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Renzo Lodoli - La Repubblica

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52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

l’incontro<br />

Dive senza tempo<br />

DARIO CRESTO-DINA<br />

MILANO<br />

IrenePapas è appena tornata dall’Hangar<br />

della Bicocca di viale<br />

Sarca. <strong>La</strong> grande e fredda pancia<br />

svuotata della vecchia Breda accoglie<br />

la mostra di Marina Abramovic e<br />

le sette Torri di Anselm Kiefer che sembrano<br />

sopravvissute a un’esplosione<br />

atomica. Ad affascinarla sono state<br />

proprio le torri celesti dell’artista tedesco<br />

che svettano e incombono dentro il<br />

buio di quella balena di ferro. <strong>La</strong> sua<br />

mente visionaria sta già accarezzando<br />

un’idea. «È Macondo», dice. Si accalora.<br />

«Devi vederla Macondo, là sotto.<br />

Non puoi non immaginarla». Alza le<br />

mani e le fa precipitare due, tre volte:<br />

pioggia, pioggia, pioggia. Quasi si riesce<br />

a scorgerla per davvero, la pioggia<br />

sopra Macondo che scende dalle sue<br />

braccia tese verso il soffitto. Lei declama<br />

austera quel famoso incipit tanto<br />

invidiato del libro di Garcia Marquez:<br />

«Molti anni dopo, di fronte al plotone<br />

di esecuzione, il colonnello Aureliano<br />

Buendia si sarebbe ricordato di quel remoto<br />

pomeriggio in cui suo padre lo<br />

aveva condotto a conoscere il ghiaccio».<br />

Ha già un progetto nella testa. Lo<br />

vuole fare assolutamente, vuole mettere<br />

in scena all’Hangar Cent’anni di<br />

solitudine. Tanta è la sua determinazione,<br />

così autentica la sua gioia, che si<br />

può stare sicuri che lo realizzerà molto<br />

presto.<br />

«Vieni via con me», dice adesso. Il<br />

braccio è prensile, il sorriso è un ordine.<br />

In questo anonimo albergo milanese<br />

della zona Fiera arredato in stile anni<br />

Settanta uomini con le cravatte sbagliate<br />

e giovani donne in tailleur grigi<br />

acquistati in qualche outlet vogliono<br />

trasmettere l’impressione di essere<br />

tremendamente indaffarati. Devono<br />

essere manager, parlano a voce troppo<br />

alta, forse confidando di cogliere nell’eco<br />

delle parole una prova della propria<br />

esistenza. In mezzo a questa fre-<br />

Irene Papas<br />

nesia artificiale da formicaio urbano<br />

quella di Irene Papas è l’unica faccia<br />

che guarda. È sola. Si alza con uno scatto<br />

dalla poltrona, mi afferra il gomito e<br />

mi porta in un angolo riparato, allontanando<br />

con un gesto degli occhi il rumore<br />

inutile che la circonda.<br />

<strong>La</strong> sua bellezza è tragica, racchiude la<br />

dannazione e la gloria di tutte le età. Più<br />

tardi, dopo averla lasciata a una nuova<br />

partenza e ripensando a questo passaggio<br />

durato lo spazio di pochi secondi,<br />

capirò perché mi ha parlato con passione<br />

di Sofocle, del monologo di Elettra,<br />

dell’Edipo re, dell’immortalità di<br />

testi attraverso il rigore dei quali, ha<br />

spiegato, possiamo rileggere l’essenza<br />

di ogni nostra epoca. Passata, presente<br />

e futura. Ogni parte del suo corpo è<br />

scolpita, nulla sfuma, si piega o fugge.<br />

Le vene sul dorso delle mani, i tendini<br />

sottili del collo, i fianchi alla fine delle<br />

lunghe gambe, le rughe attorno agli occhi<br />

