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Quaderni<br />

del Laboratorio di Etica<br />

leifSemestrale<br />

e Informazione Filosofica<br />

Università di Catania


Quaderni<br />

leifSemestrale<br />

del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica - Università di Catania<br />

Impaginazione e stampa:<br />

, grafica editoriale<br />

di Pietro Marletta,<br />

via Delle Gardenie 3, Belsito,<br />

95045 Misterbianco (CT),<br />

tel. 095 71 41 891,<br />

e-mail: emmegrafed@tiscali.it<br />

Direttore<br />

Maria Vita Romeo<br />

Redazione<br />

Massimo Vittorio (coordinatore), Antonio Caramagno,<br />

Danila D’Antiochia, Floriana Ferro,<br />

Antonio G. Pesce, Elisabetta Todaro, Daniela Vasta<br />

Segreteria di redazione<br />

Melania D’Anna, Manuela Finocchiaro<br />

Comitato Scientifico<br />

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Laura Berchielli (Université «Blaise Pascal», Clermont Ferrand)<br />

Domenico Bosco (Università di Chieti-Pescara)<br />

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Riccardo Caporali (Università di Bologna)<br />

Carlo Carena (Casa editrice Einaudi)<br />

Dominique Descotes (Université «Blaise Pascal», Clermont<br />

Ferrand)<br />

Laurence Devillairs (Centre Sèvres et Institut catholique de<br />

Paris)<br />

Gérard Ferreyrolles (Université Paris Sorbonne-Paris IV)<br />

Denis Kambouchner (Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne)<br />

Gordon Marino (St. Olaf College, Minnesota USA)<br />

Denis Moreau (Université de Nantes)<br />

Giuseppe Pezzino (Università di Catania)<br />

Philippe Sellier (Université Paris Sorbonne-Paris IV)<br />

Paolo Vincieri (Università di Bologna)<br />

Direttore responsabile<br />

Giovanni Giammona<br />

Direzione, redazione e amministrazione<br />

Dipartimento di Scienze Umanistiche, Università di Catania.<br />

Piazza Dante, 32 - 95124 Catania.<br />

Tel. 095 7102343 - Fax 095 7102566<br />

Email: <strong>maria</strong><strong>vita</strong><strong>romeo</strong>@unict.it<br />

ISSN 1970-7401<br />

© 2011 - Dipartimento di Scienze Umanistiche, Università di<br />

Catania<br />

Registrazione presso il Tribunale di Catania, n. 25/06, del 29<br />

settembre 2006


Quaderni<br />

leif<br />

Semestrale del Laboratorio di Etica<br />

e Informazione Filosofica<br />

agorà<br />

Università di Catania<br />

Anno V n. 7, luglio-dicembre 2011<br />

Giuseppe Bentivegna Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 5<br />

Maria Vita Romeo Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 19<br />

Alessandro Chiessi e other Mandeville: the origins of a scandalous<br />

thought. Mechanism, Materialism and Naturalism 47<br />

coffee break<br />

Giuseppe Pezzino Platone in Italia 79


R. Guttuso, Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio a Palermo (particolare).


Giuseppe Bentivegna<br />

Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento<br />

La STorIa DeL PeNSIero fILoSofIco e PoLITIco dell’Ottocento siciliano<br />

è stata ricostruita con intenti storiografici che, se giustificati alla<br />

luce delle finalità etico-politiche a cui rispondevano, non permettono più<br />

allo storico della cultura di comprendere efficacemente la reale dinamica<br />

delle teorie filosofiche e politiche, senza rischiare di scivolare in forme storiografiche<br />

attardate, quali l’agiografia o il municipalismo.<br />

Con questo non voglio sostenere che manchino del tutto studi soddisfacenti,<br />

ricchi nelle loro analisi filologiche (necessarie trattandosi il più<br />

delle volte di “territori inesplorati”) e interpretative. Questi studi di diverso<br />

orientamento, anche se offrono ampie suggestioni e direzioni di analisi,<br />

non si soffermano sulla filosofia liberale isolana, non ne operano una ricostruzione<br />

concettuale, non ne individuano le valenze pratiche, non ne colgono<br />

la reale incidenza nella dinamica per la modernizzazione delle strutture<br />

e della cultura. Se si fa eccezione dei saggi di R. Romeo1 e F. Pillitteri2 ,<br />

gli altri sono attraversati il più delle volte da un implicito, e non sempre<br />

motivato, giudizio di condanna del liberalismo, inteso come freno ideologico<br />

ad una vera rivoluzione risorgimentale, come momento di avanzamento<br />

e affermazione delle ideologie democratiche. Ciò, se in parte è condivisibile,<br />

almeno per quelle regioni italiane dove le ideologie democratiche<br />

erano mature e ben radicate nel tessuto sociale, in Sicilia necessita di una<br />

revisione in quanto la rivoluzione risorgimentale nell’isola è opera soprattutto<br />

dei liberali, almeno fino al 1848-49, quando le differenze ideologiche<br />

si evidenziano e le fragili alleanze saltano. Tutto questo emerge chiaramente<br />

dal saggio di Romeo che, però, brillante nella ricostruzione storica, offre<br />

1 Il Risorgimento in Sicilia, Roma-Bari, Laterza, 1950, rist. ivi 1973.<br />

2 Il liberalismo economico in Sicilia e Giovanni Bruno, Palermo, Palumbo, 1983.<br />

5


6 Giuseppe Bentivegna<br />

poco allo storico della cultura se non uno scenario dove le idee nascono,<br />

operano e si comprendono 3 . Molti intellettuali e opere sono citati da Romeo,<br />

ma ciò che manca è una compiuta analisi delle loro ideologie, compito,<br />

questo, marginale rispetto all’intento complessivo dell’opera. Al contrario<br />

i saggi di G. Berti e S. M. Ganci tendono a porre troppo in evidenza<br />

lo spessore teorico e la funzione dei democratici enfatizzandone lo spessore<br />

teorico e la capacità organizzativa 4 . Una strada “mediana” è certamente<br />

percorribile, considerando però che, dopo il 1848, liberali e democratici sono<br />

“sconfitti” o almeno relegati a ruoli marginali, isolati dall’alleanza “forte”<br />

tra aristocrazia e monarchia sabauda. Il primo parlamento del nuovo<br />

Regno vede insieme all’opposizione liberali e democratici siciliani rinchiusi<br />

nella loro nostalgia degli anni Quaranta, con le loro utopie di giustizia e libertà.<br />

Stessa sorte, per certi versi emblematica, tocca ai democratici continentali,<br />

cui però si è portata l’attenzione degli storici, strappandoli al buio<br />

della sconfitta 5 .<br />

Oltre ai saggi citati, che in qualche modo costituiscono delle tappe obbligate<br />

e dei paradigmi interpretativi convincenti, debbo ricordare l’ormai<br />

datato lavoro di G. De Ruggiero 6 , Con questo studioso siamo lontani dalle<br />

abili ma mistificanti ricostruzioni di G. Gentile 7 sulle quali sono state scritte<br />

pagine illuminanti 8 e che proprio per l’abilità con cui sono state condot-<br />

3 Lo stesso Romeo lamentava in un suo saggio la povertà degli studi sulla cultura siciliana del<br />

primo Ottocento; si veda I liberali napoletani e le rivoluzione siciliana del 1848-’49, in AA. VV., Il<br />

1848 nell’Italia meridionale, Napoli, Tip. Torella, 1950, pp. 106-45.<br />

4 G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano, Feltrinelli, 1962 e<br />

S. M. Ganci, L’Italia antimoderna. Radicali, repubblicani, socialisti, autonomisti dall’Unità ad oggi,<br />

Parma, Guanda, 1968.<br />

5 Tra tutti gli studi, per le prospettive che ha aperto, ricordo N. Bobbio, Una filosofia militante.<br />

Saggi su C. Cattaneo, Torino, Einaudi, 1971. Si veda anche F. Della Peruta, Carlo Cattaneo politico,<br />

Milano, F. Angeli, 2001.<br />

6 Il pensiero politico meridionale nei secc. XVIII e XIX, Roma-Bari, Laterza, 1922; a questo saggio<br />

va accostata la Storia del liberalismo europeo, ivi. 1925.<br />

7 Il tramonto della cultura siciliana, rist. della II ed. riv. e accr., Firenze, Sansoni, 1963.<br />

8 Per una confutazione delle tesi gentiliane si veda C. Dollo, Implicazioni politiche e determinazioni<br />

ideologiche della filosofia in Sicilia (1870-1915), in AA. VV., La presenza della Sicilia nella cultura<br />

degli ultimi cento anni, Palermo, Palumbo, 1977, pp. 820-86. Tuttavia, quando si affrontano i<br />

temi della storiografia idealista, si devono fare nostre le cautele e le raccomandazioni suggerite da P.<br />

Piovani in un contesto diverso, quello del previchismo meridionale, ma generalizzabili per realizza-


Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 7<br />

te hanno affascinato gli storici bloccando per anni la ricerca sul pensiero filosofico<br />

e politico siciliano. Il dibattito è stato tenuto vivo solo da studiosi<br />

di formazione liberale o marxista; giacché non mi sembra che meritino<br />

particolare attenzione le ricostruzioni agiografiche o semplicemente erudite<br />

alla V. Di Giovanni 9 , funzionali all’esaltazione di valori filosofici e politici<br />

“fuori del tempo”.<br />

Da qualche decennio alcuni storici hanno ravvivato l’attenzione per la<br />

storia culturale della Sicilia, approntando metodi più critici e indagando<br />

nuovi settori del sapere. Le ricerche di G. Giarrizzo sull’illuminismo, quelle<br />

di Dollo su Cinque e Seicento e Otto e Novecento, le mie sull’età dei Lumi<br />

e sul primo Ottocento, danno una visione dinamica e problematica della<br />

realtà culturale dell’isola. Emerge una immagine nuova della Sicilia che<br />

non si presenta chiusa in se stessa, restia alla cultura europea e sequestrata,<br />

ma che partecipa attivamente, e a volte con risultati rilevanti, al dibattito<br />

culturale generale. Una rassegna anche som<strong>maria</strong> delle indicazioni bibliografiche<br />

stilate da Giarrizzo, da Dollo e da me mostra una vasta e profonda<br />

circolazione di testi filosofici, politici, scientifici dei maggiori studiosi italiani<br />

ed europei. Ciò di cui siamo ancora privi è un’analisi del primo Ottocento<br />

e del Risorgimento, che costituisce, invece, un momento di grande<br />

interesse, ricco e articolato, ricostruibile con una storia che non sia solo di<br />

dottrine etico-politiche ma della più ampia e ricca categorie della storia<br />

della cultura, perché sono convinto che il liberalismo isolano non è solo liberismo,<br />

teoria dello Stato e della società civile, ma un tentativo di rinnovamento<br />

concettuale di tutta la cultura isolana e, <strong>qui</strong>ndi, di tutto l’apparato<br />

produttivo e distributivo dei beni materiali.<br />

re un vero superamento della storiografia di Croce e Gentile: «[…] per studiare la filosofia meridionale<br />

della fine del Seicento con piena autonomia non bisogna mettersi quasi per partito preso, contro<br />

la storiografia idealista, bisogna invece, tenendo conto di risultati ormai ac<strong>qui</strong>siti, riprendere il discorso<br />

in più aperta visuale e con più scaltrita documentazione, con la costante preoccupazione di<br />

non tentare sintesi che non siano sorrette dalla analisi minuziosa del pensiero e dei pensatori che si<br />

vogliono conoscere ed interpretare», Il pensiero filosofico meridionale tra la nuova scienza e la «Scienza<br />

Nuova», in Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Nazionale di Scienze,<br />

Lettere ed Arti in Napoli», vol. LXX (1959), p. 69.<br />

9 Del Di Giovanni, come modello della sua storiografia, mi limito a segnalare i saggi Della filosofia<br />

moderna in Sicilia, Palermo, Amenta, 1868 e Storia della filosofia in Sicilia, ivi, Pedone-Lauriel,<br />

1873, rist. anast. Bologna, Forni, 1985.


8 Giuseppe Bentivegna<br />

L’attenzione non deve essere rivolta alla ricostruzione del solo pensiero<br />

politico, in quanto del liberalismo bisogna cogliere tutti gli aspetti di rinnovamento<br />

della <strong>vita</strong> isolana, senza esagerarne la spinta propulsiva, come<br />

movimento coinvolgente non solo la politica, con le scienze ad essa connesse,<br />

in particolar modo l’economia, ma anche la filosofia,<br />

come visione del mondo, come gnoseologia, metodologia,<br />

ecc. e le lettere, continuando così, secondo<br />

coor dinate e modalità diversificate, l’opera di smantellamento<br />

della feudalità intrapresa dagli illuministi<br />

di fine Settecento, assorbendone la mentalità critica<br />

e antisistematica. L’appello degli illuministi aveva<br />

trovato la sordità dei ceti nobiliari, ma non dei ‘figli’<br />

della borghesia, dediti agli studi e più sensibili all’aggiornamento<br />

dei valori storici tradizionali. Da questo<br />

gruppo emerge il ceto degli intellettuali liberali, impe-<br />

gnato nel doppio fronte del rinnovamento strutturale e<br />

culturale negli anni del Risorgimento.<br />

Nel primo fronte la battaglia è condotta, pur con qualche ambiguità,<br />

Giuseppe Mazzini.<br />

in nome del liberoscambismo e del potenziamento delle attività agricole e<br />

manifatturiere 10 ; nel secondo con la proposta di nuovi valori connessi ad<br />

un forte interesse per il civile, in antitesi alle oscure metafisiche romantiche<br />

o idealiste o, peggio ancora, dell’ontologismo tradizionale.<br />

Si tratta di un rivolgimento che si potenzia attraverso la lettura delle<br />

opere di Vico e Romagnosi, senza trascurare l’influsso controverso dell’eclettismo<br />

francese e della tradizione empiristica inglese.<br />

Ritengo necessario ricordare le coordinate storiche fondamentali che<br />

circoscrivono l’ambito di questo contributo. Il periodo che va dal 1830 al<br />

1848 è il più ricco – dal punto di vista della dinamica culturale – di tutto il<br />

primo Ottocento e segna la rottura con il liberalismo degli Scinà e dei Gregorio,<br />

ancora operante negli avvenimenti del ’12 per aprirsi a più ampie e<br />

10 Sul dibattito economico-politico nella Sicilia del primo Ottocento si vedano, con le relative<br />

indicazioni bibliografiche, M. Grillo, Protezionismo e liberalismo. Momenti del dibattito sull’economia<br />

siciliana del primo Ottocento, Catania, Cuecm, 1994 e P. Travagliante, Sui privilegi in materia di industria.<br />

Il concorso di Economia del 1841 nell’Università di Catania, ivi, 1994.


Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 9<br />

aggiornate prospettive culturali, rompendo l’asse portante del vecchio “sicilianismo”,<br />

che fissava nell’idea di nazione siciliana il presupposto fondamentale<br />

per spezzare le catene della feudalità, rimaste quasi integre nonostante<br />

i coraggiosi ma per molti aspetti inefficaci colpi dei viceré Caracciolo<br />

e Caramanico. È con gli anni Trenta che la feudalità, con il suo rigido,<br />

soffocante apparato giuridico, è spazzata via, non più in nome dell’ideale<br />

resurrezione della nazione siciliana, ma nella prospettiva più aperta e progredita,<br />

che assume forme e contenuti diversi, della nazione italiana.<br />

Detto così, potrebbe sembrare un movimento continuo e indolore; in<br />

realtà la sua affermazione ha comportato un quasi radicale mutamento della<br />

mentalità siciliana, non dico dei ceti aristocratico-nobiliari, nemici di<br />

ogni pur tiepido cambiamento, ma nella borghesia piccola e media, della<br />

città e della campagna, soffocata dalle strettoie di un apparato produttivo<br />

e legislativo, che ne impedisce qualsiasi espansione economico-politica. Si<br />

tratta di un processo che in qualche modo cerca di colmare l’enorme vuoto<br />

storico vissuto dall’isola, rimasta estranea agli effetti progressivi della rivoluzione<br />

francese prima e della politica napoleonica poi. La borghesia isolana,<br />

tolte le ambigue e sostanzialmente inefficaci mediazioni inglesi, non è<br />

stata nutrita e irrobustita dagli avvenimenti continentali, ma, attraverso i<br />

suoi uomini di punta, si impegna in un profondo programma di revisione<br />

ideologica e sociale. Questa dinamica inizia con gli anni Trenta e, paradossalmente,<br />

è messa in moto dalla Monarchia Borbonica convinta finalmente<br />

(ma ormai tardivamente) della necessità di abbattere le strutture feudali. In<br />

realtà, il suo sforzo si rivela inadeguato alla realizzazione di un programma<br />

riformistico. Il tentativo, però, favorisce un largo passaggio della proprietà<br />

fondiaria dagli aristocratici alla borghesia che si andava consolidando. Tutto<br />

questo facilita l’irrobustirsi della mentalità antiborbonica e inserisce la<br />

Sicilia, com’è noto, in un ampio orizzonte contestativo ricco di fermenti<br />

culturali inglesi, francesi e, per la prima volta in maniera chiara ed esplicita,<br />

della tradizione filosofica italiana da Vico a Romagnosi, con l’intento di<br />

immettere la Sicilia nel dibattito italiano. Questo è il progetto politico di<br />

fondo del liberalismo isolano, quasi compatto fino al Quarantotto, anno<br />

della rivoluzione e delle disillusioni; anno in cui inizia la revisione dei valori<br />

portanti dei moti per l’affermazione di una nuova linea politica, quella<br />

unitaria, alla quale molti dei liberali del Quarantotto restano estranei evi-


10 Giuseppe Bentivegna<br />

denziando debolezze e contraddizioni. Certo è che nel “decennio di preparazione”<br />

si assiste allo sfaldarsi dell’alleanza tra liberali moderati e democratici<br />

e all’affermazione di un nuovo ceto politico in grado di orientare in<br />

senso unitario le sorti della Sicilia 11 . A questo processo non sono estranee le<br />

realistiche prese di coscienza di alcuni<br />

liberali – cito fra tutti M. Amari –<br />

che con il loro progrediente unitarismo<br />

misero in minoranza gli irriducibili<br />

federalisti come E. Amari. Sono<br />

convinto che le origini della “sconfitta”<br />

dei liberali isolani non si spiegano<br />

solo con gli avvenimenti nazionali<br />

del “decennio di preparazione”, che<br />

evidenziano la fragilità del federalismo<br />

liberal-cattolico, ma anche, nel<br />

caso della Sicilia, con l’incapacità dei<br />

moderati di spingersi al di là di una<br />

prospettiva che, seppur giustificata<br />

con argomenti schiettamente liberali<br />

ma astratti, rimane pur sempre legata<br />

alla vecchia idea di nazione siciliana,<br />

che si era aggiornata nella forma ma<br />

non nella sostanza, come si evince dal<br />

G. Induno, Sentinella.<br />

nascente regionismo degli anni Sessanta<br />

che, al contrario di come ritiene<br />

S. M. Ganci 12 , mi sembra un movimento anacronistico e nostalgico. In<br />

realtà, mi sembra che questo movimento immiserisca, per riprendere i termini<br />

di Romeo, il clima culturale dell’isola e gli dà un tono generale assai<br />

modesto e concettualmente inconsistente 13 , che non ha alcuna continuità<br />

con la vivacità e la profondità di quello del 1848.<br />

11 Cfr. R. Romeo, op. cit., pp. 350-4 e G. Ciampi, I liberali moderati siciliani in esilio nel decennio<br />

di preparazione, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1979.<br />

12 Questo studioso vede in esso l’inizio del movimento autonomistico. Cfr. quanto scrive in<br />

L’Italia antimoderna, cit., ad es., a p. 235 a proposito di F. P. Perez.<br />

13 R. Romeo, op. cit., p. 381.


Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 11<br />

Mi sembra di poter ritenere che, attraverso queste brevi considerazioni<br />

storiche e metodologiche, la storia della cultura filosofica e politica della Sicilia<br />

esca fuori dalla prospettiva “regionista agiografica” e ac<strong>qui</strong>sta una dimensione<br />

concettuale fondamentale per la comprensione dei modi attraverso<br />

cui nella storia del sapere le “mappe particolari” siano elaborate all’interno<br />

dello “sviluppo dell’universale”.<br />

Per quanto attiene alla storia del pensiero filosofico nei primi anni del -<br />

l’Ottocento in Sicilia, i “filosofi di professione”, mentre si dimostrano assolutamente<br />

incapaci di scrollarsi di dosso il ruolo di indagatori della Verità,<br />

assumono la funzione di uno dei canali, e non certo il più importante, per i<br />

quali si cerca di far passare un consenso, quanto più ampio, alla struttura socio-economica<br />

venuta fuori dagli avvenimenti del 1812-1815. La idéologie e<br />

successivamente l’eclettismo sostituiscono le tematiche scolastiche nelle<br />

scuole di filosofia e non costituiscono un salto qualitativo capace di dare alla<br />

filosofia un ruolo più incisivo e meno teorico; ciò non toglie però che l’eclettismo<br />

non sia stato in grado di formare la coscienza politica di intellettuali,<br />

che ebbero un ruolo determinante durante gli anni Quaranta, per la formazione<br />

di quei gruppi che nel 1848-49 si fecero promotori della rivoluzione e<br />

del processo di costituzione dell’unità nazionale. È d’altronde comprensibile<br />

il lento ma costante involversi della ideologia, attraverso la mediazione<br />

dell’eclettismo, nell’ontologismo tradizionale, come quello di Gioberti.<br />

Negli anni Trenta, usando un’espressione di Romeo, si può parlare di<br />

una nuova coscienza storica o meglio di una nuova visione della storia 14 ,<br />

formatasi attraverso la spinta della borghesia intellettuale isolana, alla ricerca<br />

di nuovi modelli teorici di sviluppo storico, che ne legittimassero l’aspirazione<br />

egemonica. Questa visione della storia, che in alcuni intellettuali<br />

ha precisi connotati storicisti, formata da filosofi per lo più laici ma di formazione<br />

cattolica, si sviluppa secondo richiami teorici diversi. Con ciò non<br />

voglio affermare che in Sicilia si sia sviluppato un movimento storicista hegeliano<br />

15 , ma che precisi motivi di ordine economico e politico hanno indotto<br />

alla studio filosofico della storia, fino a teorizzare in E. Amari, una fi-<br />

14 Ivi, p. 257.<br />

15 Faccio riferimento all’hegelismo napoletano che non ha rapporti con gli interpreti della cultura<br />

isolana di questi anni.


12 Giuseppe Bentivegna<br />

losofia della storia progressiva sullo sfondo della Scienza nuova vichiana. Le<br />

riflessioni sulla storia costituiscono delle innovazioni che avvicinano gli intellettuali<br />

isolani alla contemporanea cultura italiana ed europea, non più<br />

ferma allo sterile spiritualismo dei metafisici tradizionali, ma aperta all’incisivo<br />

pensiero della filosofia civile.<br />

La ripresa dei temi vichiani (che andrebbe approfondita all’interno del<br />

vichismo risorgimentale nazionale a partire da V. Cuoco) e l’adesione alla<br />

“civile filosofia” di Romagnosi, presenti, fra gli altri, in B. Castiglia ed E.<br />

Amari, non hanno nulla di materialistico (come sostiene Gentile), tranne<br />

che per materialismo non si intenda qualsiasi impegno teorico-pratico volto<br />

all’ammodernamento della società, che in questo caso addirittura è di<br />

chiara ispirazione cattolico-liberale. Un elemento che in questi due intellettuali<br />

si ritrova immediatamente è l’adesione al cattolicesimo, che però<br />

non li porta ad una chiusura nei confronti di autori di altra ispirazione filosofica<br />

(ad es. Bentham, Romagnosi, ecc.) utilizzati come punto di riferimento<br />

per nuovi modelli di sviluppo. Gli intellettuali di cultura borghese<br />

non potevano rivolgersi al Papato, ancorato ad una visione sociale di tipo<br />

medievale, ma alle forze italiane ed europee che lottavano a fianco della<br />

borghesia più avanzata per la con<strong>qui</strong>sta del potere politico. Bisogna sottolineare<br />

però che il dibattito non vede i cattolici in un unico fronte perché<br />

la questione sociale diventa la linea di demarcazione tra cattolici liberali e<br />

cattolici sociali, riproducendo in Sicilia una questione italiana ed europea.<br />

Castiglia, ad esempio, avverte che la metafisica scolastica rappresenta politicamente<br />

un momento regressivo rispetto alle esigenze di rinnovamento.<br />

In Castiglia l’antisicilianismo è chiaro, deliberato, cosciente del valore di<br />

rottura, poiché il progresso non è possibile con l’isolazionismo e il protezionismo.<br />

Le scienze dell’umanità di cui parla Castiglia, limitando la ricerca<br />

al cerchio delle opere umane, hanno una precisa connotazione politica,<br />

poiché, affermando con Vico che il mondo storico-civile è il frutto dell’operare<br />

umano, escludono ogni intervento divino: l’uomo si riappropria del<br />

suo mondo e ne diviene l’artefice. Il ribaltamento del metodo vichiano, ritenuto<br />

aprioristico, è la prova evidente di questa nuova mentalità positiva,<br />

che vuole trarre dall’osservazione i principi che debbono regolare l’agire<br />

umano, non più determinato e guidato dalle leggi immutabili di Dio, ma<br />

frutto di ben calcolate indagini osservative e storiche. In tal senso Castiglia


Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 13<br />

come ‘scienziato sociale’ si richiama a Romagnosi, che spesso contrappone<br />

a Vico, proprio per la vocazione di filosofo civile e come tale costruisce una<br />

gnoseologia che non è soggettivistica ma positivistico-naturalistica, che ha<br />

evidenti valenze politiche: la metafisica non è adatta agli italiani, che, invece,<br />

hanno bisogno di studi civili e sociali per costruire le basi della loro unificazione<br />

e del loro progresso.<br />

La critica di Castiglia alla metafisica non fu compresa da Gentile, che<br />

la considerò opera di un “bizzarro ingegno” 16 . Dal saggio gentiliano questo<br />

intellettuale esce fuori falsato e sminuito.<br />

Della battaglia contro lo Stato accentrato,<br />

per la sovranità popolare e il suffragio<br />

universale, l’assoluta libertà di stampa,<br />

l’abolizione della pena di morte, la fine<br />

del potere temporale della Chiesa, nulla<br />

è detto.<br />

Nel contesto tracciato da V. Di Giovanni<br />

è assente, fra gli altri, V. D’Ondes<br />

Reggio, mentre la sua azione teorica e<br />

pratica in Sicilia è corrosiva ed agisce in<br />

profondità sia nella critica dell’organizzazione<br />

economico-sociale sia nei confronti<br />

del cattolicesimo arretrato e tradizionalista.<br />

D’Ondes Reggio è assente nella trattazione<br />

gentiliana forse perché assimilato<br />

agli intellettuali che dopo il Quarantotto<br />

vivono e operano nell’Italia settentrionale,<br />

accostandoli alla cultura “nazionale”.<br />

Giuseppe Garibaldi.<br />

In effetti, tutti gli intellettuali che ruotano attorno al Giornale di Statistica,<br />

tranne G. Bruno, emigrano al Nord con il fallimento dei moti del 1848 e<br />

<strong>qui</strong> ricevono nuovi stimoli culturali, ma è innegabile che non dimenticano<br />

l’esperienza maturata durante gli anni siciliani 17 . Tuttavia, per D’Ondes<br />

16 G. Gentile, op. cit., p. 70.<br />

17 Sull’emigrazione politica siciliana oltre al cit. saggio di G. Ciampi, si veda G. B. Furiozzi,<br />

L’emigrazione politica in Piemonte nel decennio preunitario, Firenze, L. Olschki, 1979, pp. 7-181.


14 Giuseppe Bentivegna<br />

Reggio bisogna fare qualche notazione particolare. Egli rappresenta un caso<br />

significativo di trasformazione della cultura cattolico-liberale che, con il<br />

trasferimento dell’autore nel più vasto ambiente nazionale, finisce con l’assumere<br />

un graduale e costante moderatismo e perfino di atteggiamenti<br />

conservatori in nome di quella libertà che dalle pagine del Giornale di Statistica<br />

aveva esaltato il liberoscambismo<br />

e la ribellione al Borbone. Nella<br />

sua parabola culturale ho individuato<br />

due fasi: la prima, quella siciliana; la<br />

seconda, nella Introduzione ai principi<br />

delle umane società e nell’attività parlamentare<br />

del nuovo Regno. Queste due<br />

fasi, per ragioni diverse, non sono considerate<br />

unitariamente né da Romeo<br />

né da Frattini. Il primo si sofferma,<br />

per evidenti ragioni di spazio storico,<br />

all’attività culturale e politica di<br />

D’Ondes Reggio svolta in Sicilia fino<br />

al Quarantotto e, con la solita capacità<br />

critica e sintetica, ne coglie i punti<br />

qualificanti, lo colloca all’interno del<br />

rinnovantesi liberalismo isolano e ne<br />

determina con precisione la funzione<br />

svolta durante gli anni preunitari.<br />

Camillo Benso conte di Cavour.<br />

Frattini, invece, pur con l’intento di<br />

tracciare il pensiero politico di D’On-<br />

des Reggio e di collocarlo all’interno dei diversi orientamenti ideologici del<br />

Risorgimento, ne trascura totalmente la produzione e l’impegno degli anni<br />

Quaranta e si ferma all’analisi della Introduzione ai principi delle umane società<br />

che è del 1857, e all’attività parlamentare. In sostanza, dalla sua monografia<br />

viene fuori un D’Ondes Reggio monco di circa venti anni di impegno<br />

improntato fondamentalmente ai principi del liberalismo economico<br />

e filosofico con forti influenze dell’utilitarismo di Bentham. In Frattini il<br />

rapporto fra cattolicesimo e liberalismo nella svolta postunitaria di D’Ondes<br />

Reggio non è visto come una intransigente difesa del cattolicesimo (an-


Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 15<br />

tiliberale) ma della libertà senza attributi 18 . In realtà l’Introduzione e i Discorsi<br />

sulle presenti rivoluzioni in Europa 19 costituiscono il punto di passaggio<br />

dalle posizioni liberali al cattolicesimo conservatore e intransigente<br />

dell’Opera dei Congressi, poiché, malgrado vi si tenti di armonizzare le<br />

istanze cattoliche con quelle liberali, sono la prova dell’adesione al moderatismo<br />

di destra. Se le due opere rispondono<br />

all’esigenza di formulare un sistema liberale di marca cattolica, che assegna allo<br />

Stato una funzione essenzialmente garantista e una legittimazione fondata sull’utilità<br />

e sul consenso degli associati 20 ,<br />

sul piano politico l’accettazione della formula cavouriana della “libera Chiesa<br />

in libero Stato” nasconde un dissenso che<br />

esplose più tardi nella vigorosa opposizione parlamentare del barone siciliano a<br />

tutte le iniziative di governo che rispondessero a una logica interventista in materia<br />

ecclesiastica, in nome della propria coerente quanto dottrinaria idea di libertà.<br />

Individuando nella realizzazione dello Stato unitario l’applicazione di un<br />

liberalismo, per così dire, antiliberale, una forma moderna di assolutismo, il Reggio<br />

finì per escludere ogni idea di conciliazione tra il cattolicesimo e quel liberalismo,<br />

attestandosi a sua volta su posizioni intransigenti 21 .<br />

In fondo il D’Ondes Reggio di questi anni è molto lontano dall’accettare<br />

le conclusioni etiche e politiche del liberalismo 22 .<br />

Le contraddizioni del barone siciliano non sfuggono a Sindoni, che,<br />

anzi, ne ricostruisce senza “intromissioni ideologiche” la figura attraverso<br />

18 E. Frattini, Il pensiero politico di V. D’Ondes Reggio, Brescia, Morcelliana, 1964, p. 201.<br />

19 Torino, Paravia, 1850.<br />

20 F. Traniello, Cattolicesimo e società moderna, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali,<br />

diretta da L. Firpo, Torino, Utet, 1972, vol. V, p. 577.<br />

21 Ibidem.<br />

22 Come dirà nel 1879 nel V congresso dei cattolici intransigenti (Opera dei Congressi) nel programma<br />

del movimento: «[…] il liberalismo è tirannide; esso è l’incredulità, addimandata Filosofismo<br />

del secolo passato, la quale è l’ultima conseguenza che in sé nascondeva il Giansenismo. Liberalismo,<br />

Filosofismo, Giansenismo, tutte e tre nell’intrinseco sono la stessa cosa, ed hanno però lo<br />

stesso generatore, il Protestantesimo, ondeché non ci può essere cosa più impropria anzi più sconcia<br />

di dire Cattolicesimo liberale, levati i sofismi, gli arzigogoli, le lustre, e le inconseguenze, di cui si fa<br />

sovente uso per manco male, le due parole sono contraddizione in termini, significano verità-errore,<br />

la seconda nega la prima», Atti del <strong>qui</strong>nto Congresso cattolico, Bologna, Tip. Falsinea, 1880, p. 283.


