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Quaderni<br />

del Laboratorio di Etica<br />

leifSemestrale<br />

e Informazione Filosofica<br />

Università di Catania


Quaderni<br />

leifSemestrale<br />

del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica - Università di Catania<br />

Impaginazione e stampa:<br />

, grafica editoriale<br />

di Pietro Marletta,<br />

via Delle Gardenie 3, Belsito,<br />

95045 Misterbianco (CT),<br />

tel. 095 71 41 891<br />

Direttore<br />

Maria Vita Romeo<br />

Redazione<br />

Massimo Vittorio (coordinatore),<br />

Antonio Caramagno, Danila D’Antiochia,<br />

Floriana Ferro, Antonio G. Pesce,<br />

Elisabetta Todaro, Daniela Vasta<br />

Segreteria di redazione<br />

Melania D’Anna, Manuela Finocchiaro<br />

Comitato Scientifico<br />

Paolo Amodio, Laura Berchielli,<br />

Domenico Bosco, Calogero Caltagirone,<br />

Riccardo Caporali, Carlo Carena,<br />

Dominique Descotes, Laurence Devillairs,<br />

Gérard Ferreyrolles, Denis Kambouchner,<br />

Gordon Marino, Denis Moreau,<br />

Giuseppe Pezzino, Philippe Sellier,<br />

Paolo Vincieri<br />

Direttore responsabile<br />

Giovanni Giammona<br />

Direzione, redazione e amministrazione<br />

Dipartimento di Scienze Umanistiche,<br />

Università di Catania.<br />

Piazza Dante, 32 - 95124 Catania.<br />

Tel. 095 7102343 - Fax 095 7102566<br />

Email: <strong>maria</strong><strong>vita</strong><strong>romeo</strong>@unict.it<br />

ISSN 1970-7401<br />

© 2011<br />

Dipartimento di Scienze Umanistiche,<br />

Università di Catania<br />

Registrazione presso il Tribunale di Catania,<br />

n. 25/06, del 29 settembre 2006


Quaderni<br />

leif<br />

Semestrale del Laboratorio di Etica<br />

e Informazione Filosofica<br />

agorà<br />

Università di Catania<br />

Anno V n. 6, gennaio-giugno 2011<br />

Maria Vita Romeo Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 5<br />

Antonio G. Pesce La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 39<br />

Giuseppe Pezzino La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 55<br />

spigolature<br />

Emanuele Fadda Normatività e intersoggettività 83<br />

Giuliana Gambuzza Costruire il discorso etico: tecniche e strumenti 86<br />

Maria Vita Romeo Uno studio su Pascal 90<br />

Maria Vita Romeo La globalizzazione e la negazione dell’individuo 93


Matisse, Icaro, 1947, tavola a pochoir (n. VIII),<br />

Tériade Éditeur, 43,4 × 34,1 cm.


Maria Vita Romeo<br />

Coscienza e responsabilità:<br />

Hegel e Croce lettori di Pascal<br />

GeNeralMeNte si teNDe a suDDiViDere le Lettere Provinciali di Pascal<br />

in due gruppi: al primo appartengono le prime tre lettere –<br />

scritte in rapida successione il 23 e il 29 gennaio e il 9 febbraio – che trattano<br />

i temi della grazia e della libertà umana ed hanno un carattere essenzialmente<br />

teologico-dogmatico1 . Queste lettere, la cui problematica verrà<br />

ripresa nelle ultime due (XVII e XVIII), ci presentano un Pascal teologo.<br />

Al secondo gruppo appartengono, invece, le rimanenti lettere (dalla V alla<br />

XVI) che trattano temi concreti di morale.<br />

Uno spazio a parte all’interno dell’opera è occupato dalla IV Lettera,<br />

del 25 febbraio, con la quale Pascal abbandona la tattica difensiva adottata<br />

nelle lettere precedenti, per passare all’attacco dei suoi principali avversari:<br />

i gesuiti. Questa lettera, come ha rilevato Jean Mesnard2 , presenta<br />

una portata teologica, morale e psicologica insieme; ma il suo maggior<br />

pregio, secondo noi, sta nel segnare il passaggio dalle lettere che trattano<br />

di questioni prettamente teologiche a quelle che trattano di questioni<br />

morali. Tale passaggio, al di là delle ipotesi varie che sono state formulate<br />

1 Difesa di Arnauld dalle accuse di eresia; dimostrazione che i tomisti (domenicani), nonostante<br />

il loro diverso linguaggio, stanno sulle posizioni di Agostino; sulla base di quest’ultima osservazione<br />

ci si chiede perché i tomisti sono considerati ortodossi, mentre Arnauld è considerato<br />

eretico.<br />

2 Secondo Jean Mesnard, la IV Lettera Provinciale presenta una portata teologica, poiché cerca<br />

di definire l’azione di Dio sull’uomo; una portata morale, poiché ruota attorno al problema<br />

della responsabilità umana; ed infine una portata psicologica, perché oppone due concetti della<br />

personalità: quella del gesuita, secondo il quale l’essenza dell’uomo si esprime in atti transitori, e<br />

quella del giansenista, secondo il quale l’essenza dell’uomo s’identifica con il suo moi intimo, moi<br />

corrotto dal peccato originale, la cui perversità innata non è sempre cosciente. Cfr. J. Mesnard,<br />

Pascal. L’homme et l’œuvre, Paris, Boivin, 1951, p. 81.


6 Maria Vita Romeo<br />

al riguardo 3 , trova una sua giustificazione nella connessione tra la dottrina<br />

della grazia e la <strong>vita</strong> etico-religiosa di cui Pascal aveva fatto esperienza direttamente<br />

4 .<br />

La sua esperienza, infatti, gli aveva insegnato che per vivere secondo il<br />

Vangelo era necessario un aiuto efficace di Dio e che, di conseguenza,<br />

non si poteva negare l’onnipotenza della grazia senza rendere inattuabile<br />

la legge di Cristo. Ciò lo condusse a mettere in relazione la dottrina molinista<br />

della grazia con il lassismo della morale gesuitica, a porre cioè «nel<br />

rilassamento della loro morale la causa della loro dottrina della grazia» 5 .<br />

Per Pascal, la lotta contro la morale gesuitica significò la continuazione,<br />

su un altro piano, della lotta contro il molinismo e il lassismo che rischiavano<br />

di svalutare l’opera redentrice di Cristo, di sostituire la legge<br />

della grazia con quella della natura. Il problema della grazia nascondeva<br />

in sé quello della responsabilità dell’uomo, la cui azione, secondo i molinisti<br />

e i neotomisti, non può essere imputata a peccato, se «Dio non ci dà<br />

la conoscenza del male che è in essa ed un’ispirazione che ci stimoli ad<br />

e<strong>vita</strong>rla». Un tema, quest’ultimo, brillantemente affrontato da Pascal nella<br />

sua IV Lettera Provinciale, il cui argomento principale ruota attorno a<br />

quello della cosiddetta grazia «attuale» che costituì terreno di scontro tra<br />

gesuiti e giansenisti. La grazia attuale, di cui non si trova traccia né nei libri<br />

dei Padri della Chiesa né in san Tommaso, per i gesuiti non è altro che<br />

«un’ispirazione di Dio con la quale egli ci fa conoscere la sua volontà e ci<br />

stimola a volerla compiere». Si tratterebbe insomma di un soccorso transitorio,<br />

grazie al quale l’uomo è mosso da Dio ad un’operazione buona.<br />

Ora, per i gesuiti, se Dio non dà all’uomo questa grazia attuale, l’a zione<br />

3 Tante sono state le ipotesi di questo cambiamento di rotta: un’intuizione tattica; un suggerimento<br />

del de Méré; o ancora, come sostiene Pierre Nicole, l’indignazione di Pascal dopo aver<br />

letto la eologia moralis del gesuita Antonio Escobar de Mendoza.<br />

4 Pur non mettendo in discussione queste notizie, è certo che Pascal non si sarebbe sottomesso<br />

a ciò «se nel suo spirito non fosse apparso chiaro, logicamente, questo mutamento: se cioè<br />

non fosse stato giustificato dal suo stesso pensiero» (F. Gentile, Pascal. Saggio d’interpretazione storica,<br />

Bari, Laterza, 1927, p. 253).<br />

5 V e Lettre Provinciale, SeFe, p. 333. Per le citazioni delle opere di Pascal faremo riferimento<br />

all’edizione seguente: B. Pascal, Les Provinciales, Pensées et opuscules divers, textes édités par Gérard<br />

Ferreyrolles et Philippe Sellier, Paris, La Pochothèque, 2004, indicando le Pensées con Se, poiché<br />

seguono la numerazione di Philippe Sellier, e le restanti opere con SeFe.


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 7<br />

peccaminosa non può mai essere imputata all’uomo; per i giansenisti, invece,<br />

i peccati commessi senza grazia attuale restano comunque tali, e devono<br />

perciò essere condannati. È evidente che <strong>qui</strong> Pascal non vuole certamente<br />

dar <strong>vita</strong> ad una disputa di carattere strettamente teologico, bensì<br />

avviare una riflessione morale che abbia come focus lo spinoso problema<br />

della responsabilità umana: l’uomo che pecca ed ha coscienza di peccare è<br />

senz’altro un peccatore; ma, colui che che pecca, e tuttavia non ha coscienza<br />

di peccare, è pur sempre un peccatore? Per i giansenisti, la risposta<br />

non può che essere affermativa; per i gesuiti, la risposta è invece negativa.<br />

A tal proposito, leggiamo come il buon Padre gesuita delle Lettere<br />

Provinciali spiega lucidamente la posizione della sua Compagnia:<br />

Noi dunque sosteniamo come un principio indubitabile che un’azione non può<br />

essere imputata come peccato, se Dio non ci dà, prima che la commettiamo, la<br />

conoscenza del male che contiene, e un’ispirazione che ci stimola a e<strong>vita</strong>rla 6 .<br />

A questo punto, l’ironia di Pascal si trasforma in sarcasmo. Sulla base<br />

di quel che sostengono i gesuiti, esistono dunque due specie di peccatori:<br />

da una parte, i “peccatori a metà”, les pécheurs à demi, che nutrono un po’<br />

d’amore per la virtù, che hanno coscienza dei loro peccati e sono da considerare<br />

responsabili e peccatori; dall’altra, i peccatori incalliti, les pécheurs<br />

endurcis, peccatori a tempo pieno che non hanno coscienza del peccato e<br />

perciò non sono responsabili secondo la bella e comoda morale gesuitica.<br />

Che bella via – esclama Pascal – per essere felici in questo mondo e nell’altro!<br />

Avevo sempre pensato che si peccasse tanto più, quanto meno si pensa a Dio.<br />

6 IV e Lettre Provinciale, SeFe, p. 311. Come acutamente nota Hélène Bouchilloux, questo<br />

principio gesuitico – secondo cui un’azione non può essere imputata a peccato, se, prima di commetterla,<br />

Dio non dà la conoscenza del male – riesce persino a mettere d’accordo Pascal e Descartes.<br />

I due filosofi, infatti, sono contrari a tale principio. Nella Lettera a Mesland del 2 maggio<br />

1644, infatti, Descartes scrive: «Riconosco, tuttavia, che ove si dà occasione di peccare, là v’è indifferenza;<br />

e non credo affatto che, per fare il male, ci sia bisogno di vedere chiaramente che ciò che<br />

facciamo è cattivo; è sufficiente vederlo confusamente, o soltanto ricordarsi d’aver giudicato altra<br />

volta che lo fosse, senza vederlo in alcun modo, ovvero senza essere attenti alle ragioni che lo provano»<br />

(Lettera di Descartes a Mesland, 2 maggio 1644, in R. Descartes, Tutte le lettere, a cura di G.<br />

Belgioioso, Bologna, Bompiani, 2005, p. 1913). Cfr. H. Bouchilloux, Hegel, lecteur des Provinciales,<br />

in «L’enseignement philosophique», Revue de l’association de philosophie de l’enseignement public,<br />

3/2008, p. 57.


8 Maria Vita Romeo<br />

Invece a quanto vedo, se si riesce a imporsi una volta per tutte di non pensarci<br />

più affatto, ogni cosa diviene pura in seguito. Niente mezzi peccatori, con un<br />

po’ d’amore per la virtù. Saranno tutti dannati questi mezzi peccatori, mentre<br />

questi peccatori decisi, peccatori incalliti, peccatori schietti, pieni e completi,<br />

l’inferno non li rinchiude. Hanno beffato il diavolo a forza di concedersi a lui 7 .<br />

Ci troviamo così in presenza di quel ragionamento per assurdo, che<br />

verrà ripreso da due filosofi particolarmente attenti alle tematiche della libertà,<br />

della responsabilità e del male: nell’Ottocento da Hegel 8 , nei Lineamenti<br />

di filosofia del diritto; e poi nel Novecento da Croce, nella Filosofia<br />

della pratica.<br />

Nei Lineamenti di filosofia del diritto, affrontando il problema del bene<br />

e della coscienza morale – con la relativa questione se un’azione possa<br />

essere ritenuta malvagia, soltanto nella misura in cui essa sia stata realizzata<br />

con cattiva coscienza morale, Hegel s’allinea con quanto affermato da<br />

Pascal, citando addirittura l’ironica osservazione del filosofo francese sulla<br />

salvezza assicurata ai «peccatori incalliti» e sull’eterna dannazione riservata<br />

a quei peccatori che, invece, nutrono qualche amore per la virtù 9 . Per il<br />

filosofo di Stoccarda, nel momento dialettico del diritto si ha «la possibilità<br />

dell’alienazione della personalità e del proprio essere sostanziale» 10 ,<br />

come, ad esempio, l’alienazione della proprietà o «l’alienazione della razionalità<br />

intelligente, della moralità, dell’eticità, della religione» 11 . Questo<br />

secondo tipo di alienazione si traduce nella superstizione oppure nella<br />

cessione ad altri dell’autorità e del potere. In ogni caso, l’alienazione proietta<br />

l’ombra del male e del negativo nel processo dialettico dello Spirito<br />

hegeliano, per la fondamentale ragione che si pretende di alienare ciò che<br />

è inalienabile sul piano del diritto:<br />

Il diritto a tale inalienabilità è imprescrittibile; poiché l’atto, col quale prendo<br />

possesso della mia personalità e della mia essenza sostanziale, mi costituisce soggetto<br />

capace di diritto, di imputazione, mi rende morale, o religioso, toglie que-<br />

17 IV e Lettre provinciale, SeFe, p. 315.<br />

18 Cfr. H. Bouchilloux, Hegel, lecteur des Provinciales, cit., pp. 50-61.<br />

19 Cfr. G. F. W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1965, § 140, p. 130.<br />

10 Ivi, § 66, p. 73.<br />

11 Ivi.


ste determinazioni appunto dall’esteriorità, che unicamente dà loro la capacità<br />

d’essere in possesso altrui 12 .<br />

Ma la soggettività dialetticamente buona, la personalità che rende l’individuo<br />

un «soggetto capace di diritto, di imputazione» e <strong>qui</strong>ndi libero e<br />

responsabile, tale soggettività può degenerare e farsi “cattiva soggettività”. E<br />

se poi dalla sfera del diritto si passa a quella della morale, la cattiva soggettività<br />

assume, secondo Hegel, il sembiante tanto seducente quanto maligno<br />

del soggettivismo morale, celebrato da una certa filosofia che corre contemporanea<br />

a quella hegeliana, anzi da «una superficialità di pensiero che<br />

ha stravolto, in questa forma, un concetto profondo e si è attribuito il nome<br />

di filosofia; precisamente come al male ha attribuito il nome di bene» 13 .<br />

Nascono così i frutti avvelenati del soggettivismo morale: da un canto,<br />

la soggettività che superbamente e stoltamente si spaccia per assoluto;<br />

e, dall’altro, l’ipocrisia morale, che pretende di gabellare il male come bene,<br />

e viceversa, sulla base di interessi soggettivi. Per Hegel, infatti, l’autocoscienza<br />

può raggiungere il più alto culmine della soggettività in una<br />

«astrusissima forma del male», in cui la coscienza si dà come assoluto e<br />

addirittura converte ipocritamente il bene in male, e il male in bene:<br />

Poiché l’autocoscienza sa di produrre nel suo fine un aspetto positivo, del quale<br />

esso ha bisogno, poiché appartiene al proponimento della concreta azione reale,<br />

essa, a causa di tale aspetto, in quanto dovere e intenzione perfetta, ha il potere<br />

di affermare, come buona per gli altri e per sé stesso, l’azione […] “per gli altri”:<br />

questa è l’ipocrisia; “per sé stesso”: ecco il culmine ancora più alto della soggettività,<br />

che si afferma come assoluto 14 .<br />

Per quanto riguarda il fenomeno morale dell’ipocrisia, Hegel si sofferma<br />

sulla vecchia questione dell’agire male e con cattiva coscienza, facendo<br />

riferimento alla polemica antigesuitica di Pascal e, quel che più conta,<br />

aderendo alla tesi pascaliana al riguardo:<br />

C’è stata questione, divenuta un tempo molto importante, se un atto sia cattivo,<br />

soltanto in quanto avvenuto con cattiva coscienza, cioè con la coscienza svi-<br />

12 Ivi.<br />

13 Ivi, § 140, p. 129.<br />

14 Ivi.<br />

Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 9


10 Maria Vita Romeo<br />

luppata dei momenti or ora accennati. Il Pascal trae (Les Provinciales, IV) assai<br />

bene la conseguenza dall’affermativa della questione: Ils seront tous damnés, ces<br />

demi pécheurs, <strong>qui</strong> ont quelque amour pour la vertu. Mais pour ces francs pécheurs,<br />

pécheurs endurcis, pécheurs sans mélange, pleins et achevés, l’enfer ne les tient pas:<br />

ils ont trompé le diable à force de s’y abandonner. Il diritto soggettivo dell’autocoscienza<br />

[…] non deve essere pensato in conflitto col diritto assoluto dell’oggettività<br />

di questa determinazione, tanto che entrambi siano rappresentati come<br />

separabili, indifferenti e contingenti uno rispetto all’altro 15 .<br />

Senza dubbio, l’agire male e con cattiva coscienza non è piena ipocrisia,<br />

ma ci porta sulla strada giusta: la strada del simulatore ora suadente<br />

ora aggressivo, ora compiacente e accomodante ora violento e calunniatore.<br />

Nell’ipocrisia<br />

sopravviene la determinazione formale della finzione di affermare il male come<br />

buono, soprattutto per gli altri, e di porsi soprattutto esternamente come buono,<br />

coscienzioso, devoto e simili; il che, a questo modo, è soltanto una gherminella<br />

di frode verso gli altri. Però il malvagio può, inoltre, trovare per sé stesso<br />

una giustificazione al male, nell’ulteriore suo far bene o nella religiosità, in generale<br />

in buone ragioni; poiché con quelle lo muta per sé in bene 16 .<br />

E <strong>qui</strong> Hegel sta ancora in sintonia con il Pascal acerrimo nemico<br />

dell’ipocrisia gesuitica, in special modo quando riporta il fenomeno dell’ipocrisia<br />

a due importanti punti d’attacco nella strategia pascaliana delle<br />

Provinciali: la dottrina delle opinioni probabili e la dottrina della direzione<br />

d’intenzione.<br />

Il probabilismo, o dottrina delle opinioni probabili, si presenta come<br />

un sistema morale che, fondato nel Cinquecento dal domenicano spagnolo<br />

Bartolomeo Medina, sostiene che una legge non obbliga finché è<br />

probabile che non obblighi, ovverosia che la legge dubbia non ha valore<br />

obbligatorio, quando un’opinione opposta sia probabile. Questo sistema<br />

morale, che può apparire alquanto sofistico ed estremamente cervellotico,<br />

diverrà un’arma formidabile nelle mani di alcuni teologi gesuiti: infatti,<br />

secondo il principio del probabilismo, un teologo autorevole è utilizzabile<br />

15 Ivi, § 140, p. 130.<br />

16 Ivi, § 140, p. 131.


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 11<br />

anche quando si conosca, sull’argomento dibattuto, un’altra opinione riconosciuta<br />

come più probabile. Insomma, in assenza di certezza e di sicurezza,<br />

si sprofonda nella palude del probabilismo e del dubbio, dove una<br />

tesi meno probabile assume lo stesso valore teoretico e comporta la stessa<br />

obbligazione pratica di una tesi più probabile.<br />

E quando si può definire “probabile” una tesi? Ecco la risposta che il<br />

casuista, a suon di citazioni di dotti gesuiti, ci fornisce nella V Lettera<br />

Provinciale:<br />

Un’opinione si dice probabile, quando è fondata su ragioni di qualche rilevanza.<br />

Ne deriva talvolta che un solo dottore molto autorevole può rendere un’opinione<br />

probabile 17 .<br />

«E così – ribatte sarcastico Pascal – basta un dottore per rivoltare le<br />

coscienze e sovvertirle a suo piacimento, e sempre in sicurezza» 18 . Il timore<br />

pascaliano è fondato. In effetti, la tesi probabilistica rischia di precipitare<br />

il mondo della morale e della religione dalla sfera delle certezze e delle<br />

sicurezze in una sorta di ariostesco campo di Agramante, dove ogni<br />

dottore ed ogni confessore può appellarsi ad un’opinione probabile che,<br />

sullo stesso problema, contrasta con mille altre opinioni altrettanto probabili.<br />

In<strong>qui</strong>etante giunge la candida risposta del gesuita, che vorrebbe essere<br />

rassicurante e convincente:<br />

Non lo capite; essi sono anzi molto spesso di parere diverso; ma ciò non conta<br />

nulla. Ciascuno rende il proprio parere probabile e sicuro. Si sa per vero che<br />

non sono tutti del medesimo avviso. E ciò è ancora meglio. Non concordano,<br />

all’opposto, quasi mai, e sono poche le questioni dove non troviate che l’uno<br />

dice sì, l’altro dice no. E in tutti questi casi, entrambe le opinioni contrarie sono<br />

probabili 19 .<br />

Qui, piuttosto che di lassismo e di soggettivismo etico, bisognerebbe<br />

parlare di barocchismo morale e religioso. E non solo e non tanto perché<br />

gran parte dei casuisti secenteschi provenivano da paesi “barocchi” come<br />

la Spagna, il Portogallo e l’Italia, ma soprattutto perché col probabilismo<br />

17 V e Lettre Provinciale, SeFe, p. 339.<br />

18 Ivi.<br />

19 Ivi, pp. 340-1.


12 Maria Vita Romeo<br />

si assiste al trionfo baroccheggiante dell’esteriorità, della scena, della teatralità,<br />

della geniale sottigliezza, del rifiuto beffardo della tradizione, del<br />

gusto per il complicato spacciato per complesso, del prezioso ricamo del<br />

manto dell’apparenza sullo sgradevole e rugoso corpo della realtà, del ricorso<br />

al pomposo delle cupole e delle facciate che nascondono il gelido<br />

buio di labirinti e di confessionali, della superba immaginazione creativa<br />

che celebra il divino nelle fattezze fin troppo carnali di donne e uomini<br />

moderni e disincantati, del gusto maniacale per il meraviglioso, del sapiente<br />

contrasto di luci ed ombre nella tecnica del trompe-l’œil, che non ti<br />

dà il falso, ma l’allucinata illusione che l’immagine sia la realtà.<br />

È il trionfo del barocco perché, come nella rappresentazione estetica<br />

viene calpestato il riferimento “oggettivo” alle regole delle proporzioni a<br />

favore dell’estro dell’artista e delle emozioni dello spettatore, così nella<br />

definizione di concetti morali viene sostanzialmente accantonato ogni riferimento<br />

“oggettivo” alle Scritture, ai Padri, ai Concili, per cedere il passo<br />

alle meravigliose e nuove dottrine che fioriscono nel cervello di ogni<br />

casuista e di ogni spregiudicato autore di opinioni probabili, a favore diretto<br />

di un “utente”, che ricorre al confessore, e a favore indiretto e più<br />

duraturo di tutta una schiera di governatori di anime e direttori di coscienze<br />

i quali, sul mercato della morale, offrivano a buon prezzo qualunque<br />

soluzione per qualunque problema, e qualunque assoluzione per qualunque<br />

peccato, imbrogliando ipocritamente e spregiudicatamente la coscienza,<br />

Dio, e persino il «padre della menzogna» 20 .<br />

Pertanto, secondo Hegel, il probabilismo non è che l’ipocrita affermazione<br />

di una soggettività malata, che pretende di apparire a sé e agli altri<br />

come oggettività:<br />

Esso [il probabilismo] assume a principio che un’azione, per la quale la coscienza<br />

sa di trovare qualche buona ragione, – sia anche soltanto l’autorità di un teologo,<br />

e ancor che si sappia che altri teologi discordino di gran lunga dal giudizio<br />

di quello, – è permessa; e che la coscienza ne può esser sicura. Anche in questa<br />

concezione persiste quell’esatta coscienza che tale ragione e tale autorità dà sol-<br />

20 «Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida<br />

fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso,<br />

dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8, 44).


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 13<br />

Matisse, La danza, 1909-1910, olio su tela, 260 × 391 cm,<br />

San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.<br />

tanto una probabilità, sebbene ciò sia sufficiente alla sicurezza della coscienza; e<br />

<strong>qui</strong> si ammette che una buona ragione è soltanto di natura tale, che possono esserci<br />

accanto ad essa altre ragioni, almeno parimenti buone. Anche è da riconoscere<br />

un’altra traccia di oggettività in ciò: che ci dev’essere una ragione che determini;<br />

ma, poiché la decisione del bene o del male è collocata nelle molte<br />

buone ragioni, tra le quali sono comprese anche quelle autorità, e queste ragioni<br />

sono tante e così opposte; sta in ciò, nello stesso tempo, che non questa oggettività<br />

della cosa, ma la soggettività, deve decidere; – onde il libito e l’arbitrio sono<br />

chiamati a decidere sul buono e sul cattivo, e l’eticità, come la religiosità, è minata<br />

[…] Il probabilismo è, perciò, ancora un aspetto dell’ipocrisia 21 .<br />

Ma, oltre al probabilismo, la morale rilassata trova terreno fertile, come<br />

ben sapeva Pascal in polemica coi gesuiti, nella teoria della directio intentionis<br />

che, svalutando la oggettività dell’atto, si sbilancia pericolosamente<br />

ed esclusivamente sulla considerazione soggettiva dell’intenzione.<br />

21 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 140, pp. 131-2.


14 Maria Vita Romeo<br />

Per efferata e malvagia che sia l’azione, se buona e santa è l’intenzione che<br />

l’ha fatta commettere, buona e santa sarà anche l’azione. Così tutto è permesso,<br />

e tutto è benedetto? Niente affatto, se prestiamo fede alle sottigliezze<br />

del padre gesuita nella VII Lettera Provinciale:<br />

Per dimostrarvi che non permettiamo tutto, sappiate che, per esempio, non<br />

ammettiamo mai che si abbia l’intenzione formale di peccare, col solo intento<br />

di peccare; e che di chiunque si ostina a limitare il suo proposito nel compiere il<br />

male solo per il male, noi non ne vogliamo sapere; è un atto diabolico, ed ecco<br />

che non vi sono eccezioni di età, di sesso o di rango. Ma quando non si è in<br />

questa malaugurata disposizione, allora cerchiamo di mettere in pratica il nostro<br />

metodo di dirigere l’intenzione, consistente nel proporsi per fine delle proprie<br />

azioni un oggetto lecito. Non che, per quanto possiamo, non cerchiamo di<br />

distogliere la gente dalle cose proibite; ma quando non possiamo impedire<br />

l’azione, purifichiamo perlomeno l’intenzione; e così correggiamo il difetto del<br />

mezzo con la purezza del fine 22 .<br />

Siamo alla sublime missione degli avvocaticchi della cattiva coscienza.<br />

Siamo a quella forma gioiosa di ipocrisia elevata a scienza, che Molière fa<br />

celebrare con versi immortali all’impostore Tartuffe:<br />

Je puis vous dissiper ces craintes ridicules,<br />

Madame, et je sais l’art de lever les scrupules.<br />

Le Ciel défend, de vrai, certains contentements;<br />

(C’est un scélérat <strong>qui</strong> parle.)<br />

Mais on trouve avec lui des accommodements.<br />

Selon divers besoins, il est une science,<br />

D’étendre les liens de notre conscience,<br />

Et de rectifier le mal de l’action<br />

Avec la pureté de notre intention 23 .<br />

In altri termini, irrompe sulla scena della morale quella massima, già<br />

applicata in politica, per cui il fine giustifica i mezzi. Sembra strano, ma è<br />

vero: il “volto demoniaco” del machiavellismo politico, tanto vituperato e<br />

tanto maledetto, si trasforma in acqua santa e assume i connotati rassicuranti<br />

del gesuitismo, invadendo vittoriosamente i territori della coscienza<br />

22 VII e Lettre Provinciale, SeFe, pp. 367-8.<br />

23 Molière, Le Tartuffe ou l’imposteur, acte IV, 1489-91.


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 15<br />

morale e della <strong>vita</strong> privata. Non è peccato rubare, calunniare, uccidere, se<br />

nell’intenzione del malfattore il fine è buono e santo, pur ricorrendo ai<br />

mezzi del furto, della calunnia, dell’assassinio.<br />

A tal proposito, Hegel coglierà acutamente la discutibile (in sede logica)<br />

e pericolosa (in sede morale) connessione che viene posta tra l’azione,<br />

l’intenzione e il giudizio morale: l’azione malvagia si lega ad una intenzione<br />

buona, <strong>qui</strong>ndi l’azione malvagia è buona. La deduzione, alquanto<br />

sofistica, gioca maliziosamente sul fatto che in ogni azione si può trovare<br />

un lato positivo, un bene. Ma tutto questo, per Hegel, è solo «das abstrakt<br />

Guten», un bene astratto e molto lontano dalla positività del giudizio<br />

morale. Anzi, esso è un male, giacché la determinazione di quel bene<br />

astratto è affidata al «Willkür des Subjekts», all’arbitrio del soggetto:<br />

Un furto, un’azione vile, un omicidio etc., in quanto azioni, cioè in quanto, in<br />

generale, compiute da una volontà soggettiva, hanno immediatamente la destinazione<br />

di essere l’appagamento di tale volontà, e, <strong>qui</strong>ndi, un che di positivo; e,<br />

per render buona l’azione, soltanto sapere questo aspetto positivo come mia intenzione<br />

in essa; e questo aspetto è l’essenziale per determinare che l’azione è<br />

buona, poiché io la so in quanto bene nella mia intenzione. Un furto per far del<br />

bene ai poveri, un furto, una diserzione dalla battaglia per causa dell’obbligo di<br />

aver cura della propria <strong>vita</strong>, della propria famiglia (fors’anche povera, per giunta)<br />

– un omicidio per odio e per vendetta […] sono elevati, a questo modo, a<br />

causa dell’aspetto positivo del loro contenuto, a buona intenzione, e <strong>qui</strong>ndi a<br />

buona azione. Basta uno sviluppo intellettivo estremamente limitato, per discernere,<br />

come quei dotti teologi, un lato positivo in ogni azione e, <strong>qui</strong>ndi, una<br />

buona ragione e una buona intenzione. Così si è detto che non c’è proprio il<br />

malvagio, poiché esso non vuole il male a causa del male, cioè non la pura negatività<br />

come tale, ma vuole sempre qualcosa di positivo; <strong>qui</strong>ndi, da questo punto<br />

di vista, un bene. In questo bene astratto, sono dileguate la differenza di buono<br />

e cattivo e tutti i doveri reali; <strong>qui</strong>ndi: volere semplicemente il bene e avere, in<br />

un’azione, una buona intenzione, questo è, anzi, il male; in quanto il bene è voluto<br />

soltanto in questa astrazione, e, <strong>qui</strong>ndi, la determinazione del medesimo è<br />

riserbata all’arbitrio del soggetto24 .<br />

E l’impronta del soggettivismo viene rintracciata da Hegel anche nella<br />

stessa massima riguardante il fine che giustifica i mezzi. Tale massima, di<br />

24 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 140, p. 133.


