco prima, appoggiata<br />
alla spalla di Jeremia, l’aveva come stremata, esausta. Andavano<br />
dentro di lei i pensieri come nel cielo uccelli: a caso, in<br />
ogni direzione, per rotte folli. Si chiamava da se stessa, sdoppiandosi:<br />
Pasqua! Pasqua! gridava, quasi che il “sé” che cercava<br />
si fosse disperso svanito nel nulla. Avrebbe aspettato quel<br />
giorno, certo, bisognava che lui sapesse com’era la cosa, si<br />
convincesse, forse non aveva capito. Non è vero aveva capito<br />
e come, a volte sembra e non è aveva mandato a dire dunque<br />
ecco la prova che aveva capito non ci vuol molto e poi Jeremia.<br />
A volte sembra e non è? Ma era matto senza questa certezza<br />
sicura avrebbe arrischiato lei di mandargli messaggio<br />
per bocca d’altri così per gioco sai ho il vago dubbio ma dove<br />
siamo. E se no doveva capire la sua tragedia invece no sette<br />
giorni. Sette giorni: uno due tre quattro cosa avrebbe fatto fino<br />
a quel giorno cosa. Sette giorni sette notti sette pugnalate<br />
nel costato. Pensare pensare pensare. Come liberarsi di questi<br />
pensieri tormenti smanie blatte schifose. Questo ronzio senza<br />
fine. No, lui doveva aiutarla. Solo lui poteva dirle fai questo<br />
vediamo si accomoderà. E doveva farlo. Per quello che c’era<br />
stato doveva. In memoria di. In nome del.<br />
127
Gli parve di vederlo, nell’aria bruciante. Scaturito dal<br />
nulla in quell’aria che vibrava. Quasi alzava le braccia per<br />
corrergli incontro. Quanto bene, tutto quel bene. Lei era stata<br />
una cisterna e ci si poteva calare il secchio e attingere attingere<br />
senza fine bene. E tu? Ma non conoscevi il sentiero Raffieli<br />
Pòrcina? Ah, no, le scorciatoie, l’amore soltanto amore<br />
non poteva bastare. Ma non importa, non importa aspetterò<br />
sì caro fra sette giorni: cenàpura.<br />
Giunse alla fattoria in preda al capogiro, come avesse bevuto<br />
vino forte.<br />
S’imbatté dietro la casa nella figura ciondolante di ’Ntoni.<br />
«Che hai, Pasqua?» chiese il ragazzo vedendola stravolta.<br />
Si riscosse:<br />
«Nulla, ho, nulla».<br />
Ogni voce dei familiari che le giungesse ogni sguardo che<br />
la osservasse la metteva in allarme, ora. L’assurda paura che la<br />
“cosa” già si vedesse, che scoprissero la sua gravidanza.<br />
«Nulla» ripeté. «È il sole». Cercò di sorridere.<br />
Figurarsi se ’Ntoni.<br />
«Sai, Pasqua» disse il ragazzo, già dimentico «che a giorni<br />
avremo gente qui a Serri?».<br />
«Sì?» disse Pasqua, pur non importandole niente. «Chi<br />
viene?».<br />
«Mietitori» ’Ntoni disse. «E spigolatrici si intende».<br />
«Ba’ vuole già mietere?» lei chiedeva.<br />
«Sì, oggi otto, cenàpura» rispose.<br />
Andò, con pretesti e menzogne, che già erano infatti sul<br />
grano con le falci.<br />
Sulla strada di Serri lunga infinita. Bruciava l’aria nel fervore<br />
dell’ora e frinivano a schiattare le cicale.<br />
E non venne.<br />
128<br />
X<br />
LE FALCI<br />
Con la sinistra si afferra un ciuffo, e si chiama manipolo.<br />
Le gambe a compasso, la schiena curva; la destra che stringe<br />
la falce. È argentea come la luna, la falce, e tanto sottile che<br />
dici: terrà? Ma ha quel fare avvolgente e viperino, denti minuti<br />
e acuti e durezza di tempra: tiene e come. Così lunata e<br />
insinuante, cala fino all’altezza del tallo e recinge tutto il manipolo,<br />
quanto sia ampio. Quindi esegue il lavoro suo, addenta<br />
e trancia. Non occorre neppure una grande forza, nell’atto<br />
in sé. Polso, occorre, e perizia. E va da sola. Devi solo<br />
secondarla, torcere il polso, tirare a te. Udrai crocchiare le<br />
canne come fiammiferi strofinati, un suono familiare e gradevole.<br />
Ed è fatta: il manipolo è tuo, ti resta nella sinistra come<br />
un trofeo, definitivamente spiccato dalle sue origini, dalla<br />
terra che lo ha nutrito e cresciuto. Non resta che legarlo (due<br />
o tre pagliuche, riprese in su mentre l’abbranchi, bastano) e<br />
riporlo. Con altri manipoli andrà a formare i covoni, e questi<br />
le biche, finché il carro non venga, nel giorno stabilito, per<br />
recare il tutto alla battitura.<br />
Lavoravano dunque finalmente le falci, nel campo di<br />
Giuanni Cinus, e anche alla disperata, perché un manipolo è<br />
un conto, ma altro affare è ripetere l’operazione infinite volte,<br />
e andare avanti l’intero giorno, e poi l’altro, e l’altro e così<br />
via. Allora mietere non è più tanto piacevole, sloga i polsi e<br />
slomba le reni – afferra stringi taglia annoda flettiti alzati –<br />
diventa insomma fatica grama, e in più hai sopra di te un sole<br />
che ti arrostisce; sotto, l’afrore del grano che ti ubriaca; e<br />
sopra sotto fuori e dentro, onnipresente, l’impalpabile dorato<br />
pulviscolo della paglia, che t’impasta la bocca ingessa le fauci<br />
tormenta gli occhi e incrosta la pelle sudata da farti grattare<br />
anche nel sonno. Senza dire che questo di Giuanni Cinus era<br />
un grano dannato, travaglioso, richiedeva un dippiù di fatica<br />
per come era alto e forte di canna, sembrava che la terra fosse<br />
129
imasta per secoli in attesa di seme e che ora si fosse sfogata<br />
tutta in una volta della voglia di generare.<br />
I mietitori erano quindici, Giuanni Cinus compreso. Che<br />
figurati se si era tirato indietro proprio in questo momento,<br />
lui, chi l’avrebbe tenuto dal togliersi una soddisfazione così,<br />
tanto valeva castrarlo. Era lui, anzi, una volta di più, quello<br />
che tirava la “scalata”, e puoi immaginare se sonnecchiava. E,<br />
dietro a lui, per stargli al passo, sotto anche gli altri, ci davano<br />
dentro alla diavola, sgobbavano da maledetti.<br />
I più, fra i mietitori, lavoravano scamiciati, ogni tanto<br />
dal folto emergevano le loro schiene nude in figura di torsi di<br />
bronzo, e lucevano al sole. Nel fronte a mezzaluna che ciascun<br />
mietitore si deve aprire via via che avanza, l’aria era greve<br />
e spessa che si poteva affettare, già quando il sole era appena<br />
a due braccia dall’orizzonte. In queste condizioni era raro<br />
che parlassero, così affaccendati e affranti. Ma attaccando al<br />
mattino, al fresco, non disdegnavano di motteggiare. E era<br />
allora che, rivolti a Giuanni Cinus, mezzo ridendo mezzo<br />
imprecando dicevano:<br />
«O Giuanni Cinus ti venga un cancro, ma questo è grano<br />
o è canna da fiume, che ci si addanna a tagliare».<br />
Dicevano:<br />
«E dove hai preso la semente, te l’hanno data le streghe?».<br />
Dicevano:<br />
«Ma che? Hai fatto un patto con il demonio, Sua Mercé<br />
Satanasso?».<br />
Facezie. Alle quali lui rispondeva grugnendo, bofonchiando<br />
(il fiato corto che aveva in quella foga) e tirando<br />
avanti a falciare. E solo ogni tanto: «Ehi ehi, cantate» badava<br />
a dire. Ma ciò che lo colpiva era che quelle erano le frasi,<br />
identiche spiccicate, che lui “sapeva” sarebbero state dette, da<br />
quando la scena che ora andava svolgendosi gli si era rappresentata<br />
precisa davanti agli occhi quel giorno di novembre.<br />
Tutto, fin nei particolari, si era avverato a puntino. Addirittura,<br />
adesso, queste parole; c’era da cominciare a allarmarsi.<br />
E che? Gli girava per la testa una cosa, e accadeva? Ma allora<br />
era davvero “cantato”, affatturato, non credi?<br />
Ma presto si riprendeva, scrollava le spalle, ma va’. Cantato<br />
un accidenti, affatturato un corno, che gli facessero un po’<br />
130<br />
il piacere. <strong>Il</strong> demonio, le streghe, le fatture, le minchionerie.<br />
In malora. Unica cosa era godersi, assaporare come un liquore<br />
la gioia di questo grano favoloso, questa graziadidio mai vista.<br />
Questo non era sogno, immaginazione, guarda. Quali streghe?<br />
Afferrava il manipolo: vieni, bello. E collocava la falce,<br />
torceva, tirava. La brancata di spighe gli restava nella sinistra<br />
e, per districarla, l’alzava quanto poteva, più in alto della sua<br />
statura, come un tirso, una torcia per fare lume. Quasi volesse,<br />
chissà, mostrarla al mondo, al sole, all’universo: eh? E legava<br />
il mannello in un amen, passava a un altro, stesso lavoro,<br />
giù, su, guardate questo; e questo; e questo. E procedeva che<br />
gli chiedevano se avesse il pepe, dietro, cònno da cui era nato,<br />
o se l’incalzasse la morte.<br />
«Ehi ehi» lui diceva «cantate». Mormorassero pure, ché la<br />
bocca l’avevano apposta, purché tenessero il passo. E, per<br />
massacrante che fosse, lo tenevano.<br />
Dietro poi i mietitori, disposte in seconda schiera, venivano<br />
le spigolatrici. Piegate in giù, quasi gattoni, la persona<br />
incernierata sulle anche, la testa ricoperta da grandi pezzuole.<br />
Volumi di gonne e panieri, colombi in pastura. Spigolando,<br />
stuzzicavano i maschi, si scambiavano con essi risate e oscenità.<br />
E leste leste becchettavano senza fermarsi, prontezza<br />
d’occhio e di mano, oltreché di lingua. Tutto ciò che riuscivano<br />
a raccattare – le spighe scampate alla falce – era roba loro,<br />
è la regola. Per questo raspavano, a testa bassa, con tanto zelo.<br />
Sette giorni durò il messare (ché questo è il verbo) e tutt’e<br />
sette fu senza vento, una “tempestate” di sole. I mietitori, più<br />
che avanzava il giorno, e la fatica, e il loro stesso schieramento,<br />
più si sentivano ardere, avevano ogni tanto bisogno di<br />
dissetarsi, perciò occorreva approntare giare, con acqua tenuta<br />
in fresco o vino annacquato, e recarle. E questo era incarico<br />
soprattutto di ’Ntoni, che aveva troppo fragili ancora i<br />
polsi e tenere le reni per durare a falciare. Ma anche Pasqua,<br />
se del caso, era chiamata alla bisogna; la quale rollava a volte<br />
fra le stoppie come ubriaca nel recare i recipienti, mentre le<br />
occhiate dei maschi il fortore del grano l’asciuttezza dell’aria<br />
il caldo torrido le davano nausee. A parte che poi doveva, insieme<br />
alla madre, occuparsi anche del resto, l’usanza essendo,<br />
131
a differenza che nei lavori invernali, che si desse ai mietitori<br />
di che sfamarsi, allo stacco del mezzogiorno, altrimenti che<br />
mietitura sarebbe?<br />
In pratica soltanto Momo, anche in quel gran daffare, restava<br />
disoccupato.<br />
Momo e gli spiriti, Momo e i fantasmi della sua solitudine.<br />
Aveva tutto il tempo e la libertà per giocare, vagare, fare<br />
quel che volesse. Ma finiva per starsene per ore immobile, sul<br />
bordo dell’aia, a mugolare sommessamente. Erano quelli i<br />
momenti nei quali pensieri, impulsi, moti confusi, bussavano<br />
alle soglie della sua mente e, entrati dentro, si accapigliavano.<br />
Come quel grano cresciuto al buio che si prepara per i<br />
“sepolcri”, il quale conserva, fino a ammalarsene, l’anelito<br />
verso la luce che gli è negata.<br />
La sua pena più acuta, presentemente, era Pasqua. <strong>Il</strong> suo<br />
attaccamento per lei, già intenso che era, si era ancora accresciuto,<br />
si era fatto possessivo, esclusivo, geloso. Un attaccamento<br />
che aveva anch’esso, come tante cose di lui, alcunché<br />
di canino: umile, cioè, e sottomesso, pago di un nulla, adorante;<br />
ma, per ciò stesso, istintivo, impetuoso e quasi disperato.<br />
E adesso ecco che Pasqua lo trascurava, o almeno non<br />
aveva per lui le attenzioni di un tempo. E non – ne era certo<br />
– per colpa sua, ma perché c’era qualcosa che la tormentava.<br />
Non aveva dimenticato il suo pianto di quella notte. I<br />
singhiozzi e il cessare di essi, e poi quel protestare: io, Momo?,<br />
ma va’, avrai sognato! Mentiva, era sicuro che mentiva. E forse<br />
anche altre volte, dopo di quella, aspettava la notte per<br />
piangere. Ché lui ci stava attento, si costringeva a star sveglio,<br />
perfino, per vedere se lei. E niente, è vero; ma non vuol dire.<br />
Chi gli garantiva che, caduto che lui fosse nel sonno, che lo<br />
prendeva a tradimento a una cert’ora, lei allora ne approfittava.<br />
E a parte questo i silenzi di lei, la perduta abitudine di ridere<br />
e giocare con lui, quel suo sottrarsi, quel suo appartarsi.<br />
Di nascosto lui la seguiva, se appena poteva, la spiava. E sapeva,<br />
lui, cosa credeva? Si faceva delle volte bianca bianca, si premeva<br />
la mano a pugno sulla bocca dello stomaco, sembrava<br />
una che volesse rivedere. E se si accorgeva di lui, presto presto<br />
cambiava espressione, faceva finta di niente, mentiva ancora:<br />
132<br />
Momo indiscreto ficcanaso e tontolone, rideva. E diceva<br />
niente, è niente, eh, un po’ di male allo stomaco, qualche cosa<br />
che ho mangiato, così diceva. Bugia, perché un’altra volta, di<br />
lì a due giorni, aveva rimesso davvero, cos’è allora che mangiava?<br />
E anche raccomandava di non dir niente di questo fatto,<br />
perché?<br />
Inutile farle domande, del resto difficili per lui da formulare.<br />
Faceva la tonta: io, Momo, io? Sempre questa canzone.<br />
Tutto questo, non importa se così appunto, in qualche<br />
modo lui ruminava con sforzo nel suo cervello. E si sforzava<br />
a voler penetrare il perché di questo, il mistero che dietro il<br />
modo di fare di Pasqua, così mutato, si celava. Soffriva perché,<br />
per chi, a causa di chi? <strong>Il</strong> padre, la madre, ’Ntoni? O lui<br />
stesso, Momo? O chi ancora? E, chi si fosse, una cosa era certa:<br />
che lui voleva difendere Pasqua da questo tale, e liberarla<br />
dalla sua pena. <strong>Il</strong> male era questo: che non sapeva.<br />
Mandava adesso a dire: Vado domani a Serri. Secco, così.<br />
Niente altro.<br />
Si era vista avvicinare da costui, mentre saliva alla fattoria<br />
da uno di quei viaggi a portar acqua ai mietitori; reggeva<br />
per il manico, ciondoloni, l’anfora vuota.<br />
«Voi siete Pasqua Cinus, padrona, potrei giurarlo» aveva<br />
detto. Uno di quei pescivendoli che vanno in giro per gli<br />
stazzi in bicicletta, recando sul bagagliaio una cassetta con<br />
dentro il pesce.<br />
«Be’, e come fate a esserne così sicuro» lei aveva chiesto.<br />
«E che volete?».<br />
Quello tagliava corto:<br />
«Ho commissione per voi» affermava.<br />
«Da parte di chi?».<br />
«Mi manda Raffieli Pòrcina, certo lo conoscete» diceva<br />
l’uomo. E riferiva il messaggio. Profittava anche per chiedere<br />
se potesse offrire della sua merce.<br />
«Gradireste?» interrogava, indicando la cassetta.<br />
«Grazie, no» lei diceva. Quei pesci stecchiti, pietrificati<br />
dal sole, quei morti occhi sbarrati e vitrei, e più ancora la<br />
mucillagine dei polpi, che il venditore, per invogliarla, voltava<br />
e rimescolava cacciandovi dentro la mano, le davano il<br />
voltastomaco. Pareva che le frugassero così le viscere.<br />
133
«State bene» si congedava l’uomo.<br />
«Aspettate. Vi ha detto l’ora?».<br />
«Domani sera, ha detto. Due ore prima dell’entrata del<br />
sole».<br />
«Va bene. Dio vi rimeriti».<br />
L’uomo voltava e andava.<br />
Non ci vado, si disse subito, fermamente risoluta. Domani<br />
sera va a Serri. Bene, che vada. Al messaggio mandato da<br />
lei, che sì ch’era pieno di angoscia, aveva risposto: spiacente,<br />
semmai cenàpura. E neanche quel giorno era venuto. E ora<br />
invece, che a lui faceva comodo, spediva l’ingiunzione: vado<br />
domani a Serri. Che voleva dire: vienimi incontro corri,<br />
Tricò. Ma cosa credeva, che lei era proprio un cane? Bastava<br />
un fischio e correva, come Tricò. Lei non era Tricò, non era<br />
un cane. Andasse pure l’indomani a Serri, e in buonora, lei<br />
qui era e qui restava.<br />
Ma sapeva che no, che sarebbe andata. Corsa anzi, davvero<br />
come Tricò. <strong>Il</strong> dramma che da giorni, giorno per giorno<br />
viveva. Quel non sapere che fare, con chi consigliarsi, con chi<br />
parlare. La paura che, come un mostro, era sempre accampata<br />
in lei, notte e giorno, e cresceva, mutava in spasimo. La<br />
crocifissione dei rimorsi, con chiodi e corona di spine. E,<br />
unica contropartita, la fiducia che lui, lui soltanto, poteva<br />
comprenderla, consolarla, aiutarla. Tutto questo era già bastante<br />
per farle capire che sarebbe andata, Tricò o no, e farle<br />
anzi desiderare che fosse già adesso, domani. E poi anche<br />
non so che brama, a dispetto di tutto, di rivederlo. Memoria<br />
dei giorni in cui gli diceva: quando vorrai chiamami, e io<br />
correrò, io verrò correndo con zampe di lepre, io verrò come<br />
un uccello in quale si voglia luogo tu sia.<br />
Ripigliava a camminare, issandosi la giara sull’anca. Assumeva<br />
l’andatura, tanto più ch’era in salita, che quel peso,<br />
così recato, impone, pur quando l’anfora è vuota: un certo<br />
sbilanciamento all’indietro e di lato del busto e il dondolio<br />
del bacino, un che di offerto e negato, dato e sottratto, al<br />
mutare dei passi: la camminata delle donne di là, inconsapevolmente<br />
voluttuosa.<br />
Si rimangiava quella sua impuntatura iniziale: va bene,<br />
domani. Doveva fare l’offesa? Fare questione di dignità? In<br />
134<br />
quelle condizioni? Ma va’. Inclinava anche alla morbidezza:<br />
sì, caro, domani. E continuava a camminare, lenta e impigrita,<br />
dondolante a quel modo: un po’ di offerta, un po’ di diniego,<br />
a cadenza. Nel sole.<br />
Remoto, da misteriose distanze, e tuttavia bene in lei,<br />
venne quel moto. Come quando un pulcino che hai tolto in<br />