16 Giuseppe Bentivegna<br />

un’esposizione cronologica e non sistematica delle sue opere; da questo<br />

punto di vista la spiegazione che dà della “rabbiosa” avversione per il liberalismo<br />

del D’Ondes appare in parte convincente 23 .<br />

Dentro questo contesto gioca un ruolo di primo piano E. Amari, innestando<br />

la sua opera all’interno dell’emergente cultura liberale e cattolica<br />

isolana degli anni Quaranta. A tal proposito, è di notevole interesse il dibattito<br />

sviluppatosi tra “sicilianisti” e “autonomisti” (federalisti), cercando<br />

di individuare il ruolo giocato da E. Amari. Va inoltre chiarito che l’autonomismo<br />

di Amari, diverso da quello del cognato D’Ondes Reggio, ma<br />

molto affine a quello di G. La Farina e M. Amari, almeno fino agli anni<br />

Cinquanta, nella sua opera più matura trova una compiuta espressione<br />

dottrinale, che, non immune da ambiguità e contraddizioni, ha svolto una<br />

rilevante funzione di guida del ceto moderato. Nelle opere di Amari, tra<br />

l’altro, si tratta di vedere come si sfalda sotto i duri colpi della critica e della<br />

mediazione, l’antica ideologia sicilianista, che ebbe il suo momento più organico<br />

nel moti del 1812. A tal proposito, mi sembra sostanzialmente corretta<br />

l’analisi di G. C. Marino quando scrive che il<br />

lungo travaglio ideo-programmatico dell’opposizione di coscienti avanguardie al<br />

governo borbonico, l’influenza sempre più incisiva sugli ‘innovatori’ del pensiero<br />

del Vico scoperto anche nell’isola, la stessa penetrazione anomala (in commistione<br />

con cospicue valenze sicilianiste) degli ideali giobertiani del Primato, nella faticosa<br />

maturazione di una intellettualità borghese di cui la teodemocrazia di Gioacchino<br />

Ventura e di Vito D’Ondes Reggio e il liberalismo di Francesco Ferrara e il cattolicesimo<br />

liberale di Emerico Amari e il progrediente unitarismo di Michele<br />

Amari sarebbero stati fattori salienti, avrebbero reso indiscutibile per molti il concetto<br />

di una unità culturale italica entro la quale la cultura siciliana con le sue virtuose<br />

esperienze millenarie andava spiegata e inverata 24 .<br />

Dopo il 1848-49 in Sicilia il movimento liberale non ebbe quasi alcun<br />

seguito per l’esiguità delle forze rimaste e perché in realtà non era riuscito<br />

ad incidere profondamente in larghi settori della <strong>vita</strong> civile, che, sostanzial-<br />

23 A. Sindoni, Vito D’Ondes Reggio. Lo Stato liberale, la Chiesa, il Mezzogiorno, Roma, Ed. Studium,<br />

1990, p. 80.<br />

24 G. C. Marino, L’ideologia sicilianista dall’età dei lumi al Risorgimento, Palermo, S. F. Flaccovio,<br />

1971, p. 200.


Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 17<br />

mente, erano rimasti estranei ai suoi principi. Il fallimento del liberalismo<br />

di primo Ottocento è per certi versi simile a quello dell’illuminismo di fine<br />

Settecento, con cui stabilisce una linea di continuità; e se si può parlare di<br />

sconfitta dell’illuminismo in Sicilia per il suo carattere essenzialmente intellettuale,<br />

lo stesso si può dire per il liberalismo, in particolare per quello<br />

cattolico. Sconfitta che alcuni seppero assorbire e superare adattando la loro<br />

concezione all’ideale unitario. Tra gli altri, E. Amari si schiera contro<br />

costoro e nella sostanza non muta la sua impostazione politica neanche dopo<br />

il Sessanta, quando fece ritorno in Sicilia e fu tra i fondatori del partito<br />

regionista, destinato ad esaurirsi in pochissimi anni, appunto perché rappresentava<br />

una posizione mediana tra il federalismo (ormai sconfitto) e l’unitarismo<br />

dei democratici, senza concretizzarsi in una reale e praticabile<br />

azione all’interno di un progetto di governo; una mediazione, <strong>qui</strong>ndi, che<br />

si configurava, ancora una volta, come just milieu teorico ed elitario, che<br />

trovò il consenso solo di pochi rappresentanti del ceto dirigente isolano, timoroso<br />

di perdere il controllo dello sviluppo e <strong>qui</strong>ndi di essere escluso dalle<br />

decisioni governative del nuovo Regno.


Stemma dell’Impero Austro-Ungarico.


Maria Vita Romeo<br />

Note etico-politiche<br />

nel Gesuita Moderno di Gioberti<br />

NeL 1929, baLbINo gIULIaNo PoTeVa fINaLMeNTe scrivere che Vincenzo<br />

Gioberti era uscito dall’esilio a cui tutta la tradizione positivistica<br />

lo aveva condannato. Il concetto di positivo, d’altra parte, apparteneva<br />

ancora alla scuola naturalistica e considerava pertanto<br />

tutte le filosofie spiritualistiche come un solo blocco nemico, come forme di<br />

un’unica concezione irrazionale, che in nome di una divinità trascendente opprimeva<br />

la libertà intima del pensiero, e giustificava l’oppressione di tutte le esteriori<br />

libertà sociali e politiche1 .<br />

Ora, è grazie alla filosofia idealistica che ci si comincia ad accostare al<br />

pensiero di Vincenzo Gioberti con occhi diversi. Certo, la rinascita degli<br />

studi giobertiani in Italia non inizia subito; Croce, per es., benché abbia<br />

portato alla luce con il suo idealismo filosofi dimenticati come Vico e Spaventa,<br />

non s’interessò a Gioberti.<br />

Ha persino sorriso di lui – scrive Giuliano – senza nemmeno sospettare quante<br />

luminose intuizioni idealistiche vi fossero nella speculazione filosofica talvolta un<br />

po’ torbida ma sempre appassionata e forte di questo battagliero abate cattolico,<br />

che si impostava come ardente nemico della filosofia moderna2 .<br />

Il giudizio non positivo del Croce su Gioberti è certamente legato alla<br />

diffidenza del filosofo abruzzese per ogni forma di pensiero che si lasci turbare<br />

dal dogma cattolico. Per il filosofo dei distinti 3 appare difficile conci-<br />

1 B. Giuliano, Prefazione a R. Rinaldi, Gioberti ed il problema religioso del Risorgimento, Firenze,<br />

Vallecchi, 1929, p. VI.<br />

2 Ivi, pp. VI-VII.<br />

3 Su ciò cfr. G. Pezzino, L’economico e l’etico-utile nella formazione crociana dei distinti (1893-<br />

1908), Pisa, ETS, 1983; e Idem, La fondazione dell’etica in Benedetto Croce, Catania, c.u.e.c.m., 2008.<br />

19


20 Maria Vita Romeo<br />

liare, come pretendeva Gioberti, il dogma cristiano con il pensiero filosofico.<br />

Per Croce, la filosofia è filosofia e non è religione. Secondo noi, dunque,<br />

se Croce accusa Gioberti di essere un filosofo teologizzante non è,<br />

com’è stato ipotizzato 4 , per attaccare il suo amico-nemico Gentile, promotore<br />

della rinascita degli studi giobertiani, ma<br />

perché la filosofia di Gioberti mal si accorda<br />

con la visione crociana di una filosofia molto<br />

cauta nei confronti e della contaminatio teologica<br />

e della tentazione dogmatica:<br />

Non mi è mai riuscito di gustare il Gioberti filosofo,<br />

perché l’ho sentito sempre scarso di acume critico<br />

e privo di originalità speculativa. È stato detto<br />

che questa mia avversione venisse da diversità di<br />

temperamento; ma, in verità, veniva unicamente<br />

dalla ragione che ho enunciata, e l’insofferenza, a<br />

me attribuita sotto nome di temperamento, ne era<br />

naturale effetto. Una poesia brutta dispiace perché è<br />

brutta, e non perché il lettore abbia diverso temperamento<br />

dall’autore. Le scritture filosofiche del Gioberti<br />

sono tutte piene di miti giudaici, cristiani e<br />

cattolici, accolti dall’autore e da lui dichiarati parte<br />

integrante, e anzi signoreggiante, del suo pensiero 5 .<br />

Occorre subito precisare che, per Gioberti,<br />

la filosofia si distingue dalla religione: se<br />

Vincenzo Gioberti.<br />

infatti la filosofia trae origine dalla religione,<br />

essa tuttavia è autonoma poiché ha in sé la norma della verità, cioè l’evidenza<br />

razionale. Resta comunque indiscussa la dipendenza almeno iniziale<br />

della filosofia dalla religione.<br />

È dunque con Gentile che assistiamo ad una vera rinascita degli studi<br />

giobertiani in Italia. Il filosofo siciliano vede in Gioberti uno dei filosofi antesignani<br />

di un nuovo sapere filosofico, in cui convivevano in una sintesi ar-<br />

4 Cfr. L. Malusa-L. Mauro, Cristianesimo e modernità nel pensiero di Vincenzo Gioberti. Il «Gesuita<br />

Moderno» al vaglio delle Congregazioni romane (1848-1852). Da documenti inediti, Milano, Franco<br />

Angeli, 2005, p. 11.<br />

5 B. Croce, Conversazioni filosofiche, V, Del Gioberti filosofo, in «La Critica», 40, 1942, p. 1.


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 21<br />

monica pensiero e realtà. Sin dalla stesura della sua tesi di laurea, Gentile si<br />

accosta al pensiero giobertiano, cogliendo dapprima un Gioberti quasi incapace<br />

di superare il dualismo scolastico e che <strong>qui</strong>ndi ha una visione antistorica<br />

del neoguelfismo; e, successivamente, un Gioberti che, superando il<br />

limite dualistico mediante il concetto di unità tra Ente ed Esistente, coglie<br />

la realtà storica italiana ed i problemi del Risorgimento con la concretezza<br />

di chi ha visto comporsi i contrasti della realtà storica nell’unità dell’idea 6 .<br />

L’unificazione d’Italia, – scrive Gentile – come ogni altro fatto storico considerato<br />

nella sua dinamicità, non poteva essere, secondo la formola giobertiana, se non<br />

una creazione dello spirito; un ritorno dell’esistente all’Ente. Il punto di partenza,<br />

dunque, non poteva essere altrove che nell’esistente 7 .<br />

Seguendo quel fil rouge che lega idealmente Platone, sant’Agostino e<br />

san Bonaventura, Gioberti ripropone la formula bonaventuriana l’ens primum<br />

cognitum est ens primum: ciò che è nella nostra mente è lo stesso Ente<br />

assoluto dal quale deriva ogni altro ente. Così accanto alla prima formula<br />

giobertiana, «l’Ente crea l’esistente», che esprime il ciclo metafisico della <strong>vita</strong><br />

reale, troviamo la seconda formula, «l’esistente ritorna all’Ente», che<br />

esprime il ciclo storico, ove tutto il divenire, tutta la storia dell’umanità<br />

hanno un valore religioso. Ed è in questo processo che entra in gioco l’uomo,<br />

il quale, intuendo l’attività creativa di Dio, agisce come un «dio incoato»,<br />

autore di un mondo, quello della storia, attraverso la quale l’uomo (l’esistente)<br />

può tendere al suo principio divino (l’Ente) 8 .<br />

È chiaro così che per Gioberti la civiltà è sinonimo di sviluppo del pensiero.<br />

La civiltà come pensiero ha un’origine ed una finalità divina: parte<br />

da Dio e tende a congiungersi con Dio. Inizialmente, infatti, cogliamo l’unità<br />

(Ente) attraverso l’intùito dell’atto creativo, grazie al quale sono comunicati<br />

all’intelletto i princìpi fondamentali ed immutabili sui quali poggia<br />

il sapere umano: il pensiero ha origine nella Rivelazione e l’Idea, cioè Dio,<br />

6 Cfr. B. Giuliano, Prefazione a R. Rinaldi, Gioberti ed il problema religioso del Risorgimento,<br />

cit., pp. V-VIII.<br />

7 G. Gentile, I profeti del Risorgimento italiano, Firenze 1928, p. 121.<br />

8 «Lo spirito umano è l’immagine di Dio, è un dio finito, è il coato del finito verso l’infinito,<br />

dell’esistente verso l’Ente, e <strong>qui</strong>ndi l’apice, il compimento del mondo e il ministro del secondo ciclo<br />

creativo» (Protologia, I, p. 466).


22 Maria Vita Romeo<br />

si svela all’intelletto per mezzo della parola, cioè il Verbo. Successivamente,<br />

il pensiero umano, ormai illuminato, crea a sua volta la scienza e la civiltà,<br />

progredendo sempre più nella perfezione fino a ricongiungersi con Dio.<br />

Ora questo processo di risalita si forma attraverso il pensiero, il quale<br />

non è soltanto uno strumento del progresso civile, ma anche di quello della<br />

Chiesa, poiché la religione costituisce l’esteriorità dell’Idea e la filosofia l’interiorità<br />

9 . Solo grazie all’idea, cioè al pensiero, è possibile conciliare i<br />

princìpi religiosi con il progresso della cultura, la fede con la scienza. Grazie<br />

all’idea, o meglio alla fede nel pensiero, è possibile combattere il pessimismo,<br />

il misticismo, l’egoismo e tutti quei vizi morali che sono delle forze<br />

corrosive per la nazione 10 . Il motto del Gioberti è dunque: aver fiducia nel<br />

pensiero e credere nello spirito.<br />

Da <strong>qui</strong> la necessità di definire la relazione che intercorre tra la sfera filosofica<br />

e la sfera religiosa. Secondo Gioberti, infatti, per rigenerare la filosofia<br />

occorre la religione, la quale può offrire i princìpi ed il metodo per fare<br />

uscire la filosofia dalla trappola mortale a cui l’avevano destinata i due<br />

orribili mostri dell’Ottocento: lo psicologismo e il sensismo, progenitori, a<br />

loro volta, del materialismo, del fatalismo, dell’immoralismo, dell’ateismo,<br />

dell’idealismo, del panteismo, dello scetticismo e di altri «ludibrii» della filosofia<br />

moderna 11 . In altri termini, per Gioberti la filosofia ha la sua base<br />

nella Rivelazione; Dio è il primo filosofo e l’umana filosofia è la continuazione<br />

e la ripetizione della filosofia divina 12 .<br />

Religione, dunque. Ma una religione che sia filosofia: una religione cioè, che non<br />

cominci dal dividere l’uomo in due parti, in una delle quali sia dato filosofare liberamente,<br />

e nell’altra l’anima abbia ad abbandonarsi a una forza superiore, che<br />

la soggioghi con la potenza del mistero. Una filosofia potente e generosa, come<br />

quella che preconizza Demofilo; la quale accostumi «l’intelletto all’indipendenza,<br />

addestrando così gli uomini a cercare di fuori la libertà gustata dentro, la quale<br />

non è perfetta, e non sazia gli spiriti colti se per via di buone istituzioni non si allarga<br />

nel mondo civile». Una filosofia siffatta, non atomistica e meccanicistica,<br />

non sensistica e incapace di sollevare gli uomini al di sopra del senso e della <strong>vita</strong><br />

19 Cfr. A. Anzilotti, Gioberti, Firenze, Vallecchi, 1931, pp. 425-6.<br />

10 Cfr. ivi, pp. 161-2.<br />

11 Cfr. Introduzione alla filosofia, I, 142.<br />

12 Cfr. ivi, II, 171-2.


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 23<br />

dei bruti e delle naturali tendenze, ma razionale come quella di Socrate e di Platone,<br />

come quella di Bruno e di Vico, non può discordare da una religione come<br />

il Cristianesimo, che svestito dalla sua forma mistica e simbolica, è una pura filosofia;<br />

e “nella sua morale è libertà, e non altro che libertà, primieramente dell’animo,<br />

dove la passione è il tiranno, la ragione è la legge che lo vince e doma, poi<br />

nel mondo esteriore e civile, in cui ella si diffonde, come conseguenza e immagine<br />

di quella prima, colle istituzioni e leggi di repubblica ben ordinata” 13 .<br />

Alla luce di tutto ciò, si comprende perché nel 1923, «quando fu posto<br />

il problema della nostra esistenza nazionale e se ne additò la soluzione a<br />

mo’ di profezia», Giovanni Gentile non esitò a definire Gioberti e Mazzini<br />

«i profeti del Risorgimento italiano» riconoscendo in entrambi due «guide<br />

spirituali» 14 della nostra unificazione nazionale. E la profezia, secondo il filosofo<br />

siciliano, non si compì col 20 settembre 1870 o con Vittorio Veneto,<br />

poiché «essa è una fede, un pensiero alla cui <strong>vita</strong> e al cui sviluppo son legati<br />

in perpetuo la <strong>vita</strong> e lo sviluppo della nuova Italia» 15 .<br />

Secondo il filosofo idealista, il torinese Gioberti ed il genovese Mazzini<br />

ebbero il grande merito di avere elevato il problema del Risorgimento dal<br />

piano politico ed economico a quello spirituale. Essi infatti si adoperarono<br />

affinché gli italiani sentissero il bisogno di unirsi, liberandosi dal giogo dello<br />

straniero, come un’esigenza dello spirito e della dignità umana. Tale speranza<br />

era certamente alimentata dalla profonda concezione religiosa che<br />

animava i due «profeti»:<br />

Essi – scrive a tal proposito Solmi – erano convinti che non si può parlare di libertà,<br />

di unità, d’indipendenza, di civiltà e di progresso senza una rigenerazione<br />

religiosa dell’umanità; sentivano che la religione ispira e consacra i pensieri e le<br />

azioni umane; nobilita, consola, fortifica l’individuo e la fratellanza, ogni uomo.<br />

Per essi nella coscienza di ciascuno sta profondo, inseparabile il senso dell’infinito<br />

e dell’imperituro, l’aspirazione all’ignoto e all’invisibile. Non esiste, parlando storicamente,<br />

una sola grande con<strong>qui</strong>sta dello spirito umano, un solo passo importante,<br />

mosso sulla via del perfezionamento della società, che non abbia avuto le<br />

prime mosse da una forte credenza religiosa 16 .<br />

13 G. Gentile, I profeti del Risorgimento, cit., p. 100.<br />

14 G. Gentile, Prefazione (Roma, 12 febbraio 1923) a I profeti del Risorgimento italiano, cit., p. 5.<br />

15 Ivi.<br />

16 E. Solmi, Mazzini e Gioberti, Milano 1913.


24 Maria Vita Romeo<br />

Ed è questo comune sentire religioso che spinge Gioberti a scrivere a<br />

Mazzini, incitandolo ad ingaggiare una battaglia contro quei prìncipi che,<br />

servendosi empiamente della religione, opprimevano i popoli:<br />

Strappate la maschera dell’ipocrisia ai prìncipi, che con bestemmie nefande osano<br />

chiamarsi cristiani, cattolici, padri del popolo, stabiliti da Dio; e oltraggiano la<br />

santità della religione col vituperoso omaggio che le rendono. Penetrate nelle corti<br />

dei re e dipingete al vivo quelle fogne di malvagità e di bruttura; chiedete qual<br />

sorta di cristianesimo sia quello tenuto dai governi assoluti […] ponete mano al<br />

vero e vivo cristianesimo, chiarìtelo, divulgatelo, proclamate le sue dottrine per<br />

impedire che esso si confonda con quella religione di servitù e di barbarie che oggi<br />

regna 17 .<br />

Dal punto di vista giobertiano, la causa della rovina d’Italia era da ricercare<br />

in quella crisi spirituale e morale che aveva investito il popolo italiano<br />

e conseguentemente le sue istituzioni. Da <strong>qui</strong> la necessità di liberare<br />

l’Italia spiritualmente, prima ancora che materialmente. La <strong>vita</strong> e la civiltà<br />

di un popolo dipendono infatti dal vigore del suo spirito ed il vigore spirituale<br />

di un individuo, così come di uno Stato, ha le sue radici nella religione<br />

ed in particolare nella più vera delle religioni: la cattolica; una religione<br />

negata dai filosofi stranieri ed in particole dai francesi 18 .<br />

Gioberti, in effetti, ha il grande merito di aver tentato una sorta di sintesi<br />

tra il pensiero filosofico e il sentimento nazionale, così come mostrano<br />

le sue diverse opere. Dall’Introduzione allo studio della filosofia del 1841 al Primato<br />

morale e civile degli italiani del 1842; dal Gesuita Moderno del 1847 al<br />

Rinnovamento civile dell’Italia del 1851, l’obiettivo di Gioberti è sempre lo<br />

stesso: mettere in rilievo la sostanziale unità di ragione e fede, di civiltà e cattolicesimo.<br />

Contro il proclamato «primato» culturale e politico di Francia e<br />

Germania, dove, secondo Gioberti, il soggettivismo aveva generato mali come<br />

l’immanentismo idealistico, l’immoralismo sensistico, l’ateismo e il relativismo,<br />

bisogna proclamare, da un canto, l’egemonia spirituale della Chiesa<br />

cattolica, detentrice della Rivelazione sovrannaturale, e, dall’altro, l’egemonia<br />

culturale dell’Italia, detentrice della rivelazione naturale sull’Europa.<br />

17 Lettera del Gioberti, fasc. IV, 1834 della Giovine Italia.<br />

18 Cfr. C. Librizzi, Il Risorgimento filosofico in Italia, Padova, CEDAM, 1953, p. 4.


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 25<br />

L’Italia possiede – scrive Gioberti – il principio della civiltà che è il dogma di<br />

creazione incarnato nella parola cattolica. Finché ci fu fedele fu la prima delle nazioni.<br />

Ecco la causa del primato italiano: primato doppio; nell’ordine dei tempi,<br />

poiché noi fummo civili prima degli altri, nell’ordine delle cose perché fummo<br />

più civili degli altri. L’Italia creò i primi germi di tutta la civiltà moderna: commercio,<br />

industrie, lettere, arti, ecc. Questi germi furono spesso svolti e perfezionati<br />

di fuori, ma creati da Dio. L’Italia nell’Europa è la nazione creatrice. E perché?<br />

Perché essa sola possiede … il principio di creazione e la parola che la esprime. Fu<br />

la nazione ideale e sacerdotale. L’Italia è piccola come la Grecia. Ma nelle lettere<br />

e nelle arti italiane splende l’idea cattolica che abbraccia tutto il genere umano 19 .<br />

Certo tutto ciò oggi potrebbe apparire retorico, provinciale e persino<br />

utopico; ma non dobbiamo dimenticare che queste riflessioni giobertiane<br />

s’inseriscono pienamente all’interno di un clima culturale in cui, come sappiamo,<br />

altri paesi europei rivendicavano il primato politico e culturale sugli<br />

altri popoli. Pensiamo alla Francia, ma soprattutto alla Germania di Fichte.<br />

Nei Discorsi alla nazione tedesca, scritti quando ancora i francesi occupavano<br />

la Prussia dopo la vittoria napoleonica di Jena, Fichte presenta un nuovo<br />

modello di educazione volto al rinnovamento spirituale dei tedeschi, l’unico<br />

popolo degno «più di nessun’altra nazione d’Europa di ricevere la nuova<br />

educazione» 20 . Nella visione filosofico-politica di Fichte, infatti, il popolo<br />

tedesco è il solo ad aver conservato intatte le proprie caratteristiche nazionali<br />

originarie e naturali. Basti pensare alla stessa lingua tedesca; l’unica, rispetto<br />

alle altre lingue europee, ad essersi conservata pura nel corso dei secoli:<br />

La prima differenza tra il destino dei Tedeschi e quello degli altri popoli di origine<br />

germanica, è questo: I primi restarono nelle sedi abitate in origine dal popolo<br />

primitivo, i secondi invece emigrarono in cerca di altre sedi; i Tedeschi mantennero<br />

la lingua originale; i secondi presero una lingua straniera e la trasformarono<br />

a poco a poco a modo loro 21 .<br />

Da <strong>qui</strong> l’esaltazione del popolo tedesco, il solo «che ha il diritto di chiamarsi<br />

il popolo». Persino «la parola tedesco nel suo significato letterale de-<br />

19 Del primato morale e civile degli italiani, I, XL.<br />

20 J. G. Fichte, I Discorsi alla Nazione Tedesca, intr. trad. e note di E. Burich, Milano-Palermo-Napoli-Genova-Bologna,<br />

Remo Sandron, p. 65.<br />

21 Ivi, p. 67.


26 Maria Vita Romeo<br />

nota questo» 22 . Se dunque un popolo doveva essere investito di un primato<br />

culturale e politico sugli altri Stati europei, questo non poteva che essere,<br />

per Fichte, il popolo tedesco a cui gli stessi stranieri avrebbero fatto assegnamento,<br />

poiché solo nei tedeschi «è riposto […] fra tutti i nuovi popoli,<br />

il germe dell’umana perfezione» 23 . Ecco perché<br />

– conclude Fichte, rivolgendosi ai suoi compatrioti<br />

– «non c’è […] una via di mezzo: se voi<br />

perite, perisce con voi tutta l’umanità, senza la<br />

speranza di un nuovo risorgimento» 24 . Basterebbe<br />

quest’ultima affermazione a scagionare<br />

Gioberti dall’accusa di provincialismo e a comprendere<br />

storicamente tanto Gioberti quanto<br />

Mazzini, che attribuivano all’Italia una sorta di<br />

funzione messianica e redentrice quale guida<br />

per i futuri Stati Uniti d’Europa.<br />

Secondo Gioberti, la filosofia, aggredita dai<br />

«mostri» del pensiero moderno, poteva in effetti<br />

rinascere solo in Italia. In un’Italia, però,<br />

in cui si fosse ristabilito quel senso dello spirituale,<br />

del religioso, che da secoli la rende nazione.<br />

La vera filosofia, infatti, vive nella vera religione. Indubbiamente<br />

quest’ultima offre solo i princìpi ed il metodo; il resto è opera del pensiero<br />

umano che crea la scienza e la cultura. Ecco perché prendere coscienza di<br />

essere italiano è la migliore condizione per sentirsi cattolico; come quella<br />

di essere cattolico è la migliore condizione per sentirsi pienamente italiano.<br />

L’Italia e la Santa Sede – afferma Gioberti – sono certo due cose distinte ed essenzialmente<br />

diverse, e farebbe opera assurda, anzi empia e sacrilega, chi insieme<br />

le confondesse; tuttavia un connubio di diciotto secoli le ha totalmente congiunte<br />

ed affratellate, che se altri può esser cattolico senza essere Italiano (e sarebbe troppo<br />

ridicolo, anche in grammatica, il metterlo in dubbio), non si può essere perfetto<br />

Italiano da ogni parte, senza essere cattolico, né godere meritamente del primo<br />

titolo, senza partecipare allo splendor del secondo. E se negli ordini perfetta-<br />

22 Ivi, p. 125.<br />

23 Ivi, p. 302.<br />

24 Ivi, p. 303.


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 27<br />

mente religiosi il papa non appartiene più all’Italia, che ad un’altra nazione, ed è<br />

personaggio cosmopolitico; negli ordini civili egli fu il creatore del genio italico,<br />

ed è talmente connaturato con esso, che si può dire con verità l’Italia essere spiritualmente<br />

nel papa, come il papa è materialmente in Italia, allo stesso modo<br />

che, avendo riguardo all’ordine psicologico, il corpo è nello spirito, come riguardo<br />

all’ordine fisiologico lo spirito è nel corpo 25 .<br />

Nel Primato morale e civile degli italiani del 1843, il filosofo torinese ripropone<br />

le sue due formule ontologiche nel contesto storico. Così la formula<br />

«l’Ente crea l’esistente» diventa «l’Italia ha creato l’Europa»; e la formula<br />

«l’esistente torna all’Ente» diventa «l’Europa ritorna all’Italia». Co -<br />

m’egli stesso afferma chiaramente:<br />

Il primato religioso d’Italia è indubitato, e siccome la religione tiene per la sua<br />

natura il primo grado fra le cose umane, ella conferisce agli italiani una maggioranza<br />

morale e sociale. […] Rivolgano dunque i popoli gli occhi verso l’Italia, antica<br />

ed amorosa madre, che chiude i semi della loro redenzione. L’Italia è l’organo<br />

della ragione suprema e della parola regia e ideale, fonte, regola, guardia di ogni<br />

altra ragione e loquela; perché ivi risiede il capo che regge, il braccio che muove<br />

la lingua che ammaestra e il cuore che anima la cristianità universale… L’Italia<br />

ha creato l’Europa cristiana e moderna, l’Europa deve ritornare all’Italia…Veggo<br />

in questa futura Italia risorgente fissi gli occhi d’Europa e del mondo; veggo le altre<br />

nazioni, prima attonite e poi ligie e devote, ricevere da lei per un moto spontaneo<br />

i principi del vero, la forma del bello, l’esempio e la norma del bene operare<br />

e del sentire altamente…Veggo infine la religione posta in cima di ogni cosa<br />

umana; e i principi e i popoli pareggiare fra loro di riverenza e di amore verso il<br />

romano pontefice, riconoscendolo e a dorandolo, non solo come successore di<br />

Pietro, vicario di Cristo e capo della Chiesa universale, ma come doge e gonfaloniere<br />

della confederazione italiana, arbitro paterno e pacificatore di Europa, institutore<br />

e incivilitore del mondo, erede ed amplificatore naturale e pacifico della<br />

grandezza latina. E mi rappresento assembrata ai suoi piedi e benedetta dalla sua<br />

destra moderatrice la dieta d’Italia e del mondo 26 .<br />

Con il Primato, dunque, dopo trentacinque anni, Gioberti fornisce una<br />

risposta tutta italiana ai Discorsi alla Nazione tedesca di Fichte, risvegliando<br />

le coscienze offuscate di tanti italiani da tempo sfiduciati nel sogno risorgi-<br />

25 Del primato morale e civile degli italiani, I, 54.<br />

26 Ivi, II, XI.


28 Maria Vita Romeo<br />

mentale di un’Italia unita e libera. Un sogno che sembra trovare realizzazione<br />

con l’elezione al soglio pontificio di Pio IX il quale, in un primo momento,<br />

sembra mettere in atto il piano neoguelfo di Gioberti: unire l’Italia<br />

liberale sotto il papato. Tale progetto, tuttavia, fu subito dichiarato nullo:<br />

la rivoluzione del 1848, nata sotto il segno del neoguelfismo, distrusse infatti<br />

tutte le aspirazioni di Gioberti e fu sufficiente l’allocuzione del 29<br />

aprile, per annullare e cancellare i propositi dello stesso Pio IX.<br />

Resta comunque indiscusso il successo del Primato e l’entusiasmo che<br />

suscitò in tutte la parti d’Italia, sancendo in tal modo l’affermazione del<br />

cattolicesimo liberale che, nonostante la condanna di papa Gregorio XVI<br />

con l’enciclica Mirari Vos, raggiunse l’apice con il neoguelfismo di Gioberti,<br />

segnale che gli italiani nella lotta per l’indipendenza desideravano effettivamente<br />

legare religione e patria, Stato e Chiesa.<br />

A differenza dei cattolici reazionari, che rivendicano un sistema teocratico,<br />

il movimento dei cattolici liberali (N. Tommaseo, A. Rosmini, A.<br />

Manzoni, R. Lambruschini) propugna una Chiesa veramente compenetrata<br />

dello spirito evangelico, una Chiesa contraria ai sistemi dei privilegi, vicina<br />

alle classi popolari e favorevole all’indipendenza dei popoli. Lo spirito<br />

del cristianesimo, infatti, per i suoi princìpi di fratellanza e di uguaglianza<br />

non può sostenere né le tirannidi né le violenze popolari, ma favorire la nazionalità,<br />

l’uguaglianza e la libertà. Da ciò il progetto cattolico-liberale di<br />

svecchiare la Chiesa cattolica, abbandonando le monarchie assolute e le<br />

vecchie strutture feudali, e facendosi promotrice di riforme politiche e sociali<br />

che favorissero il popolo. Un progetto che Gioberti seppe cogliere, trascinando<br />

dalla sua parte, nella lotta contro l’Austria, la gran parte della borghesia<br />

italiana.<br />

La risposta gesuitica al cattolicesimo liberale arrivò nel 1850 con la fondazione<br />

della rivista «Civiltà Cattolica», con la quale i padri gesuiti si proponevano<br />

di combattere le nuove idee del tempo: la Chiesa, in quanto istituzione<br />

divina, non poteva adattarsi alla civiltà moderna. Un’idea, quest’ultima,<br />

del tutto opposta a quanto affermato sempre da alcuni padri della<br />

Compagnia di Gesù nel lontano XVII secolo, quando, per affrontare il<br />

«problema modernità», scesero a compromessi con le nuove esigenze del<br />

tempo, al fine di non perdere le simpatie dei potenti. Ed è sempre per assicurarsi<br />

le simpatie dei potenti che nel XIX secolo i Gesuiti scelsero la li-


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 29<br />

nea dura nei confronti delle nuove idee del tempo, poiché solo questo atteggiamento<br />

conservatore permetteva loro di restare legati ai prìncipi restauratori.<br />

E come spiegare questa loro capacità di scelta così mutabile, se<br />

non col progetto politico di una Società religiosa che guarda più al terrestre<br />

che al celeste? Nei disegni della Compagnia di Gesù, o almeno di questi<br />

padri gesuiti, non era contemplata politicamente un’Italia unita. Da <strong>qui</strong> le<br />

accuse, o meglio le calunnie, volte a dimostrare la diretta filiazione dell’unità<br />

d’Italia dalle eresie protestanti.<br />

L’opposizione dei Gesuiti all’unità d’Italia spiega in parte l’avversione<br />

nei loro confronti da parte di Gioberti, che nel suo Gesuita Moderno 27 –<br />

opera scritta appunto contro i Gesuiti durante il suo soggiorno a Parigi e<br />

pubblicata nel 1846-7 in Svizzera a Losanna presso Bonamici – definisce il<br />

suo progetto neoguelfo, avvalorando il connubio tra il religioso ed il civile.<br />

I Gesuiti, di contro, negano la possibilità di un tale connubio, e lo negano<br />

in nome di una Chiesa che deve rimanere legata all’ortodossia tradizionale<br />

e lontana dalla politica, poiché il cattolicesimo non può confondersi con il<br />

particolarismo delle nazioni.<br />

A nome dell’Evangelio – scrive il padre Curci – si pretende il Parlamento, a nome<br />

del Papa la confederazione italica, ed a nome della morale cristiana lo scacciamento<br />

del tedesco dal Lombardo-Veneto; insomma si vorrebbero fare per mezzo delle<br />

idee religiose quei cangiamenti e, diciamolo con la sua parola, quelle rivoluzioni,<br />

che in altri tempi si facevano a mano armata dalla plebe ubriaca e infellonita 28 .<br />

Un concetto nobile questo dei Gesuiti, i quali, in quanto cittadini di<br />

una comunità cosmopolita, rifiutano l’idea che la Chiesa possa appoggiare<br />

il progetto d’indipendenza italiana. Purtroppo si era costretti a prendere atto<br />

che questi stessi ideali cosmopolitici non valevano nei confronti dell’Austria,<br />

di cui i Gesuiti rimanevano fedeli alleati! Accusati di mancare di coscienza<br />

patriottica, i Gesuiti si difendevano in nome dello spirito cosmopolitico<br />

che caratterizza non solo la loro Compagnia ma la cristianità in ge-<br />

27 Il Gesuita moderno venne condannato il 6 giugno 1849. Il 12 gennaio 1652 vennero condannate<br />

le altre opere del Gioberti.<br />

28 C. M. Curci, Fatti e argomenti in risposta alle molte parole di V. G. intorno ai Gesuiti nel Prolegomeni<br />

al Primato, Napoli, stamperia del Fibreno, 1845, p. 290 (riportata da M. F. Sciacca, Introduzione<br />

a V. Gioberti, Il gesuita moderno, I, XII).


