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Renzo Lodoli - La Repubblica

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Domenica<br />

<strong>La</strong><br />

DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

ANAIS GINORI<br />

I guardiani<br />

della<br />

PARIGI<br />

Nel silenzio del martedì le sculture si distendono,<br />

più grandi, i quadri respirano, ti guardano.<br />

È soltanto nel giorno di chiusura che le<br />

sale immense si animano. Rollìo di tamburi<br />

per generali in armi, sospiri di dame, risate di satiri, preghiere<br />

di santi. Soltanto lei rimane costretta, in gabbia. Lei<br />

dal sorriso immobile. «È il suo destino. Nessuno potrà mai<br />

più liberarla». Cécile Scaillierez parla della Gioconda come<br />

di una persona. Bella, fragile, inquietante, capricciosa. Si<br />

sente che è una relazione profonda, antica. Da ventuno anni<br />

questa conservatrice del Louvre è la guardiana del ritratto<br />

più famoso del mondo. È gelosa della sua pupilla e la difende<br />

in modo quasi irrazionale, da tutto e da tutti, anche<br />

dall’onda d’urto di un film come il Codice da Vinci.<br />

«<strong>La</strong> conosco in ogni suo minimo dettaglio. Chi concepisce<br />

l’arte come il dono più alto può capirmi». Ha il privilegio<br />

di vedere Monna Lisa del Giocondo denudata della sua<br />

armatura quando, una volta all’anno, viene tolta dalla bacheca,<br />

scorniciata, e sottoposta a esami scientifici. «Bisogna<br />

vederla da vicino per comprendere perché è così<br />

straordinaria».<br />

(segue nella pagina successiva)<br />

di <strong>Repubblica</strong><br />

Gioconda<br />

Un romanzo e un film<br />

di impatto mondiale<br />

L’uragano Dan Brown<br />

si abbatte sul Louvre<br />

E il più celebre<br />

dei ritratti diventa<br />

un sorvegliato<br />

speciale<br />

FRANCESCO MERLO<br />

PARIGI<br />

In Place Vendôme mi intruppo nel “Da Vinci Walking<br />

Tour” e subito ci infiliamo nella stazione del métro<br />

Concorde, interamente ridisegnata dalla pubblicità<br />

del film. <strong>La</strong> destinazione è la Gioconda. Ma, più ancora<br />

che del Graal, qui si parla di Parigi, ed è inutile provare<br />

a dire che Mona Lisa è un quadro italiano, e che l’unico<br />

reperto storico che contiene è forse il paesaggio toscano<br />

che fa da sfondo sbiadito. Per tutti la Giocondaè “aria di Parigi”,<br />

come la bottiglietta sigillata che due ragazzi di Boston<br />

hanno comprato ieri pomeriggio in rue de Vaugirard. C’è il<br />

solito viso della Gioconda e c’è scritto appunto «Air de Paris»,<br />

con l’avvertenza che potrà essere usata una sola volta,<br />

quando, con l’oceano di mezzo, si sentirà il bisogno di<br />

«prendre l’air» o di «changer d’air». Qualcuno, più colto, ricorda<br />

che l’idea di chiudere ermeticamente in un’ampolla<br />

l’aria di Parigi venne per la prima volta a Marcel Duchamp,<br />

quello stesso che un giorno disegnò i baffi alla Gioconda e<br />

per questo ancora oggi è molto famoso, forse più di Dan<br />

Brown, ma certo meno di Leonardo e anche del Louvre, che<br />

è stato affittato alla produzione del film per cinquantamila<br />

euro al giorno.<br />

(segue nella pagina successiva)<br />

il fatto<br />

Dribbling, la rivincita del calcio pulito<br />

RONALDINHO, CORRADO SANNUCCI e MICHELE SERRA<br />

la memoria<br />

<strong>La</strong> Guerra di Spagna narrata dai reduci<br />

ROBERTO BIANCHIN, JENNER MELETTI e MASSIMO L. SALVADORI<br />

il racconto<br />

<strong>La</strong> saga di Gengis khan, patriarca e killer<br />

EMANUELA AUDISIO e GUIDO RAMPOLDI<br />

cultura<br />

Vita e amori del mio amico Picasso<br />

NATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI<br />

spettacoli<br />

Megaconcerti, un biglietto per sognare<br />

ERNESTO ASSANTE e EDMONDO BERSELLI<br />

l’incontro<br />

Irene Papas, progettare a ottant’anni<br />

DARIO CRESTO-DINA<br />

FOTO ALINARI


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 32 14/05/2006<br />

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

la copertina<br />

Dal dipinto al mito<br />

Una vita dedicata<br />

al mistero di un sorriso<br />

ANAIS GINORI<br />

(segue dalla copertina)<br />

notano le piccole imperfezioni,<br />

la mano rilavorata più volte, la<br />

spalla sinistra in rilievo per un<br />

sollevamento del legno», prosegue<br />

Scaillierez. «Il paesaggio a de-<br />

«Si<br />

stra è chiaramente incompiuto,<br />

ma si sa che per Leonardo nessuna opera era mai<br />

del tutto terminata. <strong>La</strong> tavola di pioppo è sottile.<br />

Tutti pensano che sia un dipinto scuro. Non è vero.<br />

Il cielo era azzurro in origine, si vede benissimo sotto<br />

alla cornice».<br />

Passano alcuni operai con delle scale. «Che succede?»,<br />

chiede subito lei, sospettosa. Un guasto al<br />

sistema di condizionamento. «Ma la cosa eccezionale»,<br />

continua, in piedi davanti al quadro, «sono i<br />

colori perfettamente amalgamati, una precisione<br />

infinitesimale, è impossibile scorgere le pennellate.<br />

Rimane ancora misteriosa la tecnica usata per lo<br />

sfumato, a base di un minerale, il manganese. Dei<br />

chimici stanno tentando di scoprirne la formula».<br />

Scaillierez appare poco nei giornali, non cerca la<br />

ribalta. Alta ed elegante, un viso regolare con grandi<br />

occhi azzurri, usa un francese forbito, si dedica<br />

allo studio e alla ricerca, ha condotto una carriera<br />

dietro le quinte. «Una diva basta e<br />

avanza», scherza. Aveva meno di<br />

trent’anni quando si ritrovò in dono il<br />

tesoro di Leonardo da Vinci con cui ha<br />

condiviso polemiche, rivelazioni, traslochi,<br />

incidenti. L’ultimo qualche<br />

giorno fa. «Ero nel mio ufficio in fondo<br />

alla Grande Galerie quando un custode<br />

è arrivato correndo. Un uomo aveva<br />

strappato un palo delle transenne,<br />

tentando di scaraventarlo contro il dipinto.<br />

Per fortuna è stato fermato in<br />

tempo e siamo riusciti a non diffondere<br />

la notizia. Più se ne parla e più i pazzi<br />

arrivano».<br />

Mona Lisa ha sempre avuto la capacità<br />

di attrarre mitomani e psicopatici.<br />

Scaillierez ha tre cassetti pieni di lettere,<br />

telegrammi e bigliettini. Una corrispondenza<br />

unica per un quadro. Tra<br />

gli ammiratori c’è persino chi sogna di<br />

portare il dipinto nella sua camera da<br />

letto, come fece Napoleone. Recentemente<br />

un principe kuwaitiano si è fatto<br />

avanti. «Non ha prezzo e non è in<br />

vendita», è stata la risposta del Louvre.<br />

Scrivono sedicenti studiosi. <strong>La</strong> Gioconda<br />

è incinta, è emiplegica, è asmatica,<br />

è un uomo, è la madre di Leonardo,<br />

è un autoritratto. Un professore<br />

giapponese scandalizzato chiede di<br />

sapere perché è esposta una copia,<br />

«dov’è l’originale?». Dalla Svizzera vogliono<br />

conoscere la distanza tra le pupille,<br />

dal Senegal hanno trovato una<br />

formula sul calcolo delle probabilità. CÉCILE SCAILLIEREZ<br />

<strong>La</strong> conservatrice richiude i cassetti. Conservatrice del museo<br />

«E adesso sarà anche peggio». <strong>La</strong> “Gio-<br />

del Louvre<br />

condolatria” rischia di diventare ingestibile<br />

con l’uscita del Codice da Vinci.<br />

«Non ho letto il romanzo ed ero contraria a concedere<br />

il permesso di girare il film dentro al museo.<br />

No, non sono snob. Ma tutta questa mistificazione<br />

danneggia il senso dell’arte». I custodi sono già esasperati.<br />

«Le guide turistiche bloccano la fila mettendosi<br />

a leggere ad alta voce scene del romanzo»,<br />

racconta uno di loro, Jocelyn. «Vengono per vedere<br />

il Cenacolo senza sapere che è in Italia», aggiunge<br />

un altro.<br />

Il Grand Louvre immaginato da François Mitterrand<br />

è in continua trasformazione. Scaillierez ha visto<br />

nascere la Piramide inaugurata nel 1989, la conquista<br />

dei locali sottratti al ministero delle Finanze<br />

nel 1993, l’apertura delle sale per i reperti egizi nel<br />

1998 e quella per le arti primitive nel 2000. Oggi c’è<br />

il cantiere per il nuovo settore dedicato all’Islam.<br />

Trentacinquemila opere esposte, capolavori universali,<br />

una delle strutture museali più grandi del<br />

mondo. Eppure per la dama fiorentina manca co-<br />

Cécile Scaillierez, conservatrice<br />

del Louvre, è da ventuno anni<br />

la guardiana del ritratto più famoso<br />

del mondo. Lo ha seguito<br />

nei suoi quattro traslochi nel museo<br />

e ne parla come di una persona<br />

“<strong>La</strong> maggioranza<br />

dei visitatori<br />

rimane delusa<br />

dopo averla vista<br />

Dicono<br />

che è brutta<br />

e piccola<br />

Per il quadro<br />

è una lenta morte”<br />

munque lo spazio. Tra i sette milioni di visitatori all’anno<br />

pochissimi rinunciano a incrociare fugacemente<br />

il suo sguardo.<br />

Un anno fa Scaillierez ha sovrainteso al quarto<br />

trasloco del ritratto. Al centro di una parete issata in<br />

mezzo alla Salle des Etats; insieme alle opere della<br />

scuola veneziana; davanti alle Nozze di Cana. «Avevo<br />

sperato di poter riunire Mona Lisa agli altri quadri<br />

di Leonardo da Vinci, la Sant’Anna con Madonna<br />

e Bambino e il San Giovanni Battista. Ma l’unica<br />

sala grande abbastanza era questa. I dipinti della<br />

scuola veneziana non si potevano spostare altrove<br />

a causa delle loro dimensioni. Il risultato è pessimo,<br />

un matrimonio artistico senza senso. Non mi piace<br />

neanche questa parete beige, troppo scura, e la bacheca<br />

posata su una specie di altare, sembra una<br />

Madonna. Cosa vuole, io ragiono con una testa diversa.<br />

Hanno prevalso i problemi di ordine pubblico<br />

e di sicurezza».<br />

Anche con trecento metri quadri a disposizione,<br />

la ressa continua. «Siamo stati costretti ad aggiungere<br />

una seconda barriera di protezione, c’è stato<br />

un bambino che ha rischiato di morire nella calca.<br />

Da pochi giorni ci sono anche transenne e insegne<br />

per far circolare il flusso. Non è orribile? Sembra di<br />

stare al check-in di un aeroporto. Un’opera d’arte<br />

senza pubblico è come un mare senza spiaggia ma<br />

di questo passo la Gioconda finirà in una stanza tutta<br />

per sé, in un recinto lontano dieci metri dai visitatori.<br />

Allora sarà davvero una catastrofe,<br />

almeno dal mio punto di vista».<br />

FOTO AFP<br />

Il punto di vista di Cécile Scaillierez è<br />

quello di una studiosa che immagina i<br />

musei come luogo di incontro ed emozione,<br />

di «metamorfosi» come diceva<br />

André Malraux. «Oggi tutto è cambiato,<br />

si entra al Louvre come si va a un<br />

concerto rock, non ci sono più i mecenati<br />

ma gli sponsor. Tutti vogliono Mona<br />

Lisa, nessuno la guarda veramente.<br />

Vengono per verificare che esiste. Secondo<br />

un’indagine che abbiamo fatto<br />

tra i visitatori, la maggioranza rimane<br />

delusa dopo averla vista. Dicono che è<br />

brutta e piccola perché non corrisponde<br />

all’icona che conoscevano. Amo<br />

questo quadro e mi dispiace assistere<br />

alla sua lenta morte».<br />

<strong>La</strong> protegge, la cura, l’ascolta. «Ogni<br />

mattina le passo davanti e il suo sorriso<br />

mi fa stare bene». Le minacce sono le<br />

più diverse. Si mormorava che il governo<br />

volesse mandare il dipinto all’estero,<br />

che il presidente Chirac avesse voluto<br />

organizzare una mostra internazionale<br />

per ringraziare un Paese alleato.<br />

«Impossibile, il quadro non può<br />

viaggiare», ha risposto Scaillierez, fornendo<br />

le prove di una piccola crepa<br />

aperta sul lato alto del dipinto. <strong>La</strong> notizia<br />

è finita sui giornali due anni fa, «<strong>La</strong><br />

Gioconda è malata». «Abbiamo esagerato»,<br />

ammette adesso. «<strong>La</strong> crepa esiste<br />

ma probabilmente fa parte della<br />

conformazione della tavola di pioppo e<br />

comunque non sta peggiorando. In<br />

realtà il quadro è in ottimo stato di conservazione.<br />

Ma l’idea di trasportarlo<br />

era una follia, dovevo in qualche modo<br />

respingere le pressioni politiche».<br />

Inutile dire che questa signora così poco ossequiosa<br />

e refrattaria alle mode non si è fatta voler bene nel<br />

management. Le sue dichiarazioni sul Codice da Vinci<br />

hanno stonato con quelle del direttore del Louvre,<br />

Henri Loyrette. «Se il film porta pubblico allora è benvenuto»,<br />

ha detto Loyrette, monetizzando l’ospitalità<br />

concessa alla produzione hollywoodiana. Il palazzo<br />

reale, trasformato in museo durante la Rivoluzione<br />

francese, è ormai un’azienda autonoma che deve finanziarsi<br />

anche con fondi privati.<br />

Tra pochi mesi la guardiana della Gioconda se ne<br />

andrà. Trasferita ad occuparsi di pittori fiamminghi<br />

del Cinquecento. «Era la mia specializzazione originaria»,<br />

spiega. «Mi sembra giusto cambiare dopo<br />

tanti anni, questo rapporto mi ha consumata». Abbandona<br />

con un po’ di paura. «Spero che dopo di me<br />

ci sarà qualcuno capace di vedere la Gioconda semplicemente<br />

per quello che è. Un bellissimo ritratto».


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 33 14/05/2006<br />

DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

I CASI<br />

L’IDENTITÀ<br />

FRANCESCO MERLO<br />

Secondo il Vasari<br />

è la gentildonna fiorentina<br />

Lisa Gherardini, moglie<br />

di Francesco<br />

del Giocondo. Ma c’è<br />

chi ha visto nel quadro<br />

l’autoritratto di Leonardo<br />

(segue dalla copertina)<br />

Edove adesso uno dei pellegrini con cui ripercorriamo<br />

i luoghi e i simboli del thriller<br />

esoterico alla ricerca del sacro enigma,<br />

chiede all’impiegato di indicargli la sala<br />

dell’Ultima Cena. «Lei si sbaglia, signore:<br />

sta a Milano». Ma forse in un museo contano<br />

ormai solo i quadri mentali, come la traccia di quel<br />

pendente di lapislazzuli che Marta, americana di Philadelphia<br />

e lettrice accanita del Codice, cerca di indovinare<br />

sotto i capelli di Mona Lisa. Dan Brown descrive un<br />

gioiello con l’effigie della dea Isis che ovviamente all’orecchio<br />

di Mona Lisa non c’è mai stato. Eppure Marta<br />

crede davvero di vederlo, con l’identica mistica morbosità<br />

di chi vede senza vederle le lacrime delle Madonne<br />

che piangono. Allo stesso modo, sul fondo di quella bottiglietta<br />

“Air de Paris” acquistata dai ragazzi di Boston<br />

c’è, inciso sul vetro, appena visibile, un piccolo «made<br />

in Hong-Kong». Ma riguarda il contenitore e non il contenuto<br />

e, al momento opportuno, non modificherà né<br />

l’intensità dell’odore di Parigi né il significato attribuito<br />

al lungo respiro di nostalgia.<br />

Se dunque è ancora lecito dubitare che Mona Lisa sia<br />

egiziana come vorrebbe il romanzo, non ha alcun senso<br />

ricordare la fiorentina Lisa Gherardini del Giocondo<br />

e «la véritable identité de la Joconde» perché, come lo<br />

champagne, le coiffures branchées, il gla-<br />

mour e la Torre Eiffel «Mona Lisa is so French,<br />

so chic». Lo dice anche una vecchia canzone<br />

americana, ed è inutile discutere<br />

perché davanti a queste immagini siamo<br />

tutti ignoranti attivi, o se preferite cretini<br />

cognitivi, o ancora idioti sapienti, quelli<br />

che appunto formano il senso comune.<br />

Io per esempio ho appena letto un vivace<br />

libro italiano, da pochi giorni in libreria,<br />

scritto da Valeria Botta e che si intitola Leonardo<br />

nascosto. Sostiene che la Gioconda<br />

è il ritratto di un cadavere; che Leonardo<br />

insomma dipinse il viso di una signora già<br />

morta, perché era un negromante, un necrofilo<br />

oltre che, come dice Dan Brown, un<br />

adepto della magia nera, un omosessuale<br />

e un femminista precursore, nientemeno,<br />

anche di Bachofen.<br />

Trattata dagli stessi custodi del Louvre<br />

come un feticcio, la Gioconda, che respira<br />

aria condizionata sotto un vetro di protezione,<br />

da nessuno è percepita come un<br />

quadro sporco di cinque secoli e che mai si può vedere<br />

da vicino né tanto meno toccare. Mona Lisa non è più<br />

un pezzo di pioppo convesso, instabile colloso e gessoso,<br />

ma è un immenso cumulo di teorie più o meno bizzarre,<br />

di libri e prose ispirate, di enigmi storiografici. È<br />

l’evasione, soggettiva e di massa, verso un imprendibile<br />

mondo immaginario, la conferma delle ossessioni di<br />

ciascuno, la patacca che ognuno di noi si porta dentro,<br />

l’idea solida contenuta in ogni testa, dove la cosa meno<br />

importante è la verità.<br />

Del resto, sono ancora più buffi quegli altri cretini cognitivi<br />

che si ostinano a fare gli esami di storia archivistica<br />

al libro di Dan Brown, per esempio. E si indignano<br />

come si indignarono i grecisti quando uscì il film sulla<br />

guerra di Troia, perché «non è in quel modo che Omero<br />

fa morire Paride», e «non andò così tra Achille ed Ettore».<br />

Sono tutti sindacalisti della presunta autenticità documentale,<br />

o cobas dell’aoristo, o custodi della vera vita<br />

di Cristo, di Maria Maddalena, della Gioconda e di<br />

Leonardo... Tutti pronti, con l’autorevole Vittorio Messori,<br />

a fare il processo inquisitoriale come se la qualità di<br />

un romanzo si potesse misurare con la veridicità storico-archivistica.<br />

I soli criteri di valutazione di un romanzo<br />

sono la qualità della scrittura e la coerenza interna,<br />

l’affabulazione e l’intreccio.<br />

Davvero è un po’ comica questa discussione filologica<br />

che puntualmente è stata riproposta, anche contro il<br />

Codice da Vinci. Se poi la presunta veridicità viene difesa<br />

in nome della religione e di Dio, che è materia di fede<br />

e non di storia, allora la disputa da comica diventa barbara,<br />

come sono appunto le dispute tra sciiti e sunniti.<br />

Meglio lasciare in pace Dio, e se ai cattolici legittimamente<br />

non piace il successo antipapista di Dan Brown<br />

e la sua interpretazione di Leonardo e della Gioconda,<br />

ebbene scrivano un libro uguale e contrario, provino ad<br />

avere maggiore successo romanzando le tesi che prefe-<br />

IL FURTO<br />

Il 21 agosto 1911 il dipinto<br />

viene rubato da Vincenzo<br />

Perugia, un decoratore<br />

che voleva restituirlo<br />

all’Italia. Per due anni<br />

lo nasconde in una valigia<br />

sotto il letto<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33<br />

L’ICONA<br />

Da Malevic a Duchamp,<br />

da Salvador Dalì a Andy<br />

Warhol: innumerevoli<br />

sono le imitazioni di quella<br />

che è considerata<br />

un’icona della nostra<br />

cultura<br />

Davanti a Mona Lisa<br />

tra i fan di Dan Brown<br />

<strong>La</strong> tavola<br />

di Leonardo<br />

è ormai<br />

un immenso<br />

cumulo di teorie<br />

più o meno<br />

bizzarre<br />

e di enigmi<br />

storiografici<br />

riscono. I libri si combattono con i libri. Tutti il resto —<br />

boicottaggi, censure, roghi e suoni di campane — è barbarie.<br />

Sono almeno 28 le agenzie turistiche che organizzano<br />

i “Da Vinci Walking Tour”, pensione completa e serate<br />

a tema nel nome della Gioconda. Il lussuoso hotel<br />

Ritz, dove comincia l’avventura del Codice, offre la camera<br />

al prezzo promozionale di 670 euro anziché 770.<br />

Tappa obbligata è lo gnomo di Saint Sulpice che inutilmente<br />

padre Paul Roumanet, parroco della chiesa, cerca<br />

disperatamente di qualificare come «strumento<br />

astrologico e non esoterico». Il buon prete lo ha pure<br />

scritto in un cartello vagamente minaccioso: qui non c’è<br />

nessun enigma sacro; e non è vero che Saint Sulpice fu<br />

costruita sulle rovine di un antico tempio dedicato alla<br />

dea Isis; e non è vero che il santuario riproduce la pianta<br />

di Notre-Dame. Crede, il parroco, che il Codice da Vinci<br />

sia materia da teologi e non da turisti.<br />

Mentre dunque il parroco insiste con i suoi «non è vero,<br />

non è vero, non è vero», seguendo la giovane guida<br />

che sa tutto del sangue che cola e dell’alter ego femminile<br />

di Gesù Cristo, noi pellegrini siamo già arrivati nel<br />

Jardin des Tuileries, e ora sostiamo in raccoglimento davanti<br />

alla Pyramide: lama e calice. Ma quello che ai pellegrini<br />

interessa veramente è contemplare in Mona Lisa<br />

l’androgino omosessuale. Perciò entrano in estasi<br />

quando la guida ricorda che il celebre sorriso si riferisce<br />

all’anagramma AMON L’ISA, l’unione cioè di Amon, dio<br />

della fertilità maschile, e di Isis, dea egiziana della fertilità<br />

femminile. E c’è pure lo squilibrio ver-<br />

so sinistra che celebrerebbe il femminismo<br />

leonardesco.<br />

Il Walking Tour prevede una fuga sulla<br />

rue de Rivoli e poi sugli Champs-Elysées. E<br />

qui i pellegrini maschi vorrebbero conoscere<br />

l’itinerario della Paris sexy, l’eccitazione<br />

notturna che i parigini più raffinati<br />

non cercano certo a Pigalle e nel nono ma<br />

nell’ottavo arrondissement chiamato appunto<br />

“le Huitième Ciel”: niente più letteratura<br />

ma, tra il ministero dell’Interno e il<br />

castello dell’Eliseo, si slitta verso l’Apogée,<br />

il Tania club, il Flamingo, le Sirènes, il Christin’s,<br />

l’Orange bleue… È un imprevedibile<br />

tour notturno in mezzo a un fiume<br />

umano di donne velate e pelle nera, che alle<br />

quattro del mattino diventa bouillonnant,<br />

ribollente, e molto orientale. Ha<br />

scritto Marc-Édouard Nabe: solamente<br />

sui Campi si può ancora provare l’anarchia<br />

di esistere, nel cuore di queste notti<br />

molto dense e soffocanti, dove solo quelli<br />

che oggi sono decisi a lottare contro la cultura accettano<br />

di vivere quella che io chiamo la vita di Parigi, il mistero<br />

di Parigi che non è più il sorriso della Gioconda. Agli<br />

arabi di Parigi non piace per nulla la Gioconda che non<br />

a caso fa parte, secondo l’antiterrorismo, dei possibili<br />

obiettivi occidentali dell’estremismo islamico.<br />

In realtà, nel libro di Dan Brown si parla poco della Gioconda<br />

e molto della Cena, che è il dipinto chiave dell’enigma,<br />

il dipinto dell’eresia ortodossa. Ma nella copertina<br />

del best seller c’è la Gioconda e così pure nei manifesti<br />

del film, nei siti Internet, nelle riviste. Dappertutto insomma<br />

c’è la Gioconda che è marketing, è Parigi, è turismo.<br />

Ecco dunque l’ultima patacca: anche il romanzo di<br />

Dan Brown si dissolve nel sorriso della Giocondache inghiotte<br />

ormai tutte le patacche del mondo, raffinatissima<br />

e meravigliosa patacca di Parigi come quel libro cult<br />

che si intitola Parisintrouvable, recentemente ripresentato<br />

e celebrato dal Colloque des Invalides, un circolo parigino<br />

molto colto, molto ironico e molto snob. Datato<br />

1997, edito da Byzantium Book Inc., con una Tour Eiffel<br />

rovesciata in copertina, questo libro è una perfetta guida<br />

turistica che descrive con pedanteria, mappe, itinerari,<br />

prezzi, una Parigi che non esiste ma è verosimile,<br />

una Parigi introvabile appunto. Tra i tanti nomi dei ristoranti<br />

ci sono, per esempio, la Brasserie Loplop, il Café<br />

Conjugal, la Patte à la main. E, tra i servizi offerti dal Comune,<br />

il kidnapping e il fax food. Tra i night-club le Folies-Berbères.<br />

E poi l’Eglise des Marionettes, l’hotel Crillon<br />

sans ascenseur, il monumento al Voleur en smoking,<br />

la rue des Mauvais garçons manqués, la rue des Enfants<br />

normaux, l’impasse de Godot, il carrefour des Mots croisés,<br />

la rue Zazie sans culotte. Ci sarebbe anche la Maison<br />

de Mona Lisa, dove visse e abitò la tante di Leonardo, la<br />

zia Lisa da Vinci: numero civico 31, terzo piano, chiusa il<br />

lunedì. Ecco dunque risolto l’enigma della Gioconda: si<br />

può trovare l’introvabile.