mano e costretto al buio e al silenzio, ha un lieve trasalimento.<br />
Erano ancora le prime volte che lei avvertiva questo, e ne<br />
restava ogni volta agghiacciata. Sapeva, cos’era. Non di meno<br />
provava ogni volta quello sconcerto che viene da un fatto<br />
oscuro e pauroso. La sensazione di una presenza – indefinita,<br />
priva di volto, di contorni, di tutto, eppure reale – acquattata<br />
in lei. Chi sei?, lei chiedeva. Perché vieni? Io non voglio. E si<br />
figurava la cosa, il coso, “lui”, insomma, intento ottusamente<br />
a fabbricare se stesso, nei misteriosi recessi: accumulare materiale,<br />
suggere linfa, sangue, costruirsi. Di questo solo preoccupato,<br />
a questo solo attendendo. Ignaro di lei, indifferente al<br />
travaglio alla pena alla tragedia di lei, supremamente incurante<br />
di tutto ciò che non fosse essenziale al suo farsi. E informe<br />
e molle, là nelle viscere. Simile – adesso capiva – a quelle cose<br />
flaccide e gelatinose della cassetta del pescivendolo, che l’avevano<br />
rivoltata. Un essere immondo, un intruso, di prepotenza<br />
accampato in lei. Perché? Chi l’aveva chiamato? Chi gli<br />
aveva chiesto di essere?<br />
Ma placatosi questo impulso, ch’era quasi di rancore, rovesciava<br />
la domanda. Anche lui, certo, poteva ribattere: Ho<br />
chiesto io, forse, di vivere?<br />
E questa constatazione la sgomentava. Per ciò che lei<br />
stessa poteva ben porre, per sé, lo stesso interrogativo, farne<br />
quasi un’accusa a suo padre e a sua madre: Ho chiesto io,<br />
forse, di vivere? E anche loro, a loro volta. E tutti, medesimamente,<br />
risalendo all’indietro nella scala dei viventi. E non<br />
c’era risposta.<br />
Accelerava allora il passo come se volesse fuggire. Basta!,<br />
gridava mentalmente, basta! Le sembrava di impazzire. Ogni<br />
volta che il suo pensiero imboccava una qualche strada, sempre<br />
doveva esserci sul suo passaggio una trappola che si chiudeva,<br />
un intrico di spini, un muro seminato su in alto di<br />
cocci di vetro. Basta basta basta. Aspettare fino a domani.<br />
135
Oh sì sarebbe andata, sicuro che sarebbe andata, bisognava<br />
che uscisse da questo imbroglio da questo frastuono da questo<br />
orrore. Lui certo le insegnerebbe la via. Domani. Non vedeva<br />
l’ora che fosse domani.<br />
Altre volte ridente, in festa, quando s’incontrava con lui.<br />
Questa volta invece gli era davanti dolente, impaurita; scomparsa<br />
la gioia. Eppure, quei suoi occhi scuri morbidi ancora<br />
bevevano avidamente la figura di lui, come una luce. E li rischiarava.<br />
Lui era apparso crucciato, fin da lontano. Non era venuto<br />
come altra volta col cavallo lanciato per poi di botto fermarsi;<br />
ma al passo, e senza neppure curarsi di affrettare l’andatura.<br />
Salutò lei per prima, alla moderna: ciao. Come le aveva<br />
insegnato lui. Sforzandosi di sorridergli.<br />
Anche lui disse ciao, ma mantenne quella mutria e non<br />
smontò da cavallo. Domandò anzi:<br />
«Vuoi salire?» quasi si trattasse di fare come le tante volte,<br />
e non fosse accaduto nulla. E invece.<br />
Scosse la testa, no, come poteva pensarlo?<br />
Lui borbottò qualcosa, che non potevano restare lì se<br />
dovevano parlare, qualcuno poteva vederli.<br />
«Che importa, ora?» lei disse.<br />
Allora lui scese e si tirava dietro il cavallo.<br />
Camminarono un poco in silenzio. <strong>Il</strong> cavallo ogni tanto<br />
emetteva degli sbuffi che invariabilmente la facevano sussultare.<br />
Camminando a fianco a lui, lei, più piccola faceva un<br />
passo e mezzo per ciascuno di lui. In statura lui la sopravanzava<br />
quasi di un palmo.<br />
«Volevi vedermi, mi vedi» lui disse.<br />
Lei fece sì con la testa, che lo vedeva.<br />
«Ebbene, e allora?» egli insistette.<br />
«La cosa più importante» disse Pasqua «la sai già. Ti ho<br />
mandato commissione».<br />
«Uhm, quel babbeo» lui disse. E poi chiese: «Ma sei proprio<br />
sicura?».<br />
«Sicura» rispose. Ripensava alla frase di lui, mandata a dire<br />
di rimando con Jeremia: a volte sembra e non è. Lo si poteva<br />
dire di tante cose.<br />
«Come fai a essere sicura» lui protestava. «Potresti sbagliarti.<br />
Un ritardo, per esempio. Capita, a volte».<br />
136<br />
Protestò a sua volta che non c’erano dubbi, era più che sicura.<br />
Aveva mai provato a essere donna, lui? A avere un bambino<br />
dentro? A sentirlo voltare? E le tornò memoria di quella<br />
vita là, che negli abissi di lei si andava formando, indaffarata.<br />
Strano, si disse: sin qui non aveva pensato neppure una volta<br />
che quella vita avesse un legame anche con lui, anzi recasse in<br />
qualche modo il sigillo di lui, lui ne era il padre, che poi, ecco<br />
qua, veniva a dire potresti sbagliarti, ecco come la sentiva, lui,<br />
la “paternità”. Ma già, che ci vuoi fare, lui era maschio, e il<br />
maschio che ci mette? È la femmina che poi.<br />
Nuovo silenzio; camminavano. Lei guardava i calzoni di<br />
fustagno di lui, color oliva; le scarpe morbide; i propri zoccoli<br />
di ginepro. E le ombre.<br />
<strong>Il</strong> sole, da dietro, staccava le loro ombre sulla polvere della<br />
strada stirandole enormemente. Ma sempre l’ombra di lui<br />
sopravanzava quella di lei. A lato poi di quella di lui brandeggiava<br />
una terza ombra, informe e bislunga, che era quella del<br />
cavallo. Le due ombre più piccole, di lui e di lei, sembrava<br />
che si baciassero: era l’ombra lunga che baciava quella corta,<br />
con lievità, sui capelli. Ma sempre s’intrometteva quella terza,<br />
petulante e grottesca.<br />
«Non possiamo camminare per l’eternità su questa strada,<br />
se dobbiamo parlare» disse lui, irritato «voltiamo da qualche<br />
parte».<br />
«Va bene» essa disse.<br />
Presero per un varco, lungo una siepe, e si inoltrarono.<br />
Macchie di cisti, ginepri marini, mirti. I mirti formavano famiglie<br />
compatte, areole, cespugli fitti con spalliere e rientranze<br />
concave, come sofà.<br />
«Fermiamoci qui» lui disse. Pareva diventato un po’ più<br />
morbido.<br />
Legò il cavallo a un tronco di ginepro, dieci passi distante<br />
(così faceva anche allora, lei pensò; e le sembrò fosse passato<br />
un secolo, da allora, e non erano che venti giorni; ma<br />
quel che c’era in mezzo) fece che lei sedesse nel posto indicato<br />
da lui e si sedette a sua volta, due passi più in là. Tenevale<br />
gambe flesse e le ginocchia piegate, e occupava le mani<br />
settando e sfacendo le foglie di un ramo di mirto, che ogni<br />
tanto mordicchiava o portava alle nari.<br />
Senza guardarla, parlando al mirto, disse:<br />
137
«Devi essere abbastanza infuriata con me perché non mi<br />
sono fatto vedere, ma ti assicuro…».<br />
Lo interruppe con un gesto: non occorreva. E poi, infuriata?<br />
Non era la parola giusta, si trattava di ben altro. Ma come<br />
fare a spiegarglielo? Non seppe che cosa dire e stette zitta.<br />
«Bene» lui disse, piccato del suo silenzio. «Hai tanto insistito<br />
che volevi parlarmi. Parla dunque. Che vuoi?». Ridiventato<br />
brusco e perentorio.<br />
Lei si era messa, nel punto indicato da lui, accoccolata<br />
contro un cespuglio, ginocchia unite, braccia conserte sulle<br />
ginocchia e il capo piegato in giù, fino a poggiare la fronte<br />
sull’incontro dei polsi. Immobile, come scolpita, modellata in<br />
terracotta.<br />
Si riscosse a quel parlare, alzò la testa e l’osservò un lungo<br />
istante. Ferma nel resto. Solo la testa si alzò. E l’osservava.<br />
«Sono disperata, Fieli» disse semplicemente.<br />
E né pianti né scene madri, questo soltanto; e a voce bassa,<br />
anche. Ma lo fissava come con spasimo, viveva tutta negli<br />
occhi.<br />
Lui gettò il rametto dietro le spalle, dopo averne fatto<br />
scempio.<br />
«Lo so» disse levandosi e prendendo a camminare. «Ma il<br />
punto non è questo, il punto è un altro, è come uscirne. Per<br />
questo ti ho domandato di dirmi che cosa vuoi».<br />
Cosa voleva? Ma questo, appunto: che lui l’aiutasse, la<br />
salvasse, le dicesse lui stesso che cosa doveva fare. Che altro,<br />
se no? Come se lei già non sapesse che proprio quello era il<br />
punto, come diceva lui. Ma ci si era consumata la testa, a<br />
pensarci, senza venirne a capo: fare che cosa, decidere che cosa.<br />
Era tutto così assurdo. E precisamente era qui perché lui<br />
le illuminasse la mente, glielo chiedeva come a un santo.<br />
Lui continuava a passeggiare su e giù davanti a lei. Da<br />
un cespuglio strappò un altro rametto e ne fece una pertica<br />
con la quale si frustava i calzoni. Era sorpreso e quasi irritato<br />
della sua calma, si aspettava chissà che smanie. Ed era irritato<br />
dei lunghi silenzi, quel muto interrogare e aspettare di lei.<br />
«Io lo so» disse a un certo punto «quello che tu vorresti».<br />
«Che cosa?» lei domandò prontamente. Come dovesse<br />
essere lui a spiegarle finalmente ciò che lei stessa voleva. Per<br />
138<br />
parte sua, non lo sapeva ormai più neppure lei, nel trambusto<br />
che aveva in testa.<br />
«Si prende» disse lui «e si fa un bel matrimonio».<br />
Lei ripeté: matrimonio. Ma solo muovendo le labbra,<br />
senza emettere suono. Ma si accorse che lui aveva pronunziato<br />
quelle parole con sarcasmo, perché? Matrimonio, certo:<br />
era giusto. Non era giusto? E dunque perché quel tono?<br />
Sciolse le braccia da sopra i ginocchi, lasciò che le mani<br />
(continuando i suoi occhi a fissare lui) si cercassero e si trovassero,<br />
intrecciassero le dita fra loro. E le ricollocò, così unite,<br />
sulle ginocchia.<br />
«A me, Fieli» disse candidamente «questo andrebbe bene».<br />
Aveva pensato in precedenza a questa eventualità? L’aveva<br />
considerata come un possibile scioglimento del dramma? Se<br />
lo stava chiedendo; e non sapeva, non ricordava, era tanto<br />
confusa. Ma, certo, se qualcosa attendeva di nascere dalla sua<br />
mente, dopo tante doglie, era questo. E lui, per quanto con<br />
mal garbo, era stato la levatrice.<br />
«Lo avrei giurato» egli disse tagliente.<br />
Essa rifletté. Impiegò un tempo infinito a comprendere.<br />
«A te non farebbe piacere» disse finalmente, a bassa voce.<br />
Aveva finalmente estratto la conclusione.<br />
Lui tornò a sedersi, cercò di cambiare argomento. Vediamo,<br />
i suoi sapevano nulla? No. Sua madre? No. Suo padre,<br />
’Ntoni e quell’altro, come è che si chiama? No. E non poteva<br />
essere che sua madre, almeno lei, sai questi fatti di donne, si<br />
fosse accorta da sola, avesse afferrato, intuito? No, no e no.<br />
Gli rispondeva, lo secondava, ma era come se lui, ponendo<br />
quelle domande, camminasse, camminasse, portandosi<br />
sempre più al largo. Mentre lei era rimasta al cippo di<br />
partenza: non gli faceva piacere. Matrimonio? No, non gli<br />
faceva piacere. Questo era il dato fondamentale dal quale,<br />
conquistatone infine il senso, non le riusciva di disancorarsi.<br />
Sapete, Fieli Pòrcina si sposa. Oh, e con chi? Mah, con una<br />
di Baronia che adesso abita a Serri, una certa Pasqua Cinus.<br />
No, questo, a lui, non piaceva.<br />
E a questo punto le tornava alla mente il pensiero dell’altro,<br />
il terzo, quello là che, ammucchia ammucchia, era affaccendato<br />
a preparare se stesso. Perché in fondo non era poi solo<br />
139
questione di lui e di lei, ma anche del sopraggiunto, di questo<br />
ignoto. Che sarebbe stato di lui? Non avrebbe avuto un<br />
padre? No, certo: perché a lui, al padre, non piaceva.<br />
E era anche questione di altri, del resto, non credere. Suo<br />
padre e sua madre, per esempio, dove li metti? Presentarsi a<br />
Giuanni Cinus e dirgli: «Padre, ascolta: mi capita così e così,<br />
aspetto un figlio, ma il padre della creatura, Raffieli Pòrcina,<br />
mi sposa» era ancora una cosa pensabile. Dura e da far tremare,<br />
ma pensabile. Ma andare e dirgli: «Padre, così e così, ma<br />
Fieli Pòrcina non può sposarmi perché, purtroppo, non gli<br />
piace» questo no, più ancora che essere atroce, proprio non<br />
era pensabile. E tuttavia che c’era da fare: a lui non piaceva.<br />
Mentre lei rifletteva a tutto questo, Fieli Pòrcina si era seduto,<br />
alzato, tornato a sedere. Diceva adesso:<br />
«Ascolta, Pasqua. Una maniera per uscire da questo impiccio<br />
ci deve essere. Dobbiamo trovarla. Io ti voglio aiutare,<br />
ho già parlato con gente, ho già cominciato a muovermi.<br />
Mi hanno assicurato che si può, che c’è il modo, capisci?<br />
Basterà un po’ di coraggio da parte tua».<br />
Anche se ancora involta nell’onda di quei pensieri, afferrava<br />
ora, fulmineamente, il senso delle parole.<br />
«Capisco, capisco, sì, sì» diceva dolce. Capiva e come. E<br />
scorava. Neanche il figlio, dunque. Via il figlio, via la vergogna.<br />
Tanto semplice. Era questo l’aiuto che era in grado di<br />
darle? E si immaginava che lei e il figlio (questo già nato e già<br />
in grado di camminare) venissero alla soglia di Fieli Pòrcina e<br />
bussassero come mendichi, e proprio lui si facesse sull’uscio e<br />
loro dicessero, tendendo la mano: In nomine ’e Deus, ma non<br />
per chiedere l’elemosina, chiedere altro, un po’ di “sentire”,<br />
un po’ di bene. Ma lui niente, senza neanche dire “Perdona”,<br />
che così si accompagna il rifiuto, seccamente ribatteva la porta<br />
e li lasciava lì fuori.<br />
Ma intanto le si incidevano nella mente come infuocate<br />
le parole che lui diceva: “Una maniera per uscire da questo<br />
impiccio ci deve essere… Basterà un po’ di coraggio”. O lei<br />
era allucinata, o una punta di ferro, il becco di una roncola<br />
passata alla forgia gliele stampava nel cervello, l’acuta algia di<br />
questo lavoro di encausto faceva sì che le parole non solo<br />
bruciassero ma fiammeggiassero. E adesso sì, si staccava dal<br />
140<br />
cippo al quale si era tenuta fino a questo momento abbrancata.<br />
E avanzava veloce, andava oltre, oltre. Una luce abbagliante<br />
aveva squarciato di colpo il buio, come una serie di<br />
lampi continui senza intervallo, e lei tuffata dentro questa<br />
gran luce come inebriata a perdifiato correva. Non si trattava<br />
più tanto del figlio, ma di lei, di lei: “un po’ di coraggio”.<br />
Però con la mente, questo. <strong>Il</strong> suo corpo, invece, sempre lì<br />
come prima, <strong>raccolto</strong>, una statuetta; e lui, ingannato da questa<br />
apparente tranquillità le diceva:<br />
«Facciamo così. Quando sarà il momento, spero tra qualche<br />
giorno, vengo, ti prendo e ti accompagno dove sarà stabilito,<br />
penso io. Occorrerà della cautela, per via dei tuoi. Meglio<br />
una notte. Facciamo una delle prossime notti. Ti avviserò<br />
e poi verrò. Così poi ti riporto io stesso fino a casa. È affare<br />
breve».<br />
Lei rispondeva sì sì, mansueta, attenta.<br />
Cosa le costava rispondere sì? Ma era oltre, ben oltre.<br />
“Uscire da questo impiccio. Un po’ di coraggio”. Quei lampi,<br />
sparati rapidi, facevano più chiaro del giorno. Si sentiva in pari<br />
tempo eccitata e placata. Cosa le costava rispondere sì?<br />
Lo stesso fu quando le propose, già acceso:<br />
«Vuoi?».<br />
Non era accaduto nulla, oppure, che torna uguale, nulla<br />
contava più nulla. Neanche questo. E allora? Sia.<br />
Diceva sì, faceva di sì anche col capo, riusciva persino a<br />
sorridere, perché lui avesse l’illusione.<br />
<strong>Il</strong> mirto, vieppiù che appressava la sera, mandava odore<br />
da stordire. E lei appunto se ne stordiva, se ne drogava.<br />
Ricordarsi che il manipolo, una volta reciso, è in balia di<br />
chi miete.<br />
141
XI<br />
LA BATTITURA<br />
A un segnale le bestie entravano e incominciava la sarabanda.<br />
“Hài, hài, jàah, juhù”: grida gutturali, battimani, baccano,<br />
accompagnavano quel ballo tondo di nuovo genere<br />
che si ballava sul grano.<br />
Dai campi, dov’era ammucchiato in tante biche, il grano<br />
era stato portato coi carri sulle pietre dell’aia. Carri e carri, da<br />
biche e biche. Lavoro per i denti dei grandi tridenti di legno<br />
che dalla bica alzavano al carro, e dal carro riabbassavano al<br />
suolo, i biondi covoni. Lavoravano questi tridenti come colossali<br />
forchette. Entravano nelle costole dei covoni e li sollevavano<br />
pari pari, come bocconi enormi. Poi, sull’aia, i covoni venivano<br />
sfatti. Slacciata la cintura, il covone si comportava come<br />
un barile che perde i cerchi; e i manipoli erano le doghe. Sfatti<br />
anche i manipoli – e questo era lavoro per i tridenti di ferro,<br />
più piccoli e maneggevoli, ma duri e atti a azzannare – il grano<br />
veniva sparso, a strati, a formare l’immensa ciambella. Fa’ conto<br />
un cuscino rotondo, spesso più di sei palmi e largo che cento<br />
braccia non ne misuravano il diametro.<br />
Ed era a questo punto che entravano in ballo le bestie.<br />
Vacche e manzi, a schiere di sette o otto, tenuta insieme ciascuna<br />
schiera da funi, di corno in corno, e i musi castigati da<br />
museruole di corda o di filo di ferro, a guisa di cilicio contro<br />
le tentazioni svegliate dall’odore appetitoso del grano. E così<br />
aveva inizio, sull’alto soffice palco lucente d’oro, l’inverosimile<br />
danza.<br />
Un certo numero di mandriani, cinque o sei, governavano<br />
questa quadriglia dal centro dell’aia per mezzo delle lunghe<br />
