Renzo Lodoli - La Repubblica
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Domenica<br />
<strong>La</strong><br />
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
ANAIS GINORI<br />
I guardiani<br />
della<br />
PARIGI<br />
Nel silenzio del martedì le sculture si distendono,<br />
più grandi, i quadri respirano, ti guardano.<br />
È soltanto nel giorno di chiusura che le<br />
sale immense si animano. Rollìo di tamburi<br />
per generali in armi, sospiri di dame, risate di satiri, preghiere<br />
di santi. Soltanto lei rimane costretta, in gabbia. Lei<br />
dal sorriso immobile. «È il suo destino. Nessuno potrà mai<br />
più liberarla». Cécile Scaillierez parla della Gioconda come<br />
di una persona. Bella, fragile, inquietante, capricciosa. Si<br />
sente che è una relazione profonda, antica. Da ventuno anni<br />
questa conservatrice del Louvre è la guardiana del ritratto<br />
più famoso del mondo. È gelosa della sua pupilla e la difende<br />
in modo quasi irrazionale, da tutto e da tutti, anche<br />
dall’onda d’urto di un film come il Codice da Vinci.<br />
«<strong>La</strong> conosco in ogni suo minimo dettaglio. Chi concepisce<br />
l’arte come il dono più alto può capirmi». Ha il privilegio<br />
di vedere Monna Lisa del Giocondo denudata della sua<br />
armatura quando, una volta all’anno, viene tolta dalla bacheca,<br />
scorniciata, e sottoposta a esami scientifici. «Bisogna<br />
vederla da vicino per comprendere perché è così<br />
straordinaria».<br />
(segue nella pagina successiva)<br />
di <strong>Repubblica</strong><br />
Gioconda<br />
Un romanzo e un film<br />
di impatto mondiale<br />
L’uragano Dan Brown<br />
si abbatte sul Louvre<br />
E il più celebre<br />
dei ritratti diventa<br />
un sorvegliato<br />
speciale<br />
FRANCESCO MERLO<br />
PARIGI<br />
In Place Vendôme mi intruppo nel “Da Vinci Walking<br />
Tour” e subito ci infiliamo nella stazione del métro<br />
Concorde, interamente ridisegnata dalla pubblicità<br />
del film. <strong>La</strong> destinazione è la Gioconda. Ma, più ancora<br />
che del Graal, qui si parla di Parigi, ed è inutile provare<br />
a dire che Mona Lisa è un quadro italiano, e che l’unico<br />
reperto storico che contiene è forse il paesaggio toscano<br />
che fa da sfondo sbiadito. Per tutti la Giocondaè “aria di Parigi”,<br />
come la bottiglietta sigillata che due ragazzi di Boston<br />
hanno comprato ieri pomeriggio in rue de Vaugirard. C’è il<br />
solito viso della Gioconda e c’è scritto appunto «Air de Paris»,<br />
con l’avvertenza che potrà essere usata una sola volta,<br />
quando, con l’oceano di mezzo, si sentirà il bisogno di<br />
«prendre l’air» o di «changer d’air». Qualcuno, più colto, ricorda<br />
che l’idea di chiudere ermeticamente in un’ampolla<br />
l’aria di Parigi venne per la prima volta a Marcel Duchamp,<br />
quello stesso che un giorno disegnò i baffi alla Gioconda e<br />
per questo ancora oggi è molto famoso, forse più di Dan<br />
Brown, ma certo meno di Leonardo e anche del Louvre, che<br />
è stato affittato alla produzione del film per cinquantamila<br />
euro al giorno.<br />
(segue nella pagina successiva)<br />
il fatto<br />
Dribbling, la rivincita del calcio pulito<br />
RONALDINHO, CORRADO SANNUCCI e MICHELE SERRA<br />
la memoria<br />
<strong>La</strong> Guerra di Spagna narrata dai reduci<br />
ROBERTO BIANCHIN, JENNER MELETTI e MASSIMO L. SALVADORI<br />
il racconto<br />
<strong>La</strong> saga di Gengis khan, patriarca e killer<br />
EMANUELA AUDISIO e GUIDO RAMPOLDI<br />
cultura<br />
Vita e amori del mio amico Picasso<br />
NATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI<br />
spettacoli<br />
Megaconcerti, un biglietto per sognare<br />
ERNESTO ASSANTE e EDMONDO BERSELLI<br />
l’incontro<br />
Irene Papas, progettare a ottant’anni<br />
DARIO CRESTO-DINA<br />
FOTO ALINARI
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 32 14/05/2006<br />
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
la copertina<br />
Dal dipinto al mito<br />
Una vita dedicata<br />
al mistero di un sorriso<br />
ANAIS GINORI<br />
(segue dalla copertina)<br />
notano le piccole imperfezioni,<br />
la mano rilavorata più volte, la<br />
spalla sinistra in rilievo per un<br />
sollevamento del legno», prosegue<br />
Scaillierez. «Il paesaggio a de-<br />
«Si<br />
stra è chiaramente incompiuto,<br />
ma si sa che per Leonardo nessuna opera era mai<br />
del tutto terminata. <strong>La</strong> tavola di pioppo è sottile.<br />
Tutti pensano che sia un dipinto scuro. Non è vero.<br />
Il cielo era azzurro in origine, si vede benissimo sotto<br />
alla cornice».<br />
Passano alcuni operai con delle scale. «Che succede?»,<br />
chiede subito lei, sospettosa. Un guasto al<br />
sistema di condizionamento. «Ma la cosa eccezionale»,<br />
continua, in piedi davanti al quadro, «sono i<br />
colori perfettamente amalgamati, una precisione<br />
infinitesimale, è impossibile scorgere le pennellate.<br />
Rimane ancora misteriosa la tecnica usata per lo<br />
sfumato, a base di un minerale, il manganese. Dei<br />
chimici stanno tentando di scoprirne la formula».<br />
Scaillierez appare poco nei giornali, non cerca la<br />
ribalta. Alta ed elegante, un viso regolare con grandi<br />
occhi azzurri, usa un francese forbito, si dedica<br />
allo studio e alla ricerca, ha condotto una carriera<br />
dietro le quinte. «Una diva basta e<br />
avanza», scherza. Aveva meno di<br />
trent’anni quando si ritrovò in dono il<br />
tesoro di Leonardo da Vinci con cui ha<br />
condiviso polemiche, rivelazioni, traslochi,<br />
incidenti. L’ultimo qualche<br />
giorno fa. «Ero nel mio ufficio in fondo<br />
alla Grande Galerie quando un custode<br />
è arrivato correndo. Un uomo aveva<br />
strappato un palo delle transenne,<br />
tentando di scaraventarlo contro il dipinto.<br />
Per fortuna è stato fermato in<br />
tempo e siamo riusciti a non diffondere<br />
la notizia. Più se ne parla e più i pazzi<br />
arrivano».<br />
Mona Lisa ha sempre avuto la capacità<br />
di attrarre mitomani e psicopatici.<br />
Scaillierez ha tre cassetti pieni di lettere,<br />
telegrammi e bigliettini. Una corrispondenza<br />
unica per un quadro. Tra<br />
gli ammiratori c’è persino chi sogna di<br />
portare il dipinto nella sua camera da<br />
letto, come fece Napoleone. Recentemente<br />
un principe kuwaitiano si è fatto<br />
avanti. «Non ha prezzo e non è in<br />
vendita», è stata la risposta del Louvre.<br />
Scrivono sedicenti studiosi. <strong>La</strong> Gioconda<br />
è incinta, è emiplegica, è asmatica,<br />
è un uomo, è la madre di Leonardo,<br />
è un autoritratto. Un professore<br />
giapponese scandalizzato chiede di<br />
sapere perché è esposta una copia,<br />
«dov’è l’originale?». Dalla Svizzera vogliono<br />
conoscere la distanza tra le pupille,<br />
dal Senegal hanno trovato una<br />
formula sul calcolo delle probabilità. CÉCILE SCAILLIEREZ<br />
<strong>La</strong> conservatrice richiude i cassetti. Conservatrice del museo<br />
«E adesso sarà anche peggio». <strong>La</strong> “Gio-<br />
del Louvre<br />
condolatria” rischia di diventare ingestibile<br />
con l’uscita del Codice da Vinci.<br />
«Non ho letto il romanzo ed ero contraria a concedere<br />
il permesso di girare il film dentro al museo.<br />
No, non sono snob. Ma tutta questa mistificazione<br />
danneggia il senso dell’arte». I custodi sono già esasperati.<br />
«Le guide turistiche bloccano la fila mettendosi<br />
a leggere ad alta voce scene del romanzo»,<br />
racconta uno di loro, Jocelyn. «Vengono per vedere<br />
il Cenacolo senza sapere che è in Italia», aggiunge<br />
un altro.<br />
Il Grand Louvre immaginato da François Mitterrand<br />
è in continua trasformazione. Scaillierez ha visto<br />
nascere la Piramide inaugurata nel 1989, la conquista<br />
dei locali sottratti al ministero delle Finanze<br />
nel 1993, l’apertura delle sale per i reperti egizi nel<br />
1998 e quella per le arti primitive nel 2000. Oggi c’è<br />
il cantiere per il nuovo settore dedicato all’Islam.<br />
Trentacinquemila opere esposte, capolavori universali,<br />
una delle strutture museali più grandi del<br />
mondo. Eppure per la dama fiorentina manca co-<br />
Cécile Scaillierez, conservatrice<br />
del Louvre, è da ventuno anni<br />
la guardiana del ritratto più famoso<br />
del mondo. Lo ha seguito<br />
nei suoi quattro traslochi nel museo<br />
e ne parla come di una persona<br />
“<strong>La</strong> maggioranza<br />
dei visitatori<br />
rimane delusa<br />
dopo averla vista<br />
Dicono<br />
che è brutta<br />
e piccola<br />
Per il quadro<br />
è una lenta morte”<br />
munque lo spazio. Tra i sette milioni di visitatori all’anno<br />
pochissimi rinunciano a incrociare fugacemente<br />
il suo sguardo.<br />
Un anno fa Scaillierez ha sovrainteso al quarto<br />
trasloco del ritratto. Al centro di una parete issata in<br />
mezzo alla Salle des Etats; insieme alle opere della<br />
scuola veneziana; davanti alle Nozze di Cana. «Avevo<br />
sperato di poter riunire Mona Lisa agli altri quadri<br />
di Leonardo da Vinci, la Sant’Anna con Madonna<br />
e Bambino e il San Giovanni Battista. Ma l’unica<br />
sala grande abbastanza era questa. I dipinti della<br />
scuola veneziana non si potevano spostare altrove<br />
a causa delle loro dimensioni. Il risultato è pessimo,<br />
un matrimonio artistico senza senso. Non mi piace<br />
neanche questa parete beige, troppo scura, e la bacheca<br />
posata su una specie di altare, sembra una<br />
Madonna. Cosa vuole, io ragiono con una testa diversa.<br />
Hanno prevalso i problemi di ordine pubblico<br />
e di sicurezza».<br />
Anche con trecento metri quadri a disposizione,<br />
la ressa continua. «Siamo stati costretti ad aggiungere<br />
una seconda barriera di protezione, c’è stato<br />
un bambino che ha rischiato di morire nella calca.<br />
Da pochi giorni ci sono anche transenne e insegne<br />
per far circolare il flusso. Non è orribile? Sembra di<br />
stare al check-in di un aeroporto. Un’opera d’arte<br />
senza pubblico è come un mare senza spiaggia ma<br />
di questo passo la Gioconda finirà in una stanza tutta<br />
per sé, in un recinto lontano dieci metri dai visitatori.<br />
Allora sarà davvero una catastrofe,<br />
almeno dal mio punto di vista».<br />
FOTO AFP<br />
Il punto di vista di Cécile Scaillierez è<br />
quello di una studiosa che immagina i<br />
musei come luogo di incontro ed emozione,<br />
di «metamorfosi» come diceva<br />
André Malraux. «Oggi tutto è cambiato,<br />
si entra al Louvre come si va a un<br />
concerto rock, non ci sono più i mecenati<br />
ma gli sponsor. Tutti vogliono Mona<br />
Lisa, nessuno la guarda veramente.<br />
Vengono per verificare che esiste. Secondo<br />
un’indagine che abbiamo fatto<br />
tra i visitatori, la maggioranza rimane<br />
delusa dopo averla vista. Dicono che è<br />
brutta e piccola perché non corrisponde<br />
all’icona che conoscevano. Amo<br />
questo quadro e mi dispiace assistere<br />
alla sua lenta morte».<br />
<strong>La</strong> protegge, la cura, l’ascolta. «Ogni<br />
mattina le passo davanti e il suo sorriso<br />
mi fa stare bene». Le minacce sono le<br />
più diverse. Si mormorava che il governo<br />
volesse mandare il dipinto all’estero,<br />
che il presidente Chirac avesse voluto<br />
organizzare una mostra internazionale<br />
per ringraziare un Paese alleato.<br />
«Impossibile, il quadro non può<br />
viaggiare», ha risposto Scaillierez, fornendo<br />
le prove di una piccola crepa<br />
aperta sul lato alto del dipinto. <strong>La</strong> notizia<br />
è finita sui giornali due anni fa, «<strong>La</strong><br />
Gioconda è malata». «Abbiamo esagerato»,<br />
ammette adesso. «<strong>La</strong> crepa esiste<br />
ma probabilmente fa parte della<br />
conformazione della tavola di pioppo e<br />
comunque non sta peggiorando. In<br />
realtà il quadro è in ottimo stato di conservazione.<br />
Ma l’idea di trasportarlo<br />
era una follia, dovevo in qualche modo<br />
respingere le pressioni politiche».<br />
Inutile dire che questa signora così poco ossequiosa<br />
e refrattaria alle mode non si è fatta voler bene nel<br />
management. Le sue dichiarazioni sul Codice da Vinci<br />
hanno stonato con quelle del direttore del Louvre,<br />
Henri Loyrette. «Se il film porta pubblico allora è benvenuto»,<br />
ha detto Loyrette, monetizzando l’ospitalità<br />
concessa alla produzione hollywoodiana. Il palazzo<br />
reale, trasformato in museo durante la Rivoluzione<br />
francese, è ormai un’azienda autonoma che deve finanziarsi<br />
anche con fondi privati.<br />
Tra pochi mesi la guardiana della Gioconda se ne<br />
andrà. Trasferita ad occuparsi di pittori fiamminghi<br />
del Cinquecento. «Era la mia specializzazione originaria»,<br />
spiega. «Mi sembra giusto cambiare dopo<br />
tanti anni, questo rapporto mi ha consumata». Abbandona<br />
con un po’ di paura. «Spero che dopo di me<br />
ci sarà qualcuno capace di vedere la Gioconda semplicemente<br />
per quello che è. Un bellissimo ritratto».
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 33 14/05/2006<br />
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
I CASI<br />
L’IDENTITÀ<br />
FRANCESCO MERLO<br />
Secondo il Vasari<br />
è la gentildonna fiorentina<br />
Lisa Gherardini, moglie<br />
di Francesco<br />
del Giocondo. Ma c’è<br />
chi ha visto nel quadro<br />
l’autoritratto di Leonardo<br />
(segue dalla copertina)<br />
Edove adesso uno dei pellegrini con cui ripercorriamo<br />
i luoghi e i simboli del thriller<br />
esoterico alla ricerca del sacro enigma,<br />
chiede all’impiegato di indicargli la sala<br />
dell’Ultima Cena. «Lei si sbaglia, signore:<br />
sta a Milano». Ma forse in un museo contano<br />
ormai solo i quadri mentali, come la traccia di quel<br />
pendente di lapislazzuli che Marta, americana di Philadelphia<br />
e lettrice accanita del Codice, cerca di indovinare<br />
sotto i capelli di Mona Lisa. Dan Brown descrive un<br />
gioiello con l’effigie della dea Isis che ovviamente all’orecchio<br />
di Mona Lisa non c’è mai stato. Eppure Marta<br />
crede davvero di vederlo, con l’identica mistica morbosità<br />
di chi vede senza vederle le lacrime delle Madonne<br />
che piangono. Allo stesso modo, sul fondo di quella bottiglietta<br />
“Air de Paris” acquistata dai ragazzi di Boston<br />
c’è, inciso sul vetro, appena visibile, un piccolo «made<br />
in Hong-Kong». Ma riguarda il contenitore e non il contenuto<br />
e, al momento opportuno, non modificherà né<br />
l’intensità dell’odore di Parigi né il significato attribuito<br />
al lungo respiro di nostalgia.<br />
Se dunque è ancora lecito dubitare che Mona Lisa sia<br />
egiziana come vorrebbe il romanzo, non ha alcun senso<br />
ricordare la fiorentina Lisa Gherardini del Giocondo<br />
e «la véritable identité de la Joconde» perché, come lo<br />
champagne, le coiffures branchées, il gla-<br />
mour e la Torre Eiffel «Mona Lisa is so French,<br />
so chic». Lo dice anche una vecchia canzone<br />
americana, ed è inutile discutere<br />
perché davanti a queste immagini siamo<br />
tutti ignoranti attivi, o se preferite cretini<br />
cognitivi, o ancora idioti sapienti, quelli<br />
che appunto formano il senso comune.<br />
Io per esempio ho appena letto un vivace<br />
libro italiano, da pochi giorni in libreria,<br />
scritto da Valeria Botta e che si intitola Leonardo<br />
nascosto. Sostiene che la Gioconda<br />
è il ritratto di un cadavere; che Leonardo<br />
insomma dipinse il viso di una signora già<br />
morta, perché era un negromante, un necrofilo<br />
oltre che, come dice Dan Brown, un<br />
adepto della magia nera, un omosessuale<br />
e un femminista precursore, nientemeno,<br />
anche di Bachofen.<br />
Trattata dagli stessi custodi del Louvre<br />
come un feticcio, la Gioconda, che respira<br />
aria condizionata sotto un vetro di protezione,<br />
da nessuno è percepita come un<br />
quadro sporco di cinque secoli e che mai si può vedere<br />
da vicino né tanto meno toccare. Mona Lisa non è più<br />
un pezzo di pioppo convesso, instabile colloso e gessoso,<br />
ma è un immenso cumulo di teorie più o meno bizzarre,<br />
di libri e prose ispirate, di enigmi storiografici. È<br />
l’evasione, soggettiva e di massa, verso un imprendibile<br />
mondo immaginario, la conferma delle ossessioni di<br />
ciascuno, la patacca che ognuno di noi si porta dentro,<br />
l’idea solida contenuta in ogni testa, dove la cosa meno<br />
importante è la verità.<br />
Del resto, sono ancora più buffi quegli altri cretini cognitivi<br />
che si ostinano a fare gli esami di storia archivistica<br />
al libro di Dan Brown, per esempio. E si indignano<br />
come si indignarono i grecisti quando uscì il film sulla<br />
guerra di Troia, perché «non è in quel modo che Omero<br />
fa morire Paride», e «non andò così tra Achille ed Ettore».<br />
Sono tutti sindacalisti della presunta autenticità documentale,<br />
o cobas dell’aoristo, o custodi della vera vita<br />
di Cristo, di Maria Maddalena, della Gioconda e di<br />
Leonardo... Tutti pronti, con l’autorevole Vittorio Messori,<br />
a fare il processo inquisitoriale come se la qualità di<br />
un romanzo si potesse misurare con la veridicità storico-archivistica.<br />
I soli criteri di valutazione di un romanzo<br />
sono la qualità della scrittura e la coerenza interna,<br />
l’affabulazione e l’intreccio.<br />
Davvero è un po’ comica questa discussione filologica<br />
che puntualmente è stata riproposta, anche contro il<br />
Codice da Vinci. Se poi la presunta veridicità viene difesa<br />
in nome della religione e di Dio, che è materia di fede<br />
e non di storia, allora la disputa da comica diventa barbara,<br />
come sono appunto le dispute tra sciiti e sunniti.<br />
Meglio lasciare in pace Dio, e se ai cattolici legittimamente<br />
non piace il successo antipapista di Dan Brown<br />
e la sua interpretazione di Leonardo e della Gioconda,<br />
ebbene scrivano un libro uguale e contrario, provino ad<br />
avere maggiore successo romanzando le tesi che prefe-<br />
IL FURTO<br />
Il 21 agosto 1911 il dipinto<br />
viene rubato da Vincenzo<br />
Perugia, un decoratore<br />
che voleva restituirlo<br />
all’Italia. Per due anni<br />
lo nasconde in una valigia<br />
sotto il letto<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33<br />
L’ICONA<br />
Da Malevic a Duchamp,<br />
da Salvador Dalì a Andy<br />
Warhol: innumerevoli<br />
sono le imitazioni di quella<br />
che è considerata<br />
un’icona della nostra<br />
cultura<br />
Davanti a Mona Lisa<br />
tra i fan di Dan Brown<br />
<strong>La</strong> tavola<br />
di Leonardo<br />
è ormai<br />
un immenso<br />
cumulo di teorie<br />
più o meno<br />
bizzarre<br />
e di enigmi<br />
storiografici<br />
riscono. I libri si combattono con i libri. Tutti il resto —<br />
boicottaggi, censure, roghi e suoni di campane — è barbarie.<br />
Sono almeno 28 le agenzie turistiche che organizzano<br />
i “Da Vinci Walking Tour”, pensione completa e serate<br />
a tema nel nome della Gioconda. Il lussuoso hotel<br />
Ritz, dove comincia l’avventura del Codice, offre la camera<br />
al prezzo promozionale di 670 euro anziché 770.<br />
Tappa obbligata è lo gnomo di Saint Sulpice che inutilmente<br />
padre Paul Roumanet, parroco della chiesa, cerca<br />
disperatamente di qualificare come «strumento<br />
astrologico e non esoterico». Il buon prete lo ha pure<br />
scritto in un cartello vagamente minaccioso: qui non c’è<br />
nessun enigma sacro; e non è vero che Saint Sulpice fu<br />
costruita sulle rovine di un antico tempio dedicato alla<br />
dea Isis; e non è vero che il santuario riproduce la pianta<br />
di Notre-Dame. Crede, il parroco, che il Codice da Vinci<br />
sia materia da teologi e non da turisti.<br />
Mentre dunque il parroco insiste con i suoi «non è vero,<br />
non è vero, non è vero», seguendo la giovane guida<br />
che sa tutto del sangue che cola e dell’alter ego femminile<br />
di Gesù Cristo, noi pellegrini siamo già arrivati nel<br />
Jardin des Tuileries, e ora sostiamo in raccoglimento davanti<br />
alla Pyramide: lama e calice. Ma quello che ai pellegrini<br />
interessa veramente è contemplare in Mona Lisa<br />
l’androgino omosessuale. Perciò entrano in estasi<br />
quando la guida ricorda che il celebre sorriso si riferisce<br />
all’anagramma AMON L’ISA, l’unione cioè di Amon, dio<br />
della fertilità maschile, e di Isis, dea egiziana della fertilità<br />
femminile. E c’è pure lo squilibrio ver-<br />
so sinistra che celebrerebbe il femminismo<br />
leonardesco.<br />
Il Walking Tour prevede una fuga sulla<br />
rue de Rivoli e poi sugli Champs-Elysées. E<br />
qui i pellegrini maschi vorrebbero conoscere<br />
l’itinerario della Paris sexy, l’eccitazione<br />
notturna che i parigini più raffinati<br />
non cercano certo a Pigalle e nel nono ma<br />
nell’ottavo arrondissement chiamato appunto<br />
“le Huitième Ciel”: niente più letteratura<br />
ma, tra il ministero dell’Interno e il<br />
castello dell’Eliseo, si slitta verso l’Apogée,<br />
il Tania club, il Flamingo, le Sirènes, il Christin’s,<br />
l’Orange bleue… È un imprevedibile<br />
tour notturno in mezzo a un fiume<br />
umano di donne velate e pelle nera, che alle<br />
quattro del mattino diventa bouillonnant,<br />
ribollente, e molto orientale. Ha<br />
scritto Marc-Édouard Nabe: solamente<br />
sui Campi si può ancora provare l’anarchia<br />
di esistere, nel cuore di queste notti<br />
molto dense e soffocanti, dove solo quelli<br />
che oggi sono decisi a lottare contro la cultura accettano<br />
di vivere quella che io chiamo la vita di Parigi, il mistero<br />
di Parigi che non è più il sorriso della Gioconda. Agli<br />
arabi di Parigi non piace per nulla la Gioconda che non<br />
a caso fa parte, secondo l’antiterrorismo, dei possibili<br />
obiettivi occidentali dell’estremismo islamico.<br />
In realtà, nel libro di Dan Brown si parla poco della Gioconda<br />
e molto della Cena, che è il dipinto chiave dell’enigma,<br />
il dipinto dell’eresia ortodossa. Ma nella copertina<br />
del best seller c’è la Gioconda e così pure nei manifesti<br />
del film, nei siti Internet, nelle riviste. Dappertutto insomma<br />
c’è la Gioconda che è marketing, è Parigi, è turismo.<br />
Ecco dunque l’ultima patacca: anche il romanzo di<br />
Dan Brown si dissolve nel sorriso della Giocondache inghiotte<br />
ormai tutte le patacche del mondo, raffinatissima<br />
e meravigliosa patacca di Parigi come quel libro cult<br />
che si intitola Parisintrouvable, recentemente ripresentato<br />
e celebrato dal Colloque des Invalides, un circolo parigino<br />
molto colto, molto ironico e molto snob. Datato<br />
1997, edito da Byzantium Book Inc., con una Tour Eiffel<br />
rovesciata in copertina, questo libro è una perfetta guida<br />
turistica che descrive con pedanteria, mappe, itinerari,<br />
prezzi, una Parigi che non esiste ma è verosimile,<br />
una Parigi introvabile appunto. Tra i tanti nomi dei ristoranti<br />
ci sono, per esempio, la Brasserie Loplop, il Café<br />
Conjugal, la Patte à la main. E, tra i servizi offerti dal Comune,<br />
il kidnapping e il fax food. Tra i night-club le Folies-Berbères.<br />
E poi l’Eglise des Marionettes, l’hotel Crillon<br />
sans ascenseur, il monumento al Voleur en smoking,<br />
la rue des Mauvais garçons manqués, la rue des Enfants<br />
normaux, l’impasse de Godot, il carrefour des Mots croisés,<br />
la rue Zazie sans culotte. Ci sarebbe anche la Maison<br />
de Mona Lisa, dove visse e abitò la tante di Leonardo, la<br />
zia Lisa da Vinci: numero civico 31, terzo piano, chiusa il<br />
lunedì. Ecco dunque risolto l’enigma della Gioconda: si<br />
può trovare l’introvabile.