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 34 14/05/2006<br />

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

il fatto<br />

Sport e genio<br />

Dopo decenni di centravanti palestrati,<br />

pressing e tattiche, la stella Ronaldinho<br />

e le sue serpentine sul campo sono<br />

il sintomo e il simbolo di una svolta<br />

nel mondo del pallone. Che oggi, in tempi<br />

di intercettazioni vergognose e partite<br />

taroccate, ne ha più che mai bisogno<br />

Dribbling.<strong>La</strong> fantasia<br />

per riscattare il calcio<br />

MATTHEWS<br />

<strong>La</strong> tecnica di dribbling usata<br />

da Stanley Matthews,<br />

leggendario campione inglese<br />

tra gli anni Trenta e Cinquanta<br />

CORRADO SANNUCCI<br />

<strong>La</strong> scena fu più volte la stessa: alla destra dell’area di rigore, il giocatore<br />

zoppo con la palla al piede, davanti un biondo che non sa se<br />

guardargli la palla o i piedi. Lo zoppo è immobile, attende il suo<br />

tempo, il biondo trema nell’attesa di quella che già immagina come<br />

la sua sconfitta. Poi tutto accade, lo zoppo intuisce il momento<br />

in cui il biondo è sul piede sbagliato, il suo scatto è un lampo, gli<br />

è oltre, verso la linea di fondo, pronto a una cross che devasterà l’area avversaria.<br />

Lo zoppo era Garrincha, che doveva il nome all’uccello più brutto del Brasile<br />

ma fu presto trasformato in «l’allegria del popolo». L’altro, il terzino sinistro<br />

della Svezia, si chiamava Axbom, era solo un giovanottone sano (Garrincha ha<br />

anche una deviazione della spina dorsale) ma senza genio. <strong>La</strong> scena era la finale<br />

dei Mondiali del ‘58, quando il Brasile spazzò via la Svezia per cinque a due,<br />

con i gol di Pelè diciassettenne ma soprattutto con i dribbling e i cross di Garrincha.<br />

Sono bastati sei mesi di Ronaldinho, la sua campagna di Champions di quest’anno,<br />

il suo delicato scucchiaiare il pallone da sotto, per far tornare voglia del<br />

calcio alla Garrincha dopo anni di raddoppi, pressing, tattiche, numeri, il 4-4-<br />

2, 4-2-1-3, eccetera. <strong>La</strong> Figc ha persino organizzato il mese scorso a Coverciano<br />

un seminario sul dribbling, prima dello scandalo delle intercettazioni: quasi<br />

due mondi contrapposti, da una parte il ritorno del dribbling come arte, magia,<br />

sogno di un calcio all’antica, dall’altra il fango, la corruzione, le partite taroccate.<br />

Ronaldinho accende la nostalgia di quando il dribbling si appiccicava al giocatore<br />

e lo definiva nella sua essenza: il doppio passo di Biavati, la mossa di Stanley<br />

Matthews. L’inglese, il più grande di tutti, accompagnava la palla con l’interno<br />

del piede destro, puntando, incrociando verso la gamba destra del difensore,<br />

poi quando quello spostava il peso su questa gamba, allora deviava<br />

istantaneamente nell’altra direzione, con il pallone attaccato all’esterno del<br />

piede, verso la fascia, la linea del fallo laterale. Dicevano i difensori: «Se gli vai in<br />

tackle ti fa un tunnel, se lo affronti ti salta, se lo aspetti e ti allontani ti crossa sopra<br />

la testa. L’unico modo per fermarlo è sgonfiargli la palla».<br />

Il dribbling è un’enciclopedia di imbrogli e di trucchi, un gioco delle tre carte<br />

nel quale chi ha il pallone è l’incantatore. Cruyff usava starsene largo, difendere<br />

il pallone verso l’esterno, poi fingere il cross, con un’estensione esagerata<br />

della gamba: e quando il difensore allungava la sua per fare diga al cross, ruotava<br />

il piede dietro il pallone, se lo faceva passare sotto piroettando su se stesso,<br />

via dalla sorpresa dell’altro. Il dribblatore semina messaggi ingannevoli, ma<br />

lui stesso ha una percezione istintuale, mesmerica, delle mosse dell’altro. Ronaldo<br />

porta avanti il pallone, poi trasforma ogni passo in una finta con il piede<br />

che carezza l’aria davanti al pallone, il difensore comincia a perdere l’equilibrio<br />

(e presto perderà anche la fede in se stesso) il che servirà a Ronaldo per scegliere<br />

la direzione nella quale andare. Il grande dribblatore è aperto a ogni soluzione,<br />

ambidestro per obbligo e vocazione, gioca sulla miseria dell’altro, ma la<br />

sua grandezza è di non avere preconcetti o schemi fissi, la sua tecnica è di penetrare<br />

nell’errore nell’altro.<br />

Il dribbling rivela l’uomo, la sua personalità, la sua sfida, il suo rispetto o disprezzo<br />

per l’avversario. Omar Sivori godeva a umiliarlo con il tunnel, Roberto<br />

Baggio dribblava per esaltare la propria leggerezza, come quando prese una rimessa<br />

laterale a una quarantina di metri dalla porta e arrivò fino al gol, l’uno a<br />

zero dell’Italia alla Bulgaria nella semifinale mondiale del ‘94. Chi dribbla può<br />

inseguire l’utilità comune o il ghirigoro, il malabarismo, come dicono gli argentini<br />

(che il dribbling poi lo chiamano «gambeta»). Ghiggia si era fatto una<br />

fama segnando il due a uno nella finale dei mondiali ‘50, poi in Italia mostrò a<br />

tratti il suo talento barocco: i romani se lo ricordano sulla linea laterale, nei pomeriggi<br />

di sole all’Olimpico, mentre stordiva un terzino proprio sulla striscia<br />

bianca e poi si fermava, aspettava che quello tornasse o che ne arrivasse un altro,<br />

per ricominciare, come se il calcio fosse tutto in quel giocare e rigiocare di<br />

fino in pochi centimetri di calce.<br />

È il passato che ritorna per quei dribblatori che si sono allenati da bambini<br />

intorno ai pali della luce, agli alberi, alle colonne dell’oratorio, tra i mattoni delle<br />

favelas o, come raccontava Zola, inseguendo le galline. A 17 anni Pelè raccolse<br />

il pallone nell’area svedese, lo fece passare sopra la testa di uno svedese<br />

e poi colpì al volo: e dove mai poteva averlo imparato prima? Il gol all’Inghilterra,<br />

definito il più bello del secolo, Maradona l’aveva già preparato, studiato,<br />

affinato, in mille partite sugli spiazzi polverosi di <strong>La</strong>nus, per poi srotolarlo<br />

all’Azteca, nei quarti di finale dell’86, quando prese palla nella sua<br />

metà campo, si liberò di due inglesi con una semplice piroetta, ne saltò<br />

un altro sulla trequarti, fu oltre un centrale sulla linea dell’area, poi decise<br />

di superare anche Shilton e segnare a porta vuota, nel tripudio di<br />

un’umanità stupefatta.<br />

Il dribbling ha i suoi schemi, le sue modalità, ma lascia la suspense<br />

su quando accadrà, come la giravolta di Zidane, che traccia un cerchio<br />

intorno al difensore con il pallone trascinato sotto i tacchetti,<br />

con l’avversario che aveva di fronte una faccia e si ritrova a inseguire<br />

una schiena. Il dribbling è la patente di creatività, iniziativa, audacia,<br />

chi lo tenta rivela un’autonomia a volte giudicata pericolosa, come<br />

quella volta che Boksic segnò seminando mezza difesa avversaria<br />

ma Zeman lo rimproverò perché non aveva seguito, ed eseguito, il<br />

suo schema.<br />

Il dialogo tra allenatore e giocatore si nutre di rimproveri e ringraziamenti,<br />

perché con gli schemi interisti inceppati alla fine era Ronaldo<br />

che partiva da cinquanta metri e arrivava in gol a far alzare di<br />

esultanza le braccia a Luigi Simoni. Il dribbling è spettacolo, libertà, festa<br />

della fantasia, all’opposto del gioco muscolare, ripetitivo, ultratattico.<br />

Il dribbling è la festa dei ragazzini con la palla di stracci, l’arma dei<br />

poveri della periferie. Certo. Ma se i dribbling di Ronaldinho mandano in<br />

soffitta decenni di “calcio atletico”, bisogna ricordare il lavoro collettivo<br />

di quelle squadre che muovendo con intelligenza le proprie pedine, senza<br />

mai tentare un dribbling, consentivano a modesti operai del pallone di<br />

emergere. Se il dribbling è la libertà, quegli schemi sono stati la democrazia del<br />

calcio.<br />

RONALDINHO<br />

Il dribbling, battezzato l’Elastico,<br />

perfezionato dal calciatore<br />

brasiliano Ronaldinho,<br />

attuale “Pallone d’oro”


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 35 14/05/2006<br />

DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

ILLUSTRAZIONI DI MIRCO TANGHERLINI<br />

DIMENTICATO<br />

Un primissimo<br />

piano di piedi<br />

e gambe<br />

del campione<br />

brasiliano<br />

Ronaldinho<br />

I suoi dribbling<br />

capaci<br />

di mandare in tilt<br />

le difese<br />

hanno ridato<br />

vigore<br />

a un gesto<br />

atletico<br />

dimenticato<br />

I l<br />

IO, DANZATORE DI GINGA NELL’AREA DI RIGORE<br />

calcio è la mia vita. Solo a guardarlo, solo a pensarci, mi sento<br />

motivato. Sono nato con un pallone vicino a me in una fa-<br />

miglia che amava il calcio. <strong>La</strong> mia famiglia amava anche la mu-<br />

sica. Sono cresciuto così, a ritmo di musica e di calcio.<br />

<strong>La</strong> ginga, in brasiliano, è l’arte del movimento. È<br />

ciò che ci ispira ogni qual volta dobbiamo muoverci<br />

in modo creativo, la musica ha ginga e tutto ciò<br />

che ha a che fare con la musica ha a che fare con<br />

ginga. Non è solo questione di musica. Ginga è<br />

l’arte del movimento anche quando gioco a calcio. Nel<br />

calcio è il dribbling, è il cambio di velocità, è ciò che creo<br />

per confondere l’avversario. Tutti noi abbiamo uno stile<br />

diverso nel ballare, uno stile che cambiamo nel corso del tempo<br />

sviluppando la nostra ginga. E così succede anche nel calcio.<br />

Musica e calcio. Dalla mia famiglia al campo di gioco. Sono un<br />

giocatore che adora il dribbling ed il movimento del dribbling,<br />

RONALDINHO<br />

perché ho la ginga dentro. Non sono l’unico giocatore che ha questo<br />

dono. Probabilmente ognuno ha qualcosa di questo tipo dentro<br />

di sé, in misura diversa. Solo che noi brasiliani ne abbiamo di<br />

più, amiamo la musica, siamo più sorridenti e felici, abbiamo<br />

più ritmo. Non so, forse la verità è che ognuno ha la propria<br />

ginga, e basta.<br />

Per esempio a me piace molto veder giocare Thierry Henry,<br />

un giocatore che ha una ginga molto diversa ma altrettanto<br />

bella e spettacolare. Ma dirò di più. Forse ogni dribbling ha<br />

una sua ginga particolare, diversa dalle altre, irripetibile. Dipende<br />

dal momento.<br />

Tutto questo è molto istintivo. Non bisogna pensare che<br />

prediligo una bella giocata o un movimento spettacolare a qualcosa<br />

di efficace. Voglio sempre dare il meglio. Per vincere con la<br />

mia squadra, Barcellona o Brasile che sia. Se poi il mio dribbling,<br />

la mia ginga, mi aiuta a farlo, beh, tanto meglio.<br />

Quel gesto aristocratico<br />

che consacra il fuoriclasse<br />

CRUYFF MICHELE SERRA<br />

ZIDANE<br />

Johan Cruyff, leader dell’Olanda<br />

del “calcio totale” anni Settanta,<br />

aggirava così i difensori<br />

che frenavano la sua corsa al gol<br />

Nonso se usi ancora. Ma quando ero ragazzino, a Milano, nelle partite<br />

ai giardinetti o nei piazzali, i dribblomani venivano soprannominati,<br />

immancabilmente, «Veneziano» o «Venezia». <strong>La</strong> probabile<br />

origine del termine stava, io credo, nel rovesciamento ironico<br />

della frase dialettale veneta «fasso tuto mi», faccio tutto da<br />

me. Ed era un epiteto parecchio infamante, un rimprovero che<br />

coinvolgeva, oltre all’abilità sportiva, anche l’onore. Gridare a uno «Venezia!»,<br />

tra noi ragazzini, equivaleva a dirgli «sei solo un montato che nel patetico tentativo<br />

di farsi notare perde la palla e fa perdere la partita ai suoi compagni di<br />

squadra, che pur se più umili e generosi hanno fatto l’errore nefasto di ammettere<br />

nei loro ranghi un vanesio par tuo».<br />

I tipi classici di «Venezia» erano più o meno due. Il primo: l’innamorato del<br />

dribbling vero e proprio, il monomaniaco ossessivo che considera la partita nel<br />

suo complesso solo l’inutile e pletorica cornice dell’unico gesto sportivo meritevole<br />

di attenzione, scartare l’avversario palla al piede, infilzarlo nel duello individuale,<br />

e dunque tenta di esibirsi nel dribbling in ogni parte del campo, foss’anche<br />

davanti al suo portiere, non appena abbia il pallone a disposizione.<br />

Costui, in genere, è uno specialista. Riesce a inanellare anche due dribbling<br />

vincenti di seguito prima di sbagliare il terzo. <strong>La</strong> sua presenza in squadra è seccante<br />

ma non sempre rovinosa: a volte riesce addirittura a segnare o a far segnare,<br />

sia pure per lo sbocco fortunoso di una sua avventata serpentina. Riesce,<br />

insomma, a mantenere vivo il sospetto che abbia qualche talento. E spesso lo<br />

ha davvero, anche se ne fa un uso narcisista e dissennato.<br />

Il secondo tipo di «Venezia», molto più pericoloso e anche molto più comune,<br />

è il tipico giocatore incapace di liberarsi del pallone non per narcisismo, ma per<br />

totale mancanza di visione del gioco. Disfarsi della palla, semplicemente, è cosa<br />

che esula dalle sue facoltà, e dunque è costretto, per darsi un tono, a ingaggiare a<br />

testa bassa, in un mulinare furioso di ginocchia crostolose e scarpe sfondate, uno<br />

o più dribbling disperati, in un vortice di polvere dentro il quale le urla disperate<br />

dei compagni («passaaaa! passaaaa!») arrivano lontanissime, e inesaudibili.<br />

Questo secondo tipo di dribblomane, nelle partite da giardinetto ma non solo,<br />

è la più micidiale jattura che possa capitare ad una squadra di calcio. Come<br />

il giocatore di poker costretto al bluff perché non ha mai in mano mezza carta<br />

decente, il calciatore in questione è obbligato a giocare costantemente sopra le<br />

righe, e al di sopra dei suoi mezzi, solo per nascondere di essere del tutto inadeguato<br />

alla partita in corso. Il dribbling per lui non è una risorsa, è una condanna.<br />

Lo fa perché non saprebbe come concludere altrimenti la sua azione, perché,<br />

ignorando come legarsi rapidamente alle geometrie dell’azione collettiva,<br />

si trova sempre circondato da nugoli di avversari. Per lui il dribbling è un culo di<br />

sacco, un vicolo cieco, un budello nel quale è andato a ficcarsi per pura inettitudine<br />

e cocciutaggine, come Custer a Little Big Horne. E anche se ha la faccia<br />

tosta di simulare — con una mossa, un passetto, uno sguardo beffardo — qualcosa<br />

che gli dia tono, si capisce benissimo che sta soffrendo. Che non è lui che<br />

ha scelto il dribbling. È il dribbling che ha scelto lui.<br />

Passando dall’epica da giardinetto alla cosiddetta scienza del calcio adulto,<br />

e considerando che, dopotutto, le differenze tra i due ambiti non sono poi così<br />

radicali, direi dunque che i dribbling si dividono in due categorie fondamentali:<br />

quelli attivi e quelli passivi. Quelli effettuati per scelta e per godimento, quelli<br />

effettuati per costrizione e disperazione. Il primo dribbling è patrimonio<br />

esclusivo dei fuoriclasse e di pochi campioni (non tutti). È padronanza suprema<br />

del pallone e del campo, scelta consapevole dell’avversario da affrontare a<br />

tu per tu, trasformandolo genialmente da potenziale ostacolo a punto di riferimento<br />

della propria traiettoria: come — voglio dire — se l’avversario dribblato<br />

ti aiuti, ti spiani la strada. Come se fosse lì in qualità di piolo al quale agganciarsi<br />

momentaneamente per riprendere slancio, e proseguire trionfalmente la<br />

strada. Esempio immortale, Maradona che dribbla l’intera Inghilterra ai Mondiali<br />

del Messico, giocatore dopo giocatore, e ogni maglia bianca diventa lo scalino<br />

di una trionfale scalata.<br />

Il secondo tipo di dribbling, al contrario, è la condanna dei mediocri, il ripiego<br />

dei pasticcioni, l’ingorgo degli avventati. Molti attaccanti, anche famosi, ci si<br />

ritrovano impigliati perché avevano seguito l’azione dei compagni con affanno<br />

e in ritardo, o perché non avevano saputo restituire la palla in tempo, o tirare<br />

in porta quando dovuto.<br />

Il pubblico capisce al volo quando il dribbling è al servizio del giocatore e<br />

quando è il giocatore al servizio del dribbling. Nel primo caso, gli spalti godono<br />

i brevi istanti che precedono il tentativo, e anche se il dribbling dovesse fallire<br />

(raramente), rimangono sereni aspettando il prossimo. Ma nel secondo caso,<br />

invece, anche se il dribbling dovesse riuscire (raramente), il pubblico si allarma,<br />

non è tranquillo: sa che è andata bene, stavolta, ma sa anche che quel dribbling<br />

è stato un espediente, un’emergenza, un reggersi l’anima con i denti.<br />

In seguito a quanto detto fin qui, trovo lodevoli quei giocatori (esempio classico:<br />

Vieri) che, nella consapevolezza di non saper dribblare nemmeno un paracarro,<br />

neanche ci provano. Tentano di tirare dritto, accettano l’ingaggio spalla<br />

a spalla, addirittura sparacchiano verso la rete da posizioni assurde, ma non<br />

oserebbero mai ingannare il pubblico e se stessi fingendo un dribbling. I baritoni<br />

non hanno in gola i “do di petto”. E i pesi massimi — tranne Clay, ma di Clay<br />

ce n’è stato uno in tutta la storia universale — non hanno il gioco di gambe delle<br />

ballerine del Crazy Horse.<br />

Benissimo, naturalmente, anche quegli altri giocatori (pochi, i fuoriclasse e<br />

una ristretta schiera di campioni) che invece il dribbling se lo scelgono, e possono<br />

permetterselo, e lo praticano certamente per diletto estetico, ma soprattutto<br />

per utilità tattica, perché saltare un avversario, nel calcio corto e taglia-spazi<br />

di oggi, spesso significa aprirsi la strada che porta al gol.<br />

Sarebbero guai seri, invece, se il risorgente fascino del dribbling dovesse cogliere,<br />

come una moda inopportuna e stolta, anche quelli che non se lo possono<br />

proprio permettere. Niente sarebbe più patetico che veder giocare “alla Ronaldinho”<br />

onesti podisti, invaghiti di quanto si mostra negli spot. Farebbero la<br />

figura di quelle corpulente signore e signorine che si lasciano irretire dalle campagne<br />

pubblicitarie, e tentano di stripparsi in pantaloni aderentissimi. Il dribbling<br />

è aristocratico, inutile illudersi. È stratagemma per pochi. Arte difficile. Alta<br />

cultura, e non esiste una versione pret-à-porter.<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35<br />