16 Maria Vita Romeo<br />

per sé, si può ridurre ad un’espressione che il filosofo tedesco definisce<br />

«triviale e insignificante», giacché se è vero che un fine santo santifica i<br />

mezzi, è altrettanto vero che un fine non santo non li santifica. Peggio<br />

ancora: che il fine santo giustifichi i mezzi, può risolversi in una tautologia,<br />

giacché il mezzo non è affatto per sé, non trae valore da sé, ma dal fine<br />

buono e santo. Beninteso, la tautologia sta in piedi, quando il mezzo è<br />

veramente un mezzo. Ma, quando si pretende di spacciare un fine malvagio<br />

come mezzo per una intenzione buona, la quale mira ad un fine buono,<br />

allora siamo ancora di fronte all’ipocrisia di un lassismo che froda le<br />

coscienze e mina qualunque sistema morale, facendo dipendere la determinazione<br />

del bene e del male da quell’arbitrio individuale, che cresce rigoglioso<br />

nella fitta vegetazione delle opinioni soggettive. Ecco la pietra<br />

tombale che Hegel depone sull’immoralità del machiavellismo morale:<br />

La frase: “se il fine è giusto, son tali anche i mezzi”, è un’espressione tautologica,<br />

in quanto il mezzo e, appunto, ciò che non è affatto per sé, ma è a causa di<br />

un’altra cosa, e ha la sua determinazione e il suo valore in ciò, nel fine, – se, cioè, è<br />

veramente un mezzo. Però, con quella proposizione, non si pensa al significato semplicemente<br />

formale, ma s’intende con esso qualcosa di più determinato, che, cioè,<br />

usare, come mezzo per un buon fine, qualcosa che per sé non è semplicemente un<br />

mezzo, che violare ciò che per sé è santo, che rendere, <strong>qui</strong>ndi, un delitto, mezzo di<br />

un buon fine, è permesso; anzi è ben anche un dovere […] I giudici, i guerrieri hanno,<br />

non soltanto il diritto, ma il dovere di uccidere uomini, ove però sia esattamente<br />

determinato per quale specie di uomini, e in quali circostanze, ciò sia permesso e<br />

sia un dovere […] Ma ciò che si designa come delitto, non è un’universalità lasciata<br />

indeterminata, che sia soggetta ancora a una dialettica; ma ha già la sua determinata<br />

delimitazione oggettiva. Ciò che a tale determinazione è contrapposto, ora, nel fine<br />

che deve togliere al delitto la sua natura, il fine santo, è null’altro se non l’opinione<br />

soggettiva di ciò che è buono e migliore. Il medesimo avviene <strong>qui</strong>; il volere si arresta<br />

al bene astratto, cioè, ogni determinatezza, che è in sé e per sé e ha valore, del bene<br />

e del male, del diritto e del torto, è annullata; e questa determinazione è attribuita al<br />

sentimento, alla rappresentazione, al libito 25 .<br />

Rispetto alla posizione hegeliana di piena adesione a Pascal e di netta<br />

e rigorosa condanna dell’arbitrio e dell’ipocrisia, Benedetto Croce assume<br />

un atteggiamento altrettanto deciso, ma attento alle diverse sfumature e<br />

25 Ivi, pp. 133-4.


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 17<br />

alle molteplici articolazioni di alcuni problemi morali che superano la<br />

stessa collocazione storica secentesca dello scontro fra giansenisti e gesuiti.<br />

Sul problema della responsabilità e della libertà rispetto all’azione malvagia,<br />

Croce sostiene che si può parlare di peccato, ed esprimere <strong>qui</strong>ndi<br />

una riprovazione morale, solo in riferimento ad un agente che possieda,<br />

oltre alla libertà, anche la coscienza di aver peccato. Per conseguenza, avevano<br />

ragione i gesuiti nel sostenere che c’è peccato dove c’è coscienza di<br />

peccare; e perciò è peccatore chi commette peccato ed ha coscienza di<br />

peccare, mentre non è peccatore colui che fa il male senza coscienza di<br />

peccare.<br />

Con rigore consequenziale e con un certo gusto del paradosso provocatorio,<br />

Croce riscatta in questo caso i gesuiti dalle condanne pascaliane<br />

ed hegeliane:<br />

I gesuiti che, contro il Pascal, difendevano che per darsi peccato era necessaria<br />

la coscienza della propria infermità e del rimedio occorrente, – il desiderio della<br />

guarigione e quello di domandarla a Dio, – erano teoricamente dalla parte della<br />

ragione 26 .<br />

Pascal, stupefatto e indignato, avrebbe riproposto a Croce la stessa<br />

domanda che aveva già scagliato in faccia al bon père gesuita:<br />

Come potreste infatti dichiarare apertamente, senza perdere ogni credito nelle<br />

anime, che nessuno pecca senza aver prima la conoscenza della propria infermità,<br />

quella del medico, il desiderio della guarigione, e quello di chiederlo a Dio? Si crederà<br />

sulla vostra parola che coloro che sono immersi nell’avarizia, nell’impudicizia,<br />

nelle bestemmie, nel duello, nella vendetta, nei furti, nei sacrilegi, abbiano<br />

davvero i desideri di abbracciare la castità, l’umiltà, e le altre virtù cristiane? 27 .<br />

A tutto ciò, Croce, impassibile e irriducibile, mantiene la sua posizione<br />

e continua a difendere in linea teorica la tesi dei gesuiti: «Pure è ine<strong>vita</strong>bile<br />

che sia così, se quei loro abiti devono essere considerati (e se realmente<br />

sono) vizî» 28 .<br />

26 B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 198.<br />

27 IV e Lettre Provinciale, SeFe, p. 317.<br />

28 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., p. 198.


18 Maria Vita Romeo<br />

Perché ci sia peccato, perché si possa parlare di azioni malvagie o di<br />

vizi, occorre dunque che ci sia coscienza del peccato e volontà di riscatto o<br />

guarigione morale. E, a questo punto, erompono dal petto di Pascal quelle<br />

parole indignate che Croce purtroppo non prenderà in considerazione:<br />

Non vi basta, per comprendere l’errore del vostro principio, di vedere che san<br />

Paolo dice di essere primo dei peccatori per un peccato che dichiara di aver commesso<br />

per ignoranza e con zelo? Non basta di vedere dal Vangelo che i crocifissori<br />

di Gesù Cristo avevano bisogno del perdono che egli chiedeva per loro, pur<br />

inconsapevoli della malvagità della loro azione, e che non l’avrebbero mai fatto,<br />

secondo san Paolo, se ne avessero avuto la consapevolezza? […] E infine, non<br />

basta che Gesù Cristo stesso ci abbia insegnato che vi sono due specie di peccatori,<br />

gli uni consapevoli, gli altri inconsapevoli, e che tutti saranno puniti, sia<br />

pure invero in modo diverso? 29 .<br />

Beninteso, la valutazione crociana non si regge sull’impianto teologico-morale<br />

di Pascal, ma si muove su un tracciato rigorosamente filosofico-idealistico<br />

che esalta il valore irrinunciabile della coscienza nella valutazione<br />

morale di qualunque azione particolare e concreta. Da <strong>qui</strong> la difesa<br />

crociana dei gesuiti che, in questo caso, «erano teoricamente dalla parte<br />

della ragione». Ma solo teoricamente essi avevano ragione, dal momento<br />

che lo stesso Croce opportunamente chiarisce che, se è vero che non può<br />

peccare colui che compie azioni malvagie senza coscienza del peccato, è<br />

altrettanto vero che quel “non poter peccare” è pur sempre un peccato e,<br />

quel che è peggio, abbassa chi si trova in quelle condizioni al di sotto del<br />

peccatore, sino al livello della passività naturale e animalesca:<br />

È chiaro ormai per noi che la questione è da risolvere nel senso, che chi ha coscienza<br />

di peccare è certamente peccatore, laddove chi non l’ha non pecca punto;<br />

ma che codesto non poter nemmeno peccare è per sé stesso peccato, e pone<br />

l’uomo, che si trova in siffatta condizione, un gradino più basso del peccatore 30 .<br />

Qui si salda l’arco filosofico-idealistico di Croce, facendo riferimento<br />

ad Hegel che, pur condannando i gesuiti a favore della tesi di Pascal, sosteneva<br />

che lo stesso male morale, il peccato, l’arbitrio, ricadono sempre<br />

29 IV e Lettre Provinciale, SeFe, pp. 319-20.<br />

30 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., p. 198.


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 19<br />

nel mondo spirituale e perciò sono superiori, e da preferire, alla “innocenza”<br />

della natura, degli animali e dei vegetali:<br />

Ogni rappresentazione formulata dallo Spirito, la peggiore delle sue fantasie, il<br />

gioco del suo umore più accidentale, ogni parola, costituisce un fondamento<br />

più eccellente per la conoscenza dell’Essere di Dio rispetto a un qualsiasi oggetto<br />

naturale […] In realtà, anche quando l’Accidentalità spirituale – l’arbitrio –<br />

giunge fino al Male, quest’ultimo è infinitamente superiore ai movimenti regolari<br />

degli astri o all’innocenza delle piante: colui che erra commettendo il Male,<br />

infatti, è pur sempre Spirito 31 .<br />

A prescindere dall’incarnazione storica del lassismo gesuitico secentesco,<br />

ad esempio, il gioco perverso della directio intentionis è reso possibile,<br />

secondo Croce, dalla persistenza di una visione dualistica che erroneamente<br />

distingue ed arbitrariamente separa il momento della intenzione<br />

dal momento della volizione. Una visione dualistica, questa, che risale al<br />

primo e più importante dualismo fra spirito e natura, ossia a quell’illecita<br />

separazione in due entità di quel che, in effetti, è un’unica realtà dinamica<br />

e dialettica: la realtà spirituale. In altri termini, nel monismo idealistico<br />

crociano dei primi anni del Novecento si mira a risolvere i problemi<br />

generati dal dualismo fra trascendenza e immanenza, fra cielo e terra, fra<br />

soggetto e oggetto, fra libertà e necessità, eliminando ogni forma di dualismo<br />

e concependo la realtà come attività spirituale, che incessantemente<br />

e liberamente si afferma non già come unità indifferenziata, monoliticamente<br />

intesa o misticamente rappresentata, bensì come unità-distinzione<br />

delle diverse forme dell’attività dello spirito-realtà.<br />

La stessa separazione dualistica di fine e di mezzo – che può sfociare<br />

nella perniciosa applicazione morale della massima, secondo cui il fine<br />

buono giustifica e purifica i mezzi cattivi – viene dialetticamente “negata”<br />

nell’impianto monistico crociano, che identifica il fine con lo stesso atto<br />

volitivo: ovvero, solo in astratto si può immaginare una volontà separata<br />

dal fine, ma, nel concreto svolgimento dialettico della realtà, si ha la sintesi<br />

di mezzo e fine nell’unità reale dell’atto volitivo.<br />

31 G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Milano, Rusconi, 1996,<br />

§ 248, pp. 423-5.


20 Maria Vita Romeo<br />

Un atto volitivo – chiarisce Croce – è unità inscindibile, e solo per comodo pratico<br />

si può darlo come diviso. Nell’atto volitivo, tutto è volizione, niente è mezzo<br />

e tutto è fine. Il mezzo non è altro che la situazione di fatto, dalla quale l’atto<br />

volitivo prende le mosse, e solo così il mezzo si distingue davvero dal fine. Si distingue,<br />

cioè, e si unifica insieme; perché se, come si è notato, la volizione non è<br />

la situazione, d’altra parte tale la volizione quale la situazione: l’una varia in<br />

funzione dell’altra. Di <strong>qui</strong> l’assurdità della massima che il fine giustifica il mezzo:<br />

massima di carattere empirico, sorta talora per giustificare azioni che erroneamente<br />

si ritenevano ingiustificate, e più spesso per lasciar passare come giuste<br />

quelle che erano ingiustificabili. Tal mezzo, tal fine; ma il mezzo è il dato e<br />

non ha bisogno di giustificazione, il fine è il voluto e deve giustificarsi in sé medesimo<br />

32 .<br />

Per tornare alla contrapposizione dualistica fra intenzione e volizione,<br />

Croce sostiene che tale separazione assume due forme erronee. La prima,<br />

contrapponendo l’astratto al concreto, sostiene che si può volere il bene<br />

in astratto e non sapere poi volerlo in concreto; ovverosia, che si può avere<br />

una intenzione buona e poi comportarsi male concretamente. La seconda<br />

forma erronea – ed è quella che maggiormente incide sulla teoria della direzione<br />

dell’intenzione – pone due atti volitivi: l’uno reale (la volizione<br />

vera e propria) e nascente da una determinata e concreta situazione di fatto;<br />

l’altro, invece, solamente pensato o immaginato, che prende il nome<br />

di intenzione.<br />

È sempre possibile, secondo siffatta teoria, dirigere l’intenzione, ossia alla volizione<br />

reale congiungere l’atto volitivo immaginato, e produrre un nesso in cui<br />

la volizione è in un modo e l’intenzione in un altro: la prima cattiva e la seconda<br />

buona, o la prima buona e la seconda cattiva. Così l’onest’uomo, approvato<br />

dal gesuita di cui narra il Pascal, pur desiderando la morte di colui dal quale<br />

aspetta un’eredità e rallegrandosene quando essa accade, dà al suo desiderio e al<br />

suo compiacimento un’impronta morale col pensare che ciò ch’egli intende raggiungere<br />

è la prosperità della sua azienda e non la morte del suo simile. Ovvero<br />

il medesimo onest’uomo ammazza colui che gli ha dato uno schiaffo; ma, in<br />

questo atto, ferma il pensiero sulla difesa del suo onore e non sull’omicidio:<br />

non sapendo astenersi dall’azione, purifica almeno (come crede) l’intenzione 33 .<br />

32 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., p. 50.<br />

33 Ivi, p. 54.


Ma, secondo Croce, una è la situazione reale; e perciò una è la volizione<br />

vera e concreta. Nella fattispecie, solo ipocritamente ed immoralmente<br />

si può gabellare per buona intenzione di accrescere la propria prosperità<br />

quel che in realtà è compiacimento per la morte altrui. Solo ipocritamente<br />

si può gabellare, per la semplice ragione che la volontà-intenzione<br />

di accrescere la prosperità della propria azienda è inscindibilmente<br />

legata alla morte del proprio simile; come la volontà-intenzione di difendere<br />

il proprio onore è inscindibilmente legata alla volontà di far violenza<br />

alla <strong>vita</strong> altrui:<br />

Il male è che la situazione reale, la sola di cui si possa tener conto, è la situazione<br />

storica e non quella immaginata; e nella conseguente volizione, presa nella<br />

sua schiettezza, si tratta non già della propria prosperità senz’altro, ma della<br />

propria prosperità congiunta con la morte altrui, ossia della falsa prosperità;<br />

non del proprio onore senz’altro, ma del proprio onore congiunto con la violazione<br />

della <strong>vita</strong> altrui, ossia del falso onore: il che fa di quella asserita innocente<br />

prosperità e di quell’asserito legittimo onore due cattive azioni qualificate, rendendo<br />

ciò che era onesto nel caso immaginato, disonesto nel caso reale, che è il<br />

solo che importi. Non giova fingere una situazione diversa dalla reale, perché a<br />

questa e non all’altra si riferisce l’intenzione; la quale non si può dirigere, ossia<br />

cangiare, se non cangia la situazione di fatto34 .<br />

Pertanto, nella valutazione crociana la directio intentionis si manifesta<br />

sostanzialmente come un sofisma che, giocando illecitamente sulla separazione<br />

fra volizione reale e volizione pensata o intenzione, genera la giustificazione<br />

filosofica di una morale da uomini di buon cuore e di buone<br />

intenzioni, di una morale, cioè, che porge una comoda possibilità di frode<br />

morale a torbide figure di individui che sono bensì ipocriti, senza essere<br />

affatto né di buon cuore né di buone intenzioni.<br />

In ogni caso, secondo Croce, lo scontro fra rigorismo pascaliano e lassismo<br />

gesuitico rappresenta la doppia faccia di un errore filosofico ben<br />

più vasto e profondo: la confusione, cioè, tra i princìpi pratici (o leggi di<br />

contenuto universale) e le leggi di contenuto generale e contingente.<br />

Queste ultime sono volizioni che hanno per oggetto una classe o serie di<br />

azioni, ovverosia impongono una serie di atti singoli, una serie che, per<br />

34 Ivi.<br />

Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 21


22 Maria Vita Romeo<br />

quanto ricca, è pur sempre limitata. I princìpi pratici, invece, sono leggi<br />

che prescrivono un contenuto a carattere universale e necessario. Tali<br />

princìpi pratici sono da distinguere in base alle due forme pratiche dello<br />

Spirito: la forma economica e la forma morale. Perciò si ha il principio<br />

economico (legge universale economica), imperativo che recita: «tu devi<br />

volere l’utile»; e il principio morale (legge universale morale), imperativo<br />

che recita: «tu devi volere il bene».<br />

Quando i princìpi pratici vengono confusi con le leggi a carattere generale<br />

e contingente, e quando siffatta confusione determina l’annullamento<br />

dei primi a favore delle seconde, allora sorge l’errore del legalismo<br />

pratico: ovvero l’illusione che la legge possa coprire tutti gli infiniti casi<br />

concreti che si presentano nella <strong>vita</strong> e possa <strong>qui</strong>ndi prescrivere quel che si<br />

debba o non debba fare per ognuno degli infiniti casi concreti. In altri<br />

termini, pretendere che una legge – avente di per sé un carattere generale,<br />

astratto, contingente, mutevole e limitato – possa ordinare o vietare una<br />

particolare azione in ogni situazione concreta e determinata, non è altro<br />

che un errore dettato dall’illusione legalistica.<br />

Niente forse vale a rischiarare – precisa Croce – la schietta natura delle leggi<br />

meglio dell’esame degli errori gravissimi, che si sono introdotti nella Filosofia<br />

della pratica per non essersi avvertito il carattere di mero aiuto che è proprio di<br />

quelle formazioni mentali, e per essere state confuse le leggi coi principî pratici,<br />

concependo questi come leggi e quelle come principî. […] E quelle leggi, tante<br />

e così particolareggiate, inducono facilmente nella falsa credenza, che il loro<br />

complesso basti a regolare la nostra azione economica e la nostra <strong>vita</strong> morale; e<br />

che i principî pratici possano essere sostituiti e pienamente rappresentati da un<br />

Decalogo o da un Codice, i quali sarebbero i veri e proprî regolatori della <strong>vita</strong><br />

umana. Ma il Decalogo, il Codice, il Corpus iuris, ampî e particolari e minuti<br />

che si facciano, non sono mai in grado, come sappiamo, di esaurire l’infinità<br />

delle azioni che le infinitamente varie situazioni di fatto condizionano 35 .<br />

Da aggiungere, inoltre, che le leggi, nel loro comandare o vietare, non<br />

possono mai abbracciare tutti i casi possibili della <strong>vita</strong>, e perciò lasciano<br />

una zona d’ombra indifferenziata e permissiva, dove collocare tutte le<br />

azioni né previste né ordinate né vietate. Pertanto, se consideriamo l’erro-<br />

35 Ivi, pp. 346-7.


e del legalismo pratico nella sola sfera morale, allora ci accorgeremo che<br />

il legalismo etico nasconde due insidie molto pericolose: il moralmente<br />

indifferente e l’arbitrarismo soggettivistico.<br />

In verità, colui che sostituisce il principio universale della morale con<br />

una qualsiasi casistica morale ricchissima e dettagliatissima, ma pur sempre<br />

a carattere generale ed astratto, prima o poi si troverà in una determinata<br />

situazione non prevista o ignorata dalla casistica morale, perché dalla<br />

casistica collocata nel cono d’ombra dell’indifferente, del permissivo, del<br />

lecito, e perciò, di fronte al silenzio della legge-casistica, sarà costretto ad<br />

agire secondo il proprio arbitrio. Da <strong>qui</strong> gli errori mortali – mortali per la<br />

morale – del probabilismo, del moralmente indifferente e dell’arbitrarismo,<br />

che portano ine<strong>vita</strong>bilmente al lassismo morale di ogni tempo. E<br />

giustamente, secondo Croce, il rigorismo morale protesta e si erge contro<br />

il lassismo, ma la sacrosanta reazione dei farisei contro i sadducei, o dei<br />

giansenisti contro i molinisti, non può avere definitivamente la meglio<br />

perché entrambi gli avversari si collocano sul terreno del legalismo morale.<br />

Invano i rigoristi, avvedendosi del pericolo e della rovina verso cui scivola per<br />

tal modo la teoria dell’Etica, si sono dibattuti contro i teorici del moralmente<br />

indifferente o lassisti. Fintanto che gli uni e gli altri non lasciavano il terreno legalitario,<br />

gli uni avevano ragione contro gli altri; e tutti poi, alla pari, Avevano<br />

torto, farisei e sadducei, giansenisti e molinisti. I rigoristi si aggrappavano disperatamente<br />

alla legge, e non ammettevano che essa potesse esser dubbia e dare<br />

luogo al moralmente indifferente: la legge era certa. Ma, in verità, la legge non è<br />

mai né dubbia né certa: aggirandosi su concetti empirici, essa non delimita mai<br />

nulla con esattezza, epperò non è certa; avendo per oggetto non già l’azione<br />

concreta, ma solo una preparazione a questa, non si propone di delimitare l’indelimitabile,<br />

epperò non è neanche incerta o dubbia: sta di qua o di là da siffatte<br />

categorie. Cosicché i rigoristi si ritrovavano anch’essi dinanzi il moralmente<br />

indifferente, e non avevano modo di vincerlo. Potevano consigliare di risolversi<br />

per l’azione più penosa e ripugnante, di contrariarsi, di tormentarsi; ma anche<br />

cotesta era una maniera di arbitrio e di male 36 .<br />

E se i rigoristi rimangono pur sempre prigionieri nelle strettoie di un<br />

sostanziale legalismo etico, bisogna ammettere che i lassisti, con la teoria<br />

36 Ivi, p. 349.<br />

Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 23


24 Maria Vita Romeo<br />

del probabilismo, scorazzano arditamente sul terreno legalitario della casistica<br />

morale:<br />

I lassisti potevano allargare a lor piacere il campo del moralmente indifferente,<br />

mettendo in luce le dubbiezze della legge, cioè la sua impotenza come principio<br />

pratico; ma poiché non riconoscevano alcun principio pratico fuori della forma<br />

della legge, a questa dovevano in qualche modo ricorrere per ottenere un punto<br />

di orientamento nella guida della <strong>vita</strong>. E, non potendo trovarlo nella legge per<br />

sé stessa, riconosciuta dubbia, dovevano riporlo nell’autorità degli interpreti; e,<br />

quando queste autorità discordavano, nel calcolo delle autorità (per l’appunto<br />

come nella legge di citazione di Teodosio II si usava pei giuristi romani); e poiché<br />

due o tre o quattro o cento autorità, quando sono incerte, non valgono più<br />

di una parimenti incerta, doveva, alla fine, bastare a essi un’autorità qualsiasi<br />

per giustificare un’azione 37 .<br />

Da <strong>qui</strong> il passo è breve per imbattersi nella folta ed intricata vegetazione<br />

del probabilismo secentesco:<br />

Il probabilismo, non che contradizione del legalismo, ne è logica conseguenza.<br />

Ridotti che si sia all’autorità, perché l’una dovrebbe valere più dell’altra quando<br />

sono in gara quelle di persone stimabili e fededegne? Perché dare la precedenza<br />

a Papiniano su Paolo o su Ulpiano? Se il Villalobos è d’avviso che un prete, il<br />

quale abbia commesso peccato mortale, non possa in quello stesso giorno dir<br />

messa, il Sánchez, invece, opina che può: perché dunque un prete, il quale si<br />

trovi nel caso, dovrebbe seguire il Villalobos anziché il Sánchez? È vero che, risolvendosi<br />

alla cieca tra il Sánchez e il Villalobos, egli si dà in preda all’arbitrio;<br />

ma arbitrio e legalismo sono indissolubili 38 .<br />

Risulta facile notare che questo percorso filosofico crociano porta alla<br />

critica di quella che fu la più famosa e sofisticata e vituperata forma secentesca<br />

del lassismo: la morale gesuitica. Invero, gli innumerevoli ruscelli<br />

del legalismo etico, della casistica, del probabilismo e dell’arbitrarismo<br />

soggettivistico vanno a confluire e riversarsi nell’imponente e sinuoso fiume<br />

della morale di tanti padri gesuiti. Ma, secondo Croce, non comprenderemo<br />

appieno la teoria morale di quei padri, se al grande fenomeno del<br />

legalismo etico non sapremo collegare la particolare espressione gesuitica<br />

37 Ivi, pp. 349-50.<br />

38 Ivi, p. 350.


dell’utilitarismo teologico. In altri termini, la peculiarità della morale gesuitica<br />

risiede proprio nella sintesi di legalismo etico e di utilitarismo teologico:<br />

La tendenza della morale gesuitica si rischiara e si fa trasparente innanzi all’intelletto<br />

solamente quando si pensi a un congiungimento tra il legalismo pratico<br />

e l’utilitarismo teologico; ossia quando non solo si concepisca la morale come<br />

sequela o complesso di determinazioni legislative, ma anche si reputino coteste<br />

leggi nient’altro che prodotto dell’arbitrio di un Dio. Come tali, esse non sono<br />

per sé morali e non vengono osservate per intrinseca necessità razionale, ma solamente<br />

come il minor male, pel timore del peggio o per la speranza di un vantaggio<br />

futuro. Tra l’uomo e Dio legislatore c’è, in quel caso, lotta sorda: lotta<br />

tra un debole e un prepotente, nella quale la forza del debole è riposta nell’ingegnosità,<br />

la sua tattica nella frode. Di <strong>qui</strong> il concetto dominante della morale gesuitica:<br />

guadagnare quanto più si può sulle leggi morali o divine, fare il meno<br />

possibile di quel che esse comandano; e, chiamati poi a rendere conto della propria<br />

azione al tribunale della confessione o nel giudizio universale, sottilizzare<br />

sulla legge interpretandola in modo che ciò che si è fatto risulti appartenere al<br />

campo del lecito e permissivo 39 .<br />

Da questo connubio di legalismo e utilitarismo nascono necessariamente<br />

molte mostruosità logiche e morali:<br />

Dio vieta all’uomo di ammazzare l’uomo; ma intende vietare ciò anche quando<br />

il motivo della uccisione sia la gloria stessa di Dio? Quando colui che uccide<br />

operi come la mano stessa di Dio? Senza dubbio, no; onde sarà lecito al gesuita<br />

ammazzare o fare ammazzare l’avversario giansenista, il quale, scoprendo le magagne<br />

della santa Compagnia che è esercito di Dio sulla terra, danneggia gl’interessi<br />

divini: quell’uccisione è, non solo lecita, ma doverosa. E se poi si volesse<br />

ammazzare l’avversario non per zelo di gloria divina, ma pel danno che reca agli<br />

interessi personali e immorali del gesuita? Anche cotesto è permesso, purché,<br />

nell’ammazzarlo, sebbene animati da odio personale, si distolga lo sguardo dal<br />

motivo reale e si diriga l’intenzione alla gloria divina, e col fine si giustifichi il<br />

mezzo 40 .<br />

Cinico disfacimento morale? Senza alcun dubbio. D’altronde, tutto<br />

questo non meraviglia, se si pone attenzione al fatto che, a trattare di teo-<br />

39 Ivi, p. 352.<br />

40 Ivi, pp. 352-3.<br />

Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 25


26 Maria Vita Romeo<br />

rie morali, erano non tanto uomini di fede, quanto piuttosto abili e scaltri<br />

uomini politici. Beninteso, quando si parla di disfacimento morale in<br />

riferimento al gesuitismo, si pensa non già alla moralità dei singoli padri<br />

della Societas Jesu, che molto spesso erano uomini di specchiata integrità<br />

morale, bensì alle teorie e alla loro ine<strong>vita</strong>bile ricaduta sull’organismo culturale,<br />

morale, educativo e politico di una società moderna, scossa da fortissime<br />

tensioni tra passato e avvenire, tra chiusure reazionarie e velleità<br />

progressiste. E, su questa doverosa distinzione, Croce coglie nuovamente<br />

l’occasione per formulare un giudizio storico che, in quanto tale, coglie il<br />

“positivo” che dialetticamente deve esistere in qualunque determinazione<br />

storica, e perciò nel gesuitismo morale come pure nei suoi avversari:<br />

Se il gesuitismo fu corruttela morale, ciò non tanto si deve alle sue teorie quanto<br />

piuttosto alla educazione che praticava, deprimente, servile, diretta a mortificare<br />

le forze della volontà e dell’intelligenza per ridurre l’uomo come senis baculus,<br />

strumento docile e passivo in mano altrui; e alla confusione che non solo<br />

serbava ma accresceva nelle coscienze circa i motivi reali delle azioni, con l’assopire<br />

la forza volitiva etica mercé sofismi e allettamenti di devozioni aisées à pratiquer,<br />

con le quali si dischiudevano le porte del Paradiso, e di chémins de velours,<br />

onde, con ogni soavità, si saliva al Cielo. I rigoristi e i lassisti, filosoficamente,<br />

si valgono; ma sta nel fatto che i rigoristi furono di solito animi energici<br />

ed austeri, che ebbero forte sentimento del carattere genuino della morale; nel<br />

che per contro i lassisti sovente mancarono e peccarono. D’altra parte, e per<br />

rendere giustizia a tutti, anche i lassisti ebbero qualche merito, e anch’essi intravidero<br />

una verità, col volgere lo sguardo alle complicazioni della realtà e del vivere<br />

umano e con l’asserire inconsapevolmente nelle loro storte dottrine il bisogno<br />

di un’Etica che si comportasse in modo meno astratto e riuscisse meno disarmonica<br />

verso la realtà della <strong>vita</strong> 41 .<br />

Per rendere ulteriore giustizia alle «storte dottrine» dei lassisti, non<br />

dobbiamo trascurare che lo scontro filosofico-religioso tra i lassisti e i rigoristi<br />

del XVII secolo affonda le sue radici nel vasto ed aspro terreno<br />

della Riforma protestante e della Controriforma cattolica. Contro la corruzione<br />

dei costumi nella Chiesa e nella società, contro la condotta spudoratamente<br />

immorale di tanti chierici – e papi e cardinali e preti e frati<br />

41 Ivi, p. 354.


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 27<br />

– avevano i protestanti scagliato macigni che costituirono il tumulo della<br />

vecchia Chiesa e della vecchia Europa. E il Concilio di Trento, nella sua<br />

grandiosa e ardua opera di risanamento e ristrutturazione di un edificio<br />

malsano e malfermo, affrontò con animo forte e acuta intelligenza anche<br />

i problemi di un decadimento morale che aveva ammorbato e la Chiesa e<br />

le istituzioni e la società civile. Opera coronata dal successo? Non sempre.<br />