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 34 14/05/2006<br />
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
il fatto<br />
Sport e genio<br />
Dopo decenni di centravanti palestrati,<br />
pressing e tattiche, la stella Ronaldinho<br />
e le sue serpentine sul campo sono<br />
il sintomo e il simbolo di una svolta<br />
nel mondo del pallone. Che oggi, in tempi<br />
di intercettazioni vergognose e partite<br />
taroccate, ne ha più che mai bisogno<br />
Dribbling.<strong>La</strong> fantasia<br />
per riscattare il calcio<br />
MATTHEWS<br />
<strong>La</strong> tecnica di dribbling usata<br />
da Stanley Matthews,<br />
leggendario campione inglese<br />
tra gli anni Trenta e Cinquanta<br />
CORRADO SANNUCCI<br />
<strong>La</strong> scena fu più volte la stessa: alla destra dell’area di rigore, il giocatore<br />
zoppo con la palla al piede, davanti un biondo che non sa se<br />
guardargli la palla o i piedi. Lo zoppo è immobile, attende il suo<br />
tempo, il biondo trema nell’attesa di quella che già immagina come<br />
la sua sconfitta. Poi tutto accade, lo zoppo intuisce il momento<br />
in cui il biondo è sul piede sbagliato, il suo scatto è un lampo, gli<br />
è oltre, verso la linea di fondo, pronto a una cross che devasterà l’area avversaria.<br />
Lo zoppo era Garrincha, che doveva il nome all’uccello più brutto del Brasile<br />
ma fu presto trasformato in «l’allegria del popolo». L’altro, il terzino sinistro<br />
della Svezia, si chiamava Axbom, era solo un giovanottone sano (Garrincha ha<br />
anche una deviazione della spina dorsale) ma senza genio. <strong>La</strong> scena era la finale<br />
dei Mondiali del ‘58, quando il Brasile spazzò via la Svezia per cinque a due,<br />
con i gol di Pelè diciassettenne ma soprattutto con i dribbling e i cross di Garrincha.<br />
Sono bastati sei mesi di Ronaldinho, la sua campagna di Champions di quest’anno,<br />
il suo delicato scucchiaiare il pallone da sotto, per far tornare voglia del<br />
calcio alla Garrincha dopo anni di raddoppi, pressing, tattiche, numeri, il 4-4-<br />
2, 4-2-1-3, eccetera. <strong>La</strong> Figc ha persino organizzato il mese scorso a Coverciano<br />
un seminario sul dribbling, prima dello scandalo delle intercettazioni: quasi<br />
due mondi contrapposti, da una parte il ritorno del dribbling come arte, magia,<br />
sogno di un calcio all’antica, dall’altra il fango, la corruzione, le partite taroccate.<br />
Ronaldinho accende la nostalgia di quando il dribbling si appiccicava al giocatore<br />
e lo definiva nella sua essenza: il doppio passo di Biavati, la mossa di Stanley<br />
Matthews. L’inglese, il più grande di tutti, accompagnava la palla con l’interno<br />
del piede destro, puntando, incrociando verso la gamba destra del difensore,<br />
poi quando quello spostava il peso su questa gamba, allora deviava<br />
istantaneamente nell’altra direzione, con il pallone attaccato all’esterno del<br />
piede, verso la fascia, la linea del fallo laterale. Dicevano i difensori: «Se gli vai in<br />
tackle ti fa un tunnel, se lo affronti ti salta, se lo aspetti e ti allontani ti crossa sopra<br />
la testa. L’unico modo per fermarlo è sgonfiargli la palla».<br />
Il dribbling è un’enciclopedia di imbrogli e di trucchi, un gioco delle tre carte<br />
nel quale chi ha il pallone è l’incantatore. Cruyff usava starsene largo, difendere<br />
il pallone verso l’esterno, poi fingere il cross, con un’estensione esagerata<br />
della gamba: e quando il difensore allungava la sua per fare diga al cross, ruotava<br />
il piede dietro il pallone, se lo faceva passare sotto piroettando su se stesso,<br />
via dalla sorpresa dell’altro. Il dribblatore semina messaggi ingannevoli, ma<br />
lui stesso ha una percezione istintuale, mesmerica, delle mosse dell’altro. Ronaldo<br />
porta avanti il pallone, poi trasforma ogni passo in una finta con il piede<br />
che carezza l’aria davanti al pallone, il difensore comincia a perdere l’equilibrio<br />
(e presto perderà anche la fede in se stesso) il che servirà a Ronaldo per scegliere<br />
la direzione nella quale andare. Il grande dribblatore è aperto a ogni soluzione,<br />
ambidestro per obbligo e vocazione, gioca sulla miseria dell’altro, ma la<br />
sua grandezza è di non avere preconcetti o schemi fissi, la sua tecnica è di penetrare<br />
nell’errore nell’altro.<br />
Il dribbling rivela l’uomo, la sua personalità, la sua sfida, il suo rispetto o disprezzo<br />
per l’avversario. Omar Sivori godeva a umiliarlo con il tunnel, Roberto<br />
Baggio dribblava per esaltare la propria leggerezza, come quando prese una rimessa<br />
laterale a una quarantina di metri dalla porta e arrivò fino al gol, l’uno a<br />
zero dell’Italia alla Bulgaria nella semifinale mondiale del ‘94. Chi dribbla può<br />
inseguire l’utilità comune o il ghirigoro, il malabarismo, come dicono gli argentini<br />
(che il dribbling poi lo chiamano «gambeta»). Ghiggia si era fatto una<br />
fama segnando il due a uno nella finale dei mondiali ‘50, poi in Italia mostrò a<br />
tratti il suo talento barocco: i romani se lo ricordano sulla linea laterale, nei pomeriggi<br />
di sole all’Olimpico, mentre stordiva un terzino proprio sulla striscia<br />
bianca e poi si fermava, aspettava che quello tornasse o che ne arrivasse un altro,<br />
per ricominciare, come se il calcio fosse tutto in quel giocare e rigiocare di<br />
fino in pochi centimetri di calce.<br />
È il passato che ritorna per quei dribblatori che si sono allenati da bambini<br />
intorno ai pali della luce, agli alberi, alle colonne dell’oratorio, tra i mattoni delle<br />
favelas o, come raccontava Zola, inseguendo le galline. A 17 anni Pelè raccolse<br />
il pallone nell’area svedese, lo fece passare sopra la testa di uno svedese<br />
e poi colpì al volo: e dove mai poteva averlo imparato prima? Il gol all’Inghilterra,<br />
definito il più bello del secolo, Maradona l’aveva già preparato, studiato,<br />
affinato, in mille partite sugli spiazzi polverosi di <strong>La</strong>nus, per poi srotolarlo<br />
all’Azteca, nei quarti di finale dell’86, quando prese palla nella sua<br />
metà campo, si liberò di due inglesi con una semplice piroetta, ne saltò<br />
un altro sulla trequarti, fu oltre un centrale sulla linea dell’area, poi decise<br />
di superare anche Shilton e segnare a porta vuota, nel tripudio di<br />
un’umanità stupefatta.<br />
Il dribbling ha i suoi schemi, le sue modalità, ma lascia la suspense<br />
su quando accadrà, come la giravolta di Zidane, che traccia un cerchio<br />
intorno al difensore con il pallone trascinato sotto i tacchetti,<br />
con l’avversario che aveva di fronte una faccia e si ritrova a inseguire<br />
una schiena. Il dribbling è la patente di creatività, iniziativa, audacia,<br />
chi lo tenta rivela un’autonomia a volte giudicata pericolosa, come<br />
quella volta che Boksic segnò seminando mezza difesa avversaria<br />
ma Zeman lo rimproverò perché non aveva seguito, ed eseguito, il<br />
suo schema.<br />
Il dialogo tra allenatore e giocatore si nutre di rimproveri e ringraziamenti,<br />
perché con gli schemi interisti inceppati alla fine era Ronaldo<br />
che partiva da cinquanta metri e arrivava in gol a far alzare di<br />
esultanza le braccia a Luigi Simoni. Il dribbling è spettacolo, libertà, festa<br />
della fantasia, all’opposto del gioco muscolare, ripetitivo, ultratattico.<br />
Il dribbling è la festa dei ragazzini con la palla di stracci, l’arma dei<br />
poveri della periferie. Certo. Ma se i dribbling di Ronaldinho mandano in<br />
soffitta decenni di “calcio atletico”, bisogna ricordare il lavoro collettivo<br />
di quelle squadre che muovendo con intelligenza le proprie pedine, senza<br />
mai tentare un dribbling, consentivano a modesti operai del pallone di<br />
emergere. Se il dribbling è la libertà, quegli schemi sono stati la democrazia del<br />
calcio.<br />
RONALDINHO<br />
Il dribbling, battezzato l’Elastico,<br />
perfezionato dal calciatore<br />
brasiliano Ronaldinho,<br />
attuale “Pallone d’oro”
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 35 14/05/2006<br />
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
ILLUSTRAZIONI DI MIRCO TANGHERLINI<br />
DIMENTICATO<br />
Un primissimo<br />
piano di piedi<br />
e gambe<br />
del campione<br />
brasiliano<br />
Ronaldinho<br />
I suoi dribbling<br />
capaci<br />
di mandare in tilt<br />
le difese<br />
hanno ridato<br />
vigore<br />
a un gesto<br />
atletico<br />
dimenticato<br />
I l<br />
IO, DANZATORE DI GINGA NELL’AREA DI RIGORE<br />
calcio è la mia vita. Solo a guardarlo, solo a pensarci, mi sento<br />
motivato. Sono nato con un pallone vicino a me in una fa-<br />
miglia che amava il calcio. <strong>La</strong> mia famiglia amava anche la mu-<br />
sica. Sono cresciuto così, a ritmo di musica e di calcio.<br />
<strong>La</strong> ginga, in brasiliano, è l’arte del movimento. È<br />
ciò che ci ispira ogni qual volta dobbiamo muoverci<br />
in modo creativo, la musica ha ginga e tutto ciò<br />
che ha a che fare con la musica ha a che fare con<br />
ginga. Non è solo questione di musica. Ginga è<br />
l’arte del movimento anche quando gioco a calcio. Nel<br />
calcio è il dribbling, è il cambio di velocità, è ciò che creo<br />
per confondere l’avversario. Tutti noi abbiamo uno stile<br />
diverso nel ballare, uno stile che cambiamo nel corso del tempo<br />
sviluppando la nostra ginga. E così succede anche nel calcio.<br />
Musica e calcio. Dalla mia famiglia al campo di gioco. Sono un<br />
giocatore che adora il dribbling ed il movimento del dribbling,<br />
RONALDINHO<br />
perché ho la ginga dentro. Non sono l’unico giocatore che ha questo<br />
dono. Probabilmente ognuno ha qualcosa di questo tipo dentro<br />
di sé, in misura diversa. Solo che noi brasiliani ne abbiamo di<br />
più, amiamo la musica, siamo più sorridenti e felici, abbiamo<br />
più ritmo. Non so, forse la verità è che ognuno ha la propria<br />
ginga, e basta.<br />
Per esempio a me piace molto veder giocare Thierry Henry,<br />
un giocatore che ha una ginga molto diversa ma altrettanto<br />
bella e spettacolare. Ma dirò di più. Forse ogni dribbling ha<br />
una sua ginga particolare, diversa dalle altre, irripetibile. Dipende<br />
dal momento.<br />
Tutto questo è molto istintivo. Non bisogna pensare che<br />
prediligo una bella giocata o un movimento spettacolare a qualcosa<br />
di efficace. Voglio sempre dare il meglio. Per vincere con la<br />
mia squadra, Barcellona o Brasile che sia. Se poi il mio dribbling,<br />
la mia ginga, mi aiuta a farlo, beh, tanto meglio.<br />
Quel gesto aristocratico<br />
che consacra il fuoriclasse<br />
CRUYFF MICHELE SERRA<br />
ZIDANE<br />
Johan Cruyff, leader dell’Olanda<br />
del “calcio totale” anni Settanta,<br />
aggirava così i difensori<br />
che frenavano la sua corsa al gol<br />
Nonso se usi ancora. Ma quando ero ragazzino, a Milano, nelle partite<br />
ai giardinetti o nei piazzali, i dribblomani venivano soprannominati,<br />
immancabilmente, «Veneziano» o «Venezia». <strong>La</strong> probabile<br />
origine del termine stava, io credo, nel rovesciamento ironico<br />
della frase dialettale veneta «fasso tuto mi», faccio tutto da<br />
me. Ed era un epiteto parecchio infamante, un rimprovero che<br />
coinvolgeva, oltre all’abilità sportiva, anche l’onore. Gridare a uno «Venezia!»,<br />
tra noi ragazzini, equivaleva a dirgli «sei solo un montato che nel patetico tentativo<br />
di farsi notare perde la palla e fa perdere la partita ai suoi compagni di<br />
squadra, che pur se più umili e generosi hanno fatto l’errore nefasto di ammettere<br />
nei loro ranghi un vanesio par tuo».<br />
I tipi classici di «Venezia» erano più o meno due. Il primo: l’innamorato del<br />
dribbling vero e proprio, il monomaniaco ossessivo che considera la partita nel<br />
suo complesso solo l’inutile e pletorica cornice dell’unico gesto sportivo meritevole<br />
di attenzione, scartare l’avversario palla al piede, infilzarlo nel duello individuale,<br />
e dunque tenta di esibirsi nel dribbling in ogni parte del campo, foss’anche<br />
davanti al suo portiere, non appena abbia il pallone a disposizione.<br />
Costui, in genere, è uno specialista. Riesce a inanellare anche due dribbling<br />
vincenti di seguito prima di sbagliare il terzo. <strong>La</strong> sua presenza in squadra è seccante<br />
ma non sempre rovinosa: a volte riesce addirittura a segnare o a far segnare,<br />
sia pure per lo sbocco fortunoso di una sua avventata serpentina. Riesce,<br />
insomma, a mantenere vivo il sospetto che abbia qualche talento. E spesso lo<br />
ha davvero, anche se ne fa un uso narcisista e dissennato.<br />
Il secondo tipo di «Venezia», molto più pericoloso e anche molto più comune,<br />
è il tipico giocatore incapace di liberarsi del pallone non per narcisismo, ma per<br />
totale mancanza di visione del gioco. Disfarsi della palla, semplicemente, è cosa<br />
che esula dalle sue facoltà, e dunque è costretto, per darsi un tono, a ingaggiare a<br />
testa bassa, in un mulinare furioso di ginocchia crostolose e scarpe sfondate, uno<br />
o più dribbling disperati, in un vortice di polvere dentro il quale le urla disperate<br />
dei compagni («passaaaa! passaaaa!») arrivano lontanissime, e inesaudibili.<br />
Questo secondo tipo di dribblomane, nelle partite da giardinetto ma non solo,<br />
è la più micidiale jattura che possa capitare ad una squadra di calcio. Come<br />
il giocatore di poker costretto al bluff perché non ha mai in mano mezza carta<br />
decente, il calciatore in questione è obbligato a giocare costantemente sopra le<br />
righe, e al di sopra dei suoi mezzi, solo per nascondere di essere del tutto inadeguato<br />
alla partita in corso. Il dribbling per lui non è una risorsa, è una condanna.<br />
Lo fa perché non saprebbe come concludere altrimenti la sua azione, perché,<br />
ignorando come legarsi rapidamente alle geometrie dell’azione collettiva,<br />
si trova sempre circondato da nugoli di avversari. Per lui il dribbling è un culo di<br />
sacco, un vicolo cieco, un budello nel quale è andato a ficcarsi per pura inettitudine<br />
e cocciutaggine, come Custer a Little Big Horne. E anche se ha la faccia<br />
tosta di simulare — con una mossa, un passetto, uno sguardo beffardo — qualcosa<br />
che gli dia tono, si capisce benissimo che sta soffrendo. Che non è lui che<br />
ha scelto il dribbling. È il dribbling che ha scelto lui.<br />
Passando dall’epica da giardinetto alla cosiddetta scienza del calcio adulto,<br />
e considerando che, dopotutto, le differenze tra i due ambiti non sono poi così<br />
radicali, direi dunque che i dribbling si dividono in due categorie fondamentali:<br />
quelli attivi e quelli passivi. Quelli effettuati per scelta e per godimento, quelli<br />
effettuati per costrizione e disperazione. Il primo dribbling è patrimonio<br />
esclusivo dei fuoriclasse e di pochi campioni (non tutti). È padronanza suprema<br />
del pallone e del campo, scelta consapevole dell’avversario da affrontare a<br />
tu per tu, trasformandolo genialmente da potenziale ostacolo a punto di riferimento<br />
della propria traiettoria: come — voglio dire — se l’avversario dribblato<br />
ti aiuti, ti spiani la strada. Come se fosse lì in qualità di piolo al quale agganciarsi<br />
momentaneamente per riprendere slancio, e proseguire trionfalmente la<br />
strada. Esempio immortale, Maradona che dribbla l’intera Inghilterra ai Mondiali<br />
del Messico, giocatore dopo giocatore, e ogni maglia bianca diventa lo scalino<br />
di una trionfale scalata.<br />
Il secondo tipo di dribbling, al contrario, è la condanna dei mediocri, il ripiego<br />
dei pasticcioni, l’ingorgo degli avventati. Molti attaccanti, anche famosi, ci si<br />
ritrovano impigliati perché avevano seguito l’azione dei compagni con affanno<br />
e in ritardo, o perché non avevano saputo restituire la palla in tempo, o tirare<br />
in porta quando dovuto.<br />
Il pubblico capisce al volo quando il dribbling è al servizio del giocatore e<br />
quando è il giocatore al servizio del dribbling. Nel primo caso, gli spalti godono<br />
i brevi istanti che precedono il tentativo, e anche se il dribbling dovesse fallire<br />
(raramente), rimangono sereni aspettando il prossimo. Ma nel secondo caso,<br />
invece, anche se il dribbling dovesse riuscire (raramente), il pubblico si allarma,<br />
non è tranquillo: sa che è andata bene, stavolta, ma sa anche che quel dribbling<br />
è stato un espediente, un’emergenza, un reggersi l’anima con i denti.<br />
In seguito a quanto detto fin qui, trovo lodevoli quei giocatori (esempio classico:<br />
Vieri) che, nella consapevolezza di non saper dribblare nemmeno un paracarro,<br />
neanche ci provano. Tentano di tirare dritto, accettano l’ingaggio spalla<br />
a spalla, addirittura sparacchiano verso la rete da posizioni assurde, ma non<br />
oserebbero mai ingannare il pubblico e se stessi fingendo un dribbling. I baritoni<br />
non hanno in gola i “do di petto”. E i pesi massimi — tranne Clay, ma di Clay<br />
ce n’è stato uno in tutta la storia universale — non hanno il gioco di gambe delle<br />
ballerine del Crazy Horse.<br />
Benissimo, naturalmente, anche quegli altri giocatori (pochi, i fuoriclasse e<br />
una ristretta schiera di campioni) che invece il dribbling se lo scelgono, e possono<br />
permetterselo, e lo praticano certamente per diletto estetico, ma soprattutto<br />
per utilità tattica, perché saltare un avversario, nel calcio corto e taglia-spazi<br />
di oggi, spesso significa aprirsi la strada che porta al gol.<br />
Sarebbero guai seri, invece, se il risorgente fascino del dribbling dovesse cogliere,<br />
come una moda inopportuna e stolta, anche quelli che non se lo possono<br />
proprio permettere. Niente sarebbe più patetico che veder giocare “alla Ronaldinho”<br />
onesti podisti, invaghiti di quanto si mostra negli spot. Farebbero la<br />
figura di quelle corpulente signore e signorine che si lasciano irretire dalle campagne<br />
pubblicitarie, e tentano di stripparsi in pantaloni aderentissimi. Il dribbling<br />
è aristocratico, inutile illudersi. È stratagemma per pochi. Arte difficile. Alta<br />
cultura, e non esiste una versione pret-à-porter.<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35<br />
Zinedine Zidane, detto Zizou,<br />
ha guidato la Francia mondiale<br />
1998 e ora gioca nel Real<br />
Madrid. Ecco il suo dribbling
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 36 14/05/2006<br />
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
la memoria<br />
Settant’anni dopo<br />
ROMA<br />
Certe notti lo sente soffiare ancora il vento di Guadalajara.<br />
E sente ancora quel freddo, quella neve,<br />
quella pioggia. «Tutto sbagliato, eravamo organizzati<br />
male e comandati peggio». Ma fieri. Fieri di<br />
quella camicia nera «portata come un saio», fieri di «stare dalla<br />
parte giusta», fieri di combattere per la patria «senza porsi altri<br />
problemi, senza discettare di ideologie, e soprattutto senza odiare<br />
nessuno, anzi con rispetto, e spesso con ammirazione, per i<br />
nostri avversari». Per questo tutti gli anni, ogni due di novembre,<br />
torna in Spagna, a Saragozza, a onorare i soldati italiani caduti.<br />
«Sono stati 4.015», ricorda perfettamente. E il suo pensiero non<br />
va solo ai fascisti, ma anche a quelli che stavano dall’altra parte,<br />
quegli «italiani rossi» che il Duce ordinò di seppellire «insieme<br />
agli altri, in ordine alfabetico». Parla con «orgoglio e dignità»,<br />
spingendo indietro la commozione che, ogni tanto, affiora.<br />
Fascista sempre. Oggi come ieri, mai un pentimento, «perché<br />
io non ho nulla di cui vergognarmi». Elegante, in giacca a quadri<br />
e cravatta blu, la schiena dritta, <strong>Renzo</strong> <strong>Lodoli</strong>, ingegnere, 93 anni<br />
a settembre, quattro figli, dieci nipoti e tredici bisnipoti, presidente<br />
dell’Associazione combattenti italiani in Spagna, era il<br />
comandante del plotone degli arditi della divisione “Volontari<br />
del Littorio”. Ha combattuto un anno e mezzo nella guerra di<br />
Spagna, dal gennaio del 1937 al settembre del ‘38. Fu raggiunto<br />
da quattro pallottole nemiche: tre si persero sulla coperta arrotolata,<br />
in fondo all’elmetto e dentro la maschera antigas. Una sola<br />
lo ferì, ad una gamba. Quando ricorda, lucido, preciso, snocciola<br />
nomi, date e cifre con la velocità di una mitraglia. «Rivedo<br />
tutto, come se fosse ieri».<br />
E racconta che, prima ancora che del fascismo, lui s’innamorò<br />
della guerra. Perché fu la guerra a farlo uomo, dice, con le emozioni,<br />
il dolore, il disprezzo del pericolo, e perché «ritengo che la<br />
guerra sia indispensabile per la formazione di un individuo».<br />
Colpa di Annibale, il papà, ufficiale di marina e sommergibilista<br />
sul “Delfino”, il primo sottomarino italiano, amico di Gabriele<br />
D’Annunzio. E colpa di D’Annunzio che gli fu padrino alla cresima<br />
e lo affascinò con le sue avventure. «Quelli della mia generazione<br />
erano ossessionati dalle imprese dei padri».<br />
Fu per questo che il giovane <strong>Lodoli</strong>, nato a Venezia dove vanta<br />
un antenato illustre in quell’abate Carlo <strong>Lodoli</strong> protagonista<br />
nel Settecento di una vivace tenzone letteraria col poeta maledetto<br />
Giorgio Baffo, non esitò, nel ‘35, a piantare la facoltà di ingegneria<br />
che frequentava a Roma, dove abita tuttora, a otto esami<br />
dalla laurea, per arruolarsi volontario in Africa Orientale con<br />
il battaglione universitario “Curtatone e Montanara”. «Mi presentai<br />
senza occhiali — racconta — altrimenti non mi avrebbero<br />
preso. Per fortuna non se ne sono accorti, e mi scaraventaro-<br />
Nell’estate 1936 comincia la Guerra civile spagnola. Una giovane<br />
fotografa, Sofia Moro, ha girato l’Europa per rintracciare<br />
i reduci di entrambe le fazioni. E ha costruito un libro che - senza<br />
giudicare - mette una accanto all’altra le immagini di oggi<br />
e quelle di allora. Siamo andati a parlare con <strong>Renzo</strong> <strong>Lodoli</strong><br />
e Vincenzo Tonelli, due italiani che c’erano e raccontano...<br />
<strong>La</strong> bella guerra di <strong>Renzo</strong> il nero<br />
ROBERTO BIANCHIN<br />
Così la Spagna<br />
ha voltato pagina<br />
MASSIMO L. SALVADORI<br />