Zinedine Zidane, detto Zizou,<br />

ha guidato la Francia mondiale<br />

1998 e ora gioca nel Real<br />

Madrid. Ecco il suo dribbling


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 36 14/05/2006<br />

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

la memoria<br />

Settant’anni dopo<br />

ROMA<br />

Certe notti lo sente soffiare ancora il vento di Guadalajara.<br />

E sente ancora quel freddo, quella neve,<br />

quella pioggia. «Tutto sbagliato, eravamo organizzati<br />

male e comandati peggio». Ma fieri. Fieri di<br />

quella camicia nera «portata come un saio», fieri di «stare dalla<br />

parte giusta», fieri di combattere per la patria «senza porsi altri<br />

problemi, senza discettare di ideologie, e soprattutto senza odiare<br />

nessuno, anzi con rispetto, e spesso con ammirazione, per i<br />

nostri avversari». Per questo tutti gli anni, ogni due di novembre,<br />

torna in Spagna, a Saragozza, a onorare i soldati italiani caduti.<br />

«Sono stati 4.015», ricorda perfettamente. E il suo pensiero non<br />

va solo ai fascisti, ma anche a quelli che stavano dall’altra parte,<br />

quegli «italiani rossi» che il Duce ordinò di seppellire «insieme<br />

agli altri, in ordine alfabetico». Parla con «orgoglio e dignità»,<br />

spingendo indietro la commozione che, ogni tanto, affiora.<br />

Fascista sempre. Oggi come ieri, mai un pentimento, «perché<br />

io non ho nulla di cui vergognarmi». Elegante, in giacca a quadri<br />

e cravatta blu, la schiena dritta, <strong>Renzo</strong> <strong>Lodoli</strong>, ingegnere, 93 anni<br />

a settembre, quattro figli, dieci nipoti e tredici bisnipoti, presidente<br />

dell’Associazione combattenti italiani in Spagna, era il<br />

comandante del plotone degli arditi della divisione “Volontari<br />

del Littorio”. Ha combattuto un anno e mezzo nella guerra di<br />

Spagna, dal gennaio del 1937 al settembre del ‘38. Fu raggiunto<br />

da quattro pallottole nemiche: tre si persero sulla coperta arrotolata,<br />

in fondo all’elmetto e dentro la maschera antigas. Una sola<br />

lo ferì, ad una gamba. Quando ricorda, lucido, preciso, snocciola<br />

nomi, date e cifre con la velocità di una mitraglia. «Rivedo<br />

tutto, come se fosse ieri».<br />

E racconta che, prima ancora che del fascismo, lui s’innamorò<br />

della guerra. Perché fu la guerra a farlo uomo, dice, con le emozioni,<br />

il dolore, il disprezzo del pericolo, e perché «ritengo che la<br />

guerra sia indispensabile per la formazione di un individuo».<br />

Colpa di Annibale, il papà, ufficiale di marina e sommergibilista<br />

sul “Delfino”, il primo sottomarino italiano, amico di Gabriele<br />

D’Annunzio. E colpa di D’Annunzio che gli fu padrino alla cresima<br />

e lo affascinò con le sue avventure. «Quelli della mia generazione<br />

erano ossessionati dalle imprese dei padri».<br />

Fu per questo che il giovane <strong>Lodoli</strong>, nato a Venezia dove vanta<br />

un antenato illustre in quell’abate Carlo <strong>Lodoli</strong> protagonista<br />

nel Settecento di una vivace tenzone letteraria col poeta maledetto<br />

Giorgio Baffo, non esitò, nel ‘35, a piantare la facoltà di ingegneria<br />

che frequentava a Roma, dove abita tuttora, a otto esami<br />

dalla laurea, per arruolarsi volontario in Africa Orientale con<br />

il battaglione universitario “Curtatone e Montanara”. «Mi presentai<br />

senza occhiali — racconta — altrimenti non mi avrebbero<br />

preso. Per fortuna non se ne sono accorti, e mi scaraventaro-<br />

Nell’estate 1936 comincia la Guerra civile spagnola. Una giovane<br />

fotografa, Sofia Moro, ha girato l’Europa per rintracciare<br />

i reduci di entrambe le fazioni. E ha costruito un libro che - senza<br />

giudicare - mette una accanto all’altra le immagini di oggi<br />

e quelle di allora. Siamo andati a parlare con <strong>Renzo</strong> <strong>Lodoli</strong><br />

e Vincenzo Tonelli, due italiani che c’erano e raccontano...<br />

<strong>La</strong> bella guerra di <strong>Renzo</strong> il nero<br />

ROBERTO BIANCHIN<br />

Così la Spagna<br />

ha voltato pagina<br />

MASSIMO L. SALVADORI<br />

no a Mogadiscio. Eravamo a migliaia».<br />

Otto mesi in Africa Orientale «a far la guardia alle dune» senza<br />

mai combattere perché «arrivavamo sempre tardi», poi il ritorno<br />

trionfale in Italia «accolti dal Duce come eroi, con le ragazze<br />

che ci infilavano dei fiori nei fucili e la sfilata tra due ali di folla».<br />

Quindi la laurea e la nuova partenza. Spagna, stavolta. «Ricordo<br />

che ci chiesero chi voleva andare, e io risposi subito, entusiasta<br />

e più motivato di prima. Perché volevo fare la guerra e in Africa<br />

la guerra non l’avevo nemmeno vista. Avevo 24 anni, e avevo<br />

aderito prima alla Fuci, il gruppo di universitari cattolici, poi al<br />

Guf, quello dei giovani fascisti. Scrivevo su un giornale che si<br />

chiamava Roma fascista.<br />

E guerra fu davvero. Dura, cruda, sanguinosa. Freddo, morti e<br />

feriti, pallottole e trincee. Cadice, Malaga, Guadalajara, Bilbao,<br />

Ebro, Santander, Sagunto, Meseta di Castiglia «dove pigliammo<br />

una solenne batosta perché avevamo delle truppe che non erano<br />

Sonotrascorsi settant’anni da quel 1936 in cui<br />

ebbe inizio la guerra civile che avrebbe dilaniato<br />

la Spagna fino al 1939. Una guerra terribile,<br />

che costituì per aspetti decisivi il preludio<br />

della seconda guerra mondiale. Terribile<br />

per gli implacabili odi scatenati, per la<br />

spietatezza della lotta che oppose i franchisti fascistoidi<br />

e i nazionalisti al composito schieramento repubblicano<br />

che andava dai borghesi liberaldemocratici ai socialisti,<br />

ai comunisti, agli anarchici; i crociati cattolici<br />

ai nemici della Chiesa; gli uomini e gli armamenti mandati<br />

da Mussolini e da Hitler a quelli inviati da Stalin.<br />

Terribile per la repressione che, messa in atto dai comunisti<br />

staliniani contro i comunisti antistaliniani e gli<br />

anarchici accusasti di tradimento (si ricordino le giornate<br />

di Barcellona), dilaniò il corpo stesso della <strong>Repubblica</strong>.<br />

Terribile per il numero delle vittime.<br />

Quando nel novembre del 1975 Franco morì e salì al<br />

preparate al combattimento». «Le ho fatte tutte le battaglie, e ho rischiato<br />

più volte la vita, ma sono stato fortunato». Dubbi? «Mai».<br />

«Cosa vuole, non ci ponevamo nemmeno il problema, eravamo<br />

soldati italiani ed eravamo convinti che la nostra causa fosse giusta.<br />

Primo perché eravamo cattolici e lì bruciavano le chiese e ammazzavano<br />

i sacerdoti, e quindi combattevamo in difesa della civiltà.<br />

Poi perché c’era il rischio che la Spagna ci chiudesse nel Mediterraneo,<br />

e infine perché eravamo fascisti». E i nemici? «Poveretti.<br />

Tolti alcuni faziosi e fanatici, erano dei poveri ragazzi mobilitati<br />

a forza e mandati a morire. Molti scappavano e venivano dalla<br />

nostra parte. Non li ho mai odiati. Anzi, di alcuni di loro sono<br />

diventato amico, e abbiamo ancora dei rapporti».<br />

Ma la «splendida e terribile» giovinezza di <strong>Lodoli</strong> non finì con la<br />

guerra di Spagna. Il secondo conflitto mondiale lo vide ancora in<br />

trincea come ufficiale dei Granatieri di Sardegna. Fu decorato al<br />

valor militare. Dopo l’otto settembre aderì alla <strong>Repubblica</strong> Sociale<br />

Italiana. Finita la guerra, si fece un anno di prigione, per aver incitato,<br />

da un giornale di propaganda fascista, i giovani a combattere.<br />

Ha scritto articoli e libri. Nel ‘46 fu tra i fondatori del Msi. Poi<br />

si dedicò al suo mestiere di ingegnere «riempiendo l’Italia di brutte<br />

case», ricorda con ironia. Gli piace raccontarsi, e non ha rimpianti.<br />

Solo un velo lo appanna quando guarda fuori dalla finestra,<br />

appoggiato alla stampella cui lo obbliga un femore ballerino, e vede<br />

un mondo diverso dai suoi sogni di ragazzo: «Sono deluso, sì.<br />

Non c’è un momento in cui questo popolo democraticamente allevato<br />

riesca a prendere coscienza di sé stesso». <strong>La</strong> politica, dice,<br />

non la segue più. «Centrodestra, centrosinistra, non mi interessano».<br />

Lui è fermo al nocciolo: la democrazia. «Sì, sarà anche una bella<br />

cosa. Ma in realtà è solo la conseguenza delle leggi elettorali che<br />

fanno i governi. E la guerra civile in Spagna scoppiò proprio in conseguenza<br />

di una legge elettorale che assegnava un premio di maggioranza<br />

alla lista che avesse preso la maggioranza relativa».<br />

‘‘ <strong>Renzo</strong> <strong>Lodoli</strong><br />

Le ho fatte tutte le battaglie,<br />

e ho rischiato più volte la vita<br />

ma sono stato fortunato<br />

Dubbi? Mai avuti. Eravamo<br />

soldati italiani ed eravamo<br />

convinti che la nostra causa<br />

fosse giusta<br />

trono il giovane re Juan Carlos, che il dittatore aveva<br />

educato ad essere il suo erede politico, le apprensioni<br />

più grandi parevano più che mai giustificate. Quale<br />

transizione? Quale eredità il regime franchista avrebbe<br />

lasciato? Si sarebbe riaperto un drammatico confronto<br />

tra repubblicani e monarchici, democratici e antidemocratici,<br />

forze di sinistra e forze moderate, clericali<br />

e anticlericali? Il paese sarebbe piombato, se non in<br />

un’altra guerra civile, in una nuova ondata di conflitti<br />

distruttivi? Nulla di tutto questo. <strong>La</strong> piega assunta dagli<br />

avvenimenti andò in tutt’altra direzione. Il giovane<br />

sovrano aprì rapidamente la strada, con risolutezza e<br />

coerenza, ad una democrazia parlamentare fondata<br />

sulle libertà politiche e civili, sul pluralismo culturale,<br />

sull’alternanza al potere tra i partiti, sui diritti sindacali.<br />

Nell’aprile 1977 anche il Partito comunista ottenne<br />

il riconoscimento legale. Così la questione istituzionale<br />

venne chiusa, col riconoscimento nella coscienza<br />

della grande maggioranza degli spagnoli di una monarchia<br />

postasi abilmente a capo di una transizione<br />

compiuta nella pace interna e nella legalità. Un estremo<br />

tentativo di colpo di Stato militare nel 1981 venne


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 37 14/05/2006<br />

DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

affrontato senza esitazioni dal sovrano, che procedette<br />

ad un’efficace epurazione nelle alte sfere delle forze<br />

armate.<br />

Il timore dunque che la caduta della dittatura franchista<br />

riaprisse le antiche piaghe di una Spagna lacerata<br />

da incomponibili conflitti interni venne fugato.<br />

Neppure il terrorismo dei separatisti baschi dell’Eta<br />

sarebbe stato in grado di mettere in discussione la via<br />

maestra della nuova Spagna entrata nel grembo dell’Europa<br />

democratica. Qui si vede tutta la differenza<br />

che segnò la fine della dittatura nazional-fascistoide di<br />

Franco da quella della dittatura fascista in Italia, dove<br />

al 25 luglio del 1943 fece seguito il divampare della<br />

guerra civile del 1943-45, dove la riconquista della democrazia<br />

nel 1945 fu accompagnata da un referendum<br />

istituzionale nel 1946 che mostrò un paese spaccato in<br />

due tra repubblicani e monarchici, dove nel dopoguerra<br />

l’Italia dei resistenti si opponeva all’Italia legata<br />

ai conservatori e ai persistenti filofascisti, dove la<br />

guerra fredda internazionale si rovesciò sulla politica<br />

italiana divisa tra comunismo e anticomunismo, dove<br />

la memoria della Resistenza venne contestata ben pre-<br />

TOLOSA<br />

Ha un grosso dispiacere, Vincenzo Tonelli, che il 13<br />

luglio compirà novant’anni. «Sto diventando vecchio<br />

e le forze cominciano a mancare. Vorrei avere<br />

la forza di lottare ancora, e soprattutto di incontrare<br />

i giovani e di parlare. Vorrei dire: state attenti, il fascismo<br />

è sempre alla porta. E se per sbaglio lo lasciate entrare, dovrete<br />

dare tutto, anche la vita, per ricacciarlo fuori». <strong>La</strong> guerra di<br />

Spagna l’ha fatta dall’inizio alla fine e poi è stato anche partigiano<br />

in Italia. Ha visto morire più della metà dei suoi compagni.<br />

«Mi sono sentito anche un vigliacco, perché non ho avuto il coraggio<br />

di sparare a un mio compagno che era rimasto ferito. E<br />

così prima della morte ha incontrato anche la tortura». Ha istruito<br />

altri ragazzi più giovani a sparare con la mitragliatrice. «Lei mi<br />

chiede perché. Forse è stata colpa di due schiaffi, che mi hanno<br />

fatto diventare antifascista. Forse questa parola non basta. Io sono<br />

stato uno che i fascisti li ha odiati davvero, perché ho visto ciò<br />

che hanno fatto, in Italia e in Spagna».<br />

Un appartamento nella città di Tolosa, dove Vincenzo Tonelli<br />

è arrivato quando aveva quattordici anni. «Quel compleanno<br />

l’ho festeggiato con la carriola in mano, come garzone di muratore.<br />

I due schiaffi li avevo già presi, al mio paese, Castelnuovo<br />

del Friuli. Giocavo a calcio e l’allenatore, che era anche un piccolo<br />

gerarca, mi diede due sberle perché avevo lasciato l’allenamento<br />

senza chiedergli il permesso. Il motivo vero era un altro:<br />

non avevo voluto entrare nei Balilla e così anche a scuola mi tenevano<br />

all’ultimo banco. “Ti porto in Francia con me”, disse allora<br />

mio padre, che già era emigrato».<br />

Il viaggio a Tolosa, alla ricerca di un lavoro. «Non trovai nulla<br />

IERI E OGGI, IL LIBRO DEI SOPRAVVISSUTI<br />

Le foto di <strong>Renzo</strong> <strong>Lodoli</strong> (a sinistra) e di Vincenzo Tonelli<br />

(a destra), entrambi ritratti oggi e nel 1936, sono tratte<br />

dal libro “Ellos y nosotros” della fotografa madrilena<br />

Sofia Moro, in uscita ai primi di giugno per l’editore Blume,<br />

328 pagine, 35 euro. Sofia Moro ha ricostruito<br />

per immagini la storia di chi, arrivato in Spagna da tutta<br />

Europa, settant’anni fa combatté in opposte trincee<br />

Nella foto grande, le barricate degli operai repubblicani<br />

nel luglio 1936 a Barcellona<br />

sto da un’opposta memoria.<br />

<strong>La</strong> Spagna che guarda oggi al passato della guerra civile<br />

del 1936-39 lo fa con distacco, e può farlo. Ovviamente<br />

un simile atteggiamento non ha, non può avere<br />

a che fare con una sorta di disinteresse. Quel passato è<br />

stato un uragano di tale peso e violenza che la sua memoria<br />

è un elemento costitutivo incancellabile della<br />

Spagna attuale. Ma vi è un aspetto di straordinaria importanza<br />

che rende possibile quel distacco. E cioè che<br />

nessuna delle parti in conflitto mortale in quegli anni è<br />

più in grado di trasmettere un messaggio che possa venire<br />

raccolto dal popolo spagnolo di oggi, salvo che in<br />

piccole nicchie di irriducibili ma ininfluenti nostalgici.<br />

Che cosa possono “dire” alla Spagna democratica le<br />

bandiere per un verso della Spagna dei militari golpisti,<br />

dei falangisti, dei fanatici clericali e per l’altro dei<br />

comunisti staliniani, dei comunisti trotskisti o semitrotskisti,<br />

degli anarchici catalani, degli anticlericali e<br />

degli atei? Fatto è che in Spagna, col concorso della monarchia,<br />

dei cattolici, dei socialisti, dei comunisti, la<br />

democrazia ha fatto sì che il passato della guerra civile<br />

passasse davvero, che il presente venisse fondato su<br />

valori, istituzioni e comportamenti che quel passato<br />

non era per contro in alcun modo in condizione di trasmettere.<br />

E quindi la memoria storica della guerra civile, epoca<br />

delle più aspre e sanguinose contrapposizioni, si<br />

presenta come una riflessione che non può certo fondare,<br />

legittimare e ispirare il presente politico e civile<br />

della Spagna seguita al 1975. <strong>La</strong> pagina è stata voltata.<br />

Il che non ha nulla a che vedere con l’indifferenza oppure<br />

con l’idea che la lotta dei franchisti vada “pareggiata”<br />

a quella dei repubblicani. Gli uni e gli altri, infatti,<br />

vanno capiti nelle loro rispettive “ragioni” alla luce<br />

dei principi e dei valori che all’epoca della grande lotta<br />

li hanno contrapposti e dei valori e dei principi che<br />

contemporaneamente fanno sentire quel capitolo come<br />

davvero una storia d’altri tempi, politicamente<br />

chiusa ma sempre aperta, per la sua enorme importanza,<br />

alla riflessione dei contemporanei.<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37<br />

<strong>La</strong> lezione di Vincenzo il rosso<br />

JENNER MELETTI<br />

‘‘ Vincenzo Tonelli<br />

Vorrei lottare ancora,<br />

incontrare i giovani e parlare<br />

Dire: state attenti, il fascismo<br />

è sempre alla porta. E se<br />

per sbaglio lo lasciate entrare,<br />

dovrete dare tutto, anche<br />

la vita, per ricacciarlo fuori<br />

perché il gelo dell’inverno aveva fatto chiudere tutti i cantieri.<br />

Chiesi un aiuto al console italiano. <strong>La</strong> prima volta mi diede cinque<br />

franchi, sufficienti per un solo pasto al ristorante operaio.<br />

<strong>La</strong> seconda mi disse che mi avrebbe fatto arrestare e rimpatriare<br />

in Italia, così potevo andare a fare la guerra per il Duce in Abissinia».<br />

«L’odio per la dittatura — dice — me lo sono sentito crescere<br />

dentro. Mi sono iscritto alla gioventù comunista a Tolosa. Arrivavano<br />

le prime notizie dalla Spagna. Il Partito diceva che bisognava<br />

portare aiuto ai compagni spagnoli. Avevo un amico molto<br />

caro, l’italiano Armelino Giuliani. Si sa come vanno le cose fra<br />

i ragazzi: segui l’amico che ritieni più preparato di te, più intelligente.<br />

E così quando Armelino ha detto che andava in Spagna,<br />

per me è stato naturale seguirlo. Povero Armelino: si è preso una<br />

raffica di mitragliatrice al primo fronte, e non aveva ancora sparato<br />

un colpo».<br />

Cosa resta dentro, dopo settant’anni? «Resta tutto, anche se<br />

provo a non pensarci troppo. Cerco di ricordare le facce dei compagni<br />

caduti, ed anche i momenti belli. Quando arrivammo in<br />

Spagna con la brigata, gli spagnoli ci aspettavano sulle strade e<br />

ci offrivano fiori e arance. Restano nel cuore, queste cose. Ma resta<br />

anche la disperazione del capitano Mario Traversi, che era di<br />

Genova. Eravamo al fronte di Estremadura e subivamo perdite<br />

gravissime. Durante una ritirata ero fra gli ultimi perché dovevo,<br />

assieme agli altri, raccogliere armi e feriti. Il capitano era stato<br />

colpito, era a terra. Io provai a sollevarlo ma era grande e grosso,<br />

non riuscivo a muoverlo. Lui mi disse: sparami. Sapeva che i<br />

falangisti stavano arrivando e lo avrebbero prima torturato e poi<br />

ucciso. Io non ce l’ho fatta, a sparargli. E purtroppo il capitano<br />

aveva ragione. Vede, anche per la Spagna c’è chi cerca di cambiare<br />

le carte in tavola. Tutti violenti, si dice, tutti assassini. No,<br />

gli assassini erano dall’altra parte. Avevano aerei per bombardare<br />

e distruggere Guernica e le altre città, avevano i carri armati.<br />

Torturavano i feriti prima di eliminarli. Quando catturavamo<br />

un falangista ferito, noi lo curavamo come fosse dei nostri».<br />

Una ferita a una gamba, per un colpo di fucile, vicino a Madrid.<br />

«All’Ebro ho passato, come tutti gli altri, ventuno giorni fra la vita<br />

e la morte. Si era tutti in agonia: in quelle tre settimane ho perso<br />

l’ottanta per cento dei miei compagni. Li porto tutti nel cuore,<br />

ma alla sera quando ripenso a questa mia vita un po’ troppo<br />

movimentata cerco di ricordare i colpi di fortuna. Una volta mi<br />

sono perso e sono finito in mezzo ad un accampamento nemico.<br />

Nel buio, mi fermavo a salutare come se fossi uno di loro. Sono<br />

riuscito a passare fra bivacchi e carri armati e a infilarmi in un<br />

bosco».<br />

<strong>La</strong> guerra spagnola di Vincenzo Tonelli finisce in un campo di<br />

concentramento, a Les Vernet d’Ariége, in Francia. «Dopo sei<br />

mesi mi hanno messo in catene e consegnato agli italiani, a Mentone.<br />

Mi hanno portato in galera a Udine. Non sapevo quasi nulla<br />

della situazione italiana. I fascisti picchiavano contro le sbarre<br />

della mia cella e mi insultavano: «Traditore del Duce, della patria,<br />

del re». Non sapevo nemmeno chi fosse nelle celle vicine.<br />

Poi una notte ho sentito che nell’altro braccio del carcere cantavano<br />

Bandiera rossa».<br />

<strong>La</strong> liberazione dopo la caduta del fascismo. «Torno a casa e mi<br />

arriva la cartolina da militare: dovevo presentarmi al 38° reggimento<br />

fanteria di Tortona. Sono scappato dopo l’otto settembre.<br />

Mi ha salvato la vita un vecchio ferroviere che, sul treno fermato<br />

dai tedeschi, mi prestò la sua giacca. Non sono rimasto a<br />

casa a lungo. A Castelnuovo fascisti e tedeschi avevano cominciato<br />

i rastrellamenti. Io e gli altri ci siamo messi a cercare le armi.<br />

E così ho iniziato un’altra guerra, quella partigiana».<br />

Il ritorno a Tolosa, «perché lì ormai c’era la mia vita». I racconti<br />

fatti ai giovani che per ascoltarlo partono anche dall’Italia. «State<br />

attenti, se il fascismo riesce ad aprire la porta...».<br />

FOTO EFE-ANSA/JUAN GUZMÁN


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 38 14/05/2006


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 39 14/05/2006<br />

DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

le storie<br />

Islam e mercato<br />

<strong>La</strong> Turchia, Paese islamico moderato, è il secondo esportatore<br />