30 Maria Vita Romeo<br />

nerale. Tuttavia, in più occasioni Gioberti aveva dimostrato che il cosmopolitismo<br />

non nega affatto la patria, che anzi questa completa quello.<br />

Il cosmopolitismo – scrive Gioberti – non che escludere il genio nazionale e l’amore<br />

del paese natio, se ne rifà e lo avvalora, pigliandone le mosse e ricorrendovi,<br />

come il succhio di un albero prosperoso e vegnente, che gira e rigira migliorato<br />

per le vene interne e le cellole, correndo e ricorrendo dal fusto alle ramora e dalla<br />

barbe alla veta. Il falso e cattivo cosmopolitismo all’incontro è quello che si sequestra<br />

dall’idea e dalla carità nazionale 29 .<br />

È noto, scrive a tal proposito Anzilotti,<br />

il disprezzo del Gioberti per questi falsi cosmopoliti, che a parole amano l’umanità,<br />

ma nei fatti poi si rivelano per anglomani e gallomani. […] Ma eguale avversione<br />

egli dimostra anche nel Gesuita moderno come nelle opere precedenti,<br />

per i “patrioti alla moda gentilesca”, che vedono soltanto la nazione ed esagerano<br />

in altro senso, sequestrando l’individuale ed il concreto, cioè la patria, dal generico<br />

e dall’astratto, cioè l’umanità 30 .<br />

Ora, sottolinea Gioberti, la filosofia cristiana esalta l’uomo in quanto<br />

microcosmo che riflette in sé «le idee e le perfezioni divine» 31 , la sua attività<br />

e il conseguente effetto che ne deriva, cioè l’incivilimento. La civiltà è dunque<br />

la virtù evangelica. L’amore di Dio e del prossimo costituiscono i due<br />

pilastri sociali sui quali edificare la Repubblica cristiana; da <strong>qui</strong> la convinzione<br />

giobertiana dell’inscindibilità del nesso tra religione ed incivilimento.<br />

L’idea cristiana rappresenta, infatti, l’esempio perfetto del cosmopolitismo,<br />

poiché è nazionale e mondiale allo stesso tempo.<br />

L’avversione gesuitica all’unità d’Italia si presenta dunque agli occhi del<br />

Gioberti più come un’ostilità politica che come una polemica teologica: i<br />

Gesuiti non vogliono perdere il peso politico che esercitano sulla Santa Sede,<br />

un potere che veniva loro garantito dall’alleanza con i prìncipi restauratori.<br />

Ebbene, contro tale ingerenza politica, che costituisce un pericoloso<br />

ostacolo al Risorgimento italiano, si scaglia Vincenzo Gioberti difendendo<br />

il principio della religione civile e quello della Chiesa come agente ed ani-<br />

29 Il Gesuita Moderno, III, 493.<br />

30 A. Anzilotti, Gioberti, cit., p. 165.<br />

31 Protologia, I, 266.


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 31<br />

ma della politica. L’ostilità del pensatore torinese verso i Gesuiti e la loro<br />

morale risale al 1830, quando egli descrive la Compagnia di Gesù come una<br />

setta potente che, dopo aver corrotto la morale cristiana, vuole contaminare<br />

le cose spirituali con quelle temporali, spegnendo così ogni barlume della<br />

civiltà moderna e ripristinando l’antica barbarie 32 .<br />

Il Gesuita Moderno, scrive il Gioberti, ha per oggetto la critica del Gesuitismo<br />

moderno, che contribuì non poco a introdurre e stabilire in Italia quella forma di<br />

scienza e di letteratura, che oggi tuttavia regna. Esso ci avvezzò ancora prima degli<br />

stranieri a sfiorare gli oggetti anziché approfondirli, a sciogliere sminuzzare le<br />

idee anziché a comporle, a preferire i saporetti ed i dolciumi ai cibi forti e nutritivi,<br />

a riporre il pregio supremo dello scrivere nella brevità, nella superficialità,<br />

nella debolezza, sostituendo alla tempra virile della nostra scienza e letteratura l’abito<br />

contrario. Chi cooperò più efficacemente a introdurre nelle nostre lettere le<br />

turgidezze spagnuole e a partorire il seicento? I Gesuiti. […] Senza i Padri l’Italia<br />

non sarebbe mai riuscita spagnuola o gallica nel pensare e nello scrivere, o almeno<br />

sarebbe stata molto meno. […] Il Gesuitismo avversando in ogni cosa la forza, la<br />

creazione, la <strong>vita</strong>, dee essere nemicissimo del genio italiano, che abbonda mirabilmente<br />

di tutte queste parti. Esso porta un odio speciale alle idee, ai sistemi, alla<br />

scienza e alla poesia vasta, profonda e di lena; perché queste cose uniscono e ingagliardiscono,<br />

dove che la setta vuole dividere e prostrare 33 .<br />

Da questo punto di vista, Michele Federico Sciacca osserva giustamente<br />

che l’opera di Gioberti<br />

segna il culmine della lotta tra la concezione del cattolicesimo contraria ad ogni<br />

rinnovazione e lontana o ostile al movimento nazionale e la concezione del cattolicesimo,<br />

quale elemento essenziale e forza agente del progresso della civiltà e in<br />

particolare del risorgimento civile e politico dell’Italia34 .<br />

La controversia tra Gioberti e i Gesuiti s’inserisce così pienamente nella<br />

storia del Risorgimento italiano. Per il Torinese, due erano le cause che<br />

32 «Setta potente che dopo corrotta la morale, corrotti i dogmi e la disciplina, vuol mescere il<br />

cielo con la terra, la società civile con l’ecclesiastica, il regno spirituale con il temporale, perpetuare<br />

gli abusi presenti, far rivivere quelli della bassa età, e, spenta ogni civiltà moderna, richiamare nella<br />

civiltà e nel mondo l’antica barbarie» (Ricordi, I, 141; riportato da M. F. Sciacca, Introduzione a Il<br />

Gesuita Moderno, I, XIII).<br />

33 V. Gioberti, Il Gesuita Moderno, Discorso preliminare, I, LXIV-LXV.<br />

34 M. F. Sciacca, Introduzione a V. Gioberti, Il Gesuita Moderno, I, XX-XXI.


32 Maria Vita Romeo<br />

ostacolavano la buona riuscita del Risorgimento italiano: i gesuiti 35 , vicini<br />

all’Austria e nemici del «genio italiano» 36 , e «la mania d’imitare gli stranieri»<br />

37 da parte degli italiani. Da <strong>qui</strong> il progetto di ristabilire l’autonomia interna<br />

degli Italiani, nei costumi, nella religione, nelle lettere, negli animi e<br />

negli intelletti.<br />

Noi – scrive infatti Gioberti – non dobbiamo osteggiare la setta, né come i Protestanti<br />

del secolo sedicesimo, né come i Giansenisti del diciassettesimo, né come<br />

i filosofi del seguente. Dobbiamo essere italiani e cattolici in tutto, anche nel battagliare<br />

e fare alle pugna coi reverendi Padri. Dobbiamo essere uomini dell’età<br />

nostra e non delle scadute: non imitare il passato, ma antivenire il futuro, ed essere<br />

modelli ai posteri, non pedisse<strong>qui</strong> degli antenati. Dobbiamo soprattutto<br />

guardarci d’imitare i Gesuiti 38 .<br />

Leggendo il Gesuita Moderno, sembra quasi di avvertire quella stessa vis<br />

polemica che domina le Petites Lettres di Blaise Pascal; si avverte lo stesso<br />

sarcasmo, lo stesso sdegno nei confronti di una morale sleale, falsa e corrotta,<br />

che va contro ogni precetto della legge evangelica.<br />

Io – scrive Gioberti – non sono Gesuita: la morale che professo è quella dell’Evangelio,<br />

non dei casisti che lo corruppero» 39 . Così – continua Gioberti – né Demostene,<br />

né Cicerone medesimi, se tornassero al mondo, potrebbero far credere<br />

che la morale del Gesuitismo sia pura, che il suo procedere sia leale, il suo affetto<br />

alla civiltà sincero, il suo zelo per la religione gratuito e generoso, la sua educazione<br />

forte, l’ingegno grande, l’indole virile, la carità del prossimo schietta ed esemplare;<br />

e via discorrendo 40 .<br />

Come le Lettere Provinciali di Pascal, l’opera di Gioberti non è «un semplice<br />

lavoro di polemica» 41 ; il suo intento è anche quello d’insistere sulla necessità<br />

di una morale cattolica autentica e sincera sul modello del Vangelo:<br />

35 «Sin da quando io non aveva ancor perduta essa patria, mi parve di trovare la cagion precipua<br />

del suo male negl’influssi gesuitici e stranieri» (Il Gesuita Moderno, Discorso preliminare, I, LXI-II).<br />

36 Ivi, I, LXIV.<br />

37 Ivi, LXII.<br />

38 Ivi, LXXVII. Cfr. ivi, LXII-III.<br />

39 Ivi, CVII.<br />

40 Ivi, LXXXIV.<br />

41 Ivi, LXVI.


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 33<br />

Oltre che, – si legge nel Gesuita Moderno – intendendo che l’opera presente non<br />

sia un semplice lavoro di polemica, e desiderando di darle per quanto posso un<br />

certo valor dottrinale, ho dovuto allargarmi assai più che non richieggono i termini<br />

della controversia segnati dagli avversari. A ciò mira una buona parte di essa,<br />

cominciando dal settimo capitolo; nel quale e nei seguenti io mi studio di esprimere<br />

e dichiarare alcune verità, utili in ogni tempo, ma opportune principalmente<br />

al dì d’oggi. Le quali verità mirano sostanzialmente a un solo scopo; cioè a<br />

mettere in luce l’idea sincera del Cristianesimo e del cattolicesimo considerati nelle<br />

loro attinenze terrestri e civili 42 .<br />

Pronta è la reazione dei Gesuiti, i quali, chiamati in causa, reagiscono<br />

accusando Gioberti di falsità 43 . Certo tra i Gesuiti ci sono anche uomini<br />

eccellenti, che non ricorrono alla menzogna o alla calunnia, ma costoro –<br />

precisa Gioberti – sono assai rari:<br />

Né voglio […] asserire che tutti i Gesuiti siano capaci di mentire e diffamare il<br />

prossimo; poiché si trovano fra loro uomini eccellenti, pei quali ho una stima e<br />

una venerazione sincera. Ma questi tali sono assai rari 44 .<br />

Beninteso, la dichiarata simpatia per Pascal non deve farci pensare ad<br />

un Gioberti giansenista, o filogiansenista. Ciò viene dichiarato dallo stesso<br />

autore del Gesuita Moderno che, alla fine di un lungo discorso volto a difendere<br />

ed elogiare Pascal, tiene a precisare la sua indipendenza dai giansenisti:<br />

Non vorrei che dalle cose sinora discorse altri inferisse che io inclini alla scuola<br />

degli etici rigoristi, o che approvi tutte le specialità della moral gianseniana […]<br />

Alieno come sono e per natura e per elezione da tutti i pareri esagerati, io credo<br />

tanto irragionevole la severità soverchia nelle cose pratiche, quanto la ferocia dei<br />

dogmi speculativi; e confesso che i Giansenisti rappresentano in alcune parti della<br />

morale, non meno che nelle credenze, il contrapposto sofistico della vostra setta<br />

[si rivolge al gesuita padre Francesco Pellico] Se non che la via del mezzo essendo<br />

difficilissima a cogliere nella sua perfezione, tengo assai più pericoloso nella teorica<br />

delle azioni l’inclinare alla troppa larghezza che al suo contrario 45 .<br />

42 Ivi, LXVI-II.<br />

43 «Perché i Gesuiti non possono assalire la mia riputazione, che intaccando per diretto la mia<br />

persona, o negando la verità delle cose che dico» (ivi, LXXXIV).<br />

44 Ivi, LXXV.<br />

45 Ivi, III, 132-3.


34 Maria Vita Romeo<br />

Il pensatore neoguelfo, benché attacchi ripetutamente i Gesuiti e le loro<br />

massime, condanna sul piano politico sia il giansenismo (quello s’intende<br />

ortodosso e docile alla voce della Chiesa) sia il gesuitismo, poiché, queste<br />

due «sette», pur differenziandosi in quasi tutto 46 , sono risultate nocive<br />

all’unità nazionale italiana.<br />

Il Giansenismo maritandosi al gallicanesimo […] introdusse in Italia un nemico<br />

intestino di Roma […] e vi accese una guerra civile tra il centro e la circonferenza<br />

dell’area nazionale. Il danno giansenistico fu poi accresciuto dai Gesuiti, i quali<br />

difendendo Roma mercenariamente […] recarono al colmo la scissura morale tra<br />

il capo e le membra italiche già incominciata dagli altri faziosi. Così le due sette<br />

furono ancora in questo concordi, procedendo per vie diverse al medesimo scopo,<br />

cioè alla divisione d’Italia, e all’indebolimento civile e religioso di Roma 47 .<br />

Ma il male fatto all’Italia dai giansenisti e dai gesuiti, pur essendo grande,<br />

è sempre meno grave di quello procurato alla morale cristiana che, resa<br />

eccessivamente rigorosa dai primi e esageratamente accomodante dai secondi,<br />

ha perso quel carattere di universalità che la caratterizzava.<br />

I seguaci di Giansenio – scrive Gioberti – e più ancora i Gesuiti spogliarono l’etica<br />

evangelica di quell’unica e incomparabile eccellenza, che l’argomenta vera e<br />

divina; i primi esagerandone il rigore, i secondi rilassandola, impicciolendola,<br />

troncandone i nervi e rimovendone ogni grandezza; gli uni e gli altri poi sostituendo<br />

in alcune parti alla legge umana e sociale una morale ascetica e foresta.<br />

Che cosa v’ha di più gretto e schifoso che l’etica di molti casisti? Dunque il creatore<br />

vestì le nostre spoglie e pellegrinò fra gli uomini per insegnar loro la morale<br />

dell’Escobar e de’ suoi compagni? Una morale che di bellezza, di purezza, di s<strong>qui</strong>sitezza,<br />

di maestà è di gran lunga inferiore a quella d’Isocrate, di Cicerone, di<br />

Marco Antonino e di altri gentili filosofi, non ostante le loro macchie? Non vedete<br />

che a tale stregua la divinità del Cristianesimo diventa non solo improbabile,<br />

ma ridicola? 48 .<br />

Quando nel Gesuita Moderno affronta il «problema Italia», Gioberti<br />

spiega la necessità per essa di un triplice risorgimento: 1) «il ristauro della<br />

nazione colle riforme civili»; 2) «il ristauro della filosofia e delle scienze in<br />

46 Cfr. ivi, 72.<br />

47 Ivi, 91.<br />

48 Ivi, 95.


universali col proteggere il loro culto, migliorar le scuole, fondare accademie,<br />

[…] agevolare la stampa»; 3) «il ristauro della religione col purgarla<br />

dei trascorsi disciplinari che ne offuscano la bellezza» 49 .<br />

Qui il teorico del neoguelfismo individua le miserie dell’Italia nei due<br />

«estremi sofistici» del mondo sociale: i rivoluzionari da un lato ed i governi<br />

conservatori dall’altro.<br />

L’Italia giacque sinora in quelle miserie che tutti sanno, perché bersagliata e palleggiata<br />

dai due estremi sofistici del mondo sociale, cioè dai governi inclinati ad<br />

urtare anzi che a secondare il secolo, e da fazioni vaghe di oltrepassarlo […] così<br />

gli uni e gli altri si somiglian del pari nel dover ricorrere alla frode e alla forza per<br />

mettere in atto le loro intenzioni; gli uni colle sette ipocrite e cogli eserciti, gli altri<br />

colle congiure e colle rivoluzioni 50 .<br />

Entrambi gli «estremi sofistici» del mondo sociale ricorrono alla frode<br />

ed alla forza per mettere in atto le loro intenzioni anziché «assecondare il<br />

secolo», agire cioè con riforme pacifiche e moderate, così come insegna lo<br />

studio della natura umana.<br />

Gl’inesperti dell’uomo e delle cose umane credevano che per ovviare al rinnovamento<br />

delle calamità succedute, fosse d’uopo tirare i popoli indietro, e fermare i<br />

progressi civili; e i Gesuiti, scaltri usufruttatori dell’imbecillità umana, valsero<br />

non poco a confermare nell’animo di molti questa stolta credenza. Dico stolta,<br />

poiché si fonda in una perfetta ignoranza delle leggi che governano la nostra natura;<br />

lo studio della quale c’insegna che unica via per impedir le rivoluzioni eccessive<br />

e violente si è il dar opera alle rivoluzioni pacifiche e moderate 51 .<br />

Se dunque, con il Primato del 1843, Gioberti si proponeva di smuovere,<br />

provocare ed eccitare l’opinione pubblica italiana, pur restando su una posizione<br />

più moderata e tacendo su almeno tre punti fondamentali del suo<br />

programma con i Prolegomeni del 1844, prima, e col Gesuita Moderno del<br />

1847-8 dopo, egli abbassa ogni barriera e si scaglia con vigore contro chi<br />

ostacola l’unità d’Italia, complice probabilmente il fatto che quest’ultima<br />

opera giungeva in un momento propizio. Nel 1846, infatti, morto Grego-<br />

49 Ivi, IV, 238.<br />

50 Ivi, IV, 156.<br />

51 Ivi, IV, 156-7.<br />

Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 35


36 Maria Vita Romeo<br />

rio XVI, viene eletto papa Pio IX che, come abbiamo visto, sembrò accogliere<br />

con simpatia l’idea riformatrice del federalismo giobertiano. L’esule<br />

Gioberti abbandona il suo atteggiamento pacificatore e diventa la guida intellettuale<br />

dei liberali italiani e soprattutto di un popolo che non era nazione,<br />

ma che nazione doveva e voleva diventare.<br />

Il Primato fu subito sottoposto a severe obiezioni da parte di avversari<br />

ed amici, entrambi d’accordo nel giudicare un’utopia il progetto delineato<br />

nell’opera. Infatti, come si poteva realisticamente pensare di affidare la missione<br />

ideale e nazionale alla corona dei prìncipi o alla tiara del papa, ad istituzioni<br />

cioè chiuse nella salvaguardia dei loro interessi, ostili e diffidenti<br />

persino nei confronti delle ferrovie e sorde rispetto alle nuove esigenze storiche<br />

che partono dalla politica e dalla società?<br />

E poi una questione capitale: quale sarebbe il ruolo dell’Austria nel sistema<br />

federalista capeggiato dal papa? In ogni caso, i pericoli per l’unità<br />

italiana erano gravi. Bisogna precisare che le obiezioni avanzate contro il<br />

Primato troveranno energiche risposte nei Documenti e schieramenti, in appendice<br />

al Gesuita Moderno. Dall’accusa di astrattezza e sterilità etico-politica,<br />

quella che lo dipingeva come un pericoloso sognatore ad occhi aperti,<br />

egli si difende mostrando che l’esperienza ed i fatti posteriori al Primato gli<br />

hanno dato ragione. Sicché Anzilotti può giustamente scrivere di Gioberti:<br />

Egli ha divinato Pio IX, presagito Carlo Alberto e previsto la lega italica. Ma soprattutto<br />

è stato il primo a dire che la redenzione dell’Italia non può dipendere<br />

da aiuti e casi esterni, ma da lei sola 52 .<br />

Il 7 novembre 1821, respingendo fermamente l’ipotesi di una «tirannia»<br />

della lingua toscana su un paese frantumato in tutto, Leopardi annota con<br />

amarezza nello Zilbaldone che l’Italia, pur essendo politicamente divisa co-<br />

52 A. Anzilotti, Gioberti, cit., p. 104. Sul fatto d’aver taciuto sull’Austria, egli confessa che nella<br />

prima composizione del Primato non volle approfondire questioni riguardanti l’Austria e i Gesuiti,<br />

al punto tale da eliminare alcune parti per dare al libro un carattere di massima moderazione:<br />

«Quanto agli Austriaci se io mi fossi portato altrimenti, le mie pagine non avrebbero avuto ingresso<br />

in alcuna parte della penisola» (Il gesuita moderno, V, 146). Dunque il Primato tacque su tre punti<br />

fondamentali: 1. le riforme per la secolarizzazione dello stato pontificio; 2. le relazioni dell’Austria<br />

con la confederazione italica; 3. i condizionamenti dei Gesuiti sulla Chiesa (cfr. Anzilotti, Gioberti,<br />

cit., pp. 103-5).


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 37<br />

me la Germania, sta in una condizione ancora peggiore di quella tedesca:<br />

l’Italia non è nemmeno una nazione, né una patria!<br />

Cosa ridicola che in un paese privo affatto di unità, e dove nessuna città, nessuna<br />

provincia sovrasta all’altra, si voglia introdurre questa tirannia nella lingua, la quale<br />

essenzialmente non può sussistere senza una simile uniformità di costumi ec. nella<br />

nazione, e senza la tirannia della società, di cui l’Italia manca affatto. [… ] Certo<br />

se v’è nazione in Europa colla cui costituzione politica e morale e sociale convenga<br />

meno una tal soggezione in fatto di lingua<br />

(e la lingua dipende in tutto dalle condizioni<br />

sociali ec.), ell’è appunto l’Italia, che pur<br />

troppo, a differenza della Germania, non è<br />

neppure una nazione, né una patria 53 .<br />

D’altronde, lo stesso Leopardi acutamente<br />

coglie nella storia italiana una frattura<br />

significativa tra la letteratura e la nazione,<br />

tra la «classe letterata» e le altre<br />

classi. Il tutto aggravato da un contesto in<br />

cui mancano i prere<strong>qui</strong>siti per parlare di<br />

nazione:<br />

In Italia oggidì (che nel trecento era tutto<br />

l’opposto) la lingua scritta degli scrittori,<br />

sebbene differisca dalla parlata molto meno<br />

che fra’ latini, tuttavia differisce, credo, più<br />

Pio IX.<br />

che in qualunque altro paese culto, certamente<br />

Europeo. E questo forse in parte cagiona la nessuna popolarità della nostra<br />

letteratura, e l’essere gli ottimi libri nelle mani di una sola classe, e destinati a lei<br />

sola, ancorché pel soggetto non abbiano a far niente con lei. Il che però deriva<br />

ancora dalla nessuna coltura, e letteratura, e dalla intera noncuranza degli studi<br />

anche piacevoli, che regna nelle altre classi d’Italia; noncuranza che deriva finalmente<br />

dal mancare in Italia ogni <strong>vita</strong>, ogni spirito di nazione, ogni attività, ed anche<br />

dalla nessuna libertà, e <strong>qui</strong>ndi nessuna originalità degli scrittori ec. Queste<br />

cagioni influiscono parimente l’una sull’altra, e nominatamente sulla disparità<br />

della lingua scritta e parlata, e tutte con iscambievoli effetti contribuiscono sì a<br />

tener lontano dall’Italia ogni spirito di patria, ogni <strong>vita</strong>, ogni azione; sì ad impe-<br />

53 G. Leopardi, Zibaldone, 2064-2065.


38 Maria Vita Romeo<br />

dire ogni originalità degli scrittori; sì finalmente a mantenere la intera divisione<br />

che sussiste fra la classe letterata e le altre, fra la letteratura e la nazione italiana 54 .<br />

Per giunta, una volta assodato che non esiste la nazione italiana, bensì<br />

una massa di atomi, l’acume leopardiano si sofferma pure sul carattere degli<br />

italiani, sul loro cinismo, sulla loro incapacità a prendere sul serio qualunque<br />

questione, sulla loro tendenza a sghignazzare su tutto, un carattere<br />

che è al contempo causa ed effetto di una decadenza etico-politica:<br />

Come la disperazione, così né più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della<br />

vanità della <strong>vita</strong>, sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e<br />

della immoralità. Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata<br />

ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’ costumi,<br />

de’ caratteri, e della morale. […] Gl’italiani ridono della <strong>vita</strong>: ne ridono assai più,<br />

e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra<br />

nazione. […] Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari<br />

nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci 55 .<br />

Gli italiani dunque non erano e non potevano essere cittadini, ma solo<br />

individui. Una visione, quest’ultima, che ritroviamo persino nell’Olimpo<br />

dell’hegeliana filosofia della storia, dall’alto del quale il filosofo di Stoccarda<br />

coglie nitidamente l’eterna sostanza individualistica dell’Italia, dove l’atomismo,<br />

l’inganno e l’infamia stanno beatamente a casa propria:<br />

L’Italia, come la Germania, è in sé divisa. Già la sua configurazione geografica non<br />

ha unità, non forma un tutto compiuto. Parimenti il carattere del popolo manifesta<br />

l’individualismo attuale, che non giunge all’universalità. L’assoluto spezzettamento<br />

atomistico è del resto stato sempre il carattere fondamentale degli abitanti<br />

d’Italia, tanto nell’antichità quanto nell’età moderna. Tutto ciò che esula da questa<br />

determinazione del pensiero può, sì, svilupparsi presso gli italiani a splendido<br />

rigoglio; ma d’altra parte anche l’inganno e l’infamia sono <strong>qui</strong> a casa propria 56 .<br />

Ma – si potrebbe timidamente obiettare – la nostra penisola fu anche<br />

la «casa» dell’antica Roma, che seppe soggiogare l’individualità a materia di<br />

54 Ivi, 842.<br />

55 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, in Poesie e prose, Milano,<br />

Mondadori, 1992, vol. II, pp. 461-2.<br />

56 G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. di G. Calogero e C. Fatta, vol. IV,<br />

Il mondo germanico, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 179.


una forma superiore, di un universale etico-politico che dimorò, per secoli,<br />

nella res publica. E la risposta del grande filosofo tedesco non si fa attendere:<br />

è vero, Roma seppe domare con la forza l’italico individualismo, lo mise<br />

in ginocchio, lo costrinse al silenzio per secoli, tuttavia non riuscì a realizzare<br />

in profondità un’educazione<br />

morale e civile.<br />

Sicché, una volta crollato<br />

l’istituto universale romano,<br />

quella molla dell’eterno<br />

individualismo italico,<br />

per secoli compressa,<br />

scattò ancor più energicamente<br />

e con effetti devastanti<br />

sempre crescenti.<br />

Certo, rimane nel carattere<br />

italiano una traccia della<br />

«salda personalità» degli<br />

antichi romani, ma è<br />

una personalità che spicca<br />

soprattutto nel negativo.<br />

Infatti, nulla è rima-<br />

sto del l’orgoglio e della<br />

gravità del civis romanus:<br />

Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 39<br />

F. Fabbi, La morte di Anita Garibaldi.<br />

questi italiani, indegni eredi di Roma, non combattono per la loro libertà,<br />

anzi si offrono spontaneamente al dominio straniero. E per di più sono<br />

tanto cinici da scherzarci sopra.<br />

E anche quando «il loro estremo egoismo, degenerato in ogni sorta di<br />

delitti» trovò una mitigazione nella cultura e nelle grandi opere d’arte, gli<br />

italiani, secondo Hegel, s’innalzarono bensì dalla verde e selvaggia <strong>vita</strong>lità<br />

egoistica alle vette dello Spirito con l’attività estetica, ma giammai realizzarono<br />

l’e<strong>qui</strong>librio e la sintesi del momento razionale dello Spirito. Non meraviglia,<br />

perciò, che nella terra italiana, accanto a grandiose forme di religiosità,<br />

convivano la sensualità più sfrenata, la più grande gioia di vivere e<br />

la genialità artistica più raffinata: tutti ingredienti che non portano affatto<br />

all’eticità dello Stato hegeliano!