no a Mogadiscio. Eravamo a migliaia».<br />
Otto mesi in Africa Orientale «a far la guardia alle dune» senza<br />
mai combattere perché «arrivavamo sempre tardi», poi il ritorno<br />
trionfale in Italia «accolti dal Duce come eroi, con le ragazze<br />
che ci infilavano dei fiori nei fucili e la sfilata tra due ali di folla».<br />
Quindi la laurea e la nuova partenza. Spagna, stavolta. «Ricordo<br />
che ci chiesero chi voleva andare, e io risposi subito, entusiasta<br />
e più motivato di prima. Perché volevo fare la guerra e in Africa<br />
la guerra non l’avevo nemmeno vista. Avevo 24 anni, e avevo<br />
aderito prima alla Fuci, il gruppo di universitari cattolici, poi al<br />
Guf, quello dei giovani fascisti. Scrivevo su un giornale che si<br />
chiamava Roma fascista.<br />
E guerra fu davvero. Dura, cruda, sanguinosa. Freddo, morti e<br />
feriti, pallottole e trincee. Cadice, Malaga, Guadalajara, Bilbao,<br />
Ebro, Santander, Sagunto, Meseta di Castiglia «dove pigliammo<br />
una solenne batosta perché avevamo delle truppe che non erano<br />
Sonotrascorsi settant’anni da quel 1936 in cui<br />
ebbe inizio la guerra civile che avrebbe dilaniato<br />
la Spagna fino al 1939. Una guerra terribile,<br />
che costituì per aspetti decisivi il preludio<br />
della seconda guerra mondiale. Terribile<br />
per gli implacabili odi scatenati, per la<br />
spietatezza della lotta che oppose i franchisti fascistoidi<br />
e i nazionalisti al composito schieramento repubblicano<br />
che andava dai borghesi liberaldemocratici ai socialisti,<br />
ai comunisti, agli anarchici; i crociati cattolici<br />
ai nemici della Chiesa; gli uomini e gli armamenti mandati<br />
da Mussolini e da Hitler a quelli inviati da Stalin.<br />
Terribile per la repressione che, messa in atto dai comunisti<br />
staliniani contro i comunisti antistaliniani e gli<br />
anarchici accusasti di tradimento (si ricordino le giornate<br />
di Barcellona), dilaniò il corpo stesso della <strong>Repubblica</strong>.<br />
Terribile per il numero delle vittime.<br />
Quando nel novembre del 1975 Franco morì e salì al<br />
preparate al combattimento». «Le ho fatte tutte le battaglie, e ho rischiato<br />
più volte la vita, ma sono stato fortunato». Dubbi? «Mai».<br />
«Cosa vuole, non ci ponevamo nemmeno il problema, eravamo<br />
soldati italiani ed eravamo convinti che la nostra causa fosse giusta.<br />
Primo perché eravamo cattolici e lì bruciavano le chiese e ammazzavano<br />
i sacerdoti, e quindi combattevamo in difesa della civiltà.<br />
Poi perché c’era il rischio che la Spagna ci chiudesse nel Mediterraneo,<br />
e infine perché eravamo fascisti». E i nemici? «Poveretti.<br />
Tolti alcuni faziosi e fanatici, erano dei poveri ragazzi mobilitati<br />
a forza e mandati a morire. Molti scappavano e venivano dalla<br />
nostra parte. Non li ho mai odiati. Anzi, di alcuni di loro sono<br />
diventato amico, e abbiamo ancora dei rapporti».<br />
Ma la «splendida e terribile» giovinezza di <strong>Lodoli</strong> non finì con la<br />
guerra di Spagna. Il secondo conflitto mondiale lo vide ancora in<br />
trincea come ufficiale dei Granatieri di Sardegna. Fu decorato al<br />
valor militare. Dopo l’otto settembre aderì alla <strong>Repubblica</strong> Sociale<br />
Italiana. Finita la guerra, si fece un anno di prigione, per aver incitato,<br />
da un giornale di propaganda fascista, i giovani a combattere.<br />
Ha scritto articoli e libri. Nel ‘46 fu tra i fondatori del Msi. Poi<br />
si dedicò al suo mestiere di ingegnere «riempiendo l’Italia di brutte<br />
case», ricorda con ironia. Gli piace raccontarsi, e non ha rimpianti.<br />
Solo un velo lo appanna quando guarda fuori dalla finestra,<br />
appoggiato alla stampella cui lo obbliga un femore ballerino, e vede<br />
un mondo diverso dai suoi sogni di ragazzo: «Sono deluso, sì.<br />
Non c’è un momento in cui questo popolo democraticamente allevato<br />
riesca a prendere coscienza di sé stesso». <strong>La</strong> politica, dice,<br />
non la segue più. «Centrodestra, centrosinistra, non mi interessano».<br />
Lui è fermo al nocciolo: la democrazia. «Sì, sarà anche una bella<br />
cosa. Ma in realtà è solo la conseguenza delle leggi elettorali che<br />
fanno i governi. E la guerra civile in Spagna scoppiò proprio in conseguenza<br />
di una legge elettorale che assegnava un premio di maggioranza<br />
alla lista che avesse preso la maggioranza relativa».<br />
‘‘ <strong>Renzo</strong> <strong>Lodoli</strong><br />
Le ho fatte tutte le battaglie,<br />
e ho rischiato più volte la vita<br />
ma sono stato fortunato<br />
Dubbi? Mai avuti. Eravamo<br />
soldati italiani ed eravamo<br />
convinti che la nostra causa<br />
fosse giusta<br />
trono il giovane re Juan Carlos, che il dittatore aveva<br />
educato ad essere il suo erede politico, le apprensioni<br />
più grandi parevano più che mai giustificate. Quale<br />
transizione? Quale eredità il regime franchista avrebbe<br />
lasciato? Si sarebbe riaperto un drammatico confronto<br />
tra repubblicani e monarchici, democratici e antidemocratici,<br />
forze di sinistra e forze moderate, clericali<br />
e anticlericali? Il paese sarebbe piombato, se non in<br />
un’altra guerra civile, in una nuova ondata di conflitti<br />
distruttivi? Nulla di tutto questo. <strong>La</strong> piega assunta dagli<br />
avvenimenti andò in tutt’altra direzione. Il giovane<br />
sovrano aprì rapidamente la strada, con risolutezza e<br />
coerenza, ad una democrazia parlamentare fondata<br />
sulle libertà politiche e civili, sul pluralismo culturale,<br />
sull’alternanza al potere tra i partiti, sui diritti sindacali.<br />
Nell’aprile 1977 anche il Partito comunista ottenne<br />
il riconoscimento legale. Così la questione istituzionale<br />
venne chiusa, col riconoscimento nella coscienza<br />
della grande maggioranza degli spagnoli di una monarchia<br />
postasi abilmente a capo di una transizione<br />
compiuta nella pace interna e nella legalità. Un estremo<br />
tentativo di colpo di Stato militare nel 1981 venne
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 37 14/05/2006<br />
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
affrontato senza esitazioni dal sovrano, che procedette<br />
ad un’efficace epurazione nelle alte sfere delle forze<br />
armate.<br />
Il timore dunque che la caduta della dittatura franchista<br />
riaprisse le antiche piaghe di una Spagna lacerata<br />
da incomponibili conflitti interni venne fugato.<br />
Neppure il terrorismo dei separatisti baschi dell’Eta<br />
sarebbe stato in grado di mettere in discussione la via<br />
maestra della nuova Spagna entrata nel grembo dell’Europa<br />
democratica. Qui si vede tutta la differenza<br />
che segnò la fine della dittatura nazional-fascistoide di<br />
Franco da quella della dittatura fascista in Italia, dove<br />
al 25 luglio del 1943 fece seguito il divampare della<br />
guerra civile del 1943-45, dove la riconquista della democrazia<br />
nel 1945 fu accompagnata da un referendum<br />
istituzionale nel 1946 che mostrò un paese spaccato in<br />
due tra repubblicani e monarchici, dove nel dopoguerra<br />
l’Italia dei resistenti si opponeva all’Italia legata<br />
ai conservatori e ai persistenti filofascisti, dove la<br />
guerra fredda internazionale si rovesciò sulla politica<br />
italiana divisa tra comunismo e anticomunismo, dove<br />
la memoria della Resistenza venne contestata ben pre-<br />
TOLOSA<br />
Ha un grosso dispiacere, Vincenzo Tonelli, che il 13<br />
luglio compirà novant’anni. «Sto diventando vecchio<br />
e le forze cominciano a mancare. Vorrei avere<br />
la forza di lottare ancora, e soprattutto di incontrare<br />
i giovani e di parlare. Vorrei dire: state attenti, il fascismo<br />
è sempre alla porta. E se per sbaglio lo lasciate entrare, dovrete<br />
dare tutto, anche la vita, per ricacciarlo fuori». <strong>La</strong> guerra di<br />
Spagna l’ha fatta dall’inizio alla fine e poi è stato anche partigiano<br />
in Italia. Ha visto morire più della metà dei suoi compagni.<br />
«Mi sono sentito anche un vigliacco, perché non ho avuto il coraggio<br />
di sparare a un mio compagno che era rimasto ferito. E<br />
così prima della morte ha incontrato anche la tortura». Ha istruito<br />
altri ragazzi più giovani a sparare con la mitragliatrice. «Lei mi<br />
chiede perché. Forse è stata colpa di due schiaffi, che mi hanno<br />
fatto diventare antifascista. Forse questa parola non basta. Io sono<br />
stato uno che i fascisti li ha odiati davvero, perché ho visto ciò<br />
che hanno fatto, in Italia e in Spagna».<br />
Un appartamento nella città di Tolosa, dove Vincenzo Tonelli<br />
è arrivato quando aveva quattordici anni. «Quel compleanno<br />
l’ho festeggiato con la carriola in mano, come garzone di muratore.<br />
I due schiaffi li avevo già presi, al mio paese, Castelnuovo<br />
del Friuli. Giocavo a calcio e l’allenatore, che era anche un piccolo<br />
gerarca, mi diede due sberle perché avevo lasciato l’allenamento<br />
senza chiedergli il permesso. Il motivo vero era un altro:<br />
non avevo voluto entrare nei Balilla e così anche a scuola mi tenevano<br />
all’ultimo banco. “Ti porto in Francia con me”, disse allora<br />
mio padre, che già era emigrato».<br />
Il viaggio a Tolosa, alla ricerca di un lavoro. «Non trovai nulla<br />
IERI E OGGI, IL LIBRO DEI SOPRAVVISSUTI<br />
Le foto di <strong>Renzo</strong> <strong>Lodoli</strong> (a sinistra) e di Vincenzo Tonelli<br />
(a destra), entrambi ritratti oggi e nel 1936, sono tratte<br />
dal libro “Ellos y nosotros” della fotografa madrilena<br />
Sofia Moro, in uscita ai primi di giugno per l’editore Blume,<br />
328 pagine, 35 euro. Sofia Moro ha ricostruito<br />
per immagini la storia di chi, arrivato in Spagna da tutta<br />
Europa, settant’anni fa combatté in opposte trincee<br />
Nella foto grande, le barricate degli operai repubblicani<br />
nel luglio 1936 a Barcellona<br />
sto da un’opposta memoria.<br />
<strong>La</strong> Spagna che guarda oggi al passato della guerra civile<br />
del 1936-39 lo fa con distacco, e può farlo. Ovviamente<br />
un simile atteggiamento non ha, non può avere<br />
a che fare con una sorta di disinteresse. Quel passato è<br />
stato un uragano di tale peso e violenza che la sua memoria<br />
è un elemento costitutivo incancellabile della<br />
Spagna attuale. Ma vi è un aspetto di straordinaria importanza<br />
che rende possibile quel distacco. E cioè che<br />
nessuna delle parti in conflitto mortale in quegli anni è<br />
più in grado di trasmettere un messaggio che possa venire<br />
raccolto dal popolo spagnolo di oggi, salvo che in<br />
piccole nicchie di irriducibili ma ininfluenti nostalgici.<br />
Che cosa possono “dire” alla Spagna democratica le<br />
bandiere per un verso della Spagna dei militari golpisti,<br />
dei falangisti, dei fanatici clericali e per l’altro dei<br />
comunisti staliniani, dei comunisti trotskisti o semitrotskisti,<br />
degli anarchici catalani, degli anticlericali e<br />
degli atei? Fatto è che in Spagna, col concorso della monarchia,<br />
dei cattolici, dei socialisti, dei comunisti, la<br />
democrazia ha fatto sì che il passato della guerra civile<br />
passasse davvero, che il presente venisse fondato su<br />
valori, istituzioni e comportamenti che quel passato<br />
non era per contro in alcun modo in condizione di trasmettere.<br />
E quindi la memoria storica della guerra civile, epoca<br />
delle più aspre e sanguinose contrapposizioni, si<br />
presenta come una riflessione che non può certo fondare,<br />
legittimare e ispirare il presente politico e civile<br />
della Spagna seguita al 1975. <strong>La</strong> pagina è stata voltata.<br />
Il che non ha nulla a che vedere con l’indifferenza oppure<br />
con l’idea che la lotta dei franchisti vada “pareggiata”<br />
a quella dei repubblicani. Gli uni e gli altri, infatti,<br />
vanno capiti nelle loro rispettive “ragioni” alla luce<br />
dei principi e dei valori che all’epoca della grande lotta<br />
li hanno contrapposti e dei valori e dei principi che<br />
contemporaneamente fanno sentire quel capitolo come<br />
davvero una storia d’altri tempi, politicamente<br />
chiusa ma sempre aperta, per la sua enorme importanza,<br />
alla riflessione dei contemporanei.<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37<br />
<strong>La</strong> lezione di Vincenzo il rosso<br />
JENNER MELETTI<br />
‘‘ Vincenzo Tonelli<br />
Vorrei lottare ancora,<br />
incontrare i giovani e parlare<br />
Dire: state attenti, il fascismo<br />
è sempre alla porta. E se<br />
per sbaglio lo lasciate entrare,<br />
dovrete dare tutto, anche<br />
la vita, per ricacciarlo fuori<br />
perché il gelo dell’inverno aveva fatto chiudere tutti i cantieri.<br />
Chiesi un aiuto al console italiano. <strong>La</strong> prima volta mi diede cinque<br />
franchi, sufficienti per un solo pasto al ristorante operaio.<br />
<strong>La</strong> seconda mi disse che mi avrebbe fatto arrestare e rimpatriare<br />
in Italia, così potevo andare a fare la guerra per il Duce in Abissinia».<br />
«L’odio per la dittatura — dice — me lo sono sentito crescere<br />
dentro. Mi sono iscritto alla gioventù comunista a Tolosa. Arrivavano<br />
le prime notizie dalla Spagna. Il Partito diceva che bisognava<br />
portare aiuto ai compagni spagnoli. Avevo un amico molto<br />
caro, l’italiano Armelino Giuliani. Si sa come vanno le cose fra<br />
i ragazzi: segui l’amico che ritieni più preparato di te, più intelligente.<br />
E così quando Armelino ha detto che andava in Spagna,<br />
per me è stato naturale seguirlo. Povero Armelino: si è preso una<br />
raffica di mitragliatrice al primo fronte, e non aveva ancora sparato<br />
un colpo».<br />
Cosa resta dentro, dopo settant’anni? «Resta tutto, anche se<br />
provo a non pensarci troppo. Cerco di ricordare le facce dei compagni<br />
caduti, ed anche i momenti belli. Quando arrivammo in<br />
Spagna con la brigata, gli spagnoli ci aspettavano sulle strade e<br />
ci offrivano fiori e arance. Restano nel cuore, queste cose. Ma resta<br />
anche la disperazione del capitano Mario Traversi, che era di<br />
Genova. Eravamo al fronte di Estremadura e subivamo perdite<br />
gravissime. Durante una ritirata ero fra gli ultimi perché dovevo,<br />
assieme agli altri, raccogliere armi e feriti. Il capitano era stato<br />
colpito, era a terra. Io provai a sollevarlo ma era grande e grosso,<br />
non riuscivo a muoverlo. Lui mi disse: sparami. Sapeva che i<br />
falangisti stavano arrivando e lo avrebbero prima torturato e poi<br />
ucciso. Io non ce l’ho fatta, a sparargli. E purtroppo il capitano<br />
aveva ragione. Vede, anche per la Spagna c’è chi cerca di cambiare<br />
le carte in tavola. Tutti violenti, si dice, tutti assassini. No,<br />
gli assassini erano dall’altra parte. Avevano aerei per bombardare<br />
e distruggere Guernica e le altre città, avevano i carri armati.<br />
Torturavano i feriti prima di eliminarli. Quando catturavamo<br />
un falangista ferito, noi lo curavamo come fosse dei nostri».<br />
Una ferita a una gamba, per un colpo di fucile, vicino a Madrid.<br />
«All’Ebro ho passato, come tutti gli altri, ventuno giorni fra la vita<br />
e la morte. Si era tutti in agonia: in quelle tre settimane ho perso<br />
l’ottanta per cento dei miei compagni. Li porto tutti nel cuore,<br />
ma alla sera quando ripenso a questa mia vita un po’ troppo<br />
movimentata cerco di ricordare i colpi di fortuna. Una volta mi<br />
sono perso e sono finito in mezzo ad un accampamento nemico.<br />
Nel buio, mi fermavo a salutare come se fossi uno di loro. Sono<br />
riuscito a passare fra bivacchi e carri armati e a infilarmi in un<br />
bosco».<br />
<strong>La</strong> guerra spagnola di Vincenzo Tonelli finisce in un campo di<br />
concentramento, a Les Vernet d’Ariége, in Francia. «Dopo sei<br />
mesi mi hanno messo in catene e consegnato agli italiani, a Mentone.<br />
Mi hanno portato in galera a Udine. Non sapevo quasi nulla<br />
della situazione italiana. I fascisti picchiavano contro le sbarre<br />
della mia cella e mi insultavano: «Traditore del Duce, della patria,<br />
del re». Non sapevo nemmeno chi fosse nelle celle vicine.<br />
Poi una notte ho sentito che nell’altro braccio del carcere cantavano<br />
Bandiera rossa».<br />
<strong>La</strong> liberazione dopo la caduta del fascismo. «Torno a casa e mi<br />
arriva la cartolina da militare: dovevo presentarmi al 38° reggimento<br />
fanteria di Tortona. Sono scappato dopo l’otto settembre.<br />
Mi ha salvato la vita un vecchio ferroviere che, sul treno fermato<br />
dai tedeschi, mi prestò la sua giacca. Non sono rimasto a<br />
casa a lungo. A Castelnuovo fascisti e tedeschi avevano cominciato<br />
i rastrellamenti. Io e gli altri ci siamo messi a cercare le armi.<br />
E così ho iniziato un’altra guerra, quella partigiana».<br />
Il ritorno a Tolosa, «perché lì ormai c’era la mia vita». I racconti<br />
fatti ai giovani che per ascoltarlo partono anche dall’Italia. «State<br />
attenti, se il fascismo riesce ad aprire la porta...».<br />
FOTO EFE-ANSA/JUAN GUZMÁN
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 38 14/05/2006
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 39 14/05/2006<br />
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
le storie<br />
Islam e mercato<br />
<strong>La</strong> Turchia, Paese islamico moderato, è il secondo esportatore<br />
di biancheria intima e costumi da bagno dopo la Cina. I marchi<br />
di maggior successo vendono molto bene in Occidente i loro capi<br />
“osé”. “Non c’è contraddizione con l’osservanza religiosa”,<br />
dicono alla Ten, “solo il marito sa cosa indossa la sua donna”<br />
Operaie col velo per l’intimo sexy<br />
MARCO ANSALDO<br />
ISTANBUL<br />
Il sultano Abdul Hamid II, che regnò<br />
nell’ultimo periodo di un<br />
Impero ottomano in bancarotta,<br />
aveva un debole per le mutande<br />
francesi. <strong>La</strong> versione in seta di<br />
questo «meraviglioso capo lungo oltre<br />
il ginocchio», con l’inconfondibile<br />
simbolo imperiale stampato sulla<br />
fascia elasticizzata, ha il posto d’onore<br />
sulla parete dell’ufficio di Deha<br />
Orhan, produttore turco di intimo<br />
femminile che sta sbancando i mercati<br />
mondiali.<br />
Il signor Orhan ha conquistato le<br />
mutande del sultano a un’asta pubblica.<br />
Se lo può permettere, e poi nel<br />
suo caso si tratta di un ferro del mestiere.<br />
Anche se si<br />
resta sbalorditi<br />
quando il trentatreenne<br />
general manager<br />
della Ten apre<br />
l’armadio a scomparsa<br />
accanto alla<br />
sua spettacolosa<br />
scrivania davvero<br />
imperiale, lunga almeno<br />
quattro metri,<br />
e dice: «Le faccio vedere<br />
la mia collezione»,<br />
mostrando,<br />
uno allineato all’altro,<br />
gli ultimi modelli<br />
di sottovesti colorate,<br />
capaci di insaporire<br />
le serate di<br />
qualsiasi coppia.<br />
<strong>La</strong> Turchia, Paese<br />
islamico moderato,<br />
è il secondo esportatore<br />
al mondo di intimo<br />
e costumi da<br />
bagno dopo la Cina.<br />
E molte celebri modelle,<br />
tra cui Claudia<br />
Schiffer, Cindy<br />
Crawford, Tyra<br />
Banks e Heidi Klum,<br />
hanno posato nei<br />
primi anni della loro<br />
carriera indossando<br />
i capi di Zeki Triko,<br />
azienda turca di indumenti<br />
da bagno.<br />
Un mercato che<br />
ha qui un giro d’affari<br />
di quasi quattro<br />
milioni di euro e dà<br />
lavoro a un milione<br />
di persone. Operaie<br />
perlopiù. E velate. Che ogni mattina,<br />
sotto il turban, assemblano senza imbarazzo<br />
guepière, reggicalze, pushup<br />
e bikini leopardati per le mogli degli<br />
infedeli occidentali. «Per le loro fidanzate,<br />
soprattutto», precisa il giovane<br />
Orhan con un sorriso compiaciuto.<br />
Sotto il suo ufficio, nel seminterrato<br />
dove colossali telai di ghisa tendono<br />
i fili immacolati, le lavoranti appaiono<br />
concentrate nell’unire coppe<br />
di reggiseni. Ci troviamo immersi nel<br />
quartiere di Yeni Bosna, Nuova Bosnia,<br />
periferia di Istanbul, zona ad alta<br />
concentrazione religiosa, popolazione<br />
in maggior parte seguace del<br />
partito musulmano moderato al potere.<br />
Proprio di fronte alla fabbrica di<br />
intimo si erge la solida struttura dell’Ihlas,<br />
la grande holding mediatica<br />
— giornali, emittenti, agenzia di<br />
stampa — di orientamento schiettamente<br />
islamico.<br />
Alla Ten sono impiegate circa ottocento<br />
persone, più della metà donne,<br />
molte velate. Con indosso i loro foulard<br />
colorati percorrono silenziose i<br />
locali interni, sciamando indifferenti<br />
fra corsetteria e atelier. Nello showroom<br />
annesso all’ufficio del general<br />
manager sono esibiti in bella mostra<br />
pizzi rossi trasparenti e calze fumé<br />
autoreggenti. Il catalogo 2006, con i<br />
disegni sulle diverse proporzioni del<br />
seno e le immagini patinate di modelle<br />
in carne e ossa vestite in guepière,<br />
sembra far concorrenza a Playboy. A<br />
volte è Orhan stesso, appassionato<br />
fotografo, a scattare. <strong>La</strong> parola che ricorre<br />
di più, conversando con lui in<br />
inglese, è bumps, termine gergale che<br />
tradurremo con «tette»: «Dipende<br />
dalla grandezza delle bumps»; «le ragazzine<br />
hanno le bumps», eccetera.<br />
«Non c’è nessuna contraddizione»,<br />
afferma l’addetta alle relazioni pubbliche<br />
Arzu Karakadilar, «non ci sono<br />
differenze per chi indossa questo tipo<br />
di abbigliamento, si tratti di persone<br />
velate oppure no. Nessuno, marito a<br />
<strong>La</strong>voranti<br />
con il capo<br />
coperto<br />
assemblano<br />
reggiseni push-up<br />
e bikini<br />
leopardati<br />
“Con Internet”,<br />
dice il giovane<br />
manager<br />
Deha Orhan,<br />
“le vendite vanno<br />
benissimo, grazie<br />
soprattutto<br />
alla clientela<br />
maschile, che<br />
nei negozi è solo<br />
il 5 per cento”<br />
parte, può sapere che cosa porta sotto<br />
gli abiti la donna coperta dal copricapo.<br />
<strong>La</strong> lingerie è la stessa, con il velo<br />
o senza velo. Non ci sono capi speciali<br />
o diversi. Anzi, secondo i nostri<br />
tabulati, una città come Konya (considerata<br />
la più religiosa della Turchia<br />
e storica patria dei dervisci rotanti,<br />