Nel campo della moralizzazione, il Concilio tridentino operò scelte energiche<br />

e assunse provvedimenti miranti a rinsaldare la disciplina all’interno<br />

della Chiesa e a riallacciare nuovi rapporti ad ogni livello della società.<br />

Spesso, però, il male non venne debellato del tutto. E allora ci si accontentò<br />

di salvare e garantire le apparenze di una decenza rivolta all’esterno<br />

e all’esteriorità. Il vizio e il malcostume, non del tutto estirpati, furono<br />

perciò nascosti; e così almeno si e<strong>vita</strong>vano scandali: Si non caste, tamen<br />

caute. Se non riusciamo a vivere onestamente, cerchiamo almeno di essere<br />

accorti e cauti nel saper nascondere le azioni malvagie oppure nel saper<br />

gabellare il vizio come virtù.<br />

Se non fu il trionfo della morale, fu certamente la silenziosa e strisciante<br />

vittoria dell’ipocrisia, della simulazione e della dissimulazione. Dilagò<br />

il servilismo; ci si rassegnò più o meno gioiosamente ad una <strong>vita</strong> in<br />

maschera, ad un interminabile carnevale di cinismo e di ipocrisia.<br />

In verità, se si guarda al vasto e ricchissimo scenario storico del Seicento,<br />

si riconoscono in mille eventi i segni della modernità, del progresso<br />

e della libertà di coscienza in opposizione alle vecchie verità e alle consunte<br />

autorità. Purtroppo, in questo scenario secentesco, l’Italia offre uno<br />

spettacolo di decadenza, di vuoto e di apatia. Mentre nel resto d’Europa<br />

si costruivano le “patrie” che il fiorentino Machiavelli aveva disegnato e<br />

sognato, in Italia invece, quasi in un bagno di beata stupidità, non solo<br />

non si costruì un organismo unitario, ma addirittura ci si rassegnò a perdere<br />

l’indipendenza politica e a cedere il primato nella storia europea.<br />

Tutta colpa dello spagnolismo cattolico, che pesò sugli italiani dell’età<br />

barocca? Non sempre. Basti pensare che nella cattolicissima ed asburgica<br />

Spagna di Carlo V e di Filippo II fioriscono geni immortali come Cervantes,<br />

Lope de Vega e Calderón de la Barca, che giustamente rappresentano<br />

il vanto del siglo de oro spagnolo. Per non parlare della Francia, scossa<br />

da guerre di religione e da tensioni politiche, che brillerà nel mondo


28 Maria Vita Romeo<br />

per il suo grand siècle, con uomini di cultura come Descartes e Pascal, Fénelon<br />

e Bossuet, Corneille, Racine e Molière.<br />

Senza dubbio, l’Italia papale e spagnola aveva bensì spazzato via la<br />

vecchia Italia delle oscenità, della licenza e dell’antimoralismo innalzato a<br />

principio di <strong>vita</strong>, ma aveva di fronte a sé un vuoto etico-politico che non<br />

poteva essere colmato col cinismo e con l’ipocrisia. E, nelle intercapedini<br />

dell’osse<strong>qui</strong>o formale indirizzato a uomini e leggi, l’Italia barocca e bacchettona<br />

ammassava cumuli di materialismo, di paganesimo, di scetticismo<br />

e di apatia. Proprio così, una languida e raffinata e dolce apatia provocava<br />

la morte delle passioni morali, religiose, artistiche, politiche, che<br />

purtroppo cedevano il campo al desolante vuoto spirituale, al gaudente<br />

materialismo senza patria e senza Dio, al freddo e spietato egoismo corazzato<br />

di indifferenza, alla raffinata ricerca di emozioncelle, all’alienante ed<br />

alienata coltivazione del meraviglioso come fine in sé.<br />

Un nome emblematico per il Seicento italiano? Giovan Battista Marino.<br />

Mentre oltralpe si componevano grandiose sinfonie di pensiero, di<br />

arte e di politica, in Italia il marinismo costruiva ingegnosamente facili<br />

melodiette poetiche da carillon. Mentre in Europa rombava il cannone<br />

dei grandi scontri storici, in Italia si avvertivano a stento il noioso biascichìo<br />

delle litanie, lo sfavillìo dei sentimenti, lo scoppiettìo dei fuochi artificiali<br />

del marinismo.<br />

Beninteso, Marino non fu causa, ma emblema della decadenza dell’Italia<br />

barocca. E questo vale anche per il gesuitismo morale: la Compagnia<br />

di Gesù non fu causa, ma emblema della decadenza morale del Seicento.<br />

D’altronde, lungi dal coltivare autentici progetti di rinnovamento<br />

morale, lo spirito e lo scopo del gesuitismo erano fondamentalmente politici:<br />

governare i cervelli e le coscienze ad maiorem Dei gloriam, o, forse<br />

meglio, per mantenere e accrescere il potere del papa. A questo scopo, bisognava<br />

apparire spregiudicatamente moderni; bisognava indossare i panni<br />

dell’uomo nuovo, per mantenere in <strong>vita</strong> il vecchio. Occorreva assumere<br />

una posa da religiosi più laici dei laici, non solo per battere la “concorrenza”<br />

di formazioni religiose ben più rigide e rigorose, ma, soprattutto,<br />

per sconfiggere abilmente l’animo libertin della laicità. E il loro successo<br />

fu grande, pari alla loro spregiudicatezza politica: seppero calpestare ogni<br />

elementare principio morale per calcolo politico; tacciarono di astratto


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 29<br />

moralismo coloro che condannavano le loro discutibili e corpose operazioni<br />

politiche; ma furono capaci di stracciarsi le vesti e di gridare alla lesa<br />

maestà della morale, quando avvertivano gravi rischi per la loro politica.<br />

Abile e agile politica, quella gesuitica, che, non potendo innalzare gli uomini<br />

alle vette della purezza evangelica, abbassò il Vangelo alla debolezza<br />

e ai comodi bisogni degli uomini42 . Scaltra e spregiudicata politica, che<br />

mirava alla sottomissione delle plebi ai prìncipi, e dei prìncipi al papa, e,<br />

all’occorrenza, del papa alla Compagnia di Gesù.<br />

Teorici dell’obbedienza cieca ed assoluta ai superiori, costituirono il<br />

più efficiente e disciplinato esercito del papa, teorizzando la monarchia<br />

assoluta. Ma, se i nemici da combattere erano re e prìncipi, allora sapevano<br />

indossare panni democratici, teorizzando persino la “sovranità del popolo”<br />

e il “diritto dell’insurrezione”. A tal proposito, si pensi che già nel<br />

Concilio di Trento il secondo generale dei gesuiti, Diego Laínez, ebbe a<br />

dichiarare che la Chiesa ha le sue leggi da Dio, ma che la società ha diritto<br />

di scegliersi i suoi propri governanti. Addirittura il gesuita cardinal Roberto<br />

Bellarmino, dopo aver reso omaggio all’antica teoria che il potere<br />

politico deriva da Dio, sostenne però che le forme di governo dipendono<br />

dalle scelte e dalle necessità del popolo.<br />

Insomma, nella grande strategia politica dei gesuiti, si può essere assolutisti<br />

quando si parla della Chiesa o della Compagnia di Gesù; ma si può<br />

essere fautori della sovranità del popolo, quando si tratta di combattere il<br />

potere di re e di prìncipi. E, grazie a tale flessibile strategia, grande fu il<br />

potere politico dei gesuiti; tanto grande, da destare timori e sospetti persino<br />

nei prìncipi e nei papi. Perciò torna alla mente, nella sua intatta verità,<br />

il giudizio espresso da Pascal nella V Lettera Provinciale:<br />

Sappiate dunque che il loro obiettivo non è di corrompere i costumi, non è<br />

questo il loro intento. Però non hanno nemmeno come unico fine quello di riformarli.<br />

Sarebbe una cattiva politica. Ecco il loro pensiero. Hanno di sé stessi<br />

un’opinione abbastanza buona per credere che sia utile e quasi necessario per il<br />

42 A tal proposito, così si esprime il gesuita nella VI Lettera Provinciale: «Se tolleriamo qualche<br />

rilassatezza negli altri, è più per condiscendenza che di proposito. Vi siamo costretti. Gli uomini<br />

sono oggigiorno talmente corrotti, che non potendo farli venire a noi, bisogna pure che andiamo<br />

noi a loro. Altrimenti ci abbandonerebbero, peggio, si lascerebbero andare completamente»<br />

(VI e Lettre Provinciale, SeFe, p. 355).


30 Maria Vita Romeo<br />

bene della religione che la loro reputazione si estenda dappertutto e che essi governino<br />

tutte le coscienze […] Con questo sistema conservano tutti i loro amici,<br />

e si difendono contro tutti i loro nemici 43 .<br />

Ora, per rendere giustizia al rigorismo pascaliano e allo stesso Croce,<br />

occorre sottolineare che quella sorta di e<strong>qui</strong>distanza crociana rispetto al<br />

rigorismo e al lassismo, quel collocarli, criticando entrambi, ai punti<br />

estremi del comune terreno del legalismo etico, non regge alla prova di<br />

un’attenta riflessione sul concetto pascaliano della virtù morale. Un concetto,<br />

questo, che ben si distingue da ogni etica materiale e da ogni utilitarismo<br />

teologico; e <strong>qui</strong>ndi ben si distingue dal gesuitismo morale.<br />

In altri termini, se crocianamente intendiamo per «formale» l’universale,<br />

e per «materiale» il contingente, allora il principio della morale non<br />

può che essere formale e universale. In effetti, se questo principio fosse<br />

materiale, allora la moralità non potrebbe mai innalzarsi all’universale e<br />

resterebbe legata e determinata da un gruppo di singole azioni. Di <strong>qui</strong> il<br />

sorgere dell’utilitarismo etico:<br />

Col porre dunque un principio materiale dell’etica e col determinare l’universale<br />

come un singolo o (che fa il medesimo) come un finto universale, un concetto<br />

semplicemente generale, di serie o di gruppo, si ricade nell’utilitarismo, dal<br />

quale si credeva di essersi liberati. Vicenda che si ripete in ogni sfera della filosofia,<br />

perché sempre, quando il principio formale e universale di quella sfera viene<br />

materializzato, si torna alla sfera che le è immediatamente inferiore […] E l’Etica<br />

materiale, checché tenti e dica, torna logicamente all’utilitarismo 44 .<br />

A questo punto, dietro la descrizione crociana dell’Etica materiale e<br />

utilitaria è facile intravedere i connotati del lassismo e del gesuitismo morale.<br />

Anzi, ad utilizzare il criterio kantiano, il gesuitismo morale si configura<br />

come etica eteronoma e utilitaria. Ma torniamo alla morale pascaliana,<br />

che Croce, pur ravvisandovi residui di legalismo, non riesce tuttavia a<br />

collocare nel campo dell’Etica materiale e utilitaria. E non riesce, per la<br />

semplice ragione che la morale di Pascal è un’etica universale e non già<br />

materiale, etica che non ama le cose per le cose, né gli individui per gli<br />

43 V e Lettre Provinciale, SeFe, pp. 330-1.<br />

44 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., p. 292.


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 31<br />

individui, ma tutti questi per l’universale e nell’universale. È vero: per Pascal,<br />

le moi est haïssable. Ma l’io è odioso, solo quando si fa centro di tutto<br />

e pretende di asservire gli altri. Qui sta la condanna pascaliana dell’arbitrarismo<br />

soggettivistico ed egoistico, che trova la sua più tipica espressione<br />

nella mostruosità morale di un amour propre che pretende di farsi<br />

tutto, di farsi Dio, di assoggettare tutti, mentre poi non fa che strisciare<br />

nel fango della sua miseria morale ed esistenziale:<br />

La natura dell’amor proprio, di questo io umano è di non amare che se stessi e<br />

non considerare che se stessi. Ma come farà? Non può impedire che questo oggetto<br />

amato sia pieno di difetti e di miseria; vuol essere grande, e si vede piccolo;<br />

vuol essere felice, e si vede miserabile; vuol essere perfetto, e si vede pieno<br />

d’imperfezioni; vuol essere oggetto dell’amore e della stima degli uomini, e vede<br />

che i suoi difetti meritano solamente la loro avversione e il loro disprezzo 45 .<br />

Appare strana la morale cristiana di Pascal, che umilia la superbia dell’individuo-tutto,<br />

dell’individualità malata e disgregata, per poi offrire la<br />

possibilità di essere simile a Dio 46 . Être semblable à Dieu, significa certamente<br />

umiliare il capriccio e l’arbitrio egoistico, ma non già negando<br />

astrattamente i bisogni dell’individuo, bensì trascendendo l’individualità<br />

malata per poi riaffermarla come parte del Tutto.<br />

In mirabile assonanza con la morale pascaliana, ecco il superamento<br />

dell’individualità empirica ed egoistica nella morale crociana:<br />

La morale richiede il sacrificio di me al fine universale, ma di me nei miei fini<br />

meramente individuali, e perciò così di me come degli altri: essa non ha nessuna<br />

particolare inimicizia contro di me, da volermi sacrificare a vantaggio degli<br />

altri. Bisogna essere severi non solo con sé stessi, ma anche con gli altri; esigenti<br />

non solo verso sé, ma anche verso gli altri; e, per contrario, benevoli non solo<br />

con gli altri, ma anche con sé stessi; compassionevoli non solo per gli altri, ma<br />

anche per questo strumento di lavoro che portiamo in giro con noi, e dal quale<br />

talvolta pretendiamo troppo, la nostra povera empirica individualità. […] Tutti<br />

sono, a volta a volta, padroni e servi: degni di rispetto perché rappresentanti e<br />

portatori del bene, degni di castigo e riprensione perché ostacoli e contrasti al<br />

45 Fr. n. 743 Se.<br />

46 «Il cristianesimo è strano. Comanda all’uomo di riconoscere che è vile, anzi abominevole,<br />

e gli comanda di voler essere simile a Dio» (Fr. n. 383 Se).


32 Maria Vita Romeo<br />

bene. La morale considera gl’individui non mai per sé stessi, ma sempre nella<br />

loro relazione con l’universale: nel quale aspetto non c’è uomo che non meriti a<br />

volta a volta e di essere salvato e di essere soppresso […] Nessun individuo va<br />

trattato come fine, ma tutti come mezzi per l’universale morale, dal quale solamente<br />

ricevono dignità di fini 47 .<br />

Beninteso, nel mettere in evidenza le assonanze non si vuol certo<br />

ignorare o mascherare le innegabili differenze tra Pascal e Croce. E tuttavia,<br />

nell’esigenza di una morale universale, nel bisogno di superare il capriccio<br />

soggettivistico dell’individualità malata, che si stacca dal Tutto, e<br />

che si proclama stupidamente Dio, pretendendo stoltamente e pericolosamente<br />

di farsi centro di tutto e padrone di tutti, in tutto ciò il laico filosofo<br />

napoletano è affratellato al cristiano Pascal, che ricorre al rapporto<br />

membro-corpo per condannare le membre séparé, la parte che si stacca dal<br />

tutto, e per formulare invece una morale dell’armonia fra l’individuale e<br />

l’universale, fra la parte e il Tutto, fra l’uomo e Dio:<br />

Essere membri significa non aver <strong>vita</strong> né essere e movimento, se non dall’intelletto<br />

del corpo e per il corpo. Il membro separato che non vede più il corpo cui<br />

appartiene, non possiede se non un essere che deperisce e muore. Tuttavia crede<br />

di essere un tutto e, non vedendo alcun corpo da cui dipenda, crede di dipendere<br />

solo da se stesso e vuole farsi centro e corpo egli stesso 48 .<br />

Tornano a questo punto le parole di san Paolo scritte ai Corinzi: Qui<br />

autem adhaeret Domino unus spiritus est 49 . E, su quella scia, tornano prepotenti<br />

alla memoria le religiose parole della morale laica di Croce:<br />

L’uomo morale, nel voler l’universale, ossia quel che lo trascende in quanto individuo,<br />

si volge allo Spirito, alla Realtà reale, alla Vita vera, alla Libertà. […]<br />

Egli deve volere non solo il sé stesso individualizzato, ma insieme quel sé stesso<br />

che, essendo in tutti i sé stessi, è il loro comune Padre. Per tal modo, promuove<br />

l’attuarsi del Reale, vive la <strong>vita</strong> piena e fa battere il proprio cuore col cuore<br />

dell’universo: cor cordium 50 .<br />

47 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., pp. 293-4.<br />

48 Fr. n. 404 Se.<br />

49 «Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1 Cor, 6.17). Nel citato fr. 404,<br />

Pascal così riporta le parole di san Paolo: Qui adhaeret Deo unus spiritus est.<br />

50 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., pp. 303-4.


D’altronde, che la morale idealistica crociana s’innesti sul tronco sempre<br />

vivo del cristianesimo, che l’Etica dello Spirito sia figlia dell’Etica cristiana,<br />

è proprio lo stesso Croce ad ammetterlo apertis verbis, con orgoglio<br />

e con accenti religiosissimi:<br />

Soprattutto quest’ufficio di simbolo etico idealistico, quest’affermazione che<br />

l’atto morale è amore e volizione dello Spirito in universale, si osserva nell’Etica<br />

religiosa e cristiana, nell’Etica dell’amore e della ricerca ansiosa della presenza<br />

divina: così misconosciuta e bistrattata oggi, per angusta passione di parte o per<br />

manco di finezza mentale, dai volgari razionalisti e intellettualisti, dai cosiddetti<br />

liberi pensatori e da simile genía, frequentatrice di logge massoniche. Non c’è<br />

quasi verità dell’Etica […] che non si possa esprimere con le parole, che abbiamo<br />

apprese da bambini, e che spontanee ci salgono alle labbra come le più alte,<br />

le più appropriate, le più belle: parole, di certo, ombrate ancora di mitologia,<br />

ma gravi insieme di un contenuto profondamente filosofico 51 .<br />

Nel volgere poi lo sguardo da storico della filosofia morale ai millenni<br />

del pensiero occidentale, Croce non può non fare riferimento a Kant per<br />

il concetto stesso di etica formale e universale, e ben sapendo che l’«aborrimento»<br />

kantiano verso le morali materiali, utilitarie ed eteronome gli<br />

proveniva dal platonismo e, soprattutto, dal Cristianesimo. E <strong>qui</strong>, nel panorama<br />

storico tracciato da Croce, balza evidente il merito di Pascal che,<br />

assieme ai «grandi cristiani francesi del Seicento», seppe definire il concetto<br />

di una morale rigorosa ed austera che svincola l’uomo dall’amor di sé e<br />

dall’amore del mondo, che fa morire il vecchio uomo empirico, carnale<br />

ed egoista, per farlo rinascere in armonia con Dio, con l’universale:<br />

Come dell’austera concezione etica kantiana, e del suo aborrimento pel materiale<br />

e pel mondano, la sorgente è nel Cristianesimo (e nel platonismo), così anche<br />

l’origine della sua idea morale concreta è da ricercare in sant’Agostino, anzi<br />

in san Paolo, nei mistici del medioevo, nei grandi cristiani francesi del Seicento,<br />

in quella virtù, di cui il Pascal scriveva che è “plus haute que celle des pharisiens et<br />

des plus sages du paganisme”, e che sola rende possibile di “dégager l’âme de<br />

l’amour du monde, la retirer de ce qu’elle a de plus cher, la faire mourir à soi<br />

même, la porter et l’attacher uniquement et invariablement à Dieu” 52 .<br />

51 Ivi, p. 306.<br />

52 Ivi, p. 310.<br />

Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 33


34 Maria Vita Romeo<br />

Come si può notare, nel rapido excursus storico sulle radici della morale<br />

kantiana, Croce si sofferma solo su Pascal e solo di Pascal cita un brano<br />

particolarmente significativo della V Lettera Provinciale, dove il genio<br />

di Clermont fa parlare l’amico giansenista. Indubbiamente parole molto<br />

tristi, quelle della V Lettera Provinciale, per la penosa impressione suscitata<br />

dalla morale gesuitica nell’animo dell’amico giansenista. E tuttavia parole<br />

piene di orgoglio e di indignazione, scritte da Pascal in uno dei momenti<br />

cruciali e drammatici di una guerra tra gesuiti e giansenisti che inesorabilmente<br />

volgeva a favore dei primi, prefigurando l’esito esiziale a scapito<br />

del giansenismo, la persecuzione per gli uomini e le donne di Port-<br />

Royal, l’annientamento di una delle più nobili e pure esperienze morali e<br />

religiose del Seicento francese.<br />

La V Lettera Provinciale appare il 30 marzo 1656, con un frettoloso<br />

an ticipo rispetto al progetto di pubblicarla assieme alla Sesta, per sfuggire<br />

alle sempre più incalzanti irruzioni della polizia nelle tipografie. E bisogna<br />

ricordare che, tra la Quarta e la Quinta Provinciale, corre quasi un<br />

mese in cui si addensano minacciose le nubi di una tempesta che s’avvicina<br />

fatalmente su Port-Royal e che, successivamente, travolgerà e annienterà<br />

per sempre la vicenda della fioritura agostiniana col giansenismo. Tra<br />

il febbraio e il marzo 1656, quando ancora vedono la luce la Quarta e la<br />

Quinta Provinciale e all’orizzonte appare incerto l’esito del violento scontro<br />

fra gesuiti e giansenisti, l’occhio dello storico può già scorgere i segni<br />

premonitori della persecuzione e della pesante sconfitta che subirà il giansenismo:<br />

tra il febbraio e il marzo 1656, Sainte-Beuve, professore alla Sorbona<br />

e favorevole ad Arnauld, fu ostacolato nello svolgimento delle sue<br />

lezioni e poi destituito.<br />

In quei giorni, Arnauld sfugge alle ricerche della polizia e vive alla macchia<br />

a Parigi. Su intervento del papa presso il re e il cardinal Mazarino,<br />

con alterne vicende, si procederà alla cacciata dei residenti a Port-Royal e<br />

all’abbattimento delle Granges, la fattoria dell’abbazia. E sarà l’inizio della<br />

fine della luminosa esperienza di rinnovamento religioso e di risanamento<br />

morale, che le donne e gli uomini di Port-Royal avevano vissuto. Sarà il<br />

trionfo della politica e del machiavellismo secenteschi: ossia, il trionfo della<br />

politica della Compagnia di Gesù, che abilmente saprà mettere in piedi un<br />

capolavoro di alleanza fra il trono e l’altare, fra il re di Francia e il papa.


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 35<br />

Ma, sconfitti sul piano politico, i giansenisti usciranno vittoriosi sul<br />

piano morale. Anzi, parafrasando Pascal, si potrebbe dire che i gesuiti e il<br />

re e il papa ebbero bensì la meglio dans l’ordre de la chair, nell’ordine politico<br />

della carne, mentre i giansenisti ebbero la palma della vittoria dans l’ordre<br />

de la charité, nell’ordine della carità. Ma possiamo far ricorso alla teoria<br />

crociana del “primato” della storia etico-politica come storia religiosa:<br />

La quale “storia morale” o “etico-politica” (se mi si consente questa aggiunta<br />

considerazione) è poi ciò che sta nel fondo dell’affermazione o richiesta più volte<br />

manifestata: che la vera storia dell’umanità sia la storia religiosa. […] Ora<br />

questa fede, quest’impeto, questo entusiasmo, che qualifica le epoche e i popoli<br />

altamente storici, che cos’è mai se non la fede attuosa nell’universale etico,<br />

l’operosità nell’ideale e per l’ideale, comunque lo si concepisca e teorizzi, benché<br />

sempre in qualche modo teorizzato, con uno sfondo metafisico nell’invisibile,<br />

cioè nel mondo del pensiero? 53 .<br />

Sicché, nella storia morale o etico-politica, non i gesuiti ma i giansenisti<br />

sono i vincitori. Se poi restiamo al concetto crociano della «fede attuosa<br />

nell’universale etico», torniamo al valore cristiano che i giansenisti e<br />

Pascal attribuirono alla coscienza morale nella sua purezza e nella sua forza,<br />

nel suo rigoroso senso del peccato e nella sua invincibile fede nel riscatto.<br />

E rileggiamo quelle parole che Pascal fa pronunciare all’amico<br />

giansenista nella V Lettera Provinciale:<br />

Quando noi sosteniamo la necessità della grazia efficace, le diamo altre virtù per<br />

oggetto. Non è semplicemente per guarire i vizi con altri vizi; non è soltanto<br />

per far praticare agli uomini i doveri esteriori della religione: è per una virtù più<br />

alta di quella dei farisei e dei maggiori saggi del paganesimo. La Legge e la ragione<br />

sono grazie sufficienti per questi effetti. Ma per liberare l’anima dall’amore<br />

del mondo, per ritrarla da ciò che essa ha di più caro, per farla morire a se<br />

stessa, per portarla e affezionarla unicamente e invariabilmente a Dio, non c’è<br />

che l’opera di una mano onnipotente 54 .<br />

Occorre una virtù «plus haute» di quella legalistica dei farisei, fondata<br />

sulla osservanza Legge, e di quella dei saggi pagani, fondata sulla ragione;<br />

53 B. Croce, Storia economico-politica e storia etico-politica, in «La Critica», 1924; ora in Etica e<br />

politica, Bari, Laterza, 1973, p. 233.<br />

54 V e Lettre Provinciale, SeFe, p. 333.


36 Maria Vita Romeo<br />

occorre la virtù cristiana che sa trascendere il vecchio uomo sans Dieu,<br />

che sa superare l’amor proprio a vantaggio dell’amore di Dio, dell’universale.<br />

Una virtù, quella della V Lettera Provinciale, che non risiede negli atti<br />

esteriori ma nelle profondità divine di quella coscienza morale a cui<br />

Croce scioglierà un vero e proprio inno:<br />

La coscienza morale, all’apparire del cristianesimo, si avvivò, esultò e si travagliò<br />

in modi nuovi, tutt’insieme fervida e fiduciosa, col senso del peccato che sempre<br />

insidia e col possesso della forza che sempre gli si oppone e sempre lo vince,<br />

umile ed alta, e nell’umiltà ritrovando la sua esaltazione e nel servire al Signore<br />

la letizia. E si tenne incontaminata e pura, intransigente verso ogni allettamento<br />

che la traesse fuori di sé o la mettesse in contrasto con sé stessa, guardinga persino<br />

contro la stima e la lode e il luccicore sociale; e la sua legge attinse unicamente<br />

dalla voce interiore, non da comandi e precetti esterni, […] E il suo affetto<br />

fu di amore, amore verso tutti gli uomini, senza distinzione di genti e di<br />

classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il mondo che è opera di<br />

Dio e Dio che è Dio d’amore, e non sta distaccato dall’uomo, e verso l’uomo<br />

discende, e nel quale tutti siamo, viviamo e ci moviamo 55 .<br />

L’inno crociano, innalzato alla coscienza morale cristiana, si attaglia<br />

perfettamente alla morale dell’agostiniano Pascal, a quel suo travaglio tra<br />

la profondità interiore della coscienza e la trascendenza divina, tra la morale<br />

della coscienza e la morale legalitaria ed utilitaria, tra gli abissi della<br />

miseria umana e la grandeur dell’uomo riappacificato con l’universale,<br />

con Dio. E nel filosofo italiano, hegeliano e laico, religiosamente avvertiamo<br />

un affiatamento, anzi un affratellamento, con quella religione che<br />

fu di Paolo, di Agostino, di Pascal, con quel cristianesimo che gli detterà<br />

accenti sinceri e alti concetti:<br />

E serbare e riaccendere e alimentare il sentimento cristiano è il nostro sempre<br />

ricorrente bisogno, oggi più che non mai pungente e tormentoso, tra dolore e<br />

speranza. E il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo<br />

chiamano lo Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi stessi 56 .<br />

55 B. Croce, Perché non possiamo non dirci “cristiani”, in Discorsi di varia filosofia, I, Bari, Laterza,<br />

1945, pp. 13-4.<br />

56 Ivi, p. 23.


Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 37<br />

In linea con il suo sistema tetradico, Croce sottolinea la necessità di<br />

separare la sfera del diritto da quella della morale; se infatti si trascura la<br />

differenza tra il punto di vista giuridico ed il punto di vista morale, riconoscendo<br />

di fatto solo il primo, si cade nel giuridicismo; un pericolo che<br />

Pascal, come vedremo più avanti, ha cercato di e<strong>vita</strong>re, affrancandosi dal<br />

legalismo e intendendo per legge la coscienza morale e per ignoranza di<br />

essa quell’estrema oscurantezza ed insensibilità morale, la quale pone chi<br />

vi soggiace più giù del peggior peccatore.<br />

Deresponsabilizzare l’uomo, come vogliono alcuni gesuiti, è pensare<br />

l’uomo in un modo che non è il vero modo; è sostituire l’uomo a Dio e<br />

negare il senso del religioso, è mettere in primo piano la libertà umana a<br />

scapito della grazia la quale, invece, ha il compito di trasformare l’uomo<br />

dal di dentro, orientandolo verso il vero e il bene. Così alla morale gesuitica<br />

che privilegia la natura al posto della grazia, Pascal oppone la carità<br />

che fa della grazia la sua “arma migliore”. È questa la grazia difesa Pascal,<br />

quella grazia che egli ha vissuto con tormentoso e gioioso travaglio nella<br />

notte di fuoco. Tutto il resto è disputa fra teologi, fra uomini che volendo<br />

mettere la libertà umana al primo posto e volendola salvare a scapito<br />

della grazia, fanno credere all’uomo di essere arbitro del proprio destino e<br />

di poter contare, dunque, sulle sue forze.


Matisse, Nudo blu III, 1952, Papiers gouachés découpés, 112 × 73,5 cm,<br />

Parigi, Musée Nationale d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou.


