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Quaderni<br />

del Laboratorio di Etica<br />

leifSemestrale<br />

e Informazione Filosofica<br />

Università di Catania


Quaderni<br />

leifSemestrale<br />

del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica - Università di Catania<br />

Impaginazione e stampa:<br />

, grafica editoriale<br />

di Pietro Marletta,<br />

via Delle Gardenie 3, Belsito,<br />

95045 Misterbianco (CT),<br />

tel. 095 71 41 891<br />

Direttore<br />

MARIA VITA ROMEO<br />

Redazione<br />

MASSIMO VITTORIO (coordinatore),<br />

ANTONIO CARAMAGNO, DANILA D’ANTIOCHIA,<br />

FLORIANA FERRO, ANTONIO G. PESCE,<br />

ELISABETTA TODARO, DANIELA VASTA<br />

Segreteria di redazione<br />

MELANIA D’ANNA, MANUELA FINOCCHIARO<br />

Comitato Scientifico<br />

PAOLO AMODIO, LAURA BERCHIELLI,<br />

DOMENICO BOSCO, CALOGERO CALTAGIRONE,<br />

RICCARDO CAPORALI, CARLO CARENA,<br />

DOMINIQUE DESCOTES, LAURENCE DEVILLAIRS,<br />

GÉRARD FERREYROLLES, DENIS KAMBOUCHNER,<br />

GORDON MARINO, GIUSEPPE PEZZINO,<br />

PHILIPPE SELLIER, PAOLO VINCIERI<br />

Direttore responsabile<br />

GIOVANNI GIAMMONA<br />

Direzione, redazione e amministrazione<br />

Dipartimento di Scienze Umane, Università di Catania.<br />

Piazza Dante, 32 - 95124 Catania.<br />

Tel. 095 7102343 - Fax 095 7102566<br />

Email: fil.morale@unict.it - http://www.dsu.unict.it<br />

Questa rivista è distribuita gratuitamente<br />

sino all’esaurimento delle copie.<br />

Per richiedere una copia, rivolgersi<br />

alla Segreteria di redazione, tel. 095 7102358,<br />

fax 095 7102566,e-mail: fil.morale@unict.it<br />

ISSN 1970-7401<br />

© 2010<br />

Dipartimento di Scienze Umane, Università di Catania<br />

Registrazione presso il Tribunale di Catania,<br />

n. 25/06, del 29 settembre 2006


Quaderni<br />

leif<br />

Semestrale del Laboratorio di Etica<br />

e Informazione Filosofica<br />

AGORÀ<br />

Università di Catania<br />

Anno IV n. 5, gennaio-giugno 2010<br />

Laurence Devillairs Considerazioni sul Dio di Descartes 5<br />

Denis Kambouchner Descartes e il problema della fede 23<br />

Floriana Ferro Elementi cartesiani nell’Infinito di Levinas 45<br />

Maria Vita Romeo Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 61<br />

Giuseppe Pezzino Etica e politica nelle «Provinciali» 81<br />

SPIGOLATURE<br />

A. Giovanni Pesce La forte fede del pensiero debole 99<br />

Antonio Caramagno Bon ton dell’informatica o etica dell’informatica? 103<br />

Massimo Vittorio Un affascinante viaggio nel pianeta uomo 108


Caravaggio, Davide e Golia, 1597-1598 ca.,<br />

olio su tela, 110 × 91 cm, Madrid, Museo del Prado


LAURENCE DEVILLAIRS<br />

Considerazioni sul Dio di Descartes<br />

TRADURRE, TRADIRE. PERSINO L’OPERA recente di Umberto Eco non<br />

può non farci pensare al frequente accostamento che si effettua fra<br />

traduzione e tradimento: «dire quasi la stessa cosa» comporta sempre il rischio<br />

di parlare al di là della cosa.<br />

Le numerose correzioni che apportò al testo latino delle Meditazioni<br />

mostrano a quale punto Descartes fosse scrupoloso sulla scelta dei termini,<br />

come provano particolarmente le Lettere del 4 e del 18 marzo 1641<br />

indirizzate a Mersenne. Se ogni parola conta, si può sperare che ogni parola<br />

della traduzione sia pensata e soppesata. La traduzione delle Meditazioni<br />

del duca di Luynes poteva fare affidamento su un testo iniziale perfettamente<br />

riveduto e corretto.<br />

Tuttavia, su un punto preciso, che a tutta prima potrebbe essere considerato<br />

un dettaglio, noi desidereremmo mostrare che la traduzione è<br />

non soltanto fallace ma che essa opera un importante controsenso, che ha<br />

condotto, senza dubbio fino ai nostri giorni, a nascondere un elemento<br />

fondamentale della metafisica cartesiana, e più esattamente della conoscenza<br />

cartesiana di Dio. In effetti, quando Descartes scrive<br />

illa [idea] per quam summum aliquem Deum, æternum, infinitum, omniscium,<br />

omnipotentem, rerumque omnium, quæ præter ipsum sunt, creatorem intelligo,<br />

il suo traduttore è forse autorizzato a tradurre<br />

[l’idea] per la quale concepisco un Dio sovrano, eterno, infinito, immutabile, che<br />

tutto conosce, onnipotente, e Creatore universale di tutte le cose che sono fuori<br />

di lui? 1<br />

1 R. Descartes, Meditazione Terza, in Opere 1637-1649, a cura di G. Belgioioso, testo francese<br />

e latino a fonte, Milano, Bompiani, 2009, pp. 733-5 (AT IX, 32, VII, 40).<br />

5


6 Laurence Devillairs<br />

Tradurre il latino intelligere con concepire costituisce ben più che un<br />

errore di traduzione, poiché lo stesso Descartes provava – a più riprese<br />

– l’impossibilità di una concezione di Dio o dei suoi attributi, e instaurava<br />

una distinzione radicale fra conoscere (intelligere, percipere, cogniscere<br />

2 ) e comprendere o concepire (comprehendere; capere; adæquate comprehendere):<br />

so però che Dio è autore di tutte le cose […] Dico che lo so, e non che lo concepisco<br />

o lo comprendo; si può infatti sapere che Dio è infinito e onnipotente,<br />

benché la nostra anima, essendo finita, non lo possa comprendere né concepire 3 .<br />

Oggetto di conoscenza, Dio sfugge al concetto. Tale è dunque una<br />

delle specificità più importanti della metafisica cartesiana, sulla quale desidererei<br />

ritornare con tutta l’attenzione richiesta dallo stesso Descartes.<br />

Prima di affrontare l’esame dell’incomprensibilità dell’infinito divino,<br />

comincerò dall’aspetto positivo che accompagna quest’affermazione, e<br />

cioè la rivendicazione della possibilità di una conoscenza chiara e distinta<br />

della natura divina.<br />

L’opposizione pascaliana fra il Dio dei filosofi e il Dio dei credenti –<br />

opposizione che è diventata un luogo comune della storia della filosofia –<br />

ha scartato la possibilità di una via filosofica, e più precisamente cartesiana,<br />

di accesso a Dio. Avendo adottato facilmente la lettura pascaliana dei<br />

rapporti tra fede e ragione, siamo ormai convinti che il razionalismo (cartesiano)<br />

escluda la possibilità d’integrare nel suo ordine il Dio della fede.<br />

Una tale interpretazione richiede di fermare la lettura di Descartes alla<br />

Seconda Meditazione e alla formulazione del famoso Cogito oppure Io<br />

sono, Io esisto. Ora la conoscenza di sé è seconda, e segue la conoscenza di<br />

Dio: l’idea dell’infinito precede l’idea di sé come finito:<br />

2 Ivi, p. 734 -738-740; (AT VII, 40; 45). «Postquam fatis accurate investigavimus <strong>qui</strong>d sit<br />

Deus, clare et distincte intelligimus ad ejus veram et immutabilem naturam pertinere ut existat», Prime<br />

obiezioni, in Opere 1637-1649, cit., p. 832; (AT VII, 116). «Per infinitam substantiam, intelligo…»,<br />

Lettera di Descartes a Clerselier, Egmond-Binnen, 23 aprile 1649, in R. Descartes, Tutte le<br />

lettere 1619-1650, a cura di G. Belgioioso, testo francese, latino e olandese, Milano, Bompiani,<br />

2005, p. 2694. (AT V, 355).<br />

3 Lettera di Descartes a Mersenne, Amsterdam, 27 maggio 1630, in Tutte le lettere, cit., p. 153<br />

(AT I, 152); cfr. J. Laporte, Le rationalisme de Descartes, Paris, Vrin, pp. 293-6; J.-M. Beyssade,<br />

Descartes au fil de l’ordre, p. 158 e sgg.


Considerazioni sul Dio di Descartes 7<br />

Quindi, in me, la percezione dell’infinito viene prima di quella del finito, ossia<br />

quella di Dio, prima di quella di me stesso 4 .<br />

Il Cogito della Seconda Meditazione è una verità, ma una verità incompleta<br />

che la continuazione delle Meditazioni avrà il compito di arricchire,<br />

soprattutto mostrando come l’ego ha non soltanto l’idea di Dio, ma è<br />

idea di Dio, l’atto in virtù del quale si è e si conosce sé stessi, in quanto è<br />

indissociabile dall’atto per il quale si sa che Dio è:<br />

E non c’è davvero da meravigliarsi del fatto che Dio, creandomi, abbia messo in<br />

me quell’idea, perché fosse come l’impronta dell’artigiano impressa nella sua<br />

opera; neanche c’è bisogno che quell’impronta sia cosa diversa dall’opera stessa.<br />

Ma è del tutto credibile, in base al solo fatto che Dio mi ha creato, che io sia<br />

stato in qualche modo fatto a sua immagine e somiglianza, e che questa somiglianza,<br />

in cui è contenuta l’idea di Dio, sia da me percepita attraverso la medesima<br />

facoltà attraverso cui io sono percepito da me stesso; quando, cioè, rivolgo<br />

verso me stesso l’acume della mente, non soltanto intendo d’essere una cosa incompleta<br />

e dipendente da altro, e che aspira indefinitivamente a qualche cosa<br />

che è sempre più grande, o migliore, ma al tempo stesso intendo anche che colui<br />

da cui dipendo possiede questo qualcosa di più grande 5 .<br />

La metafisica cartesiana poggia <strong>qui</strong>ndi su questa affermazione in apparenza<br />

lapidaria, ma che ordina l’insieme della conoscenza dell’uomo e<br />

di Dio: io ho «un’idea positiva e reale di Dio» 6 .<br />

Iscritta nella nostra mente, questa idea ha la capacità (grazie alla sua<br />

realtà oggettiva) di dare una rappresentazione chiara e distinta, una conoscenza<br />

vera di Dio:<br />

Bisogna dunque trovarsi d’accordo [sul fatto] che possediamo l’idea di Dio e<br />

che non possiamo ignorare quale sia questa idea, né come debba essere intesa:<br />

senza questa premessa, infatti, non potremmo conoscere assolutamente nulla<br />

di Dio 7 .<br />

4 Meditazione Terza, cit., p. 741 (AT IX, 36).<br />

5 Ivi, p. 749 (AT IX, 41).<br />

6 Meditazione Quarta, in Opere, cit., p. 753 (AT IX, 43).<br />

7 Lettera di Descartes a Mersenne, Endegeest, luglio 1641, in Tutte le lettere, cit., pp. 1483-5;<br />

(AT III, 394).


8 Laurence Devillairs<br />

L’idea è una rappresentazione della natura o dell’essenza di Dio; essa<br />

permette la determinazione di ognuno dei suoi attributi, in quanto essi<br />

«convengono» alla sua «grandezza», o alla sua stessa divinità:<br />

Come avrebbe potuto dire che Dio è infinito e incomprensibile, e che non può<br />

essere rappresentato con la nostra immaginazione? E come potrebbe assicurare<br />

che questi attributi, e una infinità di altri che ci dimostrano la sua grandezza, gli<br />

convengono, se non ne avesse l’idea? 8<br />

L’idea è fondamento della conoscenza di Dio e criterio a partire dal<br />

quale determinare le sue perfezioni:<br />

E si avrebbe un bel dire, per esempio, che si crede che Dio è e che qualche attributo<br />

o perfezione gli appartiene: sarebbe come non dire nulla, poiché ciò non<br />

porterebbe alcun significato per la nostra mente 9 .<br />

Se meditiamo l’idea di Dio o, per utilizzare un termine cartesiano, se<br />

noi facciamo riflessione [respicientes] su questa idea, sappiamo non soltanto<br />

che Dio è, ma anche e soprattutto ciò che egli è, come afferma in<br />

modo esemplare l’articolo 22 dei Principes:<br />

Questo modo di provare l’esistenza di Dio, cioè attraverso la sua idea, ha un<br />

grande privilegio: che cioè mentre ne proviamo l’esistenza veniamo al tempo<br />

stesso a conoscere chi mai egli sia, per quanto è possibile alla nostra debole natura.<br />

Infatti volgendo lo sguardo alla sua idea, nata con noi, vediamo […] che<br />

ha in sé tutto ciò in cui possiamo osservare chiaramente esservi una qualche<br />

perfezione infinita, cioè non limitata da imperfezione alcuna 10 .<br />

L’idea «rappresenta l’essenza» della cosa; l’idea di Dio rappresenta,<br />

<strong>qui</strong>ndi, Dio nella sua essenza; ed è a partire da questa rappresentazione<br />

che è possibile determinare con chiarezza e il più distintamente possibile<br />

quali siano i suoi attributi o perfezioni:<br />

18 Ivi, p. 1484.<br />

19 Ivi, p. 1485 (AT III, 394).<br />

10 «Magna autem in hoc existentiam Dei probandi modo, per ejus scilicet ideam, est prærogativa:<br />

quod simul <strong>qui</strong>snam sit, quantum naturæ nostræ sert infirmitas, agnoscamus. Nempe ad ejus ideam<br />

nobis ingenitam respicientes, videmus […] ac denique illa omnia in se habentem, in <strong>qui</strong>bus aliquam<br />

perfectionem infinitam […] clare possumus advertere» (Princìpi della filosofia, I, XXII, in Opere,<br />

cit., p. 1726, 1727; (AT IX-B, 35, VIII-A, 13).


Considerazioni sul Dio di Descartes 9<br />

L’idea, infatti, rappresenta l’essenza della cosa che, se ad essa viene aggiunto o<br />

detratto qualcosa, diviene subito l’idea di un’altra cosa […]. Ma, dopo che sia<br />

stata concepita una volta l’idea del vero Dio, per quanto possano essere scoperte<br />

in lui nuove perfezioni di cui non ci si era ancora accorti, non per questo, tuttavia,<br />

la sua idea viene aumentata, ma è soltanto resa più distinta ed espressa, poiché<br />

tali perfezioni avevano dovuto essere tutte contenute nella stessa idea che si<br />

aveva prima, dal momento che si suppone fosse vera 11 .<br />

Con questa rivendicazione della possibilità per l’intelletto finito di rappresentarsi<br />

l’essenza divina, per mezzo di un’idea, Descartes rompe esplicitamente<br />

e radicalmente con Tommaso d’A<strong>qui</strong>no, che in effetti sostiene:<br />

con una rappresentazione creata, qualunque essa sia, [non si potrà] scorgere l’essenza<br />

di Dio. Poiché l’essenza divina è qualcosa di illimitato, contenente in sé,<br />

in modo trascendente, tutto ciò che può essere significato e compreso da un intelletto<br />

creato. E ciò non può in alcun modo essere rappresentato da una specie<br />

creata 12 .<br />

Per Descartes, invece, l’essenza di Dio può essere racchiusa in un’idea<br />

che la rappresenta chiaramente e distintamente, positivamente e realmente<br />

13 . Ecco perché noi non conosciamo semplicemente dei nomina o nomi<br />

divini, determinati per astrazione e negazione a partire dagli effetti sensibili,<br />

ma conosciamo degli attributi reali, ottenuti per «riflessione» (respicientes)<br />

sull’essenza divina. È a partire dall’essenza stessa di Dio, come la<br />

fa conoscere la sua idea, che gli si attribuiscono l’esistenza e tutte le altre<br />

sue perfezioni. Ecco un altro modo, per Descartes, di opporsi ai princìpi<br />

tomisti della conoscenza di Dio:<br />

Inoltre, negli argomenti che si fanno per dimostrare l’esistenza di Dio, non è<br />

necessario prendere come termine medio della dimostrazione l’essenza o la natura<br />

di Dio […]; ma al posto della <strong>qui</strong>ddità, si prende quale termine medio l’effetto,<br />

come avviene nelle dimostrazioni <strong>qui</strong>a (ovvero induttive). E da tale effetto<br />

si desume il significato del termine Dio. Infatti tutti i nomi di Dio sono desunti,<br />

o dall’intenzione di escludere da Dio certi effetti che dipendono da lui, o da<br />

quella di indicare una somiglianza di Dio con alcuni di essi 14 .<br />

11 Meditazioni. Quinte Risposte, in Opere, cit., p. 1175 (AT VII, 371).<br />

12 Somma teologica, I a, q. 12, a. 2.<br />

13 Vedi sopra, nota 5, p. 7.<br />

14 Somma contro i Gentili, libro I, cap. XII.


10 Laurence Devillairs<br />

Nella metafisica cartesiana, l’attribuzione delle perfezioni divine si<br />

realizza non a partire dagli effetti ma dalla causa medesima, e cioè l’essenza<br />

di Dio, rappresentata attraverso la sua idea:<br />

Se ricaverò da un’idea innata qualcosa che era certo contenuto implicitamente<br />

in essa […] come ad esempio […] dall’idea di Dio che esiste […] sarò tanto<br />

lontano da una petizione di principio, che anzi è questo, anche secondo Aristotele,<br />

il più perfetto modo di dimostrare, quello appunto nel quale al vera definizione<br />

della cosa serve da termine medio] 15 .<br />

«Nell’idea dell’ente sommamente perfetto […] è contenuto che cosa<br />

Dio sia» 16 . Dio non è dunque al di là della ragione; al contrario ne è l’oggetto<br />

primo, il più chiaro, il più distinto [maxime clara et dictincta] 17 .<br />

Quello di cui noi dovremmo avere la conoscenza più immediata:<br />

E per ciò che è di Dio, certamente, se la mia mente non fosse prevenuta da<br />

qualche pregiudizio, e se il mio pensiero non fosse distratto dalla presenza continua<br />

delle immagini delle cose sensibili, non ci sarebbe alcuna cosa che io potessi<br />

conoscere meglio né più facilmente che lui<br />

Quanto poi a Dio, certamente, se io non fossi avvolto nei pregiudizi e le immagini<br />

delle cose sensibili non assediassero il mio pensiero da ogni parte, non c’è<br />

nulla che conoscerei prima o più facilmente di lui 18 .<br />

L’evidenza con cui conosciamo Dio dovrebbe dispensarci dal ricorso<br />

al sistema complicato delle prove della sua esistenza, se almeno fossimo<br />

capaci di meditare con attenzione la sua idea:<br />

15 Lettera di Descartes a Mersenne, Endegeest, 16 giugno 1641, in Tutte le lettere, cit., p. 1467<br />

(AT III, 383). Si faccia il paragone con Tommaso d’A<strong>qui</strong>no: «Inoltre, poiché secondo la dottrina<br />

di Aristotele, principio della dimostrazione è il significato del termine in questione, mentre “il<br />

concetto espresso col nome è la definizione”, come è detto nel quarto libro della Metafisica, non<br />

rimane nessuna via per dimostrare che Dio esiste, non avendo noi la cognizione né dell’essenza né<br />

della natura divina […] Ma la falsità di quest’opinione risulta evidente sia dall’arte della dimostrazione,<br />

che insegna a raggiungere le cause dai loro effetti […] Inoltre, negli argomenti che si fanno<br />

per dimostrare l’esistenza di Dio, non è necessario prendere come termine medio della dimostrazione<br />

l’essenza o la natura di Dio, […] ma al posto della <strong>qui</strong>ddità si prende quale termine medio<br />

l’effetto» (Somma contro i Gentili, I, XII).<br />

16 Meditazioni. Prime Risposte, in Opere, cit., p. 823 (AT IX, 85).<br />

17 Meditazione Terza, cit., p. 742 (AT VII, 46).<br />

18 Meditazione Quinta, cit., p. 771 (AT IX, 54-55, VII, 69).


Considerazioni sul Dio di Descartes 11<br />

Che, poi, in noi ci sia l’idea dell’ente sommamente potente e perfetto, ed anche<br />

che la realtà obiettiva di questa idea non si trovi né formalmente né eminentemente<br />

in noi, diverrà più chiaro a coloro che presteranno la dovuta attenzione e<br />

mediteranno a lungo con me […] Ora, in base a tutto ciò, si conclude nel modo<br />

più manifesto che Dio esiste 19 .<br />

Ma Descartes ha cura di moderare questa rivendicazione di univocità<br />

gnoseologica (l’intelletto umano conosce l’essenza di Dio, nella sua infinità)<br />

con l’affermazione dell’incomprensibilità divina. Ecco perché è di<br />

fondamentale importanza rispettare la differenza fra intelligere o cogniscere<br />

e comprehendere o capere.<br />

«La stessa incomprensibilità è contenuta nella ragione formale dell’infinito»<br />

20 . Descartes pone così l’incomprensibilità di Dio come un principio<br />

logico evidente: il finito non può comprendere l’infinito, a meno di<br />

ridurlo a una cosa finita. Aspirare a una comprensione di Dio, è dunque<br />

sforzarsi «quasi di renderlo finito e di comprenderlo» 21 .<br />

L’incomprensibilità è il carattere peculiare di Dio, in quanto essere per<br />

Dio è essere infinito. Più che un attributo, e sia pure un attributo primario,<br />

l’infinito è come il nome stesso di Dio, ciò che lo designa e lo esprime<br />

nella sua divinità stessa, nella sua trascendenza. E alla divinità o all’infinità<br />

è necessariamente legata l’incomprensibilità. Ecco perché, oggetto della<br />

ragione, Dio sfugge anche di diritto alla ragione, in quanto non può essere<br />

né compreso e neanche concepito: «io so che Dio è autore di tutte le<br />

cose […]. Dico che lo so, e non che lo concepisco né che lo comprendo».<br />

Lungi dall’essere una «modestia affettata» 22 , il principio dell’incomprensibilità<br />

dell’infinito garantisce che l’essere, che è l’oggetto della metafisica,<br />

è proprio Dio; che la causa prima, ricercata nelle prove, possiede<br />

realmente una essenza infinita.<br />

Questa incomprensibilità dell’infinito non è una deficienza, che un<br />

progresso della conoscenza potrebbe in seguito colmare; essa caratterizza<br />

fondamentalmente la conoscenza umana di Dio: «sarebbe ridicolo che<br />

19 Meditazioni. Seconde Risposte, cit., p. 861 (AT IX, 107, VII, 135-6).<br />

20 Meditazioni. Quinte Risposte, cit., p. 1171 (AT VII, 368).<br />

21 Princìpi della filosofia, I, XXVI, cit., p. 1729 (AT IX-B, 36).<br />

22 AT V, 274-5.


12 Laurence Devillairs<br />

noi, che siamo finiti, tentassimo [di] determinare qualcosa [dell’infinito]»<br />

23 . Tutti gli attributi, in quanto attributi di Dio, sono al tempo stesso<br />

intellegibili e incomprensibili o, più precisamente, intellegibili per ciò<br />

stesso che sono incomprensibili, cioè attributi del Dio infinito.<br />

L’infinito, al quale si rapporta l’incomprensibilità, non è una nozione<br />

negativa e non rimanda ad una qualsiasi indicibilità di Dio. Tutt’altro, il<br />

conoscere nella sua infinità incomprensibile è il conoscere realmente e<br />

positivamente:<br />

per dire che una cosa è infinita, infatti, bisogna avere qualche ragione che la faccia<br />

conoscere come tale, cosa che si può avere solo da Dio 24 .<br />

L’incomprensibilità non mette fine alla conoscenza di Dio, ma ne fa<br />

una conoscenza conforme della sua infinità 25 . L’incomprensibilità fa parte<br />

della conoscenza di Dio. In effetti, conoscere che Dio è incomprensibile<br />

significa conoscerlo ancora positivamente, in quanto è sapere perché è tale<br />

e dunque avere un’idea chiara e distinta della sua infinità. Bisogna rinunciare<br />

ad una comprensione del divino, per averne una conoscenza certa.<br />

L’incomprensibilità, dunque, non è sinonimo d’indicibilità ma, proprio<br />

al contrario, di intellegibilità di Dio. Se osassimo il paradosso, potremmo<br />

dire che l’incomprensibilità non significa non comprendere Dio, ma conoscerlo<br />

(nella sua infinità): «l’infinito, in quanto infinito, in verità non è<br />

affatto compreso [comprehendi], ma […] nondimeno è inteso [intelligi]».<br />

L’incomprensibilità non è un dato che si impone alla filosofia dall’esterno;<br />

essa corrisponde a ciò che dev’essere una conoscenza filosofica<br />

di Dio. Appartiene alla natura di un Dio infinito il non essere compreso,<br />

ed è solo accettando di non comprenderlo che se ne possiede una vera<br />

idea. Chi dichiara di comprendere o di concepire Dio ne ha solo una conoscenza<br />

falsa e confusa; chi ammette di non comprenderlo possiede allora<br />

una conoscenza chiara e distinta della sua natura. Conoscerlo nella sua<br />

stessa divinità è conoscerlo nel suo infinito, di cui abbiamo l’idea e non il<br />

concetto. L’incomprensibilità fa che Dio resti Dio, cioè un essere infini-<br />

23 AT IX, 37.<br />

24<br />

V, 51).<br />

Lettera di Descartes a Chanut, L’Aia, 6 giugno 1647, in Tutte le lettere, cit., p. 2467 (AT<br />

25 Meditazioni. Quinte Risposte, cit., p. 1166 (AT VII, 365).


Considerazioni sul Dio di Descartes 13<br />

to, quando è l’oggetto di una conoscenza razionale. Non comprendere è<br />

il segno che la nostra conoscenza è buona conoscenza di Dio. L’incomprensibilità<br />

dà la garanzia che non si ha a che fare con un semplice Dio<br />

dei filosofi, i cui predicati ci sarebbero noti e di cui potremmo dare una<br />

definizione genetica. Vi è il Dio dei filosofi, solo quando Dio non è conosciuto<br />

nella sua infinità, ma ridotto ad un essere finito:<br />

non concepiamo [non concipimus] le perfezioni e gli attributi di Dio, ma li intendiamo<br />

[sed intelligimus]; e quand’anche li concepissimo, li concepiremmo<br />

[concipimus] come indefiniti 26 .<br />

Dio è dunque allo stesso tempo «maxime cognoscibilis et effabilis». Ed<br />

è appunto per convalidare questo paradosso dell’incomprensibile intelligibilità<br />

di Dio che Descartes ricorre ad Agostino:<br />

Il passo di sant’Agostino relativo al fatto che Dio è ineffabile, non dipende che da<br />

una piccola distinzione facile da intendere. Non possiamo abbracciare con parole<br />

e neppure comprendere con la mente tutto quel che vi è in Dio, e per questo<br />

Dio è ineffabile e incomprensibile [Deus est maxime Cognoscibilis et Effabilis].<br />

Tuttavia, ci sono in Dio, o spettano a Dio, molte cose che possiamo toccare con<br />

la nostra mente ed esprimere con parole, e perfino di più che in qualsiasi altra<br />

cosa; e perciò, in questo senso, Dio è massimamente conoscibile ed esprimibile 27 .<br />

Ecco l’affermazione originale di Agostino, nel De Doctrina christiana:<br />

neanche Dio potrebbe essere detto inesprimibile poiché, soltanto nel dirlo, si<br />

esprime qualcosa. Si verifica in ciò non so quale contraddizione in termini […].<br />

D’altronde, è meglio e<strong>vita</strong>re col silenzio questa battaglia di termini che placarla<br />

con le parole 28 .<br />

26 Collo<strong>qui</strong>o con Burman, in R. Descartes, Opere postume 1650-2009, testo francese e latino a<br />

fronte, a cura di G. Belgioioso, Milano, Bompiani, 2009, p. 1261 (AT V, 154). Cfr. il commento<br />

di J.-M. Beyssade, Entretien avec Burman. RSP ou le Monogramme de Descartes, Paris, PUF, 1981,<br />

p. 174.<br />

27 «Il passo di sant’Agostino relativo al fatto che Dio è ineffabile, non dipende che da una<br />

piccola distinzione facile da intendere. Non possumus omnia quæ in Deo sunt verbis complecti, nec<br />

etiam mente comprehendere, ideoque Deus est Ineffabilis et Incomprehensibilis; sed multa tamen sunt<br />

revera in Deo, sive ad Deum pertinent, quæ possumus mente attingere ac verbis exprimere, imo etiam<br />

plura quam in ulla alia re, ideoque hoc sensu Deus est maxime Cognoscibilis et Effabilis» (Lettera di<br />

Descartes a Mersenne, Leida, 21 gennaio 1641, in Tutte le lettere, cit., p. 1381) (AT III, 284).<br />

28 De Doctrina christiana, 11, I, VI, 6. Questa distinzione tra intellegibilità e incomprensibilità<br />

si ritrova ugualmente nel De Ci<strong>vita</strong>te Dei, XXI, 10; XII, 18.


Benozzo Gozzoli, Sant’Agostino legge le Lettere di san Paolo, 1464-65,<br />

affresco, 220 × 230 cm, Cappella del coro di Sant’Agostino, San Gimignano


Considerazioni sul Dio di Descartes 15<br />

Dio non è né nascosto né ineffabile, poiché egli ha iscritto l’idea chiara<br />

e distinta della sua natura nella nostra mente; tuttavia è incomprensibile,<br />

visto che questa idea non può essere un concetto, cioè l’afferrare esaustivo<br />

della sua natura. Ma, come ha mostrato Agostino, l’incomprensione<br />

è sapere e non già abdicazione della ragione.<br />

Si potrebbe quasi dire che l’infinito è incomprensibile, a forza di essere<br />

intellegibile:<br />

la cosa che è infinita, in sé stessa, la intendiamo [intelligimus] senz’altro in modo<br />

positivo, ma non adeguatamente, ossia non comprendiamo tutto ciò che in<br />

essa è intelligibile [sed non adæquate, hoc est non totum id, quod in ea intelligibile<br />

est, comprehendimus] 29 .<br />

L’infinito tiene in scacco la ragione, solo perché esige troppo da essa:<br />

la supera in intellegibilità. Per essere conosciuto nella sua infinità, l’essere<br />

divino provoca come una “imballatura”, un eccesso della ragione. Dio<br />

riempie massimamente – su una modalità infinita – l’idea che abbiamo di<br />

lui. Noi non arriveremo mai a comprendere Dio, a esaurirne tutta l’intellegibilità.<br />

L’infinito divino supera la ragione, colmandola. Questo “rilancio”<br />

dell’infinito sulla ragione non scredita la conoscenza filosofica, ma la<br />

conduce al suo compimento.<br />

Su questo punto, un cartesiano misconosciuto e dimenticato offre il<br />

commento più pertinente, e cioè Fénelon:<br />

è vero che non saprei esaurire l’infinito, né comprenderlo, cioè conoscerlo, tanto<br />

è intelligibile. Non devo meravigliarmene, poiché ho riconosciuto che la mia<br />

intelligenza è finita; di conseguenza essa non saprebbe eguagliare ciò che è infinitamente<br />

intellegibile. Tuttavia certo che ho un’idea precisa dell’infinito 30 .<br />

Noi conosciamo di Dio unicamente ciò che la sua idea ci concede di<br />

conoscerne. La nostra conoscenza è irrimediabilmente tributaria della<br />

rappresentazione dell’infinito, che fornisce questa idea del nostro intelletto<br />

finito:<br />

29 Le precedenti citazioni rinviano tutte a Meditazioni. Prime Risposte, in Opere, cit., pp.<br />

829-31 (AT IX, 90, VII, 112-3).<br />

30 Démonstration de l’existence de Dieu, cit., p. 615.


16 Laurence Devillairs<br />

Per me, ogni volta che ho detto che Dio poteva essere conosciuto chiaramente e<br />

distintamente, non ho mai inteso parlare che di questa conoscenza finita, e<br />

adattata alla capacità delle nostre menti 31 .<br />

Di conseguenza, siamo nell’impossibilità di avere una concezione<br />

adeguata di Dio, che ne esaurirebbe tutta l’intellegibilità:<br />

Quando Dio è detto inconcepibile [inconceptibilis], si intende di un concetto<br />

che lo comprende adeguatamente [conceptu adæquate illum comprehendente] 32 .<br />

Oggetto di una conoscenza chiara e positiva, l’infinito non può essere<br />

colto in un concetto:<br />

non distinguete un’intellezione conforme al livello del nostro ingegno […] –<br />

chiunque lo esperisca a sufficienza in sé – dell’infinito, da un concetto adeguato<br />

delle cose [a conceptu rerum adæquato], quale nessuno ha 33 .<br />

La concezione adeguata è «quale nessuno ha non solo dell’infinito,<br />

ma forse neppure di alcuna altra cosa per quanto piccola» 34 . È impensabile<br />

che un intelletto creato e non creatore possa pervenire ad una conoscenza<br />

adeguata:<br />

La differenza sta nel fatto che, affinché una conoscenza sia adeguata [adæquata],<br />

devono esservi contenute tutte le proprietà che sono nella cosa conosciuta;<br />

e, perciò, solo Dio sa di avere conoscenze adeguate di tutte le cose [cogitationes<br />

rerum omnium adæquatas]. L’intelletto creato [intellectus creatus], invece, sebbene<br />

forse abbia realmente conoscenze di molte cose [adæquatam], non può tuttavia<br />

mai sapere di averle, a meno che non sia Dio a rivelarglielo in modo particolare:<br />

affinché, l’intelletto creato abbia conoscenza adeguata di una cosa, ossia<br />

sappia che Dio non ha posto in questa cosa nulla di più di ciò che tale intelletto<br />

conosce, occorre che la sua capacità di conoscere sia adeguata al potere infinito<br />

di Dio [infinitam Dei potestatem], e ciò ripugna nel modo più assoluto 35 .<br />

Avere una conoscenza adeguata dell’infinito richiederebbe di comprendere<br />

l’infinito, come esso stesso si comprende:<br />

31 AT IX, 90-91.<br />

32 Meditazioni. Terze Obiezioni e Risposte, in Opere, cit., p. 935 (AT IX, 147, VII, 189).<br />

33 Meditazioni. Quinte Risposte, cit., p. 1167 (AT VII, 365).<br />

34 Ivi.<br />

35 Ivi, p. 979 (AT IX, 171, VII, 220).


Considerazioni sul Dio di Descartes 17<br />

l’idea che abbiamo dell’infinito […] rappresenta […] tutto l’infinito […]; sebbene<br />

Dio […] possa senza dubbio averne un’altra molto più perfetta […] di<br />

quella umana 36 .<br />

Impossibile da circoscrivere adeguatamente in un concetto, l’infinito<br />

è anche ciò che sfugge ad ogni rappresentazione «univoca» 37 : per avere<br />

una conoscenza chiara e distinta degli attributi e delle opere di Dio, dobbiamo<br />

in effetti conoscerli nella loro intellegibilità non univoca, ovverosia<br />

in ciò stesso che non possono essere compresi. Così potremmo, per esempio,<br />

sapere chiaramente che il rapporto fra il suo intelletto e la sua volontà<br />

è un rapporto di unicità e non di distinzione 38 , e che la sua libertà è al<br />

tempo stesso necessità e indifferenza 39 .<br />

L’incomprensibilità impedisce di immaginare «Dio come un uomo<br />

enorme» 40 , di rappresentarlo<br />

come un grande uomo che si propone questo e quel fine e che vi tende con<br />

questi o quei mezzi; il che è senz’altro massimamente indegno di Dio 41 .<br />

È contro questa indegnità dell’univocità che Descartes formula la tesi<br />

di un Dio libero creatore di essenze e di verità eterne. La “gente” potrà<br />

così «abitua[r]si a sentir parlare di Dio più degnamente, mi sembra, di<br />

quanto non ne parli il volgo, che l’immagina quasi sempre come una cosa<br />

finita» 42 . L’incomprensibilità dell’infinito rifiuta la concezione che fa degli<br />

attributi divini la semplice copia delle perfezioni umane, e che dichiara<br />

che la natura divina «è alla meta dove guarda la nostra», che essa coincide<br />

con il punto ultimo del perfezionamento umano 43 . In anticipo, Descartes<br />

sembra così invalidare la critica di Feuerbach.<br />

36 Ivi, p. 1171 (AT VII, 368).<br />

37 Princìpi della filosofia, I, LI, cit., p. 1745 (AT IX-B, 47); Meditazioni. Seconde Risposte,<br />

cit., p. 862 (AT IX, 108).<br />

38 Princìpi della filosofia, I, XXIII e XLI, cit., p. 1726 e 1739; Meditazioni. Seste Risposte, cit.,<br />

p. 1225 (AT IX, 233).<br />

39 Colloque con Burman, cit., p. 1285 (AT V, 166).<br />

40 Meditazioni. Quinte Risposte, cit., p. 1167 (AT VII, 365).<br />

41 Colloque con Burman, cit., p. 1269 (AT V, 158).<br />

42 Lettera di Descartes a Mersenne, 15 aprile 1630, in Tutte le lettere, cit., p. 147 (AT I, 146).<br />

43 Lettera di Descartes a Chanut, Egmond, 1 febbraio 1647, in Tutte le lettere, cit., p. 2391<br />

(AT IV, 608).