ndr) è ai primi posti negli acquisti di<br />
prodotti così particolari». Internet ha<br />
portato la sua rivoluzione anche qui.<br />
«Da quando siamo presenti sul web»,<br />
aggiunge orgoglioso Orhan, «le vendite<br />
vanno benissimo. Un successo<br />
accresciuto soprattutto grazie agli<br />
uomini. <strong>La</strong> nostra clientela maschile<br />
è infatti solo il cinque per cento nei<br />
negozi. Ma diventa il sessanta se parliamo<br />
di ordinazioni via Internet».<br />
Il mercato appare<br />
in forte espansione.<br />
L’azienda di Istanbul,<br />
già produttrice<br />
del marchio LoliTen<br />
per le teenager dai<br />
quindici ai vent’anni<br />
(«preferito però<br />
dalle trentacinquenni»,<br />
aggiunge<br />
Orhan, «che vogliono<br />
apparire più colorate<br />
e sexy»), è ora<br />
pronta a lanciare il<br />
prodotto più maturo<br />
Ten Extreme e ha<br />
negozi ovunque.<br />
Quattro nella sola<br />
metropoli sul Bosforo<br />
e altri dieci sparsi<br />
in tutto il Paese,<br />
confini di Iran e Siria<br />
compresi, a Kars come<br />
ad Adana, a Erzurum<br />
e fino a<br />
Diyarbakir. Vende<br />
inoltre a 2.500 boutique<br />
locali e sta preparando<br />
il grande<br />
sbarco in Europa,<br />
dove intende aprire<br />
nuovi punti vendita.<br />
Prima in Russia ed<br />
Egitto, poi in Grecia<br />
e infine a Parigi. Per<br />
la fine dell’anno Ten<br />
arriverà anche in<br />
Italia, dove si è accordata<br />
per l’apertura<br />
di due centri a<br />
Milano.<br />
«<strong>La</strong> nostra strategia<br />
è chiara», dice il<br />
suo combattivo leader, «la Turchia è<br />
un pesce piccolo rispetto alle grandi<br />
aziende americane e dobbiamo difenderci.<br />
I colossi degli Stati Uniti<br />
vengono qui a comprarsi pezzi di imprese<br />
nazionali. Che cosa bisogna fare?<br />
Come reagire? Attaccando all’estero.<br />
E questo è il momento giusto<br />
per farlo. Non faccio i miei piani programmandoli<br />
sull’ipotetico ingresso<br />
di Ankara nell’Unione europea, perché<br />
non sarà questione di poco tempo.<br />
Però punto a fare di Ten un marchio<br />
davvero internazionale».<br />
Le signore con il velo possono in<br />
ogni caso contare anche su altre<br />
aziende capaci di garantire gusti, diciamo<br />
così, più contenuti e costruire<br />
un mix appropriato fra le esigenze<br />
della femminilità e il comportamento<br />
religiosamente corretto. Il marchio<br />
Hasema, ad esempio, manifattura di<br />
stile rigorosamente islamico nata a<br />
Istanbul nel 1993, è diventato il nome<br />
più noto tra i musulmani devoti di<br />
tutto il mondo. Per gli uomini ci sono<br />
solidi costumi da bagno a mezza<br />
gamba capaci, secondo il fondatore<br />
di Hasema, Mehmet Sahin, «di non<br />
sottolineare la parte privata». Per le<br />
donne gli stilisti turchi hanno invece<br />
ideato costumi a corpo intero tipo<br />
Spiderman, con apposito cappuccio<br />
a ricoprire i capelli.<br />
L’intimo ardito non sembra comunque<br />
contraddire la consuetudine<br />
del velo. Alla Ten ricordano ancora<br />
con soddisfazione quando l’attuale<br />
ministro dell’Economia, Ali Babacan,<br />
che al suo incarico ha recentemente<br />
aggiunto quello di negoziatore<br />
per l’ingresso in Europa e la cui<br />
moglie indossa il turban come quella<br />
del primo ministro Tayyip Erdogan,<br />
lavorava da loro come agente distributore.<br />
Fosse vissuto oggi, il sultano<br />
Abdul Hamid avrebbe sicuramente<br />
scelto sotto i suoi abiti dei comodi<br />
boxer turchi, assicura Deha Orhan,<br />
«perché sono proprio buoni, se non i<br />
migliori».<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39<br />
LE MUTANDE DEL SULTANO<br />
Nelle foto, lo stabilimento della Ten<br />
a Istanbul. In alto a sinistra, il general<br />
manager della Ten Deha Orhan davanti<br />
a esemplari di mutande francesi<br />
appartenute al sultano Abdul Hamid II
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 40 14/05/2006<br />
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
il racconto<br />
Condottieri<br />
GUIDO RAMPOLDI<br />
Sotto il titolo L’eredità genetica<br />
dei Mongoli, nel 2003 una<br />
prestigiosa pubblicazione<br />
scientifica, l’American Journal<br />
of Human Genetics, riferì<br />
i sorprendenti risultati d’una<br />
ricerca sul dna di duemila persone,<br />
abitanti la vasta regione che va dal Mar<br />
Caspio all’Oceano Pacifico. Stando al<br />
confronto tra i patrimoni genetici, l’otto<br />
per cento del campione condivideva<br />
un progenitore. E poiché i territori presi<br />
in esame corrispondevano all’estensione<br />
delle conquiste mongole al tempo<br />
di Gengis khan, quell’avo doveva essere<br />
mongolo. Forse lo stesso Gengis,<br />
suggerisce John Man in una delle biografie<br />
del khan apparse negli ultimi mesi<br />
in libreria (tra le altre segnaliamo l’ottima<br />
Il principe dei nomadi, scritta per<br />
<strong>La</strong>terza dall’archeologo Vito Bianchi).<br />
L’avremmo giudicata una sciocchezza<br />
se dodici anni fa non avessimo incontrato<br />
ad Hong Kong il signor Tom<br />
Wan, uno degli imprenditori più ricchi<br />
dell’Asia e, quel che qui importa, all’epoca<br />
capo d’una sorta di poderosa massoneria<br />
cinese che raccoglie trecentomila<br />
discendenti di Gengis, tutti in grado<br />
di ricostruire i ventinove gradini che<br />
li legano al Capostipite. Al secondo gradino<br />
c’è Wan, Nuvola, il figlio di Gengis<br />
da cui i trecentomila direttamente discendono.<br />
Sei gradini più sotto troviamo<br />
un alto dignitario della dinastia Yun<br />
sepolto a Canton, lì dove lo commemorano<br />
i mille rappresentanti della Famiglia<br />
in apertura del loro gran raduno annuale,<br />
dedicato soprattutto a discutere<br />
d’affari. Le orde mongole arrivarono fino<br />
a Udine, la Famiglia fa ogni giorno il<br />
periplo del mondo con i suoi capitali e<br />
L’otto per cento<br />
degli abitanti<br />
della regione<br />
tra Caspio e Pacifico<br />
condividono<br />
un progenitore<br />
Ottocento anni fa il dominio dei mongoli si estendeva dall’Ungheria<br />
al Mar Giallo, l’impero più vasto nella storia dell’umanità. Ora un libro<br />
incrocia i documenti dell’epoca e le ultime ricerche genetiche per spiegare<br />
come la costruzione e il mantenimento della grande conquista passassero<br />
attraverso una doppia, contraddittoria politica: matrimoni misti per legare<br />
al khanato i vinti e stragi spietate per terrorizzarli<br />
<strong>La</strong> saga di Gengis khan<br />
carnefice e patriarca<br />
le sue merci. Ubiqua. Dagli Stati Uniti a<br />
Singapore; perfino in Turchia. In Thailandia<br />
sono quarantamila, nella Mongolia<br />
cinese oltre duecentomila, in Cina<br />
rivestono cariche importanti nello Stato<br />
e nel partito. Ubiquità anche politica.<br />
Quale che sia il sistema regnante e la<br />
stagione storica, la stirpe di Gengis resta<br />
acquartierata nei palazzi del potere.<br />
Con alti e bassi ma tenacemente. Da otto<br />
secoli, che non è poco. Come se dalle<br />
nostre parti avessimo un Angiò presidente<br />
della Regione Sicilia e un Gonzaga<br />
sindaco di Mantova.<br />
Tom Wan mi spiegò così il segreto di<br />
questo tenace permanere: «Se qui arriva<br />
uno della Famiglia, io lo aiuto. Se vado<br />
a Singapore o a Bangkok, i rappresentanti<br />
locali della Famiglia mi ospitano<br />
nei loro alberghi. I Cheng e i Cheong<br />
in Cina sono decine di milioni, ma si<br />
ignorano. Noi Wan invece non solo ci<br />
aiutiamo a vicenda, ma non abbiamo<br />
mai permesso che la politica o la religione<br />
ci dividano». Quella delle genealogie<br />
è una passione antica, in Famiglia.<br />
Ai tempi in cui lo sventato Jacopone da<br />
Todi ammoniva «Guàrdate da li parenti»,<br />
i primi discendenti di Gengis già si<br />
premuravano di fissare la mappa della<br />
stirpe nel testo noto come <strong>La</strong> storia segreta.<br />
Al crollo dell’impero mongolo in<br />
Cina, la Famiglia si sparse in Asia per<br />
sottrarsi alla vendetta dei Ming; ma<br />
ogni nucleo conservò nei secoli documenti<br />
che lo dichiaravano prodotto dal<br />
sangue di Gengis khan, cioè parte della<br />
cosiddetta Discendenza d’oro; quest’ultima<br />
non si definiva famiglia, ma<br />
razza, la più pura razza mongola (anche<br />
Tom Wan alternava i termini famiglia e<br />
razza riferendosi ai suoi trecentomila<br />
«parenti»). Mao-tse-tung promosse «figli<br />
e nipoti di Gengis khan» tutti i mongoli<br />
della Mongolia cinese; ma i discendenti<br />
del khan sono ancora parte del<br />
gruppo dirigente. Passarono un periodo<br />
difficile durante la Rivoluzione culturale,<br />
quando tutto ciò che era antico o<br />
«vecchio» doveva essere sradicato. Tra<br />
gli stessi parenti di Tom Wan alcuni furono<br />
arrestati a sottoposti a rieducazione;<br />
e i libri più antichi della famiglia, relativi<br />
al secolo che va da Kublai khan all’avvento<br />
dei Ming (1368), furono bruciati<br />
dalle Guardie rosse. Ma a conti fatti,<br />
«quei giovani ignoranti e animaleschi»,<br />
come li definiva Tom Wan, non<br />
avevano neppure scalfito la solidità della<br />
Famiglia.<br />
Tutto questo sembrava molto cinese.<br />
Come spiegavano in quegli anni i manuali<br />
per manager occidentali di cui<br />
straboccavano le librerie di Honk Kong,<br />
i segreti dell’intraprendenza commerciale<br />
cinese sono il familismo e le<br />
Guanxi, relazioni. E pochi possono<br />
competere con le Guanxi di una Fami-<br />
glia grande quanto Novara (l’elenco dei<br />
suoi membri, sparsi per tutta l’Asia, ha<br />
la copertina azzurra e il volume di un<br />
elenco telefonico). Eppure Tom Wan<br />
non era un cinese puro, neppure nell’estetica.<br />
Come gli uomini d’affari cinesi<br />
di Hong Kong vestiva abiti di sobrio taglio<br />
inglese, nel suo caso con panciotto<br />
e farfallino. E cinese era anche il taglio<br />
dei suoi occhi, ereditato dalla madre.<br />
LA TOMBA PERDUTA<br />
<strong>La</strong> Mondadori manda nelle librerie il 16<br />
maggio un nuovo titolo della sua collana<br />
di storia, il “Gengis khan” di John Man (460<br />
pagine, euro 10,40). L’autore è un profondo<br />
conoscitore della Mongolia e della Cina<br />
e per preparare questo libro è stato il primo<br />
occidentale a visitare la valle in cui si pensa<br />
sia morto il khan e a scalare la montagna<br />
su cui è probabilmente sepolto. <strong>La</strong> tomba,<br />
infatti, fu tenuta nascosta dai successori<br />
e così i posteri ne hanno perduto la traccia<br />
Ma la sua fronte alta e il naso forte, teneva<br />
a sottolineare, erano senz’altro<br />
mongoli. E forse non solo quelli. Per<br />
quanto la Famiglia incoraggi i matrimoni<br />
interetnici (altre Guanxi da capitalizzare)<br />
resta tenacemente fedele ad<br />
un antico codice d’onore che comanda<br />
il rispetto degli anziani e la lealtà ai capi<br />
delle sotto-famiglie, eletti ogni due anni<br />
per alzata di mano, secondo la tradizione<br />
mongola.<br />
Ma soprattutto proviene dalle steppe<br />
della Mongolia quella tenace volontà di<br />
moltiplicarsi per il mondo, conservando<br />
però un legame con l’origine, che appartenne<br />
a Gengis e alla sua corte. Secondo<br />
lo studio citato da John Man, il<br />
khan e i più importanti guerrieri si riprodussero<br />
così freneticamente perché<br />
esercitavano sull’altro sesso il fascino<br />
che deriva da un potere enorme: «Le nostre<br />
scoperte — scrivono i genetisti —<br />
dimostrano una nuova forma di riproduzione,<br />
basata sul prestigio sociale».<br />
Non avendo la scienza di questi ricercatori,<br />
noi profani tenderemmo a concludere<br />
che la questione sia tutt’altra: per<br />
FOTO FOTOTECA GILARDI
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
LA VITA<br />
L’INFANZIA<br />
Nasce fra il 1155<br />
e il 1167. Il padre,<br />
capo della tribù<br />
mongola dei Kiyad<br />
lo chiama Temujin,<br />
come un nemico<br />
ucciso in battaglia<br />
UN’ARMATA MULTICULTURALE<br />
Nella foto grande, un’immagine dal film “Gengis khan”, del 2004<br />
Nella cartina, i confini dell’impero più vasto della storia<br />
Qui sopra, una stampa dell’epoca raffigurante Gengis khan<br />
e, sotto, un guerriero del suo esercito<br />
L’ASCESA<br />
Nel 1206, fonda<br />
l’Impero Mongolo<br />
e viene proclamato<br />
Gran khan<br />
dei mongoli col titolo<br />
di Gengis khan, cioè<br />
sovrano oceanico<br />
LE CONQUISTE<br />
Nel 1221 avvia<br />
il grande progetto<br />
di conquista di Cina,<br />
Asia centrale<br />
ed Europa orientale<br />
per avere l’impero<br />
più grande della storia<br />
garantirsi la lealtà dei popoli sottomessi<br />
Gengis e i suoi familiari sposarono<br />
un’infinità di principessine asiatiche.<br />
Ricorsero al matrimonio per legare al<br />
khanato monarchie e capitribù.<br />
Il problema costante dei khan, infatti,<br />
fu la difficoltà di esercitare il proprio<br />
dominio su un territorio immenso con<br />
truppe numericamente esigue. Queste<br />
avevano sui nemici l’enorme vantaggio<br />
strategico che derivava dai cavalli, i leggeri<br />
cavallini mongoli che non affondano<br />
nella neve; e soprattutto dall’arco<br />
composito, costruito assemblando legno<br />
ed osso, le cui frecce hanno gittata<br />
e forza d’impatto maggiori dell’arco<br />
tradizionale. Inoltre i mongoli erano<br />
cavalieri impareggiabili sia nella tecnica<br />
individuale sia nelle manovre, come<br />
dimostravano nell’attività da cui trassero<br />
i loro schemi tattici, la caccia al lupo.<br />
Ma i soldati dell’esercito mongolo<br />
non raggiungevano neppure i centomila,<br />
e quelli di cui il khan poteva fidarsi<br />
ciecamente erano anche meno. Pochissimi<br />
per controllare un territorio che<br />
per alcuni anni spaziò dalla Cina all’Ungheria,<br />
la più vasta estensione mai<br />
raggiunta da un impero.<br />
Questa sproporzione potrebbe spiegare<br />
anche il terribile paradosso mongolo<br />
per il quale Gengis e la sua famiglia<br />
furono estremi non solo nel procreare<br />
ma anche nello sterminare, nel dare la<br />
vita come nel dare la morte. <strong>La</strong> loro frenesia<br />
riproduttiva, biologica, fu l’altra<br />
faccia d’una frenesia di uccidere che<br />
non ha eguali nella storia umana. Sommando<br />
le cronache redatte da persiani,<br />
cristiani, cinesi e arabi, si ricava che i<br />
mongoli sterminarono dieci milioni<br />
d’umani in un mondo allora spopolato.<br />
Probabilmente le loro vittime furono<br />
assai meno, però la fama sinistra che li<br />
precedeva non era immeritata. Ma senza<br />
il terrore che incutevano, le sparute<br />
guarnigioni mongole non avrebbero<br />
potuto dominare popoli e nazioni dai<br />
boschi delle piane magiare fino al Mar<br />
Giallo. Al confronto la crudeltà europea,<br />
assai meno letale in termini numerici,<br />
era molto più gratuita. Quando i<br />
mongoli sbaragliarono la crema della<br />
cavalleria cristiana nelle piane polacche,<br />
la Mitteleuropa vendicò il disastro<br />
ammazzando ebrei, accusati senza colpa<br />
alcuna di complicità con gli invasori.<br />
Ma anche con queste avvertenze<br />
LA MORTE<br />
Muore nell’agosto<br />
del 1227, mentre<br />
stava per terminare<br />
la conquista<br />
della Cina. L’impero<br />
viene diviso<br />
tra i quattro figli<br />
Gengis resterebbe una figura solamente<br />
odiosa se egli non avesse mostrato<br />
per le religioni e i costumi dei popoli<br />
sottomessi uno straordinario rispetto,<br />
sovente un’acuta curiosità. Dopo la sua<br />
morte il francescano Giovanni Pian del<br />
Carpine, messo pontificio, trovò nella<br />
capitale mongola, Karakorum, templi<br />
cristiani, musulmani e sciamanici che<br />
convivevano serenamente. In una sorprendente<br />
anticipazione dell’ecumenismo<br />
l’impero decretò che ciascuna<br />
fede rappresentava un percorso legittimo<br />
e degno verso l’ente supremo, il Cielo<br />
Eterno. Quest’ultimo appariva come<br />
una sorta di casa comune delle religioni.<br />
Le comprendeva tutte e non ne<br />
escludeva alcuna, purché accettasse<br />
l’autorità dell’imperatore. Rifiutare obbedienza<br />
al khan rappresentava così<br />
una ribellione al Cielo, blasfemia punita<br />
con la morte dalla Legge universale, il<br />
codice dei mongoli.<br />
Secondo quanto mi disse lo storico<br />
Nyam-Osorh, all’origine delle grandi<br />
stragi mongole c’è soprattutto questa<br />
concezione rigida della legalità, da cui<br />
neppure il khan poteva derogare. Inoltre<br />
la Legge universale accordava tutela<br />
assoluta agli ambasciatori, mentre cristiani<br />
e musulmani usavano scannarli<br />
se latori di messaggi sgraditi: anche<br />
questo aizzò le terribili vendette di Gengis.<br />
Ma potremmo sospettare che fu decisivo<br />
il disprezzo antropologico del<br />
nomade a cavallo per lo stanziale appiedato,<br />
e soprattutto per il contadino,<br />
che i mongoli consideravano creatura<br />
assai meno rispettabile dei loro amati<br />
destrieri. Quando conquistarono un<br />
gran pezzo della Cina rurale discussero<br />
a lungo, e seriamente, se lasciare in vita<br />
un’umanità così sordida.<br />
Secondo le cronache<br />
di persiani, cristiani,<br />
cinesi e arabi,<br />
10 milioni di uomini<br />
furono sterminati<br />
dai cavalieri mongoli<br />
FOTO CORBIS<br />
L’<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41<br />
Appunti di viaggio in Mongolia<br />
<strong>La</strong> vita e la morte<br />
in groppa al cavallo<br />
EMANUELA AUDISIO<br />
imperatore a cavallo, il popolo<br />
pure. Nella steppa c’è posto.<br />
<strong>La</strong> Mongolia ha trenta milioni<br />
di animali, ogni persona in media ne<br />
ha dodici, tra cavalli, yak, mucche,<br />
cammelli, pecore, capre. Gengis khan<br />
conquistò il mondo senza mai scendere<br />
da cavallo, l’unica volta che fu costretto<br />
a farlo, per una caduta, morì.<br />
Da queste parti nessuno se lo scorda:<br />
la vita ti mette in sella, tocca a te restarci.<br />
Brindi con l’airag, latte di cavalla<br />
fermentato, dodici gradi di volume<br />
alcolico. E quando scendi, cammini a<br />
gambe larghe: cavalcare storpia.<br />
Il Naadam, la festa con cui a luglio la<br />
Mongolia celebra la sua indipendenza<br />
(1921) non dimentica Gengis khan<br />
e il tempo lontano in cui un uomo affrontò<br />
un mostro a cinque teste. Nelle<br />
favole capita, il mostro perse le tre prove:<br />
lotta, corsa a cavallo, tiro. Se capitate<br />
in Mongolia in quel periodo vi<br />
sembrerà di stare in un film di John<br />
Ford. Nitriti, escrementi, liquidi, bave<br />
gialle, chiappe sudate, rumore di galoppo,<br />
erba calpestata, terra che vibra,<br />
pentole con stufato di montone. E i<br />
gutul, stivali facili da infilare, senza<br />
differenza tra il destro e il sinistro, la<br />
punta è all’insù per motivi religiosi,<br />
così si uccidono meno insetti.<br />
Cavalli ovunque: a destra, sinistra,<br />
in pianura. Generale, dietro la collina<br />
ci sta la notte buia e assassina, cantava<br />
De Gregori. Fuori da Ulaanbaatar invece<br />
quasi mille animali lanciati al galoppo.<br />
<strong>La</strong> razza mongola è un incrocio<br />
tra i mustang e i berberi, sono animali<br />
piccoli, ma veloci. Il cavallo originario<br />
è conosciuto con il nome di Takhi (spirito)<br />
e assomiglia più a una zebra: collo<br />
massiccio, zampe corte, criniera<br />
breve e ispida, manto color sabbia che<br />
si scurisce nei mesi invernali, non più<br />
di 140 centimetri al garrese. I mongoli<br />
montano sin da bambini, per loro non<br />
esiste che al mondo ci siano uomini incapaci<br />
di cavalcare. Un imperatore<br />
nasce a cavallo, e deve subito far capire<br />
all’animale chi comanda. Hanno<br />
idee chiare anche sull’astronomia. «Il<br />
cielo è la tenda degli dei e le stelle sono<br />
i buchi per fare entrare la luce e il vento.<br />
Il chiodo tiene su tutto». Il chiodo è<br />
la stella polare. Se si smonta dalla sella<br />
è per riposare sotto la tenda, gher, uno<br />
scheletro di tronchi di betulla ricoperto<br />
da feltro e pelli.<br />
Il giornalista Federico Pistone che<br />
cercava gli uomini-renna è stato messo<br />
in sella (una tavola di legno sottile),<br />
avviato nella taiga, e invitato a gridare<br />
«Ciù, ciù», come fanno da secoli i cavalieri<br />
mongoli. Pistone non era mai<br />
montato a cavallo in vita sua. Queste<br />
le parole della sua avventura: «Macchie<br />
rosse sempre più fitte e vaste<br />
sporcano il mantello bianco del cavallo:<br />
è il sangue che affiora dalle voragini<br />
aperte da enormi tafani verdastri,<br />
incoraggiati dall’ultimo acquazzone<br />
e agevolati dall’assenza del vento.<br />
Anch’io ho le braccia e il viso devastati<br />
ma non posso mollare le briglia<br />
nemmeno un attimo, volerei via. Il cavallo<br />
perfeziona un metodo per allontanare<br />
gli insetti: in piena corsa si struscia<br />
contro gli alberi, dimenticandosi<br />
di avere in groppa qualcuno, che dovrebbe<br />
essere quello che comanda. I<br />
rovi mi lacerano i vestiti e la pelle, cerco<br />
di stare basso, di schivare i rami ma<br />
uno mi colpisce in piena faccia, disarcionandomi».<br />
Quando all’improvviso in fondo alle<br />
valle, tra le montagne, si leva una colonna<br />
di polvere, significa che la corsa<br />
è partita. Venticinque chilometri più<br />
in là, distanza stabilita da Gengis<br />
khan. Mille cavalli che piombano sul<br />
traguardo sono un bel rumore. Anche<br />
perché pure gli spettatori sono a cavallo,<br />
anzi in piedi sugli animali. In gara<br />
bambini di poca età e peso, quattrosette<br />
anni. Non conta chi guida, ma la<br />
velocità dell’animale. E alla fine conta<br />
darsela a gambe perché i puledri nervosi,<br />
frementi, agitati piombano sulla<br />
folla, senza annuncio, né telecronaca.<br />
Mentre c’è chi si precipita ad asciugare<br />
il sudore dell’animale con un raschietto<br />
fatto col becco di un pellicano.<br />
E Nemehbaatar ti fa le uniche domande<br />
che interessano i mongoli:<br />
«Sai camminare a lungo? Sai cavalcare?<br />
Sai sgozzare una pecora?». No, Nemehbaatar<br />
la pecora no. Ma che te lo<br />
dico a fare, se sei già al galoppo.
