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francobeat Leon pauL winter - Sentireascoltare

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attento, emerge che alle cadenze iperaccelerate degli<br />

esordi ha fatto posto un lirismo folk-wave tutto Win Butler,<br />

magari filtrato attraverso la sua analoga scoperta del<br />

folk di matrice springsteeniana, con la sola di sostituire<br />

il Boss con Billy Bragg giusto per vicinanza geografica<br />

(Hate For The Island). “Cresceranno” è l’auspicio con cui<br />

tre anni fa chiudevamo la recensione del debutto: in<br />

effetti Gareth e gli altri sei Campesinos sono cresciuti,<br />

e sono diventati gli Arcade Fire. Non c’è che dire, il percorso<br />

di evoluzione è del tutto coerente, nel guardare<br />

al Canada come stella polare assoluta.<br />

E la personalità? Ci sarebbe, e occorre scavare nei testi<br />

ma è difficile che emerga da sé, in un set così preordinato.<br />

Per cui sì, tutto a posto, tutto bello, tutto più<br />

o meno confermato. Guardate pure a questo disco se<br />

volete quella cosa. Ma aspettarsi altro, aspettarsi di meglio,<br />

non è il caso.<br />

(6.7/10)<br />

antonio PuGlia<br />

loSt triBe - loSt triBe (BlinD ProPhet,<br />

ottoBre 2011)<br />

Genere: Goth punk<br />

Neanche il punk americano più intransigente ed incompromissorio,<br />

quello tutto chiodi di pelle, borchie e<br />

trucide toppe crust, è rimasto insensibile al revival 80’s<br />

che da qualche anno a questa parte sta facendo la fortuna<br />

di label come Sacred Bones fin giù all’etichetta più<br />

misconosciuta.<br />

Lo dimostrano i Lost Tribe, nuova band formata da<br />

membri di gruppi hardcore a stelle&strisce come SSR,<br />

Syndrome e Aghast alle prese con un sound ben più tetro<br />

a base di forti dosaggi di T.S.O.L., Christian Death e<br />

primissimi Killing Joke. Già citati su queste pagine grazie<br />

a The Dawn, la cassettina di debutto, i ragazzi in nero<br />

della Virginia arrivano al full-length per la Blind Prophet<br />

di Sean Ragon (leader dei Cult Of Youth), label già artefice<br />

dell’edizione in vinile degli album di Art Abscons e<br />

Mueran Humanos.<br />

Se in occasione della tape avevamo parlato di pezzi<br />

dark-punk in bilico tra tensione hardcore e macabro<br />

lirismo goth, Lost Tribe riprende quattro di quei cinque<br />

brani, appesantendo e inspessendo il suono, così da<br />

risultare ancora più greve e viaggiare di gran carriera<br />

su binari a dir poco scuri dove basso e batteria corrono<br />

minacciosi come scariche elettriche, chitarre e tastiere<br />

erigono fatiscenti cattedrali sonore e la voce è un sermone<br />

intriso di mestizia, un copione lirico a base di desolazione<br />

e macabro surrealismo.<br />

Per tutti coloro che, pur all’interno del vasto calderone<br />

wave-revival, sentivano la mancanza di queste sonori-<br />

tà al contempo tetre e aggressive i Lost Tribe sono un<br />

ascolto obbligato e questo debutto lo dimostra senza<br />

indugi.<br />

(7.3/10)<br />

anDrea naPoli<br />

lou reeD/MetalliCa - lulu (univerSal,<br />

noveMBre 2011)<br />

Genere: rock opera<br />

Signore e signori, habemus monstrum. Se ne è già parlato<br />

e se ne parlerà ancora tanto, di Lulu. Chissà perché,<br />

poi. “Una collaborazione insolita sarebbe stata tra Metallica<br />

e Cher. Questa è una collaborazione ovvia“, spiega<br />

Lou. Che evidentemente ha perso il pelo ma non il vizio,<br />

e chi di voi si sta ancora grattando la testa ha evidentemente<br />