Antonio Giovanni Pesce<br />

La fenomenologia della coscienza<br />

in Giovanni Gentile<br />

VoleNDo ricostruire, sulla falsariga di Hegel, una fenomenologia<br />

della coscienza in Giovanni Gentile, non mancherebbero spunti<br />

per una riflessione articolata. Una ricerca in tal senso avrebbe di certo il<br />

suo profondo fascino, ma a condizione che fosse chiaro il punto di partenza<br />

da cui prendere le mosse, e che appare in tutta la propria ineludibilità:<br />

non l’emergere dello spirito nella storia è il fulcro del pensiero attualistico<br />

di Gentile, bensì l’emergere della storia nello spirito. E che, inoltre,<br />

a questa “interiorità” bisogna pur tornare per intendere la storia, anzi.<br />

L’intelligibilità del reale è proprio questo reale <strong>qui</strong>, l’unico reale del quale<br />

l’uomo non può mai disinteressarsi – questa interiorità concreta, che si fa<br />

storia. Una riduzione immanentistica che, mentre eredita la modernità,<br />

ne fa la critica superandola.<br />

Si può cominciare da una lettura della storia della filosofia, che è anche<br />

una lettura della civiltà. Ora, si faccia attenzione che di “lettura” si<br />

tratta, non già di “ricostruzione”. È bene avere in mente questa profonda<br />

distinzione, altrimenti sfuggirà il nucleo del problema che <strong>qui</strong> si affronta.<br />

Lettura – e se c’è lettura, ci devono essere almeno tre elementi: un lettore,<br />

un testo e, anche se non appare, chi il testo lo ha prodotto. Eppure, nell’operare,<br />

nel darsi della lettura, questi tre elementi appaiono del tutto fusi.<br />

Un libro non lo si scriverebbe, se non fosse presupposto un lettore,<br />

foss’anche lo stesso scrittore in mutate condizioni (un diario, per esempio).<br />

E se è così, allora il ruolo del lettore è necessariamente presupposto<br />

dallo scrittore medesimo1 .<br />

1 Per una formalizzazione di quanto detto, cfr. U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani,<br />

2001, capp. 3 e 4.


40 Antonio Giovanni Pesce<br />

Scrittura e lettura si danno, dunque, come medesima operazione, nella<br />

quale, pur nella distinzione dei ruoli, è data l’unità. Unità come accordo?<br />

No, unità come intelligibilità. E chi scrive entra in chi legge, e chi<br />

legge si fa tessitore della trama spirituale del testo, solo se entrambi appartengono,<br />

non nell’immediatezza, all’orizzonte spirituale di quel reale<br />

che si dà nell’opera. Essi si fanno uno, pur nel proprio svolgimento spirituale,<br />

solo perché quell’unità è prima dello svolgimento. Unità che è pace,<br />

ma solo dopo il conflitto. Ciò che ciascuno di noi è con l’altro, è ciò<br />

che ognuno di noi è sempre stato, ma che senza l’altro non avrebbe avuto<br />

la possibilità di emergere. Ed è di questo “emergere” della <strong>vita</strong> più vera<br />

dell’uomo, che <strong>qui</strong> si vuol trattare.<br />

Ora, ci sono due modi di affrontare la questione: il primo è quello di<br />

cominciare dall’aspetto ontologico, andando al fondamento di quel reale<br />

“interiore” a cui si è già accennato. Ma questo ente non è come ogni altro<br />

ente, perché si dà in modo del tutto diverso e particolare – si dà appunto;<br />

e non è semplicemente. È dono, lenta con<strong>qui</strong>sta, e non deposito, eredità,<br />

manna, ecc. 2 Il secondo modo consiste nel tracciare l’aspetto fenomenologico,<br />

premettendo che vi sono alcuni livelli di questo “emergere” della<br />

coscienza. Un primo livello è quello più propriamente storico, e storico<br />

nel suo senso più comune (successione di epoche, di filosofie, ecc.). Un<br />

secondo livello potrebbe essere definito dialettico, il cui svolgimento è in<br />

interiore homine prima ancora di essere intra homines. Ma questo secondo<br />

livello è il luogo dove l’aspetto ontologico si dà.<br />

Prendiamo per buono il secondo metodo, perché permette una trattazione<br />

più piana, senza rinunciare a notare, al momento opportuno, come<br />

si sia giunti al punto di irradiazione del reale. Ed è bene dire subito che lo<br />

2 Cfr. G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, vol. 1: Pedagogia, V ed. riv.,<br />

Firenze, Sansoni, 1941, p. 39. D’ora in poi SP1. Per quanto riguarda i testi gentiliani più citati, le<br />

sigle saranno mutuate da Giorgio Brianese, Gentile, Milano, Mursia, 1996, pp. 13-4, e cioè: La filosofia<br />

di Marx (FM), in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Milano, Garzanti, 1991, pp. 95-231; La<br />

riforma della dialettica hegeliana (RDH), III ed., Firenze, Le Lettere, 1996; Sommario di Pedagogia,<br />

vol. 2 (SP2), V ed. riv., Firenze, Sansoni, 1962; Fondamenti di filosofia del diritto (FDD), IV ed.<br />

riv., Firenze, Le Lettere, 1987; Teoria generale dello spirito come atto puro (TGS), in Opere filosofiche,<br />

cit., pp. 453-682; Sistema di Logica, vol. 1 (SL1), vol. 2 (SL2), III ed. riv., Firenze, Le Lettere,<br />

2003; Introduzione alla filosofia (IF), II ed. riv., Firenze, Sansoni, 1958; Genesi e struttura della società<br />

(GSS), Firenze, Sansoni, 1946.


La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 41<br />

scopo di questo lavoro consiste nella ricerca di una risposta alle domande:<br />

qual è il culmine e il fondamento dell’attualismo gentiliano? Questo Fondamento<br />

permette di pensare anche la realtà più complessa, che è quella<br />

umana?<br />

L’attualismo di Giovanni Gentile può ancora dire molto e, di sicuro,<br />

disse più di quanto si poté cogliere, giacché seppe innestarsi nel vivo dello<br />

sviluppo filosofico dell’Occidente, soprattutto in quella modernitas nata<br />

dall’Umanesimo italiano, ma che esso coniugava con il cuore del messaggio<br />

cristiano.<br />

Dobbiamo chiederci: cos’è la modernità? Non troviamo risposta migliore<br />

che quella data da Gianni Vattimo. La modernità sarebbe dominata<br />

dal concetto di “storia”, cioè dalla progressiva e sempre più piena appropriazione<br />

del Fondamento. In questa progressione si registra un superamento,<br />

cioè ogni tappa di avvicinamento al Fondamento del reale, che<br />

è la realtà più piena, è migliore di quella che l’ha preceduta 3 . Fine della<br />

storia, dunque. Ma la storia non è la storia del Fondamento, proprio perché<br />

il Fondamento fonda. La storia è il rapporto dialettico tra l’illuminato<br />

– parafrasando un’espressione usata da Vattimo – e l’illuminante. L’illuminazione<br />

del Fondamento si dà negli occhi dell’illuminato. Ma se<br />

questo rapporto (questa storia) viene meno, non solo risulta perso il Fondamento,<br />

ma anche colui che ad esso si appellava 4 , sia perché non ha più<br />

luce davanti, sia perché non ha più luce alle spalle. Non ha più ombra.<br />

Non ha più egli stesso il Fondamento di cui andava alla ricerca per una<br />

sempre più piena appropriazione. Il Fondamento è sempre, in una certa<br />

misura, dato. È la pienezza che ci sfugge. Ma senza la possibilità di muoversi<br />

in un orizzonte, perché ogni prospettiva risulta annichilita, ne vale<br />

anche della nostra medesima comprensione.<br />

Se questa interpretazione coglie con esattezza – come sembra si possa<br />

accettare – la questione della modernità, allora non solo l’attualismo è<br />

stato concepito come compimento della modernità, ma compimento che<br />

non lasciava fuori di sé nulla. Neppure il cristianesimo, considerato se<br />

non proprio come culmine, di certo come travaso di un cammino stori-<br />

3 Cfr. G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1999, p. 10.<br />

4 Cfr. ivi, p. 39.


42 Antonio Giovanni Pesce<br />

co, di continuativa emersione della coscienza, quale <strong>vita</strong> del reale, nel mare<br />

aperto della spiritualità cristiana.<br />

Già un accenno ad un tentativo di superamento del dualismo tra uomo<br />

e mondo è riscontrabile nel giovanissimo Gentile che legge Marx,<br />

quando, dovendo rintracciare le radici del marxismo, non si limita ad<br />

Hegel, Vico e Cartesio, ma cita anche Socrate, come colui che, attraverso<br />

la maieutica, trae fuori dall’uomo la realtà quale dev’essere 5 . D’altronde,<br />

secondo Gentile, la modernità vera inizia col Cristianesimo, nonostante i<br />

suoi legami col platonismo e con l’aristotelismo, quando inizia lentamente<br />

la lenta con<strong>qui</strong>sta del concetto del soggettivismo (in senso gentiliano,<br />

affatto diverso da ogni forma di protagorismo o solipsismo) 6 .<br />

Non è questo il momento in cui approfondire l’interessante visione di<br />

Gentile sul Cristianesimo. Preme, semmai, vedere cosa, in questa epocale<br />

rivoluzione dello spirito, egli ritenga di capitale importanza. In Teoria generale<br />

dello spirito si può leggere un brano che, seppur tra i molti fraintendimenti<br />

a cui può essere soggetto, è ancora oggi una vibrante pagina<br />

etica 7 . Il Cristianesimo scopre la realtà, e non già come è, bensì come non<br />

è; la realtà che crea se stessa e che, proprio perché crea se stessa, è amore e<br />

volontà. E siccome essa si crea, non è compiuta, ma è da compiere; processo<br />

continuo, nel quale non c’è appagamento, ma indefesso desiderio 8 .<br />

Che vuol dire ciò? Che la realtà «è lo stesso sforzo interiore dell’anima, il<br />

suo vivo processo, non l’ideale suo e il suo modello esteriore» 9 . Alla realtà<br />

qual è concepita dal mondo antico, che presuppone lo spirito, la filosofia<br />

moderna e, in ultima battuta, l’idealismo di cui la dottrina dell’atto è suo<br />

compimento, oppone una realtà diversa, che dello spirito abbisogna, perché<br />

si realizza col realizzarsi di esso 10 .<br />

15 Cfr. FM, p. 148. Possiamo leggere altrettanto in SL1:«Socrate aveva ammonito i filosofi<br />

greci che lasciassero da parte le ricerche intorno alla natura, che è la realtà divina (tav daimovnia),<br />

per volgersi al mondo che dipende dall’uomo (tav anqrwvpina)» (p. 33).<br />

16 Cfr. RDH, p. 114 e p. 210.<br />

17 Cfr. TGS, p. 677.<br />

18 Cfr. V. A. Bellezza, L’esistenzialismo positivo di Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1954,<br />

pp. 5-10.<br />

19 TGS, p. 677. Corsivo nostro. Cfr. anche SL2, pp. 177-8.<br />

10 Cfr. SL1, pp. 32-3, e p. 169.


Il Cristianesimo, dunque, ha il merito di aver negato l’intellettualismo,<br />

a cui era legato il pensiero antico, e di aver gettato le basi della<br />

«nuova intuizione spiritualistica», che trova il suo culmine nel pensiero<br />

dei Padri della Chiesa, quando cioè vengono elaborati tre dogmi: umanità<br />

e divinità di Gesù; Dio uno e trino; il peccato e la grazia 11 . Degli ultimi<br />

due si potrebbe a lungo parlare, per esempio facendo notare come già in<br />

Dio si trovi non la staticità dell’essere ma la relazionalità dello spirito; o<br />

come la <strong>vita</strong> sia continua redenzione. Tuttavia, il dogma del Dio che si fa<br />

uomo, e facendosi uomo entra nella storia e fa la storia, non poteva che<br />

essere di profonda rilevanza per l’attualismo, perché questo Dio ha lingua<br />

e parla; ha orecchie e ode; ha mani e tocca. Egli è il Vivente, ed è come lui<br />

chi in lui confida 12 . È il Dio venuto a spiritualizzare la natura, non già ad<br />

annientarla; il Dio che è Persona, ed è Unico in Tre persone. E che costruisce<br />

il suo regno con coloro che sono vocati. Ma se c’è chiamata, c’è<br />

risposta. E <strong>qui</strong>ndi c’è Parola, Lovgo~, Spirito. Ma anche legame.<br />

Questa chiamata all’interiorità è il senso più profondo dell’attualismo<br />

13 , figlio del Cristianesimo; e l’idealismo moderno poteva svilupparsi<br />

solo in un tale contesto storico, e non certo altrove e altrimenti. In un<br />

contesto nel quale il lavoro, nato come dannazione, diventa redenzione<br />

del mondo, perché il Lovgo~ vi opera con gli uomini e attraverso gli uomini.<br />

Questa concretezza che fa dire Io, e fa giudicare il mondo, perché lo<br />

impegna moralmente al proprio perfezionamento e, dunque, al perfezionamento<br />

del mondo – dove nel “dunque” è espressa la relazione causale e<br />

non già la contiguità temporale – questa concretezza è l’uomo. L’uomo<br />

che, in quanto soggetto, sa di dover riportare tutto quanto egli veda e<br />

senta al proprio pensiero. Questa la chiave di volta di tutto l’attualismo:<br />

non si pensa in astratto, ma si pensa sempre un oggetto, il quale non sarebbe<br />

senza un soggetto che lo pensi. E un soggetto che non pensi qualcosa<br />

non può essere 14 . Perché? Perché pensare è creare, è la <strong>vita</strong> dello spirito<br />

che si fa pensato. Se non c’è pensato, non c’è <strong>vita</strong>. E anche la morte<br />

11 Cfr. SL1, p. 164.<br />

12 Cfr. Sal 114, 4-8.<br />

13 Cfr. SL2, p. 289-90.<br />

14 Cfr. TGS, p. 537 e p. 652.<br />

La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 43


44 Antonio Giovanni Pesce<br />

è, innanzi tutto, un pensato, perché senza atto del pensiero non è niente,<br />

non essendo, in quel caso, niente neppure il pensiero. Il pensiero – sia<br />

chiaro – di cui si può dire Io.<br />

Prima di analizzare l’intima dialettica e alcuni punti che si danno nella<br />

loro originalità speculativa, chiariamo subito: lo spirito, qual è concepito<br />

da Gentile, non arriva dopo – dopo la logica, dopo la natura. Lo spirito<br />

è prima, è la sintesi originaria, ed ecco perché c’è logica, che è sempre<br />

pensata da me che la penso, ed ecco perché c’è natura. Lo spirito è questa<br />

individualità concreta, storica, che pensa; questa individualità concreta<br />

che è soggetto che pensa «quella realtà spirituale» (la logica, la natura) che<br />

è «oggetto del nostro conoscere» 15 . È processo, dunque, ed è atto – l’atto<br />

supremo della <strong>vita</strong>, l’intimità più assoluta perché assoluta positività, che<br />

non può trovare negazione fuori di essa; l’intangibilità profonda dello<br />

spirito, che rende l’uomo vivente, e lo fa emergere dal nulla dell’incoscienza<br />

propria; è il sintagma Io sono; – dunque processo e atto, e non sostanza<br />

da contrapporre alla materia, giacché «il nostro spirito […] è solo<br />

spirito della nostra esperienza», dove l’esperienza è l’atto della <strong>vita</strong> e non<br />

il suo contenuto 16 .<br />

Questo intende Gentile, quando afferma che «il pensiero che è vero<br />

pensiero, deve generare l’essere di cui è pensiero» 17 . Egli intende che l’affermazione<br />

dell’Io rende logicamente secondario l’essere. Infatti, è solo dopo<br />

la mia affermazione come autocoscienza, che io prendo coscienza di essere<br />

io che penso, e di essere un ente distinto da tutti gli altri enti. Solo quando<br />

intendo di avere un mondo interiore, solo allora mi ricostruisco, con un atto<br />

di esistenza, la <strong>vita</strong>, e mi comprendo neonato, e nelle foto rivedo me<br />

stesso. Ma sono io, ora, che con un atto di pensiero mi rivedo nelle foto di<br />

ieri. Senza questo ora, che mi fa dire Io, io non sarei punto. Ma si ponga<br />

attenzione ad un nodo importante: è logicamente che il pensiero è prima<br />

dell’essere; è logicamente che io mi riconsegno a me stesso come pensiero<br />

che è. Logicamente, solo dopo l’atto del pensiero (pensante) che mi fa dire<br />

«io sono». Io non sono, se non mi penso, ma non mi posso pensare se<br />

15 Cfr. ivi, p. 470.<br />

16 Cfr. ivi, p. 477.<br />

17 TGS, p. 540.


non sono. Verrò pensato da altri, ma il nodo dell’autocoscienza, in cui io<br />

e il mio mondo siamo stretti in un vincolo indissolubile, non è più.<br />

Va riletta con passione una bella pagina del Sistema di logica che dice:<br />

Ma, in realtà, non c’è pensiero se non in quanto pensante, il quale non è oggetto<br />

di contemplazione, anzi, se mai, attività contemplante, e, come tale, vera e<br />

propria azione, produzione, creazione di essere. Quella creazione operosa, la cui<br />

fatica sente ognuno che pensa, e che logora le forze dell’individuo empirico non<br />

meno del rude lavoro di chi ara la terra, o di chi col piccone squarcia i fianchi<br />

dei monti, o doma le fiere selvagge, o solca i mari, o si leva alto per l’aria a fender<br />

con l’ale le nubi 18 .<br />

Il pensiero è, innanzi tutto, pensiero pensante 19 , è il «solido» 20 su cui,<br />

scendendo a terra, si mette il piede. E le vette su cui si planava prima non<br />

erano il regno dei cieli del santo – luogo solidissimo per chi lo esperisce –<br />

bensì le astrattezze dell’intellettualismo. Quale verità, tuttavia, è più certa<br />

di quel che ciascuno è in quanto autocoscienza?<br />

Ancora. Il pensiero come attività, in quanto tale, è relazione tra l’operatore<br />

e l’operato. Ora, in astratto, c’è un operatore e un operato, così come<br />

nella conoscenza c’è un soggetto e un oggetto. Ma se i due termini,<br />

invece, si danno nel loro reciproco e indissolubile rapporto, allora non c’è<br />

un termine e un altro, ma c’è la relazione che, per analisi, può in un secondo<br />

momento darci la molteplicità in seno all’unità. Questa unità intrascendibile<br />

sono io – unità che è sempre il solido di ogni altro pensiero.<br />

Ma non è unità immediata. È unità mediata. Unità che si dà – sempre in<br />

modo transitorio – solo dopo la dialettica di soggetto e oggetto.<br />

Soggetto, si è detto. Ma ogni soggetto «è sempre soggetto di un oggetto»,<br />

poiché si «costituisce soggetto del suo atto rispettivo» 21 . Questo è<br />

il punto, senza capire il quale – ci avvisa Gentile nello stesso brano – «si<br />

vuol cadere negli e<strong>qui</strong>voci grossolani di cui van gloriosi molti facili critici<br />

di questo idealismo». Soggetto del suo atto rispettivo: che vuol dire ciò? Lo<br />

spiega lo stesso filosofo, quando scrive che<br />

18 SL1, p. 93.<br />

19 Cfr. SL2, p. 58, e IF, p. 235.<br />

20 Cfr. Ivi, p. 102.<br />

21 TGS, p. 475.<br />

La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 45


46 Antonio Giovanni Pesce<br />

nella stessa autocoscienza il soggetto oppone sé come oggetto a sé come soggetto;<br />

e se nel soggetto è l’attività della coscienza, l’oggetto suo, nella stessa autocoscienza,<br />

gli si oppone come negazione della coscienza, ossia come realtà inconsapevole<br />

22 .<br />

È nella stessa autocoscienza che si dà la dialettica, perché questa autocoscienza<br />

sono io, ma io che sono nel mio rapporto con ciò che sono stato.<br />

Infatti, il soggetto<br />

è attività, ricerca, movimento verso l’oggetto; e l’oggetto, sia che si consideri come<br />

oggetto di scoperta e di conoscenza attuale, è inerte, sta 23 .<br />

Che l’attualismo, dietro l’apparente corazza del linguaggio hegeliano,<br />

nascondesse la <strong>vita</strong> pulsante dell’interiorità umana, è anche provato da<br />

una pagina del Sommario nella quale si può leggere che<br />

ogni uomo, si badi bene, non è per natura uomo. Nessuno di noi è niente: e<br />

per essere uomo non significa godersi una prerogativa naturale, o magari serbar<br />

pura ed intatta la dignità della nascita. Esser uomo importa un’attività positiva.<br />

La quale non si può concepire nella sua singolare attuosità finché si ricorra con<br />

l’immaginazione ad analogie con i movimenti fisici esteriori, dove pur sembra si<br />

spieghino certe energie 24 .<br />

Non è il caso di descrivere tutto il dispiegarsi dell’autocoscienza. Qui,<br />

semmai, c’è da soffermarsi sul suo primordiale (e dialettico) emergere.<br />

Tuttavia, è importante notare come l’attualismo non faccia salti e che,<br />

seppur non pensato dall’inizio tutto come aveva da essere, è stato pensato<br />

seguendone una linea ben chiara. La logica della <strong>vita</strong>, cioè l’esplicazione<br />

esistenziale del profondo: questo l’attualismo dalle prime opere alle ultime,<br />

senza mai farsi mancare diversità di toni. Lo scrisse il giovanissimo attualista,<br />

commentando Marx, che la logica hegeliana non era affatto un platonismo<br />

ma la logica del vivente 25 . E, appena affermatosi come docente,<br />

riformò la dialettica del filosofo di Stoccarda, al fine di cancellarne i resi-<br />

22 Ivi, p. 485.<br />

23 Ivi.<br />

24 SP2, p. 45.<br />

25 Cfr. FM, pp. 204, 214, 216-7, 219, 223-4.


La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 47<br />

Matisse, La musica, 1909-1910, olio su tela, 260 × 389 cm,<br />

San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.<br />

dui di intellettualismo. Nel Sommario di pedagogia, poi, c’è tutta la dottrina<br />

dell’attualismo, anche se la Teoria generale dello spirito, il Sistema di<br />

logica e Genesi e struttura della società, pur nella sintesi dell’impianto,<br />

pongono accenti diversi per analizzare momenti diversi: l’Io (il concreto,<br />

il soggetto), il non-Io (l’astratto, l’oggetto), il loro reciproco (e in parte<br />

temporale) darsi.<br />

Sotto la terminologia apparentemente algida si nasconde, come il grano<br />

sotto la neve d’inverno, la descrizione dell’intimità umana, la quale,<br />

proprio perché non è data in modo immediato, bensì mediatamente –<br />

cioè è pensata – non poteva essere discussa con metafore prese in prestito<br />

dalla poesia, o con vaghi filosofismi coniati con l’ausilio di una personale<br />

filologia. E questo pensamento è il pensiero dello sviluppo dell’esistenza.<br />

Lo si capisce leggendo il sesto capitolo, dedicato all’autosintesi, del Sistema<br />

di logica. Brano tra i più importanti del pensiero gentiliano, poiché la<br />

classicità del filosofo si fa evidente, sapendo saldare la ricerca sapienziale<br />

degli antichi con la speculazione teoretica dei moderni. Socrate insomma


48 Antonio Giovanni Pesce<br />

ed Hegel; ed entrambi, ciascuno coi propri strumenti, intenti a descrivere<br />

la realtà, quella realtà che si nasconde in interiore homine. «Conosci te<br />

stesso» – certo, ma questa conoscenza non si riscontra soltanto quando ci<br />

si astrae dalle cose che ci circondano, pure nel concetto che l’uomo si fa<br />

delle cose stesse: chi intende le cose intende se stesso, poiché «un autonoema<br />

che non sia noema è vuoto ed assurdo». E non potrebbe essere che<br />

così, poiché il noema è il fermo immagine dell’autonoema, l’anima in un<br />

determinato momento e non già nell’eternità del proprio atto 26 . Distinzione<br />

sì, ma solo all’interno dell’Io:<br />

L’Io […] è interna specchialità: ma l’immagine che torna dallo specchio non è<br />

quella che va allo specchio da chi vi si rimira. Questa alterità, che è la radice<br />

dello sdoppiamento dell’Io in Io e non-Io, e cioè dell’organizzarsi di un mondo<br />

di cose di fronte all’attività autocosciente, è pur la radice da cui germoglia perciò<br />

in un medesimo slancio di <strong>vita</strong> l’atto noetico e l’atto autonoetico come un<br />

atto solo 27 .<br />

Qui si consuma il dramma profondo della modernità, che vuole ciò<br />

che non potrà mai avere, poiché l’assoluta immanenza, che neghi ogni<br />

possibile trascendenza, è una mera chimera. Certo, c’è trascendenza e trascendenza,<br />

e quando il mistico dice Dio, è pur sempre lui – il mistico –<br />

che lo dice. E quando Dio appare a Mosé nel roveto, c’è Dio che parla e<br />

c’è Mosè che ascolta. Ma la trascendenza fa capolino proprio dentro i reconditi<br />

anfratti dell’uomo: la trascendenza costituisce la cifra dello spirito<br />

umano. Spirito a cui non è negata alcuna esperienza, ma pur sempre di<br />

spirito si tratta.<br />

Se si è, e ci si può affermare, non ci si può più negare, se non con un<br />

altro atto di affermazione. Il bene, se è bene, annulla sempre il male. E<br />

l’affermazione sarà comunque l’ultima parola dello spirito, quantunque,<br />

non essendo mai immediata, essa proceda oltre ogni negazione. La trascendenza<br />

è, dunque, scoperta nell’intimo della profonda immanenza,<br />

nell’intimità dell’autocoscienza. Ed è questo l’immanentismo intelligente<br />

di cui parla Gentile; quell’immanentismo che non nega uno dei due ter-<br />

26 Cfr. SL2, p. 87.<br />

27 Ivi.


La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 49<br />

mini, perché è immanenza che recupera la trascendenza 28 . Quella di Gentile<br />

è una trascendenza cristiana, poiché non è più pensabile una trascendenza<br />

tout court, dopo l’avvento del Cristianesimo 29 .<br />

Tra Aristotele e Nietzsche, è il primo ad avere ragione: per vivere da<br />

soli, bisogna essere davvero o un Dio, cioè l’assoluta pienezza dell’autocoscienza,<br />

o un animale, l’assoluta assenza 30 . Il filosofo, se è uomo, sarà<br />

sempre accompagnato da se stesso, e instaurerà, anche nel suo eremo o<br />

nel chiuso della sua stanza, un dialogo con se stesso in quanto pensante e<br />

con la storia (innanzi tutto, con se stesso qual è stato, con la sua personale<br />

storia dunque). Non si basterà mai, mai si troverà completamente, e sempre<br />

si cercherà.<br />

La chiarezza dell’immanenza è il riflesso della luce della trascendenza.<br />

È l’unità che germina la nostra persona, ciò che noi siamo e sempre diveniamo.<br />

Se è chiaro questo rapporto, può diventare chiaro e come nasca la<br />

persona e che rapporto ci sia tra due concetti importanti nell’attualismo:<br />

tra l’Io trascendentale e l’io empirico. In effetti, è questa la dialettica dalla<br />

quale si forma il nostro mondo interiore, che è nostro, quel luogo dove ci<br />

troviamo perché vi è radicata la nostra esperienza esistenziale. È una distinzione<br />

che nasce in Kant, e che Gentile aveva conosciuto anche tramite<br />

il suo studio su Rosmini, e vi aveva saputo scorgere la preoccupazione<br />

dei due<br />

di garantire all’elemento formale e però costitutivo del sapere un valore superiore<br />

al soggetto inteso come soggetto finito 31 .<br />

Pian piano, però, egli riesce ad impadronirsi di questi concetti e a riformularli<br />

in modo assai originale. Kant non ha saputo cogliere la reale<br />

portata del suo concetto di Io trascendentale; e Berkeley ha trasceso il<br />

pensiero finito in modo errato, anche se giustificato. C’era da dare una risposta<br />

a come e da dove si generi questo pensiero, ma il dualismo in cui rimane<br />

impigliato il filosofo inglese, e perfino quello tedesco, non riesce a<br />

28 Cfr. IF, p. 108.<br />

29 Cfr. IF, pp. 250-1.<br />

30 Cfr. F. W. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Roma, Newton Compton editori, 1994, p. 34.<br />

31 Cfr. FFD, pp. 19-20.


50 Antonio Giovanni Pesce<br />

dare conto del reale valore di questa scoperta. Il modo c’è, basti pensare a<br />

questa distinzione nel seno dello spirito:<br />

In ogni atto del nostro pensiero, e in generale nel nostro pensiero, noi dobbiamo<br />

distinguere due cose: da una parte, quello che pensiamo; e dall’altra parte,<br />

noi che pensiamo quello che pensiamo, e che non siamo perciò oggetto, ma<br />

soggetto di pensiero 32 .<br />

Questo è il trascendentale, e si noti questo, che è trascendentale, che<br />

cioè impone di considerare il pensare non come atto compiuto, bensì come<br />

atto in atto, pura azione 33 . Noi possiamo pensarci, ma noi che pensiamo<br />

non siamo coglibili se non come riflesso – come coscienza che torna<br />

su se medesima; come autocoscienza. E, poco più avanti del passo già citato,<br />

Gentile è chiaro nel negare che si possa oggettivare l’Io, «la nostra<br />

stessa attività interiore», poiché «la vera attività pensante non è quella che<br />

definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce» 34 . Pensiero di pensiero –<br />

ma il genitivo è soggettivo.<br />

Questo Io trascendentale, che ci forma senza poter essere formato, è la<br />

<strong>vita</strong> della coscienza, del nostro intimo. Qui sta la sorgente – sorgente infinita.<br />

È il pozzo di san Patrizio che non ha mai fondo, perché averne uno<br />

significherebbe banalizzare la <strong>vita</strong> che sgorga. Qui il mistero? Non è proprio<br />

mistero, se per mistero intendiamo il cadere nell’abisso dell’irrazionale.<br />

Anzi, è tutt’altro, perché è la razionalità del Tutto che viene facendosi<br />

in noi, e che è noi stessi. Ma è pure mistero, perché è <strong>vita</strong> vivente, e<br />

non già <strong>vita</strong> vissuta, e dunque non può mai essere de-finita, perché esserlo<br />

significherebbe fine, stasi, conclusione. Morte insomma. E la mia morte<br />

non è la fine della <strong>vita</strong>, bensì la fine della mia esperienza della <strong>vita</strong>, della<br />

mia persona ma non di ciò che l’ha germinata. La realtà dell’Io trascendentale<br />

«importa pure» quella dell’empirico 35 , ma permane in me quella<br />

«Persona che non ha plurale» 36 . In questa Persona noi siamo, e siamo uniti:<br />

non un accordarsi, ma c’è accordo dopo, perché c’è un accordo a prio-<br />

32 TGS, pp. 462-3.<br />

33 Ivi.<br />

34 Ivi, p. 464.<br />

35 Cfr. ivi, p. 472.<br />

36 Cfr. ivi, p. 471.


i. Si comprendono le epoche tra loro, i popoli tra loro, e tra loro anche<br />

le persone – ci comprendiamo anche nel disaccordo, e c’è disaccordo proprio<br />

perché, innanzi tutto, c’è accordo – proprio perché l’unità che si raggiunge<br />