funi di guida. E già erano uno spettacolo a sé, nel più<br />
grande e generale spettacolo che si svolgeva sull’aia, per come<br />
manovravano le loro funi con piroette e acrobazie. Della<br />
straordinaria girandola, essi erano il perno, le funi i raggi e le<br />
bestie le pale estreme.<br />
142<br />
Le quali bestie, nello spettacolo, svolgevano una parte di<br />
primo piano, specie se si considera che ai loro zoccoli era<br />
principalmente affidata, in fin dei conti, la funzione del trebbiare.<br />
Animali pazienti, tradizionalmente mansueti, erano qui<br />
viceversa come ritornati selvaggi, per come eseguivano questo<br />
girotondo impazzito. Incitati da ogni parte, frastornati dal<br />
chiasso, sbandanti, tirati verso il centro, ricacciati di nuovo in<br />
fuori, ballavano il più strano rondò che si possa immaginare,<br />
all’impazzata, sfangando nella paglia fino alla pancia, frullandola<br />
col loro moto, starnutendo, soffiando, portando in giro<br />
in quel carosello tutta una portentosa fioritura di corna. Né<br />
facevano che raramente, di quando in quando, il tentativo di<br />
tuffare il muso in quella deliziosa pastura, così accessibile e<br />
così abbondante da esservi immersi dentro e sguazzarvi; la<br />
museruola li disingannava, la folle corsa li dissuadeva.<br />
Ma poi c’era ancora altro a crescere il trambusto, il pandemonio<br />
che si faceva sull’aia, dentro e fuori la gran ciambella<br />
del grano. Una mecca di gente era piovuta per l’occasione<br />
alla fattoria, quali per dare aiuto quali come semplici curiosi.<br />
E si assiepavano attorno all’aia, vociavano, battevano le mani,<br />
facevano chiasso, per incitare e frastornare vieppiù i buoi e<br />
perché “così si era sempre fatto”. E v’erano quelli – specialmente<br />
ragazzi – che nell’eccitazione saltavano in mezzo al<br />
grano, s’intrufolavano temerariamente in mezzo alle bestie, le<br />
rincorrevano di schiera in schiera, svelti a scansarsi per non<br />
farsi travolgere dalla schiera sopravveniente, si afferravano alle<br />
loro code lasciandosi per un po’ trascinare. E v’era chi, più<br />
spavaldo, giungeva a saltare in groppa a una bestia aggrappato<br />
alle corna, e chi addirittura si issava lungo diritto sulla culatta<br />
di un bue in corsa, magari su un piede solo, salvo a rovinare<br />
giù abbasso. Facevano insomma cose da marionette, da<br />
“scioglidramma”, come là dicono.<br />
Ed era tutto l’insieme, e questo specialmente, che dava<br />
come un tono di ebbrezza e di festa pagana alla battitura.<br />
Bastava cogliere le apostrofi, gl’incitamenti, le imprecazioni<br />
ch’essi lanciavano agli animali, per rendersene conto.<br />
Cose folli, anche queste: le bestie chiamate con nomi incredibili<br />
– Bella-baciata, Bocca-di-miele, Luna-gioiosa, Garofano,<br />
Sempre-sposa – insultate come cristiani – ah cornuto, ah<br />
143
figlia di vacca, ah cagone (qualcuno poi c’era sempre che, a<br />
ogni eiezione di escrementi, raccolta in fretta una manciata<br />
di paglia, o a mano nuda occorrendo, pronto riceveva il dono,<br />
che veniva poi subito scaraventato lontano) – o fatte comunque<br />
oggetto di parole insensate. Non vera ira: divertimento,<br />
allegrezza; era festa.<br />
Tutto questo durava, con maggiore o minore intensità,<br />
praticamente quanto durava il giorno, poiché s’incominciava<br />
a trebbiare poco dopo l’aurora, svaporata che fosse dal<br />
grano la rugiada notturna, e senza interruzione si andava<br />
avanti fino a metà pomeriggio, quando le bestie erano<br />
esauste. Per la più parte, in ogni caso, sotto il dardeggiare<br />
del sole.<br />
Così, ai poli estremi, erano il sole su in alto e, sotto, il<br />
grano. Non bisogna infatti dimenticare che sotto gli zoccoli<br />
delle bestie, la festa degli uomini, l’eccitazione e le grida, era<br />
la pena silenziosa, la lenta rassegnata triturazione del grano.<br />
Essi dicevano hoc anno per dire quest’anno. Dicevano che<br />
Giuanni Cinus, hoc anno, poteva ridere in faccia a quale si<br />
voglia persona, con un <strong>raccolto</strong> così. Che quantità di grano<br />
così, tutta ammucchiata su un’aia, dove ne trovi? In Trexenta,<br />
forse. Qui neppure i vecchi ricordavano un’aia simile. Dicevano<br />
che era lievitato, il grano di Giuanni Cinus, e gli chiedevano<br />
ridendo chi gli avesse dato il “crescente”. Altri gli<br />
chiedevano se, alla conta, saprebbe cavarsela, con tanto bendidio.<br />
«Saprai contarle, le quadre eh, Giuanni Cinus?».<br />
Battute così, che un po’ lisciavano un po’ mordevano e<br />
che erano anch’esse segno di festa e allegrezza.<br />
E lui, al solito, annuiva del capo, li lasciava sfogare: «Ehi<br />
ehi, cantate». Ma dentro.<br />
Come uno che entri a ventura in una grotta, spintovi<br />
dall’uragano o da altra momentanea necessità. E gli avvenga<br />
che, voltando col piede un sasso, scopra, che so, un’anfora,<br />
un barile di monete d’oro. Che fa? Guarda e non crede ai<br />
suoi occhi, poi, esitante, ne afferra una, di moneta, e l’osserva<br />
più da vicino, dubitoso, la soppesa, l’annusa se vuoi: è o<br />
non è? Poi decisamente affonda la mano nel mucchio, fruga,<br />
saggia quante ce n’è; e si domanda se stia sognando. Infine<br />
144<br />
rovescia l’otre, sparpaglia il contenuto, lo riammucchia e ci<br />
vorrebbe cacciare dentro la faccia, che cosa bella, gli sembra<br />
di impazzire.<br />
Anche lui più o meno così, di dentro.<br />
Girava intorno all’aia, si fermava ogni tanto, raccoglieva<br />
una spiga, la sbriciolava nel pugno, soffiava via sul palmo la<br />
paglia lieve e stava a contemplarne come incantato i chicchi<br />
mondi, radi, lunghi, colore del croco. Eh, era grano.<br />
E lo beccavano in quella i motteggiatori:<br />
«E che fate, compare Cinus? L’annusate se sa di grano?».<br />
«Mah, che devo dirvi?» rispondeva piccato. «Mi pareva<br />
non fosse grano, ma oro in mondiglia».<br />
Ridevano, lui e loro, e poi parlavano del giorno dell’inserro,<br />
domandavano se avrebbe fatto, con un <strong>raccolto</strong> così,<br />
festa grande, com’era giusto, che ne pensava? E rispondeva<br />
che stessero di buon animo, malfidati che erano, ognuno<br />
avrebbe avuto il suo, quel giorno, e a misura colma, a cùccuru,<br />
così diceva.<br />
E anche di queste parole, coloro che le sentirono e assistettero<br />
al dopo, si sarebbero rammentati, può darsi, di lì a<br />
tempo. Della misura a colmo che lui aveva detto che ciascuno<br />
avrebbe avuto.<br />
Ma intanto s’informavano del pranzo, che certo aveva<br />
da essere, in queste condizioni, memorabile. No?<br />
«Cani affamati» li rimbrottava benevolo «già ci pensate?».<br />
E ancora assicurava che ce ne sarebbe stato per tutti, pane di<br />
grano nuovo, gnocchi e carne, da saziarli quanti erano, struzzi,<br />
bocche da forno.<br />
«E vino?» domandavano ostinati.<br />
Certo, anche vino.<br />
«Vino maschio non abbiate timore» assicurava. «Forte, in<br />
creanza, come una schioppettata e rosso e porporino come il<br />
sangue spicciato».<br />
Non sapendo che dopo.<br />
«E anche il ballo?» lo mettevano in croce. «È l’usanza,<br />
compare Cinus».<br />
«E perché no?» rispondeva. «<strong>Il</strong> ballo, volete? E avrete<br />
anche il ballo».<br />
E si sarebbe visto, il giorno, che ballo.<br />
145
Per tenere Momo lontano dall’aia, con tutto il trambusto<br />
che c’era di bestie e cristiani, ’Ntoni escogitò di portare<br />
il fratello a caccia. Che anche lui, dopo tutto, non è che gli<br />
spiacesse, ma Momo era a buon conto una copertura.<br />
«Eh, Momo, vuoi venire con me a caccia?» facendo il gesto,<br />
perché capisse, di sparare il fucile: pùm pùm.<br />
Momo aveva, è vero, paura degli spari, ma l’idea di andare<br />
con ’Ntoni, a vedere come si spara, lo sedusse, e accettò<br />
mugolando: sì sì.<br />
E tutt’e due, staccata da ’Ntoni la doppietta dal chiodo,<br />
partivano chiotti chiotti per l’avventura, pigliando per il<br />
frutteto dietro la casa e scomparendo oltre la siepe.<br />
Momo non staccava un momento lo sguardo dall’arma,<br />
che il fratello bilanciava dandosi arie. Era al tempo stesso atterrito<br />
e affascinato dal luciferino strumento. Gli piaceva la<br />
sua forma, così lineare e essenziale: un piede, il “calcio” diceva<br />
’Ntoni – e pareva effettivamente essere atto a calciare – sagomato<br />
e potente: qualcosa tra la clava e lo zoccolo equino.<br />
Poi lo snodo, quella specie di vite di vespa. Poi, nella parte<br />
metallica, l’occhiello coi due “grilletti” di comando dei “cani”,<br />
così diceva ’Ntoni. E questi due “cani”, su in alto, due<br />
cosi con le orecchie diritte, effettivamente, e come messi di<br />
guardia. E infine le due canne, rettilinee brunite lucenti, con<br />
in cima come due occhi, ma cavi e ciechi. Anche se, ben si<br />
sapeva, vedevano e come. E tutto questo predisposto in funzione<br />
del cuore di fuoco, misterioso, che l’oggetto chiudeva<br />
dentro. E che voce, aveva: due boati, buùm, buùm. Ma soprattutto<br />
ammaliava Momo il potere arcano dello strumento,<br />
di generare in se stesso il fuoco e poi lanciarlo, insieme<br />
col piombo, senza fallire il bersaglio, e provocare la morte.<br />
Era questa una cosa terribile, e come faceva?<br />
«Vedi, si fa così» prendeva a spiegare ’Ntoni, una volta<br />
che si trovarono abbastanza lontani dalla fattoria, dietro un<br />
mammellone di roccia; zoppica-zoppica, anche Momo s’era<br />
portato bravamente fin là che neanche ’Ntoni lo avrebbe creduto<br />
possibile.<br />
E prima di tutto faceva vedere, ’Ntoni, come il fucile era<br />
fatto dentro, e di che pane si nutre. Un colpo di traverso sopra<br />
il ginocchio, ed ecco, oh?, che si spezzava.<br />
146<br />
«Guarda un po’ qua, Momo» diceva ’Ntoni, mostrandogli<br />
questi altri due buchi che anche da questa parte, ora, apparivano.<br />
Accostava l’occhio e vedeva due tunnel lucenti paralleli<br />
infiniti, percorsi da qualcosa che vi si torceva dentro a serpentina<br />
giù giù e, là in fondo, come due soldini di cielo.<br />
Poi ’Ntoni mostrava come il fucile va caricato.<br />
«Queste sono le cartucce» spiegava, traendole dal rigonfio<br />
della tasca dei calzoni.<br />
Quelle Momo le conosceva, le aveva viste altre volte: un<br />
piccolo cilindro rosso con disegnato un uccello, i bordi ribattuti<br />
su in alto e, sotto, il culaccino di ottone, con un pomello<br />
roseo, il “fulminante”, sul fondo. Sapeva anche dove fossero<br />
custodite e dove ’Ntoni perciò le avesse prese. Frattanto<br />
’Ntoni una dopo l’altra le infilava nelle due canne, e con uno<br />
scatto, zàc, ricomponeva il fucile tale quale era prima.<br />
E adesso attento, diceva ’Ntoni, gli faceva vedere come si<br />
spara. I grilletti, chiaro? Lì era il segreto. Però bisognava prima<br />
imbracciare il fucile e mirare. Mirare? Ma sì, prendere la<br />
mira, facendo correre l’occhio lungo tutta la striscia fra le due<br />
canne fino al mirino, lo vedi questo coso?<br />
Dimostrazione. ’Ntoni imbracciava il fucile, poggiandone<br />
il calcio all’altezza della spalla, fra quest’osso e l’attacco<br />
del braccio, così. «Sta’ buono lì» diceva ’Ntoni al fucile.<br />
E l’affusto – sì, questo – tenuto a squadra col corpo e sorretto<br />
con la sinistra; la destra invece, guarda, incaricata del<br />
comando di sparo.<br />
Tanta l’attenzione, quasi spasmodica, che Momo prestava,<br />
che dimenticava la paura.<br />
«Attento!» diceva di nuovo ’Ntoni, anche lui eccitato.<br />
E le dita premettero.<br />
Momo fissava l’arma e le dita di ’Ntoni, non il bersaglio.<br />
E vide l’arma scalciare contro la spalla di ’Ntoni, vide il fucile<br />
materialmente scrollarsi, come un essere vivo, e dare di colpo<br />
indietro, con quel suo zoccolo. Ma anche vide, dall’opposta<br />
parte, miracolosamente aprirsi, e fiorire un istante, due favolose<br />
corolle di fuoco. E udì due boati, vicinissimi, grandi, eppure<br />
non così forti come credeva e temeva.<br />
«Guarda, Momo, guarda!» gridava ’Ntoni, additando una<br />
147
pala di ficodindia centrata dall’impallinata e che pendeva<br />
adesso, tranciata in basso, sul suo moncone.<br />
Momo fuori di sé, frastornato, isterico, spiccava salti inconsulti<br />
e perigliosi sulle sue gambe così insicure. «Visto visto<br />
visto!» farfugliava. <strong>Il</strong> ficodindia schiantato. Metti sia un drago,<br />
un malfattore, un nemico. <strong>Il</strong> fucile te lo fulmina senza rimedio,<br />
con quel soffio di fuoco. Batteva le mani per il<br />
trionfo e gridava, da riuscire chiarissimo: «A me! A me! Voglio<br />
anch’io!».<br />
«Tu no, Momo, non puoi» diceva ’Ntoni.<br />
Ma era peggio, si esasperava, si buttava per terra, voleva.<br />
’Ntoni dovette cedere:<br />
«E va bene, uffa, sta’ buono. Vieni, ti aiuto io».<br />
Momo si avvicinava. Tremava come una foglia: l’orgasmo<br />
del gran momento, la residua paura. Si disponeva, le<br />
braccia già levate, come aveva visto fare al fratello.<br />
’Ntoni gli collocò il fucile tra le braccia, standogli dietro<br />
e aiutandolo a reggerlo.<br />
«Così, aspetta, così» diceva.<br />
Ma le dita di Momo, malformate che fossero, scacciavano<br />
quelle di ’Ntoni, via, via. Da solo. Voleva sparare da solo.<br />
In questo contrasto il grilletto venne premuto, il colpo<br />
partì, Momo lanciò un urlo. <strong>Il</strong> rinculo del fucile, violento, lo<br />
aveva colpito in pieno viso.<br />
Fu un grido così acuto che lo udirono alla fattoria, e gente<br />
subito accorse, e Pasqua fra gli altri, che infatti raccolse<br />
Momo da terra, il viso imbrattato di sangue, e così in braccio<br />
lo portava e lo consolava, dopo aver detto, lei come gli altri,<br />
un mondo di vituperi a ’Ntoni. <strong>Il</strong> quale poi si ebbe un’ancora<br />
più energica ripassata dal padre.<br />
Eppure non tanto era stato, quello di Momo, comunque<br />
fosse suonato, un grido di dolore, quanto piuttosto di trionfo,<br />
un evviva; gioioso sì, fino a risultare doloroso. Aveva sconfitto,<br />
una volta per tutte, la paura; aveva sparato, si sentiva felice. <strong>Il</strong><br />
dolore vero e proprio quasi quasi non lo sentiva.<br />
Dalla stanza dove “spollinavano” doveva spesso spostarsi<br />
al mulino centimolo e viceversa. E doveva passare, sia all’andata<br />
che al ritorno, davanti all’aia, con tutti quelli che erano lì.<br />
148<br />
Non che fosse straniata, assente. Udiva, seppure a pezzi,<br />
in quell’andare e venire, i discorsi della madre e di questa<br />
Crisanta, una parente di Baronia venuta in questi giorni di<br />
grande impegno per dare aiuto. Come pure là fuori, si accorgeva<br />
che ogni volta che appariva le grida degli uomini si venivano<br />
spegnendo (occhi di maschi, allora, erano sopra di lei,<br />
come nibbi; mani di desiderio la brancicavano) sostituite da<br />
frasi che, sotto apparenze diverse, avevano lei per bersaglio,<br />
lei lo capiva (fingevano di continuare a incitare le bestie: «Accosta<br />
un po’, accosta, Bocca-di-miele», «Ih che già corri, Speciosa,<br />
ih che non pungo», «Aspettami che ti carezzo, ah, Bocca-baciata»;<br />
anche i nomi, scelti con intenzione). E infine<br />
udiva nel tempo che si tratteneva nella stanzetta del mulino<br />
il lento stritolamento dei chicchi che scendevano per l’esofago<br />
della tramoggia e finivano fra le due mole.<br />
Percepiva nettissimo tutto questo, vedeva, sentiva; ma<br />
era come sogno, emanazione di un mondo privo di realtà.<br />
Come l’eco; come le cose riflesse nell’acqua. Esistono? È solo<br />
illusione. Soltanto a quel grido, stamane, di Momo, si era riscossa,<br />
e prontamente era corsa in aiuto. Poi basta. Di nuovo<br />
tutto tornava sogno.<br />
“Quel” pensiero, la occupava: quell’unico solo pensiero.<br />
Quello che era penetrato in lei, folgorante, mentre parlava<br />
con Fieli Pòrcina, nel loro ultimo incontro. Non se n’era più<br />
andato. Si era conficcato, anzi, in lei, ben profondo, e radicato.<br />
E lei lo nutriva, gli forniva alimento. Come quell’altra<br />
“cosa” (ci pensava con struggimento) che portava nel grembo.<br />
Si diceva che sì, non c’era altro partito per lei, l’unica<br />
strada era quella. E si sforzava fino allo strazio di studiare il<br />
come e il quando.<br />
Ma non era immunizzata contro il terrore. Aveva attimi<br />
di cedimento. A volte la coglieva, quasi di sorpresa, una violenta<br />
pietà per se stessa, e come una sconfinata, non saputa<br />
dolcezza. Pensava alla sua gioventù, agli anni che ancora poteva<br />
vivere, a certi suoi sogni lontani puerili felici; e quasi<br />
esitava. Ma una contraria volontà, ottusa e tetragona, quasi<br />
anteriore e superiore a lei stessa, diceva che no, niente, quelle<br />
erano cose da nemmeno considerare, “debolezze” dell’anima,<br />
non vedi in che croce, in che tribolo si trovava?<br />
149
Una specie di sfida fra lei e il destino. Una partita ostinata<br />
a chi scaglia più forte e più lontano l’accetta. Tu così? E io<br />
allora. Questo. Un orgoglio. E per questo più chiuso e cupo<br />
il proposito. Neanche c’entrava più, ridotta la cosa all’essenza,<br />
la condotta di Fieli Pòrcina, il disinganno venuto da lui,<br />
la delusione. Non questo. Di più. Dispetto a Fieli Pòrcina?<br />
Povera cosa sarebbe stata rispetto al resto. Altro. Di più. Io e<br />
te. Tu e io.<br />
Tu, chi?<br />
