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Renzo Lodoli - La Repubblica

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<strong>Repubblica</strong> Nazionale 35 14/05/2006<br />

DOMENICA 14 MAGGIO 2006<br />

ILLUSTRAZIONI DI MIRCO TANGHERLINI<br />

DIMENTICATO<br />

Un primissimo<br />

piano di piedi<br />

e gambe<br />

del campione<br />

brasiliano<br />

Ronaldinho<br />

I suoi dribbling<br />

capaci<br />

di mandare in tilt<br />

le difese<br />

hanno ridato<br />

vigore<br />

a un gesto<br />

atletico<br />

dimenticato<br />

I l<br />

IO, DANZATORE DI GINGA NELL’AREA DI RIGORE<br />

calcio è la mia vita. Solo a guardarlo, solo a pensarci, mi sento<br />

motivato. Sono nato con un pallone vicino a me in una fa-<br />

miglia che amava il calcio. <strong>La</strong> mia famiglia amava anche la mu-<br />

sica. Sono cresciuto così, a ritmo di musica e di calcio.<br />

<strong>La</strong> ginga, in brasiliano, è l’arte del movimento. È<br />

ciò che ci ispira ogni qual volta dobbiamo muoverci<br />

in modo creativo, la musica ha ginga e tutto ciò<br />

che ha a che fare con la musica ha a che fare con<br />

ginga. Non è solo questione di musica. Ginga è<br />

l’arte del movimento anche quando gioco a calcio. Nel<br />

calcio è il dribbling, è il cambio di velocità, è ciò che creo<br />

per confondere l’avversario. Tutti noi abbiamo uno stile<br />

diverso nel ballare, uno stile che cambiamo nel corso del tempo<br />

sviluppando la nostra ginga. E così succede anche nel calcio.<br />

Musica e calcio. Dalla mia famiglia al campo di gioco. Sono un<br />

giocatore che adora il dribbling ed il movimento del dribbling,<br />

RONALDINHO<br />

perché ho la ginga dentro. Non sono l’unico giocatore che ha questo<br />

dono. Probabilmente ognuno ha qualcosa di questo tipo dentro<br />

di sé, in misura diversa. Solo che noi brasiliani ne abbiamo di<br />

più, amiamo la musica, siamo più sorridenti e felici, abbiamo<br />

più ritmo. Non so, forse la verità è che ognuno ha la propria<br />

ginga, e basta.<br />

Per esempio a me piace molto veder giocare Thierry Henry,<br />

un giocatore che ha una ginga molto diversa ma altrettanto<br />

bella e spettacolare. Ma dirò di più. Forse ogni dribbling ha<br />

una sua ginga particolare, diversa dalle altre, irripetibile. Dipende<br />

dal momento.<br />

Tutto questo è molto istintivo. Non bisogna pensare che<br />

prediligo una bella giocata o un movimento spettacolare a qualcosa<br />

di efficace. Voglio sempre dare il meglio. Per vincere con la<br />

mia squadra, Barcellona o Brasile che sia. Se poi il mio dribbling,<br />

la mia ginga, mi aiuta a farlo, beh, tanto meglio.<br />

Quel gesto aristocratico<br />

che consacra il fuoriclasse<br />

CRUYFF MICHELE SERRA<br />

ZIDANE<br />

Johan Cruyff, leader dell’Olanda<br />

del “calcio totale” anni Settanta,<br />

aggirava così i difensori<br />

che frenavano la sua corsa al gol<br />

Nonso se usi ancora. Ma quando ero ragazzino, a Milano, nelle partite<br />

ai giardinetti o nei piazzali, i dribblomani venivano soprannominati,<br />

immancabilmente, «Veneziano» o «Venezia». <strong>La</strong> probabile<br />

origine del termine stava, io credo, nel rovesciamento ironico<br />

della frase dialettale veneta «fasso tuto mi», faccio tutto da<br />

me. Ed era un epiteto parecchio infamante, un rimprovero che<br />

coinvolgeva, oltre all’abilità sportiva, anche l’onore. Gridare a uno «Venezia!»,<br />