18 Laurence Devillairs<br />

Indice dell’infinito divino, l’incomprensibilità funziona come un’idea<br />

regolatrice che guida la nostra conoscenza. Conoscere Dio è conoscerlo<br />

in ciò che è incomprensibile. L’incomprensibilità è dunque intellezione<br />

positiva; essa permette di correggere, se non addirittura di contraddire, la<br />

ragione quando essa attribuisce all’infinito dei predicati del finito.<br />

Nel suo primo significato, l’incomprensibilità è dunque legata all’intellegibilità<br />

paradossale dell’infinito, chiaramente e distintamente conosciuto<br />

ma inconcepibile ed incomprensibile. Ci sembra possibile e utile<br />

rilevare un secondo significato, quello tenuto ancor più raramente in<br />

conto dai commentatori.<br />

Se Dio è incomprensibile, è anche perché tutto in lui, nella sua natura<br />

infinita, non è accessibile alla ragione. Conoscere Dio come infinito è ammettere<br />

che egli possiede numerosi attributi, che non sono razionalmente<br />

accessibili e che dipendono da un’altra giurisdizione, quella delle Scritture.<br />

In seno alla metafisica, l’infinito è anche ciò che apre alla legittimità<br />

della Rivelazione ed alla realtà del Dio della fede. L’incomprensibilità è<br />

allora quella del rivelato: tutti gli attributi di Dio sono intellegibili e incomprensibili,<br />

ma alcuni di essi sono inconoscibili, «incogniscibles», e incomprensibili.<br />

È appunto questo significato particolare dell’incomprensibilità che<br />

pensiamo di poter leggere nel seguente brano della Terza Meditazione:<br />

Questa stessa idea [di un essere sovranamente perfetto e infinito] è anche molto<br />

chiara e molto distinta, poiché tutto quello che la mia mente concepisce [percipio]<br />

chiaramente e distintamente di reale e di vero, e che contiene in sé qualche<br />

perfezione, è contenuto e racchiuso interamente in questa idea. E ciò non finisce<br />

d’essere vero, benché io non comprenda l’infinito [non comprehendeam], o<br />

perfino che si incontrano in Dio un’infinità di cose [alia innumera] che non<br />

posso comprendere [nec comprehendere], né forse raggiungere anche in nessun<br />

modo col pensiero [nec forte etiam attingere cogitatione] 44 .<br />

Nella sua natura infinita, Dio possiede degli attributi che noi non<br />

possiamo neanche pensare [cogitare]. È anche quello che esprime, più<br />

esplicitamente, l’articolo 25 della prima parte dei Principes:<br />

44 Meditazioni. Terza, cit., p. 741 (AT IX, 36-37, VII, 46).


Considerazioni sul Dio di Descartes 19<br />

A tal punto che se egli ci fa la grazia di rivelarci [revelet], oppure a qualcun altro,<br />

delle cose che superano la portata comune della nostra mente, come sono i<br />

misteri dell’Incarnazione e delle Trinità, noi non faremo alcuna difficoltà a crederle,<br />

benché non le intendiamo forse abbastanza chiaramente. Poiché non<br />

dobbiamo per nulla trovare strano che vi sia nella sua natura, che è immensa<br />

[immensa], e in ciò che egli fa, molte cose [multa] che superano la capacità della<br />

nostra mente [captum nostrum excedant] 45 .<br />

È nella natura di Dio, in quanto infinito, di essere conosciuto senza<br />

essere compreso; ma è anche nella sua natura di non essere ridotto a quello<br />

che la ragione conosce di lui. La filosofia pone così, fuori dei limiti del<br />

suo campo, in quanto non razionalmente deducibili, «innumerevoli» attributi,<br />

di cui Dio ha voluto che noi avessimo non la conoscenza, ma la<br />

Rivelazione 46 . Se tutti gli attributi divini fossero riducibili a un contenuto<br />

razionale, noi avremmo da fare con «qualche divinità» o «qualche idolo» e<br />

non al «vero Dio», cioè all’infinito 47 .<br />

L’opposizione fra l’intellegibile e l’incomprensibile non implica la separazione<br />

del Dio dei filosofi dal Dio della fede, ma richiede, in seno alla<br />

conoscenza stessa che noi abbiamo di Dio, di riconoscere l’esistenza di<br />

attributi, che sono inaccessibili alla ragione ma essenziali alla fede. È solo<br />

a questa condizione che il Dio della filosofia è anche il Dio della Rivelazione.<br />

Anche se Dio è chiaramente e distintamente conosciuto grazie all’idea<br />

innata che ne abbiamo, la sua natura non può ridursi al contenuto rappresentativo<br />

di questa idea. Allo stesso modo che un geometra conosce<br />

più proprietà di un triangolo di un non geometra, così il teologo ha, per<br />

mezzo della Rivelazione 48 , accesso a perfezioni divine che la filosofia non<br />

può determinare:<br />

Per il mistero della Trinità, io giudico, con san Tommaso, che esso appartiene<br />

del tutto alla fede e non si può conoscere con il lume naturale […] non nego af-<br />

45 Princìpi della filosofia, I, XXV, cit., p. 1729 (AT IX-B, 36, VIII-A, 14). Cfr. Agostino:<br />

«tranne questa regola, se qualche punto permane ancora oscuro per la nostra intelligenza, noi non<br />

cesseremo di credervi fermamente» (De Trinitate, cit., I, 1).<br />

46 Cfr. Princìpi della filosofia, I, XXVIII, in Opere 1637-1649, cit., p. 1731 (AT IX-B, 37).<br />

47 Lettera di Descartes a Chanut, Egmond, 1 febbraio 1647, cit., p. 2391 (AT IV, 607-8).<br />

48 Lettera di Descartes a Mersenne, Amsterdam, 15 aprile 1630, cit., p. 147 (AT I, 145).


20 Laurence Devillairs<br />

fatto che vi siano delle cose in Dio che noi non intendiamo, così come vi sono<br />

in un triangolo parecchie proprietà che mai nessun matematico conoscerà, benché<br />

tutti sappiano benissimo cosa sia un triangolo 49 .<br />

Il Dio della filosofia non è meno incomprensibile del Dio della fede,<br />

poiché la conoscenza della sua infinità implica necessariamente l’esistenza<br />

di attributi rivelati, fondamento della fede:<br />

Poiché è sufficiente che io capisca proprio che Dio non può essere colto da me<br />

[a me non comprehendatur] […] purché io giudichi inoltre che sono in lui tutte<br />

le perfezioni che comprendo chiaramente [clare intelligo], e per di più alcune<br />

perfezioni molto più numerose [multo plures] di quanto io non possa cogliere 50 .<br />

Il filosofo conosce di Dio solo quello che è conoscibile, ossia ciò che è<br />

non rivelato ma accessibile al lume naturale:<br />

Che conoscendo che vi è un Dio nel modo <strong>qui</strong> spiegato [cioè dalla sua idea] si<br />

conoscono anche tutti i suoi attributi, tanti quanti ne possono essere conosciuti<br />

dal solo lume naturale [omnia ejus attributa naturali ingenii vi cognoscibilia simul<br />

cognosci ] 51 .<br />

L’idea di infinito permette di costituire Dio al contempo come oggetto<br />

della ragione e come ciò che di diritto trascende la ragione. È la conoscenza<br />

chiara e distinta dell’infinità di Dio, e dell’incomprensibilità che le<br />

è annessa, che permette di porre l’esistenza di attributi che son quelli del<br />

Dio della Rivelazione, trino e incarnato. Se tutti gli attributi fossero riducibili<br />

a un contenuto razionale, allora potremmo avere un concetto di<br />

Dio, una conoscenza adeguata della sua natura.<br />

49 Lettera di Descartes a Mersenne, Leida, 31 dicembre 1640, in Tutte le lettere, cit., pp. 1357-<br />

9 (AT III, 274). Per Tommaso d’A<strong>qui</strong>no, vedi Somma contro i Gentili, I, 3, cit., p. 71; Somma<br />

teologica, II a. q. I, a. 5.<br />

50 Lettera di Descartes a Clerselier, Egmond-Binnen, 23 aprile 1649, in Tutte le lettere, cit., p.<br />

2695 (AT V, 356).<br />

51 Princìpi della filosofia, I, XXII, cit., p. 1727 (AT IX-B, 35, VIII-A, 13); «Nam certe est lumine<br />

naturali notissimum», Princìpi della filosofia, I, XXII, cit., p. 1724 (AT VIII-A, 12); «E non<br />

c’è davvero alcunché, in tutto ciò, che non sia manifesto per lume naturale» (Meditazioni. Terza,<br />

cit., p. 743) (AT IX, 38); Descartes ha appena formulato la prova a posteriori: «È infatti notissimo<br />

per lume naturale che ciò che può esistere per propria forza esiste sempre» (Meditazioni. Prime<br />

Risposte, cit., p. 837) (AT IX, 94).


Considerazioni sul Dio di Descartes 21<br />

Gli attributi che la ragione può appena raggiungere sono quelli che riguardano<br />

Gesù Cristo:<br />

innanzitutto mi viene in mente che non mi devo affatto meravigliare, se la mia<br />

intelligenza non è capace di comprendere perché Dio fa ciò che fa, e che così<br />

non ho nessuna ragione di dubitare della sua esistenza, del fatto che io veda con<br />

l’esperienza molte cose, senza poter comprendere per quali ragioni e in qual<br />

modo Dio le abbia prodotte. Poiché, sapendo già che la mia natura è estremamente<br />

debole e limitata, al contrario di quella di Dio che è immensa, incomprensibile<br />

e infinita, non ho più difficoltà a riconoscere che vi sono un’infinità<br />

di cose nella sua potenza, le cui cause superano la portata della mia mente. E<br />

questa sola ragione è sufficiente per convincermi che tutto questo genere di cause,<br />

che si ha l’abitudine di trarre alla fine, non è di alcun uso nelle cose fisiche o<br />

naturali; poiché non mi sembra che io possa ricercare e intraprendere senza temerarietà<br />

di scoprire i fini impenetrabili di Dio 52 .<br />

Le perfezioni inconoscibili e incomprensibili sono quelle che rimandano<br />

alla questione della salvezza, poiché il loro apprendimento dipende,<br />

in effetti, dalla grazia e non dalla nostra «capacità di conoscere»:<br />

vi è grande differenza fra le verità ac<strong>qui</strong>site e le rivelate, giacché la conoscenza di<br />

queste dipendendo solo dalla grazia […], i più sciocchi e i più semplici vi possono<br />

riuscire tanto quanto i più sottili; anziché, senza avere più intelletto del<br />

comune, non si deve sperare di fare nulla di straordinario che riguardi le scienze<br />

umane 53 .<br />

Sono ugualmente i fini di Dio che non sono razionalmente deducibili<br />

e che appartengono al campo della Rivelazione: «È una cosa che è di per<br />

sé manifesta, che noi non possiamo conoscere i fini di Dio, se egli stesso<br />

non ce li rivela» 54 . La determinazione delle cause finali è dunque esclusa<br />

in filosofia: «Noi non ci soffermeremo anche ad esaminare i fini che Dio<br />

si è proposto creando il mondo, e respingeremo interamente dalla nostra<br />

filosofia la ricerca delle cause finali»; poiché «tutti i fini di Dio ci sono<br />

52 Meditazioni. Quarta, cit., pp. 753-5 (AT IX, 44).<br />

53 À***, août 1638 (?), AT II, 347.<br />

54 Lettera di Descartes a X***, Endegeest, agosto 1641, in Tutte le lettere, cit., p. 1523 (AT III,<br />

431); «E non si può fingere che alcuni fini di Dio siano più di altri davanti agli occhi di tutti: sono<br />

infatti tutti allo stesso modo reconditi nell’imperscrutabile abisso della sua sapienza» (Meditazioni.<br />

Quinte Risposte, cit., p. 1179) (AT VII, 375).


Considerazioni sul Dio di Descartes 22<br />

(ugualmente) nascosti, ed è temerario volerci innalzare fino ad essi. Io <strong>qui</strong><br />

passo sotto silenzio la Rivelazione, per considerarli soltanto da filosofo» 55 .<br />

Una volta chiarita e dimostrata l’importanza della distinzione operata<br />

da Descartes fra conoscere e comprendere Dio, non si può che formulare<br />

un doppio stupore: perché questa traduzione errata del duca di Luynes? E<br />

perché questa mancanza di vigilanza da parte di Descartes?<br />

Forse bisogna vedere in quest’errore di traduzione lo zelo del traduttore?<br />

L’insistenza di Descartes sul carattere puramente intellettuale della<br />

conoscenza di Dio 56 ha potuto indurre il suo traduttore, più realista del<br />

re, a rafforzare il carattere intellettuale traducendo il verbo, giudicato<br />

troppo generico, di intelligere con quello, più “tecnico”, di capere: la metafisica<br />

cartesiana considera Dio come un oggetto dell’intelletto puro,<br />

senza che sia fatto riferimento al mondo esterno, alla conoscenza sensibile.<br />

Ciò che sembra più appropriato, per rendere conto di questa natura<br />

esclusivamente intellettuale della conoscenza di Dio, sembra maggiormente<br />

il termine «concepire» che quello di «intendere».<br />

Inoltre, Descartes desidera non parlare di Dio come ne parla il «volgo»,<br />

ciò che sembra ancora confortare la scelta “elitista”, tecnica del suo<br />

traduttore. Il duca di Luynes, più cartesiano di Descartes, avrebbe così<br />

commesso un controsenso maggiore sulla filosofia cartesiana accogliendo<br />

un’ingiunzione di Descartes stesso:<br />

Vorrei che il mondo si abituasse a sentir parlare di Dio più degnamente, mi<br />

sembra, di quanto non ne parli il volgo, che l’immagina quasi sempre come una<br />

cosa finita 57 .<br />

55 Princìpi della filosofia, I, XXVIII, cit., p. 1731 (AT IX-B, 37).<br />

56 Regole per la direzione dell’ingegno. Regola III, in Opere postume 1650-2009, cit., p. 685<br />

(AT X, 368); vedi anche Princìpi della filosofia, I, XXVIII, cit., p. 2083 (AT IX-B, 60).<br />

57 Lettera di Descartes a Mersenne, Amsterdam, 15 aprile 1630, cit., p. 147 (AT I, 146).


DENIS KAMBOUCHNER<br />

Descartes e il problema della fede<br />

AFFRONTERÒ LA QUESTIONE DEL DIO di Descartes sotto un’angolazione<br />

diversa da quella scelta da Laurence Devillairs. La mia domanda<br />

non sarà, almeno all’inizio: qual è il Dio di Descartes? (ancorché<br />

questa resti la questione di fondo), ma piuttosto: quale è stata la relazione<br />

di Descartes col suo Dio? – col solo Dio che egli abbia mai rivendicato:<br />

quello della religione cristiana e più precisamente della Chiesa cattolica.<br />

Non è una questione nuova. Sotto forma di un’antinomia elementare,<br />

del genere: «Descartes è stato un vero cristiano, oppure un libertino<br />

mascherato?», essa ha occupato tutta una sequenza della bibliografia cartesiana.<br />

Uno dei principali attori di questa controversia, ed un sostenitore della<br />

seconda tesi, Maxime Leroy, autore di un’opera dal titolo rimasto famoso:<br />

Descartes, Le philosophe au masque (1929), scriveva così all’inizio<br />

della sua opera (p. 23):<br />

Da quando si studia Descartes, vi sono due comprensioni: la comprensione razionalista<br />

e la comprensione apologetica che, più che mai, si affrontano.<br />

Non aveva del tutto torto, e la storia della controversia cominciò molto<br />

presto. Che ci si ricordi delle accuse di empietà mosse contro Descartes<br />

quando era ancora vivo, particolarmente dai calvinisti di Utrecht, e<br />

del fatto che già, nel 1637, ci si domandasse a Parigi «di quale religione<br />

egli fosse» 1 ; per contro, con l’accento posto dagli eredi giansenisti e oratoriani<br />

del cartesianismo sulla parentela del pensiero cartesiano con quella<br />

di sant’Agostino. Che ci si ricordi, anche, della rivendicazione di un certo<br />

1 Cfr. à Mersenne, maggio 1637 (AT: 27 aprile 37), AT I, 367; Bompiani 378.<br />

23


24 Denis Kambouchner<br />

spirito cartesiano fatta dagli illuministi (come D’Alembert), che precede<br />

la tenace impresa di certi autori del XIX secolo per reintegrare la metafisica<br />

cartesiana in una filosofia di orientamento benpensante 2 .<br />

Di queste opposizioni ancor oggi qualcosa sussiste, a dispetto delle<br />

passioni naturalmente smussate. Ed ancora oggi si può tracciare una linea<br />

di demarcazione fra gli interpreti per i quali Descartes è prima di tutto il<br />

promotore di una nuova scienza della natura e dell’uomo, che mira ad<br />

una utilità della specie anteriormente definita da Bacone, e coloro per i<br />

quali lo stesso Descartes resta prima di tutto l’inventore di una metafisica<br />

inaudita, le cui straordinarie difficoltà hanno fecondato il pensiero classico.<br />

Non ci si meraviglierà che, per gli uni, le prove cartesiane dell’esistenza<br />

di Dio non comportano molto spesso che un interesse tecnico (di tecnica<br />

filosofica, di apparecchiatura concettuale), mentre, per gli altri, esse<br />

costituiscono il teatro o il protocollo di un’autentica esperienza intellettuale<br />

che rimane sempre da meditare. Non ci si meraviglierà ancora di<br />

più che, per gli uni, le dichiarazioni di sottomissione di Descartes alla<br />

Chiesa di Roma dipendono da una pura convenzione, mentre, per gli altri,<br />

esse definiscono veramente una parte del suo progetto.<br />

Finché è durata la querelle, o almeno la materia del contendere, sono<br />

incline a pensare che essa non sia stata ancora risolta, o più esattamente<br />

che i problemi posti dalla definizione della posizione cartesiana in materia<br />

di religione non siano stati ancora esaminati in maniera abbastanza sistematica.<br />

E se non temessi di dilungarmi oltre misura, entrerei volentieri<br />

in una discussione del genere metodologico, a partire da alcune righe di<br />

Jean Laporte che contesta il metodo di Maxime Leroy.<br />

Maxime Leroy, spirito appassionato di psicanalisi (è autore di una lettera<br />

a Freud, che solleva la questione del significato dei celebri sogni cartesiani<br />

del 10 novembre 1619) partiva, con erudizione e talento, alla ricerca<br />

di un segreto di Descartes, che non consisteva del resto in nulla di<br />

determinato se non in una irreligiosità innata e in un ideale fondamentalmente<br />

epicureo. Voleva assolutamente che Descartes avesse pensato un’al-<br />

2 Sulla battaglia che proseguì in Francia per tutto il periodo della III Repubblica, all’interno<br />

come all’esterno dell’Università, si può consultare l’eccellente opera di F. Azouvi, Descartes en<br />

France, Paris, Fayard, 2002.


Descartes e il problema della fede 25<br />

tra cosa di quello che gli era capitato di dire e forse anche il contrario. È<br />

precisamente la possibilità di imputare a Descartes un pensiero diverso da<br />

quello che rivelano i suoi testi che Jean Laporte, per parte sua, ha voluto<br />

ricusare in primo luogo, e non senza solide ragioni 3 .<br />

La religione di Descartes», scrive, «ha fatto scorrere molto inchiostro. Tutto<br />

quello che se ne può dire è subordinato alla questione della sua sincerità. In<br />

quanto a questo, siamo condannati a girare all’interno di un cerchio. Poiché<br />

possiamo decidere delle vere opinioni di un autore solo attraverso i suoi scritti e<br />

le testimonianze dei contemporanei, i quali ne giudicano essi stessi dalle sue dichiarazioni<br />

scritte e orali, e anche dalla sua condotta.<br />

E più avanti: «Non possiamo, così come nota egli stesso [a proposito<br />

dell’anima delle bestie], scavare nel suo cuore». Noi non potremo né dovremo<br />

solo paragonare i suoi scritti, senza esclusiva, e senza voler «operare<br />

con finezza» (espressione tratta da una lettera di Descartes a Elisabetta).<br />

Laporte ha sicuramente ragione: l’essenziale è nei testi, e solo i testi<br />

possono servirci da pietra di paragone. Vi è tuttavia, dobbiamo notare,<br />

un problema con la “finezza”. Che vorrà dire: «Non operare con finezza»?<br />

E che valore ha questa massima, se non si è innanzi tutto stabilito che<br />

Descartes non potè egli stesso operare con finezza? E per prima cosa, la citazione<br />

di Laporte non è per niente esatta (né nel suo testo, né d’altronde<br />

in nota). Nella sua lettera a Elisabetta 4 , Descartes scriveva:<br />

La massima che io ho osservato di più in tutta la condotta della mia <strong>vita</strong> è stata<br />

di seguire soltanto la strada maestra, e di credere che la principale finezza fosse<br />

il non volere affatto operare con finezza.<br />

«Non volere affatto operare con finezza»: vi è <strong>qui</strong> un leggero scarto fra<br />

la nolonté (o nolition) e l’astensione rigorosa. «Non volere affatto» non è<br />

proibire assolutamente; è piuttosto, all’occorrenza, «volere operare con finezza<br />

il meno possibile» (poiché vi sono, forse, delle circostanze in cui<br />

l’uso di una certa finezza rimane obbligatorio). Oltre al fatto che <strong>qui</strong> si<br />

tratta innanzi tutto della condotta di <strong>vita</strong>, del resto il piacevole paradosso<br />

3 Le Rationalisme de Descartes, III, Religion et raison, pp. 299-300.<br />

4 Gennaio 1646, in fine, AT IV, 357 = Bompiani 2138


26 Denis Kambouchner<br />

retorico segnala abbastanza che, se franchezza cartesiana vi è, essa è ottimamente<br />

concertata e pensata.<br />

Con il problema del grado di “finezza” inerente gli scritti di Descartes,<br />

si presenta <strong>qui</strong> la grande questione del rapporto fra l’arte di scrivere<br />

di un autore come Descartes e la necessità della dissimulazione, segnatamente<br />

con le opinioni che Leo Strauss ha sviluppato nel celebre articolo<br />

del 1952 su La persecuzione e l’arte di scrivere.<br />

Per Strauss, tutti lo sanno, l’arte di scrivere degli autori classici è in<br />

sostanza un’arte della dissimulazione. Questa dissimulazione deve intendersi<br />

non in senso radicale, ma relativo, e per così dire dialettico: è quella<br />

che si verifica quando un testo contiene «in primo luogo, un insegnamento<br />

a carattere edificante», su cui si fermerà il lettore volgare o frettoloso;<br />

ma anche, in secondo luogo, «un insegnamento filosofico sull’argomento<br />

più importante, indicato soltanto fra le righe» 5 , e dunque accessibile soltanto<br />

a colui che usa attenzione e riflessione. Una tale arte di scrivere è<br />

quella che si addice ad una situazione di non libertà, in cui il vero filosofo<br />

si trova nell’impossibilità di esporre apertamente le proprie idee, salvo ad<br />

incorrere in una persecuzione che metterebbe in pericolo la sua <strong>vita</strong> e la<br />

sua stessa opera. In questa situazione, e forse anche oltre, il pensatore prudente<br />

bada di riservare ai veri amici della filosofia l’essenziale della sua comunicazione.<br />

Ciò che consiste, dunque, nel non rendersi illeggibile a tutti<br />

gli altri, ma a disporre in un discorso accessibile agli altri (essoterico), e<br />

apparentemente conforme alla loro attesa, degli indizi, delle «particolarità<br />

enigmatiche», delle irregolarità più o meno manifeste, che il lettore attento,<br />

ma solo lui, non mancherà di rilevare e di interpretare; poiché<br />

se un maestro nell’arte dello scrivere prende delle cantonate che farebbero vergogna<br />

ad un liceale intelligente, è ragionevole supporre che esse siano intenzionali 6 .<br />

Strauss evoca <strong>qui</strong> le oscurità di schema, le contraddizioni all’interno<br />

di un’opera o fra due o parecchie opere dello stesso autore, l’omissione di<br />

anelli importanti dell’argomentazione, ecc. 7 ; ma anche le «ripetizioni ine-<br />

5 A, p. 36; B, p. 69.<br />

6 A, 30; B, 63.<br />

7 A, 31; B, 64.


satte di affermazioni anteriori, espressioni strane, ecc.» 8 : tutti indizi suscettibili<br />

di segnare un difetto di adesione reale dell’autore in relazione alle<br />

dottrine alle quali egli dichiara d’altronde di restar fedele e che pretende<br />

di trattare con rispetto.<br />

Leo Strauss, come si sa tuttora, ha applicato questa ermeneutica della<br />

dissimulazione ai filosofi arabi ed ebrei, Al-Farabi, Maïmonide, Spinoza,<br />

ma anche a Machiavelli e a Hobbes. Sembra non aver mai trattato di Descartes,<br />

e Descartes non è stato per lui del tutto fuori portata. Nel volume<br />

al quale l’articolo su «La persecuzione e l’arte di scrivere» dà il titolo, e<br />

più precisamente in uno studio intitolato: Come studiare il “Trattato Teologico-politico”<br />

di Spinoza, Strauss scrive (trad. fr. p. 247):<br />

Le regole di <strong>vita</strong> di Spinoza che si aprono con il ad captum vulgi lo<strong>qui</strong> (parlare<br />

mettendosi alla portata del volgo: prima regola di <strong>vita</strong>, regula vivendi, del Trattato<br />

sulla riforma dell’intelletto) seguono il modello delle regole della “morale provvisoria”<br />

di Descartes che si aprono con l’esigenza di un rigoroso conformismo in<br />

ogni cosa, eccetto l’esame strettamente privato delle sue proprie opinioni. Noi<br />

non possiamo che fare allusione al problema della tecnica di scrittura di Descartes,<br />

problema che sembra sfuggire alla vigilanza di tutti gli specialisti a causa<br />

dell’estrema precauzione che caratterizza tutte le azioni di questo filosofo.<br />

Benché Descartes sia passato per maestro nell’arte di “proiettare ombre”<br />

sulle cose (come scrive nel Discorso sul Metodo a proposito della<br />

fisica 9 ), vi sono delle buone ragioni per negare che egli abbia mai voluto<br />

praticare una dissimulazione alla Strauss. Mai il suo proposito esplicito<br />

porta qualcosa che abbia delle buone ragioni da identificare come l’opposto<br />

del suo proprio pensiero; e il principio di una comunicazione esoterica<br />

(fra iniziati) per lui non è nulla che abbia un vero significato. Descartes<br />

ha avuto un bell’«odiare il mestiere di fare dei libri»: per lui, pubblicare<br />

doveva intendersi nel senso pieno della parola, come una comunicazione<br />

senza dubbio raffinata, ma tuttavia univoca, dei suoi pensieri ad un pubblico<br />

istruito. Detto ciò, bisognerà ricordarsene continuamente: nella situazione<br />

dell’epoca, nessuno scritto che riguardasse da vicino o da lonta-<br />

8 A 37; B 69.<br />

9 Quinta parte, AT VI, 42.<br />

Descartes e il problema della fede 27


28 Denis Kambouchner<br />

no dei punti della religione o della teologia non dipende dalla pura e semplice<br />

comunicazione di un pensiero rigidamente costituito. Da una parte,<br />

ogni comunicazione in queste materie è di natura complessa e misurata,<br />

al punto che si potrebbe stabilire in assioma che nessun autore, in queste<br />

materie, dice tutto quel che pensa. D’altra parte, alla complessità della<br />

comunicazione si aggiunge quella del pensiero stesso, particolarmente in<br />

fatto di religione. A proposito degli autori dell’epoca, è senza dubbio una<br />

questione troppo pesante e troppo grossolana da porre, se taluno fra loro<br />

fosse credente o no. Innanzi tutto bisognerebbe per ciò sapere, come diceva<br />

Montaigne, «cos’è credere». E lo studio dei testi di Descartes su questo<br />

punto non può che ravvivare la nostra consapevolezza della difficoltà della<br />

questione.<br />

Sulla natura del credere (non nel senso ampio del termine, quello del<br />

belief di Hume, ma nel senso stretto della credenza di fede, del credere<br />

agostiniano), noi disponiamo, direttamente da Descartes, di un testo capitale<br />

e senza dubbio di uno solo, quello delle Risposte alle Seconde Obiezioni,<br />

AT VII, 147-9; IX, 115-6.<br />

La questione, delicata nell’immediato, è quella di sapere come sia possibile<br />

abbracciare una certa fede, i cui oggetti sono notoriamente oscuri<br />

(fides est de obscuris), senza contravvenire alla regola generale stabilita nelle<br />

Meditazioni, regola che vuole che la volontà sia fuori dal pericolo d’ingannarsi,<br />

«quando essa segue i lumi chiari e distinti della mente», e al<br />

contrario che essa «si mette in pericolo, quando persegue e abbraccia le<br />

conoscenze oscure e confuse dell’intelletto» 10 .<br />

La risposta cartesiana, che occorre sempre ricordare, si articola in due<br />

tempi.<br />

1) In primo luogo si impone la distinzione fra l’oggetto o la materia alla<br />

quale si aderisce e la “ragione formale” (<strong>qui</strong>: il principio) che muove la<br />

volontà ad assentire (ratio formalis quae movet voluntatem ad assentiendum).<br />

La fede ha certamente per oggetto delle cose oscure (fides est de<br />

oscuris), ma la ragione per la quale noi crediamo in queste cose (illud,<br />

propter quod ipsam amplectimur) non è oscura in egual misura: al contrario,<br />

essa dev’essere detta «più chiara di ogni luce naturale» (omni naturali<br />

10 II Obiez., 5, AT IX, 100.


Descartes e il problema della fede 29<br />

luce illustrius). La compatibilità fra l’oscurità della materia e la chiarezza<br />

della ragione è <strong>qui</strong> illustrata da un esempio che noi commenteremo.<br />

2) Inoltre, la chiarezza o l’evidenza (claritas sive perspicuitas) attraverso<br />

la quale la nostra volontà può essere portata ad assentire (moveri potest ad<br />

assentiendum) può essere di due specie (duplex): ne esiste una che procede<br />

dal lume naturale e un’altra che procede dalla grazia divina (ciò che ammetteva<br />

già la Quarta Meditazione, citata più oltre, AT IX, 116). In questo<br />

caso, la “ragione formale” della fede consiste in<br />

un certo lume interiore, in virtù del quale, avendoci Dio illuminato in modo<br />

soprannaturale, noi abbiamo fiducia che le cose che ci sono proposte da credere<br />

siano state rivelate da lui, e che non può essere assolutamente vero che egli stesso<br />

ci inganni (ut ille mentiatur), ciò che è più sicuro di ogni lume naturale (omni<br />

naturae lumine certius), e spesso anche più evidente (evidentius), a causa del<br />

lume della grazia (propter lumen gratiae).<br />

Ma, se è Dio a farci vedere che ci rivela le cose che ci rivela, il fatto<br />

che egli non ci mentisca e che non sia ingannatore costituisce una prima<br />

verità metafisica, il cui fondamento è stato ricordato più su (VII, 144, 3;<br />

XI, 113); vale a dire che, essendo Dio il sommo essere (summum ens), egli<br />

non può non essere anche il sommo bene e la somma verità (summum<br />

bonum et verum), il che fa sì che non presupponga contraddizione che<br />

qualunque cosa venga da lui tenda positivamente alla falsità. Ciò, scrive<br />

<strong>qui</strong> Descartes, è «più certo di ogni lume naturale»: fatto sta che si tratta,<br />

si potrebbe dire, di una verità trascendentalmente certa, poiché precede<br />

di diritto tutte le altre verità o conoscenze 11 .<br />

Sostanzialmente, la posizione cartesiana sembra del tutto ortodossa.<br />

Sarà necessario a tal proposito prendere qualche riferimento in san Tom-<br />

11 Un testo perfettamente esplicito su questo punto si trova nelle VI Risp., pt 5, AT VII,<br />

428; IX, 230: «che ripugna che gli uomini siano ingannati da Dio, ciò è chiaramente dimostrato<br />

dal fatto che la forma dell’inganno è un non-essere, al quale non può portarsi il sommo essere. Ed<br />

è ciò su cui convengono tutti i teologi, e ciò da cui dipende tutta la certezza delle fede cristiana;<br />

perché noi crederemmo alle cose rivelate da Dio, se pensassimo di essere talvolta ingannati da lui<br />

(si nos interdum ab ipso decipi arbitraremur)?». Il testo francese rafforza la tesi: «Anche tutti i teologi<br />

sono d’accordo su questa verità, che si può dire la base e il fondamento della religione cristiana,<br />

poiché ne dipende tutta la certezza della sua fede; giacché, come potremmo noi…».


30 Denis Kambouchner<br />

maso d’A<strong>qui</strong>no, per esempio nella Summa Teologica, II-II, q. 1. All’articolo<br />

4 (L’oggetto della fede può essere una cosa vista?) si leggeva:<br />

La fede (che si riferisce a Dio e alle cose divine, alla <strong>vita</strong> eterna ed a ciò che là<br />

ci conduce) implica un assenso dell’intelligenza a ciò che si crede. Ma l’intelligenza<br />

aderisce a qualcosa in due modi. O perché essa vi è portata dall’oggetto,<br />

il quale è ora conosciuto da sé stesso (è il caso dei princìpi primi, materia<br />

di semplice intelligenza), ora da altra cosa, come si vede nelle conclusioni, che<br />

sono la materia della scienza. Oppure l’intelligenza aderisce a qualcosa senza<br />

esservi pienamente spinta dal suo proprio oggetto, ma legandosi volontariamente<br />

per scelta a un partito piuttosto che ad un altro. Se si prende questo partito<br />

con un residuo di esitazione e di timore in favore dell’altro, si avrà una opinione,<br />

ma se si prende partito con certezza e senza alcun residuo di tale timore, si<br />

avrà una fede.<br />

Da <strong>qui</strong> l’enunciato della q. 2, art. 1: «L’intelligenza del credente è determinata<br />

ad una cosa non dalla ragione, ma dalla volontà».<br />

E tuttavia, su una questione in ogni modo assai difficile, lo svolgimento<br />

cartesiano può sembrare di una grandissima tran<strong>qui</strong>llità. Lascia in<br />

ogni caso sussistere una difficoltà considerevole, con il seguente punto: richiamando<br />

il lume interiore con cui Dio ci illumina in modo soprannaturale,<br />

Descartes non dice che questo lume ci fa credere quello che noi<br />

crediamo, ma che esso ci fa molto chiaramente conoscere che bisogna crederlo.<br />

Questo punto è più chiaro nella lettera dell’agosto 1641 allo sconosciuto<br />

che si chiama Hyperaspistes («il campione»), e costituisce come<br />

una nuova serie di risposte non incluse nelle Meditazioni. Descartes scrive<br />

(punto 3, AT III 426):<br />

Non ho detto che con il lume della<br />

grazia noi conosciamo chiaramente i misteri stessi della fede (sebbene io non<br />

neghi che ciò si possa fare), ma soltanto che noi abbiamo fiducia che è necessario<br />

crederle (nos confidere illis esse credendum).<br />

Abbiamo fiducia, confidimus: il termine <strong>qui</strong> è ricorrente. Nelle Seconde<br />

Risposte (AT VII, 148, 9), si applicava direttamente alla rivelazione;<br />

<strong>qui</strong> egli si applica alla necessità di credere. Il lume soprannaturale, da cui<br />

noi siamo rischiarati, ci fa vedere le cose rivelate come effettivamente rivelate,<br />

e così vi aderiamo in quanto esse sono da credere.


