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Quaderni<br />
del Laboratorio di Etica<br />
leifSemestrale<br />
e Informazione Filosofica<br />
Università di Catania
Quaderni<br />
leifSemestrale<br />
del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica - Università di Catania<br />
Impaginazione e stampa:<br />
, grafica editoriale<br />
di Pietro Marletta,<br />
via Delle Gardenie 3, Belsito,<br />
95045 Misterbianco (CT),<br />
tel. 095 71 41 891<br />
Direttore<br />
Maria Vita Romeo<br />
Redazione<br />
Massimo Vittorio (coordinatore),<br />
Antonio Caramagno, Danila D’Antiochia,<br />
Floriana Ferro, Antonio G. Pesce,<br />
Elisabetta Todaro, Daniela Vasta<br />
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Domenico Bosco, Calogero Caltagirone,<br />
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Email: <strong>maria</strong><strong>vita</strong><strong>romeo</strong>@unict.it<br />
ISSN 1970-7401<br />
© 2011<br />
Dipartimento di Scienze Umanistiche,<br />
Università di Catania<br />
Registrazione presso il Tribunale di Catania,<br />
n. 25/06, del 29 settembre 2006
Quaderni<br />
leif<br />
Semestrale del Laboratorio di Etica<br />
e Informazione Filosofica<br />
agorà<br />
Università di Catania<br />
Anno V n. 6, gennaio-giugno 2011<br />
Maria Vita Romeo Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 5<br />
Antonio G. Pesce La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 39<br />
Giuseppe Pezzino La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 55<br />
spigolature<br />
Emanuele Fadda Normatività e intersoggettività 83<br />
Giuliana Gambuzza Costruire il discorso etico: tecniche e strumenti 86<br />
Maria Vita Romeo Uno studio su Pascal 90<br />
Maria Vita Romeo La globalizzazione e la negazione dell’individuo 93
Matisse, Icaro, 1947, tavola a pochoir (n. VIII),<br />
Tériade Éditeur, 43,4 × 34,1 cm.
Maria Vita Romeo<br />
Coscienza e responsabilità:<br />
Hegel e Croce lettori di Pascal<br />
GeNeralMeNte si teNDe a suDDiViDere le Lettere Provinciali di Pascal<br />
in due gruppi: al primo appartengono le prime tre lettere –<br />
scritte in rapida successione il 23 e il 29 gennaio e il 9 febbraio – che trattano<br />
i temi della grazia e della libertà umana ed hanno un carattere essenzialmente<br />
teologico-dogmatico1 . Queste lettere, la cui problematica verrà<br />
ripresa nelle ultime due (XVII e XVIII), ci presentano un Pascal teologo.<br />
Al secondo gruppo appartengono, invece, le rimanenti lettere (dalla V alla<br />
XVI) che trattano temi concreti di morale.<br />
Uno spazio a parte all’interno dell’opera è occupato dalla IV Lettera,<br />
del 25 febbraio, con la quale Pascal abbandona la tattica difensiva adottata<br />
nelle lettere precedenti, per passare all’attacco dei suoi principali avversari:<br />
i gesuiti. Questa lettera, come ha rilevato Jean Mesnard2 , presenta<br />
una portata teologica, morale e psicologica insieme; ma il suo maggior<br />
pregio, secondo noi, sta nel segnare il passaggio dalle lettere che trattano<br />
di questioni prettamente teologiche a quelle che trattano di questioni<br />
morali. Tale passaggio, al di là delle ipotesi varie che sono state formulate<br />
1 Difesa di Arnauld dalle accuse di eresia; dimostrazione che i tomisti (domenicani), nonostante<br />
il loro diverso linguaggio, stanno sulle posizioni di Agostino; sulla base di quest’ultima osservazione<br />
ci si chiede perché i tomisti sono considerati ortodossi, mentre Arnauld è considerato<br />
eretico.<br />
2 Secondo Jean Mesnard, la IV Lettera Provinciale presenta una portata teologica, poiché cerca<br />
di definire l’azione di Dio sull’uomo; una portata morale, poiché ruota attorno al problema<br />
della responsabilità umana; ed infine una portata psicologica, perché oppone due concetti della<br />
personalità: quella del gesuita, secondo il quale l’essenza dell’uomo si esprime in atti transitori, e<br />
quella del giansenista, secondo il quale l’essenza dell’uomo s’identifica con il suo moi intimo, moi<br />
corrotto dal peccato originale, la cui perversità innata non è sempre cosciente. Cfr. J. Mesnard,<br />
Pascal. L’homme et l’œuvre, Paris, Boivin, 1951, p. 81.
6 Maria Vita Romeo<br />
al riguardo 3 , trova una sua giustificazione nella connessione tra la dottrina<br />
della grazia e la <strong>vita</strong> etico-religiosa di cui Pascal aveva fatto esperienza direttamente<br />
4 .<br />
La sua esperienza, infatti, gli aveva insegnato che per vivere secondo il<br />
Vangelo era necessario un aiuto efficace di Dio e che, di conseguenza,<br />
non si poteva negare l’onnipotenza della grazia senza rendere inattuabile<br />
la legge di Cristo. Ciò lo condusse a mettere in relazione la dottrina molinista<br />
della grazia con il lassismo della morale gesuitica, a porre cioè «nel<br />
rilassamento della loro morale la causa della loro dottrina della grazia» 5 .<br />
Per Pascal, la lotta contro la morale gesuitica significò la continuazione,<br />
su un altro piano, della lotta contro il molinismo e il lassismo che rischiavano<br />
di svalutare l’opera redentrice di Cristo, di sostituire la legge<br />
della grazia con quella della natura. Il problema della grazia nascondeva<br />
in sé quello della responsabilità dell’uomo, la cui azione, secondo i molinisti<br />
e i neotomisti, non può essere imputata a peccato, se «Dio non ci dà<br />
la conoscenza del male che è in essa ed un’ispirazione che ci stimoli ad<br />
e<strong>vita</strong>rla». Un tema, quest’ultimo, brillantemente affrontato da Pascal nella<br />
sua IV Lettera Provinciale, il cui argomento principale ruota attorno a<br />
quello della cosiddetta grazia «attuale» che costituì terreno di scontro tra<br />
gesuiti e giansenisti. La grazia attuale, di cui non si trova traccia né nei libri<br />
dei Padri della Chiesa né in san Tommaso, per i gesuiti non è altro che<br />
«un’ispirazione di Dio con la quale egli ci fa conoscere la sua volontà e ci<br />
stimola a volerla compiere». Si tratterebbe insomma di un soccorso transitorio,<br />
grazie al quale l’uomo è mosso da Dio ad un’operazione buona.<br />
Ora, per i gesuiti, se Dio non dà all’uomo questa grazia attuale, l’a zione<br />
3 Tante sono state le ipotesi di questo cambiamento di rotta: un’intuizione tattica; un suggerimento<br />
del de Méré; o ancora, come sostiene Pierre Nicole, l’indignazione di Pascal dopo aver<br />
letto la eologia moralis del gesuita Antonio Escobar de Mendoza.<br />
4 Pur non mettendo in discussione queste notizie, è certo che Pascal non si sarebbe sottomesso<br />
a ciò «se nel suo spirito non fosse apparso chiaro, logicamente, questo mutamento: se cioè<br />
non fosse stato giustificato dal suo stesso pensiero» (F. Gentile, Pascal. Saggio d’interpretazione storica,<br />
Bari, Laterza, 1927, p. 253).<br />
5 V e Lettre Provinciale, SeFe, p. 333. Per le citazioni delle opere di Pascal faremo riferimento<br />
all’edizione seguente: B. Pascal, Les Provinciales, Pensées et opuscules divers, textes édités par Gérard<br />
Ferreyrolles et Philippe Sellier, Paris, La Pochothèque, 2004, indicando le Pensées con Se, poiché<br />
seguono la numerazione di Philippe Sellier, e le restanti opere con SeFe.
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 7<br />
peccaminosa non può mai essere imputata all’uomo; per i giansenisti, invece,<br />
i peccati commessi senza grazia attuale restano comunque tali, e devono<br />
perciò essere condannati. È evidente che <strong>qui</strong> Pascal non vuole certamente<br />
dar <strong>vita</strong> ad una disputa di carattere strettamente teologico, bensì<br />
avviare una riflessione morale che abbia come focus lo spinoso problema<br />
della responsabilità umana: l’uomo che pecca ed ha coscienza di peccare è<br />
senz’altro un peccatore; ma, colui che che pecca, e tuttavia non ha coscienza<br />
di peccare, è pur sempre un peccatore? Per i giansenisti, la risposta<br />
non può che essere affermativa; per i gesuiti, la risposta è invece negativa.<br />
A tal proposito, leggiamo come il buon Padre gesuita delle Lettere<br />
Provinciali spiega lucidamente la posizione della sua Compagnia:<br />
Noi dunque sosteniamo come un principio indubitabile che un’azione non può<br />
essere imputata come peccato, se Dio non ci dà, prima che la commettiamo, la<br />
conoscenza del male che contiene, e un’ispirazione che ci stimola a e<strong>vita</strong>rla 6 .<br />
A questo punto, l’ironia di Pascal si trasforma in sarcasmo. Sulla base<br />
di quel che sostengono i gesuiti, esistono dunque due specie di peccatori:<br />
da una parte, i “peccatori a metà”, les pécheurs à demi, che nutrono un po’<br />
d’amore per la virtù, che hanno coscienza dei loro peccati e sono da considerare<br />
responsabili e peccatori; dall’altra, i peccatori incalliti, les pécheurs<br />
endurcis, peccatori a tempo pieno che non hanno coscienza del peccato e<br />
perciò non sono responsabili secondo la bella e comoda morale gesuitica.<br />
Che bella via – esclama Pascal – per essere felici in questo mondo e nell’altro!<br />
Avevo sempre pensato che si peccasse tanto più, quanto meno si pensa a Dio.<br />
6 IV e Lettre Provinciale, SeFe, p. 311. Come acutamente nota Hélène Bouchilloux, questo<br />
principio gesuitico – secondo cui un’azione non può essere imputata a peccato, se, prima di commetterla,<br />
Dio non dà la conoscenza del male – riesce persino a mettere d’accordo Pascal e Descartes.<br />
I due filosofi, infatti, sono contrari a tale principio. Nella Lettera a Mesland del 2 maggio<br />
1644, infatti, Descartes scrive: «Riconosco, tuttavia, che ove si dà occasione di peccare, là v’è indifferenza;<br />
e non credo affatto che, per fare il male, ci sia bisogno di vedere chiaramente che ciò che<br />
facciamo è cattivo; è sufficiente vederlo confusamente, o soltanto ricordarsi d’aver giudicato altra<br />
volta che lo fosse, senza vederlo in alcun modo, ovvero senza essere attenti alle ragioni che lo provano»<br />
(Lettera di Descartes a Mesland, 2 maggio 1644, in R. Descartes, Tutte le lettere, a cura di G.<br />
Belgioioso, Bologna, Bompiani, 2005, p. 1913). Cfr. H. Bouchilloux, Hegel, lecteur des Provinciales,<br />
in «L’enseignement philosophique», Revue de l’association de philosophie de l’enseignement public,<br />
3/2008, p. 57.
8 Maria Vita Romeo<br />
Invece a quanto vedo, se si riesce a imporsi una volta per tutte di non pensarci<br />
più affatto, ogni cosa diviene pura in seguito. Niente mezzi peccatori, con un<br />
po’ d’amore per la virtù. Saranno tutti dannati questi mezzi peccatori, mentre<br />
questi peccatori decisi, peccatori incalliti, peccatori schietti, pieni e completi,<br />
l’inferno non li rinchiude. Hanno beffato il diavolo a forza di concedersi a lui 7 .<br />
Ci troviamo così in presenza di quel ragionamento per assurdo, che<br />
verrà ripreso da due filosofi particolarmente attenti alle tematiche della libertà,<br />
della responsabilità e del male: nell’Ottocento da Hegel 8 , nei Lineamenti<br />
di filosofia del diritto; e poi nel Novecento da Croce, nella Filosofia<br />
della pratica.<br />
Nei Lineamenti di filosofia del diritto, affrontando il problema del bene<br />
e della coscienza morale – con la relativa questione se un’azione possa<br />
essere ritenuta malvagia, soltanto nella misura in cui essa sia stata realizzata<br />
con cattiva coscienza morale, Hegel s’allinea con quanto affermato da<br />
Pascal, citando addirittura l’ironica osservazione del filosofo francese sulla<br />
salvezza assicurata ai «peccatori incalliti» e sull’eterna dannazione riservata<br />
a quei peccatori che, invece, nutrono qualche amore per la virtù 9 . Per il<br />
filosofo di Stoccarda, nel momento dialettico del diritto si ha «la possibilità<br />
dell’alienazione della personalità e del proprio essere sostanziale» 10 ,<br />
come, ad esempio, l’alienazione della proprietà o «l’alienazione della razionalità<br />
intelligente, della moralità, dell’eticità, della religione» 11 . Questo<br />
secondo tipo di alienazione si traduce nella superstizione oppure nella<br />
cessione ad altri dell’autorità e del potere. In ogni caso, l’alienazione proietta<br />
l’ombra del male e del negativo nel processo dialettico dello Spirito<br />
hegeliano, per la fondamentale ragione che si pretende di alienare ciò che<br />
è inalienabile sul piano del diritto:<br />
Il diritto a tale inalienabilità è imprescrittibile; poiché l’atto, col quale prendo<br />
possesso della mia personalità e della mia essenza sostanziale, mi costituisce soggetto<br />
capace di diritto, di imputazione, mi rende morale, o religioso, toglie que-<br />
17 IV e Lettre provinciale, SeFe, p. 315.<br />
18 Cfr. H. Bouchilloux, Hegel, lecteur des Provinciales, cit., pp. 50-61.<br />
19 Cfr. G. F. W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bari, Laterza, 1965, § 140, p. 130.<br />
10 Ivi, § 66, p. 73.<br />
11 Ivi.
ste determinazioni appunto dall’esteriorità, che unicamente dà loro la capacità<br />
d’essere in possesso altrui 12 .<br />
Ma la soggettività dialetticamente buona, la personalità che rende l’individuo<br />
un «soggetto capace di diritto, di imputazione» e <strong>qui</strong>ndi libero e<br />
responsabile, tale soggettività può degenerare e farsi “cattiva soggettività”. E<br />
se poi dalla sfera del diritto si passa a quella della morale, la cattiva soggettività<br />
assume, secondo Hegel, il sembiante tanto seducente quanto maligno<br />
del soggettivismo morale, celebrato da una certa filosofia che corre contemporanea<br />
a quella hegeliana, anzi da «una superficialità di pensiero che<br />
ha stravolto, in questa forma, un concetto profondo e si è attribuito il nome<br />
di filosofia; precisamente come al male ha attribuito il nome di bene» 13 .<br />
Nascono così i frutti avvelenati del soggettivismo morale: da un canto,<br />
la soggettività che superbamente e stoltamente si spaccia per assoluto;<br />
e, dall’altro, l’ipocrisia morale, che pretende di gabellare il male come bene,<br />
e viceversa, sulla base di interessi soggettivi. Per Hegel, infatti, l’autocoscienza<br />
può raggiungere il più alto culmine della soggettività in una<br />
«astrusissima forma del male», in cui la coscienza si dà come assoluto e<br />
addirittura converte ipocritamente il bene in male, e il male in bene:<br />
Poiché l’autocoscienza sa di produrre nel suo fine un aspetto positivo, del quale<br />
esso ha bisogno, poiché appartiene al proponimento della concreta azione reale,<br />
essa, a causa di tale aspetto, in quanto dovere e intenzione perfetta, ha il potere<br />
di affermare, come buona per gli altri e per sé stesso, l’azione […] “per gli altri”:<br />
questa è l’ipocrisia; “per sé stesso”: ecco il culmine ancora più alto della soggettività,<br />
che si afferma come assoluto 14 .<br />
Per quanto riguarda il fenomeno morale dell’ipocrisia, Hegel si sofferma<br />
sulla vecchia questione dell’agire male e con cattiva coscienza, facendo<br />
riferimento alla polemica antigesuitica di Pascal e, quel che più conta,<br />
aderendo alla tesi pascaliana al riguardo:<br />
C’è stata questione, divenuta un tempo molto importante, se un atto sia cattivo,<br />
soltanto in quanto avvenuto con cattiva coscienza, cioè con la coscienza svi-<br />
12 Ivi.<br />
13 Ivi, § 140, p. 129.<br />
14 Ivi.<br />
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 9
10 Maria Vita Romeo<br />
luppata dei momenti or ora accennati. Il Pascal trae (Les Provinciales, IV) assai<br />
bene la conseguenza dall’affermativa della questione: Ils seront tous damnés, ces<br />
demi pécheurs, <strong>qui</strong> ont quelque amour pour la vertu. Mais pour ces francs pécheurs,<br />
pécheurs endurcis, pécheurs sans mélange, pleins et achevés, l’enfer ne les tient pas:<br />
ils ont trompé le diable à force de s’y abandonner. Il diritto soggettivo dell’autocoscienza<br />
[…] non deve essere pensato in conflitto col diritto assoluto dell’oggettività<br />
di questa determinazione, tanto che entrambi siano rappresentati come<br />
separabili, indifferenti e contingenti uno rispetto all’altro 15 .<br />
Senza dubbio, l’agire male e con cattiva coscienza non è piena ipocrisia,<br />
ma ci porta sulla strada giusta: la strada del simulatore ora suadente<br />
ora aggressivo, ora compiacente e accomodante ora violento e calunniatore.<br />
Nell’ipocrisia<br />
sopravviene la determinazione formale della finzione di affermare il male come<br />
buono, soprattutto per gli altri, e di porsi soprattutto esternamente come buono,<br />
coscienzioso, devoto e simili; il che, a questo modo, è soltanto una gherminella<br />
di frode verso gli altri. Però il malvagio può, inoltre, trovare per sé stesso<br />
una giustificazione al male, nell’ulteriore suo far bene o nella religiosità, in generale<br />
in buone ragioni; poiché con quelle lo muta per sé in bene 16 .<br />
E <strong>qui</strong> Hegel sta ancora in sintonia con il Pascal acerrimo nemico<br />
dell’ipocrisia gesuitica, in special modo quando riporta il fenomeno dell’ipocrisia<br />
a due importanti punti d’attacco nella strategia pascaliana delle<br />
Provinciali: la dottrina delle opinioni probabili e la dottrina della direzione<br />
d’intenzione.<br />
Il probabilismo, o dottrina delle opinioni probabili, si presenta come<br />
un sistema morale che, fondato nel Cinquecento dal domenicano spagnolo<br />
Bartolomeo Medina, sostiene che una legge non obbliga finché è<br />
probabile che non obblighi, ovverosia che la legge dubbia non ha valore<br />
obbligatorio, quando un’opinione opposta sia probabile. Questo sistema<br />
morale, che può apparire alquanto sofistico ed estremamente cervellotico,<br />
diverrà un’arma formidabile nelle mani di alcuni teologi gesuiti: infatti,<br />
secondo il principio del probabilismo, un teologo autorevole è utilizzabile<br />
15 Ivi, § 140, p. 130.<br />
16 Ivi, § 140, p. 131.
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 11<br />
anche quando si conosca, sull’argomento dibattuto, un’altra opinione riconosciuta<br />
come più probabile. Insomma, in assenza di certezza e di sicurezza,<br />
si sprofonda nella palude del probabilismo e del dubbio, dove una<br />
tesi meno probabile assume lo stesso valore teoretico e comporta la stessa<br />
obbligazione pratica di una tesi più probabile.<br />
E quando si può definire “probabile” una tesi? Ecco la risposta che il<br />
casuista, a suon di citazioni di dotti gesuiti, ci fornisce nella V Lettera<br />
Provinciale:<br />
Un’opinione si dice probabile, quando è fondata su ragioni di qualche rilevanza.<br />
Ne deriva talvolta che un solo dottore molto autorevole può rendere un’opinione<br />
probabile 17 .<br />
«E così – ribatte sarcastico Pascal – basta un dottore per rivoltare le<br />
coscienze e sovvertirle a suo piacimento, e sempre in sicurezza» 18 . Il timore<br />
pascaliano è fondato. In effetti, la tesi probabilistica rischia di precipitare<br />
il mondo della morale e della religione dalla sfera delle certezze e delle<br />
sicurezze in una sorta di ariostesco campo di Agramante, dove ogni<br />
dottore ed ogni confessore può appellarsi ad un’opinione probabile che,<br />
sullo stesso problema, contrasta con mille altre opinioni altrettanto probabili.<br />
In<strong>qui</strong>etante giunge la candida risposta del gesuita, che vorrebbe essere<br />
rassicurante e convincente:<br />
Non lo capite; essi sono anzi molto spesso di parere diverso; ma ciò non conta<br />
nulla. Ciascuno rende il proprio parere probabile e sicuro. Si sa per vero che<br />
non sono tutti del medesimo avviso. E ciò è ancora meglio. Non concordano,<br />
all’opposto, quasi mai, e sono poche le questioni dove non troviate che l’uno<br />
dice sì, l’altro dice no. E in tutti questi casi, entrambe le opinioni contrarie sono<br />
probabili 19 .<br />
Qui, piuttosto che di lassismo e di soggettivismo etico, bisognerebbe<br />
parlare di barocchismo morale e religioso. E non solo e non tanto perché<br />
gran parte dei casuisti secenteschi provenivano da paesi “barocchi” come<br />
la Spagna, il Portogallo e l’Italia, ma soprattutto perché col probabilismo<br />
17 V e Lettre Provinciale, SeFe, p. 339.<br />
18 Ivi.<br />
19 Ivi, pp. 340-1.
12 Maria Vita Romeo<br />
si assiste al trionfo baroccheggiante dell’esteriorità, della scena, della teatralità,<br />
della geniale sottigliezza, del rifiuto beffardo della tradizione, del<br />
gusto per il complicato spacciato per complesso, del prezioso ricamo del<br />
manto dell’apparenza sullo sgradevole e rugoso corpo della realtà, del ricorso<br />
al pomposo delle cupole e delle facciate che nascondono il gelido<br />
buio di labirinti e di confessionali, della superba immaginazione creativa<br />
che celebra il divino nelle fattezze fin troppo carnali di donne e uomini<br />
moderni e disincantati, del gusto maniacale per il meraviglioso, del sapiente<br />
contrasto di luci ed ombre nella tecnica del trompe-l’œil, che non ti<br />
dà il falso, ma l’allucinata illusione che l’immagine sia la realtà.<br />
È il trionfo del barocco perché, come nella rappresentazione estetica<br />
viene calpestato il riferimento “oggettivo” alle regole delle proporzioni a<br />
favore dell’estro dell’artista e delle emozioni dello spettatore, così nella<br />
definizione di concetti morali viene sostanzialmente accantonato ogni riferimento<br />
“oggettivo” alle Scritture, ai Padri, ai Concili, per cedere il passo<br />
alle meravigliose e nuove dottrine che fioriscono nel cervello di ogni<br />
casuista e di ogni spregiudicato autore di opinioni probabili, a favore diretto<br />
di un “utente”, che ricorre al confessore, e a favore indiretto e più<br />
duraturo di tutta una schiera di governatori di anime e direttori di coscienze<br />
i quali, sul mercato della morale, offrivano a buon prezzo qualunque<br />
soluzione per qualunque problema, e qualunque assoluzione per qualunque<br />
peccato, imbrogliando ipocritamente e spregiudicatamente la coscienza,<br />
Dio, e persino il «padre della menzogna» 20 .<br />
Pertanto, secondo Hegel, il probabilismo non è che l’ipocrita affermazione<br />
di una soggettività malata, che pretende di apparire a sé e agli altri<br />
come oggettività:<br />
Esso [il probabilismo] assume a principio che un’azione, per la quale la coscienza<br />
sa di trovare qualche buona ragione, – sia anche soltanto l’autorità di un teologo,<br />
e ancor che si sappia che altri teologi discordino di gran lunga dal giudizio<br />
di quello, – è permessa; e che la coscienza ne può esser sicura. Anche in questa<br />
concezione persiste quell’esatta coscienza che tale ragione e tale autorità dà sol-<br />
20 «Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida<br />
fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso,<br />
dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8, 44).
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 13<br />
Matisse, La danza, 1909-1910, olio su tela, 260 × 391 cm,<br />
San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.<br />
tanto una probabilità, sebbene ciò sia sufficiente alla sicurezza della coscienza; e<br />
<strong>qui</strong> si ammette che una buona ragione è soltanto di natura tale, che possono esserci<br />
accanto ad essa altre ragioni, almeno parimenti buone. Anche è da riconoscere<br />
un’altra traccia di oggettività in ciò: che ci dev’essere una ragione che determini;<br />
ma, poiché la decisione del bene o del male è collocata nelle molte<br />
buone ragioni, tra le quali sono comprese anche quelle autorità, e queste ragioni<br />
sono tante e così opposte; sta in ciò, nello stesso tempo, che non questa oggettività<br />
della cosa, ma la soggettività, deve decidere; – onde il libito e l’arbitrio sono<br />
chiamati a decidere sul buono e sul cattivo, e l’eticità, come la religiosità, è minata<br />
[…] Il probabilismo è, perciò, ancora un aspetto dell’ipocrisia 21 .<br />
Ma, oltre al probabilismo, la morale rilassata trova terreno fertile, come<br />
ben sapeva Pascal in polemica coi gesuiti, nella teoria della directio intentionis<br />
che, svalutando la oggettività dell’atto, si sbilancia pericolosamente<br />
ed esclusivamente sulla considerazione soggettiva dell’intenzione.<br />
21 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 140, pp. 131-2.
14 Maria Vita Romeo<br />
Per efferata e malvagia che sia l’azione, se buona e santa è l’intenzione che<br />
l’ha fatta commettere, buona e santa sarà anche l’azione. Così tutto è permesso,<br />
e tutto è benedetto? Niente affatto, se prestiamo fede alle sottigliezze<br />
del padre gesuita nella VII Lettera Provinciale:<br />
Per dimostrarvi che non permettiamo tutto, sappiate che, per esempio, non<br />
ammettiamo mai che si abbia l’intenzione formale di peccare, col solo intento<br />
di peccare; e che di chiunque si ostina a limitare il suo proposito nel compiere il<br />
male solo per il male, noi non ne vogliamo sapere; è un atto diabolico, ed ecco<br />
che non vi sono eccezioni di età, di sesso o di rango. Ma quando non si è in<br />
questa malaugurata disposizione, allora cerchiamo di mettere in pratica il nostro<br />
metodo di dirigere l’intenzione, consistente nel proporsi per fine delle proprie<br />
azioni un oggetto lecito. Non che, per quanto possiamo, non cerchiamo di<br />
distogliere la gente dalle cose proibite; ma quando non possiamo impedire<br />
l’azione, purifichiamo perlomeno l’intenzione; e così correggiamo il difetto del<br />
mezzo con la purezza del fine 22 .<br />
Siamo alla sublime missione degli avvocaticchi della cattiva coscienza.<br />
Siamo a quella forma gioiosa di ipocrisia elevata a scienza, che Molière fa<br />
celebrare con versi immortali all’impostore Tartuffe:<br />
Je puis vous dissiper ces craintes ridicules,<br />
Madame, et je sais l’art de lever les scrupules.<br />
Le Ciel défend, de vrai, certains contentements;<br />
(C’est un scélérat <strong>qui</strong> parle.)<br />
Mais on trouve avec lui des accommodements.<br />
Selon divers besoins, il est une science,<br />
D’étendre les liens de notre conscience,<br />
Et de rectifier le mal de l’action<br />
Avec la pureté de notre intention 23 .<br />
In altri termini, irrompe sulla scena della morale quella massima, già<br />
applicata in politica, per cui il fine giustifica i mezzi. Sembra strano, ma è<br />
vero: il “volto demoniaco” del machiavellismo politico, tanto vituperato e<br />
tanto maledetto, si trasforma in acqua santa e assume i connotati rassicuranti<br />
del gesuitismo, invadendo vittoriosamente i territori della coscienza<br />
22 VII e Lettre Provinciale, SeFe, pp. 367-8.<br />
23 Molière, Le Tartuffe ou l’imposteur, acte IV, 1489-91.
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 15<br />
morale e della <strong>vita</strong> privata. Non è peccato rubare, calunniare, uccidere, se<br />
nell’intenzione del malfattore il fine è buono e santo, pur ricorrendo ai<br />
mezzi del furto, della calunnia, dell’assassinio.<br />
A tal proposito, Hegel coglierà acutamente la discutibile (in sede logica)<br />
e pericolosa (in sede morale) connessione che viene posta tra l’azione,<br />
l’intenzione e il giudizio morale: l’azione malvagia si lega ad una intenzione<br />
buona, <strong>qui</strong>ndi l’azione malvagia è buona. La deduzione, alquanto<br />
sofistica, gioca maliziosamente sul fatto che in ogni azione si può trovare<br />
un lato positivo, un bene. Ma tutto questo, per Hegel, è solo «das abstrakt<br />
Guten», un bene astratto e molto lontano dalla positività del giudizio<br />
morale. Anzi, esso è un male, giacché la determinazione di quel bene<br />
astratto è affidata al «Willkür des Subjekts», all’arbitrio del soggetto:<br />
Un furto, un’azione vile, un omicidio etc., in quanto azioni, cioè in quanto, in<br />
generale, compiute da una volontà soggettiva, hanno immediatamente la destinazione<br />
di essere l’appagamento di tale volontà, e, <strong>qui</strong>ndi, un che di positivo; e,<br />
per render buona l’azione, soltanto sapere questo aspetto positivo come mia intenzione<br />
in essa; e questo aspetto è l’essenziale per determinare che l’azione è<br />
buona, poiché io la so in quanto bene nella mia intenzione. Un furto per far del<br />
bene ai poveri, un furto, una diserzione dalla battaglia per causa dell’obbligo di<br />
aver cura della propria <strong>vita</strong>, della propria famiglia (fors’anche povera, per giunta)<br />
– un omicidio per odio e per vendetta […] sono elevati, a questo modo, a<br />
causa dell’aspetto positivo del loro contenuto, a buona intenzione, e <strong>qui</strong>ndi a<br />
buona azione. Basta uno sviluppo intellettivo estremamente limitato, per discernere,<br />
come quei dotti teologi, un lato positivo in ogni azione e, <strong>qui</strong>ndi, una<br />
buona ragione e una buona intenzione. Così si è detto che non c’è proprio il<br />
malvagio, poiché esso non vuole il male a causa del male, cioè non la pura negatività<br />
come tale, ma vuole sempre qualcosa di positivo; <strong>qui</strong>ndi, da questo punto<br />
di vista, un bene. In questo bene astratto, sono dileguate la differenza di buono<br />
e cattivo e tutti i doveri reali; <strong>qui</strong>ndi: volere semplicemente il bene e avere, in<br />
un’azione, una buona intenzione, questo è, anzi, il male; in quanto il bene è voluto<br />
soltanto in questa astrazione, e, <strong>qui</strong>ndi, la determinazione del medesimo è<br />
riserbata all’arbitrio del soggetto24 .<br />
E l’impronta del soggettivismo viene rintracciata da Hegel anche nella<br />
stessa massima riguardante il fine che giustifica i mezzi. Tale massima, di<br />
24 Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 140, p. 133.