tra noi ragazzini, equivaleva a dirgli «sei solo un montato che nel patetico tentativo<br />

di farsi notare perde la palla e fa perdere la partita ai suoi compagni di<br />

squadra, che pur se più umili e generosi hanno fatto l’errore nefasto di ammettere<br />

nei loro ranghi un vanesio par tuo».<br />

I tipi classici di «Venezia» erano più o meno due. Il primo: l’innamorato del<br />

dribbling vero e proprio, il monomaniaco ossessivo che considera la partita nel<br />

suo complesso solo l’inutile e pletorica cornice dell’unico gesto sportivo meritevole<br />

di attenzione, scartare l’avversario palla al piede, infilzarlo nel duello individuale,<br />

e dunque tenta di esibirsi nel dribbling in ogni parte del campo, foss’anche<br />

davanti al suo portiere, non appena abbia il pallone a disposizione.<br />

Costui, in genere, è uno specialista. Riesce a inanellare anche due dribbling<br />

vincenti di seguito prima di sbagliare il terzo. <strong>La</strong> sua presenza in squadra è seccante<br />

ma non sempre rovinosa: a volte riesce addirittura a segnare o a far segnare,<br />

sia pure per lo sbocco fortunoso di una sua avventata serpentina. Riesce,<br />

insomma, a mantenere vivo il sospetto che abbia qualche talento. E spesso lo<br />

ha davvero, anche se ne fa un uso narcisista e dissennato.<br />

Il secondo tipo di «Venezia», molto più pericoloso e anche molto più comune,<br />

è il tipico giocatore incapace di liberarsi del pallone non per narcisismo, ma per<br />

totale mancanza di visione del gioco. Disfarsi della palla, semplicemente, è cosa<br />

che esula dalle sue facoltà, e dunque è costretto, per darsi un tono, a ingaggiare a<br />

testa bassa, in un mulinare furioso di ginocchia crostolose e scarpe sfondate, uno<br />

o più dribbling disperati, in un vortice di polvere dentro il quale le urla disperate<br />

dei compagni («passaaaa! passaaaa!») arrivano lontanissime, e inesaudibili.<br />

Questo secondo tipo di dribblomane, nelle partite da giardinetto ma non solo,<br />

è la più micidiale jattura che possa capitare ad una squadra di calcio. Come<br />

il giocatore di poker costretto al bluff perché non ha mai in mano mezza carta<br />

decente, il calciatore in questione è obbligato a giocare costantemente sopra le<br />

righe, e al di sopra dei suoi mezzi, solo per nascondere di essere del tutto inadeguato<br />

alla partita in corso. Il dribbling per lui non è una risorsa, è una condanna.<br />

Lo fa perché non saprebbe come concludere altrimenti la sua azione, perché,<br />

ignorando come legarsi rapidamente alle geometrie dell’azione collettiva,<br />

si trova sempre circondato da nugoli di avversari. Per lui il dribbling è un culo di<br />

sacco, un vicolo cieco, un budello nel quale è andato a ficcarsi per pura inettitudine<br />

e cocciutaggine, come Custer a Little Big Horne. E anche se ha la faccia<br />

tosta di simulare — con una mossa, un passetto, uno sguardo beffardo — qualcosa<br />

che gli dia tono, si capisce benissimo che sta soffrendo. Che non è lui che<br />

ha scelto il dribbling. È il dribbling che ha scelto lui.<br />

Passando dall’epica da giardinetto alla cosiddetta scienza del calcio adulto,<br />

e considerando che, dopotutto, le differenze tra i due ambiti non sono poi così<br />

radicali, direi dunque che i dribbling si dividono in due categorie fondamentali:<br />

quelli attivi e quelli passivi. Quelli effettuati per scelta e per godimento, quelli<br />