Descartes e il problema della fede 31<br />

Tuttavia, si può essere colpiti dal carattere indiretto di queste formule,<br />

il quale lascia sussistere la questione seguente: credere che qualcosa ci<br />

sia stata rivelata, oppure (ciò che è lo stesso) credere che noi dobbiamo<br />

crederlo, è esattamente la stessa cosa di credere questa cosa, semplicemente<br />

e interamente?<br />

Bisogna innanzi tutto notare che il riferimento ad un pensiero, diciamo,<br />

di secondo grado (un pensiero che poggia su un altro pensiero) non<br />

è in sé una obiezione alla realtà o al carattere assoluto del credere. In effetti,<br />

da un punto di vista cartesiano, quando diamo il nostro assenso ad<br />

una rappresentazione evidente, noi diamo questo assenso a partire dalla<br />

constatazione che si tratta di una evidenza, e questa constatazione, nella<br />

quale si attualizza la “ragione formale” del nostro assentire, è essa stessa in<br />

un certo modo una rappresentazione della necessità di credere.<br />

Vi è tuttavia una differenza con l’evidenza, la mente comincia col<br />

riempirsi del suo oggetto; è sul fondamento di una certa esperienza intellettuale<br />

di questo oggetto stesso, o della sua rappresentazione (utilizzo <strong>qui</strong><br />

per comodità un termine di cui bisogna sottolineare che non è propriamente<br />

cartesiano), che la volontà concede a questa rappresentazione il<br />

suo pieno assenso. Nel credere per fede, al contrario, l’oggetto è puramente<br />

designato come da credere, da una istanza che si fa conoscere da<br />

noi in maniera specifica. Ciò significa che, per Descartes, l’oggetto della<br />

fede non dà materia allo stesso consumo intellettuale dell’oggetto dell’evidenza<br />

della scienza, e dunque che esso conserva rispetto al nostro pensiero<br />

un certo coefficiente di esteriorità.<br />

Questo carattere di esteriorità riceverà parecchi generi di conferme.<br />

1) La prima sarà tratta dal difetto di ogni riferimento cartesiano ad<br />

una intelligenza della fede. Si sa che l’intelligenza, in materia di fede, è<br />

quel dono o quella grazia che permette di penetrare più avanti nei misteri<br />

della religione. L’intelligenza come dono, scrive Tommaso D’A<strong>qui</strong>no,<br />

«coglie intellettualmente le tesi della fede» (S. Théol, II-II, 8, 6, resp.),<br />

dato che intelligere significa intus legere, leggere dentro (q. 8 art. 1 resp.).<br />

Mi è impossibile accedere alla complessità dello statuto tomista di questa<br />

intelligenza, che certo, finché permane lo stato di fede, non è piena comprensione<br />

delle cose proposte da credere, e dunque chi sceglie «che è questo,<br />

quel che si deve credere», al di là di quello che Descartes riconosce. A


32 Denis Kambouchner<br />

questo proposito, la principale differenza non si trova forse nella maniera<br />

in cui Tommaso tenta di circoscrivere il modo proprio di questa intelligenza<br />

12 ; essa risiede piuttosto nella persistenza tomista di un dinamismo<br />

della fede – fides quaerens intellectum – che in Descartes non si ritrova a<br />

nessun titolo. Rileggiamo la risposta a Hyperaspistes:<br />

Non ho detto che con la luce della<br />

grazia noi conosciamo chiaramente i misteri stessi della fede (sebbene io non<br />

neghi che ciò si possa fare) ma solamente che noi abbiamo fiducia che bisogna<br />

crederli (nos confidere illis esse credendum).<br />

«Non nego che ciò si possa fare», scrive Descartes, ma è per sottintendere:<br />

come ciò si possa fare, non ne ho esattamente l’idea e d’altronde<br />

non la cerco. A patto che la grazia, che la condiziona, non si ritiri, la fede<br />

cartesiana è una condizione stabile che forse in alcuni sfocia nella conoscenza<br />

chiara dei misteri, ma che non appare costitutivamente orientata<br />

verso questa conoscenza e come un cammino verso di essa.<br />

2) In relazione al problema dell’intelligenza della fede, quest’astensione<br />

non è l’unico segno di disinvoltura che si può rilevare nel presente testo.<br />

Vi è ancora – cosa debitamente notata da Ferdinand Al<strong>qui</strong>é nelle note<br />

della sua edizione – lo strano modo con cui Descartes pretende di mostrare<br />

in modo generale (e non specificatamente a proposito della fede) la<br />

compatibilità fra l’oscurità della materia del credere o del giudizio e la<br />

chiarezza della sua “ragione formale”. In effetti, Descartes sembra ritenere<br />

opportuno garantire questa compatibilità con un altro esempio; e questo<br />

esempio, qual è?<br />

Quando penso che l’oscurità dev’essere tolta dai nostri pensieri per potere dar<br />

loro il nostro consenso senza alcun pericolo di fallire (ciò che è la forma negativa<br />

della regola generale di verità»), è la stessa oscurità che mi serve da materia,<br />

per formulare un giudizio chiaro e distinto.<br />

12 «Succede che si comprenda imperfettamente qualcosa, quando dall’essenza stessa della cosa,<br />

o della verità della proposta, non si sa ciò che essa sia, o come sia, ma si sa solamente che ciò<br />

che appare dall’esterno non si oppone alla verità di ciò che è; l’uomo capisce allora che non deve<br />

allontanarsi dalle verità di fede a causa di quello che vede dall’esterno; in questo senso nulla impedisce,<br />

fin tanto che dura lo statuto di fede, di comprendere anche ciò che, per sé stesso, cade sotto<br />

la fede» (art. 2, resp.).


Descartes e il problema della fede 33<br />

Possiamo prendere l’oscurità come oggetto del nostro pensiero (oggetto<br />

negativo all’occorrenza), e portare sull’oscurità un giudizio chiaro e<br />

distinto: benissimo! Ma il paragone con la fede è falso; poiché, quando riflettiamo<br />

sull’oscurità e sulla maniera di escluderla dal nostro pensiero, il<br />

nostro stesso pensiero non è oscuro (la nozione stessa di oscurità non è<br />

oscura), come esso lo rimane necessariamente quando prende per oggetti<br />

gli articoli di fede. A titolo generale – e sottolineo a titolo generale – non<br />

sembra dunque che questa compatibilità fra la chiarezza della ragione formale<br />

e l’oscurità della materia sia essa stessa la cosa più chiara del mondo.<br />

E se ci si riferisce all’inizio del testo, vi si troverà dalla parte di Descartes<br />

un altro segno di disagio. Rispondendo ai timori espressi dagli autori o<br />

piuttosto dall’autore delle Seconde Obiezioni (Mersenne), timori relativi<br />

alle conseguenze dell’ammissione della regola generale di verità, Descartes<br />

scrive:<br />

Mi meraviglio che voi neghiate che la volontà rischi di fallire quand’essa persegue<br />

e abbraccia le conoscenze oscure e confuse dell’intelletto; giacché chi può<br />

renderla certa (la volontà), se ciò che essa segue (id quod sectatur) non è chiaramente<br />

conosciuto? E qual è quel filosofo o teologo, o semplicemente l’uomo<br />

che usa la ragione, che non abbia confessato (non confessus est) che noi corriamo<br />

tanto meno pericoli di sbagliare quando noi comprendiamo (intelligimus) più<br />

chiaramente qualcosa, prima di assentire, e che questi peccano<br />

poiché portano giudizi per ignoranza di causa (causa ignota)? (AT VII, 147).<br />

Ad una prima lettura, questo testo sembra accordare un privilegio<br />

schiacciante alla conoscenza di pura ragione, quella che è integralmente<br />

chiara e distinta. E certo, ad una seconda lettura, si distingue bene quello<br />

che <strong>qui</strong> viene a legittimare l’adesione alla fede, dato che, perché il giudizio<br />

sia legittimo, bisogna che la sua “causa” sia chiaramente concepita<br />

(piuttosto che il suo oggetto) – la sua “causa”, altrimenti detta la sua “ragione<br />

formale”, che è propriamente ciò che la volontà segue. Ma se, come<br />

sarà sottolineato, basta che questa ragione formale sia chiara perché il giudizio<br />

sia valido, rimane che la chiarezza della ragione formale non appare<br />

<strong>qui</strong> subito come il principio della più alta certezza, che si troverà sempre<br />

nella percezione chiara dell’oggetto.<br />

Ritorniamo adesso al nostro problema centrale: la chiara coscienza<br />

della necessità di credere è essa credenza in senso assoluto?


34 Denis Kambouchner<br />

Il problema – noi lo percepiamo bene – risiede <strong>qui</strong> nella distinzione<br />

possibile fra due modi di credere, che potremmo chiamare, da una parte,<br />

la credenza di sottomissione, e, dall’altra, la credenza di assimilazione. La<br />

prima presuppone una confessione o professione di fede, ma è caratterizzata<br />

dalla volontà di non rimettere in causa quello stesso che è ricevuto, e,<br />

a questo proposito, essa si definisce in qualche maniera negativamente.<br />

Nella seconda, al contrario, il contenuto della credenza diventa in sé stesso<br />

un oggetto di meditazione, da parte di una mente che cerca di penetrare<br />

sempre di più. La questione è allora<br />

quella di sapere a quale dei due<br />

modi di credenza Descartes si riferisca,<br />

o almeno – se rimane difficile rispondere<br />

a questa prima forma della questione<br />

– il problema sarà quello di sapere<br />

quale dei due modi (sottomissione<br />

o assimilazione) sia più propriamente<br />

cartesiano.<br />

Per concedersi una possibilità di<br />

risposta all’una o all’altra forma della<br />

questione, mi sembra che convenga<br />

seguire il filo delle dichiarazioni cartesiane<br />

sulla grazia.<br />

Innanzi tutto, non vi è alcun dubbio<br />

che la fede sia una grazia e che<br />

questa grazia debba manifestarsi come<br />

tale in modo perfettamente riconoscibile;<br />

tant’è vero che, come sottolinea<br />

ancora il testo delle Seconda Risposta,<br />

un infedele che fosse stato indotto ad aderire a un dogma cristiano solo<br />

con falsi ragionamenti non avrebbe per questo la fede cristiana, e bisognerebbe<br />

dire piuttosto di lui che pecca, non servendosi come si deve della<br />

sua ragione (AT VII,148, 19-25; IX, 116).<br />

A tal proposito, è certo che lo stesso Descartes si è presentato come il<br />

soggetto di una certa grazia: prova ne sia la formula del Discorso sul Metodo,<br />

che iscrive al primo posto delle regole della «morale provvisoria» la


conservazione della «religione nella quale Dio mi ha fatto la grazia di essere<br />

istruito sin dall’infanzia» (AT VI, 23). La questione è tuttavia quella<br />

di sapere quale sia il risultato di questa grazia di cui Descartes si riconosce<br />

beneficiario, nei termini del modo di credere.<br />

A tal proposito abbiamo innanzi tutto, nella lettera a Hyperaspistes<br />

dell’agosto 1641, quest’osservazione supplementare:<br />

E nessuno può trovare strano, se ha veramente la fede cattolica, che non sia evidentissimo<br />

(evidentissimum) che bisogna credere alle cose che Dio ha rivelato, e<br />

che bisogna preferire il lume della grazia a quello della natura 13 .<br />

Ma <strong>qui</strong>, come in ciò che immediatamente precede, la credenza è posta<br />

all’imperativo, cosa che non ci informa sul suo ordinamento in quanto<br />

credenza attuale.<br />

A proposito del rapporto fra il lume della grazia e quello della natura,<br />

si consulterà in compenso con profitto la lettera di Huygens del 10 ottobre<br />

1642 (AT III 578), lettera che Cherselier, primo editore della corrispondenza<br />

di Descartes, aveva pensato bene di correggere su parecchi<br />

punti.<br />

Si tratta di una lettera consolatoria, in cui Descartes dice di avere trovato<br />

nella considerazione della natura delle nostre anime, quale la sua filosofia<br />

l’ha coltivata, «un rimedio molto potente, non soltanto per farmi<br />

sopportare la morte di quelli che amavo» (e di fatto aveva perduto uno<br />

dopo l’altro, due anni prima, sua figlia Francine e suo padre Joachim),<br />

«ma anche per impedirmi di temere la mia, nonostante io sia nel novero<br />

di coloro che amano di più la <strong>vita</strong>». E aggiunge:<br />

Sebbene la religione c’insegni molte cose sull’argomento (vale a dire: dell’altra<br />

<strong>vita</strong>), riconosco tuttavia in me un’infermità che è, mi sembra, comune alla maggior<br />

parte degli uomini, cioè, qualunque cosa vogliamo credere e anche che<br />

pensiamo di credere fortemente e fermamente tutto quello che la religione c’insegna,<br />

noi non abbiamo tuttavia l’abitudine di esserne talmente colpiti se non<br />

da ciò di cui siamo persuasi da ragioni naturali evidentissime.<br />

Clerselier così correggeva:<br />

13 AT III, 426, 5-9.<br />

Descartes e il problema della fede 35


36 Denis Kambouchner<br />

Noi non abbiamo l’abitudine di essere così colpiti da cose che la fede c’insegna,<br />

e dove la nostra ragione non può arrivare, che di quelle di cui siamo con ciò persuasi<br />

da ragioni naturali evidentissime.<br />

Non si può essere sensibili che all’armonia della ragione naturale (nel<br />

suo uso metafisico) con la rivelazione, e al rafforzamento che la ragione<br />

può apportare alla fede – tema che interviene, per esempio, nell’Epistola<br />

dedicatoria delle Meditazioni. Ma si può anche essere sensibili all’elemento<br />

negativo del proponimento; vale a dire: di solito, salvo eccezione essa<br />

stessa gratuita, ciò che c’insegna la sola religione ci tocca meno, cioè ci<br />

persuade meno (nel momento in cui ne avremmo bisogno), di quanto la<br />

ragione naturale ci fa credere, oppure ciò a cui ogni sorta di ragione ricavata<br />

dall’uso della ragione naturale ci porta a dare il nostro assenso.<br />

Ora, come precisava alcuni mesi prima un’altra lettera (a Mersenne,<br />

marzo 1642, AT III,544),<br />

bisogna notare che ciò che si conosce per ragione naturale, come che è interamente buono, potente, vero, ecc., può ben servire a preparare<br />

gli infedeli a ricevere la fede, ma non essere sufficiente per far loro guadagnare il<br />

cielo; poiché, per questo, bisogna credere in Gesù Cristo e alle altre cose rivelate,<br />

cosa che dipende dalla grazia.<br />

Eccoci almeno avvertiti: succede abitualmente che a scapito di una<br />

certa grazia, le verità della fede, a cui in un certo senso noi crediamo, non<br />

ci toccano realmente. Non potremmo noi <strong>qui</strong> fare un passo in più, con il<br />

riconoscimento di una specie di esteriorità reciproca fra le verità della sola<br />

fede e quelle di cui si occupa la filosofia?<br />

Un testo può particolarmente dare adito a questo sospetto: si tratta di<br />

un’altra lettera a Mersenne, dell’epoca del Discorso sul Metodo (maggio<br />

1637, AT I, 366-7; Bompiani 376-8), e che riguarda precisamente la formula<br />

della «morale provvisoria», secondo la quale «basta giudicare bene per<br />

fare bene», formula che Padre Mersenne sembra volere respingere, in quanto<br />

non attribuisce alla grazia il posto che meriterebbe. Descartes scrive:<br />

E il fare bene di cui parlo non può essere inteso in termini di teologia, dove si parla<br />

della grazia, ma soltanto di filosofia morale e naturale, in cui questa grazia non è<br />

affatto considerata; in modo tale che non mi si possa accusare per questo dell’errore<br />

dei pelagiani; nemmeno se io dicessi che bisogna avere solo del buon senso per


essere un gentiluomo, non mi si obietterebbe che bisogna anche avere il sesso che<br />

ci distingue dalle donne, in modo che ciò non venga affatto allora a proposito.<br />

Due punti colpiscono in questo brano.<br />

Il primo sta sicuramente nel paradosso che, da parte di Descartes,<br />

consiste tutto sommato nel dire: «non mi si può rimproverare di disconoscere<br />

la parte della grazia, poiché non ne parlo». Certamente, non era affatto<br />

questione della grazia neanche nel De libero arbitrio di sant’Agostino,<br />

che lo spiega nelle Retractiones. Ciò non toglie che l’argomento è sospetto<br />

di sofisticazione, esattamente come le formule di Montaigne nel<br />

suo Saggio sulle preghiere (I, 56), dove si dice che «la dottrina divina si<br />

mantiene all’altezza del proprio rango, come regina e dominatrice»: la<br />

possibilità stessa di essere messa da parte non significa piuttosto una sorta<br />

di debolezza e un difetto di sovranità? Accettiamo tuttavia, col beneficio<br />

del dubbio, la logica di Montaigne della messa da parte; conveniamo sul<br />

fatto che è meglio, quando si è «un uomo puramente uomo» 14 , non mescolare<br />

le verità divine e i ragionamenti umani, e che è stato un errore dei<br />

pelagiani il non distinguere abbastanza la grazia e la natura.<br />

Che dire però dell’altro punto sorprendente, e cioè un paragone che<br />

sembra non soltanto impertinente (per quanto esso cerchi nel campo della<br />

pura natura un e<strong>qui</strong>valente della relazione fra la natura e la grazia), ma<br />

abbastanza irrispettoso nella battuta di spirito?<br />

Fermiamoci un istante sulle due formule da paragonare:<br />

Quando si dice che «non bisogna che avere (vale a dire: basta avere)<br />

del buon senso per essere un gentiluomo», è chiaro che si prende il nome<br />

di “uomo” nel senso ampio e universale (come sinonimo di essere umano),<br />

non in senso stretto e sessuato. E dunque si rimprovera a torto a<br />

questo enunciato di mancare di una specificazione. Quale rapporto, tuttavia,<br />

con la critica rivolta all’enunciato: «basta giudicare per fare bene»?<br />

Certo, i due enunciati dicono in fondo la stessa cosa (poiché giudicare<br />

bene è precisamente avere buon senso e fare bene, è precisamente essere<br />

gentiluomo). È dunque fare paragone fra due obiezioni rivolte ad un<br />

enunciato unico: per essere gentiluomo, bisognerebbe da una parte avere<br />

14 Discorso sul metodo, I, AT VI, 3, 22.<br />

Descartes e il problema della fede 37


38 Denis Kambouchner<br />

il sesso che caratterizza l’uomo, e dall’altra avere la grazia che rende possibile<br />

l’opera buona. Ma, da un canto, le due obiezioni si riferiscono a degli<br />

oggetti completamente differenti (la natura di uomo, per l’una; e l’azione<br />

buona, per l’altra), e d’altro canto, soprattutto, la seconda conserva una<br />

pertinenza almeno apparente che manca totalmente alla prima.<br />

Non si vede <strong>qui</strong> come salvare l’argomento cartesiano da un’imputazione<br />

di estrema disinvoltura; e, in quanto alla sua sostanza filosofica, essa<br />

sembrerà ridursi a questo: come vi è anche dell’ambiguità nel termine di<br />

uomo (che si applica contemporaneamente all’intero genere umano ed a<br />

uno solo dei due sessi che lo compongono), vi sarebbe ambiguità nella<br />

nozione di fare bene: il fare bene dei teologi sarebbe di un’altra natura o<br />

di un’altra struttura, più specifica senza dubbio, di quella dei filosofi (o<br />

degli “umanisti”, per parlare come Montaigne). Ma esattamente per questa<br />

ragione, non sembra che il filosofo abbia alcunché da ridire. E per<br />

esempio, al di fuori della sua validità metafisica universale, l’idea che Dio<br />

compia in noi il volere e il fare non s’imporrebbe al filosofo come oggetto<br />

di meditazione.<br />

Da parte di Descartes, questa situazione è stata debitamente pensata e<br />

teorizzata. Su tale argomento, si può innanzi tutto considerare il testo<br />

delle Seste risposte, punto 5, che ritorna sul problema legato ai testi della<br />

Scrittura, dove sembra profilarsi qualche inganno da parte di Dio. Descartes<br />

risponde a proposito: su ciò mi contento di risposte tradizionali<br />

(jam inventae), e vi sarebbe da parte mia dell’arroganza nel volerne proporre<br />

una migliore;<br />

non mi sono mai immischiato nello studio della teologia, e non mi ci sono mai<br />

applicato se non quando ho creduto che essa fosse necessaria per la mia propria<br />

istruzione (ad privatama meam institutionem), e infine io non sperimento in me<br />

grazia divina che mi faccia giudicare capace di insegnarla 15 .<br />

15 Non existimo meum esse ad ipsa rispondere, nisi si quando videantur adversari ali<strong>qui</strong> opinioni<br />

quae mihi sit peculiaris. […] Vererer crimen arrogantiae, si non mallem responsionibus ab aliis jam<br />

inventis contentus esse, quam novas escogitare, <strong>qui</strong>a nunquam me Theologicis studiis immischi, nisi in<br />

quantum ad privatam meam institutionem conferebant, nec tantum in me divinae gratiae experior, ut<br />

ad illa sacra vocatum putem. Itaque profiteor me I nihil in posterum de talibus responsurum; sed nondum<br />

id servano hac vice, ne forte ali<strong>qui</strong>bus occasionem praebeam existimandi me ideo tacere, quod loca<br />

proposita non satis comode passim esplicare.


Descartes e il problema della fede 39<br />

Questo stesso testo si deve raffrontare a un brano della Prima parte<br />

del Discorso sul metodo (AT VI, 8):<br />

Avendo appreso, come cosa sicurissima, che le verità rivelate, che conducono<br />

sono al di sopra della nostra intelligenza, non ho mai osato sottoporle<br />

alla debolezza dei miei ragionamenti, e pensavo che, per tentare di esaminarle e<br />

riuscirvi, fosse necessario avere qualche straordinaria assistenza dal cielo, ed essere<br />

più che uomo.<br />

La questione è sapere se Descartes, <strong>qui</strong> come là, si contenta di affidare<br />

ad altri che a lui lo sviluppo di una buona e legittima teologia, ovvero se<br />

egli mette in questione la possibilità stessa di definirne l’ordinamento.<br />

Su questo punto io farò riferimento ad un ultimo testo su questo capitolo:<br />

quello del Collo<strong>qui</strong>o con Burman del 1648 (AT V 176; testo 62<br />

Beyssade), che parte dalla famosa formula del Discorso sul metodo, Seconda<br />

parte:<br />

Queste lunghe catene di ragioni, tutte semplicissime e facilissime, che i geometri<br />

hanno l’abitudine di utilizzare per giungere alle loro dimostrazioni più difficili,<br />

mi avevano dato l’occasione di immaginare che tutte le cose che possono<br />

essere oggetto della conoscenza degli uomini si susseguono allo stesso modo…<br />

La questione sollevata dall’intervistatore, Burman, è semplicemente la<br />

seguente: «Ma in teologia tutto ugualmente si sussegue e si concatena in<br />

tal modo?». Ed ecco la risposta di Descartes:<br />

Sì, senza alcun dubbio (imo procul dubio); ma noi non possiamo raggiungere e<br />

comprendere (consegui et intelligere) allo stesso modo la concatenazione di queste<br />

verità, poiché esse dipendono dalla rivelazione. Sicuramente non bisogna<br />

sottomettere (subjicere) la teologia ai nostri ragionamenti; che noi applichiamo<br />

alla matematica e alle altre verità, visto che la teologia non cade sotto<br />

la nostra presa (nos eam capere non possumus), e che più gli conserviamo la sua<br />

semplicità, migliore è il suo possesso.<br />

Cosa s’intende <strong>qui</strong> con la parola teologia? Apparentemente, la parola<br />

stessa di Dio, in cui tutto dev’essere in un ordine meraviglioso, ma che<br />

noi non possiamo cogliere. Non bisogna <strong>qui</strong>ndi tentare di «esaminare» le<br />

verità della teologia, cosa che e<strong>qui</strong>varrebbe a mettervi di mezzo i nostri<br />

ragionamenti; bisogna accontentarsi di mostrare che esse «non sono in<br />

contraddizione con quelle della filosofia». Facendo altro,


40 Denis Kambouchner<br />

i monaci hanno spianato il campo a tutte le sette ed eresie, con la loro teologia,<br />

voglio dire scolastica, che innanzi tutto dovrebbe essere eliminata (quae ante<br />

omnia exterminanada esset); e qual bisogno di un sì grande sforzo, dal momento<br />

che noi vediamo che i semplici e gli zotici (idiotas et rusticos) possono meritare<br />

il cielo tanto quanto noi? Cosa che dovrebbe certamente avvertirci che è molto<br />

meglio avere una teologia semplice come la loro, piuttosto che maltrattarla (vexare)<br />

con una massa di controversie, e in tal modo corromperla e dare spunto a<br />

dissensi, a litigi, a guerre, ecc… – visto principalmente che i teologi hanno preso<br />

l’abitudine di attribuire tutte le opinioni ai teologi del partito avverso e di riversare<br />

su di loro tutte le calunnie (omnia affingere et calumniari), al punto da<br />

rendersi del tutto familiare l’arte del calunniare, e non poter fare quasi altro che<br />

calunniare, anche senza rendersene conto.<br />

Durante gli anni della Querelle d’Utrecht, è vero che Descartes vide<br />

da vicino la calunnia, e sperimentò, per parlare come Montaigne, l’«orribile<br />

impudenza» con cui alcuni «palleggiano» (giocano a palla con) le ragioni<br />

divine» 16 . Come in Montaigne (quello dell’inizio dell’Apologia di<br />

Raimond Sebond ancor più che quello del Saggio sulle preghiere), si tratta<br />

<strong>qui</strong> di un’astensione propriamente religiosa, che raccoglie come la sola<br />

“teologia” che valga, e nel modo più semplice, il nocciolo di un messaggio<br />

metafisico e morale.<br />

A partire da ciò, tentiamo di fare il punto; e innanzi tutto notiamo<br />

ciò che sarebbe inutile dire: fra la filosofia cartesiana e la religione cristiana<br />

non solo non vi può essere questione d’incompatibilità, ma non vi è<br />

ragione di dubitare che l’una fornisca all’altra tutto il sostegno razionale<br />

possibile.<br />

Dico bene, «tutto il sostegno razionale possibile»: non è che Descartes<br />

arrivi fino a proporre, come farà Malebranche, una «prova metafisica della<br />

religione cristiana», legata al fatto che la relazione fra un Dio infinito e<br />

l’essere finito dell’uomo esige assolutamente la mediazione dell’uomo-<br />

Dio. Per fortissime ragioni, legate all’impossibilità cartesiana di entrare<br />

nel pensiero di Dio, Descartes avrebbe reputato questa prova del tutto<br />

fuori luogo, e senza dubbio assolutamente inutile. Detto ciò, se è questione<br />

che la filosofia «prepara gli infedeli a ricevere la fede» (come afferma la<br />

16 Essais, II.12, edizione Villey, p. 443.


Descartes e il problema della fede 41<br />

lettera a Mersenne del marzo 1642, AT III, 544), si può riconoscere che<br />

la filosofia cartesiana sia andata a tal proposito più lontano possibile, con<br />

un certo numero di temi che si possono elencare e alcuni dei quali superano<br />

la pura metafisica: esistenza di un Dio infinitamente potente e sovranamente<br />

perfetto (la cui immutabile volontà conduce Descartes, in un<br />

altro testo sorprendente del Collo<strong>qui</strong>o con Burman, a dare ragione, sul libero<br />

arbitrio, ai gomaristi contro gli arminiani e i gesuiti) 17 ; incorporeità<br />

dell’anima umana, la cui immortalità diventa così più facile da credere;<br />

relazione fra la storia probabile del mondo fisico e il primo capitolo della<br />

Genesi; circoscrizione rigorosa del mistero dell’eucaristia con eliminazione<br />

di difficoltà parassitarie; infine, relazione fra la «vera generosità» che è<br />

la «chiave di tutte le altre virtù» e le leggi della carità cristiana (evocate da<br />

Descartes nell’Epistola a Vezio, VII parte).<br />

Ma nello stesso tempo rimane il punto sconcertante: la filosofia cartesiana<br />

si ferma alla soglia della religione cristiana, e del contenuto specifico<br />

di questa religione non dice nulla. E con ciò, desidero designare la notevole<br />

parsimonia cartesiana – che viene, è vero, dopo la notevole parsimonia<br />

di Montaigne – nel riferimento a Gesù Cristo.<br />

Bisogna certamente parlare di parsimonia e non di astensione completa.<br />

In effetti, nei testi in cui Descartes s’interessa al mistero dell’Eucaristia,<br />

è questione sicuramente di Gesù Cristo, per mostrare a tal proposito<br />

ancora la superiorità dei suoi propri princìpi su quelli di Aristotele.<br />

Inoltre, la lettera a padre Mesland del 2 maggio 1644 evoca la condotta<br />

di Gesù Cristo in questa <strong>vita</strong>, conservandole il suo valore paradigmatico:<br />

Non ci si stanca di meritare se (vale a dire: si merita sicuramente, anche nel caso<br />

in cui), vedendo chiaramente quello che bisogna fare, lo si faccia (lo si fa) infallibilmente<br />

e senza indifferenza alcuna, come ha fatto Gesù Cristo in questa <strong>vita</strong>.<br />

Ci si può tuttavia interrogare sulla parte di convenzione che riguarda<br />

questi brani, dove il Cristo è sicuramente trattato come una figura storica<br />

17 AT V, 166, Testo 38 Beyssade. «Bisogna dire», aggiunge Descartes, «che Dio è certamente<br />

immutabile, e che ha decretato da tempo immemorabile di darmi, o no, ciò che gli chiedo, ma<br />

che tuttavia il suo decreto comporta allo stesso tempo di concedermelo grazie alla mediazione delle<br />

mie preghiere, nello stesso tempo in cui pregherò e avrò una buona condotta, dal momento che<br />

bisogna che io lo preghi e che abbia una buona condotta se voglio ottenere qualcosa da Dio».


42 Denis Kambouchner<br />

Charles Le Brun, Il cancelliere Séguier, 1650 ca., olio su tela, Parigi, Louvre<br />

piuttosto che come l’oggetto di una relazione mistica. Notiamo d’altronde<br />

– in merito alla relazione fra il primo Adamo e il secondo – il poco interesse<br />

portato da Descartes al problema del peccato originale, cosa <strong>qui</strong><br />

ancora giustificata dal programma proprio di una filosofia che, come dice<br />

ancora Il Collo<strong>qui</strong>o con Burman, non considera gli uomini se non come<br />

sono adesso.<br />

Per conservare alla figura del Cristo una presenza silenziosa in seno alla<br />

meditazione cartesiana, vi sarà certamente la nota del registro di gioventù,<br />

altrimenti detta delle Cogitationes privatae, secondo cui «il Signore<br />

ha fatto tre meraviglie: il mondo dal nulla, il libero arbitrio e l’uomo-<br />

Dio» – formula che si può trovare segnata dalla spiritualità bérulliana, del


Descartes e il problema della fede 43<br />

cui sviluppo è in ogni caso contemporanea 18 . Ma per controbilanciare, a<br />

circa trent’anni di distanza, quel frammento degli anni 1619-1620, vi è<br />

lo strano sviluppo che contiene la lettera a Chanut del 6 giugno 1647<br />

(peraltro celebre per la confidenza di un affetto infantile nei confronti di<br />

una ragazza affetta da strabismo).<br />

Si tratta <strong>qui</strong> (AT V, 54-5 = Bompiani 2470) della questione di sapere<br />

se l’uomo è il fine della creazione. Secondo Descartes, a dispetto delle<br />

«prerogative che la religione attribuisce all’uomo», noi non siamo «obbligati<br />

a crederlo».<br />

È vero che i sei giorni della creazione sono talmente (vale a dire: in modo tale)<br />

descritti nella Genesi che sembra che l’uomo ne sia il soggetto principale; ma si<br />

può dire che questa storia della Genesi, essendo stata scritta per l’uomo, lo Spirito<br />

Santo vi abbia voluto principalmente specificare le cose che lo riguardano.<br />

L’espressione è già curiosa, ma non è nulla in relazione a ciò che segue<br />

e che concerne i predicatori: costoro, scrive Descartes, non fanno soltanto<br />

credere che Dio abbia fatto tutto per noi;<br />

vanno oltre: poiché dicono che ogni uomo in particolare è debitore a Gesù Cristo<br />

di tutto il sangue che egli ha versato nella Croce, ugualmente come se fosse<br />

morto per uno solo. In questo dicono bene la verità; ma siccome ciò non impedisce<br />

che egli non abbia riscattato con quello stesso sangue un gran numero di<br />

altri uomini, così non vedo affatto perché il mistero dell’Incarnazione, e tutti gli<br />

altri privilegi che Dio concesse all’uomo, impediscano che egli non possa averne<br />

concessi (vale a dire: privilegi) un’altra grandissima infinità a un’altrettanta<br />

infinità di creature. E sebbene da ciò io non deduca affatto che vi siano delle<br />

creature intelligenti nelle stelle o altrove, non penso neanche che vi sia ragione<br />

alcuna per la quale si possa provare che non ve ne siano affatto; ma io lascio<br />

sempre in sospeso le questioni di questa natura, piuttosto che negare o affermare<br />

alcunché.<br />

Non è straordinario? Come, scrive insomma Descartes, Cristo è morto<br />

per tutti gli uomini, così Dio deve aver distribuito i privilegi ad un’in-<br />

18 Cfr. Bérulle, Discorso sullo stato e sulle grandezze di Gesù (1ª ed. 1623), particolarmente il<br />

Discorso VII, §1 e 3, che tratta di Dio «che forma un Uomo-Dio, come il soggetto delle sue grandezze<br />

e il colmo delle sue meraviglie».


44 Denis Kambouchner<br />

finità di creature e non ad una sola (o ad un solo genere), non essendo<br />

l’Incarnazione apparentemente che uno dei favori fra una infinità di altri<br />

di tipo e di destinatari diversi.<br />

Io inciampo, lo confesso, sull’interpretazione di questo testo, che<br />

inoltre segna retroattivamente l’assenza di qualsiasi riferimento al Cristo<br />

nella grande lettera a Chanut, che precede questa, quella del 1° febbraio<br />

1647 sull’amore di Dio, lettera alla quale questa reca un certo numero di<br />

precisazioni.<br />

Fermiamoci sul punto meno discutibile, e cioè che il Dio di Descartes<br />

resta in apparenza molto poco trinitario e del resto in fondo molto poco<br />

personale, con l’impossibilità che vi è di supporre in lui una priorità della<br />

conoscenza in rapporto alla volontà e all’azione. In quanto all’uomo, alla<br />

sua doppia natura, integra e corrotta, non appare precisamente incline alla<br />

meditazione. In breve, né il peccato dell’uomo o quello dell’angelo, né<br />

l’Incarnazione del Figlio, in quanto tale, appaiono <strong>qui</strong> come degli oggetti<br />

per una filosofia che respinge, è vero, al di fuori del suo campo di competenza<br />

tutto ciò che è dell’ordine della storia.<br />

Rileggiamo dunque ancora la lettera a Mersenne del marzo 1642 (AT<br />

III, 544; Bonpiani 1624):<br />

Bisogna notare che ciò che si conosce per ragione naturale, che è buono,<br />

onnipotente, tutto vero, ecc., può ben servire a preparare gli infedeli a ricevere<br />

la fede, ma non essere sufficiente a far guadagnare loro il cielo; poiché, per<br />

questo, bisogna credere in Gesù Cristo e alle altre cose rivelate, ciò che dipende<br />

dalla Grazia.<br />

Sul fatto che Descartes abbia voluto fare il possibile per rendere servizio<br />

alla Chiesa, sul fatto stesso che egli abbia voluto agire non soltanto<br />

da buon cristiano ma da vero cristiano, con ciò che egli chiama le Passioni<br />

dell’anima una «profondissima umiltà rispetto a Dio» (art.164) – su<br />

questi due punti, non si possono avere dubbi. In quanto alla Grazia che<br />

fa credere in Gesù Cristo, in quale misura lo ha toccato, e in quale misura<br />

lo ha accompagnato? Se essa lo ha fatto, lo ha fatto sotto forma di silenzio.