40 Maria Vita Romeo<br />

La forma dell’autocoscienza italiana non ha apparentemente alcun nesso con<br />

quella degli antichi Romani: tuttavia, dei Romani, vi traluce la salda personalità.<br />

La rigidezza dell’individualità era stata compressa con la forza sotto il dominio<br />

romano; infranto questo vincolo, il carattere originario si manifestò bruscamente.<br />

Certo, non c’è più nulla presso di loro dell’orgoglio e della gravità, della<br />

dignitas e dell’auctoritas: essi si danno spontaneamente e liberamente, e ci<br />

scherzano sopra. Il più bel rigoglio della religiosità si trova <strong>qui</strong> accanto alla sensualità<br />

più sfrenata. Più tardi, quando il loro estremo egoismo, degenerato in<br />

ogni sorta di delitti, era stato superato, gli Italiani, quasi trovandosi un’unità,<br />

giunsero al godimento delle belle arti: così la cultura. L’attenuazione dell’egoismo,<br />

giunse in essi solo fino alla bellezza, non alla razionalità, all’unità superiore<br />

del pensiero. […] Essi sono nature improvvisatrici, dedite tutte all’arte e alla beata<br />

fruizione. Di fronte a tale indole artistica, lo stato è per forza qualcosa di accidentale<br />

57 .<br />

Dunque, da più parti si credeva che non potesse nascere negli italiani<br />

quella coscienza nazionale, che era invece fortissima nei francesi e negli inglesi.<br />

Sembrava di assistere inermi a un totale disimpegno civile italiano,<br />

ad uno scetticismo etico-politico, che trovava diffusione europea con la<br />

cassa di risonanza di giudizi poco lusinghieri talora espressi da una certa<br />

letteratura straniera, francese ed inglese soprattutto, frutto del tradizionale<br />

«voyage en Italie», quasi obbligatorio nel Settecento e nell’Ottocento, e che<br />

ebbe la sua origine nel Journal de Voyage en Italie di Montaigne. Si pensi,<br />

ad esempio, a Madame de Staël, al VI libro della Corinne ou l’Italie (1807)<br />

intitolato Les moeurs et le caractère des italiennes, dove si legge che gli italiani<br />

amano più la <strong>vita</strong> che gli interessi politici, perché non hanno patria. Più<br />

severo è il giudizio del poeta inglese Shelley che, stando in Italia, così scrive<br />

in una lettera del 1818 a Leig Hunt:<br />

Ci sono due Italie; una costituita dalla terra verde, dal mare trasparente, dalle<br />

possenti rovine dei tempi antichi, dalle montagne aeree e dall’atmosfera calma e<br />

radiosa che è infusa in tutte le cose. L’altra consiste degli italiani di oggi, delle loro<br />

opere e dei loro costumi. L’una è la più sublime leggiadra visione che possa essere<br />

concepita dall’immaginazione umana; l’altra la più degradata, disgustosa e<br />

odiosa 58<br />

57 Ivi, pp. 179-80.<br />

58 P. B. Shelley, Opere, a cura di F. Rognoni, Milano, Mondadori, 1996, p. 1144.


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 41<br />

E ancora Alphonse de Lamartine, in una memoria composta nel 1825<br />

per il ministro degli esteri francese, li<strong>qui</strong>da il problema italiano, riducendo<br />

l’Italia ad «une abstraction» e ponendone in risalto la frantumazione politica<br />

e morale:<br />

Ce nom d’Italie est une abstraction: morcelée en petits états, divisée d’intérêts et<br />

de mœurs, il n’y a plus d’Italie que sur les anciennes cartes 59 .<br />

Ma torniamo al Gesuita Moderno, contro cui si muove Silvio Pellico.<br />

Questi protesta contro l’immagine che l’amico dava della Compagnia di<br />

Gesù; immagine che a suo dire era inconciliabile con gli elogi che lo stesso<br />

Gioberti aveva elargito ai Gesuiti nel suo Primato. Quale poteva essere la<br />

causa, se non l’accecamento dell’ira? si domandava il Pellico. Segue immediata<br />

la risposta di Gioberti che respinge l’accusa di aver agito per ira. Il<br />

suo giudizio, invece, è il frutto di un pensiero maturo ed e<strong>qui</strong>librato, ma<br />

indignato dallo spettacolo indecoroso della corruzione morale di certi padri<br />

gesuiti.<br />

Contro il pensatore neoguelfo si muovono anche i gesuiti padre Francesco<br />

Pellico e padre Carlo Maria Curci, i quali sostengono che i membri<br />

della Societas Jesu, da buoni educatori, non debbono far distinzione di patrie<br />

e di costituzioni, e pertanto non possono abbracciare la causa italiana<br />

né approvare che il papa possa prendere partito per un paese a scapito di<br />

un altro. In verità, si potrebbe obiettare che quest’aurea massima, che impone<br />

alla Chiesa di stare au-dessus de la mêlée, non valeva allora per i rapporti<br />

con una superpotenza come l’Austria. Ma immaginiamo quale sarebbe<br />

stata la risposta dei due illustri Gesuiti: rispetto all’impero asburgico, il<br />

peso di un’Italia serva e frantumata e<strong>qui</strong>vale a zero. E poi sarebbe pericoloso<br />

per i cattolici dimenticare che l’Austria del Settecento fu la patria dell’imperatore<br />

Giuseppe II, il quale attuò puntigliosamente una politica ecclesiastica,<br />

il «Giuseppinismo» appunto, che mise alle strette la Chiesa cattolica,<br />

ridimensionando l’autorità ecclesiastica con forme estreme di giurisdizionalismo<br />

mirante all’estensione e al rafforzamento del controllo dello<br />

Stato sulla <strong>vita</strong> e sulla struttura delle varie comunità religiose.<br />

59 Riportato da G. Cenzatti, Alfonso de Lamartine e l’Italia, Livorno, Raffaello Giusti, 1903,<br />

p. 84.


42 Maria Vita Romeo<br />

E se a tal proposito il padre Curci nega assolutamente l’amicizia dell’Austria<br />

con la Compagnia, trovando ridicolo che l’impero austriaco si valga<br />

di poveri religiosi; il padre Pellico non ha alcuna difficoltà ad ammetterla<br />

e giustificarla, in nome di quel principio d’obbedienza che ogni suddito<br />

cristiano deve al comune pastore 60 .<br />

Alla luce di quanto considerato, ben si comprende come la lotta contro<br />

i Gesuiti sia per Gioberti la condicio sine qua non ai fini della preparazione<br />

al Risorgimento italiano, che necessitava, prima d’ogni altra cosa, di una<br />

riforma cattolica. Solo grazie ad essa, infatti, la Chiesa poteva uscire da<br />

quell’immobilismo al quale l’avevano condannata i Gesuiti. Solo aprendosi<br />

alle istanze politico-culturali del XIX secolo, il cattolicesimo sarebbe divenuto<br />

la forza <strong>vita</strong>le della nuova coscienza italiana. Creare il popolo italiano<br />

significava, infatti, crearlo nell’intimo delle coscienze, educarlo a pensare ed<br />

a ricon<strong>qui</strong>stare quei valori morali e civili sui cui costruire l’intero avvenire:<br />

La nazione italiana non potrà mai ricuperare il suo antico primato morale e civile<br />

sul mondo, finché l’uomo italiano dei nostri tempi non sarà divenuto pari a quello<br />

dell’antica Italia e dell’antica Roma. L’uomo, di cui parlo, essendo morale e civile,<br />

consta d’ingegno e d’animo, cioè di genio, che si esprime con un certo costume;<br />

e la trasformazione non è impossibile, poiché la nostra natura non è immutata.<br />

Che cosa dunque ci manca? Ci manca l’arte, l’educazione. […] Rivolgendomi<br />

adunque all’eletta dei giovani miei compatrioti io direi loro: la sorte della comune<br />

patria è in voi riposta massimamente. […] Dateci […] una generazione che sia<br />

italiana di senno e di cuore, e faccia oggi l’Italia ciò che fu una volta. Per ottener<br />

l’effetto, la prima regola che vi dovete proporre si è di non imitarci. Pigliate a<br />

modello non mica i padri, ma gli avoli e gli arcavoli o dirò meglio gli stipiti della<br />

comune famiglia; non i vecchi, ma gli antichi. […] noi spendiamo il tempo a<br />

chiacchierare e a scrivere; voi dovete proporvi di operare. Ma chi vuole operare<br />

con frutto e far cose utili, grandi, dee apparrecchiarvisi colla disciplina e cogli studi<br />

[…] Non può far cose notabili sopra la terra chi prima non le ha pensate 61 .<br />

Per Gioberti non è possibile procedere all’unificazione del popolo italiano,<br />

se non a patto di guardare ad un sistema federalista che rispecchi il<br />

carattere e i bisogni di una terra ridotta da secoli in un pulviscolo di pro-<br />

60 Cfr. A. Anzilotti, Gioberti, cit., pp. 142-7.<br />

61 Il Gesuita Moderno, IV, 371-2.


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 43<br />

tettorati litigiosi e servili. Non tenere in considerazione questa secolare<br />

frammentazione significherebbe, infatti, chiudere stoltamente gli occhi sulla<br />

storia di un popolo e sulle sue radici, per poi subire meritatamente gli<br />

insuccessi che derivano dalla lezione delle cose.<br />

Il disegno degli unitari rigorosi – scrive Gioberti nel Primato – può essere più bello<br />

in astratto e piacere davvantaggio all’immaginativa; ma esso, come ogni sistema<br />

civile, non ha valore nella pratica, se non in quanto si assesta alle condizioni particolari<br />

del luogo e del tempo, in cui se ne fa l’applicazione. […] Ora il supporre<br />

che l’Italia, divisa com’è da tanti secoli, possa pacificamente ridursi sotto il potere<br />

di uno solo, è demenza 62 .<br />

L’unità, dunque, non può e non dev’essere assoluta, ma federativa. Solo<br />

l’unità federativa rispetterebbe la storia della nostra penisola, che ha connaturato<br />

in sé il sistema federalista. L’indole dialettica del popolo italiano<br />

consiste nel conciliare la varietà con l’unità; e questo può realizzarsi solo<br />

con un sistema federativo che accolga gli italiani sotto il papato ed il Piemonte.<br />

Al primo è affidato il compito morale di «comporre ed unificare gli<br />

italiani», al secondo la tutela della Nazione 63 .<br />

Da <strong>qui</strong> il progetto di Gioberti di un’Italia federata in «quattro monarchie<br />

civili e sorelle»: Piemonte, Toscana, Roma e Napoli, la cui unione<br />

avrebbe permesso, sotto la mano invisibile della Provvidenza, di tagliare «i<br />

sommoli all’a<strong>qui</strong>la bastarda» 64 .<br />

Volete sapere – scrive Gioberti – ciò che giova all’Italia? Cercate quello che nuoce<br />

al barbaro, e lo fa impallidire, fremere, smaniare di spavento e di furore. Chi non<br />

vede infatti che l’unione dei quattro stati principali della penisola sarebbe un intero<br />

risorgimento italico, poiché l’Austria, che è più forte di ciascuno di essi segregato<br />

dagli altri, è più debole di tutti insieme raccolti? Quella confederazione<br />

italiana, di cui tanto si parla e che due anni fa era un sogno, ora si può dire già incominciata;<br />

se il principio delle cose risiede nelle forze e condizioni più importanti<br />

per l’effettuamento di una lega italica, se non l’assenso del Piemonte e di Roma<br />

a quell’idea positiva e nazionale, di cui essa lega sarìa l’effetto e l’estrinsecazione?<br />

Imperocché il Piemonte e Roma sono i due stati più forti d’Italia; l’uno di forza<br />

62 Del Primato morale e civile, I, 55.<br />

63 Cfr. A. Anzilotti, Gioberti, cit., pp. 87-9.<br />

64 Il Gesuita Moderno, IV, 198.


44 Maria Vita Romeo<br />

materiale, come fior di milizia pel suo esercito, l’altro di forza morale come cima<br />

d’autorità e d’imperio pel sommo sacerdozio e per la sede della religione 65 .<br />

Indicati i Gesuiti come nemici della patria, non restava che denunciare<br />

l’altro ostacolo alla nostra unità nazionale: la manìa d’imitare gli stranieri<br />

che, secondo Gioberti, ha invaso anche il mondo della cultura e della filosofia.<br />

Da <strong>qui</strong> la necessità di una riforma filosofica che supporterà anche<br />

quella civile, perché queste due insieme produrranno una riforma religiosa<br />

e nazionale:<br />

giacché il cattolicesimo, che è la religione natìa e patria degli italiani, non è altro<br />

che propriamente parlando, che il compimento dottrinale ed interno, la forma<br />

civile e l’estrinsecazione della sincera filosofia 66 .<br />

Ecco perché bisogna e<strong>vita</strong>re l’errore di considerare la fede come un<br />

danno alla speculazione filosofica e rigettare quella «frivola sapienza» diffusasi<br />

in Francia, ove «il Cristianesimo de’ razionali tedeschi co’ suoi miti,<br />

simboli e dogmi ridotti a poesia è divenuto per opera degli eclettici quasi<br />

moneta corrente» 67 . Gli italiani, afferma Gioberti, devono cominciare a<br />

provare vergogna nel «camminar sempre alla coda» e persuadersi di contro<br />

che «il vero rivelato non è un ritegno, né un inciampo, ma un ac<strong>qui</strong>sto e<br />

un aiuto pel filosofo» 68 . Da ciò ne segue la missione del popolo italiano di<br />

rinnovare e perfezionare la filosofia cristiana, la sola capace di uscire dalla<br />

«region del finito» 69 .<br />

Escano dunque gl’Italiani dalle infelici pastoie, in cui gl’ingegni d’oltremondo<br />

vorrebbero costringerli. E non si spaventino di certi loro compatrioti, che chiamano<br />

per istrazio teologizzanti i filosofi che si occupano anco di religione; come<br />

se la filosofia, scienza universale, dovesse escludere solamente il Cristianesimo o<br />

non le fosse lecito il discorrerne che a proposito». E così «invece di vivere e pensare<br />

da forestieri e da bagorgi, diano opera a una <strong>vita</strong> e ad una scienza nuova, secondo<br />

l’esempio dell’Alighieri e del Vico 70 .<br />

65 Ivi, 458-9.<br />

66 Ivi, 235.<br />

67 Ivi.<br />

68 Ivi.<br />

69 Ivi, 236.<br />

70 Ivi, 237.


Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 45<br />

A. Demersay,<br />

Redução de São<br />

Miguel Arcanjo em<br />

1846 (litografia).<br />

Grandioso<br />

esempio delle<br />

Missioni o<br />

Riduzioni fondate<br />

dai Gesuiti nelle<br />

foreste del Sud<br />

America, dove<br />

rimangono tracce<br />

di uno dei più<br />

geniali e<br />

controversi<br />

esperimenti di<br />

natura religiosa,<br />

culturale e politica.<br />

Per concludere, nei giudizi severi di Gioberti sia nei confronti dei Gesuiti<br />

sia confronti dell’Italia e degli uomini del suo tempo si avverte, oltre il dolore<br />

di un cuore amareggiato a causa dell’immaturità civile e morale della sua<br />

patria, la vis di un pensatore, di un religioso e di un politico che lottò senza<br />

arrendersi per il rinnovamento morale e civile dell’Italia. Un rinnovamento<br />

che ai suoi occhi sarebbe stato possibile solo grazie al «ristauro» di quella religione<br />

cristiana che da sempre costituisce l’identità del popolo italiano, e<br />

che è stata messa profondamente in crisi «dagl’influssi gesuitici e stranieri».<br />

Egli è debito dell’uomo onesto l’opporsi, secondo il suo potere, alle torte opinioni<br />

e alle cattive consuetudini del suo tempo; perché pogniamo che non riesca a<br />

correggere e né anco a rallentare il male, non però l’opera sua tornerà vana, come<br />

quella che gioverà almeno a salvare lui stesso da una complicità biasimevole. Egli<br />

è obbligo di chi serba qualche sentimento della dignità umana il rifiutar di piegare<br />

il capo a un servaggio che reputa indegno; e quando l’esempio suo trovasse<br />

qualche imitatore, egli non potria dolersi di essere passato affatto “inutilmente”<br />

sopra la terra. Lo spettacolo della declinazione dell’ingegno italico nelle opere più<br />

nobili della pace, non meno che quello della civile nullità della mia patria, mi<br />

colpì e commosse dolorosamente da gran tempo; e sin da quando io non aveva<br />

ancor perduta essa patria, mi parve di trovare la cagion precipua del suo male negl’influssi<br />

gesuitici e stranieri. Nel che io mi accordavo e mi accordo sostanzialmente<br />

coll’eletta de’ miei compatrioti; se non che essi, sotto nomi di stranieri, intendono<br />

solo l’Austriaco che ci opprime colla forza; dove che io, senza torre al te-


46 Maria Vita Romeo<br />

desco quel privilegio che gli si addice in questa gloria d’infamia, considero la cosa<br />

più uniteversalmente, detesto ogni servitù forestiera, e giudico perniciosissima<br />

eziandio quella che è spontaneamente accettata e si esercita nei costumi, nella religione,<br />

nelle lettere, e in somma negli animi e negli intelletti. Questa io credo<br />

che sia dopo i Gesuiti la prima delle sciagure italiche; perché il Tedesco medesimo<br />

non avrebbe potuto accollarci e mantenere sopra di noi il suo gioco di ferro,<br />

se non avessimo perduto la nostra autonomia interna come Italiani, e smarrita<br />

quasi affatto la facoltà di creare negli ordini del pensiero. Consapevole dell’obbligo<br />

mio […] mi proposi di tentare il ristauro del genio e dell’ingegno italico, che<br />

reputo assopito, ma non ispento. E per andare alla radice del male, ricorsi alla<br />

speculativa che è la scienza propria del pensiero, tentando di gittar le basi di una<br />

filosofia veramente italiana e <strong>qui</strong>ndi universale, che avendo per base il concetto<br />

di creazione, ridestasse la vena creatrice, e travasasse nella pratica quel principio<br />

medesimo, onde procede nella teorica. Ricorsi pure alla religione, che è la sapienza<br />

dell’animo; e <strong>qui</strong> l’opera mia, come cittadino e filosofo, venne a confondersi<br />

con il mio obbligo, come cristiano e cattolico; perché la fede che professo mi porse<br />

colle due grandi idee del cattolicesimo e di Roma il suggello di quella italianità<br />

universale, che andavo cercando, e col dogma di creazione confermò autorevolmente<br />

quell’assioma razionale e supremo, ond’io pigliavo speculando le mosse.<br />

Ma vano sarebbe il voler ravvisare le credenze ortodosse in Italia e il ripigliarvi e<br />

universalizzare l’arduo assunto del Vico di stabilirvi una scienza nuova, se prima<br />

non si stralcia la mania di imitare gli stranieri 71 .<br />

Di <strong>qui</strong> la denuncia e la lotta contro questi nemici del genio italico, per<br />

la sconfitta dei quali Gioberti prepara la sua strategia offensiva che include<br />

il ritorno alle radici cristiane. Ritornare alle radici cristiane non è un ripiego<br />

da passatista, ma una presa di coscienza della nostra identità, della nostra<br />

cultura e dei nostri valori morali e civili, che hanno fatto la nostra storia<br />

la quale «non può non dirsi cristiana». E si sa che per il filosofo torinese<br />

la storia è il frutto dei progressi intellettuali, civili e morali dell’uomo, il<br />

quale agisce in essa come microcosmo che «riflette in sé le idee e le perfezioni<br />

divine». Alla luce di tutto ciò, ben si comprende come per il pensatore<br />

neoguelfo il Risorgimento italiano debba necessariamente scaturire da<br />

quel concetto di nazionalità che è condizione necessaria affinché un popolo<br />

possa elevarsi spiritualmente e, come l’esistente che torna all’Ente, partecipare<br />

all’eterna teogonia.<br />

71 Ivi, Discorso preliminare, I, LXI-LXII.


Alessandro Chiessi<br />

e other Mandeville:<br />

the origins of a scandalous thought.<br />

Mechanism, Materialism and Naturalism<br />

LaWS aND goVerNMeNT are To THe PoLITIcaL boDIeS of Civil Societies,<br />

What the Vital Spirits and Life it self are to the Natural Bodies of Animated<br />

creatures; and as those that study the Anatomy of Dead Carcases may see, that<br />

the chief Organs and nicest Springs more immediately re<strong>qui</strong>red to continue the<br />

Motion of our Machine, are not hard Bones, strong Muscles and Nerves, nor the<br />

smooth white Skin that so beautifully covers them, but small trifling Films and<br />

little Pipes that are either over-look’d, or else seem inconsiderable to Vulgar Eyes;<br />

so they that examine into the Nature of Man, abstract from Art and Education,<br />

may observe, that what renders him a sociable Animal, consists not in his desire<br />

of Company, Good-nature, Pity, Affability, and other Graces of a fair Outside;<br />

but that his vilest and most hateful Qualities are the most necessary Accomplishments<br />

to fit him for the largest, and, according to the World, the happiest and<br />

most flourishing Societies. 1<br />

If we think about Mandeville, we directly think about the famous<br />

aphorism “Private Vices, Publick Benefits.” 2 With these few words Bernard<br />

1 B. Mandeville, e Fable of the Bees, ed. by F.B. Kaye, 2 vols., Oxford, Clarendon Press, 1924,<br />

pp. 3-4. From here on I will use Fable I for the quotations of the first part of e Fable of the Bees<br />

and Fable II for the second part.<br />

For this paper I must thank Prof. Paolo Vincieri (University of Bologna) for his advices on the<br />

relations of nature and human nature, “pride” and “self-denial” and the specifications of metaphysic<br />

and ontology. anks to Prof. Charles T. Wolfe (University of Ghent) for his considerations on<br />

“Mortalism”, the use of the terms ‘soul’ and ‘mind’ in the seventeenth and eighteenth century and<br />

his linguistic revision. anks to Dr. Iulia Mihai (University of Ghent) for her precious suggests<br />

and linguistic observations.<br />

2 Mandeville himself said that the aphorism had simply a provocative function, aiming, therefore,<br />

to ac<strong>qui</strong>re more fame among the readers. (cf. B. Mandeville, A Letter to Dion, ed. by B. Dobrée,<br />

Liverpool, University Press of Liverpool, 1954, p. 38). I do not know if this was true or if this<br />

statement was only a way to mitigate the cruel controversy sprung from e Fable of the Bees’ pub-<br />

47


48 Alessandro Chiessi<br />

Mandeville, a Dutch physician who had moved to London, burst on the<br />

cultural debate of the English early eighteenth century. Despite being criticized—at<br />

best—confuted, or opposed, Mandeville put forth, during his<br />

life, a more and more complete and refined philosophy. 3<br />

He 4 wrote different texts both for analysed arguments and for adopted<br />

stylistic solutions. His writings range over poetical translations of fables,<br />

lication; at the same time the recent and recent past criticism, more often, starts from this aphorism<br />

to explicate numerous unsolved or difficultly understandable philosophical themes.<br />

3 Examining some pamphlets and newspapers published during the twenties and thirties of the<br />

eighteenth century it is possible to see the scandal generated by e Fable of the Bees. One may read:<br />

Robert Burrow’s A Sermon preached before the Lord Major of London on 28 th September, 1723; William<br />

Law’s Remarks upon a Late Book Entituled the Fable of the Bees, published in 1724; John Dennis’<br />

Vice and Luxury Publick Mischiefs: or Remarks on a Book intituled, the Fable of the Bees, published<br />

in 1724; George Bluet’s An En<strong>qui</strong>ry whether a General Practice of Virtue tends to the Wealth or Poverty,<br />

Benefit or Disadvantage of a People published in 1725; Archibald Campbell’s An en<strong>qui</strong>ry into the<br />

original of moral virtue, published in 1728; e Dublin Weekly Journal papers of Francis Hutcheson<br />

published on February 5 th , 12 th and 19 th 1729; and the famous George Berkeley’s Alciphron: or, the<br />

Minute Philosopher, published in 1732. At the same time, the Grand Jury of Middlesex presented e<br />

Fable of the Bees as a public nuisance (cf. footnote 5). Apart from the controversy and legal vicissitudes,<br />

Mandeville’s thought became, over the years, central for those who wanted to think about<br />

human nature and its reflections on society. is is shown by the pamphlets mentioned above, but<br />

even by the implicit references of David Hume and the explicit condemnation done by Adam<br />

Smith in e eory of Moral Sentiments about the Mandeville’s “licentious system”—condemnation<br />

that seems diminished by a lot of hidden references in the Wealth of Nations. e importance of<br />

Bernard Mandeville considerations is demonstrated by the attention that even Karl Marx devoted<br />

to his thinking, indeed he considered Mandeville’s thought “infinitely more audacious and more<br />

honest than the philistine apologists of bourgeois society” (K. Marx, eorien über den Mehrwert, in<br />

Karl Marx und Friedrich Engels Werke, Berlin, Dietz, 1962, vol. 26.1, pp. 363-364). To get an idea of<br />

the Mandeville’s influences on these authors see: D. Hume, Of Refinement in the Arts, in e Philosophical<br />

Works, Edinburgh, Adam Black and William Tait, 1826, vol. III, pp. 302-316 (to remember<br />

how the theme of luxury was considered important but, at the same time, burning: the essay entitled<br />

Of refinement in the Arts in the 1752 edition of Political Discourses was Of Luxury); A. Smith, e<br />

eory of Moral Sentiments, ed. by D.D. Raphael and A.L. Macfie, Indianapolis, Liberty Fund, 1984,<br />

pp. 306-314; Id., An in<strong>qui</strong>ry into the nature and causes of the wealth of nations, ed. by E. Cannan,<br />

New York, e Modern Library, 1937; K. Marx, Das Kapital: Kritik der politischen Okonomie, in<br />

Karl Marx und Friedrich Engels Werke, Berlin, Dietz, 1962, vol. 23, pp. 640-645. To get an outlook<br />

and to see some of the above pamphlet cf. J.M. Stafford, Private vices, public benefit? e contemporary<br />

reception of Bernard Mandeville, Solihull, Ismeron, 1992; For obtaining some hints about Mandeville’s<br />

thought related to Hutcheson, Butler, Berkeley, Hume e Smith, cf. J. Welchman, Who Rebutted<br />

Bernard Mandeville?, «History of Philosophy Quarterly», 24 (2007) 1, pp. 57-74.<br />

4 Scholars really know little about Mandeville’s life: they know he was born in Rotterdam on<br />

November 15 th , 1670, in 1691 he obtained a medical degree at the University of Leiden and shortly


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 49<br />

essays and medical treatises. 5 Spacing into different fields of knowledge and<br />

adopting different expressive skills, Mandeville suggested a lot of reflections<br />

that, for this reason, are not systematic and linear.<br />

after he moved to London. In addition to this, they know he married Ruth Elizabeth Laurence in<br />

1699 and from 1705 he began a serious writing activity in addition to his medical profession. Cf.<br />

F.B. Kaye, Introduction to Fable I, pp. xxvii-xxxii; M.M. Goldsmith Introduction to B. Mandeville,<br />

By a Society of Ladies: Essays in e Female Tatler, Bristol, oemmes Press, 1999, p. 17; to trace an<br />

account of the Dutch youth and of the tumultuous vicissitudes during his academic period in Leiden,<br />

see: R. Dekker, ‘Private vices, public virtues’ revisited: the Dutch background of Bernard Mandeville,<br />

«History of European ideas», 14 (1992) 4, pp. 481-498. In addition, recent discoveries—the<br />

handmade glosses of Bernard’s father, Michael, on the family Bible—have led to reconsider the date<br />

of birth, posing it five days before the date proposed by Kaye and later taken over by Goldsmith<br />

(November 20 th ). Cf. M. Simonazzi, Le favole della filosofia, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 33-<br />

68; A.C. Jansen, Bernard Mandeville: some recent genealogical discoveries, «Notes and Queries», 56<br />

(2009) 2, pp. 231-235, also the website http://www.bernard-mandeville.nl/.<br />

5 During his life, Mandeville wrote numerous texts; in order to get a sense of how many there<br />

are and the differences between them, and, also so as to follow the development of this paper, here<br />

I list his edited books. In 1685, following the customs and practices of the time, he published the<br />

Oratio scolastica. In 1689, during his academic period at the University of Leiden he printed the Disputatio<br />

philosophica de Brutorum Operationibus. In 1690, taking part in the Costerman’s riot, he<br />

wrote, probably with his father, the mockery poem entitled Schijnheyligh Atheist (Sanctimonious<br />

Atheist). In 1691, during the same academic period in Leiden, he published the Disputatio de Chylosi<br />

Vitiata. In 1698, once he moved to London, composed a poem titled In authorem de usu interno<br />

cantharidum scribentem, published at the beginning of a Johannes Groenevelt’s medical treatise. In<br />

1703, Mandeville probably wrote his first work in English, i.e. e Pamphleters: A Satyr. In the same<br />

year he printed some translations in Some fables after the easie and familiar method of Monsieur de la<br />

Fontaine. In 1704, taking up the translations of the former year, adding other ones and writing two<br />

new fables, Mandeville published Aesop Dress’d. In 1704, imitating Scarron’s burlesque method, he<br />

wrote Typhon: or the Wars between the Gods and the Giants. In 1705 began the evolution of e Fable<br />

of the Bees with the publication of e Grumbling Hive. In 1709, Mandeville tested, for the first<br />

time, the dialogue in e Virgin Unmask’d. During 1709-1710 he worked as publicist, writing the<br />

so-called Lucinda and Artesia cycle appeared on Female Tatler. In 1711, another dialogue, focused<br />

on medical topics, came out with this title: A Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Passions.<br />

In 1712 Mandeville printed Wishes to a Godson where he collected poems and other verses for eventually<br />

publishing a second book of Typhon. In 1714, he seemed to devote himself to political issues<br />

in e Mischiefs that Ought Justly to be Apprehended from a Whig-Government. In the same 1714 appeared<br />

for the first time e Fable of the Bees: or Private Vices, Publick Benefits in which he republished<br />

e Grumbling Hive and he added a philosophical essay, titled En<strong>qui</strong>ry into the Origin of<br />

Moral Virtue, and twenty Remarks, to clarify the unclear verses of the fable. In 1715 Mandeville published,<br />

without changes, a second edition of A Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Passions.<br />

In 1720 Mandeville worked on an essay about religion and politics, so he printed the Free oughts<br />

on Religion, the Church, and National Happiness. In 1723 there was a new edition of e Fable of the<br />

Bees: or Private Vices, Publick Benefits in which Mandeville added other Remarks and two essays: An


50 Alessandro Chiessi<br />

is analysis aims to highlight some points within the literary writings<br />

of Mandeville; 6 his books may clarify the role of men as subject of passions,<br />

with desires and needs; men that placed in a community recognize, more<br />

or less consciously, shared models and standards of behaviour. ere are<br />

many hints of research in studying Mandeville’s thought, but here it is my<br />

intention to focus only on some elements to better explain his anthropolo-<br />

Essay on Charity and Charity-School and A Search into the Nature of Society. In that moment the book<br />

created a great uproar; in the same year the Grand Jury of Middlesex presented the book as a public<br />

nuisance and on July 27 th 1723 in the London Journal appeared, as the same Mandeville defined, “An<br />

abusive letter to Lord C.” On August 10 th , he published his defence on the same pages of the London<br />

Journal. ese three writings, titled A Vindication of the Book, from the Aspersions Contain’d in a Presentment<br />

of the Grand Jury of Middlesex and An Abusive letter to Lord C. became a new section of the<br />

Fable published again the following year. In 1724, preserving the same irony and sarcasm of e Fable<br />

of the Bees, but playing also on the paradoxes of the early eighteenth century customs in London,<br />

Mandeville published A Modest Defence of Publick Stews. In 1725, continuing a sort of sociological<br />

research, he printed An En<strong>qui</strong>ry into the Causes of the Frequent Executions at Tyburn. On December<br />

1728 (1729 as written on the title page) appeared e Fable of the Bees. Part II. By the Author of the<br />

First. Here, Mandeville changed his style again adopting the dialogue: Cleomemes and Horace—<br />

the characters—criticise, revise or deepen the themes exposed in the first part of e Fable of the<br />

Bees. In 1730, there appeared a new edition, revised and enlarged, of A Treatise of the Hypochondriack<br />

and Hysterick Diseases, in which the word “Diseases” replaced “Passions” in the title. In 1732<br />

Mandeville published An En<strong>qui</strong>ry into the Origin of the Honour and the Usefulness of Christianity in<br />

War, book in which ideally he continued the issues of e Fable of the Bees with the new Cleomenes<br />

and Horace dialogues. In the same year Mandeville published his last writing: A Letter to Dion,<br />

book in which he answered Berkeley’s critique, exposed in Alciphron, or the Minute Philosopher.<br />

6 About the Mandeville’s writings mentioned in the previous footnote, I must specify some<br />

elements. For the assignment of Schijnheyligh Atheist (Sanctimonious atheist) to Mandeville cf. R.<br />

Dekker, “Private vices, public virtues” revisited, cit., pp. 481-498. For the discovery and the consequent<br />

attribution of In authorem de usu interno cantharidum scribentem, cf. H. Gordon-Ward, An<br />

unnoted poem by Mandeville, «Review of English Studies», 7 (1931) 25, pp. 73-76. For the assignment<br />

of e Pamphleters, cf. M.M. Goldsmith, Private Vices, Public Benefits: Bernard Mandeville’s social<br />

and political thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 28, 78-119 and F.B. Kaye,<br />

Introduction to Fable I, pp. xxx-xxxii (where this writing is considered doubtful). For the attribution<br />

to Mandeville of the so-called Lucinda and Artesia cycle, cf. P.B. Anderson, Splendor Out of Scandal:<br />

e Lucinda-Artesia Papers in e Female Tatler, «Philological Quarterly», 15 (1936), pp. 286-300 and<br />

M.M. Goldsmith, Introduction to B. Mandeville, By a Society of Ladies, cit., p. 44. For the assignment<br />

of e Mischiefs that Ought Justly to be Apprehended from a Whig-Government, cf. H.T. Dickinson,<br />

Introduction to B. Mandeville, e Mischiefs that Ought Justly to be Apprehended from a Whig-<br />

Government, Los Angeles, William Andrews Clark Memorial Library, 1975, pp. i-ix; M.M. Goldsmith,<br />

Private vices, public benefits, cit., pp. 91-92, especially note 38; and F.B. Kaye, Introduction to<br />

Fable I, pp. xxx-xxxii (in which this writing is considered doubtful). Cf. also P. Carrive, La Philosophie<br />

des Passions chez Bernard Mandeville, 2 vols., Paris, Didier, 1983, vol. I, pp. 7-64.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 51<br />

gy. Since e Fable of the Bees’ composition covered a period of almost thirty<br />

years, while he wrote other texts of different genre, style and subject, particular<br />

attention is here devoted to the early works and issues which, rising,<br />

gave the epistemological foundation to his ‘scandalous’, empirical thought.<br />

If so it can be defined. Mentioning the importance of academic training in<br />

medicine and the role of this profession, my purpose is to show the evolution<br />

of an unwieldy Descartes’ mechanism which, shifting to materialism,<br />

is looking for a synthesis inside a central concept for the early modern philosophy,<br />

in general, and for Mandeville, in particular: human nature. 7 So,<br />

starting from the less known texts, I will trace a path which can reveal the<br />

physiological basis—hence natural—of Mandeville’s description of men,<br />

and from there I will demonstrate that even passions, characterizing everybody,<br />

can be categorized in what can be defined physiological naturalism.<br />

e academic training: between medicine and (Descartes’) philosophy<br />

Within the various Mandeville’s writings, although several and diversified,<br />

it is possible to find some lines which help to draw the origins, the<br />

developments and the conclusions of his theory. Moreover, his ideas of<br />

7 Important, in the history of ideas, is the collection of lectures of Arthur Oncken Lovejoy<br />

(Reflection on Human nature, Baltimore, John Hopkins, 1961). In his reflections, Lovejoy relates<br />

“passions” to desires and causes which generate actions. A particular attention is devoted to non-rational<br />

elements with which men seek the approval of others: “appobativeness” as the professor defines<br />

the “love of fame,” the “passion for glory” and the “research of honour.” Cf. A.O. Lovejoy, op.<br />

cit., pp. 129-214. For a further problematization, there is a significant Edgar Morin’s essay (Le paradigme<br />

perdu: la nature humaine, Paris, Seuil, 1973). Devoting particular attention to biological, paleontological,<br />

ethno-anthropological and ethological discoveries, Morin shows how human nature<br />

is an open system concept, which contains all the complexities forming a man, in a dimension of<br />

interrelationship, interaction and interference between biological and cultural elements. Trying to<br />

define what area holds the individual, the society and the species, it is not only difficult but maybe<br />

impossible because everyone is part of one of other. Cf. E. Morin, op. cit., p. 211. Although in the<br />

seventeenth century did not exist a clear disciplinary diversification and a scientific specialization as,<br />

we know, there were the last century, with Bernard Mandeville, scholars are dealing with a conscious<br />

attempt to trace the origin of human actions within a physiological explanation (even if he<br />

couldn’t use the concept of ‘species’ as it is understood now, after Darwin and Darwinism). In addition,<br />

the Dutch physician and philosopher tried to complicate his description considering the social<br />

rules and the cultural impositions as tools for influencing the same human actions.