16 Maria Vita Romeo<br />
per sé, si può ridurre ad un’espressione che il filosofo tedesco definisce<br />
«triviale e insignificante», giacché se è vero che un fine santo santifica i<br />
mezzi, è altrettanto vero che un fine non santo non li santifica. Peggio<br />
ancora: che il fine santo giustifichi i mezzi, può risolversi in una tautologia,<br />
giacché il mezzo non è affatto per sé, non trae valore da sé, ma dal fine<br />
buono e santo. Beninteso, la tautologia sta in piedi, quando il mezzo è<br />
veramente un mezzo. Ma, quando si pretende di spacciare un fine malvagio<br />
come mezzo per una intenzione buona, la quale mira ad un fine buono,<br />
allora siamo ancora di fronte all’ipocrisia di un lassismo che froda le<br />
coscienze e mina qualunque sistema morale, facendo dipendere la determinazione<br />
del bene e del male da quell’arbitrio individuale, che cresce rigoglioso<br />
nella fitta vegetazione delle opinioni soggettive. Ecco la pietra<br />
tombale che Hegel depone sull’immoralità del machiavellismo morale:<br />
La frase: “se il fine è giusto, son tali anche i mezzi”, è un’espressione tautologica,<br />
in quanto il mezzo e, appunto, ciò che non è affatto per sé, ma è a causa di<br />
un’altra cosa, e ha la sua determinazione e il suo valore in ciò, nel fine, – se, cioè, è<br />
veramente un mezzo. Però, con quella proposizione, non si pensa al significato semplicemente<br />
formale, ma s’intende con esso qualcosa di più determinato, che, cioè,<br />
usare, come mezzo per un buon fine, qualcosa che per sé non è semplicemente un<br />
mezzo, che violare ciò che per sé è santo, che rendere, <strong>qui</strong>ndi, un delitto, mezzo di<br />
un buon fine, è permesso; anzi è ben anche un dovere […] I giudici, i guerrieri hanno,<br />
non soltanto il diritto, ma il dovere di uccidere uomini, ove però sia esattamente<br />
determinato per quale specie di uomini, e in quali circostanze, ciò sia permesso e<br />
sia un dovere […] Ma ciò che si designa come delitto, non è un’universalità lasciata<br />
indeterminata, che sia soggetta ancora a una dialettica; ma ha già la sua determinata<br />
delimitazione oggettiva. Ciò che a tale determinazione è contrapposto, ora, nel fine<br />
che deve togliere al delitto la sua natura, il fine santo, è null’altro se non l’opinione<br />
soggettiva di ciò che è buono e migliore. Il medesimo avviene <strong>qui</strong>; il volere si arresta<br />
al bene astratto, cioè, ogni determinatezza, che è in sé e per sé e ha valore, del bene<br />
e del male, del diritto e del torto, è annullata; e questa determinazione è attribuita al<br />
sentimento, alla rappresentazione, al libito 25 .<br />
Rispetto alla posizione hegeliana di piena adesione a Pascal e di netta<br />
e rigorosa condanna dell’arbitrio e dell’ipocrisia, Benedetto Croce assume<br />
un atteggiamento altrettanto deciso, ma attento alle diverse sfumature e<br />
25 Ivi, pp. 133-4.
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 17<br />
alle molteplici articolazioni di alcuni problemi morali che superano la<br />
stessa collocazione storica secentesca dello scontro fra giansenisti e gesuiti.<br />
Sul problema della responsabilità e della libertà rispetto all’azione malvagia,<br />
Croce sostiene che si può parlare di peccato, ed esprimere <strong>qui</strong>ndi<br />
una riprovazione morale, solo in riferimento ad un agente che possieda,<br />
oltre alla libertà, anche la coscienza di aver peccato. Per conseguenza, avevano<br />
ragione i gesuiti nel sostenere che c’è peccato dove c’è coscienza di<br />
peccare; e perciò è peccatore chi commette peccato ed ha coscienza di<br />
peccare, mentre non è peccatore colui che fa il male senza coscienza di<br />
peccare.<br />
Con rigore consequenziale e con un certo gusto del paradosso provocatorio,<br />
Croce riscatta in questo caso i gesuiti dalle condanne pascaliane<br />
ed hegeliane:<br />
I gesuiti che, contro il Pascal, difendevano che per darsi peccato era necessaria<br />
la coscienza della propria infermità e del rimedio occorrente, – il desiderio della<br />
guarigione e quello di domandarla a Dio, – erano teoricamente dalla parte della<br />
ragione 26 .<br />
Pascal, stupefatto e indignato, avrebbe riproposto a Croce la stessa<br />
domanda che aveva già scagliato in faccia al bon père gesuita:<br />
Come potreste infatti dichiarare apertamente, senza perdere ogni credito nelle<br />
anime, che nessuno pecca senza aver prima la conoscenza della propria infermità,<br />
quella del medico, il desiderio della guarigione, e quello di chiederlo a Dio? Si crederà<br />
sulla vostra parola che coloro che sono immersi nell’avarizia, nell’impudicizia,<br />
nelle bestemmie, nel duello, nella vendetta, nei furti, nei sacrilegi, abbiano<br />
davvero i desideri di abbracciare la castità, l’umiltà, e le altre virtù cristiane? 27 .<br />
A tutto ciò, Croce, impassibile e irriducibile, mantiene la sua posizione<br />
e continua a difendere in linea teorica la tesi dei gesuiti: «Pure è ine<strong>vita</strong>bile<br />
che sia così, se quei loro abiti devono essere considerati (e se realmente<br />
sono) vizî» 28 .<br />
26 B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, Napoli, Bibliopolis, 1996, p. 198.<br />
27 IV e Lettre Provinciale, SeFe, p. 317.<br />
28 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., p. 198.
18 Maria Vita Romeo<br />
Perché ci sia peccato, perché si possa parlare di azioni malvagie o di<br />
vizi, occorre dunque che ci sia coscienza del peccato e volontà di riscatto o<br />
guarigione morale. E, a questo punto, erompono dal petto di Pascal quelle<br />
parole indignate che Croce purtroppo non prenderà in considerazione:<br />
Non vi basta, per comprendere l’errore del vostro principio, di vedere che san<br />
Paolo dice di essere primo dei peccatori per un peccato che dichiara di aver commesso<br />
per ignoranza e con zelo? Non basta di vedere dal Vangelo che i crocifissori<br />
di Gesù Cristo avevano bisogno del perdono che egli chiedeva per loro, pur<br />
inconsapevoli della malvagità della loro azione, e che non l’avrebbero mai fatto,<br />
secondo san Paolo, se ne avessero avuto la consapevolezza? […] E infine, non<br />
basta che Gesù Cristo stesso ci abbia insegnato che vi sono due specie di peccatori,<br />
gli uni consapevoli, gli altri inconsapevoli, e che tutti saranno puniti, sia<br />
pure invero in modo diverso? 29 .<br />
Beninteso, la valutazione crociana non si regge sull’impianto teologico-morale<br />
di Pascal, ma si muove su un tracciato rigorosamente filosofico-idealistico<br />
che esalta il valore irrinunciabile della coscienza nella valutazione<br />
morale di qualunque azione particolare e concreta. Da <strong>qui</strong> la difesa<br />
crociana dei gesuiti che, in questo caso, «erano teoricamente dalla parte<br />
della ragione». Ma solo teoricamente essi avevano ragione, dal momento<br />
che lo stesso Croce opportunamente chiarisce che, se è vero che non può<br />
peccare colui che compie azioni malvagie senza coscienza del peccato, è<br />
altrettanto vero che quel “non poter peccare” è pur sempre un peccato e,<br />
quel che è peggio, abbassa chi si trova in quelle condizioni al di sotto del<br />
peccatore, sino al livello della passività naturale e animalesca:<br />
È chiaro ormai per noi che la questione è da risolvere nel senso, che chi ha coscienza<br />
di peccare è certamente peccatore, laddove chi non l’ha non pecca punto;<br />
ma che codesto non poter nemmeno peccare è per sé stesso peccato, e pone<br />
l’uomo, che si trova in siffatta condizione, un gradino più basso del peccatore 30 .<br />
Qui si salda l’arco filosofico-idealistico di Croce, facendo riferimento<br />
ad Hegel che, pur condannando i gesuiti a favore della tesi di Pascal, sosteneva<br />
che lo stesso male morale, il peccato, l’arbitrio, ricadono sempre<br />
29 IV e Lettre Provinciale, SeFe, pp. 319-20.<br />
30 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., p. 198.
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 19<br />
nel mondo spirituale e perciò sono superiori, e da preferire, alla “innocenza”<br />
della natura, degli animali e dei vegetali:<br />
Ogni rappresentazione formulata dallo Spirito, la peggiore delle sue fantasie, il<br />
gioco del suo umore più accidentale, ogni parola, costituisce un fondamento<br />
più eccellente per la conoscenza dell’Essere di Dio rispetto a un qualsiasi oggetto<br />
naturale […] In realtà, anche quando l’Accidentalità spirituale – l’arbitrio –<br />
giunge fino al Male, quest’ultimo è infinitamente superiore ai movimenti regolari<br />
degli astri o all’innocenza delle piante: colui che erra commettendo il Male,<br />
infatti, è pur sempre Spirito 31 .<br />
A prescindere dall’incarnazione storica del lassismo gesuitico secentesco,<br />
ad esempio, il gioco perverso della directio intentionis è reso possibile,<br />
secondo Croce, dalla persistenza di una visione dualistica che erroneamente<br />
distingue ed arbitrariamente separa il momento della intenzione<br />
dal momento della volizione. Una visione dualistica, questa, che risale al<br />
primo e più importante dualismo fra spirito e natura, ossia a quell’illecita<br />
separazione in due entità di quel che, in effetti, è un’unica realtà dinamica<br />
e dialettica: la realtà spirituale. In altri termini, nel monismo idealistico<br />
crociano dei primi anni del Novecento si mira a risolvere i problemi<br />
generati dal dualismo fra trascendenza e immanenza, fra cielo e terra, fra<br />
soggetto e oggetto, fra libertà e necessità, eliminando ogni forma di dualismo<br />
e concependo la realtà come attività spirituale, che incessantemente<br />
e liberamente si afferma non già come unità indifferenziata, monoliticamente<br />
intesa o misticamente rappresentata, bensì come unità-distinzione<br />
delle diverse forme dell’attività dello spirito-realtà.<br />
La stessa separazione dualistica di fine e di mezzo – che può sfociare<br />
nella perniciosa applicazione morale della massima, secondo cui il fine<br />
buono giustifica e purifica i mezzi cattivi – viene dialetticamente “negata”<br />
nell’impianto monistico crociano, che identifica il fine con lo stesso atto<br />
volitivo: ovvero, solo in astratto si può immaginare una volontà separata<br />
dal fine, ma, nel concreto svolgimento dialettico della realtà, si ha la sintesi<br />
di mezzo e fine nell’unità reale dell’atto volitivo.<br />
31 G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Milano, Rusconi, 1996,<br />
§ 248, pp. 423-5.
20 Maria Vita Romeo<br />
Un atto volitivo – chiarisce Croce – è unità inscindibile, e solo per comodo pratico<br />
si può darlo come diviso. Nell’atto volitivo, tutto è volizione, niente è mezzo<br />
e tutto è fine. Il mezzo non è altro che la situazione di fatto, dalla quale l’atto<br />
volitivo prende le mosse, e solo così il mezzo si distingue davvero dal fine. Si distingue,<br />
cioè, e si unifica insieme; perché se, come si è notato, la volizione non è<br />
la situazione, d’altra parte tale la volizione quale la situazione: l’una varia in<br />
funzione dell’altra. Di <strong>qui</strong> l’assurdità della massima che il fine giustifica il mezzo:<br />
massima di carattere empirico, sorta talora per giustificare azioni che erroneamente<br />
si ritenevano ingiustificate, e più spesso per lasciar passare come giuste<br />
quelle che erano ingiustificabili. Tal mezzo, tal fine; ma il mezzo è il dato e<br />
non ha bisogno di giustificazione, il fine è il voluto e deve giustificarsi in sé medesimo<br />
32 .<br />
Per tornare alla contrapposizione dualistica fra intenzione e volizione,<br />
Croce sostiene che tale separazione assume due forme erronee. La prima,<br />
contrapponendo l’astratto al concreto, sostiene che si può volere il bene<br />
in astratto e non sapere poi volerlo in concreto; ovverosia, che si può avere<br />
una intenzione buona e poi comportarsi male concretamente. La seconda<br />
forma erronea – ed è quella che maggiormente incide sulla teoria della direzione<br />
dell’intenzione – pone due atti volitivi: l’uno reale (la volizione<br />
vera e propria) e nascente da una determinata e concreta situazione di fatto;<br />
l’altro, invece, solamente pensato o immaginato, che prende il nome<br />
di intenzione.<br />
È sempre possibile, secondo siffatta teoria, dirigere l’intenzione, ossia alla volizione<br />
reale congiungere l’atto volitivo immaginato, e produrre un nesso in cui<br />
la volizione è in un modo e l’intenzione in un altro: la prima cattiva e la seconda<br />
buona, o la prima buona e la seconda cattiva. Così l’onest’uomo, approvato<br />
dal gesuita di cui narra il Pascal, pur desiderando la morte di colui dal quale<br />
aspetta un’eredità e rallegrandosene quando essa accade, dà al suo desiderio e al<br />
suo compiacimento un’impronta morale col pensare che ciò ch’egli intende raggiungere<br />
è la prosperità della sua azienda e non la morte del suo simile. Ovvero<br />
il medesimo onest’uomo ammazza colui che gli ha dato uno schiaffo; ma, in<br />
questo atto, ferma il pensiero sulla difesa del suo onore e non sull’omicidio:<br />
non sapendo astenersi dall’azione, purifica almeno (come crede) l’intenzione 33 .<br />
32 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., p. 50.<br />
33 Ivi, p. 54.
Ma, secondo Croce, una è la situazione reale; e perciò una è la volizione<br />
vera e concreta. Nella fattispecie, solo ipocritamente ed immoralmente<br />
si può gabellare per buona intenzione di accrescere la propria prosperità<br />
quel che in realtà è compiacimento per la morte altrui. Solo ipocritamente<br />
si può gabellare, per la semplice ragione che la volontà-intenzione<br />
di accrescere la prosperità della propria azienda è inscindibilmente<br />
legata alla morte del proprio simile; come la volontà-intenzione di difendere<br />
il proprio onore è inscindibilmente legata alla volontà di far violenza<br />
alla <strong>vita</strong> altrui:<br />
Il male è che la situazione reale, la sola di cui si possa tener conto, è la situazione<br />
storica e non quella immaginata; e nella conseguente volizione, presa nella<br />
sua schiettezza, si tratta non già della propria prosperità senz’altro, ma della<br />
propria prosperità congiunta con la morte altrui, ossia della falsa prosperità;<br />
non del proprio onore senz’altro, ma del proprio onore congiunto con la violazione<br />
della <strong>vita</strong> altrui, ossia del falso onore: il che fa di quella asserita innocente<br />
prosperità e di quell’asserito legittimo onore due cattive azioni qualificate, rendendo<br />
ciò che era onesto nel caso immaginato, disonesto nel caso reale, che è il<br />
solo che importi. Non giova fingere una situazione diversa dalla reale, perché a<br />
questa e non all’altra si riferisce l’intenzione; la quale non si può dirigere, ossia<br />
cangiare, se non cangia la situazione di fatto34 .<br />
Pertanto, nella valutazione crociana la directio intentionis si manifesta<br />
sostanzialmente come un sofisma che, giocando illecitamente sulla separazione<br />
fra volizione reale e volizione pensata o intenzione, genera la giustificazione<br />
filosofica di una morale da uomini di buon cuore e di buone<br />
intenzioni, di una morale, cioè, che porge una comoda possibilità di frode<br />
morale a torbide figure di individui che sono bensì ipocriti, senza essere<br />
affatto né di buon cuore né di buone intenzioni.<br />
In ogni caso, secondo Croce, lo scontro fra rigorismo pascaliano e lassismo<br />
gesuitico rappresenta la doppia faccia di un errore filosofico ben<br />
più vasto e profondo: la confusione, cioè, tra i princìpi pratici (o leggi di<br />
contenuto universale) e le leggi di contenuto generale e contingente.<br />
Queste ultime sono volizioni che hanno per oggetto una classe o serie di<br />
azioni, ovverosia impongono una serie di atti singoli, una serie che, per<br />
34 Ivi.<br />
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 21
22 Maria Vita Romeo<br />
quanto ricca, è pur sempre limitata. I princìpi pratici, invece, sono leggi<br />
che prescrivono un contenuto a carattere universale e necessario. Tali<br />
princìpi pratici sono da distinguere in base alle due forme pratiche dello<br />
Spirito: la forma economica e la forma morale. Perciò si ha il principio<br />
economico (legge universale economica), imperativo che recita: «tu devi<br />
volere l’utile»; e il principio morale (legge universale morale), imperativo<br />
che recita: «tu devi volere il bene».<br />
Quando i princìpi pratici vengono confusi con le leggi a carattere generale<br />
e contingente, e quando siffatta confusione determina l’annullamento<br />
dei primi a favore delle seconde, allora sorge l’errore del legalismo<br />
pratico: ovvero l’illusione che la legge possa coprire tutti gli infiniti casi<br />
concreti che si presentano nella <strong>vita</strong> e possa <strong>qui</strong>ndi prescrivere quel che si<br />
debba o non debba fare per ognuno degli infiniti casi concreti. In altri<br />
termini, pretendere che una legge – avente di per sé un carattere generale,<br />
astratto, contingente, mutevole e limitato – possa ordinare o vietare una<br />
particolare azione in ogni situazione concreta e determinata, non è altro<br />
che un errore dettato dall’illusione legalistica.<br />
Niente forse vale a rischiarare – precisa Croce – la schietta natura delle leggi<br />
meglio dell’esame degli errori gravissimi, che si sono introdotti nella Filosofia<br />
della pratica per non essersi avvertito il carattere di mero aiuto che è proprio di<br />
quelle formazioni mentali, e per essere state confuse le leggi coi principî pratici,<br />
concependo questi come leggi e quelle come principî. […] E quelle leggi, tante<br />
e così particolareggiate, inducono facilmente nella falsa credenza, che il loro<br />
complesso basti a regolare la nostra azione economica e la nostra <strong>vita</strong> morale; e<br />
che i principî pratici possano essere sostituiti e pienamente rappresentati da un<br />
Decalogo o da un Codice, i quali sarebbero i veri e proprî regolatori della <strong>vita</strong><br />
umana. Ma il Decalogo, il Codice, il Corpus iuris, ampî e particolari e minuti<br />
che si facciano, non sono mai in grado, come sappiamo, di esaurire l’infinità<br />
delle azioni che le infinitamente varie situazioni di fatto condizionano 35 .<br />
Da aggiungere, inoltre, che le leggi, nel loro comandare o vietare, non<br />
possono mai abbracciare tutti i casi possibili della <strong>vita</strong>, e perciò lasciano<br />
una zona d’ombra indifferenziata e permissiva, dove collocare tutte le<br />
azioni né previste né ordinate né vietate. Pertanto, se consideriamo l’erro-<br />
35 Ivi, pp. 346-7.
e del legalismo pratico nella sola sfera morale, allora ci accorgeremo che<br />
il legalismo etico nasconde due insidie molto pericolose: il moralmente<br />
indifferente e l’arbitrarismo soggettivistico.<br />
In verità, colui che sostituisce il principio universale della morale con<br />
una qualsiasi casistica morale ricchissima e dettagliatissima, ma pur sempre<br />
a carattere generale ed astratto, prima o poi si troverà in una determinata<br />
situazione non prevista o ignorata dalla casistica morale, perché dalla<br />
casistica collocata nel cono d’ombra dell’indifferente, del permissivo, del<br />
lecito, e perciò, di fronte al silenzio della legge-casistica, sarà costretto ad<br />
agire secondo il proprio arbitrio. Da <strong>qui</strong> gli errori mortali – mortali per la<br />
morale – del probabilismo, del moralmente indifferente e dell’arbitrarismo,<br />
che portano ine<strong>vita</strong>bilmente al lassismo morale di ogni tempo. E<br />
giustamente, secondo Croce, il rigorismo morale protesta e si erge contro<br />
il lassismo, ma la sacrosanta reazione dei farisei contro i sadducei, o dei<br />
giansenisti contro i molinisti, non può avere definitivamente la meglio<br />
perché entrambi gli avversari si collocano sul terreno del legalismo morale.<br />
Invano i rigoristi, avvedendosi del pericolo e della rovina verso cui scivola per<br />
tal modo la teoria dell’Etica, si sono dibattuti contro i teorici del moralmente<br />
indifferente o lassisti. Fintanto che gli uni e gli altri non lasciavano il terreno legalitario,<br />
gli uni avevano ragione contro gli altri; e tutti poi, alla pari, Avevano<br />
torto, farisei e sadducei, giansenisti e molinisti. I rigoristi si aggrappavano disperatamente<br />
alla legge, e non ammettevano che essa potesse esser dubbia e dare<br />
luogo al moralmente indifferente: la legge era certa. Ma, in verità, la legge non è<br />
mai né dubbia né certa: aggirandosi su concetti empirici, essa non delimita mai<br />
nulla con esattezza, epperò non è certa; avendo per oggetto non già l’azione<br />
concreta, ma solo una preparazione a questa, non si propone di delimitare l’indelimitabile,<br />
epperò non è neanche incerta o dubbia: sta di qua o di là da siffatte<br />
categorie. Cosicché i rigoristi si ritrovavano anch’essi dinanzi il moralmente<br />
indifferente, e non avevano modo di vincerlo. Potevano consigliare di risolversi<br />
per l’azione più penosa e ripugnante, di contrariarsi, di tormentarsi; ma anche<br />
cotesta era una maniera di arbitrio e di male 36 .<br />
E se i rigoristi rimangono pur sempre prigionieri nelle strettoie di un<br />
sostanziale legalismo etico, bisogna ammettere che i lassisti, con la teoria<br />
36 Ivi, p. 349.<br />
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 23
24 Maria Vita Romeo<br />
del probabilismo, scorazzano arditamente sul terreno legalitario della casistica<br />
morale:<br />
I lassisti potevano allargare a lor piacere il campo del moralmente indifferente,<br />
mettendo in luce le dubbiezze della legge, cioè la sua impotenza come principio<br />
pratico; ma poiché non riconoscevano alcun principio pratico fuori della forma<br />
della legge, a questa dovevano in qualche modo ricorrere per ottenere un punto<br />
di orientamento nella guida della <strong>vita</strong>. E, non potendo trovarlo nella legge per<br />
sé stessa, riconosciuta dubbia, dovevano riporlo nell’autorità degli interpreti; e,<br />
quando queste autorità discordavano, nel calcolo delle autorità (per l’appunto<br />
come nella legge di citazione di Teodosio II si usava pei giuristi romani); e poiché<br />
due o tre o quattro o cento autorità, quando sono incerte, non valgono più<br />
di una parimenti incerta, doveva, alla fine, bastare a essi un’autorità qualsiasi<br />
per giustificare un’azione 37 .<br />
Da <strong>qui</strong> il passo è breve per imbattersi nella folta ed intricata vegetazione<br />
del probabilismo secentesco:<br />
Il probabilismo, non che contradizione del legalismo, ne è logica conseguenza.<br />
Ridotti che si sia all’autorità, perché l’una dovrebbe valere più dell’altra quando<br />
sono in gara quelle di persone stimabili e fededegne? Perché dare la precedenza<br />
a Papiniano su Paolo o su Ulpiano? Se il Villalobos è d’avviso che un prete, il<br />
quale abbia commesso peccato mortale, non possa in quello stesso giorno dir<br />
messa, il Sánchez, invece, opina che può: perché dunque un prete, il quale si<br />
trovi nel caso, dovrebbe seguire il Villalobos anziché il Sánchez? È vero che, risolvendosi<br />
alla cieca tra il Sánchez e il Villalobos, egli si dà in preda all’arbitrio;<br />
ma arbitrio e legalismo sono indissolubili 38 .<br />
Risulta facile notare che questo percorso filosofico crociano porta alla<br />
critica di quella che fu la più famosa e sofisticata e vituperata forma secentesca<br />
del lassismo: la morale gesuitica. Invero, gli innumerevoli ruscelli<br />
del legalismo etico, della casistica, del probabilismo e dell’arbitrarismo<br />
soggettivistico vanno a confluire e riversarsi nell’imponente e sinuoso fiume<br />
della morale di tanti padri gesuiti. Ma, secondo Croce, non comprenderemo<br />
appieno la teoria morale di quei padri, se al grande fenomeno del<br />
legalismo etico non sapremo collegare la particolare espressione gesuitica<br />
37 Ivi, pp. 349-50.<br />
38 Ivi, p. 350.
dell’utilitarismo teologico. In altri termini, la peculiarità della morale gesuitica<br />
risiede proprio nella sintesi di legalismo etico e di utilitarismo teologico:<br />
La tendenza della morale gesuitica si rischiara e si fa trasparente innanzi all’intelletto<br />
solamente quando si pensi a un congiungimento tra il legalismo pratico<br />
e l’utilitarismo teologico; ossia quando non solo si concepisca la morale come<br />
sequela o complesso di determinazioni legislative, ma anche si reputino coteste<br />
leggi nient’altro che prodotto dell’arbitrio di un Dio. Come tali, esse non sono<br />
per sé morali e non vengono osservate per intrinseca necessità razionale, ma solamente<br />
come il minor male, pel timore del peggio o per la speranza di un vantaggio<br />
futuro. Tra l’uomo e Dio legislatore c’è, in quel caso, lotta sorda: lotta<br />
tra un debole e un prepotente, nella quale la forza del debole è riposta nell’ingegnosità,<br />
la sua tattica nella frode. Di <strong>qui</strong> il concetto dominante della morale gesuitica:<br />
guadagnare quanto più si può sulle leggi morali o divine, fare il meno<br />
possibile di quel che esse comandano; e, chiamati poi a rendere conto della propria<br />
azione al tribunale della confessione o nel giudizio universale, sottilizzare<br />
sulla legge interpretandola in modo che ciò che si è fatto risulti appartenere al<br />
campo del lecito e permissivo 39 .<br />
Da questo connubio di legalismo e utilitarismo nascono necessariamente<br />
molte mostruosità logiche e morali:<br />
Dio vieta all’uomo di ammazzare l’uomo; ma intende vietare ciò anche quando<br />
il motivo della uccisione sia la gloria stessa di Dio? Quando colui che uccide<br />
operi come la mano stessa di Dio? Senza dubbio, no; onde sarà lecito al gesuita<br />
ammazzare o fare ammazzare l’avversario giansenista, il quale, scoprendo le magagne<br />
della santa Compagnia che è esercito di Dio sulla terra, danneggia gl’interessi<br />
divini: quell’uccisione è, non solo lecita, ma doverosa. E se poi si volesse<br />
ammazzare l’avversario non per zelo di gloria divina, ma pel danno che reca agli<br />
interessi personali e immorali del gesuita? Anche cotesto è permesso, purché,<br />
nell’ammazzarlo, sebbene animati da odio personale, si distolga lo sguardo dal<br />
motivo reale e si diriga l’intenzione alla gloria divina, e col fine si giustifichi il<br />
mezzo 40 .<br />
Cinico disfacimento morale? Senza alcun dubbio. D’altronde, tutto<br />
questo non meraviglia, se si pone attenzione al fatto che, a trattare di teo-<br />
39 Ivi, p. 352.<br />
40 Ivi, pp. 352-3.<br />
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 25
26 Maria Vita Romeo<br />
rie morali, erano non tanto uomini di fede, quanto piuttosto abili e scaltri<br />
uomini politici. Beninteso, quando si parla di disfacimento morale in<br />
riferimento al gesuitismo, si pensa non già alla moralità dei singoli padri<br />
della Societas Jesu, che molto spesso erano uomini di specchiata integrità<br />
morale, bensì alle teorie e alla loro ine<strong>vita</strong>bile ricaduta sull’organismo culturale,<br />
morale, educativo e politico di una società moderna, scossa da fortissime<br />
tensioni tra passato e avvenire, tra chiusure reazionarie e velleità<br />
progressiste. E, su questa doverosa distinzione, Croce coglie nuovamente<br />
l’occasione per formulare un giudizio storico che, in quanto tale, coglie il<br />
“positivo” che dialetticamente deve esistere in qualunque determinazione<br />
storica, e perciò nel gesuitismo morale come pure nei suoi avversari:<br />
Se il gesuitismo fu corruttela morale, ciò non tanto si deve alle sue teorie quanto<br />
piuttosto alla educazione che praticava, deprimente, servile, diretta a mortificare<br />
le forze della volontà e dell’intelligenza per ridurre l’uomo come senis baculus,<br />
strumento docile e passivo in mano altrui; e alla confusione che non solo<br />
serbava ma accresceva nelle coscienze circa i motivi reali delle azioni, con l’assopire<br />
la forza volitiva etica mercé sofismi e allettamenti di devozioni aisées à pratiquer,<br />
con le quali si dischiudevano le porte del Paradiso, e di chémins de velours,<br />
onde, con ogni soavità, si saliva al Cielo. I rigoristi e i lassisti, filosoficamente,<br />
si valgono; ma sta nel fatto che i rigoristi furono di solito animi energici<br />
ed austeri, che ebbero forte sentimento del carattere genuino della morale; nel<br />
che per contro i lassisti sovente mancarono e peccarono. D’altra parte, e per<br />
rendere giustizia a tutti, anche i lassisti ebbero qualche merito, e anch’essi intravidero<br />
una verità, col volgere lo sguardo alle complicazioni della realtà e del vivere<br />
umano e con l’asserire inconsapevolmente nelle loro storte dottrine il bisogno<br />
di un’Etica che si comportasse in modo meno astratto e riuscisse meno disarmonica<br />
verso la realtà della <strong>vita</strong> 41 .<br />
Per rendere ulteriore giustizia alle «storte dottrine» dei lassisti, non<br />
dobbiamo trascurare che lo scontro filosofico-religioso tra i lassisti e i rigoristi<br />
del XVII secolo affonda le sue radici nel vasto ed aspro terreno<br />
della Riforma protestante e della Controriforma cattolica. Contro la corruzione<br />
dei costumi nella Chiesa e nella società, contro la condotta spudoratamente<br />