FLORIANA FERRO<br />

Elementi cartesiani nell’Infinito di Levinas<br />

IN MOLTI TESTI LEVINAS RICONOSCE il contributo della Terza Meditazione<br />

di Descartes. Il filosofo ebreo considera l’idea di Infinito una<br />

breccia nell’onto-teologia occidentale, capace di rinviare, come il Bene<br />

platonico e l’Uno neoplatonico, al di là del logos umano 1 . Si tratta di un<br />

rimando alla trascendenza, oltre la soggettività e le sue categorie: «pensiero<br />

dell’assoluto, senza che questo assoluto sia raggiunto come un termine,<br />

il che avrebbe significato ancora la finalità e la finitezza» 2 .<br />

Levinas svincola l’Infinito dalla rappresentazione e dal finalismo. Giocando<br />

con il francese «fin» («termine» o «scopo»), il filosofo teorizza la<br />

possibilità, all’interno della stessa ontologia, di concepire una forma di<br />

assoluta alterità. Il Dio di Descartes è senza fine e senza fini, irraggiungibile<br />

dallo spirito umano. A livello conoscitivo, l’Infinito deborda la rappresentazione<br />

e l’idea contiene oltre la capacità cogitante.<br />

Eppure l’Infinito di Levinas è lontano anni luce da quello di Descartes.<br />

Non basta parlare di «inafferrabilità» ed «esteriorità», perché essi<br />

coincidano. Levinas ne è consapevole e prende le distanze dal «linguaggio<br />

sostanzialista» 3 cartesiano. Tale espressione chiarisce diversi punti di discordanza,<br />

ma risulta insufficiente.<br />

1 Cfr. E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano, Jaca Book, 1983, pp. 5-<br />

8, 24-5, 184; Idem, Dall’ Uno all’Altro. Trascendenza e tempo, in E. Baccarini, Lévinas. Soggettività<br />

e Infinito, Roma, Studium, 1985, pp. 115-8; Idem, Dio e la filosofia, in Di Dio che viene all’idea,<br />

Milano, Jaca Book, 1983, pp. 85-91; Idem, La filosofia e l’idea dell’Infinito, in E. Levinas-A. Peperzak,<br />

Etica come filosofia prima, Napoli, Guerini e Associati, 1989, pp. 38-9; Idem, Totalità e infinito.<br />

Saggio sull’esteriorità, Milano, Jaca Book, 1977, pp. 21-3, 46-7, 104-6.<br />

2 Idem, Di Dio che viene all’idea, cit., Prefazione, p. 11.<br />

3 Idem, Dio e la filosofia, cit., p. 85.<br />

45


46 Floriana Ferro<br />

Si dimostrerà <strong>qui</strong> che, contro quanto afferma Levinas, l’idea cartesiana<br />

di Infinito non è una breccia nel pensiero onto-teologico, ma ne costituisce<br />

l’apoteosi. La perfezione del Dio di Descartes coincide con una<br />

pienezza d’essere: è «inter-essata». Ciò non significa adottare l’ipotesi di<br />

Marion, che attribuisce al cogito l’oggettivazione dell’Infinito 4 . Una certa<br />

esteriorità viene infatti mantenuta, malgrado non sia radicale.<br />

Nella Terza Meditazione, Descartes delinea l’infinità come ciò che<br />

«qualifica» il divino: l’idea di Dio è l’idea di una sostanza infinita. Questo<br />

la differenzia dalle altre idee. Il fatto di trovarsi nel cogito e di essere<br />

un’immagine mentale non dice nulla. Persino l’idea del freddo o quella di<br />

una chimera sono presenti allo stesso titolo nel soggetto pensante. Ciò che<br />

conferisce verità o falsità alle idee è il riferimento a una realtà esterna 5 .<br />

L’infinità definisce la sostanza divina e rimanda oltre la finitezza del<br />

cogito. La dimostrazione dell’esistenza di Dio si basa, dunque, sul legame<br />

tra presenza intramentale e presenza extramentale.<br />

[L’idea] per la quale io concepisco un Dio sovrano, eterno, infinito, immutabile,<br />

onnisciente, onnipotente e Creatore universale di tutte le cose che sono fuori<br />

di lui; quella, dico, ha certamente in sé più realtà oggettiva di quelle da cui mi<br />

sono rappresentate le sostanze finite.<br />

Ora, è una cosa evidente al lume naturale, che deve esserci per lo meno tanta<br />

realtà nella causa efficiente e totale, quanta nel suo effetto […]. E da ciò segue<br />

non solo che il niente non potrebbe produrre nessuna cosa, ma anche che ciò<br />

che è più perfetto, cioè che contiene in sé più realtà, non può essere una conseguenza<br />

e una dipendenza del meno perfetto 6 .<br />

Nonostante l’idea di Infinito sia innata, chiara e distinta, dunque oggetto<br />

di intuizione 7 , la reale esistenza dell’ideatum va dimostrata. L’argo-<br />

4 Cfr. J.-L. Marion, Sur le prisme métaphysique de Descartes, Paris, PUF, 1986, pp. 147-8,<br />

243-4.<br />

5 Cfr. AT IX, 29. Con la presente sigla ci si riferisce a R. Descartes, Œuvres, a cura di C.<br />

Adam e P. Tannery, 12 voll., Paris, Cerf, 1897-1913. La traduzione italiana dei passi sarà mia.<br />

Per eventuali confronti, si segnalano le seguenti raccolte: Cartesio, Opere filosofiche, a cura di E.<br />

Garin, 4 voll., Bari, Laterza, 1986; Idem, Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono, 2 voll., Torino,<br />

UTET, 1994; Idem, Opere, 3 voll., a cura di G. Belgioioso, Milano, Bompiani, 1994.<br />

6 AT IX, 32.<br />

7 Su Dio come «fatto della ragione», cfr. O. Dekens, L’a priori divin: l’idée de Dieu comme<br />

fait de la raison chez Descartes, in «L’enseignement philosophique», vol. 51, n. 3, 2001, pp. 6-11;


Elementi cartesiani nell’Infinito di Levinas 47<br />

mentazione si basa su due princìpi: l’adeguazione dell’ideatum all’idea e il<br />

nesso causale 8 . Per meglio delinearli, Descartes riprende alcuni concetti<br />

dell’area scotista 9 .<br />

La realtà oggettiva di un’idea non è una semplice denominazione<br />

estrinseca (obiezioni di Caterus 10 ), ma una presenza autentica nell’intelletto.<br />

Tale presenza, sebbene sia un minus quam rispetto alla realtà formale,<br />

non è comunque un puro nulla. Nel caso della sostanza infinita, la<br />

realitas obiectiva è maggiore di quella delle sostanze finite. Quando la cosa<br />

rappresentata contiene la stessa realtà dell’idea, la sua causa è formale;<br />

se è maggiore, la sua causa è eminente. Nel caso dell’infinito, l’ideatum<br />

oltrepassa l’idea, contenuta in un intelletto finito. Il cogito può render<br />

conto delle idee dei modi e delle sostanze finite, che gli sono pari o inferiori,<br />

ma non della sostanza infinita, che gli è superiore. La produzione<br />

dell’idea di Dio non dipende dall’individuo umano, bensì da un essere<br />

esterno più potente, anzi infinitamente potente.<br />

L’Infinito è inteso come sostanza del più alto grado e causa efficiente<br />

totale. Cosa intende invece Levinas per «Infinito»? Di certo non una sostanza.<br />

Se la trascendenza ha un senso, essa può solo significare il fatto, per l’avvenimento<br />

dell’essere – per l’esse – per l’essenza […] – di passare all’altro dell’essere.<br />

[…] L’essere e il non-essere si chiariscono naturalmente e sviluppano una dialettica<br />

speculativa che è una determinazione dell’essere. […] Essere o non essere<br />

– la questione della trascendenza dunque non risiede <strong>qui</strong>. L’enunciato dell’altro<br />

dell’essere, dell’altrimenti che essere, pretende enunciare una differenza al di là di<br />

quella che separa l’essere dal nulla; precisamente la differenza dell’al di là, la differenza<br />

della trascendenza 11 .<br />

P. Fontan, Descartes: une certaine idée de Dieu, in Le fini et l’absolu. Itinéraires métaphysiques, Paris,<br />

Te<strong>qui</strong>, 1990, pp. 71, 80-3; P. Guenancia, Lire Descartes, Paris, Gallimard, 2000, pp. 169-70.<br />

18 Cfr. L. J. Beck, The Metaphysics of Descartes. A Study of the Meditations, Oxford, Oxford<br />

University Press, 1965, pp. 164-9.<br />

19 Cfr. F. Marrone, Res e realitas in Descartes. Gli antecedenti scolastici della nozione cartesiana<br />

di «realitas obiectiva», Lecce, Conte Editore, 2006, pp. 20, 46-7, 75, 100-200, 237-8, 274-81,<br />

282-90, 319.<br />

10 Cfr. AT IX, 74-5.<br />

11 E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., pp. 5-6.


48 Floriana Ferro<br />

Il pensiero dell’essere (ontologia) è alienante e riduttivo. L’Infinito,<br />

trascendenza per eccellenza, deve porsi al di là dell’essenza. Il divino non<br />

solo va oltre la sostanza, ma non è nemmeno «presente» nel soggetto. Il<br />

divino nel cogito è assente, passato immemoriale, traccia 12 .<br />

Le differenze non finiscono <strong>qui</strong>. In Cartesio l’Infinito corrisponde al<br />

Dio filosofico, che non contraddice in nulla il Dio delle religioni positive.<br />

Levinas, invece, priva l’appellativo di Dio della sua accezione teologica 13 .<br />

Al di là della propria matrice ebraica 14 , il pensatore connota l’Infinito solo<br />

in maniera filosofica, rifiutando commistioni con le religioni positive.<br />

D’altronde, identificare l’Infinito con il Dio del monoteismo significherebbe<br />

ancorarlo all’essere e alla presenza, nell’onto-teologia e nella storia.<br />

Il filosofo preferisce parlare dell’Infinito in quanto Altro. Ma anche<br />

<strong>qui</strong> i problemi non mancano. Dagli scritti degli anni Cinquanta sino a<br />

Totalità e Infinito, l’Altro metafisico e l’altro uomo si identificano, oppure<br />

si oscilla ambiguamente tra i due poli: il rapporto con l’Infinito diviene<br />

il «rapporto sociale» 15 . Da Altrimenti che essere in poi, Levinas distingue<br />

l’altro metafisico (o Altrui) dall’altro uomo, indicando il primo con la<br />

maiuscola, il secondo con la minuscola. Lo stesso accade con l’io. Il volto<br />

perde addirittura il maiuscolo, diventando manifestazione fenomenologica<br />

dell’altro uomo. L’Infinito va dunque al di là del volto e, come trascendenza<br />

assoluta, si esprime nella comunicazione autentica, nel Dire 16 .<br />

Assistiamo alla costituzione di due poli: uno dell’alterità e uno della trascendenza<br />

(Rolland) 17 .<br />

12 Cfr. ivi, pp. 110-8; Idem, Dall’Uno all’Altro. Trascendenza e tempo, cit., pp. 122-3; Idem,<br />

La traccia dell’Altro, cit., pp. 107-12.<br />

13 Cfr. Idem, Altrimenti che essere, pp. 15, 128-31, 153-4, 220; Idem, Dio e l’onto-teologia, in<br />

Dio, la morte e il tempo, Milano, Jaca Book, 1996, pp. 286-7; Idem, Dio e la filosofia, cit., p. 78;<br />

Idem, Ermeneutica e al di là, in op. cit., p. 132.<br />

14 Cfr. E. Baccarini, Lévinas. Soggettività e Infinito, cit., Introduzione, pp. 81-3; C. Chalier,<br />

La trace de l’Infini. Emmanuel Levinas et la source hébraïque, Paris, Cerf, 2002, pp. 68-73; A. Peperzak,<br />

Introduzione ad Altrimenti che essere, in E. Levinas-A. Peperzak, Etica come filosofia<br />

prima, cit., p. 130; Idem, Esperienza ebraica e filosofia, in op. cit., pp. 150-3.<br />

15 E. Lévinas, La filosofia e l’idea dell’Infinito, cit., p. 39.<br />

16 Cfr. Idem, Altrimenti che essere, cit., pp. 57-65, 180-4, 191-6; Idem, Pensare Dio a partire<br />

dall’etica, in Dio, la morte e il tempo, cit., p. 192; Idem, La soggettività come anarchia, in op. cit.,<br />

pp. 236.<br />

17 Cfr. J. Rolland, Parcours de l’autrement, Paris, PUF, 2000, pp. 35-40, 95-6, 111-9.


Elementi cartesiani nell’Infinito di Levinas 49<br />

Gli sviluppi del tardo pensiero di Levinas distinguono dunque l’altro<br />

dall’assolutamente Altro. Il Dio levinassiano è sia nell’io che nell’altro<br />

(«idea dell’Infinito in noi» 18 , «Egli al fondo del Tu» 19 ) e in entrambi risulta<br />

inafferrabile, “come se […] l’in dell’Infinito significasse ad un tempo il non<br />

e il dentro” 20 . A differenza del Dio cartesiano, l’Infinito di Levinas non è il<br />

principio primo della teoresi e della religione. È puramente filosofico, al di<br />

fuori dell’onto-teologia, delle religioni positive e della teologia negativa.<br />

Le due concezioni dell’Infinito risultano ancor più divergenti nell’analisi<br />

dei particolari, dei cosiddetti «attributi di Dio» 21 . Cartesio definisce<br />

l’Infinito con delle qualità che, a differenza dei modi, ineriscono alla<br />

sostanza non accidentalmente, ma necessariamente. Dio è un prisma dalle<br />

diverse facce: ognuna rappresenta l’intero, è inscindibile dalle altre e<br />

possiede la medesima dignità ontologica.<br />

Con il nome di Dio intendo una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente,<br />

onnisciente, onnipotente, e dalla quale io stesso, e tutte le altre cose che<br />

sono (se è vero che ve ne sono di esistenti), sono state create e prodotte 22 .<br />

Se, agli appellativi <strong>qui</strong> presenti, aggiungiamo gli altri esposti nella<br />

Terza Meditazione, Dio è anche «sovrano», «semplice» e «perfetto» 23 . Si<br />

può dire lo stesso dell’Infinito di Levinas?<br />

1) Si inizierà <strong>qui</strong> dall’eternità e dall’immutabilità. Il tempo, nel pensiero<br />

greco, è legato al movimento. La filosofia cristiana riprende l’«immagine<br />

mobile dell’eternità» 24 e ne attribuisce la nascita a Dio. Prima della<br />

creazione non esistono né tempo, né movimento. Il divino è causa di<br />

entrambi: li fa nascere insieme al mondo. La natura trascendente di Dio<br />

gli consente, inoltre, di operare senza commistioni con l’operato. Mentre<br />

il mondo si muove nel tempo, Dio non si muove e non muta, all’interno<br />

18 E. Lévinas, Totalità e Infinito, cit., p. 77.<br />

19 Idem, Dio e la filosofia, cit., p. 92.<br />

20 Ivi, p. 86.<br />

21 Essenziale è il contributo di Laurence Devillairs. Descartes et la connaissance de Dieu (Paris,<br />

Vrin, 2004) è la prima trattazione esaustiva degli attributi del Dio cartesiano.<br />

22 AT IX, 35-6.<br />

23 Cfr. AT IX, 31-2, 38.<br />

24 Platone, Timeo, 37d.


50 Floriana Ferro<br />

di un’altra dimensione, quella dell’eternità. È una permanenza nell’essere<br />

e nell’atto (nella sostanza divina atto e potenza coincidono). Dio è in atto<br />

sempre e per sempre.<br />

Levinas non parla mai dell’Infinito come mobile o immobile, mentre<br />

esprime delle posizioni sull’eternità. Il filosofo si schiera, in generale, contro<br />

una collocazione del divino nel presente: l’Infinito non risiede nella<br />

sin-cronia dell’esistenza, ma nella dia-cronia di un passato immemoriale.<br />

Negli scritti degli anni Cinquanta e Sessanta, Levinas fa coincidere l’eternità<br />

con tale diacronia, definendola «passato assoluto» 25 . Nelle opere successive<br />

la rifiuta, attribuendola a una visione sostanzialista del tempo 26 .<br />

La dimensione privilegiata dell’etica è dunque il passato, sebbene non sia<br />

da escludere l’avvenire, che richiama profeticamente all’azione e alla responsabilità<br />

per altri 27 . La temporalità dell’Infinito levinassiano si oppone<br />

così all’eterno presente di Cartesio.<br />

2) L’onnipotenza e l’onniscienza del Dio cartesiano sono legate a uno<br />

statuto puramente ontologico. La prima ha radici aristoteliche e coincide<br />

con l’autoconoscenza 28 . Ad essa si aggiungono elementi della filosofia tardo-antica<br />

e medievale, secondo cui, prima di creare gli enti finiti, Dio<br />

presenta in sé le loro idee 29 . La conoscenza divina è totale, in quanto<br />

comprende le sostanze finite e la sostanza infinita (sé stesso).<br />

L’onnipotenza proviene invece dal cristianesimo. Si tratta di un attributo<br />

dai diversi aspetti, tra cui quello volontaristico («Egli opera tutto ciò<br />

che vuole» 30 ). Descartes predilige l’autocausazione, ovvero la capacità di<br />

esistere e di conservarsi nel tempo 31 .<br />

25 E. Lévinas, La traccia dell’Altro, cit., p. 113.<br />

26 Cfr. Idem, Dall’Uno all’Altro. Trascendenza e tempo, cit., p. 123.<br />

27 Cfr. ivi, pp. 140-5. Per l’etica diacronica, cfr. Idem, Altrimenti che essere, cit., pp. 13-7,<br />

97-100, 110-8, 123-37, 152-7, 175-8, 200-3; Idem, Humanisme de l’autre homme, Montpellier,<br />

Fata Morgana, 1972, pp. 69-82; Idem, Fuori dall’esperienza: l’idea cartesiana di infinito, in E. Lévinas,<br />

Dio, la morte e il tempo, cit., p. 287. Alcuni studiosi collocano la produzione dell’Infinito levinassiano<br />

nella stessa dimensione cartesiana. Cfr. E. Baccarini, Lévinas. Soggettività e Infinito, cit.,<br />

p. 172; e B. Forthomme, Une philosophie de la transcendance. La métaphysique d’Emmanuel Lévinas,<br />

Paris, Vrin, 1979, pp. 203-4.<br />

28 Aristotele, Metafisica, § 9, 1074b35.<br />

29 È una teoria presente in numerosi autori, a partire da Ps. Dionigi, De Divina Natura, 11, 35.<br />

30 Salmi 115, 3.<br />

31 Cfr. AT IX, 86.


Elementi cartesiani nell’Infinito di Levinas 51<br />

Nei suoi testi filosofici, Levinas non parla mai di un Dio che sa tutto,<br />

né che possiede una potenza infinita. Tali attributi ineriscono ad aspetti<br />

sostanziali e quantitativi. In Levinas il divario tra finito e infinito è soltanto<br />

qualitativo. La trascendenza divina è irriducibile all’immanenza del<br />

soggetto e inafferrabile teoreticamente.<br />

La sua connotazione è puramente etica 32 . L’Infinito è il Desiderabile<br />

per eccellenza, radicale alterità presente in me e nell’altro uomo: esorta a<br />

frenare la mia potenza nei confronti di quest’ultimo, debole e indesiderabile,<br />

e a non assorbirlo con una conoscenza alienante. Dio è dunque l’intangibile<br />

e l’inafferrabile, fonte anarchica della morale.<br />

3) Se i primi quattro attributi del Dio cartesiano non appartengono<br />

all’Infinito di Levinas, la situazione muta nel caso della creazione. In entrambi<br />

gli autori, la divinità è creatrice e l’individuo creatura. La creazione<br />

ex nihilo implica la separazione tra umano e divino, dunque l’esteriorità<br />

33 . A completare il quadro, si aggiunge una «traccia della creazione»,<br />

presente nel finito e rinviante all’infinito.<br />

E certo non si deve trovare strano che Dio, creandomi, abbia messo in me questa<br />

idea, perché fosse come il marchio dell’operaio impresso sulla sua opera; e<br />

non è neppure necessario che questo marchio sia qualcosa di diverso da questa<br />

stessa opera. Ma dal solo fatto che Dio mi ha creato, è assai credibile che mi abbia<br />

in qualche modo prodotto a sua immagine e somiglianza, e che io concepisca<br />

questa rassomiglianza (nella quale l’idea di Dio si trova contenuta) tramite<br />

la stessa facoltà con cui concepisco me stesso 34 .<br />

La capacità creatrice divina viene affermata in entrambi i pensatori,<br />

ma non è esente da differenze. In Cartesio va di pari passo con l’onnipotenza<br />

e l’eternità: Dio, non soggetto a degradazione e permanente nell’essere,<br />

fa sorgere la creatura dal nulla e ne mantiene l’esistenza (teoria della<br />

creazione continua) 35 . E, mentre il Dio di Cartesio riafferma eternamente<br />

la sua presenza, quello di Levinas crea una volta sola.<br />

32 Cfr. E. Lévinas, Totalità e Infinito, cit., p. 48.<br />

33 Cfr. ivi, pp. 105-6.<br />

34 AT IX, 41.<br />

35 Cfr. AT IX, 38-40.


52 Floriana Ferro<br />

È questo il senso della traccia: assenza e alterità assoluta. Non c’è alcuna<br />

somiglianza tra Dio e l’uomo. Malgrado ciò, la traccia implica<br />

un’affinità inscindibile tra il soggetto e l’altro, in virtù dell’irriducibilità e<br />

dell’esteriorità che entrambi hanno in se stessi. È una trascendenza radicale,<br />

fonte dell’imperativo etico: esorta l’io a donarsi e indica l’altro come<br />

destinatario.<br />

4) Legati alla potenza creatrice sono altre due qualità, l’indipendenza<br />

e la sovranità. Nonostante alcune discordanze, entrambi i pensatori le attribuiscono<br />

all’Infinito. L’indipendenza, per Cartesio, appartiene soltanto<br />

al divino 36 e consiste nella capacità di creare e di sussistere. L’uomo non<br />

possiede nessuna delle due, <strong>qui</strong>ndi dipende da Dio.<br />

Levinas ha una concezione indipendente dell’Infinito, ma non costringe<br />

l’individuo a una dipendenza radicale.<br />

La creatura è un’esistenza che, certamente, dipende da un Altro ma non come<br />

una parte che se ne separa. La creazione ex nihilo rompe il sistema, pone un essere<br />

al di fuori di qualsiasi sistema, cioè là dove la sua libertà è possibile. La<br />

creazione lascia alla creatura una traccia di dipendenza, ma di una dipendenza<br />

senza simili: l’essere dipendente trae da questa dipendenza eccezionale, da questa<br />

relazione, la sua indipendenza stessa, la sua esteriorità al sistema 37 .<br />

Ritorna <strong>qui</strong> il concetto di traccia, stavolta come dipendenza pre-originaria,<br />

sui generis, in grado di condurre l’io all’indipendenza. In Totalità e<br />

Infinito, il soggetto può sussistere senza Dio. Una volta venuto fuori dal<br />

c’è, dall’esistenza anonima, possiede la pienezza di sé. Solo così diviene<br />

sensibile alla chiamata etica 38 . In Altrimenti che essere, di contro, la condizione<br />

umana è sempre minata dall’ossessione per l’altro 39 . In entrambi i<br />

casi, Levinas teorizza comunque una certa autosufficienza dell’io, necessa-<br />

36 Cfr. ivi. Sull’indipendenza del Dio cartesiano, cfr. M. Kowalska, Descartes et Sartre: le paradoxe<br />

du cogito, in AA. VV., L’esprit cartésien. Actes du quatrième centenaire de la naissance de Descartes,<br />

éd. par B. Bourgeois et J. Havet, Paris, Vrin, 2000, pp. 606-9; J.-L. Chédin, La condition<br />

subjective. Le sujet entre crise et renouveau, Paris, Vrin, 1997, pp. 89-92; L. Devillairs, Descartes et<br />

la connaissance de Dieu, cit., pp. 62-4.<br />

37 E. Lévinas, Totaliltà e Infinito, cit., p. 106.<br />

38 Cfr. ivi, pp. 110-21, 140-3.<br />

39 Cfr. Idem, Altrimenti che essere, cit., pp. 81, 90-9, 102.


Elementi cartesiani nell’Infinito di Levinas 53<br />

ria alla donazione. Il soggetto avverte un senso di colpa pre-originario,<br />

sentendosi in debito per una violenza mai commessa. Deve spogliarsi della<br />

propria pelle, diventare esteriore, respirare venendo incontro all’indigente.<br />

Nonostante i princìpi etici abbiano un riferimento trascendente<br />

(eteronomia), l’io è responsabile di sé 40 .<br />

In Levinas, l’indipendenza concerne sia l’infinito sia il finito. Riguardo<br />

al primo, egli concorda con Descartes, che si difende da chi considera<br />

l’infinità un’estensione delle qualità umane 41 . Tuttavia, e <strong>qui</strong> Levinas si<br />

allontana, il soggetto non ha alcun bisogno di Dio, né per sussistere, né<br />

per agire. Descartes, invece, è sostenitore di una dipendenza radicale del<br />

finito dall’infinito.<br />

La sovranità del Dio cartesiano è connessa all’onnipotenza e alla capacità<br />

creatrice: l’Essere supremo è sovrano, poiché crea dal nulla e mantiene<br />

le creature nell’essere. La sovranità possiede due ulteriori aspetti, uno<br />

teoretico e uno etico. Dio è garante della conoscenza umana: pone nell’individuo<br />

idee vere e strumenti adeguati. Gli errori derivano dal superamento<br />

che la volontà (infinita) attua nei confronti dell’intelletto (finito)<br />

42 . Oltre a ciò, Dio è sovrano dell’etica in quanto Sommo Bene, destinatario<br />

ultimo dell’amore umano 43 , della morale e della religione.<br />

In Levinas la situazione è diversa. A causa della sua radicale esteriorità,<br />

l’Infinito non regge il mondo: sarebbe contraddittorio ritenerlo garante<br />

dell’essere e al di là dell’essere. L’ordine dell’essere, basato sull’analogia,<br />

è fonte di conflittualità violenta per gli individui 44 . Levinas rifiuta dunque<br />

la sovranità teoretica e la reggenza del mondo, tipiche di un Dio ontologicamente<br />

supremo. Condivide solo la sovranità etica, ponendola, diversamente<br />

da Descartes, su un piano superiore alla teoresi.<br />

5) Parlare di «semplicità» significa, per entrambi i pensatori, parlare<br />

di «unità». In Descartes si tratta di non-composizione: Dio è sostanza infinita,<br />

unica e superiore alle sostanze finite 45 . Persino l’idea con la quale ci<br />

40 Cfr. ivi, pp. 62-71, 80-1, 98-111, 134-50, 223-5.<br />

41 Cfr. AT IX, 97-8, 105-10, 145-7; VII, 286-8, 296-7, 366-9.<br />

42 Cfr. AT VI, 37-9; IX, 45-9; IV, 332-3.<br />

43 Cfr. AT IV, 607-11.<br />

44 Cfr. E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., pp. 6-7.<br />

45 Cfr. AT IX, 31-3.


54 Floriana Ferro<br />

rappresentiamo l’Infinito, soggetta ai limiti umani, riguarda un essere<br />

concepito per intero. Dio può essere, dunque, «colto» o «intuito». I confini<br />

intellettivi ne impediscono, tuttavia, una conoscenza completa. Si<br />

spiega così la differenza tra intelligere e comprehendere.<br />

Sull’idea dell’infinito, avvertirò soltanto […] che ripugna, se comprendo [comprehendo]<br />

qualcosa, che ciò che comprendo sia infinito; l’idea dell’infinito, per<br />

essere vera, non deve in nessun modo essere compresa, poiché l’incomprensibilità<br />

stessa è contenuta nella ragione formale di infinito. E nondimeno, è<br />

manifesto che l’idea che abbiamo dell’infinito non rappresenta solo una delle<br />

sue parti, ma tutto l’infinito, nel modo in cui dev’essere rappresentato da<br />

un’idea umana […] In effetti, come basta concepire [intelligere] una figura contenuta<br />

in tre linee, per avere l’idea di tutto il triangolo, così basta concepire una<br />

cosa non compresa in nessun limite, perché si abbia un’idea vera e intera di tutto<br />

l’infinito 46 .<br />

L’idea dell’Infinito è vera e intera. D’altronde non vi è alternativa:<br />

una sostanza semplice può essere appresa solo rispettandone l’unicità. Ad<br />

impedirne la comprensione sono i limiti umani, incapaci di conoscerne<br />

gli infiniti particolari nella loro infinita estensione.<br />

Anche Levinas concepisce l’Infinito come unico, ma tale unicità non<br />

è concettualizzabile. Essa rimanda al comandamento etico, all’immediatezza<br />

della dimensione anarchica. E, come accade per la questione dell’indipendenza,<br />

le differenze con Descartes si situano nel rapporto con l’essere<br />

umano. Secondo l’autore delle Meditazioni, l’individuo non è sostanza<br />

semplice, ma è composto da pensiero ed estensione 47 . In Levinas, invece,<br />

il soggetto è assolutamente unico, nel senso sia dell’unità sia dell’unicità.<br />

La dimensione sensibile va di pari passo con quella interiore, pur essendone<br />

ontologicamente separata 48 .<br />

La dimensione interiore si denuclea e diviene tutt’uno con quella corporea:<br />

spogliarsi della propria pelle diviene dono della sensibilità all’altro.<br />

L’etica colma lo scarto tra la semplicità di Dio e la complessità psico-fisica<br />

dell’uomo.<br />

46 AT VII 367-8.<br />

47 Cfr. AT IX, 70-2; VI, 33-7.<br />

48 Cfr. E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., pp. 177-8.


6) La perfezione è la qualificazione più esatta dell’Infinito cartesiano. A<br />

differenza degli altri attributi, non rimanda all’infinità, né caratterizza un<br />

suo aspetto. È bene dire, piuttosto, che perfezione e infinità coincidono.<br />

[Dio, l’idea del quale è in me,] possiede tutte quelle alte perfezioni, di cui il nostro<br />

spirito può ben avere qualche idea, senza pertanto comprenderle tutte, […]<br />

non è soggetto ad alcun difetto e […] non ha nessuna di tutte quelle cose che<br />

indicano qualche imperfezione 49 .<br />

La dimostrazione dell’esistenza di<br />

Dio va di pari passo con la definizione<br />

di assoluta perfezione. Nei testi cartesiani,<br />

il termine «perfetto» si incontra<br />

più spesso del termine «infinito». Sulla<br />

rilevanza di tale attributo concordano<br />

parecchi studiosi 50 . E il legame tra<br />

perfezione e infinità ha conseguenze<br />

ben note.<br />

Innanzitutto vi è la distinzione tra<br />

infinito e indefinito. L’universo è indefinito,<br />

poiché i suoi limiti spaziotemporali<br />

non sono rintracciabili dall’uomo.<br />

L’infinito, invece, non è spazializzabile,<br />

né temporalizzabile 51 . Lo<br />

spazio appartiene all’estensione, il<br />

tempo inizia con la creazione. L’illimi-<br />

Elementi cartesiani nell’Infinito di Levinas 55<br />

Emmanuel Lévinas<br />

49 AT IX, 41.<br />

50 Cfr. I. Agostini, Ne <strong>qui</strong>dem ratione. Infinità ed unità di Dio in Descartes, Lecce, Conte<br />

Editore, 2003, pp. 63-6; V. Carraud, Causa sive ratio. La raison de la cause de Suarez à Leibniz,<br />

Paris, PUF, 2002, p. 187; E. Curley, Descartes aginst the skeptics, Oxford, Basil Blackwell, 1978,<br />

p. 129; L. Devillairs, Descartes et la connaissance de Dieu, cit., pp. 134, 150-3; A. Kenny, Descartes:<br />

a study of his philosophy, New York, Random House, 1968, p. 134; R. Lefèvre, La bataille du<br />

«cogito», Paris, PUF, 1960, p. 205; G. Simon, Les vérités éternelles de Descartes, évidences ontologiques,<br />

in Studia Cartesiana 2, Amsterdam, Quadratures, 1981, p. 129, n. 18; N. K. Smith, New<br />

Studies in the Philosophy of Descartes, London, Macmillan, 1952, p. 298<br />

51 AT IX, 89-90. Cfr. inoltre N. Kendrick, Uniqueness in Descartes’ “infinite” and “indefinite”,<br />

in «History of Philosophy Quarterly», n. 15, 1998, pp. 31-3.


