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Quaderni<br />
del Laboratorio di Etica<br />
leifSemestrale<br />
e Informazione Filosofica<br />
Università di Catania
Quaderni<br />
leifSemestrale<br />
del Laboratorio di Etica e Informazione Filosofica - Università di Catania<br />
Impaginazione e stampa:<br />
, grafica editoriale<br />
di Pietro Marletta,<br />
via Delle Gardenie 3, Belsito,<br />
95045 Misterbianco (CT),<br />
tel. 095 71 41 891,<br />
e-mail: emmegrafed@tiscali.it<br />
Direttore<br />
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Dipartimento di Scienze Umanistiche, Università di Catania.<br />
Piazza Dante, 32 - 95124 Catania.<br />
Tel. 095 7102343 - Fax 095 7102566<br />
Email: <strong>maria</strong><strong>vita</strong><strong>romeo</strong>@unict.it<br />
ISSN 1970-7401<br />
© 2011 - Dipartimento di Scienze Umanistiche, Università di<br />
Catania<br />
Registrazione presso il Tribunale di Catania, n. 25/06, del 29<br />
settembre 2006
Quaderni<br />
leif<br />
Semestrale del Laboratorio di Etica<br />
e Informazione Filosofica<br />
agorà<br />
Università di Catania<br />
Anno V n. 7, luglio-dicembre 2011<br />
Giuseppe Bentivegna Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 5<br />
Maria Vita Romeo Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 19<br />
Alessandro Chiessi e other Mandeville: the origins of a scandalous<br />
thought. Mechanism, Materialism and Naturalism 47<br />
coffee break<br />
Giuseppe Pezzino Platone in Italia 79
R. Guttuso, Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio a Palermo (particolare).
Giuseppe Bentivegna<br />
Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento<br />
La STorIa DeL PeNSIero fILoSofIco e PoLITIco dell’Ottocento siciliano<br />
è stata ricostruita con intenti storiografici che, se giustificati alla<br />
luce delle finalità etico-politiche a cui rispondevano, non permettono più<br />
allo storico della cultura di comprendere efficacemente la reale dinamica<br />
delle teorie filosofiche e politiche, senza rischiare di scivolare in forme storiografiche<br />
attardate, quali l’agiografia o il municipalismo.<br />
Con questo non voglio sostenere che manchino del tutto studi soddisfacenti,<br />
ricchi nelle loro analisi filologiche (necessarie trattandosi il più<br />
delle volte di “territori inesplorati”) e interpretative. Questi studi di diverso<br />
orientamento, anche se offrono ampie suggestioni e direzioni di analisi,<br />
non si soffermano sulla filosofia liberale isolana, non ne operano una ricostruzione<br />
concettuale, non ne individuano le valenze pratiche, non ne colgono<br />
la reale incidenza nella dinamica per la modernizzazione delle strutture<br />
e della cultura. Se si fa eccezione dei saggi di R. Romeo1 e F. Pillitteri2 ,<br />
gli altri sono attraversati il più delle volte da un implicito, e non sempre<br />
motivato, giudizio di condanna del liberalismo, inteso come freno ideologico<br />
ad una vera rivoluzione risorgimentale, come momento di avanzamento<br />
e affermazione delle ideologie democratiche. Ciò, se in parte è condivisibile,<br />
almeno per quelle regioni italiane dove le ideologie democratiche<br />
erano mature e ben radicate nel tessuto sociale, in Sicilia necessita di una<br />
revisione in quanto la rivoluzione risorgimentale nell’isola è opera soprattutto<br />
dei liberali, almeno fino al 1848-49, quando le differenze ideologiche<br />
si evidenziano e le fragili alleanze saltano. Tutto questo emerge chiaramente<br />
dal saggio di Romeo che, però, brillante nella ricostruzione storica, offre<br />
1 Il Risorgimento in Sicilia, Roma-Bari, Laterza, 1950, rist. ivi 1973.<br />
2 Il liberalismo economico in Sicilia e Giovanni Bruno, Palermo, Palumbo, 1983.<br />
5
6 Giuseppe Bentivegna<br />
poco allo storico della cultura se non uno scenario dove le idee nascono,<br />
operano e si comprendono 3 . Molti intellettuali e opere sono citati da Romeo,<br />
ma ciò che manca è una compiuta analisi delle loro ideologie, compito,<br />
questo, marginale rispetto all’intento complessivo dell’opera. Al contrario<br />
i saggi di G. Berti e S. M. Ganci tendono a porre troppo in evidenza<br />
lo spessore teorico e la funzione dei democratici enfatizzandone lo spessore<br />
teorico e la capacità organizzativa 4 . Una strada “mediana” è certamente<br />
percorribile, considerando però che, dopo il 1848, liberali e democratici sono<br />
“sconfitti” o almeno relegati a ruoli marginali, isolati dall’alleanza “forte”<br />
tra aristocrazia e monarchia sabauda. Il primo parlamento del nuovo<br />
Regno vede insieme all’opposizione liberali e democratici siciliani rinchiusi<br />
nella loro nostalgia degli anni Quaranta, con le loro utopie di giustizia e libertà.<br />
Stessa sorte, per certi versi emblematica, tocca ai democratici continentali,<br />
cui però si è portata l’attenzione degli storici, strappandoli al buio<br />
della sconfitta 5 .<br />
Oltre ai saggi citati, che in qualche modo costituiscono delle tappe obbligate<br />