immorale di tanti chierici – e papi e cardinali e preti e frati<br />
41 Ivi, p. 354.
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 27<br />
– avevano i protestanti scagliato macigni che costituirono il tumulo della<br />
vecchia Chiesa e della vecchia Europa. E il Concilio di Trento, nella sua<br />
grandiosa e ardua opera di risanamento e ristrutturazione di un edificio<br />
malsano e malfermo, affrontò con animo forte e acuta intelligenza anche<br />
i problemi di un decadimento morale che aveva ammorbato e la Chiesa e<br />
le istituzioni e la società civile. Opera coronata dal successo? Non sempre.<br />
Nel campo della moralizzazione, il Concilio tridentino operò scelte energiche<br />
e assunse provvedimenti miranti a rinsaldare la disciplina all’interno<br />
della Chiesa e a riallacciare nuovi rapporti ad ogni livello della società.<br />
Spesso, però, il male non venne debellato del tutto. E allora ci si accontentò<br />
di salvare e garantire le apparenze di una decenza rivolta all’esterno<br />
e all’esteriorità. Il vizio e il malcostume, non del tutto estirpati, furono<br />
perciò nascosti; e così almeno si e<strong>vita</strong>vano scandali: Si non caste, tamen<br />
caute. Se non riusciamo a vivere onestamente, cerchiamo almeno di essere<br />
accorti e cauti nel saper nascondere le azioni malvagie oppure nel saper<br />
gabellare il vizio come virtù.<br />
Se non fu il trionfo della morale, fu certamente la silenziosa e strisciante<br />
vittoria dell’ipocrisia, della simulazione e della dissimulazione. Dilagò<br />
il servilismo; ci si rassegnò più o meno gioiosamente ad una <strong>vita</strong> in<br />
maschera, ad un interminabile carnevale di cinismo e di ipocrisia.<br />
In verità, se si guarda al vasto e ricchissimo scenario storico del Seicento,<br />
si riconoscono in mille eventi i segni della modernità, del progresso<br />
e della libertà di coscienza in opposizione alle vecchie verità e alle consunte<br />
autorità. Purtroppo, in questo scenario secentesco, l’Italia offre uno<br />
spettacolo di decadenza, di vuoto e di apatia. Mentre nel resto d’Europa<br />
si costruivano le “patrie” che il fiorentino Machiavelli aveva disegnato e<br />
sognato, in Italia invece, quasi in un bagno di beata stupidità, non solo<br />
non si costruì un organismo unitario, ma addirittura ci si rassegnò a perdere<br />
l’indipendenza politica e a cedere il primato nella storia europea.<br />
Tutta colpa dello spagnolismo cattolico, che pesò sugli italiani dell’età<br />
barocca? Non sempre. Basti pensare che nella cattolicissima ed asburgica<br />
Spagna di Carlo V e di Filippo II fioriscono geni immortali come Cervantes,<br />
Lope de Vega e Calderón de la Barca, che giustamente rappresentano<br />
il vanto del siglo de oro spagnolo. Per non parlare della Francia, scossa<br />
da guerre di religione e da tensioni politiche, che brillerà nel mondo
28 Maria Vita Romeo<br />
per il suo grand siècle, con uomini di cultura come Descartes e Pascal, Fénelon<br />
e Bossuet, Corneille, Racine e Molière.<br />
Senza dubbio, l’Italia papale e spagnola aveva bensì spazzato via la<br />
vecchia Italia delle oscenità, della licenza e dell’antimoralismo innalzato a<br />
principio di <strong>vita</strong>, ma aveva di fronte a sé un vuoto etico-politico che non<br />
poteva essere colmato col cinismo e con l’ipocrisia. E, nelle intercapedini<br />
dell’osse<strong>qui</strong>o formale indirizzato a uomini e leggi, l’Italia barocca e bacchettona<br />
ammassava cumuli di materialismo, di paganesimo, di scetticismo<br />
e di apatia. Proprio così, una languida e raffinata e dolce apatia provocava<br />
la morte delle passioni morali, religiose, artistiche, politiche, che<br />
purtroppo cedevano il campo al desolante vuoto spirituale, al gaudente<br />
materialismo senza patria e senza Dio, al freddo e spietato egoismo corazzato<br />
di indifferenza, alla raffinata ricerca di emozioncelle, all’alienante ed<br />
alienata coltivazione del meraviglioso come fine in sé.<br />
Un nome emblematico per il Seicento italiano? Giovan Battista Marino.<br />
Mentre oltralpe si componevano grandiose sinfonie di pensiero, di<br />
arte e di politica, in Italia il marinismo costruiva ingegnosamente facili<br />
melodiette poetiche da carillon. Mentre in Europa rombava il cannone<br />
dei grandi scontri storici, in Italia si avvertivano a stento il noioso biascichìo<br />
delle litanie, lo sfavillìo dei sentimenti, lo scoppiettìo dei fuochi artificiali<br />
del marinismo.<br />
Beninteso, Marino non fu causa, ma emblema della decadenza dell’Italia<br />
barocca. E questo vale anche per il gesuitismo morale: la Compagnia<br />
di Gesù non fu causa, ma emblema della decadenza morale del Seicento.<br />
D’altronde, lungi dal coltivare autentici progetti di rinnovamento<br />
morale, lo spirito e lo scopo del gesuitismo erano fondamentalmente politici:<br />
governare i cervelli e le coscienze ad maiorem Dei gloriam, o, forse<br />
meglio, per mantenere e accrescere il potere del papa. A questo scopo, bisognava<br />
apparire spregiudicatamente moderni; bisognava indossare i panni<br />
dell’uomo nuovo, per mantenere in <strong>vita</strong> il vecchio. Occorreva assumere<br />
una posa da religiosi più laici dei laici, non solo per battere la “concorrenza”<br />
di formazioni religiose ben più rigide e rigorose, ma, soprattutto,<br />
per sconfiggere abilmente l’animo libertin della laicità. E il loro successo<br />
fu grande, pari alla loro spregiudicatezza politica: seppero calpestare ogni<br />
elementare principio morale per calcolo politico; tacciarono di astratto
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 29<br />
moralismo coloro che condannavano le loro discutibili e corpose operazioni<br />
politiche; ma furono capaci di stracciarsi le vesti e di gridare alla lesa<br />
maestà della morale, quando avvertivano gravi rischi per la loro politica.<br />
Abile e agile politica, quella gesuitica, che, non potendo innalzare gli uomini<br />
alle vette della purezza evangelica, abbassò il Vangelo alla debolezza<br />
e ai comodi bisogni degli uomini42 . Scaltra e spregiudicata politica, che<br />
mirava alla sottomissione delle plebi ai prìncipi, e dei prìncipi al papa, e,<br />
all’occorrenza, del papa alla Compagnia di Gesù.<br />
Teorici dell’obbedienza cieca ed assoluta ai superiori, costituirono il<br />
più efficiente e disciplinato esercito del papa, teorizzando la monarchia<br />
assoluta. Ma, se i nemici da combattere erano re e prìncipi, allora sapevano<br />
indossare panni democratici, teorizzando persino la “sovranità del popolo”<br />
e il “diritto dell’insurrezione”. A tal proposito, si pensi che già nel<br />
Concilio di Trento il secondo generale dei gesuiti, Diego Laínez, ebbe a<br />
dichiarare che la Chiesa ha le sue leggi da Dio, ma che la società ha diritto<br />
di scegliersi i suoi propri governanti. Addirittura il gesuita cardinal Roberto<br />
Bellarmino, dopo aver reso omaggio all’antica teoria che il potere<br />
politico deriva da Dio, sostenne però che le forme di governo dipendono<br />
dalle scelte e dalle necessità del popolo.<br />
Insomma, nella grande strategia politica dei gesuiti, si può essere assolutisti<br />
quando si parla della Chiesa o della Compagnia di Gesù; ma si può<br />
essere fautori della sovranità del popolo, quando si tratta di combattere il<br />
potere di re e di prìncipi. E, grazie a tale flessibile strategia, grande fu il<br />
potere politico dei gesuiti; tanto grande, da destare timori e sospetti persino<br />
nei prìncipi e nei papi. Perciò torna alla mente, nella sua intatta verità,<br />
il giudizio espresso da Pascal nella V Lettera Provinciale:<br />
Sappiate dunque che il loro obiettivo non è di corrompere i costumi, non è<br />
questo il loro intento. Però non hanno nemmeno come unico fine quello di riformarli.<br />
Sarebbe una cattiva politica. Ecco il loro pensiero. Hanno di sé stessi<br />
un’opinione abbastanza buona per credere che sia utile e quasi necessario per il<br />
42 A tal proposito, così si esprime il gesuita nella VI Lettera Provinciale: «Se tolleriamo qualche<br />
rilassatezza negli altri, è più per condiscendenza che di proposito. Vi siamo costretti. Gli uomini<br />
sono oggigiorno talmente corrotti, che non potendo farli venire a noi, bisogna pure che andiamo<br />
noi a loro. Altrimenti ci abbandonerebbero, peggio, si lascerebbero andare completamente»<br />
(VI e Lettre Provinciale, SeFe, p. 355).
30 Maria Vita Romeo<br />
bene della religione che la loro reputazione si estenda dappertutto e che essi governino<br />
tutte le coscienze […] Con questo sistema conservano tutti i loro amici,<br />
e si difendono contro tutti i loro nemici 43 .<br />
Ora, per rendere giustizia al rigorismo pascaliano e allo stesso Croce,<br />
occorre sottolineare che quella sorta di e<strong>qui</strong>distanza crociana rispetto al<br />
rigorismo e al lassismo, quel collocarli, criticando entrambi, ai punti<br />
estremi del comune terreno del legalismo etico, non regge alla prova di<br />
un’attenta riflessione sul concetto pascaliano della virtù morale. Un concetto,<br />
questo, che ben si distingue da ogni etica materiale e da ogni utilitarismo<br />
teologico; e <strong>qui</strong>ndi ben si distingue dal gesuitismo morale.<br />
In altri termini, se crocianamente intendiamo per «formale» l’universale,<br />
e per «materiale» il contingente, allora il principio della morale non<br />
può che essere formale e universale. In effetti, se questo principio fosse<br />
materiale, allora la moralità non potrebbe mai innalzarsi all’universale e<br />
resterebbe legata e determinata da un gruppo di singole azioni. Di <strong>qui</strong> il<br />
sorgere dell’utilitarismo etico:<br />
Col porre dunque un principio materiale dell’etica e col determinare l’universale<br />
come un singolo o (che fa il medesimo) come un finto universale, un concetto<br />
semplicemente generale, di serie o di gruppo, si ricade nell’utilitarismo, dal<br />
quale si credeva di essersi liberati. Vicenda che si ripete in ogni sfera della filosofia,<br />
perché sempre, quando il principio formale e universale di quella sfera viene<br />
materializzato, si torna alla sfera che le è immediatamente inferiore […] E l’Etica<br />
materiale, checché tenti e dica, torna logicamente all’utilitarismo 44 .<br />
A questo punto, dietro la descrizione crociana dell’Etica materiale e<br />
utilitaria è facile intravedere i connotati del lassismo e del gesuitismo morale.<br />
Anzi, ad utilizzare il criterio kantiano, il gesuitismo morale si configura<br />
come etica eteronoma e utilitaria. Ma torniamo alla morale pascaliana,<br />
che Croce, pur ravvisandovi residui di legalismo, non riesce tuttavia a<br />
collocare nel campo dell’Etica materiale e utilitaria. E non riesce, per la<br />
semplice ragione che la morale di Pascal è un’etica universale e non già<br />
materiale, etica che non ama le cose per le cose, né gli individui per gli<br />
43 V e Lettre Provinciale, SeFe, pp. 330-1.<br />
44 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., p. 292.
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 31<br />
individui, ma tutti questi per l’universale e nell’universale. È vero: per Pascal,<br />
le moi est haïssable. Ma l’io è odioso, solo quando si fa centro di tutto<br />
e pretende di asservire gli altri. Qui sta la condanna pascaliana dell’arbitrarismo<br />
soggettivistico ed egoistico, che trova la sua più tipica espressione<br />
nella mostruosità morale di un amour propre che pretende di farsi<br />
tutto, di farsi Dio, di assoggettare tutti, mentre poi non fa che strisciare<br />
nel fango della sua miseria morale ed esistenziale:<br />
La natura dell’amor proprio, di questo io umano è di non amare che se stessi e<br />
non considerare che se stessi. Ma come farà? Non può impedire che questo oggetto<br />
amato sia pieno di difetti e di miseria; vuol essere grande, e si vede piccolo;<br />
vuol essere felice, e si vede miserabile; vuol essere perfetto, e si vede pieno<br />
d’imperfezioni; vuol essere oggetto dell’amore e della stima degli uomini, e vede<br />
che i suoi difetti meritano solamente la loro avversione e il loro disprezzo 45 .<br />
Appare strana la morale cristiana di Pascal, che umilia la superbia dell’individuo-tutto,<br />
dell’individualità malata e disgregata, per poi offrire la<br />
possibilità di essere simile a Dio 46 . Être semblable à Dieu, significa certamente<br />
umiliare il capriccio e l’arbitrio egoistico, ma non già negando<br />
astrattamente i bisogni dell’individuo, bensì trascendendo l’individualità<br />
malata per poi riaffermarla come parte del Tutto.<br />
In mirabile assonanza con la morale pascaliana, ecco il superamento<br />
dell’individualità empirica ed egoistica nella morale crociana:<br />
La morale richiede il sacrificio di me al fine universale, ma di me nei miei fini<br />
meramente individuali, e perciò così di me come degli altri: essa non ha nessuna<br />
particolare inimicizia contro di me, da volermi sacrificare a vantaggio degli<br />
altri. Bisogna essere severi non solo con sé stessi, ma anche con gli altri; esigenti<br />
non solo verso sé, ma anche verso gli altri; e, per contrario, benevoli non solo<br />
con gli altri, ma anche con sé stessi; compassionevoli non solo per gli altri, ma<br />
anche per questo strumento di lavoro che portiamo in giro con noi, e dal quale<br />
talvolta pretendiamo troppo, la nostra povera empirica individualità. […] Tutti<br />
sono, a volta a volta, padroni e servi: degni di rispetto perché rappresentanti e<br />
portatori del bene, degni di castigo e riprensione perché ostacoli e contrasti al<br />
45 Fr. n. 743 Se.<br />
46 «Il cristianesimo è strano. Comanda all’uomo di riconoscere che è vile, anzi abominevole,<br />
e gli comanda di voler essere simile a Dio» (Fr. n. 383 Se).
32 Maria Vita Romeo<br />
bene. La morale considera gl’individui non mai per sé stessi, ma sempre nella<br />
loro relazione con l’universale: nel quale aspetto non c’è uomo che non meriti a<br />
volta a volta e di essere salvato e di essere soppresso […] Nessun individuo va<br />
trattato come fine, ma tutti come mezzi per l’universale morale, dal quale solamente<br />
ricevono dignità di fini 47 .<br />
Beninteso, nel mettere in evidenza le assonanze non si vuol certo<br />
ignorare o mascherare le innegabili differenze tra Pascal e Croce. E tuttavia,<br />
nell’esigenza di una morale universale, nel bisogno di superare il capriccio<br />
soggettivistico dell’individualità malata, che si stacca dal Tutto, e<br />
che si proclama stupidamente Dio, pretendendo stoltamente e pericolosamente<br />
di farsi centro di tutto e padrone di tutti, in tutto ciò il laico filosofo<br />
napoletano è affratellato al cristiano Pascal, che ricorre al rapporto<br />
membro-corpo per condannare le membre séparé, la parte che si stacca dal<br />
tutto, e per formulare invece una morale dell’armonia fra l’individuale e<br />
l’universale, fra la parte e il Tutto, fra l’uomo e Dio:<br />
Essere membri significa non aver <strong>vita</strong> né essere e movimento, se non dall’intelletto<br />
del corpo e per il corpo. Il membro separato che non vede più il corpo cui<br />
appartiene, non possiede se non un essere che deperisce e muore. Tuttavia crede<br />
di essere un tutto e, non vedendo alcun corpo da cui dipenda, crede di dipendere<br />
solo da se stesso e vuole farsi centro e corpo egli stesso 48 .<br />
Tornano a questo punto le parole di san Paolo scritte ai Corinzi: Qui<br />
autem adhaeret Domino unus spiritus est 49 . E, su quella scia, tornano prepotenti<br />
alla memoria le religiose parole della morale laica di Croce:<br />
L’uomo morale, nel voler l’universale, ossia quel che lo trascende in quanto individuo,<br />
si volge allo Spirito, alla Realtà reale, alla Vita vera, alla Libertà. […]<br />
Egli deve volere non solo il sé stesso individualizzato, ma insieme quel sé stesso<br />
che, essendo in tutti i sé stessi, è il loro comune Padre. Per tal modo, promuove<br />
l’attuarsi del Reale, vive la <strong>vita</strong> piena e fa battere il proprio cuore col cuore<br />
dell’universo: cor cordium 50 .<br />
47 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., pp. 293-4.<br />
48 Fr. n. 404 Se.<br />
49 «Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1 Cor, 6.17). Nel citato fr. 404,<br />
Pascal così riporta le parole di san Paolo: Qui adhaeret Deo unus spiritus est.<br />
50 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., pp. 303-4.
D’altronde, che la morale idealistica crociana s’innesti sul tronco sempre<br />
vivo del cristianesimo, che l’Etica dello Spirito sia figlia dell’Etica cristiana,<br />
è proprio lo stesso Croce ad ammetterlo apertis verbis, con orgoglio<br />
e con accenti religiosissimi:<br />
Soprattutto quest’ufficio di simbolo etico idealistico, quest’affermazione che<br />
l’atto morale è amore e volizione dello Spirito in universale, si osserva nell’Etica<br />
religiosa e cristiana, nell’Etica dell’amore e della ricerca ansiosa della presenza<br />
divina: così misconosciuta e bistrattata oggi, per angusta passione di parte o per<br />
manco di finezza mentale, dai volgari razionalisti e intellettualisti, dai cosiddetti<br />
liberi pensatori e da simile genía, frequentatrice di logge massoniche. Non c’è<br />
quasi verità dell’Etica […] che non si possa esprimere con le parole, che abbiamo<br />
apprese da bambini, e che spontanee ci salgono alle labbra come le più alte,<br />
le più appropriate, le più belle: parole, di certo, ombrate ancora di mitologia,<br />
ma gravi insieme di un contenuto profondamente filosofico 51 .<br />
Nel volgere poi lo sguardo da storico della filosofia morale ai millenni<br />
del pensiero occidentale, Croce non può non fare riferimento a Kant per<br />
il concetto stesso di etica formale e universale, e ben sapendo che l’«aborrimento»<br />
kantiano verso le morali materiali, utilitarie ed eteronome gli<br />
proveniva dal platonismo e, soprattutto, dal Cristianesimo. E <strong>qui</strong>, nel panorama<br />
storico tracciato da Croce, balza evidente il merito di Pascal che,<br />
assieme ai «grandi cristiani francesi del Seicento», seppe definire il concetto<br />
di una morale rigorosa ed austera che svincola l’uomo dall’amor di sé e<br />
dall’amore del mondo, che fa morire il vecchio uomo empirico, carnale<br />
ed egoista, per farlo rinascere in armonia con Dio, con l’universale:<br />
Come dell’austera concezione etica kantiana, e del suo aborrimento pel materiale<br />
e pel mondano, la sorgente è nel Cristianesimo (e nel platonismo), così anche<br />
l’origine della sua idea morale concreta è da ricercare in sant’Agostino, anzi<br />
in san Paolo, nei mistici del medioevo, nei grandi cristiani francesi del Seicento,<br />
in quella virtù, di cui il Pascal scriveva che è “plus haute que celle des pharisiens et<br />
des plus sages du paganisme”, e che sola rende possibile di “dégager l’âme de<br />
l’amour du monde, la retirer de ce qu’elle a de plus cher, la faire mourir à soi<br />
même, la porter et l’attacher uniquement et invariablement à Dieu” 52 .<br />
51 Ivi, p. 306.<br />
52 Ivi, p. 310.<br />
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 33
34 Maria Vita Romeo<br />
Come si può notare, nel rapido excursus storico sulle radici della morale<br />
kantiana, Croce si sofferma solo su Pascal e solo di Pascal cita un brano<br />
particolarmente significativo della V Lettera Provinciale, dove il genio<br />
di Clermont fa parlare l’amico giansenista. Indubbiamente parole molto<br />
tristi, quelle della V Lettera Provinciale, per la penosa impressione suscitata<br />
dalla morale gesuitica nell’animo dell’amico giansenista. E tuttavia parole<br />
piene di orgoglio e di indignazione, scritte da Pascal in uno dei momenti<br />
cruciali e drammatici di una guerra tra gesuiti e giansenisti che inesorabilmente<br />
volgeva a favore dei primi, prefigurando l’esito esiziale a scapito<br />
del giansenismo, la persecuzione per gli uomini e le donne di Port-<br />
Royal, l’annientamento di una delle più nobili e pure esperienze morali e<br />
religiose del Seicento francese.<br />
La V Lettera Provinciale appare il 30 marzo 1656, con un frettoloso<br />
an ticipo rispetto al progetto di pubblicarla assieme alla Sesta, per sfuggire<br />
alle sempre più incalzanti irruzioni della polizia nelle tipografie. E bisogna<br />
ricordare che, tra la Quarta e la Quinta Provinciale, corre quasi un<br />
mese in cui si addensano minacciose le nubi di una tempesta che s’avvicina<br />
fatalmente su Port-Royal e che, successivamente, travolgerà e annienterà<br />
per sempre la vicenda della fioritura agostiniana col giansenismo. Tra<br />
il febbraio e il marzo 1656, quando ancora vedono la luce la Quarta e la<br />
Quinta Provinciale e all’orizzonte appare incerto l’esito del violento scontro<br />
fra gesuiti e giansenisti, l’occhio dello storico può già scorgere i segni<br />
premonitori della persecuzione e della pesante sconfitta che subirà il giansenismo:<br />
tra il febbraio e il marzo 1656, Sainte-Beuve, professore alla Sorbona<br />
e favorevole ad Arnauld, fu ostacolato nello svolgimento delle sue<br />
lezioni e poi destituito.<br />
In quei giorni, Arnauld sfugge alle ricerche della polizia e vive alla macchia<br />
a Parigi. Su intervento del papa presso il re e il cardinal Mazarino,<br />
con alterne vicende, si procederà alla cacciata dei residenti a Port-Royal e<br />
all’abbattimento delle Granges, la fattoria dell’abbazia. E sarà l’inizio della<br />
fine della luminosa esperienza di rinnovamento religioso e di risanamento<br />
morale, che le donne e gli uomini di Port-Royal avevano vissuto. Sarà il<br />
trionfo della politica e del machiavellismo secenteschi: ossia, il trionfo della<br />
politica della Compagnia di Gesù, che abilmente saprà mettere in piedi un<br />
capolavoro di alleanza fra il trono e l’altare, fra il re di Francia e il papa.
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 35<br />
Ma, sconfitti sul piano politico, i giansenisti usciranno vittoriosi sul<br />
piano morale. Anzi, parafrasando Pascal, si potrebbe dire che i gesuiti e il<br />
re e il papa ebbero bensì la meglio dans l’ordre de la chair, nell’ordine politico<br />
della carne, mentre i giansenisti ebbero la palma della vittoria dans l’ordre<br />
de la charité, nell’ordine della carità. Ma possiamo far ricorso alla teoria<br />
crociana del “primato” della storia etico-politica come storia religiosa:<br />
La quale “storia morale” o “etico-politica” (se mi si consente questa aggiunta<br />
considerazione) è poi ciò che sta nel fondo dell’affermazione o richiesta più volte<br />
manifestata: che la vera storia dell’umanità sia la storia religiosa. […] Ora<br />
questa fede, quest’impeto, questo entusiasmo, che qualifica le epoche e i popoli<br />
altamente storici, che cos’è mai se non la fede attuosa nell’universale etico,<br />
l’operosità nell’ideale e per l’ideale, comunque lo si concepisca e teorizzi, benché<br />
sempre in qualche modo teorizzato, con uno sfondo metafisico nell’invisibile,<br />
cioè nel mondo del pensiero? 53 .<br />
Sicché, nella storia morale o etico-politica, non i gesuiti ma i giansenisti<br />
sono i vincitori. Se poi restiamo al concetto crociano della «fede attuosa<br />
nell’universale etico», torniamo al valore cristiano che i giansenisti e<br />
Pascal attribuirono alla coscienza morale nella sua purezza e nella sua forza,<br />
nel suo rigoroso senso del peccato e nella sua invincibile fede nel riscatto.<br />
E rileggiamo quelle parole che Pascal fa pronunciare all’amico<br />
giansenista nella V Lettera Provinciale:<br />
Quando noi sosteniamo la necessità della grazia efficace, le diamo altre virtù per<br />
oggetto. Non è semplicemente per guarire i vizi con altri vizi; non è soltanto<br />
per far praticare agli uomini i doveri esteriori della religione: è per una virtù più<br />
alta di quella dei farisei e dei maggiori saggi del paganesimo. La Legge e la ragione<br />
sono grazie sufficienti per questi effetti. Ma per liberare l’anima dall’amore<br />
del mondo, per ritrarla da ciò che essa ha di più caro, per farla morire a se<br />
stessa, per portarla e affezionarla unicamente e invariabilmente a Dio, non c’è<br />
che l’opera di una mano onnipotente 54 .<br />
Occorre una virtù «plus haute» di quella legalistica dei farisei, fondata<br />
sulla osservanza Legge, e di quella dei saggi pagani, fondata sulla ragione;<br />
53 B. Croce, Storia economico-politica e storia etico-politica, in «La Critica», 1924; ora in Etica e<br />
politica, Bari, Laterza, 1973, p. 233.<br />
54 V e Lettre Provinciale, SeFe, p. 333.
36 Maria Vita Romeo<br />
occorre la virtù cristiana che sa trascendere il vecchio uomo sans Dieu,<br />
che sa superare l’amor proprio a vantaggio dell’amore di Dio, dell’universale.<br />
Una virtù, quella della V Lettera Provinciale, che non risiede negli atti<br />
esteriori ma nelle profondità divine di quella coscienza morale a cui<br />
Croce scioglierà un vero e proprio inno:<br />
La coscienza morale, all’apparire del cristianesimo, si avvivò, esultò e si travagliò<br />
in modi nuovi, tutt’insieme fervida e fiduciosa, col senso del peccato che sempre<br />
insidia e col possesso della forza che sempre gli si oppone e sempre lo vince,<br />
umile ed alta, e nell’umiltà ritrovando la sua esaltazione e nel servire al Signore<br />
la letizia. E si tenne incontaminata e pura, intransigente verso ogni allettamento<br />
che la traesse fuori di sé o la mettesse in contrasto con sé stessa, guardinga persino<br />
contro la stima e la lode e il luccicore sociale; e la sua legge attinse unicamente<br />
dalla voce interiore, non da comandi e precetti esterni, […] E il suo affetto<br />
fu di amore, amore verso tutti gli uomini, senza distinzione di genti e di<br />
classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il mondo che è opera di<br />
Dio e Dio che è Dio d’amore, e non sta distaccato dall’uomo, e verso l’uomo<br />
discende, e nel quale tutti siamo, viviamo e ci moviamo 55 .<br />
L’inno crociano, innalzato alla coscienza morale cristiana, si attaglia<br />
perfettamente alla morale dell’agostiniano Pascal, a quel suo travaglio tra<br />
la profondità interiore della coscienza e la trascendenza divina, tra la morale<br />
della coscienza e la morale legalitaria ed utilitaria, tra gli abissi della<br />
miseria umana e la grandeur dell’uomo riappacificato con l’universale,<br />
con Dio. E nel filosofo italiano, hegeliano e laico, religiosamente avvertiamo<br />
un affiatamento, anzi un affratellamento, con quella religione che<br />
fu di Paolo, di Agostino, di Pascal, con quel cristianesimo che gli detterà<br />
accenti sinceri e alti concetti:<br />
E serbare e riaccendere e alimentare il sentimento cristiano è il nostro sempre<br />
ricorrente bisogno, oggi più che non mai pungente e tormentoso, tra dolore e<br />
speranza. E il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo<br />
chiamano lo Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi stessi 56 .<br />
55 B. Croce, Perché non possiamo non dirci “cristiani”, in Discorsi di varia filosofia, I, Bari, Laterza,<br />
1945, pp. 13-4.<br />
56 Ivi, p. 23.
Coscienza e responsabilità: Hegel e Croce lettori di Pascal 37<br />
In linea con il suo sistema tetradico, Croce sottolinea la necessità di<br />
separare la sfera del diritto da quella della morale; se infatti si trascura la<br />
differenza tra il punto di vista giuridico ed il punto di vista morale, riconoscendo<br />
di fatto solo il primo, si cade nel giuridicismo; un pericolo che<br />
Pascal, come vedremo più avanti, ha cercato di e<strong>vita</strong>re, affrancandosi dal<br />
legalismo e intendendo per legge la coscienza morale e per ignoranza di<br />
essa quell’estrema oscurantezza ed insensibilità morale, la quale pone chi<br />
vi soggiace più giù del peggior peccatore.<br />
Deresponsabilizzare l’uomo, come vogliono alcuni gesuiti, è pensare<br />
l’uomo in un modo che non è il vero modo; è sostituire l’uomo a Dio e<br />
negare il senso del religioso, è mettere in primo piano la libertà umana a<br />
scapito della grazia la quale, invece, ha il compito di trasformare l’uomo<br />
dal di dentro, orientandolo verso il vero e il bene. Così alla morale gesuitica<br />
che privilegia la natura al posto della grazia, Pascal oppone la carità<br />
che fa della grazia la sua “arma migliore”. È questa la grazia difesa Pascal,<br />
quella grazia che egli ha vissuto con tormentoso e gioioso travaglio nella<br />
notte di fuoco. Tutto il resto è disputa fra teologi, fra uomini che volendo<br />
mettere la libertà umana al primo posto e volendola salvare a scapito<br />
della grazia, fanno credere all’uomo di essere arbitro del proprio destino e<br />
di poter contare, dunque, sulle sue forze.
Matisse, Nudo blu III, 1952, Papiers gouachés découpés, 112 × 73,5 cm,<br />
Parigi, Musée Nationale d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou.