56 Floriana Ferro<br />

tatezza di Dio non indica mancanza di coordinate spazio-temporali, bensì<br />

massima potenza, sapienza e amore. Mentre l’indefinitezza è una caratteristica<br />

relativa, l’infinità è assoluta, e l’assolutezza (forma passiva di absolvo,<br />

«sciogliere da») si predica solo di un essere perfetto.<br />

Bisogna poi considerare la priorità dell’infinito sul finito. Descartes<br />

ribalta una frequente obiezione, secondo cui l’Infinito nasce da un’estensione<br />

indefinita delle qualità umane: è vero piuttosto il contrario, cioè<br />

che il finito nasce da una limitazione dell’infinito. Nonostante la consapevolezza<br />

pri<strong>maria</strong> sia l’esistenza del cogito, a livello logico e ontologico<br />

essa viene dopo l’esistenza di Dio. La nozione dell’infinito precede, dunque,<br />

quella del finito 52 .<br />

Gli argomenti cartesiani vertono sulla perfezione della sostanza divina<br />

e sul legame tra presenza intramentale e presenza extramentale. Che la<br />

prima implichi la seconda è possibile solo in un caso: se il contenuto dell’idea<br />

supera l’idea stessa, in maniera non formale, bensì eminente. La sostanza<br />

infinita oltrepassa, come ideatum, la capacità di un intelletto finito,<br />

perché possiede un maggior grado di perfezione, cioè d’essere. E tale grado<br />

è il più elevato in assoluto.<br />

Il Dio cartesiano è infinito in quanto perfetto ed è perfetto in rapporto<br />

all’imperfetto, cioè al finito. Il finito possiede meno realtà dell’infinito.<br />

La differenza tra i due, <strong>qui</strong>ndi, è quantitativa.<br />

Ben diversa è la questione in Levinas. In Totalità e Infinito, egli attribuisce<br />

a Dio l’appellativo di «Perfetto» 53 , ma usa tale termine raramente.<br />

D’altronde, la perfezione mal si adatta alla concezione levinassiana del divino.<br />

In Descartes coincide con la massima quantità d’essere, mentre Levinas<br />

rifiuta ogni sostanzialismo. Ciò si ripercuote nella relazione con il<br />

finito. La conoscenza divina è impossibile non per i limiti intellettivi dell’uomo,<br />

ma per l’ineffabilità della trascendenza 54 . L’Infinito può essere<br />

accolto, per giunta solo eticamente, mai appreso teoreticamente. Ci troviamo<br />

di fronte a due termini incommensurabili. Parlare di «perfetto» e<br />

«imperfetto» prevede, invece, una certa commensurabilità.<br />

52 Cfr. AT IX, 36.<br />

53 E. Lévinas, Totalità e Infinito, cit. p. 85.<br />

54 Cfr. ivi, pp. 76-7.


Elementi cartesiani nell’Infinito di Levinas 57<br />

Sia in Descartes che in Levinas, il divino è trascendente e l’infinità è<br />

irriducibile all’io. In entrambi i pensatori vi è poi il rifiuto di qualunque<br />

teologia negativa. L’esteriorità dell’Infinito si connota, dunque, come positività.<br />

Descartes ritiene di poter parlare negativamente dell’infinito come<br />

non-finito, ma solo da un punto di vista logico. Dio, ovvero la «cosa infinita»,<br />

è da intendere in positivo, come ente perfetto e sempre in atto.<br />

L’idea di infinito è, altresì, chiara e distinta. L’impossibilità di conoscerne<br />

pienamente il contenuto non ne intacca la validità gnoseologica 55 .<br />

Il valore positivo dell’infinito viene messo in luce anche da Levinas.<br />

L’idea dell’infinito è dunque la sola che permette di conoscere quel che si ignora.<br />

Essa è stata messa in noi. […] L’esperienza, l’idea dell’infinito, ha luogo nel<br />

rapporto con Altri. L’idea dell’infinito è il rapporto sociale.<br />

Questo rapporto consiste nell’avvicinare un essere assolutamente esteriore. L’infinito<br />

di questo essere, che proprio perciò nessuno può contenere, ne garantisce<br />

e costituisce l’esteriorità 56 .<br />

«Conoscere quel che si ignora»: a primo impatto queste parole stridono<br />

con gli sviluppi levinassiani della maturità. Eppure non esiste un vero<br />

e proprio contrasto. Il termine «conoscere», sostituito in Totalità e Infinito<br />

con «pensare», indica il rimando dell’intelletto al suo contenuto, in virtù<br />

dell’esteriorità di quest’ultimo. Subito dopo, infatti, si parla dell’idea<br />

dell’infinito come rapporto sociale, come rinvio al divino nell’altro. Non<br />

si tratta di una relazione soggetto-oggetto, ma di un’epifania etica.<br />

Si parla di positività, non di veridicità dell’Infinito: se la sua idea fosse<br />

vera, implicherebbe una relazione teoretica con l’esteriorità. Levinas e<strong>vita</strong>,<br />

dunque, la chiarezza e la distinzione di Descartes. La relazione tra idea e<br />

ideatum non può nemmeno paragonarsi a quella tra atto mentale e oggetto.<br />

Nell’autore delle Meditazioni, il problema concerne la figurazione dell’oggetto,<br />

la sua resa come immagine. Levinas considera la rappresentazione<br />

un atto riduttivo nei confronti dell’Altro, una sua costrizione alle<br />

categorie dell’Identico.<br />

55 Cfr. AT IX, 90.<br />

56 E. Lévinas, La filosofia e l’idea dell’Infinito, cit., pp. 39-40.


58 Floriana Ferro<br />

Resta da precisare, adesso, in che senso l’idea di Infinito contenga più<br />

di quanto non contiene. In Descartes bisogna riportare tutto all’uso ambiguo<br />

del termine «idea», che oscilla tra un’affezione della coscienza (modus<br />

cogitationis) e ciò che la mente apprende. In entrambi i casi essa, che<br />

è «idea di», non coincide con il suo contenuto interno 57 . Si ritiene, inoltre,<br />

che l’idea possa essere considerata da un terzo punto di vista, come<br />

semplice rimando all’oggetto esterno. Se intendiamo l’idea dell’Infinito<br />

nella prima accezione, ovvero come «modificazione contenente», essa è<br />

«limitante», poiché dà un’immagine inadeguata del contenuto. Nel secondo<br />

significato, quello di «contenuto esterno», essa è «limitata» dalla<br />

manchevolezza dell’intelletto. Se consideriamo l’ultima accezione, ovvero<br />

il «rimando», essa è «adeguata», poiché fornisce la rappresentazione migliore<br />

possibile a un intelletto finito.<br />

Descartes lo dimostra nella prima prova della Terza Meditazione. Qui<br />

la realitas obiectiva di una sostanza infinita si riferisce necessariamente a<br />

un esse extra intellectum. Dalla veridicità dell’idea dipende la possibilità di<br />

una conoscenza autentica, seppur incompleta. D’altronde Dio può essere<br />

considerato sotto diversi aspetti, diversi attributi, di cui alcuni sono presenti<br />

nell’uomo e sono conoscibili, altri, se esistono, sono ignoti 58 . Dalla<br />

quantità intensiva (grado) alla quantità estensiva (pluralità) 59 : Dio possiede<br />

il maggior numero di perfezioni possibili e al massimo grado. Non vi è<br />

alcuna connotazione qualitativa dell’Infinito cartesiano, ricondotta sempre<br />

e comunque alla quantità.<br />

Il rapporto idea-ideatum si configura, in Levinas, secondo un’altra<br />

prospettiva. Non esiste alcuna rappresentazione dell’Infinito, che è in noi<br />

come assoluta alterità. Si tratta di un’esteriorità radicale 60 , la cui relazione<br />

57 Cfr. Beck, The Metaphysic of Descartes, cit., pp. 151-3.<br />

58 AT IX, 37; VII, 368. Secondo la Devillairs si tratta degli attributi trinitari (cfr. L. Devillairs,<br />

Descartes et la connaissance de Dieu, cit., pp. 150-3).<br />

59 Cfr. I. Agostini, Ne <strong>qui</strong>dem ratione, cit., p. 63.<br />

60 Molti studiosi considerano radicale l’alterità dell’Infinito levinassiano e non radicale quella<br />

di Descartes. Cfr. J. Benoist, Le cogito lévinassien. Lévinas et Descartes, in AA. VV., Emmanuel Levinas,<br />

Positivité et transcendance, suivi de «Lévinas et la phénoménologie», sous la direction de J.-L.<br />

Marion, Paris, P.U.F., 2000, pp. 105-22; R. Célis, Entre monde et infini. La condition de l’homme<br />

moderne chez Descartes et Lévinas, in «Cahiers de l’École des sciences philosophiques et religieuses»,<br />

n. 8, 1990, pp. 51-6, 63-4; D. K. Keenan, Reading Levinas Reading Descartes’ Meditations,


Elementi cartesiani nell’Infinito di Levinas 59<br />

col soggetto è di semplice rimando. Delle tre accezioni <strong>qui</strong> attribuite all’idea<br />

cartesiana, ne rimane solo una. Essa non è nemmeno «adeguata» o<br />

«inadeguata», altrimenti vi sarebbe commensurabilità e i due termini sono<br />

incommensurabili. Tra il soggetto e il divino intercorre solo l’etica,<br />

che diviene «gloria dell’Infinito».<br />

La gloria dell’Infinito è l’identità an-archica del soggetto scovato senza possibilità<br />

di scampo, io portato alla sincerità, facendo segno ad altri – di cui e dinanzi<br />

al quale io sono responsabile – di questa donazione stessa di segno, cioè di questa<br />

responsabilità: «eccomi». […] La gloria dell’Infinito […] rompe il segreto di<br />

Gige, del soggetto che vede senza essere visto, senza esporsi, il segreto del soggetto<br />

interiore 61 .<br />

L’Infinito irrompe nell’interiorità del soggetto e lo costringe ad esporsi.<br />

La condizione di indipendenza e autosufficienza, in cui l’io si trova<br />

prima dell’incontro con l’altro, viene stravolta. Il soggetto si mette in discussione<br />

non per introspezione, bensì per esternazione. Il Desiderio dell’Infinito<br />

non è bisogno, ma necessità di donarsi interamente. L’ossessione<br />

per l’altro parte da un riconoscimento dell’Infinito in lui e in noi. A<br />

questo punto non esistono più ragionamenti, ogni Detto o Logos è riduttivo.<br />

La comunicazione autentica avviene nel Dire, nella parola profetica,<br />

nell’avvenire della responsabilità che, da un passato immemoriale, si proietta<br />

oltre il presente. Al di là dell’essere, della sostanza e della presenza.<br />

in «Journal of the British Society for Phenomenology», vol. 29, n. 1, January 1998, pp. 67-71; J.-<br />

L. Marion, Sur le prisme métaphysique de Descartes, cit., pp. 147-8, 161-3; Idem, L’altérité originaire<br />

de l’ego, in Questions cartésiennes II. Sur l’ego et sur Dieu, Paris, PUF, 1996, pp. 34-5, 44-5;<br />

K. S. Ong-Van-Cung, Descartes a-t-il identifié le sujet et la substance dans l’ego?, in AA. VV., Descartes<br />

et la question du sujet, cit., pp. 133-46; J. Rolland, Percours de l’autrement, cit., pp. 1-2, 7-8.<br />

Pochi ritengono che il Dio di Descartes sia esteriore come quello di Levinas. Cfr. J. Drabinski,<br />

The Enigma of the Cartesian Infinite, in «Studia Phaenomenologica», n. 6, 2006, pp. 203-9; e M.<br />

Edgar, On the Ambiguous Meaning of Otherness in Totality and Infinity, in «Journal of the British<br />

Society for Phenomenology», vol. 36, n. 1, January 2005, pp. 58-9.<br />

61 E. Lévinas, Altrimenti che essere, cit., p. 182.


Caravaggio, Santa Caterina d’Alessandria, 1598-1599 ca.,<br />

olio su tela, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza


MARIA VITA ROMEO<br />

Legge e coscienza morale nelle «Provinciali»<br />

LE “PETITES LETTRES”, SCRITTE DA PASCAL tra il 1656 ed il 1657, non<br />

furono redatte solo per difendere l’ortodossia di Port-Royal e denunciare<br />

gli errori e le insidie della morale gesuitica, né sono da considerare<br />

solo come un’opera d’occasione o un lavoro di circostanza, composte per<br />

caso e quasi di getto, nell’agitazione polemica e sotto l’influsso di un’ispirazione<br />

disordinata 1 . In effetti, come ha recentemente dimostrato Dominique<br />

Descotes 2 , sono delle lettere ragionate, frutto cioè di elaborazioni<br />

ben precise, che rispondono ad un determinato piano logico e strategico,<br />

le cui linee principali verranno riprese e messe a punto nel progetto apologetico<br />

pascaliano delle Pensées. E se lo scopo principale del progetto delle<br />

Pensées fu senza dubbio quello di difendere la religione cristiana, è bene<br />

non trascurare che lo scopo delle Petites Lettres non fu solo quello di polemizzare<br />

contro i gesuiti e la loro “nuova e moderna” visione del mondo,<br />

della religione e della morale.<br />

Le Provinciali, infatti, possiedono un contenuto ideale che trascende<br />

le congiunture storiche e le necessità polemiche, a cui si lega la loro genesi.<br />

Indubbiamente esse non sono un’opera di puro pensiero, bensì<br />

un’opera di battaglia, sullo sfondo della quale però si coglie chiaramente<br />

la morale cristiana che, per Pascal, ha il suo centro nella coscienza, ovviamente<br />

rinnovata e potenziata dalla carità.<br />

1 Cfr. alcune fra le più significative posizioni in merito: P. Serini, Introduzione a B. Pascal,<br />

Le Provinciali, Bari, Laterza, 1963, p. IX; L. Lafuma, Note à Les Provinciales, in B. Pascal, Œuvres<br />

complètes, présentation et notes de L. Lafuma, Paris, Du Seuil, 1963, p. 371; J. Mesnard, Pascal.<br />

L’homme et l’œuvre, Paris, Bovin & C le , 1951, p. 77.<br />

2 Cfr. D. Descotes, La messa a punto dell’ordine nei frammenti di Pascal, in AA. VV., Le<br />

“Provinciali” oggi, a cura di M. V. Romeo, Catania, C.U.E.C.M., 2009, pp. 33-45.<br />

61


62 Maria Vita Romeo<br />

Nessuna regola o distinzione – scrive a tal proposito Michele Federico Sciacca –<br />

potrà mai dire che cosa si deve o non si deve fare; occorre interrogare il cœur, la<br />

sua “disposizione”, il fondo della coscienza rinnovato dalla carità. Dottrina agostiniana<br />

che non ha bisogno di appoggiarsi alla teologia giansenista e che i Gesuiti<br />

non hanno mai pensato di giudicare eretica, ma solo di spogliare di quanto<br />

ha di eccessivo e di astratto, di così inaccessibile da scoraggiare quanti non possiedono<br />

virtù eroiche, da restare staccata dalla <strong>vita</strong>, incapace, per troppa altezza,<br />

di regolare il corso dell’umana esistenza 3 .<br />

Il vero scopo delle Petites Lettres è dunque quello di rivendicare il primato<br />

dell’etica cristiana, la quale si fonda sulla grazia e sulla legge dell’amore<br />

di Dio, e non sulla legge della natura. Quel che Pascal critica<br />

aspramente nelle sue Lettere Provinciali è, infatti, una certa gesuitica dissipazione<br />

morale della coscienza che si smarrisce nei meandri di un verbalismo<br />

formalistico e di una teologia ridotta a legalistica tabula graduum,<br />

sui cavilli della quale non è certamente possibile costruire la morale del<br />

cuore 4 .<br />

Pertanto, scopo di questo lavoro sarà quello di definire la dottrina<br />

morale di Blaise Pascal, una dottrina che fa dell’amore cristiano il suo<br />

centrum, il suo principio e il suo fine. Per questo faremo riferimento in<br />

particolare a quelle lettere, che vanno dalla V alla XVI, di cui Pascal si<br />

serve per screditare e condannare la morale gesuitica, una morale “pagana”,<br />

che richiederebbe solo la natura per essere osservata 5 , una morale<br />

che, dispensando gli uomini dall’amore di Dio, distrugge dall’interno la<br />

morale cristiana 6 e rinnega la «Legge del Signore che è senza macchia e<br />

tutta santa» 7 . Ebbene, contro questa morale che, in nome di una presunta<br />

modernità, intende adattare i precetti del Vangelo ai capricci e agli interessi<br />

degli uomini, e che scredita pertanto l’onnipotenza della grazia divi-<br />

3 M. F. Sciacca, Pascal, Palermo, L’epos, 1989, p. 90.<br />

4 Su ciò mi sia concesso rinviare al mio lavoro M. V. Romeo, Il messaggio cristiano di un pensatore<br />

moderno, in AA. VV., Le “Provinciali” oggi, cit., pp. 7-18.<br />

5 Cfr. V e Lettre provinciale, p. 333. Per le citazioni delle opere di Pascal faremo riferimento<br />

all’edizione seguente: B. Pascal, Les Provinciales, Pensées et opuscules divers, textes édités par Gérard<br />

Ferreyrolles et Philippe Sellier, Paris, La Pochothèque, 2004, indicando le Pensées con Se, poiché<br />

seguono la numerazione di Philippe Sellier, e le restanti opere con SeFe.<br />

6 Cfr. XVII e Lettre provinciale, SeFe, p. 572.<br />

7 V e Lettre provinciale, SeFe, p. 333.


Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 63<br />

Anonimo (inizio del sec. XVIII), L’elemosina alla porta dell’Abbazia di Port-Royal des Champs,<br />

guazzo su pergamena, Versailles, Musée des Châteaux de Versailles et Trianon<br />

na a favore della libertà umana, Pascal oppone la vera morale cristiana,<br />

che non può fare a meno di ricorrere all’autorità della Scrittura e dei Padri,<br />

che si fonda sulla Legge dell’Amore, senza rinnegare o negare il valore<br />

innegabile e della grazia divina e della libertà umana.<br />

Infine, cercheremo di capire se sia legittimo parlare dell’etica di Pascal<br />

come di un’etica assolutamente legalistica ed eteronoma, o se invece sia<br />

più esatto ridimensionare questo tipo di giudizio, dedicando più interesse<br />

alla centralità che Pascal riserva al cuore che, rinnovato e potenziato dalla<br />

legge dell’amore cristiano, avverte l’in<strong>qui</strong>etante difficoltà di ridurre l’ideale<br />

etico cristiano ad un sistema di leggi tutte esteriori.<br />

Generalmente si è soliti suddividere Le Provinciali in due gruppi: al<br />

primo gruppo appartengono le prime tre lettere scritte in rapida successione,<br />

il 23 e il 29 gennaio e il 9 febbraio 1656; esse trattano i temi della<br />

grazia e della libertà umana, ed hanno un carattere essenzialmente teolo-


64 Maria Vita Romeo<br />

gico-dogmatico 8 . Queste lettere, la cui problematica verrà ripresa nelle ultime<br />

due (la XVII e la XVIII), ci presentano un Pascal prevalentemente<br />

teologo. Al secondo gruppo, invece, appartengono le rimanenti lettere<br />

(dalla V alla XVI) che trattano temi che presentano una spiccata connotazione<br />

morale.<br />

Uno spazio a parte all’interno dell’opera è occupato dalla IV Lettera,<br />

del 25 febbraio 1656, con la quale Pascal abbandona la tattica di difesa<br />

usata nelle lettere precedenti, e passa all’attacco dei suoi principali avversari:<br />

i gesuiti. Questa lettera – come ha rilevato Jean Mesnard 9 – presenta<br />

indubbiamente una portata teologica, morale e psicologica insieme; ma il<br />

suo maggior pregio, secondo noi, sta nel segnare il passaggio dalle lettere<br />

che trattano di questioni prettamente teologiche a quelle che trattano di<br />

questioni morali. Tale passaggio, al di là delle ipotesi varie che sono state<br />

formulate al riguardo 10 , trova una sua giustificazione nella connessione<br />

tra la dottrina della grazia e la prassi etico-religiosa, di cui Pascal aveva diretta<br />

esperienza.<br />

Tale esperienza, infatti, gli aveva insegnato che per vivere secondo il<br />

Vangelo era necessario un aiuto efficace di Dio e che, di conseguenza,<br />

non si poteva negare l’onnipotenza della grazia senza rendere inattuabile<br />

la legge di Cristo. Ciò lo condusse a mettere in relazione la dottrina moli-<br />

18 Difesa di Arnauld dalle accuse di eresia; dimostrazione che i tomisti (domenicani), nonostante<br />

il loro diverso linguaggio, stanno sulle posizioni di Agostino; sulla base di quest’ultima osservazione<br />

ci si chiede <strong>qui</strong>ndi perché i tomisti vengano considerati ortodossi, mentre Arnauld è<br />

considerato eretico.<br />

19 Secondo Jean Mesnard, la IV Lettera Provinciale presenta una portata teologica, poiché<br />

cerca di definire l’azione di Dio nell’uomo; una portata morale, poiché ruota attorno al problema<br />

della responsabilità umana; ed infine una portata psicologica, perché oppone due concetti della<br />

personalità: quella del gesuita, secondo cui l’essenza dell’uomo si esprime in atti transitori; e quella<br />

del giansenista, secondo cui l’essenza dell’uomo s’identifica con il suo moi intimo, moi corrotto<br />

dal peccato originale, la cui perversità innata non è sempre cosciente. Cfr. J. Mesnard, Pascal.<br />

L’homme et l’œuvre, cit., p. 81.<br />

10 Tante sono state le ipotesi su questo cambiamento di rotta: un’intuizione tattica, un suggerimento<br />

del de Méré, o ancora, come sostenne Nicole, l’indignazione di Pascal dopo aver letto<br />

la Theologia moralis di Escobar. Pur non mettendo in discussione il fondamento di queste ipotesi,<br />

è certo che Pascal non si sarebbe sottomesso a ciò, «se nel suo spirito non fosse apparso chiaro, logicamente,<br />

questo mutamento: se cioè non fosse stato giustificato dal suo stesso pensiero» (F.<br />

Gentile, Pascal. Saggio d’interpretazione storica, Bari, Laterza, 1927, p. 253).


nista della grazia con il lassismo della morale gesuitica, a porre cioè «nel<br />

rilassamento della loro morale la causa della loro dottrina della grazia» 11 .<br />

Per Pascal, la lotta contro la morale gesuitica significò la continuazione,<br />

su un altro piano, della lotta contro il molinismo e il lassismo che<br />

conducevano a svalutare l’opera redentrice di Cristo, a esaltare la legge<br />

della natura a detrimento di quella della grazia. Il problema della grazia<br />

nascondeva in sé quello della responsabilità dell’uomo, la cui azione, secondo<br />

i molinisti e i neotomisti, non può essere imputata a peccato se<br />

«Dio non ci dà la conoscenza del male che è in essa ed un’ispirazione che<br />

ci stimoli ad e<strong>vita</strong>rla». Un tema, quest’ultimo, brillantemente affrontato<br />

da Pascal nella sua IV Lettera provinciale, il cui argomento principale ruota<br />

attorno a quello della cosiddetta grazia «attuale», che costituì terreno di<br />

scontro tra gesuiti e giansenisti. La grazia attuale, di cui non si trova traccia<br />

né nei libri dei Padri della Chiesa né in San Tommaso, per i gesuiti<br />

non è altro che un’ispirazione di Dio con la quale egli ci fa conoscere la<br />

sua volontà e ci stimola a volerla compiere. Si tratterebbe di un soccorso<br />

transitorio grazie al quale l’uomo è mosso da Dio ad un’operazione buona;<br />

ora, per i gesuiti, se Dio non concede all’uomo questa grazia attuale,<br />

l’azione peccaminosa non può mai essere imputata all’uomo; per i giansenisti,<br />

invece, le azioni malvagie commesse senza grazia attuale devono essere<br />

considerate comunque un peccato. È evidente che <strong>qui</strong> Pascal non<br />

vuole certamente dar <strong>vita</strong> ad una disputa di carattere strettamente teologico,<br />

bensì avviare una riflessione morale che abbia come focus lo spinoso<br />

problema della responsabilità umana: l’uomo che pecca ed ha coscienza di<br />

peccare è senz’altro un peccatore; ma l’uomo che pecca, anche se non ha<br />

coscienza di peccare, è pur sempre un peccatore? Per i giansenisti, la risposta<br />

non può che essere affermativa; per i gesuiti, la risposta è invece<br />

negativa.<br />

A tal proposito, leggiamo come il buon Padre gesuita delle Lettere<br />

provinciali spiega lucidamente la posizione della sua Compagnia: «Noi<br />

dunque sosteniamo, come un principio indubitabile, che un’azione non<br />

può essere imputata come peccato, se Dio non ci dà, prima che la commettiamo,<br />

la conoscenza del male che contiene, e un’ispirazione che ci stimola a evi-<br />

11 V e Lettre provinciale, SeFe, p. 333.<br />

Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 65


66 Maria Vita Romeo<br />

tarla» 12 . L’indignata ironia di Pascal non si fa attendere: stando a quel<br />

che sostengono i gesuiti, esistono dunque due specie di peccatori: da una<br />

parte, i “peccatori a metà”, les pécheurs à demi, che nutrono un po’ d’amore<br />

per la virtù, che hanno coscienza dei loro peccati e sono da considerare<br />

responsabili e peccatori; dall’altra, i “peccatori incalliti”, les pécheurs<br />

endurcis, peccatori a tempo pieno che non hanno coscienza del peccato e,<br />

conseguentemente, non sono responsabili per la bella e comoda morale<br />

gesuitica.<br />

Che bella via – esclama Pascal – per essere felici in questo mondo e nell’altro!<br />

Avevo sempre pensato che si peccasse tanto più, quanto meno si pensa a Dio.<br />

Invece a quanto vedo, se si riesce a imporsi una volta per tutte di non pensarci<br />

più affatto, ogni cosa diviene pura in seguito. Niente mezzi peccatori, con un<br />

po’ d’amore per la virtù. Saranno tutti dannati questi mezzi peccatori, mentre<br />

questi peccatori decisi, peccatori incalliti, peccatori schietti, pieni e completi,<br />

l’inferno non li rinchiude. Hanno beffato il diavolo a forza di concedersi a lui 13 .<br />

In linea con la sua teoria dei tre ordini, <strong>qui</strong> Pascal sottolinea la necessità<br />

di separare la sfera del diritto da quella della morale; se infatti si trascura<br />

la differenza tra il punto di vista giuridico ed il punto di vista morale,<br />

riconoscendo di fatto solo il primo, si cade nel giuridicismo; un pericolo<br />

che Pascal, come vedremo più avanti, ha cercato di e<strong>vita</strong>re, affrancandosi<br />

dal legalismo e intendendo per legge la coscienza morale e per<br />

ignoranza di essa quelle forme estreme di ottusità ed insensibilità morale,<br />

che pongono più giù del peggior peccatore.<br />

Deresponsabilizzare l’uomo, come vogliono alcuni gesuiti, significa<br />

concepire l’uomo in un modo errato; significa sostituire l’uomo a Dio, e<br />

negare il senso del religioso; significa, infine, mettere in primo piano la libertà<br />

umana a scapito della grazia la quale, invece, ha il compito di trasformare<br />

l’uomo dal di dentro, orientandolo verso il vero e il bene. Così<br />

alla morale gesuitica che privilegia la natura al posto della grazia, Pascal<br />

oppone la carità che fa della grazia la sua “arma migliore”. È questa la<br />

grazia difesa Pascal, quella grazia che egli ha vissuto con tormentoso e<br />

12 IV e Lettre provinciale, SeFe, p. 311.<br />

13 Ivi, p. 315.


gioioso travaglio nella notte di fuoco. Tutto il resto è disputa per teologi<br />

che, volendo mettere la libertà umana al primo posto e volendola salvare<br />

a scapito della grazia, fanno credere all’uomo di essere arbitro del proprio<br />

destino e di poter contare, di conseguenza,<br />

sulle sole sue forze.<br />

Le lettere che vanno dalla V alla<br />

XVI prendono di mira la morale<br />

gesuitica, la quale viene denunciata<br />

dapprima con lieve ironia e poi via<br />

via con sdegno sempre più crescente.<br />

In esse Pascal si scaglia contro il<br />

lassismo, difeso da alcuni gesuiti,<br />

insinuatosi con il favore della casistica<br />

e del probabilismo.<br />

Com’è ben noto, la casistica<br />

permette di adattare le prescrizioni<br />

generali agli innumerevoli casi particolari<br />

che l’esperienza propone<br />

continuamente. Ora, applicare all’etica<br />

un simile procedimento, per<br />

quanto possa sembrare utile e necessario,<br />

significa trascurare la diffe-<br />

renza tra il punto di vista giuridico<br />

e il punto di vista morale, e inciam-<br />

Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 67<br />

pare di conseguenza nel legalismo etico, che – come avverte Serini – è uno<br />

dei pericoli dal quale l’etica deve guardarsi 14 . Il legalismo etico, infatti,<br />

considerando il principio etico – che è essenzialmente formale – determinabile<br />

per mezzo di concetti empirici, lo rende contingente e finito, cioè lo annulla.<br />

Inoltre assimilando il principio etico alle norme giuridiche – il cui comandare è<br />

sempre insieme un permettere – introduce nell’etica un concetto che le è estraneo:<br />

il concetto di lecito, del moralmente indifferente. Concetto non solo contraddittorio,<br />

poiché l’imperativo etico non sarebbe tale se non avesse valore assoluto<br />

e incondizionato, ma che apre il varco alle più gravi perversioni pratiche,<br />

14 Cfr. P. Serini, Pascal, Torino, Einaudi, 1975, p. 182.<br />

Il gesuita Antonio de Escobar


68 Maria Vita Romeo<br />

poiché genera nelle coscienze che la legge morale sia alcunché di astratto, il cui<br />

contenuto si possa ad arbitrio restringere o allargare e al cui comando ci si possa,<br />

in determinate situazioni sottrarre 15 .<br />

Proprio questo fanno i gesuiti, la cui morale si fonda sull’autorità dei<br />

dottori della Compagnia, i quali insegnano a non scontentare nessuno, a<br />

tendere «les bras à tout le monde» 16 , applicando le norme con flessibilità,<br />

secondo i diversi casi e le diverse circostanze. A ciò giova la dottrina delle<br />

opinioni probabili – «l’ABC della morale gesuitica» 17 che, sostituendo il<br />

principio del dovere con quello del lecito, fa del legalismo etico il suo logico<br />

corollario 18 .<br />

Non bisogna, poi, temere eventuali contrasti con ciò che insegnano i<br />

Padri della Chiesa o l’autorità della Scrittura, o i canoni, o i decreti papali;<br />

infatti, secondo i gesuiti:<br />

I Padri andavano bene per la morale del loro tempo, ma per quella del nostro<br />

sono troppo lontani. Non sono più essi che la governano, ma i nuovi casisti» 19 ;<br />

poiché «la Chiesa antica […] è […] fuori stagione 20 .<br />

Ebbene, a questa morale che si lascia predominare dal legalismo, il<br />

quale a sua volta toglie forza e valore alla legge morale, frantumandola in<br />

un’infinità di precetti e di casi particolari, allargando sino all’inverosimile<br />

il dominio del permissivismo; a questa morale, che sovverte completamente<br />

la legge di Dio, Pascal oppone il metodo della carità.<br />

Contro l’attaccamento alle leggi, prese astrattamente, considerando<br />

cioè solo quella che fa comodo, senza badare al principio ispiratore, contro<br />

la casistica rilassata dei gesuiti che concilia i doveri con gli interessi,<br />

coi piaceri e con le passioni degli uomini, Pascal oppone il principio supremo:<br />

la Legge dell’Amore.<br />

Questi nuovi teologi, – riassume Pascal nel Factum – invece di adattare la <strong>vita</strong><br />

degli uomini ai precetti di Gesù Cristo, hanno tentato di adattare i precetti e le<br />

15 Ivi, pp. 182-3.<br />

16 V e Lettre provinciale, SeFe, pp. 330-1.<br />

17 Cfr. ivi, p. 339.<br />

18 Cfr. ivi, pp. 338-9.<br />

19 Ivi, p. 344.<br />

20 X e Lettre provinciale, SeFe, p. 426.


Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 69<br />

regole di Gesù Cristo agli interessi, alle passioni e ai piaceri degli uomini. È con<br />

quest’orribile ribaltamento che si sono visti coloro che si attribuiscono la qualità<br />

di dottori e di teologi sostituire alla vera morale, che deve avere per principio<br />

solo l’autorità divina e per fine solo la carità, una morale tutta umana che ha<br />

per principio solo la ragione e per fine solo la concupiscenza e le passioni della<br />

natura. È ciò che essi dichiarano con una arditezza incredibile, come lo si vedrà<br />

in queste poche massime che sono a loro le più ordinarie. Un’azione, dicono, è<br />

probabile e sicura in coscienza se essa è fondata su una ragione ragionevole, ratione<br />

rationabili, o sull’autorità di qualunque autore serio, o anche di uno solo,<br />

o se essa ha per fine un oggetto onesto. E si vedrà ciò che essi chiamano un oggetto<br />

onesto con questi esempi che ci danno. È permesso, dicono, uccidere colui<br />

che ci fa qualche ingiuria, purché si abbia con questo solo il desiderio di ac<strong>qui</strong>stare<br />

la stima degli uomini, ad captandam hominum œstimationem. Si può<br />

andare nel posto fissato per battersi in duello, purché questo si faccia con l’intento<br />

di non passare per un pollo, ma di passare per un uomo di cuore, vir et<br />

non gallina. Si possono dare dei soldi per un beneficio, purché non si abbia altra<br />

intenzione che il vantaggio temporale che ce ne spetta, e non di eguagliare una<br />

cosa temporale con una spirituale. Una donna può pararsi, qualsiasi male accada,<br />

purché lo faccia solo per l’inclinazione naturale che ha alla vanità, ob naturalem<br />

fastus inclinationem. Si può bere e mangiare a sazietà senza necessità, purché<br />

questo accada per la sola vanità e senza nuocere alla propria salute, perché<br />

l’appetito naturale può fruire senza alcun peccato delle azioni che gli sono proprie,<br />

licite potest appetutus naturalis suis actibus frui. Si capisce in queste poche<br />

parole lo spirito dei casisti, e come, distruggendo le regole della pietà, essi fanno<br />

subentrare ai precetti della Scrittura, che ci obbliga di riportare tutte le nostre<br />

azioni a Dio, un permesso brutale di riportarle tutte a noi stessi; cioè anziché<br />

Gesù Cristo che è venuto per ammortizzare in noi le concupiscenze del vecchio<br />

uomo e farvi regnare la carità dell’uomo nuovo, questi sono venuti per fare rivivere<br />

le concupiscenze ed estinguere l’amore di Dio, da cui essi dispensano gli<br />

uomini, e dichiarano che è molto purché non lo si odi 21 .<br />

La morale gesuitica si dimostra ancor più insidiosa con un sistema di<br />

espedienti quali il metodo di dirigere l’intenzione 22 e il metodo delle restrizioni<br />

mentali 23 , che elevano a sistema la frode verso la coscienza. Non<br />

21 Factum pour les curés de Paris, SeFe, p. 637.<br />

22 Cfr. VII e Lettre provinciale, SeFe, pp. 365-83.<br />

23 Si può giurare che non si è fatta una cosa, anche se si è fatta, intendendo che non si è fatta<br />

quel giorno. Su ciò cfr. IX e Lettre provinciale, SeFe, pp. 402-19.


70 Maria Vita Romeo<br />

potendo impedire un’azione illecita, i gesuiti mirano almeno a purificare<br />

l’intenzione, volgendola verso un oggetto permesso, correggendo «il vizio<br />

del mezzo con la purezza del fine» 24 : così un figlio, senza per questo peccare,<br />

può desiderare la morte del padre, e «rallegrarsi quando accade, posto<br />

che ciò sia soltanto per il bene che gliene viene, e non per odio personale»<br />

25. Così chi è stato offeso nell’onore, può ricorrere al duello, purché<br />

sia mosso non dal desiderio di vendetta, ma da quello di salvaguardare il<br />

suo proprio onore 26 .<br />

Ebbene, Pascal si oppone con fermezza a questo scherno della ragionevolezza,<br />

a questo rovesciamento della morale cristiana 27 . E questo non<br />

certo perché, come vuole Baudin 28 , Pascal rifiuti in blocco ogni appello<br />

alle probabilità; ma perché ritiene che, qualora non si possa sapere con<br />

certezza la verità, allora è necessario imporre alla coscienza di seguire ciò<br />

che oggettivamente è più probabile, cioè la regola più sicura (tuziorismo),<br />

e non dare la possibilità di scegliere tra una qualsiasi opinione probabile,<br />

purché sostenuta da un dottore serio.<br />

La ragione, infatti, non dice di adottare un’opinione probabile, ma<br />

dice di adottare l’opinione più probabile. Nelle pagine che riguardano le<br />

opinioni probabili, dunque, Pascal non esclude il ricorso alla ragione in<br />

campo morale, come invece ipotizza l’abate Baudin il quale, operando<br />

una critica alla morale pascaliana, considerandola assolutamente antirazionalista,<br />

e cercando di mostrarne la sua falsità, ha «sciupato – afferma<br />

Sciacca – vent’anni di lavoro, e un eccellente materiale raccolto» 29 .<br />

Quando Pascal condanna la casistica gesuitica, egli – come ha osservato<br />

Mesnard in polemica con l’abate Baudin – non intende condannare<br />

ogni casistica, ma la casistica rilassata, quella cioè che concilia dovere e<br />

interesse 30 . In verità, Pascal<br />

24 VII e Lettre provinciale, SeFe, p. 368.<br />

25 Ivi.<br />

26 Cfr. ivi, p. 371.<br />

27 Cfr. VIII e Lettre provinciale, SeFe, p. 401; e X e Lettre Provinciale, pp. 438-9.<br />

28 E. Baudin, La philosophie de Pascal, vol. III, tomo IV, Sa critique de la casuistique et du<br />

probabilisme moral, Neuchâtel, Editions de la Baconnière, 1947.<br />

29 M. F. Sciacca, Pascal, Milano, Marzorati, 1962, p. 241.<br />

30 Cfr. J. Mesnard, Pascal. L’homme et l’œuvre, cit., pp. 95-6.


Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 71<br />

non ignora la sana casistica più che i Padri della Chiesa o i direttori di Port-Royal.<br />

Ma, per risolvere i casi di coscienza, egli reclama che ci si appoggi non sulla<br />

ragione corrotta ma sulla “Sacra Scrittura, i Canoni e i Santi Padri”, considerati<br />

come i soli autori seri per i casisti d’ispirazione giansenista […] La ragione tuttavia<br />

conserverà un ruolo: quello d’interpretare la tradizione e di risolvere, seguendo<br />

lo spirito dei Padri, i casi nuovi che possono presentarsi 31 .<br />

Pascal, dunque, non rifiuta ogni ricorso alla ragione in etica; egli vuole<br />

solo che si affrontino i casi di coscienza, facendo appello alle Sacre Scritture,<br />

ai Canoni e ai Padri della Chiesa, autorità dalle quali la nostra coscienza<br />

non può prescindere nella determinazione e nel giudizio di un atto:<br />

Donde apprenderemo dunque la verità dei fatti? – si chiede Pascal nella XVIII<br />

Lettera – Sarà dagli occhi, padre, che ne sono i legittimi giudici, come la ragione<br />

lo è delle cose naturali e intelligibili e la fede delle cose sovrannaturali e rivelate.<br />

Infatti, dal momento che mi ci costringete, padre, vi dirò che, secondo il<br />

pensiero di due dei più grandi dottori della Chiesa, sant’Agostino e san Tommaso,<br />

quei tre princìpi della nostra conoscenza, i sensi, la ragione e la fede, hanno<br />

ognuno i suoi oggetti distinti e la sua certezza nel proprio ambito. E siccome<br />

Dio ha voluto servirsi della mediazione dei sensi per aprire l’ingresso alla fede,<br />

fides ex auditu, è tanto poco vero che la fede distrugga la certezza dei sensi, che<br />

al contrario si distruggerebbe la fede se si volesse mettere in dubbio la fedeltà di<br />

ciò che riferiscono i sensi. Perciò san Tommaso nota esplicitamente che Dio ha<br />

voluto che gli accidenti sensibili sussistessero nell’eucaristia affinché i sensi, che<br />

giudicano soltanto di quegli accidenti, non fossero ingannati: Ut sensus a deceptione<br />

reddantur immunes. Da ciò concludiamo dunque che, qualsiasi proposizione<br />

ci si presenti da esaminare, bisogna per prima cosa determinarne la natura,<br />

per vedere a quale di questi tre principi dobbiamo affidarci. Se si tratta di una<br />

cosa soprannaturale, non ne giudicheremo né mediante i sensi né mediante la<br />

ragione, ma mediante la Scrittura e le decisioni della Chiesa. Se si tratta di una<br />

proposizione non rivelata e proporzionata alla ragione naturale, questa ne sarà il<br />

giudice adatto. Finalmente, se si tratta di una cosa di fatto noi crederemo ai<br />

sensi, ai quali appartiene per natura il deciderne 32 .<br />

I gesuiti hanno svincolato gli uomini anche dall’«obbligo di amare in<br />

atto Dio», considerato dal Vangelo il massimo dei comandamenti, di-<br />

31 Ivi, p. 96.<br />

32 XVIII e Lettre provinciale, SeFe, pp. 613-4.


72 Maria Vita Romeo<br />

Il quarto voto della Compagnia di Gesù: obbedienza al Sommo Pontefice<br />

chiarando per bocca del padre Sirmond che «a rigore, non si è obbligati<br />

ad altro che ad osservare gli altri comandamenti senza alcun affetto per<br />

Dio, e senza che il nostro cuore sia dato a lui, purché non lo si odi» 33 .<br />