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 42 14/05/2006<br />
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
NATALIA ASPESI<br />
Sfrecciano alle aste più prestigiose<br />
decine di Picasso, e<br />
anche il ghirigoro più distratto<br />
viene bramato e<br />
conteso in cambio di somme<br />
stravaganti: una settimana<br />
fa Le Repos, del 1932, considerato<br />
dagli esperti «un’autoparodia picassiana»,<br />
è stato battuto a New York a<br />
31 milioni di dollari, mentre qualche<br />
giorno prima un ritratto di Dora Maar<br />
era salito a 85: due anni fa Ragazzo con<br />
la pipa era arrivato a 105 milioni. <strong>La</strong><br />
passione per i Picasso non ha requie<br />
tra i miliardari, e del resto ai suoi tempi,<br />
dei Picasso e soprattutto di Picasso<br />
si innamoravano tutti,<br />
disperatamente: mogli,<br />
amanti, donne in generale,<br />
ma anche una moltitudine<br />
di uomini, che<br />
certo non nutrivano<br />
pensieri erotici verso l’ometto<br />
dai venefici occhi<br />
neri, ma erano soggiogati<br />
dal suo genio, quindi<br />
dal suo pessimo carattere,<br />
capriccioso e villano,<br />
oltre che dal profluvio<br />
torrentizio delle sue Demoiselles<br />
d’Avignon, Tre<br />
Ballerine, Tre Donne alla<br />
Fontana, Donne in Riva<br />
al Mare, con Mandolino,<br />
con Gatto, in Poltrona,<br />
Piangenti, in questo caso<br />
a ragione se si trattava<br />
di signore che per disgrazia<br />
erano state fulminate<br />
dal suo fascino.<br />
A 33 anni dalla sua dipartita<br />
non si arresta<br />
l’accumulo di memorie,<br />
confessioni, libelli, studi<br />
critici, cataloghi, mostre,<br />
la prossima in autunno<br />
a Palazzo Grassi a<br />
Venezia, biografie (di<br />
quella monumentale di<br />
John Richardson uscirà<br />
il terzo volumone a dicembre).<br />
E intanto procura massimo<br />
diletto anche ai non picassiani Visiting<br />
Picasso (editori Thames and Hudson,<br />
408 pagine, 72 fotografie, 25 sterline),<br />
la «biografia di un’amicizia» come la<br />
definisce l’autrice, l’eminente studiosa<br />
Elizabeth Cowling, che ha avuto accesso<br />
ai ricchi archivi della Scottish<br />
National Gallery of Modern Art di<br />
Edimburgo, museo ricco di arte Dada e<br />
Surrealista, che conserva tra l’altro<br />
1200 dossier di lettere, fotografie, appunti,<br />
diari, ritagli di giornali, agende,<br />
manoscritti, libri, donati da Roland<br />
Penrose, uno dei tanti biografi di Picasso:<br />
personaggio dei più inglesi, nato<br />
in una famiglia di banchieri di enorme<br />
ricchezza, grande proprietario terriero<br />
nel Sussex, collezionista ingordo,<br />
ma anche proprietario di gallerie,<br />
scrittore, artista, organizzatore di mostre,<br />
fondatore e finanziatore del celebre<br />
Institute of Contemporary Arts<br />
londinese, ma soprattutto appassionato,<br />
devoto e sottomesso amico dell’artista.<br />
Nella folla di amici, estimatori,<br />
pellegrini, persecutori, il più appassionato,<br />
devoto e sottomesso, quindi il<br />
più seviziato; e tuttavia il più incorruttibilmente<br />
fedele, per quasi quarant’anni,<br />
dal momento del loro primo<br />
Sta per essere pubblicato da Thames & Hudson “Visiting Picasso”,<br />
la testimonianza dei quarant’anni di frequentazione tra il collezionista<br />
inglese Roland Penrose e l’artista spagnolo. Uno straordinario viaggio<br />
tra diari, appunti, fotografie inedite che illumina angoli sconosciuti della vita del pittore,<br />
dei suoi burrascosi rapporti con mogli e amanti, del trattamento capriccioso,<br />
dispotico e a volte sadico che riservava perfino ai suoi mecenati<br />
Pablo<br />
Picasso<br />
<strong>La</strong> strana amicizia<br />
tra il genio<br />
e il gentiluomo<br />
<strong>La</strong> visita segreta<br />
che la regina<br />
Elisabetta<br />
fece alla mostra<br />
della Tate Gallery:<br />
“Perché gli occhi<br />
sullo stesso lato<br />
della faccia?”<br />
incontro nel 1936 sino alla morte nel<br />
1973 a 92 anni del maestro surrealistacubista.<br />
Certo la parola “amicizia” è inesatta<br />
per descrivere un rapporto vistosamente<br />
asimmetrico, più simile al classico<br />
amor cortese medioevale, perché,<br />
scrive l’ironica autrice, «da una parte<br />
c’era adorazione, costanza, desiderio<br />
di servire e onorare e una lunga sofferta<br />
pazienza, dall’altra, malgrado segnali<br />
di parzialità, un certo distacco e<br />
una tendenza al capriccio e alla crudeltà».<br />
In questa divertente trasposizione,<br />
l’elegante gentiluomo inglese è il<br />
Cavaliere, il macho latino la Dama,<br />
Penrose corteggiava e agiva, Picasso se<br />
ne stava immusonito in una delle sue<br />
disordinate dimore nel Sud della Francia,<br />
e i suoi «No» si abbattevano spesso<br />
sulla testa del questuante prostrato ai<br />
suoi piedi.<br />
Una risposta spietata<br />
E fu un «No» spietato quello che l’artista<br />
oppose all’invito in ginocchio di<br />
mostrarsi anche solo per pochi minuti<br />
alla solenne inaugurazione della grande<br />
mostra retrospettiva organizzata da<br />
Penrose nel 1960, dopo tre anni di intenso<br />
lavoro, alla Tate Gallery di Lon-<br />
TACCUINI<br />
A sinistra, Penrose<br />
con Picasso<br />
Le altre immagini:<br />
un’altra foto<br />
e un dipinto<br />
di Picasso;<br />
un taccuino<br />
di Penrose;<br />
due cartoline<br />
di Picasso<br />
ai Penrose<br />
PHOTO SCOTTISH NATIONAL GALLERY OF MODERN ART, EDINBURGH<br />
dra. «Perché dovrei perdere tempo per<br />
andare a rivedere i miei quadri? Ho<br />
buona memoria e li ricordo tutti», aveva<br />
brontolato al celebre amico fotografo<br />
Brassai. «Ho imprestato alla mostra<br />
anche opere che mi appartengono<br />
e questo mi è già costato un mucchio di<br />
fastidi. Le mostre ormai significano<br />
ben poco per me, i miei vecchi quadri<br />
non mi interessano più, ho molta più<br />
curiosità verso quelli che ancora non<br />
ho dipinto».<br />
Neppure il fatto che in gran segreto la<br />
regina Elisabetta aveva deciso di visitare<br />
la mostra, accompagnata dalla sorella<br />
Margaret, dalla Regina Madre e dall’augusto<br />
consorte principe Filippo,<br />
smosse il vecchio brontolone, che pure<br />
raccontava di sognarsi intento a porcherie<br />
con la sovrana e la principessa. A<br />
«Mon cher Pablo», il paziente inglese<br />
scrisse una lettera raccontandogli con<br />
umorismo i commenti dei regali visitatori:<br />
Margaret, sentimentale, davanti al<br />
ritratto di Dora: «L’amava davvero tanto?».<br />
Regina, impreparata: «Perché<br />
mette due occhi sullo stesso lato della<br />
faccia?». Regina Madre, astuta: «È il più<br />
grande di tutti i tempi!». Principe Filippo,<br />
impaziente: «Cara, ti rendi conto<br />
che dobbiamo vedere 270 quadri e non<br />
siamo che all’inizio?».<br />
Il miliardario rivale<br />
<strong>La</strong> Mostra fu un successo strepitoso,<br />
nei suoi 77 giorni attrasse 460mila visitatori,<br />
i giornali parlarono di «Picassomania»:<br />
chi se la prese furiosamente<br />
con Penrose furono i suoi amici surrealisti<br />
dopo averlo visto in fotografia<br />
nobilmente strisciare in tight accanto<br />
ai Windsor. Ma mai quanto strisciava<br />
alla corte di Don Pablo, che sapeva benissimo<br />
come ferire questo gentiluomo<br />
di modi impeccabili e malgrado<br />
tutto mai arreso: non importava che<br />
alle duecento lettere e più Picasso non<br />
rispondesse quasi mai, che non lo<br />
avesse mai ricevuto da solo ma sempre<br />
in mezzo a una piccola folla di visitatori,<br />
che spesso lo tenesse fuori<br />
dalla porta di casa facendo finta di non<br />
esserci e che soprattutto si divertisse a<br />
metterlo di fronte al suo arcinemico, il<br />
miliardario australiano Douglas Coo-
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 43 14/05/2006<br />
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
per, anche lui collezionista, anche lui<br />
autore di libri e organizzatore di mostre.<br />
<strong>La</strong> sanguinosa guerra tra i due attorno<br />
alla grande retrospettiva alla<br />
Tate Gallery, vinta da Penrose, è documentata<br />
dalle sue lettere lacrimose<br />
a Picasso che per un po’ lo tenne<br />
sulla corda, non dandogli la certezza<br />
di prestare le sue opere. Cooper viveva<br />
in Provenza e invitava Picasso e sua<br />
moglie Jacqueline a delle fastose cene<br />
nel suo Chàteau de Castille, una dimora<br />
teatrale tutta a colonne vicino<br />
ad Arles. In più, scrive Elizabeth Cowling,<br />
«Picasso adorava spettegolare<br />
con lo sfavillante, divertente, malevolo<br />
Cooper, mentre Jacqueline andava<br />
molto d’accordo con John Richardson,<br />
l’affascinante compagno<br />
di Cooper». Secondo Richardson, diventato<br />
poi il più autorevole biografo<br />
di Picasso, l’artista era attratto dalla<br />
relazione incostante dei due, che gli<br />
ricordava gli amori tempestosi di<br />
Diaghilev con Léonide Massine, Serge<br />
Lifar e gli altri maschi dei Ballets<br />
Russes.<br />
Con Penrose, educato, rigoroso e fedele,<br />
certo ci si divertiva meno, in più<br />
Cooper possedeva una collezione d’arte<br />
splendida, che comprendeva dei Picasso<br />
di massima qualità ed aveva una<br />
rete di amici collezionisti, ricchi e influenti.<br />
Però Penrose aveva un inestimabile<br />
vantaggio: la sua seconda moglie,<br />
la bellissima modella americana<br />
Lee Miller che era apparsa regolarmente<br />
sulle copertine di Vogue, e piombata<br />
nella stordente Parigi surrealista degli<br />
anni Trenta era diventata l’amante di<br />
Man Ray prima di conoscere Roland<br />
nel 1937. Fotografa eccellente (la maggior<br />
parte delle foto del libro sono sue)<br />
Cowling: “Racconto l’uomo, non il mito”<br />
«È<br />
stato come inserire uno dopo l’altro i pezzetti di<br />
un puzzle, come riannodare insieme la trama di<br />
una sceneggiatura cinematografica. Come fare<br />
un film. Leggevo i notebook, riguardavo gli album di ritagli,<br />
le lettere, i documenti, le foto. Lee Miller aveva l’abitudine<br />
di srotolare interi rollini, uno scatto dopo l’altro,<br />
girando così il suo “film”. Allo stesso modo io ho<br />
cercato di ricostruire le sequenze visive della<br />
vita di un genio. Erano lo spirito, l’intimità<br />
di Picasso a dover trapelare da quella<br />
montagna di documenti». Elizabeth Cowling<br />
parla da un ufficio della Thames & Hudson<br />
a Londra. Storica dell’arte alla Edinburgh<br />
University ha scritto diversi libri su Picasso<br />
e ha curato la mostra Matisse Picasso itinerante<br />
tra Parigi, Londra e New York. Visiting<br />
Picasso, in uscita venerdì prossimo, è il<br />
suo ultimo lavoro. Un lavoro di cesellatura, di<br />
sistemazione dei taccuini, della corrispondenza<br />
tra lo scrittore Roland Penrose e Picasso,<br />
dei materiali e delle foto scattate fino ai<br />
Settanta.<br />
Cosa aggiunge questo libro all’enorme<br />
produzione esistente su Pablo Picasso?<br />
«Dimostra quanto siano stati fondamentali i segmenti<br />
di conversazione, i momenti di vita annotati da Penrose<br />
per capire la vita intima del pittore. Picasso si rifiutava<br />
di scrivere sui lavori che faceva. Penrose, con quegli appunti<br />
sparsi, ha creato un mondo dagli effetti magici: ci<br />
ha fatto scorrere davanti pezzo per pezzo il suo cammino,<br />
ci ha dato una serie infinita di dettagli che altrimenti<br />
non avremmo mai avuto. L’evoluzione dei quadri, delle<br />
tecniche usate».<br />
AMBRA SOMASCHINI<br />
I materiali gettano nuova luce sull’artista?<br />
«Sì, viene fuori un ritratto nuovo che fissa punti di vista<br />
diversi da quelli tradizionali sul Picasso uomo. È un ritratto<br />
da candid camera, una riproduzione reale, senza censure,<br />
un reality. Un’inquadratura completa della sua vita<br />
privata. Non si mette in mostra il mito ma l’uomo vero,<br />
con i difetti dell’uomo vero. Leggendo le note,<br />
cogliendo gli sguardi intimi, privati, anche noi<br />
possiamo entrare nel film, assaporarne le atmosfere,<br />
seguirne la trama. Per un attimo diventiamo<br />
invisibili dietro le sue spalle, osserviamo<br />
quello che gli succede intorno».<br />
E cosa gli succede?<br />
«Picasso, certamente, aveva un profondo<br />
senso del dolore, dell’angoscia, della tragedia,<br />
dell’orrore. Ma, nello stesso tempo aveva<br />
un lato comico molto spiccato. Dai taccuini<br />
viene fuori che a volte reagiva male<br />
con gli amici. Che era capriccioso, crudele,<br />
lunatico, antipatico. Che più diventava famoso<br />
più diventava insopportabile. Perché<br />
veniva continuamente messo sotto assedio<br />
da persone che gli chiedevano sempre di più, che<br />
volevano, pretendevano sempre di più. E lui, a lungo andare,<br />
non riusciva a sopportare una pressione simile».<br />
Pensa che i lettori possano percepire l’anima delle case,<br />
dei luoghi della vita intima di Picasso?<br />
«L’anima di quelle case trapela dai rullini, dal “filmdocumentario”<br />
girato da Lee Miller. E dal materiale raccolto<br />
sui luoghi. Parigi, il Sud della Francia, Mougins, Antibes,<br />
Londra. Eppure se Penrose fosse qui adesso lo sgriderei.<br />
Avrebbe potuto scrivere molto di più. In fondo in<br />
quegli anni ha pensato soprattutto a divertirsi».<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43<br />
CANDID CAMERA<br />
Il libro “Visiting Picasso”,<br />
in uscita nella seconda metà<br />
di maggio per Thames<br />
& Hudson (408 pagine,<br />
72 fotografie, 25 sterline)<br />
è curato da Elizabeth Cowling<br />
e raccoglie una scelta<br />
dei diari, delle lettere,<br />
delle foto che Roland Penrose<br />
ha lasciato nei quarant’anni<br />
della sua amicizia col pittore<br />
spagnolo: una specie<br />
di candid camera sulla vita<br />
dell’artista, della sua famiglia<br />
e dei suoi amici<br />
aveva sposato l’innamorato e libertino<br />
Penrose e lo seguiva nelle sue visite a Picasso<br />
che lei sapeva incantare<br />
e divertire.<br />
Una biografia appena<br />
uscita negli Stati Uniti<br />
ne racconta la vita<br />
avventurosa e drammatica,<br />
dalla violenza<br />
subita a sette anni,<br />
alla vicinanza di un<br />
nonno che continuò<br />
a fotografarla nuda<br />
anche da adulta, ai<br />
suoi reportage sui<br />
campi di concentramento<br />
alla fine<br />
della guerra, quando<br />
si fece anche fotografare<br />
nella vasca<br />
da bagno di<br />
Hitler, sino al suo<br />
precipitare nell’alcolismo,perdendo<br />
bellezza e<br />
fascino.<br />
Per devozione<br />
al suo idolo,<br />
Penrose scrivendonel’esemplarebiografia,<br />
Picasso:<br />
his life and<br />
work, pubblicata<br />
nel 1958,<br />
aveva omesso<br />
molto della<br />
sua vita privata,<br />
delle sue donne, delle sue sfuriate<br />
e depressioni, delle sue ironie sul<br />
partito comunista a cui pure era iscritto<br />
dal 1944, e anche di tutti i malevoli<br />
commenti su di lui. Risultano quindi<br />
tanto più interessanti, immediati e sinceri,<br />
i suoi diari e gli appunti delle interviste<br />
fatte per la biografia a persone<br />
contente di sfogarsi. Per esempio Fernande<br />
Olivier, l’amante degli anni giovani<br />
e poveri: «Un bel pittore le fa sapere<br />
che se non andrà a trovarlo si ucciderà.<br />
Le amiche le consigliano di andare<br />
e di non farlo sapere a Pablo, ma una<br />
di loro corre a dirglielo e quando lei torna<br />
gli dice una bugia, lui le dà uno<br />
schiaffone e le ordina di andarsene<br />
perché non l’ama più. Lei, se lo dici<br />
un’altra volta non torno più. Lui lo ripete<br />
e lei se ne va senza neanche un soldo<br />
e lui non la cercherà più».<br />
Amante borghese-bohemien<br />
Dora Maar, l’amante fotografa della fine<br />
degli anni Trenta, parla delle altre<br />
donne: «Pablo voleva nelle sue donne<br />
un misto di borghese e bohemien. Olga,<br />
figlia di un colonnello, faceva la<br />
ballerina, Diaghilev lo sconsigliò di<br />
sposarla, ma lui era attratto da quei<br />
contrasti... Pablo incontrò Marie-<br />
Thérèse quando lei aveva quattordici<br />
anni... <strong>La</strong> nascita di Maya un errore,<br />
Pablo sempre ansioso di provare la sua<br />
fertilità mettendo incinta una ragazza<br />
ma dice che poi per lui quella ragazza<br />
è un nemico… Lui ama i seni pesanti,<br />
ancora di più quelli con molto latte…».<br />
Françoise Gilot, autrice del crudelissimo<br />
Vita con Picasso, madre di Claude<br />
e Paloma: «Qualche giorno prima aveva<br />
detto a Pablo che stava per sposare<br />
Luc Simon e lui si era arrabbiato moltissimo…<br />
L’avvocato lo aveva rimproverato<br />
per non aver provveduto ai figli…».