Antonio Giovanni Pesce<br />
La fenomenologia della coscienza<br />
in Giovanni Gentile<br />
VoleNDo ricostruire, sulla falsariga di Hegel, una fenomenologia<br />
della coscienza in Giovanni Gentile, non mancherebbero spunti<br />
per una riflessione articolata. Una ricerca in tal senso avrebbe di certo il<br />
suo profondo fascino, ma a condizione che fosse chiaro il punto di partenza<br />
da cui prendere le mosse, e che appare in tutta la propria ineludibilità:<br />
non l’emergere dello spirito nella storia è il fulcro del pensiero attualistico<br />
di Gentile, bensì l’emergere della storia nello spirito. E che, inoltre,<br />
a questa “interiorità” bisogna pur tornare per intendere la storia, anzi.<br />
L’intelligibilità del reale è proprio questo reale <strong>qui</strong>, l’unico reale del quale<br />
l’uomo non può mai disinteressarsi – questa interiorità concreta, che si fa<br />
storia. Una riduzione immanentistica che, mentre eredita la modernità,<br />
ne fa la critica superandola.<br />
Si può cominciare da una lettura della storia della filosofia, che è anche<br />
una lettura della civiltà. Ora, si faccia attenzione che di “lettura” si<br />
tratta, non già di “ricostruzione”. È bene avere in mente questa profonda<br />
distinzione, altrimenti sfuggirà il nucleo del problema che <strong>qui</strong> si affronta.<br />
Lettura – e se c’è lettura, ci devono essere almeno tre elementi: un lettore,<br />
un testo e, anche se non appare, chi il testo lo ha prodotto. Eppure, nell’operare,<br />
nel darsi della lettura, questi tre elementi appaiono del tutto fusi.<br />
Un libro non lo si scriverebbe, se non fosse presupposto un lettore,<br />
foss’anche lo stesso scrittore in mutate condizioni (un diario, per esempio).<br />
E se è così, allora il ruolo del lettore è necessariamente presupposto<br />
dallo scrittore medesimo1 .<br />
1 Per una formalizzazione di quanto detto, cfr. U. Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani,<br />
2001, capp. 3 e 4.
40 Antonio Giovanni Pesce<br />
Scrittura e lettura si danno, dunque, come medesima operazione, nella<br />
quale, pur nella distinzione dei ruoli, è data l’unità. Unità come accordo?<br />
No, unità come intelligibilità. E chi scrive entra in chi legge, e chi<br />
legge si fa tessitore della trama spirituale del testo, solo se entrambi appartengono,<br />
non nell’immediatezza, all’orizzonte spirituale di quel reale<br />
che si dà nell’opera. Essi si fanno uno, pur nel proprio svolgimento spirituale,<br />
solo perché quell’unità è prima dello svolgimento. Unità che è pace,<br />
ma solo dopo il conflitto. Ciò che ciascuno di noi è con l’altro, è ciò<br />
che ognuno di noi è sempre stato, ma che senza l’altro non avrebbe avuto<br />
la possibilità di emergere. Ed è di questo “emergere” della <strong>vita</strong> più vera<br />
dell’uomo, che <strong>qui</strong> si vuol trattare.<br />
Ora, ci sono due modi di affrontare la questione: il primo è quello di<br />
cominciare dall’aspetto ontologico, andando al fondamento di quel reale<br />
“interiore” a cui si è già accennato. Ma questo ente non è come ogni altro<br />
ente, perché si dà in modo del tutto diverso e particolare – si dà appunto;<br />
e non è semplicemente. È dono, lenta con<strong>qui</strong>sta, e non deposito, eredità,<br />
manna, ecc. 2 Il secondo modo consiste nel tracciare l’aspetto fenomenologico,<br />
premettendo che vi sono alcuni livelli di questo “emergere” della<br />
coscienza. Un primo livello è quello più propriamente storico, e storico<br />
nel suo senso più comune (successione di epoche, di filosofie, ecc.). Un<br />
secondo livello potrebbe essere definito dialettico, il cui svolgimento è in<br />
interiore homine prima ancora di essere intra homines. Ma questo secondo<br />
livello è il luogo dove l’aspetto ontologico si dà.<br />
Prendiamo per buono il secondo metodo, perché permette una trattazione<br />
più piana, senza rinunciare a notare, al momento opportuno, come<br />
si sia giunti al punto di irradiazione del reale. Ed è bene dire subito che lo<br />
2 Cfr. G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza filosofica, vol. 1: Pedagogia, V ed. riv.,<br />
Firenze, Sansoni, 1941, p. 39. D’ora in poi SP1. Per quanto riguarda i testi gentiliani più citati, le<br />
sigle saranno mutuate da Giorgio Brianese, Gentile, Milano, Mursia, 1996, pp. 13-4, e cioè: La filosofia<br />
di Marx (FM), in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Milano, Garzanti, 1991, pp. 95-231; La<br />
riforma della dialettica hegeliana (RDH), III ed., Firenze, Le Lettere, 1996; Sommario di Pedagogia,<br />
vol. 2 (SP2), V ed. riv., Firenze, Sansoni, 1962; Fondamenti di filosofia del diritto (FDD), IV ed.<br />
riv., Firenze, Le Lettere, 1987; Teoria generale dello spirito come atto puro (TGS), in Opere filosofiche,<br />
cit., pp. 453-682; Sistema di Logica, vol. 1 (SL1), vol. 2 (SL2), III ed. riv., Firenze, Le Lettere,<br />
2003; Introduzione alla filosofia (IF), II ed. riv., Firenze, Sansoni, 1958; Genesi e struttura della società<br />
(GSS), Firenze, Sansoni, 1946.
La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 41<br />
scopo di questo lavoro consiste nella ricerca di una risposta alle domande:<br />
qual è il culmine e il fondamento dell’attualismo gentiliano? Questo Fondamento<br />
permette di pensare anche la realtà più complessa, che è quella<br />
umana?<br />
L’attualismo di Giovanni Gentile può ancora dire molto e, di sicuro,<br />
disse più di quanto si poté cogliere, giacché seppe innestarsi nel vivo dello<br />
sviluppo filosofico dell’Occidente, soprattutto in quella modernitas nata<br />
dall’Umanesimo italiano, ma che esso coniugava con il cuore del messaggio<br />
cristiano.<br />
Dobbiamo chiederci: cos’è la modernità? Non troviamo risposta migliore<br />
che quella data da Gianni Vattimo. La modernità sarebbe dominata<br />
dal concetto di “storia”, cioè dalla progressiva e sempre più piena appropriazione<br />
del Fondamento. In questa progressione si registra un superamento,<br />
cioè ogni tappa di avvicinamento al Fondamento del reale, che<br />
è la realtà più piena, è migliore di quella che l’ha preceduta 3 . Fine della<br />
storia, dunque. Ma la storia non è la storia del Fondamento, proprio perché<br />
il Fondamento fonda. La storia è il rapporto dialettico tra l’illuminato<br />
– parafrasando un’espressione usata da Vattimo – e l’illuminante. L’illuminazione<br />
del Fondamento si dà negli occhi dell’illuminato. Ma se<br />
questo rapporto (questa storia) viene meno, non solo risulta perso il Fondamento,<br />
ma anche colui che ad esso si appellava 4 , sia perché non ha più<br />
luce davanti, sia perché non ha più luce alle spalle. Non ha più ombra.<br />
Non ha più egli stesso il Fondamento di cui andava alla ricerca per una<br />
sempre più piena appropriazione. Il Fondamento è sempre, in una certa<br />
misura, dato. È la pienezza che ci sfugge. Ma senza la possibilità di muoversi<br />
in un orizzonte, perché ogni prospettiva risulta annichilita, ne vale<br />
anche della nostra medesima comprensione.<br />
Se questa interpretazione coglie con esattezza – come sembra si possa<br />
accettare – la questione della modernità, allora non solo l’attualismo è<br />
stato concepito come compimento della modernità, ma compimento che<br />
non lasciava fuori di sé nulla. Neppure il cristianesimo, considerato se<br />
non proprio come culmine, di certo come travaso di un cammino stori-<br />
3 Cfr. G. Vattimo, La fine della modernità, Milano, Garzanti, 1999, p. 10.<br />
4 Cfr. ivi, p. 39.
42 Antonio Giovanni Pesce<br />
co, di continuativa emersione della coscienza, quale <strong>vita</strong> del reale, nel mare<br />
aperto della spiritualità cristiana.<br />
Già un accenno ad un tentativo di superamento del dualismo tra uomo<br />
e mondo è riscontrabile nel giovanissimo Gentile che legge Marx,<br />
quando, dovendo rintracciare le radici del marxismo, non si limita ad<br />
Hegel, Vico e Cartesio, ma cita anche Socrate, come colui che, attraverso<br />
la maieutica, trae fuori dall’uomo la realtà quale dev’essere 5 . D’altronde,<br />
secondo Gentile, la modernità vera inizia col Cristianesimo, nonostante i<br />
suoi legami col platonismo e con l’aristotelismo, quando inizia lentamente<br />
la lenta con<strong>qui</strong>sta del concetto del soggettivismo (in senso gentiliano,<br />
affatto diverso da ogni forma di protagorismo o solipsismo) 6 .<br />
Non è questo il momento in cui approfondire l’interessante visione di<br />
Gentile sul Cristianesimo. Preme, semmai, vedere cosa, in questa epocale<br />
rivoluzione dello spirito, egli ritenga di capitale importanza. In Teoria generale<br />
dello spirito si può leggere un brano che, seppur tra i molti fraintendimenti<br />
a cui può essere soggetto, è ancora oggi una vibrante pagina<br />
etica 7 . Il Cristianesimo scopre la realtà, e non già come è, bensì come non<br />
è; la realtà che crea se stessa e che, proprio perché crea se stessa, è amore e<br />
volontà. E siccome essa si crea, non è compiuta, ma è da compiere; processo<br />
continuo, nel quale non c’è appagamento, ma indefesso desiderio 8 .<br />
Che vuol dire ciò? Che la realtà «è lo stesso sforzo interiore dell’anima, il<br />
suo vivo processo, non l’ideale suo e il suo modello esteriore» 9 . Alla realtà<br />
qual è concepita dal mondo antico, che presuppone lo spirito, la filosofia<br />
moderna e, in ultima battuta, l’idealismo di cui la dottrina dell’atto è suo<br />
compimento, oppone una realtà diversa, che dello spirito abbisogna, perché<br />
si realizza col realizzarsi di esso 10 .<br />
15 Cfr. FM, p. 148. Possiamo leggere altrettanto in SL1:«Socrate aveva ammonito i filosofi<br />
greci che lasciassero da parte le ricerche intorno alla natura, che è la realtà divina (tav daimovnia),<br />
per volgersi al mondo che dipende dall’uomo (tav anqrwvpina)» (p. 33).<br />
16 Cfr. RDH, p. 114 e p. 210.<br />
17 Cfr. TGS, p. 677.<br />
18 Cfr. V. A. Bellezza, L’esistenzialismo positivo di Giovanni Gentile, Firenze, Sansoni, 1954,<br />
pp. 5-10.<br />
19 TGS, p. 677. Corsivo nostro. Cfr. anche SL2, pp. 177-8.<br />
10 Cfr. SL1, pp. 32-3, e p. 169.
Il Cristianesimo, dunque, ha il merito di aver negato l’intellettualismo,<br />
a cui era legato il pensiero antico, e di aver gettato le basi della<br />
«nuova intuizione spiritualistica», che trova il suo culmine nel pensiero<br />
dei Padri della Chiesa, quando cioè vengono elaborati tre dogmi: umanità<br />
e divinità di Gesù; Dio uno e trino; il peccato e la grazia 11 . Degli ultimi<br />
due si potrebbe a lungo parlare, per esempio facendo notare come già in<br />
Dio si trovi non la staticità dell’essere ma la relazionalità dello spirito; o<br />
come la <strong>vita</strong> sia continua redenzione. Tuttavia, il dogma del Dio che si fa<br />
uomo, e facendosi uomo entra nella storia e fa la storia, non poteva che<br />
essere di profonda rilevanza per l’attualismo, perché questo Dio ha lingua<br />
e parla; ha orecchie e ode; ha mani e tocca. Egli è il Vivente, ed è come lui<br />
chi in lui confida 12 . È il Dio venuto a spiritualizzare la natura, non già ad<br />
annientarla; il Dio che è Persona, ed è Unico in Tre persone. E che costruisce<br />
il suo regno con coloro che sono vocati. Ma se c’è chiamata, c’è<br />
risposta. E <strong>qui</strong>ndi c’è Parola, Lovgo~, Spirito. Ma anche legame.<br />
Questa chiamata all’interiorità è il senso più profondo dell’attualismo<br />
13 , figlio del Cristianesimo; e l’idealismo moderno poteva svilupparsi<br />
solo in un tale contesto storico, e non certo altrove e altrimenti. In un<br />
contesto nel quale il lavoro, nato come dannazione, diventa redenzione<br />
del mondo, perché il Lovgo~ vi opera con gli uomini e attraverso gli uomini.<br />
Questa concretezza che fa dire Io, e fa giudicare il mondo, perché lo<br />
impegna moralmente al proprio perfezionamento e, dunque, al perfezionamento<br />
del mondo – dove nel “dunque” è espressa la relazione causale e<br />
non già la contiguità temporale – questa concretezza è l’uomo. L’uomo<br />
che, in quanto soggetto, sa di dover riportare tutto quanto egli veda e<br />
senta al proprio pensiero. Questa la chiave di volta di tutto l’attualismo:<br />
non si pensa in astratto, ma si pensa sempre un oggetto, il quale non sarebbe<br />
senza un soggetto che lo pensi. E un soggetto che non pensi qualcosa<br />
non può essere 14 . Perché? Perché pensare è creare, è la <strong>vita</strong> dello spirito<br />
che si fa pensato. Se non c’è pensato, non c’è <strong>vita</strong>. E anche la morte<br />
11 Cfr. SL1, p. 164.<br />
12 Cfr. Sal 114, 4-8.<br />
13 Cfr. SL2, p. 289-90.<br />
14 Cfr. TGS, p. 537 e p. 652.<br />
La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 43
44 Antonio Giovanni Pesce<br />
è, innanzi tutto, un pensato, perché senza atto del pensiero non è niente,<br />
non essendo, in quel caso, niente neppure il pensiero. Il pensiero – sia<br />
chiaro – di cui si può dire Io.<br />
Prima di analizzare l’intima dialettica e alcuni punti che si danno nella<br />
loro originalità speculativa, chiariamo subito: lo spirito, qual è concepito<br />
da Gentile, non arriva dopo – dopo la logica, dopo la natura. Lo spirito<br />
è prima, è la sintesi originaria, ed ecco perché c’è logica, che è sempre<br />
pensata da me che la penso, ed ecco perché c’è natura. Lo spirito è questa<br />
individualità concreta, storica, che pensa; questa individualità concreta<br />
che è soggetto che pensa «quella realtà spirituale» (la logica, la natura) che<br />
è «oggetto del nostro conoscere» 15 . È processo, dunque, ed è atto – l’atto<br />
supremo della <strong>vita</strong>, l’intimità più assoluta perché assoluta positività, che<br />
non può trovare negazione fuori di essa; l’intangibilità profonda dello<br />
spirito, che rende l’uomo vivente, e lo fa emergere dal nulla dell’incoscienza<br />
propria; è il sintagma Io sono; – dunque processo e atto, e non sostanza<br />
da contrapporre alla materia, giacché «il nostro spirito […] è solo<br />
spirito della nostra esperienza», dove l’esperienza è l’atto della <strong>vita</strong> e non<br />
il suo contenuto 16 .<br />
Questo intende Gentile, quando afferma che «il pensiero che è vero<br />
pensiero, deve generare l’essere di cui è pensiero» 17 . Egli intende che l’affermazione<br />
dell’Io rende logicamente secondario l’essere. Infatti, è solo dopo<br />
la mia affermazione come autocoscienza, che io prendo coscienza di essere<br />
io che penso, e di essere un ente distinto da tutti gli altri enti. Solo quando<br />
intendo di avere un mondo interiore, solo allora mi ricostruisco, con un atto<br />
di esistenza, la <strong>vita</strong>, e mi comprendo neonato, e nelle foto rivedo me<br />
stesso. Ma sono io, ora, che con un atto di pensiero mi rivedo nelle foto di<br />
ieri. Senza questo ora, che mi fa dire Io, io non sarei punto. Ma si ponga<br />
attenzione ad un nodo importante: è logicamente che il pensiero è prima<br />
dell’essere; è logicamente che io mi riconsegno a me stesso come pensiero<br />
che è. Logicamente, solo dopo l’atto del pensiero (pensante) che mi fa dire<br />
«io sono». Io non sono, se non mi penso, ma non mi posso pensare se<br />
15 Cfr. ivi, p. 470.<br />
16 Cfr. ivi, p. 477.<br />
17 TGS, p. 540.
non sono. Verrò pensato da altri, ma il nodo dell’autocoscienza, in cui io<br />
e il mio mondo siamo stretti in un vincolo indissolubile, non è più.<br />
Va riletta con passione una bella pagina del Sistema di logica che dice:<br />
Ma, in realtà, non c’è pensiero se non in quanto pensante, il quale non è oggetto<br />
di contemplazione, anzi, se mai, attività contemplante, e, come tale, vera e<br />
propria azione, produzione, creazione di essere. Quella creazione operosa, la cui<br />
fatica sente ognuno che pensa, e che logora le forze dell’individuo empirico non<br />
meno del rude lavoro di chi ara la terra, o di chi col piccone squarcia i fianchi<br />
dei monti, o doma le fiere selvagge, o solca i mari, o si leva alto per l’aria a fender<br />
con l’ale le nubi 18 .<br />
Il pensiero è, innanzi tutto, pensiero pensante 19 , è il «solido» 20 su cui,<br />
scendendo a terra, si mette il piede. E le vette su cui si planava prima non<br />
erano il regno dei cieli del santo – luogo solidissimo per chi lo esperisce –<br />
bensì le astrattezze dell’intellettualismo. Quale verità, tuttavia, è più certa<br />
di quel che ciascuno è in quanto autocoscienza?<br />
Ancora. Il pensiero come attività, in quanto tale, è relazione tra l’operatore<br />
e l’operato. Ora, in astratto, c’è un operatore e un operato, così come<br />
nella conoscenza c’è un soggetto e un oggetto. Ma se i due termini,<br />
invece, si danno nel loro reciproco e indissolubile rapporto, allora non c’è<br />
un termine e un altro, ma c’è la relazione che, per analisi, può in un secondo<br />
momento darci la molteplicità in seno all’unità. Questa unità intrascendibile<br />
sono io – unità che è sempre il solido di ogni altro pensiero.<br />
Ma non è unità immediata. È unità mediata. Unità che si dà – sempre in<br />
modo transitorio – solo dopo la dialettica di soggetto e oggetto.<br />
Soggetto, si è detto. Ma ogni soggetto «è sempre soggetto di un oggetto»,<br />
poiché si «costituisce soggetto del suo atto rispettivo» 21 . Questo è<br />
il punto, senza capire il quale – ci avvisa Gentile nello stesso brano – «si<br />
vuol cadere negli e<strong>qui</strong>voci grossolani di cui van gloriosi molti facili critici<br />
di questo idealismo». Soggetto del suo atto rispettivo: che vuol dire ciò? Lo<br />
spiega lo stesso filosofo, quando scrive che<br />
18 SL1, p. 93.<br />
19 Cfr. SL2, p. 58, e IF, p. 235.<br />
20 Cfr. Ivi, p. 102.<br />
21 TGS, p. 475.<br />
La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 45
46 Antonio Giovanni Pesce<br />
nella stessa autocoscienza il soggetto oppone sé come oggetto a sé come soggetto;<br />
e se nel soggetto è l’attività della coscienza, l’oggetto suo, nella stessa autocoscienza,<br />
gli si oppone come negazione della coscienza, ossia come realtà inconsapevole<br />
22 .<br />
È nella stessa autocoscienza che si dà la dialettica, perché questa autocoscienza<br />
sono io, ma io che sono nel mio rapporto con ciò che sono stato.<br />
Infatti, il soggetto<br />
è attività, ricerca, movimento verso l’oggetto; e l’oggetto, sia che si consideri come<br />
oggetto di scoperta e di conoscenza attuale, è inerte, sta 23 .<br />
Che l’attualismo, dietro l’apparente corazza del linguaggio hegeliano,<br />
nascondesse la <strong>vita</strong> pulsante dell’interiorità umana, è anche provato da<br />
una pagina del Sommario nella quale si può leggere che<br />
ogni uomo, si badi bene, non è per natura uomo. Nessuno di noi è niente: e<br />
per essere uomo non significa godersi una prerogativa naturale, o magari serbar<br />
pura ed intatta la dignità della nascita. Esser uomo importa un’attività positiva.<br />
La quale non si può concepire nella sua singolare attuosità finché si ricorra con<br />
l’immaginazione ad analogie con i movimenti fisici esteriori, dove pur sembra si<br />
spieghino certe energie 24 .<br />
Non è il caso di descrivere tutto il dispiegarsi dell’autocoscienza. Qui,<br />
semmai, c’è da soffermarsi sul suo primordiale (e dialettico) emergere.<br />
Tuttavia, è importante notare come l’attualismo non faccia salti e che,<br />
seppur non pensato dall’inizio tutto come aveva da essere, è stato pensato<br />
seguendone una linea ben chiara. La logica della <strong>vita</strong>, cioè l’esplicazione<br />
esistenziale del profondo: questo l’attualismo dalle prime opere alle ultime,<br />
senza mai farsi mancare diversità di toni. Lo scrisse il giovanissimo attualista,<br />
commentando Marx, che la logica hegeliana non era affatto un platonismo<br />
ma la logica del vivente 25 . E, appena affermatosi come docente,<br />
riformò la dialettica del filosofo di Stoccarda, al fine di cancellarne i resi-<br />
22 Ivi, p. 485.<br />
23 Ivi.<br />
24 SP2, p. 45.<br />
25 Cfr. FM, pp. 204, 214, 216-7, 219, 223-4.
La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 47<br />
Matisse, La musica, 1909-1910, olio su tela, 260 × 389 cm,<br />
San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.<br />
dui di intellettualismo. Nel Sommario di pedagogia, poi, c’è tutta la dottrina<br />
dell’attualismo, anche se la Teoria generale dello spirito, il Sistema di<br />
logica e Genesi e struttura della società, pur nella sintesi dell’impianto,<br />
pongono accenti diversi per analizzare momenti diversi: l’Io (il concreto,<br />
il soggetto), il non-Io (l’astratto, l’oggetto), il loro reciproco (e in parte<br />
temporale) darsi.<br />
Sotto la terminologia apparentemente algida si nasconde, come il grano<br />
sotto la neve d’inverno, la descrizione dell’intimità umana, la quale,<br />
proprio perché non è data in modo immediato, bensì mediatamente –<br />
cioè è pensata – non poteva essere discussa con metafore prese in prestito<br />
dalla poesia, o con vaghi filosofismi coniati con l’ausilio di una personale<br />
filologia. E questo pensamento è il pensiero dello sviluppo dell’esistenza.<br />
Lo si capisce leggendo il sesto capitolo, dedicato all’autosintesi, del Sistema<br />
di logica. Brano tra i più importanti del pensiero gentiliano, poiché la<br />
classicità del filosofo si fa evidente, sapendo saldare la ricerca sapienziale<br />
degli antichi con la speculazione teoretica dei moderni. Socrate insomma
48 Antonio Giovanni Pesce<br />
ed Hegel; ed entrambi, ciascuno coi propri strumenti, intenti a descrivere<br />
la realtà, quella realtà che si nasconde in interiore homine. «Conosci te<br />
stesso» – certo, ma questa conoscenza non si riscontra soltanto quando ci<br />
si astrae dalle cose che ci circondano, pure nel concetto che l’uomo si fa<br />
delle cose stesse: chi intende le cose intende se stesso, poiché «un autonoema<br />
che non sia noema è vuoto ed assurdo». E non potrebbe essere che<br />
così, poiché il noema è il fermo immagine dell’autonoema, l’anima in un<br />
determinato momento e non già nell’eternità del proprio atto 26 . Distinzione<br />
sì, ma solo all’interno dell’Io:<br />
L’Io […] è interna specchialità: ma l’immagine che torna dallo specchio non è<br />
quella che va allo specchio da chi vi si rimira. Questa alterità, che è la radice<br />
dello sdoppiamento dell’Io in Io e non-Io, e cioè dell’organizzarsi di un mondo<br />
di cose di fronte all’attività autocosciente, è pur la radice da cui germoglia perciò<br />
in un medesimo slancio di <strong>vita</strong> l’atto noetico e l’atto autonoetico come un<br />
atto solo 27 .<br />
Qui si consuma il dramma profondo della modernità, che vuole ciò<br />
che non potrà mai avere, poiché l’assoluta immanenza, che neghi ogni<br />
possibile trascendenza, è una mera chimera. Certo, c’è trascendenza e trascendenza,<br />
e quando il mistico dice Dio, è pur sempre lui – il mistico –<br />
che lo dice. E quando Dio appare a Mosé nel roveto, c’è Dio che parla e<br />
c’è Mosè che ascolta. Ma la trascendenza fa capolino proprio dentro i reconditi<br />
anfratti dell’uomo: la trascendenza costituisce la cifra dello spirito<br />
umano. Spirito a cui non è negata alcuna esperienza, ma pur sempre di<br />
spirito si tratta.<br />
Se si è, e ci si può affermare, non ci si può più negare, se non con un<br />
altro atto di affermazione. Il bene, se è bene, annulla sempre il male. E<br />
l’affermazione sarà comunque l’ultima parola dello spirito, quantunque,<br />
non essendo mai immediata, essa proceda oltre ogni negazione. La trascendenza<br />
è, dunque, scoperta nell’intimo della profonda immanenza,<br />
nell’intimità dell’autocoscienza. Ed è questo l’immanentismo intelligente<br />
di cui parla Gentile; quell’immanentismo che non nega uno dei due ter-<br />
26 Cfr. SL2, p. 87.<br />
27 Ivi.
La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 49<br />
mini, perché è immanenza che recupera la trascendenza 28 . Quella di Gentile<br />
è una trascendenza cristiana, poiché non è più pensabile una trascendenza<br />
tout court, dopo l’avvento del Cristianesimo 29 .<br />
Tra Aristotele e Nietzsche, è il primo ad avere ragione: per vivere da<br />
soli, bisogna essere davvero o un Dio, cioè l’assoluta pienezza dell’autocoscienza,<br />
o un animale, l’assoluta assenza 30 . Il filosofo, se è uomo, sarà<br />
sempre accompagnato da se stesso, e instaurerà, anche nel suo eremo o<br />
nel chiuso della sua stanza, un dialogo con se stesso in quanto pensante e<br />
con la storia (innanzi tutto, con se stesso qual è stato, con la sua personale<br />
storia dunque). Non si basterà mai, mai si troverà completamente, e sempre<br />
si cercherà.<br />
La chiarezza dell’immanenza è il riflesso della luce della trascendenza.<br />
È l’unità che germina la nostra persona, ciò che noi siamo e sempre diveniamo.<br />
Se è chiaro questo rapporto, può diventare chiaro e come nasca la<br />
persona e che rapporto ci sia tra due concetti importanti nell’attualismo:<br />
tra l’Io trascendentale e l’io empirico. In effetti, è questa la dialettica dalla<br />
quale si forma il nostro mondo interiore, che è nostro, quel luogo dove ci<br />
troviamo perché vi è radicata la nostra esperienza esistenziale. È una distinzione<br />
che nasce in Kant, e che Gentile aveva conosciuto anche tramite<br />
il suo studio su Rosmini, e vi aveva saputo scorgere la preoccupazione<br />
dei due<br />
di garantire all’elemento formale e però costitutivo del sapere un valore superiore<br />
al soggetto inteso come soggetto finito 31 .<br />
Pian piano, però, egli riesce ad impadronirsi di questi concetti e a riformularli<br />
in modo assai originale. Kant non ha saputo cogliere la reale<br />
portata del suo concetto di Io trascendentale; e Berkeley ha trasceso il<br />
pensiero finito in modo errato, anche se giustificato. C’era da dare una risposta<br />