Che ne sapeva: tutto. <strong>Il</strong> mondo, la vita, la sorte, tutto.<br />
Magari Dio?<br />
<strong>Il</strong> pensiero di Dio, è vero, la sgomentava. Così immenso<br />
alto e terribile. Ma possibile che, se sa tutto, non arrivasse a<br />
comprenderla e a avere pietà di lei? Nella sua bontà, misericordia,<br />
giustizia, lui doveva compatirla, comprenderla, leggere<br />
davvero nel suo cuore e perdonarla. Lui almeno. Lui<br />
soprattutto. Comprendendo che, nelle condizioni in cui era,<br />
lei non aveva altra scelta.<br />
Pareggiava così anche quanto di pauroso la tormentava<br />
circa il “peccato”: le fiamme, la pece bollente, gli arpioni dei<br />
diavoli. Mi laverai di issopo e sarò mondato. Questa stessa<br />
che lei si infliggeva, non era espiazione, agli occhi pietosi di<br />
Dio?<br />
<strong>Il</strong> problema assillante, a ogni modo, era rappresentato<br />
dal come, dal quando. Non le riusciva di risolverlo. Arretrava,<br />
meglio, ogni volta che si provava a risolverlo. Rubava un<br />
giorno, un altro, ancora un altro, e non se lo diceva, ma era<br />
perché il “come”, nei tanti modi possibili, l’atterriva. Trovare<br />
una maniera non truce, non violenta, quasi inavvertibile: si<br />
poteva? “Come per mano non sua, ecco”: si poteva?<br />
Mentre l’idea del “dopo” poteva contemplarla con animo<br />
staccato e quasi gelidamente. <strong>Il</strong> dolore dei suoi, certo, oh cari.<br />
Ma se stessa distesa immobile riusciva a vedersi. Non<br />
piangete per me, io sono in pace, addio. E però la pena risorgeva,<br />
intatta, se appena le sfilavano dinanzi alla mente i singoli<br />
visi: Momo, il padre, la madre, ’Ntoni.<br />
E anche lui, certo. Lui! Com’era stato tutto diverso da<br />
come s’immaginava. Odio, forse? Rancore, forse? No, in<br />
150<br />
coscienza. Ma amore? I fuochi si erano tutti spenti, consumati,<br />
sul monte. Notte di San Giovanni, quanto sei stata<br />
breve.<br />
Durò più di cinque giorni tutto quel pestare e impazzare<br />
sull’aia. I giri delle bestie sulla balera chi li contava? Ma il<br />
grano, batti e ribatti, finì per frangersi.<br />
151
XII<br />
IL CAPANNO SULL’AIA<br />
A sera, cessato tutto il trambusto di uomini e bestie durato<br />
ininterrotto fin dal mattino – e rientrate le bestie nei chiusi,<br />
gli uomini invece indugiando nei conversari serali – si alzavano<br />
sull’aia i baracchini. Uno o due, secondo che desse il caso,<br />
il servizio di guardia essendo regolato da un turno, ma senza<br />
che fosse escluso un rinforzo, se qualcuno si offriva volontario.<br />
Uso, anche questo, antichissimo. Vigilanza sul <strong>raccolto</strong>,<br />
prezioso bene. Paura del saccheggio e del fuoco. Paura che il<br />
nemico, il pirata, il malvivente, il vicino – malizia vendetta o<br />
invidia – venga e distrugga in una notte quello che è stato fatica<br />
dei mesi andati e pane, che è più, dei mesi che verranno.<br />
Consistevano in un capanno primitivo di canne, dall’ingresso<br />
a triangolo, con sovrammessa una mantellina di paglia<br />
per la rugiada. Un uomo – un adulto – vi ricoverava la testa<br />
e il busto, magari a stento. Quanto bastava, tuttavia, le notti<br />
di luglio essendo così brevi. Un bambino, si capisce, ci stava<br />
invece quant’era lungo, nel caso avesse la statura di Momo.<br />
Momo infatti s’incapricciò, nello stato di irrequietezza<br />
che gli era proprio da qualche tempo, che voleva per una<br />
notte dormire sull’aia. ’Ntoni sì, ci dormiva, perché lui no?<br />
Non era però l’invidia per il fratello, la causa, ma proprio il<br />
desiderio di fare questa esperienza. Si immaginava che là distesi,<br />
sulla paglia odorosa e morbida, nascosti dentro il capanno<br />
come la lumaca nel guscio (un luogo tutto per sé,<br />
suo soltanto), e intorno la notte arcana, si dovessero provare,<br />
chissà, sensazioni straordinarie. Sentirsi, a differenza che a<br />
casa, circondati da vicino, premuti, anzi, dalla notte, e come<br />
messi a parte del suo segreto. Per questo implorava, uggiolava.<br />
Almeno una volta, una sola.<br />
Non erano propensi a accontentarlo, specialmente la<br />
madre. E fu Pasqua, una volta di più, il suo avvocato. Ma<br />
perché non volevano? Cosa poteva succedergli? Un attacco<br />
152<br />
del male? Non era mai capitato di notte, non capiterà questa<br />
volta. Allora perché? È una creatura già tanto infelice; perché<br />
rifiutargli anche questo contento? Non basta quel tanto che<br />
gli è negato? (Metteva un calore particolare in questa perorazione.<br />
Sentiva di non parlare soltanto per Momo). Del resto,<br />
diceva, proprio stanotte toccava a Jeremia dormire sull’aia.<br />
Sicuramente Jeremia poteva badare a Momo.<br />
«Vero, Jeremia» lo interpellava «che avrete cura di Momo?».<br />
«Come di un figlio» assicurava il bastante. «Come degli<br />
occhi miei, che vi vedono».<br />
Non sarebbe stato proprio così, a dire il vero, ma cosa importa,<br />
il proposito era sincero, e manifesto lo slancio.<br />
«E tu, Momo» interrogava ancora «è vero che sarai bravo,<br />
non piangerai, non dirai che hai avuto paura perché hai<br />
visto i fantasmi. Rispondi: è vero?».<br />
Momo giurava; gl’indici messi in croce, appressati alle<br />
labbra e ripetutamente baciati: mio giuramento!, è così, è vero,<br />
è vero.<br />
E va bene, per questa volta, dicevano. Così l’assenso era<br />
accordato.<br />
«Ma la colpa sarà tua, Pasqua, ricordalo» ammoniva Mariangela<br />
Siddi non del tutto persuasa «se il bambino si spaventa<br />
o qualsiasi cosa gli capiti».<br />
«D’accordo» rispondeva. «Sarà mia». Con un po’ di fastidio.<br />
E, anche questa volta, pensava a qualcosa di più che al<br />
puro fatto di Momo. Io mi assumo tutte le colpe, ormai. Tutte.<br />
Quanto a Momo, a ogni modo, restava persuasa che non<br />
sarebbe successo nulla. Appagato nel suo desiderio e col conto<br />
che, anche grazie all’aiuto di lei, l’aveva avuta vinta sui genitori,<br />
avrebbe dormito tranquillo come un agnello, lei pensava.<br />
Non sapeva che invece.<br />
Un capanno per Jeremia, un capanno separato per lui,<br />
Momo. Aiutava lui stesso a costruirlo: le canne, prima; poi<br />
la paglia sfioccata sul tetto; poi altra paglia sciorinata all’interno<br />
perché il giaciglio risultasse il più soffice e alto possibile:<br />
e infine, come corredo, due teli di sacco, lenzuolo e coperta.<br />
Era pronto.<br />
153
Impaziente vi entrava dentro che la sera era ancora nel<br />
cielo. Incurante che gli dicessero: «Ma che? È ancora giorno!».<br />
Non importa, per lui era già notte.<br />
Si arroncigliò sulla paglia, attento a che neppure i piedi<br />
(che poi non c’era questo pericolo) non spuntassero di fuori,<br />
e insomma che il baracchino lo contenesse tutto intero. Giaceva<br />
voltato sul fianco, le gambe rattratte, le braccia strette<br />
al corpo, il capo incassato fra i pugni. Ritrovava senza saperlo<br />
la posizione diffidente e agguerrita del feto, che meglio gli<br />
consentiva di assaporare quel suo piacere infantile. Dire che<br />
questo, in fin dei conti, era per lui poter fare “quello che<br />
fanno i grandi”.<br />
Stette così un tempo che non fu in grado di calcolare.<br />
Gli giungevano confuse, dal pergolato davanti alla casa, le<br />
voci di coloro che là indugiavano. Poi decrebbero. Poi cessarono.<br />
Dai bordi dell’aia gli giunse il saluto di ’Ntoni:<br />
«Buonanotte, Momo, sei sveglio?».<br />
Certo lo era, che c’entra. Ma si guardò dal rispondere.<br />
Non vedeva l’ora di restar solo, e che arrivasse la notte.<br />
Così fece anche col padre, quando ne udì, poco dopo, la<br />
voce:<br />
«Tutto bene, Momo? (Nessuna risposta). Buonanotte».<br />
E, se mai, lo colpiva la premura inconsueta del padre, e<br />
perfino quella dolcezza – più che inconsueta: ignota – che gli<br />
pareva di cogliere nella voce di lui. <strong>Il</strong> padre, mai? (E non sapeva<br />
del cuore. Che proprio in quei giorni, nell’esultanza frastornante<br />
di un tale <strong>raccolto</strong>, giusto al pensiero di Momo,<br />
antica pena, s’inteneriva, come mai gli era accaduto, e si domandava<br />
che fosse. Era, vuoi mai vedere, presagio?).<br />
Dopo, veniva anche la madre (ma tutti, allora! Poi il<br />
dubbio: e Pasqua?); lei si spingeva fino al capanno, sentì che<br />
frusciava la paglia sotto i suoi passi, poi la sentì che diceva:<br />
«Momo, figlio mio, vuoi proprio restare qui? Non vorresti<br />
venirtene a dormire a casa?».<br />
Ringhiava, quasi: ma che? E sentiva sulle gambe la mano<br />
di lei, carezzevole, e la voce rassegnata: «Buonanotte».<br />
Era adesso la volta di Jeremia, che veniva a coricarsi nel<br />
suo capanno qui a fianco:<br />
«Figlio» diceva sostando «qualunque cosa, e tu fa’ un<br />
154<br />
grido: questa vecchia carcassa sta qui a due passi. Ti sentirò<br />
respirare. Buonanotte».<br />
E Pasqua?<br />
Ma era già prima qui, che lui si accorgesse che stava arrivando.<br />
E penetrava nel baracchino, lei, agile che era, stendendosi<br />
accanto a lui.<br />
«Ebbene, e il mio sposo?» diceva. Da riconoscersi soltanto<br />
a questo, le parole che sapeva trovare! «Contento, l’agnello<br />
mio? Saprà fare a meno per questa notte della sua Pasqua?».<br />
È vero! – balzava a sedere sul giaciglio – non ci aveva<br />
pensato! Come avrebbe fatto stanotte Pasqua (così rovesciava<br />
il concetto) a fare a meno della sua vicinanza? E se le fosse<br />
tornato quel male, quello che la faceva piangere? Almeno<br />
almeno, avendo vicino lui, poteva chiamarlo.<br />
Ma lei lo metteva giù, sorridendo: ma cos’è, non voleva<br />
mica tornare indietro? E perché? Forse temeva che fosse lei a<br />
avere paura? Ma no ma no, lei era grande, non aveva paura, e<br />
poi di cosa. E del resto di niente bisognava avere paura (le<br />
dava sgomento il senso “altro” di queste parole) e perciò anche<br />
lui, come uomo, non doveva averne, d’accordo? Dormisse<br />
dunque, ora, buono buono, ché già era notte. E facesse<br />
tanti bei sogni, tanti. E domani Pasqua gli avrebbe chiesto:<br />
ebbene, allora, cos’ha sognato lo sposo mio? E lui glieli<br />
avrebbe raccontati. E sarebbero stati bellissimi. Va bene così?<br />
Buonanotte.<br />
E se ne andava e, prima di andarsene – cosa che appariva<br />
eccezionale anche se veniva da Pasqua – gli teneva le mani<br />
lungamente sugli occhi, e poi, chinatasi, glieli baciava,<br />
perché?<br />
Adesso gli era davvero intorno e vicinissima, ora, la notte.<br />
La notte che ha tutti quegli occhi, quei suoni, quel respiro.<br />
Dall’entrata riusciva a scorgere, anche stando così disteso,<br />
una porzione di cielo. E gli pareva che questo avesse, rappresentati<br />
dalle stelle, tanti occhi, piccoli come quelli di certi insetti<br />
e fitti fitti ammiccanti. Oppure paragonava le stelle a<br />
scintille, le “gemme” del fuoco, con i loro crepitii; solo, non si<br />
spegnevano. Notava ancora come ve ne fossero azzurre, bianche,<br />
dorate e rossigne, chissà perché; e alcune piccolissime,<br />
155
quasi invisibili, altre più grandi e brillanti e, tutto intorno, fornite<br />
di raggi ineguali. E gli era dolce avere il cielo così vicino.<br />
Ma anche ai suoni prestava attenzione, benché più noti,<br />
coi quali la notte si esprime: versi di uccelli notturni, di volpi<br />
lontane, d’altri animali. E il canto dei galli dalle gole di<br />
bronzo. E tutti come introdotti, al venir della notte, dall’ampio<br />
vibrare delle lime dei grilli.<br />
E infine quell’alitare pacato dell’aria, che non è vento,<br />
certo, ma il fiato della notte, il suo respirare tranquillo.<br />
Perché paura? Lui non aveva paura. Era bello, anzi, starsene<br />
lì rannicchiato, e vedere e sentire questo. Lo aveva desiderato,<br />
no? Chissà perché Pasqua. Per suo conto non aveva<br />
neppure sonno: poteva restare sveglio anche tutta la notte,<br />
stando così.<br />
Si addormentò invece ben presto, benché dolcemente,<br />
cullato da sensazioni gradevoli. <strong>Il</strong> giaciglio sapeva di grano,<br />
di sole, di pane, profumi che gli erano familiari fin dalla nascita<br />
e nei quali perciò affondava sofficemente, soavemente.<br />
Quando si svegliò – ignaro affatto di ciò che l’avesse svegliato,<br />
e lento anzi a capacitarsi di dove fosse e perché – nel<br />
triangolo d’ingresso del baracchino non c’erano più, come<br />
prima, le stelle-occhi-d’-insetto; al loro posto era venuta a accamparsi,<br />
proprio all’incontro dei due montanti, una prodigiosa<br />
pupilla, ma sì, la luna.<br />
Lui stette un pezzo intontito a fissarla, proprio con l’idea<br />
assurda che fosse un occhio. E l’occhio fissava lui, senza un<br />
battito di palpebra. Al punto che lui, tuttora soggiogato, si<br />
sollevò a mezzo, facendo leva sui gomiti. E solo allora realizzò:<br />
è la luna.<br />
Si mise poi seduto, per liberare le mani, e col dorso di<br />
queste si stropicciava gli occhi, ancora senza chiedersi come<br />
mai fosse sveglio. <strong>Il</strong> sonno però era andato.<br />
Ora la notte, pur sempre percorsa da un indefinibile vibrare,<br />
era però come insordita da coltri pesanti. Improvviso<br />
cantò un gallo, nella corte qui vicino, e il silenzio fu squarciato<br />
come da un taglio di spada. Ma le coltri si ricomposero nella<br />
loro mollezza, al cessare del canto del gallo. <strong>Il</strong> quale perciò<br />
156<br />
restò come un interrogativo sospeso, privato di una risposta.<br />
Poco dopo gli parve che i cani da guardia, nell’altra corte, ringhiassero<br />
sordamente, e che qualcuno cercasse di chetarli. Possibile?<br />
Ed ecco udì dei passi, cauti, come di gente che si muovesse<br />
con circospezione lungo il bordo dell’aia, dalla parte<br />
della casa, abbastanza distante però dal punto in cui si trovava<br />
lui. E gli parve che si trattasse di più persone, almeno due. Ma<br />
possibile?<br />
Ancora passi, bisbigliamenti, zittii. Forse erano gli uomini<br />
che andavano a rifornire di profenda le bestie. Ma, in questo<br />
caso, perché così zitti e così guardinghi? E se fossero ladri?<br />
Se fossero rapinatori, sgarrettatori di bestiame, banditi?<br />
Fece per chiamare Jeremia; glielo aveva detto: chiamami.<br />
E stava giusto per farlo quando udì, assolutamente percettibile,<br />
e inconfondibile, una voce che diceva:<br />
«E non gridare, almeno. Non serve a niente, eccetto che<br />
a svegliare qualcuno».<br />
Di nuovo si stropicciava gli occhi, imbalordito ancora di<br />
più: era sveglio?<br />
Era la voce di Pasqua.<br />
Sapeva già da due giorni che sarebbe venuto stanotte.<br />
Aveva mandato “commissione”: si tenesse pronta così e così,<br />
indicata la notte, l’ora, “come d’accordo”. Col solito linguaggio<br />
a più sensi, studiato in modo che lo stesso messaggero,<br />
e altri che nel caso fossero stati presenti, non si mettessero<br />
malizia.<br />
Lei non aveva potuto – o voluto – contravvertirlo di<br />
non venire. Ma sapeva per certo, nel diverso divisamento<br />
nel quale frattanto era entrata, che in nessun modo avrebbe<br />
accettato l’“aiuto” che lui si professava disposto a fornirle.<br />
Le sue decisioni, ormai, erano definitivamente prese.<br />
Aveva alla fine risolto anche i problemi del come e del quando.<br />
E si era talmente fermata, fissata nel suo proposito, che<br />
già si sentiva, già era dell’altra schiera. “Viveva da morta”, le<br />
accadeva di dirsi.<br />
Ancora una volta, di fuori, niente: era quella di sempre.<br />
Pasqua fa’ questo e lo faceva, vieni e veniva, va’ e andava e<br />
157
insomma tutto quello che capitava e che bisognava facesse.<br />
E anche come “carattere”, come “naturale”, lo stesso. L’inclinazione,<br />
e anche il lungo esercizio, alla mitezza, facevano che<br />
lei continuasse a essere mite, premurosa, sollecita; insomma<br />
un pezzo di pane, come diceva Mariangela Siddi.<br />
Ma il mutamento era nel modo. Come essere in casa d’altri,<br />
ospite per pochi giorni: fai ciò che fai, mangi bevi dormi<br />
dai una mano d’aiuto, ma puoi mettere, lì, radici? Fra poco<br />
verrà il giorno della partenza e saluterai: addio, io vado, e quei<br />
giorni lì passati che vuoi che contino non saranno più nulla.<br />
E, invece, meritevole d’impegno quell’unica cosa. <strong>Il</strong> distacco,<br />
il che serve, il morire dell’interesse per una specie di<br />
mal di cuore dell’anima, qui non più. Qui dura e tagliente la<br />
volontà come punta di selce. Fosse o non fosse, la cosa, una<br />
fuga, un atto di rinunzia o di viltà o di paura, lei vi si disponeva<br />
non di meno con inflessibile volontà e disperato coraggio.<br />
Lei, poi: la mite, la dolce-ridente, l’impetuosa in amore.<br />
E la ragione era ancora quella: che, cioè, sotto apparenze<br />
di cedimento, la sua era in realtà ribellione. Si erano chiusi<br />
gli anelli di una catena intorno a lei e come tagliarli? Ma<br />
non ammetteva che vincessero quelli (chi?) che avevano lavorato<br />
a saldarli.<br />
In queste condizioni, come poteva secondare il progetto<br />
di Fieli Pòrcina, accettare il suo “aiuto”? Nulla contava più,<br />
ormai.<br />
Ciò non ostante non si curò, ricevuto il suo avviso, di<br />
mandare ambasciata che non venisse. E difatti, all’ora fissata,<br />
quella notte appunto, egli venne.<br />
Pasqua!, pensava Momo trasecolato. Che diavolo faceva<br />