52 Alessandro Chiessi<br />

men and their being member of a society were intensely criticized in the<br />

eighteenth century England. First of all, it is necessary to explore the less<br />

studied early Mandeville’s writings.<br />

e context, in which Mandeville obtained his education, gave a<br />

strong sign on the origin and the development of the following analysis<br />

and philosophical formulations. e Erasmian School, the University of<br />

Leiden and the historical events, which involved him—including the<br />

movement to London—certainly excited his curiosity on particular knowledge<br />

areas.<br />

From 1685 one can see in Mandeville a speculative interest, which is focused<br />

on both medical and philosophical studies. e Oratio scholastica, 8<br />

although it is a sort of institutional application for the passage from the<br />

Erasmian School of Grammar to University, shows immediately a connection<br />

between medicine and philosophy. Starting from the classical conception<br />

considering human constitution as divided into soul and body, 9 Man-<br />

8 Probably in this writing there were strong influences of Bernard’s father: Michael, also a<br />

physician, but I think one can find here some fils rouges which, intertwining and unravelling, are<br />

able to clarify an anthropological description—subject to changes during the years—and with it an<br />

idea of society. Doing this, I differ from Paulette Carrive’s merciless judgment, who considers the<br />

arguments of the Oratio scholastica trivial (cf. P. Carrive, op. cit., vol. I, p. 9), but, at the same time,<br />

I do not want to exalt or misrepresent what the fifteen-year-old Mandeville was writing. e oration<br />

starts by establishing a close relationship between philosophy and medicine because the first is exerted<br />

on the mind and the latter on the body, arguing that the health of the body is a condicio sine<br />

qua non for the good functions of the mind. Continuing his speech, Mandeville talks about the reasons<br />

that may induce to choose the medicine study, namely its utility, the fame that this discipline<br />

enjoys among men, the satisfaction that someone can get in the exercise of a difficult but not impossible<br />

art and, finally, the happiness that can arise in the physicians. Cf. B. Mandeville, Bernardi<br />

à Mandeville de medicina oratio scholastica, publicè habita, cum è scholâ Erasmianâ ad Academiam<br />

promoveretur, Octob. MDCLXXXV, Rotterodami, Typis Regneri Leers, 1685 (henceforth Oratio<br />

scholastica).<br />

9 It is necessary to recall the importance not only of classical authors—first of all Plato and Aristotle—but<br />

also the role which held Descartes’ thought as both cultural supporter and dividing element<br />

inside the Universities. Paradigmatic was the conflict between Aristotelian and Cartesian professors<br />

in Leiden. To get an overview on the evolution of Cartesianism, with particular attention to<br />

the conception of man, in the dimension of body and soul, see: A. Vartanian, Quelques réflexions<br />

sur le concept d’ame dans la littérature clandestine, in O. Bloch (ed), Le materialisme du XVIII e siecle<br />

et la litterature clandestine, Paris, Vrin, 1982, pp. 149-165. For a discussion about the materialization<br />

of the soul see C.T. Wolfe and M. Van Esveld, e Material Soul: Strategies for Naturalising the Soul<br />

in an Early Modern Epicurean Context, in D. Kambaskovic-Sawers (ed), Conjunctions: Body and


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 53<br />

deville states that the spirit is supervised by philosophy as the body is preserved<br />

by medicine. Since the body finds its order and dignity in the spirit<br />

and in philosophy, the health of the body becomes a necessary prere<strong>qui</strong>site,<br />

without which can be guaranteed the well being of the spirit. 10 e<br />

lapidary sentence, with which the young Mandeville<br />

says that “except the soul and the body there is<br />

nothing that constitutes the nature of man,” 11<br />

shows how deep the cultural influence was. An<br />

influence based on a distinction between two<br />

different substances. Cartesianism certainly<br />

played a leading role in this. is difference,<br />

but at the same time close connection, between<br />

soul and body, and also philosophy<br />

and medicine, becomes fundamental in the<br />

development of his methodology of research,<br />

based on a limited—a posteriori—observation of<br />

nature.<br />

Clearly, it is <strong>qui</strong>te hazardous to trust that<br />

Mandeville at fifteen years of age had a deep<br />

Bernard de Mandeville.<br />

epistemological awareness when he wrote the Oratio scholastica. However<br />

in that speech one can find some elements which become fundamental<br />

parts of the method elaborated and adopted by the adult Mandeville, and<br />

proposed, more explicitly, in the Treatise. Among them I can mention: the<br />

Mind, Sexuality and Spirit from Plato to Descartes, Dordrecht, Springer, Forthcoming 2012/2013.<br />

anks to Charles T. Wolfe for sharing his work with me. Cf. B. Mandeville, A Treatise of the<br />

Hypochondriack and Hysterick Passions, London, Printed and Sold by Dryden Leach, in Elliot’s<br />

Court, in the Little-Old-Baily, and W. Taylor, at the Ship in Pater-Noster-Row. 1711, pp. 114-115<br />

(this edition henceforth will be quoted as Treatise 1711) e Id., A Treatise of the Hypochondriack and<br />

Hysterick Diseases (1730), ed. by S.H. Good, New York, Delmar, 1976, p. 126, (this edition henceforth<br />

will be quoted as Treatise 1730).<br />

10 “Animus, eiusque moderatrix philosophia, <strong>qui</strong>n primas teneat, nemo est <strong>qui</strong> dubitet. Corpus<br />

vero, eiusque conservatrix medicina, ordine ac dignitate secundum ab anima ac philosophia locum<br />

obtinet. Praeter animum & corpus nihil est, quod hominis naturam constituat. Summa itaque opera nobis<br />

danda est, non modo ut animus, sed ut corpus quoque valeat. Nisi enim corpori bene sit, ne animo<br />

<strong>qui</strong>dem bene esse potest: atque ita utrumque per se indigens alterum alterius ausilio veget.” Oratio<br />

scholastica, p. 3.<br />

11 Ibid.


54 Alessandro Chiessi<br />

delimitation of the investigation area of medicine, the instruments that a<br />

physician can and should use, and the limits to which they refer; in addition,<br />

he establishes the need of the direct observation supported by the<br />

study of diseases in medical literature. 12 is is the empirical approach that<br />

can be found later both in medical treatises and in anthropological or social<br />

analysis. Despite that, the Oratio Scholastica exhibits few intentions<br />

that will become guiding principles for studies on the brutes’ actions and<br />

for investigations about the disorders of human digestion; in other words,<br />

in the subsequent years, Mandeville does what he stated in his youth.<br />

e Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus 13 is a text written<br />

at the University of Leiden and, therefore, it reflects the Cartesianism<br />

12 “Physice certe futuro medico necessaria est, ut naturam ac vim corporum naturalium, quorum<br />

usus est in medicina maximus, penitus cognitam perspectamque habeat […]. Quanto igitur <strong>qui</strong>s fuerit<br />

in hac philosophiae parte versatior, quantoque clarius ac distinctius, <strong>qui</strong>c<strong>qui</strong>d est hujus generis perceperit<br />

atque ex<strong>qui</strong>siverit, ut satis ipsi liqueat, prius quam <strong>qui</strong>cquam statuat; tanto ad pernoscendam medicinae<br />

artem, eamque feliciter exercendam, est aptior […]. Huc pertinet, cum assidua lectio auctorum.” Ivi, pp.<br />

6-7; for the limits of medicine: cf. ivi, pp. 12-13.<br />

13 Brutus, a, um is an adjective in Latin meaning “heavy” and “inert” or “stupid” and “irrational,”<br />

its substantivization may be expressed as “brute,” “animal” or “beast;” considering that the<br />

choice of brutum cannot be accidental in spite of animal (probably a too neutral term that, in its semantic<br />

range, may include men, understood as rational being) I opted for translating brutum with<br />

“brute” or “beast.” e Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus aims to show precisely<br />

that the brutes—or beasts—do not possess a soul and so thought. For this purpose, the young<br />

Mandeville refutes both the thesis which, on one hand, would consider brutes with a minimal ability<br />

for reasoning since they are able to do organized things, and on the other hand the thesis which,<br />

discovering a correspondence in some anatomical organs, would see a parallelism between men and<br />

brutes about the capability thought. Additionally the aspirant physician summarizes the thesis of<br />

Plato, Pythagoras, ales, Hobbes and Gassendi. After that, Mandeville compares the views that<br />

were dividing the University of Leiden: the Aristotelian thesis, which sees the origin of life, feeling<br />

and knowledge of brutes in the “Substantial Principle,” and the Cartesian, which considers thinking<br />

one element of the soul. e criticism of the “Substantial Principle,” as well as being a refutation<br />

against the Aristotelians, is also a detachment from the Scholastics, a detachment openly declared<br />

by Descartes in the Discours de la méthode. Mandeville, on this occasion, adopts with some cautions<br />

the Descartes’ positions. Cf. B. Mandeville, Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus.<br />

Quam annuente summo numine, sub presidio Clarissimi, Acutissimique Viri D. Burcheri de Volder,<br />

Medicinae & Philosophiae Doctoris, hujusque, ut & Matheseos in Illustri Accademia Lugd. Batav. Professoris<br />

Ordinarii. Publice defendendam assumit Bernardus de Mandeville, Rotter.-Bat. Ad diem 23<br />

Mart. loco horisque solitis, ante meridiem, Lugduni Batavorum, Abrahamum Elzevirer, 1689 (hereafter<br />

Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus). For the cultural importance of Aristotelians and<br />

Cartesians in the University of Leiden, see Treatise 1711 and Treatise 1730; cf. footnote 9.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 55<br />

of Burcherus de Volder: the mentor of the young Mandeville. 14 Here again<br />

the soul and body ‘dualism’ is the core on which he develops the discussion<br />

about brutes and the causes of their actions. During the seventeenth<br />

and the eighteenth century, early modern science focused on reflections<br />

investigating feelings, perceptions and intellectual<br />

capacities of brutes, 15 trying to define their<br />

correspondence with men. Mandeville, connecting<br />

himself to Descartes’ notions, claims that thought<br />

is possible only if there is an eternal and immutable<br />

soul. From this premise, saying that brutes are provided<br />

with the same soul of men is a contradiction<br />

that conflict with the true idea of God; an idea deduced<br />

and expressed by reason, because only God<br />

is the author of substance and its eternity. Equally,<br />

for Mandeville—and with him the Cartesians—is<br />

a contradiction to assume a mortal and irrational<br />

soul. 16 As well as some actions of brutes can be ex-<br />

plained mechanically, through the concept of automation,<br />

others at the same time still have an un-<br />

Frontespizio del<br />

Discorso sul metodo di Descartes.<br />

14 For a brief history of the University of Leiden and some hints on Burcherus de Volder’s picture<br />

cf. M. Simonazzi, op. cit., pp. 36-43; W. Klever, Burchardus de Volder (1643-1709) A Crypto-<br />

Spinozist on a Leiden Cathedra, «Lias», XV (1988) 2, pp. 191-241, who, finding contacts between de<br />

Volder and Spinoza, shows both the cultural openness of the Leiden professor and the ferment<br />

which the Dutch University was undergoing at the end of seventeenth century and the beginning<br />

of the eighteenth century. Central, among the Italian studies, for a reconstruction of the milieu and<br />

a portrait of de Volder is G.B. Gori, La fondazione dell’esperienza in ‘sGravesande, Firenze, La Nuova<br />

Italia, 1972, pp. 7-42. e source, from which the news about Burcherus de Volder derive, is J. Le<br />

Clerc, Eloge de feu Mr. De Volder professeur en Philosophie & aux Mathematiques, dans l’Acadèmie de<br />

Leide, in Bibliothèque choisie, Amsterdam, Henri Schelte, 1709, vol. XVIII, pp. 347-401. Cf. also<br />

F.B. Kaye, Introduction to Fable I, p. cvi.<br />

15 It is curious to note the interest in early modern science concerning bees and their organizational<br />

skills; in this context the choice of bees as main characters of e Grumbling Hive, poem,<br />

later incorporated in e Fable of the Bees, becomes more meaningful. Cf. Disputatio philosophica de<br />

Brutorum Operationibus, p. A2, § II; see also W.J. Farrell, e Role of Mandeville’s Bee Analogy in<br />

“e Grumbling Hive”, «Studies in English Literature», 25 (1985) 3, pp. 511-529 and P. Costa, Le api<br />

e l’alveare, in AA. VV., Ordo Iuris. Storia e forme dell’esperienza giuridica, Milano, Giuffrè, 2003, pp.<br />

375-409.<br />

16 Cf. Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus, pp. A3-A4, §§ IV-VI.


56 Alessandro Chiessi<br />

known cause. is do not re<strong>qui</strong>re however the postulation of a soul and,<br />

therefore, the intellectual faculties of thought. We can see that the soul and<br />

body ‘dualism’ is in men a sort of relational dualism, in which two different<br />

substances, 17 related to different functions, allow a mutual influence.<br />

Here I think to the explicitly mentioned Descartes’ dualism of “res cogitans”<br />

and “res extensa.” 18 is, beyond all the difficulties, becomes for the<br />

young Mandeville the basis for a qualitative distinction: who possess the<br />

soul and, through this “substance,” is able to think, and who does not possess<br />

it and cannot enjoy the intellectual faculties. e qualitative difference<br />

consists of the following characteristics. Movement—to be considered<br />

mechanic—belongs to the body, while thought and, with it, reason belong<br />

to soul. To establish this unclear but surmountable separation means to<br />

create an implicit hierarchy and therefore a value scale between what concerns<br />

body and its peculiarities and what concerns soul and its activities. 19<br />

17 “Substantiam illud vocamus, quod per se subsistit, cujus conceptus non involvit conceptum alterius:<br />

Sic habeo conceptum cogitationis, nec tamen ille involvit in se conceptum extensionis, & vice versa.<br />

Sed praeter has duas alia substantia non datur; <strong>qui</strong>a nemo sibi aliquem conceptum formare potest, <strong>qui</strong><br />

non involvit conceptum, vel cogitationis, vel extensionis, vel utriumsque, hoc ergo principium substantiale<br />

(corpori enim cogitatio tribui ne<strong>qui</strong>t) est necessario anima, & <strong>qui</strong>dem nihil ab humana differens,<br />

quoniam medium inter animam & corpus nullum datur.” Ibid. (emphasis in the text).<br />

18 “Praeter Cogitationem, & extensionem nulla datur substantia.” Ibid., Corollarium IV. At the<br />

same time cf. R. Descartes, Principia Philosophiae, vol. VIII, p. 8, in Œuvres, publiées par C. Adam<br />

& P. Tannery, 11 vols., Paris, Vrin, 1974. “Per substantiam nihil aliud intelligere possumus, quam rem<br />

quae ita existit, ut nulla alia re indigeat ad exislendum. Et <strong>qui</strong>dem substantia quae nulla plane re indigeat,<br />

unica tantum potest intelligi, nempe Deus. Alias vero omnes, non nisi ope concursus Dei existere<br />

posse percipimus […]. Possunt autem substantia corporea & mens, sive substantia cogitans creata, sub<br />

hoc communi conceptu intelligi, quod sint res, quae solo Dei concursu egent ad existendum. Verumtamen<br />

non potest substantia primum animadverti ex hoc solo, quod sit res existens, <strong>qui</strong>a hoc solum per se nos<br />

non afficit; sed facile ipsam agnoscimus ex quolibet ejus attributo, per communem illam notionem, quod<br />

nihili nulla sint attributa, nullaeve proprietates aut qualitates […]. Et <strong>qui</strong>dem ex quolibet attributo substantia<br />

cognoscitur; sed una tamen est cujusque substantiae praecipua proprietas, quae ipsius naturam essentiamque<br />

constituit, & ad quam aliae omnes referuntur. Nempe extensio in longum, latum & profundum,<br />

substantiae corporeae naturam constituit; & cogitatio constituit naturam substantiae cogitantis.”<br />

Ivi, pp. 24-25 (emphasis in the text). In the fundamental themes, there are many similarities between<br />

what Descartes reported in 1644 and what Mandeville wrote in 1689, although, the aspirant<br />

physician significantly downsized the conception of God, understood as guarantor of substantiality<br />

and, simultaneously, as transcendent principle of truth.<br />

19 Descartes understood the possible difficulty related to a sharp dichotomy between soul and<br />

body, so postulated a place for their mutual action and ‘passion’: the pineal gland. Here, the “ani-


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 57<br />

is means to put reason and intellective faculties over the bodily and<br />

physical needs and, consequently, to put mankind over beasts. Granting to<br />

brutes thought and soul, 20 to explain the origin of their actions, could entail<br />

an equalization of them to men. 21 By doing this, Mandeville would violate<br />

the principle of the “cogito ergo sum” 22 and deeply undermine the<br />

foundation of human identity, stated by the correspondence of thought<br />

and soul, the basis in Descartes’ thought of self-consciousness, intended as<br />

awareness of one’s existence. 23<br />

mal spirits”—imperceptible particles constituting the physiology of the age—transfer both the stimuli<br />

received from the sense organs to soul and the “impressions” created by the soul to body. Cf. R.<br />

Descartes, Le monde ou traité de la lumiere et l’homme, vol. XI, pp. 129-130, 176-181, in Œuvres, cit.<br />

in which Descartes talks about the “H gland” and its interaction with the “animal spirits;” Id., Les<br />

passions de l’âme, vol. XI, pp. 351-355, §§ XXX-XXXIV, in Œuvres, cit. Beyond that, to not devalue<br />

the role of the soul and to maintain its supremacy over the body, Descartes states that “la volonté est<br />

tellement libre de sa nature” so the same will can excite the “petite glande” influencing the movements<br />

of the “animal spirits” and therefore, the actions (cf. Ivi, pp. 359-360, § XLVI). About the connection<br />

of soul and body cf. Id., Principia Philosophiae, cit., p. 41. e problem is also experienced by<br />

Burcherus de Volder, so that in a letter to Leibniz (November 12 th , 1699) he claims that he cannot<br />

understand how soul can be united to body and how, between these two substances, there can be a<br />

mutual influence (“verba haec sunt, nullum meo judicio sensum habentia”). Cf. G.W. Leibniz, Die<br />

philosophischen Schriften, herausgegeben von C.I. Gerhardt, Hildesheim, Olms, 1960, vol. II, p 198;<br />

G.B. Gori, op. cit., p. 33 e M Simonazzi, op. cit., p. 43. is stance can be explained through the<br />

Spinozism that was winding in Holland, in general, and in de Volder, in particular; cf. W. Klever,<br />

Burchardus de Volder, cit., pp. 191-241. Spinoza, indeed, argues a correspondence between order of<br />

ideas and order of things, a correspondence that does not admit the existence of two distinct and,<br />

at the same time, combined substances; cf. B. Spinoza, Ethica, vol. II, pars II, prop. 7, pp. 89-90,<br />

in Opera, 4 vols., Heidelberg, Carl Winters Universitaetsbuchhandlung, 1972.<br />

20 For Descartes thought is the “action” and “passion” of the soul, where its active dimension<br />

is the same of the “will;” cf. R. Descartes, Les passions de l’âme, cit., p. 342, § XVII.<br />

21 Recall that Descartes considers some movements of body completely mechanical—i.e. dependent<br />

by the actions of “animal spirits”—and, for this reason, independent from the influence of<br />

the soul; cf. Ivi, p. 341, § XVI.<br />

22 “Cogito, ergo sum est optimum principium.” Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus,<br />

Corollarium II.<br />

23 Here it is important to quote from the Discours de la méthode: “Et enfin, considérant que<br />

toutes les mesmes pensées, que nous auons entant esueillez, nous peuuent aussi venir, quand nous dormons,<br />

sans qu’il y en ait aucune, pour lors, <strong>qui</strong> soit vraye, ie me résolu de feindre que toutes les choses <strong>qui</strong><br />

m’estoient iamais entrées en l’esprit, n’estoient non plus vrayes que les illusions de mes songes. Mais, aussitost<br />

après, ie pris garde que, pendant que ie voulois ainsi penser que tout estoit faux, il falloit nécessairement<br />

que moy, <strong>qui</strong> le pensois, fusse quelque chose. Et remarquant que cete vérité: ie pense, donc ie suis,<br />

estoit si ferme & si assurée, que toutes les plus extrauagantes suppositions des Sceptiques n’estoient pas capables<br />

de l’esbransler, ie iugay que iie pouuois la receuoir, sans scrupule, pour le premier principe de la


58 Alessandro Chiessi<br />

e analysis of brutes—with the related Cartesianism—is troublesome<br />

for the young Mandeville inasmuch as, in the eighth corollary of the<br />

Disputatio de Chylosi Vitiata, 24 he writes that “Bruta non sentiunt.” 25 is<br />

book is specifically a medical treatise about the digestive disorders—it is<br />

precisely the thesis with which the young Mandeville graduates himself at<br />

the University of Leiden 26 —but, on this occasion, he reiterates a previously<br />

discussed concept. Although the issues about the soul and body ‘dualism’<br />

are overshadowed, focusing attention on medicine and physiology in the<br />

analysis of the digestion processes, here I can find those themes, which will<br />

be deepened and analysed in the Treatise. e role of medicine in the treatments<br />

of diseases besides having specific etiological aim, limited to a specific<br />

disease, also assumes a general knowledge purpose, showing the functions<br />

of the internal organs and so of the body. It is significant that the<br />

young Mandeville, in this dissertation, notices hypo chondriacs suffering of<br />

Philosophie, que ie cherchois.” R. Descartes, Discours de la méthode, vol. VI, p. 32, in Œuvres, cit.<br />

(emphasis in the text); and at the same time cf. Id., Principia Philosophiae, cit., p. 8.<br />

24 In his graduation thesis Mandeville, showing some possible signs of indigestion (“crudi -<br />

tas”)—i.e. the slowness or weakness, the failure and the alteration—describes the physiological<br />

process of digestion and, simultaneously, refutes some theories: that of the ancients which considered<br />

the heat as the main cause and that which reckons movement as main principle of digestion.<br />

Descartes, as one can read in his writings, seems to be at half way between these two positions, but<br />

at the end considers the heat as source of the movement. Mandeville, for his part, looks on digestion<br />

as consequence of a “fermentum” or “menstrum” into the stomach, composed by chyle and “animal<br />

spirits.” is ferment, entering in the chewed food, soaks it through the quality of volatile acid.<br />

Subsequently, in the identification of the causes of indigestion, he sees as possible motivations the<br />

problems of stomach, the deterioration of ferments and the defects of food. e final part of the<br />

dissertation, in order to produce a correct diagnosis, shows the possible manifestations of indigestion,<br />

for giving a valid prognosis and effective treatment. e Disputatio, indeed, ends with a series<br />

of medical recipes. It would be convenient to study the role of iatrochemistry and iatromechanics<br />

in Mandeville’s medical thought. Cf. B. Mandeville, Disputatio medica inauguralis de Chylosi Vitiata.<br />

Quam annuente divina gratia Ex auctoritate Magnifici Rectoris, D. Wolferdi Senguerdii, L.A.M.<br />

Phil. & J. U. Doct. illiusque in Illustri Academiâ Lugd. Bat. Profess. ordinarii, celeberrimi, & c. Nec<br />

non Amplissimi Senatûs Academici Consensu & Almae Facultatis Medicae Decreto, pro gradu doctoratus,<br />

Summisque in Medicina Honorabilis ac Privilegiis ritè & legitimè consequendis, Publico examini<br />

subjicit Bernardus de Mandeville, Rott.-Bat. Ad diem 30 Mart. horâ locoque solitis, Lugduni Batavorum,<br />

Abrahamum Elzevirer, 1691 (hereafter quoted as Disputatio de Chylosi Vitiata). For an historical<br />

discussion see: A.G. Debus, Chemistry, Alchemy and the New Philosophy, 1550-1700: studies in the<br />

History of Science and Medicine, London, Variorum reprints, 1987.<br />

25 Cf. Disputatio de Chylosi Vitiata, Corollarium VIII.<br />

26 Cf. Treatise 1711, pp. 120-121; Treatise 1730, pp. 131-132.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 59<br />

indigestion for an alteration of the ferment of stomach. 27 He states a correspondence<br />

between the gastric functions and ‘mental’ diseases; diseases<br />

that today are called ‘psychological.’ e treatment of hypochondria is not<br />

yet an object of study or of a clear therapy; so, in the Treatise, Philopirio<br />

talking with Misomedon about his thesis discussed in Leiden—i.e. the Disputatio<br />

de Chylosi Vitiata—says: “I have often thought it very remarkable,<br />

that I always had a particular Eye upon, and have been led, as it were, by<br />

Instinct to what afterwards to me appear’d to be the Cause of the Hysterick<br />

and Hypochondriack Passions, even at a time, when I had no thought<br />

of singling out these Distempers for my more particular Study, and was<br />

only design’d for general Practice, as other Physicians are.” 28 e en<strong>qui</strong>ry<br />

and the treatment of hypochondria and hysteria, diseases connected to digestion,<br />

are indeed the starting point for a physiological description of human<br />

nature. e fact that Mandeville, in the Disputatio de Chylosi Vitiata,<br />

considers digestion as consequence of a “juice” composed by “chyle” and<br />

“animal spirits” coming from brain, displays both his debt and his distance<br />

from Descartes. 29 On the one hand, he must postulate the existence of the<br />

27 Cf. Disputatio de Chylosi Vitiata, pp. A3-A4, § VI e § XV; and also Cf. Treatise 1711, pp. 73-<br />

78; Treatise 1730, pp. 83-90.<br />

28 Cf. Treatise 1711, p. 121; Treatise 1730, p. 132. Philopirio and Misomedon together with the<br />

wife of the latter, Polytheca, are the characters of the dialogues of the Treatise. e passage just<br />

quoted shows <strong>qui</strong>te clearly that Philopirio is the Mandeville’s spokesman, but in the preface of the<br />

first edition there is: “In these Dialogues, I have done the same as Seneca did in his Octavia, and<br />

brought my self upon the Stage; with this difference, that he kept his own Name, and I changed<br />

mine for that of Philopirio, a Lover of Experience, which I shall always profess to be: Wherefore I<br />

desire my Reader to take whatever is spoke by the Person I named last, as said by my self.” Treatise<br />

1711, p. xi (emphasis in the text). Why this passage disappears in the 1730 edition is still discussed<br />

(cf. F. McKee, Honeyed Words: Bernard Mandeville and Medical Discourse, in R. Porter (ed), Medicine<br />

in the Enlightenment, Amsterdam, Rodopi, 1995, pp. 223-254). Perhaps it was omitted in order<br />

to restore an identity of views with some criticism of Misomedon (probably the controversy with<br />

apothecaries) or for not influencing too much the reader about the author’s point of view. For this<br />

reason, although Philopirio can be considered as the main Mandeville’s spokesman, it is a good<br />

thing to not identify the character with the author, having the possibility that Mandeville, sometimes,<br />

can take Misomedon’s positions. ese expedients, moreover, are ‘croce e delizia’ (‘torture<br />

and delight’) for those who want to interpret the dialogues as philosophical and literary works.<br />

29 See how Descartes describes the digestive process in L’homme and with it the functions of<br />

the blood circulation referring to the theory elaborated by William Harvey in the Exercitatio<br />

anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus (Francofurti, 1628). Cf. R. Descartes, Le monde<br />

ou traité de la lumiere et l’homme, cit., pp. 120-124, where digestion is explained through the concept


60 Alessandro Chiessi<br />

“animal spirits,” to conceive a mechanical interaction between different<br />

parts of the body 30 and thus clarify the related diseases—in this case the<br />

stom-ach and the brain as organs that, in their common interrelation, re -<br />

fer to hypochondria and hysteria. On the other hand, differently from<br />

Descartes, he cannot consider “heat” and the “fire without light” as causes<br />

of digestion, because they would conflict with the experimental evidence. 31<br />

So the “animal spirits,” with their epistemological uncertainty, are the trait<br />

d’union between philosophy and medicine; coherent and, at the same time,<br />

problematic correlation, just because the “animal spirits” are observable<br />

only through the “Eye of reason.” 32<br />

e physiological description of the human body, aiming at the treatment<br />

of mental diseases with the elaboration of an explanatory theory,<br />

deeply changes not only the Mandeville’s approach to medicine, but also<br />

modifies the ontological basis of his philosophy. is radically limits the<br />

metaphysical heritage of Descartes and opens the way to a kind of empiricism<br />

that never completely closes the doors to supersensible. Philosophy<br />

and medicine, soul and body, men and brutes, are argumentative couples<br />

that involve the first en<strong>qui</strong>ries of Mandeville and that will return in the later<br />

writings with more or less predominance. e influence of Descartes, as<br />

I mentioned and as it is possible to see reading e Fable of the Bees, is<br />

of “heat” and the presence of a “fire without light;” for this last notion cf. also Id., Discours de la<br />

méthode, cit., pp. 45-46; for the role of blood, various particles—the “animal spirits”—and of heat<br />

as “corporeal principle of all movements” in digestive process cf. Id., Les passions de l’âme, cit., pp.<br />

331-335, §§ VII-X; Id., Discours de la méthode, cit., pp. 46-55.<br />

30 Remember that, in biology, a complete cell theory was formulated only in a recent past. Although<br />

Robert Hooke in Micrographia (London, 1665) observed for the first time, in pieces of cork,<br />

what he called “cells,” only in the nineteenth century with Matthias Jakob Schleiden and eodor<br />

Schwann, before, and Rudolf Ludwig Karl Virchow, after, we can talk about a cell theory as we understand<br />

it today.<br />

31 Mandeville refers, for example, to fishes’ digestion, which cannot use “heat” for activating<br />

this internal function. Cf. Disputatio de Chylosi Vitiata, p. A3, §§ IV-V.<br />

32 Cf. Treatise 1711, p. 139; Treatise 1730, p. 170. e theme of an unknown part of nature and<br />

the need of its discovery is mentioned in the Oratio scholastica: “Est ita natura comparatum, ut occulta<br />

quadam ac blanda naturae vi atque tacita ingenii inclinatione ad diversa studia, nescio quomodo,<br />

homines abripiantur.” Oratio scholastica, pp. 3-4. To examine this issue cf. M. Simonazzi, La malattia<br />

inglese: la melanconia nella tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna, Bologna, il Mulino,<br />

2004, pp. 350-351; Id., Le favole della filosofia, cit., pp. 114-115.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 61<br />

dampened and consequently philosophical argumentations about soul,<br />

thought, reason and feeling are then limited. 33 Henceforth, in the reflections<br />

about the investigative method and the medical deontology, what becomes<br />

preeminent is empiricism, an empiricism that is not dogmatic and<br />

that is—if I can use this expression—in fieri. 34 Properly this change, joined<br />

and perturbed by satirical elements, 35 will have a decisive role in the development<br />

and in the results produced by the en<strong>qui</strong>ry concerning mankind—<br />

the in<strong>qui</strong>ry into human nature—and community—intended as society.<br />

e medical profession: from medicine to (empirical?) philosophy<br />

A Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Passions, which became<br />

A Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Diseases, 36 is one of the most<br />

central writings for interpreting the thought of Mandeville. e importance<br />

of this treatise is also shown by the care with which Mandeville worked on<br />

it during several years. 37 e medical problems he dealt with during his<br />

youth in the Disputatio de Chylosi Vitiata are here deepened and systematically<br />

related to hypochondriac and hysteric diseases. In addition to this<br />

there is a sort of synthesis concerning investigation, analysis and method<br />

of treatment, which relates not only to medicine but also to philosophy.<br />

Mandeville works inside the philosophical and medical couple to delineate<br />

and increase—more or less consciously—his reflections. Although<br />

33 Cf. Fable I, pp. 44, 180-181; Fable II, pp. 139-140, 165-168.<br />

34 After he moved to London, some writings that exerted a strong influence on Mandeville included<br />

Isaac Newton’s Principia, the political and philosophical works of omas Hobbes and John<br />

Locke’s Essay.<br />

35 Here I mention only its importance, however cf. P. Harth, e Satiric Purpose of the “Fable<br />

of the Bees”, «Eighteenth Century Studies», 2 (1969) 4, pp. 321-340.<br />

36 e first title is referred to the 1711 first edition—reprinted without changes in 1715—the<br />

second title, instead, is referred to the 1730 revisited and extended edition. For a chronology of the<br />

Mandeville’s publications with the Treatise, cf. footnote 5; for the bibliographical references cf. footnote<br />

9.<br />

37 Cf. S.H. Good, Introduction to Treatise 1730, pp. vi-vii; D.H. Monro, e ambivalence of<br />

Bernard Mandeville, Oxford, Clarendon press, 1975, p. 48; A. Branchi, Medicina e morale agli inizi<br />

del settecento in Gran Bretagna, in L. Turco (ed), Filosofia, scienza e politica nel Settecento britannico,<br />

Padova, Il poligrafo, 2003, pp. 337-351.