dimenticato che questo signore quasi settantenne<br />

è lo stesso di Metal Machine Music. Berlin. The Bells.<br />

The Raven.European Son. Sister Ray. Meditation Music (il<br />

disco elettronico che nessuno ha ascoltato). Del maestro<br />

di Tai Chi sul palco. Dobbiamo continuare? No di certo.<br />

Allora, Lulu. Che, anzitutto, non è un disco di canzoni. È,<br />

strettamente, un’opera rock, e come tale è inseparabile<br />

dal suo libretto, ovvero i testi che Reed ha preparato per<br />

una recente messinscena berlinese di Robert Wilson dei<br />

celeberrimi drammi di Frank Wedekind, Il vaso di Pandora<br />

e Lo spirito della terra. Testi che, lo diciamo subito, ce<br />

lo restituiscono davvero al meglio: crudi, violenti, evocativi,<br />

poetici, intrisi di una forza espressiva che latitava<br />

da molto tempo (sono migliori, per dire, di quelli di The<br />

Raven, guardacaso scaturito anch’esso da una collaborazione<br />

con Wilson -POEtry - in cui però non riusciva<br />

in modo del tutto convincente a modernizzare Poe,<br />

restando troppo ancorato al modello). Per molti versi,<br />

Lulu sembra una versione pulp di Berlin: a ben vedere,<br />

tra il cuore di ghiaccio della protagonista, femme fatale<br />

archetipica e l’Alaska di Caroline corre davvero poco.<br />

Insomma, Lou gioca in casa e non solo - com’è prevedibile<br />

- vince, ma talvolta si supera. Aprire un album<br />

con un verso come “mi amputerei le gambe e le tette<br />

/ quando penso a Boris Karloff e Kinski / nel buio della<br />

luna” possono permetterselo in pochi, senza sembrare<br />

pretenziosi o ridicoli. Anzi, può permetterselo solo lui.<br />

E qui entrano in gioco i Metallica. Ok, Lou non sarà<br />

Cher, ma perché proprio loro come backing band?<br />

Anche perché oltre a non essere un disco di canzoni,<br />

Lulu non è nemmeno un disco metal. Almeno non nel<br />

senso ortodosso. James Hetfield si limita ad accennare<br />

e sottolineare qualche parola chiave (prende il timone<br />

solo in The View, scelta come anteprima con il probabile<br />

intento di accattivare i fan e sortendo invece l’effetto<br />

opposto), lasciando a Reed tutto lo spazio per divagare<br />

highlight<br />

newtone2060 - Shot (fratto9 unDer the SkY, aGoSto 2011)<br />

Genere: impro-Jazz<br />

Giungono al terzo album i Newtone2060 ma non si stancano di stupire, focalizzando<br />

ancor di più la propria proposta. Musica d’avanguardia, quella del trio<br />

Calcagnile/Albert/Sammartino (rispettivamente drums/objects/effects; voice/<br />

effects; turntables), che smussa angoli, confonde le tracce e propone derive<br />

inattese ad ogni cambio di passo, ad ogni giro di battuta.<br />

L’opener How Is Your Heart? è una roba dall’andamento claudicante e swingato<br />

come sapeva essere il soul-mutante dei Soul Coughing misto a certe robe<br />

white-hop, senza nessuna traccia di hip o negritudine, ma in grado di catapultare<br />

jazz astruso, vocalità nera, afasie ritmiche e rumorismo concreto in un calderone inarrestabile.<br />

Troppa roba? No, manco per niente. Perché il senso di Shot risiede proprio nella fagocitazione infinita di<br />

input e rimandi, come un Naked City d’antan onnivoro e tentacolare reso al ralenti e senza parossismo<br />

strumentale. O come certo “jazz” rumorista d’avanguardia di quello di base alla Setola Di Maiale, ma<br />

con un senso del groove atipico, coinvolgente e con una infinita attrazione per il collage e il montaggio.<br />