intensi e sempre un po’ tristi, i fili<br />

bianchi che solcano come sparute flotte<br />

il mare di capelli nerissimi. Lei guarda<br />

anche se stessa, in silenzio, come se<br />

la sua immagine si riflettesse in uno<br />

specchio agli altri invisibile, poi si domanda<br />

perché mai siamo qui, apparecchiati<br />

a questo tavolo rotondo, storto<br />

e traballante, così imperfetto e stonato.<br />

Fa il gesto di andarsene, poi torna<br />

a sedersi ridendo. «Mio padre diceva<br />

che la letteratura è finita con Goethe,<br />

perciò io che cosa posso ancora raccontare<br />

d’interessante? Credo nulla.<br />

Mi sento una moneta sul fondo di un<br />

secchio di pietre e, come se non bastasse,<br />

sono greca. È difficile, sai, parlare<br />

con i greci. Molto difficile. Possiamo<br />

rimanere qui due giorni e due notti, ma<br />

qualsiasi cosa io dirò sarà soltanto un<br />

piccolo pezzo di me. Forse autentico,<br />

forse no. Solo il mio fisico non può barare:<br />

sono alta un metro e settantotto<br />

centimetri e porto il quarantuno di<br />

scarpe».<br />

Dietro questa cortina di veli sembra<br />

esserci il piacere un po’ crudele nell’infliggere<br />

all’interlocutore il gioco di<br />

smontarsi e rimontarsi. Come la sua indimenticata<br />

Penelope dell’Odissea televisiva<br />

di Franco Rossi. C’è anche un<br />

po’ di recitazione. È un modo per restare<br />

dentro il proprio mestiere anche<br />

quando si è abbandonato il palcoscenico,<br />

cosa che lei fa da quand’era bambina.<br />

«Ho cominciato a frequentare la<br />

scuola di arte drammatica di Atene che<br />

avevo dodici anni e mezzo. Ricordo che<br />

ero già alta come adesso, solo un po’<br />

più grassa. Mi aveva spinta la curiosità,<br />

avevo accompagnato un’allieva che<br />

era mia amica. Osservai una lezione,<br />

ebbi l’impressione che l’insegnante invece<br />

di mostrarle come si usa la verità<br />

la conducesse verso la bugia. Glielo<br />

dissi: non è così che si recita. “Allora,<br />

fammi vedere tu”, mi rispose l’uomo.<br />

Quel giorno ho capito che l’arte ci insegna<br />

a non ubbidire. <strong>La</strong> mia carriera cominciò<br />

così».<br />

Irene Papas oggi ha quasi ottant’an-<br />

Ha ottant’anni, ne dimostra venti<br />

di meno. Ha lavorato con i registi<br />

più famosi, è stata Medea ed Elettra,<br />

ha aperto scuole in tutto il mondo<br />

Ma la sua vita la riassume così:<br />

“Un giorno sono<br />

diventata attrice. Ho<br />

girato un film a Cannes,<br />

poi ne ho fatti altri due<br />

o tre, sono andata<br />

in America, sono<br />

ni. Ne dimostra venti di meno. È asciutta,<br />

rapida, flessuosa, la sua stretta di<br />

mano è piena di energia. Ha lavorato<br />

con i più grandi registi del mondo, da<br />

Monicelli a Germi, da <strong>La</strong>ndis a De Oliveira,<br />

è stata Medea e Elettra, ha aperto<br />

scuole in Italia, Grecia, Portogallo e<br />

Spagna. È un monumento, un’icona<br />

per generazioni di attori. Nelle sue<br />

scuole insegna il sapere, non il lavoro.<br />

Eppure, come Beckett, dice di non essere<br />

particolarmente portata per la felicità.<br />

«<strong>La</strong> felicità? Tu conosci qualcuno<br />

che sia mortale e che sia felice? Io no.<br />

Ogni tanto sento dire: sono felice perché<br />

ho un ottimo stipendio, un po’ di<br />

soldi da parte, posso pagarmi da mangiare<br />