lì? Con chi era? E perché?<br />
Lo assalì, immotivato quanto fulmineo, il pensiero che<br />
questo fosse da mettere in relazione con la pena misteriosa di<br />
cui Pasqua soffriva. O più che il pensiero un sentire istintivo,<br />
come di certi animali che avvertono il pericolo.<br />
Scartò il partito, non seppe bene il perché, di chiamare<br />
Jeremia, il quale del resto dormiva sodo, lo si sentiva russare.<br />
Al contrario, deciso che ebbe di andare lui stesso a vedere,<br />
mise ogni cura nel muoversi perché il bastante non si<br />
158<br />
svegliasse. Così se ne uscì quatto quatto dal baracchino e<br />
prese a avanzare carponi verso il bordo dell’aia. Attento a<br />
non far rumore, non far frusciare la paglia, non tossire, non<br />
mugolare.<br />
Non aveva bisogno di farsi coraggio: non provava paura.<br />
Troppo occupata la mente, o si dica l’essere, da quello stupore:<br />
Pasqua?<br />
Del resto ci si vedeva come di giorno. La luna inondava<br />
il cielo, e il mondo, del suo fulgore. Una chiarità quasi irreale.<br />
La luce diffusa, soffusa, quasi spruzzata sulle cose; e le cose<br />
rinate e ribattezzate in essa. Tali e quali, cioè, e nuove, a<br />
un tempo. La fronte della casa, i carri, gli attrezzi, il cappello<br />
di paglia di ’Ntoni appeso a un piolo, le connessure dei sassi<br />
nell’acciottolato e perfino l’erbetta, stenta, negl’interstizi. Poi<br />
la grande rotonda d’oro dell’aia, i covoni ancora da battere<br />
ammontonati sui bordi, e fuga di campi verso la china, e le<br />
colline là in fondo, segnate da ombre viola.<br />
Continuò a avanzare gattoni anche dopo che fu fuori<br />
dell’aia. Ma non sapeva dove dirigersi. Per quanto tendesse<br />
l’orecchio, più nulla udiva, che potesse guidarlo, né voci bisbigli<br />
o altro, nulla.<br />
Nell’incertezza fece mezzo giro dell’aia, e nulla. Si spinse<br />
fino al muretto verso la stalla, e nulla. Retrocedeva smarrito,<br />
incerto se gridare, chiamare: Pasqua!<br />
Alla terza bica si arrestò, irrigidendosi: gente piangeva.<br />
Era sicuro che da qualche parte, lì vicino, qualcuno piangeva.<br />
Oppure ansimava forte, non riusciva a capire bene.<br />
Si fece attentissimo, localizzò il punto dal quale i gemiti<br />
(i sospiri?) venivano e, strisciando il più cautamente possibile<br />
per evitare ogni rumore, avanzò piano piano, adagio adagio,<br />
per rendersi conto.<br />
Fieli Pòrcina non capiva. Realmente non si raccapezzava.<br />
Sfidava chiunque a dire se questa non era una cosa inconcepibile,<br />
idiota e senza senso. Ma come, non voleva. Ma<br />
se si era rimasti d’accordo non più di sei giorni prima. Dieci,<br />
undici, che importa, c’è proprio da stare a sottilizzare su<br />
questo, ora. Ma non si rendeva conto, lei, che era per il suo<br />
bene, che tutto, cosa credeva, sarebbe finito in un padrefiglio,<br />
e che ogni cosa, dopo, sarebbe stata diversa, lei liberata<br />
159
da un incubo, ritornata la serenità, la gioia, lo capiva questo?<br />
E si rendeva conto che tutto era pronto, contrattato, anche<br />
pagato, sì, e che a quell’ora la persona attendeva, erano poi<br />
anche cose di grande delicatezza, non è che si dice be’ se non<br />
è oggi è domani fate con comodo, e invece loro qui, come<br />
scemi a discutere, ma siamo matti? Non le importava? Ah!,<br />
non le importava, eh? E mi congratulo. <strong>Il</strong> suo onore era in<br />
gioco, il suo avvenire, si può dire la sua vita erano in gioco,<br />
ma a lei non importava. E si poteva verbigrazia sapere perché?<br />
Così! Interessante, già, così! Ma sacramento, era impazzita,<br />
alle volte? E poi, la voleva sapere una cosa? Se a lei no, a<br />
lui sì, importava, Cristo, sì gl’importava, anche per lei, anche<br />
nell’interesse di lei, giuraddio che lui non riusciva a… (Era<br />
poi stato a questo punto che lei l’aveva interrotto, e, per chetarlo,<br />
temendo che alzasse ancora di più la voce, lei stessa l’aveva<br />
alzata un’ottava di troppo nel pronunziare le parole<br />
ch’erano giunte alle orecchie di Momo).<br />
Ripigliava più a bassa voce, lui, ma sempre incalzante.<br />
Be’, gli voleva spiegare, allora, come intendeva risolvere la situazione?<br />
Come credeva di poter uscire da questo maledetto<br />
accidente? Sentiamo, lui l’ascoltava.<br />
Erano, sin qui, rimasti a ridosso di un muro della corte,<br />
in un breve trapezio d’ombra. (Lei aveva anche, in precedenza,<br />
dovuto zittire i cani, quei sordi ringhi che Momo, a sua<br />
volta, sì appunto).<br />
E era a questo punto che lei aveva detto, con una voce<br />
un po’ strana:<br />
«Vieni» aveva detto «spostiamoci da qui e ficchiamoci<br />
da qualche altra parte, per piacere, se dobbiamo discutere.<br />
Non possiamo restare qui, in piazza e sotto la luna. Vieni».<br />
Così avevano raggiunto lo spiazzo dove si alzavano, in figura<br />
di enormi cippi, le biche, e s’erano messi seduti in una<br />
specie di nicchia (scelta da lei) formata dall’accostamento di<br />
due di queste biche e tale che, per essere la sua concavità volta<br />
all’aperta campagna, avrebbe evitato che le loro voci si ripercuotessero<br />
da questa parte, verso la casa e l’aia.<br />
Una volta lì, lui aveva ripreso – con maggior forza anzi,<br />
e rudezza, siccome franco dal timore che potessero facilmente<br />
sentirlo – a tormentarla di domande per quel rifiuto<br />
160<br />
ostinato e irragionevole che lei opponeva, a chiederle in nome<br />
di Dio di dire (“sputar fuori”, il termine che lui usava)<br />
quale ne fosse il perché, insomma a scuoterla in tutti i modi<br />
nella speranza di riuscire ancora a convincerla.<br />
Ma lei divagava, svariava. Non si può dire che così. Invece<br />
di stare al punto, seguire il discorso, rispondere a tono, o<br />
lo fissava assorta senza dir nulla o, se interloquiva, usciva in<br />
battute impensate, da stare a guardarla a bocca aperta. «Di<br />
notte, lo sai, la tua voce è profonda profonda», per esempio.<br />
«Eh? Cosa?» lui «Ma che dici!». Lei, con naturalezza: «Sì, è<br />
vero, profonda». Oppure, passato un tempo, mentre lui si<br />
accalorava: «È con Stori che sei venuto?» il nome (l’astore) di<br />
uno dei suoi cavalli. «Stori?» lui, disorientato «Ma si può sapere<br />
che diavolo…». Era il cavallo che lui cavalcava il giorno<br />
del loro primo incontro sulla strada per Tula; a lui era passato<br />
totalmente dalla memoria. E a un tratto, poi, languida, tenera,<br />
da sembrare trasfigurata: «Io, Fieli, vorrei, vorrei…». Né si<br />
seppe per ora ciò che vorrebbe, né lui reagì, altro che domandandole:<br />
«Be’, che ti prende?».<br />
Non chiaro a lei stessa ciò che le prese. Né se, proponendo<br />
proprio lei d’intanarsi in quel cantuccio, già fosse in lei,<br />
oppure no, la coscienza e il desiderio di quello che ora stava<br />
avvenendo. Un congedo dal mondo? Un addio a tutto, e a<br />
lui principalmente, che tanto era stato amato? Lei era, adesso,<br />
come placata, serena. Come spensierata, perfino. Viaggio<br />
deciso, itinerario programmato, esaurita la fase dei preparativi<br />
febbrili. Non si attende se non il segnale della partenza e<br />
che siano tolti i barcarizzi e sciolte le gomene. E che il vento<br />
si alzi e dica: va’.<br />
Forse già per questo era scesa giù abbasso, udito che ebbe<br />
il richiamo di lui, fatto col verso che emette la volpe<br />
quando è affamata o in amore. Aveva, a quel richiamo, sentito<br />
agitarsi in lei sensazioni inattese, strane. Chi era costui<br />
che veniva di notte (era la prima volta, dacché si conoscevano)<br />
sotto la sua finestra, e la chiamava? Non era il suo innamorato?<br />
“Io dormo ma il mio cuore veglia. Ecco la voce del<br />
mio diletto che bussa: aprimi, sorella mia, amica mia, mia<br />
colomba, perfetta mia. Ché il mio capo è coperto di rugiada<br />
e i miei riccioli delle gocce della notte. Oh, mi son tolta già<br />
161
la veste, come la rimetterei? Mi sono lavata già i piedi, come<br />
tornerei a insudiciarli?”.<br />
Era scesa già con quest’animo, forse.<br />
E adesso, a riessere ancora con lui, lì rannicchiata, in<br />
quel nido, e l’odore del grano, e la luna (proprio da quella<br />
parte sbatteva la luna), il suo cuore non tenne, fu pazzo, cieco<br />
e pazzo.<br />
Come quei fringuelli ai quali bruciano gli occhi con aghi<br />
arroventati, poi li mettono per richiamo su un albero, dentro<br />
una gabbia, e loro cantano. È inverno e cantano, sono straziati,<br />
infelici e cantano, rovesciano in canto, ciechi come sono,<br />
la loro pena.<br />
Press’a poco così, lei, giunta a quel punto.<br />
La stessa singolarità di questo (il primo) incontro notturno.<br />
L’urto del suo sentire col sentire affatto diverso di lui, da<br />
provocare in lei una specie di lacerazione, di dolore, di muto<br />
grido: neanche adesso, dunque, comprendi? La pietà per se<br />
stessa, struggente. La pietà, anche, per lui, per un lui ricreato,<br />
redento, foggiato per assurdo sul richiamo di poco fa, quel<br />
verso lamentoso della volpe affamata (o in amore?). E mettici<br />
pure l’impulso a stordirsi, dimenticarsi, in quell’ora stregata.<br />
E infine qualcosa che non è niente, una gratuità, ed è tutto.<br />
Che vuoi da me, Fieli Pòrcina, che vuoi sapere? No, caro,<br />
non darti pensiero di questo, il tuo aiuto non serve, non<br />
ne ho bisogno, non ho più bisogno di nulla. Sta’ tranquillo,<br />
tutto è a posto, tutto è sul punto di essere consumato. Guarda:<br />
sono forse io in pena? Al contrario, mi vedi. Sono serena,<br />
perfino allegra, certo devo essere anche un po’ matta, un po’<br />
ubriaca, con questa luna, non te ne accorgi? Lo so: dovrei<br />
cacciarti, mandarti via, trattarti da quel birbante che altro<br />
non sei, Fieli Pòrcina, dolcezza mia. Ma non posso non voglio<br />
e neanche m’importa, questa è l’ultima volta, l’ultima,<br />
che ti guardo, ti tocco, amore mio.<br />
Lui stralunava. Non è che quelle parole lei le dicesse realmente,<br />
no. Ma la morbidezza e dolcezza che erano in lei e che<br />
da lei emanavano ne traducevano così il senso che a lui pareva<br />
davvero di intenderle. E stralunava. Era venuto qui per<br />
tutt’altro, non questo. E si trovava al contrario approntato<br />
questo, un incontro così, un convegno d’amore?<br />
162<br />
Fu lei, effettivamente, a un dato momento a attirarlo.<br />
Cosa che mai era accaduta prima. La prima volta. L’ultima<br />
volta. “Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, se incontrate il<br />
mio diletto, ditegli che io languisco d’amore”.<br />
E che cosa avrebbe fatto, lui, ora, lei sembrava sollecitarlo,<br />
Fieli Pòrcina cuore mio specchio d’oro, cosa farai.<br />
Guardava inebetito, vicinissimo che l’aveva, il viso di lei.<br />
Nel riflesso della luna, bianco come la luna. Che avrebbe fatto?<br />
Gli si comunicava, gli si contagiava, un po’ dell’insania<br />
che era in lei.<br />
Qualcosa che avrebbe ricordato tutta la vita. Sarebbero<br />
passati anni, decenni. Si sarebbe sposato, avrebbe avuto figli,<br />
soddisfazioni, contrarietà, il bene e il male che la vita può<br />
dare. Si sarebbero sovrapposte, nella successione dei giorni,<br />
immagini e sensazioni infinite. Ma mai avrebbe dimenticato,<br />
né mai più ritrovato, fra le proprie esperienze, esperienza<br />
così. Questo abbandono, questa dazione, derelizione totale.<br />
Questa donna che sperperava, che scialacquava l’amore.<br />
Questo fiume senz’argini né anse né foce. Questo corpo che<br />
bruciava (o era l’anima?) e queste mani, labbra, viso, che<br />
sprigionavano mai conosciute dolcezze, delicatezze, ardori,<br />
furori, tramortimenti, resurrezioni, acqua di fonte e metallo<br />
in fusione. “Ricopritemi di mele, seppellitemi di fiori, perché<br />
languisco d’amore”.<br />
Fin quando, in lei, la tensione durata troppo, l’ubriacatura<br />
e quel turbine, si scioglievano infine in pace, dapprima<br />
prendeva a piangere del tutto silenziosa, ancora sorridente,<br />
poi veramente rompeva in singhiozzi, che cercava vanamente<br />
di soffocare, intanto che lui (gli ansimi!) tuttora lottava<br />
col demone.<br />
E appunto questo udiva Momo, lì vicino, trasecolato:<br />
un pianto e un ansimare.<br />
Inchiodato a due metri da lì, sempre carponi, udiva<br />
questo. Pasqua, era, senza alcun dubbio, che singhiozzava.<br />
Tal quale quella notte, si disse subito. Mentre l’ansimo,<br />
con altrettanta certezza, era di uno che incrudeliva sopra di<br />
lei, quello per il quale lei s’era mutata, quello che la faceva<br />
soffrire.<br />
163
Avanzò per coprire quel poco spazio, con minor rumore<br />
che se fosse stato una mosca. Si torse, si snodò, a evitare che<br />
anche solo un fuscello di paglia crocchiasse. <strong>Il</strong> tempo che impiegò<br />
nel far questo non ha misura.<br />
Ma venne e vide. E non seppe mai capire, dopo, perché<br />
non si fosse messo a gridare.<br />
Lei e lui. Lì giacenti. Ancor stretti.<br />
La luna, come un bengala, gli faceva lume. Nitida ogni<br />
cosa fino a essere allucinante. Lei, di tre quarti, e sta bene, già<br />
lo sapeva. Ma lui! Chi immaginava: Raffieli Pòrcina! Anche<br />
lui voltato a mezzo e pigliato di sbieco dalla luna, ma perfettamente<br />
riconoscibile. E sconvolto, stravolto, procombente<br />
su lei riversa, lei che cercava di mansuefarlo, calmarlo, senza<br />
pur smettere di singhiozzare. E tutto il resto, ancora.<br />
La faccia del ragazzo come la faccia della luna: istupidita,<br />
ferma, impietrita.<br />
Né disse nulla né fece nulla, gridare, alzarsi. Rinculò e<br />
tornò.<br />
164<br />
XIII<br />
VENTO PER VENTILARE<br />
Trebbiato che si sia, resta ancora da ventilare. In un certo<br />
senso l’operazione più importante, togliere via la paglia e<br />
avere finalmente il grano, mondo, pulito, da farne pane. Ma<br />
per questo non basta il lavoro dell’uomo. Ci vuole il vento.<br />
E il vento non è in tuo potere.<br />
Non ricordi? “<strong>Il</strong> vento soffia dove vuole. Tu ne senti la<br />
voce, ma non sai da dove viene né dove va”. Ebbene.<br />
Sull’aia tutto è pronto. La grande rotonda del grano trebbiato,<br />
come appunto fosse una torta, già divisa per lungo in<br />
tante fette, separate da spazi vuoti nei quali andranno a posarsi<br />
la paglia e la pula. Pronte le funi, gli strascichi e le “mani<br />
di ferro” per la rimozione di paglia e pula da questi valli.<br />
Pronti i tridenti e le pale per quelli che spaleranno. E pronti<br />
naturalmente anche gli uomini, sia per l’operazione ora detta,<br />
sia per il lavoro vero e proprio del ventilare.<br />
L’unica cosa che manca è appunto quella essenziale, il<br />
vento. Che verrà, se verrà, quando più piaccia a Dio, per il<br />
momento altro non c’è da fare che rassegnarsi a aspettare.<br />
Si guarda negli orizzonti con cura. Verrà? Quando verrà?<br />
Si osservano le nuvole, i cirri sfioccati alti, i vapori marini.<br />
Se ne studia e se ne discute la forma, la direzione, la velocità<br />
di spostamento. Si dice: «Guardate là, là, che ve ne pare?».<br />
Per sentirsi magari rispondere: «Macché, puah, è aria-fabbrica»<br />
miraggio.<br />
Anche i colori del cielo possono dare indicazioni. Quelle<br />
caligini che si dispongono giro giro fra terra e cielo. Quello<br />
sbiancare incerto che appanna a volte l’intera calotta celeste.<br />
Ma soprattutto il cielo al tramonto, quelle favolose catastrofi<br />
cromatiche che precedono e seguono, d’estate più che mai,<br />
la scomparsa del sole.<br />
«Sarà vento di sole» dice uno, convinto. E speriamo che<br />
no, Dio ci assista. <strong>Il</strong> “vento di sole”, il levante – il quale è<br />
165
chiamato anche, come in antico, aestus – non è davvero quello<br />
che ci si augura quando s’ha da faticare l’intero giorno sotto<br />
l’a picco del sole. Sfianca, fa venire la “cagna”, a parte tutte<br />
le altre diavolerie, e poi dura almeno tre giorni e magari è capace<br />
di durare, sempre di tre in tre, perché questo è il suo ciclo,<br />
ventuno, ventisette giorni, chi può resistere?<br />
Ma si accerta l’indomani che non verrà. I panni da bucato<br />
di Mariangela Siddi, stesi sulle siepi di acetosella o appesi<br />
alle funi di fianco alla corte, giacciono immobili, inerti. Nessuna<br />
bava di vento li muove, non accusano un palpito. Camicie<br />
mutande brache sottane son spoglie morte, e le lenzuola,<br />
già belle stese sopra i cespugli, sono i relativi sudari.<br />
Allora cosa sarà, maestrale? Giuanni Cinus si pronunziava<br />
per questo, categorico, non avevano visto come caricava,<br />
da sera, il cielo?<br />
Invece niente, neppure quello.<br />
«E come va, compare Cinus, che una volta sapevate predire<br />
il tempo e profetare una quantità d’altre cose, perfino le<br />
quadre di grano che insaccherete, e adesso invece coi venti<br />
avete il presagio falloso e non ci azzeccate?».<br />
«Eh» diceva «che v’ho da dire? Sarà che il vento non è<br />
più quello, mah!».<br />
Ridevano, lo canzonavano anche un po’, bonariamente,<br />
mentre sedevano all’ombra, forzatamente in ozio, aspettando.<br />
Li divertiva quella battuta che il vento non era più quello.<br />
Dopo tre giorni ancora di piatta calma, il vento infine si<br />
decise a venire.<br />
Sornione, venne. Dapprima furono semplici brividi sulla<br />
superficie dell’acqua, nell’abbeveratoio delle bestie, e tremori<br />