di biancheria intima e costumi da bagno dopo la Cina. I marchi<br />

di maggior successo vendono molto bene in Occidente i loro capi<br />

“osé”. “Non c’è contraddizione con l’osservanza religiosa”,<br />

dicono alla Ten, “solo il marito sa cosa indossa la sua donna”<br />

Operaie col velo per l’intimo sexy<br />

MARCO ANSALDO<br />

ISTANBUL<br />

Il sultano Abdul Hamid II, che regnò<br />

nell’ultimo periodo di un<br />

Impero ottomano in bancarotta,<br />

aveva un debole per le mutande<br />

francesi. <strong>La</strong> versione in seta di<br />

questo «meraviglioso capo lungo oltre<br />

il ginocchio», con l’inconfondibile<br />

simbolo imperiale stampato sulla<br />

fascia elasticizzata, ha il posto d’onore<br />

sulla parete dell’ufficio di Deha<br />

Orhan, produttore turco di intimo<br />

femminile che sta sbancando i mercati<br />

mondiali.<br />

Il signor Orhan ha conquistato le<br />

mutande del sultano a un’asta pubblica.<br />

Se lo può permettere, e poi nel<br />

suo caso si tratta di un ferro del mestiere.<br />

Anche se si<br />

resta sbalorditi<br />

quando il trentatreenne<br />

general manager<br />

della Ten apre<br />

l’armadio a scomparsa<br />

accanto alla<br />

sua spettacolosa<br />

scrivania davvero<br />

imperiale, lunga almeno<br />

quattro metri,<br />

e dice: «Le faccio vedere<br />

la mia collezione»,<br />

mostrando,<br />

uno allineato all’altro,<br />

gli ultimi modelli<br />

di sottovesti colorate,<br />

capaci di insaporire<br />

le serate di<br />

qualsiasi coppia.<br />

<strong>La</strong> Turchia, Paese<br />

islamico moderato,<br />

è il secondo esportatore<br />

al mondo di intimo<br />

e costumi da<br />

bagno dopo la Cina.<br />

E molte celebri modelle,<br />

tra cui Claudia<br />

Schiffer, Cindy<br />

Crawford, Tyra<br />

Banks e Heidi Klum,<br />

hanno posato nei<br />

primi anni della loro<br />

carriera indossando<br />

i capi di Zeki Triko,<br />

azienda turca di indumenti<br />

da bagno.<br />

Un mercato che<br />

ha qui un giro d’affari<br />

di quasi quattro<br />

milioni di euro e dà<br />

lavoro a un milione<br />

di persone. Operaie<br />

perlopiù. E velate. Che ogni mattina,<br />

sotto il turban, assemblano senza imbarazzo<br />

guepière, reggicalze, pushup<br />

e bikini leopardati per le mogli degli<br />

infedeli occidentali. «Per le loro fidanzate,<br />

soprattutto», precisa il giovane<br />

Orhan con un sorriso compiaciuto.<br />

Sotto il suo ufficio, nel seminterrato<br />

dove colossali telai di ghisa tendono<br />

i fili immacolati, le lavoranti appaiono<br />

concentrate nell’unire coppe<br />

di reggiseni. Ci troviamo immersi nel<br />

quartiere di Yeni Bosna, Nuova Bosnia,<br />

periferia di Istanbul, zona ad alta<br />

concentrazione religiosa, popolazione<br />

in maggior parte seguace del<br />

partito musulmano moderato al potere.<br />

Proprio di fronte alla fabbrica di<br />

intimo si erge la solida struttura dell’Ihlas,<br />

la grande holding mediatica<br />

— giornali, emittenti, agenzia di<br />

stampa — di orientamento schiettamente<br />

islamico.<br />

Alla Ten sono impiegate circa ottocento<br />

persone, più della metà donne,<br />

molte velate. Con indosso i loro foulard<br />

colorati percorrono silenziose i<br />

locali interni, sciamando indifferenti<br />

fra corsetteria e atelier. Nello showroom<br />

annesso all’ufficio del general<br />

manager sono esibiti in bella mostra<br />

pizzi rossi trasparenti e calze fumé<br />

autoreggenti. Il catalogo 2006, con i<br />

disegni sulle diverse proporzioni del<br />

seno e le immagini patinate di modelle<br />

in carne e ossa vestite in guepière,<br />

sembra far concorrenza a Playboy. A<br />

volte è Orhan stesso, appassionato<br />

fotografo, a scattare. <strong>La</strong> parola che ricorre<br />

di più, conversando con lui in<br />

inglese, è bumps, termine gergale che<br />

tradurremo con «tette»: «Dipende<br />

dalla grandezza delle bumps»; «le ragazzine<br />

hanno le bumps», eccetera.<br />

«Non c’è nessuna contraddizione»,<br />

afferma l’addetta alle relazioni pubbliche<br />

Arzu Karakadilar, «non ci sono<br />

differenze per chi indossa questo tipo<br />

di abbigliamento, si tratti di persone<br />

velate oppure no. Nessuno, marito a<br />

<strong>La</strong>voranti<br />

con il capo<br />

coperto<br />

assemblano<br />

reggiseni push-up<br />

e bikini<br />

leopardati<br />

“Con Internet”,<br />

dice il giovane<br />

manager<br />

Deha Orhan,<br />

“le vendite vanno<br />

benissimo, grazie<br />

soprattutto<br />

alla clientela<br />

maschile, che<br />

nei negozi è solo<br />

il 5 per cento”<br />

parte, può sapere che cosa porta sotto<br />

gli abiti la donna coperta dal copricapo.<br />

<strong>La</strong> lingerie è la stessa, con il velo<br />

o senza velo. Non ci sono capi speciali<br />

o diversi. Anzi, secondo i nostri<br />

tabulati, una città come Konya (considerata<br />

la più religiosa della Turchia<br />

e storica patria dei dervisci rotanti,<br />

ndr) è ai primi posti negli acquisti di<br />

prodotti così particolari». Internet ha<br />

portato la sua rivoluzione anche qui.<br />

«Da quando siamo presenti sul web»,<br />

aggiunge orgoglioso Orhan, «le vendite<br />

vanno benissimo. Un successo<br />

accresciuto soprattutto grazie agli<br />

uomini. <strong>La</strong> nostra clientela maschile<br />

è infatti solo il cinque per cento nei<br />

negozi. Ma diventa il sessanta se parliamo<br />

di ordinazioni via Internet».<br />

Il mercato appare<br />

in forte espansione.<br />

L’azienda di Istanbul,<br />

già produttrice<br />

del marchio LoliTen<br />

per le teenager dai<br />

quindici ai vent’anni<br />

(«preferito però<br />

dalle trentacinquenni»,<br />

aggiunge<br />

Orhan, «che vogliono<br />

apparire più colorate<br />

e sexy»), è ora<br />

pronta a lanciare il<br />

prodotto più maturo<br />

Ten Extreme e ha<br />

negozi ovunque.<br />

Quattro nella sola<br />

metropoli sul Bosforo<br />

e altri dieci sparsi<br />

in tutto il Paese,<br />

confini di Iran e Siria<br />

compresi, a Kars come<br />

ad Adana, a Erzurum<br />

e fino a<br />

Diyarbakir. Vende<br />

inoltre a 2.500 boutique<br />

locali e sta preparando<br />

il grande<br />

sbarco in Europa,<br />

dove intende aprire<br />

nuovi punti vendita.<br />

Prima in Russia ed<br />

Egitto, poi in Grecia<br />

e infine a Parigi. Per<br />

la fine dell’anno Ten<br />

arriverà anche in<br />

Italia, dove si è accordata<br />

per l’apertura<br />

di due centri a<br />

Milano.<br />

«<strong>La</strong> nostra strategia<br />

è chiara», dice il<br />

suo combattivo leader, «la Turchia è<br />

un pesce piccolo rispetto alle grandi<br />

aziende americane e dobbiamo difenderci.<br />

I colossi degli Stati Uniti<br />

vengono qui a comprarsi pezzi di imprese<br />

nazionali. Che cosa bisogna fare?<br />

Come reagire? Attaccando all’estero.<br />

E questo è il momento giusto<br />

per farlo. Non faccio i miei piani programmandoli<br />

sull’ipotetico ingresso<br />

di Ankara nell’Unione europea, perché<br />

non sarà questione di poco tempo.<br />

Però punto a fare di Ten un marchio<br />

davvero internazionale».<br />

Le signore con il velo possono in<br />

ogni caso contare anche su altre<br />

aziende capaci di garantire gusti, diciamo<br />

così, più contenuti e costruire<br />

un mix appropriato fra le esigenze<br />

della femminilità e il comportamento<br />

religiosamente corretto. Il marchio<br />

Hasema, ad esempio, manifattura di<br />

stile rigorosamente islamico nata a<br />

Istanbul nel 1993, è diventato il nome<br />

più noto tra i musulmani devoti di<br />

tutto il mondo. Per gli uomini ci sono<br />

solidi costumi da bagno a mezza<br />

gamba capaci, secondo il fondatore<br />

di Hasema, Mehmet Sahin, «di non<br />

sottolineare la parte privata». Per le<br />

donne gli stilisti turchi hanno invece<br />

ideato costumi a corpo intero tipo<br />

Spiderman, con apposito cappuccio<br />

a ricoprire i capelli.<br />

L’intimo ardito non sembra comunque<br />

contraddire la consuetudine<br />

del velo. Alla Ten ricordano ancora<br />

con soddisfazione quando l’attuale<br />

ministro dell’Economia, Ali Babacan,<br />

che al suo incarico ha recentemente<br />

aggiunto quello di negoziatore<br />

per l’ingresso in Europa e la cui<br />

moglie indossa il turban come quella<br />

del primo ministro Tayyip Erdogan,<br />

lavorava da loro come agente distributore.<br />

Fosse vissuto oggi, il sultano<br />

Abdul Hamid avrebbe sicuramente<br />

scelto sotto i suoi abiti dei comodi<br />

boxer turchi, assicura Deha Orhan,<br />

«perché sono proprio buoni, se non i<br />

migliori».<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39<br />

LE MUTANDE DEL SULTANO<br />

Nelle foto, lo stabilimento della Ten<br />

a Istanbul. In alto a sinistra, il general<br />

manager della Ten Deha Orhan davanti<br />

a esemplari di mutande francesi<br />

appartenute al sultano Abdul Hamid II


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 40 14/05/2006<br />

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

il racconto<br />

Condottieri<br />

GUIDO RAMPOLDI<br />

Sotto il titolo L’eredità genetica<br />

dei Mongoli, nel 2003 una<br />

prestigiosa pubblicazione<br />

scientifica, l’American Journal<br />

of Human Genetics, riferì<br />

i sorprendenti risultati d’una<br />

ricerca sul dna di duemila persone,<br />

abitanti la vasta regione che va dal Mar<br />

Caspio all’Oceano Pacifico. Stando al<br />

confronto tra i patrimoni genetici, l’otto<br />

per cento del campione condivideva<br />

un progenitore. E poiché i territori presi<br />

in esame corrispondevano all’estensione<br />

delle conquiste mongole al tempo<br />

di Gengis khan, quell’avo doveva essere<br />

mongolo. Forse lo stesso Gengis,<br />

suggerisce John Man in una delle biografie<br />

del khan apparse negli ultimi mesi<br />

in libreria (tra le altre segnaliamo l’ottima<br />

Il principe dei nomadi, scritta per<br />

<strong>La</strong>terza dall’archeologo Vito Bianchi).<br />

L’avremmo giudicata una sciocchezza<br />

se dodici anni fa non avessimo incontrato<br />

ad Hong Kong il signor Tom<br />

Wan, uno degli imprenditori più ricchi<br />

dell’Asia e, quel che qui importa, all’epoca<br />

capo d’una sorta di poderosa massoneria<br />

cinese che raccoglie trecentomila<br />

discendenti di Gengis, tutti in grado<br />

di ricostruire i ventinove gradini che<br />

li legano al Capostipite. Al secondo gradino<br />

c’è Wan, Nuvola, il figlio di Gengis<br />

da cui i trecentomila direttamente discendono.<br />

Sei gradini più sotto troviamo<br />

un alto dignitario della dinastia Yun<br />

sepolto a Canton, lì dove lo commemorano<br />

i mille rappresentanti della Famiglia<br />

in apertura del loro gran raduno annuale,<br />

dedicato soprattutto a discutere<br />

d’affari. Le orde mongole arrivarono fino<br />

a Udine, la Famiglia fa ogni giorno il<br />

periplo del mondo con i suoi capitali e<br />

L’otto per cento<br />

degli abitanti<br />

della regione<br />

tra Caspio e Pacifico<br />

condividono<br />

un progenitore<br />

Ottocento anni fa il dominio dei mongoli si estendeva dall’Ungheria<br />

al Mar Giallo, l’impero più vasto nella storia dell’umanità. Ora un libro<br />

incrocia i documenti dell’epoca e le ultime ricerche genetiche per spiegare<br />

come la costruzione e il mantenimento della grande conquista passassero<br />

attraverso una doppia, contraddittoria politica: matrimoni misti per legare<br />

al khanato i vinti e stragi spietate per terrorizzarli<br />

<strong>La</strong> saga di Gengis khan<br />

carnefice e patriarca<br />

le sue merci. Ubiqua. Dagli Stati Uniti a<br />

Singapore; perfino in Turchia. In Thailandia<br />

sono quarantamila, nella Mongolia<br />

cinese oltre duecentomila, in Cina<br />

rivestono cariche importanti nello Stato<br />

e nel partito. Ubiquità anche politica.<br />

Quale che sia il sistema regnante e la<br />

stagione storica, la stirpe di Gengis resta<br />

acquartierata nei palazzi del potere.<br />

Con alti e bassi ma tenacemente. Da otto<br />

secoli, che non è poco. Come se dalle<br />

nostre parti avessimo un Angiò presidente<br />

della Regione Sicilia e un Gonzaga<br />

sindaco di Mantova.<br />

Tom Wan mi spiegò così il segreto di<br />

questo tenace permanere: «Se qui arriva<br />

uno della Famiglia, io lo aiuto. Se vado<br />

a Singapore o a Bangkok, i rappresentanti<br />

locali della Famiglia mi ospitano<br />

nei loro alberghi. I Cheng e i Cheong<br />

in Cina sono decine di milioni, ma si<br />

ignorano. Noi Wan invece non solo ci<br />

aiutiamo a vicenda, ma non abbiamo<br />

mai permesso che la politica o la religione<br />

ci dividano». Quella delle genealogie<br />

è una passione antica, in Famiglia.<br />

Ai tempi in cui lo sventato Jacopone da<br />

Todi ammoniva «Guàrdate da li parenti»,<br />

i primi discendenti di Gengis già si<br />

premuravano di fissare la mappa della<br />

stirpe nel testo noto come <strong>La</strong> storia segreta.<br />

Al crollo dell’impero mongolo in<br />

Cina, la Famiglia si sparse in Asia per<br />

sottrarsi alla vendetta dei Ming; ma<br />

ogni nucleo conservò nei secoli documenti<br />

che lo dichiaravano prodotto dal<br />

sangue di Gengis khan, cioè parte della<br />

cosiddetta Discendenza d’oro; quest’ultima<br />

non si definiva famiglia, ma<br />

razza, la più pura razza mongola (anche<br />

Tom Wan alternava i termini famiglia e<br />

razza riferendosi ai suoi trecentomila<br />

«parenti»). Mao-tse-tung promosse «figli<br />

e nipoti di Gengis khan» tutti i mongoli<br />

della Mongolia cinese; ma i discendenti<br />

del khan sono ancora parte del<br />

gruppo dirigente. Passarono un periodo<br />

difficile durante la Rivoluzione culturale,<br />

quando tutto ciò che era antico o<br />

«vecchio» doveva essere sradicato. Tra<br />

gli stessi parenti di Tom Wan alcuni furono<br />

arrestati a sottoposti a rieducazione;<br />

e i libri più antichi della famiglia, relativi<br />

al secolo che va da Kublai khan all’avvento<br />

dei Ming (1368), furono bruciati<br />

dalle Guardie rosse. Ma a conti fatti,<br />

«quei giovani ignoranti e animaleschi»,<br />

come li definiva Tom Wan, non<br />

avevano neppure scalfito la solidità della<br />

Famiglia.<br />

Tutto questo sembrava molto cinese.<br />

Come spiegavano in quegli anni i manuali<br />

per manager occidentali di cui<br />

straboccavano le librerie di Honk Kong,<br />

i segreti dell’intraprendenza commerciale<br />

cinese sono il familismo e le<br />

Guanxi, relazioni. E pochi possono<br />

competere con le Guanxi di una Fami-<br />

glia grande quanto Novara (l’elenco dei<br />

suoi membri, sparsi per tutta l’Asia, ha<br />

la copertina azzurra e il volume di un<br />

elenco telefonico). Eppure Tom Wan<br />

non era un cinese puro, neppure nell’estetica.<br />

Come gli uomini d’affari cinesi<br />

di Hong Kong vestiva abiti di sobrio taglio<br />

inglese, nel suo caso con panciotto<br />

e farfallino. E cinese era anche il taglio<br />

dei suoi occhi, ereditato dalla madre.<br />

LA TOMBA PERDUTA<br />

<strong>La</strong> Mondadori manda nelle librerie il 16<br />

maggio un nuovo titolo della sua collana<br />

di storia, il “Gengis khan” di John Man (460<br />

pagine, euro 10,40). L’autore è un profondo<br />

conoscitore della Mongolia e della Cina<br />

e per preparare questo libro è stato il primo<br />

occidentale a visitare la valle in cui si pensa<br />

sia morto il khan e a scalare la montagna<br />

su cui è probabilmente sepolto. <strong>La</strong> tomba,<br />

infatti, fu tenuta nascosta dai successori<br />

e così i posteri ne hanno perduto la traccia<br />

Ma la sua fronte alta e il naso forte, teneva<br />

a sottolineare, erano senz’altro<br />

mongoli. E forse non solo quelli. Per<br />

quanto la Famiglia incoraggi i matrimoni<br />

interetnici (altre Guanxi da capitalizzare)<br />

resta tenacemente fedele ad<br />

un antico codice d’onore che comanda<br />

il rispetto degli anziani e la lealtà ai capi<br />

delle sotto-famiglie, eletti ogni due anni<br />

per alzata di mano, secondo la tradizione<br />

mongola.<br />

Ma soprattutto proviene dalle steppe<br />

della Mongolia quella tenace volontà di<br />

moltiplicarsi per il mondo, conservando<br />

però un legame con l’origine, che appartenne<br />

a Gengis e alla sua corte. Secondo<br />

lo studio citato da John Man, il<br />

khan e i più importanti guerrieri si riprodussero<br />

così freneticamente perché<br />

esercitavano sull’altro sesso il fascino<br />

che deriva da un potere enorme: «Le nostre<br />

scoperte — scrivono i genetisti —<br />

dimostrano una nuova forma di riproduzione,<br />

basata sul prestigio sociale».<br />

Non avendo la scienza di questi ricercatori,<br />

noi profani tenderemmo a concludere<br />

che la questione sia tutt’altra: per<br />

FOTO FOTOTECA GILARDI


DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

LA VITA<br />

L’INFANZIA<br />

Nasce fra il 1155<br />

e il 1167. Il padre,<br />

capo della tribù<br />

mongola dei Kiyad<br />

lo chiama Temujin,<br />

come un nemico<br />

ucciso in battaglia<br />

UN’ARMATA MULTICULTURALE<br />

Nella foto grande, un’immagine dal film “Gengis khan”, del 2004<br />

Nella cartina, i confini dell’impero più vasto della storia<br />

Qui sopra, una stampa dell’epoca raffigurante Gengis khan<br />

e, sotto, un guerriero del suo esercito<br />

L’ASCESA<br />

Nel 1206, fonda<br />

l’Impero Mongolo<br />

e viene proclamato<br />

Gran khan<br />

dei mongoli col titolo<br />

di Gengis khan, cioè<br />

sovrano oceanico<br />

LE CONQUISTE<br />

Nel 1221 avvia<br />

il grande progetto<br />

di conquista di Cina,<br />

Asia centrale<br />

ed Europa orientale<br />

per avere l’impero<br />

più grande della storia<br />

garantirsi la lealtà dei popoli sottomessi<br />

Gengis e i suoi familiari sposarono<br />

un’infinità di principessine asiatiche.<br />

Ricorsero al matrimonio per legare al<br />

khanato monarchie e capitribù.<br />

Il problema costante dei khan, infatti,<br />

fu la difficoltà di esercitare il proprio<br />

dominio su un territorio immenso con<br />

truppe numericamente esigue. Queste<br />

avevano sui nemici l’enorme vantaggio<br />

strategico che derivava dai cavalli, i leggeri<br />

cavallini mongoli che non affondano<br />

nella neve; e soprattutto dall’arco<br />

composito, costruito assemblando legno<br />

ed osso, le cui frecce hanno gittata<br />

e forza d’impatto maggiori dell’arco<br />

tradizionale. Inoltre i mongoli erano<br />

cavalieri impareggiabili sia nella tecnica<br />

individuale sia nelle manovre, come<br />

dimostravano nell’attività da cui trassero<br />

i loro schemi tattici, la caccia al lupo.<br />

Ma i soldati dell’esercito mongolo<br />

non raggiungevano neppure i centomila,<br />

e quelli di cui il khan poteva fidarsi<br />

ciecamente erano anche meno. Pochissimi<br />

per controllare un territorio che<br />

per alcuni anni spaziò dalla Cina all’Ungheria,<br />

la più vasta estensione mai<br />

raggiunta da un impero.<br />

Questa sproporzione potrebbe spiegare<br />

anche il terribile paradosso mongolo<br />

per il quale Gengis e la sua famiglia<br />

furono estremi non solo nel procreare<br />

ma anche nello sterminare, nel dare la<br />

vita come nel dare la morte. <strong>La</strong> loro frenesia<br />

riproduttiva, biologica, fu l’altra<br />

faccia d’una frenesia di uccidere che<br />

non ha eguali nella storia umana. Sommando<br />

le cronache redatte da persiani,<br />

cristiani, cinesi e arabi, si ricava che i<br />

mongoli sterminarono dieci milioni<br />

d’umani in un mondo allora spopolato.<br />

Probabilmente le loro vittime furono<br />

assai meno, però la fama sinistra che li<br />

precedeva non era immeritata. Ma senza<br />

il terrore che incutevano, le sparute<br />

guarnigioni mongole non avrebbero<br />

potuto dominare popoli e nazioni dai<br />

boschi delle piane magiare fino al Mar<br />

Giallo. Al confronto la crudeltà europea,<br />

assai meno letale in termini numerici,<br />

era molto più gratuita. Quando i<br />

mongoli sbaragliarono la crema della<br />

cavalleria cristiana nelle piane polacche,<br />

la Mitteleuropa vendicò il disastro<br />

ammazzando ebrei, accusati senza colpa<br />

alcuna di complicità con gli invasori.<br />

Ma anche con queste avvertenze<br />

LA MORTE<br />

Muore nell’agosto<br />

del 1227, mentre<br />

stava per terminare<br />

la conquista<br />

della Cina. L’impero<br />

viene diviso<br />

tra i quattro figli<br />

Gengis resterebbe una figura solamente<br />

odiosa se egli non avesse mostrato<br />

per le religioni e i costumi dei popoli<br />

sottomessi uno straordinario rispetto,<br />

sovente un’acuta curiosità. Dopo la sua<br />

morte il francescano Giovanni Pian del<br />

Carpine, messo pontificio, trovò nella<br />

capitale mongola, Karakorum, templi<br />

cristiani, musulmani e sciamanici che<br />

convivevano serenamente. In una sorprendente<br />

anticipazione dell’ecumenismo<br />

l’impero decretò che ciascuna<br />

fede rappresentava un percorso legittimo<br />

e degno verso l’ente supremo, il Cielo<br />

Eterno. Quest’ultimo appariva come<br />

una sorta di casa comune delle religioni.<br />

Le comprendeva tutte e non ne<br />

escludeva alcuna, purché accettasse<br />

l’autorità dell’imperatore. Rifiutare obbedienza<br />

al khan rappresentava così<br />

una ribellione al Cielo, blasfemia punita<br />

con la morte dalla Legge universale, il<br />

codice dei mongoli.<br />

Secondo quanto mi disse lo storico<br />

Nyam-Osorh, all’origine delle grandi<br />

stragi mongole c’è soprattutto questa<br />

concezione rigida della legalità, da cui<br />

neppure il khan poteva derogare. Inoltre<br />

la Legge universale accordava tutela<br />

assoluta agli ambasciatori, mentre cristiani<br />

e musulmani usavano scannarli<br />

se latori di messaggi sgraditi: anche<br />

questo aizzò le terribili vendette di Gengis.<br />

Ma potremmo sospettare che fu decisivo<br />

il disprezzo antropologico del<br />

nomade a cavallo per lo stanziale appiedato,<br />

e soprattutto per il contadino,<br />

che i mongoli consideravano creatura<br />

assai meno rispettabile dei loro amati<br />

destrieri. Quando conquistarono un<br />

gran pezzo della Cina rurale discussero<br />

a lungo, e seriamente, se lasciare in vita<br />

un’umanità così sordida.<br />

Secondo le cronache<br />

di persiani, cristiani,<br />

cinesi e arabi,<br />

10 milioni di uomini<br />

furono sterminati<br />

dai cavalieri mongoli<br />

FOTO CORBIS<br />

L’<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41<br />

Appunti di viaggio in Mongolia<br />

<strong>La</strong> vita e la morte<br />

in groppa al cavallo<br />

EMANUELA AUDISIO<br />

imperatore a cavallo, il popolo<br />

pure. Nella steppa c’è posto.<br />

<strong>La</strong> Mongolia ha trenta milioni<br />

di animali, ogni persona in media ne<br />

ha dodici, tra cavalli, yak, mucche,<br />

cammelli, pecore, capre. Gengis khan<br />

conquistò il mondo senza mai scendere<br />

da cavallo, l’unica volta che fu costretto<br />

a farlo, per una caduta, morì.<br />

Da queste parti nessuno se lo scorda:<br />

la vita ti mette in sella, tocca a te restarci.<br />

Brindi con l’airag, latte di cavalla<br />

fermentato, dodici gradi di volume<br />

alcolico. E quando scendi, cammini a<br />

gambe larghe: cavalcare storpia.<br />

Il Naadam, la festa con cui a luglio la<br />

Mongolia celebra la sua indipendenza<br />

(1921) non dimentica Gengis khan<br />

e il tempo lontano in cui un uomo affrontò<br />

un mostro a cinque teste. Nelle<br />

favole capita, il mostro perse le tre prove:<br />

lotta, corsa a cavallo, tiro. Se capitate<br />

in Mongolia in quel periodo vi<br />

sembrerà di stare in un film di John<br />

Ford. Nitriti, escrementi, liquidi, bave<br />

gialle, chiappe sudate, rumore di galoppo,<br />

erba calpestata, terra che vibra,<br />

pentole con stufato di montone. E i<br />

gutul, stivali facili da infilare, senza<br />

differenza tra il destro e il sinistro, la<br />

punta è all’insù per motivi religiosi,<br />

così si uccidono meno insetti.<br />

Cavalli ovunque: a destra, sinistra,<br />

in pianura. Generale, dietro la collina<br />

ci sta la notte buia e assassina, cantava<br />

De Gregori. Fuori da Ulaanbaatar invece<br />

quasi mille animali lanciati al galoppo.<br />

<strong>La</strong> razza mongola è un incrocio<br />

tra i mustang e i berberi, sono animali<br />

piccoli, ma veloci. Il cavallo originario<br />

è conosciuto con il nome di Takhi (spirito)<br />

e assomiglia più a una zebra: collo<br />

massiccio, zampe corte, criniera<br />

breve e ispida, manto color sabbia che<br />

si scurisce nei mesi invernali, non più<br />

di 140 centimetri al garrese. I mongoli<br />

montano sin da bambini, per loro non<br />

esiste che al mondo ci siano uomini incapaci<br />

di cavalcare. Un imperatore<br />

nasce a cavallo, e deve subito far capire<br />

all’animale chi comanda. Hanno<br />

idee chiare anche sull’astronomia. «Il<br />

cielo è la tenda degli dei e le stelle sono<br />

i buchi per fare entrare la luce e il vento.<br />

Il chiodo tiene su tutto». Il chiodo è<br />

la stella polare. Se si smonta dalla sella<br />

è per riposare sotto la tenda, gher, uno<br />

scheletro di tronchi di betulla ricoperto<br />

da feltro e pelli.<br />

Il giornalista Federico Pistone che<br />

cercava gli uomini-renna è stato messo<br />

in sella (una tavola di legno sottile),<br />

avviato nella taiga, e invitato a gridare<br />

«Ciù, ciù», come fanno da secoli i cavalieri<br />

mongoli. Pistone non era mai<br />

montato a cavallo in vita sua. Queste<br />

le parole della sua avventura: «Macchie<br />

rosse sempre più fitte e vaste<br />

sporcano il mantello bianco del cavallo:<br />

è il sangue che affiora dalle voragini<br />

aperte da enormi tafani verdastri,<br />

incoraggiati dall’ultimo acquazzone<br />

e agevolati dall’assenza del vento.<br />

Anch’io ho le braccia e il viso devastati<br />

ma non posso mollare le briglia<br />

nemmeno un attimo, volerei via. Il cavallo<br />

perfeziona un metodo per allontanare<br />

gli insetti: in piena corsa si struscia<br />

contro gli alberi, dimenticandosi<br />

di avere in groppa qualcuno, che dovrebbe<br />

essere quello che comanda. I<br />

rovi mi lacerano i vestiti e la pelle, cerco<br />

di stare basso, di schivare i rami ma<br />

uno mi colpisce in piena faccia, disarcionandomi».<br />

Quando all’improvviso in fondo alle<br />

valle, tra le montagne, si leva una colonna<br />

di polvere, significa che la corsa<br />

è partita. Venticinque chilometri più<br />

in là, distanza stabilita da Gengis<br />

khan. Mille cavalli che piombano sul<br />

traguardo sono un bel rumore. Anche<br />

perché pure gli spettatori sono a cavallo,<br />

anzi in piedi sugli animali. In gara<br />

bambini di poca età e peso, quattrosette<br />

anni. Non conta chi guida, ma la<br />

velocità dell’animale. E alla fine conta<br />

darsela a gambe perché i puledri nervosi,<br />

frementi, agitati piombano sulla<br />

folla, senza annuncio, né telecronaca.<br />

Mentre c’è chi si precipita ad asciugare<br />

il sudore dell’animale con un raschietto<br />

fatto col becco di un pellicano.<br />

E Nemehbaatar ti fa le uniche domande<br />

che interessano i mongoli:<br />

«Sai camminare a lungo? Sai cavalcare?<br />

Sai sgozzare una pecora?». No, Nemehbaatar<br />

la pecora no. Ma che te lo<br />

dico a fare, se sei già al galoppo.