a come e da dove si generi questo pensiero, ma il dualismo in cui rimane<br />
impigliato il filosofo inglese, e perfino quello tedesco, non riesce a<br />
28 Cfr. IF, p. 108.<br />
29 Cfr. IF, pp. 250-1.<br />
30 Cfr. F. W. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Roma, Newton Compton editori, 1994, p. 34.<br />
31 Cfr. FFD, pp. 19-20.
50 Antonio Giovanni Pesce<br />
dare conto del reale valore di questa scoperta. Il modo c’è, basti pensare a<br />
questa distinzione nel seno dello spirito:<br />
In ogni atto del nostro pensiero, e in generale nel nostro pensiero, noi dobbiamo<br />
distinguere due cose: da una parte, quello che pensiamo; e dall’altra parte,<br />
noi che pensiamo quello che pensiamo, e che non siamo perciò oggetto, ma<br />
soggetto di pensiero 32 .<br />
Questo è il trascendentale, e si noti questo, che è trascendentale, che<br />
cioè impone di considerare il pensare non come atto compiuto, bensì come<br />
atto in atto, pura azione 33 . Noi possiamo pensarci, ma noi che pensiamo<br />
non siamo coglibili se non come riflesso – come coscienza che torna<br />
su se medesima; come autocoscienza. E, poco più avanti del passo già citato,<br />
Gentile è chiaro nel negare che si possa oggettivare l’Io, «la nostra<br />
stessa attività interiore», poiché «la vera attività pensante non è quella che<br />
definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce» 34 . Pensiero di pensiero –<br />
ma il genitivo è soggettivo.<br />
Questo Io trascendentale, che ci forma senza poter essere formato, è la<br />
<strong>vita</strong> della coscienza, del nostro intimo. Qui sta la sorgente – sorgente infinita.<br />
È il pozzo di san Patrizio che non ha mai fondo, perché averne uno<br />
significherebbe banalizzare la <strong>vita</strong> che sgorga. Qui il mistero? Non è proprio<br />
mistero, se per mistero intendiamo il cadere nell’abisso dell’irrazionale.<br />
Anzi, è tutt’altro, perché è la razionalità del Tutto che viene facendosi<br />
in noi, e che è noi stessi. Ma è pure mistero, perché è <strong>vita</strong> vivente, e<br />
non già <strong>vita</strong> vissuta, e dunque non può mai essere de-finita, perché esserlo<br />
significherebbe fine, stasi, conclusione. Morte insomma. E la mia morte<br />
non è la fine della <strong>vita</strong>, bensì la fine della mia esperienza della <strong>vita</strong>, della<br />
mia persona ma non di ciò che l’ha germinata. La realtà dell’Io trascendentale<br />
«importa pure» quella dell’empirico 35 , ma permane in me quella<br />
«Persona che non ha plurale» 36 . In questa Persona noi siamo, e siamo uniti:<br />
non un accordarsi, ma c’è accordo dopo, perché c’è un accordo a prio-<br />
32 TGS, pp. 462-3.<br />
33 Ivi.<br />
34 Ivi, p. 464.<br />
35 Cfr. ivi, p. 472.<br />
36 Cfr. ivi, p. 471.
i. Si comprendono le epoche tra loro, i popoli tra loro, e tra loro anche<br />
le persone – ci comprendiamo anche nel disaccordo, e c’è disaccordo proprio<br />
perché, innanzi tutto, c’è accordo – proprio perché l’unità che si raggiunge<br />
è l’esperienza viva di quella viva unità che genera l’esperienza.<br />
Quest’autocoscienza è somma autocoscienza, perché l’Io non è un<br />
qualsiasi Io, ma «l’Io in quanto (quatenus) Io: l’io che si fa, in quanto si<br />
fa» 37 . Ovviamente, se l’Io trascendentale genera l’esperienza, e l’esperienza<br />
rende certo l’Io trascendentale, allora anche il genio, l’artista, il poeta, che<br />
sembra tutto chiuso nel suo mondo e nel suo intelletto, in verità si alimenta<br />
della <strong>vita</strong> del suo popolo, della sua lingua, della sua storia 38 . Ma ciò<br />
è possibile, perché è costitutivo della realtà, perché il trascendentale, come<br />
orizzonte storico del formarsi della mia coscienza, è generato dall’impossibilità<br />
per qualsiasi umano di pensare se stesso senza il presupposto della sua<br />
affermazione. Presupposto logico e non già temporale, poiché io scorgo la<br />
<strong>vita</strong> che dentro mi zampilla, solo quando bevo dell’acqua che mi dona.<br />
Solo in questo rapporto tra <strong>vita</strong> della coscienza (Io trascendentale) e coscienza<br />
della <strong>vita</strong> (io empirico), si genera la persona, cioè l’individuo concreto,<br />
colui cioè che crede, spera, ama, ha coscienza della sua affermazione.<br />
Vita ed esistenza è l’endiadi in cui è data la persona concretamente<br />
concepita. Non ci sarebbe esistenza senza la <strong>vita</strong> che la alimenta, né <strong>vita</strong><br />
senza l’esistenza che la esperisce. L’alito di Dio, insomma, è in noi, ma la<br />
differenza non è abissale nell’analogia spirituale: Dio esperisce, infatti,<br />
tutta quanta la <strong>vita</strong>, in lui vi è perfetta coincidenza di essere ed esistere.<br />
Nell’uomo no. Questa è la sua vera debolezza ontologica, ché non può<br />
esperire tutta l’eternità (o totalità) della <strong>vita</strong>. E l’essere gli è dato solo nella<br />
mediazione esistenziale.<br />
L’Io trascendentale, che «è questo principio come attività intuitiva e<br />
categorizzante», forma l’esperienza 39 . Per questo, non è mai da confondere<br />
«con la mia personalità determinata, empirica» 40 , ma senza considerarlo<br />
un’astrattezza – tutt’altro.<br />
37 SL2, p. 223. Corsivo nel testo.<br />
38 Cfr. ivi, p. 228.<br />
39 Cfr. IF, p. 89.<br />
40 Cfr. ivi, pp. 251-2.<br />
La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 51
52 Antonio Giovanni Pesce<br />
Questo pensiero insomma è il Pensiero, o pensiero universale, cioè l’unico ed<br />
infinito: quel pensiero divino, che dà a tutti la forza di aprire la bocca; che è, in<br />
verità, l’atto più coraggioso che l’uomo sia capace di compiere 41 .<br />
Abbiamo detto che questo uomo non può esperire tutta quanta la <strong>vita</strong>,<br />
non già che egli non abbia un’anima, e un’anima che sia quella della<br />
religione positiva. Gentile si occupò anche del problema dell’immortalità.<br />
E anche in questo caso, mentre sembrò confermare le accuse di misticismo,<br />
dall’altro si attirò quelle di chi in quelle riflessioni non vedeva altro<br />
che un catechismo (eretico, ovviamente). Sia chiaro: dev’essere ancora<br />
ben studiato il problema, e se la soluzione gentiliana sia compatibile col<br />
magistero della Chiesa 42 . Ciò non può, tuttavia, essere tralasciato, anche<br />
perché importa di alcuni luoghi della nostra attuale discussione. In sunto,<br />
come ci si guadagna l’immortalità? Morendo. Morendo continuamente a<br />
se stessi. Paradosso? No, almeno per chi ha seguito lo svolgimento dell’attualismo<br />
fin <strong>qui</strong>, perché morire a se stessi significa rigenerare continuamente<br />
la <strong>vita</strong> vissuta (il limite, il peccato, ecc.) in quella vivente, sciacquare<br />
nell’Arno della totalità i panni sporchi della propria condizione<br />
con-temporanea, perché essere contemporanei non è ancora essere attuali.<br />
Morire, per continuare a vivere, significa conoscere se stessi più in<br />
profondità 43 . E che si cela nella profondità? La Vita, «l’Io in quanto Io».<br />
Vive in eterno chi perde la <strong>vita</strong> per la Vita eterna. E la Vita eterna è continua<br />
con<strong>qui</strong>sta: «Siate perfetti, com’è perfetto il Padre vostro celeste» dice<br />
Gesù 44 . E questa Vita, poiché è la Vita, ed è essere e coscienza di es -<br />
41 Ivi, pp. 236-7.<br />
42 Sul fatto, invece, che Gentile fosse cattolico non vi è dubbio. Con buona pace di chi lo<br />
vuole negare (per un motivo o per un altro), Dio sceglie i suoi e non viceversa. E, ben che meno,<br />
possono essere gli altri (presunti) commensali ad indicare chi può sedere alla «tavola del Padre».<br />
Nessuno può toccare l’intoccabile: la profondità della coscienza, la veridicità dell’esperienza è intangibile<br />
ad altri che non alla <strong>vita</strong> stessa e all’esistenza che si esperisce. Dunque, Gentile morì dicendosi<br />
cattolico, e con buona fede pensò il cattolicesimo sotto le categorie della propria filosofia.<br />
Forse, volle pure rappresentare qualcosa di simile al tomismo, pensando che, in fin dei conti, questo<br />
non è nient’altro che una filosofia, pensamento di un’esperienza viva che è la Fede. Mentre è<br />
indubbio che l’attualismo non potrà rappresentare per la Chiesa ciò che ne rappresenta il pensiero<br />
di san Tommaso, tuttavia non è chiaro fino a che punto l’attualismo sia, per il magistero, del tutto<br />
falso, o in che parte. E non sarebbe una discussione sciocca da farsi.<br />
43 Cfr. GSS, pp. 165-71.<br />
44 Mt 5, 48.
La fenomenologia della coscienza in Giovanni Gentile 53<br />
sere, è Pensiero pensante, autocoscienza. E cos’è un’autocoscienza? Una<br />
Persona.<br />
Comunque, quel che vale è proprio il fatto che la mia persona è data<br />
da questa relazione dialettica tra l’eterno, che non si imbriglia, e il transeunte,<br />
che ne certifica l’essere. È l’attuale, è la persona che si fa, facendosi<br />
Persona 45 . La libertà di pensarsi nasce dalla necessità di non poter non<br />
pensare; la possibilità anche di negarsi nasce dall’impossibilità di non potersi<br />
non affermare:<br />
Quale personalità? La nostra […] Di ciascuno di noi e di tutti […] Di ciascuno<br />
in quanto in ciascuno l’Io non è quello molteplice dell’esperienza, sì quello trascendentale,<br />
che abbiamo detto unico e immoltiplicabile, e perciò universale:<br />
per guisa che in tutti, quanti sono stati o sono o saranno o si pensa che comunque<br />
possano essere, sia sempre quello, Briareo dalle infinite braccia, che tutti<br />
stringe al suo petto e trascina seco nel suo infinito cammino 46 .<br />
Leggiamo anche «di noi», e invece sarebbe solo «di tutti», se l’Io trascendentale<br />
fosse un mito, un presupposto da affermare semplicemente.<br />
Si afferma, ma si afferma nel suo rapporto con l’empiricità del suo esperirsi.<br />
L’uomo sarebbe completamente immanente a se stesso – senz’alcuna<br />
coscienza, e senz’alcuna responsabilità morale – se oltre all’io che esperisce,<br />
non vi fosse l’Io che vive, e che vive della legge eterna dello spirito 47 .<br />
La persona 48 consiste in questo affermarsi e negarsi per continuare ad<br />
affermarsi, perché «ad ogni istante nasce nell’uomo un uomo nuovo che è<br />
quello che conta» 49 . Persona è l’attività stessa di farsi persona: io mi faccio<br />
migliore, ma io non sono soltanto nell’io che fa, e che trascende il fatto,<br />
né tanto meno nel fatto medesimo, ma nell’attività che si fa facendosi. E<br />
quel tesoro che con<strong>qui</strong>stiamo, quello che banalmente chiamiamo «esperienza<br />
della <strong>vita</strong>» non è punto alienabile a favore delle future generazioni,<br />
45 Cfr. SL2, pp. 349-50.<br />
46 Cfr. ivi, p. 91.<br />
47 Cfr. SP2, p. 175.<br />
48 Pur nella differenza di posizioni, dobbiamo molto a G. M. Pozzo, non fosse che per aver<br />
tracciato la strada da seguire e proposto talune idee che vanno ancora approfondite. In particolare,<br />
si legga Id, La «persona» nella concezione gentiliana¸ «Humanitas», 1953, pp. 1112-6.<br />
49 Cfr. SL2, p. 60.
54 Antonio Giovanni Pesce<br />
come si aliena l’orto o la bottega. È, invece, comunicabile nell’incontro<br />
con l’altro, che è sempre un incontro educativo.<br />
Si comprende, dunque, perché Gentile trovasse sterile la polemica nata<br />
su «Primato» 50 a proposito dell’esistenzialismo. Egli credeva – e ne aveva<br />
ben donde – di aver saputo dare ragione della concretezza umana, senza<br />
cadere in facili irrazionalismi. Vi aveva atteso tutta una <strong>vita</strong>, ripensando,<br />
tra l’altro, una nuova forma di metafisica, immanente alla trascendenza<br />
dello spirito in se medesimo. Un nuovo concetto dell’Assoluto 51 , che<br />
non si scopre o si architetta, bensì si incontra in quell’interiorità da cui si<br />
parte e verso cui bisogna continuamente tendere. Un Assoluto che è<br />
Amore 52 e che di amore fa vivere. E non dovrebbe stupire, dal momento<br />
che è proprio l’Amore «che move il sole e l’altre stelle».<br />
50 Cfr. G. Invitto, La presenza di Giovanni Gentile nel dibattito sull’esistenzialismo italiano,<br />
«Idee», 1995, n. 28-29, pp. 175-84.<br />
51 Su Gentile come distruttore degli assoluti, si tenga presente la lezione di E. Severino, riassumibile<br />
nella sua relazione tenuta al convegno di studi su Gentile, svoltosi a Roma nel maggio<br />
del 1994, i cui atti sono ora in AA. VV., Giovanni Gentile. La filosofia, la politica, l’organizzazione<br />
della cultura, Venezia, Marsilio, 1995 (per l’intervento di Severino si leggano le pp. 57-9). Per un<br />
approfondimento, si legga Attualismo e «serietà» della storia, in Gli abitanti del tempo. Cristianesimo,<br />
marxismo, tecnica, Roma, Armando, 1981, pp. 116-27. Simile la lettura di S. Natoli, Giovanni<br />
Gentile, filosofo europeo, Torino, Bollati Boringhieri, 1989 (soprattutto il primo capitolo). La lettura<br />
che <strong>qui</strong> si è data, pare più vicina a quella di Gustavo Bontadini, quale viene delineata da C. Vigna,<br />
Attualismo, problematicismo, metafisica, «Idee», 1995, n. 28-29, pp. 33-52. Infine, questi problemi<br />
sono stati affrontati con molta cura teoretica da G. Brianese, Gentile, Milano, Mursia, 1996,<br />
pp. 175-9.<br />
52 Cfr. TGS, pp. 466-7, e anche SP1, p. 19 e p. 183; SP2, pp. 42-3.
Giuseppe Pezzino<br />
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger<br />
La preMessa al Discorso ratZiNgeriaNo sul concetto di coscienza<br />
è costituita dall’attenta e lucida analisi di un drammatico quadro storico,<br />
che comprende sia la crisi dell’Occidente, in particolar modo dell’Europa,<br />
sia la crisi del Cristianesimo e della Chiesa.<br />
Sulla crisi dell’Occidente, Ratzinger si colloca – a buon diritto e con<br />
propria identità cristiana – in quel dibattito europeo che prese avvio agli<br />
inizi del Novecento e che continua sino ai nostri giorni1 . Un lungo dibattito,<br />
che costringe molti suoi protagonisti a fare i conti con un dilemma<br />
in<strong>qui</strong>etante: siamo di fronte alla temporanea eclissi della vecchia Europa<br />
o al suo definitivo tramonto? Se ci portiamo a ritroso fino agli inizi del<br />
Novecento, ci accorgiamo che quel secolo sembrava nascere sotto i più<br />
favorevoli auspici: l’onda lunga di un positivismo ormai invecchiato<br />
manteneva ancora in <strong>vita</strong> l’illusione ottimistica – tanto nobile quanto<br />
astratta – che la marcia trionfale della dea Scienza avrebbe non solo<br />
squarciato le tenebre dell’ignoranza e della superstizione, ma addirittura<br />
avrebbe gradualmente instaurato su questa terra il regno della libertà, della<br />
fratellanza, della pace. Ingenua illusione, questa, che purtroppo trascurerà<br />
e la corsa agli armamenti e il delirio nazionalistico e le brame imperialistiche<br />
di quei moderni Leviatani, che erano gli Stati europei agli inizi<br />
del Novecento.<br />
Così, mentre ancora l’Italia danzava al suono del festoso e fastoso Ballo<br />
Excelsior, che celebrava retoricamente la marcia trionfale del Progresso<br />
e della Fratellanza sulle macerie dell’Oscurantismo; mentre ancora l’Europa<br />
cullava il sogno comtiano dell’Amore, dell’Ordine e del Progresso; il<br />
1 Su ciò si veda, ad esempio, M. Pera e J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo,<br />
islam, Milano, Mondadori, 2005 3 .
56 Giuseppe Pezzino<br />
fiore della gioventù europea andava a morire nelle luride trincee della prima<br />
guerra mondiale. Una guerra – forse la più crudele del Novecento –<br />
le cui «gigantesche carneficine» papa Benedetto XV ebbe a condannare<br />
nettamente fin dal novembre 1914:<br />
Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto, e non v’è quasi altro<br />
pensiero che occupi ora le menti. Nazioni grandi e fiorentissime sono là sui<br />
campi di battaglia. Qual meraviglia perciò, se ben fornite, come sono, di quegli<br />
orribili mezzi che il progresso dell’arte militare ha inventati, si azzuffano in gigantesche<br />
carneficine? Nessun limite alle rovine, nessuno alle stragi: ogni giorno<br />
la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e feriti. E chi direbbe che<br />
tali genti, l’una contro l’altra armata, discendano da uno stesso progenitore, che<br />
sian tutte della stessa natura, e parti tutte d’una medesima società umana? Chi li<br />
ravviserebbe fratelli, figli di un unico Padre, che è nei Cieli? E intanto, mentre<br />
da una parte e dall’altra si combatte con eserciti sterminati, le nazioni, le famiglie,<br />
gli individui gemono nei dolori e nelle miserie, funeste compagne della<br />
guerra; si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e<br />
degli orfani; languiscono, per le interrotte comunicazioni, i commerci, i campi<br />
sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore,<br />
tutti nel lutto 2 .<br />
In verità, negli anni della guerra, accorato e costante fu l’appello di<br />
papa Giacomo Della Chiesa a deporre le armi e a fondare una «pace giusta<br />
e duratura». E soprattutto colpisce lo scenario catastrofico che questo<br />
Pontefice ebbe a disegnare – con spirito profetico e con lucida analisi dei<br />
fatti – per l’Europa che, al terzo anno di guerra, «travolta da una follia<br />
universale» stava correndo incontro ad «un vero e proprio suicidio»:<br />
Chi ha seguito l’opera Nostra per tutto il doloroso triennio che ora si chiude,<br />
ha potuto riconoscere che come Noi fummo sempre fedeli al proposito di assoluta<br />
imparzialità e di beneficenza, così non cessammo dall’esortare e popoli e<br />
Governi belligeranti a tornare fratelli, quantunque non sempre sia stato reso<br />
pubblico ciò che Noi facemmo a questo nobilissimo intento. Sul tramontare<br />
del primo anno di guerra Noi, rivolgendo ad Essi le più vive esortazioni, indicammo<br />
anche la via da seguire per giungere ad una pace stabile e dignitosa per<br />
tutti. Purtroppo, l’appello Nostro non fu ascoltato: la guerra proseguì accanita<br />
per altri due anni con tutti i suoi orrori: si inasprì e si estese anzi per terra, per<br />
2 Benedetto XV, Lettera Enciclica «Ad Beatissimi Apostolorum», 1 novembre 1914.
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 57<br />
mare, e perfino nell’aria; donde sulle città inermi, sui <strong>qui</strong>eti villaggi, sui loro<br />
abitatori innocenti scesero la desolazione e la morte. Ed ora nessuno può immaginare<br />
quanto si moltiplicherebbero e quanto si aggraverebbero i comuni mali,<br />
se altri mesi ancora, o peggio se altri anni si aggiungessero al triennio sanguinoso.<br />
Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l’Europa, così<br />
gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro<br />
ad un vero e proprio suicidio? 3<br />
Poi, come pietra tombale, sulla follia suicida della Grande Guerra calò<br />
l’opera di Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente. E fu in tutto il<br />
mondo il più diffuso segnale d’allarme; e in tutti gli strati sociali si fece<br />
spazio la trepidante coscienza di vivere in mezzo ad una violenta ed irreversibile<br />
crisi del mondo occidentale. Senza dubbio, non tutti i lettori del<br />
famoso libro di Spengler accettarono le sue tesi; nondimeno, molti di loro<br />
abbandonarono l’ottimistica fede nel progresso e si rassegnarono all’idea<br />
che la civiltà occidentale si avviava al definitivo tramonto.<br />
Finita la guerra, l’Europa scoprì ben presto la mala pianta delle dittature<br />
e dei totalitarismi; e si illuse di cogliere nuovi e saporiti frutti, proprio<br />
dove «non pomi v’eran, ma stecchi con tosco». E spirarono così i<br />
venti gelidi della Russia comunista, dell’Italia fascista e della Germania<br />
nazionalsocialista; e calò la nube di un imbarbarimento che, nel 1935, indusse<br />
un grande storico olandese, Johan Huizinga, a scrivere pagine molto<br />
belle e molto accorate contro la «demenza» europea che rischiava di<br />
precipitare in un irreversibile declino della civiltà:<br />
Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo. Nessuno si stupirebbe<br />
se, un bel giorno, questa nostra demenza sfociasse in una crisi di pazzia furiosa,<br />
che, calmatasi, lascerebbe l’Europa ottusa e smarrita […] Dappertutto il dubbio<br />
intorno alla durevolezza del sistema sociale sotto cui viviamo; un’ansia indefinita<br />
dell’immediato domani; il senso del decadimento e del tramonto della civiltà<br />
[…] Se si vuole che questa civiltà si salvi, che non decada a secoli di barbarie,<br />
ma anzi, salvando i supremi valori che sono il suo retaggio, trovi la via per giungere<br />
a nuova saldezza, è necessario che gli uomini d’oggi si rendano esatto conto<br />
di quanto sia già progredita la dissoluzione che li minaccia 4 .<br />
3 Benedetto XV, Dès le début. Esortazione apostolica ai Capi dei popoli belligeranti, 1 agosto<br />
1917.<br />
4 J. Huizinga, La crisi della civiltà, Torino, Einaudi, 1962, pp. 3-4.
58 Giuseppe Pezzino<br />
Nello stesso 1935, l’acuto intellettuale italo-tedesco Romano Guardini<br />
avvia un processo di riflessione critica che, prendendo le mosse dalla critica<br />
contro la “religione politica” rappresentata dal paganesimo nazista, si<br />
concluderà nel 1946, all’indomani della seconda guerra mondiale, con un<br />
esplicito atto di fede nel destino cristiano dell’Europa:<br />
Ci sarebbe ancor molto da dire. Da tutto risulterebbe che l’Occidente, l’Europa,<br />
ciò che essa è, lo è attraverso Cristo – una verità che Novalis ha proclamato<br />
nel 1799 nel Frammento, sostenuto da forza profetica, La cristianità o l’Europa.<br />
In questo non muta nulla neanche il fatto che gli sviluppi determinanti dell’Europa,<br />
scientifici e culturali, politici ed economici si sono realizzati da tempo<br />
fuori del suo spirito o perfino in contraddizione con esso. Ancor nelle manifestazioni<br />
negative o contraddittorie continua ad operare la figura di Cristo. Se<br />
l’Europa si staccasse totalmente da Cristo – allora, e nella misura in cui questo<br />
avvenisse, cesserebbe di essere… A partire di <strong>qui</strong> la vicenda degli anni passati<br />
raggiunge un particolare significato 5 .<br />
In questo clima storico-culturale si colloca indubbiamente la preoccupata<br />
riflessione di Ratzinger sulla crisi dell’Occidente che, quasi in preda<br />
ad un funesto cupio dissolvi, non accetta più sé stesso, non ama più sé<br />
stesso, e, sempre pronto a chinarsi per accogliere e comprendere il diverso<br />
da sé, si erge invece a spietato e unilaterale e ingiusto giudice di sé medesimo.<br />
Appello forse all’Europa, per un’ottusa ed arrogante revanche? Tutt’altro.<br />
La necessità storica indicata all’Europa da Ratzinger consiste in<br />
una nuova accettazione di sé, sicuramente «critica ed umile», ma non pavida<br />
né priva di forza morale:<br />
C’è <strong>qui</strong> un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo<br />
come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi<br />
pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia<br />
vede ormai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo; mentre non è più in<br />
grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova<br />
– certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere<br />
6 .<br />
5 R. Guardini, Il Salvatore [nel mito, nella rivelazione e nella politica. Una riflessione politicoteologica],<br />
(1935-1946), in Opera Omnia, VI, Scritti politici, a cura di M. Nicoletti, Brescia, Morcelliana,<br />
2005, pp. 331-2.<br />
6 J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, in Senza radici. Europa,<br />
relativismo, cristianesimo, islam, cit., pp. 70-1.
Pertanto, nel vasto orizzonte della crisi dell’Occidente, si può parlare<br />
di tramonto della vecchia Europa, che non ha più identità, che ha distrutto<br />
il suo sistema di valori e che, avendo perduto il suo élan <strong>vita</strong>l sulla<br />
scena mondiale, sopravvive a sé stessa e spaccia il suo indifferentismo relativistico<br />
per il giardino della<br />
tolleranza, salvo poi a chiudersi<br />
miseramente negli egoismi<br />
nazionali e nei cavilli giuridici,<br />
quando masse di “stranieri”<br />
bussano alle sue porte.<br />
La vecchia Europa non solo<br />
ha perduto la sua propria<br />
identità – che indubbiamente,<br />
come qualunque identità,<br />
ha luci ed ombre, pregi e difetti<br />
–, ma addirittura confonde<br />
la cattiva coscienza di<br />
un primato o di una superiorità<br />
con la matura ed e<strong>qui</strong>librata<br />
coscienza, che affonda<br />
le radici nel proprio passato,<br />
per trarre vigore e lume nell’assumere<br />
un ruolo storico<br />
per il presente e per il futuro.<br />
Invero, accasciata sulla seg-<br />
giola del materialismo edonistico,<br />
l’Europa sembra banchettare<br />
notte e giorno al ta-<br />
volo di Pantagruele. E tutto in goia, e tutto consuma, e tutto lascia fluire<br />
indifferentemente, come il caradrio, un uccello che mentre mangia evacua,<br />
citato da Socrate per denunciare la condizione della polis opulenta e<br />
malata 7 . Torna pure alla mente la dura critica che Hans Jonas scagliò<br />
contro la Weltbild della modernità: il predominio del pensiero scientifico<br />
7 Gorgia, 494 b.<br />
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 59<br />
Matisse, La chioma, 1952, Papiers découpés,<br />
108 × 80 cm, collezione privata.
60 Giuseppe Pezzino<br />
e il correlativo sviluppo di una forma mentis scientista, negando valore e<br />
dignità ad ogni riflessione metafisica e, per conseguenza, riducendo la visione<br />
del mondo a mera fattualità, hanno reso impossibile una fondazione<br />
razionale della morale ed hanno aperto un varco all’irrazionalismo<br />
morale o all’antimoralismo. Da <strong>qui</strong> il paradosso denunciato da Jonas:<br />
mentre la scienza sta oggettivamente all’origine del relativismo morale, al<br />
contempo essa produce una condizione di emergenza planetaria tale da<br />
far reclamare con urgenza una morale all’altezza dei nostri tempi 8 .<br />
Un aspetto paradossale ed allarmante l’Occidente altamente tecnologizzato<br />
lo offre anche a Ratzinger: da un canto il mondo occidentale universalizza<br />
ed esporta il suo modello di <strong>vita</strong> e di pensiero, celebrando il<br />
trionfo della techne e della secolarizzazione, dall’altro si fa forte l’impressione<br />
che il sistema dei valori dell’Europa sia ormai un involucro vuoto.<br />
Io vedo <strong>qui</strong> – scrive Ratzinger – una sincronia paradossale: con la vittoria del<br />
mondo tecnico-secolare posteuropeo, con l’universalizzazione del suo modello di<br />
<strong>vita</strong> e della sua maniera di pensare, si diffonde, specialmente nei paesi strettamente<br />
non europei dell’Asia e dell’Africa, l’impressione che il sistema di valori<br />
dell’Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto<br />
alla fine e sia anzi già uscito di scena; che sia giunta l’ora dei sistemi di valori<br />
di altri mondi, dell’America precolombiana, dell’islam, della mistica asiatica 9 .<br />
Malgrado la sua potenza politico-economica, l’Europa ha perso la sua<br />
identità e mantiene in <strong>vita</strong> un sistema di valori ormai ridotto ad una larva.<br />
E <strong>qui</strong> è d’obbligo, per Ratzinger, un richiamo all’antico impero romano<br />
che, pur ancora poderoso e temibile, aveva ormai esaurito la sua energia<br />
storica, aveva perso l’anima, e s’illudeva di averla ritrovata nei modelli<br />
che invece contribuiranno a distruggerlo:<br />
C’è una strana mancanza di voglia di futuro. I figli, che sono il futuro, vengono<br />
visti come una minaccia per il presente. Ci portano via qualcosa della nostra <strong>vita</strong>,<br />
così si pensa. Non vengono sentiti come una speranza, bensì come una limitazione.<br />
Il confronto con l’Impero Romano al tramonto si impone: esso funzio-<br />
8 Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi,<br />
1993.<br />
9 J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, cit., p. 59.
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 61<br />
nava ancora come grande cornice storica, ma in pratica viveva già di quei modelli<br />
che dovevano dissolverlo, aveva esaurito la sua energia <strong>vita</strong>le 10 .<br />
Ma torniamo piuttosto al problema della techne e della mentalità<br />
scientista, perché la loro diffusione costituisce, per Ratzinger, una delle<br />
cause dell’affievolimento della fede cristiana in Europa. Invero, la scienza<br />
e la moderna Weltbild creata dalla scienza hanno declassato la religione<br />
cristiana a manifestazione non razionale, a puro e semplice mito da tollerare,<br />
se non addirittura da combattere, perché fonte di dogmatismo e di<br />
intolleranza. A questo nemico pericolosissimo i cristiani hanno reagito<br />
inadeguatamente. E, a tal riguardo, netto e severo si fa il richiamo di Ratzinger<br />
alla Chiesa e alla sua teologia che «hanno sprecato troppo tempo<br />
in piccole schermaglie di retroguardia, dibattendo su dettagli, e non si sono<br />
abbastanza impegnate nel porre le domande di fondo» 11 .<br />
E le «domande di fondo», in quanto tali, non possono non avere una<br />
natura s<strong>qui</strong>sitamente filosofica e teologica, che <strong>qui</strong>ndi spiazza la “scienza”,<br />
costringendola a lasciare i suoi domìni, ad uscire in campo aperto e a<br />
fare i conti con gravissime questioni, che pretendono risposte da una razionalità<br />
“non scientifica”. Su questa base, portando il confronto nel<br />
campo aperto di una razionalità non scientista, si può avere la convergenza<br />
di laici e cattolici:<br />
La Chiesa e la sua teologia hanno sprecato troppo tempo in piccole schermaglie<br />
di retroguardia, dibattendo su dettagli, e non si sono abbastanza impegnate nel<br />
porre le domande di fondo: Che cos’è la rivelazione? In che modo combaciano<br />
la rivelazione che parte da Dio e l’elaborazione della storia umana? Come si manifesta<br />
nella lunga via della storia, con tutti i suoi travagli, la guida di un Altro,<br />
che agisce in questa storia e crea qualcosa di nuovo che non può scaturire dall’agire<br />
dell’uomo stesso nella storia?<br />
Nel confronto con la scienza e nel dialogo con i filosofi dell’età moderna deve<br />
riaffacciarsi la questione di fondo su che cos’è che tiene insieme il mondo. È la<br />
materia che crea la ragione, è il puro caso che produce il significato, oppure sono<br />
l’intelletto, il logos, la ragione che vengono prima, così che la ragione, la li-<br />
10 Ivi, p. 60.<br />
11 J. Ratzinger, Lettera a Marcello Pera, in Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo,<br />
islam, cit., p. 115.