62 Alessandro Chiessi<br />

the title seems to relate the book to a traditional scientific text, as I mentioned,<br />

38 the Treatise adopts a dialogical frame for staging a discussion between<br />

a physician, its patient and the latter’s wife, that are: Philopirio, Misomedon<br />

and Polytheca. 39 e stylistic choice is not accidental. It is part of<br />

a specific program. e game of the different points of view can give an<br />

adequate solution both for the particular questions rising during the discussion—they<br />

can be the explicative theories about hypochondria and hysteria<br />

or the physiological models, in vogue at the time, describing the functions<br />

of the human body—and for the purposes of these dialogues: the patient’s<br />

treatment. Beyond the strict aim, namely the search of an adequate<br />

remedy for Misomedon, Mandeville presents a physiological theory when<br />

he also explains the aetiology of hypochondria and hysteria. is is not a<br />

secondary matter, because physiology of passions can be delineated starting<br />

from the mechanical description of human body, with all its philosophical<br />

implications. e fact that the Treatise was published for the first time in<br />

1711, before e Fable of the Bees and the resulting uproar, and was then<br />

reissued in 1730, expanded with more than a hundred pages—after the<br />

scandal, the Grand Jury vicissitudes and the publication of the second part<br />

of e Fable of the Bees—shows a sort of continuity between Mandeville’s<br />

medicine and philosophy. Beyond the analysis of the textual additions,<br />

such as those concerning the utility of mathematics in medicine, 40 it is im-<br />

38 Cf. footnote 28.<br />

39 Philopirio, as Mandeville wrote (Treatise 1711, p. xi), would mean the “Lover of Experience;”<br />

through the same criteria—to find the hidden sense from the Greek etymology—Misomedon<br />

would mean ‘who hates the treatments’ and Polytheca ‘who use a lot of drugs’. Mandeville,<br />

choosing the characters’ names, standardizes but at the same time stereotypes them, so providing to<br />

the reader a clue from the beginning.<br />

40 In this case the textual addictions are: Treatise 1730, pp. 171-206. After more or less twenty<br />

years from the first publication of the Treatise, Mandeville wanted to express his point of view about<br />

the role of mathematics in medicine, probably stimulated by the echo aroused in science after the<br />

publication of the Isaac Newton’s Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (London, 1687); cf.<br />

Treatise 1730, p. 175, where, among other things, are mentioned Newton and the Royal Society.<br />

During the first part of the eighteenth century ‘Newtonianism’ was on the rise and in that period<br />

the separation between ‘natural philosophy’ and ‘science’ began to be established; for an outlook on<br />

the Principia’s reception in England and in the rest of Europe with a particular attention to France,<br />

and for an idea of the different ‘Newtonianisms’ cf. R. Schofield, An Evolutionary Taxonomy of<br />

Eighteenth-Century Newtonianisms, «Studies in Eighteenth-Century Culture», 7 (1978), pp. 175-192.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 63<br />

portant to trace the changes that mark a different feeling or a diverse philosophical<br />

trend into Mandeville’s thought, such as the conception of soul<br />

and its relation to body. Recalling the second argumentative couple—philosophy<br />

and medicine, soul and body, men and brutes—it is observable a<br />

reduction of the early Cartesianism in favour of a materialism close to<br />

Hobbes’ positions. e substantial distinction between soul and body stated<br />

in the first writings, here, is limited and discussed. ere is a sort of<br />

convergence of the immaterial substance on the material one and, with<br />

that, a conjunction of men and brutes, so creating a flattening not only<br />

quantitative—“res cogitans” is brought to “res extensa”—but also qualitative:<br />

men are not (substantially) different from brutes. A textual passage<br />

clearly testifies this transition.<br />

Philopirio—the “Lover of Experience”—is Mandeville’s spokesman<br />

and Misomedon his sceptical interlocutor. 41 Although this distinction can<br />

be useful to identify the points of view, it must not bring to fix the characters’<br />

roles and it must not always lead to consider the result of the Mandeville’s<br />

thinking what Philopirio says. Conversely, this narrative solution<br />

allows Mandeville to write and, in part, to assume some radical positions<br />

that otherwise would have been the subject of a scandal. In other words,<br />

this can allow him to embrace not easy philosophical and ontological positions<br />

without facing of his responsibilities: for example, the devaluation<br />

of the substance of soul. Probably it is not accidental that this theme is discussed<br />

in the Treatise and in the second part of e Fable of the Bees: both<br />

dialogues. Observing two passages of the Treatise, one from the 1711 and<br />

the other from the 1730 edition, I would present the changes that led Mandeville<br />

to discuss his early Cartesianism in favour of a Hobbesian materialism,<br />

which opens the way to physiological naturalism. More exactly, the<br />

mechanism related to the ontological distinction between soul and body is<br />

reduced to the material dimension of the physiological functions. Into<br />

these limits, mechanism is employed to give an internal explanation of the<br />

same physiology—so of human nature and of nature tout court—about the<br />

origins of thought and mind, formerly considered, from a Descartes’ point<br />

of view, characteristics of soul.<br />

41 Cf. footnote 28 and 39.


64 Alessandro Chiessi<br />

e discussion between Philopirio and Misomedon is aimed to the latter’s<br />

treatment. is allows Mandeville, both to investigate generic arguments<br />

about medicine, specifically, physiology, and to apply an unusual<br />

medical treatment: a therapy based on dialogue. 42 Connecting himself to<br />

early works and, in particular, to his degree thesis—the Disputatio de Chylosi<br />

Vitiata—in which gastric diseases were investigated, Mandeville recalls<br />

the effect-cause link that shows how “animal spirits” failure can influence<br />

the digestive process. In the Treatise, however, he goes on and correlates<br />

these gastric variations to hypochondria and hysteria. He tries to develop<br />

a treatment in which, through experience in practical medicine—and so<br />

the knowledge of human nature—and the observation of a particular case<br />

study, he can limit the pharmacology. Not surprisingly, at the end of the<br />

Treatise, the therapy prescribed by Philopirio to Misomedon consists of a<br />

balanced diet and the practice of physical activity. 43 is conclusion shows<br />

the differences between this unusual medical treatise and Mandeville’s degree<br />

thesis, which was closed by a long series of recipes or pharmacological<br />

prescriptions.<br />

e search for an epistemic basis for the existence of “animal spirits”<br />

creates a lot of problems for Mandeville. After a distinction between the<br />

“Art of Medicine” and the “Practice” of it, Philopirio states between them<br />

a mutual relation that is a limitation. e speculation of “Art” must be<br />

guided by the observation of “Practice,” because one can understand both<br />

the particular case study and the human nature only through a posteriori<br />

knowledge. is is Mandeville’s empiricism. e observation, as well as<br />

providing objects of research, bounds reason in the speculative moment;<br />

42 To deepen this admissible interpretation, see what Simonazzi defines “the therapy of word;”<br />

cf. M. Simonazzi, La malattia inglese, cit., pp. 372-385.<br />

43 Here I distance myself from Mauro Simonazzi’s opinion, in which Mandeville is a radical<br />

empiricist, because, analysing a particular case study (Misomedon’s case study), he develops on it a<br />

specific treatment. From my point of view, although, in this writing as in the others, Mandeville—<br />

as every author—wants to create an identification between characters and readers, there is a paradigmatic<br />

value expressed, not only, by the estrangement of a literary fiction—what is written, being<br />

written, even in its singularity, deserves to be denoted from the rest—but also by the fact that the<br />

choice of determinate themes is connected to an hermeneutic-interpretative specific purpose—we<br />

talk about something that, in its specificity, refers to those generic elements, which, with their illustrative<br />

value, can describe a general reality. Cf. Ivi, p. 383.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 65<br />

therefore the en<strong>qui</strong>ry for causation must start from effects and not inversely.<br />

We are dealing with an empirical-inductive method that, moving from<br />

specific objects—for example a particular disease or case study—builds<br />

through reason limited by the same object a causal explanation, which can<br />

be made universal but not absolute. 44 e denial of a priori knowledge—<br />

and with it the necessary adherence to investigated objects—leads implicitly<br />

to the devaluation of right reason. According to Mandeville, in medicine,<br />

it is necessary to measure the observation to objectivity, an objectivity<br />

that has not clear boundaries. From here springs the criticism about reason,<br />

intended as “idol;” 45 this faculty is praised because of physicians’<br />

pride, which is, at last, a common characteristic—or better a passion—of<br />

mankind. is preliminary discussion can clarify why Mandeville considers<br />

medicine an “Art” and not a “Science.” In a case study—as, generically, in<br />

a detailed observation—the object of research is seldom certain; actually,<br />

an observer can come against a lack of the anatomical description and, at<br />

the same time, a linguistic lack in denotation of the elements that constitute<br />

the same object: the human body. 46 So the language is lacking of<br />

words for describing the littlest parts of the anatomical framework 47 or, on<br />

the other side, the object hides itself showing effects that need other, not<br />

observable, physiological factors, which however receive an attribution of<br />

meaning. In this way language exceeds empirical data. is is the case of<br />

“animal spirits” that, not being experimentally observable, can be supposed<br />

through the expedient of the “Eye of reason.” is solution gives, from the<br />

beginning, some problems inasmuch as Mandeville in the 1730 edition<br />

adds almost twenty pages to explain the function and the relation of “ani-<br />

44 For a more extensive discussion about Mandeville’s empirical method, see A. Chiessi, Mandeville<br />

e la necessità dei vizi: ricchezza e corruzione, in P. Vincieri (ed), Corruzione, decadenza, declino,<br />

Bologna, d.u.press, 2011, pp. 167-197, especially pp. 169-182.<br />

45 Cf. Treatise 1711, pp. 53-54; Treatise 1730, p. 62.<br />

46 On these arguments, the paradigmatic discussion is the one showing the differences between<br />

mathematics and medicine; cf. Treatise 1730, p. 183.<br />

47 is lack is also felt in the formulation of the distinction between “Self-love” and “Self-liking,”<br />

where just “Self-liking” is a neologism created for explaining the social relations between individuals.<br />

Cf. Fable II, pp. 129-132, and B. Mandeville, An En<strong>qui</strong>ry into the Origin of the Honour and<br />

the usefulness of Christianity in War, London, printed for John Brotherton, at the Bible in Cornhill,<br />

1732, pp. 3-7 (hereafter quoted as An En<strong>qui</strong>ry into the Origin of the Honour).


66 Alessandro Chiessi<br />

mal spirits” with digestive process and, so, their physiological “necessity.” 48<br />

During the discussion in their dialogues, Misomedon says: “All this I can<br />

easily assent to, nor I will I further dispute with you about the Existence of<br />

the Animal Spirits; it being a long receiv’d Opinion, you shall make the<br />

most of it.” 49 Just the fact that they are considered an “Opinion” not experimentally<br />

verified, in spite of a speculation limited by empirical observation,<br />

would bring today to consider “animal spirits” an aporia into Mandeville’s<br />

physiological description, which would collide against his same<br />

method of research.<br />

Because “animal spirits” are heuristically assumed as anatomical instruments<br />

to connect digestion to mental diseases, now it is important to see<br />

how they are described and what functions they do in human body; in<br />

other words, how they are included in a general physiological theory.<br />

Mandeville considers two kinds of “animal spirits:” those rough and grosser,<br />

which lead mechanical functions of muscular movements and of senses,<br />

and those “subtile,” which guide—also here mechanically—the act of<br />

thinking, bringing back the images produced by senses and stored in<br />

memory. 50 Conceiving this sort of physiology—that is mechanical—it<br />

would not be necessary to postulate an immaterial substance for justifying<br />

the abstract functions of thinking. is claim is not so easy. During the<br />

early eighteenth century, to deny the substance of the soul in abstract functions<br />

of thinking could mean being accused of atheism. ere is an explicit<br />

reference to Descartes, but there is also the Mandeville’s attempt to limit<br />

the ontological distance between soul and body in favour of a physiology—than<br />

a corporeality/materiality—that legitimizes and justifies the act<br />

of thinking in relation to the functions of the body. e two editions of<br />

the Treatise detect this philosophical change, while the second part of e<br />

Fable of the Bees shows the favourable position about the so-called thinking<br />

matter. 51 In the 1711 edition Philopirio says:<br />

48 Cf. Treatise 1730, pp. 132-153. Philopirio adopts exactly the words “Reasonableness” and<br />

“Necessity” to demonstrate the existence of “animal spirits,” cf. Ibid., p. 137.<br />

49 Ibid., p. 153.<br />

50 Cf. Treatise 1711, pp. 128-133; Treatise 1730, pp. 134, 158-164, 206-207.<br />

51 On this theme John W. Yolton’s work is central; see especially inking Matter. Materialism<br />

in Eighteenth-Century Britain, Oxford, Blackwell, 1984, in particular pp. 14-48, 153-189.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 67<br />

e Metaphysical Principle of Monsieur Des Cartes, Cogito ergo sum, is a very<br />

good one, because it is the first truth, of which a Man can well be sure, and we<br />

all agree, some few Atheists excepted, that matter it self can never think, how<br />

elaborately fine soever it may be supposed. From these two Truths it is a very just<br />

inference to say; that we consist of a Body and a Soul. How they reciprocally<br />

work upon and affect one another, ‘tis true, we cannot tell, and whether the Soul<br />

be seated in some particular part of, or is diffus’d through all the Brain, the<br />

Blood or the whole Body, is likewise not easie to be determined: But tho’ these<br />

things are Mysterious to us, yet from the Experience we have of our Composition,<br />

and what every moment we may feel within our selves, we can assert not<br />

only, that there must be an immediate Commerce between the Body and the<br />

Soul; but likewise that the action of thinking in which all, what we know of the<br />

latter, consists, is to our certain knowledge perform’d more in the Head than it<br />

is in the Elbow or the Knee: From this we may further conclude, that as the Soul<br />

acts not immediately upon Bone, Flesh, Blood, &c. nor they upon that, so there<br />

must be some ex<strong>qui</strong>sitely small Particles, that are the Internuncii between them,<br />

by the help of which they manifest themselves to each other. 52<br />

While in the 1730 edition, instead of the above quotation, there is:<br />

But then it is to be consider’d, that human Knowledge can only come a posteriori.<br />

You’ll give me Leave to trace it from the Beginning; and I’ll be content to<br />

start with Monsieur Descartes, and at my first setting out to doubt of every thing.<br />

Now as Doubting must always imply inking, and it is impossible that I should<br />

perceive the first without being confident of the latter, I take this his Metaphysical<br />

Principle, Cogito, ergo sum, to be a very Just one; because it is the first Truth<br />

of which a Man can be well sure: and if from our being conscious that we think,<br />

we may not safely conclude that we exist, then we can be certain of nothing. e<br />

next thing to be en<strong>qui</strong>r’d into is, what it is, which Part of us, that performs this<br />

Operation, this Act of inking. But here, I know very well from what you advanced<br />

Yesterday, concerning our Ignorance, as to all Properties of Matter, I shall<br />

not be able to assert any thing, strictly speaking, without Supposition. 53<br />

ese two passages clearly display that the 1711 distinction between<br />

soul and body, also supported by “animal spirits” conception as intermediaries<br />

between them—i.e. Internuncii—becomes in 1730 more wary and,<br />

52 Treatise 1711, pp. 124-125 (emphasis in the text).<br />

53 Treatise 1730, p. 154 (emphasis in the text).


68 Alessandro Chiessi<br />

probably, sceptical. In the last edition of Treatise, Philopirio must “suppose”<br />

a distinct, or rather, a substantial existence of the soul and, from<br />

that, takes the arguments set out in 1711; he considers the soul to be an architect<br />

guiding its workers, the “animal spirits.” 54 If Mandeville might not<br />

“suppose” this mutual interrelation between soul and body, he would be<br />

again a Cartesian, but it is this “supposition” that opens the way for a deep<br />

doubt 55 about the substance of the soul in relation to the abstract act of<br />

thinking. Besides this scepticism, which does not give an ontological explanation<br />

for the role of the soul in thinking activities, Mandeville explicitly<br />

argues that matter can think—during a previous discussion and, however,<br />

from Misomedon’s point of view. e argument is recalled by<br />

Philopirio himself to underline that the statements he wants to do about<br />

the soul are not strictly demonstrated (“I know very well from what you<br />

advanced Yesterday, concerning our Ignorance, as to all Properties of Matter”).<br />

Misomedon is sure that we can only be certain of body and, with it,<br />

of matter. Nevertheless it is conventional to recognize the presence of soul,<br />

because men usually prefer to say, with a gratuitous assertion—“gratis dictum”—that<br />

matter cannot think. 56 Here Descartes’ doubt is completely<br />

given up. e doubt itself that considers, as only unopposed element,<br />

thought as source of the same dubitative faculty, has not here a epistemological/ontological<br />

value and does not refer to soul and then to God, guar-<br />

54 Cf. Treatise 1711, p. 130; Treatise 1730, p. 160.<br />

55 Is the same one of Descartes? Surely not, because Descartes considers doubt part of the<br />

thinking capability, formalized in doubt itself, and so the last and incontrovertible truth, while for<br />

Mandeville doubt rises from the objective observation of reality, which cannot be excessively subjective<br />

(as, for example, Descartes’ “dream”).<br />

56 Treatise 1730, pp. 50-53. In the 1711 edition Misomedon, in correspondence of this passage,<br />

does not mention at all the possibility that matter can think, but merely criticizes human pride that<br />

through the concept of virtue, devalues body because it dies, and overestimates soul, because it is<br />

seen as immortal. “Yet this is a frailty of Nature. e Bodies contract with the Soul must be supposed<br />

to have been made at least upon an even foot, because the first was the Elder of the two, and<br />

without doubt both equally engag’d on Terms of mutual Affection and Assistance: But would you<br />

see the Depth of Human Pride; look on the uncharitable Haughtiness of Virtue itself, that make<br />

us, who are the Compound of the two, barbarously despise the most endearing half of our selves,<br />

that scorns not to be seen: And why? Because ‘tis meanly born, and will fall to decay; whilst it obliges<br />

us, to be over-fond of that insulting surly part, that is invisible only, because ‘tis thought of great<br />

Extraction, and hop’d to be immortal.” Treatise 1711, pp. 45-46.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 69<br />

antor of truth and of methodological exactness. From Misomedon’s point<br />

of view, body gains objectivity and has also, at the same time, an ontological<br />

value. Indeed body allows the knowledge of itself and legitimates the<br />

cognitive process, just because objectivity can be objectively perceived. e<br />

senses rather than thought now are<br />

guarantors of knowledge. Corporeality,<br />

through the physiological mechanism<br />

of the senses, allows the perception<br />

of matter that can be thus objectified<br />

and known through custom<br />

and practice. Starting from Descartes’<br />

positions, the shift to Hobbes’ conceptions<br />

is significant and it can be<br />

summarized as the passage from the<br />

supremacy of thought to the primacy<br />

of the senses. So there is a movement<br />

from a philosophical model, which<br />

aims at objectivity having subjectivity<br />

as the starting point (Descartes), to<br />

one which aims at objectivity starting<br />

from the materiali ty/objectivity itself<br />

(Hobbes), because the (perceiving)<br />

subjectivity is based and comes from<br />

Frans Hals, René Descartes.<br />

the corporeality, that is materiality and so objectivity. 57 Here again there is<br />

a devaluation of reason, which cannot find in thought a connection to a<br />

specific substance—“res cogitans”—and for this it lacks an ontological legitimation<br />

or uplifting. Reason is clearly related to thought, but thought<br />

is referred to a physiological mechanism and so to corporeality and thus<br />

to materiality. I point to what I said about “animal spirits,” which bring<br />

back from the memory the stored images, previously created by the sens-<br />

57 omas Hobbes wrote in the Leviathan: “ere is no other act of man’s mind, that I can<br />

remember, naturally planted in him, so as to need no other thing, to the exercise of it, but to be<br />

born a man, and live with the use of his five senses. ose other faculties […] are ac<strong>qui</strong>red and increased<br />

by study and industry; and of most men learned by instruction, and discipline.” T. Hobbes,<br />

Leviathan, vol. III, p. 16, in e English Works, 11 vols., ed. by W. Moleswort, Aalen, Scientia, 1966.


70 Alessandro Chiessi<br />

es. 58 is mechanism, however, could lead to determinism. ere is the<br />

possibility that once described the ways of action and the paths of “animal<br />

spirits,” one can foresee the results of the abstract action of thinking. Mandeville<br />

tries to solve the problem saying that we know too little about matter.<br />

Beyond that, he believes that “animal spirits” are “Instruments” of<br />

“Motion” and “Feeling” but, at the same time, he cannot—or wants—establish<br />

the causes of their actions, motions or effects. 59 e impossibility of<br />

totally observing the human body and, in particular, brain and “animal<br />

spirits” does not allow a complete mechanical description of their operations<br />

and, from that, a deterministic explication (although it remains eventually<br />

possible). Corporeity, matter and thus nature exceed human cognitive<br />

capabilities. 60 It is important to stress that, in the flattening of “res cogitans”<br />

onto “res extensa,” mechanism is no longer an ontological characteristic<br />

of the latter, but becomes an interpretative paradigm of a knowable<br />

object, in other words, of matter and, generally, of nature. Misomedon,<br />

talking about the soul-body relation, says: “When we have confess’d what<br />

every body must be conscious of, that we are far from knowing all the<br />

Properties that may belong to Matter, is it, I beg of you, more easy to conceive<br />

that what is incorporeal should act upon the Body, & vice versa, that<br />

it is that Omnipotence should be able in such a manner to modify and dis-<br />

58 Again Hobbes: “By this it appears that reason is not, as sense and memory, born with us;<br />

nor gotten by experience only, as prudence is; but attained by industry; first in apt imposing of<br />

names; and secondly by getting a good and orderly method in proceeding from the elements, which<br />

are names, to assertions made by connexion of one of them to another; and so to syllogisms, which<br />

are the connexions of one assertion to another, till we come to a knowledge of all the consequences<br />

of names appertaining to the subject in hand.” T. Hobbes, Leviathan, p. 35, in op. cit. e sensation,<br />

for Hobbes, involves conceptualization and reason can be developed on that; so: “Originally<br />

all conceptions proceed from the action of the thing itself, whereof it is the conception: now when<br />

the action is present, the conception it produceth is also called sense; and the thing by whose action<br />

the same is produced, is called the object of the sense.” T. Hobbes, Human Nature, vol. IV, p. 3, in<br />

op cit. (emphasis in the text). Mandeville does not (explicitly) talk about a “present” action of the<br />

object that creates the sensation, but about “Images received,” which, however, need it.<br />

59 Cf. Treatise 1730, p. 163.<br />

60 “It is impossible to enter into the Mechanism of them [the animal spirits], at least so far as<br />

to determine their Motions to an Angle of Incidence; more especially, when we know them to be so<br />

minute and volatile, that to some of them our very Bones are pervious.” Treatise 1711, p. 140; Treatise<br />

1730, p. 171 (emphasis in the text).


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 71<br />

pose Matter, that without any other Assistance it should produce ought<br />

and Consciousness?” 61 Here the Locke’s echo is unmistakable. 62 But at the<br />

same time, Mandeville would like to avoid the charge of atheism: always<br />

around the corner.<br />

A position as strong as this is in the second part of e Fable of the<br />

Bees; in this book, Cleomenes—the Mandeville’s spokesman—talking with<br />

Horatio clearly suggests that matter can think because “the Effects of<br />

ought upon the Body are palpable” and “several Motions are produced<br />

by it, by contact, and consequently mechanically.” 63 Once again mechanism<br />

explains corporeity—to be intended as matter—and once again human<br />

cognitive capabilities are not able to find a possible first cause. 64 Nevertheless<br />

“We have some tolerable Ideas of Matter and Motion; or, at least,<br />

of what we mean by them […]. But the Soul is altogether incomprehensible,<br />

and we can determine but little about it, that is not reveal’d to us.” 65<br />

e statement is prudent; although thought takes place without a soul that<br />

legitimizes it—so Mandeville maintains that the soul does not interfere<br />

with the thinking activities as an architect does not work while workers are<br />

building a house 66 —at the same time he does not deny the Revelation and<br />

everything around it. Once again the flattening of soul onto body could<br />

approach mankind and brutes. Indeed the distinction of the Disputatio<br />

philosophica de Brutorum Operationibus is smoothed out in favour of an inclusion<br />

of mankind among brutes. Again, during the discussion about<br />

soul, thought and feelings, Horatio asks Cleomenes if animals can think.<br />

Cleomenes so replies:<br />

61 Treatise 1730, p. 51 (emphasis in the text).<br />

62 Cf. J. Locke, Essay concerning Human Understanding, vol. II, IV, cap. III, § 6, pp. 331-359,<br />

in e Works of John Locke, 10 vols., Aalen, Scientia, 1963. Cf. also J.W. Yolton, op. cit., pp. 14-28.<br />

Mandeville goes on, always from Misomedon’s point of view, saying that the death of the body<br />

does not imply the annihilation of the soul, because, at the end of the times, the Resurrection will<br />

lead to a new birth of both, solving in this way a debated theological problem: “the Question of the<br />

Soul’s intermediate State between Death and the Resurrection” (Treatise 1730, pp. 51-52). Mortalism<br />

had been however an active position since the late seventeenth century; cf. N.T. Burns, Christian<br />

mortalism from Tyndale to Milton, Cambridge (Mass.), Harvard University press, 1972.<br />

63 Fable II, p. 164.<br />

64 Ibid.<br />

65 Ivi, p. 168.<br />

66 Ivi, p. 164.


72 Alessandro Chiessi<br />

Cleo. I believe they do, though in a Degree of Perfection far inferior to us.<br />

Hor. What is it, that superintends ought in them? where must we look for it?<br />

which is the main Spring?<br />

Cleo. I can answer you no otherwise, than Life.<br />

Hor. What is Life?<br />

Cleo. Every body understands the Meaning of the Word, though, perhaps, no<br />

body knows the Principle of Life, that Part which gives Motion to all the rest. 67<br />

Recalling two of the argumentative couples, i.e. the flattening of soul<br />

onto body and the related closeness between mankind and brutes implies<br />

a shift from mechanism to a sort of materialism, which sets life as cause<br />

that “gives Motion to all the rest.” So the mechanistic paradigm explains<br />

descriptively the mechanism of “animal spirits,” but at the same time, finds<br />

in the concept of life an explanation of motion, that is a physiological motion<br />

and so natural. is is why I talk about physiological naturalism in<br />

relation to Mandeville’s thought: with this category, I think, it is possible<br />

to trace but also to summarize empiricism, Hobbes’ materialism and<br />

Descartes’ mechanism. 68 Using a reverse process compared to a posteriori<br />

empirical cognitive method, nature can be considered an ontological principle,<br />

which brings to human nature—metaphysically corrupted. Human<br />

nature, in turn, finds in life the causal principle of the mechanical motion<br />

of these particles— “animal spirits”—which, at the end, allow the movement<br />

of body, feelings and thought. So human (and animal) nature is part<br />

of nature tout court and from it flow a mechanical description of the corporeal/material<br />

and mental movements. Nevertheless, in Mandeville’s<br />

thought, there is yet a problem: the relation between human nature and<br />

nature. If human nature can be viewed metaphysically corrupt, 69 the same<br />

67 Ivi, pp. 166-167.<br />

68 From my point of view here I cannot talk about <strong>vita</strong>lism, because I’m not dealing with a theory<br />

that wants to give priority to the structure in respect to the elements composing it. Mandeville<br />

empirically—as the anatomist of human nature—considers “animal spirits” as instruments that, being<br />

material, mechanically act and find in life their cause. Life itself is part of human nature and the<br />

latter, part of nature tout court. To interpret Mandeville as anatomist of human nature, cf. E. Lecaldano,<br />

Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1991. To deepen the Mandeville’s<br />

concept of corrupted (human) nature and its metaphysical implications, again cf. A. Chiessi,<br />

Mandeville e la necessità de vizi, in P. Vincieri (ed), Corruzione, Decadenza, Declino, cit., pp. 167-197.<br />