e l’affitto. Io non so descrivere la<br />

felicità, ma non credo sia quella. Anche<br />

se sono stata educata all’infelicità, so<br />

che la felicità da qualche parte dentro<br />

di noi ci deve essere. Nel profondo di<br />

noi. Serve qualcuno che ci aiuti a trovarla.<br />

Forse i genitori, forse i figli, forse<br />

gli amanti. Io sono molto limitata. Sono<br />

stata capace di fare soltanto un mestiere<br />

e il mio mestiere è l’unica verità<br />

che possiedo. Mi garantisce la libertà<br />

assoluta. Nella vita non ci è permesso<br />

di uccidere qualcuno che odi, sulla scena<br />

puoi farlo e se lo fai molto bene, e<br />

magari ti va di lusso, prendi pure un<br />

Oscar».<br />

Come Beckett<br />

non credo di essere<br />

molto portata<br />

per la felicità<br />

Conoscete qualcuno<br />

che sia mortale<br />

e che sia felice?<br />

Io sinceramente no<br />

tornata. Cosa altro<br />

volete che vi dica?”<br />

Più del passato l’appassiona il futuro,<br />

dove si fa strada un progetto: mettere<br />

in scena “Cent’anni di solitudine”<br />

FOTO GAMMA<br />

<strong>La</strong> sua memoria è affilata. È un coltello<br />

che infierisce sul passato. Lo scarnifica<br />

fino a ridurlo allo scheletro. «Un<br />

giorno è successo che sono diventata<br />

un’attrice di cinema. Avevo vent’anni.<br />

Ho girato un film a Cannes, poi ne ho<br />

fatti altri due o tre, sono andata in America<br />

e sono tornata. Che cosa vuoi che ti<br />

dica di più? Mi restano pochi ricordi di<br />

quella esperienza, non ho bisogno del<br />

mio passato. Come tutti gli attori ho<br />

una memoria breve, se mi portassi addosso<br />

il peso di tutti i personaggi che ho<br />

interpretato non riuscirei a camminare».<br />

Dice che dentro a ciascuno di noi<br />

rimane soltanto la terra nella quale ci è<br />

capitato di nascere. Proprio la terra che<br />

abbiamo calpestato e che ci ha sporcato<br />

le mani. L’odore dei luoghi, delle<br />

persone care, il colore viola di un cielo<br />

attraversato da un temporale estivo, la<br />

fronda di un albero che abbiamo scorto<br />

dalla finestra della nostra stanza, la<br />

curva di un sentiero nel bosco. «È la<br />

memoria dell’infanzia l’unica che ci<br />

portiamo davvero sino alla fine dei nostri<br />

giorni, fino a quando chiuderemo<br />

gli occhi e li chiuderemo su quel tempo<br />

lontano ma felicissimo. Io spero di morire<br />

così, finalmente felice». Fa la faccia<br />

da paura. «Dopo, quando sarò sottoterra,<br />

gli occhi li riaprirò. Te lo giuro.<br />

Voglio vedere se i vermi che mi mangeranno<br />

parleranno in greco oppure in<br />

italiano. Credimi, alla morte non penso<br />

mai. Ricordo che lo facevo a vent’anni<br />

e il suo pensiero mi terrorizzava.<br />

Piangevo, non potevo accettare l’idea<br />

che la morte mi portasse via l’anima.<br />

Ora so di camminare su un filo, sento le<br />

campane suonare in lontananza, ma<br />

sono una buona equilibrista. Conosco<br />

il filo. Sono una vecchia signora per fortuna<br />

ancora sana che dentro si sente o<br />

tenta di sentirsi una bambina perché<br />

assolutamente priva della saggezza degli<br />

anziani. Io non sono una anziana...<br />

sono una vecchia bambina».<br />

Irene, che ha mantenuto il cognome<br />

del marito, il regista Alkis Papas, sposato<br />

nel 1943 e dal quale si è separata<br />