62 Giuseppe Pezzino<br />
bertà e il bene fanno già parte dei principi che costituiscono la realtà? Una valida<br />
religione civile comporterà anche il non concepire Dio come un’entità mitica,<br />
ma come una possibilità della ragione, come la Ragione stessa che precede e<br />
che rende possibile che la nostra ragione cerchi di riconoscerla. Credo che lo<br />
sforzo per ac<strong>qui</strong>sire un’immagine del mondo basata sullo spirito e sul senso […<br />
] sia una grande sfida comune per cattolici e laici 12 .<br />
Ma, a considerare la crisi della coscienza europea dal punto di vista<br />
morale, due sono le dottrine che, secondo Ratzinger, hanno prodotto un<br />
antimoralismo che scuote ed avvelena l’Europa e lo stesso destino del cristianesimo<br />
nel vecchio continente: il nietzschianismo e il marxismo. Sulla<br />
“religione” nietzschiana, alto e forte è l’appello di Ratzinger rivolto a laici<br />
e cattolici – anche ai cattolici che hanno “scoperto” il “vero” Nietzsche –<br />
a riaffermare autentici ed universali ed eterni valori di umanità, di libertà,<br />
di bellezza e di bene, contro stolte dottrine che si fanno religioni del nulla<br />
e della morte.<br />
La prima causa [di crisi della fede cristiana in Europa] è stata introdotta da<br />
Nietzsche quando disse: “Il Cristianesimo è sempre stato attaccato finora in un<br />
modo… sbagliato. Finché non si percepisce la morale del cristianesimo come<br />
crimine capitale contro la <strong>vita</strong>, i suoi difensori avranno sempre gioco facile. La<br />
questione della verità del cristianesimo… è una cosa del tutto secondaria finché<br />
non viene affrontata la questione del valore della morale cristiana”. Qui abbiamo<br />
veramente a che fare, a mio parere, con le ragioni decisive dell’abbandono<br />
del cristianesimo: il suo [del cristianesimo] modello di <strong>vita</strong>, come è chiaro, non<br />
convince. Sembra che limiti l’uomo in tutto, che guasti la sua gioia di vivere,<br />
che limiti la sua libertà così preziosa e lo conduca non al largo – come dicono i<br />
Salmi – ma nell’angustia, nello stretto. Si può rilevare che qualcosa di simile accadde<br />
già nell’antichità quando i rappresentanti del potere statale romano lanciarono<br />
il seguente appello ai cristiani: tornate alla nostra religione; la nostra religione<br />
è gioiosa, abbiamo feste, gozzoviglie e divertimenti, e voi credete in uno<br />
che è stato crocifisso. All’epoca i cristiani riuscirono a dimostrare in modo persuasivo,<br />
quanto i divertimenti del mondo degli dei fossero vuoti e insipidi, e<br />
quale altezza regala la fede in quel Dio che soffre con noi e ci porta sulla via della<br />
vera grandezza. Oggi è della massima urgenza mostrare un modello cristiano<br />
di <strong>vita</strong> che offra un’alternativa vivibile ai divertimenti sempre più vuoti della so-<br />
12 Ivi, pp. 115-6.
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 63<br />
cietà del tempo libero, che deve fare sempre più ricorso alla droga perché è sazia<br />
dei miseri piaceri abituali 13 .<br />
Non meno severo è il giudizio di Ratzinger nei confronti dell’esperienza<br />
storica comunista e della correlativa dottrina marxista, in riferimento<br />
al vero e proprio collasso morale di vastissime aree dell’Europa,<br />
che hanno sperimentato e vantato l’inaridimento delle anime:<br />
I sistemi comunisti sono naufragati per il loro fallace dogmatismo economico.<br />
Ma si trascura troppo volentieri la parte avuta dal disprezzo dei diritti umani,<br />
dalla subordinazione della morale alle esigenze del sistema e alle promesse di futuro.<br />
La più grande catastrofe che hanno incontrato non è di natura economica;<br />
essa consiste nell’inaridimento delle anime, nella distruzione della coscienza<br />
morale.<br />
Il problema essenziale della nostra ora per l’Europa e per il mondo è che, se da<br />
un lato si riconosce la fallacia dell’economia comunista, tanto che gli ex comunisti<br />
sono diventati senza esitazione liberali in economia, dall’altro la questione<br />
morale e religiosa […] viene quasi completamente rimossa. Così il nodo irrisolto<br />
del marxismo continua a esistere anche oggi: il dissolversi delle originarie certezze<br />
dell’uomo su Dio, su se stessi e sull’universo. Il declino di una coscienza<br />
morale basata su valori inviolabili è ancora il nostro problema e può condurre<br />
all’autodistruzione della coscienza europea, che dobbiamo cominciare a considerare<br />
– al di là del tramonto previsto da Spengler – come un reale pericolo 14 .<br />
Marx e Nietzsche, dunque. Sul nietzschianismo e sul marxismo, come<br />
due delle principali cause della moda antimoralista e anticristiana, Ratzinger<br />
scrive pagine indirizzate a cattolici e laici, pagine che si collocano<br />
degnamente nel solco tracciato da alcuni grandi intellettuali europei del<br />
Novecento. Si pensi, ad esempio, che già nel 1908, un pensatore laico come<br />
Benedetto Croce, ebbe a indicare, mutatis mutandis, le stesse due cause<br />
dell’antimoralismo dilagante in Europa:<br />
Niente sembrerà dunque più stolto dell’antimoralismo in voga ai giorni nostri,<br />
triste risonanza di malsane condizioni sociali e di dottrine unilaterali e malintese<br />
(marxismo, nietzschianismo). L’antimoralismo può essere giustificato come<br />
13 Ivi, pp. 113-4.<br />
14 J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, cit., p. 66.
64 Giuseppe Pezzino<br />
polemica contro l’ipocrisia morale e in favore della moralità effettiva contro<br />
quella parolaia; ma perde ogni significato e giustificazione quando, gonfiando<br />
frasi vuote o combinando proposizioni contraddittorie, si argomenta di predicare<br />
contro la moralità stessa. Crede esso di celebrare in tal guisa la forza, la salute,<br />
la libertà; e vanta invece la servitù alle passioni sbrigliate, l’apparente floridezza<br />
del malato e la forza apparente del maniaco. La moralità (non dispiaccia<br />
agli antimoralisti letterarî), non che fisima da pedante o consolazione da impotente,<br />
è il sangue buono contro il sangue guasto […] Soprattutto quest’ufficio<br />
di simbolo etico idealistico, quest’affermazione che l’atto morale è amore e volizione<br />
dello Spirito in universale, si osserva nell’Etica religiosa e cristiana, nell’Etica<br />
dell’amore e della ricerca ansiosa della presenza divina: così misconosciuta<br />
e bistrattata oggi, per angusta passione di parte o per manco di finezza mentale,<br />
dai volgari razionalisti e intellettualisti, dai cosiddetti liberi pensatori e da<br />
simile genía, frequentatrice di logge massoniche. Non c’è quasi verità dell’Etica<br />
[…] che non si possa esprimere con le parole, che abbiamo apprese da bambini,<br />
della religione tradizionale, e che ci salgono alle labbra come le più alte, le più<br />
appropriate, le più belle: parole, di certo, ombrate ancora di mitologia, ma gravi<br />
insieme di un contenuto profondamente filosofico 15 .<br />
Negli anni Trenta, Johan Huizinga denuncia un «universale infiacchimento<br />
del principio morale» e avverte che «la legge morale cristiana<br />
per infiniti individui ha cessato di avere un preciso valore impegnativo» 16 .<br />
Quali, per Huizinga, le cause della crisi del sistema morale cristiano? Accanto<br />
al freudismo, riappaiono il marxismo e il nietzschianismo. Addirittura,<br />
oltre a questi tre particolari e definiti soggetti dell’antimoralismo, il<br />
grande storico olandese denuncia una corrente più vasta, più anonima,<br />
ma non meno nefasta: l’immoralismo filosofico, che esercita effetti diretti<br />
solo su ambiti ristretti, ma che si espande per vie indirette su una vasta<br />
area di demi-savants superficiali e conformisti.<br />
L’immoralismo filosofico, s’intende, esercita un effetto diretto solo in limitati<br />
ambienti. Tanto più vasti sono i suoi effetti indiretti. Poiché gli uomini sono<br />
pecore, a molti basta sapere che certi filosofi negano ogni fondamento alla morale,<br />
per conchiudere che certo questa morale non deve valere un bel niente 17 .<br />
15 B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed Etica, Bari, Laterza, 1963, pp. 306-8.<br />
16 J. Huizinga, La crisi della civiltà, cit., p. 84.<br />
17 Ivi, pp. 84-5.
Pare proprio che Huizinga si riferisca all’opera di volgarizzazione –<br />
opera tanto entusiastica quanto superficiale –, che alla fine dell’Ottocento<br />
effettuarono tantissimi «mediocri imbecilli» sulla dottrina del «filosofopoeta»<br />
Nietzsche, il cui pensiero, «nato dalla disperazione», si smarrì per<br />
via senza giungere mai alla casa della pura speculazione filosofica:<br />
C’è qualcosa di tragico nel fatto che l’odierna degenerazione dell’ideale eroico<br />
sia partita dalla superficiale ondata d’entusiasmo per la filosofia nietzschiana,<br />
che intorno al 1890 si diffuse in ambienti più vasti. Così il pensiero del filosofopoeta,<br />
nato dalla disperazione, si smarrì per via prima di aver raggiunto le dimore<br />
della speculazione pura. Tutti i mediocri imbecilli della fine del secolo<br />
parlarono di “superuomo”, come se fosse stato un loro fratello maggiore18 .<br />
Fin troppo scontata, per Huizinga, la netta condanna del marxismo<br />
nei suoi mortali effetti a danno della morale. Piuttosto, lo storico olandese<br />
riserva considerazioni acute e severe sugli effetti devastanti del freudismo<br />
nei confronti della morale e, soprattutto, del cristianesimo. Più affascinante,<br />
raffinato e sofisticato del marxismo, il freudismo offre ad una<br />
vastissima platea di demi-savants quel miracoloso passe-partout che serve a<br />
schiudere ogni uscio, che serve a fornire ad ogni tipo di problema la soluzione<br />
per antonomasia.<br />
Il freudismo, cui tanto fascino conferisce quell’apparato mitologico che desta<br />
così facilmente la consolante illusione di “essere finalmente giunti a comprendere”,<br />
per le generazioni venute su dall’inizio del novecento è stato senza dubbio<br />
un formidabile ingoiatore di certezze morali, che tutte seppe annullare sul<br />
suo facile concetto di “sublimazione”.<br />
Benché consenta le possibilità di una certa indipendenza spirituale, il freudismo<br />
è in realtà molto più anticristiano della morale marxistica. Con l’insistere sugli<br />
impulsi infantili posti a base dell’intera <strong>vita</strong> dell’anima e dello spirito, esso, per<br />
servirmi di un’espressione cristiana, subordina la virtù al peccato, e dalla carnalità<br />
fa sgorgare le rivelazioni supreme. Ma questo che importa a una generazione<br />
morta ormai interamente alla filosofia cristiana, e che sull’estensibile concetto<br />
della libido sa eseguire dei virtuosismi come su una fisarmonica?<br />
Ripeto: l’autore di queste pagine non si permette <strong>qui</strong> un giudizio sui meriti della<br />
psicanalisi come ipotesi scientifica o principio terapeutico. Ma come più sopra<br />
si è detto che il freudismo era una porta aperta all’indebolimento del livello<br />
18 Ivi, p. 105.<br />
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 65
66 Giuseppe Pezzino<br />
critico nel campo intellettuale, si può ritenere con sicurezza che esso abbia cooperato<br />
assai a distruggere le basi di una morale fondata sulla coscienza e su ben<br />
formulate convinzioni 19 .<br />
Tornando alle riflessioni di Ratzinger, bisogna riconoscere il merito<br />
che egli ha nel porre al centro della questione morale il concetto di coscienza,<br />
il suo approfondimento e la sua appropriata definizione, in ordine<br />
alla crisi che investe e cristiani e laici nel mondo occidentale. Egli<br />
prende le mosse dalla chiara consapevolezza che il dibattito sull’etica ruota<br />
attorno alla dialettica di libertà/necessità, di autonomia/eteronomia, di<br />
coscienza/autorità. Attorno a quest’asse dialettico, infatti, si sono misurate,<br />
in un incontro-scontro, tesi che, avendo affermato il primato della libertà<br />
nell’azione morale, respingono il concetto di necessità che si annida<br />
nell’obbligazione della norma; e tesi che, affermando il primato della legge,<br />
negano ogni effettiva libertà morale. E ancora: tesi che postulano una<br />
legge morale esclusivamente fondata e data dalla ragione; e tesi che considerano<br />
un errore di arroganza pretendere di fondare la legge morale sull’autonomia<br />
razionale. Da <strong>qui</strong> la contrapposizione fra una morale della<br />
coscienza ed una morale dell’autorità. Una contrapposizione che, avendo<br />
investito e il campo della filosofia morale e il campo della teologia morale,<br />
non può non ricadere sulla stessa Chiesa che vede, al suo interno,<br />
fronteggiarsi due modelli del cattolicesimo: uno, che spiega la fede cristiana<br />
a partire dalla libertà; e l’altro, che assoggetta l’esperienza cristiana<br />
all’autorità, ossia ad un complesso di norme dettate dall’esterno.<br />
Nel primo modello di cattolicesimo, che potremmo definire “postconciliare”,<br />
si ha il primato della coscienza e della libertà nell’attività morale;<br />
nel secondo modello, che potremmo definire “pre-conciliare”, si ha<br />
il primato dell’autorità che s’identifica col Magistero della Chiesa e con<br />
tutte le norme morali che dall’alto discendono sull’individuo. Rispetto ai<br />
due modelli, netta è la posizione di Ratzinger a favore del primo modello,<br />
che offre una «comprensione rinnovata» della stessa essenza del cattolicesimo<br />
e del valore della libertà, laddove quello “pre-conciliare” viene da lui<br />
giudicato come «modello superato»:<br />
19 Ivi, pp. 85-6.
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 67<br />
In tale contesto vengono così contrapposte due concezioni del cattolicesimo: da<br />
un lato sta una comprensione rinnovata della sua essenza, che spiega la fede cristiana<br />
a partire dalla libertà e come principio della libertà e, dall’altro lato, un<br />
modello superato, “pre-conciliare”, che assoggetta l’esistenza cristiana all’autorità,<br />
la quale attraverso norme regola la <strong>vita</strong> fin nei suoi aspetti più intimi e cerca<br />
in tal modo di mantenere un potere di controllo sugli uomini 20 .<br />
Appare, dunque, chiaramente vincente il primo modello, fondato sulla<br />
coscienza-libertà, rispetto a quello di un legalismo etico fondato sull’autorità<br />
esterna. E il principio di libertà, che anima la morale della coscienza,<br />
sembra essere incompatibile con il legalismo della morale dell’autorità.<br />
Così “morale della coscienza” e “morale dell’autorità” sembrano contrapporsi<br />
tra di loro come due modelli incompatibili; la libertà dei cristiani sarebbe poi<br />
messa in salvo facendo appello al principio classico della tradizione morale, secondo<br />
cui la coscienza è la norma suprema, che dev’essere sempre seguita, anche<br />
in contrasto con l’autorità. E se l’autorità – in questo caso il Magistero ecclesiastico<br />
– vuol parlare in materia di morale, può certamente farlo, ma solo<br />
proponendo elementi per la formazione di un autonomo giudizio alla coscienza,<br />
la quale tuttavia deve sempre mantenere l’ultima parola. Tale carattere di ultima<br />
istanza proprio della coscienza viene ricondotto da alcuni autori alla formula<br />
secondo cui la coscienza è infallibile 21 .<br />
A questo punto, però, Ratzinger vira impercettibilmente; e punta a riconsiderare<br />
questa contrapposizione in modo più approfondito e meno<br />
schematico di quanto non sia stato fatto tradizionalmente all’interno della<br />
stessa Chiesa: se è vero, infatti, che bisogna ascoltare la coscienza nell’esperienza<br />
morale, è altrettanto vero che la coscienza non sempre è infallibile<br />
nel formulare giudizi sull’azione da compiere. È un fatto innegabile,<br />
insomma, che i giudizi di coscienza spesso si contraddicano tra loro:<br />
È fuori discussione che si deve sempre seguire un chiaro dettame della coscienza,<br />
o che almeno non si può mai andare contro di esso. Ma è questione del tutto<br />
diversa se il giudizio di coscienza, o ciò che uno prende come tale, abbia anche<br />
sempre ragione, se esso cioè sia infallibile. Infatti se così fosse, ciò vorrebbe<br />
20 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, p. 5.<br />
21 Ivi, pp. 5-6.
68 Giuseppe Pezzino<br />
dire che non c’è nessuna verità – almeno in materia di morale e di religione, ossia<br />
nell’ambito dei fondamenti veri e propri della nostra esistenza. Dal momento<br />
che i giudizi di coscienza si contraddicono, ci sarebbe dunque solo una verità<br />
del soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità 22 .<br />
In altri termini, quando la coscienza di ciascun individuo passa a formulare<br />
giudizi, ci si prospetta una selva intricata e pericolosa di posizioni<br />
antitetiche e contraddittorie. E, stando così le cose, sembra che la coscienza<br />
sia condannata a possedere e proporre una «verità soggettiva».<br />
Purtroppo, una «verità soggettiva» non solo è una contraddizione in termini,<br />
ma addirittura ci porta inesorabilmente sulla strada del relativismo,<br />
verso la palude dello scetticismo teoretico e dell’utilitarismo etico. Invero,<br />
quanti di noi non hanno innalzato in buona coscienza il proprio “particulare”,<br />
il proprio comodo e piacevole utile, a ideale di <strong>vita</strong> e a categoria di<br />
giudizio? Sicuramente, persino l’imperatrice Semiramide, la quale «libito<br />
fé licito in sua legge», operò in piena lussuria e in buona coscienza.<br />
E, se la coscienza si accampa sul terreno del soggettivo, ine<strong>vita</strong>bilmente<br />
prende il sopravvento il modello legalistico della morale dell’autorità.<br />
Occorre <strong>qui</strong>ndi uscire dallo stallo mortale, dall’antinomia paralizzante, in<br />
cui ci trascina la contrapposizione fra la coscienza-libertà e la legge-autorità.<br />
Da <strong>qui</strong> la proposta di Ratzinger, tendente a superare l’antinomia coscienza/legge,<br />
libertà/autorità, soggettivo/oggettivo, mediante la ricerca<br />
di qualcosa di più profondo:<br />
Dal momento che i giudizi di coscienza si contraddicono, ci sarebbe dunque solo<br />
una verità del soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità. Non ci sarebbe<br />
nessuna porta e nessuna finestra che potrebbe condurre dal soggetto al mondo<br />
circostante e alla comunione degli uomini. Chi ha il coraggio di portare questa<br />
concezione fino alle sue ultime conseguenze arriva alla conclusione che non esiste<br />
dunque nessuna vera libertà e che quelli che supponiamo essere dettami della<br />
coscienza, in realtà non sono altro che riflessi delle condizioni sociali. Ciò dovrebbe<br />
condurre alla convinzione che la contrapposizione tra libertà e autorità<br />
lascia da parte qualcosa; che dev’esserci qualcosa di ancor più profondo, se si<br />
vuole che libertà e, <strong>qui</strong>ndi, umanità abbiano un senso 23 .<br />
22 Ivi, p. 6.<br />
23 Ivi.
A questo punto, nell’intraprendere il cammino verso la definizione di<br />
una coscienza non già falsamente libera, errante nel labirinto del relativismo<br />
soggettivo, bensì autentica fonte di libertà, di verità e di bene, Ratzinger<br />
abbandona la forma della trattazione rigorosamente concettuale ed<br />
astratta, per adottare invece una forma narrativa – più attraente e non<br />
meno rigorosa – che gli consente di polemizzare, con leggera ma efficace<br />
ironia, contro i sostenitori dell’essenza soggettiva della coscienza.<br />
Fu all’inizio della mia attività accademica che, per la prima volta, divenni consapevole<br />
di tale questione in tutta la sua urgenza. Una volta, un collega più anziano,<br />
cui stava molto a cuore la situazione dell’essere cristiano nel nostro tempo,<br />
nel corso di una discussione, espresse l’opinione che bisognava davvero esser<br />
grati a Dio, per aver concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in<br />
buona coscienza. Infatti, se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti,<br />
non sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il<br />
peso della fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento<br />
che percorrono un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere<br />
la salvezza. Quello che mi sbalordì in quest’affermazione non fu innanzi<br />
tutto l’idea di una coscienza erronea concessa da Dio stesso, l’idea, per<br />
così dire, di un accecamento mandato da Dio stesso per la salvezza delle persone<br />
in questione. Ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile<br />
da portare e che sia adatto solo a nature particolarmente forti: quasi una<br />
forma di punizione, e comunque un insieme oneroso di esigenze cui non è facile<br />
far fronte. Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più<br />
accessibile, la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui<br />
cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere a<br />
quel giogo morale, che la fede della Chiesa cattolica comporta 24 .<br />
C’è, a mio avviso, qualcosa dello stile pascaliano in questa pagina di<br />
Ratzinger. Qualcosa del Pascal raffinato polemista delle Lettere Provinciali.<br />
In effetti, la forma narrativa scelta non a caso da Ratzinger – col personaggio<br />
del collega universitario, buon cattolico, che sostiene candidamente<br />
la tesi della positività della buona coscienza, senza fede e senza doveri<br />
morali – ci riporta, mutatis mutandis, a certe sapide scene rappresentate<br />
in quella sorta di commedia che Pascal imbastisce nelle Provinciali. Tra<br />
l’altro, il buon collega – che con la sua lode a Dio, per aver concesso a<br />
24 Ivi, pp. 7-8.<br />
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 69
70 Giuseppe Pezzino<br />
tantissimi uomini di non credere e tuttavia di salvarsi, sbalordisce e turba<br />
il giovane professore Ratzinger – assomiglia alquanto al buon Padre gesuita<br />
che, tra l’ingenuo e il furbesco, cozza contro i princìpi della filosofia<br />
morale e della teologia cristiana, suscitando stupore e indignazione nel<br />
giovane Louis de Montalte, pseudonimo di Blaise Pascal:<br />
Benedetto voi, caro padre, – esclama Louis de Montalte – che giustificate così la<br />
gente. Gli altri insegnano a guarire le anime mediante austerità dolorose, ma<br />
voi dimostrate che quelle che si sarebbero credute le più disperatamente malate<br />
stanno benissimo. Che bella via per essere felici in questo mondo e nell’altro!<br />
Avevo sempre pensato che si peccasse tanto più, quanto meno si pensa a Dio.<br />
Invece a quanto vedo, se si riesce a imporsi una volta per tutte di non pensarci<br />
affatto, ogni cosa diviene pura in seguito. Niente mezzi peccatori, con un po’<br />
d’amore per la virtù. Saranno tutti dannati questi mezzi peccatori, mentre questi<br />
peccatori decisi, peccatori incalliti, peccatori schietti, pieni e completi, l’inferno<br />
non li rinchiude. Hanno beffato il diavolo a forza di concedersi a lui 25 .<br />
Qui l’ironia di Pascal sferra un attacco ad un certo modo di fare casistica,<br />
ad un certo barocchismo secentesco della morale gesuitica, che pretende<br />
di stare a metà strada fra il passato e il presente, e che finisce invece<br />
per stare in bilico tra una morale dell’accomodamento e una politica della<br />
furbizia. E proprio <strong>qui</strong> torna alla mente l’ironia di Manzoni che, in una<br />
pagina dedicata al cardinal Federigo Bor<strong>romeo</strong> e alla mentalità baroccheggiante<br />
di un’«età sudicia e sfarzosa», riserva parole severissime contro<br />
coloro che intendono la massima del “giusto mezzo” come una furbesca e<br />
comoda posizione mediana tra il vizio e la virtù; condannando con sottile<br />
ironia «que’ prudenti che s’adombrano delle virtù come de’ vizi, predicano<br />
sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in<br />
quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi» 26 .<br />
Ma torniamo alle considerazioni dello sbalordito Ratzinger, in merito<br />
alle discutibili affermazioni del suo collega che, in verità, «era un sincero<br />
credente, anzi direi un cattolico rigoroso, che adempiva al suo dovere con<br />
convinzione e scrupolosità». In primo luogo, Ratzinger mostra a quali<br />
25 B. Pascal, Le Provinciali, a cura di C. Carena, Torino, Einaudi, 2008, Quarta Lettera, pp.<br />
67-9. 26 I Promessi Sposi, XXII.
conseguenze paradossali conduca la tesi del collega, secondo cui il possesso<br />
di una coscienza senza fede è una felice concessione divina che ci porta<br />
alla salvezza:<br />
La non verità, il restare lontani dalla verità, sarebbe per l’uomo meglio della verità.<br />
Non sarebbe la verità a liberarlo, anzi egli dovrebbe piuttosto esserne liberato.<br />
L’uomo starebbe a casa propria più nelle tenebre che nella luce; la fede<br />
non sarebbe un bel dono del buon Dio, ma piuttosto una maledizione. Stando<br />
così le cose, come dalla fede potrebbe provenire gioia? Chi potrebbe avere addirittura<br />
il coraggio di trasmettere la fede ad altri? Non sarebbe meglio risparmiar<br />
loro questo peso o anche tenerli lontani da esso? 27<br />
Meglio, dunque, non diffondere la luce della fede cristiana, per e<strong>vita</strong>re<br />
a tanti uomini il pesante fardello dei doveri morali e dei dettami dell’autorità<br />
ecclesiastica. Meglio così, perché i tanti uomini privi della luce<br />
della fede e liberi da ogni obbligazione si salveranno più agevolmente dei<br />
miseri credenti. Ma, beninteso, quella che poteva restare un’ironia di<br />
stampo pascaliano contro una delle tante eterne forme di gesuitismo più<br />
o meno consapevole, in Ratzinger si fa autorevole ed amara denuncia di<br />
un erroneo senso di libertà e di coscienza, che si è diffuso nella Chiesa,<br />
che ha paralizzato l’antico slancio evangelizzatore e che, se si diffonde ancora,<br />
potrebbe essere fatale per la fede:<br />
Negli ultimi decenni, concezioni di questo tipo hanno visibilmente paralizzato<br />
lo slancio dell’evangelizzazione: chi intende la fede come un carico pesante, come<br />
un’imposizione di esigenze morali, non può in<strong>vita</strong>re gli altri a credere; egli<br />
preferisce piuttosto lasciarli nella presunta libertà della loro buona fede 28 .<br />
Una volta denunciata l’in<strong>qui</strong>etante «caricatura della fede», Ratzinger<br />
passa a considerare criticamente lo stesso concetto di coscienza che viene<br />
formulato nella tesi del collega «cattolico rigoroso». E <strong>qui</strong> si fa evidente<br />
l’insufficienza e la pericolosità di tale concetto di «coscienza erronea», la<br />
quale e<strong>vita</strong> il peso della fede e dell’obbligazione morale. Anzi, occorre<br />
proprio distinguere la coscienza erronea, che dispensa l’uomo dalla ricerca<br />
27 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, cit., p. 8.<br />
28 Ivi.<br />
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 71
72 Giuseppe Pezzino<br />
della verità universale, rifugiandosi nel relativismo soggettivo, dalla coscienza<br />
autentica, che invece supera la mera soggettività nell’incontro fra<br />
l’interiorità dell’uomo e la verità che proviene da Dio.<br />
La coscienza erronea protegge l’uomo dalle onerose esigenze della verità e così la<br />
salva: questa era l’argomentazione. Qui la coscienza non si presenta come la finestra<br />
che spalanca all’uomo la vista su quella verità universale, che fonda e sostiene<br />
tutti noi e che in tal modo rende possibile, a partire dal suo comune riconoscimento,<br />
la solidarietà del volere e della responsabilità. In questa concezione<br />
la coscienza non è l’apertura dell’uomo al fondamento del suo essere, la possibilità<br />
di percepire quanto è più elevato e più essenziale. Essa sembra essere piuttosto<br />
il guscio della soggettività, in cui l’uomo può sfuggire alla realtà e nascondersi.<br />
[…] La coscienza non apre la strada al cammino liberante della verità, la<br />
quale o non esiste affatto o è troppo esigente per noi. La coscienza è l’istanza<br />
che ci dispensa dalla verità. Essa si trasforma nella giustificazione della soggettività,<br />
che non si lascia più mettere in questione […] Il dovere di cercare la verità<br />
viene meno, così come vengono meno i dubbi sulle tendenze generali predominanti<br />
nella società e su quanto in essa è diventato abitudine. L’essere convinto<br />
delle proprie opinioni, così come l’adattarsi a quelle degli altri sono sufficienti.<br />
L’uomo è ridotto alle sue convinzioni superficiali e, quanto meno sono profonde,<br />
tanto meglio è per lui 29 .<br />
Nel portare a termine l’attacco contro questo «guscio della soggettività»,<br />
che è la coscienza erronea e superficiale, Ratzinger ha bisogno di tornare<br />
all’ironia pascaliana della narrazione. Sicché la scena si amplia, ed<br />
accoglie più colleghi, i quali dibattono sul potere giudicante della coscienza<br />
soggettiva, sino al punto che qualcuno di loro giunge a sostenere,<br />
con estrema naturalezza e malinteso senso della consequenzialità, che persino<br />
Hitler ed i suoi complici commisero bensì orrendi crimini, ma restarono<br />
in pace con la loro coscienza e con la loro morale.<br />
Quanto era stato per me solo marginalmente chiaro in questa discussione, divenne<br />
pienamente evidente un po’ dopo, in occasione di una disputa tra colleghi,<br />
a proposito del potere di giustificazione della coscienza erronea. Qualcuno<br />
obiettò a questa tesi che, se ciò dovesse avere un valore universale, allora persino<br />
i membri delle SS naziste sarebbero giustificati e dovremmo cercarli in paradiso.<br />
29 Ivi, pp. 9-10.
Essi infatti portarono a compimento le loro atrocità con fanatica convinzione<br />
ed anche con un’assoluta certezza di coscienza. Al che un altro rispose con la<br />
massima naturalezza che le cose stavano proprio così: non c’è proprio nessun<br />
dubbio che Hitler ed i suoi complici, che erano profondamente convinti della<br />
loro causa, non avrebbero potuto agire diversamente e che <strong>qui</strong>ndi, per quanto<br />
siano state oggettivamente spaventose le loro azioni, essi, a livello soggettivo, si<br />
comportarono moralmente bene. Dal momento che essi seguirono la loro coscienza<br />
– per quanto deformata –, si dovrebbe riconoscere che il loro comportamento<br />
era per loro morale e non si potrebbe pertanto mettere in dubbio la loro<br />
salvezza eterna 30 .<br />
Con un filo d’ironia per la serietà di siffatta argomentazione filosofica<br />
e teologica, si dovrebbe fiduciosamente sperare di trovare un bel giorno,<br />
in paradiso, coscienziosi criminali come Hitler e Stalin. Comunque sia,<br />
gli esiti paradossali di quell’argomentare ci aiutano notevolmente a dif -<br />
fidare della coscienza comodamente fondata sui criteri soggettivi di un<br />
uomo contemporaneo che, avendo spesso perduto il senso della colpa e<br />
del peccato, si sente stoltamente sereno e moralmente “in regola”. A tal<br />
proposito, torna opportuno ricordare la parabola del fariseo e del pubblicano:<br />
tra il pubblicano peccatore e il fariseo giusto passa indubbiamente<br />
la differenza netta che separa le opere malvagie da quelle buone, e che<br />
condanna le prime ed approva le seconde. Ma, al vaglio divino di Gesù,<br />
c’è ancora un altro male, un altro peccato: quello del giusto fariseo che<br />
non percepisce più la colpa, che si sente in pace con sé stesso, con la Legge<br />
e con Dio, mentre non s’accorge del silenzio e del sonno della sua coscienza.<br />
Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il<br />
fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono<br />
come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.<br />
Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che<br />
possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare<br />
gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me<br />
peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato,<br />
perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato 31 .<br />
30 Ivi, 10-1.<br />
31 Lc 18, 10-14.<br />
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 73
74 Giuseppe Pezzino<br />
Pertanto, una rigorosa riflessione sul concetto di coscienza non può<br />
far coincidere sbrigativamente questa con le sicurezze e le certezze di un<br />
soggetto che si compiace di sé e indulge ai capricci e agli interessi del proprio<br />
“particulare”. E in questo caso Ratzinger trae delle conseguenze ben<br />
nette e degne di considerazione:<br />
Non si può identificare la coscienza dell’uomo con l’auto-coscienza dell’io, con<br />
la certezza soggettiva su di sé e sul proprio comportamento morale. Questa consapevolezza,<br />
da una parte, può essere un mero riflesso dell’ambiente sociale e<br />
delle opinioni ivi diffuse. D’altra parte può derivare da una carenza di autocritica,<br />
da una incapacità di ascoltare le profondità del proprio spirito. […] L’errore,<br />
la “coscienza erronea”, solo a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce,<br />
l’ammutolirsi della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e ad<br />
un pericolo mortale.<br />
Detto con altre parole: l’identificazione della coscienza con la consapevolezza<br />
superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non libera affatto, ma<br />
rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti dalle opinioni dominanti ed<br />
abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno. Chi fa coincidere<br />
la coscienza con convinzioni superficiali, la identifica con una sicurezza pseudorazionale,<br />
intessuta di auto giustificazione, conformismo e pigrizia 32 .<br />
Nel citare il cardinale John Henry Newman a proposito di coscienza,<br />
Ratzinger fa ben intendere che, per uscire dalla paralizzante e perniciosa<br />
antinomia fra la soggettività della coscienza-libertà e l’oggettività della<br />
legge-autorità, occorre intanto riconsiderare il concetto di coscienza alla<br />
luce del concetto di verità. Anzi, occorre evidenziare l’imprescindibile ed<br />
inscindibile legame che intercorre fra coscienza e verità. Invero, tranciato<br />
questo legame, un processo di necrosi colpisce inesorabilmente e la verità<br />
e la coscienza, facendole avvizzire e morire, e collocando al loro posto gli<br />
ingannevoli simulacri di entrambe.<br />
Per Newman il termine medio che assicura la connessione tra i due elementi<br />
della coscienza e dell’autorità è la verità. […] La presenza preponderante dell’idea<br />
di coscienza in Newman non significa che egli, nel XIX secolo e in contrasto<br />
con l’oggettivismo della neoscolastica, abbia sostenuto per così dire una<br />
filosofia o teologia della soggettività. […] La coscienza non significa per New-<br />
32 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, cit., pp. 13-5.