è l’esperienza viva di quella viva unità che genera l’esperienza.<br />

Quest’autocoscienza è somma autocoscienza, perché l’Io non è un<br />

qualsiasi Io, ma «l’Io in quanto (quatenus) Io: l’io che si fa, in quanto si<br />

fa» 37 . Ovviamente, se l’Io trascendentale genera l’esperienza, e l’esperienza<br />

rende certo l’Io trascendentale, allora anche il genio, l’artista, il poeta, che<br />

sembra tutto chiuso nel suo mondo e nel suo intelletto, in verità si alimenta<br />

della <strong>vita</strong> del suo popolo, della sua lingua, della sua storia 38 . Ma ciò<br />

è possibile, perché è costitutivo della realtà, perché il trascendentale, come<br />

orizzonte storico del formarsi della mia coscienza, è generato dall’impossibilità<br />

per qualsiasi umano di pensare se stesso senza il presupposto della sua<br />

affermazione. Presupposto logico e non già temporale, poiché io scorgo la<br />

<strong>vita</strong> che dentro mi zampilla, solo quando bevo dell’acqua che mi dona.<br />

Solo in questo rapporto tra <strong>vita</strong> della coscienza (Io trascendentale) e coscienza<br />

della <strong>vita</strong> (io empirico), si genera la persona, cioè l’individuo concreto,<br />

colui cioè che crede, spera, ama, ha coscienza della sua affermazione.<br />

Vita ed esistenza è l’endiadi in cui è data la persona concretamente<br />

concepita. Non ci sarebbe esistenza senza la <strong>vita</strong> che la alimenta, né <strong>vita</strong><br />

senza l’esistenza che la esperisce. L’alito di Dio, insomma, è in noi, ma la<br />

differenza non è abissale nell’analogia spirituale: Dio esperisce, infatti,<br />

tutta quanta la <strong>vita</strong>, in lui vi è perfetta coincidenza di essere ed esistere.<br />

Nell’uomo no. Questa è la sua vera debolezza ontologica, ché non può<br />

esperire tutta l’eternità (o totalità) della <strong>vita</strong>. E l’essere gli è dato solo nella<br />

mediazione esistenziale.<br />

L’Io trascendentale, che «è questo principio come attività intuitiva e<br />

categorizzante», forma l’esperienza 39 . Per questo, non è mai da confondere<br />

«con la mia personalità determinata, empirica» 40 , ma senza considerarlo<br />

un’astrattezza – tutt’altro.<br />

37 SL2, p. 223. Corsivo nel testo.<br />

38 Cfr. ivi, p. 228.<br />

39 Cfr. IF, p. 89.<br />

40 Cfr. ivi, pp. 251-2.<br />

La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 51


52 Antonio Giovanni Pesce<br />

Questo pensiero insomma è il Pensiero, o pensiero universale, cioè l’unico ed<br />

infinito: quel pensiero divino, che dà a tutti la forza di aprire la bocca; che è, in<br />

verità, l’atto più coraggioso che l’uomo sia capace di compiere 41 .<br />

Abbiamo detto che questo uomo non può esperire tutta quanta la <strong>vita</strong>,<br />

non già che egli non abbia un’anima, e un’anima che sia quella della<br />

religione positiva. Gentile si occupò anche del problema dell’immortalità.<br />

E anche in questo caso, mentre sembrò confermare le accuse di misticismo,<br />

dall’altro si attirò quelle di chi in quelle riflessioni non vedeva altro<br />

che un catechismo (eretico, ovviamente). Sia chiaro: dev’essere ancora<br />

ben studiato il problema, e se la soluzione gentiliana sia compatibile col<br />

magistero della Chiesa 42 . Ciò non può, tuttavia, essere tralasciato, anche<br />

perché importa di alcuni luoghi della nostra attuale discussione. In sunto,<br />

come ci si guadagna l’immortalità? Morendo. Morendo continuamente a<br />

se stessi. Paradosso? No, almeno per chi ha seguito lo svolgimento dell’attualismo<br />

fin <strong>qui</strong>, perché morire a se stessi significa rigenerare continuamente<br />

la <strong>vita</strong> vissuta (il limite, il peccato, ecc.) in quella vivente, sciacquare<br />

nell’Arno della totalità i panni sporchi della propria condizione<br />

con-temporanea, perché essere contemporanei non è ancora essere attuali.<br />

Morire, per continuare a vivere, significa conoscere se stessi più in<br />

profondità 43 . E che si cela nella profondità? La Vita, «l’Io in quanto Io».<br />

Vive in eterno chi perde la <strong>vita</strong> per la Vita eterna. E la Vita eterna è continua<br />

con<strong>qui</strong>sta: «Siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro celeste» dice<br />

Gesù 44 . E questa Vita, poiché è la Vita, ed è essere e coscienza di es -<br />

41 Ivi, pp. 236-7.<br />

42 Sul fatto, invece, che Gentile fosse cattolico non vi è dubbio. Con buona pace di chi lo<br />

vuole negare (per un motivo o per un altro), Dio sceglie i suoi e non viceversa. E, ben che meno,<br />

possono essere gli altri (presunti) commensali ad indicare chi può sedere alla «tavola del Padre».<br />

Nessuno può toccare l’intoccabile: la profondità della coscienza, la veridicità dell’esperienza è intangibile<br />

ad altri che non alla <strong>vita</strong> stessa e all’esistenza che si esperisce. Dunque, Gentile morì dicendosi<br />

cattolico, e con buona fede pensò il cattolicesimo sotto le categorie della propria filosofia.<br />

Forse, volle pure rappresentare qualcosa di simile al tomismo, pensando che, in fin dei conti, questo<br />

non è nient’altro che una filosofia, pensamento di un’esperienza viva che è la Fede. Mentre è<br />

indubbio che l’attualismo non potrà rappresentare per la Chiesa ciò che ne rappresenta il pensiero<br />

di san Tommaso, tuttavia non è chiaro fino a che punto l’attualismo sia, per il magistero, del tutto<br />

falso, o in che parte. E non sarebbe una discussione sciocca da farsi.<br />

43 Cfr. GSS, pp. 165-71.<br />

44 Mt 5, 48.


La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 53<br />

sere, è Pensiero pensante, autocoscienza. E cos’è un’autocoscienza? Una<br />

Persona.<br />

Comunque, quel che vale è proprio il fatto che la mia persona è data<br />

da questa relazione dialettica tra l’eterno, che non si imbriglia, e il transeunte,<br />

che ne certifica l’essere. È l’attuale, è la persona che si fa, facendosi<br />

Persona 45 . La libertà di pensarsi nasce dalla necessità di non poter non<br />

pensare; la possibilità anche di negarsi nasce dall’impossibilità di non potersi<br />

non affermare:<br />

Quale personalità? La nostra […] Di ciascuno di noi e di tutti […] Di ciascuno<br />

in quanto in ciascuno l’Io non è quello molteplice dell’esperienza, sì quello trascendentale,<br />

che abbiamo detto unico e immoltiplicabile, e perciò universale:<br />

per guisa che in tutti, quanti sono stati o sono o saranno o si pensa che comunque<br />

possano essere, sia sempre quello, Briareo dalle infinite braccia, che tutti<br />

stringe al suo petto e trascina seco nel suo infinito cammino 46 .<br />

Leggiamo anche «di noi», e invece sarebbe solo «di tutti», se l’Io trascendentale<br />

fosse un mito, un presupposto da affermare semplicemente.<br />

Si afferma, ma si afferma nel suo rapporto con l’empiricità del suo esperirsi.<br />

L’uomo sarebbe completamente immanente a se stesso – senz’alcuna<br />

coscienza, e senz’alcuna responsabilità morale – se oltre all’io che esperisce,<br />

non vi fosse l’Io che vive, e che vive della legge eterna dello spirito 47 .<br />

La persona 48 consiste in questo affermarsi e negarsi per continuare ad<br />

affermarsi, perché «ad ogni istante nasce nell’uomo un uomo nuovo che è<br />

quello che conta» 49 . Persona è l’attività stessa di farsi persona: io mi faccio<br />

migliore, ma io non sono soltanto nell’io che fa, e che trascende il fatto,<br />

né tanto meno nel fatto medesimo, ma nell’attività che si fa facendosi. E<br />

quel tesoro che con<strong>qui</strong>stiamo, quello che banalmente chiamiamo «esperienza<br />

della <strong>vita</strong>» non è punto alienabile a favore delle future generazioni,<br />

45 Cfr. SL2, pp. 349-50.<br />

46 Cfr. ivi, p. 91.<br />

47 Cfr. SP2, p. 175.<br />

48 Pur nella differenza di posizioni, dobbiamo molto a G. M. Pozzo, non fosse che per aver<br />

tracciato la strada da seguire e proposto talune idee che vanno ancora approfondite. In particolare,<br />

si legga Id, La «persona» nella concezione gentiliana¸ «Humanitas», 1953, pp. 1112-6.<br />

49 Cfr. SL2, p. 60.


54 Antonio Giovanni Pesce<br />

come si aliena l’orto o la bottega. È, invece, comunicabile nell’incontro<br />

con l’altro, che è sempre un incontro educativo.<br />

Si comprende, dunque, perché Gentile trovasse sterile la polemica nata<br />

su «Primato» 50 a proposito dell’esistenzialismo. Egli credeva – e ne aveva<br />

ben donde – di aver saputo dare ragione della concretezza umana, senza<br />

cadere in facili irrazionalismi. Vi aveva atteso tutta una <strong>vita</strong>, ripensando,<br />

tra l’altro, una nuova forma di metafisica, immanente alla trascendenza<br />

dello spirito in se medesimo. Un nuovo concetto dell’Assoluto 51 , che<br />

non si scopre o si architetta, bensì si incontra in quell’interiorità da cui si<br />

parte e verso cui bisogna continuamente tendere. Un Assoluto che è<br />

Amore 52 e che di amore fa vivere. E non dovrebbe stupire, dal momento<br />

che è proprio l’Amore «che move il sole e l’altre stelle».<br />

50 Cfr. G. Invitto, La presenza di Giovanni Gentile nel dibattito sull’esistenzialismo italiano,<br />

«Idee», 1995, n. 28-29, pp. 175-84.<br />

51 Su Gentile come distruttore degli assoluti, si tenga presente la lezione di E. Severino, riassumibile<br />

nella sua relazione tenuta al convegno di studi su Gentile, svoltosi a Roma nel maggio<br />

del 1994, i cui atti sono ora in AA. VV., Giovanni Gentile. La filosofia, la politica, l’organizzazione<br />

della cultura, Venezia, Marsilio, 1995 (per l’intervento di Severino si leggano le pp. 57-9). Per un<br />

approfondimento, si legga Attualismo e «serietà» della storia, in Gli abitanti del tempo. Cristianesimo,<br />

marxismo, tecnica, Roma, Armando, 1981, pp. 116-27. Simile la lettura di S. Natoli, Giovanni<br />

Gentile, filosofo europeo, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 (soprattutto il primo capitolo). La lettura<br />

che <strong>qui</strong> si è data, pare più vicina a quella di Gustavo Bontadini, quale viene delineata da C. Vigna,<br />

Attualismo, problematicismo, metafisica, «Idee», 1995, n. 28-29, pp. 33-52. Infine, questi problemi<br />

sono stati affrontati con molta cura teoretica da G. Brianese, Gentile, Milano, Mursia, 1996,<br />

pp. 175-9.<br />

52 Cfr. TGS, pp. 466-7, e anche SP1, p. 19 e p. 183; SP2, pp. 42-3.


Giuseppe Pezzino<br />

La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger<br />

La preMessa al Discorso ratZiNgeriaNo sul concetto di coscienza<br />

è costituita dall’attenta e lucida analisi di un drammatico quadro storico,<br />

che comprende sia la crisi dell’Occidente, in particolar modo dell’Europa,<br />

sia la crisi del Cristianesimo e della Chiesa.<br />

Sulla crisi dell’Occidente, Ratzinger si colloca – a buon diritto e con<br />

propria identità cristiana – in quel dibattito europeo che prese avvio agli<br />

inizi del Novecento e che continua sino ai nostri giorni1 . Un lungo dibattito,<br />

che costringe molti suoi protagonisti a fare i conti con un dilemma<br />

in<strong>qui</strong>etante: siamo di fronte alla temporanea eclissi della vecchia Europa<br />

o al suo definitivo tramonto? Se ci portiamo a ritroso fino agli inizi del<br />

Novecento, ci accorgiamo che quel secolo sembrava nascere sotto i più<br />

favorevoli auspici: l’onda lunga di un positivismo ormai invecchiato<br />

manteneva ancora in <strong>vita</strong> l’illusione ottimistica – tanto nobile quanto<br />

astratta – che la marcia trionfale della dea Scienza avrebbe non solo<br />

squarciato le tenebre dell’ignoranza e della superstizione, ma addirittura<br />

avrebbe gradualmente instaurato su questa terra il regno della libertà, della<br />

fratellanza, della pace. Ingenua illusione, questa, che purtroppo trascurerà<br />

e la corsa agli armamenti e il delirio nazionalistico e le brame imperialistiche<br />

di quei moderni Leviatani, che erano gli Stati europei agli inizi<br />

del Novecento.<br />

Così, mentre ancora l’Italia danzava al suono del festoso e fastoso Ballo<br />

Excelsior, che celebrava retoricamente la marcia trionfale del Progresso<br />

e della Fratellanza sulle macerie dell’Oscurantismo; mentre ancora l’Europa<br />

cullava il sogno comtiano dell’Amore, dell’Ordine e del Progresso; il<br />

1 Su ciò si veda, ad esempio, M. Pera e J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo,<br />

islam, Milano, Mondadori, 2005 3 .


56 Giuseppe Pezzino<br />

fiore della gioventù europea andava a morire nelle luride trincee della prima<br />

guerra mondiale. Una guerra – forse la più crudele del Novecento –<br />

le cui «gigantesche carneficine» papa Benedetto XV ebbe a condannare<br />

nettamente fin dal novembre 1914:<br />

Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto, e non v’è quasi altro<br />

pensiero che occupi ora le menti. Nazioni grandi e fiorentissime sono là sui<br />

campi di battaglia. Qual meraviglia perciò, se ben fornite, come sono, di quegli<br />

orribili mezzi che il progresso dell’arte militare ha inventati, si azzuffano in gigantesche<br />

carneficine? Nessun limite alle rovine, nessuno alle stragi: ogni giorno<br />

la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e feriti. E chi direbbe che<br />

tali genti, l’una contro l’altra armata, discendano da uno stesso progenitore, che<br />

sian tutte della stessa natura, e parti tutte d’una medesima società umana? Chi li<br />

ravviserebbe fratelli, figli di un unico Padre, che è nei Cieli? E intanto, mentre<br />

da una parte e dall’altra si combatte con eserciti sterminati, le nazioni, le famiglie,<br />

gli individui gemono nei dolori e nelle miserie, funeste compagne della<br />

guerra; si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e<br />

degli orfani; languiscono, per le interrotte comunicazioni, i commerci, i campi<br />

sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore,<br />

tutti nel lutto 2 .<br />

In verità, negli anni della guerra, accorato e costante fu l’appello di<br />

papa Giacomo Della Chiesa a deporre le armi e a fondare una «pace giusta<br />

e duratura». E soprattutto colpisce lo scenario catastrofico che questo<br />

Pontefice ebbe a disegnare – con spirito profetico e con lucida analisi dei<br />

fatti – per l’Europa che, al terzo anno di guerra, «travolta da una follia<br />

universale» stava correndo incontro ad «un vero e proprio suicidio»:<br />

Chi ha seguito l’opera Nostra per tutto il doloroso triennio che ora si chiude,<br />

ha potuto riconoscere che come Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta<br />

imparzialità e di beneficenza, così non cessammo dall’esortare e popoli e<br />

Governi belligeranti a tornare fratelli, quantunque non sempre sia stato reso<br />

pubblico ciò che Noi facemmo a questo nobilissimo intento. Sul tramontare<br />

del primo anno di guerra Noi, rivolgendo ad Essi le più vive esortazioni, indicammo<br />

anche la via da seguire per giungere ad una pace stabile e dignitosa per<br />

tutti. Purtroppo, l’appello Nostro non fu ascoltato: la guerra proseguì accanita<br />

per altri due anni con tutti i suoi orrori: si inasprì e si estese anzi per terra, per<br />

2 Benedetto XV, Lettera Enciclica «Ad Beatissimi Apostolorum», 1 novembre 1914.


La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 57<br />

mare, e perfino nell’aria; donde sulle città inermi, sui <strong>qui</strong>eti villaggi, sui loro<br />

abitatori innocenti scesero la desolazione e la morte. Ed ora nessuno può immaginare<br />

quanto si moltiplicherebbero e quanto si aggraverebbero i comuni mali,<br />

se altri mesi ancora, o peggio se altri anni si aggiungessero al triennio sanguinoso.<br />

Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l’Europa, così<br />

gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro<br />

ad un vero e proprio suicidio? 3<br />

Poi, come pietra tombale, sulla follia suicida della Grande Guerra calò<br />

l’opera di Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente. E fu in tutto il<br />

mondo il più diffuso segnale d’allarme; e in tutti gli strati sociali si fece<br />

spazio la trepidante coscienza di vivere in mezzo ad una violenta ed irreversibile<br />

crisi del mondo occidentale. Senza dubbio, non tutti i lettori del<br />

famoso libro di Spengler accettarono le sue tesi; nondimeno, molti di loro<br />

abbandonarono l’ottimistica fede nel progresso e si rassegnarono all’idea<br />

che la civiltà occidentale si avviava al definitivo tramonto.<br />

Finita la guerra, l’Europa scoprì ben presto la mala pianta delle dittature<br />

e dei totalitarismi; e si illuse di cogliere nuovi e saporiti frutti, proprio<br />

dove «non pomi v’eran, ma stecchi con tosco». E spirarono così i<br />

venti gelidi della Russia comunista, dell’Italia fascista e della Germania<br />

nazionalsocialista; e calò la nube di un imbarbarimento che, nel 1935, indusse<br />

un grande storico olandese, Johan Huizinga, a scrivere pagine molto<br />

belle e molto accorate contro la «demenza» europea che rischiava di<br />

precipitare in un irreversibile declino della civiltà:<br />

Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo. Nessuno si stupirebbe<br />

se, un bel giorno, questa nostra demenza sfociasse in una crisi di pazzia furiosa,<br />

che, calmatasi, lascerebbe l’Europa ottusa e smarrita […] Dappertutto il dubbio<br />

intorno alla durevolezza del sistema sociale sotto cui viviamo; un’ansia indefinita<br />

dell’immediato domani; il senso del decadimento e del tramonto della civiltà<br />

[…] Se si vuole che questa civiltà si salvi, che non decada a secoli di barbarie,<br />

ma anzi, salvando i supremi valori che sono il suo retaggio, trovi la via per giungere<br />

a nuova saldezza, è necessario che gli uomini d’oggi si rendano esatto conto<br />

di quanto sia già progredita la dissoluzione che li minaccia 4 .<br />

3 Benedetto XV, Dès le début. Esortazione apostolica ai Capi dei popoli belligeranti, 1 agosto<br />

1917.<br />

4 J. Huizinga, La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1962, pp. 3-4.


58 Giuseppe Pezzino<br />

Nello stesso 1935, l’acuto intellettuale italo-tedesco Romano Guardini<br />

avvia un processo di riflessione critica che, prendendo le mosse dalla critica<br />

contro la “religione politica” rappresentata dal paganesimo nazista, si<br />

concluderà nel 1946, all’indomani della seconda guerra mondiale, con un<br />

esplicito atto di fede nel destino cristiano dell’Europa:<br />

Ci sarebbe ancor molto da dire. Da tutto risulterebbe che l’Occidente, l’Europa,<br />

ciò che essa è, lo è attraverso Cristo – una verità che Novalis ha proclamato<br />

nel 1799 nel Frammento, sostenuto da forza profetica, La cristianità o l’Europa.<br />

In questo non muta nulla neanche il fatto che gli sviluppi determinanti dell’Europa,<br />

scientifici e culturali, politici ed economici si sono realizzati da tempo<br />

fuori del suo spirito o perfino in contraddizione con esso. Ancor nelle manifestazioni<br />

negative o contraddittorie continua ad operare la figura di Cristo. Se<br />

l’Europa si staccasse totalmente da Cristo – allora, e nella misura in cui questo<br />

avvenisse, cesserebbe di essere… A partire di <strong>qui</strong> la vicenda degli anni passati<br />

raggiunge un particolare significato 5 .<br />

In questo clima storico-culturale si colloca indubbiamente la preoccupata<br />

riflessione di Ratzinger sulla crisi dell’Occidente che, quasi in preda<br />

ad un funesto cupio dissolvi, non accetta più sé stesso, non ama più sé<br />

stesso, e, sempre pronto a chinarsi per accogliere e comprendere il diverso<br />

da sé, si erge invece a spietato e unilaterale e ingiusto giudice di sé medesimo.<br />

Appello forse all’Europa, per un’ottusa ed arrogante revanche? Tutt’altro.<br />

La necessità storica indicata all’Europa da Ratzinger consiste in<br />

una nuova accettazione di sé, sicuramente «critica ed umile», ma non pavida<br />

né priva di forza morale:<br />

C’è <strong>qui</strong> un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo<br />

come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi<br />

pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia<br />

vede ormai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo; mentre non è più in<br />

grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova<br />

– certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere<br />

6 .<br />

5 R. Guardini, Il Salvatore [nel mito, nella rivelazione e nella politica. Una riflessione politicoteologica],<br />

(1935-1946), in Opera Omnia, VI, Scritti politici, a cura di M. Nicoletti, Brescia, Morcelliana,<br />

2005, pp. 331-2.<br />

6 J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, in Senza radici. Europa,<br />

relativismo, cristianesimo, islam, cit., pp. 70-1.


Pertanto, nel vasto orizzonte della crisi dell’Occidente, si può parlare<br />

di tramonto della vecchia Europa, che non ha più identità, che ha distrutto<br />

il suo sistema di valori e che, avendo perduto il suo élan <strong>vita</strong>l sulla<br />

scena mondiale, sopravvive a sé stessa e spaccia il suo indifferentismo relativistico<br />

per il giardino della<br />

tolleranza, salvo poi a chiudersi<br />

miseramente negli egoismi<br />

nazionali e nei cavilli giuridici,<br />

quando masse di “stranieri”<br />

bussano alle sue porte.<br />

La vecchia Europa non solo<br />

ha perduto la sua propria<br />

identità – che indubbiamente,<br />

come qualunque identità,<br />

ha luci ed ombre, pregi e difetti<br />

–, ma addirittura confonde<br />

la cattiva coscienza di<br />

un primato o di una superiorità<br />

con la matura ed e<strong>qui</strong>librata<br />

coscienza, che affonda<br />

le radici nel proprio passato,<br />

per trarre vigore e lume nell’assumere<br />

un ruolo storico<br />

per il presente e per il futuro.<br />

Invero, accasciata sulla seg-<br />

giola del materialismo edonistico,<br />

l’Europa sembra banchettare<br />

notte e giorno al ta-<br />

volo di Pantagruele. E tutto in goia, e tutto consuma, e tutto lascia fluire<br />

indifferentemente, come il caradrio, un uccello che mentre mangia evacua,<br />

citato da Socrate per denunciare la condizione della polis opulenta e<br />

malata 7 . Torna pure alla mente la dura critica che Hans Jonas scagliò<br />

contro la Weltbild della modernità: il predominio del pensiero scientifico<br />

7 Gorgia, 494 b.<br />

La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 59<br />

Matisse, La chioma, 1952, Papiers découpés,<br />

108 × 80 cm, collezione privata.


60 Giuseppe Pezzino<br />

e il correlativo sviluppo di una forma mentis scientista, negando valore e<br />

dignità ad ogni riflessione metafisica e, per conseguenza, riducendo la visione<br />

del mondo a mera fattualità, hanno reso impossibile una fondazione<br />

razionale della morale ed hanno aperto un varco all’irrazionalismo<br />

morale o all’antimoralismo. Da <strong>qui</strong> il paradosso denunciato da Jonas:<br />

mentre la scienza sta oggettivamente all’origine del relativismo morale, al<br />

contempo essa produce una condizione di emergenza planetaria tale da<br />

far reclamare con urgenza una morale all’altezza dei nostri tempi 8 .<br />

Un aspetto paradossale ed allarmante l’Occidente altamente tecnologizzato<br />

lo offre anche a Ratzinger: da un canto il mondo occidentale universalizza<br />

ed esporta il suo modello di <strong>vita</strong> e di pensiero, celebrando il<br />

trionfo della techne e della secolarizzazione, dall’altro si fa forte l’impressione<br />

che il sistema dei valori dell’Europa sia ormai un involucro vuoto.<br />

Io vedo <strong>qui</strong> – scrive Ratzinger – una sincronia paradossale: con la vittoria del<br />

mondo tecnico-secolare posteuropeo, con l’universalizzazione del suo modello di<br />

<strong>vita</strong> e della sua maniera di pensare, si diffonde, specialmente nei paesi strettamente<br />

non europei dell’Asia e dell’Africa, l’impressione che il sistema di valori<br />

dell’Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto<br />

alla fine e sia anzi già uscito di scena; che sia giunta l’ora dei sistemi di valori<br />

di altri mondi, dell’America precolombiana, dell’islam, della mistica asiatica 9 .<br />

Malgrado la sua potenza politico-economica, l’Europa ha perso la sua<br />

identità e mantiene in <strong>vita</strong> un sistema di valori ormai ridotto ad una larva.<br />

E <strong>qui</strong> è d’obbligo, per Ratzinger, un richiamo all’antico impero romano<br />

che, pur ancora poderoso e temibile, aveva ormai esaurito la sua energia<br />

storica, aveva perso l’anima, e s’illudeva di averla ritrovata nei modelli<br />

che invece contribuiranno a distruggerlo:<br />

C’è una strana mancanza di voglia di futuro. I figli, che sono il futuro, vengono<br />

visti come una minaccia per il presente. Ci portano via qualcosa della nostra <strong>vita</strong>,<br />

così si pensa. Non vengono sentiti come una speranza, bensì come una limitazione.<br />

Il confronto con l’Impero Romano al tramonto si impone: esso funzio-<br />

8 Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi,<br />

1993.<br />

9 J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, cit., p. 59.


La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 61<br />

nava ancora come grande cornice storica, ma in pratica viveva già di quei modelli<br />

che dovevano dissolverlo, aveva esaurito la sua energia <strong>vita</strong>le 10 .<br />

Ma torniamo piuttosto al problema della techne e della mentalità<br />

scientista, perché la loro diffusione costituisce, per Ratzinger, una delle<br />

cause dell’affievolimento della fede cristiana in Europa. Invero, la scienza<br />

e la moderna Weltbild creata dalla scienza hanno declassato la religione<br />

cristiana a manifestazione non razionale, a puro e semplice mito da tollerare,<br />

se non addirittura da combattere, perché fonte di dogmatismo e di<br />

intolleranza. A questo nemico pericolosissimo i cristiani hanno reagito<br />

inadeguatamente. E, a tal riguardo, netto e severo si fa il richiamo di Ratzinger<br />

alla Chiesa e alla sua teologia che «hanno sprecato troppo tempo<br />

in piccole schermaglie di retroguardia, dibattendo su dettagli, e non si sono<br />

abbastanza impegnate nel porre le domande di fondo» 11 .<br />

E le «domande di fondo», in quanto tali, non possono non avere una<br />

natura s<strong>qui</strong>sitamente filosofica e teologica, che <strong>qui</strong>ndi spiazza la “scienza”,<br />

costringendola a lasciare i suoi domìni, ad uscire in campo aperto e a<br />

fare i conti con gravissime questioni, che pretendono risposte da una razionalità<br />

“non scientifica”. Su questa base, portando il confronto nel<br />

campo aperto di una razionalità non scientista, si può avere la convergenza<br />

di laici e cattolici:<br />

La Chiesa e la sua teologia hanno sprecato troppo tempo in piccole schermaglie<br />

di retroguardia, dibattendo su dettagli, e non si sono abbastanza impegnate nel<br />

porre le domande di fondo: Che cos’è la rivelazione? In che modo combaciano<br />

la rivelazione che parte da Dio e l’elaborazione della storia umana? Come si manifesta<br />

nella lunga via della storia, con tutti i suoi travagli, la guida di un Altro,<br />

che agisce in questa storia e crea qualcosa di nuovo che non può scaturire dall’agire<br />

dell’uomo stesso nella storia?<br />

Nel confronto con la scienza e nel dialogo con i filosofi dell’età moderna deve<br />

riaffacciarsi la questione di fondo su che cos’è che tiene insieme il mondo. È la<br />

materia che crea la ragione, è il puro caso che produce il significato, oppure sono<br />

l’intelletto, il logos, la ragione che vengono prima, così che la ragione, la li-<br />

10 Ivi, p. 60.<br />

11 J. Ratzinger, Lettera a Marcello Pera, in Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo,<br />

islam, cit., p. 115.