Lo sdegno di Pascal di fronte a tutto ciò esplode nella X Lettera, datata<br />

2 agosto 1656, dove l’arma dell’ironia cede il posto all’indignazione<br />

più aspra contro una morale che ha la pretesa di «scrollare le regole più<br />

sante della condotta cristiana», arrivando «a rovesciare interamente la legge<br />

di Dio» 34 .<br />

33 X e Lettre provinciale, SeFe, p. 437.<br />

34 Ivi, p. 438.


Si viola il grande comandamento, che comprende la legge e i profeti: si attacca la<br />

pietà nel cuore; se ne toglie lo spirito che dà la <strong>vita</strong>: si dice che l’amore di Dio<br />

non è necessario alla salute; e si arriva fino a pretendere che questa dispensa dall’amare<br />

Dio sia il vantaggio che Gesù Cristo ha portato al mondo. È il colmo dell’empietà.<br />

Il prezzo del sangue di Gesù Cristo sarà di ottenerci la dispensa dall’amarlo!<br />

Prima dell’incarnazione si era obbligati ad amare Dio; ma dopo che Dio<br />

ha tanto amato il mondo da dargli il suo Figlio unigenito, il mondo, da lui riscattato,<br />

sarà esonerato dall’amarlo! Strana, questa teologia contemporanea! Si osa togliere<br />

l’anatema che san Paolo pronuncia contro coloro che non amano il Signore<br />

Gesù! Si distrugge ciò che dice san Giovanni, che chi non ama resta nella morte!<br />

e ciò che dice lo stesso Gesù Cristo, che chi non l’ama non osserva i suoi precetti!<br />

Così vengono resi degni di godere di Dio nell’eternità coloro che non hanno<br />

mai amato Dio in tutta la loro <strong>vita</strong>. Ecco compiuto il mistero dell’ini<strong>qui</strong>tà 35 .<br />

D’ora in poi, la finzione delle lettere precedenti è messa da parte, e<br />

Pascal, nelle lettere che vanno dall’XI alla XVI, non si rivolge più all’amico<br />

provinciale, bensì direttamente alla Compagnia di Gesù con un tono<br />

più aspro, col tono di chi è profondamente indignato sia per l’oltraggio<br />

alla Legge dell’Amore, sia per le accuse dei gesuiti «persecutori crudeli e<br />

vigliacchi» che ricorrono alla calunnia pur di difendersi. In queste ultime<br />

lettere, infatti, oltre ad attaccare i gesuiti e la loro morale rilassata, Pascal<br />

difende sé stesso e, nelle lettere XV e XVI, difende Port-Royal dalle accuse<br />

infondate degli avversari:<br />

Persecutori crudeli e vigliacchi, neppure i chiostri più ritirati non sono al riparo<br />

dalle vostre calunnie! Mentre quelle sante vergini adorano notte e giorno Gesù<br />

Cristo nel Santissimo Sacramento secondo la loro regola, voi non cessate notte<br />

e giorno dal pubblicare che esse non credono che egli sia nell’Eucaristia e nemmeno<br />

alla destra del Padre, e le separate pubblicamente dalla Chiesa mentre esse<br />

nel segreto pregano per voi e per tutta la Chiesa. Voi calunniate loro che non<br />

hanno né orecchie per udirvi né lingua per rispondervi. Ma Gesù Cristo, nel<br />

quale esse sono nascoste per non riapparire che un giorno con lui, vi ascolta e<br />

risponde per loro. La si sente oggi quella voce santa e terribile che stupisce la<br />

natura e consola la Chiesa. E temo, padri, che coloro che induriscono i loro<br />

cuori e non vogliono udirlo quando parla da Dio saranno costretti ad udirlo<br />

con spavento quando parlerà loro da giudice 36 .<br />

35 Ivi, pp. 438-9.<br />

36 XVI e Lettre provinciale, SeFe, pp. 562-3.<br />

Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 73


74 Maria Vita Romeo<br />

Degna di nota è l’XI Lettera Provinciale, ove alla morale «vergognosa e<br />

perniciosa alla Chiesa» dei casuisti gesuiti, Pascal contrappone la morale<br />

dei Padri della Chiesa, il cui insegnamento è mosso dallo spirito di pietà e<br />

non certo da uno spirito di empietà e di odio. Essa consta di ben quattro<br />

regole.<br />

1) parlare con verità e sincerità:<br />

La prima di queste regole è che lo spirito di pietà induce sempre a parlare con<br />

verità e sincerità, mentre l’invidia e l’odio adoperano la menzogna e la calunnia:<br />

Splendentia, vehementia, veris tamen rebus, dice sant’Agostino (De doctr. christ.,<br />

1. IV, c. 18). Chiunque si serve della menzogna agisce con lo spirito del diavolo;<br />

2) parlare con discrezione: non dire (altro) che la verità, ma non necessariamente<br />

tutta la verità, poiché<br />

non basta, padri, il non dire che cose vere, bisogna anche non dire tutte quelle<br />

che sono vere; perché non bisogna riferire che le cose che è utile scoprire, e non<br />

quelle che non potrebbero che ferire senza utilità alcuna. Quindi, come la prima<br />

regola è di parlare con verità, la seconda è di parlare con discrezione;<br />

3) non utilizzare la canzonatura:<br />

La terza regola, padri, è che quando si è costretti ad usare qualche canzonatura,<br />

lo spirito di pietà deve indurci a non usarla che contro gli errori, e non contro<br />

le cose sante; mentre invece lo spirito di buffoneria, di empietà e di eresia se la<br />

ride di ciò che è più sacro;<br />

4) la quarta regola:<br />

che è il principio e la fine di tutte le altre: [essa afferma] che lo spirito di carità<br />

induce ad avere nel cuore il desiderio della salvezza di coloro contro cui si parla,<br />

e di rivolgere a Dio le proprie preghiere nello stesso tempo che si rivolgono agli<br />

uomini i rimproveri 37 .<br />

Il ricorso pascaliano alle Sacre Scritture, ai Canoni e ai Padri della<br />

Chiesa, pone il problema di stabilire se l’etica di Pascal sia un’etica che ripropone<br />

una nuova versione del giuridicismo, se sia cioè un’etica legalistica<br />

che non lascia spazio alla coscienza, oppure un’etica che, al di là del<br />

suo carattere normativo, attribuendo al cuore rinnovato dalla caritas un<br />

37 Cfr. G. Ferreyrolles, Le XVII e siècle et le statut de la polémique, in «Littératures Classiques»,<br />

59, 2006, pp. 22-3.


Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 75<br />

posto privilegiato, stenti a ridurre la morale ad un sistema tutto esteriore<br />

di obbligazioni e di valutazioni che trovano validità in leggi generali.<br />

Secondo Bausola, Pascal, benché opponga al giuridicismo gesuitico il<br />

metodo della carità, rischia tuttavia di esporre la sua etica ad un nuovo<br />

giuridicismo, dal momento che si appella di fatto alle leggi della Sacra<br />

Scrittura e della tradizione della Chiesa 38 . Lo stesso appello al principio di<br />

carità, che Pascal oppone al lassismo gesuitico,<br />

non diventa – scrive Bausola – […] operante appello ad un ripensamento globale,<br />

in funzione del principio della carità, del nuovo caso, in rapporto alle vecchie<br />

ed alle nuove esigenze per una nuova e più completa normativa 39 .<br />

Diversa, per certi aspetti, è la tesi del Serini che, pur attribuendo all’etica<br />

di Pascal un carattere normativo e legalistico, non può fare a meno<br />

di riconoscere che il centro della morale pascaliana risiede nell’intimo<br />

della coscienza, cioè nel cuore. È appunto questo il motivo che domina<br />

tutta l’etica pascaliana: bisogna affidarsi solo al cuore, rinnovato e potenziato<br />

dalla carità di Cristo;<br />

solo al cuore bisogna chiedere ciò che si deve o non si deve fare; solo al cœur deve<br />

guardare il confessore o il direttore di coscienza, ché solo al cuore guarda<br />

Dio, e solamente l’interiore “disposition du cœur” dà pregi agli atti 40 .<br />

Secondo Serini, nella disputa contro i gesuiti Pascal non condanna,<br />

come forse avrebbe dovuto, il fondamento logico della casistica in generale,<br />

cioè la concezione legalitaria dell’etica. E questo perché anche Pascal<br />

si attiene ad un principio normativo dell’etica. Anch’egli, cioè, «si rappresentava<br />

il principio morale nella forma di leggi e comandamenti esterni<br />

alla coscienza» 41 . Ciò indusse lo studioso italiano a parlare di contraddittorietà<br />

nel pensiero di Pascal, il quale, pur concependo l’etica come un<br />

complesso di leggi di tipo giuridico, rifiutava di ammettere che tali leggi<br />

consentano deroghe o cambiamenti e siano soggette a mutamento, e condannava<br />

la casistica.<br />

38 Cfr. A. Bausola, Introduzione a Pascal, Bari, Laterza, 1992 3 , p. 136.<br />

39 Ivi, p. 135.<br />

40 P. Serini, Pascal, cit., p. 186.<br />

41 Ivi, p. 183.


76 Maria Vita Romeo<br />

Per Serini, dunque, l’etica di Pascal è un’etica legalistica ed eteronoma.<br />

Tale giudizio, secondo noi, dev’essere attentamente valutato, perché<br />

presenta dei limiti. Se, infatti, è vero che per Pascal è doveroso appellarsi<br />

alle leggi esterne della<br />

Sacra Scrittura e della<br />

tradizione della Chiesa;<br />

è altrettanto vero<br />

però che esiste per Pascal<br />

una legge che sovrasta<br />

tutte le altre. Si<br />

tratta della legge dell’Amore<br />

– principio<br />

supremo della morale<br />

– che a differenza delle<br />

morali eteronome,<br />

non è esterna alla coscienza,<br />

poiché Dio<br />

stesso ha provveduto<br />

ad iscriverla nel cuore<br />

di ogni uomo. Con<br />

questo non si vuol negare<br />

l’eteronomia e la<br />

normatività dell’etica<br />

Benozzo Gozzoli, Agostino insegna a Roma, 1464-1465,<br />

affresco, Cappella del coro di S. Agostino, San Gimignano<br />

pascaliana; vogliamo<br />

solo far notare che l’etica<br />

di Pascal è un’eti-<br />

ca che si basa anche e non solo su leggi esterne alla coscienza. È un’etica<br />

che non può fare a meno del messaggio d’Amore del Cristo e del suo insegnamento.<br />

Indubbiamente è vero che l’uomo, a causa del peccato, non<br />

è in condizione di cogliere con evidenza la legge dell’Amore, iscritta nel<br />

suo cuore. Da <strong>qui</strong> la necessità di agire guardando alle leggi della Scrittura<br />

e della tradizione della Chiesa come a dei punti fissi utili per orientarsi, e<br />

alla carità come principio e fine di ogni azione.<br />

Inoltre, Serini fa notare che dalle discussione di alcune sentenze, come<br />

quelle sull’omicidio o la menzogna, appare evidente che Pascal attri-


Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 77<br />

buisce valore assoluto a prescrizioni quali quelle di non mentire o di non<br />

uccidere. In verità, è indubitabile che Pascal attribuisca valore assoluto e<br />

carattere immutabile alla legge, ma queste caratteristiche sembrano appartenere<br />

in senso stretto ad una sola legge: la legge dell’Amore. Nessuna<br />

legge, al di fuori di quella dell’Amore, se applicata può essere considerata<br />

assoluta e immune da cambiamenti. Per Pascal, infatti, persino la<br />

legge di non uccidere non è assoluta: si può finanche uccidere per legittima<br />

difesa 42 .<br />

Se, da un lato, abbiamo preso le distanze da alcuni aspetti della tesi di<br />

Serini, poiché abbiamo creduto doveroso ridimensionare il carattere legalistico<br />

ed eteronomo che egli attribuisce all’etica pascaliana; dall’altro, pur<br />

non condividendo in assoluto le sue premesse, dobbiamo riconoscere che<br />

egli ha avuto il grande merito di capire che «in tutta l’opera pascaliana<br />

circola vigoroso un sentimento dell’interiorità dei valori etico-religiosi,<br />

che ripugna ad ogni disciplina legalista». E questo perché la morale di Pascal<br />

è la morale del cuore; una morale che, come ha acutamente osservato<br />

Pareyson,<br />

si rifiuta di dedurre i precetti morali mediante una catena dimostrativa che parte<br />

da principi, quasi che ci fossero precetti generali che contengono tutti gli altri,<br />

e precetti particolari contenuti e racchiusi in essi e da essi deducibili» 43 . Infatti,<br />

continua Pareyson, «i precetti morali sono […] separati l’uno dall’altro:<br />

ciascuno di essi deve imporsi al giudizio della coscienza a parte dagli altri e direttamente<br />

senza la convalida d’una legge generale 44 .<br />

Ma, se non è in una legge generale che dobbiamo cercare la validità<br />

dei precetti morali, allora cos’è che dà loro validità? L’amore di Dio,<br />

principio informatore della morale.<br />

Ciascun precetto deve venire ricondotto al fine ultimo, in ciascun precetto deve<br />

venire mostrata la presenza del fine ultimo, cioè ogni precetto deve venire personalmente<br />

e di volta in volta derivato dall’unica ispirazione morale che è<br />

l’amore di Dio 45 .<br />

42 Cfr. XIV e Lettre provinciale, pp. 502-4; cfr. fr. n. 771 Se.<br />

43 L. Pareyson, L’etica di Pascal, in Kierkegaard e Pascal, Milano, Mursia, 1998, p. 271.<br />

44 Ivi.<br />

45 Ivi.


78 Maria Vita Romeo<br />

La vera morale è dunque la morale del cuore che, secondo noi, non<br />

sembra avere le caratteristiche di un’etica legalistica in senso stretto, poiché<br />

il cuore, avendo in sé la capacità di intendere i precetti del bene e del<br />

male 46 e disponendo di “un punto fisso per giudicare”,<br />

prescinde, nella morale, da leggi generali da cui dedurre i precetti particolari,<br />

come succede nella scolastica, e da casi particolari da decidere in base a leggi generali,<br />

come succede nella casistica. I precetti particolari il cuore li fa derivare<br />

direttamente da quella fondamentale ispirazione morale che è l’amore di Dio, e<br />

i casi particolari il cuore li decide personalmente secondo la propria coscienza<br />

conformata all’amore di Dio 47 .<br />

In definitiva, questo significa che l’uomo, ispirato dall’amore di Dio,<br />

per agire non ha bisogno di ricorrere alle sottigliezze della scolastica o<br />

della casistica; ma solo di aprirsi «alla spontaneità della carità, che gli fa<br />

trovare senza difficoltà la via della virtù e della giustizia» 48 . L’unica legge<br />

generale dell’uomo è la legge del cuore, quella legge che Agostino sintetizza<br />

in ama et fac quod vis.<br />

Naufraga <strong>qui</strong> la tentazione moderna di voler creare un’etica senza<br />

Dio. Una certa etica moderna ha preteso di poter fare a meno di Dio,<br />

concependo l’uomo come una creatura autosufficiente in virtù della dea<br />

Ragione. Obbedire al comandamento di Dio, secondo questo tipo di etica,<br />

significava precipitare nell’alienazione religiosa, nella subordinazione a<br />

qualcosa di estraneo e nell’eteronomia morale 49 .<br />

Per Pascal, invece, l’uomo può trovare solo in Cristo e nella sua Legge<br />

la risposta ai suoi dubbi: egli comprende allora che la causa della sua miseria<br />

è dovuta all’egoismo, al moi, alla stolta arroganza della ragione,<br />

quando pretende di raziocinare su ciò che razionale non è, perché è sopra-razionale,<br />

come la fede e il sacro. Beninteso, con tutto ciò la ragione<br />

non è mortificata né esclusa; infatti, quel che Pascal condanna non è la<br />

ragione e la sua sovranità nel campo dell’esperienza, bensì l’uso improprio<br />

e totalizzante che di essa si vuol fare.<br />

46 Cfr. fr. 710 Se.<br />

47 L. Pareyson, L’etica di Pascal, cit., p. 272.<br />

48 Ivi.<br />

49 Cfr. R. Guardini, Libertà, grazia, destino, Brescia, Morcelliana, 2000 3 , p. 91.


Legge e coscienza morale nelle «Provinciali» 79<br />

Ora, creare un’etica guardando a Cristo e alla sua Legge, potrebbe indurre<br />

a considerare l’etica di Pascal un’etica eteronoma.<br />

Cambiamo la norma che abbiamo preso fin <strong>qui</strong> per giudicare ciò che è bene.<br />

Per norma avevamo la nostra volontà; adesso prendiamo la volontà di Dio: tutto<br />

quello che vuole è buono e giusto per noi, tutto quello che non vuole è [cattivo<br />

e ingiusto] 50 .<br />

Questo frammento ci in<strong>vita</strong> a prendere per regola di condotta la volontà<br />

di Dio. Ora, un simile invito può essere tacciato di eteronomia? A<br />

tal proposito, indicativa ci sembra l’acuta osservazione di Romano Guardini<br />

che, affrontando il rapporto fra libertà cristiana e libertà naturale,<br />

spiega chiaramente perché l’etica cristiana non possa essere tacciata di<br />

eteronomia, contrariamente a quanto sostiene l’etica moderna.<br />

L’etica moderna sostiene che quando l’uomo obbedisce al comandamento di<br />

Dio diviene eteronomo, soggetto a un estraneo; mentre l’essenza della libertà<br />

consiste nell’autonomia, nel puro appartenere a se stessa. Questa affermazione<br />

definisce la libertà come libertà assoluta; fa dunque la libertà umana uguale a<br />

quella divina. Se ciò fosse esatto, l’obbedienza a Dio abolirebbe veramente la libertà<br />

dell’uomo. Ma in verità solo Dio è Dio, e l’uomo invece è sua creatura.<br />

La libertà dell’uomo è una libertà creata; perciò si realizza fondamentalmente<br />

davanti a Dio, in obbedienza con Lui, tanto più che Egli non è solo il creatore<br />

dell’essere, ma anche il fondamento del vero e la radice del bene, così che l’obbedienza<br />

a Lui non significa soggezione a un Potere superiore, ma attuazione di<br />

ciò che è semplicemente giusto 51 .<br />

L’etica cristiana proposta da Pascal non può essere tacciata di eteronomia;<br />

parlare di eteronomia per l’etica cristiana è commettere «un profondo<br />

errore relativo a Dio, un errore possibile solo quando l’uomo si è<br />

disabituato a Lui» 52 .<br />

L’errore – prosegue il filosofo italo-tedesco – consiste precisamente nel ritenere<br />

che Dio sia un e[tero~ un “altro”. Per ogni essere all’infuori di Dio è esatto che,<br />

non essendo “io”, proprio per questo sia “altro”. Ma per Dio non è così, solo<br />

per Lui non è così questo fatto definisce addirittura la sua natura. È assoluta-<br />

50 Fr. n. 769 Se.<br />

51 R. Guardini, Libertà, grazia, destino, cit., p. 91.<br />

52 Ivi, p. 92.


80 Maria Vita Romeo<br />

mente certo che Dio non è “io”: asserirlo costituisce l’errore del monismo. Ma<br />

ciò che conduce a questo errore è fraintendere una verità; che egli non è “un altro”,<br />

ma è colui nel quale la mia esistenza è fondata, la mia verità ha il suo archetipo,<br />

il senso della mia esistenza è contenuto. Quando nella conoscenza, nell’amore,<br />

nell’azione io giungo a Lui, trovo in Lui me stesso. Obbedire a Dio significa<br />

perciò […] superare la mia inautenticità poiché, obbedendo, io agisco<br />

conformemente al mio vero essere, e dunque, intesa la cosa nel suo giusto valore,<br />

obbedendo a Dio, sto davvero in me stesso 53 .<br />

L’etica di Pascal è dunque un’etica cristiana; e due leggi sono sufficienti<br />

per creare la Repubblica cristiana: amare Dio e amare il prossimo.<br />

È questo il centro <strong>vita</strong>le della morale che anima le pagine delle Provinciali,<br />

un capolavoro che merita di essere annoverato tra le più significative<br />

affermazioni del pensiero moderno e non certo, come vuole Baudin, tra<br />

le opere che hanno «favorito, e favoriscono ancora, il rallentamento, sia<br />

teorico, sia soprattutto pratico, della filosofia moderna ai dogmi antirazionalistici<br />

dell’infallibilità della coscienza e del moralismo mistico» 54 .<br />

La morale del cuore, che ha «per principio solo l’autorità divina e per<br />

fine solo la carità» 55 , è la morale della religione cristiana. E quest’ultima è,<br />

per Pascal, la sola religione capace di fondare una vera morale perché offre<br />

all’uomo, attraverso la legge dell’amore e l’amore della legge, i rimedi<br />

efficaci alle sue miserie, le risposte definitive e convincenti alle sue domande<br />

di felicità, di verità, di bene e di libertà.<br />

53 Ivi.<br />

54 E. Baudin, La philosophie de Pascal, vol. III, tomo IV, Sa critique de la casuistique et du<br />

probabilisme moral, p. 216.<br />

55 Factum pour les curés de Paris, cit., p. 638.


GIUSEPPE PEZZINO<br />

Etica e politica nelle «Provinciali»<br />

NELLA QUINTA LETTERA, PRIMA DI ANDARE al cuore della questione<br />

morale, Pascal affronta il rapporto esistente fra etica e politica con<br />

una lucidità logica ed una padronanza delle problematiche categoriali che<br />

lo pongono a pieno diritto fra i moderni pensatori della filosofia della<br />

pratica. In effetti, se la storia del pensiero occidentale guarda al fiorentino<br />

Niccolò Machiavelli come ad uno dei padri della modernità, per avere<br />

egli teorizzato l’autonomia della politica rispetto alla morale, bisogna allora<br />

riconoscere che lo stesso Pascal giganteggia nella formazione della modernità<br />

non solo come sommo scienziato, ma anche come filosofo morale<br />

che possiede la lucida consapevolezza della distinzione che esiste fra la categoria<br />

o il valore della politica e la categoria o il valore della morale.<br />

Ma accostiamoci piuttosto alla Quinta Lettera. Prima di andare dai<br />

gesuiti, Louis de Montalte ha modo di parlare col suo amico, il quale gli<br />

descrive la Compagnia di Gesù come un «grand corps» in cui si trovano e<br />

convivono i rigoristi e i lassisti; quelli che fanno riferimento all’Evangelo<br />

e ai Padri, e quelli che invece si ispirano ai nuovi casuisti; ed infine quelli<br />

che guardano ai casuisti severi e quelli che ricorrono ai casuisti rilassati.<br />

Si potrebbe allora pensare che questo corpo della Compagnia si trascini<br />

malfermo e interiormente lacerato, proprio perché accoglie nel suo<br />

seno mille anime fra loro contrastanti; e che la Compagnia medesima<br />

non sia altro che una vacillante torre di Babele, scossa da un’accozzaglia<br />

di opinioni le più contrastanti ed inconciliabili. In verità, le cose stanno<br />

ben diversamente: la Societas Jesu è un «grand corps» che possiede un’unica<br />

anima che lo governa e illumina, e un unico disegno da realizzare.<br />

Sappiate dunque – afferma l’amico antigesuita – che il loro obiettivo non è di<br />

corrompere i costumi, non è questo il loro intento. Però non hanno nemmeno<br />

81


82 Giuseppe Pezzino<br />

come unico fine quello di riformarli. Sarebbe una cattiva politica. Ecco il loro<br />

pensiero. Hanno di sé stessi un’opinione abbastanza buona per credere che sia<br />

utile e quasi necessario per il bene della religione che la loro reputazione si<br />

estenda dappertutto e che essi governino tutte le coscienze 1 .<br />

Esiste, dunque, un’anima che conferisce a quest’immenso e potentissimo<br />

corpo una vivace unità organica, garantendogli altresì un altissimo<br />

quoziente di efficienza, di efficacia, di duttilità e di agilità nel realizzare il<br />

disegno strategico generale e nel raggiungere i particolari obiettivi. Ma<br />

proprio <strong>qui</strong> Pascal procede nella distinzione fra politica e morale: lo scopo<br />

fondamentale e profondo della Compagnia non è di natura morale,<br />

con l’obiettivo di riformare o di corrompere i costumi; lo scopo, il disegno<br />

strategico dei gesuiti è invece di natura precipuamente politica, con<br />

l’obiettivo di «governare le coscienze» e di estendere ovunque l’egemonia<br />

gesuitica ad maiorem Dei gloriam, e di conseguenza per il bene del Papa e<br />

della Chiesa romana.<br />

Più precisamente, Pascal tiene a sottolineare il primato della politica<br />

nella teoria e nella prassi della Compagnia, proprio quando fa dire all’amico<br />

che l’indifferentismo etico dei gesuiti non nasce affatto da una<br />

valutazione morale, ma da un sottile calcolo politico: infatti, riformare o<br />

corrompere i costumi non è un problema all’ordine del giorno per i gesuiti,<br />

poiché una simile impresa sarebbe per la Compagnia «une mauvaise<br />

politique». In altri termini, Pascal è fortemente convinto che la <strong>vita</strong> della<br />

Compagnia ruoti attorno all’asse centrale del primato politico, e che qualunque<br />

tipo di attività, dalla teologia alla filosofia morale, dalla pedagogia<br />

all’arte, rientri in un «dessein» di carattere utilitario e politico. In simile<br />

prospettiva, a) il bene della Cristianità si riduce all’utile politico della<br />

Chiesa; b) il bisogno del sacro e il ruolo della religione declinano apertamente<br />

verso la condizione di instrumentum regni; c) il bene della Compagnia<br />

si identifica, nei casi più elevati e più raffinati, con una strategia di<br />

egemonia culturale nei confronti della società e dei gruppi dirigenti, e, nei<br />

casi più bassi e dozzinali, con una spregiudicata politica di governo delle coscienze.<br />

1 B. Pascal, Quinta lettera, in Le Provinciali, edizione con testo a fronte a cura di Carlo Carena,<br />

Torino, Einaudi, 2008, p. 89.


Per questo motivo Pascal sottolinea ripetutamente che la Compagnia<br />

ha bisogno insieme e dei rigoristi e dei lassisti, in modo tale che essa possa<br />

schierare un formidabile esercito di casuisti adatti a tutte le stagioni<br />

della coscienza, pronti a saltare agilmente da una posizione all’altra, premurosi<br />

nell’accontentare il diavolo e l’acqua santa, pur di mantenere il<br />

governo delle coscienze e il potere della Chiesa:<br />

Ecco perché, trattando con gente di ogni condizione e di nazioni tanto differenti,<br />

devono necessariamente avere un assortimento di casuisti per tutta questa diversità.<br />

Da questo principio potete facilmente immaginare che se avessero soltanto<br />

dei casuisti indulgenti, rovinerebbero il loro intento principale, che è<br />

quello di abbracciare tutti quanti, poiché chi è veramente pio cerca una guida<br />

più ferma. Ma siccome di gente così non ce n’è molta, non gli occorrono molti<br />

direttori severi per guidarla. Ne hanno pochi per pochi, mentre la massa dei casuisti<br />

indulgenti si propone alla massa di coloro che cercano l’indulgenza 2 .<br />

Per questo disegno della Compagnia, si esige il possesso di doti altamente<br />

politiche, come l’accortezza, la scaltrezza, la spregiudicatezza, la<br />

duttilità, allo scopo di fornire a tutti, con una «condotta gentile e accomodante»,<br />

una risposta e una soluzione a tutti i più diversi e contrastanti<br />

problemi religiosi e morali:<br />

E mediante questa conduzione compiacente e accomodante, come la definisce il<br />

padre Petau, che tendono le braccia a tutti. Se si presenta loro qualcuno assolutamente<br />

risoluto a restituire qualche bene mal ac<strong>qui</strong>stato, non temete che lo<br />

dissuadano. Al contrario elogeranno e confermeranno un così santo proposito.<br />

Ma ne venga un altro che cerchi di avere l’assoluzione senza restituire, la cosa<br />

sarà molto difficile, se essi non ne fornissero qualche mezzo di cui si renderanno<br />

garanti. Con questo sistema conservano tutti i loro amici, e si difendono contro<br />

tutti i loro nemici. Se infatti gli si rimprovera il loro estremo lassismo, esibiscono<br />

subito al pubblico i loro direttori austeri e alcuni libri da loro scritti secondo<br />

il rigore della legge cristiana; e i semplici, e quanti non approfondiscono oltre le<br />

cose, si contentano di tali prove 3 .<br />

A questo punto occorre sottolineare che, se è vero che nel giudizio pascaliano<br />

sui gesuiti viene acutamente evidenziato il loro primato della po-<br />

2 Ivi, p. 91.<br />

3 Ivi.<br />

Etica e politica nelle «Provinciali» 83


84 Giuseppe Pezzino<br />

Il gesuita Padre Jacques Marquette e gli indiani del Mississippi<br />

litica, è altrettanto vero però che Pascal conduce la sua riflessione e il suo<br />

confronto critico con i gesuiti specialmente sul terreno della morale. In<br />

verità, l’opzione morale pascaliana sorge non solo dal particolare profilo<br />

etico-religioso del Genio di Clermont, ma anche da una intelligente scelta<br />

del campo più favorevole per combattere l’avversario.<br />

In effetti, sul terreno politico, a fronte di una “superpotenza” come la<br />

Societas Jesu, Pascal non è altro che un «profeta disarmato», per usare la<br />

definizione che Machiavelli destinò al domenicano Girolamo Savonarola.<br />

Ma, sul terreno della filosofia morale, Pascal porta la guerra fin dentro le<br />

mura della Compagnia, sconvolgendo e scardinando i pilastri della morale<br />

gesuitica. Insomma, sul campo della politica, Pascal e Port-Royal sono<br />

destinati ad essere annientati; ma, sul campo della filosofia morale, la<br />

grande armata della Compagnia vacilla, arretra, soccombe sotto i colpi


en assestati del Genio di Clermont, il quale la metterà in ginocchio e le<br />

infliggerà un vulnus da cui non si libererà per secoli.<br />

Come ben si sa, Pascal considera la dottrina delle opinioni probabili<br />

come il saliente più importante nel confronto critico con il lassismo gesuitico,<br />

al punto tale da far dire così al buon padre gesuita:<br />

Vedo bene – mi disse il buon padre – che non conoscete cos’è la dottrina delle<br />

opinioni probabili. Parlereste diversamente se la conosceste. Ah davvero, bisogna<br />

che vi istruisca in merito. Non avrete perso il vostro tempo d’esser venuti<br />

<strong>qui</strong>, senza quella dottrina non potreste capire nulla. È il fondamento e l’A b c di<br />

tutta la nostra morale 4 .<br />

Pertanto, su questa dottrina e sulle sue degenerazioni casuistiche si<br />

concentrano gli strali di Pascal, nella ferma consapevolezza che tutto l’apparato<br />

dottrinale della Compagnia sia funzionale o in rotazione satellitare<br />

rispetto al lassismo etico. Le stesse posizioni teologiche assunte dai gesuiti<br />

sul problema della grazia trovano la loro vera causa nel rilassamento morale.<br />

Sicché Pascal farà dire all’amico antigesuita: «Andate dunque, ve ne<br />

prego, a trovare questi bravi padri, e sono certo che rileverete facilmente<br />

nell’indulgenza della loro morale la causa della loro dottrina riguardante<br />

la grazia» 5 .<br />

D’altra parte, la dottrina delle opinioni probabili è, secondo Pascal,<br />

l’arma formidabile che permette la realizzazione del disegno politico dei<br />

gesuiti. Anzi, tale dottrina è un capolavoro di «prudence humaine et politique»,<br />

che usa e stravolge e adatta la fede religiosa ai comodi e ai capricci<br />

del singolo individuo oppure alle opportunità utilitaristiche della particolare<br />

situazione. In altri termini, alla Compagnia non interessa l’unità,<br />

l’universalità e l’immutabilità del principio etico-religioso; e persino la fede<br />

non è il fine etico-religioso: per la Compagnia, la fede è uno strumento<br />

da calibrare, modificare o abbandonare, allo scopo politico dell’egemonia<br />

gesuitica sulle coscienze e sulle società cristiane.<br />

Ecco – continua l’amico nella Quinta Lettera – come si sono diffusi su tutta la<br />

terra grazie alla dottrina delle opinioni probabili, fonte e base di tutto questo di-<br />

4 Ivi, p. 101.<br />

5 Ivi, p. 93.<br />

Etica e politica nelle «Provinciali» 85


86 Giuseppe Pezzino<br />

sordine. Dovete apprenderlo da loro stessi. D’altra parte non lo nascondono a<br />

nessuno, così come tutto ciò che avete udito adesso, con questa differenza, che<br />

coprono la loro prudenza umana e politica con lo schermo di una prudenza divina<br />

e cristiana: quasi che la fede e la tradizione che la sostiene non fosse sempre<br />

unica e immutabile in tutti i tempi e in tutti i luoghi; come se toccasse alla regola<br />

di piegarsi per adattarsi al soggetto che invece dovrebbe proprio lui esserle<br />

conforme, e come se le anime, per purificarsi dalle loro macchie, non avessero<br />

che da corrompere la legge del Signore; mentre invece è la legge del Signore senza<br />

macchia e tutta santa che deve convertire le anime e conformarle alle sue salutari<br />

istruzioni 6 .<br />

A scanso di e<strong>qui</strong>voci, come quelli dell’abbé Baudin 7 , diciamo subito<br />

che nelle Provinciali Pascal non intende affatto formulare un giudizio<br />

complessivo sul probabilismo antico e moderno, né sul probabilismo nelle<br />

sue molteplici articolazioni: ad esempio, l’articolazione gnoseologica,<br />

quella morale, quella fisica, etc. Più semplicemente e più precisamente<br />

Pascal, spinto da un forte interesse etico-religioso, concentra le sue critiche<br />

sul torbido miscuglio di lassismo, probabilismo e casistica, che diventa<br />

un micidiale tossico morale. In altri termini, nelle Provinciali, Pascal<br />

non è affatto interessato alla storia del concetto di «probable» a partire da<br />

Aristotele sino al Seicento, né gli preme esaminarlo nella sua natura matematica<br />

né in quella retorico-umanistica; alla critica di Pascal interessa,<br />

invece, il ricorso che si fa, in sede morale e religiosa, ad una particolare<br />

miscuglio di casistica rilassata e di metodologia probabilistica, per giustificare<br />

moralmente qualunque teoria e qualunque azione 8 . Con simile<br />

dottrina probabilistica si dà diritto di cittadinanza, nella cittadella morale,<br />

a tutto e al contrario di tutto: non solo al rigorismo e al lassismo, ma<br />

anche al bene e al male, al probo e all’improbo.<br />

In breve, il probabilismo che sta all’attenzione critica di Pascal possiede<br />

dei connotati ben precisi. Ad esempio, è il probabilismo del principe dei<br />

casuisti, il gesuita Antonio de Escobar, come si può notare in questo brano:<br />

6 Ivi.<br />

7 Cfr. E. Baudin, Études historiques et critiques sur la philosophie de Pascal, t. III. Sa critique<br />

de la casuistique et du probabilisme moral, Neuchâtel, 1947.<br />

8 Su ciò cfr. l’autorevole e convincente tesi espressa da Jean Mesnard, Pascal. L’homme et<br />

l’œuvre, Paris, Bovin & C le , 1951, pp. 95-6.