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 75<br />
man che il soggetto è il criterio decisivo di fronte alle pretese dell’autorità, in un<br />
mondo in cui la verità è assente e che si sostiene mediante il compromesso tra<br />
esigenze del soggetto ed esigenze dell’ordine sociale. Essa significa piuttosto la<br />
presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all’interno del soggetto<br />
stesso; la coscienza è il superamento della mera soggettività nell’incontro tra<br />
l’interiorità dell’uomo e la verità che proviene da Dio 33 .<br />
E <strong>qui</strong> si staglia netta e imponente la presenza di Agostino: infatti, in<br />
rotta di allontanamento dall’oggettivismo della neoscolastica, Newman<br />
rivaluta quella coscienza, non certo soggettiva, che Agostino aveva già inteso<br />
bensì come luce interiore, ma, in ultima istanza, come riflesso di una<br />
verità universale ed eterna che non può non trascendere l’individuo e il<br />
suo limitato orizzonte soggettivo. «Non uscire fuori di te, ritorna in te<br />
stesso: la verità abita nell’uomo interiore», ci ricorda Agostino. E noi, però,<br />
dimentichiamo facilmente quel che egli aggiunge subito dopo: «e, se<br />
troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso» 34 .<br />
A questo punto è già matura la definizione del concetto di coscienza,<br />
che Ratzinger articola su due livelli: quella dell’anamnesis, della memoria,<br />
e quello della conscientia, del giudicare e dell’agire. Nel primo caso, ci<br />
troviamo di fronte al livello ontologico della coscienza come memoria:<br />
un livello che, tralasciato il tradizionale concetto medievale di sinderesi<br />
ereditato dalla filosofia stoica, pone al centro il concetto di anamnesis che<br />
abbraccia armonicamente e la grande filosofia di Platone e i temi fondamentali<br />
della Bibbia.<br />
La corrente principale della scolastica ha espresso i due livelli della coscienza<br />
con i concetti di sinderesi e di coscienza. Il termine sinderesi (synteresis) confluì<br />
nella tradizione medioevale sulla coscienza dalla dottrina stoica del microcosmo.<br />
Rimase però non chiaro nel suo esatto significato e venne così a costituire<br />
un ostacolo per un accurato sviluppo della riflessione su questo aspetto essenziale<br />
della questione globale circa la coscienza. Vorrei <strong>qui</strong>ndi, pur senza entrare nel<br />
dibattito sulla storia del pensiero, sostituire questo termine problematico con il<br />
concetto platonico, molto più nettamente definito, di anamnesi, il quale ha il<br />
33 Ivi, pp. 17-8.<br />
34 «Noli foras ire, in teipsum redi; in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam<br />
mutabilem inveneris, transcende et teipsum» (Agostino, De vera religione liber unus, 39.72).
76 Giuseppe Pezzino<br />
vantaggio non solo di essere linguisticamente più chiaro, più profondo e più<br />
puro, ma anche soprattutto di concordare con temi essenziali del pensiero biblico<br />
e con l’antropologia sviluppata a partire dalla Bibbia 35 .<br />
Pertanto, col termine platonico di anamnesis bisogna intendere, secondo<br />
Ratzinger, quel che afferma san Paolo sulla coscienza, a proposito<br />
di quei pagani che per natura agiscono secondo la Legge, perché il dettato<br />
della Legge è scritto nei loro cuori:<br />
Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge,<br />
essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto<br />
la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro<br />
coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono 36 .<br />
E ancora, questo concetto di coscienza come memoria deve fare riferimento<br />
all’insegnamento di sant’Agostino, quando sostiene che la parte<br />
più nobile dello spirito umano (mens humana) detiene l’immagine di<br />
Dio, che anzi è immagine di Dio, pur non essendo Dio:<br />
Eccoci giunti ora nella nostra ricerca alla fase in cui abbiamo intrapreso a considerare,<br />
per scoprirvi l’immagine di Dio, la parte più nobile dello spirito umano,<br />
parte con la quale esso conosce o può conoscere Dio. Sebbene infatti lo spirito<br />
umano non sia della stessa natura di Dio, tuttavia l’immagine di quella natura<br />
che è superiore ad ogni altra deve essere cercata e trovata presso di noi, in ciò<br />
che la nostra natura ha di migliore. Ma si deve considerare lo spirito in sé, prima<br />
che esso sia partecipe di Dio, e scoprirvi l’immagine di lui. Anche quando<br />
lo spirito, abbiamo detto, è degradato e deforme per la perdita della partecipazione<br />
a Dio, resta tuttavia immagine di Dio; perché esso è immagine di Dio in<br />
quanto è capace di Dio e può essere partecipe di lui. Un bene così grande non è<br />
possibile se non in quanto lo spirito è immagine di Dio. Ecco dunque che lo<br />
spirito si ricorda di sé, si comprende, si ama: se contempliamo ciò, vediamo una<br />
trinità, che non è certo ancora Dio, ma già è immagine di Dio 37 .<br />
Questo primo livello ontologico della coscienza è dato, dunque, dal<br />
fatto che in noi – che nella parte migliore siamo imago Dei – sono impresse<br />
in modo indelebile le categorie del bene e del vero: categorie, be-<br />
35 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, cit., p. 23.<br />
36 Rm, 2, 14-15.<br />
37 Agostino, La Trinità, libro XIV, 8. 11.
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 77<br />
ninteso, che ci provengono non già dall’esterno, bensì dall’immagine di<br />
Dio. Su questa anamnesi di Dio si fonda la natura universale della vera<br />
coscienza; su questa anamnesi di Dio si fonda quella sorta di sentimento<br />
del bene che nutre e indirizza la coscienza. Ecco: il concetto platonico di<br />
anamnesi ci dice che la Verità non proviene e non si impone dall’esterno,<br />
ma dev’essere ricercata e scoperta nelle profondità di una coscienza che,<br />
sia pur degradata e precipitata nelle tenebre dell’errore e dell’apparenza,<br />
possiede tuttavia la memoria-anamnesis della Verità e del Bene. E come<br />
può accadere che, dalla discesa-katabasis fin negli inferi dell’errore e della<br />
malvagità, la coscienza possa disporsi alla risalita-anabasis della memoria<br />
del vero e del bene? Anche in questo caso, ci soccorre Platone: perché la<br />
memoria si rischiari, è necessario aiutare la coscienza con un delicato procedimento<br />
di maieutica.<br />
Proprio su questo livello platonico-agostiniano della coscienza intesa<br />
come anamnesis, Ratzinger è in grado di superare la vecchia antinomia tra<br />
una malintesa autonomia della coscienza soggettiva ed un’altrettanto malintesa<br />
eteronomia dell’autorità oggettivamente data dalla legge. Un’antinomia,<br />
beninteso, che si rivela particolarmente nefasta, quando lacera e<br />
paralizza la <strong>vita</strong> di una Chiesa, che rischia di parteggiare ora per l’autorità<br />
della legge senza la libertà ora per la libertà senza l’autorità della legge. In<br />
altri termini, la tesi di Ratzinger sana codesta conflittualità, perché il concetto<br />
di coscienza autentica come anamnesis soddisfa le legittime esigenze<br />
della libertà e, al contempo, il concetto di maieutica garantisce le legittime<br />
esigenze del Magistero ecclesiastico. Da questo punto di vista, il Magistero<br />
– e in primo luogo il primato del Papa – devono ora intendersi non<br />
già come ottundimento e soggezione delle anime, bensì come necessario e<br />
prezioso aiuto maieutico a riaccendere la memoria del vero e del bene, la<br />
quale risiede nella parte più nobile di ogni uomo e proviene da Dio:<br />
Il Papa non può imporre ai fedeli cattolici dei comandamenti, solo perché egli<br />
lo vuole o perché lo ritiene utile. Una simile concezione moderna e volontaristica<br />
dell’autorità può soltanto deformare l’autentico significato teologico del papato.<br />
Così la vera natura del ministero di Pietro è diventata del tutto incomprensibile<br />
nell’epoca moderna precisamente perché in questo orizzonte mentale<br />
si può pensare all’autorità solo con categorie che non consentono più alcun<br />
ponte tra soggetto e oggetto. Ma le cose si presentano del tutto diverse a partire
78 Giuseppe Pezzino<br />
da un’antropologia della coscienza, quale abbiamo cercato di delineare a poco a<br />
poco in queste riflessioni. L’anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per<br />
così dire, di un aiuto dall’esterno per diventare cosciente di sé. Ma questo “dal<br />
di fuori” non è affatto qualcosa di contrapposto, anzi è piuttosto qualcosa di ordinato<br />
ad essa: esso ha una funzione maieutica, non le impone niente dal di<br />
fuori, ma porta a compimento quanto è proprio dell’anamnesi, cioè la sua interiore<br />
specifica apertura alla verità 38 .<br />
E, affinché la sua tesi non sia male intesa come soluzione “debole” o<br />
come atto di sostanziale resa nei confronti di un certo delirio di onnipotenza<br />
e di onniscienza della coscienza soggettiva, Ratzinger torna a precisare<br />
le sue idee sul primato del Papa e sull’autorità della Chiesa:<br />
Ciò non significa che i fedeli possiedano una fattuale onniscienza, ma indica<br />
piuttosto la certezza della memoria cristiana. Essa naturalmente impara di continuo,<br />
ma a partire dalla sua identità sacramentale, e operando così interiormente<br />
un discernimento tra quanto è uno sviluppo della memoria e quanto è<br />
una sua distruzione o una sua falsificazione. Oggi noi, proprio nella crisi attuale<br />
della Chiesa, stiamo sperimentando in modo nuovo la forza di questa memoria<br />
e la verità della parola apostolica: più delle direttive della gerarchia è la capacità<br />
di orientamento della memoria della fede semplice che porta al discernimento<br />
degli spiriti. Solo in tale contesto si può comprendere correttamente il primato<br />
del Papa e la sua correlazione con la coscienza cristiana. Il significato autentico<br />
dell’autorità dottrinale del Papa consiste nel fatto che egli è il garante della memoria<br />
cristiana. Il Papa non impone dall’esterno, ma sviluppa la memoria cristiana<br />
e la difende 39 .<br />
Sul secondo livello della coscienza – quello che ricorre al termine<br />
“conscientia” e che riguarda il momento del giudicare – Ratzinger non<br />
spende molte parole, perché aderisce sostanzialmente a quel che aveva<br />
scritto san Tommaso a tal riguardo. Gli preme però precisare che il momento<br />
del giudicare da parte della conscientia, oltre a legarsi al momento<br />
della volontà, deve necessariamente mantenersi in simbiosi con il livello<br />
dell’anamnesi, a pena di pericolose scivolate giustificazioniste a favore di<br />
qualunque decisione – anche la più malvagia – assunta dalla conscientia.<br />
38 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, cit., p. 26.<br />
39 Ivi, pp. 27-8.
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 79<br />
Solo così si e<strong>vita</strong>, secondo Ratzinger, il ritorno di fiamma soggettivistico<br />
che assolve qualunque crimine consumato in piena coscienza:<br />
Tuttavia il fatto che la convinzione ac<strong>qui</strong>sita sia ovviamente obbligatoria nel<br />
momento in cui si agisce, non significa nessuna canonizzazione della soggettività.<br />
Non è mai una colpa seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve<br />
seguirle. Ma non di meno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi<br />
convinzioni tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione verso di<br />
esse, che avverte la memoria del suo essere. […] Per questo motivo, anche i criminali<br />
che agiscono con convinzione rimangono colpevoli 40 .<br />
Nel portare a termine questa nostra riflessione, non possiamo non<br />
evidenziare, pur nei limiti di un rapido tratteggio, l’importanza che Ratzinger<br />
attribuisce al concetto di coscienza anche in riferimento alla sfera<br />
dell’attività etico-politica. Sulla base dell’insegnamento evangelico, che<br />
fissa la linea di demarcazione fra Dio e Cesare, la coscienza cristiana assume<br />
una particolare posizione rispetto allo Stato: quest’ultimo è certamente<br />
da rispettare sia come ordinamento giuridico a garanzia della libertà e<br />
della sicurezza, sia come prassi politica di governo indirizzato non già all’interesse<br />
particolare, bensì al benessere di tutti. Ma, proprio perché rispetta<br />
la distinzione tra Chiesa e Stato, tra sacro e profano, tra morale e<br />
politica, la coscienza cristiana respinge fermamente l’idea di uno Stato<br />
come realtà assoluta, fonte di verità e di moralità, fosse pure uno Stato liberal-democratico<br />
che pretenda di legiferare sugli affari di coscienza in<br />
base al principio della maggioranza.<br />
E <strong>qui</strong> riappare l’insegnamento di Agostino, che riesce a mantenere un<br />
forte senso di realismo politico senza mai dimenticare, però, l’ammonimento<br />
di Paolo secondo cui «nostra autem conversatio in caelis est» 41 . Infatti,<br />
nel sottolineare autorevolmente che la sostanza della coscienza cristiana<br />
è la libertà, perché «quando uno diventa cristiano è chiamato dal<br />
Signore alla libertà», Agostino richiama al contempo i cristiani ai doveri<br />
terreni della politica, giacché «sarebbe in grave errore quel cristiano che,<br />
appunto per essere cristiano, ritenesse di non dover pagare le imposte o i<br />
40 Ivi, pp. 29-30.<br />
41 «La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo»<br />
(Fil 3, 20).
80 Giuseppe Pezzino<br />
tributi o si considerasse dispensato dal rendere il debito onore alle autorità<br />
che esercitano funzioni pubbliche». Ma, per il Vescovo di Ippona, cadrebbe<br />
in un errore ancor più grave quel cristiano che pensasse di dover<br />
assoggettare all’autorità politica anche i princìpi e le questioni della fede<br />
religiosa e della coscienza morale:<br />
È un richiamo giustissimo motivato anche dal fatto che quando uno diventa<br />
cristiano è chiamato dal Signore alla libertà. In base a ciò potrebbe inorgoglirsi<br />
e pensare che durante il cammino della <strong>vita</strong> presente sia dispensato dal rispettare<br />
l’ordine stabilito e non doversi più assoggettare alle autorità superiori, alle<br />
quali sia pur temporaneamente è stato assegnato [da Dio] il governo delle realtà<br />
temporali. Essendo infatti l’uomo un composito di anima e di corpo, finché viviamo<br />
in questo mondo, per mantenerci in <strong>vita</strong> ci serviamo come mezzi anche<br />
delle cose materiali. Per quel tanto dunque che riguarda la <strong>vita</strong> presente, dobbiamo<br />
essere sottomessi alle autorità, cioè a coloro che amministrano le cose<br />
umane riscuotendone il debito onore. Il rovescio è della nostra fede in Dio e<br />
della nostra chiamata al suo regno. Qui non ci dobbiamo considerare soggetti a<br />
nessun uomo, specie se pretendesse di sovvertire quel che Dio s’è degnato donarci<br />
in ordine alla <strong>vita</strong> eterna. Sarebbe pertanto in grave errore quel cristiano<br />
che, appunto per essere cristiano, ritenesse di non dover pagare le imposte o i<br />
tributi o si considerasse dispensato dal rendere il debito onore alle autorità che<br />
esercitano funzioni pubbliche. Cadrebbe tuttavia in un errore ancor più grave<br />
colui che pensasse di doversi talmente assoggettare all’autorità, che occupa un<br />
posto preminente per amministrare le cose temporali, da riconoscerle un potere<br />
anche sulla propria fede. Occorre rispettare i limiti fissati dallo stesso nostro Signore<br />
quando ordinò di rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che<br />
è di Dio. Sebbene <strong>qui</strong>ndi chiamati al regno dove non contano nulla le autorità<br />
di questo mondo, tuttavia finché siamo in via e non ancora arrivati a quel mondo<br />
dove sarà tolto di mezzo ogni comandante e potestà, dobbiamo accettare<br />
con pazienza la nostra condizione, stando all’ordine costituito per le realtà umane.<br />
Non dobbiamo agire con sotterfugi ma nel nostro comportamento rispettare<br />
non tanto gli uomini quanto Dio che dà tali precetti 42 .<br />
Su questa linea neotestamentaria prende lo slancio l’ammonimento di<br />
Ratzinger, indirizzato sia alla Chiesa sia allo Stato, a non dimenticare non<br />
solo la distinzione che intercorre fra il debito verso Cesare e il debito verso<br />
Dio, ma soprattutto il primato cristiano dei valori della città celeste ri-<br />
42 Agostino, Questioni sulla Lettera ai Romani, 64.
spetto ai valori terreni. Infatti, dopo aver citato la Lettera agli Ebrei, in<br />
cui si dice che «noi non abbiamo quaggiù una dimora definitiva, ma siamo<br />
in cerca di quella futura» 43 , egli ricorda ai tanti ammiratori di Nietzsche<br />
e di Marx che il cristianesimo deve saper affrontare i problemi di<br />
questa terra, anelando sempre alla patria celeste:<br />
È da molto tempo che non si citano più tanto volentieri questi passi, perché essi<br />
sembrano allontanare l’uomo dalla terra e distoglierlo dai suoi doveri, anche politici,<br />
nel tempo e nella storia. «Fratelli, rimanete fedeli alla terra!» ha proclamato<br />
Nietzsche nel nostro secolo; e l’imponente fenomeno del marxismo, in tutte<br />
le sue correnti, ci ha ficcato bene in testa l’idea che non abbiamo tempo da perdere<br />
per il cielo. Per dirla in termini che riecheggiano un motto brechtiano: lasciamo<br />
dunque il cielo ai passerotti. Noi invece occupiamoci della terra, cercando<br />
di renderla abitabile 44 .<br />
A quei credenti e a quei laici che lasciano il cielo ai passerotti, illudendosi<br />
di impegnarsi meglio su questa terra, Ratzinger ricorda, con parole<br />
appassionate e ferme, che il “destino celeste” dei cristiani non solo aiuta a<br />
riconoscere meglio la separazione, nel reciproco rispetto, fra Stato e Chiesa,<br />
ma addirittura aiuta a fronteggiare e respingere qualunque tentativo di<br />
assolutizzare lo Stato, sotto qualsiasi forma.<br />
In verità, proprio questo atteggiamento “escatologico” è ciò che tutela lo Stato<br />
nei diritti che gli sono peculiari e ad un tempo combatte qualsiasi assolutismo<br />
idolatrico, mostrando i confini mondani tanto dello Stato quanto della<br />
Chiesa. Là dove questa disposizione fondamentale viene accolta, la Chiesa sa<br />
che essa sulla terra non può di per sé divenire “Stato”. Là essa è cosciente che la<br />
sua patria definitiva è altrove, e che non le è dato di istituire sulla terra lo “Stato<br />
di Dio” 45 .<br />
In conclusione, rimanere fedeli al cielo, e non già alla terra, non significa<br />
affatto proporre un atto di alienazione o un atto di resa rispetto ai<br />
problemi terreni della politica. Essere autenticamente cristiani, ossia<br />
guardare al cielo, significa non solo avere una bussola nella selva dei pro-<br />
43 Eb 13, 14.<br />
44 J. Ratzinger, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, cit., p. 75.<br />
45 Ivi.<br />
La centralità della coscienza in Joseph Ratzinger 81
82 Giuseppe Pezzino<br />
blemi terreni, ma addirittura lavorare veramente bene per lasciare questa<br />
terra in condizioni migliori di come le abbiamo trovate.<br />
La destinazione all’altra patria non aliena, bensì è in realtà il presupposto a che<br />
noi – e gli Stati in cui viviamo – si possa prosperare, conservandosi essenzialmente<br />
“sani”. […] Se non vogliamo cadere di nuovo preda del totalitarismo,<br />
dobbiamo alzare lo sguardo e guardare più in alto che lo Stato, che è una parte<br />
e non la totalità. La speranza nei cieli non è nemica della fedeltà alla terra: è<br />
speranza anche per la terra. Confidando in ciò che è più grande e definitivo, noi<br />
cristiani possiamo e dobbiamo infondere la speranza anche in ciò che è provvisorio,<br />
nella dimensione politica e nella sfera delle istituzioni 46 .<br />
46 Ivi, p. 76.
Emanuele Fadda<br />
Normatività e intersoggettività linguistica<br />
Il premio intitolato alla memoria di<br />
Vittorio Sainati, che si svolge a Pisa, seleziona<br />
ogni anno una tesi di dottorato<br />
di argomento filosofico particolarmente<br />
meritevole, per la pubblicazione presso<br />
la casa editrice ETS. Il lavoro scelto nel<br />
2009 ha ad oggetto Jürgen Habermas e<br />
la definizione della normatività,<br />
ed ha come primo<br />
elemento di originalità<br />
– rispetto ad altre ricerche<br />
dedicate a questo autore –<br />
quello di essere una tesi di<br />
dottorato in filosofia del<br />
linguaggio. Sebbene, infatti,<br />
la nozione di (struttura<br />
del l’)inter sog get tività linguistica<br />
sia generalmente<br />
riconosciuta come cardine<br />
della teoria habermasiana,<br />
raramente essa ha catturato<br />
davvero l’attenzione degli<br />
specialisti (se mai può o deve esserci<br />
uno specialismo, in filosofia) del settore.<br />
Se una delle più grandi intuizioni di<br />
Habermas era stata quella di chiamare<br />
in causa la tradizione analitica, ma soprattutto<br />
la filosofia del linguaggio ordinario<br />
che si era sviluppata dall’eredità di<br />
Wittgenstein, per spiegare i meccanismi<br />
di regolazione sociale, la scommessa<br />
dell’autrice è invece quella di verificare e<br />
ripensare la nozione di “intesa linguistica”<br />
partendo dal linguaggio e dall’indagi-<br />
ne su linguaggio e natura umana che<br />
permea larghi settori della filosofia del<br />
linguaggio contemporanea, in maniera<br />
trasversale rispetto alle opposizioni (analitici<br />
vs. continentali, e all’interno di<br />
questi ultimi strutturalisti, ermeneuti,<br />
postmodernisti ecc.) con cui si usa articolare<br />
questo come altri<br />
campi degli studi filosofici.<br />
E le poste in gioco di<br />
quest’operazione, secondo<br />
l’avviso di chi scrive, sono<br />
fondamentalmente due:<br />
da una parte, la possibilità<br />
di rendere conto – in una<br />
teoria che fonda la normatività<br />
sulla prassi linguistica<br />
– del conflitto tanto<br />
quanto della cooperazione;<br />
dall’altra, la comparazione<br />
tra la normatività<br />
propria della prassi linguistica<br />
e quella socio-politica, per mostrare<br />
se e in che modo la seconda possa essere<br />
derivata dalla prima, e se davvero questa<br />
contenga in sé degli antidoti a quelli che<br />
sono i rischi di collasso delle norme di<br />
convivenza umana.<br />
In entrambi i casi, il punto di partenza<br />
è dato dalla dialettica tra le due dimensioni<br />
della normatività, che Habermas<br />
chiama Faktizität e Geltung. La prima<br />
è l’imporsi della regola, come fatto<br />
coercitivo, a chi la deve osservare, mentre
84 Spigolature<br />
la seconda è l’aspetto per cui essa si impone<br />
in virtù della propria legalità (o,<br />
meglio ancora, legittimità: cfr. p. 176 n.<br />
48). Nessuno dei due può mai essere eliminato<br />
completamente, e la contemperazione<br />
tra i due è la ricetta – se così si<br />
può dire – cui il filosofo tedesco affida la<br />
riuscita delle forme di socialità umane.<br />
Grande è però il rischio, per la società,<br />
che una delle due prenda il sopravvento<br />
– e ancora più grande, per lo studioso,<br />
quello di assolutizzarne una, e ridurre<br />
l’altra a una sorta di “grado zero” della<br />
prima. Personaggi come Wittgenstein o<br />
Bourdieu, per esempio, potrebbero essere<br />
ricondotti a un primato della Faktizität:<br />
lo «strato di roccia dove la vanga si<br />
piega» (Ricerche filosofiche, § 217) o «l’ordine<br />
delle cose» mi sembra che siano riconducibili<br />
a tale elemento.<br />
Il tentativo di Habermas, invece (cfr.<br />
pp. 50 sgg.), è quello di mettere d’accordo<br />
Marx con Peirce, cercando nell’intersoggettività<br />
linguistica «una comune radice<br />
normativa dell’esperienza che interessi<br />
le componenti sia cognitive, sia<br />
prassiche» (p. 16). Per questo motivo il<br />
circuito eorein-Prattein-Legein viene<br />
articolato, appunto, come un circuito,<br />
legato a tre tipi di interesse: tecnico-strumentale,<br />
pratico ed emancipativo. A quest’ultimo<br />
è legato il tentativo di cambiare<br />
e migliorare le regole, quando esse si<br />
dimostrino oppressive per alcuni di coloro<br />
che sono ad esse soggetti. Si tratta<br />
di una sorta di eredità della scuola di<br />
Francoforte, che sembra una delle versioni<br />
più convincenti dell’affermazione<br />
di una natura politica della scienza (e<br />
forse non solo di quella umana e sociale)<br />
– per quanto il fattore del conflitto vi<br />
appaia già in qualche modo “neutralizzato”<br />
da quello dell’intesa.<br />
Ma l’interesse emancipativo trova la<br />
sua condizione di possibilità nel fatto<br />
che le regole non sono sempre le stesse,<br />
e il loro variare è da un lato ancorato a<br />
vincoli biologico-antropologici (cfr. pp.<br />
78 sgg.), e dall’altra ha una <strong>vita</strong> – nel<br />
senso in cui Ferdinand de Saussure parlava<br />
di <strong>vita</strong> semiologica – che si sviluppa<br />
nel campo regolato da Faktizität e Geltung.<br />
Questa <strong>vita</strong> è una <strong>vita</strong> pubblica,<br />
come per la lingua hanno mostrato lo<br />
stesso Saussure e Wittgenstein (per cui<br />
cfr. pp. 112 sgg.). In questo senso, si può<br />
riscontrare anche in Habermas un’analisi<br />
dell’idea di un “linguaggio privato” –<br />
che non è però totalmente sovrapponibile<br />
a quella wittgensteiniana; ma soprattutto,<br />
vi si trova una polemica contro<br />
la concezione di un Gattungsubjekt,<br />
un “soggetto totale”, una “supermente”,<br />
che vorrebbe in qualche modo aggirare<br />
l’intersoggettività e la fatica della interazione<br />
dialogica (e diventa il terreno più<br />
fertile per le derive totalitarie). La pars<br />
construens corrispondente è affidata alla<br />
magistrale analisi di G. H. Mead, che ricostruisce<br />
la genesi (onto- e filogenesi)<br />
incrociata dell’intersoggettività, dell’identità<br />
personale e del linguaggio (pp.<br />
120 sgg.).<br />
Proprio la prospettiva meadiana si rivela<br />
la carta vincente per e<strong>vita</strong>re antropomorfizzazioni<br />
indebite del sistema o<br />
fughe nell’individualità, ponendo l’intersoggettività<br />
come condizione della soggettività<br />
(non solo e non tanto nel senso<br />
per cui la pone in essere, ma soprattutto
in quello per cui costantemente la mantiene<br />
in essere), ed evidenziando il carattere<br />
normativo dell’individuazione personale<br />
(cfr. p. 206). Questo aspetto si riscontra<br />
per esempio nel principio della<br />
responsabilità, che permane nonostante<br />
– come Pandolfo sembra accennare alle<br />
pp. 62 sgg. – i moventi del comportamento<br />
“fisiologico” e “patologico” possano<br />
essere talvolta gli stessi, e gli stessi<br />
comportamenti possano essere fisiologici<br />
o patologici secondo il contesto. Il soggetto<br />
nevrotico tormentato dai «vissuti<br />
non detti che “rivendicano” un diritto a<br />
esistere con una carica affettiva talora ingombrante»,<br />
con «effetti n[iente] affatto<br />
innocui sul piano della <strong>vita</strong> pubblica», è<br />
identificato appunto da quello che fa,<br />
anche se è «giocato dal gioco» (ibid.). La<br />
responsabilità – come l’identità – è dunque<br />
fondamentalmente qualcosa che serve<br />
agli altri – e non all’agente.<br />
In questa condizione di intersoggettività<br />
non riducibile, la “razionalità” di<br />
cui parla Habermas non è certo il monolite<br />
inscalfibile dell’innatismo cartesiano<br />
(o – linguisticamente – di quello<br />
cognitivo post-chomskiano), quanto il<br />
fragile esito di un fragile meccanismo, e<br />
la verità (che è sempre fallibile e negoziabile,<br />
come nella migliore tradizione<br />
pragmatista) è un «nastro trasportatore»<br />
(p. 196) che porta dall’uno all’altro il valore<br />
cui conformarsi di volta in volta.<br />
Spigolature 85<br />
In conclusione, torniamo dunque ai<br />
due corni del problema che, con l’autrice,<br />
ci eravamo posti all’inizio: qual è il<br />
rapporto tra normatività in generale e<br />
normatività linguistica? Ancorare la normatività<br />
al linguaggio aiuta a ricomprendere<br />
il conflitto nella cooperazione?<br />
Credo che si possa dire che la linguisticità,<br />
nel suo duplice aspetto sistemico<br />
(la langue saussuriana, per intenderci) e<br />
prassico (la possibilità – mai garantita<br />
ma mai negata – di trovare un’intesa<br />
cooperativa come esito di ogni scambio<br />
linguistico-comunicativo), ha in sé le risorse<br />
per ricomprendere le istanze del<br />
conflitto nella dimensione dell’e<strong>qui</strong>librio<br />
trasformativo. Nella lingua Faktizität<br />
e Geltung si confondono, e lavorano<br />
entrambe al proprio massimo. Certamente<br />
– almeno a giudizio di chi scrive<br />
– la lingua è un’istituzione, e possiede<br />
un ruolo fondativo rispetto alle altre istituzioni.<br />
Ma questo basta per dire che<br />
tutta la normatività è assimilabile alla<br />
normatività linguistica? La ricerca di<br />
Alessandra Pandolfo non offre una risposta<br />
finale e indiscutibile (né si potrebbe)<br />
a un quesito come questo, ma è<br />
certamente un ottimo punto di partenza<br />
per porlo nei suoi giusti termini.<br />
Alessandra Pandolfo, Le regole dell’intesa attraverso<br />
Habermas. Uno studio sulla normatività<br />
umana, Pisa, ETS, 2010, pp. 230, € 18,00.