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 42 14/05/2006<br />

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

NATALIA ASPESI<br />

Sfrecciano alle aste più prestigiose<br />

decine di Picasso, e<br />

anche il ghirigoro più distratto<br />

viene bramato e<br />

conteso in cambio di somme<br />

stravaganti: una settimana<br />

fa Le Repos, del 1932, considerato<br />

dagli esperti «un’autoparodia picassiana»,<br />

è stato battuto a New York a<br />

31 milioni di dollari, mentre qualche<br />

giorno prima un ritratto di Dora Maar<br />

era salito a 85: due anni fa Ragazzo con<br />

la pipa era arrivato a 105 milioni. <strong>La</strong><br />

passione per i Picasso non ha requie<br />

tra i miliardari, e del resto ai suoi tempi,<br />

dei Picasso e soprattutto di Picasso<br />

si innamoravano tutti,<br />

disperatamente: mogli,<br />

amanti, donne in generale,<br />

ma anche una moltitudine<br />

di uomini, che<br />

certo non nutrivano<br />

pensieri erotici verso l’ometto<br />

dai venefici occhi<br />

neri, ma erano soggiogati<br />

dal suo genio, quindi<br />

dal suo pessimo carattere,<br />

capriccioso e villano,<br />

oltre che dal profluvio<br />

torrentizio delle sue Demoiselles<br />

d’Avignon, Tre<br />

Ballerine, Tre Donne alla<br />

Fontana, Donne in Riva<br />

al Mare, con Mandolino,<br />

con Gatto, in Poltrona,<br />

Piangenti, in questo caso<br />

a ragione se si trattava<br />

di signore che per disgrazia<br />

erano state fulminate<br />

dal suo fascino.<br />

A 33 anni dalla sua dipartita<br />

non si arresta<br />

l’accumulo di memorie,<br />

confessioni, libelli, studi<br />

critici, cataloghi, mostre,<br />

la prossima in autunno<br />

a Palazzo Grassi a<br />

Venezia, biografie (di<br />

quella monumentale di<br />

John Richardson uscirà<br />

il terzo volumone a dicembre).<br />

E intanto procura massimo<br />

diletto anche ai non picassiani Visiting<br />

Picasso (editori Thames and Hudson,<br />

408 pagine, 72 fotografie, 25 sterline),<br />

la «biografia di un’amicizia» come la<br />

definisce l’autrice, l’eminente studiosa<br />

Elizabeth Cowling, che ha avuto accesso<br />

ai ricchi archivi della Scottish<br />

National Gallery of Modern Art di<br />

Edimburgo, museo ricco di arte Dada e<br />

Surrealista, che conserva tra l’altro<br />

1200 dossier di lettere, fotografie, appunti,<br />

diari, ritagli di giornali, agende,<br />

manoscritti, libri, donati da Roland<br />

Penrose, uno dei tanti biografi di Picasso:<br />

personaggio dei più inglesi, nato<br />

in una famiglia di banchieri di enorme<br />

ricchezza, grande proprietario terriero<br />

nel Sussex, collezionista ingordo,<br />

ma anche proprietario di gallerie,<br />

scrittore, artista, organizzatore di mostre,<br />

fondatore e finanziatore del celebre<br />

Institute of Contemporary Arts<br />

londinese, ma soprattutto appassionato,<br />

devoto e sottomesso amico dell’artista.<br />

Nella folla di amici, estimatori,<br />

pellegrini, persecutori, il più appassionato,<br />

devoto e sottomesso, quindi il<br />

più seviziato; e tuttavia il più incorruttibilmente<br />

fedele, per quasi quarant’anni,<br />

dal momento del loro primo<br />

Sta per essere pubblicato da Thames & Hudson “Visiting Picasso”,<br />

la testimonianza dei quarant’anni di frequentazione tra il collezionista<br />

inglese Roland Penrose e l’artista spagnolo. Uno straordinario viaggio<br />

tra diari, appunti, fotografie inedite che illumina angoli sconosciuti della vita del pittore,<br />

dei suoi burrascosi rapporti con mogli e amanti, del trattamento capriccioso,<br />

dispotico e a volte sadico che riservava perfino ai suoi mecenati<br />

Pablo<br />

Picasso<br />

<strong>La</strong> strana amicizia<br />

tra il genio<br />

e il gentiluomo<br />

<strong>La</strong> visita segreta<br />

che la regina<br />

Elisabetta<br />

fece alla mostra<br />

della Tate Gallery:<br />

“Perché gli occhi<br />

sullo stesso lato<br />

della faccia?”<br />

incontro nel 1936 sino alla morte nel<br />

1973 a 92 anni del maestro surrealistacubista.<br />

Certo la parola “amicizia” è inesatta<br />

per descrivere un rapporto vistosamente<br />

asimmetrico, più simile al classico<br />

amor cortese medioevale, perché,<br />

scrive l’ironica autrice, «da una parte<br />

c’era adorazione, costanza, desiderio<br />

di servire e onorare e una lunga sofferta<br />

pazienza, dall’altra, malgrado segnali<br />

di parzialità, un certo distacco e<br />

una tendenza al capriccio e alla crudeltà».<br />

In questa divertente trasposizione,<br />

l’elegante gentiluomo inglese è il<br />

Cavaliere, il macho latino la Dama,<br />

Penrose corteggiava e agiva, Picasso se<br />

ne stava immusonito in una delle sue<br />

disordinate dimore nel Sud della Francia,<br />

e i suoi «No» si abbattevano spesso<br />

sulla testa del questuante prostrato ai<br />

suoi piedi.<br />

Una risposta spietata<br />

E fu un «No» spietato quello che l’artista<br />

oppose all’invito in ginocchio di<br />

mostrarsi anche solo per pochi minuti<br />

alla solenne inaugurazione della grande<br />

mostra retrospettiva organizzata da<br />

Penrose nel 1960, dopo tre anni di intenso<br />

lavoro, alla Tate Gallery di Lon-<br />

TACCUINI<br />

A sinistra, Penrose<br />

con Picasso<br />

Le altre immagini:<br />

un’altra foto<br />

e un dipinto<br />

di Picasso;<br />

un taccuino<br />

di Penrose;<br />

due cartoline<br />

di Picasso<br />

ai Penrose<br />

PHOTO SCOTTISH NATIONAL GALLERY OF MODERN ART, EDINBURGH<br />

dra. «Perché dovrei perdere tempo per<br />

andare a rivedere i miei quadri? Ho<br />

buona memoria e li ricordo tutti», aveva<br />

brontolato al celebre amico fotografo<br />

Brassai. «Ho imprestato alla mostra<br />

anche opere che mi appartengono<br />

e questo mi è già costato un mucchio di<br />

fastidi. Le mostre ormai significano<br />

ben poco per me, i miei vecchi quadri<br />

non mi interessano più, ho molta più<br />

curiosità verso quelli che ancora non<br />

ho dipinto».<br />

Neppure il fatto che in gran segreto la<br />

regina Elisabetta aveva deciso di visitare<br />

la mostra, accompagnata dalla sorella<br />

Margaret, dalla Regina Madre e dall’augusto<br />

consorte principe Filippo,<br />

smosse il vecchio brontolone, che pure<br />

raccontava di sognarsi intento a porcherie<br />

con la sovrana e la principessa. A<br />

«Mon cher Pablo», il paziente inglese<br />

scrisse una lettera raccontandogli con<br />

umorismo i commenti dei regali visitatori:<br />

Margaret, sentimentale, davanti al<br />

ritratto di Dora: «L’amava davvero tanto?».<br />

Regina, impreparata: «Perché<br />

mette due occhi sullo stesso lato della<br />

faccia?». Regina Madre, astuta: «È il più<br />

grande di tutti i tempi!». Principe Filippo,<br />

impaziente: «Cara, ti rendi conto<br />

che dobbiamo vedere 270 quadri e non<br />

siamo che all’inizio?».<br />

Il miliardario rivale<br />

<strong>La</strong> Mostra fu un successo strepitoso,<br />

nei suoi 77 giorni attrasse 460mila visitatori,<br />

i giornali parlarono di «Picassomania»:<br />

chi se la prese furiosamente<br />

con Penrose furono i suoi amici surrealisti<br />

dopo averlo visto in fotografia<br />

nobilmente strisciare in tight accanto<br />

ai Windsor. Ma mai quanto strisciava<br />

alla corte di Don Pablo, che sapeva benissimo<br />

come ferire questo gentiluomo<br />

di modi impeccabili e malgrado<br />

tutto mai arreso: non importava che<br />

alle duecento lettere e più Picasso non<br />

rispondesse quasi mai, che non lo<br />

avesse mai ricevuto da solo ma sempre<br />

in mezzo a una piccola folla di visitatori,<br />

che spesso lo tenesse fuori<br />

dalla porta di casa facendo finta di non<br />

esserci e che soprattutto si divertisse a<br />

metterlo di fronte al suo arcinemico, il<br />

miliardario australiano Douglas Coo-


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 43 14/05/2006<br />

DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

per, anche lui collezionista, anche lui<br />

autore di libri e organizzatore di mostre.<br />

<strong>La</strong> sanguinosa guerra tra i due attorno<br />

alla grande retrospettiva alla<br />

Tate Gallery, vinta da Penrose, è documentata<br />

dalle sue lettere lacrimose<br />

a Picasso che per un po’ lo tenne<br />

sulla corda, non dandogli la certezza<br />

di prestare le sue opere. Cooper viveva<br />

in Provenza e invitava Picasso e sua<br />

moglie Jacqueline a delle fastose cene<br />

nel suo Chàteau de Castille, una dimora<br />

teatrale tutta a colonne vicino<br />

ad Arles. In più, scrive Elizabeth Cowling,<br />

«Picasso adorava spettegolare<br />

con lo sfavillante, divertente, malevolo<br />

Cooper, mentre Jacqueline andava<br />

molto d’accordo con John Richardson,<br />

l’affascinante compagno<br />

di Cooper». Secondo Richardson, diventato<br />

poi il più autorevole biografo<br />

di Picasso, l’artista era attratto dalla<br />

relazione incostante dei due, che gli<br />

ricordava gli amori tempestosi di<br />

Diaghilev con Léonide Massine, Serge<br />

Lifar e gli altri maschi dei Ballets<br />

Russes.<br />

Con Penrose, educato, rigoroso e fedele,<br />

certo ci si divertiva meno, in più<br />

Cooper possedeva una collezione d’arte<br />

splendida, che comprendeva dei Picasso<br />

di massima qualità ed aveva una<br />

rete di amici collezionisti, ricchi e influenti.<br />

Però Penrose aveva un inestimabile<br />

vantaggio: la sua seconda moglie,<br />

la bellissima modella americana<br />

Lee Miller che era apparsa regolarmente<br />

sulle copertine di Vogue, e piombata<br />

nella stordente Parigi surrealista degli<br />

anni Trenta era diventata l’amante di<br />

Man Ray prima di conoscere Roland<br />

nel 1937. Fotografa eccellente (la maggior<br />

parte delle foto del libro sono sue)<br />

Cowling: “Racconto l’uomo, non il mito”<br />

«È<br />

stato come inserire uno dopo l’altro i pezzetti di<br />

un puzzle, come riannodare insieme la trama di<br />

una sceneggiatura cinematografica. Come fare<br />

un film. Leggevo i notebook, riguardavo gli album di ritagli,<br />

le lettere, i documenti, le foto. Lee Miller aveva l’abitudine<br />

di srotolare interi rollini, uno scatto dopo l’altro,<br />

girando così il suo “film”. Allo stesso modo io ho<br />

cercato di ricostruire le sequenze visive della<br />

vita di un genio. Erano lo spirito, l’intimità<br />

di Picasso a dover trapelare da quella<br />

montagna di documenti». Elizabeth Cowling<br />

parla da un ufficio della Thames & Hudson<br />

a Londra. Storica dell’arte alla Edinburgh<br />

University ha scritto diversi libri su Picasso<br />

e ha curato la mostra Matisse Picasso itinerante<br />

tra Parigi, Londra e New York. Visiting<br />

Picasso, in uscita venerdì prossimo, è il<br />

suo ultimo lavoro. Un lavoro di cesellatura, di<br />

sistemazione dei taccuini, della corrispondenza<br />

tra lo scrittore Roland Penrose e Picasso,<br />

dei materiali e delle foto scattate fino ai<br />

Settanta.<br />

Cosa aggiunge questo libro all’enorme<br />

produzione esistente su Pablo Picasso?<br />

«Dimostra quanto siano stati fondamentali i segmenti<br />

di conversazione, i momenti di vita annotati da Penrose<br />

per capire la vita intima del pittore. Picasso si rifiutava<br />

di scrivere sui lavori che faceva. Penrose, con quegli appunti<br />

sparsi, ha creato un mondo dagli effetti magici: ci<br />

ha fatto scorrere davanti pezzo per pezzo il suo cammino,<br />

ci ha dato una serie infinita di dettagli che altrimenti<br />

non avremmo mai avuto. L’evoluzione dei quadri, delle<br />

tecniche usate».<br />

AMBRA SOMASCHINI<br />

I materiali gettano nuova luce sull’artista?<br />

«Sì, viene fuori un ritratto nuovo che fissa punti di vista<br />

diversi da quelli tradizionali sul Picasso uomo. È un ritratto<br />

da candid camera, una riproduzione reale, senza censure,<br />

un reality. Un’inquadratura completa della sua vita<br />

privata. Non si mette in mostra il mito ma l’uomo vero,<br />

con i difetti dell’uomo vero. Leggendo le note,<br />

cogliendo gli sguardi intimi, privati, anche noi<br />

possiamo entrare nel film, assaporarne le atmosfere,<br />

seguirne la trama. Per un attimo diventiamo<br />

invisibili dietro le sue spalle, osserviamo<br />

quello che gli succede intorno».<br />

E cosa gli succede?<br />

«Picasso, certamente, aveva un profondo<br />

senso del dolore, dell’angoscia, della tragedia,<br />

dell’orrore. Ma, nello stesso tempo aveva<br />

un lato comico molto spiccato. Dai taccuini<br />

viene fuori che a volte reagiva male<br />

con gli amici. Che era capriccioso, crudele,<br />

lunatico, antipatico. Che più diventava famoso<br />

più diventava insopportabile. Perché<br />

veniva continuamente messo sotto assedio<br />

da persone che gli chiedevano sempre di più, che<br />

volevano, pretendevano sempre di più. E lui, a lungo andare,<br />

non riusciva a sopportare una pressione simile».<br />

Pensa che i lettori possano percepire l’anima delle case,<br />

dei luoghi della vita intima di Picasso?<br />

«L’anima di quelle case trapela dai rullini, dal “filmdocumentario”<br />

girato da Lee Miller. E dal materiale raccolto<br />

sui luoghi. Parigi, il Sud della Francia, Mougins, Antibes,<br />

Londra. Eppure se Penrose fosse qui adesso lo sgriderei.<br />

Avrebbe potuto scrivere molto di più. In fondo in<br />

quegli anni ha pensato soprattutto a divertirsi».<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43<br />

CANDID CAMERA<br />

Il libro “Visiting Picasso”,<br />

in uscita nella seconda metà<br />

di maggio per Thames<br />

& Hudson (408 pagine,<br />

72 fotografie, 25 sterline)<br />

è curato da Elizabeth Cowling<br />

e raccoglie una scelta<br />

dei diari, delle lettere,<br />

delle foto che Roland Penrose<br />

ha lasciato nei quarant’anni<br />

della sua amicizia col pittore<br />

spagnolo: una specie<br />

di candid camera sulla vita<br />

dell’artista, della sua famiglia<br />

e dei suoi amici<br />

aveva sposato l’innamorato e libertino<br />

Penrose e lo seguiva nelle sue visite a Picasso<br />

che lei sapeva incantare<br />

e divertire.<br />

Una biografia appena<br />

uscita negli Stati Uniti<br />

ne racconta la vita<br />

avventurosa e drammatica,<br />

dalla violenza<br />

subita a sette anni,<br />

alla vicinanza di un<br />

nonno che continuò<br />

a fotografarla nuda<br />

anche da adulta, ai<br />

suoi reportage sui<br />

campi di concentramento<br />

alla fine<br />

della guerra, quando<br />

si fece anche fotografare<br />

nella vasca<br />

da bagno di<br />

Hitler, sino al suo<br />

precipitare nell’alcolismo,perdendo<br />

bellezza e<br />

fascino.<br />

Per devozione<br />

al suo idolo,<br />

Penrose scrivendonel’esemplarebiografia,<br />

Picasso:<br />

his life and<br />

work, pubblicata<br />

nel 1958,<br />

aveva omesso<br />

molto della<br />

sua vita privata,<br />

delle sue donne, delle sue sfuriate<br />

e depressioni, delle sue ironie sul<br />

partito comunista a cui pure era iscritto<br />

dal 1944, e anche di tutti i malevoli<br />

commenti su di lui. Risultano quindi<br />

tanto più interessanti, immediati e sinceri,<br />

i suoi diari e gli appunti delle interviste<br />

fatte per la biografia a persone<br />

contente di sfogarsi. Per esempio Fernande<br />

Olivier, l’amante degli anni giovani<br />

e poveri: «Un bel pittore le fa sapere<br />

che se non andrà a trovarlo si ucciderà.<br />

Le amiche le consigliano di andare<br />

e di non farlo sapere a Pablo, ma una<br />

di loro corre a dirglielo e quando lei torna<br />

gli dice una bugia, lui le dà uno<br />

schiaffone e le ordina di andarsene<br />

perché non l’ama più. Lei, se lo dici<br />

un’altra volta non torno più. Lui lo ripete<br />

e lei se ne va senza neanche un soldo<br />

e lui non la cercherà più».<br />

Amante borghese-bohemien<br />

Dora Maar, l’amante fotografa della fine<br />

degli anni Trenta, parla delle altre<br />

donne: «Pablo voleva nelle sue donne<br />

un misto di borghese e bohemien. Olga,<br />

figlia di un colonnello, faceva la<br />

ballerina, Diaghilev lo sconsigliò di<br />

sposarla, ma lui era attratto da quei<br />

contrasti... Pablo incontrò Marie-<br />

Thérèse quando lei aveva quattordici<br />

anni... <strong>La</strong> nascita di Maya un errore,<br />

Pablo sempre ansioso di provare la sua<br />

fertilità mettendo incinta una ragazza<br />

ma dice che poi per lui quella ragazza<br />

è un nemico… Lui ama i seni pesanti,<br />

ancora di più quelli con molto latte…».<br />

Françoise Gilot, autrice del crudelissimo<br />

Vita con Picasso, madre di Claude<br />

e Paloma: «Qualche giorno prima aveva<br />

detto a Pablo che stava per sposare<br />

Luc Simon e lui si era arrabbiato moltissimo…<br />

L’avvocato lo aveva rimproverato<br />

per non aver provveduto ai figli…».