62 Giuseppe Pezzino<br />

bertà e il bene fanno già parte dei principi che costituiscono la realtà? Una valida<br />

religione civile comporterà anche il non concepire Dio come un’entità mitica,<br />

ma come una possibilità della ragione, come la Ragione stessa che precede e<br />

che rende possibile che la nostra ragione cerchi di riconoscerla. Credo che lo<br />

sforzo per ac<strong>qui</strong>sire un’immagine del mondo basata sullo spirito e sul senso […<br />

] sia una grande sfida comune per cattolici e laici 12 .<br />

Ma, a considerare la crisi della coscienza europea dal punto di vista<br />

morale, due sono le dottrine che, secondo Ratzinger, hanno prodotto un<br />

antimoralismo che scuote ed avvelena l’Europa e lo stesso destino del cristianesimo<br />

nel vecchio continente: il nietzschianismo e il marxismo. Sulla<br />

“religione” nietzschiana, alto e forte è l’appello di Ratzinger rivolto a laici<br />

e cattolici – anche ai cattolici che hanno “scoperto” il “vero” Nietzsche –<br />

a riaffermare autentici ed universali ed eterni valori di umanità, di libertà,<br />

di bellezza e di bene, contro stolte dottrine che si fanno religioni del nulla<br />

e della morte.<br />

La prima causa [di crisi della fede cristiana in Europa] è stata introdotta da<br />

Nietzsche quando disse: “Il Cristianesimo è sempre stato attaccato finora in un<br />

modo… sbagliato. Finché non si percepisce la morale del cristianesimo come<br />

crimine capitale contro la <strong>vita</strong>, i suoi difensori avranno sempre gioco facile. La<br />

questione della verità del cristianesimo… è una cosa del tutto secondaria finché<br />

non viene affrontata la questione del valore della morale cristiana”. Qui abbiamo<br />

veramente a che fare, a mio parere, con le ragioni decisive dell’abbandono<br />

del cristianesimo: il suo [del cristianesimo] modello di <strong>vita</strong>, come è chiaro, non<br />

convince. Sembra che limiti l’uomo in tutto, che guasti la sua gioia di vivere,<br />

che limiti la sua libertà così preziosa e lo conduca non al largo – come dicono i<br />

Salmi – ma nell’angustia, nello stretto. Si può rilevare che qualcosa di simile accadde<br />

già nell’antichità quando i rappresentanti del potere statale romano lanciarono<br />

il seguente appello ai cristiani: tornate alla nostra religione; la nostra religione<br />

è gioiosa, abbiamo feste, gozzoviglie e divertimenti, e voi credete in uno<br />

che è stato crocifisso. All’epoca i cristiani riuscirono a dimostrare in modo persuasivo,<br />

quanto i divertimenti del mondo degli dei fossero vuoti e insipidi, e<br />

quale altezza regala la fede in quel Dio che soffre con noi e ci porta sulla via della<br />

vera grandezza. Oggi è della massima urgenza mostrare un modello cristiano<br />

di <strong>vita</strong> che offra un’alternativa vivibile ai divertimenti sempre più vuoti della so-<br />

12 Ivi, pp. 115-6.


La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 63<br />

cietà del tempo libero, che deve fare sempre più ricorso alla droga perché è sazia<br />

dei miseri piaceri abituali 13 .<br />

Non meno severo è il giudizio di Ratzinger nei confronti dell’esperienza<br />

storica comunista e della correlativa dottrina marxista, in riferimento<br />

al vero e proprio collasso morale di vastissime aree dell’Europa,<br />

che hanno sperimentato e vantato l’inaridimento delle anime:<br />

I sistemi comunisti sono naufragati per il loro fallace dogmatismo economico.<br />

Ma si trascura troppo volentieri la parte avuta dal disprezzo dei diritti umani,<br />

dalla subordinazione della morale alle esigenze del sistema e alle promesse di futuro.<br />

La più grande catastrofe che hanno incontrato non è di natura economica;<br />

essa consiste nell’inaridimento delle anime, nella distruzione della coscienza<br />

morale.<br />

Il problema essenziale della nostra ora per l’Europa e per il mondo è che, se da<br />

un lato si riconosce la fallacia dell’economia comunista, tanto che gli ex comunisti<br />

sono diventati senza esitazione liberali in economia, dall’altro la questione<br />

morale e religiosa […] viene quasi completamente rimossa. Così il nodo irrisolto<br />

del marxismo continua a esistere anche oggi: il dissolversi delle originarie certezze<br />

dell’uomo su Dio, su se stessi e sull’universo. Il declino di una coscienza<br />

morale basata su valori inviolabili è ancora il nostro problema e può condurre<br />

all’autodistruzione della coscienza europea, che dobbiamo cominciare a considerare<br />

– al di là del tramonto previsto da Spengler – come un reale pericolo 14 .<br />

Marx e Nietzsche, dunque. Sul nietzschianismo e sul marxismo, come<br />

due delle principali cause della moda antimoralista e anticristiana, Ratzinger<br />

scrive pagine indirizzate a cattolici e laici, pagine che si collocano<br />

degnamente nel solco tracciato da alcuni grandi intellettuali europei del<br />

Novecento. Si pensi, ad esempio, che già nel 1908, un pensatore laico come<br />

Benedetto Croce, ebbe a indicare, mutatis mutandis, le stesse due cause<br />

dell’antimoralismo dilagante in Europa:<br />

Niente sembrerà dunque più stolto dell’antimoralismo in voga ai giorni nostri,<br />

triste risonanza di malsane condizioni sociali e di dottrine unilaterali e malintese<br />

(marxismo, nietzschianismo). L’antimoralismo può essere giustificato come<br />

13 Ivi, pp. 113-4.<br />

14 J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, cit., p. 66.


64 Giuseppe Pezzino<br />

polemica contro l’ipocrisia morale e in favore della moralità effettiva contro<br />

quella parolaia; ma perde ogni significato e giustificazione quando, gonfiando<br />

frasi vuote o combinando proposizioni contraddittorie, si argomenta di predicare<br />

contro la moralità stessa. Crede esso di celebrare in tal guisa la forza, la salute,<br />

la libertà; e vanta invece la servitù alle passioni sbrigliate, l’apparente floridezza<br />

del malato e la forza apparente del maniaco. La moralità (non dispiaccia<br />

agli antimoralisti letterarî), non che fisima da pedante o consolazione da impotente,<br />

è il sangue buono contro il sangue guasto […] Soprattutto quest’ufficio<br />

di simbolo etico idealistico, quest’affermazione che l’atto morale è amore e volizione<br />

dello Spirito in universale, si osserva nell’Etica religiosa e cristiana, nell’Etica<br />

dell’amore e della ricerca ansiosa della presenza divina: così misconosciuta<br />

e bistrattata oggi, per angusta passione di parte o per manco di finezza mentale,<br />

dai volgari razionalisti e intellettualisti, dai cosiddetti liberi pensatori e da<br />

simile genía, frequentatrice di logge massoniche. Non c’è quasi verità dell’Etica<br />

[…] che non si possa esprimere con le parole, che abbiamo apprese da bambini,<br />

della religione tradizionale, e che ci salgono alle labbra come le più alte, le più<br />

appropriate, le più belle: parole, di certo, ombrate ancora di mitologia, ma gravi<br />

insieme di un contenuto profondamente filosofico 15 .<br />

Negli anni Trenta, Johan Huizinga denuncia un «universale infiacchimento<br />

del principio morale» e avverte che «la legge morale cristiana<br />

per infiniti individui ha cessato di avere un preciso valore impegnativo» 16 .<br />

Quali, per Huizinga, le cause della crisi del sistema morale cristiano? Accanto<br />

al freudismo, riappaiono il marxismo e il nietzschianismo. Addirittura,<br />

oltre a questi tre particolari e definiti soggetti dell’antimoralismo, il<br />

grande storico olandese denuncia una corrente più vasta, più anonima,<br />

ma non meno nefasta: l’immoralismo filosofico, che esercita effetti diretti<br />

solo su ambiti ristretti, ma che si espande per vie indirette su una vasta<br />

area di demi-savants superficiali e conformisti.<br />

L’immoralismo filosofico, s’intende, esercita un effetto diretto solo in limitati<br />

ambienti. Tanto più vasti sono i suoi effetti indiretti. Poiché gli uomini sono<br />

pecore, a molti basta sapere che certi filosofi negano ogni fondamento alla morale,<br />

per conchiudere che certo questa morale non deve valere un bel niente 17 .<br />

15 B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed Etica, Bari, Laterza, 1963, pp. 306-8.<br />

16 J. Huizinga, La crisi della civiltà, cit., p. 84.<br />

17 Ivi, pp. 84-5.


Pare proprio che Huizinga si riferisca all’opera di volgarizzazione –<br />

opera tanto entusiastica quanto superficiale –, che alla fine dell’Ottocento<br />

effettuarono tantissimi «mediocri imbecilli» sulla dottrina del «filosofopoeta»<br />

Nietzsche, il cui pensiero, «nato dalla disperazione», si smarrì per<br />

via senza giungere mai alla casa della pura speculazione filosofica:<br />

C’è qualcosa di tragico nel fatto che l’odierna degenerazione dell’ideale eroico<br />

sia partita dalla superficiale ondata d’entusiasmo per la filosofia nietzschiana,<br />

che intorno al 1890 si diffuse in ambienti più vasti. Così il pensiero del filosofopoeta,<br />

nato dalla disperazione, si smarrì per via prima di aver raggiunto le dimore<br />

della speculazione pura. Tutti i mediocri imbecilli della fine del secolo<br />

parlarono di “superuomo”, come se fosse stato un loro fratello maggiore18 .<br />

Fin troppo scontata, per Huizinga, la netta condanna del marxismo<br />

nei suoi mortali effetti a danno della morale. Piuttosto, lo storico olandese<br />

riserva considerazioni acute e severe sugli effetti devastanti del freudismo<br />

nei confronti della morale e, soprattutto, del cristianesimo. Più affascinante,<br />

raffinato e sofisticato del marxismo, il freudismo offre ad una<br />

vastissima platea di demi-savants quel miracoloso passe-partout che serve a<br />

schiudere ogni uscio, che serve a fornire ad ogni tipo di problema la soluzione<br />

per antonomasia.<br />

Il freudismo, cui tanto fascino conferisce quell’apparato mitologico che desta<br />

così facilmente la consolante illusione di “essere finalmente giunti a comprendere”,<br />

per le generazioni venute su dall’inizio del novecento è stato senza dubbio<br />

un formidabile ingoiatore di certezze morali, che tutte seppe annullare sul<br />

suo facile concetto di “sublimazione”.<br />

Benché consenta le possibilità di una certa indipendenza spirituale, il freudismo<br />

è in realtà molto più anticristiano della morale marxistica. Con l’insistere sugli<br />

impulsi infantili posti a base dell’intera <strong>vita</strong> dell’anima e dello spirito, esso, per<br />

servirmi di un’espressione cristiana, subordina la virtù al peccato, e dalla carnalità<br />

fa sgorgare le rivelazioni supreme. Ma questo che importa a una generazione<br />

morta ormai interamente alla filosofia cristiana, e che sull’estensibile concetto<br />

della libido sa eseguire dei virtuosismi come su una fisarmonica?<br />

Ripeto: l’autore di queste pagine non si permette <strong>qui</strong> un giudizio sui meriti della<br />

psicanalisi come ipotesi scientifica o principio terapeutico. Ma come più sopra<br />

si è detto che il freudismo era una porta aperta all’indebolimento del livello<br />

18 Ivi, p. 105.<br />

La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 65


66 Giuseppe Pezzino<br />

critico nel campo intellettuale, si può ritenere con sicurezza che esso abbia cooperato<br />

assai a distruggere le basi di una morale fondata sulla coscienza e su ben<br />

formulate convinzioni 19 .<br />

Tornando alle riflessioni di Ratzinger, bisogna riconoscere il merito<br />

che egli ha nel porre al centro della questione morale il concetto di coscienza,<br />

il suo approfondimento e la sua appropriata definizione, in ordine<br />

alla crisi che investe e cristiani e laici nel mondo occidentale. Egli<br />

prende le mosse dalla chiara consapevolezza che il dibattito sull’etica ruota<br />

attorno alla dialettica di libertà/necessità, di autonomia/eteronomia, di<br />

coscienza/autorità. Attorno a quest’asse dialettico, infatti, si sono misurate,<br />

in un incontro-scontro, tesi che, avendo affermato il primato della libertà<br />

nell’azione morale, respingono il concetto di necessità che si annida<br />

nell’obbligazione della norma; e tesi che, affermando il primato della legge,<br />

negano ogni effettiva libertà morale. E ancora: tesi che postulano una<br />

legge morale esclusivamente fondata e data dalla ragione; e tesi che considerano<br />

un errore di arroganza pretendere di fondare la legge morale sull’autonomia<br />

razionale. Da <strong>qui</strong> la contrapposizione fra una morale della<br />

coscienza ed una morale dell’autorità. Una contrapposizione che, avendo<br />

investito e il campo della filosofia morale e il campo della teologia morale,<br />

non può non ricadere sulla stessa Chiesa che vede, al suo interno,<br />

fronteggiarsi due modelli del cattolicesimo: uno, che spiega la fede cristiana<br />

a partire dalla libertà; e l’altro, che assoggetta l’esperienza cristiana<br />

all’autorità, ossia ad un complesso di norme dettate dall’esterno.<br />

Nel primo modello di cattolicesimo, che potremmo definire “postconciliare”,<br />

si ha il primato della coscienza e della libertà nell’attività morale;<br />

nel secondo modello, che potremmo definire “pre-conciliare”, si ha<br />

il primato dell’autorità che s’identifica col Magistero della Chiesa e con<br />

tutte le norme morali che dall’alto discendono sull’individuo. Rispetto ai<br />

due modelli, netta è la posizione di Ratzinger a favore del primo modello,<br />

che offre una «comprensione rinnovata» della stessa essenza del cattolicesimo<br />

e del valore della libertà, laddove quello “pre-conciliare” viene da lui<br />

giudicato come «modello superato»:<br />

19 Ivi, pp. 85-6.


La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 67<br />

In tale contesto vengono così contrapposte due concezioni del cattolicesimo: da<br />

un lato sta una comprensione rinnovata della sua essenza, che spiega la fede cristiana<br />

a partire dalla libertà e come principio della libertà e, dall’altro lato, un<br />

modello superato, “pre-conciliare”, che assoggetta l’esistenza cristiana all’autorità,<br />

la quale attraverso norme regola la <strong>vita</strong> fin nei suoi aspetti più intimi e cerca<br />

in tal modo di mantenere un potere di controllo sugli uomini 20 .<br />

Appare, dunque, chiaramente vincente il primo modello, fondato sulla<br />

coscienza-libertà, rispetto a quello di un legalismo etico fondato sull’autorità<br />

esterna. E il principio di libertà, che anima la morale della coscienza,<br />

sembra essere incompatibile con il legalismo della morale dell’autorità.<br />

Così “morale della coscienza” e “morale dell’autorità” sembrano contrapporsi<br />

tra di loro come due modelli incompatibili; la libertà dei cristiani sarebbe poi<br />

messa in salvo facendo appello al principio classico della tradizione morale, secondo<br />

cui la coscienza è la norma suprema, che dev’essere sempre seguita, anche<br />

in contrasto con l’autorità. E se l’autorità – in questo caso il Magistero ecclesiastico<br />

– vuol parlare in materia di morale, può certamente farlo, ma solo<br />

proponendo elementi per la formazione di un autonomo giudizio alla coscienza,<br />

la quale tuttavia deve sempre mantenere l’ultima parola. Tale carattere di ultima<br />

istanza proprio della coscienza viene ricondotto da alcuni autori alla formula<br />

secondo cui la coscienza è infallibile 21 .<br />

A questo punto, però, Ratzinger vira impercettibilmente; e punta a riconsiderare<br />

questa contrapposizione in modo più approfondito e meno<br />

schematico di quanto non sia stato fatto tradizionalmente all’interno della<br />

stessa Chiesa: se è vero, infatti, che bisogna ascoltare la coscienza nell’esperienza<br />

morale, è altrettanto vero che la coscienza non sempre è infallibile<br />

nel formulare giudizi sull’azione da compiere. È un fatto innegabile,<br />

insomma, che i giudizi di coscienza spesso si contraddicano tra loro:<br />

È fuori discussione che si deve sempre seguire un chiaro dettame della coscienza,<br />

o che almeno non si può mai andare contro di esso. Ma è questione del tutto<br />

diversa se il giudizio di coscienza, o ciò che uno prende come tale, abbia anche<br />

sempre ragione, se esso cioè sia infallibile. Infatti se così fosse, ciò vorrebbe<br />

20 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, p. 5.<br />

21 Ivi, pp. 5-6.


68 Giuseppe Pezzino<br />

dire che non c’è nessuna verità – almeno in materia di morale e di religione, ossia<br />

nell’ambito dei fondamenti veri e propri della nostra esistenza. Dal momento<br />

che i giudizi di coscienza si contraddicono, ci sarebbe dunque solo una verità<br />

del soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità 22 .<br />

In altri termini, quando la coscienza di ciascun individuo passa a formulare<br />

giudizi, ci si prospetta una selva intricata e pericolosa di posizioni<br />

antitetiche e contraddittorie. E, stando così le cose, sembra che la coscienza<br />

sia condannata a possedere e proporre una «verità soggettiva».<br />

Purtroppo, una «verità soggettiva» non solo è una contraddizione in termini,<br />

ma addirittura ci porta inesorabilmente sulla strada del relativismo,<br />

verso la palude dello scetticismo teoretico e dell’utilitarismo etico. Invero,<br />

quanti di noi non hanno innalzato in buona coscienza il proprio “particulare”,<br />

il proprio comodo e piacevole utile, a ideale di <strong>vita</strong> e a categoria di<br />

giudizio? Sicuramente, persino l’imperatrice Semiramide, la quale «libito<br />

fé licito in sua legge», operò in piena lussuria e in buona coscienza.<br />

E, se la coscienza si accampa sul terreno del soggettivo, ine<strong>vita</strong>bilmente<br />

prende il sopravvento il modello legalistico della morale dell’autorità.<br />

Occorre <strong>qui</strong>ndi uscire dallo stallo mortale, dall’antinomia paralizzante, in<br />

cui ci trascina la contrapposizione fra la coscienza-libertà e la legge-autorità.<br />

Da <strong>qui</strong> la proposta di Ratzinger, tendente a superare l’antinomia coscienza/legge,<br />

libertà/autorità, soggettivo/oggettivo, mediante la ricerca<br />

di qualcosa di più profondo:<br />

Dal momento che i giudizi di coscienza si contraddicono, ci sarebbe dunque solo<br />

una verità del soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità. Non ci sarebbe<br />

nessuna porta e nessuna finestra che potrebbe condurre dal soggetto al mondo<br />

circostante e alla comunione degli uomini. Chi ha il coraggio di portare questa<br />

concezione fino alle sue ultime conseguenze arriva alla conclusione che non esiste<br />

dunque nessuna vera libertà e che quelli che supponiamo essere dettami della<br />

coscienza, in realtà non sono altro che riflessi delle condizioni sociali. Ciò dovrebbe<br />

condurre alla convinzione che la contrapposizione tra libertà e autorità<br />

lascia da parte qualcosa; che dev’esserci qualcosa di ancor più profondo, se si<br />

vuole che libertà e, <strong>qui</strong>ndi, umanità abbiano un senso 23 .<br />

22 Ivi, p. 6.<br />

23 Ivi.


A questo punto, nell’intraprendere il cammino verso la definizione di<br />

una coscienza non già falsamente libera, errante nel labirinto del relativismo<br />

soggettivo, bensì autentica fonte di libertà, di verità e di bene, Ratzinger<br />

abbandona la forma della trattazione rigorosamente concettuale ed<br />

astratta, per adottare invece una forma narrativa – più attraente e non<br />

meno rigorosa – che gli consente di polemizzare, con leggera ma efficace<br />

ironia, contro i sostenitori dell’essenza soggettiva della coscienza.<br />

Fu all’inizio della mia attività accademica che, per la prima volta, divenni consapevole<br />

di tale questione in tutta la sua urgenza. Una volta, un collega più anziano,<br />

cui stava molto a cuore la situazione dell’essere cristiano nel nostro tempo,<br />

nel corso di una discussione, espresse l’opinione che bisognava davvero esser<br />

grati a Dio, per aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in<br />

buona coscienza. Infatti, se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti,<br />

non sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il<br />

peso della fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento<br />

che percorrono un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere<br />

la salvezza. Quello che mi sbalordì in quest’affermazione non fu innanzi<br />

tutto l’idea di una coscienza erronea concessa da Dio stesso, l’idea, per<br />

così dire, di un accecamento mandato da Dio stesso per la salvezza delle persone<br />

in questione. Ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile<br />

da portare e che sia adatto solo a nature particolarmente forti: quasi una<br />

forma di punizione, e comunque un insieme oneroso di esigenze cui non è facile<br />

far fronte. Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più<br />

accessibile, la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui<br />

cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a<br />

quel giogo morale, che la fede della Chiesa cattolica comporta 24 .<br />

C’è, a mio avviso, qualcosa dello stile pascaliano in questa pagina di<br />

Ratzinger. Qualcosa del Pascal raffinato polemista delle Lettere Provinciali.<br />

In effetti, la forma narrativa scelta non a caso da Ratzinger – col personaggio<br />

del collega universitario, buon cattolico, che sostiene candidamente<br />

la tesi della positività della buona coscienza, senza fede e senza doveri<br />

morali – ci riporta, mutatis mutandis, a certe sapide scene rappresentate<br />

in quella sorta di commedia che Pascal imbastisce nelle Provinciali. Tra<br />

l’altro, il buon collega – che con la sua lode a Dio, per aver concesso a<br />

24 Ivi, pp. 7-8.<br />

La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 69


70 Giuseppe Pezzino<br />

tantissimi uomini di non credere e tuttavia di salvarsi, sbalordisce e turba<br />

il giovane professore Ratzinger – assomiglia alquanto al buon Padre gesuita<br />

che, tra l’ingenuo e il furbesco, cozza contro i princìpi della filosofia<br />

morale e della teologia cristiana, suscitando stupore e indignazione nel<br />

giovane Louis de Montalte, pseudonimo di Blaise Pascal:<br />

Benedetto voi, caro padre, – esclama Louis de Montalte – che giustificate così la<br />

gente. Gli altri insegnano a guarire le anime mediante austerità dolorose, ma<br />

voi dimostrate che quelle che si sarebbero credute le più disperatamente malate<br />

stanno benissimo. Che bella via per essere felici in questo mondo e nell’altro!<br />

Avevo sempre pensato che si peccasse tanto più, quanto meno si pensa a Dio.<br />

Invece a quanto vedo, se si riesce a imporsi una volta per tutte di non pensarci<br />

affatto, ogni cosa diviene pura in seguito. Niente mezzi peccatori, con un po’<br />

d’amore per la virtù. Saranno tutti dannati questi mezzi peccatori, mentre questi<br />

peccatori decisi, peccatori incalliti, peccatori schietti, pieni e completi, l’inferno<br />

non li rinchiude. Hanno beffato il diavolo a forza di concedersi a lui 25 .<br />

Qui l’ironia di Pascal sferra un attacco ad un certo modo di fare casistica,<br />

ad un certo barocchismo secentesco della morale gesuitica, che pretende<br />

di stare a metà strada fra il passato e il presente, e che finisce invece<br />

per stare in bilico tra una morale dell’accomodamento e una politica della<br />

furbizia. E proprio <strong>qui</strong> torna alla mente l’ironia di Manzoni che, in una<br />

pagina dedicata al cardinal Federigo Bor<strong>romeo</strong> e alla mentalità baroccheggiante<br />

di un’«età sudicia e sfarzosa», riserva parole severissime contro<br />

coloro che intendono la massima del “giusto mezzo” come una furbesca e<br />

comoda posizione mediana tra il vizio e la virtù; condannando con sottile<br />

ironia «que’ prudenti che s’adombrano delle virtù come de’ vizi, predicano<br />

sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in<br />

quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi» 26 .<br />

Ma torniamo alle considerazioni dello sbalordito Ratzinger, in merito<br />

alle discutibili affermazioni del suo collega che, in verità, «era un sincero<br />

credente, anzi direi un cattolico rigoroso, che adempiva al suo dovere con<br />

convinzione e scrupolosità». In primo luogo, Ratzinger mostra a quali<br />

25 B. Pascal, Le Provinciali, a cura di C. Carena, Torino, Einaudi, 2008, Quarta Lettera, pp.<br />

67-9. 26 I Promessi Sposi, XXII.


conseguenze paradossali conduca la tesi del collega, secondo cui il possesso<br />

di una coscienza senza fede è una felice concessione divina che ci porta<br />

alla salvezza:<br />

La non verità, il restare lontani dalla verità, sarebbe per l’uomo meglio della verità.<br />

Non sarebbe la verità a liberarlo, anzi egli dovrebbe piuttosto esserne liberato.<br />

L’uomo starebbe a casa propria più nelle tenebre che nella luce; la fede<br />

non sarebbe un bel dono del buon Dio, ma piuttosto una maledizione. Stando<br />

così le cose, come dalla fede potrebbe provenire gioia? Chi potrebbe avere addirittura<br />

il coraggio di trasmettere la fede ad altri? Non sarebbe meglio risparmiar<br />

loro questo peso o anche tenerli lontani da esso? 27<br />

Meglio, dunque, non diffondere la luce della fede cristiana, per e<strong>vita</strong>re<br />

a tanti uomini il pesante fardello dei doveri morali e dei dettami dell’autorità<br />

ecclesiastica. Meglio così, perché i tanti uomini privi della luce<br />

della fede e liberi da ogni obbligazione si salveranno più agevolmente dei<br />

miseri credenti. Ma, beninteso, quella che poteva restare un’ironia di<br />

stampo pascaliano contro una delle tante eterne forme di gesuitismo più<br />

o meno consapevole, in Ratzinger si fa autorevole ed amara denuncia di<br />

un erroneo senso di libertà e di coscienza, che si è diffuso nella Chiesa,<br />

che ha paralizzato l’antico slancio evangelizzatore e che, se si diffonde ancora,<br />

potrebbe essere fatale per la fede:<br />

Negli ultimi decenni, concezioni di questo tipo hanno visibilmente paralizzato<br />

lo slancio dell’evangelizzazione: chi intende la fede come un carico pesante, come<br />

un’imposizione di esigenze morali, non può in<strong>vita</strong>re gli altri a credere; egli<br />

preferisce piuttosto lasciarli nella presunta libertà della loro buona fede 28 .<br />

Una volta denunciata l’in<strong>qui</strong>etante «caricatura della fede», Ratzinger<br />

passa a considerare criticamente lo stesso concetto di coscienza che viene<br />

formulato nella tesi del collega «cattolico rigoroso». E <strong>qui</strong> si fa evidente<br />

l’insufficienza e la pericolosità di tale concetto di «coscienza erronea», la<br />

quale e<strong>vita</strong> il peso della fede e dell’obbligazione morale. Anzi, occorre<br />

proprio distinguere la coscienza erronea, che dispensa l’uomo dalla ricerca<br />

27 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, cit., p. 8.<br />

28 Ivi.<br />

La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 71


72 Giuseppe Pezzino<br />

della verità universale, rifugiandosi nel relativismo soggettivo, dalla coscienza<br />

autentica, che invece supera la mera soggettività nell’incontro fra<br />

l’interiorità dell’uomo e la verità che proviene da Dio.<br />

La coscienza erronea protegge l’uomo dalle onerose esigenze della verità e così la<br />

salva: questa era l’argomentazione. Qui la coscienza non si presenta come la finestra<br />

che spalanca all’uomo la vista su quella verità universale, che fonda e sostiene<br />

tutti noi e che in tal modo rende possibile, a partire dal suo comune riconoscimento,<br />

la solidarietà del volere e della responsabilità. In questa concezione<br />

la coscienza non è l’apertura dell’uomo al fondamento del suo essere, la possibilità<br />

di percepire quanto è più elevato e più essenziale. Essa sembra essere piuttosto<br />

il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nascondersi.<br />

[…] La coscienza non apre la strada al cammino liberante della verità, la<br />

quale o non esiste affatto o è troppo esigente per noi. La coscienza è l’istanza<br />

che ci dispensa dalla verità. Essa si trasforma nella giustificazione della soggettività,<br />

che non si lascia più mettere in questione […] Il dovere di cercare la verità<br />

viene meno, così come vengono meno i dubbi sulle tendenze generali predominanti<br />

nella società e su quanto in essa è diventato abitudine. L’essere convinto<br />

delle proprie opinioni, così come l’adattarsi a quelle degli altri sono sufficienti.<br />

L’uomo è ridotto alle sue convinzioni superficiali e, quanto meno sono profonde,<br />

tanto meglio è per lui 29 .<br />

Nel portare a termine l’attacco contro questo «guscio della soggettività»,<br />

che è la coscienza erronea e superficiale, Ratzinger ha bisogno di tornare<br />

all’ironia pascaliana della narrazione. Sicché la scena si amplia, ed<br />

accoglie più colleghi, i quali dibattono sul potere giudicante della coscienza<br />

soggettiva, sino al punto che qualcuno di loro giunge a sostenere,<br />

con estrema naturalezza e malinteso senso della consequenzialità, che persino<br />

Hitler ed i suoi complici commisero bensì orrendi crimini, ma restarono<br />

in pace con la loro coscienza e con la loro morale.<br />

Quanto era stato per me solo marginalmente chiaro in questa discussione, divenne<br />

pienamente evidente un po’ dopo, in occasione di una disputa tra colleghi,<br />

a proposito del potere di giustificazione della coscienza erronea. Qualcuno<br />

obiettò a questa tesi che, se ciò dovesse avere un valore universale, allora persino<br />

i membri delle SS naziste sarebbero giustificati e dovremmo cercarli in paradiso.<br />

29 Ivi, pp. 9-10.


Essi infatti portarono a compimento le loro atrocità con fanatica convinzione<br />

ed anche con un’assoluta certezza di coscienza. Al che un altro rispose con la<br />

massima naturalezza che le cose stavano proprio così: non c’è proprio nessun<br />

dubbio che Hitler ed i suoi complici, che erano profondamente convinti della<br />

loro causa, non avrebbero potuto agire diversamente e che <strong>qui</strong>ndi, per quanto<br />

siano state oggettivamente spaventose le loro azioni, essi, a livello soggettivo, si<br />

comportarono moralmente bene. Dal momento che essi seguirono la loro coscienza<br />

– per quanto deformata –, si dovrebbe riconoscere che il loro comportamento<br />

era per loro morale e non si potrebbe pertanto mettere in dubbio la loro<br />

salvezza eterna 30 .<br />

Con un filo d’ironia per la serietà di siffatta argomentazione filosofica<br />

e teologica, si dovrebbe fiduciosamente sperare di trovare un bel giorno,<br />

in paradiso, coscienziosi criminali come Hitler e Stalin. Comunque sia,<br />

gli esiti paradossali di quell’argomentare ci aiutano notevolmente a dif -<br />

fidare della coscienza comodamente fondata sui criteri soggettivi di un<br />

uomo contemporaneo che, avendo spesso perduto il senso della colpa e<br />

del peccato, si sente stoltamente sereno e moralmente “in regola”. A tal<br />

proposito, torna opportuno ricordare la parabola del fariseo e del pubblicano:<br />

tra il pubblicano peccatore e il fariseo giusto passa indubbiamente<br />

la differenza netta che separa le opere malvagie da quelle buone, e che<br />

condanna le prime ed approva le seconde. Ma, al vaglio divino di Gesù,<br />

c’è ancora un altro male, un altro peccato: quello del giusto fariseo che<br />

non percepisce più la colpa, che si sente in pace con sé stesso, con la Legge<br />

e con Dio, mentre non s’accorge del silenzio e del sonno della sua coscienza.<br />

Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il<br />

fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono<br />

come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.<br />

Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che<br />

possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare<br />

gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me<br />

peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato,<br />

perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato 31 .<br />

30 Ivi, 10-1.<br />

31 Lc 18, 10-14.<br />

La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 73


74 Giuseppe Pezzino<br />

Pertanto, una rigorosa riflessione sul concetto di coscienza non può<br />

far coincidere sbrigativamente questa con le sicurezze e le certezze di un<br />

soggetto che si compiace di sé e indulge ai capricci e agli interessi del proprio<br />

“particulare”. E in questo caso Ratzinger trae delle conseguenze ben<br />

nette e degne di considerazione:<br />

Non si può identificare la coscienza dell’uomo con l’auto-coscienza dell’io, con<br />

la certezza soggettiva su di sé e sul proprio comportamento morale. Questa consapevolezza,<br />

da una parte, può essere un mero riflesso dell’ambiente sociale e<br />

delle opinioni ivi diffuse. D’altra parte può derivare da una carenza di autocritica,<br />

da una incapacità di ascoltare le profondità del proprio spirito. […] L’errore,<br />

la “coscienza erronea”, solo a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce,<br />

l’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e ad<br />

un pericolo mortale.<br />

Detto con altre parole: l’identificazione della coscienza con la consapevolezza<br />

superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non libera affatto, ma<br />

rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti dalle opinioni dominanti ed<br />

abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno. Chi fa coincidere<br />

la coscienza con convinzioni superficiali, la identifica con una sicurezza pseudorazionale,<br />

intessuta di auto giustificazione, conformismo e pigrizia 32 .<br />

Nel citare il cardinale John Henry Newman a proposito di coscienza,<br />

Ratzinger fa ben intendere che, per uscire dalla paralizzante e perniciosa<br />

antinomia fra la soggettività della coscienza-libertà e l’oggettività della<br />

legge-autorità, occorre intanto riconsiderare il concetto di coscienza alla<br />

luce del concetto di verità. Anzi, occorre evidenziare l’imprescindibile ed<br />

inscindibile legame che intercorre fra coscienza e verità. Invero, tranciato<br />

questo legame, un processo di necrosi colpisce inesorabilmente e la verità<br />

e la coscienza, facendole avvizzire e morire, e collocando al loro posto gli<br />

ingannevoli simulacri di entrambe.<br />

Per Newman il termine medio che assicura la connessione tra i due elementi<br />

della coscienza e dell’autorità è la verità. […] La presenza preponderante dell’idea<br />

di coscienza in Newman non significa che egli, nel XIX secolo e in contrasto<br />

con l’oggettivismo della neoscolastica, abbia sostenuto per così dire una<br />

filosofia o teologia della soggettività. […] La coscienza non significa per New-<br />

32 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, cit., pp. 13-5.