e dei paradigmi interpretativi convincenti, debbo ricordare l’ormai<br />
datato lavoro di G. De Ruggiero 6 , Con questo studioso siamo lontani dalle<br />
abili ma mistificanti ricostruzioni di G. Gentile 7 sulle quali sono state scritte<br />
pagine illuminanti 8 e che proprio per l’abilità con cui sono state condot-<br />
3 Lo stesso Romeo lamentava in un suo saggio la povertà degli studi sulla cultura siciliana del<br />
primo Ottocento; si veda I liberali napoletani e le rivoluzione siciliana del 1848-’49, in AA. VV., Il<br />
1848 nell’Italia meridionale, Napoli, Tip. Torella, 1950, pp. 106-45.<br />
4 G. Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano, Feltrinelli, 1962 e<br />
S. M. Ganci, L’Italia antimoderna. Radicali, repubblicani, socialisti, autonomisti dall’Unità ad oggi,<br />
Parma, Guanda, 1968.<br />
5 Tra tutti gli studi, per le prospettive che ha aperto, ricordo N. Bobbio, Una filosofia militante.<br />
Saggi su C. Cattaneo, Torino, Einaudi, 1971. Si veda anche F. Della Peruta, Carlo Cattaneo politico,<br />
Milano, F. Angeli, 2001.<br />
6 Il pensiero politico meridionale nei secc. XVIII e XIX, Roma-Bari, Laterza, 1922; a questo saggio<br />
va accostata la Storia del liberalismo europeo, ivi. 1925.<br />
7 Il tramonto della cultura siciliana, rist. della II ed. riv. e accr., Firenze, Sansoni, 1963.<br />
8 Per una confutazione delle tesi gentiliane si veda C. Dollo, Implicazioni politiche e determinazioni<br />
ideologiche della filosofia in Sicilia (1870-1915), in AA. VV., La presenza della Sicilia nella cultura<br />
degli ultimi cento anni, Palermo, Palumbo, 1977, pp. 820-86. Tuttavia, quando si affrontano i<br />
temi della storiografia idealista, si devono fare nostre le cautele e le raccomandazioni suggerite da P.<br />
Piovani in un contesto diverso, quello del previchismo meridionale, ma generalizzabili per realizza-
Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 7<br />
te hanno affascinato gli storici bloccando per anni la ricerca sul pensiero filosofico<br />
e politico siciliano. Il dibattito è stato tenuto vivo solo da studiosi<br />
di formazione liberale o marxista; giacché non mi sembra che meritino<br />
particolare attenzione le ricostruzioni agiografiche o semplicemente erudite<br />
alla V. Di Giovanni 9 , funzionali all’esaltazione di valori filosofici e politici<br />
“fuori del tempo”.<br />
Da qualche decennio alcuni storici hanno ravvivato l’attenzione per la<br />
storia culturale della Sicilia, approntando metodi più critici e indagando<br />
nuovi settori del sapere. Le ricerche di G. Giarrizzo sull’illuminismo, quelle<br />
di Dollo su Cinque e Seicento e Otto e Novecento, le mie sull’età dei Lumi<br />
e sul primo Ottocento, danno una visione dinamica e problematica della<br />
realtà culturale dell’isola. Emerge una immagine nuova della Sicilia che<br />
non si presenta chiusa in se stessa, restia alla cultura europea e sequestrata,<br />
ma che partecipa attivamente, e a volte con risultati rilevanti, al dibattito<br />
culturale generale. Una rassegna anche som<strong>maria</strong> delle indicazioni bibliografiche<br />
stilate da Giarrizzo, da Dollo e da me mostra una vasta e profonda<br />
circolazione di testi filosofici, politici, scientifici dei maggiori studiosi italiani<br />
ed europei. Ciò di cui siamo ancora privi è un’analisi del primo Ottocento<br />
e del Risorgimento, che costituisce, invece, un momento di grande<br />
interesse, ricco e articolato, ricostruibile con una storia che non sia solo di<br />
dottrine etico-politiche ma della più ampia e ricca categorie della storia<br />
della cultura, perché sono convinto che il liberalismo isolano non è solo liberismo,<br />
teoria dello Stato e della società civile, ma un tentativo di rinnovamento<br />
concettuale di tutta la cultura isolana e, <strong>qui</strong>ndi, di tutto l’apparato<br />
produttivo e distributivo dei beni materiali.<br />
re un vero superamento della storiografia di Croce e Gentile: «[…] per studiare la filosofia meridionale<br />
della fine del Seicento con piena autonomia non bisogna mettersi quasi per partito preso, contro<br />
la storiografia idealista, bisogna invece, tenendo conto di risultati ormai ac<strong>qui</strong>siti, riprendere il discorso<br />
in più aperta visuale e con più scaltrita documentazione, con la costante preoccupazione di<br />
non tentare sintesi che non siano sorrette dalla analisi minuziosa del pensiero e dei pensatori che si<br />
vogliono conoscere ed interpretare», Il pensiero filosofico meridionale tra la nuova scienza e la «Scienza<br />
Nuova», in Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Nazionale di Scienze,<br />
Lettere ed Arti in Napoli», vol. LXX (1959), p. 69.<br />
9 Del Di Giovanni, come modello della sua storiografia, mi limito a segnalare i saggi Della filosofia<br />
moderna in Sicilia, Palermo, Amenta, 1868 e Storia della filosofia in Sicilia, ivi, Pedone-Lauriel,<br />
1873, rist. anast. Bologna, Forni, 1985.