69 Fable I, p. 166.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 73<br />

is not for nature tout court: it can be only presumed. If there is a post-<br />

Adamic corruption for human nature, is there for nature tout court? Or,<br />

being subjected to becoming, is nature corrupt? ese are open questions<br />

to which Mandeville does not clearly answer. In addition, one should<br />

analyse the role of “Providence” and<br />

the relation it entertains not only<br />

with nature, but also with mankind,<br />

other living beings and events that,<br />

from our point of view, are calamitous.<br />

70<br />

Why is physiological naturalism<br />

not accepted? Why are the substantiality<br />

of soul and the substantiality<br />

of body equal? How does mankind<br />

distinguish itself from brutes? To<br />

these questions, Misomedon answers<br />

rather caustically.<br />

e Body of Man is thought to be of<br />

mean Descent; the animal Functions<br />

of it have a near Resemblance to the<br />

same Functions in Brutes: It is generated and born like theirs; and the difference<br />

between the Bodies of Men and those of Beasts is still less in their Decay […].<br />

erefore the greatest Philosophers, before Christianity as well as since, have taken<br />

up strong Resolutions to believe the Soul to be immortal; tho’ some of them<br />

have own’d, at the same time, that they had no other Reason for such a Belief,<br />

than what was suggested to them by Self-love […]. Oh, the unfathomable depth<br />

of human Pride! 71<br />

omas Hobbes.<br />

Physiological naturalism puts the soul in a religious perspective; moreover,<br />

it provides a mechanical description for abstractive functions of<br />

thinking and for other physiological activities; it states that life is the cause<br />

of motion and, at the end, it provides an empirical explanation for and into<br />

nature; so, according to Mandeville, physiological naturalism is not ac-<br />

70 Cf. especially Fable II, pp. 243-246.<br />

71 Treatise 1730, pp. 52-53.


74 Alessandro Chiessi<br />

cepted because it conflicts with the representation that mankind wants to<br />

give of itself. To claim that mankind is part of the nature, that it is matter,<br />

that it finds in mechanism a descriptive paradigm, means to put it on the<br />

same level of beasts—of brutes—means to show its vanity, means to unmask<br />

its “pride,” means to hurt its “self-love.” So physiological naturalism<br />

collides against human passions, because “pride” and “self-love,” for Mandeville,<br />

are human passions and as such they are fundamental elements of<br />

human nature.<br />

Since all human activities are related to the mechanical movements of<br />

the “animal spirits,” the same thing can be said about passions. 72 Not only<br />

do thought and rationality come from a corpuscular—and thus material—<br />

mechanism, but also those abstract—not rational—elements that, at last,<br />

become the cause of human actions through their capability in creating<br />

needs and wishes. 73 rough a posteriori analysis again, Mandeville, after<br />

having displayed in the Treatise a physiological and so natural foundation<br />

for passions, in e Fable of the Bees, tries to discover what passions lead<br />

human actions. e object of research now is not the single man, but<br />

72 Talking about “animal spirits” Philopirio states: “You shall call this a Supposition, if you<br />

please; but I have laid no manner of Stress upon, either the Difference of the Elasticity or various<br />

Contexture of their Parts, which yet that there must be will be evident, when we come to consider,<br />

that not only the Difference there is often in Constitutions and bodily Strength; but likewise good<br />

and ill Tempers, Passions of the Mind, Courage and the Want of it, Wit and Foolishness, and many<br />

other things not to be discover’d but from the Effects they have upon the Actions of Men, can be<br />

owing to, and depend upon nothing else, than the Difference in the Texture of Parts, Tone, Elasticity,<br />

or some other Quality of that wonderful Fluid, which we call the animal Spirits.” Treatise 1730,<br />

pp. 207-208. Cf Treatise 1711, pp. 141-142; where, more or less, there is the same passage. I underline<br />

that Philopirio refers to “Passions of Mind” and not to “Passions of Soul,” as Descartes did. Although<br />

in seventeenth and eighteenth century ‘soul’ and ‘mind’ often were synonymously used, from<br />

my point of view, here there is another proof of the distance between Descartes and Mandeville.<br />

73 I conventionally give a priority to needs in respect to wishes. I think that needs are referred<br />

to feelings, for this reason someone feels something: hunger, thirst, sexual instincts, together the<br />

other ‘cultural’ needs, such as clothes of a particular shape, cars, etc. While wishes, from my point<br />

of view, rise from these feelings around one or more needs and become, in their abstract and imaginative<br />

dimensions, the cause of actions (through will? Why not, in particular if we refer to Hobbes’<br />

definition in the Leviathan: “the last appetite in deliberating”). e process, however, can be reversed<br />

and an imagined wish can create a sensible need. In other words I consider needs as part of<br />

the feelings’ area and wishes as part of the abstract thinking area. is appendix, which is a conventional<br />

generalization and therefore limited and partial, is aimed to clarify the role of passions in<br />

senses and mind.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 75<br />

mankind living in early eighteenth century London: a contemporary city<br />

of Mandeville, the city where he lives. Although his analysis is developed<br />

together a moral judgment and definition of passions—seen as vices—here<br />

my aim is to briefly show which of them are considered fundamentals in a<br />

relational context and how, simultaneously,<br />

they can bring to sociability, starting from<br />

their unsocial characteristic. In an heterogeneous<br />

analysis, refined during the years and,<br />

at the end, more clear and complete, Mandeville<br />

reckons “pride”—the same “pride” mentioned<br />

by Misomedon—as the passion characterizing<br />

mankind in a social context. 74<br />

Passions are a sort of ‘zero degree’, common<br />

characteristic of everyone. Everybody has<br />

them and everybody is driven to act under<br />

their influences. e different human behaviours<br />

come from the various intensities or<br />

from the mixture of passions. “Self-denial” itself,<br />

which wants a rational choice to limit the<br />

impulses of passions in the name of virtue,<br />

could be founded on a passion, “pride.” Behind<br />

this rational choice there would be the<br />

Frontespizio della Favola delle api<br />

di Mandeville.<br />

presumption that curbing passions can show a distinction and a moral value<br />

increase in respect to both other men and animals. 75 At the end, this<br />

choice is changed in a concealment of passions, displaying so the trouble<br />

or the impossibility of a “Rational Ambition of being good” and the gap<br />

between the real virtue and the pretended virtue. Once again there is a devaluation<br />

of reason, which, in this conceptual context, is subdued to passions—in<br />

particular to “pride”—performing in that way an instrumental<br />

function. Reason, being part of the mechanical actions of thinking as well<br />

74 Here the reference is to the Remark M, cf. Fable I, pp. 124-134; It is important to mention<br />

that Mandeville in e Grumbling Hive already connects “Pride” to the production activities (cf.<br />

Fable I, p. 25).<br />

75 is is the thesis expounded in An En<strong>qui</strong>ry into the Origin of Moral Virtue; cf. Fable I, pp.<br />

41-57.


76 Alessandro Chiessi<br />

as passions, is qualitatively lower just because it finds its proper cause in<br />

passions. Needs and wishes, given by passions, drive reason. From here it<br />

could be stated that men do not reason for reasoning, as men do not think<br />

for thinking, but men reason and think to pursue aims created by passions;<br />

first of all, virtue intended as a distinctive quality of somebody in respect<br />

to others and of mankind in respect of other living beings. Mandeville<br />

makes a reduction and finds in “pride” the basis of men’s relations and of<br />

society. Actually this passion “is that Natural Faculty by which every Mortal<br />

that has any Understanding over-values, and imagines better ings of<br />

himself than any impartial Judge, thoroughly acquainted with all his Qualities<br />

and Circumstances, could allow him.” 76 He continues claiming that<br />

“no other Quality” is “so beneficial to Society, and so necessary to render<br />

it wealthy and flourishing.” 77 Being this consideration obtained from the<br />

observation of the inter-individual relations of his fellow citizens, Mandeville<br />

feels a possible aporia because the intrinsic conflict of the various selfoverestimations<br />

would collide against the factual sociability of mankind.<br />

He solves this problem continuing to investigate the “Chain of Causes”<br />

and detecting in “pride” two different but complementary elements: “Selflove”<br />

and “Self-liking.” In this way it is possible to see the two sides of the<br />

same coin. “Self-love,” then, is a human passion through which everyone<br />

is able and seeks his self-preservation. Since there is no living being that<br />

can love something it dislike, it is necessary that everyone is pleasing to itself.<br />

Self-preservation leads human beings to instinctively overvalue their<br />

different qualities, creating in them a desire for dominating others. is<br />

“Principle of Selfishness,” 78 as Mandeville defined it, can become “Instinct<br />

of Sovereignty” 79 or remain a simple instinct of self-preservation, aimed to<br />

satisfaction of basic needs: what concerns hungry and what pertains to sexual<br />

desires. “Self-love,” in the in<strong>qui</strong>ry of social relations and the analysis of<br />

human nature, seems to bring in itself a constant doubt, which challenges<br />

the overvaluation of human capabilities and gives a glimpse to mankind of<br />

76 Fable I, p. 124.<br />

77 Ibid.<br />

78 Fable II, pp. 272-273.<br />

79 Ibid.


e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 77<br />

its real capabilities. is lack of self-confidence leads human beings to seek<br />

others’ approval so that nobody could doubt about its good opinion. is<br />

is “Self-liking” with its related desire of praise<br />

and love of being applauded by others. 80 In<br />

Mandeville’s analysis, “pride” of someone into<br />

a society, according to the different degrees of<br />

manifestation, is characterized by this dualism<br />

which shows, on one hand, the individual<br />

passion of “Self-love” and, on the other, the<br />

social passion of “Self-liking.” is distinction—let<br />

me remind it—has a basis in the<br />

mechanism of “animal spirits,” as indeed, in<br />

all other movements: actions, senses, thoughts<br />

and exactly passions. So, consequently, what<br />

ever is created by mankind in society—from<br />

the symbolic to material products, from fash-<br />

ion to goods—leads to nature as ontological<br />

principle, which is then veiled and hidden by<br />

the artificiality of poietic-creative acts.<br />

Frontespizio del De Homine<br />

di Descartes.<br />

Recalling the parallelism between mankind and brutes, which shows<br />

that there is no substantial difference between soul and body, one can detect<br />

passions as a common characteristic among the different living beings.<br />

But “Self-liking” and reason guided by “Self-liking” are a typical characteristic<br />

of mankind, so typical that through their stimulation and management<br />

it is possible to control the impulses of the other passions for accustoming<br />

human beings to government. 81 So between mankind and brutes,<br />

there is a qualitative difference, but now this is not substantial, founded on<br />

the idea that soul is the peculiar, noble and ontological characteristic of<br />

human beings; now this qualitative difference is based on the various expressions<br />

of passions. Men, through “Self-liking,” are able to flatter each<br />

80 e argument is hinted in the first part of e Fable of the Bees (cf. Fable I, p. 124) but it is<br />

explicitly developed in the second part of e Fable and in An En<strong>qui</strong>ry into the Origin of the Honour<br />

and the usefulness of Christianity in War; cf. Fable II, pp. 129-130, 204-205, 272; En<strong>qui</strong>ry into the Origin<br />

of the Honour, pp. 3-7.<br />

81 Cf. Fable II, pp. 78-79.


78 Alessandro Chiessi<br />

other, and from here, to gain agreements for their interests, which, for the<br />

most part of them, are unconscious and which, for preserving themselves,<br />

should not be disclosed. is is a symbolic póiìsis of passions, which being<br />

based on human nature does not need to be disclosed in order to preserve<br />

and develop itself.<br />

is intertextual path that from medicine passes to philosophy displays<br />

how Mandeville leaves the systematic doubt of Descartes, with its related<br />

necessity of a metaphysical/ontological foundation for objectifying reality<br />

(for distinguishing the waking reality and dreams, for example). At the<br />

same time, this analysis shows how Mandeville recognizes the objectivity<br />

of nature—and of human nature—that brings in itself truth inasmuch as<br />

nature is objective, observable and so represented.<br />

Nature is what it is, nature has an intrinsic objectivity and, through<br />

this objectivity, nature can become an ontological principle and so describe<br />

mankind from a physiological point of view that is, at the same time, substantial<br />

(“res extensa”). “e solid Observation of never-erring Nature” 82<br />

has its advantages but also its inconveniences: showing the finitude of<br />

mankind means to compete against its main passion, “pride;” at the same<br />

time connecting physiology to mechanical movements, and including in<br />

these thought and reason, means to devaluate its presumed excellence and<br />

to show its mediocrity (which, for a man affected by “pride,” seems surely<br />

meanness). So paraphrasing a famous fairy tale, and considering everybody<br />

(with its passions) as sovereign of his kingdom, those are the ‘emperor’s<br />

new clothes’: ‘the king is wearing nothing!’<br />

82 Treatise 1711, pp. iii-iv; Treatise 1730, p. iv.


Giuseppe Pezzino<br />

Platone in Italia<br />

INforMaTo Da PerSoNa MoLTo aDDeNTro alle segrete cose, vado a<br />

trovare Platone che, di ritorno dalla Germania della Reichskanzler Angela<br />

Merkel, è di passaggio in Italia per far vela alla sua Atene devastata dalla<br />

crisi. È stanco il sommo filosofo: stanco del viaggio e soprattutto stufo della<br />

Merkel che, a chi le parla di dramma della Grecia, dà sulla voce perché<br />

non esiste alcuna dracma greca, bensì l’euro. Ma la sua figura bella e nobile<br />

mi dice che nulla, in questo vecchio dalla lunga barba bianca e dagli occhi<br />

vivi e penetranti, è andato perduto dell’antica energia fisica e mentale. Circondato<br />

da un gruppo di discepoli, egli avanza con quel passo maestoso<br />

che proviene bensì da natura e non già da superbia. Infatti, senza perdere<br />

alcunché della sua nobiltà, mi accoglie e mi libera dall’impaccio con segnali<br />

di modestia, di quell’autentica modestia che solo gli autentici grandi possiedono.<br />

Congedati i discepoli, mi in<strong>vita</strong> a passeggiare per i viali di un giardino<br />

di sogno mediterraneo. L’ombroso verde tenta, non sempre vittorioso, di<br />

difenderci dalla rabbia di un sole meridionale che non vuol capacitarsi che,<br />

a fine maggio, non si può pretendere di ruggire come il solleone. Quan -<br />

d’ecco una panca, sotto un vecchio ed ospitale ulivo, convince Platone a<br />

sedersi. Resto in piedi, a fissare per un interminabile attimo ora il vecchio<br />

filosofo ora la mia paura. Poi prendo un granellino di coraggio; ed esordisco<br />

nel peggiore dei modi:<br />

Innanzi tutto Vi ringrazio per avermi ricevuto… ecco, non so come rivolgermi<br />

a Voi; posso darvi del Maestro? Per me sarebbe un grande onore… mi<br />

farebbe sentire, anche se indegno, un vostro lontanissimo allievo.<br />

Maestro è una parola bellissima, segno di un ideale eterno che si cala<br />

nel fiume del divenire, del tempo, del finito e del transeunte, senza perdere<br />

79


80 Giuseppe Pezzino<br />

il suo carattere divino; segno di quella paidèia che è educazione dell’anima,<br />

formazione dell’uomo, scuola in senso alto e nobile. Maestro, dopo quello<br />

di padre, è il mestiere più bello e più difficile. Anzi, come quello di padre,<br />

è un generare figli non nel corpo ma nell’anima; un atto di creazione spirituale<br />

che ci avvicina al dio. Maestro, dunque, è il titolo più bello e più<br />

gradito che voi possiate darmi.<br />

Voi, venerato Maestro della famosissima Accademia, mi fate correre col<br />

pensiero al mondo universitario italiano, coi suoi maestri e le sue scuole, coi<br />

suoi studi sublimi, col suo cammino di una scienza che è anche e soprattutto<br />

scienza dell’uomo.<br />

A me pare, amico mio, che voi rischiate di risultare più platonico di<br />

Platone: insomma, voi vorreste indicarmi la realtà dell’accademia italiana,<br />

e invece avete spiccato il volo verso l’accademia ideale che non sta su questa<br />

terra, ma nell’Iperuranio. Perdonate, avete mai dato un’occhiata attenta alla<br />

vostra università nella sua terrena realtà? E vi pare una bella cosa? Da almeno<br />

mezzo secolo ad oggi è gravemente malata, mentre dal coro muto<br />

dei suoi chiarissimi professori si leva timido qualche singhiozzo, persino<br />

qualche lamento. Ma i gemiti sono subito soffocati in gola dall’albagìa<br />

dell’hidalgo de sangre che è in ciascuno di loro. È la pallida dignità dello<br />

sconfitto che sta ritto e zitto nel mezzo del palcoscenico della storia, con il<br />

fiero sguardo a terra, e il mento in aria, dimenticando che ha quasi completamente<br />

perso non solo la ricchezza, ma anche i privilegi e gli onori<br />

concessi alla nobiltà. Da quasi mezzo secolo la vostra università giace aggredita<br />

da mille morbi, e non ha pace, e si gira e si rigira sul letto di dolore,<br />

in attesa che dalla processione di avventurieri, ciarlatani, stregoni, cerusici<br />

e speziali, che a turno accorrono al suo capezzale, sorga un vero medico<br />

con un vero farmaco. E la povera malata attenderà invano. Invano, perché<br />

sono malati la polis, lo Stato e la società.<br />

Maestro, sommessamente oso far notare che l’università italiana versa in un<br />

ottimo stato convalescenziale. È febbre di crescita! Certamente, lo ammetto, ancora<br />

non riusciamo a laureare tutti gli italiani, ma siamo sulla buona strada.<br />

Appunto! Siete sulla buona strada con un’idea geniale: intensificare la<br />

distribuzione di lauree, ricorrendo all’antico e prestigioso istituto della lau-


Platone in Italia 81<br />

rea honoris causa. Infatti, da parte delle accademie è tutta una gara in Italia<br />

ad accaparrarsi il candidato «giusto» alla laurea ad honorem: niente perdita<br />

di tempo, niente 3+2. Basta una bella e solenne cerimonia per una laurea<br />

chiavi in mano, celeritatis causa. Comunque, sulla convalescenza dell’università,<br />

concordo pienamente: essa si agita, trema, balbetta; oggi s’inventa<br />

mille tipi di lauree, domani li smonta tutti; un giorno esce dal tempio e si<br />

dà alla movida nel territorio, un altro giorno ritorna nel chiuso muffo del<br />

tempio per spezzare il pane della scienza.<br />

In fatto d’ironia, mi accorgo che Voi siete il più degno erede di Socrate.<br />

Ma, seriamente, volete mettere in dubbio l’affiatamento che oggi c’è fra università<br />

e società? Non passa giorno che in una qualunque aula magna d’Italia non<br />

salga in cattedra un protagonista della società, per impartire lezioni e spalancare<br />

le finestre alla <strong>vita</strong> e all’aria fresca.<br />

Verissimo! L’università si spopola di professori e si riempie di una vastissima<br />

e variopinta fauna sociale che, più che all’aria fresca, a volte spalanca<br />

le finestre all’aria fritta. E così a fronte di qualche big, in<strong>vita</strong>to da un<br />

ateneo ricco e prestigioso, si colloca una marea di microrganismi sociali, di<br />

nani e di reietti, che negli atenei di serie B presentano agli studenti le loro<br />

esperienze, i loro stili di <strong>vita</strong>, i loro modelli, il segreto dei loro successi. Ex<br />

in<strong>qui</strong>lini dei bagni penali, guitti, cantanti, ecc., sono solo alcune “categorie<br />

sociali” che hanno riempito le aule universitarie di studenti che disertano<br />

volentieri le barbose lezioni dei professori, per ascoltare parole di verità e<br />

di <strong>vita</strong>.<br />

Certo, con Voi gli artisti cascano sempre male. E se nella vostra «Repubblica»<br />

condannavate persino Omero, non voglio nemmeno pensare a come caccereste<br />

gli artisti dall’università italiana.<br />

Intendiamoci. Premesso che nel libro X della «Repubblica» io esprimo<br />

a chiare lettere il mio affetto e la mia reverenza per Omero, bisogna precisare<br />

che la mia condanna contro la poesia imitativa si fonda su una categoria<br />

etico-politica. E nello stesso libro X mi chiedo perché mai i contemporanei<br />

di Omero o di Esiodo li avrebbero lasciati andare in giro a fare i rapsodi,<br />

invece di tenerseli stretti più dell’oro, se i due poeti fossero stati veramente<br />

capaci di giovare agli uomini indirizzandoli alla virtù. Insomma,


82 Giuseppe Pezzino<br />

secondo me, Omero e i suoi discendenti hanno forti responsabilità nei<br />

confronti non solo della parte razionale, ma anche di quella morale sia nella<br />

<strong>vita</strong> dell’individuo sia in quella della città. E a ciò basti quel che faccio<br />

dire a Socrate all’indirizzo di mio fratello Glaucone: «Ebbene, Glaucone,<br />

quando ti imbatti in qualche ammiratore di Omero, il quale sostiene che<br />

questo poeta ha educato la Grecia e che per il governo e l’educazione dell’umanità<br />

vale la pena di riprenderlo in mano, di studiarlo e di organizzare<br />

tutta la <strong>vita</strong> secondo i suoi precetti, devi salutare e baciare queste persone<br />

come le migliori del mondo e concedere che Omero sia il poeta sommo e<br />

il primo dei poeti tragici, ma d’altro canto devi sapere che in fatto di poesia<br />

bisogna accogliere in città soltanto inni agli dèi ed encomi di uomini virtuosi;<br />

se invece accoglierai la Musa corrotta della poesia lirica o epica, nella<br />

tua città regneranno piacere e dolore invece che la legge e quel principio<br />

che di volta in volta l’opinione comune riconosce come il migliore».<br />

Ma la vostra polis, perdonatemi Maestro, puzza alquanto di caserma. Per<br />

Voi bisogna tener fuori della legge e fuori della città gli artisti, che noi invece<br />

consideriamo uno dei pilastri non solo della cultura ma anche della politica.<br />

Per Zeus!, nella mia bella città, la kallipolis, regna l’ordine della ragione<br />

e della virtù. Cosa che voi stentate a comprendere, dal momento che, più<br />

che capovolgere valori e ruoli, voi li state addirittura mescolando disordinatamente<br />

e pericolosamente, col risultato di ottenere (perdonatemi, se uso<br />

il duro linguaggio dei nostri gloriosi opliti) una sbobba etico-politica immangiabile.<br />

Diciamola tutta con chiarezza: voi state assistendo con gioiosa<br />

incoscienza, da un canto, alle gesta di uomini politici che raggiungono l’eccellenza<br />

come commedianti, saltimbanchi, predicatori quaresimali, e persino<br />

buffoni; e, dall’altro, allo spettacolo di cabarettisti che indicano la via<br />

maestra del riscatto politico, di comici che fondano movimenti o partiti<br />

politici, di cantanti che aprono il dibattito sul senso della <strong>vita</strong> o che dettano<br />

il nuovo decalogo della religione e della politica. Insomma, un caos!,<br />

per dirla sommessamente alla greca e in maniera più decente della vostra<br />

parlata italiana!<br />

Chiedo venia, venerato Maestro, ma debbo proprio dirlo: col vostro progetto<br />

politico, se foste vissuto nel Novecento, avreste ottenuto a furor di popolo il


Platone in Italia 83<br />

Premio Stalin. È lo Stato che stabilisce il comunismo delle donne e dei beni; è<br />

ancora lo Stato che gestisce la politica culturale, cacciando via gli artisti non<br />

allineati; è infine lo Stato che detiene il timone dell’educazione dei giovani. Vivaddio,<br />

se si fosse realizzato il vostro progetto della «bella città», la lugubre<br />

Sparta sarebbe passata alla storia come un centro fiorente di libertà, di tolleranza<br />

e di raffinata cultura.<br />

Amico carissimo, per la seconda volta mi date del «venerato Maestro»,<br />

perciò son costretto a chiedervi di abolire il «venerato», giacché non vorrei<br />

cadere in sospetto di massoneria, con tutto il rispetto per la loggia. Poi, vi<br />

dico subito che forse avrei accettato il Premio Stalin. Almeno sarei stato in<br />

compagnia del vostro Pietro Nenni, quando andava a braccetto con Palmiro<br />

Togliatti. Gente seria, tutto sommato. Immagini, invece, se mi avessero<br />

assegnato il Nobel per la letteratura! Sarebbe stato per lo meno umiliante<br />

ed imbarazzante per me. Con tutto il rispetto per certi illustri Nobel, dovete<br />

ammettere che talora si è verificata una sorta di lottizzazione (per aree<br />

geografiche; per scuderie ideologiche; per opportunità politiche, ecc.) nei<br />

criteri dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze, per cui il premio è andato<br />

nelle mani di illustri personalità, sconosciute prima e dopo l’assegnazione.<br />

Insomma, voi in Italia direste, in maniera efficace e colorita, che certi<br />

premi Nobel per la letteratura o per la pace sono stati assegnati a «cani e<br />

porci».<br />

Con tutto il rispetto, non vi pare di esagerare?<br />

Esagerare? Per Zeus!, non sono mai stato tanto serio e moderato. Pensi<br />

un po’ a me, costretto a stare accanto ad uno che ha meritato il Nobel della<br />

pace non per quello che ha fatto, ma per quello che potrebbe fare in futuro!<br />

Glissons, direbbero i vostri cugini franco-galli.<br />

Forse è meglio tornare alle vostre riflessioni politiche, che sicuramente possono<br />

aiutarci in questi momenti difficili. Non vi nascondo che sono preoccupato<br />

per il futuro della democrazia in Italia e in Grecia. E lo dico a Voi, sebbene<br />

io sappia che non avete un bel concetto della costituzione democratica.<br />

Beninteso, io ho filosoficamente disegnato lo Stato perfetto e felice, la<br />

kallipolis, la cui costituzione è quella aristocratica e comunistica: vale a dire,<br />

una costituzione fondata non sull’aristocrazia del privilegio e dell’ingiusti-


84 Giuseppe Pezzino<br />

zia, ma sull’aristocrazia della virtù, della giustizia e dell’esaltazione delle migliori<br />

capacità individuali indirizzate al bene collettivo e all’interesse generale.<br />

Ripeto, questa aristocrazia è per me la costituzione dello Stato perfetto.<br />

Una volta entrata in crisi la costituzione perfetta, si succedono quattro<br />

costituzioni imperfette, con pregi e difetti, con luci ed ombre, che sono: 1.<br />

la timocrazia o timarchìa; 2. l’oligarchia; 3. la democrazia; 4. la tirannide.<br />

A tal proposito ho parecchi dubbi, e vorrei capire meglio. Queste quattro<br />

costituzioni imperfette calano dall’alto sui cittadini, come la peste piomba improvvisa<br />

sulla popolazione, come un macigno s’abbatte sull’individuo e lo<br />

schiaccia?<br />

Niente affatto così. Anche se qualcuno vuol farmi passare per un astratto<br />

ed inconcludente filosofo che passeggia fra le nuvole dell’Iperuranio, io<br />

ho sempre legato intimamente ed indissolubilmente ogni forma etico-politica<br />

all’individuo nella sua concretezza. Perciò diciamo più chiaramente<br />

che ciascuna delle quattro costituzioni non scende certamente dal cielo né<br />

proviene dal capriccio di un dio, ma si radica piuttosto nel carattere dell’individuo<br />

e nel costume o malcostume dei cittadini. Infatti, nel libro VIII<br />

della «Repubblica», così si esprime Socrate con parole ine<strong>qui</strong>vocabili: «Non<br />

sai dunque che anche gli uomini si dividono necessariamente in tante specie<br />

quante sono le forme di costituzione? O credi forse che le forme di costituzione<br />

nascano da una quercia o da una pietra, anziché dai costumi presenti<br />

nelle città, che trascinano dalla loro parte tutto il resto, come i pesi di<br />

una bilancia?».<br />

In altri termini, la perfetta costituzione aristocratica entra in crisi, tramonta<br />

e muore, solo quando gli uomini timocratici, ambiziosi di affermazione<br />

personale e di onori, prendono il sopravvento sugli uomini buoni e<br />

giusti. E appunto perché predomina l’individuo timocratico, sorge e s’instaura<br />

la forma di governo timocratica, e non viceversa.<br />

Ma come accade che una forma di governo decada e muoia?<br />

Semplice, a causa della stasis, la discordia interna. Partiamo dalla crisi<br />

dell’ottima costituzione aristocratica: una volta che è sorta la discordia, gli<br />

ambiziosi uomini timocratici si volgono agli affari, all’ac<strong>qui</strong>sto di terra, case,<br />

oro e argento. Dopo violenze e contese reciproche raggiungono un


Platone in Italia 85<br />

compromesso sulla distribuzione di terra e case a titolo privato, riducono<br />

in schiavitù gli amici e gli incaricati al nutrimento che prima custodivano<br />

come uomini liberi, tenendoli come perieci e servi, e si occupano personalmente<br />

della guerra e della loro difesa. Evidentemente, questa forma timocratica,<br />

che ha abbattuto il comunismo dei beni ed introdotto la proprietà<br />

privata, è una sorta di via di mezzo tra la passata aristocrazia e la futura oligarchia.<br />

Sicché prevalgono i soggetti irascibili e più rozzi, atti più alla guerra<br />

che alla pace. Uomini simili saranno avidi di ricchezze e, nascosti nell’ombra,<br />

selvaggiamente venerano l’oro e l’argento, poiché avranno ripostigli<br />

e scrigni domestici dove riporre e nascondere i propri averi, e inoltre case<br />

circondate da mura, come nidi privati, nei quali consumare e spendere<br />

forti somme con donne e con chi altri vorranno.<br />

Ma allora la timocrazia, oltre ad essere una costituzione mediana rispetto<br />

all’aristocrazia e all’oligarchia, è anche una sorta di costituzione mista in sé,<br />

perché racchiude del bene e del male.<br />

Proprio così, mio caro. È una costituzione mista. Ma in essa si distingue<br />

e prevale specialmente un solo carattere, dovuto alla supremazia dell’elemento<br />

collerico: e cioè la presenza delle rivalità e dell’ambizione di affermarsi<br />

e di ricevere onori.<br />

Sarei curioso di conoscere il tipo di uomo timocratico, divorato dall’ambizione<br />

e assetato di onori.<br />

Quando ai valori etico-politici della perfetta costituzione aristocratica<br />

(virtù, ragione, giustizia, interesse generale, pace, ecc.) una parte di cittadini<br />

contrappone i valori del thymos, scoppia allora la discordia, e crescono<br />

disprezzo e derisione verso i cittadini onesti e disinteressati che, per usare<br />

il vostro linguaggio, sono considerati dei fessi. Se poi pensiamo alle nuove<br />

generazioni che non sono più educate dalla comunità, ma nel chiuso egoistico<br />

della famiglia, possiamo avere un’idea della crescente espansione timocratica.<br />

Pensiamo, ad esempio, al giovane figlio di un padre onesto.<br />

Quest’ultimo abita in una città mal governata, e<strong>vita</strong> gli onori, le cariche, le<br />

cause giudiziarie e ogni altra briga del genere e si accontenta di una posizione<br />

subordinata per non avere fastidi. A volte il giovane sente che sua<br />

madre si lamenta del marito per una serie di motivi: innanzitutto perché


86 Giuseppe Pezzino<br />

non fa parte dei governanti, il che la pone in una condizione di inferiorità<br />

rispetto alle altre mogli; poi perché vede che costui non si dà troppo pensiero<br />

del denaro, non lotta e si lascia insultare in privato, nei tribunali e<br />

nella <strong>vita</strong> pubblica, anzi sopporta questo genere di comportamenti con indolenza.<br />

Ella si duole di tutto ciò. E dice al figlio che suo padre è vile e<br />

troppo rilassato, e le altre litanie che le donne sono solite ripetere in queste<br />

occasioni.<br />

Uscendo di casa il figlio ascolta e vede altre cose del genere: chi in città<br />

non è ambizioso ha la nomea di «fesso» ed è tenuto in scarsa considerazione.<br />

Chi invece si comporta in modo contrario è un «furbo» (ci sa fare, direste<br />

voi!) e riscuote onore, ammirazione e lode. Allora il giovane, sentendo<br />

e vedendo tutto ciò, e inoltre ascoltando i discorsi del padre e osservando<br />

la sua condotta da vicino, la quale differisce da quella degli altri, subisce<br />

l’attrazione di entrambe le forze: quella del padre, che instilla nell’anima<br />

l’elemento razionale; e quella degli altri che invece esaltano l’elemento concupiscibile<br />

e impulsivo. Insomma, questo giovane non è figlio di un uomo<br />

malvagio, ma ha frequentato cattive compagnie. Trascinato da entrambe<br />

le parti, egli si trova lacerato nel mezzo e finisce con l’affidare il governo di<br />

sé all’elemento battagliero e impulsivo, diventando un uomo superbo, ambizioso,<br />

collerico e vendicativo.<br />

Questo giovane, non so perché, mi ricorda tanto Alcibiade.<br />

Amico mio, lasciate stare! E pensate piuttosto al materiale umano che<br />

circola dalle parti vostre: almeno Alcibiade era bello!<br />

Avete pienamente ragione, amato Maestro. Piuttosto, che fine han fatto<br />

quei «ripostigli e scrigni domestici» dove gli ambiziosi timocratici ripongono e<br />

nascondono i loro averi?<br />

Voi mi costringete a toccare un dolorosissimo nervo scoperto. «Infandum,<br />

regina, iubes renovare dolorem», sospira l’Enea di Virgilio, mentre<br />

dal cielo scende l’umida notte. Ci avviamo, infatti, verso la definitiva disfatta<br />

della kallipolis, della bella città aristocratica. Quei ripostigli, che ciascuno<br />

colma d’oro, portano al tramonto della timocrazia e al sorgere dell’oligarchia.<br />

E, con l’oligarchia, la sete di onori diventa inestinguibile sete<br />

di denaro.