impercettibili delle foglie degli eucaliptus. Ma cos’era? Un’idea.<br />
Poi cadde. E difatti subito l’aria si rimise a vibrare, da tanto<br />
che era rovente. Poi, a un tratto, i panni di Mariangela Siddi,<br />
quei morti dimenticati, sentirono formicolare gli spiriti, brache<br />
e mutande accennarono sgambettamenti, le sottane scampanarono,<br />
effimeri cuori d’aria palpitarono nei petti rigonfi<br />
delle camicie. E anche le lenzuola-sudari si scossero moderatamente<br />
sulle punte dell’acetosella.<br />
Finché, all’improvviso, proprio queste lenzuola sbatterono<br />
166<br />
le ali e fuggirono; e le inseguivano Pasqua Mariangela e quella<br />
Crisanta, con piccole grida. I restanti panni invece, assicurati<br />
alle funi, si limitarono a scuotersi e torcersi, ma così scompostamente<br />
che sembravano disperarsi, o sbellicarsi dalle risate.<br />
E fu il momento che convenne mobilitarsi e cominciare<br />
a ventilare.<br />
Si alza il tridente e si getta la forchettata per aria, all’altezza<br />
della cintola poco più poco meno. <strong>Il</strong> compito dell’uomo<br />
è questo, il resto lo fa il vento. <strong>Il</strong> quale s’impadronisce di<br />
quella manciata di paglia, la solleva, la scrolla dei chicchi<br />
che al caso contiene, ma in genere è solo paglia, e la trasporta<br />
tre passi più in là, nel vallo che l’attende. I chicchi, se ci<br />
sono, ricadono in basso trattenuti dal loro peso.<br />
Gli uomini che fanno questo sono più d’uno, sono gli<br />
addetti alla prima passata, liberano l’“anguilla”, come è detta<br />
ciascuna fetta in cui è stata partita l’aia, del tritume che viene<br />
su in fiore in fiore; per questo sono armati di tridente.<br />
Dietro di quelli, per il lavoro di fino, vengono gli uomini<br />
armati di pala. I quali, non più forchettate, ma cucchiaiate,<br />
lanciano in aria, a prova, e più che altro della pula che il grano<br />
viene liberato con questa operazione. E fitti fitti, infatti,<br />
stavolta, ritonfano in giù i chicchi, a ogni mandata, con un<br />
rumore morbido, mentre se ne stacca leggero un volo di corpuscoli<br />
d’oro.<br />
Ed è in questo che consiste il ventilare. Separare il grano<br />
dalla paglia, il greve dal leggero, l’utile dall’inutile, quello che<br />
sarà pane da quello che sarà strame.<br />
E a questa incombenza il vento si prestava docile, non<br />
troppo impetuoso, non incostante, perfino abbastanza fresco:<br />
libeccio. Lavoravano tridenti e pale, lavoravano gli strascichi,<br />
tirati da buoi a coppie, a liberare i valli. Ma già a metà del secondo<br />
giorno il vento ammosciò e cessò, può capitare, è capriccioso.<br />
E fermi tutti, tridenti pale e il resto, che si può fare?<br />
Ripigliò l’indomani, ma era giusto “vento di sole”,<br />
quello temuto, bisognò rifare le “anguille” secondo l’allineamento<br />
imposto da lui, è necessario che il vento spiri di<br />
costa, ci volle un bel po’ prima di ridar mano a ventilare,<br />
gli uomini imprecavano.<br />
167
E ringraziare che tenne (la regola del tre in tre!), se no<br />
questo gioco sai quante volte può capitare che s’abbia a fare?<br />
E anche può capitare che cresca a tal punto che si debba infrenarlo,<br />
bisogna che si tendano teli di sacco dalla parte del<br />
vento a schermo dei ventilanti, pensa se è un lavorare.<br />
Qui no, quanto a tenere, tenne da galantuomo. Ma per<br />
il resto, che Dio lo fulmini, quant’è di sollievo a chi è intento<br />
a tribolare così sull’aia, con la frescura che porta. Spirava da<br />
est, caldo, fiaccante. Recava con sé, nell’altissimo, voli di nuvolette<br />
bianchicce, innumerevoli simili a piume; come se, per<br />
dire, spennassero in cielo oche, per un banchetto di quelli, e<br />
le piume, dalle cucine, le sbattessero giù, l’immondezzaio che<br />
è il mondo. E questa condizione del cielo, quei vapori che<br />
non paravano, rifrangevano anzi come tanti piccoli specchi i<br />
raggi del sole, crescevano l’afa e il patire degli uomini.<br />
Comunque, passa e ripassa, dallo sbattere delle pale il<br />
grano a poco a poco veniva fuori: nudo, rossiccio, gremito.<br />
Sembrava ghiaia, tritume di porfido. Meravigliava che per<br />
questo, un breccino di questa fatta, fosse stato tanto sudare<br />
sperare e aspettare. E avessero, per questo, lavorato non solo<br />
gli uomini, ma le forze del suolo, le piogge, i venti, insomma<br />
dato mano e cielo e terra.<br />
Tanto più che sui bordi dell’aia, dove veniva ammassata,<br />
la paglia formava ormai delle alte pile, ravvicinate e numerose.<br />
Ben altra vista. Erano volumi piramidali fulgenti di oro<br />
massello; creavano, per quanto effimere, miraggi faraonici.<br />
L’ultimo atto fu quando il grano fu passato al crivello.<br />
Si fa per mondarlo delle residue impurità. Si piantano<br />
nel grano stesso tanti bastoni forcuti, si appendono a un<br />
dente di questi altrettanti crivelli per modo che restino sbiechi,<br />
si versa dentro i crivelli il grano e si setaccia, svuotando<br />
via via il crivello della mondiglia. È l’ultima ripulitura.<br />
E fatto anche questo il grano venne ammassato in un<br />
monte solo.<br />
E allora finalmente si vide.<br />
Un cono enorme alto franoso, sul quale qualcuno – e chi,<br />
se non lui? Ma Giuanni Cinus, incarnazione di Dio! – saliva a<br />
fatica a piantare là in cima, è l’usanza, un bidente. Non un<br />
168<br />
tridente, un bidente. Un simbolo. Contro l’invidia la jettatura<br />
il malocchio, tie’ queste corna. Che preservino il grano e diano<br />
a Giuanni Cinus, a scorno di chi gli vuol male, il modo di<br />
goderne in pace e in salute e così sia.<br />
E gli dicevano adesso per stuzzicarlo:<br />
«Quante quadre avete detto che saranno, compare Cinus?».<br />
Sicuro, tronfio, sbruffone, lui sparava:<br />
«Quattromilaottocentootto!».<br />
Quelli:<br />
«Anche le otto, lasciamo?».<br />
Lui:<br />
«Anche le otto».<br />
Era pronto su questa cifra a scommettere? Tutto quello<br />
che volevano, era pronto. Che margine di errore era disposto<br />
a concedere? Trenta, quaranta quadre, cinquanta al massimo.<br />
Su quattromilaottocento? Su quattromilaottocentootto,<br />
per essere precisi, bestie che erano. E la posta, qual era la<br />
posta? La fissassero loro, minchioni; chi è che lanciava la sfida?<br />
Ma lui come lui, cos’è ch’era disposto a dare, caso che<br />
perdesse?<br />
La risposta era tracotante, orgogliosa, da eroe:<br />
«Questo!» e additava il gran mucchio del grano, l’intero<br />
<strong>raccolto</strong>.<br />
«Tutto?» osservavano increduli.<br />
«Tutto» replicava infilando i pollici negli spacchi ascellari<br />
del giustacuore e tamburellando con le altre dita sul<br />
petto; e poi chiedeva: «E voi che offrite?».<br />
Divertiti si arrendevano a tanta spavalderia:<br />
«Canzoni» dicevano.<br />
Proprio nei giorni che ventilavano, Momo si sentì male.<br />
Non mangiava non beveva non si muoveva dal suo saccone.<br />
Tre giorni durò così. <strong>Il</strong> quarto fu assalito da convulsioni.<br />
Rabbrividiva e tremava tutto, si scuoteva, sbavava. A un certo<br />
punto si irrigidì, gli occhi gli si rovesciarono e cominciò a<br />
stridere i denti che spaventava. Un’altra crisi, insomma.<br />
Gli stavano intorno in molti, le donne principalmente,dato<br />
che si temeva potesse da un momento all’altro dare<br />
169
in furori. E discutevano sulle possibili cause di questo nuovo<br />
attacco del male di Momo.<br />
«È il vento» diceva più d’uno. «Questo vento scomunicato!».<br />
Era l’opinione che incontrava più credito. Certo, il bambino<br />
era “predisposto”, riconoscevano. Poverino, bastava vederlo.<br />
Ma a eccitare il male che aveva dentro, che altro poteva<br />
essere stato? Non c’era dubbio, il levante, il vento aestus.<br />
E giù tutta la sfilza dei mali di varia sorte che questo vento<br />
porta con sé. La secchezza, la fiacchezza, la “voglia di niente”, i<br />
tagli sulle labbra, il pus nelle palpebre dei bambini, le caldane,<br />
le piaghe. E poi le inquietudini, le “brutte voglie”, le stranezze<br />
e le bizzarrie, le “lune”, i “sogni mali”. Cosa ancora? La “temperie”<br />
della terzana, i deliri, le convulsioni, come appunto, poco<br />
più poco meno, erano queste di Momo. Dunque vedi.<br />
E concludevano che, posto questo, cessato che fosse il<br />
vento, cesserebbe anche la crisi.<br />
Fu e non fu così. Quello stesso giorno che ebbe l’attacco<br />
– e tutt’altro che smesso il vento – il ragazzo parve riprendersi.<br />
Le membra gli si sciolsero, le mascelle lo stesso, riaperse gli<br />
occhi, provò perfino a levarsi a mezzo sul letto. E fissava muto<br />
i presenti uno per uno, quanti erano lì.<br />
Ma com’ebbe veduto qualcosa, qualcuno, ridette in smanie,<br />
ricadde riverso, il male lo riassalì più violento e tormentoso<br />
che mai. Sembrava che il demonio lo possedesse, urlava,<br />
si dimenava, e ci vollero buone braccia per trattenerlo.<br />
Poi, ancora una volta, la tensione si allentò, ma, più che<br />
placarsi, cadde in un torpore strano, profondo, ogni tanto<br />
interrotto da tremiti di breve durata, come fosse travagliato<br />
da incubi o sogni angosciosi.<br />
E cessò anche questo del tutto, quando cessò, effettivamente,<br />
anche il vento.<br />
170<br />
XIV<br />
LE QUADRE COLME<br />
Attingevano con le pale dal mucchio e riempivano le quadre.<br />
Poi rovesciavano il contenuto di queste nei sacchi, gridandone<br />
via via il numero da un gruppo all’altro. Poi, chiusa<br />
e legata l’imboccatura, caricavano i sacchi sulle carriole e li<br />
portavano nel magazzino.<br />
In questo consistono la misurazione e l’“inserro”, due<br />
operazioni che vanno avanti di pari passo (si conta e si immagazzina)<br />
e che sono come il sigillo di tutto il lavoro – di<br />
tutto il “travaglio”, anzi, ché questo è il termine, – durato così<br />
a lungo da “capodanno” in poi.<br />
Lavoravano distribuiti in tre gruppi, attorno all’enorme<br />
cono. <strong>Il</strong> quale, scalzato alla base da quell’assiduo lavoro di<br />
scavo delle pale, e di più che franava con facilità lungo i fianchi,<br />
un po’ alla volta si abbassava e rimpiccioliva.<br />
Da parte sua Giuanni Cinus, pur limitandosi a sorvegliare,<br />
non è che, anche in questa circostanza, e quando mai, si<br />
smentisse. Si muoveva di continuo da un gruppo all’altro e<br />
dall’aia al magazzino, impartiva disposizioni, comandava che<br />
si sbrigassero, faceva la parte del batti-fianco. Sapete quell’aculeo<br />
a due punte che i maestri di carri incastrano a metà del timone,<br />
in modo che i buoi vi battano di necessità il fianco e,<br />
sentendone la carezza, accelerino l’andatura: è quello il battifianco.<br />
«Avanti, sveglia, morti di sonno, arriveremo a Natale,<br />
di questo passo!». E, se del caso, non esitava a farsi lui stesso<br />
sotto, “per far vedere come si fa”. E bisognava allora realmente<br />
vederlo, basso tarchiato e un po’ strambato che era, afferrare<br />
con una mano sola la quadra colma, che mica è uno scherzo,<br />
e alzarla pari pari fino all’imboccatura del sacco come fosse un<br />
boccale di vino, che rimanevano gli stessi giovani a bocca<br />
aperta. «Eh, che ne dite, visto come si fa?».<br />
Ma faceva questo per posa, per valentia, per sfogo della<br />
propria eccitazione, non per necessità. Gli uomini infatti<br />
171
lavoravano con lena e speditamente, senza bisogno di stimoli.<br />
Non vedevano essi stessi l’ora che fosse finita, era l’ultimo<br />
giorno, questo, l’ultimo atto. Poi, se Dio vuole, a parte la paga<br />
e lo speciale premio in natura – che avevano ragione di<br />
credere sarebbe stato generoso, con un <strong>raccolto</strong> così abbondante<br />
– li aspettava la fatica ben altrimenti gradevole di mangiare<br />
e di bere, già si stavano approntando sotto il pergolato i<br />
tavoli di fortuna per il banchetto e già cominciava a sentirsi<br />
odore di arrosto, era questo che li spronava assai più che le<br />
sparate di Giuanni Cinus. Glielo dicevano del resto, il tema<br />
del banchetto offriva loro lo spunto per continue battute,<br />
mentre insaccavano. Non avesse timore che loro già si sbrigavano;<br />
se dopo, come speravano, c’era da lavorare di mascelle<br />
quanto ora di braccia, altro che se si sbrigavano, non vedeva<br />
che già avevano la bava alla bocca? E ben a ragione d’altronde;<br />
con un’annata così, con un <strong>raccolto</strong> così, il giorno dell’inserro<br />
aveva da essere in tutti i sensi un giorno da ricordare.<br />
<strong>Il</strong> numero delle quadre cresceva in fretta, si toccavano le<br />
mille quadre, poi le millecento, duecento, trecento e così via.<br />
Si arrivava alle duemila, si doppiava questa cifra, si andava oltre.<br />
<strong>Il</strong> mucchio del grano, alto in principio come una casa,<br />
scemava visibilmente, anche se non accennava a esaurirsi, così<br />
si toccava la quota tremila, uno dei bastanti gridava: «Quarantasette!»,<br />
e l’altro faceva eco, per controllo: «Quarantasette!», e<br />
intendevano tremiladuecentoquarantasette, la pertica sulla<br />
quale, per ogni dieci quadre, s’incideva una tacca, era tutta già<br />
picchiettata in lungo e in tondo di questi tagli.<br />
C’è una parola, nella lingua di là, che significa stupore,<br />
ma che esprime, di più, un senso come di sbigottimento e<br />
perfino di allarme; ed è ispantu. Ebbene di questo tipo era la<br />
meraviglia che le proporzioni del <strong>raccolto</strong> suscitavano negli<br />
uomini, e in Giuanni Cinus non meno, via via che la conta<br />
le traduceva nella secca inoppugnabile verità delle cifre.<br />
Si temette a un certo punto che il grano potesse non starci,<br />
addirittura, nel magazzino. Uscivano stontonati i bastanti<br />
che attendevano allo stivaggio e dicevano a Giuanni Cinus:<br />
«Basta grano, padrone, non cape più» e doveva rassicurarli,<br />
dopo avere verificato di persona, che no, stessero tranquilli,<br />
“capiva” ancora, hai voglia.<br />
172<br />
Frattanto il numero delle quadre cresceva sempre, già si<br />
avvicinava in maniera incredibile – fino a corrispondere in<br />
pieno, magari? – alla stima che Giuanni Cinus ne aveva fatta,<br />
come per bravata, quando ancora si ventilava.<br />
<strong>Il</strong> mucchio come tale, adesso, era ormai demolito, si lavorava<br />
sui rimasugli.<br />
«Novanta!» annunziò uno di quelli della conta. E il compagno<br />
corrispose: «Novanta!». Sembrava belassero.<br />
Significava quattromilasettecentonovanta quadre, ne mancavano<br />
cioè soltanto diciotto, perché la “profezia” di Giuanni<br />
Cinus si rivelasse precisa all’unghia.<br />
E non era finita. Spalarono ancora e ne vennero altre undici<br />
quadre. Si saliva a quattromilaottocentouno.<br />
«Spazzate fino all’ultimo, che Dio vi danni» diceva<br />
Giuanni Cinus additando quel che restava «che anche quello<br />
viene buono».<br />
Spazzavano infatti i bastanti le pietre dell’aia, con scope<br />
di bruga, ricavandone ancora un mucchietto che spingevano<br />
verso quelli della conta.<br />
«Ce ne sarà per un due quadre» dicevano. Ma uno di<br />
quelli della conta:<br />
«Non vorrete mica metterci anche la mondiglia, adesso,<br />
compare Cinus» disse «basta per vincere».<br />
Lui s’infuriò:<br />
«Mondiglia?» disse. «Questa è mondiglia? E questa? E<br />
questa?». E ne pigliava dal piccolo mucchio manciate e le<br />
mostrava una dopo l’altra all’incredulo come volesse accusarlo,<br />
prove alla mano, di bestemmia e d’insulto. E disse, nel<br />
momentaneo accesso d’ira, parole che suonarono stranamente<br />
ispirate e solenni, com’erano vibranti: «È grano» disse «è<br />
sangue mio!».<br />
Al punto che l’altro si affrettava a chetarlo: «Lo so, lo so,<br />
compare Cinus, non avete bisogno di ricorrere a trucchi,<br />
voi, con quello che vedono i nostri occhi».<br />
Una quadra venne piena e fu regolarmente contata.<br />
L’altra, l’ultima, non risultò proprio piena ma fu contata lo<br />
stesso.<br />
«Quattromilaottocentotré!» dissero quasi in coro.<br />
Una cifra mai toccata, in nessuna annata, come <strong>raccolto</strong><br />
173
di un solo podere, a Serri. E, di più, la stima azzeccata quasi<br />
in pieno, cosa possono essere cinque quadre in uno sterminio<br />
così?<br />
«Ebbene, e allora» disse calmo Giuanni Cinus «me la<br />
date per vinta, o no, la scommessa? E adesso le canterete le<br />
vostre canzoni?».<br />
Sbollita l’ira, era tornato ridente.<br />
Ma non poteva intanto, un fatto così, non rimescolargli<br />
qualcosa dentro. Qualcosa di lento e di restio a mostrarsi di<br />
fuori, però presente e premente. Come quando uno si mette<br />
a incidere con un coltello la scorza di un vecchio albero, che<br />
non è che dalla ferita subito scappi la lacrima, ma questo non<br />
vuol dire che dentro, sotto la scorza, non ci sia linfa. E d’altra<br />
parte questo fatto, nel caso suo, incideva ben profondo, il<br />
coltello penetrava ben più in giù della vecchia dura scorza. <strong>Il</strong><br />
fatto, dico, che questo <strong>raccolto</strong>, così tenacemente perseguito,<br />
fosse ormai cosa certa, chiuso e legato nei sacchi e stivato nel<br />
magazzino. Lo strano sogno novembrino avverato. L’incerta<br />
visione di quel mattino, ormai così remota, avverata. L’essere<br />
lui insomma arrivato a conoscere questo giorno. Perché questo<br />