Destrutturazione e ricomposizione in set tra l’acustico e l’elettrico, capace di partire da un punto di<br />

partenza alieno - le parole di Bukowski - per arrivare su un pianeta altrettanto alieno fatto sì, di decomposizione<br />

strutturale di matrice colta (Cutler, certo, e pure i nostri A Spirale, Camusi, Illàchime Quartet<br />

e tutti quelli di Musica Improvvisa), ma anche di ricombinazioni limitrofe al pop - la resa di Through The<br />

Barricades degli Spandau Ballet, tutto un accessibile stop’n’go frankesteiniano - e di stalagmiti di fonti<br />

sonore estranee e spiazzanti (divertitevi a cercare tra i vari frammenti “echoes of italian songwriters,<br />

tango, ’80s, bebop and trash”). Così l’a-ritmo dei Sinistri va a braccetto con le schizofrenie soul della<br />

voce (Love&Fame&Death) o l’industrial per voce e ossessioni di Amazing (lyrics dal “A Challenge To The<br />

Dark” del citato scrittore americano), convivono con gli intricati pastiche vocali e i frammenti dei vinili<br />

dalle fonti più disparate, diegetiche ed extra- (marcette fischiate, sirene, stralci di piano classico, fruscii<br />

di puntine, do-bop scratchato, ecc.). Una vertigine di suoni per una fruibilità invidiabile.<br />

(7.5/10)<br />

Stefano Pifferi<br />

con il suo talking stonato e, come felicemente definito<br />

da qualcuno, disancorato. E se si sta molto attenti, a<br />

parte i riffoni Sabbath della citata View e Frustration e la<br />

cavalcata thrash di Mistress Dread, non si tratta esattamente<br />

di metallo duro e puro. È pur sempre metal-Lou.<br />

Brandeburg Gate e Iced Honey sono puro vecchio stile<br />

à la Sweet Jane, rese solo più truci dai Four Horsemen;<br />

l’uso espressivo e reiterato di droni di violino e organo<br />

portano al puro suono di Metal Machine Music e della<br />

recente musica per meditazione (oltre a sembrare una<br />

strizzatina d’occhio al vecchio amico/nemico John Cale<br />

e alla moglie Laurie Anderson); e forse che la conclusiva<br />

- e notevole - Junior Dad non rinverdisce i fasti di<br />

Street Hassle? Lulu è piuttosto un disco che usa i toni<br />

del metal per veicolare certi contenuti lirici, in modo<br />

descrittivo e evocativo. Un effetto riuscito in Cheat On<br />

Me e - ottimamente - in Pumping Blood; stando alla pura<br />

brutalità di quest’ultima (si mette in scena il massacro<br />

della protagonista da parte di Jack lo Squartatore), in<br />

effetti non ci volevano i Metallica. Ci volevano gli Slayer.<br />

E se tutto questo per la maggior parte dei metalheads<br />

può risultare incomprensibile (come se unire metallo e<br />

intelletto fosse tabù, ma qualcuno si ricorda di Marianne<br />

Faithfull in The Memories Remain?), nell’ottica reediana<br />

- diremmo: velvettiana - acquista perfettamente senso.<br />

Lulu è un esperimento, così come lo era White Light /<br />

White Heat: cambia solo la forma, ma lo spirito è quello.<br />

È un esperimento riuscito? Non del tutto, perché è di<br />

fruizione palesemente difficile, soffre l’eccessiva lunghezza<br />

dell’insieme e dei singoli episodi e il matrimonio<br />

tra le due entità artistiche si in realtà si consuma solo in<br />

parte, e con esiti comprensibilmente controversi. Il suo<br />

valore, più di tutto, consiste nel rimettere in discussione<br />

le potenzialità di un genere - il rock - che qualcuno<br />

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