quattro anni dopo, è una viaggiatrice<br />

solitaria. Non possiede case, la casa nel<br />

senso che la maggior parte di noi dà al<br />

posto in cui stare. «Vivo dentro la mia<br />

pelle, trascino valigie tra la Grecia e l’Italia.<br />

Eppure le case mi piacciono molto.<br />

Avrei desiderato diventare un architetto.<br />

Ne ho costruite tante di case, appena<br />

terminate le ho lasciate tutte come<br />

se fossi arrivata alla fine di uno spettacolo.<br />

Il prossimo passo della mia professione<br />

sarà infatti la scenografia».<br />

Racconta che quando ha cominciato a<br />

sentirsi inutile si è attaccata alle tragedie.<br />

Alla mitologia. Dice proprio così:<br />

attaccata. Il cinema non le piace più da<br />

tempo. Troppi remake americani di<br />

vecchi film italiani impomatati con il<br />

gel, poche idee, nessuna ideologia, pochissime<br />

speranze, fantasia senza bellezza,<br />

nulla che sopravviva al tumulto<br />

del tempo. «Nel teatro, invece, non bisogna<br />

essere moderni a tutti i costi. A<br />

teatro l’uomo è nudo, i testi delle grandi<br />

tragedie greche nella loro classicità<br />

sono modernissimi. Di più, predicono<br />

il nostro futuro». A Siracusa il suo Antigone<br />

lo hanno visto quasi novantamila<br />

spettatori. Molti di loro sono arrivati alla<br />

fine dello spettacolo con le lacrime<br />

agli occhi. «Il teatro è fatto per le persone<br />

semplici, per gli ignoranti, cioè coloro<br />

che non sanno. Il teatro è come le<br />

fiabe raccontate dalla nonna. Non c’è<br />

assolutamente l’esigenza di metterci<br />

dentro nulla per richiamare, per esempio,<br />

ciò che accade in Iraq, questo lo lascio<br />

fare ai giornali che lo sanno fare<br />

meglio. Nell’Antigone c’è l’immensità<br />

dell’ingiustizia. C’è già tutto».<br />

A una donna che ha sempre inseguito<br />

la pienezza, i vuoti devono avere<br />

creato molte sofferenze. Le sue rinunce<br />

sono state pesanti. Nella finzione è<br />

stata tante volte madre. Non nella vita.<br />

«Avrei voluto dei bambini, certo, ma la<br />

natura deve aver pensato che con me<br />

aveva compiuto un capolavoro e che<br />

era meglio fermarsi». Dice che non ha<br />

avuto migliore destino con gli uomini.<br />

«Ho amato molto. Mai stata infedele,<br />

mai messo le corna ai miei compagni.<br />

Ma credo di non essere mai stata amata.<br />

Io amavo e nello stesso tempo avevo<br />

paura di amare, gli uomini lo avvertivano<br />

e si ritraevano. Io cercavo un alleato,<br />

loro la complicità. <strong>La</strong> complicità<br />

è un crimine e io detesto i criminali. Oggi<br />

l’amore rischia di diventare un vizio,<br />

una giostra en travesti. Grandi bocche,<br />

grandi tette, grandi culi, una sorta di<br />

<strong>La</strong>s Vegas. Dall’impero dei sensi a quello<br />

del kitsch».<br />

Le domando un giudizio sulla politica<br />

italiana. Risponde che non è solo l’Italia<br />

a preoccuparla, il mondo intero è<br />

cambiato in peggio: «Sembra sia più<br />

difficile essere democratici che fascisti...».<br />

Mi spiega che incontra molta<br />

gente triste. Le confessano di non avere<br />

opinioni e di non sapere che cos’è la<br />

bellezza. Lei, invece, lo sa: «Niente può<br />

essere più bello dell’Edipo re». Viene<br />

voglia di ricominciare da lì.<br />

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