sì – ecco ciò che sentiva – era il “suo” giorno. Da agosto<br />
in qua, ogni giorno che era passato, era passato per questo.<br />
Con oggi qualcosa finiva e qualcosa incominciava, sentiva<br />
che era così. E neanche si domandava che cosa; gli bastava<br />
fermarsi a questo: che era così.<br />
Frattanto, lì tutt’intorno, gli uomini lo festeggiavano, lo<br />
complimentavano, gli dicevano buon pro’, a consumare quest’abbondanza<br />
in salute, che ben se lo meritava. E ancora assicuravano,<br />
per la millesima volta, che raccolti così non se<br />
n’erano mai visti a Serri, neanche a ricordo dei vecchi, e che<br />
lui certamente doveva averci qualche magia, beato lui, lo<br />
provava anche il fatto che aveva azzeccato così di netto (cinque<br />
quadre? puah, uno starnuto) la stima, cose mai viste.<br />
«Eh, ma non andatelo a dire in giro» lui celiava «che ci<br />
ho la magia!». Ed era per sopraffare, pigliandola in ridere,<br />
quel qualcosa di molle e denso che gli si muoveva di dentro,<br />
e gonfiava.<br />
Quanto all’ultima quadra, ordinò che non ne versassero<br />
il contenuto nel sacco. La lasciassero lì, così com’era, sull’aia.<br />
174<br />
«Perché mai?» gli chiedevano.<br />
«Niente, so io, lasciate fare» rispondeva enigmatico.<br />
Insieme con le altre donne e qualcuno dei bastanti Pasqua<br />
si affaccendava a apparecchiare per il banchetto.<br />
Si muoveva in quell’aria di festa, in quell’allegria rumorosa<br />
che le era intorno, come il moscone incappato dentro la stanza,<br />
il quale dà di continuo sul vetro, vede la luce là fuori, crede<br />
che tutto sia aria, si prova a passare, ma no, c’è quell’ostacolo<br />
invisibile e duro, che sbarra il volo; e tutto così resta di là, lo<br />
spazio, il cielo, i colori, la libertà.<br />
Lei tale. <strong>Il</strong> cuore cocciutamente sbatteva sul vetro come<br />
il moscone perché perché.<br />
Allorché si era posta, decisa finalmente a risolverli, i problemi<br />
che si son detti, del come e del quando, a un tratto<br />
l’idea le era venuta, dopo tante incertezze, alla mente come<br />
la cosa più ovvia: ma sì, guarda, come mai non ci aveva pensato<br />
prima. E, con fermezza, quasi con violenza, aveva stabilito:<br />
“Sarà il giorno dell’inserro!”.<br />
Questo giorno era venuto, ed era oggi; e la “cosa”, dunque,<br />
doveva succedere oggi, stasera stessa, fra poche ore.<br />
Era uso che quel giorno, finiti il banchetto e le feste, tutti<br />
coloro che in qualche modo avevano avuto parte, comprese<br />
le spigolatrici, nei lavori del mietere e del trebbiare (ma più<br />
che altro erano i giovani; gli anziani normalmente se ne esentavano)<br />
sciamassero verso il mare. Là si celebrava quello strano<br />
rito che era il bagno collettivo notturno; un lavacro nel<br />
mare che, tipico ed esclusivo di questa occasione, aveva anch’esso<br />
origini remotissime e, forse, almeno ai primordi, natura<br />
per l’appunto rituale.<br />
L’uso voleva che si partisse sul vespro, in modo che il<br />
bagno potesse farsi al primo calare della notte. E meglio se<br />
in cielo, in quel momento, splendeva la luna, meglio poi<br />
soprattutto se era notte di plenilunio; perché la luna, che<br />
presiede al mistero delle nascite e delle germinazioni, sarebbe<br />
stata di buon auspicio per la prossima annata.<br />
Ancora voleva l’uso che tutti quanti si entrasse in acqua<br />
del tutto nudi, sia maschi sia femmine – separati s’intende in<br />
175
due gruppi distinti – e che in tal modo ci si mondasse di tutte<br />
le impurità – la polvere che dà prurigine, il sudore, il fortore<br />
– connesse alla fatica ultima del cogliere il frutto annuale<br />
e ricorrente della terra. Dopo di che, risciacquati ma, si<br />
vuol dire, con un senso di “purgazione” e rinnovo che non<br />
era soltanto del corpo, si riprendeva intonando canti la via<br />
del ritorno.<br />
Questo dunque, voleva l’uso. Ed è da questo che Pasqua<br />
aveva tratto ispirazione per il suo piano. Attendere l’ora (il<br />
quando) che i giovani e le ragazze – e lei con queste – fossero<br />
entrati in mare e, per suo conto, avanzare nell’acqua nera<br />
fino al nero perfetto (il come).<br />
Se, fra i tanti modi presi in esame, analizzati e poi scartati,<br />
aveva finito per scegliere questo, due soprattutto erano<br />
stati i motivi. <strong>Il</strong> primo, più dichiarato, era questo: che, per<br />
questa via, così pensava, lei sarebbe arrivata al traguardo senza<br />
violenze, senza infierire su sé, ma anzi in maniera talmente<br />
dolce, talmente insensibile, che lei “neppure se ne sarebbe<br />
accorta”. Aveva paura, già lo si è visto, non pure dell’incontro,<br />
ma del modo di questo incontro. E una soluzione così,<br />
le toglieva questa paura. Quanto all’altro motivo, esso era<br />
più vago benché avvertito pur sempre: e consisteva nel desiderio<br />
di giungere all’appuntamento, chissà, in uno stato di<br />
purificazione e redenzione: come se l’acqua del mare, cioè,<br />
tutto lavasse via, e colpe, debolezze, abbandoni, sozzure, tutto,<br />
fossero anch’essi sciacquati e cancellati, prima che “essa”,<br />
l’ignota, venisse e le dicesse, sottovoce: andiamo.<br />
Aveva già preso parte un’altra volta, quand’era ancora in<br />
Baronia, a un bagno di mare così, e il ricordo che ne serbava<br />
le era servito – nei giorni che seguirono la sua decisione – a<br />
figurarsi le mille volte in tutti i particolari quello che sarebbe<br />
avvenuto. “Per abituare il cuore” si diceva.<br />
La visione del mare, anzitutto. Le onde provenienti dal<br />
largo sotto la luna. Non alte arruffate e rabbiose, ma lunghe,<br />
continue, e che si frangevano sulla sabbia dolcemente (così<br />
ricordava dell’altra volta, così sarebbe stato, secondo lei, anche<br />
stavolta). Le terminazioni di esse, sinuose, curve come<br />
labbra, avanzanti all’improvviso quasi a ghermirti, per gioco,<br />
176<br />
i piedi. I risvolti di schiuma, ampi e arabescati, come ricami<br />
di lenzuola da sposa. <strong>Il</strong> suono che le onde facevano, una specie<br />
di incessante innumerevole baciamento, e insieme di invito:<br />
vieni, vieni.<br />
Questo è il quadro. E poi lei. Lei che si spoglia con le<br />
compagne sulla battigia. Lei che, lasciate sulla spiaggia le vesti<br />
(e con esse ogni cosa: legami desideri rimpianti rimorsi,<br />
tutto), nuda e bianca si avvia verso il mare. Lei che, prima di<br />
entrare in acqua, chinata giù, tuffa la destra nel mare, come<br />
in una enorme sterminata acquasantiera, e si segna, così si fa.<br />
Lei infine che avanza, ancora con le compagne, nell’acqua,<br />
piano piano: l’acqua al polpaccio, al ginocchio, alla coscia, all’addome<br />
(i brividi anche, riusciva a rappresentarsi, in questo<br />
sforzo di “abituare il cuore”), e poi più su, alle anche, al seno,<br />
infine alla gola, che era solitamente – per gente come quella,<br />
del tutto inesperta del nuoto – il limite da non oltrepassare.<br />
E lì si sarebbero infatti fermate le compagne, con piccoli gridi,<br />
bbrrr!, e sbuffi e risa, principiando a dondolare nell’acqua<br />
nera e argentea, qua e là fosforescente, i loro corpi bianchi<br />
lattiginosi, che la vaga trasparenza avrebbe come slungati e<br />
resi flessuosi, intanto che i maschi, nell’altro settore, ben più<br />
strepitando fra loro e sguazzando e facendo dell’acqua un’immensa<br />
gazosa di schiuma, avrebbero fatto sentire, appunto<br />
all’indirizzo delle ragazze, i loro bramiti di maschi.<br />
Lei, no, invece, non si sarebbe fermata. Avrebbe continuato<br />
a avanzare. Non proprio nuotando, ché non era capace,<br />
ma galleggiando in qualche modo, muovendo le braccia,<br />
le gambe, bastava questo. E avrebbe cercato di portarsi (ancora<br />
il ricordo dell’altra volta) in quella via luminosa, larga,<br />
incredibile, che stampa la luna sul mare. L’avrebbe a ogni costo<br />
raggiunta, doveva, voleva. Perché era lì, solo lì, in quella<br />
via spettacolosa che partiva diritta e lucente perdendosi all’infinito,<br />
che si sarebbe lasciata infine afferrare.<br />
Afferrare? Non afferrare: abbracciare. Chiudere gli occhi.<br />
Concedersi: eccomi, prendimi! Come con “lui”, l’ultima volta.<br />
Perché così, certo, sarebbe stato. Una specie di amore. Un<br />
venir catturata da braccia di innamorato, dolcemente, amorosamente.<br />
E sentire lo stesso smemoramento, stordimento,<br />
ubriacamento magari, che aveva provato con “lui” l’ultima,<br />
177
unica volta. E tutto questo in quella grande strada di luna.<br />
Ricordare che così il primo come l’ultimo incontro avevano<br />
avuto per testimone la luna. E ricordare per ultime le prime<br />
parole: “Pasqua, sorella mia, sei diventata uno splendore”.<br />
Di questo, per giorni, nutriti i pensieri. Ma adesso era<br />
qui, il giorno designato era venuto e, malgrado l’ostinato allenamento,<br />
non poteva del tutto dire, se non mentendo, che il<br />
cuore si era “abituato”.<br />
Tante cose che si affollavano, e tutte insieme, e troppo in<br />
fretta, alla mente. E questo suo chiudersi nel silenzio. Tutti<br />
questi che ora le giravano intorno, così allegri, così vocianti,<br />
cosa sapevano? Sua madre stessa, suo padre, e non parliamo<br />
di ’Ntoni e di Momo, cosa sapevano? E “lui” del resto, lui<br />
soprattutto, cosa, me lo sai dire?<br />
Dall’eccitata spensierata animazione che le era intorno<br />
era portata, per contrasto, a fingersi la scena del “dopo”. I carri<br />
che tornavano, silenziosi, a notte fatta. Pasqua, Pasqua, sei<br />
tu? – la voce della madre. – Come mai così tardi, cos’è successo?<br />
E la notizia: Pasqua non c’è. Non c’è? Cosa dite? E allora<br />
i particolari, così e così, ma noi vi assicuriamo, Mariangela<br />
Siddi, che noi non c’entriamo, non sapevamo. E allora<br />
l’urlo, il trambusto, ma siete pazzi? Ma come è possibile? Ohi<br />
ohi, sì sì, eppure.<br />
Pianti, disperazione, tutta la casa a soqquadro: così si sarebbe<br />
conclusa questa giornata di allegrezza, la grande giornata<br />
di Giuanni Cinus povero vecchio. Ma avrebbero capito?<br />
No, niente, come potevano. Avrebbero detto, chissà, che<br />
era pazza, oppure una disgrazia, ah poverina, ah figlia d’oro,<br />
ecco il <strong>raccolto</strong>, ecco la bella annata!<br />
E lui, poi, lui, allorché fosse stato (e come?, e quando?)<br />
informato, che cosa avrebbe detto? Avrebbe capito, avrebbe<br />
intuito il vero, almeno lui?<br />
I pensieri le turbinavano dentro la testa come foglie in un<br />
risucchio di vento. Ruotando, alzandosi o precipitando, sbattendosi<br />
fra di loro, scompaginandosi. Ma ritornante, pungente,<br />
struggente, questo dominava su tutti: che non sapessero.<br />
Lei se ne andava, spariva, addio; e loro niente, nessuno niente,<br />
“come che mai”. La tentazione che aveva avuto, l’ultima<br />
178<br />
volta con lui, di rompere finalmente questo muro di silenzio,<br />
almeno con lui. E dirgli: eccola, anima mia, la verità. O gridargli,<br />
quasi con furore, quando anche lui si era acceso: sì sì,<br />
prendimi, godimi, sfogati dunque, perché tra poco non potrai<br />
più. E invece no, muta perfino allora, condannata al silenzio:<br />
perché?<br />
«Ma Pasqua, che fai, non ti muovi, e le tazze?» la richiamava<br />
la madre.<br />
Oh sì, le tazze, che scema, le tazze!<br />
E non passavano che pochi minuti, e daccapo:<br />
«Pasqua, figlia dell’anima, che ti succede, stai lì stranita.<br />
Su dunque, e i pani? Non li metti sui tavoli?».<br />
Si scuoteva: i pani? Oh sì, mi’ che sbadata, li aveva in<br />
mano! Ora li metteva, sì certo, subito, ma’, Vostra Mercé mi<br />
perdoni.<br />
E li metteva, infatti; e, nel metterli – sarà stato il richiamo,<br />
del resto dolce, della madre, o altro – il cuore le si scioglieva.<br />
Quei pani come nidi, fragranti, dorati, barocchi, che fanno<br />
laggiù, opera manifesta di femminili mani: di pazienza, di<br />
tenerezza, di fantasia, anche se modellati su schemi tramandati.<br />
Confezionati, si direbbe, con la medesima cura che se<br />
dovessero durare anni, e cosa durano invece?<br />
Uscivano, questi pani leziosi, dal paniere che lei recava, e<br />
proprio essi, siccome fatti col grano nuovo, erano la rarità del<br />
banchetto, la primizia dell’annata. Al punto che, prima di<br />
mangiarli, bisognava segnarsi e dire: in nome di Dio.<br />
Li collocava uno dopo l’altro secondo i posti già fissati<br />
dei commensali – compreso “lui”, l’invitato di maggior rango,<br />
che a buon conto tardava a apparire – accompagnando<br />
il gesto, di volta in volta, con un sentimento come di offerta<br />
e di donazione. Come se, cioè, non il pane soltanto, ma<br />
qualcosa di sé ove fosse possibile, venisse offrendo e distribuendo<br />
a ciascuno: il padre, i giornalieri, Jeremia, ’Ntoni,<br />
“lui” s’intende, ché anzi. Come se, insomma, in qualche<br />
modo si reputasse lei stessa pane: e del resto non era stata<br />
forse lei stessa mietuta trebbiata e passata alla macina; lavorata<br />
come pasta e passata al forno? E dunque prendessero<br />
179
tutti e mangiassero, pane vero e pane quest’altro, fatto d’anima<br />
o come sia.<br />
E, pensando questo, non si accorse se non ben tardi che<br />
i cani latravano, si udiva un galoppo e si levavano voci, saluti.<br />
Se ne accorse quando un bastante, che badava agli spiedi<br />
e al quale si trovò a passare vicino, disse, indicando col mento<br />
l’arrosto:<br />
«Arriva, ah. Ha sentito l’odore!».<br />
La quadra che era rimasta, secondo i suoi ordini, al centro<br />
dell’aia, Giuanni Cinus l’aveva infine presa e sollevata<br />
quanto poteva.<br />
E nessuno riuscì a capire – tutti lì che osservavano – che<br />
razza di cerimonia fosse mai questa, che lui faceva. Alzata infatti<br />
che l’ebbe, l’inclinò piano piano e cominciò a rovesciarne<br />
il contenuto per terra, tant’è che ci si chiedeva che fosse<br />
valso, allora, aver raccattato con diligenza, per poterla riempire,<br />
gli ultimi rimasugli del grano. E non per terra, neanche,<br />
ma addirittura sulla propria persona.<br />
Perché lo faceva? Offriva quel grano a Dio datore di grazie,<br />
alla terra generatrice, agli uccelli del cielo, a cosa? Lui non<br />
lo disse, in quel momento; e dopo fu troppo tardi. E parve<br />
più verosimile, infine, pensare che così, chissà, lui intendesse<br />
come lavarsi, battezzarsi nel proprio grano.<br />
Quel che si vide fu che, finito il rito, egli fu scosso da tali<br />
sussulti che pareva ridesse e piangesse nel medesimo tempo.<br />
L’ospite di riguardo, venuto a cavallo, era arrivato in quel<br />
punto.<br />
E adesso Giuanni Cinus, esauriti i convenevoli, batteva<br />
le mani e gridava:<br />
«Su, su, gente, è l’ora. Incomincia la festa, avvicinatevi,<br />
è l’ora».<br />
E, rivolto alle donne, quell’aria autoritaria comica e patetica<br />
che pure lo trasfigurava, alzava ancor più la voce:<br />
«Ehi, donne, be’, cosa aspettate? Ci siamo tutti, mi pare.<br />
E allora via, quello che è da servire, che sia servito: è l’ora».<br />
Che poi, come declina la lingua nostra, ha un tono anche<br />
più alto, solenne e antico: «Hora est, hora est!» lui diceva.<br />
E fu, infatti, allora.<br />
180<br />
Tutta questa grand’aria, questa esultanza emanava da lui<br />
non solo per la reale contentezza della quale era pervaso, ma<br />
anche perché voleva ben figurare con gli uomini, e specialmente<br />
col giovane Pòrcina, che poco fa aveva accolto “in<br />
pompa magna e a pregio”, come là letteralmente si dice, cioè<br />
con onori e gaudio, e che adesso con fare cerimonioso e confidenziale<br />
insieme – veniva accompagnando verso le mense,<br />
il braccio infilato sotto il braccio di lui.<br />
Fu allora.<br />
Momo era apparso. Non si sa da dove: sbucato dalla cucina,<br />
balzato dalla corte, sgattaiolato da un nascondiglio, sprizzato<br />
dal suolo, chissà. E non pareva neanche Momo, piuttosto<br />
il grottesco, la maschera, la caricatura di Momo, che è<br />
detto tutto.<br />
<strong>Il</strong> certo è che fu là, inatteso e inverosimile, piantato a<br />
metà circa della facciata della casa, le spalle appoggiate al<br />
muro, e che spianava un fucile. Questo si vide bene.<br />
Ma tutto, poi, succedette in un lampo, mille volte più<br />
lungo raccontare come si svolse, che il tempo in cui si svolse,<br />
che fra l’altro son da cucire, per ricomporre l’intera scena,<br />
brandelli isolati e dispersi dal resoconto dei testimoni.<br />
Tremava e sbavava tutto, fin dal suo primo apparire, ma<br />
intanto puntava il fucile, sembra accertato, in una direzione<br />
precisa, quella appunto donde se ne veniva, a braccetto con<br />
Giuanni Cinus, Raffieli Pòrcina. Anzi lanciò anche un grido,<br />
o piuttosto un latrato, all’indirizzo di lui, e non si era finito<br />
di sentire questo scramio, che già il colpo era partito, o meglio<br />
il doppio colpo: pàm pàm.<br />
Un po’ come nei passi, quando si spara al cinghiale.<br />
Prima è un molteplice ciangottamento di uccelli, cani che<br />
abbaiano, corni che suonano, voci che gridano, e lo stesso selvatico<br />
che schianta e che stronca. Ma al primo sparo tiene dietro<br />
un silenzio, magari brevissimo, che sembra sovrumano.<br />
Anche qui così. All’urlo di Momo, che tutti afferrarono,<br />
che nessuno capì, un urlo era seguito, clamore molteplice di<br />