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 44 14/05/2006<br />
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
la lettura<br />
Gialli culturali<br />
ANTONIO MONDA<br />
NEW YORK<br />
in un momento storico<br />
nel quale vengono conservati<br />
gli episodi mai trasmessi di<br />
«Viviamo<br />
American Idol, ed è deprimente<br />
riflettere sul fatto che siano andate smarrite almeno<br />
la metà delle più grandi opere di prosa e di poesia<br />
mai realizzate». Scrive così nella sua introduzione<br />
Stuart Kelly, un critico letterario scozzese che<br />
ha dato alle stampe una deliziosa antologia delle<br />
grandi opere letterarie scomparse, che ha per titolo<br />
Il libro dei libri perduti, e per sottotitolo Una storia<br />
incompleta di tutti i grandi libri che non leggerete<br />
mai. Kelly ha scoperto di provare una passione irrefrenabile<br />
per questi tesori scomparsi quando<br />
realizzò a quindici anni che non esisteva alcuna<br />
traccia delle opere di Agatone, citate da Platone nel<br />
Simposio, e sin da allora cominciò a ricostruire la<br />
storia di capolavori annunciati e mai realizzati,<br />
progetti abortiti per volere dei rispettivi<br />
autori, e opere smarrite per incuria,<br />
furti, ripensamenti o casi fortuiti.<br />
<strong>La</strong> lunga lista dei testi scomparsi accompagna<br />
il lettore in un universo coerente<br />
quanto inesistente degno di Borges,<br />
e consente di costruire un’affascinante<br />
storia parallela della letteratura. Nel<br />
capitolo dedicato ad Omero si parla ad esempio<br />
del Margites, che aveva per protagonista uno<br />
sciocco. Si tratta di un personaggio mitico di cui<br />
scrisse anche Aristotele, ma le informazioni relative<br />
alla versione omerica sono affidate all’unico<br />
frammento che è arrivato sino a noi dell’Alcibiade<br />
di Platone, che descrive il personaggio come un<br />
uomo che «sa molte cose, ma tutte male». Kelly si<br />
dilunga sulle ipotesi a proposito dell’identità di<br />
Omero, ricordando il testo del 1897 di Samuel Butler,<br />
dal titolo L’autrice dell’Odissea, nel quale si<br />
congettura che il poeta cieco potesse essere una<br />
donna.<br />
Le indagini sugli autori del passato portano il ricercatore<br />
a una reazione di malinconico sconcerto<br />
di fronte al fatto che delle ottanta tragedie di<br />
Eschilo ne sono state tramandate soltanto sette.<br />
Analogo il numero dei testi sopravvissuti di Sofocle<br />
rispetto ai centoventi prodotti, mentre le diciotto<br />
tragedie di Euripide che conosciamo, a volte<br />
in forma incompleta, rappresentano solo la parte<br />
minore di un’opera complessiva valutata per difetto<br />
in novanta testi. A volte le ricerche offrono<br />
sorprese che portano ad atteggiamenti critici revisionisti:<br />
per molti secoli l’opera teatrale di Menandro<br />
ha avuto una reputazione eccellente, e nell’antichità<br />
il suo nome fu considerato sinonimo di<br />
finezza psicologica e rivoluzionario realismo. Giulio<br />
Cesare arrivò a dichiarare che Terenzio non<br />
aveva neanche la metà del suo talento, e Aristofane<br />
di Bisanzio, che lo riteneva secondo solo ad<br />
Omero, scrisse a proposito del realismo delle sue<br />
commedie: «O Menandro, o Vita! Quale di voi imita<br />
l’altra?» Quest’aura mitica rimase intatta sino al<br />
1905, quando degli scavi archeologici portarono<br />
alla luce frammenti di cinque commedie, tra cui la<br />
Donna di Samo e il Diskolos. <strong>La</strong> scoperta fu celebrata<br />
con grande entusiasmo, ma la laboriosa ricomposizione<br />
dei frammenti rivelò un autore<br />
molto meno interessante di quello che lasciavano<br />
presagire gli attestati di stima del passato: sia G. S.<br />
Kirk che Christopher Fry parlarono di «testi esili e<br />
prevedibili», e gran parte della critica cominciò a<br />
parlare di un autore legato a codici estetici e morali<br />
dei suoi tempi. In altre parole, «datato».<br />
Questo episodio di revisionismo suggerisce che<br />
alcuni autori dei quali ricordiamo solo un antico<br />
giudizio di mediocrità potrebbero aver scritto<br />
opere apprezzabili dal gusto contemporaneo. È il<br />
caso ad esempio del poeta cinquecentesco Camillo<br />
Querno, che venne a Roma dalla nativa Puglia<br />
per recitare davanti a Papa Leone X il suo poema<br />
Alexias. Ai giorni nostri non è rimasto nulla dei<br />
ventimila versi composti per quell’occasione, ma<br />
sappiamo che non furono particolarmente apprezzati,<br />
e che Alexander Pope citò Querno come<br />
esempio di poeta mediocre.<br />
Esce negli Stati Uniti “Il libro dei libri perduti”, una rassegna<br />
delle opere del passato annunciate e non realizzate oppure scomparse<br />
Da Omero a Hemingway, ecco i gioielli inghiottiti dal tempo<br />
I capolavori-fantasma<br />
che nessuno leggerà mai<br />
<strong>La</strong> lunga lista realizzata<br />
da un critico scozzese<br />
ricostruisce un’affascinante<br />
storia parallela<br />
della letteratura<br />
Sono moltissimi i libri scomparsi che appaiono<br />
estremamente evocativi. Tra questi un testo di riflessioni<br />
sulla musica di Confucio, un seguito dell’Odissea<br />
scritto da Eugammone di Cirene, e la Vita<br />
di celebri prostitutedi Svetonio. E insieme ai titoli avvolti<br />
da un alone di mistero (Love’s <strong>La</strong>bour’s Won è<br />
un seguito delle Pene d’amor perdute o un titolo<br />
provvisorio che Shakespeare aveva in mente per <strong>La</strong><br />
bisbetica domata?) risultano altrettanto affascinanti<br />
i libri che non vennero mai realizzati (le saghe su Re<br />
Artù su cui lavorarono sia Dryden che Milton, e il<br />
progetto di un libro scritto a quattro mani da<br />
Hawthorne e Melville) o mai completati, come Il<br />
Viaggio sentimentale attraverso l’Italia e la Francia<br />
di <strong>La</strong>urence Sterne. Gli amanti di Jane Austen hanno<br />
sempre rifiutato le cinque differenti conclusioni<br />
apocrife di Sanditone lamentano il fatto che la scrittrice<br />
non sia riuscita a scrivere The magnificent adventures<br />
and intriguing romances of the houses of<br />
Saxe Cobourg.<br />
Suscita invece un senso di frustrazione la lista di<br />
testi mandati al macero per volontà dell’autore (la<br />
seconda parte delle Anime Morte di Gogol, distrutta<br />
quando lo scrittore russo si convinse che la letteratura<br />
era una forma di paganesimo), e degli incidenti<br />
che hanno portato alla scomparsa di possibili capolavori:<br />
è il caso di un gran numero di scritti giovanili<br />
di Hemingway, smarriti a seguito di un furto, e<br />
della prima stesura di Ultramarine di Malcolm<br />
Lowry, il cui manoscritto venne rubato dalla macchina<br />
del suo editore. Alcuni ragazzi di strada di Algeri<br />
trafugarono molte pagine del Pasto Nudodi Burroughs,<br />
mentre appare grottesca la vicenda di Dylan<br />
Thomas, che smarrì ripetutamente Under Milk<br />
Wood e dimenticò persino il nome dell’albergo nel<br />
quale aveva dimenticato l’unica copia del manoscritto.<br />
Dickens offrì di rivelare alla regina Vittoria il<br />
finale del Mistero di Edwin Drood, ma lei fece sapere<br />
di essere impegnata in affari più importanti e lo scrittore<br />
decise di non scrivere la seconda parte del libro,<br />
tenendo per sé la soluzione della vicenda.<br />
Ancora più incredibile la storia delle memorie di<br />
Byron, che dopo la sua morte vennero date alle fiamme<br />
dall’editore, convinto che si trattasse di materiale<br />
di «letteratura da bordello» e che, a detta di un critico,<br />
avrebbe «condannato l’autore ad una infamia<br />
eterna». È avvolto nel mistero Literature and export<br />
tradedi T. S. Eliot. Il poeta lo aveva citato come un testo<br />
pubblicato quando fece domanda d’ammissione<br />
ad Harvard, ma nel 1936 scrisse al suo biografo<br />
che non ne ricordava nulla, e che forse si trattava di<br />
un titolo inventato per arricchire il curriculum.
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 45 14/05/2006<br />
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
Delle ottanta tragedie di Eschilo<br />
solo sette sono arrivate fino a noi<br />
Lo stesso per Sofocle,<br />
che scrisse in tutto centoventi testi<br />
AUTORI FAMOSI<br />
Una foto di Ernest<br />
Hemingway<br />
al lavoro, nel 1940<br />
a Sun Valley<br />
A sinistra,<br />
un ritratto<br />
di William<br />
S. Burroughs<br />
Sopra,<br />
un’illustrazione<br />
di Tullio Pericoli<br />
I l<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45<br />
Tre storie avventurose di manoscritti svaniti o ritrovati<br />
Le parole ribelli di Saint-Simon<br />
salve per le candele non pagate<br />
DARIA GALATERIA<br />
più grande rimpianto culturale del Novecento è certo la valigia di<br />
Walter Benjamin. A dicembre del ‘39, a Parigi, il filosofo aveva de-<br />
ciso, insieme a Hannah Arendt, di prendere lezioni di inglese, per<br />
emigrare negli Stati Uniti. Tre mesi prima in effetti, allo scoppio della<br />
guerra, Benjamin era stato internato, come gli altri ebrei tedeschi, nello<br />
stadio di Colombes, poi in un campo a Nevers, in Alta Loira; ma a novembre<br />
era di nuovo a Parigi, grazie a due amiche, Sylvia Beach e<br />
Adrienne Monnier, le austere fidanzate della libreria Shakespeare &<br />
Co (quelle che avevano pubblicato l’Ulissedi Joyce): per liberarlo, avevano<br />
mobilitato un amico diplomatico. Invece di partire subito,<br />
Benjamin però scrisse le Tesi sul concetto di storia.<br />
Il 14 giugno del 1940, quando le truppe tedesche entrarono<br />
a Parigi, Benjamin era a Lourdes, finalmente fuggito verso<br />
sud; voleva entrare in Svizzera e lì aspettare il visto per gli<br />
Usa. Quello che ottenne fu, a Marsiglia, un permesso di<br />
transito per la Spagna e il Portogallo, ma non il visto di uscita<br />
dalla Francia. Con due amici decise di attraversare il<br />
confine valicando i Pirenei. Li guidava una berlinese, Lisa<br />
Fittko, di cui Benjamin aveva conosciuto il marito nel campo<br />
di Nevers. Benjamin, raccontò la Fittko quarant’anni dopo,<br />
era molto provato dal cammino, e era sofferente di cuore,<br />
ma trascinava una pesante borsa nera. «È il mio nuovo manoscritto,<br />
non posso rischiare di perderlo», diceva, «deve essere<br />
salvato; è più importante di me». Sostenuto dai compagni,<br />
Benjamin arrivò nella notte tra il 25 e il 26 settembre a Port Bou,<br />
una cittadina sulla costa. <strong>La</strong> comitiva si fermò alla pensione della<br />
Fonda Francia, che esiste ancora. <strong>La</strong> polizia spagnola li minacciò di<br />
riconsegnarli alle autorità francesi, e quella stessa notte, con una dose<br />
di morfina, Benjamin si suicidò. <strong>La</strong>sciava agli amici un biglietto: «Vi<br />
prego di trasmettere il mio pensiero all’amico Adorno».<br />
Nella valigia doveva esserci Passagenwerke, uno dei capolavori del<br />
secolo, di cui ci resta una versione composta quasi solo di citazioni, e<br />
già è un’interpretazione potente della Parigi dell’Ottocento, dei suoi<br />
viali coperti — i Passaggi — e del suo poeta Baudelaire. Nel 1981 infatti<br />
il massimo studioso di Benjamin, Giorgio Agamben, ha fortunosamente<br />
ritrovato dei fogli che Benjamin aveva lasciato, fuggendo, a Bataille.<br />
Bataille, interpretando correttamente il doppio senso del biglietto<br />
d’addio di Benjamin, aveva mandato tutte le sue carte ad Adorno;<br />
ma per una pura svista aveva dimenticato alcuni fragili foglietti coperti<br />
da una scrittura minuta, evidenziati, come da un bambino disciplinato,<br />
da strazianti cerchietti, pallini e croci colorate; erano<br />
commenti alle poesie di Baudelaire. Quella valigia di Benjamin —<br />
menzionata nei primi rapporti della polizia franchista accorsa nella<br />
camera del suicida — potrebbe ancora spuntare. Forse qualcuno ha<br />
tenuto la borsa, e buttato tutti quei fogli in tedesco. O magari no, stanno<br />
impallidendo in qualche granaio, come un gioiello disperso di Diderot,<br />
il racconto del 1768 Mystification, che, sfiorato dalle bombe della<br />
stessa Seconda guerra mondiale, fu ritrovato e stampato nel 1954.<br />
Non una valigia, ma un vero baule di scritti conobbe, per il più bizzarro<br />
dei motivi, un lungo sonno che lo salvò. Le più belle memorie,<br />
forse, di tutti i tempi ci sono state conservate grazie al droghiere di un<br />
piccolo angolo di Francia, <strong>La</strong> Ferté-Vidame. Nel castello del luogo si<br />
era ritirato a scrivere le sue colleriche, scandalose e smaglianti memorie<br />
sulla corte di Francia all’epoca del re Sole e della Reggenza il duca<br />
Louis de Saint-Simon. Quando morì, nel 1755, un commissario del<br />
re si affrettò a apporre i sigilli al suo appartamento di Parigi, e un messo<br />
fu immediatamente inviato a fare lo stesso a <strong>La</strong> Ferté: era noto che<br />
Saint-Simon aveva scritto sulla monarchia pagine feroci, che era bene<br />
far scomparire. Ma il fiero duca era morto lasciando in sospeso un<br />
conto di candele. Il conto, dal punto di vista del droghiere, era incresciosamente<br />
astronomico, e l’uomo, in nome del suo credito, aveva<br />
già preteso un elenco dei beni del deceduto. Il legatario universale, il<br />
vescovo di Metz, e la corona dovettero insomma impegnarsi in un inventario<br />
accuratissimo; per sette giorni, gli ufficiali giudiziari stilarono<br />
la più scrupolosa e metodica lista dei beni del debitore, tra cui settecento<br />
quaderni, raccolti in grandi cartelle di pelle, istoriate con le armi<br />
del duca. L’esecutore del re<br />
Choiseul dovette limitarsi a decretare<br />
che gli scritti di Saint-Simon,<br />
poiché concernevano affari della<br />
corona, venivano secretati. L’erede,<br />
per sottrarli alle pretese del<br />
creditore, diede il suo consenso.<br />
Saint-Simon era in salvo — ma<br />
ignoto. Brevi saggi di quella sua<br />
animata animosità cominciarono<br />
a circolare verso l’epoca rivoluzionaria,<br />
deliziando le dame. Nel<br />
1814 un discendente del duca<br />
chiese al re se era possibile liberare<br />
il suo antenato, «imbastigliato<br />
da quasi cent’anni». Il re sorrise,<br />
ma gli Archivi fecero ancora resistenza.<br />
Intanto il baule inchiavardato<br />
si trasferiva, insieme agli Archivi,<br />
da Versailles all’hotel Gallifet,<br />
a palazzo Maurepas e infine al<br />
Quai d’Orsay. A ogni successiva rivoluzione,<br />
mentre la politica si addolciva<br />
e il tempo stemperava gli<br />
scandali d’altri secoli, nacquero le<br />
prime edizioni, e solo oggi ha preso<br />
estesamente corpo il ritratto,<br />
comico e atroce, della vecchia corte<br />
in preda all’omosessualità, al libertinaggio,<br />
alla religiosità dei tartufi,<br />
all’ascesa dei bastardi del re,<br />
al balletto degli adulatori.<br />
Una valigia letteraria a lieto fine<br />
è quella di Camus. Quando il 4<br />
gennaio 1960 lo scrittore si<br />
schiantò contro un albero sulla nazionale sopra Sens, era ministro di<br />
Francia uno scrittore, Malraux. Prima ancora di dolersi — in tanti, a<br />
Parigi, per le strade, piangevano — spedì un emissario a controllare se<br />
lo scrittore portava con sé dei manoscritti. Ma già il sindaco di Sens ci<br />
aveva pensato, e consegnò religiosamente la borsa di Camus. C’era<br />
dentro il manoscritto di uno dei più bei romanzi dello scrittore, insolitamente<br />
sentimentale, Il primo uomo — la storia della sua infanzia,<br />
dell’Algeria primitiva in cui arabi e pieds-noirs francesi vivevano fianco<br />
a fianco. Ma erano gli anni della guerra d’indipendenza d’Algeria, e<br />
della dittatura di Sartre, che con Camus aveva rotto. <strong>La</strong> casa editrice<br />
Gallimard ritenne inopportuno pubblicare il romanzo: «Autocensura»,<br />
confessarono poi. Le premier homme è uscito nel 1994.
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
Chi ha visto il film di Martin Scorsese No Direction Home,<br />
dedicato a Bob Dylan, non sarà rimasto indifferente<br />
nell’osservare la funzione della musica nell’America<br />
dei primi anni Sessanta. Vedere il giovane Dylan cantare,<br />
ispiratissimo, davanti alle folle immense delle<br />
manifestazioni per i diritti civili significa infatti cogliere<br />
il vero spirito del tempo, un clima sociale e culturale irripetibile<br />
che si sintetizzava nell’esserci, tutti insieme, in quell’America kennediana<br />
che credeva nella nuova frontiera, nell’integrazione, nella<br />
caduta della segregazione, nella sostanziale possibilità di cambiare<br />
il mondo: un senso politico che riuniva cantanti, intellettuali, attori,<br />
registi, uomini di spettacolo e popolo, il quale lo spettacolo lo faceva<br />
con la propria presenza (e poi Dylan cantava come nessuno<br />
aveva cantato mai, e ancora oggi si comprende e si condivide l’emozione<br />
di allora).<br />
Illusioni, forse: «The way we were», modellati sulla parabola di<br />
Redford e Streisand nella traiettoria tracciata dall’impegno al disincanto.<br />
Ci avrebbero pensato infatti gli anni a vaccinare con le dosi<br />
Ricomincia la stagione dei grandi meeting musicali e riparte il mercato<br />
dei “memorabilia” di un evento di massa che da quarant’anni, dalle prime<br />
performance di Bob Dylan nell’America kennediana, orienta e scandisce<br />
la vita delle nuove generazioni. Un rito laico che ha perso via via i suoi contenuti politici<br />
e che deve il suo successo senza flessioni al fascino dell’esperienza condivisa e della memoria<br />
A quel sentimento che consente di dire “noi siamo qui” e in seguito “io c’ero”<br />
Torna la tribù delle cattedrali di musica<br />
EDMONDO BERSELLI<br />
4<br />
7<br />
9<br />
E ora... concerto<br />
4 PRINCE<br />
Un “pass” per il tour<br />
del 1996 con i suoi Npg<br />
5<br />
PINK FLOYD<br />
Il biglietto del tour italiano<br />
della band nel 1994<br />
6 MICHAEL JACKSON<br />
L’elaboratissimo biglietto<br />
del tour mondiale del 1992<br />
7 WIGHT<br />
Il biglietto del festival di<br />
Wight del 1969 con Dylan<br />
8 SANTANA<br />
Gli album di Santana<br />
ricordati su un biglietto<br />
9 DOORS<br />
Un concerto al Fillmore<br />
con gli Yardbirds nel ‘68<br />
10 NIRVANA<br />
Red Hot, Nirvana, Pearl<br />
Jam, nel capodanno ‘91<br />
appropriate di cinismo le speranze di allora, quando «the times they<br />
are a-changin’». È vero che anche i concerti implacabilmente commerciali<br />
dei Beatles, più o meno in quell’epoca, erano l’occasione<br />
per un formidabile ritrovarsi generazionale. Ma nella memoria rimane<br />
sempre quel momento stregato in cui spinta sociale e utopia<br />
si sono fuse nelle strade e nelle spianate degli Stati Uniti, molto prima<br />
di Woodstock. Perché il “movement” dei primi Sessanta era certamente<br />
caratterizzato da una sua spontaneità non ideologica, eppure<br />
conservava quel tratto politico che aveva riscosso la simpatia<br />
di Hannah Arendt, affascinata dal momento «dialogico» della rivoluzione<br />
dei campus.<br />
Poi, dimenticato Kennedy, attraversata la psichedelia e sofferto fino<br />
in fondo il male del Vietnam, il concerto e il festival avevano perso<br />
la loro dimensione intenzionalmente politica per rifluire nell’esperienza<br />
collettiva, esistenzial-panteista, insomma, nella fase che comprende<br />
Monterey, l’isola di Wight e Woodstock. In cui il “movimento”<br />
hippie, la comunità nazionale dei figli dei fiori, i beatnik sembravano<br />
l’espressione di un atteggiamento del tutto non-politico. “Love<br />
and peace” era uno slogan disimpegnato, anche se creava lessico, gesti,<br />
comportamenti comuni. Marijuana, Lsd e tutti i paraphernalia di<br />
5<br />
6<br />
8<br />
10<br />
una concezione della mente come un’esperienza visionaria erano riconoscibili<br />
come il frutto di una condizione alienata, una deroga soltanto<br />
ludica dai meccanismi della società capitalistica.<br />
In quel tramonto dei Sessanta, ai tempi della tre giorni di “peace<br />
and love” di Woodstock, con mezzo milione di hippie nudi o seminudi<br />
nel fango, sotto il suono distorto della chitarra elettrica di Jimi<br />
Hendrix, si era manifestata implicitamente una negazione totale, il<br />
ripiegarsi dei “forever young” in un mondo a parte, in un’alterità<br />
senza mediazioni: l’America del Vietnam veniva denunciata come<br />
una non patria. Non si trattava di cambiarla, bensì di escluderla dal<br />
proprio orizzonte vitale. Per ritrovare una vera iniziativa capace di<br />
riassumere ancora una volta il clima generazionale e politico, sarebbe<br />
stato necessario attendere qualche stagione, e giungere al primo<br />
agosto del 1971, allorché al Madison Square Garden di New York,<br />
il beatle più intriso di cultura esotica, «my Sweet Lord…», cioè “l’indiano”<br />
George Harrison, riuscì a mettere insieme un gruppo di superstar<br />
come il sitarista Ravi Shankar, l’ex complice Ringo Starr, e<br />
poi Leon Russell, Bob Dylan, Eric Clapton. Si tenne in quell’occasione<br />
un evento musicale che sarebbe diventato quasi mitologico,<br />
più citato che ascoltato, ma esplicitamente programmatico. Musi-
15<br />
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 47 14/05/2006<br />
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
che e ritmi già accordati sul prefisso “world”, dedicate al Bangladesh<br />
martirizzato dai diluvi e dalle carestie. E sotto sotto l’idea che la<br />
musica poteva salvare il mondo. I buoni, cioè le rockstar e le popstar,<br />
nella funzione di sollecito spedito agli ambienti della politica, per<br />
scuotere l’inerzia di governi e governanti.<br />
Viene fuori da quel concerto “seminale” la visione secondo cui<br />
“noi” possiamo sottrarre il pianeta e i suoi leader dall’ottusità dei bilanci<br />
pubblici, “noi”, in quanto “we are the world”, noi i bambini,<br />
“the children”, gli ingenui che possono dare scandalo dicendo che<br />
i popoli poveri muoiono di fame. Come in seguito sarebbe accaduto<br />
alla straordinaria parata del Live Aid del 1985, il concerto globale<br />
tenutosi allo stadio Wembley di Londra e al Jfk Stadium di Philadelphia,<br />
al concerto per Nelson Mandela a Londra, il tour musicale<br />
per Amnesty International, e più di recente il Live8. Fino alla sintesi<br />
politica creata dalla figura planetaria di Bono, il capo degli U2, diventato<br />
una specie di leader mondiale nel nome della riduzione del<br />
debito.<br />
E quel “noi” rappresenta un criterio di identificazione che funziona<br />
sempre. Oggi un concerto del tour mondiale dei Rolling Stones<br />
appare come un’occasione sociale per un’élite mondana alla ri-<br />
11 12<br />
Fiorisce in rete il commercio di ticket, poster e souvenir dei grandi concerti<br />
Viaggio nel tempo? Il biglietto costa mille dollari<br />
E tutto<br />
ERNESTO ASSANTE<br />
cerca di memorie dell’intrattenimento; ma nel 1982, anche qui in<br />
Italia, darsi appuntamento al concerto di Mick Jagger, Keith Richards<br />
e soci significava riconoscersi in setta che nutriva una certa<br />
“sympathy for the devil”, e si esaltava per l’energia pazzesca e irripetibile<br />
di Honky Tonk Woman.<br />
In realtà il principio settario, di una tribù che si ritrova con se stessa,<br />
funziona quasi sempre, sia che si tratti di darsi appuntamento<br />
per Bruce Springsteen sia che arrivi a riempire gli stadi il “popolo di<br />
Vasco”. Anzi, sono le stesse star come l’ex ragazzo di strada “born to<br />
run” a cercare una memoria collettiva, il ripristino di una solidarietà<br />
nella tradizione, in cui le canzoni sono lo strumento di una comunità:<br />
ascoltare le note del classico We Shall Overcome, restituite scabre<br />
dalla voce di Springsteen “fonda” un sentimento comune in cui<br />
ci si può riconoscere. E non importa che quel sentimento sia in fondo<br />