effettuati per costrizione e disperazione. Il primo dribbling è patrimonio<br />

esclusivo dei fuoriclasse e di pochi campioni (non tutti). È padronanza suprema<br />

del pallone e del campo, scelta consapevole dell’avversario da affrontare a<br />

tu per tu, trasformandolo genialmente da potenziale ostacolo a punto di riferimento<br />

della propria traiettoria: come — voglio dire — se l’avversario dribblato<br />

ti aiuti, ti spiani la strada. Come se fosse lì in qualità di piolo al quale agganciarsi<br />

momentaneamente per riprendere slancio, e proseguire trionfalmente la<br />

strada. Esempio immortale, Maradona che dribbla l’intera Inghilterra ai Mondiali<br />

del Messico, giocatore dopo giocatore, e ogni maglia bianca diventa lo scalino<br />

di una trionfale scalata.<br />

Il secondo tipo di dribbling, al contrario, è la condanna dei mediocri, il ripiego<br />

dei pasticcioni, l’ingorgo degli avventati. Molti attaccanti, anche famosi, ci si<br />

ritrovano impigliati perché avevano seguito l’azione dei compagni con affanno<br />

e in ritardo, o perché non avevano saputo restituire la palla in tempo, o tirare<br />

in porta quando dovuto.<br />

Il pubblico capisce al volo quando il dribbling è al servizio del giocatore e<br />

quando è il giocatore al servizio del dribbling. Nel primo caso, gli spalti godono<br />

i brevi istanti che precedono il tentativo, e anche se il dribbling dovesse fallire<br />

(raramente), rimangono sereni aspettando il prossimo. Ma nel secondo caso,<br />

invece, anche se il dribbling dovesse riuscire (raramente), il pubblico si allarma,<br />

non è tranquillo: sa che è andata bene, stavolta, ma sa anche che quel dribbling<br />

è stato un espediente, un’emergenza, un reggersi l’anima con i denti.<br />

In seguito a quanto detto fin qui, trovo lodevoli quei giocatori (esempio classico:<br />

Vieri) che, nella consapevolezza di non saper dribblare nemmeno un paracarro,<br />

neanche ci provano. Tentano di tirare dritto, accettano l’ingaggio spalla<br />

a spalla, addirittura sparacchiano verso la rete da posizioni assurde, ma non<br />

oserebbero mai ingannare il pubblico e se stessi fingendo un dribbling. I baritoni<br />

non hanno in gola i “do di petto”. E i pesi massimi — tranne Clay, ma di Clay<br />

ce n’è stato uno in tutta la storia universale — non hanno il gioco di gambe delle<br />

ballerine del Crazy Horse.<br />

Benissimo, naturalmente, anche quegli altri giocatori (pochi, i fuoriclasse e<br />

una ristretta schiera di campioni) che invece il dribbling se lo scelgono, e possono<br />

permetterselo, e lo praticano certamente per diletto estetico, ma soprattutto<br />

per utilità tattica, perché saltare un avversario, nel calcio corto e taglia-spazi<br />

di oggi, spesso significa aprirsi la strada che porta al gol.<br />

Sarebbero guai seri, invece, se il risorgente fascino del dribbling dovesse cogliere,<br />

come una moda inopportuna e stolta, anche quelli che non se lo possono<br />

proprio permettere. Niente sarebbe più patetico che veder giocare “alla Ronaldinho”<br />

onesti podisti, invaghiti di quanto si mostra negli spot. Farebbero la<br />

figura di quelle corpulente signore e signorine che si lasciano irretire dalle campagne<br />

pubblicitarie, e tentano di stripparsi in pantaloni aderentissimi. Il dribbling<br />

è aristocratico, inutile illudersi. È stratagemma per pochi. Arte difficile. Alta<br />

cultura, e non esiste una versione pret-à-porter.<br />

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35<br />

Zinedine Zidane, detto Zizou,<br />

ha guidato la Francia mondiale<br />

1998 e ora gioca nel Real<br />

Madrid. Ecco il suo dribbling

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