tutti costoro che andavano prendendo posto sulle panche attorno<br />
ai tavoli: una specie di concorde-discorde levata di voci,<br />
come un volo di uccelli: «Oooohhhh».<br />
181
Gli spari si immersero, così si sarebbe detto, nel folto di<br />
questo volo di gridi. Senza tuttavia che niente, l’accorrere di<br />
qualcuno, il lancio di qualcosa, un sasso, uno sgabello, un oggetto<br />
qualsiasi, intervenisse a fermare il ragazzo.<br />
E sparati che furono i colpi, ecco anche qui prodursi<br />
quel silenzio, brevissimo e irreale, il mondo per un istante<br />
fatto di ghiaccio, che dicono sia, la glaciazione, fulminea, capace<br />
di sorprendere l’onda nel suo stesso arricciarsi, e così lasciarla,<br />
senza che possa più sfarsi. Lo stesso costoro. Solo che<br />
proprio un attimo prima, persone si urtarono e caddero, un<br />
tavolo si rovesciò con fragore, e ci fu quel trambusto.<br />
Ma un grido partì acutissimo, concomitante allo sparo.<br />
Un grido forsennato e femminile, solitario. Un chiodo che<br />
stride su un vetro, centomila chiodi su centomila vetri:<br />
«Nnnooo!».<br />
Nello schieramento dei primi, proprio cioè fra coloro<br />
che essendo a fianco e dietro Giuanni Cinus e Fieli Pòrcina,<br />
si trovavano più vicini a Momo e bersaglio del suo fucile, un<br />
vuoto di colpo si aperse, qualcuno cadde, la schiera arretrò,<br />
il terrore fece il resto. Tutti come nelle scene dei banditi,<br />
bocconi a terra: e non si sapeva chi morto e chi vivo.<br />
Due o tre, di quei primi, si vide confusamente, erano rotolati<br />
in avanti: non caduti, ma gettatisi a salvamento o traditi<br />
dal loro impeto. Ma uno intanto era proprio caduto abbattuto,<br />
giaceva infatti adesso di fianco scomposto, muoveva<br />
straccamente le braccia, le gambe, non dava un grido.<br />
E ecco, simile allo starnazzare di una gallina caduta di<br />
notte dal trespolo, la voce di un bastante, da lontano:<br />
«Ha ammazzato Raffieli Pòrcina!».<br />
Non era vero. Non era Raffieli Pòrcina che lo schioppo<br />
di Momo – cartucce a pallettoni, che usano per capi grossi –<br />
aveva atterrato. “Fa’ che non sia vero fa’ che non sia vero ti<br />
supplico tu puoi tu devi fare che non sia vero mio Dio devi<br />
farlo, se sei Dio!”. Mentalmente così gridava Pasqua, a denti<br />
stretti, rivolgendosi a Dio, perentoria ingiungendogli, più<br />
che supplicarlo, di fare che non fosse vero.<br />
Era caduta a sua volta, nel balzo che aveva fatto. E pressante<br />
atterrita incapace di muoversi continuava a gridare<br />
182<br />
dentro di sé: “Oh vi prego, ditemi chi è che è caduto, oppure<br />
no!, non lo dite, non voglio saperlo”.<br />
Ma “non” era Raffieli Pòrcina.<br />
All’apparire di Momo, giusto lei stava uscendo dalla cucina<br />
con la madre e Crisanta, recando la caldaietta degli gnocchi<br />
per cominciare a servire. Fulminea, mollato il manico del<br />
recipiente era schizzata in avanti come una freccia scoccata da<br />
una balestra. Da lei era partito, contemporaneamente allo<br />
sparo, il grande solitario inverosimile grido i chiodi sui vetri.<br />
Ma più rapida lei del grido. Un vento, più che una spinta,<br />
aveva investito alle spalle Raffieli Pòrcina nell’istante preciso<br />
che il colpo partiva. E il vento era lei, Pasqua Cinus, che aveva<br />
in un baleno intuito deciso e eseguito. Lei afferrava le onde<br />
del cervello di Momo seppe lei sola fra tanti lei unica quello<br />
che Momo sbucato da abissi veramente voleva stava per<br />
fare. E un solo pensiero fu in lei. E così quel pensiero si attuava<br />
rubava quel vento, d’un soffio giusto, il vero bersaglio<br />
dei pallettoni di Momo. Salvare Raffieli Pòrcina. Un pensiero<br />
non frutto di calcoli se io così ma lui allora, no. Neanche anzi<br />
un pensiero preciso, piuttosto un impulso istintivo toccarsi in<br />
un punto dove fa male strappare dal piede la spina del “baciapiede”<br />
stringere in tempo la palpebra perché non c’entri il<br />
bruscolino. E ora, rovinata nell’impeto per terra annichilita<br />
dallo sforzo e dalla violenza della caduta (conscia tuttavia che<br />
il suo scopo era stato raggiunto: salvare “lui”; verso di lui riversa<br />
ancora tendeva le braccia), si domandava non di meno<br />
chi altri mio Dio chi altri era caduto in sua vece. E follemente<br />
dubitando chi questo potesse essere, a Dio ai santi agli angeli<br />
e arcangeli e a ogni potenza celeste supplichevole a un<br />
tempo e furente si rivolgeva: vi scongiuro v’imploro vi comando<br />
di fare che non sia vero, o se è non parlate e ottenetemi<br />
di morire. Senza, tuttavia, ardire di muoversi e sincerarsi<br />
coi propri occhi.<br />
Colpito in pieno petto, una scarica doppia, Giuanni Cinus<br />
era crollato in avanti senza un grido né nulla, secco e leggero<br />
come un perastro schiantato dal fulmine.<br />
Non voce, grido o lamento. Solo quel gesto delle braccia<br />
levate in alto e deprecanti: Momo, figlio mio! Le quali ora,<br />
183
ovesciato egli bocconi, restavano vanamente protese in avanti,<br />
raspando appena, stancamente, il terreno.<br />
Quell’onda arricciata crollante ghiacciata in quel punto:<br />
là.<br />
Paradossali preziosi secondi – e nessuno che si scuotesse,<br />
facesse qualcosa, gridasse almeno – impiegati freneticamente<br />
da Momo per ricaricare il fucile.<br />
E di nuovo puntava.<br />
Si era accorto con folle lucidità, che Fieli Pòrcina era<br />
sfuggito ai suoi colpi. Ed era lui, invece, che voleva vedere<br />
abbattuto. E nient’altro che questo contava, ora.<br />
Lo scovava, difatti: occhi pungenti di pietra splendevano<br />
come diamanti.<br />
I colpi questa volta distinti: due colpi, due tempi.<br />
Liberarsi di ’Ntoni, prima, presto.<br />
Questi veniva infatti finalmente all’assalto, si era rotolato<br />
pur atterrito fin presso il padre, aveva capito che il vecchio<br />
era morente. E urlava scannato, ora, trattosi in piedi e<br />
scattato in avanti. Uccidere Momo, ucciderlo, è pazzo, pazzamente<br />
pensava. E così si slanciava, come un pazzo, contro<br />
il fratello. E Momo simmetrico pazzamente pensava disfarsi<br />
di ’Ntoni: pàm.<br />
’Ntoni si piegò, come avesse una fitta all’inguine, si torse<br />
curiosamente e crollò come un sacco rotolandosi infine a<br />
terra e così restituendosi di traverso accanto al padre.<br />
Sbarazzatosi di ’Ntoni, Momo aggiustò la mira, fra i<br />
corpi stesi, su Fieli Pòrcina, sapeva dove era.<br />
<strong>Il</strong> colpo partì, le sue mani forse non strinsero con sufficiente<br />
fermezza l’arma, e il calcio di questa, come già l’altra<br />
volta gli venne a sbattere violentemente contro la chiostra dei<br />
denti, secco e brutale come una mazzata. Svenne e non seppe<br />
più nulla.<br />
Accorrevano soltanto ora, finalmente riscossi, i soccorritori.<br />
E Momo, ormai già a terra, veniva aggredito, pestato,<br />
calcagnato selvaggiamente. «È indemoniato, è indemoniato»<br />
gridavano «è l’Inimico!».<br />
Ma Momo era sicuro, prima di perdere conoscenza, che<br />
il vero bersaglio questa volta non lo aveva mancato.<br />
184<br />
Senonché, ancora una volta – la seconda nello spazio di<br />
pochi minuti – una forza disperata si era intromessa fra la<br />
morte e Fieli Pòrcina. Ed era, come già prima, la prontezza di<br />
Pasqua Cinus.<br />
Forse il balzo che essa fece stavolta non fu neppure consapevolmente<br />
diretto a salvare la vita del giovane. Forse Pasqua<br />
cercò la morte sua stessa, resa folle da ciò che aveva, se<br />
non veduto, intuito.<br />
Sta di fatto che come vide essere l’arma nuovamente<br />
puntata da questa parte, riuscì a gettarsi con rapidità prodigiosa<br />
in avanti e di lato, un salto obliquo, finendo per ricadere<br />
a valanga sul dorso di Fieli Pòrcina.<br />
<strong>Il</strong> piombo, così, passò, ma lui non ne ebbe danno. Lei,<br />
gli era stata di schermo. Lei, ricevette per lui il colpo. In tal<br />
modo egli fu salvo.<br />
Quanto a lei, il proietto l’andò a colpire di striscio sul<br />
volto, proprio in corrispondenza del setto nasale e degli occhi.<br />
Sentì come dei denti d’arpione – le grinfie di ferro di<br />
una “mano di ferro” – arrivare sugli occhi e graffiare e stracciare.<br />
Poi anch’essa perdette i sensi e, precipitando nel buio,<br />
credette fosse giunto in quest’altra maniera anticipata e inattesa,<br />
l’abbraccio sconosciuto.<br />
I suoi occhi soltanto, invece, morirono, non lei. I morbidi<br />
miti tristi-ridenti occhi; quelli per i quali aveva detto una<br />
volta a Fieli Pòrcina: perché ho soltanto due occhi, se i miei<br />
occhi ti piacciono? Morirono.<br />
E anche quell’altra segreta vita, morì, che era in lei. L’essere<br />
che nell’occulto ancora fabbricava se stesso.<br />
Ecco dunque il bilancio complessivo di quell’annata, il<br />
giorno dell’inserro, sull’aia di Giuanni Cinus.<br />
Lui, Giuanni Cinus, freddato quasi di schianto dalla prima<br />
schioppettata di Momo. <strong>Il</strong> petto gli fu quasi squarciato. <strong>Il</strong><br />
sangue rigagnolò, il tempo che si rapprese, fin sulle pietre dell’aia,<br />
mescolandosi ai chicchi di grano che lui stesso vi aveva<br />
sparsi. Rovesciando i termini di una frase da lui detta a proposito<br />
del vino che sarebbe stato servito al banchetto, si vide<br />
che non vino come sangue fu versato quel giorno, ma sangue<br />
come vino, ché giusto era rosso e porporino, il sangue, come<br />
185
vino appena spillato. E l’impasto che si formò, fra il grano<br />
sparso sull’aia e quel sangue, sembrò simboleggiare in maniera<br />
struggente quel ch’era stato il rapporto fra l’uomo e il frutto<br />
del suo lavoro.<br />
Pasqua Cinus, sua figlia, rimasta per sempre cieca e, da<br />
quel giorno in avanti, immemore d’ogni cosa accaduta, ignara<br />
di sé e di tutti, ridotta a uno stato di ebetudine senza rimedio.<br />
(Solo in rare occasioni, nei giorni che verranno, accadrà<br />
che qualche nome, pronunziato in sua presenza, sveglierà<br />
come echi nelle anse del suo cervello e lei allora resterà per<br />
un poco sospesa, attenta, finché i fantasmi svaniranno e riprenderà<br />
la sua bocca scioccamente a sorridere).<br />
’Ntoni Cinus, il maschio primogenito, crudelmente sconciato,<br />
inetto a avere discendenza e paralizzato agli arti, e così<br />
destinato a andare con grucce di villaggio in villaggio, di festa<br />
in festa, a far numero con quei mendicanti mutilati o storpi<br />
che sostano nei crocicchi o presso le chiese invocando la pietà<br />
degli uomini.<br />
Mariangela Siddi, la moglie, caduta in uno stato di totale<br />
demenza, la quale sarà per esprimersi, nel tempo venturo, in<br />
freddi furori con strane grida, nomi di morti e di vivi, mani<br />
ogni tanto levate al cielo, o tuffate nei capelli, e occhi spiritati<br />
pieni di continuo spavento.<br />
Infine Momo Cinus, autore di tanto male, assassino incolpevole,<br />
ridotto ancor più tristo di quanto non già fosse,<br />
strappato ai suoi luoghi e portato lontano, nei tristi stabilimenti<br />
dove vivono altri suoi pari e dove passerà giorni tetri,<br />
lunghi, vuoti, privi di senso.<br />
Incolumi invece gli altri, quanti ve n’erano, ospiti e no.<br />
In primo luogo Raffieli Pòrcina, ospite per eccellenza, il quale<br />
non patì un solo graffio, come bene si addice a un ospite,<br />
la cui persona è sacra. E via via i bastanti, i giornalieri, le<br />
donne d’aiuto, tutti quelli che, testimoni del fatto, ne avrebbero<br />
poi rivelato i particolari e tramandato il ricordo. Essendo<br />
giusto che di un fatto così restassero quelli che videro; che<br />
se no si penserebbe: ma è vero? ma è possibile?<br />
E intatte, s’intende, e immagazzinate con cura quattromilaottocentodue<br />
quadre di buon frumento, dedotta come è<br />
186<br />
giusto dal computo quella quadra che Giuanni Cinus aveva<br />
disperso, chissà perché, sulle pietre dell’aia.<br />
Di questo <strong>raccolto</strong>, anche soltanto per le sue proporzioni,<br />
ancor oggi si parla, dalle parti di Serri, a ogni ritorno<br />
d’estate, non essendo fra l’altro accaduto mai più, dopo di<br />
allora, che in un’unica azienda si producesse una così strabocchevole<br />
quantità di grano. Al punto che esso, nel comune<br />
parlare, è passato in proverbio come “il <strong>raccolto</strong> di<br />
Giuanni Cinus”, a indicare una cosa fuor di misura e oggimai<br />
insuperabile.<br />
Anzi, di un tale “<strong>raccolto</strong> di Giuanni Cinus” e delle vicende<br />
che lo accompagnarono, hanno finito per impadronirsi<br />
i cantastorie, quelli che vanno – o almeno ancora andavano,<br />
fino a pochi anni fa – in giro per i villaggi a recitare i<br />
loro cantari e che laggiù, siccome raccontano le loro storie<br />
in versi e in rima, sono detti “poeti”.<br />
Non basta: alcuni di costoro, a quanto si è poi saputo,<br />
hanno anche escogitato di chiudere la descrizione del nascere<br />
crescere e maturare del grano di Giuanni Cinus e dei casi<br />
collaterali suoi e dei suoi congiunti, con una paragoge che,<br />
riferitaci, non dispiace a noi stessi, in mancanza di meglio,<br />
riportare qui di seguito nel chiudere a nostra volta la presente<br />
narrazione; la quale, se anche potrà sembrare meno “poetica”<br />
rispetto a quei modelli, sia almeno accreditata come altrettanto<br />
veridica.<br />
E le parole son queste, traducendo liberamente dal dettato<br />
originale.<br />
Essere la sorte degli uomini, il destino di certe vite, il<br />
perché delle cose che avvengono quando parrebbe giusto<br />
non avvenissero, o di quelle che non avvengono quando parrebbe<br />
giusto il contrario, uno degli enigmi insondabili (“muri<br />
senza passaggio”) dinanzi ai quali così di frequente s’imbatte<br />
la mente dell’uomo. Essere se mai di Dio (se mai si sappia,<br />
di Dio, chi o che cosa veramente egli sia), interpretare rettamente,<br />
secondo una speciale presumibile misura sua (una<br />
“quadra” nota a lui solo) ignota a chiunque altro, tutto quello<br />
che accade, con esatta nozione di cause e di fini.<br />
187
Essere, quello di Dio, un lavoro paragonabile alla parte<br />
che ha il vento nella ventilazione del grano: separare il grano<br />
dalla paglia, l’utile dall’inutile, il buono dal cattivo; ma lasciando<br />
soltanto a lui, per l’inadeguatezza del nostro giudizio,<br />
stabilire quello che è grano e quello che è paglia; in quanto<br />
che, se diversamente ci regolassimo, finiremmo il più delle<br />
volte per mettere sotto processo lo stesso Dio e concludere<br />
che la vita non è già un dono, ma un mistero insolubile e,<br />
francamente, una trappola assurda.<br />
Avvenire, in conclusione, che le cose che succedono rappresentano<br />
i punti, le gugliate, le trame, di una tela senza fine<br />
che continuamente si tesse. Con questo, tuttavia: che l’uomo,<br />
per sua sorte, sta sotto al telaio, e vede perciò e giudica quello<br />
soltanto che di sotto si vede, cioè un guazzabuglio di fili di<br />
nodi e di colori. Mentre solo il tessitore, è pensabile (ché se<br />
no non c’è salvezza) sa e sceglie e opera, e capisce l’ordito.<br />
Né egli potrebbe a ogni momento fermarsi e mostrare a<br />
chi sta sotto come stanno le cose, giacché troppo lungo e<br />
complicato sarebbe questo e, d’altra parte, troppo egli ha sempre<br />
e senza tregua da tessere.<br />
188
INDICE<br />
5 Nota introduttiva<br />
9 L’aratura<br />
24 La semina<br />
32 Le piogge<br />
45 <strong>Il</strong> verde sulla collina<br />
58 I denti dell’erpice<br />
70 I papaveri<br />
87 <strong>Il</strong> grano in fiore<br />
103 Spighe<br />
117 La messe<br />
129 Le falci<br />
142 La battitura<br />
152 <strong>Il</strong> capanno sull’aia<br />
165 Vento per ventilare<br />
171 Le quadre colme
BIBLIOTHECA SARDA<br />
<strong>Cultura</strong> e Scrittura di un’Isola<br />
La collana più esauriente per una approfondita<br />
conoscenza della cultura sarda<br />
Nata nel 1996, la collana Bibliotheca Sarda ha avuto l’obiettivo<br />
di dare adeguata presenza editoriale al repertorio bibliografico<br />
sardo, edito e inedito.<br />
Con la pubblicazione o la riedizione dei più importanti<br />
libri della (e sulla) <strong>Sardegna</strong>, e con la sua regolare cadenza<br />
di dodici volumi l’anno (di cui 84 già pubblicati), la Bibliotheca<br />
Sarda ha confermato, nella forma più convincente,<br />
che il pluralismo linguistico che ha caratterizzato la<br />
cultura scritta della nostra isola è stato capace di elaborare<br />
e produrre nel passato – e ancora potrà farlo nel futuro –<br />
una grande civiltà letteraria.<br />
Bibliotheca Sarda costituisce, nell’attuale panorama editoriale,<br />
la più importante e completa raccolta di testi del patrimonio<br />
culturale sardo, cronologicamente ripartiti tra l’età<br />
giudicale (XII sec.) e il ’900: opere che spaziano dagli<br />
scritti socioeconomici e giuridici alla narrativa, agiografia,<br />
poesia, teatro, musica, tradizioni popolari, storiografia, archeologia,<br />
storia dell’arte, cronache di viaggio e linguistica<br />
sarda, molte delle quali tradotte per la prima volta dalle<br />
varie lingue originali: latino, tedesco, inglese, francese, spagnolo,<br />
catalano, sardo.<br />
Un’opera di grande qualità e impegno, che rispecchia appieno<br />
la cultura e la scrittura di un’Isola.