generico: lo è anche il progressismo di sinistra del concerto del<br />
a un tratto arrivò il rock. E le cose cambiarono profondamente. I ragazzi non si accontentarono più di ascoltare<br />
i propri idoli alla radio o sui dischi, volevano poter essere al loro fianco, partecipare e condividere la musi-<br />
ca assieme agli altri. Non volevano soltanto un concerto, ma un “evento”, qualcosa che li segnasse profonda-<br />
mente, qualcosa da ricordare, possibilmente per sempre. E se la memoria non bastava, per ricordare un evento bisognava<br />
avere un souvenir, una maglietta, un poster, un cappellino e soprattutto la “prova provata” che consenta a tutti<br />
di dire «io c’ero», ovvero il biglietto del concerto.<br />
I biglietti sono piccoli ma belli a vedersi, spesso sono frutto del lavoro di grafici raffinatissimi, soprattutto quelli degli anni<br />
Sessanta, e consentono di ricostruire il percorso della storia del rock dalle origini ad oggi, dai semplicissimi biglietti di Elvis o<br />
dei Beatles, che non pretendevano altro che di essere “biglietti d’ingresso”, ai multicolorati biglietti degli anni Ottanta e Novanta,<br />
dove anche il piccolo “ticket” serve a illustrare il mondo dell’artista, il suo segno, la sua immagine, la sua musica.<br />
Attorno al desiderio di possedere un souvenir dell’evento rock è nata una vera e propria industria della memoria, che<br />
prospera da qualche tempo attraverso una fitta rete di siti web e un’altrettanto vivace attività di collezionisti che frequentano<br />
le aste, organizzate soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti. I “memorabilia” rock hanno grande successo<br />
e i souvenir dei concerti sono ovviamente tra i pezzi più ambiti e anche i più facilmente abbordabili, in termini economici,<br />
per i fan. Tra i più richiesti ci sono soprattutto quelli dei concerti degli anni Sessanta e Settanta: molti degli acquirenti<br />
(in genere over cinquanta) vi hanno partecipato, senza conservare all’epoca i biglietti e quindi oggi sono disposti a<br />
spendere cifre anche elevate per poter ricomprare un “pezzo” del loro passato. Ma altrettanto ricercati sono i “tickets”<br />
dei concerti delle star dei nostri giorni, soprattutto i “pass” laminati, quei piccoli tesserini che consentono a chi si occupa<br />
della produzione del concerto, o agli addetti ai lavori, di circolare in alcune aree della platea, del retropalco o addirittura<br />
sul palcoscenico stesso, oggetti del desiderio per i fan delle ultime leve.<br />
Il sito più importante e di successo per questo tipo di “ricordi” è senza dubbio Wolfgang’s Vault (www. wolfgangsvault.<br />
com), versione elettronica del grande archivio del più leggendario tra gli organizzatori di concerti rock, Bill Graham, il patron<br />
del Fillmore, leggendario locale di San Francisco, manager e organizzatore di tour di tutte le più celebri stelle del rock<br />
degli anni Sessanta e Settanta. Graham, morto in un incidente in elicottero nel 1991, aveva costruito un gigantesco archivio<br />
di tutta la sua attività, dagli anni Sessanta agli anni Novanta. Alla sua morte l’archivio è passato di mano quattro volte<br />
prima di finire in quelle di Bill Sagan, direttore generale di una compagnia di assicurazioni e grande fan del rock, che lo ha<br />
acquistato nel 2002 per cinque milioni di dollari. Per due anni Sagan e i suoi collaboratori hanno catalogato gli oltre 30mila<br />
pezzi della collezione, tra biglietti di concerti, poster (soprattutto quelli degli anni Sessanta, commissionati da Graham<br />
ai migliori grafici psichedelici dell’epoca), magliette e registrazioni: «Credo che la collezione valga tra i cinquanta e i cento<br />
milioni di dollari», ha dichiarato Sagan, che ha rapidamente iniziato il business vendendo gli oggetti più rari sul suo sito<br />
web: «Non è un hobby e non lo faccio per divertimento. Qui si parla di denaro e di affari».<br />
Del resto le quotazioni per i vecchi biglietti di concerti sono molto variabili, si passa dalle poche decine di dollari alle<br />
diverse centinaia, fino a superare i mille dollari per, ad esempio, il biglietto dell’ultimo concerto dei Sex Pistols o per quello<br />
del festival di Woodstock del 1969. I poster originali valgono molto di più, dai 4525 dollari per quello di Woodstock agli<br />
oltre 9000 per il poster dell’Atlanta Pop Festival. Molto più economico è Right Brain Left Brain (www. rightbrain-leftbrain.<br />
com), che non ha a disposizione gli archivi di Graham ma che offre una ricchissima serie di biglietti di concerti e<br />
di pass che spaziano nei cinque decenni della storia del rock. Quest’ultimo sito vende anche su EBay, dove è possibile<br />
trovare moltissimi biglietti “vintage” offerti da piccoli collezionisti, ma dove è altrettanto facile trovare delle fregature,<br />
biglietti di grandi eventi del passato ristampati oggi.<br />
1<br />
16<br />
2 3<br />
17<br />
18<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47<br />
Primo maggio, a maggior ragione se ci si accorge che il deposito di<br />
condivisione musicale è limitatissimo, e non si va tanto più in là di<br />
Bella ciao e di Contessa.<br />
D’altronde, la fenomenologia del concerto è ormai codificata.<br />
Tanto nelle più convulse session dei gruppi heavy metal quanto nelle<br />
più popolari manifestazioni del pop contemporaneo, i fan sotto<br />
il palco “pogano”, e gli altri spettatori osservano diversi spettacoli in<br />
uno. E alla fine viene sempre fuori una specie di grande liturgia, laica<br />
eppure fideistica, emblematizzata per esempio dalle periodiche<br />
“reunion” dei Pink Floyd, con le loro «cattedrali di suono», in cui gli<br />
spettatori partecipano a un’esperienza vagamente religiosa, nella<br />
convinzione di condividere una ritualità formalizzata, o comunque<br />
interpretabile scansione per scansione come sequenza mitica.<br />
È l’evento che diviene esperienza condivisa e sta per trasformarsi<br />
in memoria. Mentre di nuovo svanisce o si assottiglia fin quasi al<br />
nulla la dimensione politica, permane quel sentimento che consente<br />
di dire «noi siamo qui», e in seguito «io c’ero». Sono movimenti<br />
collettivi informali, che realizzano un linguaggio condiviso e lo trasmettono<br />
nella memoria: se non è una polis, è un’assemblea che<br />
crea volta per volta le ragioni della propria presenza.<br />
13<br />
11<br />
1<br />
2<br />
WOODSTOCK<br />
Il progenitore dei festival<br />
rock, nell’agosto del 1969<br />
ELVIS<br />
Biglietto per settembre ’77<br />
Elvis morì un mese prima<br />
3 BEATLES<br />
Un biglietto dell’ultimo tour<br />
del “Fab Four” nel 1966<br />
PAUL MCCARTNEY<br />
<strong>La</strong> prima volta di Sir Paul<br />
a Napoli nel 1991<br />
12 ELTON E ERIC<br />
Un doppio concerto: John<br />
e Clapton a Parigi nel 1992<br />
13<br />
14<br />
MERCURY TRIBUTE<br />
Il “pass” per il tributo<br />
a Freddy Mercury nel ‘92<br />
NELSON MANDELA<br />
Concerto per la liberazione<br />
di Mandela nel 1990<br />
15 ROLLING STONES<br />
Il biglietto del concerto<br />
italiano del 1982 a Torino<br />
16 BEACH BOYS<br />
Il “pass” per seguire il tour<br />
dei Beach Boys nel 1981<br />
17<br />
18<br />
BYRDS<br />
Il biglietto del concerto<br />
al Fillmore, nel 1968<br />
VASCO ROSSI<br />
Il “pass” per il retropalco<br />
del concerto a Roma, 1990<br />
14
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
i sapori<br />
Riti di primavera<br />
Arnad (Ao)<br />
Al centro di una piccola<br />
pianura, vanta una bella<br />
parrocchiale romanica<br />
e una parete rocciosa<br />
amatissima dai freeclimbers.<br />
Ma il vero<br />
gioiello del luogo è il lardo, lavorato con gli aromi<br />
di montagna, magnifico con il pane cotto a legna<br />
DOVE DORMIRE<br />
ARMANAC DE TOUBIE<br />
S.S. 26<br />
Tel. 0125.966939<br />
Camera doppia da 52 euro, colazione inclusa<br />
DOVE MANGIARE<br />
L’ARCADEN<br />
Località Champognalaz 1<br />
Tel. 0125.966928<br />
Chiuso giovedì, menù da 15 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
SALUMIFICIO BERTOLIN<br />
Località Champognolaz 10<br />
Tel. 0125.96612<br />
LICIA GRANELLO<br />
Al principio c’era il “déjeuner sur l’herbe” degli aristocratici<br />
Poi sono venuti gli anni democratici e un po’ ruspanti<br />
della scampagnata. Adesso si torna al raffinato e nel ramo del pic-chic<br />
si buttano i nuovi designer, gli chef di grido e gli hotel di nicchia<br />
itinerari<br />
Massimiliano Alajmo, chef giovane e geniale, ha reinventato il concetto<br />
di picnic, a metà tra cucina “rilassante” e provocazione<br />
Nella gastronomia di famiglia, davanti al ristorante di Rubano di Padova,<br />
è possibile comprare le sue chicche golose<br />
Comacchio (Fe)<br />
<strong>La</strong> capitale del delta<br />
del Po si trova all’interno<br />
di un ecosistema<br />
straordinario, habitat<br />
ideale per la più grande<br />
varietà di specie<br />
ornitologiche in Italia. I picnic sono resi preziosi<br />
dall’anguilla cotta sulla brace, presidio Slow Food<br />
DOVE DORMIRE<br />
AL PONTICELLO<br />
Via Cavour 39<br />
Tel. 0533.314080<br />
Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa<br />
DOVE MANGIARE<br />
DA VASCO E GIULIA<br />
Via Muratori 21<br />
Tel. 0533.81252<br />
Chiuso lunedì, menù da 28 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
LA BOTTEGA<br />
Via della Pescheria 3<br />
Tel. 0533.31304<br />
‘‘ Joan Lindsay<br />
Se “Picnic<br />
a Hanging Rock”<br />
sia realtà o fantasia,<br />
i lettori dovranno<br />
deciderlo<br />
per conto proprio<br />
Poiché...<br />
tutti i personaggi<br />
che compaiono<br />
nel libro<br />
sono morti<br />
da molto tempo<br />
Matera<br />
Vanta un centro storico<br />
di fascino assoluto,<br />
grazie ai suoi Sassi,<br />
una gigantesca scultura<br />
tradotta in un groviglio<br />
di vicoli, piazze, grotte,<br />
chiese rupestri. I picnic nei campi circostanti<br />
sono battezzati col caciocavallo podolico<br />
DOVE DORMIRE<br />
HOTEL SASSI<br />
Via San Giovanni Vecchio 89<br />
Tel. 0835.333733<br />
Camera doppia da 84 euro, colazione inclusa<br />
DOVE MANGIARE<br />
LUCANERIE<br />
Via Santo Stefano 61<br />
Tel. 0835.332133<br />
Chiuso lunedì, menù da 30 euro<br />
DOVE COMPRARE<br />
GASTRONOMIA IL BUONGUSTAIO<br />
Piazza Vittorio Veneto 1<br />
Te. 0835.331982<br />
una volta il “déjeuner sur l’herbe”,<br />
che i signori offrivano ai loro<br />
ospiti per ristorarli durante le partite<br />
di caccia. Sulle tavole, allestite da<br />
stuoli di servitù, comparivano por-<br />
C’era<br />
cellane, argenti e cristalli.Brillat Savarin<br />
nella sua Fisiologia del gusto annota i sontuosi<br />
menù dell’epoca: tacchino in gelatina, pâté maison,<br />
polli arrosto, pasticcio di Strasburgo, insalate impreziosite<br />
da frutta esotica. In bella mostra, tenuti al fresco<br />
in secchi di cuoio pieni di ghiaccio, Champagne e<br />
Madera.<br />
Per fortuna nostra, della servitù costretta ad acrobazie<br />
logistiche (e anche delle prede), il déjeuner venne<br />
sostituito dal democratico, trasversale, allegro picnic<br />
tout court, svagata pratica campagnola assolutamente<br />
fine a se stessa. A testimoniarlo, l’etimologia del<br />
nome, a sua volta di matrice smaccatamente francese:<br />
il verbo piqueniquer, infatti, è un assemblaggio di<br />
piquer, pizzicare, e nique. In teoria, insomma, il picnic<br />
dovrebbe corrispondere a un morigerato spiluccare<br />
all’aria aperta.<br />
Nulla di più falso. Negli anni, la pratica dei picnic ha<br />
assunto caratteri di vera e propria esibizione di gourmandise<br />
pret-à-porter. Se già in ambito familiare<br />
l’occasione fa l’uomo goloso (è grazie all’alibi della<br />
“cena raccogliticcia” servita davanti alla tv che si consumano<br />
alcuni misfatti alimentari), il coinvolgimento<br />
degli amici induce alla competizione gastronomica<br />
senza ritegno.<br />
L’appuntamento è superclassico: la prima passeg-<br />
Da PICNIC A HANGING<br />
ROCK<br />
giata sul bagnasciuga, la ricerca delle introvabili spugnole,<br />
il torrente di mezza<br />
Picnic<br />
montagna da guadare (per<br />
chi non teme di raggelarsi i piedi). Il tempo di un assaggio<br />
di fatica fisica, ed<br />
è già il momento di dispiegare<br />
plaid e tovaglia<br />
a quadretti. Dove verrà<br />
esibito il meglio della gastronomia<br />
casalinga.<br />
Eppure, nelle telefonate<br />
della vigilia (chi<br />
porta cosa) l’elenco delle<br />
vettovaglie era da manuale<br />
della moderna<br />
dietologia: insalata di riso<br />
senza svolazzi, polpettine<br />
cotte rigorosamente<br />
al forno, il gelato<br />
di soia e fruttosio. E invece,<br />
all’apertura delle<br />
borse-frigo, ecco sbucare<br />
il patè in gelatina, i formaggi<br />
abbinati alle gelatine<br />
di vino, certi tiramisù<br />
trionfanti…<br />
<strong>La</strong> socializzazione del picnic ha provocato una diversa<br />
considerazione anche in termini etico-commerciali.<br />
A piatti e posate di plastica si preferiscono quelli fatti con<br />
il Pla, Acido <strong>La</strong>ttico Polimerizzato, prodotto a partire<br />
dall’amido di mais e totalmente degradabile in compost<br />
(organico), acqua e anidride carbonica. Anche i tovaglioli<br />
possono essere ecologicamente compatibili, grazie<br />
alla carta riciclata. Discorso analogo per le confezioni<br />
di cibi — soprattutto biologici e biodinamici — e i contenitori<br />
con il logo della margherita. Il marchio Ecolabel<br />
e la certificazione Fsc (Forest Stewardship Council) garantiscono<br />
un ridotto impatto ambientale e l’arrivo della<br />
materia prima da foreste gestite nel rispetto di rigoro-<br />
L’abbuffata con l’alibi dell’aria aperta<br />
si standard ambientali, sociali ed economici.<br />
Se poi non riuscire a risolvere il conflitto tra pigrizia<br />
e voglia di gite mangerecce, la catena dei Romantik<br />
Hotel lancia il rito del pic-chic: basta con i fai-da-te a<br />
base di bistecchine e arancini, via libera a cesti da<br />
trionfo del design (per gli accessori) e dell’avanguardia<br />
gourmand. Una volta scelto il giorno in cui disertare<br />
la cucina dell’albergo in favore di una gita, si concorda<br />
il menù con lo chef. Il mattino dopo, al momento<br />
della colazione, di fianco al tavolo troverete tutto<br />
l’occorrente, dal plaid alla crema solare, dalla glacette<br />
per il vino ai cibi già sporzionati e ben custoditi.<br />
Non dimenticate di tracciare una scia di sale intorno<br />
alla tovaglia: vi risparmierete l’assalto finale<br />
delle formiche.<br />
Arancini di riso<br />
Il trionfo dell’avanzo<br />
si traduce in palline<br />
da “bucare” con un dito<br />
per inserire un dado<br />
di mozzarella, prosciutto,<br />
etc... Dopo l’impanatura<br />
in farina, uovo e pangrattato,<br />
friggere con extravergine<br />
e asciugare nella carta<br />
Frittata<br />
Insieme all’omelette<br />
francese – dal latino ova<br />
mellita, piatto romano a base<br />
di uova sbattute col miele –<br />
è irrinunciabile nel picnic<br />
<strong>La</strong> versione alleggerita<br />
(e storica) prevede la cottura<br />
in forno. Erbette, zucchine<br />
e formaggi per farcire<br />
Insalata di pollo<br />
Un piatto-contenitore,<br />
con infinite varianti, a partire<br />
dal pollo (petti saltati<br />
o avanzi d’arrosto). Tra gli<br />
abbinamenti, valerianella<br />
(soncino), sedano, dadini<br />
di emmenthaler, semi oleosi,<br />
mela verde, ananas<br />
<strong>La</strong> maionese lega<br />
Milanesine<br />
Nate a casa Melzi d'Eril<br />
e servite al maresciallo<br />
Radetzky – da cui<br />
le Wienerschnitzel –<br />
si cuociono nel burro<br />
chiarificato (sciolto<br />
a bagnomaria per un quarto<br />
d’ora e filtrato) che regge<br />
le alte temperature
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
Mozzarella in carrozza<br />
I sandwich di pancarrè<br />
senza crosta e mozzarella<br />
vanno immersi di taglio<br />
nella farina. <strong>La</strong> parte<br />
infarinata si bagna<br />
poi nell’acqua tiepida<br />
per “bloccare” la mozzarella<br />
Prima di friggere, coprire<br />
un’ora con uovo sbattuto<br />
Parmigiana<br />
Tagliate, fatte spurgare<br />
(con poco sale e un peso<br />
sopra) e asciugate,<br />
le melanzane fritte o grigliate<br />
(versione light), si alternano<br />
in teglia con salsa ristretta<br />
di pomodoro, parmigiano<br />
grattugiato, mozzarella<br />
a fette sottili e scolata<br />
Peperonata<br />
Si alleggerisce sbucciando<br />
i peperoni e i pomodori,<br />
aggiungendo un cucchiaino<br />
di zucchero e due di aceto<br />
Frullata con foglie di basilico<br />
è una meravigliosa salsa<br />
per pasta o crostini<br />
Passata al setaccio diventa<br />
una mousse deliziosa<br />
‘‘ Bernard Malamud<br />
Olga infilò una<br />
mano nella borsa<br />
della spesa<br />
e ne trasse diversi<br />
pacchetti.<br />
Li scartò,<br />
e vennero fuori<br />
pane, salsicce,<br />
aringhe, formaggio<br />
italiano, salame<br />
dolce, sottaceti…<br />
Da LA RAGAZZA<br />
DEI MIEI SOGNI<br />
Polpette<br />
Esistono infinite varianti<br />
per il simbolo del comfortfood.<br />
L’impasto<br />
più classico è a base<br />
di carni e verdure legate<br />
da uova e mollica di pane<br />
bagnata nel latte<br />
Nelle cucine orientali,<br />
si cuociono al vapore<br />
I l<br />
Salame di tonno<br />
Con la regola del due<br />
– gli etti di tonno sott’olio,<br />
le uova, i cucchiai<br />
di parmigiano e pangrattato<br />
– si assembla un salame<br />
e lo si avvolge nella carta<br />
da forno. Cotto in acqua<br />
bollente salata, si gusta<br />
freddo con maionese<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49<br />
<strong>La</strong> celebre tela di Manet del 1863<br />
Donne nude e cibi grassi<br />
tutto partì da un quadro<br />
STEFANO MALATESTA<br />
picnic sull’erba, all’aria aperta, è un rito, un costume<br />
diffuso ovunque, eccetto forse che nelle<br />
distese dell’Antartide o sull’altopiano del Pa-<br />
mir d’inverno, quando i venti ghiacciati piombano<br />
sulle carovane congelandole come nel freezer.<br />
Sembra che il nome sia di origine francese, passato<br />
poi all’inglese. Ma se è vero che tutti i nomi cercano<br />
di ricordare nella loro pronuncia qualcosa<br />
della loro funzione, allora picnic suona svelto, leggero,<br />
elegante: può essere associato al sandwich,<br />
non alla polenta con gli osei, per quanto meravigliosa<br />
possa risultare quando viene servita in<br />
montagna (ma nella baita).<br />
Inoltre il picnic nasce precario e fantasioso, qualcosa<br />
che si mette insieme con allegria e una leggera<br />
improntitudine: ognuno porta quello che trova o<br />
che ha già, senza curarsi troppo di acquistare cibi sopraffini<br />
o di scegliere le posate migliori. È il piacere<br />
di stare insieme in modo inconsueto che fa scattare<br />
la sua molla, non la fame o la sete; è la speranza che,<br />
accanto al fuoco improvvisato con gli sterpi che si<br />
spegne sempre, nasca quella confidenza così difficile<br />
da raggiungere in condizioni di normalità. Dunque<br />
lasciate in vetrina quelle magnifiche valigette di<br />
vimini intrecciati e foderati di panno verde che contengono<br />
piatti di plastica sopraffina e posate con il<br />
manico di bambù e «tutto quello che serve per il picnic»<br />
come è scritto accanto a un prezzo da ladroni. È<br />
un controsenso.<br />
Gli inglesi continuano a mantenere il picnic nelle<br />
dimensioni di quello che dovrebbe essere uno<br />
spuntino. Durante le famose corse di Ascott come il<br />
King George and Elizabeth Stakes, e ad Epson il<br />
Derby, si vedono ancora come una volta i gentili<br />
sudditi di Sua Maestà Britannica, qui nel loro ambiente<br />
quasi scomparso altrove. Sdraiati sull’erba<br />
mandano giù il prosciutto di York, quello introvabile,<br />
più affumicato del cotto, tra due fette imburrate<br />
del loro pessimo pane. Mentre in Francia, dove da<br />
sempre si è potuto scherzare e ridere su persone e<br />
istituzioni non importa quanto grandi, ma non sulla<br />
“bouffe”, fin dall’inizio il picnic ha preso dimensioni<br />
tali da diventare uno dei miti della fine del secolo<br />
decimonono, insieme con i canottieri dalla maglia<br />
a righe bianche e rosse, le spiagge lungo la Senna<br />
e i cappelli di paglia di Firenze con nastri delle signorine<br />
in camicie di picchè bianche.<br />
Ora date solo un’occhiata al più famoso quadro<br />
della storia della pittura sul picnic: Le déjeuner sur<br />
l’herbe di Edouard Manet, rifiutato dal Salon del<br />
1863 perché presentava in primo piano una signora<br />
nuda in compagnia di due supposti gentlemen<br />
completamente vestiti. Non so se quest’opera sia<br />
un’anticipazione dell’avanguardia del Novecento<br />
come dicono oggi numerosi critici. L’ho sempre trovata<br />
inferiore a quei capolavori di pittura pura che<br />
sono l’Olimpia e la Lola de Valence, e come pittura<br />
en plein air è sorpassata da quell’immortale capolavoro<br />
di Claude Monet dallo stesso titolo che si trova<br />
a Mosca al Museo Pushkin. Ma quello che è interessante<br />
ai nostri fini è il contenuto non la forma, come<br />
diceva don Benedetto. Sparsi sull’ampia tovaglia<br />
non ci sono cestini con cotolette fritte ed altre pietanze<br />
facili da preparare e da trasportare ma tutta la<br />
gamma della grassa cucina francese di quell’epoca:<br />
le zuppiere, i contenitori di timballi, le salsiere per gli<br />
arrosti e i contorni, i roast beef e i brasati, le galline<br />
fredde sotto gelatina e burro di Normandia. E non vi<br />
fate ingannare dall’aria goffa che hanno gli uomini,<br />
infagottati negli abiti di campagna. I francesi hanno<br />
sempre amato stare all’aria aperta convinti che c’è<br />
del potere taumaturgico in una natura non contaminata.<br />
Ma nello stesso tempo non hanno mai saputo<br />
rinunciare a un pasto che fosse un pasto.<br />
Da qualche parte ho letto che Le déjeuner sur l’herbe<br />
deriverebbe da modelli primari come la Festa<br />
campestre di Tiziano e altre opere di pittori italiani.<br />
Ma queste feste rinascimentali erano in genere aristocratiche,<br />
raffinate e di corte, si basavano sulla<br />
musica — la festa campestre di Tiziano è sostanzialmente<br />
una festa musicale e non gastronomica — e<br />
non avevano nulla di quella predisposizione borghese<br />
ai cibi nutrienti e ben cucinati. Ho qualche<br />
dubbio sulla disposizione mentale degli italiani nei<br />
confronti della vita all’aperto. Il lunedì di Pasqua li<br />
vedo sempre uscire per pochi metri dall’autostrada<br />
e parcheggiare nelle vicinanze per gustare un pasto<br />
inquinato dagli scappamenti di mille auto.<br />
Sapete qual è la parola che più frequentemente<br />
viene pronunciata ad alta voce nei ristoranti di Napoli<br />
e dintorni dopo «il conto»? È «la porta», ogni volta<br />
che entra un nuovo cliente e non chiude dietro di<br />
sé ermeticamente l’ingresso, con il pericolo di far<br />
entrare correnti d’aria considerate più perniciose<br />
della cavalleria mongola. E come volete che si possa<br />
gustare un pranzo all’aperto quando le correnti d’aria<br />
sono viste come un attentato alle nostre famiglie?<br />
Torta di mele<br />
Da Nonna Papera<br />
alla scuola alberghiera,<br />
è il dolce-base della cucina<br />
di casa. A impreziosirlo,<br />
briciole di amaretti, uva<br />
passa, mandorle tritate,<br />
scagliette di cioccolato<br />
fondente. Nella versione<br />
"adulta" si aggiunge rum
<strong>Repubblica</strong> Nazionale 50 14/05/2006<br />
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
le tendenze<br />
Consumi culturali<br />
Tornarea casa e portarsi dietro un pezzo di felicità. Il filosofo Alain De Botton<br />
pensa che sia questo in fondo il significato di un bell’oggetto di design<br />