Platone in Italia 87<br />

Una domanda, con tutto il rispetto. Io vivo in un paese dove non sono rari<br />

gli esemplari eternamente avidi di potere, di ricchezza e di denaro. E tuttavia<br />

nessuno di noi si sogna di definire la nostra costituzione politica un’oligarchia.<br />

A tal proposito, vi potrei rispondere con una domanda: che cos’è, se<br />

non una sostanziale oligarchia, quella polis in cui la minoranza che detiene<br />

il potere impone – senza scucire un quattrino e senza smettere di drenare<br />

denaro pubblico – una marea di tasse e sacrifici alla maggioranza dei cittadini?<br />

La verità è che la vostra polis, in fatto d’ingordigia e di disvalori, assomiglia<br />

a quella città che Socrate, nel Gorgia, definì un «caradrio», un uccello<br />

che, perpetuamente, mentre mangia evacua. Ma, ancora una volta,<br />

glissons!<br />

Ottima e saggia proposta. Torniamo allora ai danni provocati dai ripostigli<br />

pieni d’oro? Torniamo alla nascita della costituzione oligarchica?<br />

Volentieri. In primo luogo, io definisco «oligarchia» quella costituzione<br />

basata sul censo, dove solo i ricchi comandano e i poveri non possono partecipare<br />

al governo. Pertanto non si cerca tanto la gloria e gli onori, quanto<br />

piuttosto le ricchezze. Dapprima, infatti, si inventano il modo di fare spese<br />

ingentissime e a tale scopo stravolgono le leggi, alle quali disobbediscono<br />

essi stessi e le loro donne. Poi, famelici, continuano ad arricchirsi e quanto<br />

più apprezzano il denaro, tanto più disprezzano la virtù. Di conseguenza<br />

questi individui, un tempo battaglieri e ambiziosi, alla fine diventano luridi<br />

affaristi e sempre più avari. Perciò lodano e ammirano il ricco e gli conferiscono<br />

il potere, mentre disprezzano il povero e l’onesto. Allora promulgano<br />

una legge con la quale impongono come limite della costituzione oligarchica<br />

una determinata quantità di ricchezze, maggiore dove l’oligarchia<br />

è più forte, minore dov’è più debole, escludendo dalle cariche chi non possiede<br />

un patrimonio che raggiunga il censo prescritto; e realizzano il loro<br />

scopo con le minacce o con le armi.<br />

A quanto vedo, non siete tenero con l’oligarchia. E dire che tanta gente acculturata<br />

ricorda spesso che Voi eravate parente prossimo di Crizia e persino<br />

con qualche simpatia oligarchica! Ma, ditemi Maestro, non vi pare che la costituzione<br />

oligarchica, con la sua esaltazione del denaro e la sua accumulazione<br />

di ricchezze, assolva indirettamente ad una funzione altamente positiva che


88 Giuseppe Pezzino<br />

rafforza lo Stato e spinge l’individuo a dare la scalata ai vertici della società,<br />

dell’economia e della politica?<br />

Per Zeus!, a me pare invece che la costituzione oligarchica rinfocoli le<br />

discordie tra individui, tra gruppi sociali e tra fazioni politiche. A dire<br />

schiettamente il vero, nella polis, che formalmente è una, si vengono sostanzialmente<br />

a creare due città ferocemente contrapposte: la città dei ricchi,<br />

sempre più ricchi; e la città dei poveri, sempre più poveri. Col risultato di<br />

tensioni e lotte intestine, che indeboliscono lo Stato sia all’interno che all’esterno.<br />

Intendiamoci, mio caro amico, la minoranza oligarchica, in<br />

quanto tale, è fatta da pochi uomini e da moltissima pochezza mentale, politica<br />

e morale! Pensate un po’ se si scegliessero i piloti delle navi in base al<br />

censo e non si affidasse questo compito a un povero, anche se fosse più<br />

bravo nel pilotare. Vi sembra una follia? No, per Zeus!, questa è oligarchia.<br />

Pensate, inoltre, che la minoranza oligarchica si riduce magari a non potere<br />

affrontare una guerra, perché costretta a ricorrere al popolo armato e a temerlo<br />

più dei nemici. Oppure costringe il popolo a sostenere il peso della<br />

guerra; e nello stesso tempo non vuole contribuire alle spese per avarizia.<br />

Se ho ben capito, nella città oligarchica non si ha tanto la libera fioritura<br />

dell’iniziativa individuale, quanto piuttosto l’accumulazione crescente di ricchezze<br />

nelle mani di pochi aridi individui, che nulla producono di utile alla<br />

comunità e che invece speculano e prosperano sul fallimento e la miseria degli<br />

altri. Di questi tempi, qualcuno erroneamente li chiamerebbe «banchieri»!<br />

Possiamo intendere meglio questa questione, a condizione di tenere in<br />

stretta relazione la dottrina filosofica della politica e la psicologia o dottrina<br />

filosofica dell’anima. Osserviamo dunque la dinamica psicologica nell’uomo<br />

oligarchico, per comprendere meglio gli sviluppi della politica oligarchica.<br />

Abbiamo visto in precedenza che l’uomo timocratico ha l’anima dominata<br />

non già dalla ragione bensì dal principio collerico del thymos e dalla<br />

sfrenata ambizione per gli onori e per la gloria. Ora, invece, l’uomo oligarchico<br />

insedia sul trono della sua anima il principio appetitivo e avido che<br />

lo spinge incessantemente all’accumulazione di ricchezza.<br />

E il principio razionale? e quello collerico?<br />

Beninteso, questi due princìpi non sono espulsi dall’anima dell’uomo<br />

oligarchico: invero entrambi sono subordinati al principio appetitivo. Sic-


Platone in Italia 89<br />

ché l’individuo oligarchico «userà» il principio razionale solo come freddo<br />

calcolo razionale, per studiare il modo migliore in cui aumentare il proprio<br />

capitale. E «userà» il principio del thymos solo come sfrenata ambizione<br />

di ricchezza. Naturalmente il gioco perverso dell’accumulazione produce<br />

un numero sempre più ridotto di ricchi e una massa sempre più vasta di<br />

poveri.<br />

Se non m’inganno, tra la città dei ricchi e la città dei poveri scorre un fiume<br />

di dannati che sono divorati sia dall’ambizioso miraggio di diventare un<br />

giorno ricchi sia dall’incubo tremendo di precipitare nell’inferno della miseria<br />

più nera. Mi chiedo, amato Maestro, come potrà durare un regime oligarchico<br />

assediato non solo dalla città dei poveri, ma anche da questa fascia mediana di<br />

dannati in preda ora alla paura ora all’ambizione.<br />

Non potrà durare a lungo. Crollerà, quando i poveri prenderanno coscienza<br />

di essere i «padroni» dei ricchi, quando si accorgeranno di averli in<br />

pugno. A tal proposito, non bisogna trascurare che la città dei ricchi produce<br />

dei giovani molli, inadatti alle fatiche fisiche e spirituali e incapaci di<br />

resistere ai piaceri e ai dolori a causa della loro fiacchezza e pigrizia. In queste<br />

condizioni, quando i governanti e i sudditi vengono a contatto tra loro<br />

in viaggio o in qualche altra occasione d’incontro, nelle feste, nelle spedizioni<br />

militari, durante una navigazione o una guerra combattuta assieme,<br />

oppure quando si osservano a vicenda nei momenti stessi di pericolo, i poveri<br />

non sono affatto disprezzati dai ricchi, ma spesso un uomo povero robusto<br />

e abbronzato, schierato in battaglia accanto a un uomo ricco allevato<br />

all’ombra e coperto di molto grasso superfluo, lo vede tutto ansante e in<br />

difficoltà. Allora è facile ipotizzare che i poveri, quando si incontrano in<br />

privato, si dicano l’un l’altro: «Quegli uomini sono in nostra balìa, perché<br />

non valgono nulla».<br />

Diamine! Voi mi fate correre come uno sprovveduto da un capo all’altro<br />

della storia della filosofia occidentale: dall’hegeliana dialettica di servo-padro -<br />

ne alla marxiana coscienza di classe. Chiedo venia, sono soltanto mie immaginazioni<br />

da non addetto ai lavori. Però voglio dirvelo con tutto il cuore: magari<br />

buttiamo all’aria il Premio Stalin, ma una copia omaggio del «Manifesto» di<br />

Marx e di Engels vi spetta di diritto!


90 Giuseppe Pezzino<br />

A parte le vostre generose manifestazioni di stima nei miei confronti,<br />

io vi esorto a considerare come proprio in questo caso si apra una breccia<br />

per l’irruzione della democrazia. Infatti, la democrazia nasce quando i poveri,<br />

riportata la vittoria, uccidono alcuni avversari e ne mandano in esilio<br />

altri, e dividono con i rimanenti a parità di condizioni il governo e le cariche<br />

pubbliche, che per lo più vengono assegnate col sorteggio.<br />

Finalmente la libertà per tutti! Finalmente la libertà di parola e quella di<br />

fare ciò che si vuole! Perdonate, ma questa città democratica a me pare molto<br />

più bella della vostra «bella città» aristocratica. Pensi come sarebbe bello andare<br />

a percepire lo stipendio di deputato a sorteggio. Anch’io avrei qualche speranza!<br />

Può darsi che questa sia la più bella tra le costituzioni. Come un mantello<br />

ricamato d’ogni colore, così anch’essa, screziata di tutti i caratteri, può<br />

apparire bellissima. E bellissima potranno forse giudicarla in molti, come i<br />

fanciulli e le donne che contemplano gli oggetti di vario colore. Insomma,<br />

la democrazia a quanto pare sarà una forma di governo piacevole, anarchica<br />

e varia, che dispensa uguaglianza indifferentemente a ciò che è uguale<br />

come a ciò che non lo è.<br />

Non mi raccapezzo: la democrazia è anarchia? Ma io sapevo che la democrazia<br />

è libertà sotto la legge, laddove l’anarchia è libertà senza legge e senza<br />

confini.<br />

Possiamo essere d’accordo. A patto che voi consideriate il ruolo nefasto<br />

che svolgono i «cattivi coppieri» nel versare il vino forte e schietto della libertà<br />

ad un popolo in preda ad una sete smisurata. In altri termini, il negativo<br />

per la democrazia non sta nella libertà, ma nell’eccesso di libertà, che<br />

è più corretto chiamare licenza, capriccio, lìbito. È appunto l’insaziabilità<br />

di ciò che si ritiene un bene a creare veleni mortali. E se il veleno dell’oligarchia<br />

sta nell’insaziabilità del bene-ricchezza, il veleno della democrazia<br />

non sta nella libertà, bensì nell’insaziabilità del bene-libertà.<br />

Capisco, ma fino a un certo punto. Ancora non riesco a cogliere il nesso fra<br />

democrazia e anarchia.<br />

Purtroppo, la brama insaziabile di libertà e la noncuranza d’ogni altro<br />

valore avvelenano la democrazia e la preparano ad avere bisogno della tirannide.<br />

Ripeto: quando una polis democratica, assetata di libertà, cade


Platone in Italia 91<br />

nelle mani di cattivi coppieri, s’inebria del vino forte e schietto della libertà<br />

oltre il dovuto e perseguita i suoi governanti, a meno che questi ultimi non<br />

siano del tutto remissivi e non concedano qualunque libertà su qualunque<br />

cosa. A quel punto, la città democratica ricopre d’insulti coloro che si mostrano<br />

obbedienti alle autorità e alle leggi, trattandoli come uomini di nessun<br />

valore, contenti di essere schiavi, mentre elogia e onora i governanti<br />

che si fanno simili ai sudditi e i sudditi che si fanno simili ai governanti. In<br />

una tale città è ine<strong>vita</strong>bile che il principio di libertà tocchi il suo culmine e<br />

si allarghi a tutto. E così nasce l’anarchia, che penetra anche nelle case private<br />

e alla fine sorge persino tra gli animali.<br />

Ma, com’è possibile una simile degenerazione?<br />

Nel senso che, ad esempio, un padre si abitua a diventare simile al figlio<br />

e a temere i propri figli. E il figlio diventa simile al padre e, pur di essere<br />

libero, non ha né rispetto né timore dei genitori. Un meteco si pone<br />

al livello di un cittadino e un cittadino al livello di un meteco, e lo stesso<br />

vale per lo straniero.<br />

Perbacco, siamo all’inversione dei ruoli! Anzi alla loro parificazione gioiosa<br />

e confusionaria. Ma queste cose noi le abbiamo predicate e propugnate appassionatamente<br />

su internet, sui giornali, alla televisione, raccogliendo una messe<br />

sempre più abbondante di consensi! A tal punto che un padre è oltremodo orgoglioso<br />

di non essere più «padre», ma «amico» del figlio. Con l’esaltante risultato<br />

di avere ormai ottenuto una massa sterminata di orfani ricchissimi di<br />

amici. Maestro amatissimo, vi sembra una con<strong>qui</strong>sta trascurabile? Dove trova<br />

una simile rivoluzione?<br />

La trovo nelle scuole, ad esempio. Infatti, questa inversione dei ruoli si<br />

accompagna ad una cieca avversione verso ogni tipo di autorità. Sicché il<br />

maestro teme gli allievi e, per paura d’essere accusato di autoritarismo, liscia<br />

loro il pelo per il verso giusto, li lusinga. Gli allievi, dal canto loro, se<br />

ne infischiano sia dei maestri sia dei pedagoghi. Insomma, i giovani si pongono<br />

alla pari dei più anziani e li contestano nei discorsi e nei fatti, mentre<br />

i vecchi accondiscendono ai giovani, indossano la maschera buffonesca del<br />

giovanilismo e si riempiono di facezie e smancerie, scimmiottando i giovani<br />

per non sembrare spiacevoli e autoritari.


92 Giuseppe Pezzino<br />

Forse non avevo tutti i torti a pensare al Premio Stalin! Forse. Però, di una<br />

cosa son sicuro. Son sicuro che Voi, con queste vostre idee, non guadagnereste<br />

mai uno straccio d’invito in un talk show televisivo oppure sareste cacciato via<br />

ed inseguito da una folla inferocita. Con tutto il rispetto, a me pare che Voi<br />

nuotiate da solo e controcorrente. Il che, di questi tempi, fa male alla salute,<br />

come disse il sofista Callicle a Socrate, prima che il poveretto fosse condannato<br />

a morte!<br />

Socrate ci ha insegnato che il vero filosofo deve dare persino la <strong>vita</strong> per<br />

la verità e per il bene. E soprattutto ci ha insegnato che gli sconfitti nella<br />

storia politica sono gli eterni vincitori nella storia etico-politica. Chi si ricorda<br />

più degli accusatori di Socrate, dei suoi giudici e dei governanti della<br />

sua polis? Nessuno. Costoro sono annegati nel fiume dell’oblìo. Sono spariti<br />

nello spazio d’un mattino, come svaniscono le tenebre notturne all’apparire<br />

della dea Aurora. A Socrate sconfitto spetta, invece, la palma della<br />

vittoria eterna. E finché il carro del dio Sole correrà per la volta celeste a<br />

donare <strong>vita</strong> e luce ai mortali, Socrate sarà immortale.<br />

Mi accorgo che ci stiamo un po’ allontanando dai problemi <strong>vita</strong>li dell’anima<br />

e della polis. Perciò vorrei riportare il nostro discorso al cuore della questione,<br />

pregandovi d’illuminarmi su come si formano le giovani generazioni democratiche.<br />

Son d’accordo. Vi dico subito che, mentre nei precedenti tre momenti<br />

della dinamica psicologica, che portava dall’uomo aristocratico a quello<br />

timocratico ed infine a quello oligarchico, si aveva una successione egemonica<br />

di uno dei tre princìpi sull’anima (il razionale, il collerico e l’appetitivo),<br />

ora invece, con la sfrenata licenza democratica, predomina il principio<br />

dell’indistinzione fra i valori e quello della parificazione tra valori e<br />

disvalori.<br />

Temo proprio che lo scenario stia diventando più cupo. Maestro, aiutatemi<br />

a capire.<br />

Proviamo insieme a fare più luce. Quando un giovane di famiglia di tipo<br />

oligarchico, allevato in modo rozzo e gretto, senza cultura e nelle ristrettezze<br />

dell’avarizia, ha occasione di frequentare quei parassiti sociali che io<br />

chiamo «fuchi divoratori del miele dell’alveare», e di conoscere mostri,


Platone in Italia 93<br />

«belve focose e terribili», capaci di escogitare e procurare piaceri d’ogni sorta<br />

e qualità, state sicuro che allora il suo temperamento oligarchico comincia<br />

a mutarsi in democratico.<br />

Ma qual è il principio caratteristico che domina l’anima dell’uomo democratico?<br />

Vi dico subito che il principio che plasma il carattere dell’uomo democratico<br />

è il principio del desiderio, l’epithymetikon, lo stesso che domina l’anima<br />

dell’uomo oligarchico. Però c’è da fare un’importante precisazione:<br />

mentre nel tipo oligarchico l’epithymetikon è esclusivamente limitato al piacere<br />

di accumulare ricchezze; nell’uomo democratico, invece, questo principio<br />

del desiderio s’ingigantisce mostruosamente e va alla folle ricerca di<br />

qualunque piacere, senza misura e senza distinzione.<br />

Perdonate le mie interruzioni, amatissimo Maestro. Ma quando Voi parlate<br />

di «fuchi» famelici, che succhiano il sangue a chi lavora, e di «belve focose<br />

e terribili», che procurano ogni sorta di piacere nell’assoluta e gioiosa dimenticanza<br />

di qualsiasi dovere, a me, lo confesso, vien da pensare alle «sacre sponde<br />

ove il mio corpo fanciulletto giacque». Insomma, fuor di retorica e di poesia, io<br />

<strong>qui</strong> sento l’odore inconfondibile del mio mondo. Perciò vi prego di continuare.<br />

Una volta superata la fase di conflitti interiori, di tentennamenti e di<br />

ripensamenti, il giovane democratico opera le sue scelte definitive. Alla fine,<br />

quelle «belve focose e terribili» con<strong>qui</strong>stano l’acropoli dell’anima sua.<br />

E il giovane tornerà ad abitare apertamente e definitivamente presso quei<br />

«Lotofagi», quei mangiatori di loto, allucinati e alienati, i quali offrono volentieri<br />

a chiunque il loro unico e dolce pasto che magicamente fa viaggiare<br />

nella stupida dimenticanza della realtà.<br />

Perbacco, avevo ragione nel confessare che sentivo uno strano odore di patrie<br />

cucine!<br />

Non divaghiamo! Mi riferisco a quei mangiatori della dolce erba di loto<br />

la quale, secondo la narrazione di Ulisse, spegne ogni ricordo della patria<br />

ed accende unicamente la brama ardente di rimanere nella terra dei Lotofagi:<br />

«Chiunque l’esca dilettosa, e nuova gustato avea, con le novelle indietro<br />

non bramava tornar: colà bramava starsi, e, mangiando del soave loto,


94 Giuseppe Pezzino<br />

la contrada natìa sbandir dal petto». Piuttosto torniamo al giovane democratico,<br />

ormai felicemente schiavo di qualunque piacere e sempre pronto a<br />

succhiare il sangue dei familiari e dei concittadini che lavorano. In questo<br />

modo i nuovi padroni assoluti del giovane – i «fuchi» e le «belve focose e<br />

terribili» – s’insediano nel suo petto, sbarrano le porte dell’anima sua vuota<br />

di vera cultura e stracolma di frasi fatte, la riempiono di discorsi ciarlataneschi<br />

e di false opinioni, ed infine cacciano in disonorevole esilio il pudore,<br />

affibbiandogli il nome di dabbenaggine, cacciano via la temperanza,<br />

chiamandola viltà e coprendola di fango, e persuadono il giovane che la<br />

moderazione e le spese misurate sono indice di rozzezza e meschinità.<br />

Siamo dunque ad un vero e proprio stravolgimento del senso del linguaggio!<br />

Perciò il pudore significa dabbenaggine; la temperanza significa viltà: e la moderazione<br />

passa per meschinità.<br />

Proprio così. Dopo aver svuotato e pulito di queste virtù l’anima del<br />

giovane in loro potere, i «fuchi» e le «belve focose e terribili» lo iniziano ai<br />

mistici riti dei grandi misteri del nulla, del male, della morte. Poi costoro<br />

introducono nell’anima, splendidamente incoronate e accompagnate da un<br />

coro solenne, la tracotanza, l’anarchia, la dissolutezza e l’impudenza. E le<br />

esaltano, celebrandole e ricoprendole di nomi belli e carezzevoli. La tracotanza<br />

la chiamano buona educazione, l’anarchia libertà, la dissolutezza magnificenza,<br />

l’impudenza coraggio. Succede pressappoco così che un giovane<br />

allevato tra i desideri necessari si trasforma fino a liberare e scatenare i piaceri<br />

non necessari e inutili.<br />

Ammetto di sentirmi a casa mia: siamo in pieno edonismo. E a questo<br />

punto ho voglia di esclamare: «Signifer, statue signum; hic manebimus optime»,<br />

come ordinò il centurione romano al signifero della sua centuria. Qui staremo<br />

ottimamente! Mi sento già nel Tempio Capitolino dell’edonismo più alla<br />

moda!<br />

Non avete tutti i torti. In verità, il giovane democratico trascorre i suoi<br />

giorni a compiacere il primo desiderio che gli capita: ora si ubriaca e suona<br />

il flauto, poi beve acqua e segue una cura dimagrante; ora fa ginnastica, talvolta<br />

invece se ne sta in ozio e si disinteressa di tutto. E in certi momenti<br />

vuol dare persino l’impressione di studiare la filosofia!


Platone in Italia 95<br />

Insomma, potremmo definire questo giovinotto un perdigiorno, un inconcludente,<br />

un fannullone arrogante?<br />

Direi proprio di sì. Con l’aggravante che è anche uno svergognato guastamestieri.<br />

Spesso, infatti, egli si dà alla politica e salta su a dire e a fare<br />

qualunque cosa gli passi per la testa. E se per caso pensa di emulare qualche<br />

uomo di guerra, eccolo pronto a darsi arie da condottiero. Se invece<br />

pensa di emulare qualche affarista, eccolo pronto a darsi arie da uomo d’affari.<br />

La sua <strong>vita</strong> non conosce né ordine né necessità. E tuttavia egli la chiama<br />

dolce, libera e beata; e persiste nel praticarla.<br />

Ora tutto mi è più chiaro. Ho un dubbio, però: Voi avete parlato di «fuchi»<br />

nella democrazia; posso chiedervi di scendere più da vicino nella società<br />

democratica?<br />

La vostra richiesta mi sembra assennata. Ebbene, io intendevo parlare<br />

di quella razza di uomini oziosi e spendaccioni, i più coraggiosi in testa a<br />

dirigere e i più codardi al seguito: gli uni io li paragono ai fuchi dotati di<br />

pungiglione, gli altri a quelli che ne sono privi. Questi due gruppi nascono<br />

in ogni regime e vi creano scompiglio, come la flemma e la bile nel corpo;<br />

perciò il buon medico e legislatore della città, non meno di un esperto apicoltore,<br />

deve prendere per tempo le sue precauzioni, innanzitutto per impedire<br />

che nascano, e se nascono perché siano recisi al più presto assieme<br />

ai loro favi. Dividiamo allora una città democratica in tre parti, cosa che<br />

del resto corrisponde alla realtà. La prima è quella classe di cui si è detto,<br />

che nasce <strong>qui</strong> non meno che nella città oligarchica a causa della licenza.<br />

Ma in questo regime è molto più violenta che in quello.<br />

Non vi pare che, con questa vostra teoria dei fuchi parassiti e perniciosi per<br />

la società, Voi stiate scivolando in un cupo pessimismo politico?<br />

E che dovremmo allora dire, in fatto di pessimismo, del vostro Machiavelli,<br />

che raccomanda al legislatore di tener conto della malvagità della natura<br />

umana, o del vostro Leopardi che presenta il mondo come «una lega<br />

di birbanti contro gli uomini da bene»?<br />

Vi prego, Maestro amatissimo, non pronunciate più il nome di Machiavelli<br />

o di Leopardi, può essere pericoloso! Sono autori che non appartengono al no-


96 Giuseppe Pezzino<br />

stro Novecento. E <strong>qui</strong>ndi potremmo avere noie col superiore Ministero dell’Istruzione!<br />

Pensi che non si sa che fine abbiano fatto i ritratti di Ministri dell’Istruzione<br />

come, ad esempio, Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini,<br />

Carlo Matteucci e Michele Amari. Brava gente sì, ma dell’Ottocento!<br />

Come volete. Torniamo allora ai problemi della mia polis.<br />

Saggia decisione! Se ho ben capito, questa prima classe è quella dei fuchi<br />

che succhiano il miele altrui, ossia dei parassiti prepotenti e insaziabili. Ma<br />

in che senso questa prima classe è più violenta nella democrazia che nell’oligarchia?<br />

Nell’oligarchia questa classe rimane inesperta e debole perché non viene<br />

apprezzata, anzi viene tenuta lontano dalle cariche. Nella democrazia,<br />

invece, questa classe dei fuchi parassiti divoratori del miele altrui, salvo pochi<br />

casi, è la classe dirigente e la sua parte più violenta parla e agisce, mentre<br />

gli altri, seduti attorno alle tribune, ronzano e non tollerano chi contraddice.<br />

Così in un simile regime tutto è amministrato da questa classe,<br />

con poche eccezioni.<br />

Santi numi!, mi gira la testa. Nella vostra democrazia, i fuchi parassiti con<br />

pungiglione sono la classe dirigente; e i fuchi codardi senza pungiglione rappresentano<br />

la rumorosa e ondeggiante schiera dei «clientes», dei galoppini, dei portaborse,<br />

dei tagliaborse, dei bravacci e delle guardie del corpo. Tutti parassiti<br />

che, al servizio dei fuchi con pungiglione, non tollerano e zittiscono chi non è<br />

d’accordo. Mah! Niente di nuovo sotto il sole!<br />

Precisamente così. C’è poi una seconda classe che si distingue sempre<br />

dal volgo: la classe dei ricchi, dei possidenti. Costoro son detti «pastura di<br />

fuchi», perché proprio dai possidenti i fuchi parassiti possono cavare comodamente<br />

ricchezza. Infine, la terza classe sarebbe il popolo, composto da<br />

chi lavora in proprio e non partecipa agli affari pubblici, gente che non<br />

possiede un patrimonio cospicuo: ma nella democrazia questa è la classe<br />

più numerosa e più potente, quando si coalizza.<br />

Sommessamente oso notare che Voi, mio amatissimo Maestro, non avete<br />

contemplato una quarta classe molto importante: quella, cioè, dei pensatori che<br />

producono merce intellettuale, che non sono mossi né dal desiderio di gloria né


Platone in Italia 97<br />

da quello di ricchezza, bensì dalla «libido sciendi», dalla «curiositas». In altri<br />

termini, Voi avete dimenticato la classe di quelli che non si ribellano mai, che<br />

mai fanno uno sciopero, mai una sommossa, e che al massimo, in un impeto di<br />

lotta e d’indignazione, si fanno prendere la mano (lo dico in senso letterale!)<br />

dalla «libido calami»: una libido che li spinge a firmare a getto continuo documenti<br />

di solidarietà, manifesti pro o contro, appelli, proteste, e così via firmando.<br />

E come Riccardo III di York urlava sconsolato in battaglia: Un cavallo,<br />

un cavallo, il mio regno per un cavallo! Così, di fronte ad un manifesto che<br />

implora d’essere firmato, il nostro pensatore reclama tutto eccitato: Una penna,<br />

una penna, il mio stipendio per una penna!<br />

È vero, io non contemplo una classe di intellettuali. Ricordatevi che<br />

nella mia kallipolis, a parte i filosofi-re, sono cortesemente accompagnati<br />

all’uscita artisti e sofisti.<br />

E come inizia la trasformazione dalla democrazia alla tirannide?<br />

Ciò che rovina la democrazia è la sua insaziabile sete di libertà, che da<br />

un canto porta ad affievolire il confine tra il lecito e l’illecito, e dall’altro<br />

tende a mortificare il concetto di dovere morale e di obbligo legale. In questa<br />

dolcissima confusione di valori e di ruoli, i fuchi si alleano col popolo<br />

a spese dei possidenti. Sicché un po’ del miele sottratto dai fuchi ai ricchi<br />

va nelle mani del popolo. Inutile dire che con ciò esplodono le discordie e<br />

monta la collera della classe dei possidenti. La paura di un sovvertimento<br />

della democrazia rende il popolo sempre più sospettoso ed in<strong>qui</strong>eto, fino<br />

al punto di affidarsi ad un protettore del popolo e della democrazia.<br />

Quindi, anche allora esisteva la figura di un individuo, più democratico<br />

degli altri e più uguale degli altri, che aveva il compito di difendere la democrazia<br />

e l’uguaglianza a tutti i costi, anche a costo della democrazia e dell’eguaglianza!<br />

Ovviamente il popolo non cade in quest’errore; e vigila affinché<br />

il pastore che deve custodire il gregge non diventi lupo, con tutto quel che ne<br />

consegue!<br />

E invece la democrazia cade in quest’errore. Innanzi tutto, il protettore<br />

tira fuori la famosa richiesta dei tiranni: chiede al popolo delle guardie del<br />

corpo per garantire l’incolumità del loro difensore. Ovviamente la scorta<br />

armata è reclutata tra i fuchi col pungiglione.


98 Giuseppe Pezzino<br />

E siamo ai pretoriani!<br />

Sulle prime, però, costui coltiva il suo rapporto rassicurante e democratico<br />

col popolo. Ebbene, in un primo tempo rivolge sorrisi a tutti e a tutti<br />

quelli che incontra stringe calorosamente la mano. Sfacciatamente nega<br />

d’essere un tiranno; ed è pronto ad ascoltare il popolo, facendo molte promesse<br />

in privato e in pubblico. Generosamente condona i debiti; distribuisce<br />

la terra al popolo, ai suoi pretoriani e ai suoi seguaci. E finge di essere<br />

mite e affabile con tutti. Ben presto, però, egli getta la maschera e rivela la<br />

sua vera natura: confisca i beni, saccheggia, lancia sospetti su tutti, manda<br />

in esilio, scaraventa in prigione, uccide una parte di quei cittadini che<br />

avrebbe dovuto proteggere, fino a ripulire tutta la città.<br />

Siamo già alle purghe!<br />

Astutamente, poi, suscita guerre contro le altre città, per ottenere l’unità<br />

del popolo, per deviare il malumore popolare contro il nemico esterno<br />

e per legittimare la democratica necessità di un capo assoluto. E il popolo,<br />

pur comprendendo fra le lacrime e il terrore quale belva ha generato, carezzato<br />

e cresciuto, il popolo democratico accetterà il tiranno. In tal modo,<br />

per e<strong>vita</strong>re il fumo della schiavitù sotto uomini liberi, la democrazia cadrà<br />

nel fuoco del dispotismo di schiavi. E il popolo smetterà i larghi panni di<br />

tutta quella libertà inopportuna, per indossare la veste più ignominiosa e<br />

più amara: la schiavitù esercitata da schiavi.<br />

Le vostre parole fanno molto pensare e vanno al cuore di tante riflessioni<br />

politiche e di tanti avvenimenti storici. E sicuramente è ormai tardi, per chiedervi<br />

quale può essere la via della risalita dopo aver conosciuto gli inferi della<br />

tirannide.<br />

È veramente tardi, mio caro amico. Il sole che scende lentamente nel -<br />

l’Occaso, le ombre che si allungano, il verso degli uccelli che tornano al nido,<br />

e l’aria fresca che parla severamente alle mie vecchie ossa, tutto mi dice<br />

che la nostra giornata sta per finire. E già col pensiero volo al porto del Pireo,<br />

dove gli ateniesi mi aspettano con ansia.<br />

Nel concludere questo nostra conversazione, lasciatemi esprimere la mia<br />

gratitudine per avere accettato di riservare a me una porzione della vostra pre-


Platone in Italia 99<br />

ziosa giornata. Lasciatemi inoltre esprimere solidarietà e preoccupazione per la<br />

Grecia che si dibatte nella crisi. Anzi, a tal proposito, mi chiedo se non sia meglio,<br />

per la vostra persona e per la filosofia, che voi rimaniate <strong>qui</strong> finché ad<br />

Atene non si spegneranno i fuochi della crisi e i pericoli di disordini. In fondo,<br />

aveva ragione Aristotele che, per sfuggire alla vendetta del partito antimacedone,<br />

abbandonò Atene e si rifugiò in un suo possedimento a Calcide.<br />

Amico mio, io non mi chiamo Aristotele; e non so fare le cose che sapeva<br />

fare Aristotele. Io sento il dovere morale e politico di non abbandonare<br />

la mia città, anche a costo della <strong>vita</strong>. Io mi chiamo Platone.


100<br />

summum crede nefas animam præferre pudori<br />

et propter <strong>vita</strong>m vivendi perdere causas

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