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 44 14/05/2006<br />

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

la lettura<br />

Gialli culturali<br />

ANTONIO MONDA<br />

NEW YORK<br />

in un momento storico<br />

nel quale vengono conservati<br />

gli episodi mai trasmessi di<br />

«Viviamo<br />

American Idol, ed è deprimente<br />

riflettere sul fatto che siano andate smarrite almeno<br />

la metà delle più grandi opere di prosa e di poesia<br />

mai realizzate». Scrive così nella sua introduzione<br />

Stuart Kelly, un critico letterario scozzese che<br />

ha dato alle stampe una deliziosa antologia delle<br />

grandi opere letterarie scomparse, che ha per titolo<br />

Il libro dei libri perduti, e per sottotitolo Una storia<br />

incompleta di tutti i grandi libri che non leggerete<br />

mai. Kelly ha scoperto di provare una passione irrefrenabile<br />

per questi tesori scomparsi quando<br />

realizzò a quindici anni che non esisteva alcuna<br />

traccia delle opere di Agatone, citate da Platone nel<br />

Simposio, e sin da allora cominciò a ricostruire la<br />

storia di capolavori annunciati e mai realizzati,<br />

progetti abortiti per volere dei rispettivi<br />

autori, e opere smarrite per incuria,<br />

furti, ripensamenti o casi fortuiti.<br />

<strong>La</strong> lunga lista dei testi scomparsi accompagna<br />

il lettore in un universo coerente<br />

quanto inesistente degno di Borges,<br />

e consente di costruire un’affascinante<br />

storia parallela della letteratura. Nel<br />

capitolo dedicato ad Omero si parla ad esempio<br />

del Margites, che aveva per protagonista uno<br />

sciocco. Si tratta di un personaggio mitico di cui<br />

scrisse anche Aristotele, ma le informazioni relative<br />

alla versione omerica sono affidate all’unico<br />

frammento che è arrivato sino a noi dell’Alcibiade<br />

di Platone, che descrive il personaggio come un<br />

uomo che «sa molte cose, ma tutte male». Kelly si<br />

dilunga sulle ipotesi a proposito dell’identità di<br />

Omero, ricordando il testo del 1897 di Samuel Butler,<br />

dal titolo L’autrice dell’Odissea, nel quale si<br />

congettura che il poeta cieco potesse essere una<br />

donna.<br />

Le indagini sugli autori del passato portano il ricercatore<br />

a una reazione di malinconico sconcerto<br />

di fronte al fatto che delle ottanta tragedie di<br />

Eschilo ne sono state tramandate soltanto sette.<br />

Analogo il numero dei testi sopravvissuti di Sofocle<br />

rispetto ai centoventi prodotti, mentre le diciotto<br />

tragedie di Euripide che conosciamo, a volte<br />

in forma incompleta, rappresentano solo la parte<br />

minore di un’opera complessiva valutata per difetto<br />

in novanta testi. A volte le ricerche offrono<br />

sorprese che portano ad atteggiamenti critici revisionisti:<br />

per molti secoli l’opera teatrale di Menandro<br />

ha avuto una reputazione eccellente, e nell’antichità<br />

il suo nome fu considerato sinonimo di<br />

finezza psicologica e rivoluzionario realismo. Giulio<br />

Cesare arrivò a dichiarare che Terenzio non<br />

aveva neanche la metà del suo talento, e Aristofane<br />

di Bisanzio, che lo riteneva secondo solo ad<br />

Omero, scrisse a proposito del realismo delle sue<br />

commedie: «O Menandro, o Vita! Quale di voi imita<br />

l’altra?» Quest’aura mitica rimase intatta sino al<br />

1905, quando degli scavi archeologici portarono<br />

alla luce frammenti di cinque commedie, tra cui la<br />

Donna di Samo e il Diskolos. <strong>La</strong> scoperta fu celebrata<br />

con grande entusiasmo, ma la laboriosa ricomposizione<br />

dei frammenti rivelò un autore<br />

molto meno interessante di quello che lasciavano<br />

presagire gli attestati di stima del passato: sia G. S.<br />

Kirk che Christopher Fry parlarono di «testi esili e<br />

prevedibili», e gran parte della critica cominciò a<br />

parlare di un autore legato a codici estetici e morali<br />

dei suoi tempi. In altre parole, «datato».<br />

Questo episodio di revisionismo suggerisce che<br />

alcuni autori dei quali ricordiamo solo un antico<br />

giudizio di mediocrità potrebbero aver scritto<br />

opere apprezzabili dal gusto contemporaneo. È il<br />

caso ad esempio del poeta cinquecentesco Camillo<br />

Querno, che venne a Roma dalla nativa Puglia<br />

per recitare davanti a Papa Leone X il suo poema<br />

Alexias. Ai giorni nostri non è rimasto nulla dei<br />

ventimila versi composti per quell’occasione, ma<br />

sappiamo che non furono particolarmente apprezzati,<br />

e che Alexander Pope citò Querno come<br />

esempio di poeta mediocre.<br />

Esce negli Stati Uniti “Il libro dei libri perduti”, una rassegna<br />

delle opere del passato annunciate e non realizzate oppure scomparse<br />

Da Omero a Hemingway, ecco i gioielli inghiottiti dal tempo<br />

I capolavori-fantasma<br />

che nessuno leggerà mai<br />

<strong>La</strong> lunga lista realizzata<br />

da un critico scozzese<br />

ricostruisce un’affascinante<br />

storia parallela<br />

della letteratura<br />

Sono moltissimi i libri scomparsi che appaiono<br />

estremamente evocativi. Tra questi un testo di riflessioni<br />

sulla musica di Confucio, un seguito dell’Odissea<br />

scritto da Eugammone di Cirene, e la Vita<br />

di celebri prostitutedi Svetonio. E insieme ai titoli avvolti<br />

da un alone di mistero (Love’s <strong>La</strong>bour’s Won è<br />

un seguito delle Pene d’amor perdute o un titolo<br />

provvisorio che Shakespeare aveva in mente per <strong>La</strong><br />

bisbetica domata?) risultano altrettanto affascinanti<br />

i libri che non vennero mai realizzati (le saghe su Re<br />

Artù su cui lavorarono sia Dryden che Milton, e il<br />

progetto di un libro scritto a quattro mani da<br />

Hawthorne e Melville) o mai completati, come Il<br />

Viaggio sentimentale attraverso l’Italia e la Francia<br />

di <strong>La</strong>urence Sterne. Gli amanti di Jane Austen hanno<br />

sempre rifiutato le cinque differenti conclusioni<br />

apocrife di Sanditone lamentano il fatto che la scrittrice<br />

non sia riuscita a scrivere The magnificent adventures<br />

and intriguing romances of the houses of<br />

Saxe Cobourg.<br />

Suscita invece un senso di frustrazione la lista di<br />

testi mandati al macero per volontà dell’autore (la<br />

seconda parte delle Anime Morte di Gogol, distrutta<br />

quando lo scrittore russo si convinse che la letteratura<br />

era una forma di paganesimo), e degli incidenti<br />

che hanno portato alla scomparsa di possibili capolavori:<br />

è il caso di un gran numero di scritti giovanili<br />

di Hemingway, smarriti a seguito di un furto, e<br />

della prima stesura di Ultramarine di Malcolm<br />

Lowry, il cui manoscritto venne rubato dalla macchina<br />

del suo editore. Alcuni ragazzi di strada di Algeri<br />

trafugarono molte pagine del Pasto Nudodi Burroughs,<br />

mentre appare grottesca la vicenda di Dylan<br />

Thomas, che smarrì ripetutamente Under Milk<br />

Wood e dimenticò persino il nome dell’albergo nel<br />

quale aveva dimenticato l’unica copia del manoscritto.<br />

Dickens offrì di rivelare alla regina Vittoria il<br />

finale del Mistero di Edwin Drood, ma lei fece sapere<br />

di essere impegnata in affari più importanti e lo scrittore<br />

decise di non scrivere la seconda parte del libro,<br />

tenendo per sé la soluzione della vicenda.<br />

Ancora più incredibile la storia delle memorie di<br />

Byron, che dopo la sua morte vennero date alle fiamme<br />

dall’editore, convinto che si trattasse di materiale<br />

di «letteratura da bordello» e che, a detta di un critico,<br />

avrebbe «condannato l’autore ad una infamia<br />

eterna». È avvolto nel mistero Literature and export<br />

tradedi T. S. Eliot. Il poeta lo aveva citato come un testo<br />

pubblicato quando fece domanda d’ammissione<br />

ad Harvard, ma nel 1936 scrisse al suo biografo<br />

che non ne ricordava nulla, e che forse si trattava di<br />

un titolo inventato per arricchire il curriculum.


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 45 14/05/2006<br />

DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

Delle ottanta tragedie di Eschilo<br />

solo sette sono arrivate fino a noi<br />

Lo stesso per Sofocle,<br />

che scrisse in tutto centoventi testi<br />

AUTORI FAMOSI<br />

Una foto di Ernest<br />

Hemingway<br />

al lavoro, nel 1940<br />

a Sun Valley<br />

A sinistra,<br />

un ritratto<br />

di William<br />

S. Burroughs<br />

Sopra,<br />

un’illustrazione<br />

di Tullio Pericoli<br />

I l<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45<br />

Tre storie avventurose di manoscritti svaniti o ritrovati<br />

Le parole ribelli di Saint-Simon<br />

salve per le candele non pagate<br />

DARIA GALATERIA<br />

più grande rimpianto culturale del Novecento è certo la valigia di<br />

Walter Benjamin. A dicembre del ‘39, a Parigi, il filosofo aveva de-<br />

ciso, insieme a Hannah Arendt, di prendere lezioni di inglese, per<br />

emigrare negli Stati Uniti. Tre mesi prima in effetti, allo scoppio della<br />

guerra, Benjamin era stato internato, come gli altri ebrei tedeschi, nello<br />

stadio di Colombes, poi in un campo a Nevers, in Alta Loira; ma a novembre<br />

era di nuovo a Parigi, grazie a due amiche, Sylvia Beach e<br />

Adrienne Monnier, le austere fidanzate della libreria Shakespeare &<br />

Co (quelle che avevano pubblicato l’Ulissedi Joyce): per liberarlo, avevano<br />

mobilitato un amico diplomatico. Invece di partire subito,<br />

Benjamin però scrisse le Tesi sul concetto di storia.<br />

Il 14 giugno del 1940, quando le truppe tedesche entrarono<br />

a Parigi, Benjamin era a Lourdes, finalmente fuggito verso<br />

sud; voleva entrare in Svizzera e lì aspettare il visto per gli<br />

Usa. Quello che ottenne fu, a Marsiglia, un permesso di<br />

transito per la Spagna e il Portogallo, ma non il visto di uscita<br />

dalla Francia. Con due amici decise di attraversare il<br />

confine valicando i Pirenei. Li guidava una berlinese, Lisa<br />

Fittko, di cui Benjamin aveva conosciuto il marito nel campo<br />

di Nevers. Benjamin, raccontò la Fittko quarant’anni dopo,<br />

era molto provato dal cammino, e era sofferente di cuore,<br />

ma trascinava una pesante borsa nera. «È il mio nuovo manoscritto,<br />

non posso rischiare di perderlo», diceva, «deve essere<br />

salvato; è più importante di me». Sostenuto dai compagni,<br />

Benjamin arrivò nella notte tra il 25 e il 26 settembre a Port Bou,<br />

una cittadina sulla costa. <strong>La</strong> comitiva si fermò alla pensione della<br />

Fonda Francia, che esiste ancora. <strong>La</strong> polizia spagnola li minacciò di<br />

riconsegnarli alle autorità francesi, e quella stessa notte, con una dose<br />

di morfina, Benjamin si suicidò. <strong>La</strong>sciava agli amici un biglietto: «Vi<br />

prego di trasmettere il mio pensiero all’amico Adorno».<br />

Nella valigia doveva esserci Passagenwerke, uno dei capolavori del<br />

secolo, di cui ci resta una versione composta quasi solo di citazioni, e<br />

già è un’interpretazione potente della Parigi dell’Ottocento, dei suoi<br />

viali coperti — i Passaggi — e del suo poeta Baudelaire. Nel 1981 infatti<br />

il massimo studioso di Benjamin, Giorgio Agamben, ha fortunosamente<br />

ritrovato dei fogli che Benjamin aveva lasciato, fuggendo, a Bataille.<br />

Bataille, interpretando correttamente il doppio senso del biglietto<br />

d’addio di Benjamin, aveva mandato tutte le sue carte ad Adorno;<br />

ma per una pura svista aveva dimenticato alcuni fragili foglietti coperti<br />

da una scrittura minuta, evidenziati, come da un bambino disciplinato,<br />

da strazianti cerchietti, pallini e croci colorate; erano<br />

commenti alle poesie di Baudelaire. Quella valigia di Benjamin —<br />

menzionata nei primi rapporti della polizia franchista accorsa nella<br />

camera del suicida — potrebbe ancora spuntare. Forse qualcuno ha<br />

tenuto la borsa, e buttato tutti quei fogli in tedesco. O magari no, stanno<br />

impallidendo in qualche granaio, come un gioiello disperso di Diderot,<br />

il racconto del 1768 Mystification, che, sfiorato dalle bombe della<br />

stessa Seconda guerra mondiale, fu ritrovato e stampato nel 1954.<br />

Non una valigia, ma un vero baule di scritti conobbe, per il più bizzarro<br />

dei motivi, un lungo sonno che lo salvò. Le più belle memorie,<br />

forse, di tutti i tempi ci sono state conservate grazie al droghiere di un<br />

piccolo angolo di Francia, <strong>La</strong> Ferté-Vidame. Nel castello del luogo si<br />

era ritirato a scrivere le sue colleriche, scandalose e smaglianti memorie<br />

sulla corte di Francia all’epoca del re Sole e della Reggenza il duca<br />

Louis de Saint-Simon. Quando morì, nel 1755, un commissario del<br />

re si affrettò a apporre i sigilli al suo appartamento di Parigi, e un messo<br />

fu immediatamente inviato a fare lo stesso a <strong>La</strong> Ferté: era noto che<br />

Saint-Simon aveva scritto sulla monarchia pagine feroci, che era bene<br />

far scomparire. Ma il fiero duca era morto lasciando in sospeso un<br />

conto di candele. Il conto, dal punto di vista del droghiere, era incresciosamente<br />

astronomico, e l’uomo, in nome del suo credito, aveva<br />

già preteso un elenco dei beni del deceduto. Il legatario universale, il<br />

vescovo di Metz, e la corona dovettero insomma impegnarsi in un inventario<br />

accuratissimo; per sette giorni, gli ufficiali giudiziari stilarono<br />

la più scrupolosa e metodica lista dei beni del debitore, tra cui settecento<br />

quaderni, raccolti in grandi cartelle di pelle, istoriate con le armi<br />

del duca. L’esecutore del re<br />

Choiseul dovette limitarsi a decretare<br />

che gli scritti di Saint-Simon,<br />

poiché concernevano affari della<br />

corona, venivano secretati. L’erede,<br />

per sottrarli alle pretese del<br />

creditore, diede il suo consenso.<br />

Saint-Simon era in salvo — ma<br />

ignoto. Brevi saggi di quella sua<br />

animata animosità cominciarono<br />

a circolare verso l’epoca rivoluzionaria,<br />

deliziando le dame. Nel<br />

1814 un discendente del duca<br />

chiese al re se era possibile liberare<br />

il suo antenato, «imbastigliato<br />

da quasi cent’anni». Il re sorrise,<br />

ma gli Archivi fecero ancora resistenza.<br />

Intanto il baule inchiavardato<br />

si trasferiva, insieme agli Archivi,<br />

da Versailles all’hotel Gallifet,<br />

a palazzo Maurepas e infine al<br />

Quai d’Orsay. A ogni successiva rivoluzione,<br />

mentre la politica si addolciva<br />

e il tempo stemperava gli<br />

scandali d’altri secoli, nacquero le<br />

prime edizioni, e solo oggi ha preso<br />

estesamente corpo il ritratto,<br />

comico e atroce, della vecchia corte<br />

in preda all’omosessualità, al libertinaggio,<br />

alla religiosità dei tartufi,<br />

all’ascesa dei bastardi del re,<br />

al balletto degli adulatori.<br />

Una valigia letteraria a lieto fine<br />

è quella di Camus. Quando il 4<br />

gennaio 1960 lo scrittore si<br />

schiantò contro un albero sulla nazionale sopra Sens, era ministro di<br />

Francia uno scrittore, Malraux. Prima ancora di dolersi — in tanti, a<br />

Parigi, per le strade, piangevano — spedì un emissario a controllare se<br />

lo scrittore portava con sé dei manoscritti. Ma già il sindaco di Sens ci<br />

aveva pensato, e consegnò religiosamente la borsa di Camus. C’era<br />

dentro il manoscritto di uno dei più bei romanzi dello scrittore, insolitamente<br />

sentimentale, Il primo uomo — la storia della sua infanzia,<br />

dell’Algeria primitiva in cui arabi e pieds-noirs francesi vivevano fianco<br />

a fianco. Ma erano gli anni della guerra d’indipendenza d’Algeria, e<br />

della dittatura di Sartre, che con Camus aveva rotto. <strong>La</strong> casa editrice<br />

Gallimard ritenne inopportuno pubblicare il romanzo: «Autocensura»,<br />

confessarono poi. Le premier homme è uscito nel 1994.


46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

Chi ha visto il film di Martin Scorsese No Direction Home,<br />

dedicato a Bob Dylan, non sarà rimasto indifferente<br />

nell’osservare la funzione della musica nell’America<br />

dei primi anni Sessanta. Vedere il giovane Dylan cantare,<br />

ispiratissimo, davanti alle folle immense delle<br />

manifestazioni per i diritti civili significa infatti cogliere<br />

il vero spirito del tempo, un clima sociale e culturale irripetibile<br />

che si sintetizzava nell’esserci, tutti insieme, in quell’America kennediana<br />

che credeva nella nuova frontiera, nell’integrazione, nella<br />

caduta della segregazione, nella sostanziale possibilità di cambiare<br />

il mondo: un senso politico che riuniva cantanti, intellettuali, attori,<br />

registi, uomini di spettacolo e popolo, il quale lo spettacolo lo faceva<br />

con la propria presenza (e poi Dylan cantava come nessuno<br />

aveva cantato mai, e ancora oggi si comprende e si condivide l’emozione<br />

di allora).<br />

Illusioni, forse: «The way we were», modellati sulla parabola di<br />

Redford e Streisand nella traiettoria tracciata dall’impegno al disincanto.<br />

Ci avrebbero pensato infatti gli anni a vaccinare con le dosi<br />

Ricomincia la stagione dei grandi meeting musicali e riparte il mercato<br />

dei “memorabilia” di un evento di massa che da quarant’anni, dalle prime<br />

performance di Bob Dylan nell’America kennediana, orienta e scandisce<br />

la vita delle nuove generazioni. Un rito laico che ha perso via via i suoi contenuti politici<br />

e che deve il suo successo senza flessioni al fascino dell’esperienza condivisa e della memoria<br />

A quel sentimento che consente di dire “noi siamo qui” e in seguito “io c’ero”<br />

Torna la tribù delle cattedrali di musica<br />

EDMONDO BERSELLI<br />

4<br />

7<br />

9<br />

E ora... concerto<br />

4 PRINCE<br />

Un “pass” per il tour<br />

del 1996 con i suoi Npg<br />

5<br />

PINK FLOYD<br />

Il biglietto del tour italiano<br />

della band nel 1994<br />

6 MICHAEL JACKSON<br />

L’elaboratissimo biglietto<br />

del tour mondiale del 1992<br />

7 WIGHT<br />

Il biglietto del festival di<br />

Wight del 1969 con Dylan<br />

8 SANTANA<br />

Gli album di Santana<br />

ricordati su un biglietto<br />

9 DOORS<br />

Un concerto al Fillmore<br />

con gli Yardbirds nel ‘68<br />

10 NIRVANA<br />

Red Hot, Nirvana, Pearl<br />

Jam, nel capodanno ‘91<br />

appropriate di cinismo le speranze di allora, quando «the times they<br />

are a-changin’». È vero che anche i concerti implacabilmente commerciali<br />

dei Beatles, più o meno in quell’epoca, erano l’occasione<br />

per un formidabile ritrovarsi generazionale. Ma nella memoria rimane<br />

sempre quel momento stregato in cui spinta sociale e utopia<br />

si sono fuse nelle strade e nelle spianate degli Stati Uniti, molto prima<br />

di Woodstock. Perché il “movement” dei primi Sessanta era certamente<br />

caratterizzato da una sua spontaneità non ideologica, eppure<br />

conservava quel tratto politico che aveva riscosso la simpatia<br />

di Hannah Arendt, affascinata dal momento «dialogico» della rivoluzione<br />

dei campus.<br />

Poi, dimenticato Kennedy, attraversata la psichedelia e sofferto fino<br />

in fondo il male del Vietnam, il concerto e il festival avevano perso<br />

la loro dimensione intenzionalmente politica per rifluire nell’esperienza<br />

collettiva, esistenzial-panteista, insomma, nella fase che comprende<br />

Monterey, l’isola di Wight e Woodstock. In cui il “movimento”<br />

hippie, la comunità nazionale dei figli dei fiori, i beatnik sembravano<br />

l’espressione di un atteggiamento del tutto non-politico. “Love<br />

and peace” era uno slogan disimpegnato, anche se creava lessico, gesti,<br />

comportamenti comuni. Marijuana, Lsd e tutti i paraphernalia di<br />

5<br />

6<br />

8<br />

10<br />

una concezione della mente come un’esperienza visionaria erano riconoscibili<br />

come il frutto di una condizione alienata, una deroga soltanto<br />

ludica dai meccanismi della società capitalistica.<br />

In quel tramonto dei Sessanta, ai tempi della tre giorni di “peace<br />

and love” di Woodstock, con mezzo milione di hippie nudi o seminudi<br />

nel fango, sotto il suono distorto della chitarra elettrica di Jimi<br />

Hendrix, si era manifestata implicitamente una negazione totale, il<br />

ripiegarsi dei “forever young” in un mondo a parte, in un’alterità<br />

senza mediazioni: l’America del Vietnam veniva denunciata come<br />

una non patria. Non si trattava di cambiarla, bensì di escluderla dal<br />

proprio orizzonte vitale. Per ritrovare una vera iniziativa capace di<br />

riassumere ancora una volta il clima generazionale e politico, sarebbe<br />

stato necessario attendere qualche stagione, e giungere al primo<br />

agosto del 1971, allorché al Madison Square Garden di New York,<br />

il beatle più intriso di cultura esotica, «my Sweet Lord…», cioè “l’indiano”<br />

George Harrison, riuscì a mettere insieme un gruppo di superstar<br />

come il sitarista Ravi Shankar, l’ex complice Ringo Starr, e<br />

poi Leon Russell, Bob Dylan, Eric Clapton. Si tenne in quell’occasione<br />

un evento musicale che sarebbe diventato quasi mitologico,<br />

più citato che ascoltato, ma esplicitamente programmatico. Musi-


15<br />

<strong>Repubblica</strong> Nazionale 47 14/05/2006<br />

DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

che e ritmi già accordati sul prefisso “world”, dedicate al Bangladesh<br />

martirizzato dai diluvi e dalle carestie. E sotto sotto l’idea che la<br />

musica poteva salvare il mondo. I buoni, cioè le rockstar e le popstar,<br />

nella funzione di sollecito spedito agli ambienti della politica, per<br />

scuotere l’inerzia di governi e governanti.<br />

Viene fuori da quel concerto “seminale” la visione secondo cui<br />

“noi” possiamo sottrarre il pianeta e i suoi leader dall’ottusità dei bilanci<br />

pubblici, “noi”, in quanto “we are the world”, noi i bambini,<br />

“the children”, gli ingenui che possono dare scandalo dicendo che<br />

i popoli poveri muoiono di fame. Come in seguito sarebbe accaduto<br />

alla straordinaria parata del Live Aid del 1985, il concerto globale<br />

tenutosi allo stadio Wembley di Londra e al Jfk Stadium di Philadelphia,<br />

al concerto per Nelson Mandela a Londra, il tour musicale<br />

per Amnesty International, e più di recente il Live8. Fino alla sintesi<br />

politica creata dalla figura planetaria di Bono, il capo degli U2, diventato<br />

una specie di leader mondiale nel nome della riduzione del<br />

debito.<br />

E quel “noi” rappresenta un criterio di identificazione che funziona<br />

sempre. Oggi un concerto del tour mondiale dei Rolling Stones<br />

appare come un’occasione sociale per un’élite mondana alla ri-<br />

11 12<br />

Fiorisce in rete il commercio di ticket, poster e souvenir dei grandi concerti<br />

Viaggio nel tempo? Il biglietto costa mille dollari<br />

E tutto<br />

ERNESTO ASSANTE<br />

cerca di memorie dell’intrattenimento; ma nel 1982, anche qui in<br />

Italia, darsi appuntamento al concerto di Mick Jagger, Keith Richards<br />

e soci significava riconoscersi in setta che nutriva una certa<br />

“sympathy for the devil”, e si esaltava per l’energia pazzesca e irripetibile<br />

di Honky Tonk Woman.<br />

In realtà il principio settario, di una tribù che si ritrova con se stessa,<br />

funziona quasi sempre, sia che si tratti di darsi appuntamento<br />

per Bruce Springsteen sia che arrivi a riempire gli stadi il “popolo di<br />

Vasco”. Anzi, sono le stesse star come l’ex ragazzo di strada “born to<br />

run” a cercare una memoria collettiva, il ripristino di una solidarietà<br />

nella tradizione, in cui le canzoni sono lo strumento di una comunità:<br />

ascoltare le note del classico We Shall Overcome, restituite scabre<br />

dalla voce di Springsteen “fonda” un sentimento comune in cui<br />

ci si può riconoscere. E non importa che quel sentimento sia in fondo<br />

generico: lo è anche il progressismo di sinistra del concerto del<br />

a un tratto arrivò il rock. E le cose cambiarono profondamente. I ragazzi non si accontentarono più di ascoltare<br />

i propri idoli alla radio o sui dischi, volevano poter essere al loro fianco, partecipare e condividere la musi-<br />

ca assieme agli altri. Non volevano soltanto un concerto, ma un “evento”, qualcosa che li segnasse profonda-<br />

mente, qualcosa da ricordare, possibilmente per sempre. E se la memoria non bastava, per ricordare un evento bisognava<br />

avere un souvenir, una maglietta, un poster, un cappellino e soprattutto la “prova provata” che consenta a tutti<br />

di dire «io c’ero», ovvero il biglietto del concerto.<br />

I biglietti sono piccoli ma belli a vedersi, spesso sono frutto del lavoro di grafici raffinatissimi, soprattutto quelli degli anni<br />

Sessanta, e consentono di ricostruire il percorso della storia del rock dalle origini ad oggi, dai semplicissimi biglietti di Elvis o<br />

dei Beatles, che non pretendevano altro che di essere “biglietti d’ingresso”, ai multicolorati biglietti degli anni Ottanta e Novanta,<br />

dove anche il piccolo “ticket” serve a illustrare il mondo dell’artista, il suo segno, la sua immagine, la sua musica.<br />

Attorno al desiderio di possedere un souvenir dell’evento rock è nata una vera e propria industria della memoria, che<br />

prospera da qualche tempo attraverso una fitta rete di siti web e un’altrettanto vivace attività di collezionisti che frequentano<br />

le aste, organizzate soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti. I “memorabilia” rock hanno grande successo<br />

e i souvenir dei concerti sono ovviamente tra i pezzi più ambiti e anche i più facilmente abbordabili, in termini economici,<br />

per i fan. Tra i più richiesti ci sono soprattutto quelli dei concerti degli anni Sessanta e Settanta: molti degli acquirenti<br />

(in genere over cinquanta) vi hanno partecipato, senza conservare all’epoca i biglietti e quindi oggi sono disposti a<br />

spendere cifre anche elevate per poter ricomprare un “pezzo” del loro passato. Ma altrettanto ricercati sono i “tickets”<br />

dei concerti delle star dei nostri giorni, soprattutto i “pass” laminati, quei piccoli tesserini che consentono a chi si occupa<br />

della produzione del concerto, o agli addetti ai lavori, di circolare in alcune aree della platea, del retropalco o addirittura<br />

sul palcoscenico stesso, oggetti del desiderio per i fan delle ultime leve.<br />

Il sito più importante e di successo per questo tipo di “ricordi” è senza dubbio Wolfgang’s Vault (www. wolfgangsvault.<br />

com), versione elettronica del grande archivio del più leggendario tra gli organizzatori di concerti rock, Bill Graham, il patron<br />

del Fillmore, leggendario locale di San Francisco, manager e organizzatore di tour di tutte le più celebri stelle del rock<br />

degli anni Sessanta e Settanta. Graham, morto in un incidente in elicottero nel 1991, aveva costruito un gigantesco archivio<br />

di tutta la sua attività, dagli anni Sessanta agli anni Novanta. Alla sua morte l’archivio è passato di mano quattro volte<br />

prima di finire in quelle di Bill Sagan, direttore generale di una compagnia di assicurazioni e grande fan del rock, che lo ha<br />

acquistato nel 2002 per cinque milioni di dollari. Per due anni Sagan e i suoi collaboratori hanno catalogato gli oltre 30mila<br />

pezzi della collezione, tra biglietti di concerti, poster (soprattutto quelli degli anni Sessanta, commissionati da Graham<br />

ai migliori grafici psichedelici dell’epoca), magliette e registrazioni: «Credo che la collezione valga tra i cinquanta e i cento<br />

milioni di dollari», ha dichiarato Sagan, che ha rapidamente iniziato il business vendendo gli oggetti più rari sul suo sito<br />

web: «Non è un hobby e non lo faccio per divertimento. Qui si parla di denaro e di affari».<br />