La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 75<br />

man che il soggetto è il criterio decisivo di fronte alle pretese dell’autorità, in un<br />

mondo in cui la verità è assente e che si sostiene mediante il compromesso tra<br />

esigenze del soggetto ed esigenze dell’ordine sociale. Essa significa piuttosto la<br />

presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all’interno del soggetto<br />

stesso; la coscienza è il superamento della mera soggettività nell’incontro tra<br />

l’interiorità dell’uomo e la verità che proviene da Dio 33 .<br />

E <strong>qui</strong> si staglia netta e imponente la presenza di Agostino: infatti, in<br />

rotta di allontanamento dall’oggettivismo della neoscolastica, Newman<br />

rivaluta quella coscienza, non certo soggettiva, che Agostino aveva già inteso<br />

bensì come luce interiore, ma, in ultima istanza, come riflesso di una<br />

verità universale ed eterna che non può non trascendere l’individuo e il<br />

suo limitato orizzonte soggettivo. «Non uscire fuori di te, ritorna in te<br />

stesso: la verità abita nell’uomo interiore», ci ricorda Agostino. E noi, però,<br />

dimentichiamo facilmente quel che egli aggiunge subito dopo: «e, se<br />

troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso» 34 .<br />

A questo punto è già matura la definizione del concetto di coscienza,<br />

che Ratzinger articola su due livelli: quella dell’anamnesis, della memoria,<br />

e quello della conscientia, del giudicare e dell’agire. Nel primo caso, ci<br />

troviamo di fronte al livello ontologico della coscienza come memoria:<br />

un livello che, tralasciato il tradizionale concetto medievale di sinderesi<br />

ereditato dalla filosofia stoica, pone al centro il concetto di anamnesis che<br />

abbraccia armonicamente e la grande filosofia di Platone e i temi fondamentali<br />

della Bibbia.<br />

La corrente principale della scolastica ha espresso i due livelli della coscienza<br />

con i concetti di sinderesi e di coscienza. Il termine sinderesi (synteresis) confluì<br />

nella tradizione medioevale sulla coscienza dalla dottrina stoica del microcosmo.<br />

Rimase però non chiaro nel suo esatto significato e venne così a costituire<br />

un ostacolo per un accurato sviluppo della riflessione su questo aspetto essenziale<br />

della questione globale circa la coscienza. Vorrei <strong>qui</strong>ndi, pur senza entrare nel<br />

dibattito sulla storia del pensiero, sostituire questo termine problematico con il<br />

concetto platonico, molto più nettamente definito, di anamnesi, il quale ha il<br />

33 Ivi, pp. 17-8.<br />

34 «Noli foras ire, in teipsum redi; in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam<br />

mutabilem inveneris, transcende et teipsum» (Agostino, De vera religione liber unus, 39.72).


76 Giuseppe Pezzino<br />

vantaggio non solo di essere linguisticamente più chiaro, più profondo e più<br />

puro, ma anche soprattutto di concordare con temi essenziali del pensiero biblico<br />

e con l’antropologia sviluppata a partire dalla Bibbia 35 .<br />

Pertanto, col termine platonico di anamnesis bisogna intendere, secondo<br />

Ratzinger, quel che afferma san Paolo sulla coscienza, a proposito<br />

di quei pagani che per natura agiscono secondo la Legge, perché il dettato<br />

della Legge è scritto nei loro cuori:<br />

Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge,<br />

essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto<br />

la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro<br />

coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono 36 .<br />

E ancora, questo concetto di coscienza come memoria deve fare riferimento<br />

all’insegnamento di sant’Agostino, quando sostiene che la parte<br />

più nobile dello spirito umano (mens humana) detiene l’immagine di<br />

Dio, che anzi è immagine di Dio, pur non essendo Dio:<br />

Eccoci giunti ora nella nostra ricerca alla fase in cui abbiamo intrapreso a considerare,<br />

per scoprirvi l’immagine di Dio, la parte più nobile dello spirito umano,<br />

parte con la quale esso conosce o può conoscere Dio. Sebbene infatti lo spirito<br />

umano non sia della stessa natura di Dio, tuttavia l’immagine di quella natura<br />

che è superiore ad ogni altra deve essere cercata e trovata presso di noi, in ciò<br />

che la nostra natura ha di migliore. Ma si deve considerare lo spirito in sé, prima<br />

che esso sia partecipe di Dio, e scoprirvi l’immagine di lui. Anche quando<br />

lo spirito, abbiamo detto, è degradato e deforme per la perdita della partecipazione<br />

a Dio, resta tuttavia immagine di Dio; perché esso è immagine di Dio in<br />

quanto è capace di Dio e può essere partecipe di lui. Un bene così grande non è<br />

possibile se non in quanto lo spirito è immagine di Dio. Ecco dunque che lo<br />

spirito si ricorda di sé, si comprende, si ama: se contempliamo ciò, vediamo una<br />

trinità, che non è certo ancora Dio, ma già è immagine di Dio 37 .<br />

Questo primo livello ontologico della coscienza è dato, dunque, dal<br />

fatto che in noi – che nella parte migliore siamo imago Dei – sono impresse<br />

in modo indelebile le categorie del bene e del vero: categorie, be-<br />

35 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, cit., p. 23.<br />

36 Rm, 2, 14-15.<br />

37 Agostino, La Trinità, libro XIV, 8. 11.


La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 77<br />

ninteso, che ci provengono non già dall’esterno, bensì dall’immagine di<br />

Dio. Su questa anamnesi di Dio si fonda la natura universale della vera<br />

coscienza; su questa anamnesi di Dio si fonda quella sorta di sentimento<br />

del bene che nutre e indirizza la coscienza. Ecco: il concetto platonico di<br />

anamnesi ci dice che la Verità non proviene e non si impone dall’esterno,<br />

ma dev’essere ricercata e scoperta nelle profondità di una coscienza che,<br />

sia pur degradata e precipitata nelle tenebre dell’errore e dell’apparenza,<br />

possiede tuttavia la memoria-anamnesis della Verità e del Bene. E come<br />

può accadere che, dalla discesa-katabasis fin negli inferi dell’errore e della<br />

malvagità, la coscienza possa disporsi alla risalita-anabasis della memoria<br />

del vero e del bene? Anche in questo caso, ci soccorre Platone: perché la<br />

memoria si rischiari, è necessario aiutare la coscienza con un delicato procedimento<br />

di maieutica.<br />

Proprio su questo livello platonico-agostiniano della coscienza intesa<br />

come anamnesis, Ratzinger è in grado di superare la vecchia antinomia tra<br />

una malintesa autonomia della coscienza soggettiva ed un’altrettanto malintesa<br />

eteronomia dell’autorità oggettivamente data dalla legge. Un’antinomia,<br />

beninteso, che si rivela particolarmente nefasta, quando lacera e<br />

paralizza la <strong>vita</strong> di una Chiesa, che rischia di parteggiare ora per l’autorità<br />

della legge senza la libertà ora per la libertà senza l’autorità della legge. In<br />

altri termini, la tesi di Ratzinger sana codesta conflittualità, perché il concetto<br />

di coscienza autentica come anamnesis soddisfa le legittime esigenze<br />

della libertà e, al contempo, il concetto di maieutica garantisce le legittime<br />

esigenze del Magistero ecclesiastico. Da questo punto di vista, il Magistero<br />

– e in primo luogo il primato del Papa – devono ora intendersi non<br />

già come ottundimento e soggezione delle anime, bensì come necessario e<br />

prezioso aiuto maieutico a riaccendere la memoria del vero e del bene, la<br />

quale risiede nella parte più nobile di ogni uomo e proviene da Dio:<br />

Il Papa non può imporre ai fedeli cattolici dei comandamenti, solo perché egli<br />

lo vuole o perché lo ritiene utile. Una simile concezione moderna e volontaristica<br />

dell’autorità può soltanto deformare l’autentico significato teologico del papato.<br />

Così la vera natura del ministero di Pietro è diventata del tutto incomprensibile<br />

nell’epoca moderna precisamente perché in questo orizzonte mentale<br />

si può pensare all’autorità solo con categorie che non consentono più alcun<br />

ponte tra soggetto e oggetto. Ma le cose si presentano del tutto diverse a partire


78 Giuseppe Pezzino<br />

da un’antropologia della coscienza, quale abbiamo cercato di delineare a poco a<br />

poco in queste riflessioni. L’anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per<br />

così dire, di un aiuto dall’esterno per diventare cosciente di sé. Ma questo “dal<br />

di fuori” non è affatto qualcosa di contrapposto, anzi è piuttosto qualcosa di ordinato<br />

ad essa: esso ha una funzione maieutica, non le impone niente dal di<br />

fuori, ma porta a compimento quanto è proprio dell’anamnesi, cioè la sua interiore<br />

specifica apertura alla verità 38 .<br />

E, affinché la sua tesi non sia male intesa come soluzione “debole” o<br />

come atto di sostanziale resa nei confronti di un certo delirio di onnipotenza<br />

e di onniscienza della coscienza soggettiva, Ratzinger torna a precisare<br />

le sue idee sul primato del Papa e sull’autorità della Chiesa:<br />

Ciò non significa che i fedeli possiedano una fattuale onniscienza, ma indica<br />

piuttosto la certezza della memoria cristiana. Essa naturalmente impara di continuo,<br />

ma a partire dalla sua identità sacramentale, e operando così interiormente<br />

un discernimento tra quanto è uno sviluppo della memoria e quanto è<br />

una sua distruzione o una sua falsificazione. Oggi noi, proprio nella crisi attuale<br />

della Chiesa, stiamo sperimentando in modo nuovo la forza di questa memoria<br />

e la verità della parola apostolica: più delle direttive della gerarchia è la capacità<br />

di orientamento della memoria della fede semplice che porta al discernimento<br />

degli spiriti. Solo in tale contesto si può comprendere correttamente il primato<br />

del Papa e la sua correlazione con la coscienza cristiana. Il significato autentico<br />

dell’autorità dottrinale del Papa consiste nel fatto che egli è il garante della memoria<br />

cristiana. Il Papa non impone dall’esterno, ma sviluppa la memoria cristiana<br />

e la difende 39 .<br />

Sul secondo livello della coscienza – quello che ricorre al termine<br />

“conscientia” e che riguarda il momento del giudicare – Ratzinger non<br />

spende molte parole, perché aderisce sostanzialmente a quel che aveva<br />

scritto san Tommaso a tal riguardo. Gli preme però precisare che il momento<br />

del giudicare da parte della conscientia, oltre a legarsi al momento<br />

della volontà, deve necessariamente mantenersi in simbiosi con il livello<br />

dell’anamnesi, a pena di pericolose scivolate giustificazioniste a favore di<br />

qualunque decisione – anche la più malvagia – assunta dalla conscientia.<br />

38 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, cit., p. 26.<br />

39 Ivi, pp. 27-8.


La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 79<br />

Solo così si e<strong>vita</strong>, secondo Ratzinger, il ritorno di fiamma soggettivistico<br />

che assolve qualunque crimine consumato in piena coscienza:<br />

Tuttavia il fatto che la convinzione ac<strong>qui</strong>sita sia ovviamente obbligatoria nel<br />

momento in cui si agisce, non significa nessuna canonizzazione della soggettività.<br />

Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve<br />

seguirle. Ma non di meno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi<br />

convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione verso di<br />

esse, che avverte la memoria del suo essere. […] Per questo motivo, anche i criminali<br />

che agiscono con convinzione rimangono colpevoli 40 .<br />

Nel portare a termine questa nostra riflessione, non possiamo non<br />

evidenziare, pur nei limiti di un rapido tratteggio, l’importanza che Ratzinger<br />

attribuisce al concetto di coscienza anche in riferimento alla sfera<br />

dell’attività etico-politica. Sulla base dell’insegnamento evangelico, che<br />

fissa la linea di demarcazione fra Dio e Cesare, la coscienza cristiana assume<br />

una particolare posizione rispetto allo Stato: quest’ultimo è certamente<br />

da rispettare sia come ordinamento giuridico a garanzia della libertà e<br />

della sicurezza, sia come prassi politica di governo indirizzato non già all’interesse<br />

particolare, bensì al benessere di tutti. Ma, proprio perché rispetta<br />

la distinzione tra Chiesa e Stato, tra sacro e profano, tra morale e<br />

politica, la coscienza cristiana respinge fermamente l’idea di uno Stato<br />

come realtà assoluta, fonte di verità e di moralità, fosse pure uno Stato liberal-democratico<br />

che pretenda di legiferare sugli affari di coscienza in<br />

base al principio della maggioranza.<br />

E <strong>qui</strong> riappare l’insegnamento di Agostino, che riesce a mantenere un<br />

forte senso di realismo politico senza mai dimenticare, però, l’ammonimento<br />

di Paolo secondo cui «nostra autem conversatio in caelis est» 41 . Infatti,<br />

nel sottolineare autorevolmente che la sostanza della coscienza cristiana<br />

è la libertà, perché «quando uno diventa cristiano è chiamato dal<br />

Signore alla libertà», Agostino richiama al contempo i cristiani ai doveri<br />

terreni della politica, giacché «sarebbe in grave errore quel cristiano che,<br />

appunto per essere cristiano, ritenesse di non dover pagare le imposte o i<br />

40 Ivi, pp. 29-30.<br />

41 «La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo»<br />

(Fil 3, 20).


80 Giuseppe Pezzino<br />

tributi o si considerasse dispensato dal rendere il debito onore alle autorità<br />

che esercitano funzioni pubbliche». Ma, per il Vescovo di Ippona, cadrebbe<br />

in un errore ancor più grave quel cristiano che pensasse di dover<br />

assoggettare all’autorità politica anche i princìpi e le questioni della fede<br />

religiosa e della coscienza morale:<br />

È un richiamo giustissimo motivato anche dal fatto che quando uno diventa<br />

cristiano è chiamato dal Signore alla libertà. In base a ciò potrebbe inorgoglirsi<br />

e pensare che durante il cammino della <strong>vita</strong> presente sia dispensato dal rispettare<br />

l’ordine stabilito e non doversi più assoggettare alle autorità superiori, alle<br />

quali sia pur temporaneamente è stato assegnato [da Dio] il governo delle realtà<br />

temporali. Essendo infatti l’uomo un composito di anima e di corpo, finché viviamo<br />

in questo mondo, per mantenerci in <strong>vita</strong> ci serviamo come mezzi anche<br />

delle cose materiali. Per quel tanto dunque che riguarda la <strong>vita</strong> presente, dobbiamo<br />

essere sottomessi alle autorità, cioè a coloro che amministrano le cose<br />

umane riscuotendone il debito onore. Il rovescio è della nostra fede in Dio e<br />

della nostra chiamata al suo regno. Qui non ci dobbiamo considerare soggetti a<br />

nessun uomo, specie se pretendesse di sovvertire quel che Dio s’è degnato donarci<br />

in ordine alla <strong>vita</strong> eterna. Sarebbe pertanto in grave errore quel cristiano<br />

che, appunto per essere cristiano, ritenesse di non dover pagare le imposte o i<br />

tributi o si considerasse dispensato dal rendere il debito onore alle autorità che<br />

esercitano funzioni pubbliche. Cadrebbe tuttavia in un errore ancor più grave<br />

colui che pensasse di doversi talmente assoggettare all’autorità, che occupa un<br />

posto preminente per amministrare le cose temporali, da riconoscerle un potere<br />

anche sulla propria fede. Occorre rispettare i limiti fissati dallo stesso nostro Signore<br />

quando ordinò di rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che<br />

è di Dio. Sebbene <strong>qui</strong>ndi chiamati al regno dove non contano nulla le autorità<br />

di questo mondo, tuttavia finché siamo in via e non ancora arrivati a quel mondo<br />

dove sarà tolto di mezzo ogni comandante e potestà, dobbiamo accettare<br />

con pazienza la nostra condizione, stando all’ordine costituito per le realtà umane.<br />

Non dobbiamo agire con sotterfugi ma nel nostro comportamento rispettare<br />

non tanto gli uomini quanto Dio che dà tali precetti 42 .<br />

Su questa linea neotestamentaria prende lo slancio l’ammonimento di<br />

Ratzinger, indirizzato sia alla Chiesa sia allo Stato, a non dimenticare non<br />

solo la distinzione che intercorre fra il debito verso Cesare e il debito verso<br />

Dio, ma soprattutto il primato cristiano dei valori della città celeste ri-<br />

42 Agostino, Questioni sulla Lettera ai Romani, 64.


spetto ai valori terreni. Infatti, dopo aver citato la Lettera agli Ebrei, in<br />

cui si dice che «noi non abbiamo quaggiù una dimora definitiva, ma siamo<br />

in cerca di quella futura» 43 , egli ricorda ai tanti ammiratori di Nietzsche<br />

e di Marx che il cristianesimo deve saper affrontare i problemi di<br />

questa terra, anelando sempre alla patria celeste:<br />

È da molto tempo che non si citano più tanto volentieri questi passi, perché essi<br />

sembrano allontanare l’uomo dalla terra e distoglierlo dai suoi doveri, anche politici,<br />

nel tempo e nella storia. «Fratelli, rimanete fedeli alla terra!» ha proclamato<br />

Nietzsche nel nostro secolo; e l’imponente fenomeno del marxismo, in tutte<br />

le sue correnti, ci ha ficcato bene in testa l’idea che non abbiamo tempo da perdere<br />

per il cielo. Per dirla in termini che riecheggiano un motto brechtiano: lasciamo<br />

dunque il cielo ai passerotti. Noi invece occupiamoci della terra, cercando<br />

di renderla abitabile 44 .<br />

A quei credenti e a quei laici che lasciano il cielo ai passerotti, illudendosi<br />

di impegnarsi meglio su questa terra, Ratzinger ricorda, con parole<br />

appassionate e ferme, che il “destino celeste” dei cristiani non solo aiuta a<br />

riconoscere meglio la separazione, nel reciproco rispetto, fra Stato e Chiesa,<br />

ma addirittura aiuta a fronteggiare e respingere qualunque tentativo di<br />

assolutizzare lo Stato, sotto qualsiasi forma.<br />

In verità, proprio questo atteggiamento “escatologico” è ciò che tutela lo Stato<br />

nei diritti che gli sono peculiari e ad un tempo combatte qualsiasi assolutismo<br />

idolatrico, mostrando i confini mondani tanto dello Stato quanto della<br />

Chiesa. Là dove questa disposizione fondamentale viene accolta, la Chiesa sa<br />

che essa sulla terra non può di per sé divenire “Stato”. Là essa è cosciente che la<br />

sua patria definitiva è altrove, e che non le è dato di istituire sulla terra lo “Stato<br />

di Dio” 45 .<br />

In conclusione, rimanere fedeli al cielo, e non già alla terra, non significa<br />

affatto proporre un atto di alienazione o un atto di resa rispetto ai<br />

problemi terreni della politica. Essere autenticamente cristiani, ossia<br />

guardare al cielo, significa non solo avere una bussola nella selva dei pro-<br />

43 Eb 13, 14.<br />

44 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, cit., p. 75.<br />

45 Ivi.<br />

La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 81


82 Giuseppe Pezzino<br />

blemi terreni, ma addirittura lavorare veramente bene per lasciare questa<br />

terra in condizioni migliori di come le abbiamo trovate.<br />

La destinazione all’altra patria non aliena, bensì è in realtà il presupposto a che<br />

noi – e gli Stati in cui viviamo – si possa prosperare, conservandosi essenzialmente<br />

“sani”. […] Se non vogliamo cadere di nuovo preda del totalitarismo,<br />

dobbiamo alzare lo sguardo e guardare più in alto che lo Stato, che è una parte<br />

e non la totalità. La speranza nei cieli non è nemica della fedeltà alla terra: è<br />

speranza anche per la terra. Confidando in ciò che è più grande e definitivo, noi<br />

cristiani possiamo e dobbiamo infondere la speranza anche in ciò che è provvisorio,<br />

nella dimensione politica e nella sfera delle istituzioni 46 .<br />

46 Ivi, p. 76.


Emanuele Fadda<br />

Normatività e intersoggettività linguistica<br />

Il premio intitolato alla memoria di<br />

Vittorio Sainati, che si svolge a Pisa, seleziona<br />

ogni anno una tesi di dottorato<br />

di argomento filosofico particolarmente<br />

meritevole, per la pubblicazione presso<br />

la casa editrice ETS. Il lavoro scelto nel<br />

2009 ha ad oggetto Jürgen Habermas e<br />

la definizione della normatività,<br />

ed ha come primo<br />

elemento di originalità<br />

– rispetto ad altre ricerche<br />

dedicate a questo autore –<br />

quello di essere una tesi di<br />

dottorato in filosofia del<br />

linguaggio. Sebbene, infatti,<br />

la nozione di (struttura<br />

del l’)inter sog get tività linguistica<br />

sia generalmente<br />

riconosciuta come cardine<br />

della teoria habermasiana,<br />

raramente essa ha catturato<br />

davvero l’attenzione degli<br />

specialisti (se mai può o deve esserci<br />

uno specialismo, in filosofia) del settore.<br />

Se una delle più grandi intuizioni di<br />

Habermas era stata quella di chiamare<br />

in causa la tradizione analitica, ma soprattutto<br />

la filosofia del linguaggio ordinario<br />

che si era sviluppata dall’eredità di<br />

Wittgenstein, per spiegare i meccanismi<br />

di regolazione sociale, la scommessa<br />

dell’autrice è invece quella di verificare e<br />

ripensare la nozione di “intesa linguistica”<br />

partendo dal linguaggio e dall’indagi-<br />

ne su linguaggio e natura umana che<br />

permea larghi settori della filosofia del<br />

linguaggio contemporanea, in maniera<br />

trasversale rispetto alle opposizioni (analitici<br />

vs. continentali, e all’interno di<br />

questi ultimi strutturalisti, ermeneuti,<br />

postmodernisti ecc.) con cui si usa articolare<br />

questo come altri<br />

campi degli studi filosofici.<br />

E le poste in gioco di<br />

quest’operazione, secondo<br />

l’avviso di chi scrive, sono<br />

fondamentalmente due:<br />

da una parte, la possibilità<br />

di rendere conto – in una<br />

teoria che fonda la normatività<br />

sulla prassi linguistica<br />

– del conflitto tanto<br />

quanto della cooperazione;<br />

dall’altra, la comparazione<br />

tra la normatività<br />

propria della prassi linguistica<br />

e quella socio-politica, per mostrare<br />

se e in che modo la seconda possa essere<br />

derivata dalla prima, e se davvero questa<br />

contenga in sé degli antidoti a quelli che<br />

sono i rischi di collasso delle norme di<br />

convivenza umana.<br />

In entrambi i casi, il punto di partenza<br />

è dato dalla dialettica tra le due dimensioni<br />

della normatività, che Habermas<br />

chiama Faktizität e Geltung. La prima<br />

è l’imporsi della regola, come fatto<br />

coercitivo, a chi la deve osservare, mentre


84 Spigolature<br />

la seconda è l’aspetto per cui essa si impone<br />

in virtù della propria legalità (o,<br />

meglio ancora, legittimità: cfr. p. 176 n.<br />

48). Nessuno dei due può mai essere eliminato<br />

completamente, e la contemperazione<br />

tra i due è la ricetta – se così si<br />

può dire – cui il filosofo tedesco affida la<br />

riuscita delle forme di socialità umane.<br />

Grande è però il rischio, per la società,<br />

che una delle due prenda il sopravvento<br />

– e ancora più grande, per lo studioso,<br />

quello di assolutizzarne una, e ridurre<br />

l’altra a una sorta di “grado zero” della<br />

prima. Personaggi come Wittgenstein o<br />

Bourdieu, per esempio, potrebbero essere<br />

ricondotti a un primato della Faktizität:<br />

lo «strato di roccia dove la vanga si<br />

piega» (Ricerche filosofiche, § 217) o «l’ordine<br />

delle cose» mi sembra che siano riconducibili<br />

a tale elemento.<br />

Il tentativo di Habermas, invece (cfr.<br />

pp. 50 sgg.), è quello di mettere d’accordo<br />

Marx con Peirce, cercando nell’intersoggettività<br />

linguistica «una comune radice<br />

normativa dell’esperienza che interessi<br />

le componenti sia cognitive, sia<br />

prassiche» (p. 16). Per questo motivo il<br />

circuito eorein-Prattein-Legein viene<br />

articolato, appunto, come un circuito,<br />

legato a tre tipi di interesse: tecnico-strumentale,<br />

pratico ed emancipativo. A quest’ultimo<br />

è legato il tentativo di cambiare<br />

e migliorare le regole, quando esse si<br />

dimostrino oppressive per alcuni di coloro<br />

che sono ad esse soggetti. Si tratta<br />

di una sorta di eredità della scuola di<br />

Francoforte, che sembra una delle versioni<br />

più convincenti dell’affermazione<br />

di una natura politica della scienza (e<br />

forse non solo di quella umana e sociale)<br />

– per quanto il fattore del conflitto vi<br />

appaia già in qualche modo “neutralizzato”<br />

da quello dell’intesa.<br />

Ma l’interesse emancipativo trova la<br />

sua condizione di possibilità nel fatto<br />

che le regole non sono sempre le stesse,<br />

e il loro variare è da un lato ancorato a<br />

vincoli biologico-antropologici (cfr. pp.<br />

78 sgg.), e dall’altra ha una <strong>vita</strong> – nel<br />

senso in cui Ferdinand de Saussure parlava<br />

di <strong>vita</strong> semiologica – che si sviluppa<br />

nel campo regolato da Faktizität e Geltung.<br />

Questa <strong>vita</strong> è una <strong>vita</strong> pubblica,<br />

come per la lingua hanno mostrato lo<br />

stesso Saussure e Wittgenstein (per cui<br />

cfr. pp. 112 sgg.). In questo senso, si può<br />

riscontrare anche in Habermas un’analisi<br />

dell’idea di un “linguaggio privato” –<br />

che non è però totalmente sovrapponibile<br />

a quella wittgensteiniana; ma soprattutto,<br />

vi si trova una polemica contro<br />

la concezione di un Gattungsubjekt,<br />

un “soggetto totale”, una “supermente”,<br />

che vorrebbe in qualche modo aggirare<br />

l’intersoggettività e la fatica della interazione<br />

dialogica (e diventa il terreno più<br />

fertile per le derive totalitarie). La pars<br />

construens corrispondente è affidata alla<br />

magistrale analisi di G. H. Mead, che ricostruisce<br />

la genesi (onto- e filogenesi)<br />

incrociata dell’intersoggettività, dell’identità<br />

personale e del linguaggio (pp.<br />

120 sgg.).<br />

Proprio la prospettiva meadiana si rivela<br />

la carta vincente per e<strong>vita</strong>re antropomorfizzazioni<br />

indebite del sistema o<br />

fughe nell’individualità, ponendo l’intersoggettività<br />

come condizione della soggettività<br />

(non solo e non tanto nel senso<br />

per cui la pone in essere, ma soprattutto


in quello per cui costantemente la mantiene<br />

in essere), ed evidenziando il carattere<br />

normativo dell’individuazione personale<br />

(cfr. p. 206). Questo aspetto si riscontra<br />

per esempio nel principio della<br />

responsabilità, che permane nonostante<br />

– come Pandolfo sembra accennare alle<br />

pp. 62 sgg. – i moventi del comportamento<br />

“fisiologico” e “patologico” possano<br />

essere talvolta gli stessi, e gli stessi<br />

comportamenti possano essere fisiologici<br />

o patologici secondo il contesto. Il soggetto<br />

nevrotico tormentato dai «vissuti<br />

non detti che “rivendicano” un diritto a<br />

esistere con una carica affettiva talora ingombrante»,<br />

con «effetti n[iente] affatto<br />

innocui sul piano della <strong>vita</strong> pubblica», è<br />

identificato appunto da quello che fa,<br />

anche se è «giocato dal gioco» (ibid.). La<br />

responsabilità – come l’identità – è dunque<br />

fondamentalmente qualcosa che serve<br />

agli altri – e non all’agente.<br />

In questa condizione di intersoggettività<br />

non riducibile, la “razionalità” di<br />

cui parla Habermas non è certo il monolite<br />

inscalfibile dell’innatismo cartesiano<br />

(o – linguisticamente – di quello<br />

cognitivo post-chomskiano), quanto il<br />

fragile esito di un fragile meccanismo, e<br />

la verità (che è sempre fallibile e negoziabile,<br />

come nella migliore tradizione<br />

pragmatista) è un «nastro trasportatore»<br />

(p. 196) che porta dall’uno all’altro il valore<br />

cui conformarsi di volta in volta.<br />

Spigolature 85<br />

In conclusione, torniamo dunque ai<br />

due corni del problema che, con l’autrice,<br />

ci eravamo posti all’inizio: qual è il<br />

rapporto tra normatività in generale e<br />

normatività linguistica? Ancorare la normatività<br />

al linguaggio aiuta a ricomprendere<br />

il conflitto nella cooperazione?<br />

Credo che si possa dire che la linguisticità,<br />

nel suo duplice aspetto sistemico<br />

(la langue saussuriana, per intenderci) e<br />

prassico (la possibilità – mai garantita<br />

ma mai negata – di trovare un’intesa<br />

cooperativa come esito di ogni scambio<br />

linguistico-comunicativo), ha in sé le risorse<br />

per ricomprendere le istanze del<br />

conflitto nella dimensione dell’e<strong>qui</strong>librio<br />

trasformativo. Nella lingua Faktizität<br />

e Geltung si confondono, e lavorano<br />

entrambe al proprio massimo. Certamente<br />

– almeno a giudizio di chi scrive<br />

– la lingua è un’istituzione, e possiede<br />

un ruolo fondativo rispetto alle altre istituzioni.<br />

Ma questo basta per dire che<br />

tutta la normatività è assimilabile alla<br />

normatività linguistica? La ricerca di<br />

Alessandra Pandolfo non offre una risposta<br />

finale e indiscutibile (né si potrebbe)<br />

a un quesito come questo, ma è<br />

certamente un ottimo punto di partenza<br />

per porlo nei suoi giusti termini.<br />

Alessandra Pandolfo, Le regole dell’intesa attraverso<br />

Habermas. Uno studio sulla normatività<br />

umana, Pisa, ETS, 2010, pp. 230, € 18,00.