Giuliana Gambuzza<br />
Costruire il discorso etico: tecniche e strumenti<br />
Antonio Da Re, ordinario di Filosofia<br />
morale presso l’Università di Padova,<br />
firma per Bruno Mondadori, dopo Filosofia<br />
morale. Storia, teorie, argomenti<br />
(2003, con una 2ª edizione riveduta e<br />
ampliata nel 2008), un’altra brossura di<br />
taglio manualistico, che in parte rielabora<br />
dei saggi già pubblicati<br />
in alcune curatele e<br />
che, al pari della precedente,<br />
è stata pensata come<br />
testo introduttivo alla<br />
filosofia morale, d’ausilio<br />
<strong>qui</strong>ndi – sembra legittimo<br />
inferire – nei<br />
corsi universitari. L’Autore<br />
scopre le carte prima<br />
ancora di dare inizio<br />
al gioco pianificando,<br />
nell’Introduzione, la stesura<br />
di un secondo volume,<br />
in cui approfondire<br />
alcune problematiche (come quelle<br />
dell’etica applicata), che in questo non<br />
possono trovare, per ragioni di brevità,<br />
spazi e modalità di trattazione adeguati<br />
alla loro pregnanza.<br />
Le parole dell’etica consta di otto capitoli,<br />
i quali forniscono al lettore – come<br />
già annunciato dal titolo, oltre che<br />
dalla collana che ospita la pubblicazione<br />
(“Sintesi”) – un vocabolario di base, utile<br />
nel tematizzare le principali questioni<br />
etiche ed efficace nel rielaborare certi<br />
concetti che, entrati a far parte anche di<br />
dibattiti extrafilosofici, come quello<br />
dell’agenda politica, incessantemente rimaneggiati<br />
nel discorso mass-mediatico,<br />
hanno perso la nettezza dei contorni e la<br />
densità del contenuto. Tanto più che<br />
l’Autore propone alcuni significativi casi<br />
attuali come esemplificazioni<br />
di concetti o teorie:<br />
per fare un esempio, la<br />
legge n. 94 del 2009,<br />
meglio nota come “Pacchetto<br />
sicurezza”, viene<br />
chiamata in causa per<br />
spiegare in che cosa consista<br />
concretamente la<br />
dialettica tra vecchie e<br />
nuove forme dell’ēthos.<br />
A fungere da chiave<br />
di lettura del testo è la<br />
“duplice intenzionalità”<br />
dell’etica, il suo configurarsi<br />
come esperienza etica del soggetto<br />
e, specularmente, come riflessione etica,<br />
come ridefinizione di quell’esperienza,<br />
mediante il sofisticato apparato concettuale<br />
e metodologico messo a disposizione<br />
dalla filosofia morale. Peraltro, la riabilitazione<br />
dell’intenzionalità soggettiva,<br />
all’interno di ogni valida teoria morale,<br />
va di pari passo con il recupero della<br />
funzione dell’etica nella quotidianità<br />
dell’esistenza umana; in questo modo, si<br />
rinuncia a costringere l’etica nel ruolo di
“pronto soccorso” a cui rivolgersi solo in<br />
situazioni estreme, come quelle che<br />
esemplificano il dominio dell’etica applicata<br />
(una su tutte, l’eutanasia), perlomeno<br />
in relazione ai “fattori reali” che<br />
hanno dato impulso alla sua “affermazione<br />
culturale e sociale”. Ora, che<br />
l’esperienza etica individuale necessiti di<br />
essere orientata, ed eventualmente riorientata,<br />
dalla filosofia morale, emerge<br />
dalla distinzione tra ēthos ed etica – distinzione<br />
che si sovrappone, certo non<br />
senza sbavature, a quella che Aldo Masullo<br />
(Filosofia morale, Roma, Editori<br />
Riuniti, 2006) opera tra morale reattiva<br />
ed etica strictu sensu – ovvero tra i costumi,<br />
le abitudini e le consuetudini del<br />
gruppo di appartenenza, da un lato, e la<br />
kritiké téchnē della loro legittimità morale,<br />
dall’altro: in base ai tre nuclei semantici<br />
racchiusi nel termine ēthos, «la coscienza,<br />
dimorando presso l’ēthos (1), ne<br />
assume i costumi e le consuetudini (2);<br />
così facendo essa costruisce e plasma il<br />
proprio essere, il proprio carattere (3)»<br />
(p. 8). Se si accostasse, allora, alla distinzione<br />
filosofico-morale tra ēthos ed etica<br />
quella filosofico-politica tra approccio<br />
realistico e approccio normativo, non si<br />
tarderebbe a notare che Da Re non rinuncia<br />
al pronunciamento filosofico sul<br />
dover essere, tuttavia assicurando l’etica<br />
dal rischio di qualificarsi come mero attributo,<br />
posticcio ed estrinseco, dell’ē -<br />
thos, con l’identificazione dell’ēthos stesso<br />
quale radice originaria dell’etica.<br />
In base alla “duplice intenzionalità”<br />
dell’etica, è possibile considerare l’opera<br />
come idealmente divisa in due sezioni:<br />
la prima, comprendente i capitoli 1 e<br />
Spigolature 87<br />
2, tematizza l’intenzionalità soggettiva,<br />
mentre la seconda, comprendente i successivi<br />
sei capitoli, tematizza l’intenzionalità<br />
riflessiva, la quale non può che ritagliarsi<br />
uno spazio più ampio nell’economia<br />
complessiva dell’opera, data la finalità<br />
segnatamente filosofico-morale,<br />
invece che antropologica o sociologica,<br />
della stessa. Nello specifico, nella prima<br />
sezione l’Autore connette l’esperienza<br />
cognitiva, assiologica ed emotiva del<br />
soggetto alla sua esperienza etica, in particolare<br />
alle modalità di questa esperienza:<br />
il soggetto può conformarsi all’ēthos<br />
come un solido si lascia rivestire, anzi<br />
costituire, dalla sua superficie; oppure<br />
può fare dell’esperienza etica il punto<br />
d’intersezione di una tangente che dall’ēthos<br />
diverge per sperimentarne nuove<br />
forme.<br />
Una volta introdotta in via preliminare<br />
l’ormai classica bipartizione dei livelli<br />
dell’etica (livello metaetico e livello<br />
normativo) – che è, in realtà, una tripartizione,<br />
se si considera anche l’etica applicata<br />
– la seconda sezione estrapola dal<br />
dibattito etico contemporaneo le più rilevanti<br />
(e inflazionate?) tematiche: il<br />
programma di naturalizzazione dell’etica,<br />
ovvero «il tentativo di comprendere<br />
la realtà morale, il comportamento pratico<br />
e i giudizi di valore morale attraverso<br />
una descrizione e una spiegazione basate<br />
su metodi, concetti, dati, ac<strong>qui</strong>sizioni<br />
desunti dalle scienze naturali» (p.<br />
122); la mal posta dicotomia universalismo/relativismo,<br />
che va piuttosto riposta<br />
innestando sull’eredità hegeliana<br />
l’immagine, che si deve a Todorov, del -<br />
l’universalismo come “quadro di riferi-
88 Spigolature<br />
mento” a disposizione del mutevole articolarsi<br />
di tutti i particolari; la risoluzione<br />
dei “conflitti morali”, basata su una<br />
comparazione, possibile seppur parziale,<br />
dei valori in gioco; ancora, i nuovi ambiti<br />
d’indagine, inaugurati dall’etica applicata<br />
in relazione all’odierno potere<br />
tecnico-scientifico di cui l’uomo si trova<br />
a essere detentore. In merito al nesso tra<br />
libertà e responsabilità, a differenza di<br />
tanti manuali d’introduzione alla filosofia<br />
(si pensi, ad esempio, a T. Nagel,<br />
Una brevissima introduzione alla filosofia,<br />
Milano, Net, 2002), che non mancano<br />
d’impostare la disamina della libertà sulla<br />
diatriba tra fautori del determinismo<br />
e fautori del libero arbitrio, Le parole<br />
dell’etica presenta, accogliendo i contributi<br />
della filosofia politica, le quattro figure<br />
della libertà (positiva, negativa, irrelata<br />
e “del volere”), per poi denunciare<br />
il rischio che la responsabilizzazione di<br />
collettività sempre più estese deresponsabilizzi<br />
il singolo.<br />
Da Re non disdegna di applicare alcune<br />
categorie, che forniscono le coordinate<br />
dell’etica contemporanea, al pensiero<br />
di studiosi antichi e moderni o, meglio,<br />
di includere concezioni antiche e<br />
moderne nei tentativi di risposta agli interrogativi<br />
sollevati. Ma c’è di più: nel<br />
testo emerge come l’Autore abbia atteso<br />
alla sua ricostruzione della terminologia<br />
filosofico-morale inforcando, a più riprese,<br />
le lenti della Rehabilitierung der<br />
praktischen Philosophie diffusasi negli anni<br />
Sessanta. Così, ad esempio, affida alla<br />
ragione pratica, di matrice aristotelica, il<br />
ruolo di mediazione dei conflitti morali<br />
o tenta d’invalidare il riduzionismo, in<br />
cui il programma di naturalizzazione<br />
dell’etica crede di trovare la propria legittimazione,<br />
mediante una concezione<br />
dinamica dell’uomo, che passa attraverso<br />
il recupero della distinzione, operata<br />
da Aristotele, tra atto e potenza e attraverso<br />
l’estensione della sua concezione<br />
delle virtù tout court all’uomo, il quale<br />
non sarebbe né “secondo natura”, né<br />
“contro natura”, bensì «un essere chiamato<br />
a realizzare la sua propria natura,<br />
ad attualizzarla» (p. 137).<br />
Il volume è corredato da note che<br />
costituiscono un apparato ricco, senza<br />
risultare d’ostacolo alla lettura, e che<br />
possono essere proficuamente consultate<br />
come voci bibliografiche (essendo, tra<br />
l’altro, assente una vera e propria bibliografia).<br />
Nel complesso, al lettore è consegnata<br />
una trattazione compatta, densa<br />
di rimandi intertestuali e ben gestita nello<br />
snodo da un nucleo tematico all’altro.<br />
La distribuzione degli argomenti risulta<br />
e<strong>qui</strong>librata soprattutto se, da una parte,<br />
si tiene conto di quanto sia arduo misurarsi,<br />
in vista di una sinossi, con un ambito<br />
sterminato come quello della filosofia<br />
morale e, dall’altra, si ripone fiducia<br />
nella promessa dell’Autore di pubblicare<br />
a breve un’appendice di approfondimento.<br />
«Pluralitas non est ponenda sine<br />
necessitate»: se si è disposti ad ammettere<br />
quest’applicazione sui generis del “rasoio<br />
di Ockham”, come indicazione redazionale<br />
anziché come principio ontologico,<br />
si converrà sul buon uso che Da Re fa di<br />
esso.<br />
Inoltre, nell’opera trova effettiva realizzazione<br />
l’intento, dichiarato nell’Introduzione,<br />
di adottare una prospettiva
teoretica, piuttosto che storica. Il limite<br />
intrinseco di una simile prospettiva è<br />
che obbliga chi la impiega a centellinare<br />
le coordinate spazio-temporali e culturali<br />
delle teorie proposte, passando con disinvoltura<br />
da un autore a un altro, da un<br />
secolo a un altro, da una Weltanschauung<br />
a un’altra, e a mescolare così tanti<br />
colori sulla tavolozza da creare infine un<br />
nuovo, originale colore, oltrepassando<br />
così i confini tracciati dalla sinossi. Tutto<br />
questo, si badi bene, rappresenterebbe<br />
un successo teorico non indifferente,<br />
se si decidesse di restringere il target del<br />
testo agli addetti ai lavori destinandolo,<br />
per esempio, allo studente specialista o<br />
al dottorando; per altri target, per esempio<br />
lo studente triennalista o l’esperto in<br />
discipline filosofiche diverse da quelle<br />
morali o, a maggior ragione, il lettore<br />
generalista, sarebbe presumibilmente indispensabile<br />
ampliare sin da subito quelle<br />
parti (per esempio, i capitoli dedicati<br />
alla naturalizzazione dell’etica e al nesso<br />
tra libertà e responsabilità) che questo<br />
secondo target potrebbe giudicare non<br />
didatticamente esaustive: in altri termini,<br />
il rischio in cui incorre Da Re è di<br />
Spigolature 89<br />
in<strong>vita</strong>re il lettore a seguirlo lungo un<br />
percorso che, per essere affrontato, richiede<br />
dotazioni ed e<strong>qui</strong>paggiamenti<br />
che non ogni lettore possiede.<br />
Una lettura non agevole per tutti, insomma,<br />
ma pregevole soprattutto perché<br />
riesce a conservare, accanto e nonostante<br />
l’intento definitorio, la cura per il<br />
carattere aporetico della filosofia, nella<br />
consapevolezza che le sue parole «per vivere<br />
hanno bisogno di essere sempre e<br />
nuovamente pronunziate e pensate» (p.<br />
XII) e che, come scriveva Benedetto<br />
Croce nella Logica, «il suo continuo cangiare<br />
non è un fare e disfare, ma un continuo<br />
superarsi […]. Nessuno rinunzia<br />
ad amare perché l’amore passa; e nessuno<br />
cessa dal pensare, perché il pensiero<br />
cederà il luogo ad altri pensieri. L’amore<br />
passa, ma genera altri esseri, che ameranno:<br />
il pensiero passa, ma genera altri<br />
pensieri, che moveranno ancora a pensare.<br />
Anche nel mondo del pensiero si sopravvive<br />
nei propri figliuoli che ci contrariano,<br />
ci sostituiscono e ci seppelliscono<br />
(e non sempre con la debita pietà)».<br />
Antonio Da Re, Le parole dell’etica, Milano,<br />
Bruno Mondadori, 2010, pp. 215, € 18,00.
Maria Vita Romeo<br />
Uno studio su Pascal<br />
Non abbiamo più dubbi nell’affermare<br />
che la rinascita degli studi pascaliani<br />
in Italia sia ormai, da dieci anni a<br />
questa parte, una realtà stabile e continua,<br />
a conferma che i tempi sono ormai<br />
maturi per sciogliere ogni pregiudiziale<br />
riserbo nei confronti di un génie capace<br />
di spaziare dalla matematica alla filosofia,<br />
dalla fisica alla teologia, dalla meccanica<br />
all’esegesi biblica. Ebbene, all’interno<br />
di questa rinascita si<br />
colloca a pieno titolo il<br />
Pascal di Alberto Peratoner,<br />
un lavoro che è<br />
qualcosa di più di un’introduzione<br />
al pensiero<br />
del filosofo di Clermont-<br />
Ferrand: è un vero e proprio<br />
manuale d’istruzioni,<br />
ben articolato, che<br />
guida il lettore con mano<br />
sicura nell’affascinante<br />
universo pascaliano.<br />
Nel Pascal di Peratoner<br />
troviamo infatti «un<br />
excursus mirante a focalizzare i momenti<br />
determinanti di formazione della coscienza<br />
filosofica dell’autore e dell’affermarsi<br />
delle sue peculiarità strutturali secondo<br />
una stratificazione progressiva»<br />
(p. 15), che va ine<strong>vita</strong>bilmente dall’analisi<br />
del Pascal scienziato a quella dell’uomo<br />
di fede, senza mai perdere di vista<br />
l’autentico volto di Pascal che si serve di<br />
tutte le sue esperienze come di arnesi<br />
preziosi per provare a scoprire quel “mostro<br />
incomprensibile” che è l’uomo.<br />
Così, se viene dedicato un intero capitolo<br />
al Pascal scienziato, matematico<br />
di prim’ordine e fisico eccellente, è al<br />
Pascal pensatore che Peratoner dedica<br />
più attenzione, non esitando per ciò a<br />
mostrare l’inattendibilità di quei giudizi<br />
sull’esistenza di un “doppio” Pascal fondati<br />
su certe “leggende”<br />
diffuse dalla famiglia e a<br />
cui hanno dato un contributo<br />
decisivo le opinioni<br />
distorte dell’età dei<br />
Lumi e del periodo romantico.<br />
Interessantissimo è il<br />
capitolo dedicato al rapporto<br />
tra Pascal e l’ambiente<br />
di Port-Royal, ove<br />
il cattolicesimo agostiniano<br />
del cosiddetto giansenismo<br />
ha senza dubbio<br />
contribuito alla formazione<br />
teologica e filosofica di Pascal, come<br />
testimoniano alcune opere legate a<br />
questo periodo: L’Entretien avec M. De<br />
Sacy e L’Abrégé de la vie de Jésus-Christ.<br />
All’interno dello stesso capitolo, uno<br />
spazio a parte viene dedicato alle Lettres<br />
Provinciales e alla Suite des Provinciales,<br />
attraverso le quali Pascal, nel biennio<br />
che va tra il 1656-57, ha potuto dar pro-
va di quella razionalità limpida a cui<br />
l’esperienza scientifica l’aveva formato.<br />
In effetti le Provinciali non sono, come<br />
sottolinea Peratoner, né il «contributo di<br />
un polemista di vaglia», né «l’apporto di<br />
un esperto teologo», che di contro darà<br />
prova delle sue conoscenze teologichedogmatiche<br />
negli Scritti sulla grazia,<br />
opera ove Pascal, lontano dal clima polemico<br />
che avvolge la stesura delle Petites<br />
Lettres, affronta con più libertà e serenità<br />
la questione della grazia e dei problemi<br />
ad essa connessi.<br />
Dall’analisi completa delle opere pascaliane,<br />
Peratoner fa notare la chiarezza<br />
dello stile di Pascal, la cui «qualità artistica<br />
[…] è di altissimo livello» grazie<br />
soprattutto alla «grande versatilità e plasticità<br />
di una scrittura, che di volta in<br />
volta sa assumere la forma più opportuna<br />
alla materia trattata, suscitando un<br />
alto grado di coinvolgimento nel lettore<br />
e finendo col fare convergere, sino alla<br />
coincidenza, forma e contenuto» (p.<br />
165). Questa concretezza espressiva cara<br />
a Pascal mostra, secondo Peratoner, la<br />
distanza tra il Nostro ed alcuni esponenti<br />
di Port-Royal, i quali rifuggivano dalla<br />
concretezza al punto da risultare incapaci<br />
di apprezzare il valore stilistico delle<br />
Pensées, che vennero ampiamente rimaneggiate,<br />
tradendo così il valore stilistico<br />
del «fondatore della prosa francese» (p.<br />
166).<br />
A proposito delle Pensées, Peratoner<br />
ci offre una dettagliata analisi di quest’opera,<br />
la cui incompiutezza ha dato<br />
origine, nell’arco di tre secoli, a tantissime<br />
edizioni tutte dirette a tentare di ricombinare,<br />
in vari modi e con spiega-<br />
Spigolature 91<br />
zioni diverse, l’ordine dei frammenti.<br />
Così Peratoner, dopo aver proposto una<br />
«ragione architettonica delle Pensées» –<br />
già d’altra parte ampiamente analizzata<br />
nel suo Blaise Pascal. Rivelazione e Fondazione<br />
dell’etica (Venezia, 2002) –,<br />
giunge all’ine<strong>vita</strong>bile riconoscimento<br />
che la «struttura generale della monumentale<br />
architettura pascaliana risponde<br />
all’esigenza logica ed epistemologica di<br />
trovare adeguata spiegazione alla configurazione<br />
problematica dello statuto antropologico<br />
– riscontrato su base fenomenologica<br />
–, in quanto plesso esperienziale<br />
complesso effetto da contrariétés»<br />
(p. 218). I Pensieri – la cui “prima<br />
parte” viene dedicata alla Miseria dell’uomo,<br />
miseria che si risolve nella “seconda<br />
parte” dedicata alla Felicità dell’uomo<br />
con Dio – esprimono “un’articolata<br />
prova antropologica della verità del<br />
Cristianesimo”, religione che Pascal, con<br />
un rigore razionale di ovvia ispirazione<br />
scientifica, dimostra essere l’unica capace<br />
di risolvere l’enigma uomo.<br />
Si giunge così ine<strong>vita</strong>bilmente all’etica<br />
pascaliana «punto di arrivo e di sintesi,<br />
luogo di realizzazione e compimento<br />
pratico della realtà, indagata e conosciuta,<br />
di Dio, del mondo e dell’uomo» (p.<br />
243). La morale è dunque “l’esito, il cuore<br />
di tutto”; essa è infatti caratterizzata<br />
da una forte prospettiva eudemonistica,<br />
che risponde d’altra parte all’architettura<br />
dell’Apologie stessa, ove la felicità dell’uomo<br />
con Dio si presenta come una macrostruttura<br />
che informa l’intera argomentazione<br />
apologetica. A ragione, dunque,<br />
si parla di un primato della morale testimoniato<br />
dal vissuto esperienziale dello
92 Spigolature<br />
stesso Pascal, la cui etica si fonda su una<br />
prospettiva relazionale, secondo quanto<br />
conclude la sezione delle Pensées intitolata<br />
Morale Chrétienne, ove il modello<br />
paolino del corpo composto da “membra<br />
pensanti” costituisce il modello sul<br />
quale edificare una comunità più giusta<br />
ed autentica, ove ogni uomo, ridimensionando<br />
l’amor proprio, si ami senza<br />
essere odioso all’altro, sorretto dalla forza<br />
della charité.<br />
Alberto Peratoner, Pascal, Roma, Carocci, 2011,<br />
€ 18,00.
Maria Vita Romeo<br />
La globalizzazione e la negazione dell’individuo<br />
Con questo volume Giuseppe Acocella<br />
dà <strong>vita</strong> ad un’interessante riflessione<br />
sulle grandi trasformazioni avvenute<br />
in campo etico, giuridico e sociale a causa<br />
della globalizzazione. È infatti ormai<br />
evidente a tutti che questo fenomeno di<br />
progressivo ampliamento<br />
su scala mondiale della<br />
sfera delle relazioni sociali,<br />
economiche e finanziarie<br />
abbia condotto in maniera<br />
non irrilevante ad<br />
una certa crisi degli Stati<br />
nazionali e, in particolare,<br />
del loro «potere fontale» e<br />
della sovranità da essi<br />
esercitata nella «produzione<br />
del diritto». Agli<br />
inizi del terzo millennio,<br />
infatti, quella sovranità<br />
normativa – che il mondo<br />
moderno aveva riconosciuto<br />
agli Stati nazionali, al fine di<br />
gestire le collettività organizzate – risulta<br />
ormai appannata, mettendo così in crisi<br />
uno dei caratteri essenziali del diritto:<br />
«la dimensione territoriale della produzione<br />
normativa e delle funzioni giurisdizionali».<br />
Ci troviamo così di fronte, seppur in<br />
termini diversi e prospettive da esplorare,<br />
ad antichi interrogativi sui problemi<br />
dell’universalizzazione del diritto e dei<br />
diritti; sul rapporto tra le esigenze del-<br />
l’individuo e quelle della collettività:<br />
problemi, questi, sui quali avevano già<br />
riflettuto due maestri della filosofia giuridica<br />
e morale del Novecento, Pietro<br />
Piovani e Giuseppe Capograssi.<br />
Pertanto, in un’epoca come l’attuale,<br />
segnata «profondamente<br />
ed irrimediabilmente dalla<br />
crisi della territorialità<br />
del diritto e della politica»<br />
(p. 27), occorre fare i<br />
conti con i fondamenti<br />
razionali di una politica<br />
che si lascia sempre più<br />
orientare da una nuova<br />
lex mercatoria, che «sostituisce<br />
ai poteri pubblici e<br />
alla dialettica democratica<br />
e sociale le volontà (e le<br />
prassi commerciali e finanziarie)<br />
dei grandi centri<br />
economici» (pp. 27-8).<br />
Ma – e sta proprio <strong>qui</strong> il nodo della<br />
questione e il senso di una domanda<br />
ineludibile – in una società ormai globalizzata<br />
la mera razionalità può essere un<br />
saldo punto di riferimento per le scelte<br />
politiche, giuridiche e pubbliche in genere?<br />
Ci si può affidare alla ragione senza<br />
«ricorrere all’idea della <strong>vita</strong>» promossa<br />
«dalla legge etica rassodata dall’esperienza<br />
storica», che «la civiltà giuridica ha consolidato<br />
nel tempo, custodendone i<br />
princìpi e traducendoli in norme»?
94 Spigolature<br />
Guardare al valore dell’idea della <strong>vita</strong><br />
significa in primis per l’uomo dominare<br />
la tecnica e gestire il potere che gli deriva<br />
da essa con responsabilità, così come<br />
ricordava Romano Guardini nel 1951 ne<br />
Il potere. Ma significa anche fare i conti<br />
con la sovranità sempre più contesa tra<br />
le istituzioni politiche, rappresentanti<br />
delle collettività territoriali, ed i grandi<br />
imperi economico-finanziari, il cui potere<br />
supera ogni confine territoriale. «Il<br />
problema – scrive Acocella – sta dunque<br />
tutto nel chiedersi se le regole di diritto<br />
debbano rispecchiare l’esercizio della<br />
forza (economica) comunque prodotta<br />
attraverso prodotti finanziari di ogni genere,<br />
o piuttosto disciplinare le relazioni<br />
e le energie che vengono messe in campo<br />
nel “gioco” economico, facendosi<br />
guidare da un’etica della responsabilità<br />
che privilegi le comunità e la tutela dei<br />
diritti personali rispetto alla libertà di<br />
manovra di gruppi finanziai anche nella<br />
creazione illusoria di profitto» (p. 41).<br />
Insomma, può oggi sopravvivere l’economia<br />
di mercato senza l’etica? Può la<br />
logica del profitto affermarsi ad ogni costo,<br />
a discapito della dignità umana e<br />
nella totale indifferenza per le norme<br />
della giustizia sociale?<br />
Se la risposta è negativa, allora dobbiamo<br />
ripensare criticamente la modernità<br />
che, separando le sorti dell’individuo<br />
da quelle della comunità e puntando<br />
tutto sull’individualismo, ha sconvolto<br />
e fagocitato ogni riferimento etico<br />
che non fosse riconducibile alla cifra singolaristica:<br />
«sparito il radicamento dell’etica<br />
comune, la socialità è affidata alla<br />
forza e agli egoismi» (p. 102). Da <strong>qui</strong> la<br />
necessità, preannunciata da Caprograssi,<br />
di superare in blocco l’individualità nel -<br />
l’esperienza comune. «Nella posizione di<br />
Capograssi – precisa Acocella – anche i<br />
tradimenti totalitari non fanno che confermare<br />
la necessità etica dello Stato, ultima<br />
posizione giudica dell’azione, che<br />
non può esaurire la <strong>vita</strong> morale, ma non<br />
ne può neppure prescindere» (pp. 104-5).<br />
In conclusione, occorre porre a fondamento<br />
dell’ordine morale e giuridico<br />
la morale comune, la sola capace di rendere<br />
possibile la convivenza tra molteplici<br />
comunità. Contro il relativismo, da<br />
un lato, ed il monismo e dispotismo,<br />
dall’altro, è necessaria dunque un’etica<br />
sociale e giuridica che miri a raggiungere<br />
un e<strong>qui</strong>librio tra l’individuo e la storia,<br />
riconoscendo in tal modo la dimensione<br />
universale che è insita nell’esistenza stessa,<br />
nell’esperienza che quotidianamente<br />
l’individuo fa, lottando contro tutto ciò<br />
che insidia l’idea della <strong>vita</strong>.<br />
Raccogliendo alcune riflessioni su<br />
questa grande trasformazione che ha interessato<br />
in particolare il mondo giuridico<br />
di questi ultimi anni, Giuseppe Acocella<br />
perviene, da un lato, alla constatazione<br />
della crisi del diritto unitario e,<br />
dall’altro, al riconoscimento della necessità<br />
dei cosiddetti corpi intermedi che<br />
l’individuo interpone tra sé e lo Stato.<br />
Così, nell’era del diritto mondiale, di<br />
fronte ad uno Stato che perde sempre<br />
più brandelli di sovranità, si fa strada<br />
«l’esperienza dei corpi intermedi tra individuo<br />
e collettività quali produttori<br />
del diritto e soggetti della negoziazione<br />
giuridica» (p. 12). Nell’era della globalizzazione,<br />
dunque, alla riduzione della so-
vranità dello Stato corrisponde la <strong>vita</strong>le<br />
rinascita delle forme intermedie che,<br />
producendo la legge, ricostruiscono il<br />
rapporto tra l’individuo e lo Stato, puntando<br />
sui diritti fondamentali della persona.<br />
«La grande trasformazione – sostiene<br />
giustamente Acocella – che segna<br />
l’inizio del terzo millennio dell’era cristiana<br />
mette dunque in gioco proprio<br />
l’inseparabile relazione che intercorre tra<br />
responsabilità individuale ed edificazione<br />
comune dell’ordine morale, mutando<br />
le prospettive del diritto, per il quale la<br />
lotta per l’ordine etico costituisce lo scopo<br />
storico del mondo umano».<br />
Spigolature 95<br />
Perciò oggi risultano più che mai<br />
profetiche le parole di Pietro Piovani<br />
che, nel volume Linee di una filosofia del<br />
diritto (1968, p. 171), così ammoniva:<br />
«L’individuo che precipitosamente chieda<br />
difesa non più allo Stato, ma all’associazione<br />
professionale, perché a sua volta<br />
s’imponga allo Stato, e gli presti nuova<br />
forza, vuole, tramite l’associazione, protezione<br />
principalmente per il suo lavoro».<br />
Giuseppe Acocella, Etica, diritto, democrazia.<br />
La grande trasformazione, Bologna, Il Mulino,<br />
2010, pp. 141, € 14,00.
summum crede nefas animam præferre pudori<br />
et propter <strong>vita</strong>m vivendi perdere causas