Del resto le quotazioni per i vecchi biglietti di concerti sono molto variabili, si passa dalle poche decine di dollari alle<br />

diverse centinaia, fino a superare i mille dollari per, ad esempio, il biglietto dell’ultimo concerto dei Sex Pistols o per quello<br />

del festival di Woodstock del 1969. I poster originali valgono molto di più, dai 4525 dollari per quello di Woodstock agli<br />

oltre 9000 per il poster dell’Atlanta Pop Festival. Molto più economico è Right Brain Left Brain (www. rightbrain-leftbrain.<br />

com), che non ha a disposizione gli archivi di Graham ma che offre una ricchissima serie di biglietti di concerti e<br />

di pass che spaziano nei cinque decenni della storia del rock. Quest’ultimo sito vende anche su EBay, dove è possibile<br />

trovare moltissimi biglietti “vintage” offerti da piccoli collezionisti, ma dove è altrettanto facile trovare delle fregature,<br />

biglietti di grandi eventi del passato ristampati oggi.<br />

1<br />

16<br />

2 3<br />

17<br />

18<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47<br />

Primo maggio, a maggior ragione se ci si accorge che il deposito di<br />

condivisione musicale è limitatissimo, e non si va tanto più in là di<br />

Bella ciao e di Contessa.<br />

D’altronde, la fenomenologia del concerto è ormai codificata.<br />

Tanto nelle più convulse session dei gruppi heavy metal quanto nelle<br />

più popolari manifestazioni del pop contemporaneo, i fan sotto<br />

il palco “pogano”, e gli altri spettatori osservano diversi spettacoli in<br />

uno. E alla fine viene sempre fuori una specie di grande liturgia, laica<br />

eppure fideistica, emblematizzata per esempio dalle periodiche<br />

“reunion” dei Pink Floyd, con le loro «cattedrali di suono», in cui gli<br />

spettatori partecipano a un’esperienza vagamente religiosa, nella<br />

convinzione di condividere una ritualità formalizzata, o comunque<br />

interpretabile scansione per scansione come sequenza mitica.<br />

È l’evento che diviene esperienza condivisa e sta per trasformarsi<br />

in memoria. Mentre di nuovo svanisce o si assottiglia fin quasi al<br />

nulla la dimensione politica, permane quel sentimento che consente<br />

di dire «noi siamo qui», e in seguito «io c’ero». Sono movimenti<br />

collettivi informali, che realizzano un linguaggio condiviso e lo trasmettono<br />

nella memoria: se non è una polis, è un’assemblea che<br />

crea volta per volta le ragioni della propria presenza.<br />

13<br />

11<br />

1<br />

2<br />

WOODSTOCK<br />

Il progenitore dei festival<br />

rock, nell’agosto del 1969<br />

ELVIS<br />

Biglietto per settembre ’77<br />

Elvis morì un mese prima<br />

3 BEATLES<br />

Un biglietto dell’ultimo tour<br />

del “Fab Four” nel 1966<br />

PAUL MCCARTNEY<br />

<strong>La</strong> prima volta di Sir Paul<br />

a Napoli nel 1991<br />

12 ELTON E ERIC<br />

Un doppio concerto: John<br />

e Clapton a Parigi nel 1992<br />

13<br />

14<br />

MERCURY TRIBUTE<br />

Il “pass” per il tributo<br />

a Freddy Mercury nel ‘92<br />

NELSON MANDELA<br />

Concerto per la liberazione<br />

di Mandela nel 1990<br />

15 ROLLING STONES<br />

Il biglietto del concerto<br />

italiano del 1982 a Torino<br />

16 BEACH BOYS<br />

Il “pass” per seguire il tour<br />

dei Beach Boys nel 1981<br />

17<br />

18<br />

BYRDS<br />

Il biglietto del concerto<br />

al Fillmore, nel 1968<br />

VASCO ROSSI<br />

Il “pass” per il retropalco<br />

del concerto a Roma, 1990<br />

14


48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

i sapori<br />

Riti di primavera<br />

Arnad (Ao)<br />

Al centro di una piccola<br />

pianura, vanta una bella<br />

parrocchiale romanica<br />

e una parete rocciosa<br />

amatissima dai freeclimbers.<br />

Ma il vero<br />

gioiello del luogo è il lardo, lavorato con gli aromi<br />

di montagna, magnifico con il pane cotto a legna<br />

DOVE DORMIRE<br />

ARMANAC DE TOUBIE<br />

S.S. 26<br />

Tel. 0125.966939<br />

Camera doppia da 52 euro, colazione inclusa<br />

DOVE MANGIARE<br />

L’ARCADEN<br />

Località Champognalaz 1<br />

Tel. 0125.966928<br />

Chiuso giovedì, menù da 15 euro<br />

DOVE COMPRARE<br />

SALUMIFICIO BERTOLIN<br />

Località Champognolaz 10<br />

Tel. 0125.96612<br />

LICIA GRANELLO<br />

Al principio c’era il “déjeuner sur l’herbe” degli aristocratici<br />

Poi sono venuti gli anni democratici e un po’ ruspanti<br />

della scampagnata. Adesso si torna al raffinato e nel ramo del pic-chic<br />

si buttano i nuovi designer, gli chef di grido e gli hotel di nicchia<br />

itinerari<br />

Massimiliano Alajmo, chef giovane e geniale, ha reinventato il concetto<br />

di picnic, a metà tra cucina “rilassante” e provocazione<br />

Nella gastronomia di famiglia, davanti al ristorante di Rubano di Padova,<br />

è possibile comprare le sue chicche golose<br />

Comacchio (Fe)<br />

<strong>La</strong> capitale del delta<br />

del Po si trova all’interno<br />

di un ecosistema<br />

straordinario, habitat<br />

ideale per la più grande<br />

varietà di specie<br />

ornitologiche in Italia. I picnic sono resi preziosi<br />

dall’anguilla cotta sulla brace, presidio Slow Food<br />

DOVE DORMIRE<br />

AL PONTICELLO<br />

Via Cavour 39<br />

Tel. 0533.314080<br />

Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa<br />

DOVE MANGIARE<br />

DA VASCO E GIULIA<br />

Via Muratori 21<br />

Tel. 0533.81252<br />

Chiuso lunedì, menù da 28 euro<br />

DOVE COMPRARE<br />

LA BOTTEGA<br />

Via della Pescheria 3<br />

Tel. 0533.31304<br />

‘‘ Joan Lindsay<br />

Se “Picnic<br />

a Hanging Rock”<br />

sia realtà o fantasia,<br />

i lettori dovranno<br />

deciderlo<br />

per conto proprio<br />

Poiché...<br />

tutti i personaggi<br />

che compaiono<br />

nel libro<br />

sono morti<br />

da molto tempo<br />

Matera<br />

Vanta un centro storico<br />

di fascino assoluto,<br />

grazie ai suoi Sassi,<br />

una gigantesca scultura<br />

tradotta in un groviglio<br />

di vicoli, piazze, grotte,<br />

chiese rupestri. I picnic nei campi circostanti<br />

sono battezzati col caciocavallo podolico<br />

DOVE DORMIRE<br />

HOTEL SASSI<br />

Via San Giovanni Vecchio 89<br />

Tel. 0835.333733<br />

Camera doppia da 84 euro, colazione inclusa<br />

DOVE MANGIARE<br />

LUCANERIE<br />

Via Santo Stefano 61<br />

Tel. 0835.332133<br />

Chiuso lunedì, menù da 30 euro<br />

DOVE COMPRARE<br />

GASTRONOMIA IL BUONGUSTAIO<br />

Piazza Vittorio Veneto 1<br />

Te. 0835.331982<br />

una volta il “déjeuner sur l’herbe”,<br />

che i signori offrivano ai loro<br />

ospiti per ristorarli durante le partite<br />

di caccia. Sulle tavole, allestite da<br />

stuoli di servitù, comparivano por-<br />

C’era<br />

cellane, argenti e cristalli.Brillat Savarin<br />

nella sua Fisiologia del gusto annota i sontuosi<br />

menù dell’epoca: tacchino in gelatina, pâté maison,<br />

polli arrosto, pasticcio di Strasburgo, insalate impreziosite<br />

da frutta esotica. In bella mostra, tenuti al fresco<br />

in secchi di cuoio pieni di ghiaccio, Champagne e<br />

Madera.<br />

Per fortuna nostra, della servitù costretta ad acrobazie<br />

logistiche (e anche delle prede), il déjeuner venne<br />

sostituito dal democratico, trasversale, allegro picnic<br />

tout court, svagata pratica campagnola assolutamente<br />

fine a se stessa. A testimoniarlo, l’etimologia del<br />

nome, a sua volta di matrice smaccatamente francese:<br />

il verbo piqueniquer, infatti, è un assemblaggio di<br />

piquer, pizzicare, e nique. In teoria, insomma, il picnic<br />

dovrebbe corrispondere a un morigerato spiluccare<br />

all’aria aperta.<br />

Nulla di più falso. Negli anni, la pratica dei picnic ha<br />

assunto caratteri di vera e propria esibizione di gourmandise<br />

pret-à-porter. Se già in ambito familiare<br />

l’occasione fa l’uomo goloso (è grazie all’alibi della<br />

“cena raccogliticcia” servita davanti alla tv che si consumano<br />

alcuni misfatti alimentari), il coinvolgimento<br />

degli amici induce alla competizione gastronomica<br />

senza ritegno.<br />

L’appuntamento è superclassico: la prima passeg-<br />

Da PICNIC A HANGING<br />

ROCK<br />

giata sul bagnasciuga, la ricerca delle introvabili spugnole,<br />

il torrente di mezza<br />

Picnic<br />

montagna da guadare (per<br />

chi non teme di raggelarsi i piedi). Il tempo di un assaggio<br />

di fatica fisica, ed<br />

è già il momento di dispiegare<br />

plaid e tovaglia<br />

a quadretti. Dove verrà<br />

esibito il meglio della gastronomia<br />

casalinga.<br />

Eppure, nelle telefonate<br />

della vigilia (chi<br />

porta cosa) l’elenco delle<br />

vettovaglie era da manuale<br />

della moderna<br />

dietologia: insalata di riso<br />

senza svolazzi, polpettine<br />

cotte rigorosamente<br />

al forno, il gelato<br />

di soia e fruttosio. E invece,<br />

all’apertura delle<br />

borse-frigo, ecco sbucare<br />

il patè in gelatina, i formaggi<br />

abbinati alle gelatine<br />

di vino, certi tiramisù<br />

trionfanti…<br />

<strong>La</strong> socializzazione del picnic ha provocato una diversa<br />

considerazione anche in termini etico-commerciali.<br />

A piatti e posate di plastica si preferiscono quelli fatti con<br />

il Pla, Acido <strong>La</strong>ttico Polimerizzato, prodotto a partire<br />

dall’amido di mais e totalmente degradabile in compost<br />

(organico), acqua e anidride carbonica. Anche i tovaglioli<br />

possono essere ecologicamente compatibili, grazie<br />

alla carta riciclata. Discorso analogo per le confezioni<br />

di cibi — soprattutto biologici e biodinamici — e i contenitori<br />

con il logo della margherita. Il marchio Ecolabel<br />

e la certificazione Fsc (Forest Stewardship Council) garantiscono<br />

un ridotto impatto ambientale e l’arrivo della<br />

materia prima da foreste gestite nel rispetto di rigoro-<br />

L’abbuffata con l’alibi dell’aria aperta<br />

si standard ambientali, sociali ed economici.<br />

Se poi non riuscire a risolvere il conflitto tra pigrizia<br />

e voglia di gite mangerecce, la catena dei Romantik<br />

Hotel lancia il rito del pic-chic: basta con i fai-da-te a<br />

base di bistecchine e arancini, via libera a cesti da<br />

trionfo del design (per gli accessori) e dell’avanguardia<br />

gourmand. Una volta scelto il giorno in cui disertare<br />

la cucina dell’albergo in favore di una gita, si concorda<br />

il menù con lo chef. Il mattino dopo, al momento<br />

della colazione, di fianco al tavolo troverete tutto<br />

l’occorrente, dal plaid alla crema solare, dalla glacette<br />

per il vino ai cibi già sporzionati e ben custoditi.<br />

Non dimenticate di tracciare una scia di sale intorno<br />

alla tovaglia: vi risparmierete l’assalto finale<br />

delle formiche.<br />

Arancini di riso<br />

Il trionfo dell’avanzo<br />

si traduce in palline<br />

da “bucare” con un dito<br />

per inserire un dado<br />

di mozzarella, prosciutto,<br />

etc... Dopo l’impanatura<br />

in farina, uovo e pangrattato,<br />

friggere con extravergine<br />

e asciugare nella carta<br />

Frittata<br />

Insieme all’omelette<br />

francese – dal latino ova<br />

mellita, piatto romano a base<br />

di uova sbattute col miele –<br />

è irrinunciabile nel picnic<br />

<strong>La</strong> versione alleggerita<br />

(e storica) prevede la cottura<br />

in forno. Erbette, zucchine<br />

e formaggi per farcire<br />

Insalata di pollo<br />

Un piatto-contenitore,<br />

con infinite varianti, a partire<br />

dal pollo (petti saltati<br />

o avanzi d’arrosto). Tra gli<br />

abbinamenti, valerianella<br />

(soncino), sedano, dadini<br />

di emmenthaler, semi oleosi,<br />

mela verde, ananas<br />

<strong>La</strong> maionese lega<br />

Milanesine<br />

Nate a casa Melzi d'Eril<br />

e servite al maresciallo<br />

Radetzky – da cui<br />

le Wienerschnitzel –<br />

si cuociono nel burro<br />

chiarificato (sciolto<br />

a bagnomaria per un quarto<br />

d’ora e filtrato) che regge<br />

le alte temperature


DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

Mozzarella in carrozza<br />

I sandwich di pancarrè<br />

senza crosta e mozzarella<br />

vanno immersi di taglio<br />

nella farina. <strong>La</strong> parte<br />

infarinata si bagna<br />

poi nell’acqua tiepida<br />

per “bloccare” la mozzarella<br />

Prima di friggere, coprire<br />

un’ora con uovo sbattuto<br />

Parmigiana<br />

Tagliate, fatte spurgare<br />

(con poco sale e un peso<br />

sopra) e asciugate,<br />

le melanzane fritte o grigliate<br />

(versione light), si alternano<br />

in teglia con salsa ristretta<br />

di pomodoro, parmigiano<br />

grattugiato, mozzarella<br />

a fette sottili e scolata<br />

Peperonata<br />

Si alleggerisce sbucciando<br />

i peperoni e i pomodori,<br />

aggiungendo un cucchiaino<br />

di zucchero e due di aceto<br />

Frullata con foglie di basilico<br />

è una meravigliosa salsa<br />

per pasta o crostini<br />

Passata al setaccio diventa<br />

una mousse deliziosa<br />

‘‘ Bernard Malamud<br />

Olga infilò una<br />

mano nella borsa<br />

della spesa<br />

e ne trasse diversi<br />

pacchetti.<br />

Li scartò,<br />

e vennero fuori<br />

pane, salsicce,<br />

aringhe, formaggio<br />

italiano, salame<br />

dolce, sottaceti…<br />

Da LA RAGAZZA<br />

DEI MIEI SOGNI<br />

Polpette<br />

Esistono infinite varianti<br />

per il simbolo del comfortfood.<br />

L’impasto<br />

più classico è a base<br />

di carni e verdure legate<br />

da uova e mollica di pane<br />

bagnata nel latte<br />

Nelle cucine orientali,<br />

si cuociono al vapore<br />

I l<br />

Salame di tonno<br />

Con la regola del due<br />

– gli etti di tonno sott’olio,<br />

le uova, i cucchiai<br />

di parmigiano e pangrattato<br />

– si assembla un salame<br />

e lo si avvolge nella carta<br />

da forno. Cotto in acqua<br />

bollente salata, si gusta<br />

freddo con maionese<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49<br />

<strong>La</strong> celebre tela di Manet del 1863<br />

Donne nude e cibi grassi<br />

tutto partì da un quadro<br />

STEFANO MALATESTA<br />

picnic sull’erba, all’aria aperta, è un rito, un costume<br />

diffuso ovunque, eccetto forse che nelle<br />

distese dell’Antartide o sull’altopiano del Pa-<br />

mir d’inverno, quando i venti ghiacciati piombano<br />

sulle carovane congelandole come nel freezer.<br />

Sembra che il nome sia di origine francese, passato<br />

poi all’inglese. Ma se è vero che tutti i nomi cercano<br />

di ricordare nella loro pronuncia qualcosa<br />

della loro funzione, allora picnic suona svelto, leggero,<br />

elegante: può essere associato al sandwich,<br />

non alla polenta con gli osei, per quanto meravigliosa<br />

possa risultare quando viene servita in<br />

montagna (ma nella baita).<br />

Inoltre il picnic nasce precario e fantasioso, qualcosa<br />

che si mette insieme con allegria e una leggera<br />

improntitudine: ognuno porta quello che trova o<br />

che ha già, senza curarsi troppo di acquistare cibi sopraffini<br />

o di scegliere le posate migliori. È il piacere<br />

di stare insieme in modo inconsueto che fa scattare<br />

la sua molla, non la fame o la sete; è la speranza che,<br />

accanto al fuoco improvvisato con gli sterpi che si<br />

spegne sempre, nasca quella confidenza così difficile<br />

da raggiungere in condizioni di normalità. Dunque<br />

lasciate in vetrina quelle magnifiche valigette di<br />

vimini intrecciati e foderati di panno verde che contengono<br />

piatti di plastica sopraffina e posate con il<br />

manico di bambù e «tutto quello che serve per il picnic»<br />

come è scritto accanto a un prezzo da ladroni. È<br />

un controsenso.<br />

Gli inglesi continuano a mantenere il picnic nelle<br />

dimensioni di quello che dovrebbe essere uno<br />

spuntino. Durante le famose corse di Ascott come il<br />

King George and Elizabeth Stakes, e ad Epson il<br />

Derby, si vedono ancora come una volta i gentili<br />

sudditi di Sua Maestà Britannica, qui nel loro ambiente<br />

quasi scomparso altrove. Sdraiati sull’erba<br />

mandano giù il prosciutto di York, quello introvabile,<br />

più affumicato del cotto, tra due fette imburrate<br />

del loro pessimo pane. Mentre in Francia, dove da<br />

sempre si è potuto scherzare e ridere su persone e<br />

istituzioni non importa quanto grandi, ma non sulla<br />

“bouffe”, fin dall’inizio il picnic ha preso dimensioni<br />

tali da diventare uno dei miti della fine del secolo<br />

decimonono, insieme con i canottieri dalla maglia<br />

a righe bianche e rosse, le spiagge lungo la Senna<br />

e i cappelli di paglia di Firenze con nastri delle signorine<br />

in camicie di picchè bianche.<br />

Ora date solo un’occhiata al più famoso quadro<br />

della storia della pittura sul picnic: Le déjeuner sur<br />

l’herbe di Edouard Manet, rifiutato dal Salon del<br />

1863 perché presentava in primo piano una signora<br />

nuda in compagnia di due supposti gentlemen<br />

completamente vestiti. Non so se quest’opera sia<br />

un’anticipazione dell’avanguardia del Novecento<br />

come dicono oggi numerosi critici. L’ho sempre trovata<br />

inferiore a quei capolavori di pittura pura che<br />

sono l’Olimpia e la Lola de Valence, e come pittura<br />

en plein air è sorpassata da quell’immortale capolavoro<br />

di Claude Monet dallo stesso titolo che si trova<br />

a Mosca al Museo Pushkin. Ma quello che è interessante<br />

ai nostri fini è il contenuto non la forma, come<br />

diceva don Benedetto. Sparsi sull’ampia tovaglia<br />

non ci sono cestini con cotolette fritte ed altre pietanze<br />

facili da preparare e da trasportare ma tutta la<br />

gamma della grassa cucina francese di quell’epoca:<br />

le zuppiere, i contenitori di timballi, le salsiere per gli<br />

arrosti e i contorni, i roast beef e i brasati, le galline<br />

fredde sotto gelatina e burro di Normandia. E non vi<br />

fate ingannare dall’aria goffa che hanno gli uomini,<br />

infagottati negli abiti di campagna. I francesi hanno<br />

sempre amato stare all’aria aperta convinti che c’è<br />

del potere taumaturgico in una natura non contaminata.<br />

Ma nello stesso tempo non hanno mai saputo<br />

rinunciare a un pasto che fosse un pasto.<br />

Da qualche parte ho letto che Le déjeuner sur l’herbe<br />

deriverebbe da modelli primari come la Festa<br />

campestre di Tiziano e altre opere di pittori italiani.<br />

Ma queste feste rinascimentali erano in genere aristocratiche,<br />

raffinate e di corte, si basavano sulla<br />

musica — la festa campestre di Tiziano è sostanzialmente<br />

una festa musicale e non gastronomica — e<br />

non avevano nulla di quella predisposizione borghese<br />

ai cibi nutrienti e ben cucinati. Ho qualche<br />

dubbio sulla disposizione mentale degli italiani nei<br />

confronti della vita all’aperto. Il lunedì di Pasqua li<br />

vedo sempre uscire per pochi metri dall’autostrada<br />

e parcheggiare nelle vicinanze per gustare un pasto<br />

inquinato dagli scappamenti di mille auto.<br />

Sapete qual è la parola che più frequentemente<br />

viene pronunciata ad alta voce nei ristoranti di Napoli<br />

e dintorni dopo «il conto»? È «la porta», ogni volta<br />

che entra un nuovo cliente e non chiude dietro di<br />

sé ermeticamente l’ingresso, con il pericolo di far<br />

entrare correnti d’aria considerate più perniciose<br />

della cavalleria mongola. E come volete che si possa<br />

gustare un pranzo all’aperto quando le correnti d’aria<br />

sono viste come un attentato alle nostre famiglie?<br />

Torta di mele<br />

Da Nonna Papera<br />

alla scuola alberghiera,<br />

è il dolce-base della cucina<br />

di casa. A impreziosirlo,<br />

briciole di amaretti, uva<br />

passa, mandorle tritate,<br />

scagliette di cioccolato<br />

fondente. Nella versione<br />

"adulta" si aggiunge rum


<strong>Repubblica</strong> Nazionale 50 14/05/2006<br />

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

le tendenze<br />

Consumi culturali<br />

Tornarea casa e portarsi dietro un pezzo di felicità. Il filosofo Alain De Botton<br />

pensa che sia questo in fondo il significato di un bell’oggetto di design<br />

o di un palazzo: «Un progetto di senso in un mondo che ne ha sempre<br />

meno». Stendhal diceva che «la bellezza è la promessa della felicità».<br />

Magari uno non se lo ripete come un mantra, però uscendo dal museo<br />

sempre più spesso ci si ferma al bookshop. Per comprare il catalogo della<br />

mostra appena vista, oppure una cartolina che non verrà mai spedita, una t-shirt<br />

che dimostra che «io ci sono stato», un manifesto d’autore che farà la sua figura in<br />

salotto. Souvenir perché sono ricordi di un’esperienza, ma non chincaglierie: fare<br />

shopping in questi negozi è un gesto più delicato e forse più bisognoso d’altri. È una<br />

richiesta di bello. «Un modo di appropriarsi e di tradurre un’esperienza, spinta classica<br />

del turista», spiega Vanni Codeluppi, sociologo dei consumi. «Ma nel caso specifico,<br />

il souvenir del museo ha una griffe dal forte potere simbolico perché trasferisce<br />

nel domestico il coté<br />

alto dell’arte».<br />

Al MoMA Store di New<br />

York, che è un negozio vero<br />

e proprio tanto che sta<br />

fuori dall’edificio museale,<br />

vendono quello che<br />

dentro si può ammirare<br />

esposto sotto le luci, come<br />

la sedia in plastica Selene<br />

di Vico Magistretti<br />

(1970) che si compra per<br />

175 dollari (il modello riprodotto<br />

da Heller). Al Vitra<br />

Design Museum di<br />

Weil am Rhein, in Germania,<br />

prima opera europea<br />

di Frank O. Gehry,<br />

si trovano in vendita i<br />

pezzi di arredamento e<br />

design dei progettisti più<br />

famosi, da Alvar Aalto a<br />

Charles e Ray Eames. Costano,<br />

certo. Però per un<br />

centinaio di euro si portano<br />

via i modellini in miniatura<br />

degli oggetti più<br />

celebri disegnati da Sottsass,<br />

Mendini, De Lucchi,<br />

Pesce, Starck e molti<br />

altri. A dispetto delle apparenze,<br />

non è un acquisto<br />

riduttivo: le opere in<br />

formato mini sono uno<br />

dei sottomercati più fiorenti.<br />

Spesa di qualità, co-<br />

Il brivido di comprare<br />

un pezzo di eternità<br />

LA SCIARPA<br />

IMPRESSIONISTA<br />

Le ballerine<br />

del pittore<br />

impressionista<br />

Edgar Degas<br />

su un foulard<br />

del Metropolitan<br />

a 70 euro<br />

BERE CON STILE<br />

Bollitore firmato<br />

da Frank Gehry<br />

per Alessi e una tazza<br />

d’autore per una<br />

Shopping<br />

colazione da museo<br />

ALESSANDRA RETICO<br />

Gli oggetti di design esposti al MoMA di New<br />

York, le copie dei capolavori del Louvre<br />

o della National Gallery, oppure semplicemente<br />

i cataloghi delle mostre. Dilaga la moda<br />

di concludere le visite con gli acquisti: per portarsi<br />

a casa un po’ della bellezza appena ammirata<br />

me anche quella di prodotti<br />

non griffati e no logo<br />

(eccetto quello del museo<br />

stesso): un cappellino,<br />

una matita, una maglietta<br />

con il quadro dell’artista<br />

preferito o la tazza da tè, la<br />

sacca di tela per fare la<br />

spesa, l’ombrello.<br />

«L’ho comprato al Metropolitan di New York» fa molto chic, e qui sta la forza di quello<br />

che è anche un business. Più estero, bisogna dire, dove la tradizione dello store culturale<br />