Etica e politica nelle «Provinciali» 87<br />

I nostri autori vi risponderanno su questo meglio di me – disse –. Ecco come ne<br />

parlano tutti in generale, e fra gli altri i nostri Ventiquattro nei Principî, esame<br />

III, n. 8: Un’opinione si dice probabile, quando è fondata su ragioni di qualche rilevanza.<br />

Ne deriva talvolta che un solo dottore molto autorevole può rendere<br />

un’opinione probabile. Ed eccone il motivo nel medesimo punto: Infatti una<br />

persona dedita particolarmente allo studio, non aderirebbe a un’opinione, se non vi<br />

fosse attratta da una ragione buona e sufficiente 9 .<br />

Basta, dunque, «un seul docteur fort grave» per rendere un’opinione<br />

probabile. Anche a costo di ignorare, travisare o contrastare il messaggio<br />

evangelico o la dottrina dei Padri della Chiesa? Sicuramente sì, perché nel<br />

tempio del probabilismo c’è posto per qualunque dio. E possiamo sempre<br />

confortarci con quello che disse il celebre casuista siciliano Antonio<br />

Diana: Saepe, premente Deo, fert Deus alter opem. Se qualche Dio ci opprime,<br />

un altro ci libera 10 .<br />

Alla confusione morale del probabilismo lassista Pascal ha ben ragione<br />

di controbattere: «Io non mi contento del probabile […] io cerco il sicuro»<br />

11 . Insomma, nel dubbio morale, il Clermontese non si accontenta<br />

del probabile. E ovviamente non si accontenta della spiegazione che, con<br />

finta innocenza, gli fornisce il gesuita, citando Tommaso Sanchez:<br />

Opinione probabile è quella che ha un fondamento considerevole. Ora, l’autorità di<br />

una persona sapiente e devota è non poco considerevole, ma piuttosto molto. Infatti,<br />

ascoltate bene questa ragione, se la testimonianza di una tal persona è di gran peso<br />

nel garantirci che una certa cosa è accaduta per esempio a Roma, perché non lo<br />

sarà ugualmente in un dubbio di morale? 12<br />

Come si può notare, il paragone del gesuita Sanchez è molto affascinante,<br />

ma sicuramente micidiale per la morale: invero, una cosa è il fatto,<br />

l’avvenimento; ben altra cosa è invece il principio etico. O meglio: una cosa<br />

è l’essere; ben altra cosa il dover essere. Sicché ha ben ragione Pascal di<br />

evidenziare che, con quel paragone, si confrontano illecitamente «le cose<br />

del mondo e quelle della coscienza» 13 .<br />

19 Quinta lettera, p. 101.<br />

10 Ivi, p. 107. La frase latina riportata è di Ovidio, Tristia, 1. 2. 4.<br />

11 Quinta lettera, p. 101.<br />

12 Ivi, p. 103.<br />

13 Ivi.


88 Giuseppe Pezzino<br />

Nel primo caso, «che una certa cosa è accaduta per esempio a Roma»,<br />

prevale l’esteriorità di un’oggettività che potrebbe essere storica o scientifica;<br />

nel secondo, quando si tratta di «dubbio di morale», prevale l’interiorità<br />

della coscienza morale e del suo principio etico. O meglio: il ruolo della<br />

testimonianza, della verifica e della prova, negli affari del mondo, è qualcosa<br />

che perde ogni valore negli affari di coscienza, nei problemi morali.<br />

Per i casi di coscienza, la Chiesa cristiana, sin dal suo nascere, aveva<br />

dovuto affrontare il contrasto – in verità, mai acuto – fra la morale evangelica,<br />

tutta interiore e tutta incentrata su una coscienza rinnovata e riscattata<br />

dai valori terreni, e la morale legalistica in gran parte ereditata da<br />

una certa tradizione legalistica ebraica. Da <strong>qui</strong> i dibattiti nella Patristica e<br />

nella scolastica sulla «derogabilità» delle leggi divine, e i conseguenti tentativi<br />

di distinguere una <strong>vita</strong> morale «perfetta» da un’altra «imperfetta», o<br />

di collocare i «precetti» accanto ai ben più lievi «consigli».<br />

Indubbiamente il dibattito non restò mai esclusivamente teorico. Ma<br />

fu soprattutto con i bisogni pratici della confessione che sorsero, già nei<br />

secoli XIV e XV, le Summulae casuum conscientiae. Da <strong>qui</strong> il fiorire della<br />

casistica e dei relativi trattati, che rappresentano una sorta di giurisprudenza<br />

nell’ambito del legalismo morale e religioso. In breve, come la giurisprudenza<br />

scende al caso particolare e concreto rispetto alla norma generale<br />

del diritto, così la casistica affronta i particolari casi concreti della<br />

coscienza rispetto alla legge morale e religiosa.<br />

Pur risultando alquanto rigida e schematica, quell’abbondante fioritura<br />

della casistica ebbe certamente il pregio di non mortificare né trascurare<br />

il momento della situazione storicamente determinata e concreta, in<br />

cui bisogna calare l’astratta legge generale che, proprio perché generale,<br />

non è in grado di abbracciare e contemplare la totalità dei mille e mille<br />

possibili e sempre nuovi casi di coscienza innestati in una sempre nuova<br />

situazione storica. Ma, quando il legalismo della casistica si mescolerà con<br />

il probabilismo e con il lassismo, a quella fioritura subentrerà un copiosissimo<br />

raccolto di frutti moralmente marci e velenosi.<br />

È dunque innegabile che la casistica sia sempre esistita, proprio perché<br />

risponde ad un bisogno ineliminabile dell’attività pratica, la quale richiede<br />

la formazione di schemi concettuali che aiutino ad orientarsi nella<br />

selva dei problemi da risolvere e delle decisioni da assumere. A questo bi-


Etica e politica nelle «Provinciali» 89<br />

sogno della prassi la mente umana risponde foggiando massime, regole,<br />

precetti, che altro non sono che schemi astratti ma utilissimi, perché forniscono<br />

appoggio e orientamento per l’azione. Ma, se è vero che la casistica<br />

rappresenta un utilissimo strumento che fornisce consigli, richiami e<br />

illuminanti ausili a chi si trova nella necessità di deliberare quel che è moralmente<br />

doveroso fare; è altrettanto vero, però, che la casistica non può e<br />

non deve innalzare quei precetti e quelle massime al livello della universalità<br />

e della necessità, ossia al livello di norme morali assolute che debbano<br />

valere come paradigmi e dell’azione morale e della valutazione morale. Se<br />

ciò accadesse, la casistica incorrerebbe in gravi errori logici e in gravissimi<br />

distorcimenti pratici della morale.<br />

D’altronde, l’applicazione della casistica alla morale sorge dal legalismo<br />

etico, cioè da quella mentalità legalistica che, trascurando il carattere<br />

astratto, generale e di mero aiuto pratico che possiedono tutte le leggi,<br />

concepisce erroneamente tali leggi come princìpi universali della morale.<br />

In altri termini, il legalismo etico di qualsiasi colore non s’accorge che le<br />

leggi del Decalogo, del Codice, del Corpus iuris, etc., per quanto ampie e<br />

particolareggiate possano essere concepite, non esauriranno mai l’infinito<br />

numero di azioni che si vanno a realizzare nelle infinite e infinitamente<br />

varie situazioni particolari e concrete.<br />

Si suol dire che ogni legge aut iubet aut vetat; e ciò significa che ogni<br />

legge è un atto di volontà e in forma affermativa e in forma negativa. Ma,<br />

essa è un atto di volontà che ha per oggetto non già un contenuto particolare<br />

e concreto in una particolare situazione di fatto, bensì una classe o<br />

serie di azioni che, in quanto classe o serie, aiuta bensì ad orientarsi, ma<br />

resta nella generalità e non può mai prestabilire o dettare la determinata e<br />

singola azione che l’individuo morale dovrà realizzare in una determinata<br />

situazione di fatto. In breve, chi esprime concretamente una volontà non<br />

è la legge astratta e generale, bensì l’individuo che afferma una singola<br />

volizione morale, a volte rispettando a volte trasgredendo le leggi, ma<br />

sempre obbedendo all’imperativo morale che sgorga dal principio etico,<br />

che è legge universale e formale.<br />

Bisogna inoltre osservare che dal legalismo etico non deriva soltanto<br />

una certa maniera distorta di fare casistica, ma anche l’altra mala pianta<br />

della morale: ossia il permissivismo. Invero, ogni legge, proprio perché


90 Giuseppe Pezzino<br />

comanda o vieta una classe di azioni in generale, reca con sé ine<strong>vita</strong>bilmente<br />

il concetto di legalmente indifferente, la facoltà di fare o non fare,<br />

il lecito, il permissivo. Ma, quando dal legalmente indifferente si passa per<br />

errore al moralmente indifferente, allora si dà un colpo mortale all’intero<br />

corpo dell’etica. Infatti, il concetto di “moralmente indifferente” non solo<br />

è contraddittorio, giacché è inconcepibile un imperativo morale, assoluto<br />

e incondizionato, che lascia spazi all’indifferente e al permissivo; ma<br />

è anche fonte di storture morali, giacché ingenera nelle coscienze la fallace<br />

idea che la legge morale sia qualcosa di astratto, il cui contenuto si<br />

possa arbitrariamente adattare, modificare, e il cui comando si possa in<br />

certi casi ignorare 14 .<br />

In una prospettiva permissivistica si muove, nella Sesta Lettera, il padre<br />

gesuita che candidamente si ispira a Escobar, per individuare tutto<br />

quello che è «permesso ed indifferente» nel caso in cui delle persone di<br />

coscienza siano costrette a «servire padroni dissoluti»:<br />

Abbiamo tenuto conto nei loro riguardi della sofferenza che provano, quando<br />

sono persone coscienziose, a servire padroni dissoluti. Poiché, se non eseguono<br />

tutte le missioni di cui li incaricano, perdono la loro posizione; e se obbediscono<br />

hanno del rimorso. È per confortarli che i nostri Ventiquattro padri a p. 770<br />

hanno indicato i servigi che possono prestare in coscienza sicura. Eccone qualcuno:<br />

Portare lettere e regali, aprire le porte e le finestre, aiutare i padroni a salire<br />

alla finestra, tenere la scala durante la salita: tutto questo e permesso e indifferente 15 .<br />

In quest’ultimo caso, appare chiaro che nel fenomeno del permissivismo<br />

etico si annida l’arbitrarismo morale. In effetti, se l’individuo si abbandona<br />

totalmente al legalismo etico, e <strong>qui</strong>ndi s’illude di avere nelle leggi<br />

la ricetta e la guida per tutte le decisioni, quando nel vivo dell’azione si<br />

troverà abbandonato dalle leggi, allora si affiderà alla guida del proprio<br />

arbitrio. L’arbitrio, purtroppo, non è guida, ma assenza di guida; e nell’etica<br />

esso non è azione morale, ma caos morale.<br />

Gesuiti o non gesuiti, i lassisti possono ad libitum ampliare o restringere<br />

il campo del moralmente indifferente, evidenziando i dubbi e l’impotenza<br />

delle leggi quando vengono scambiate per princìpi morali uni-<br />

14 Cfr. P. Serini, Pascal, Torino, Einaudi, 1942, pp. 182-3.<br />

15 Sesta lettera, p. 133.


versali. A questo punto, non potendo trovare una sicura guida morale<br />

nelle leggi, sono costretti a riporla nell’autorità degli interpreti della legge.<br />

E poiché due o cento autorità, quando sono incerte o contrastanti,<br />

non valgono più di una parimenti incerta, alla fine per i lassisti può bastare<br />

un’autorità qualsiasi per giustificare moralmente un’azione.<br />

Così il probabilismo si manifesta come logica conseguenza di alcune<br />

illogiche premesse insite nel legalismo etico: una volta ridotto il problema<br />

morale al probabilismo delle autorità, perché privilegiare, nell’incertezza<br />

delle leggi, l’autorità di Paolo o di Agostino rispetto a quella di Escobar?<br />

Perché un prete, che si trovi in peccato mortale nello stesso giorno in cui<br />

deve dire messa, deve seguire il Villalobos, che lo vieta, e non il Sànchez,<br />

che lo permette? Indubbiamente, se quel prete prende posizione alla cieca<br />

fra Villalobos e Sànchez, egli cade nell’arbitrio. Del resto, legalismo etico,<br />

probabilismo ed arbitrio sono indissolubili. Sicché ha ben ragione Pascal<br />

nel denunciare le nefaste conseguenze della “politica” del probabilismo in<br />

campo morale:<br />

Infatti, cari padri, una delle più sottili scaltrezze della vostra politica è ancora<br />

quella di separare nei vostri scritti le massime che riunite nei vostri pareri. È così<br />

che avete fissato a parte la vostra dottrina delle probabilità, che ho ripetutamente<br />

spiegato. E una volta stabilito questo principio generale, presentate separatamente<br />

delle cose che in sé possono essere innocenti, ma divengono orribili<br />

quando sono connesse a questo principio deleterio. Ne darò per esempio ciò che<br />

avete detto a p. 11 nelle vostre Imposture, e a cui devo rispondere: Che molti<br />

teologi celebri sono del parere che si può uccidere per uno schiaffo ricevuto. È certo,<br />

padri, che se l’avesse detto una persona che non segue la probabilità, non ci sarebbe<br />

nulla a ridire, poiché non sarebbe che riferire semplicemente, senza alcuna<br />

conseguenza. Ma voi, padri, e tutti coloro che seguono questa dannosa dottrina<br />

che tutto ciò che approvano autori celebri è probabile e sicuro in coscienza, quando<br />

a ciò aggiungete che molti autori celebri sono del parere che si può uccidere per uno<br />

schiaffo, che altro fate, se non mettere in mano a tutti i cristiani il pugnale per<br />

uccidere coloro che li avranno offesi, chiarendo loro che possono farlo in sicurezza<br />

di coscienza, poiché in ciò seguiranno il parere di tanti autori autorevoli?<br />

Che orrendo linguaggio, che, mentre dice che alcuni autori hanno un’opinione<br />

condannabile, è nel medesimo tempo una decisione a favore di questa opinione<br />

condannabile, e autorizza in coscienza tutto ciò che semplicemente riferisce! 16 .<br />

16 Tredicesima lettera, p. 337.<br />

Etica e politica nelle «Provinciali» 91


92 Giuseppe Pezzino<br />

Oltre al probabilismo, il secondo pilastro su cui poggia il lassismo è il<br />

metodo di dirigere l’intenzione. Metodo che, separando l’intenzione dall’azione,<br />

pretende di purificare l’intenzione di un individuo che ha commesso<br />

un’azione immorale:<br />

Andate sempre da un estremo all’altro – rispose il padre; – correggetevi da questo<br />

difetto. Infatti, per dimostrarvi che non permettiamo tutto, sappiate che,<br />

per esempio non ammettiamo mai che si abbia l’intenzione formale di peccare,<br />

col solo intento di peccare; e che di chiunque si ostina a limitare il suo proposito<br />

nel compiere il male solo per il male, noi non ne vogliamo sapere; è un atto<br />

diabolico, ed ecco che non vi sono eccezioni di età, di sesso o di rango. Ma<br />

quando non si è in questa malaugurata disposizione, allora cerchiamo di mettere<br />

in pratica il nostro metodo di dirigere l’intenzione, consistente nel proporsi<br />

per fine delle proprie azioni un oggetto lecito. Non che, per quanto possiamo,<br />

non cerchiamo di distogliere la gente dalle cose proibite; ma quando non possiamo<br />

impedire l’azione, purifichiamo perlomeno l’intenzione; e così correggiamo<br />

il difetto del mezzo con la purezza del fine 17 .<br />

Come si può ben notare, nell’immoralissima direzione dell’intenzione<br />

non si pratica soltanto la separazione fra l’intenzione e l’azione, ma addirittura<br />

si separa ulteriormente l’atto volitivo. In breve, si separa un tipo di<br />

atto volitivo, ben reale e legato alla situazione concreta, che si chiama<br />

“volontà”, da un altro tipo di atto volitivo, solamente pensato o immaginato,<br />

che si chiama “intenzione”. Con questa sorta di specchio deformante,<br />

in cui a volte l’intenzione è buona e la volontà cattiva, e viceversa,<br />

ogni misfatto può essere purificato con una frode morale. In verità, la<br />

morale non solo non ammette la separazione della volontà dall’intenzione,<br />

ma addirittura non separa mai l’azione dalla volontà.<br />

Beninteso, nessuno mette in dubbio che una legge, se considerata iniqua,<br />

dev’essere combattuta apertamente. Ma ciò non vale per la legge morale:<br />

insomma, non si può ammettere un’etica che teorizzi la frode della<br />

legge morale, anche perché avremmo la contraddizione di una morale immorale,<br />

che realizza artificiosamente la frode contro la coscienza morale.<br />

Da <strong>qui</strong> sorge quell’antipatia e quel sospetto verso certi uomini che si<br />

presentano di buon cuore e di buone intenzioni, ma impotenti a fare il<br />

17 Settima lettera, pp. 143-5.


Etica e politica nelle «Provinciali» 93<br />

bene e dediti a praticare il male. Un sospetto ben fondato, perché in realtà<br />

quegli uomini non hanno né buon cuore né buone intenzioni, e soprattutto<br />

sono dei veri ipocriti.<br />

Bisogna aggiungere però che la direzione dell’intenzione non sorge<br />

soltanto dal legalismo etico. Più precisamente occorre dire che, nel denunciare<br />

la morale gesuitica come teoria che ammette la possibilità, razionale<br />

e volontaria, di frodare la legge morale, Pascal comprende lucidamente<br />

che l’immoralissima direzione dell’intenzione nasce dal connubio<br />

fra il legalismo etico e l’utilitarismo teologico. In altri termini, la frode<br />

morale della direzione dell’intenzione nasce anche dalla concezione che la<br />

legge debba essere rispettata non per intrinseca adesione morale, ma per il<br />

timore di una punizione o per la speranza di un premio nell’aldilà.<br />

Su questa mostruosità morale, è utile riportare un significativo brano<br />

di Benedetto Croce:<br />

Tra l’uomo e Dio legislatore c’è lotta sorda: lotta tra un debole e un prepotente,<br />

nella quale la forza del debole è riposta nell’ingegnosità, la sua tattica nella frode.<br />

Di <strong>qui</strong> il concetto dominante della morale gesuitica: guadagnare quanto si<br />

può sulle leggi morali o divine, fare il meno possibile di quel che esse comandano;<br />

e, chiamati a rendere conto della propria azione al tribunale della confessione<br />

o nel giudizio universale, sottilizzare sulla legge interpretandola in modo che<br />

ciò che si è fatto risulti appartenere al campo del lecito e del permissivo. Dio<br />

vieta all’uomo di ammazzare l’uomo; ma intende vietare ciò, anche quando il<br />

motivo dell’uccisione sia la gloria stessa di Dio? Senza dubbio, no; onde sarà lecito<br />

al gesuita ammazzare o far ammazzare l’avversario giansenista, il quale, scoprendo<br />

le magagne della santa Compagnia che è esercito di Dio sulla terra, danneggia<br />

gl’interessi divini: quell’uccisione è, non solo lecita, ma doverosa 18 .<br />

In effetti, nelle Provinciali si riafferma una coscienza morale più pura e<br />

più cristiana contro le assurde e scandalose conseguenze a cui spesso perviene<br />

il probabilismo. Da <strong>qui</strong> l’implacabile critica di Pascal contro una morale<br />

lassista gesuitica, la quale si rivela completamente pagana e farisaica:<br />

Vedrete le virtù cristiane così sconosciute e così spogliate della carità che ne è<br />

l’anima e la <strong>vita</strong>; vi vedrete tanti delitti medicati e tante depravazioni tollerate,<br />

che non troverete più strano ch’essi sostengano che tutti gli uomini hanno sem-<br />

18 B. Croce, Filosofia della pratica. Economica ed Etica, Napoli, Bibliopolis, 1996, pp. 352-3.


94 Giuseppe Pezzino<br />

pre abbastanza grazia per vivere devotamente nella maniera con cui l’intendono<br />

loro. Essendo la loro morale del tutto pagana, la natura basta per osservarla.<br />

Quando noi sosteniamo la necessità della grazia efficace, le diamo altre virtù per<br />

oggetto. Non è semplicemente per guarire i vizi con altri vizi; non è soltanto<br />

per far praticare agli uomini i doveri esteriori della religione: è per una virtù più<br />

alta di quella dei farisei e dei maggiori saggi del paganesimo. La legge e la ragione<br />

sono grazie sufficienti per questi effetti. Ma per liberare l’anima dall’amore<br />

del mondo, per ritrarla da ciò che essa ha di più caro, per farla morire a se stessa,<br />

per portarla e affezionarla unicamente ed invariabilmente a Dio, non c’è che<br />

l’opera di una mano onnipotente. Ed è tanto poco ragionevole pretendere che<br />

se ne ha sempre un pieno potere, quanto lo sarebbe il negare che queste virtù<br />

prive dell’amore di Dio, confuse da questi bravi padri con le virtù cristiane, non<br />

sono in nostro potere 19 .<br />

Gravissima è l’accusa di paganesimo e di fariseismo che Pascal lancia<br />

contro il lassismo etico della Compagnia di Gesù. Gravissima accusa, e<br />

perché va al cuore del probabilismo lassista, e perché mette a nudo nel<br />

giardino del gesuitismo alcune radici teologico-morali poco o punto cristiane,<br />

e perché, infine, osa muovere guerra alla più potente istituzione all’interno<br />

della Chiesa cattolico-tridentina.<br />

Tutto questo ci può aiutare a capire quella certa distante freddezza, se<br />

non proprio ostilità antipascaliana e antigiansenista, che in determinati<br />

momenti storici affiorerà fra gli intellettuali laici e anche fra quelli cattolici.<br />

Senza dubbio, la Chiesa che esce dal Concilio di Trento, e che porta le<br />

dolorose mutilazioni della Riforma protestante, vive nel terrore di nuove<br />

fratture e di nuove separazioni che il piccolo ma pericoloso sisma giansenista<br />

potrebbe procurare. D’altronde, l’ipotesi di una disfatta della Compagnia<br />

è certamente in<strong>qui</strong>etante per una Chiesa che ha ripreso vigoria e<br />

ha rinsaldato i legami con le diverse realtà socio-politiche, grazie soprattutto<br />

ai seguaci di S. Ignazio. Infine, non bisogna trascurare che la Chiesa<br />

di Pietro, pur guardando al cielo, da millenni solca il procelloso mare della<br />

storia e del mondo, mantenendo una rotta che, con prudenza politica,<br />

e<strong>vita</strong> gli scogli degli estremismi e predilige le linee intermedie.<br />

D’altra parte, una certa intelligencija laica, pur avendo spesso giudicato<br />

il fenomeno religioso con la semplicistica categoria della “impostura” o<br />

19 Quinta lettera, pp. 93-5.


del “prete impostore”, ha però trattato con una certa indulgenza gli indulgenti<br />

gesuiti, mentre ha guardato con sufficienza e irridente diffidenza<br />

all’«ipocondriaco» Pascal e ai giansenisti, perché essi odorano di ascetismo,<br />

di astratto rigorismo morale, di disprezzo per i valori del mondo e,<br />

ancor peggio, di disprezzo per i valori del mondo moderno. Sicché, secondo<br />

certi schemi, la modernità e l’avvenire<br />

avanzano sul cocchio della Riforma protestante,<br />

mentre nelle chiese della Controriforma<br />

giacciono le carcasse del passato e del<br />

conservatorismo. Se poi gli schemi vengono<br />

trasferiti all’interno della Chiesa tridentina<br />

del Seicento, allora la modernità galoppa a<br />

spron battuto sul destriero della Compagnia<br />

di Gesù, mentre il vecchiume medievale impazza<br />

fra i giansenisti. Ma, – si potrebbe osservare<br />

– qualcuno disse che i giansenisti non<br />

sono altro che i cugini dei calvinisti, e <strong>qui</strong>ndi<br />

anche i giansenisti hanno un qualche merito<br />

nella nascita della coscienza moderna. No,<br />

non ce l’hanno; perché i giansenisti, pur essendo<br />

cugini dei calvinisti, sono malaugura-<br />

Etica e politica nelle «Provinciali» 95<br />

Ignazio di Loyola<br />

tamente dei pervicaci antigesuiti, e <strong>qui</strong>ndi degli irredimibili antimoderni.<br />

Di fronte alle Provinciali, quella certa intelligencija ha dovuto cavar<br />

fuori a denti stretti un bel riconoscimento per il valore letterario del capolavoro<br />

pascaliano, ma, ricomponendosi e dominandosi subito dopo, ha<br />

profuso una serie di riserve e di critiche nei confronti di un’opera troppo<br />

vicina ai giansenisti: uomini, costoro, che sono da condannare, perché<br />

rappresentano la <strong>qui</strong>ntessenza degli intellettuali schematici, dottrinari isolati<br />

dalla società e dai potenti, estremisti affetti da infantilismo politico, e<br />

perciò in guerra con i gesuiti, i quali risultano invece più vicini e più affiatati<br />

ad una certa modernità, per la loro flessibilità morale, per la loro<br />

spregiudicatezza politica, per quel loro dolce gusto della <strong>vita</strong> e per quella<br />

loro indulgente visione della natura umana, che offre il Paradiso a distanza<br />

ravvicinata e alla portata di tutti coloro che hanno un pizzico di savoir<br />

vivre al cospetto di Dio e nei riguardi degli uomini.


96 Giuseppe Pezzino<br />

In secondo luogo, nella condanna pascaliana permane sempre viva la<br />

distinzione fra il primitivo spirito della Compagnia di Gesù e la degenerazione<br />

dell’etica fra alcuni eredi di Ignazio di Loyola. Nella Tredicesima Lettera,<br />

al culmine di un passaggio che ha il sapore dell’invettiva contro il «la<br />

mescolanza confusa di ogni genere d’opinioni» a cui si riduce il probabilismo<br />

dei Reverendi Padri, Pascal porta a compimento una triplice azione:<br />

1) esclude dalla sua critica il «premier esprit» del gesuitismo, parlando con<br />

rispetto e positivo apprezzamento di Ignazio e dei primi Padri Generali; 2)<br />

passa al contrattacco, denunciando il tradimento dei Révérends Pères nei<br />

confronti del fondatore della Compagnia; 3) riafferma la centralità della<br />

questione morale, sottolineando che Ignazio e i primi Padri Generali avevano<br />

previsto che il traviamento della dottrina gesuitica, in campo morale,<br />

sarebbe stato funesto non solo per la Compagnia, ma anche per la Chiesa.<br />

È dunque questa varietà – afferma Pascal – che vi svergogna ancora di più.<br />

L’uniformità sarebbe più sopportabile, e non vi è nulla di più contrario agli ordini<br />

precisi di sant’Ignazio e dei vostri primi generali, di questa mescolanza<br />

confusa di ogni genere d’opinioni. Ve ne parlerò un giorno, forse, miei padri: e<br />

si resterà sorpresi al vedere quanto siete decaduti dallo spirito primitivo del vostro<br />

Ordine, e come i vostri stessi generali previdero che il pervertimento della<br />

vostra dottrina nella morale potrebbe essere funesto non solo alla vostra Società<br />

ma anche alla Chiesa universale 20 .<br />

In terzo luogo, per non essere poco giusti e poco corretti verso Pascal,<br />

bisogna tener presente che la filosofia morale pascaliana è saldamente fondata<br />

sulla religione cristiana. In altri termini, il principio morale pascaliano<br />

percorre un asse verticale – cielo/terra; sovrannaturale/naturale – che da<br />

un canto rispetta e rispecchia la stessa teoria pascaliana dei tre ordini (ordine<br />

naturale della carne; ordine naturale della mente; ordine sovrannaturale<br />

della carità), e, dall’altro, s’incentra sulla vastissima tematica ebraico-cristiana<br />

dell’umanità corrotta dal peccato originale; della nuova umanità riscattata,<br />

liberata e salvata dal peccato e dalla morte, non per mano umana,<br />

bensì per opera di Gesù Cristo, il Dio incarnato, il Dio d’amore che, Christus<br />

patiens, s’immola sulla croce per cancellare i peccata mundi, e che poi,<br />

Christus triumphans, vince la morte, risorge e glorioso ascende al cielo.<br />

20 Tredicesima lettera, pp. 339-41.


Etica e politica nelle «Provinciali» 97<br />

In questa cornice etico-religiosa, profondamente solcata da motivi<br />

evangelici, paolini e agostiniani, la morale gesuitica non può non apparire<br />

agli occhi di Pascal come una morale «toute païenne». Infatti, quella morale<br />

che risolve i problemi e assolve le coscienze, restando prevalentemente<br />

sul piano umano e naturale, è una morale che s’accosta alla saggezza<br />

pagana e s’allontana dall’etica cristiana, perché vanifica la Croce.<br />

Umana, troppo umana risulta al vaglio di una vigorosa coscienza cristiana<br />

quella morale che, a costo di frodare Dio e le coscienze, mira ad accontentare<br />

indistintamente tutti gli uomini: santi e peccatori incalliti;<br />

anime tormentate dalla ricerca del Bene e anime perdute, che sguazzano<br />

nel male con la certezza di avere a buon mercato il paradiso in terra e poi<br />

in cielo. Pagana appare, agli occhi del moralista cristiano, quell’etica che<br />

spegne il bisogno di trascendere i valori del corpo, del mondo, del transeunte<br />

e del particolare egoistico. Diabolica appare quella morale che, pur<br />

definendosi “cristiana”, attenua o elimina il bisogno del divino, del sovrannaturale,<br />

per combattere i peccati e i vizi; e di fatto resta gioiosamente<br />

sdraiata sul piano umano, naturale, mondano, «simplement pour guérir<br />

les vices par d’autres vices». Farisaica appare, agli occhi di chi s’ispira<br />

alla purezza dell’interiorità evangelica, quella morale che inventa ed offre<br />

soltanto doveri comodi e piacevoli, i quali si riducono a vuote pratiche<br />

esteriori di una religione che tradisce l’amore per Dio, appiattendosi tutta<br />

sull’amore del moi e del mondo.<br />

Beninteso, <strong>qui</strong> non si vuol negare il ruolo dei gesuiti nell’aver riconosciuto<br />

il valore della politica e la realtà ineliminabile di alcune necessità<br />

della <strong>vita</strong> umana, in una Chiesa che, dopo il Concilio di Trento, studiava<br />

e realizzava alcune transazioni con umani bisogni che né poteva estirpare<br />

né lasciare liberi e sfrenati. Ma questi meriti politici della Compagnia<br />

non possono oscurare la superiorità morale di Pascal su qualunque principe<br />

della casistica.<br />

Se la filosofia morale moderna guarda a Kant come al più alto punto<br />

di riferimento, allora bisogna dire con Benedetto Croce che il cristiano<br />

Pascal ha contribuito in modo rilevante alla formazione di quell’idea morale<br />

austera, moderna e concreta che si ritroverà in Kant:<br />

Come dell’austera concezione etica kantiana, e del suo aborrimento pel materiale<br />

e pel mondano, la sorgente è nel Cristianesimo (e nel platonismo), così an-


98 Giuseppe Pezzino<br />

che l’origine della sua idea morale concreta è da ricercare in sant’Agostino, anzi<br />

in san Paolo, nei mistici del medioevo, nei grandi cristiani francesi del Seicento,<br />

in quella virtù, di cui il Pascal scriveva che è “plus haute que celle des pharisiens<br />

et des plus sages du paganisme”, e che sola rende possibile di “dégager l’âme de<br />

l’amour du monde, la retirer de ce qu’elle a de plus cher, la faire mourir à soi<br />

même, la porter et l’attacher uniquement et invariablement à Dieu” 21 .<br />

Di fronte ad un artificioso ed esteriore sistema di doveri e di valutazioni,<br />

dove la lettera uccide lo spirito, spicca il severo concetto pascaliano<br />

di una morale come continua sublimazione interiore dell’ideale etico cristiano.<br />

Di fronte ad un permissivismo lassista ed arbitrario, Pascal esalta<br />

l’idea agostiniana e giansenistica della charitas come principio di moralità<br />

e di libertà, da intendere correttamente non come libero arbitrio indifferente<br />

e passivo, ma come pienezza di prassi morale, che attinge vigore e<br />

fiducia dall’esperienza della grazia.<br />

Al centro della morale pascaliana, come motivo dominante e ricorrente,<br />

sta l’intimità della coscienza, il cœur cristianamente rinnovato e potenziato<br />

dall’amore di Dio. Solo al cœur, infatti, chiede ispirazione l’uomo<br />

morale nel decidere cosa si debba fare in una determinata situazione;<br />

e solamente al cœur, e non al trattato di casistica, deve guardare il confessore,<br />

perché al cœur guarda e parla Dio.<br />

Senza dubbio, come tutti i cristiani, Pascal vive nell’ineliminabile<br />

dualismo di legalismo etico e di morale evangelica, di legge divina e di intimità<br />

della coscienza. Ma la legge, mediante il concetto dell’inspiration<br />

interiore e dell’autonomia della vocation individuale, viene da Pascal talmente<br />

interiorizzata nella coscienza morale che il principio etico pascaliano<br />

sembra trasferito dall’oggettività della legge alla soggettività del cœur.<br />

In conclusione, nell’accostarci alle Provinciales avvertiamo chiaramente<br />

un severo e gagliardo e sincero sentimento dell’interiorità dei valori etico-religiosi,<br />

che non solo libera l’etica da certe bardature legalistiche, ma<br />

addirittura fa sì quest’opera pascaliana debba essere considerata, più che<br />

«une erreur de génie» 22 , un ac<strong>qui</strong>sto imperituro per la civiltà moderna ed<br />