o di un palazzo: «Un progetto di senso in un mondo che ne ha sempre<br />
meno». Stendhal diceva che «la bellezza è la promessa della felicità».<br />
Magari uno non se lo ripete come un mantra, però uscendo dal museo<br />
sempre più spesso ci si ferma al bookshop. Per comprare il catalogo della<br />
mostra appena vista, oppure una cartolina che non verrà mai spedita, una t-shirt<br />
che dimostra che «io ci sono stato», un manifesto d’autore che farà la sua figura in<br />
salotto. Souvenir perché sono ricordi di un’esperienza, ma non chincaglierie: fare<br />
shopping in questi negozi è un gesto più delicato e forse più bisognoso d’altri. È una<br />
richiesta di bello. «Un modo di appropriarsi e di tradurre un’esperienza, spinta classica<br />
del turista», spiega Vanni Codeluppi, sociologo dei consumi. «Ma nel caso specifico,<br />
il souvenir del museo ha una griffe dal forte potere simbolico perché trasferisce<br />
nel domestico il coté<br />
alto dell’arte».<br />
Al MoMA Store di New<br />
York, che è un negozio vero<br />
e proprio tanto che sta<br />
fuori dall’edificio museale,<br />
vendono quello che<br />
dentro si può ammirare<br />
esposto sotto le luci, come<br />
la sedia in plastica Selene<br />
di Vico Magistretti<br />
(1970) che si compra per<br />
175 dollari (il modello riprodotto<br />
da Heller). Al Vitra<br />
Design Museum di<br />
Weil am Rhein, in Germania,<br />
prima opera europea<br />
di Frank O. Gehry,<br />
si trovano in vendita i<br />
pezzi di arredamento e<br />
design dei progettisti più<br />
famosi, da Alvar Aalto a<br />
Charles e Ray Eames. Costano,<br />
certo. Però per un<br />
centinaio di euro si portano<br />
via i modellini in miniatura<br />
degli oggetti più<br />
celebri disegnati da Sottsass,<br />
Mendini, De Lucchi,<br />
Pesce, Starck e molti<br />
altri. A dispetto delle apparenze,<br />
non è un acquisto<br />
riduttivo: le opere in<br />
formato mini sono uno<br />
dei sottomercati più fiorenti.<br />
Spesa di qualità, co-<br />
Il brivido di comprare<br />
un pezzo di eternità<br />
LA SCIARPA<br />
IMPRESSIONISTA<br />
Le ballerine<br />
del pittore<br />
impressionista<br />
Edgar Degas<br />
su un foulard<br />
del Metropolitan<br />
a 70 euro<br />
BERE CON STILE<br />
Bollitore firmato<br />
da Frank Gehry<br />
per Alessi e una tazza<br />
d’autore per una<br />
Shopping<br />
colazione da museo<br />
ALESSANDRA RETICO<br />
Gli oggetti di design esposti al MoMA di New<br />
York, le copie dei capolavori del Louvre<br />
o della National Gallery, oppure semplicemente<br />
i cataloghi delle mostre. Dilaga la moda<br />
di concludere le visite con gli acquisti: per portarsi<br />
a casa un po’ della bellezza appena ammirata<br />
me anche quella di prodotti<br />
non griffati e no logo<br />
(eccetto quello del museo<br />
stesso): un cappellino,<br />
una matita, una maglietta<br />
con il quadro dell’artista<br />
preferito o la tazza da tè, la<br />
sacca di tela per fare la<br />
spesa, l’ombrello.<br />
«L’ho comprato al Metropolitan di New York» fa molto chic, e qui sta la forza di quello<br />
che è anche un business. Più estero, bisogna dire, dove la tradizione dello store culturale<br />
è più antica (1890) e dove l’incrocio tra arte e mercato, così come tra fondi privati<br />
e pubblici, non ha lo stigma, la garanzia secondo altri, che ha da noi in Italia. In<br />
termini puramente numerici un paradosso: il nostro Paese, che ha la più ricca rete di<br />
musei al mondo, 4.100 tra musei e gallerie, col merchandising totalizza un giro d’affari<br />
che è appena un terzo di quello del solo Metropolitan. Circa 20milioni di euro nel<br />
2004 (ultimo dato disponibile), lo stesso che guadagna tra braccialetti e statuine il<br />
Louvre, 2 milioni in meno della National Gallery di Londra. Eppure dalla legge Ronchey<br />
nel ‘93, che prevedeva l’introduzione dei “servizi” commerciali nei musei, gli<br />
shop sono aumentati, 96 quelli più importanti.<br />
Nonostante questo il “very made in Italy” fatica a decollare dove nasce davvero:<br />
si spendono appena 9 euro per un ricordo, gli stranieri nei loro store lasciano tra i<br />
13 e 15 euro. In America, per dire, i gadget rappresentano circa il 10 per cento dei<br />
guadagni annuali. Certo, in un Paese che ha avuto Andy Warhol l’arte non poteva<br />
che tradursi anche in consumo, merce, persino giocattolo e intrattenimento. Secondo<br />
Codeluppi, «con l’effetto positivo di alzare il livello della cultura di massa e<br />
democratizzare il sapere». A Pittsburgh, nel museo dedicato all’artista pop, quasi<br />
ti confondi tra opera e riproduzione, esposizione e mercato, tra vero e finto. È quello<br />
che lui voleva, che si mischiasse tutto.<br />
da<br />
museo<br />
L’ECLISSE<br />
DI MAGISTRETTI<br />
Compasso<br />
d’oro nel ‘67,<br />
la lampada Eclisse<br />
di Vico Magistretti<br />
per Artemide<br />
si compra a poco<br />
più di cento euro
DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
T-SHIRT D’AUTORE<br />
Un’opera<br />
del pittore<br />
americano<br />
realista Andrew<br />
Wyeth riprodotta<br />
su una t-shirt<br />
A 24 dollari<br />
al Museo delle arti<br />
di Boston<br />
LA STORIA<br />
IN TESTA<br />
Dal Philadelphia<br />
Museum of Art,<br />
ricchissimo<br />
nella sezione<br />
storica, berretto<br />
“firmato”<br />
Benjamin Franklin<br />
a 22 dollari<br />
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51<br />
IL TEMPO A COLORI<br />
Uno degli orologi<br />
multicolore disegnati<br />
negli anni ‘50<br />
da George Nelson<br />
ed esposti in vari<br />
musei del mondo,<br />
si acquista anche<br />
negli shop<br />
del Noguchi Museum<br />
di New York per circa<br />
250 dollari<br />
Gae Aulenti: i negozi, se di qualità, avvicinano le grandi opere alla gente<br />
“Così l’arte diventa più laica”<br />
«I<br />
negozi nei musei non sono di per sé negativi.<br />
E il mantenimento della qualità dipende,<br />
al solito, dai gestori». L’architetto Gae Au-<br />
lenti lo vede così il fenomeno dilagante dello shop-<br />
ping nei musei.<br />
Ma cosa ha a che fare il consumo con un luogo<br />
da sempre simbolo di conservazione?<br />
«Oggi non si progetta spazio espositivo, anche<br />
importante, che non abbia il suo negozio. È diventata<br />
una regola. Il fatto è che un tempo il museo era<br />
un luogo di restauro, solidità, memoria. Adesso, in<br />
molti casi, è un semplice contenitore di eventi,<br />
piazza dove inscenare la comunicazione. Il marketing<br />
è diventato molto sensibile alle<br />
possibilità pubblicitarie di un’occasione<br />
culturale. Per questo molti si riempiono<br />
di opere effimere, installazioni,<br />
video, merce cosiddetta moderna<br />
ma che in realtà è solo transitoria.<br />
Andare a vedere una mostra è<br />
un’azione che sollecita domande.<br />
<strong>La</strong> gente trova opere e oggetti fortemente<br />
evocativi. Trova testimonianze<br />
di passato ma anche di presente,<br />
racconti di una storia che è<br />
stata ma che ancora è. Si sente al<br />
centro. Un’esperienza intellettuale e sensoriale.<br />
Che è anche possibile corteggiare».<br />
Si finisce per comprare il souvenir. Semplice<br />
feticismo consumistico o anche qualcos’altro?<br />
Non c’è forse il bisogno di appropriarsi di una conoscenza?<br />
«Al Metropolitan di New York c’è uno degli store<br />
più noti, vendono oggetti anche molto costosi.<br />
Chi compra lì lo fa da un parte per portare a casa<br />
uno status, dall’altra perché sa di trovare qualità.<br />
Il merchandising cosiddetto culturale ha spesso il<br />
pregio di garantire livelli piuttosto alti nei materiali<br />
e nel design. Da questo punto di vista l’acquisto<br />
è anche una forma di educazione alle forme e<br />
ai pensieri. <strong>La</strong> laicizzazione dei musei, quando<br />
fatta, ripeto, in modo intelligente, è una possibilità<br />
di allargamento della cultura, di democratizzazione<br />
delle esperienze. Si diventa adulti attra-<br />
verso molte maniere, e nella nostra società quella<br />
del mercato è una realtà che non va sottovalutata.<br />
<strong>La</strong> conoscenza accessibile è un dovere e una<br />
grande conquista dei nostri tempi. Non lo è la<br />
spettacolarizzazione del bello: l’idea della decorazione<br />
tout court, alla quale hanno contribuito le<br />
riviste femminili, ha fatto sì che di certi prodotti<br />
venga apprezzato solo l’effetto scenico, la marca<br />
e la griffe. Il consumo può essere invece un gesto<br />
consapevole e di forte impatto emotivo e cognitivo,<br />
ma solo se è maturo e responsabile. Non ha significato<br />
tutto ciò che è autoreferenziale, che si<br />
consuma e autofagocita. Per essere coscienti, per<br />
essere dei veri cittadini e non solo consumatori,<br />
serve molto di più».<br />
Per esempio?<br />
«Serve la città. Serve che la città sia<br />
un melange di culture, non l’orrenda<br />
categorizzazione cui sono stati sottoposti<br />
molti centri. Le banlieue parigine,<br />
per esempio. Il ghetto, dove anche<br />
la bruttezza degli edifici deve<br />
aver provocato nel tempo il rifiuto e<br />
la rabbia. O come attorno alla Bibliotheque,<br />
sempre a Parigi, schemi<br />
abitativi tagliati con l’accetta sociale.<br />
Le nostre periferie, quelle di molte altre realtà urbane<br />
e suburbane. Questo è il vero tradimento<br />
della modernità, non il mercato, non lo shopping<br />
culturale. Bisogna mischiare la gente, intrecciare<br />
i servizi, creare una vera comunicazione.<br />
Io non credo nei fantasmi del bello, credo negli<br />
edifici specie quelli pubblici, credo nella solidità<br />
e insieme apertura di un progetto, credo nell’architettura<br />
come scambio. Qualsiasi costruzione<br />
deve avere a che fare col contesto,<br />
parlargli. Anche gli oggetti diventano belli quando<br />
sanno raccontare cosa sono e a cosa servono.<br />
Non ho ancora visitato l’Ara Pacis a Roma, so che<br />
la ristrutturazione è stata contestata, ma a occhio,<br />
non mi sembra male. Il pregiudizio, pensare<br />
che il moderno non può stare con le rovine,<br />
non è mai una buona partenza per capire».<br />
(a.r.)<br />
GADGET E DESIGN<br />
Al museo del Louvre<br />
di Parigi le riproduzioni<br />
della Venere di Milo<br />
si comprano per circa<br />
100 euro; la miniatura<br />
della poltrona “Ball Chair”<br />
disegnata nel ’65<br />
da Aarnio si trova<br />
a 184 euro<br />
al Vitra Design Museum<br />
di Weil am Rhein,<br />
così come la tazza<br />
da tè disegnata<br />
da Noguchi nel ’52 ,<br />
che costa 70 euro
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />
l’incontro<br />
Dive senza tempo<br />
DARIO CRESTO-DINA<br />
MILANO<br />
IrenePapas è appena tornata dall’Hangar<br />
della Bicocca di viale<br />
Sarca. <strong>La</strong> grande e fredda pancia<br />
svuotata della vecchia Breda accoglie<br />
la mostra di Marina Abramovic e<br />
le sette Torri di Anselm Kiefer che sembrano<br />
sopravvissute a un’esplosione<br />
atomica. Ad affascinarla sono state<br />
proprio le torri celesti dell’artista tedesco<br />
che svettano e incombono dentro il<br />
buio di quella balena di ferro. <strong>La</strong> sua<br />
mente visionaria sta già accarezzando<br />
un’idea. «È Macondo», dice. Si accalora.<br />
«Devi vederla Macondo, là sotto.<br />
Non puoi non immaginarla». Alza le<br />
mani e le fa precipitare due, tre volte:<br />
pioggia, pioggia, pioggia. Quasi si riesce<br />
a scorgerla per davvero, la pioggia<br />
sopra Macondo che scende dalle sue<br />
braccia tese verso il soffitto. Lei declama<br />
austera quel famoso incipit tanto<br />
invidiato del libro di Garcia Marquez:<br />
«Molti anni dopo, di fronte al plotone<br />
di esecuzione, il colonnello Aureliano<br />
Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto<br />
pomeriggio in cui suo padre lo<br />
aveva condotto a conoscere il ghiaccio».<br />
Ha già un progetto nella testa. Lo<br />
vuole fare assolutamente, vuole mettere<br />
in scena all’Hangar Cent’anni di<br />
solitudine. Tanta è la sua determinazione,<br />
così autentica la sua gioia, che si<br />
può stare sicuri che lo realizzerà molto<br />
presto.<br />
«Vieni via con me», dice adesso. Il<br />
braccio è prensile, il sorriso è un ordine.<br />
In questo anonimo albergo milanese<br />
della zona Fiera arredato in stile anni<br />
Settanta uomini con le cravatte sbagliate<br />
e giovani donne in tailleur grigi<br />
acquistati in qualche outlet vogliono<br />
trasmettere l’impressione di essere<br />
tremendamente indaffarati. Devono<br />
essere manager, parlano a voce troppo<br />
alta, forse confidando di cogliere nell’eco<br />
delle parole una prova della propria<br />
esistenza. In mezzo a questa fre-<br />
Irene Papas<br />
nesia artificiale da formicaio urbano<br />
quella di Irene Papas è l’unica faccia<br />
che guarda. È sola. Si alza con uno scatto<br />
dalla poltrona, mi afferra il gomito e<br />
mi porta in un angolo riparato, allontanando<br />
con un gesto degli occhi il rumore<br />
inutile che la circonda.<br />
<strong>La</strong> sua bellezza è tragica, racchiude la<br />
dannazione e la gloria di tutte le età. Più<br />
tardi, dopo averla lasciata a una nuova<br />
partenza e ripensando a questo passaggio<br />
durato lo spazio di pochi secondi,<br />
capirò perché mi ha parlato con passione<br />
di Sofocle, del monologo di Elettra,<br />
dell’Edipo re, dell’immortalità di<br />
testi attraverso il rigore dei quali, ha<br />
spiegato, possiamo rileggere l’essenza<br />
di ogni nostra epoca. Passata, presente<br />
e futura. Ogni parte del suo corpo è<br />
scolpita, nulla sfuma, si piega o fugge.<br />
Le vene sul dorso delle mani, i tendini<br />
sottili del collo, i fianchi alla fine delle<br />
lunghe gambe, le rughe attorno agli occhi<br />
intensi e sempre un po’ tristi, i fili<br />
bianchi che solcano come sparute flotte<br />
il mare di capelli nerissimi. Lei guarda<br />
anche se stessa, in silenzio, come se<br />
la sua immagine si riflettesse in uno<br />
specchio agli altri invisibile, poi si domanda<br />
perché mai siamo qui, apparecchiati<br />
a questo tavolo rotondo, storto<br />
e traballante, così imperfetto e stonato.<br />
Fa il gesto di andarsene, poi torna<br />
a sedersi ridendo. «Mio padre diceva<br />
che la letteratura è finita con Goethe,<br />
perciò io che cosa posso ancora raccontare<br />
d’interessante? Credo nulla.<br />
Mi sento una moneta sul fondo di un<br />
secchio di pietre e, come se non bastasse,<br />
sono greca. È difficile, sai, parlare<br />
con i greci. Molto difficile. Possiamo<br />
rimanere qui due giorni e due notti, ma<br />
qualsiasi cosa io dirò sarà soltanto un<br />
piccolo pezzo di me. Forse autentico,<br />
forse no. Solo il mio fisico non può barare:<br />
sono alta un metro e settantotto<br />
centimetri e porto il quarantuno di<br />
scarpe».<br />
Dietro questa cortina di veli sembra<br />
esserci il piacere un po’ crudele nell’infliggere<br />
all’interlocutore il gioco di<br />
smontarsi e rimontarsi. Come la sua indimenticata<br />
Penelope dell’Odissea televisiva<br />
di Franco Rossi. C’è anche un<br />
po’ di recitazione. È un modo per restare<br />
dentro il proprio mestiere anche<br />
quando si è abbandonato il palcoscenico,<br />
cosa che lei fa da quand’era bambina.<br />
«Ho cominciato a frequentare la<br />
scuola di arte drammatica di Atene che<br />
avevo dodici anni e mezzo. Ricordo che<br />
ero già alta come adesso, solo un po’<br />
più grassa. Mi aveva spinta la curiosità,<br />
avevo accompagnato un’allieva che<br />
era mia amica. Osservai una lezione,<br />
ebbi l’impressione che l’insegnante invece<br />
di mostrarle come si usa la verità<br />
la conducesse verso la bugia. Glielo<br />
dissi: non è così che si recita. “Allora,<br />
fammi vedere tu”, mi rispose l’uomo.<br />
Quel giorno ho capito che l’arte ci insegna<br />
a non ubbidire. <strong>La</strong> mia carriera cominciò<br />
così».<br />
Irene Papas oggi ha quasi ottant’an-<br />
Ha ottant’anni, ne dimostra venti<br />
di meno. Ha lavorato con i registi<br />
più famosi, è stata Medea ed Elettra,<br />
ha aperto scuole in tutto il mondo<br />
Ma la sua vita la riassume così:<br />
“Un giorno sono<br />
diventata attrice. Ho<br />
girato un film a Cannes,<br />
poi ne ho fatti altri due<br />
o tre, sono andata<br />
in America, sono<br />
ni. Ne dimostra venti di meno. È asciutta,<br />
rapida, flessuosa, la sua stretta di<br />
mano è piena di energia. Ha lavorato<br />
con i più grandi registi del mondo, da<br />
Monicelli a Germi, da <strong>La</strong>ndis a De Oliveira,<br />
è stata Medea e Elettra, ha aperto<br />
scuole in Italia, Grecia, Portogallo e<br />
Spagna. È un monumento, un’icona<br />
per generazioni di attori. Nelle sue<br />
scuole insegna il sapere, non il lavoro.<br />
Eppure, come Beckett, dice di non essere<br />
particolarmente portata per la felicità.<br />
«<strong>La</strong> felicità? Tu conosci qualcuno<br />
che sia mortale e che sia felice? Io no.<br />
Ogni tanto sento dire: sono felice perché<br />
ho un ottimo stipendio, un po’ di<br />
soldi da parte, posso pagarmi da mangiare<br />
e l’affitto. Io non so descrivere la<br />
felicità, ma non credo sia quella. Anche<br />
se sono stata educata all’infelicità, so<br />
che la felicità da qualche parte dentro<br />
di noi ci deve essere. Nel profondo di<br />
noi. Serve qualcuno che ci aiuti a trovarla.<br />
Forse i genitori, forse i figli, forse<br />
gli amanti. Io sono molto limitata. Sono<br />
stata capace di fare soltanto un mestiere<br />
e il mio mestiere è l’unica verità<br />
che possiedo. Mi garantisce la libertà<br />
assoluta. Nella vita non ci è permesso<br />
di uccidere qualcuno che odi, sulla scena<br />
puoi farlo e se lo fai molto bene, e<br />
magari ti va di lusso, prendi pure un<br />
Oscar».<br />
Come Beckett<br />
non credo di essere<br />
molto portata<br />
per la felicità<br />
Conoscete qualcuno<br />
che sia mortale<br />
e che sia felice?<br />
Io sinceramente no<br />
tornata. Cosa altro<br />
volete che vi dica?”<br />
Più del passato l’appassiona il futuro,<br />
dove si fa strada un progetto: mettere<br />
in scena “Cent’anni di solitudine”<br />
FOTO GAMMA<br />
<strong>La</strong> sua memoria è affilata. È un coltello<br />
che infierisce sul passato. Lo scarnifica<br />
fino a ridurlo allo scheletro. «Un<br />
giorno è successo che sono diventata<br />
un’attrice di cinema. Avevo vent’anni.<br />
Ho girato un film a Cannes, poi ne ho<br />
fatti altri due o tre, sono andata in America<br />
e sono tornata. Che cosa vuoi che ti<br />
dica di più? Mi restano pochi ricordi di<br />
quella esperienza, non ho bisogno del<br />
mio passato. Come tutti gli attori ho<br />
una memoria breve, se mi portassi addosso<br />
il peso di tutti i personaggi che ho<br />
interpretato non riuscirei a camminare».<br />
Dice che dentro a ciascuno di noi<br />
rimane soltanto la terra nella quale ci è<br />
capitato di nascere. Proprio la terra che<br />
abbiamo calpestato e che ci ha sporcato<br />
le mani. L’odore dei luoghi, delle<br />
persone care, il colore viola di un cielo<br />
attraversato da un temporale estivo, la<br />
fronda di un albero che abbiamo scorto<br />
dalla finestra della nostra stanza, la<br />
curva di un sentiero nel bosco. «È la<br />
memoria dell’infanzia l’unica che ci<br />
portiamo davvero sino alla fine dei nostri<br />
giorni, fino a quando chiuderemo<br />
gli occhi e li chiuderemo su quel tempo<br />
lontano ma felicissimo. Io spero di morire<br />
così, finalmente felice». Fa la faccia<br />
da paura. «Dopo, quando sarò sottoterra,<br />
gli occhi li riaprirò. Te lo giuro.<br />
Voglio vedere se i vermi che mi mangeranno<br />
parleranno in greco oppure in<br />
italiano. Credimi, alla morte non penso<br />
mai. Ricordo che lo facevo a vent’anni<br />
e il suo pensiero mi terrorizzava.<br />
Piangevo, non potevo accettare l’idea<br />
che la morte mi portasse via l’anima.<br />
Ora so di camminare su un filo, sento le<br />
campane suonare in lontananza, ma<br />
sono una buona equilibrista. Conosco<br />
il filo. Sono una vecchia signora per fortuna<br />
ancora sana che dentro si sente o<br />
tenta di sentirsi una bambina perché<br />
assolutamente priva della saggezza degli<br />
anziani. Io non sono una anziana...<br />
sono una vecchia bambina».<br />
Irene, che ha mantenuto il cognome<br />
del marito, il regista Alkis Papas, sposato<br />
nel 1943 e dal quale si è separata<br />
quattro anni dopo, è una viaggiatrice<br />
solitaria. Non possiede case, la casa nel<br />
senso che la maggior parte di noi dà al<br />
posto in cui stare. «Vivo dentro la mia<br />
pelle, trascino valigie tra la Grecia e l’Italia.<br />
Eppure le case mi piacciono molto.<br />
Avrei desiderato diventare un architetto.<br />
Ne ho costruite tante di case, appena<br />
terminate le ho lasciate tutte come<br />
se fossi arrivata alla fine di uno spettacolo.<br />
Il prossimo passo della mia professione<br />
sarà infatti la scenografia».<br />
Racconta che quando ha cominciato a<br />
sentirsi inutile si è attaccata alle tragedie.<br />
Alla mitologia. Dice proprio così:<br />
attaccata. Il cinema non le piace più da<br />
tempo. Troppi remake americani di<br />
vecchi film italiani impomatati con il<br />
gel, poche idee, nessuna ideologia, pochissime<br />
speranze, fantasia senza bellezza,<br />
nulla che sopravviva al tumulto<br />
del tempo. «Nel teatro, invece, non bisogna<br />
essere moderni a tutti i costi. A<br />
teatro l’uomo è nudo, i testi delle grandi<br />
tragedie greche nella loro classicità<br />
sono modernissimi. Di più, predicono<br />
il nostro futuro». A Siracusa il suo Antigone<br />
lo hanno visto quasi novantamila<br />
spettatori. Molti di loro sono arrivati alla<br />
fine dello spettacolo con le lacrime<br />
agli occhi. «Il teatro è fatto per le persone<br />
semplici, per gli ignoranti, cioè coloro<br />
che non sanno. Il teatro è come le<br />
fiabe raccontate dalla nonna. Non c’è<br />
assolutamente l’esigenza di metterci<br />
dentro nulla per richiamare, per esempio,<br />
ciò che accade in Iraq, questo lo lascio<br />
fare ai giornali che lo sanno fare<br />
meglio. Nell’Antigone c’è l’immensità<br />
dell’ingiustizia. C’è già tutto».<br />
A una donna che ha sempre inseguito<br />
la pienezza, i vuoti devono avere<br />
creato molte sofferenze. Le sue rinunce<br />
sono state pesanti. Nella finzione è<br />
stata tante volte madre. Non nella vita.<br />
«Avrei voluto dei bambini, certo, ma la<br />
natura deve aver pensato che con me<br />
aveva compiuto un capolavoro e che<br />
era meglio fermarsi». Dice che non ha<br />
avuto migliore destino con gli uomini.<br />
«Ho amato molto. Mai stata infedele,<br />
mai messo le corna ai miei compagni.<br />
Ma credo di non essere mai stata amata.<br />
Io amavo e nello stesso tempo avevo<br />
paura di amare, gli uomini lo avvertivano<br />
e si ritraevano. Io cercavo un alleato,<br />
loro la complicità. <strong>La</strong> complicità<br />
è un crimine e io detesto i criminali. Oggi<br />
l’amore rischia di diventare un vizio,<br />
una giostra en travesti. Grandi bocche,<br />
grandi tette, grandi culi, una sorta di<br />
<strong>La</strong>s Vegas. Dall’impero dei sensi a quello<br />
del kitsch».<br />
Le domando un giudizio sulla politica<br />
italiana. Risponde che non è solo l’Italia<br />
a preoccuparla, il mondo intero è<br />
cambiato in peggio: «Sembra sia più<br />
difficile essere democratici che fascisti...».<br />
Mi spiega che incontra molta<br />
gente triste. Le confessano di non avere<br />
opinioni e di non sapere che cos’è la<br />
bellezza. Lei, invece, lo sa: «Niente può<br />
essere più bello dell’Edipo re». Viene<br />
voglia di ricominciare da lì.<br />
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