Giuliana Gambuzza<br />

Costruire il discorso etico: tecniche e strumenti<br />

Antonio Da Re, ordinario di Filosofia<br />

morale presso l’Università di Padova,<br />

firma per Bruno Mondadori, dopo Filosofia<br />

morale. Storia, teorie, argomenti<br />

(2003, con una 2ª edizione riveduta e<br />

ampliata nel 2008), un’altra brossura di<br />

taglio manualistico, che in parte rielabora<br />

dei saggi già pubblicati<br />

in alcune curatele e<br />

che, al pari della precedente,<br />

è stata pensata come<br />

testo introduttivo alla<br />

filosofia morale, d’ausilio<br />

<strong>qui</strong>ndi – sembra legittimo<br />

inferire – nei<br />

corsi universitari. L’Autore<br />

scopre le carte prima<br />

ancora di dare inizio<br />

al gioco pianificando,<br />

nell’Introduzione, la stesura<br />

di un secondo volume,<br />

in cui approfondire<br />

alcune problematiche (come quelle<br />

dell’etica applicata), che in questo non<br />

possono trovare, per ragioni di brevità,<br />

spazi e modalità di trattazione adeguati<br />

alla loro pregnanza.<br />

Le parole dell’etica consta di otto capitoli,<br />

i quali forniscono al lettore – come<br />

già annunciato dal titolo, oltre che<br />

dalla collana che ospita la pubblicazione<br />

(“Sintesi”) – un vocabolario di base, utile<br />

nel tematizzare le principali questioni<br />

etiche ed efficace nel rielaborare certi<br />

concetti che, entrati a far parte anche di<br />

dibattiti extrafilosofici, come quello<br />

dell’agenda politica, incessantemente rimaneggiati<br />

nel discorso mass-mediatico,<br />

hanno perso la nettezza dei contorni e la<br />

densità del contenuto. Tanto più che<br />

l’Autore propone alcuni significativi casi<br />

attuali come esemplificazioni<br />

di concetti o teorie:<br />

per fare un esempio, la<br />

legge n. 94 del 2009,<br />

meglio nota come “Pacchetto<br />

sicurezza”, viene<br />

chiamata in causa per<br />

spiegare in che cosa consista<br />

concretamente la<br />

dialettica tra vecchie e<br />

nuove forme dell’ēthos.<br />

A fungere da chiave<br />

di lettura del testo è la<br />

“duplice intenzionalità”<br />

dell’etica, il suo configurarsi<br />

come esperienza etica del soggetto<br />

e, specularmente, come riflessione etica,<br />

come ridefinizione di quell’esperienza,<br />

mediante il sofisticato apparato concettuale<br />

e metodologico messo a disposizione<br />

dalla filosofia morale. Peraltro, la riabilitazione<br />

dell’intenzionalità soggettiva,<br />

all’interno di ogni valida teoria morale,<br />

va di pari passo con il recupero della<br />

funzione dell’etica nella quotidianità<br />

dell’esistenza umana; in questo modo, si<br />

rinuncia a costringere l’etica nel ruolo di


“pronto soccorso” a cui rivolgersi solo in<br />

situazioni estreme, come quelle che<br />

esemplificano il dominio dell’etica applicata<br />

(una su tutte, l’eutanasia), perlomeno<br />

in relazione ai “fattori reali” che<br />

hanno dato impulso alla sua “affermazione<br />

culturale e sociale”. Ora, che<br />

l’esperienza etica individuale necessiti di<br />

essere orientata, ed eventualmente riorientata,<br />

dalla filosofia morale, emerge<br />

dalla distinzione tra ēthos ed etica – distinzione<br />

che si sovrappone, certo non<br />

senza sbavature, a quella che Aldo Masullo<br />

(Filosofia morale, Roma, Editori<br />

Riuniti, 2006) opera tra morale reattiva<br />

ed etica strictu sensu – ovvero tra i costumi,<br />

le abitudini e le consuetudini del<br />

gruppo di appartenenza, da un lato, e la<br />

kritiké téchnē della loro legittimità morale,<br />

dall’altro: in base ai tre nuclei semantici<br />

racchiusi nel termine ēthos, «la coscienza,<br />

dimorando presso l’ēthos (1), ne<br />

assume i costumi e le consuetudini (2);<br />

così facendo essa costruisce e plasma il<br />

proprio essere, il proprio carattere (3)»<br />

(p. 8). Se si accostasse, allora, alla distinzione<br />

filosofico-morale tra ēthos ed etica<br />

quella filosofico-politica tra approccio<br />

realistico e approccio normativo, non si<br />

tarderebbe a notare che Da Re non rinuncia<br />

al pronunciamento filosofico sul<br />

dover essere, tuttavia assicurando l’etica<br />

dal rischio di qualificarsi come mero attributo,<br />

posticcio ed estrinseco, dell’ē -<br />

thos, con l’identificazione dell’ēthos stesso<br />

quale radice originaria dell’etica.<br />

In base alla “duplice intenzionalità”<br />

dell’etica, è possibile considerare l’opera<br />

come idealmente divisa in due sezioni:<br />

la prima, comprendente i capitoli 1 e<br />

Spigolature 87<br />

2, tematizza l’intenzionalità soggettiva,<br />

mentre la seconda, comprendente i successivi<br />

sei capitoli, tematizza l’intenzionalità<br />

riflessiva, la quale non può che ritagliarsi<br />

uno spazio più ampio nell’economia<br />

complessiva dell’opera, data la finalità<br />

segnatamente filosofico-morale,<br />

invece che antropologica o sociologica,<br />

della stessa. Nello specifico, nella prima<br />

sezione l’Autore connette l’esperienza<br />

cognitiva, assiologica ed emotiva del<br />

soggetto alla sua esperienza etica, in particolare<br />

alle modalità di questa esperienza:<br />

il soggetto può conformarsi all’ēthos<br />

come un solido si lascia rivestire, anzi<br />

costituire, dalla sua superficie; oppure<br />

può fare dell’esperienza etica il punto<br />

d’intersezione di una tangente che dall’ēthos<br />

diverge per sperimentarne nuove<br />

forme.<br />

Una volta introdotta in via preliminare<br />

l’ormai classica bipartizione dei livelli<br />

dell’etica (livello metaetico e livello<br />

normativo) – che è, in realtà, una tripartizione,<br />

se si considera anche l’etica applicata<br />

– la seconda sezione estrapola dal<br />

dibattito etico contemporaneo le più rilevanti<br />

(e inflazionate?) tematiche: il<br />

programma di naturalizzazione dell’etica,<br />

ovvero «il tentativo di comprendere<br />

la realtà morale, il comportamento pratico<br />

e i giudizi di valore morale attraverso<br />

una descrizione e una spiegazione basate<br />

su metodi, concetti, dati, ac<strong>qui</strong>sizioni<br />

desunti dalle scienze naturali» (p.<br />

122); la mal posta dicotomia universalismo/relativismo,<br />

che va piuttosto riposta<br />

innestando sull’eredità hegeliana<br />

l’immagine, che si deve a Todorov, del -<br />

l’universalismo come “quadro di riferi-


88 Spigolature<br />

mento” a disposizione del mutevole articolarsi<br />

di tutti i particolari; la risoluzione<br />

dei “conflitti morali”, basata su una<br />

comparazione, possibile seppur parziale,<br />

dei valori in gioco; ancora, i nuovi ambiti<br />

d’indagine, inaugurati dall’etica applicata<br />

in relazione all’odierno potere<br />

tecnico-scientifico di cui l’uomo si trova<br />

a essere detentore. In merito al nesso tra<br />

libertà e responsabilità, a differenza di<br />

tanti manuali d’introduzione alla filosofia<br />

(si pensi, ad esempio, a T. Nagel,<br />

Una brevissima introduzione alla filosofia,<br />

Milano, Net, 2002), che non mancano<br />

d’impostare la disamina della libertà sulla<br />

diatriba tra fautori del determinismo<br />

e fautori del libero arbitrio, Le parole<br />

dell’etica presenta, accogliendo i contributi<br />

della filosofia politica, le quattro figure<br />

della libertà (positiva, negativa, irrelata<br />

e “del volere”), per poi denunciare<br />

il rischio che la responsabilizzazione di<br />

collettività sempre più estese deresponsabilizzi<br />

il singolo.<br />

Da Re non disdegna di applicare alcune<br />

categorie, che forniscono le coordinate<br />

dell’etica contemporanea, al pensiero<br />

di studiosi antichi e moderni o, meglio,<br />

di includere concezioni antiche e<br />

moderne nei tentativi di risposta agli interrogativi<br />

sollevati. Ma c’è di più: nel<br />

testo emerge come l’Autore abbia atteso<br />

alla sua ricostruzione della terminologia<br />

filosofico-morale inforcando, a più riprese,<br />

le lenti della Rehabilitierung der<br />

praktischen Philosophie diffusasi negli anni<br />

Sessanta. Così, ad esempio, affida alla<br />

ragione pratica, di matrice aristotelica, il<br />

ruolo di mediazione dei conflitti morali<br />

o tenta d’invalidare il riduzionismo, in<br />

cui il programma di naturalizzazione<br />

dell’etica crede di trovare la propria legittimazione,<br />

mediante una concezione<br />

dinamica dell’uomo, che passa attraverso<br />

il recupero della distinzione, operata<br />

da Aristotele, tra atto e potenza e attraverso<br />

l’estensione della sua concezione<br />

delle virtù tout court all’uomo, il quale<br />

non sarebbe né “secondo natura”, né<br />

“contro natura”, bensì «un essere chiamato<br />

a realizzare la sua propria natura,<br />

ad attualizzarla» (p. 137).<br />

Il volume è corredato da note che<br />

costituiscono un apparato ricco, senza<br />

risultare d’ostacolo alla lettura, e che<br />

possono essere proficuamente consultate<br />

come voci bibliografiche (essendo, tra<br />

l’altro, assente una vera e propria bibliografia).<br />

Nel complesso, al lettore è consegnata<br />

una trattazione compatta, densa<br />

di rimandi intertestuali e ben gestita nello<br />

snodo da un nucleo tematico all’altro.<br />

La distribuzione degli argomenti risulta<br />

e<strong>qui</strong>librata soprattutto se, da una parte,<br />

si tiene conto di quanto sia arduo misurarsi,<br />

in vista di una sinossi, con un ambito<br />

sterminato come quello della filosofia<br />

morale e, dall’altra, si ripone fiducia<br />

nella promessa dell’Autore di pubblicare<br />

a breve un’appendice di approfondimento.<br />

«Pluralitas non est ponenda sine<br />

necessitate»: se si è disposti ad ammettere<br />

quest’applicazione sui generis del “rasoio<br />

di Ockham”, come indicazione redazionale<br />

anziché come principio ontologico,<br />

si converrà sul buon uso che Da Re fa di<br />

esso.<br />

Inoltre, nell’opera trova effettiva realizzazione<br />

l’intento, dichiarato nell’Introduzione,<br />

di adottare una prospettiva


teoretica, piuttosto che storica. Il limite<br />

intrinseco di una simile prospettiva è<br />

che obbliga chi la impiega a centellinare<br />

le coordinate spazio-temporali e culturali<br />

delle teorie proposte, passando con disinvoltura<br />

da un autore a un altro, da un<br />

secolo a un altro, da una Weltanschauung<br />

a un’altra, e a mescolare così tanti<br />

colori sulla tavolozza da creare infine un<br />

nuovo, originale colore, oltrepassando<br />

così i confini tracciati dalla sinossi. Tutto<br />

questo, si badi bene, rappresenterebbe<br />

un successo teorico non indifferente,<br />

se si decidesse di restringere il target del<br />

testo agli addetti ai lavori destinandolo,<br />

per esempio, allo studente specialista o<br />

al dottorando; per altri target, per esempio<br />

lo studente triennalista o l’esperto in<br />

discipline filosofiche diverse da quelle<br />

morali o, a maggior ragione, il lettore<br />

generalista, sarebbe presumibilmente indispensabile<br />

ampliare sin da subito quelle<br />

parti (per esempio, i capitoli dedicati<br />

alla naturalizzazione dell’etica e al nesso<br />

tra libertà e responsabilità) che questo<br />

secondo target potrebbe giudicare non<br />

didatticamente esaustive: in altri termini,<br />

il rischio in cui incorre Da Re è di<br />

Spigolature 89<br />

in<strong>vita</strong>re il lettore a seguirlo lungo un<br />

percorso che, per essere affrontato, richiede<br />

dotazioni ed e<strong>qui</strong>paggiamenti<br />

che non ogni lettore possiede.<br />

Una lettura non agevole per tutti, insomma,<br />

ma pregevole soprattutto perché<br />

riesce a conservare, accanto e nonostante<br />

l’intento definitorio, la cura per il<br />

carattere aporetico della filosofia, nella<br />

consapevolezza che le sue parole «per vivere<br />

hanno bisogno di essere sempre e<br />

nuovamente pronunziate e pensate» (p.<br />

XII) e che, come scriveva Benedetto<br />

Croce nella Logica, «il suo continuo cangiare<br />

non è un fare e disfare, ma un continuo<br />

superarsi […]. Nessuno rinunzia<br />

ad amare perché l’amore passa; e nessuno<br />

cessa dal pensare, perché il pensiero<br />

cederà il luogo ad altri pensieri. L’amore<br />

passa, ma genera altri esseri, che ameranno:<br />

il pensiero passa, ma genera altri<br />

pensieri, che moveranno ancora a pensare.<br />

Anche nel mondo del pensiero si sopravvive<br />

nei propri figliuoli che ci contrariano,<br />

ci sostituiscono e ci seppelliscono<br />

(e non sempre con la debita pietà)».<br />

Antonio Da Re, Le parole dell’etica, Milano,<br />

Bruno Mondadori, 2010, pp. 215, € 18,00.


Maria Vita Romeo<br />

Uno studio su Pascal<br />

Non abbiamo più dubbi nell’affermare<br />

che la rinascita degli studi pascaliani<br />

in Italia sia ormai, da dieci anni a<br />

questa parte, una realtà stabile e continua,<br />

a conferma che i tempi sono ormai<br />

maturi per sciogliere ogni pregiudiziale<br />

riserbo nei confronti di un génie capace<br />

di spaziare dalla matematica alla filosofia,<br />

dalla fisica alla teologia, dalla meccanica<br />

all’esegesi biblica. Ebbene, all’interno<br />

di questa rinascita si<br />

colloca a pieno titolo il<br />

Pascal di Alberto Peratoner,<br />

un lavoro che è<br />

qualcosa di più di un’introduzione<br />

al pensiero<br />

del filosofo di Clermont-<br />

Ferrand: è un vero e proprio<br />

manuale d’istruzioni,<br />

ben articolato, che<br />

guida il lettore con mano<br />

sicura nell’affascinante<br />

universo pascaliano.<br />

Nel Pascal di Peratoner<br />

troviamo infatti «un<br />

excursus mirante a focalizzare i momenti<br />

determinanti di formazione della coscienza<br />

filosofica dell’autore e dell’affermarsi<br />

delle sue peculiarità strutturali secondo<br />

una stratificazione progressiva»<br />

(p. 15), che va ine<strong>vita</strong>bilmente dall’analisi<br />

del Pascal scienziato a quella dell’uomo<br />

di fede, senza mai perdere di vista<br />

l’autentico volto di Pascal che si serve di<br />

tutte le sue esperienze come di arnesi<br />

preziosi per provare a scoprire quel “mostro<br />

incomprensibile” che è l’uomo.<br />

Così, se viene dedicato un intero capitolo<br />

al Pascal scienziato, matematico<br />

di prim’ordine e fisico eccellente, è al<br />

Pascal pensatore che Peratoner dedica<br />

più attenzione, non esitando per ciò a<br />

mostrare l’inattendibilità di quei giudizi<br />

sull’esistenza di un “doppio” Pascal fondati<br />

su certe “leggende”<br />

diffuse dalla famiglia e a<br />

cui hanno dato un contributo<br />

decisivo le opinioni<br />

distorte dell’età dei<br />

Lumi e del periodo romantico.<br />

Interessantissimo è il<br />

capitolo dedicato al rapporto<br />

tra Pascal e l’ambiente<br />

di Port-Royal, ove<br />

il cattolicesimo agostiniano<br />

del cosiddetto giansenismo<br />

ha senza dubbio<br />

contribuito alla formazione<br />

teologica e filosofica di Pascal, come<br />

testimoniano alcune opere legate a<br />

questo periodo: L’Entretien avec M. De<br />

Sacy e L’Abrégé de la vie de Jésus-Christ.<br />

All’interno dello stesso capitolo, uno<br />

spazio a parte viene dedicato alle Lettres<br />

Provinciales e alla Suite des Provinciales,<br />

attraverso le quali Pascal, nel biennio<br />

che va tra il 1656-57, ha potuto dar pro-


va di quella razionalità limpida a cui<br />

l’esperienza scientifica l’aveva formato.<br />

In effetti le Provinciali non sono, come<br />

sottolinea Peratoner, né il «contributo di<br />

un polemista di vaglia», né «l’apporto di<br />

un esperto teologo», che di contro darà<br />

prova delle sue conoscenze teologichedogmatiche<br />

negli Scritti sulla grazia,<br />

opera ove Pascal, lontano dal clima polemico<br />

che avvolge la stesura delle Petites<br />

Lettres, affronta con più libertà e serenità<br />

la questione della grazia e dei problemi<br />

ad essa connessi.<br />

Dall’analisi completa delle opere pascaliane,<br />

Peratoner fa notare la chiarezza<br />

dello stile di Pascal, la cui «qualità artistica<br />

[…] è di altissimo livello» grazie<br />

soprattutto alla «grande versatilità e plasticità<br />

di una scrittura, che di volta in<br />

volta sa assumere la forma più opportuna<br />

alla materia trattata, suscitando un<br />

alto grado di coinvolgimento nel lettore<br />

e finendo col fare convergere, sino alla<br />

coincidenza, forma e contenuto» (p.<br />

165). Questa concretezza espressiva cara<br />

a Pascal mostra, secondo Peratoner, la<br />

distanza tra il Nostro ed alcuni esponenti<br />

di Port-Royal, i quali rifuggivano dalla<br />

concretezza al punto da risultare incapaci<br />

di apprezzare il valore stilistico delle<br />

Pensées, che vennero ampiamente rimaneggiate,<br />

tradendo così il valore stilistico<br />

del «fondatore della prosa francese» (p.<br />

166).<br />

A proposito delle Pensées, Peratoner<br />

ci offre una dettagliata analisi di quest’opera,<br />

la cui incompiutezza ha dato<br />

origine, nell’arco di tre secoli, a tantissime<br />

edizioni tutte dirette a tentare di ricombinare,<br />

in vari modi e con spiega-<br />

Spigolature 91<br />

zioni diverse, l’ordine dei frammenti.<br />

Così Peratoner, dopo aver proposto una<br />

«ragione architettonica delle Pensées» –<br />

già d’altra parte ampiamente analizzata<br />

nel suo Blaise Pascal. Rivelazione e Fondazione<br />

dell’etica (Venezia, 2002) –,<br />

giunge all’ine<strong>vita</strong>bile riconoscimento<br />

che la «struttura generale della monumentale<br />

architettura pascaliana risponde<br />

all’esigenza logica ed epistemologica di<br />

trovare adeguata spiegazione alla configurazione<br />

problematica dello statuto antropologico<br />

– riscontrato su base fenomenologica<br />

–, in quanto plesso esperienziale<br />

complesso effetto da contrariétés»<br />

(p. 218). I Pensieri – la cui “prima<br />

parte” viene dedicata alla Miseria dell’uomo,<br />

miseria che si risolve nella “seconda<br />

parte” dedicata alla Felicità dell’uomo<br />

con Dio – esprimono “un’articolata<br />

prova antropologica della verità del<br />

Cristianesimo”, religione che Pascal, con<br />

un rigore razionale di ovvia ispirazione<br />

scientifica, dimostra essere l’unica capace<br />

di risolvere l’enigma uomo.<br />

Si giunge così ine<strong>vita</strong>bilmente all’etica<br />

pascaliana «punto di arrivo e di sintesi,<br />

luogo di realizzazione e compimento<br />

pratico della realtà, indagata e conosciuta,<br />

di Dio, del mondo e dell’uomo» (p.<br />

243). La morale è dunque “l’esito, il cuore<br />

di tutto”; essa è infatti caratterizzata<br />

da una forte prospettiva eudemonistica,<br />

che risponde d’altra parte all’architettura<br />

dell’Apologie stessa, ove la felicità dell’uomo<br />

con Dio si presenta come una macrostruttura<br />

che informa l’intera argomentazione<br />

apologetica. A ragione, dunque,<br />

si parla di un primato della morale testimoniato<br />

dal vissuto esperienziale dello


92 Spigolature<br />

stesso Pascal, la cui etica si fonda su una<br />

prospettiva relazionale, secondo quanto<br />

conclude la sezione delle Pensées intitolata<br />

Morale Chrétienne, ove il modello<br />

paolino del corpo composto da “membra<br />

pensanti” costituisce il modello sul<br />

quale edificare una comunità più giusta<br />

ed autentica, ove ogni uomo, ridimensionando<br />

l’amor proprio, si ami senza<br />

essere odioso all’altro, sorretto dalla forza<br />

della charité.<br />

Alberto Peratoner, Pascal, Roma, Carocci, 2011,<br />

€ 18,00.


Maria Vita Romeo<br />

La globalizzazione e la negazione dell’individuo<br />

Con questo volume Giuseppe Acocella<br />

dà <strong>vita</strong> ad un’interessante riflessione<br />

sulle grandi trasformazioni avvenute<br />

in campo etico, giuridico e sociale a causa<br />

della globalizzazione. È infatti ormai<br />

evidente a tutti che questo fenomeno di<br />

progressivo ampliamento<br />

su scala mondiale della<br />

sfera delle relazioni sociali,<br />

economiche e finanziarie<br />

abbia condotto in maniera<br />

non irrilevante ad<br />

una certa crisi degli Stati<br />

nazionali e, in particolare,<br />

del loro «potere fontale» e<br />

della sovranità da essi<br />

esercitata nella «produzione<br />

del diritto». Agli<br />

inizi del terzo millennio,<br />

infatti, quella sovranità<br />

normativa – che il mondo<br />

moderno aveva riconosciuto<br />

agli Stati nazionali, al fine di<br />

gestire le collettività organizzate – risulta<br />

ormai appannata, mettendo così in crisi<br />

uno dei caratteri essenziali del diritto:<br />

«la dimensione territoriale della produzione<br />

normativa e delle funzioni giurisdizionali».<br />

Ci troviamo così di fronte, seppur in<br />

termini diversi e prospettive da esplorare,<br />

ad antichi interrogativi sui problemi<br />

dell’universalizzazione del diritto e dei<br />

diritti; sul rapporto tra le esigenze del-<br />

l’individuo e quelle della collettività:<br />

problemi, questi, sui quali avevano già<br />

riflettuto due maestri della filosofia giuridica<br />

e morale del Novecento, Pietro<br />

Piovani e Giuseppe Capograssi.<br />

Pertanto, in un’epoca come l’attuale,<br />

segnata «profondamente<br />

ed irrimediabilmente dalla<br />

crisi della territorialità<br />

del diritto e della politica»<br />

(p. 27), occorre fare i<br />

conti con i fondamenti<br />

razionali di una politica<br />

che si lascia sempre più<br />

orientare da una nuova<br />

lex mercatoria, che «sostituisce<br />

ai poteri pubblici e<br />

alla dialettica democratica<br />

e sociale le volontà (e le<br />

prassi commerciali e finanziarie)<br />

dei grandi centri<br />

economici» (pp. 27-8).<br />

Ma – e sta proprio <strong>qui</strong> il nodo della<br />

questione e il senso di una domanda<br />

ineludibile – in una società ormai globalizzata<br />

la mera razionalità può essere un<br />

saldo punto di riferimento per le scelte<br />

politiche, giuridiche e pubbliche in genere?<br />

Ci si può affidare alla ragione senza<br />

«ricorrere all’idea della <strong>vita</strong>» promossa<br />

«dalla legge etica rassodata dall’esperienza<br />

storica», che «la civiltà giuridica ha consolidato<br />

nel tempo, custodendone i<br />

princìpi e traducendoli in norme»?


94 Spigolature<br />

Guardare al valore dell’idea della <strong>vita</strong><br />

significa in primis per l’uomo dominare<br />

la tecnica e gestire il potere che gli deriva<br />

da essa con responsabilità, così come<br />

ricordava Romano Guardini nel 1951 ne<br />

Il potere. Ma significa anche fare i conti<br />

con la sovranità sempre più contesa tra<br />

le istituzioni politiche, rappresentanti<br />

delle collettività territoriali, ed i grandi<br />

imperi economico-finanziari, il cui potere<br />

supera ogni confine territoriale. «Il<br />

problema – scrive Acocella – sta dunque<br />

tutto nel chiedersi se le regole di diritto<br />

debbano rispecchiare l’esercizio della<br />

forza (economica) comunque prodotta<br />

attraverso prodotti finanziari di ogni genere,<br />

o piuttosto disciplinare le relazioni<br />

e le energie che vengono messe in campo<br />

nel “gioco” economico, facendosi<br />

guidare da un’etica della responsabilità<br />

che privilegi le comunità e la tutela dei<br />

diritti personali rispetto alla libertà di<br />

manovra di gruppi finanziai anche nella<br />

creazione illusoria di profitto» (p. 41).<br />

Insomma, può oggi sopravvivere l’economia<br />

di mercato senza l’etica? Può la<br />

logica del profitto affermarsi ad ogni costo,<br />

a discapito della dignità umana e<br />

nella totale indifferenza per le norme<br />

della giustizia sociale?<br />

Se la risposta è negativa, allora dobbiamo<br />

ripensare criticamente la modernità<br />

che, separando le sorti dell’individuo<br />

da quelle della comunità e puntando<br />

tutto sull’individualismo, ha sconvolto<br />

e fagocitato ogni riferimento etico<br />

che non fosse riconducibile alla cifra singolaristica:<br />

«sparito il radicamento dell’etica<br />

comune, la socialità è affidata alla<br />

forza e agli egoismi» (p. 102). Da <strong>qui</strong> la<br />

necessità, preannunciata da Caprograssi,<br />

di superare in blocco l’individualità nel -<br />

l’esperienza comune. «Nella posizione di<br />

Capograssi – precisa Acocella – anche i<br />

tradimenti totalitari non fanno che confermare<br />

la necessità etica dello Stato, ultima<br />

posizione giudica dell’azione, che<br />

non può esaurire la <strong>vita</strong> morale, ma non<br />

ne può neppure prescindere» (pp. 104-5).<br />

In conclusione, occorre porre a fondamento<br />

dell’ordine morale e giuridico<br />

la morale comune, la sola capace di rendere<br />

possibile la convivenza tra molteplici<br />

comunità. Contro il relativismo, da<br />

un lato, ed il monismo e dispotismo,<br />

dall’altro, è necessaria dunque un’etica<br />

sociale e giuridica che miri a raggiungere<br />

un e<strong>qui</strong>librio tra l’individuo e la storia,<br />

riconoscendo in tal modo la dimensione<br />

universale che è insita nell’esistenza stessa,<br />

nell’esperienza che quotidianamente<br />

l’individuo fa, lottando contro tutto ciò<br />

che insidia l’idea della <strong>vita</strong>.<br />

Raccogliendo alcune riflessioni su<br />

questa grande trasformazione che ha interessato<br />

in particolare il mondo giuridico<br />

di questi ultimi anni, Giuseppe Acocella<br />

perviene, da un lato, alla constatazione<br />

della crisi del diritto unitario e,<br />

dall’altro, al riconoscimento della necessità<br />

dei cosiddetti corpi intermedi che<br />

l’individuo interpone tra sé e lo Stato.<br />

Così, nell’era del diritto mondiale, di<br />

fronte ad uno Stato che perde sempre<br />

più brandelli di sovranità, si fa strada<br />

«l’esperienza dei corpi intermedi tra individuo<br />

e collettività quali produttori<br />

del diritto e soggetti della negoziazione<br />

giuridica» (p. 12). Nell’era della globalizzazione,<br />

dunque, alla riduzione della so-


vranità dello Stato corrisponde la <strong>vita</strong>le<br />

rinascita delle forme intermedie che,<br />

producendo la legge, ricostruiscono il<br />

rapporto tra l’individuo e lo Stato, puntando<br />

sui diritti fondamentali della persona.<br />

«La grande trasformazione – sostiene<br />

giustamente Acocella – che segna<br />

l’inizio del terzo millennio dell’era cristiana<br />

mette dunque in gioco proprio<br />

l’inseparabile relazione che intercorre tra<br />

responsabilità individuale ed edificazione<br />

comune dell’ordine morale, mutando<br />

le prospettive del diritto, per il quale la<br />

lotta per l’ordine etico costituisce lo scopo<br />

storico del mondo umano».<br />

Spigolature 95<br />

Perciò oggi risultano più che mai<br />

profetiche le parole di Pietro Piovani<br />

che, nel volume Linee di una filosofia del<br />

diritto (1968, p. 171), così ammoniva:<br />

«L’individuo che precipitosamente chieda<br />

difesa non più allo Stato, ma all’associazione<br />

professionale, perché a sua volta<br />

s’imponga allo Stato, e gli presti nuova<br />

forza, vuole, tramite l’associazione, protezione<br />

principalmente per il suo lavoro».<br />

Giuseppe Acocella, Etica, diritto, democrazia.<br />

La grande trasformazione, Bologna, Il Mulino,<br />

2010, pp. 141, € 14,00.


summum crede nefas animam præferre pudori<br />

et propter <strong>vita</strong>m vivendi perdere causas

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