una delle più alte espressioni della coscienza morale e religiosa.<br />

21 B. Croce, Filosofia della pratica, cit., p. 310.<br />

22 V. Giraud, La vie héroique de B. Pascal, Paris, 1923, p. 153.


Antonio Giovanni Pesce<br />

La forte fede del pensiero debole<br />

Il testo riproduce le relazioni tenute<br />

dai due autori alla LUISS nell’ottobre<br />

del 2007, precedute da un’introduzione<br />

di Corrado Ocone, secondo il quale<br />

‹‹quello tra Gianni Vattimo e Dario Antiseri<br />

è un incontro-scontro […] che a<br />

noi sembra adempiere perfettamente alla<br />

chiarificazione di idee che agitano su tematiche<br />

“essenziali” i nostri giorni – una<br />

chiarificazione che è il<br />

presupposto imprescindibile<br />

per operare con<br />

discernimento etico, cioè<br />

in modo responsabile,<br />

nella società››. E infatti,<br />

già dai titoli dati agli interventi<br />

– Una bioetica<br />

post-moderna, quello di<br />

Vattimo; Pensiero debole,<br />

ragione filosofica e spazio<br />

della fede, quello di Antiseri<br />

– si intuisce che in<br />

ballo c’è la riflessione intorno<br />

a questioni troppo<br />

spesso urlate dai giornali e oggetto di<br />

contrapposizioni standardizzate dall’ideologia,<br />

ma che vengono riprese in<br />

questo ‹‹incontro-scontro›› per essere riconsegnati<br />

all’auditore arricchite dalla<br />

complessità più del metodo che non del<br />

risultato.<br />

Una bioetica post-metafisica, dunque.<br />

Ma perché proprio post-metafisica?<br />

Con uno stile che risente della natura<br />

99<br />

collo<strong>qui</strong>ale dell’incontro, Vattimo afferma<br />

di avercela ‹‹a morte con la metafisica››,<br />

come del resto Heidegger, definito<br />

dal filosofo torinese un suo ‹‹grande<br />

maestro››. È stato proprio Heidegger a<br />

compiere il grande capovolgimento di<br />

prospettiva, pensando l’essere come<br />

evento in opere quali Contributi alla filosofia.<br />

Dall’evento: ‹‹Se l’essere è evento<br />

– dice Vattimo – ciò che<br />

ascoltiamo per capire come<br />

vivere al mondo sono<br />

gli eventi, cioè l’essere<br />

nella sua datità, nel suo<br />

darsi di volta in volta diverso<br />

nelle epoche, nei<br />

paradigmi, nelle aperture<br />

storiche››. Dunque, un<br />

essere che si dà, e che si<br />

dà di volta in volta, nelle<br />

varie epoche che si susseguono.<br />

Si capisce come<br />

questo modo di intendere<br />

l’essere sia ben diverso,<br />

per esempio, dalla metafisica di Platone<br />

che ‹‹dà luogo alla costruzione di<br />

un ordine sociale determinato››, dal momento<br />

che ‹‹l’essere e l’essenze sono definibili<br />

una volta per tutte››. Ma questa<br />

univoca e definitiva unità non è più<br />

pensabile: ‹‹Se Dio è morto, come afferma<br />

Nietzsche, a morire è soprattutto la<br />

pretesa di pensare una unità della verità››.<br />

La tradizione, allora, è l’orizzonte


100 Spigolature<br />

entro cui si staglia la nostra comprensione<br />

dell’essere, anche se, come dice lo<br />

stesso Vattimo, all’interno di questa<br />

possiamo ‹‹articolare diversi fili conduttori››:<br />

ecco quel che intende l’autore con<br />

l’espressione ‹‹tradizionalisti multiculturali››.<br />

Ora, dal momento che la tradizione<br />

è ‹‹tutto questo insieme di cose››, come<br />

scegliamo la condotta da seguire nel<br />

relazionarci con gli altri? Non certo ‹‹in<br />

base al criterio della verità assoluta››, ma<br />

secondo carità: ‹‹scelgo soprattutto quelle<br />

interpretazioni e quelle soluzioni che<br />

mi permettono di guardare l’altro senza<br />

vergognarmi››.<br />

Questo in soldoni il pensiero debole,<br />

o meglio il pensiero dei deboli – come<br />

viene ribattezzato da Vattimo: un pensiero<br />

speculativo ed etico post-metafisico,<br />

dunque privo di norme, ma non per<br />

questo non normativo, anzi: possiamo<br />

sperimentare una normatività contrattuale,<br />

che nasce proprio dal fatto che<br />

‹‹l’unica verità della verità è questa mia<br />

presentabilità al mio prossimo››. Questa<br />

carità non è un fondamento, tant’è che<br />

non ci dona un mondo univoco: amare<br />

l’altro significa amare la sua anima, cioè<br />

la sua libertà, e quando questo altro vuole<br />

essere eutanasizzato perché ha perso<br />

l’amore per la <strong>vita</strong>, il mio amore per lui<br />

mi deve spingere a farglielo ricon<strong>qui</strong>stare.<br />

Ma, infine, non ho altra scelta che<br />

accettare la sua libertà, la quale nei casi<br />

di eutanasia si può ‹‹intendere anche come<br />

principio del consenso informato da<br />

parte dell’interessato o dei suoi tutori<br />

naturali››.<br />

Questo pensiero, però, così debole<br />

da non essere fondativo, non lo è poi da-<br />

vanti al mistero della fede che cerca di<br />

piegare a sé stesso: ecco l’obiezione che<br />

Antiseri prepara nella sua lunga parte, e<br />

che muove solo dopo aver mostrato, invece,<br />

i meriti del pensiero vattimiano.<br />

Antiseri già nel 1993, con un corposo<br />

saggio dal titolo Le ragioni del pensiero<br />

debole (ed. Borla, 2ª ed. 1995) aveva riconosciuto<br />

a Vattimo il merito di aver<br />

riguadagnato al pensiero occidentale la<br />

contingenza dell’esperienza umana, e<br />

con essa i limiti della ragione umana, la<br />

quale aveva costruito durante il corso<br />

degli ultimi due secoli degli assoluti terrestri,<br />

che avevano emarginato la fede e<br />

tentato addirittura di cancellarla. La critica<br />

della ragione operata da Montaigne,<br />

Pascal e Kant ha aperto nuovi spazi alla<br />

religione, e questa debolezza del pensiero<br />

non è per nulla un focolaio di antireligiosità,<br />

come del resto aveva capito il<br />

vescovo Pierre-Daniel Huet che, nel suo<br />

Trattato sulla debolezza del pensiero, datato<br />

1724, dopo essere stato un fervente<br />

cartesiano, affermava che non la limitata<br />

ragione umana, ma la fede ci dà una conoscenza<br />

certa. Si chiede allora Antiseri:<br />

‹‹Erano nel torto pensatori quali Montaigne,<br />

Charron, Pascal e Huet? Non è il<br />

caso oggi di rifarsi a questa tradizione e<br />

affermare con tutta franchezza e onestà<br />

che la tradizione fondazionalista, nonostante<br />

i suoi meriti, appare in tutta la<br />

sua debolezza, rintanata in “nicchie ecologiche”<br />

protette?››, e cita il Karl Rahner<br />

di Fatica di credere che dà il benservito<br />

alla filosofia e alla teologia neoscolastica,<br />

anche sulla scorta dell’autorità del Concilio<br />

Vaticano II (che lo pensi Rahner è<br />

vero, che lo pensassero i Padri Conciliari


è cosa ben diversa – basti vedere il teologo<br />

più citato nei documenti dell’assise<br />

conciliare per rendersi conto del contrario).<br />

Insomma, la debolezza gnoseologica<br />

porta al crollo delle grandi illusioni, non<br />

già ai fondamenti della fede, che stanno<br />

ben oltre quelli issabili dalla ragione<br />

umana. E appunto per questo, Antiseri<br />

non accetta le modalità di apertura alla<br />

religione del Vattimo di Credere di credere,<br />

soprattutto quelle relative al cattolicesimo.<br />

Vattimo giunge al cattolicesimo<br />

perché è un “essere tradizionale”:<br />

egli è stato gettato <strong>qui</strong>, in questa condizione,<br />

e in questa condizione e in questo<br />

orizzonte egli non può non pensarsi cristiano.<br />

Meglio: non può non pensare<br />

cristianamente. Perché ‹‹esistere vuol dire<br />

stare in rapporto a un mondo: ma tale<br />

rapporto è insieme condizionato e reso<br />

possibile dal fatto che si “dispone” di un<br />

linguaggio […] l’ermeneutica insiste sulla<br />

radicale storicità dei linguaggi››. Ovviamente,<br />

essere cristiano – cattolico –<br />

vuol dire, in questo senso, abbracciare<br />

una civiltà più che una fede; la croce,<br />

ma non il Crocifisso; una visione del<br />

mondo, uno stile di <strong>vita</strong>, ma non già un<br />

altro mondo, un’altra <strong>vita</strong>. Un ateo devoto<br />

– devoto a quel cattolicesimo ridotto<br />

alle dimensioni dell’epoca che viviamo.<br />

Ma – si chiede ancora Antiseri, ed è<br />

forse la critica a cui il noto epistemologo<br />

tiene di più, sicuramente la più profonda<br />

– si può credere a Gesù per il discorso<br />

della Montagna, e non credergli<br />

quando si proclama Figlio di Dio, ed<br />

Egli stesso Dio? Vattimo non vuole accettare<br />

contenuti irrazionali, ma non ve-<br />

Spigolature 101<br />

de che, secondo la ragione, è scandalo<br />

per i Giudei e follia per i pagani questo<br />

Cristo che muore in croce per la redenzione<br />

dei nostri peccati e che, dopo tre<br />

giorni, resuscita promettendo la <strong>vita</strong><br />

eterna? Si può accettare il Vangelo, purgandolo<br />

di quei passi che turbarono le<br />

coscienze già dei primi suoi lettori?<br />

Questo Gesù non è venuto solo a dirci<br />

come vivere, ma a dirci pure che la <strong>vita</strong><br />

ha un senso: Vattimo rifiuta ‹‹l’idea bonhoefferiana<br />

del Dio “tappabuchi”, per la<br />

quale la via della ragione a Dio è la via<br />

dello scacco e del fallimento››, ma Antiseri<br />

commenta che non deve affatto<br />

scandalizzare un ‹‹Dio “tappabuchi”, se<br />

il buco da tappare è il senso della <strong>vita</strong><br />

umana, il senso della sofferenza, della<br />

sofferenza innocente, della sofferenza<br />

dei bambini››. La via che porta a Dio,<br />

per Antiseri, è proprio quella del fallimento:<br />

di vitelli d’oro che si liquefanno<br />

come le ideologie che li avevano forgiati.<br />

Insomma, mentre per Vattimo ‹‹ascoltare<br />

le parole del Vangelo, anche quelle<br />

più paradossali›› non richiede ‹‹il salto e<br />

infine una sorta di accettazione “irrazionale”<br />

dell’autorità››, per Antiseri è proprio<br />

il salto della fede che è necessario:<br />

‹‹un uomo che si proclama figlio di Dio<br />

e Dio egli stesso; un Dio che muore sulla<br />

croce non sono “teoremi razionali”.<br />

Accettare che quel figlio del falegname,<br />

quell’uomo ora appeso sulla croce sia<br />

Dio è solo frutto della fede, esito di una<br />

scelta a parte hominis […] e di un dono,<br />

della grazia, a parte Dei. Il salto e la grazia<br />

restano, dunque, gli ingredienti necessari<br />

della fede. E, <strong>qui</strong>ndi, ancora Pascal;<br />

e ancora Kierkegaard››.


102 Spigolature<br />

Un dialogo che tocca nervi scoperti<br />

della nostra civiltà, e non solo per quanto<br />

riguarda la convivenza di soggetti in<br />

un spazio pubblico, ma anche, e diremmo<br />

soprattutto, per quanto riguarda gli<br />

aspetti più teoretici del discorso affrontato.<br />

Innanzi tutto, la critica delle capacità<br />

fondative della ragione non porta,<br />

di per sé, all’umiltà dell’individuo. Ne è<br />

dimostrazione Vattimo, che pensa minimalisticamente,<br />

tranne quando si tratta<br />

di affrontare il problema del mistero<br />

della fede. Ma c’è da chiedere se sia possibile<br />

pensare, presupporre alle diverse<br />

aperture storiche, un’apertura totale, o<br />

meglio pensare le aperture storiche come<br />

semplici squarci su un velo che copre<br />

all’uomo in quanto uomo – e non<br />

già ai figli della Chiesa innanzi al trono<br />

dell’Altissimo – la visione totale (sincronica)<br />

della verità dell’essere. Forse sì, e<br />

allora Antiseri avrebbe tutte le ragioni di<br />

concordare con Vattimo. Il problema è<br />

la conoscenza che ha l’uomo dell’essere<br />

o non è, piuttosto, l’essere stesso ad essere<br />

problema sempre chiarificantesi nella<br />

storia? Abbiamo ragione di credere che<br />

anche questa domanda non colga nel segno.<br />

E allora chiediamoci, indugiando<br />

sulla metafora, se Antiseri possa mai accettare<br />

che la risposta storica non sia altro<br />

che l’eco della domanda condizionata<br />

ontologicamente dalla propria storicità,<br />

e che oltre questa eco non sia dato alcunché,<br />

o se possa mai accettare che<br />

l’orizzonte non sia il limite dell’occhio<br />

umano collocato in una determinata posizione,<br />

bensì la vista stessa dell’uomo.<br />

Non credo. E allora non con Vattimo,<br />

ma è con Heidegger che vanno fatti i<br />

conti.<br />

Dario Antiseri-Gianni Vattimo, Ragione filosofica<br />

e fede religiosa nell’età postmoderna, Soveria<br />

Mannelli, Rubbettino, 2008, pp. VI-70.


Antonio Caramagno<br />

Bon ton dell’informatica o etica dell’informatica?<br />

Il testo, nato in seno alla cattedra di<br />

Informatica Giuridica della facoltà di<br />

Giurisprudenza dell’Università degli<br />

studi di Milano, ha il merito di essere<br />

uno dei pochi manuali in lingua italiana<br />

di computer ethics. L’autore, Giovanni<br />

Ziccardi, dopo una consistente mole di<br />

opere di informatica giuridica, si cimenta<br />

con la questione etica dell’«information<br />

technology», puntando<br />

alla realizzazione di<br />

un volume rivolto principalmente<br />

agli studenti<br />

di giurisprudenza e informatica,<br />

ma facilmente<br />

fruibile anche dai meno<br />

avvezzi ai termini informatici<br />

o giuridici specialistici.<br />

La definizione di computer<br />

ethics, da cui prende<br />

avvio l’opera, è quella<br />

della Stanford Enciclopedia<br />

of Philosophy che riunisce<br />

le due nozioni di computer ethics<br />

ed information ethics in un’unica voce<br />

definitoria, facente riferimento a «quella<br />

branca dell’etica applicata che studia e<br />

analizza gli impatti sociali ed etici della<br />

Information and Communication Technology»<br />

(p. 7). Se da un canto, sostiene Ziccardi,<br />

la computer ethics si riferisce alle<br />

«applicazioni, da parte di filosofi, di tradizionali<br />

teorie della cultura occidentale<br />

103<br />

quali l’utilitarismo, le idee kantiane e<br />

l’etica della virtù a casi etici che coinvolgono<br />

computer e reti di computer» (p.<br />

7), dall’altro, lo stesso termine è utilizzato<br />

comunemente «per riferirsi ad una<br />

sorta di etica professionale nella quale i<br />

professionisti del computer applicano<br />

codici di etica e standard di good practise<br />

all’interno della loro professione» (p. 7).<br />

Di certo, il lettore attento<br />

comprende presto<br />

di non trovarsi di fronte<br />

ad un testo di etica applicata.<br />

Nonostante l’introduzione<br />

parta da considerazioni<br />

sulla «crisi generalizzata<br />

dei costumi,<br />

soprattutto in ambito sociale<br />

e politico, la decadenza<br />

dei comportamenti<br />

in ogni settore nel quale<br />

opera l’essere umano»<br />

(p. VII), che lasciano<br />

presagire una riflessione<br />

di ampio respiro sul complesso rapporto<br />

tra informatica e comportamenti umani,<br />

il contenuto dell’opera si concentra tuttavia<br />

più sulla deontologia degli addetti<br />

ai lavori che non sugli aspetti etici legati<br />

all’ampio uso delle tecnologie informatiche<br />

nella società moderna.<br />

Non è un caso che tra i primi eroi<br />

che si incontrano nel libro appaiano<br />

Norbert Wiener, matematico, padre del-


104 Spigolature<br />

la cibernetica, ritenuto anche il precursore<br />

della computer ethics, e Nicholas<br />

Negroponte, informatico, tra i più audaci<br />

pensatori della rivoluzione digitale,<br />

la cui idea rivoluzionaria richiama direttamente<br />

alcuni princìpi fondamentali<br />

«della controcultura degli anni Sessanta,<br />

quali la decentralizzazione, la scomparsa<br />

del concetto di Autorità, l’armonia globale,<br />

l’eguaglianza dei cittadini, la volontà<br />

di una società nuova» (p. 2).<br />

Da Norbert Wiener ad oggi la storia<br />

della rivoluzione informatica non è stata<br />

caratterizzata da unanime consenso. Ziccardi<br />

ricorda come la considerazione di<br />

computer e tecnologie in genere sia<br />

cambiata radicalmente dagli anni Sessanta<br />

agli anni Novanta. Negli anni della<br />

contestazione studentesca, caratterizzati<br />

da un forte fermento culturale e politico,<br />

i computer divenivano simboli di<br />

quella struttura/macchina sociale, figlia<br />

dell’era industriale, che si voleva combattere.<br />

«Negli anni Novanta la (nuova)<br />

tecnologia, soprattutto Internet, diventa<br />

al contrario la leva con la quale far saltare<br />

e collassare i lati negativi della macchina<br />

sociale» (p. 12).<br />

Nel primo capitolo, tracciando la<br />

storia dello sviluppo delle tecnologie informatiche,<br />

l’autore mette in evidenza<br />

come Usenet prima e Internet poi siano<br />

stati i diretti discendenti del pensiero<br />

degli anni Sessanta. In quel periodo veniva<br />

già pensato, forse solo sognato, un<br />

medium che avrebbe permesso l’affermarsi<br />

di una democrazia partecipativa; è<br />

del 1962 la redazione del Port Huron<br />

Statement, redatto dallo SDS (Students<br />

for a Democratic Society), che si ispira al-<br />

le idee di C. Wrigth Mills, sociologo<br />

statunitense ancor oggi considerato tra i<br />

più importanti critici della società americana.<br />

In particolare, Mills evidenziava<br />

la sempre maggiore concentrazione di<br />

potere nelle mani di pochi ed il progressivo<br />

disinteresse della gente comune alla<br />

politica. Favorire una democrazia partecipativa<br />

voleva dire, in quegli anni, ridare<br />

alla gente la «possibilità di condizionare<br />

e scegliere le decisioni che riguardano<br />

il Paese in generale e le loro vite individuali<br />

in particolare» (p. 18). Per poterlo<br />

fare, era necessario anche identificare<br />

i mezzi. Ecco che lo “Statement” traccia<br />

l’identikit di un medium con delle potenzialità<br />

che oggi indossano perfettamente<br />

il vestito di Internet: «creare delle<br />

community, dei personal link da uomo<br />

a uomo, […] sharing dei problemi pubblicamente»<br />

(p. 19) etc. Bisognerà aspettare<br />

gli anni Ottanta perché l’ambito disciplinare<br />

della computer ethics si delinei<br />

e si affermi in modo stabile. Tra i primi<br />

autori che portano la questione etica dei<br />

computer al cospetto del grande pubblico,<br />

Ziccardi cita Walter Maner e James<br />

Moor: il primo faceva riferimento a «temi<br />

quali la privacy e la riservatezza, i crimini<br />

informatici, le decisioni prese dai<br />

computer, la dipendenza dalla tecnologia<br />

e i codici di etica professionale» (p.<br />

21); il secondo individuava nell’estrema<br />

duttilità ed universalità di utilizzo del<br />

computer la principale causa per cui, rispetto<br />

ad altre tecnologie, questo mezzo<br />

poteva sollevare questioni etiche così<br />

importanti.<br />

Il secondo capitolo dell’opera prende<br />

in esame la netiquette, traducibile come


piccola etica o etichetta della rete. Più<br />

che di un’etica di computer si tratta di<br />

una sorta di galateo dell’uomo informatico:<br />

una serie di norme atte a «garantire<br />

un corretto svolgimento della <strong>vita</strong> sociale<br />

in rete, prevenendo o reprimendo<br />

comportamenti che, nel corso degli anni<br />

si sono rivelati fastidiosi o non corretti»<br />

(p. 27). Attraverso la lettura delle diverse<br />

netiquette prodotte negli ultimi anni,<br />

il lettore ha la possibilità di confrontarsi<br />

con una serie di comportamenti che anche<br />

i più inesperti navigatori di internet<br />

o utilizzatori di posta elettronica hanno<br />

avuto modo di giudicare scorretti o<br />

quantomeno fastidiosi. Tra i princìpi<br />

della netiquette attualmente in vigore in<br />

Italia, approvata dal NIC (Network Information<br />

Center) ci sono quelli che riguardano<br />

la partecipazione ai newsgroup<br />

(sinteticità, coerenza con il topic etc.) oppure<br />

quello ancora più evidente di «non<br />

pubblicare mai, senza l’esplicito permesso<br />

dell’autore, il contenuto di messaggi<br />

di posta elettronica» (p. 29). In tema di<br />

spamming (invio di pubblicità non desiderata<br />

via e-mail), viene poi sottolineato<br />

come negli ultimi anni sia intervenuto<br />

sempre più spesso il Garante della privacy,<br />

spostando la questione dal terreno<br />

della semplice inosservanza di netiquette<br />

a quello della violazione del diritto e della<br />

conseguente applicazione di sanzioni.<br />

Il terzo capitolo offre alcuni esempi<br />

di codici etici: da quelli per i professionisti<br />

nello sviluppo di software a quelli<br />

che ineriscono al corretto uso della rete<br />

informatica aziendale, dal controllo dei<br />

lavoratori che accedono ad Internet al<br />

corretto utilizzo della posta elettronica<br />

Spigolature 105<br />

sul luogo di lavoro. L’elenco di “deontologie<br />

informatiche” termina con il pensiero<br />

di Robin Gross, che ha formulato<br />

«una sorta di decalogo dei diritti di comunicazione<br />

nell’era dell’informazione»<br />

(p. 81). Di particolare rilievo la sua rivalutazione<br />

dell’«idea di pubblico dominio<br />

come mezzo per arricchire la società» (p.<br />

82). Gross riflette sul fatto che tutte le<br />

creazioni intellettuali di oggi sono il<br />

frutto di lavori preesistenti. Se nelle<br />

scuole si insegna a suonare Mozart e<br />

Beethoven, se si possono rappresentare<br />

le opere di Shakespeare senza ac<strong>qui</strong>stare<br />

costose licenze, è perché queste sono di<br />

pubblico dominio. È grazie al pubblico<br />

dominio, nello specifico grazie al software<br />

libero, che oggi si può garantire il<br />

funzionamento di Internet. Tuttavia<br />

l’attuale mercato delle informazioni si<br />

muove nella direzione opposta, comportando<br />

per le persone un doppio costo<br />

delle informazioni: «il pubblico paga direttamente,<br />

per la ricerca, la prima volta,<br />

e poi paga ancora quando l’informazione<br />

pubblica è commercializzata» (p. 82).<br />

Gli ultimi due capitoli sono dedicati<br />

alla trattazione dell’etica hacker, con una<br />

particolare attenzione alle sue origini e<br />

alla fondamentale opera di Richard Stalmann,<br />

considerato da molti il precursore<br />

dell’etica hacker modernamente intesa.<br />

Si afferma <strong>qui</strong> l’idea che l’etica hacker<br />

sia in qualche modo l’erede di un’etica<br />

del lavoro, quella degli informatici che si<br />

trovarono ad operare negli Stati Uniti<br />

negli anni successivi alla seconda guerra<br />

mondiale. In una situazione in cui la<br />

minaccia di una guerra nucleare spingeva<br />

il governo americano ad impiegare


106 Spigolature<br />

cospicui finanziamenti per la ricerca tecnologica,<br />

i laboratori universitari si trovarono<br />

a disporre di risorse costanti e<br />

delle più fervide menti scientifiche, dal<br />

cui felice incontro, nel giro di pochi anni,<br />

si giunse alle scoperte che cambiarono<br />

il volto dell’informatica. In questi laboratori<br />

pullulanti di scienziati si sviluppò<br />

un modo di operare nuovo «caratterizzato<br />

da tre aspetti: l’idea generica del<br />

beneficio del lavoro collaborativo, il networking<br />

e lo sharing» (p. 89). In altre<br />

parole, in un clima di fermento tecnologico,<br />

l’etica del lavoro «suggeriva all’esperto<br />

di confrontarsi in ogni istante<br />

con i colleghi, di rendere pubblici i problemi,<br />

con la speranza che un altro<br />

scienziato li avesse già affrontati e risolti<br />

o sapesse come risolverli [...], di scambiare<br />

documentazione e di rendere pubblici<br />

i propri lavori» (p. 89). Quando da<br />

questo clima di estrema trasparenza e<br />

collaborazione contrassegnato dal software<br />

libero si passò a quello proprietario,<br />

alcuni informatici/scienziati, primo<br />

fra tutti Stalmann, sentirono che veniva<br />

tradita l’etica che fino a quel momento<br />

era stata alla base delle scoperte conseguite:<br />

le grandi case che facevano firmare<br />

ai ricercatori contratti di non disclosure<br />

costringevano ad un comportamento<br />

«contrario agli elementari principi di etica<br />

che dispongono che ogni uomo debba<br />

attivarsi per il bene del prossimo» (p.<br />

88). Da queste semplici riflessioni si<br />

giunse presto al movimento del software<br />

libero ed ai protocolli aperti di trasmissione<br />

di informazioni che stanno alla base<br />

della più importante infrastruttura<br />

per la comunicazione esistente: Internet.<br />

Attraverso la trattazione dell’etica<br />

hacker, anche il lettore più inesperto viene<br />

introdotto in un mondo in cui diventa<br />

chiara e netta la differenza tra lo<br />

hacker, guidato da un’etica e, se vogliamo,<br />

da una missione di tipo culturale,<br />

ed il cracker, che inserisce virus nel sistema,<br />

agisce per appropriarsi illecitamente<br />

di beni altrui e opera per il generale<br />

danneggiamento degli altri.<br />

Il testo, in conclusione, si dimostra<br />

pregevole per quanto riguarda l’ampia<br />

panoramica di possibili questioni etiche<br />

all’interno del mondo informatico, presentate<br />

attraverso uno stile chiaro ed efficace,<br />

ma trova il suo limite proprio<br />

nella riflessione etica. Nella computer<br />

ethics di Ziccardi non c’è spazio per quei<br />

filosofi che tentano di districarsi nel<br />

complicato mondo delle tecnologie informatiche,<br />

per evincerne rischi, potenzialità<br />

e spunti di riflessione. Più fortuna<br />

hanno invece le idee di quegli informatici<br />

che, a partire dal mondo da loro conosciuto<br />

e in parte rivoluzionato, hanno<br />

prospettato suggestivi scenari futuristici<br />

e filosofeggiato sull’avvento dell’era informatica.<br />

La stessa bibliografia generale<br />

presenta una cospicua lista di opere di<br />

informatica ed informatica giuridica,<br />

che di rado lascia spazio a testi di sociologia<br />

dei media e ancora meno di etica<br />

tout court. Se è vero che l’autore stesso<br />

nell’introduzione avverte di tale mancanza,<br />

affermando di tralasciare la dimensione<br />

filosofica per dare al testo una<br />

valenza per lo più pratica, è anche vero<br />

che in questo approccio interdisciplinare<br />

in cui le problematiche storiche, sociologiche,<br />

tecnologiche e giuridiche si alter-


nano e si compenetrano a vicenda, si<br />

sente spesso la mancanza di un pensiero,<br />

di una trattazione più organica che la<br />

prospettiva filosofica avrebbe potuto offrire,<br />

svolgendo una funzione di orientamento<br />

e di stimolo alla ricerca per chi si<br />

approccia per la prima volta alla computer<br />

ethics. Di certo non si può in<strong>qui</strong>sire<br />

la mancanza in questo libro di altre tematiche,<br />

altrettanto importanti, che oggi<br />

rientrano a pieno titolo nel novero<br />

dell’etica dei computer, come il rapporto<br />

tra Paesi poveri (non tecnologizzati) e<br />

Spigolature 107<br />

Paesi ricchi (il cosiddetto digital divide),<br />

la violenza nei videogiochi, il rapporto<br />

tra tecnologie ed ecologia, la tutela della<br />

salute dell’utilizzatore di device, la neutralità<br />

della tecnologia, la <strong>vita</strong> dell’individuo<br />

in una società virtuale etc.; si può<br />

solo rimandare per queste questioni in<br />

continua evoluzione ad altri testi e ad altre<br />

ricerche.<br />

Giovanni Ziccardi, Etica e Informatica, Comportamenti,<br />

tecnologie e diritto, Pearson Education<br />

Italia, 2009, pp. 155, B 18,00.


108<br />

Massimo Vittorio<br />

Un affascinante viaggio nel pianeta uomo<br />

Il volume curato da Antonio Pavan,<br />

professore ordinario di Filosofia Morale<br />

nell’Università di Padova, e da Emanuela<br />

Magno, assegnista di ricerca nel Dipartimento<br />

di Filosofia del medesimo<br />

ateneo, rappresenta un’impresa editoriale<br />

e scientifica di primissimo ordine.<br />

L’editore bolognese, all’interno della<br />

collana «Percorsi», ha ospitato questa<br />

voluminosa brossura, in<br />

cui trovano spazio i contributi<br />

di studiosi italiani<br />

e stranieri di grande fama<br />

e di indiscussa competenza.<br />

Il titolo scelto per<br />

questa curatela è innovativo<br />

ed indicativo ad un<br />

tempo, e l’antropogenesi è<br />

certamente il fil rouge di<br />

questo lavoro che, tuttavia,<br />

mai si appiattisce su<br />

posizioni monocorde. Il<br />

rischio sempre insito in<br />

lavori scientifici di siffatto respiro è<br />

quello di non delimitare la zona d’indagine,<br />

non marcando adeguatamente<br />

porzioni di territorio e non segnando a<br />

dovere delle linee di confine; la conseguenza<br />

ine<strong>vita</strong>bile sarebbe la realizzazione<br />

di una compilazione dal sapore vagamente<br />

inventariale o, peggio, la creazione<br />

di un pot-pourri dal sapore indefinibile.<br />

Ed invece, ci si trova dinnanzi ad<br />

una raccolta di contributi ben realizzata,<br />

perché ben progettata, che assume i connotati<br />

di un’orchestra in cui i vari elementi<br />

– astrofisici, filosofi, antropologi,<br />

biologi, neurofisiologi – riescono a suonare<br />

all’unisono.<br />

Il merito indiscutibile di questa<br />

brossura è di porre, per la prima volta in<br />

queste modalità e in questi termini, l’accento<br />

sull’ineludibile dinamicità<br />

della “questione<br />

antropologica”, «la<br />

cui energia e i cui e<strong>qui</strong>libri<br />

vengono meglio figurati<br />

con la termodinamica<br />

del movimento, che<br />

con l’ingegneria statica<br />

dei solidi. Del resto – almeno<br />

nella prospettiva<br />

della durata – nell’universo<br />

ed in tutte le sue<br />

forme, l’inedito delle cose,<br />

della <strong>vita</strong> e dell’intelligenza<br />

finisce per avere<br />

partita vinta sull’edito e sul già-fatto»,<br />

come ben illustra Pavan nelle «Conclusioni»,<br />

appropriatamente intitolate Per<br />

non concludere… (p. 657).<br />

Del resto, l’ossimoro taglia trasversalmente<br />

tutto il volume che, suddiviso<br />

in tre Parti – o focus, per usare il termine<br />

dei curatori – («Alle origini dell’universo»,<br />

«L’evento della <strong>vita</strong>» e «Il fenomeno<br />

umano»), per un totale di nove capitoli-


sezioni, riesce coraggiosamente a far<br />

convergere intorno allo stesso tavolo di<br />

discussione profili assai diversi e Weltanschauungen<br />

spesso in conflitto. Ma audentis<br />

fortuna iuvat, ricordava ai suoi<br />

uomini il virgiliano Turno. Ed in effetti,<br />

l’operazione ad ampio spettro, che Antonio<br />

Pavan ed Emanuela Magno compiono,<br />

risulta in una visione grandangolare<br />

nitida e mai sfocata. Ed ecco che gli<br />

assunti logici, propedeutici ad ogni possibile<br />

comprensione dello statuto ontologico<br />

dell’uomo, aprono la brossura,<br />

schiudendo al contempo le porte ad<br />

un’indagine finalmente ampia, non parziale<br />

e, direi, onesta.<br />

Perché, va detto, interrogarsi intorno<br />

all’origine dell’uomo e tentare di conoscerne<br />

il senso nell’universo potrebbe finire<br />

col perdere ogni senso tout court;<br />

come dire, un’indagine poco sensata difficilmente<br />

riuscirà a trovare un qualche<br />

senso, ed una poco orientata difficilmente<br />

saprà orientarsi sul proprio terreno<br />

di analisi, poiché il consiglio aristotelico<br />

non può mai essere disatteso dall’uomo<br />

colto, dal momento che «è proprio<br />

dell’uomo colto richiedere in ciascun<br />

genere di ricerca tanta esattezza,<br />

quanta ne permette la natura dell’argomento:<br />

e sarebbe lo stesso lodare un matematico<br />

perché è persuasivo e richiedere<br />

dall’oratore delle dimostrazioni» (Etica<br />

Nicomachea, 1094b 11-25).<br />

Antonio Pavan ed Emanuela Magno<br />

– e, con loro, gli autori dei diversi contributi<br />

che compongono questo libro –<br />

non vengono meno a quella sollecitazione<br />

peripatetica, visto che attraverso le<br />

numerose pagine di questo lavoro si<br />

Spigolature 109<br />

scorrono solo umili dimostrazioni e assai<br />

pochi tentativi persuasivi. Sul piano del<br />

contenuto, ciò significa che riflettere<br />

sull’antropogenesi prevede una discussione<br />

sull’origine dell’universo, ancor<br />

prima che sull’origine e sul senso dell’uomo,<br />

che debba tener conto tanto<br />

delle teorie astrofisiche sulla cosmologia<br />

(dal Big Bang in avanti), quanto delle<br />

cosmogonie più diffuse (dal monoteismo<br />

ebraico-cristiano all’Islam, dalle<br />

concezioni hind agli insegnamenti buddhisti,<br />

fino al pensiero cinese e al confucianesimo).<br />

Come dar voce a interpretazioni così<br />

lontane? Semplice. Basta stabilire il comune<br />

denominatore che sta alla base<br />

delle diverse spiegazioni relative all’origine<br />

dell’universo: energia. L’idea centrale<br />

è che «ogni forma, e quella umana<br />

in maniera particolarmente sensibile, è<br />

sempre ed anche un campo energetico, un<br />

fattore di instabilità e di mutazione, è<br />

spinta non meno che risultato» (p. 18).<br />

È così che si spiega l’architettura di questo<br />

volume, nel quale – non a caso – la<br />

Prima Parte completa la riflessione cosmogenetica<br />

dando spazio a quattro saggi<br />

brevi sui concetti di energia, generazione,<br />

tempo, e la Seconda Parte si apre<br />

con una serie di contributi intorno all’evoluzione.<br />

Il concetto di energia è mevtron,<br />

poiché esso permane anche quando<br />

il focus si sposta dall’universo all’uomo<br />

e al sé, trasformandosi in energia<br />

psichica (Parte Seconda), in processi di<br />

biologia cellulare e nei meccanismi di<br />

edificazione delle strutture umane: dal<br />

linguaggio alla parola, dalla libertà alla<br />

morale, dalla politica e dal diritto all’ho-


110 Spigolature<br />

mo œconomicus (Parte Terza). Il volume<br />

si conclude con delle riflessioni capaci di<br />

rivolgere la propria attenzione alla trascendenza<br />

umana, in cui ottengono degna<br />

trattazione l’infinito, il sacro, il divino,<br />

le pratiche spirituali e le esperienze<br />

mistiche.<br />

Intesa in questi termini, l’antropogenesi<br />

e – oserei dire – qualunque altra indagine<br />

non possono più fare a meno di<br />

una metodologia dinamica, in cui l’eccezione<br />

non rappresenta ine<strong>vita</strong>bilmente<br />

uno scadimento per la regola, né la corruzione<br />

della natura. L’instabilità, il<br />

cambiamento, i mutamenti e le mutazioni<br />

non sono una patologia per l’uomo.<br />

L’evoluzionismo ha il merito di introdurre<br />

il cambiamento nella comprensione<br />

razionale, il mutevole nell’ordine.<br />

Ma ciò che è perfino più significativo è<br />

che anche ciò che sfugge alla staticità, alla<br />

fissità, può avere un suo ordine, una<br />

sua linea di progresso. «No, la natura<br />

non è un ordine immutabile, che svolge<br />

sé stessa maestosamente dal filo della<br />

legge sotto il controllo di forze deificate.<br />

Essa è un ammasso indefinito di mutamenti.<br />

Le leggi non sono regolazioni che<br />

governano e limitano il cambiamento,<br />

bensì formulazioni convenienti di porzioni<br />

selezionate di cambiamento connesse<br />

nel breve o nel lungo periodo, e<br />

poi registrate in forma statistica per<br />

l’agevole manipolazione matematica» –<br />

scriveva entusiasticamente J. Dewey (Intelligence<br />

and Morals, in J. Dewey, The<br />

Middle Works, volume 4 (1908), a cura<br />

di J. A. Boydston, Carbondale, SIUP,<br />

1991-2008, p. 47). E cade ogni distinzione<br />

tra una conoscenza di tipo inferio-<br />

re, imperfetta ed incerta, in quanto conoscenza<br />

di cose che si trasformano e<br />

mutano, ed una di tipo superiore, certa<br />

e definitiva, perché conoscenza di cose<br />

immutabili ed eterne. La certezza non si<br />

misura con l’eternità, ma con la qualità<br />

del metodo utilizzato, con il corretto<br />

processo di osservazione e verifica; ed allora<br />

si può essere certi ed in modo certo<br />

delle conoscenze ac<strong>qui</strong>site fintantoché<br />

sono ac<strong>qui</strong>site e valide.<br />

Tutto ciò potrà sembrare frustrante<br />

ed insoddisfacente. Se siamo alla ricerca<br />

di garanzie accomodanti, di giustificazionismi<br />

facili e fittizi, di neghittose verità,<br />

possiamo pur sempre rifugiarci nel<br />

porto sicuro dei positivismi, che «si presentano<br />

nella storia sempre con un duplice<br />

sembiante: quello della potenza e<br />

dell’autorità di chi dice e “descrive” come<br />

stanno “realmente” le cose; e quello<br />

del respiro corto di chi esorcizza, o si industria<br />

di addomesticare il cambiamento<br />

e le metamorfosi della possibilità» (p.<br />

657). Del resto, se ci si muove a proprio<br />

agio tra le placide acque di una secca,<br />

ogni parenesi non sarà che una paralisi e<br />

farà del piccolo specchio d’acqua antistante<br />

il proprio oceano: «E tutto sommato<br />

i riduzionismi (di ieri, di oggi)<br />

non sono che il braccio operativo di<br />

questi positivismi; sono delle creature<br />

(ingenue e un po’ credulone) di una ragione<br />

che si sogna (e quanto sogno,<br />

quanto mito c’è nel razionalismo!) come<br />

ultimamente determinante e “crede” al<br />

fine di aver afferrato la radice delle cose»<br />

(p. 657).<br />

Per nostra fortuna, l’universo uomo<br />

è un campionario di irregolarità, una


continua variazione del tema, una catena<br />

di imprevisti; per nostra fortuna, «il<br />

fenomeno umano è, per costituzione e<br />

per espressione, il fattore più altamente<br />

critico di tutti i positivismi; perché sente,<br />

quasi d’istinto spontaneo, che il possibile<br />

sopravanza (e destabilizza) ogni già<br />

della <strong>vita</strong> e dell’esperienza» (p. 657); e,<br />

per nostra fortuna, esiste questo viaggio<br />

Spigolature 111<br />

curato da Antonio Pavan e da Emanuela<br />

Magno a tenerci desti, ponendosi come<br />

gentile, discreta sentinella, contro le tentazioni<br />

oniriche e le quotidiane occasioni<br />

di assopimento.<br />

AA. VV., Antropogenesi. Ricerche sull’origine e<br />

lo sviluppo del fenomeno umano, a cura di A. Pavan<br />

e E. Magno, Bologna, il Mulino, 2010, pp.<br />

665, B 48,00.


112<br />

summum crede nefas animam preæferre pudori<br />

et propter <strong>vita</strong>m vivendi perdere causas

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