è più antica (1890) e dove l’incrocio tra arte e mercato, così come tra fondi privati<br />

e pubblici, non ha lo stigma, la garanzia secondo altri, che ha da noi in Italia. In<br />

termini puramente numerici un paradosso: il nostro Paese, che ha la più ricca rete di<br />

musei al mondo, 4.100 tra musei e gallerie, col merchandising totalizza un giro d’affari<br />

che è appena un terzo di quello del solo Metropolitan. Circa 20milioni di euro nel<br />

2004 (ultimo dato disponibile), lo stesso che guadagna tra braccialetti e statuine il<br />

Louvre, 2 milioni in meno della National Gallery di Londra. Eppure dalla legge Ronchey<br />

nel ‘93, che prevedeva l’introduzione dei “servizi” commerciali nei musei, gli<br />

shop sono aumentati, 96 quelli più importanti.<br />

Nonostante questo il “very made in Italy” fatica a decollare dove nasce davvero:<br />

si spendono appena 9 euro per un ricordo, gli stranieri nei loro store lasciano tra i<br />

13 e 15 euro. In America, per dire, i gadget rappresentano circa il 10 per cento dei<br />

guadagni annuali. Certo, in un Paese che ha avuto Andy Warhol l’arte non poteva<br />

che tradursi anche in consumo, merce, persino giocattolo e intrattenimento. Secondo<br />

Codeluppi, «con l’effetto positivo di alzare il livello della cultura di massa e<br />

democratizzare il sapere». A Pittsburgh, nel museo dedicato all’artista pop, quasi<br />

ti confondi tra opera e riproduzione, esposizione e mercato, tra vero e finto. È quello<br />

che lui voleva, che si mischiasse tutto.<br />

da<br />

museo<br />

L’ECLISSE<br />

DI MAGISTRETTI<br />

Compasso<br />

d’oro nel ‘67,<br />

la lampada Eclisse<br />

di Vico Magistretti<br />

per Artemide<br />

si compra a poco<br />

più di cento euro


DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

T-SHIRT D’AUTORE<br />

Un’opera<br />

del pittore<br />

americano<br />

realista Andrew<br />

Wyeth riprodotta<br />

su una t-shirt<br />

A 24 dollari<br />

al Museo delle arti<br />

di Boston<br />

LA STORIA<br />

IN TESTA<br />

Dal Philadelphia<br />

Museum of Art,<br />

ricchissimo<br />

nella sezione<br />

storica, berretto<br />

“firmato”<br />

Benjamin Franklin<br />

a 22 dollari<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51<br />

IL TEMPO A COLORI<br />

Uno degli orologi<br />

multicolore disegnati<br />

negli anni ‘50<br />

da George Nelson<br />

ed esposti in vari<br />

musei del mondo,<br />

si acquista anche<br />

negli shop<br />

del Noguchi Museum<br />

di New York per circa<br />

250 dollari<br />

Gae Aulenti: i negozi, se di qualità, avvicinano le grandi opere alla gente<br />

“Così l’arte diventa più laica”<br />

«I<br />

negozi nei musei non sono di per sé negativi.<br />

E il mantenimento della qualità dipende,<br />

al solito, dai gestori». L’architetto Gae Au-<br />

lenti lo vede così il fenomeno dilagante dello shop-<br />

ping nei musei.<br />

Ma cosa ha a che fare il consumo con un luogo<br />

da sempre simbolo di conservazione?<br />

«Oggi non si progetta spazio espositivo, anche<br />

importante, che non abbia il suo negozio. È diventata<br />

una regola. Il fatto è che un tempo il museo era<br />

un luogo di restauro, solidità, memoria. Adesso, in<br />

molti casi, è un semplice contenitore di eventi,<br />

piazza dove inscenare la comunicazione. Il marketing<br />

è diventato molto sensibile alle<br />

possibilità pubblicitarie di un’occasione<br />

culturale. Per questo molti si riempiono<br />

di opere effimere, installazioni,<br />

video, merce cosiddetta moderna<br />

ma che in realtà è solo transitoria.<br />

Andare a vedere una mostra è<br />

un’azione che sollecita domande.<br />

<strong>La</strong> gente trova opere e oggetti fortemente<br />

evocativi. Trova testimonianze<br />

di passato ma anche di presente,<br />

racconti di una storia che è<br />

stata ma che ancora è. Si sente al<br />

centro. Un’esperienza intellettuale e sensoriale.<br />

Che è anche possibile corteggiare».<br />

Si finisce per comprare il souvenir. Semplice<br />

feticismo consumistico o anche qualcos’altro?<br />

Non c’è forse il bisogno di appropriarsi di una conoscenza?<br />

«Al Metropolitan di New York c’è uno degli store<br />

più noti, vendono oggetti anche molto costosi.<br />

Chi compra lì lo fa da un parte per portare a casa<br />

uno status, dall’altra perché sa di trovare qualità.<br />

Il merchandising cosiddetto culturale ha spesso il<br />

pregio di garantire livelli piuttosto alti nei materiali<br />

e nel design. Da questo punto di vista l’acquisto<br />

è anche una forma di educazione alle forme e<br />

ai pensieri. <strong>La</strong> laicizzazione dei musei, quando<br />

fatta, ripeto, in modo intelligente, è una possibilità<br />

di allargamento della cultura, di democratizzazione<br />

delle esperienze. Si diventa adulti attra-<br />

verso molte maniere, e nella nostra società quella<br />

del mercato è una realtà che non va sottovalutata.<br />

<strong>La</strong> conoscenza accessibile è un dovere e una<br />

grande conquista dei nostri tempi. Non lo è la<br />

spettacolarizzazione del bello: l’idea della decorazione<br />

tout court, alla quale hanno contribuito le<br />

riviste femminili, ha fatto sì che di certi prodotti<br />

venga apprezzato solo l’effetto scenico, la marca<br />

e la griffe. Il consumo può essere invece un gesto<br />

consapevole e di forte impatto emotivo e cognitivo,<br />

ma solo se è maturo e responsabile. Non ha significato<br />

tutto ciò che è autoreferenziale, che si<br />

consuma e autofagocita. Per essere coscienti, per<br />

essere dei veri cittadini e non solo consumatori,<br />

serve molto di più».<br />

Per esempio?<br />

«Serve la città. Serve che la città sia<br />

un melange di culture, non l’orrenda<br />

categorizzazione cui sono stati sottoposti<br />

molti centri. Le banlieue parigine,<br />

per esempio. Il ghetto, dove anche<br />

la bruttezza degli edifici deve<br />

aver provocato nel tempo il rifiuto e<br />

la rabbia. O come attorno alla Bibliotheque,<br />

sempre a Parigi, schemi<br />

abitativi tagliati con l’accetta sociale.<br />

Le nostre periferie, quelle di molte altre realtà urbane<br />

e suburbane. Questo è il vero tradimento<br />

della modernità, non il mercato, non lo shopping<br />

culturale. Bisogna mischiare la gente, intrecciare<br />

i servizi, creare una vera comunicazione.<br />

Io non credo nei fantasmi del bello, credo negli<br />

edifici specie quelli pubblici, credo nella solidità<br />

e insieme apertura di un progetto, credo nell’architettura<br />

come scambio. Qualsiasi costruzione<br />

deve avere a che fare col contesto,<br />

parlargli. Anche gli oggetti diventano belli quando<br />

sanno raccontare cosa sono e a cosa servono.<br />

Non ho ancora visitato l’Ara Pacis a Roma, so che<br />

la ristrutturazione è stata contestata, ma a occhio,<br />

non mi sembra male. Il pregiudizio, pensare<br />

che il moderno non può stare con le rovine,<br />

non è mai una buona partenza per capire».<br />

(a.r.)<br />

GADGET E DESIGN<br />

Al museo del Louvre<br />

di Parigi le riproduzioni<br />

della Venere di Milo<br />

si comprano per circa<br />

100 euro; la miniatura<br />

della poltrona “Ball Chair”<br />

disegnata nel ’65<br />

da Aarnio si trova<br />

a 184 euro<br />

al Vitra Design Museum<br />

di Weil am Rhein,<br />

così come la tazza<br />

da tè disegnata<br />

da Noguchi nel ’52 ,<br />

che costa 70 euro


52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

l’incontro<br />

Dive senza tempo<br />

DARIO CRESTO-DINA<br />

MILANO<br />

IrenePapas è appena tornata dall’Hangar<br />

della Bicocca di viale<br />

Sarca. <strong>La</strong> grande e fredda pancia<br />

svuotata della vecchia Breda accoglie<br />

la mostra di Marina Abramovic e<br />

le sette Torri di Anselm Kiefer che sembrano<br />

sopravvissute a un’esplosione<br />

atomica. Ad affascinarla sono state<br />

proprio le torri celesti dell’artista tedesco<br />

che svettano e incombono dentro il<br />

buio di quella balena di ferro. <strong>La</strong> sua<br />

mente visionaria sta già accarezzando<br />

un’idea. «È Macondo», dice. Si accalora.<br />

«Devi vederla Macondo, là sotto.<br />

Non puoi non immaginarla». Alza le<br />

mani e le fa precipitare due, tre volte:<br />

pioggia, pioggia, pioggia. Quasi si riesce<br />

a scorgerla per davvero, la pioggia<br />

sopra Macondo che scende dalle sue<br />

braccia tese verso il soffitto. Lei declama<br />

austera quel famoso incipit tanto<br />

invidiato del libro di Garcia Marquez:<br />

«Molti anni dopo, di fronte al plotone<br />

di esecuzione, il colonnello Aureliano<br />

Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto<br />

pomeriggio in cui suo padre lo<br />

aveva condotto a conoscere il ghiaccio».<br />

Ha già un progetto nella testa. Lo<br />

vuole fare assolutamente, vuole mettere<br />

in scena all’Hangar Cent’anni di<br />

solitudine. Tanta è la sua determinazione,<br />

così autentica la sua gioia, che si<br />

può stare sicuri che lo realizzerà molto<br />

presto.<br />

«Vieni via con me», dice adesso. Il<br />

braccio è prensile, il sorriso è un ordine.<br />

In questo anonimo albergo milanese<br />

della zona Fiera arredato in stile anni<br />

Settanta uomini con le cravatte sbagliate<br />

e giovani donne in tailleur grigi<br />

acquistati in qualche outlet vogliono<br />

trasmettere l’impressione di essere<br />

tremendamente indaffarati. Devono<br />

essere manager, parlano a voce troppo<br />

alta, forse confidando di cogliere nell’eco<br />

delle parole una prova della propria<br />

esistenza. In mezzo a questa fre-<br />

Irene Papas<br />

nesia artificiale da formicaio urbano<br />

quella di Irene Papas è l’unica faccia<br />

che guarda. È sola. Si alza con uno scatto<br />

dalla poltrona, mi afferra il gomito e<br />

mi porta in un angolo riparato, allontanando<br />

con un gesto degli occhi il rumore<br />

inutile che la circonda.<br />

<strong>La</strong> sua bellezza è tragica, racchiude la<br />

dannazione e la gloria di tutte le età. Più<br />

tardi, dopo averla lasciata a una nuova<br />

partenza e ripensando a questo passaggio<br />

durato lo spazio di pochi secondi,<br />

capirò perché mi ha parlato con passione<br />

di Sofocle, del monologo di Elettra,<br />

dell’Edipo re, dell’immortalità di<br />

testi attraverso il rigore dei quali, ha<br />

spiegato, possiamo rileggere l’essenza<br />

di ogni nostra epoca. Passata, presente<br />

e futura. Ogni parte del suo corpo è<br />

scolpita, nulla sfuma, si piega o fugge.<br />

Le vene sul dorso delle mani, i tendini<br />

sottili del collo, i fianchi alla fine delle<br />

lunghe gambe, le rughe attorno agli occhi<br />

intensi e sempre un po’ tristi, i fili<br />

bianchi che solcano come sparute flotte<br />

il mare di capelli nerissimi. Lei guarda<br />

anche se stessa, in silenzio, come se<br />

la sua immagine si riflettesse in uno<br />

specchio agli altri invisibile, poi si domanda<br />

perché mai siamo qui, apparecchiati<br />

a questo tavolo rotondo, storto<br />

e traballante, così imperfetto e stonato.<br />

Fa il gesto di andarsene, poi torna<br />

a sedersi ridendo. «Mio padre diceva<br />

che la letteratura è finita con Goethe,<br />

perciò io che cosa posso ancora raccontare<br />

d’interessante? Credo nulla.<br />

Mi sento una moneta sul fondo di un<br />

secchio di pietre e, come se non bastasse,<br />

sono greca. È difficile, sai, parlare<br />

con i greci. Molto difficile. Possiamo<br />

rimanere qui due giorni e due notti, ma<br />

qualsiasi cosa io dirò sarà soltanto un<br />

piccolo pezzo di me. Forse autentico,<br />

forse no. Solo il mio fisico non può barare:<br />

sono alta un metro e settantotto<br />

centimetri e porto il quarantuno di<br />

scarpe».<br />

Dietro questa cortina di veli sembra<br />

esserci il piacere un po’ crudele nell’infliggere<br />

all’interlocutore il gioco di<br />

smontarsi e rimontarsi. Come la sua indimenticata<br />

Penelope dell’Odissea televisiva<br />

di Franco Rossi. C’è anche un<br />

po’ di recitazione. È un modo per restare<br />

dentro il proprio mestiere anche<br />

quando si è abbandonato il palcoscenico,<br />

cosa che lei fa da quand’era bambina.<br />

«Ho cominciato a frequentare la<br />

scuola di arte drammatica di Atene che<br />

avevo dodici anni e mezzo. Ricordo che<br />

ero già alta come adesso, solo un po’<br />

più grassa. Mi aveva spinta la curiosità,<br />

avevo accompagnato un’allieva che<br />

era mia amica. Osservai una lezione,<br />

ebbi l’impressione che l’insegnante invece<br />

di mostrarle come si usa la verità<br />

la conducesse verso la bugia. Glielo<br />

dissi: non è così che si recita. “Allora,<br />

fammi vedere tu”, mi rispose l’uomo.<br />

Quel giorno ho capito che l’arte ci insegna<br />

a non ubbidire. <strong>La</strong> mia carriera cominciò<br />

così».<br />

Irene Papas oggi ha quasi ottant’an-<br />

Ha ottant’anni, ne dimostra venti<br />

di meno. Ha lavorato con i registi<br />

più famosi, è stata Medea ed Elettra,<br />

ha aperto scuole in tutto il mondo<br />

Ma la sua vita la riassume così:<br />

“Un giorno sono<br />

diventata attrice. Ho<br />

girato un film a Cannes,<br />

poi ne ho fatti altri due<br />

o tre, sono andata<br />

in America, sono<br />

ni. Ne dimostra venti di meno. È asciutta,<br />

rapida, flessuosa, la sua stretta di<br />

mano è piena di energia. Ha lavorato<br />

con i più grandi registi del mondo, da<br />

Monicelli a Germi, da <strong>La</strong>ndis a De Oliveira,<br />

è stata Medea e Elettra, ha aperto<br />

scuole in Italia, Grecia, Portogallo e<br />

Spagna. È un monumento, un’icona<br />

per generazioni di attori. Nelle sue<br />

scuole insegna il sapere, non il lavoro.<br />

Eppure, come Beckett, dice di non essere<br />

particolarmente portata per la felicità.<br />

«<strong>La</strong> felicità? Tu conosci qualcuno<br />

che sia mortale e che sia felice? Io no.<br />

Ogni tanto sento dire: sono felice perché<br />

ho un ottimo stipendio, un po’ di<br />

soldi da parte, posso pagarmi da mangiare<br />

e l’affitto. Io non so descrivere la<br />

felicità, ma non credo sia quella. Anche<br />

se sono stata educata all’infelicità, so<br />

che la felicità da qualche parte dentro<br />

di noi ci deve essere. Nel profondo di<br />

noi. Serve qualcuno che ci aiuti a trovarla.<br />

Forse i genitori, forse i figli, forse<br />

gli amanti. Io sono molto limitata. Sono<br />

stata capace di fare soltanto un mestiere<br />

e il mio mestiere è l’unica verità<br />

che possiedo. Mi garantisce la libertà<br />

assoluta. Nella vita non ci è permesso<br />

di uccidere qualcuno che odi, sulla scena<br />

puoi farlo e se lo fai molto bene, e<br />

magari ti va di lusso, prendi pure un<br />

Oscar».<br />

Come Beckett<br />

non credo di essere<br />

molto portata<br />

per la felicità<br />

Conoscete qualcuno<br />

che sia mortale<br />

e che sia felice?<br />

Io sinceramente no<br />

tornata. Cosa altro<br />

volete che vi dica?”<br />

Più del passato l’appassiona il futuro,<br />

dove si fa strada un progetto: mettere<br />

in scena “Cent’anni di solitudine”<br />

FOTO GAMMA<br />

<strong>La</strong> sua memoria è affilata. È un coltello<br />

che infierisce sul passato. Lo scarnifica<br />

fino a ridurlo allo scheletro. «Un<br />

giorno è successo che sono diventata<br />

un’attrice di cinema. Avevo vent’anni.<br />

Ho girato un film a Cannes, poi ne ho<br />

fatti altri due o tre, sono andata in America<br />

e sono tornata. Che cosa vuoi che ti<br />

dica di più? Mi restano pochi ricordi di<br />

quella esperienza, non ho bisogno del<br />

mio passato. Come tutti gli attori ho<br />

una memoria breve, se mi portassi addosso<br />

il peso di tutti i personaggi che ho<br />

interpretato non riuscirei a camminare».<br />

Dice che dentro a ciascuno di noi<br />

rimane soltanto la terra nella quale ci è<br />

capitato di nascere. Proprio la terra che<br />

abbiamo calpestato e che ci ha sporcato<br />

le mani. L’odore dei luoghi, delle<br />

persone care, il colore viola di un cielo<br />

attraversato da un temporale estivo, la<br />

fronda di un albero che abbiamo scorto<br />

dalla finestra della nostra stanza, la<br />

curva di un sentiero nel bosco. «È la<br />

memoria dell’infanzia l’unica che ci<br />

portiamo davvero sino alla fine dei nostri<br />

giorni, fino a quando chiuderemo<br />

gli occhi e li chiuderemo su quel tempo<br />

lontano ma felicissimo. Io spero di morire<br />

così, finalmente felice». Fa la faccia<br />

da paura. «Dopo, quando sarò sottoterra,<br />

gli occhi li riaprirò. Te lo giuro.<br />

Voglio vedere se i vermi che mi mangeranno<br />

parleranno in greco oppure in<br />

italiano. Credimi, alla morte non penso<br />

mai. Ricordo che lo facevo a vent’anni<br />

e il suo pensiero mi terrorizzava.<br />

Piangevo, non potevo accettare l’idea<br />

che la morte mi portasse via l’anima.<br />

Ora so di camminare su un filo, sento le<br />

campane suonare in lontananza, ma<br />

sono una buona equilibrista. Conosco<br />

il filo. Sono una vecchia signora per fortuna<br />

ancora sana che dentro si sente o<br />

tenta di sentirsi una bambina perché<br />

assolutamente priva della saggezza degli<br />

anziani. Io non sono una anziana...<br />

sono una vecchia bambina».<br />

Irene, che ha mantenuto il cognome<br />

del marito, il regista Alkis Papas, sposato<br />

nel 1943 e dal quale si è separata<br />

quattro anni dopo, è una viaggiatrice<br />

solitaria. Non possiede case, la casa nel<br />

senso che la maggior parte di noi dà al<br />

posto in cui stare. «Vivo dentro la mia<br />

pelle, trascino valigie tra la Grecia e l’Italia.<br />

Eppure le case mi piacciono molto.<br />

Avrei desiderato diventare un architetto.<br />

Ne ho costruite tante di case, appena<br />

terminate le ho lasciate tutte come<br />

se fossi arrivata alla fine di uno spettacolo.<br />

Il prossimo passo della mia professione<br />

sarà infatti la scenografia».<br />

Racconta che quando ha cominciato a<br />

sentirsi inutile si è attaccata alle tragedie.<br />

Alla mitologia. Dice proprio così:<br />

attaccata. Il cinema non le piace più da<br />

tempo. Troppi remake americani di<br />

vecchi film italiani impomatati con il<br />

gel, poche idee, nessuna ideologia, pochissime<br />

speranze, fantasia senza bellezza,<br />

nulla che sopravviva al tumulto<br />

del tempo. «Nel teatro, invece, non bisogna<br />

essere moderni a tutti i costi. A<br />

teatro l’uomo è nudo, i testi delle grandi<br />

tragedie greche nella loro classicità<br />

sono modernissimi. Di più, predicono<br />

il nostro futuro». A Siracusa il suo Antigone<br />

lo hanno visto quasi novantamila<br />

spettatori. Molti di loro sono arrivati alla<br />

fine dello spettacolo con le lacrime<br />

agli occhi. «Il teatro è fatto per le persone<br />

semplici, per gli ignoranti, cioè coloro<br />

che non sanno. Il teatro è come le<br />

fiabe raccontate dalla nonna. Non c’è<br />

assolutamente l’esigenza di metterci<br />

dentro nulla per richiamare, per esempio,<br />

ciò che accade in Iraq, questo lo lascio<br />

fare ai giornali che lo sanno fare<br />

meglio. Nell’Antigone c’è l’immensità<br />

dell’ingiustizia. C’è già tutto».<br />

A una donna che ha sempre inseguito<br />

la pienezza, i vuoti devono avere<br />

creato molte sofferenze. Le sue rinunce<br />

sono state pesanti. Nella finzione è<br />

stata tante volte madre. Non nella vita.<br />

«Avrei voluto dei bambini, certo, ma la<br />

natura deve aver pensato che con me<br />

aveva compiuto un capolavoro e che<br />

era meglio fermarsi». Dice che non ha<br />

avuto migliore destino con gli uomini.<br />

«Ho amato molto. Mai stata infedele,<br />

mai messo le corna ai miei compagni.<br />

Ma credo di non essere mai stata amata.<br />

Io amavo e nello stesso tempo avevo<br />

paura di amare, gli uomini lo avvertivano<br />

e si ritraevano. Io cercavo un alleato,<br />

loro la complicità. <strong>La</strong> complicità<br />

è un crimine e io detesto i criminali. Oggi<br />

l’amore rischia di diventare un vizio,<br />

una giostra en travesti. Grandi bocche,<br />

grandi tette, grandi culi, una sorta di<br />

<strong>La</strong>s Vegas. Dall’impero dei sensi a quello<br />

del kitsch».<br />

Le domando un giudizio sulla politica<br />

italiana. Risponde che non è solo l’Italia<br />

a preoccuparla, il mondo intero è<br />

cambiato in peggio: «Sembra sia più<br />

difficile essere democratici che fascisti...».<br />

Mi spiega che incontra molta<br />

gente triste. Le confessano di non avere<br />

opinioni e di non sapere che cos’è la<br />

bellezza. Lei, invece, lo sa: «Niente può<br />

essere più bello dell’Edipo re». Viene<br />

voglia di ricominciare da lì.<br />

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