8 Giuseppe Bentivegna<br />
L’attenzione non deve essere rivolta alla ricostruzione del solo pensiero<br />
politico, in quanto del liberalismo bisogna cogliere tutti gli aspetti di rinnovamento<br />
della <strong>vita</strong> isolana, senza esagerarne la spinta propulsiva, come<br />
movimento coinvolgente non solo la politica, con le scienze ad essa connesse,<br />
in particolar modo l’economia, ma anche la filosofia,<br />
come visione del mondo, come gnoseologia, metodologia,<br />
ecc. e le lettere, continuando così, secondo<br />
coor dinate e modalità diversificate, l’opera di smantellamento<br />
della feudalità intrapresa dagli illuministi<br />
di fine Settecento, assorbendone la mentalità critica<br />
e antisistematica. L’appello degli illuministi aveva<br />
trovato la sordità dei ceti nobiliari, ma non dei ‘figli’<br />
della borghesia, dediti agli studi e più sensibili all’aggiornamento<br />
dei valori storici tradizionali. Da questo<br />
gruppo emerge il ceto degli intellettuali liberali, impe-<br />
gnato nel doppio fronte del rinnovamento strutturale e<br />
culturale negli anni del Risorgimento.<br />
Nel primo fronte la battaglia è condotta, pur con qualche ambiguità,<br />
Giuseppe Mazzini.<br />
in nome del liberoscambismo e del potenziamento delle attività agricole e<br />
manifatturiere 10 ; nel secondo con la proposta di nuovi valori connessi ad<br />
un forte interesse per il civile, in antitesi alle oscure metafisiche romantiche<br />
o idealiste o, peggio ancora, dell’ontologismo tradizionale.<br />
Si tratta di un rivolgimento che si potenzia attraverso la lettura delle<br />
opere di Vico e Romagnosi, senza trascurare l’influsso controverso dell’eclettismo<br />
francese e della tradizione empiristica inglese.<br />
Ritengo necessario ricordare le coordinate storiche fondamentali che<br />
circoscrivono l’ambito di questo contributo. Il periodo che va dal 1830 al<br />
1848 è il più ricco – dal punto di vista della dinamica culturale – di tutto il<br />
primo Ottocento e segna la rottura con il liberalismo degli Scinà e dei Gregorio,<br />
ancora operante negli avvenimenti del ’12 per aprirsi a più ampie e<br />
10 Sul dibattito economico-politico nella Sicilia del primo Ottocento si vedano, con le relative<br />
indicazioni bibliografiche, M. Grillo, Protezionismo e liberalismo. Momenti del dibattito sull’economia<br />
siciliana del primo Ottocento, Catania, Cuecm, 1994 e P. Travagliante, Sui privilegi in materia di industria.<br />
Il concorso di Economia del 1841 nell’Università di Catania, ivi, 1994.
Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 9<br />
aggiornate prospettive culturali, rompendo l’asse portante del vecchio “sicilianismo”,<br />
che fissava nell’idea di nazione siciliana il presupposto fondamentale<br />
per spezzare le catene della feudalità, rimaste quasi integre nonostante<br />
i coraggiosi ma per molti aspetti inefficaci colpi dei viceré Caracciolo<br />
e Caramanico. È con gli anni Trenta che la feudalità, con il suo rigido,<br />
soffocante apparato giuridico, è spazzata via, non più in nome dell’ideale<br />
resurrezione della nazione siciliana, ma nella prospettiva più aperta e progredita,<br />
che assume forme e contenuti diversi, della nazione italiana.<br />
Detto così, potrebbe sembrare un movimento continuo e indolore; in<br />
realtà la sua affermazione ha comportato un quasi radicale mutamento della<br />
mentalità siciliana, non dico dei ceti aristocratico-nobiliari, nemici di<br />
ogni pur tiepido cambiamento, ma nella borghesia piccola e media, della<br />
città e della campagna, soffocata dalle strettoie di un apparato produttivo<br />
e legislativo, che ne impedisce qualsiasi espansione economico-politica. Si<br />
tratta di un processo che in qualche modo cerca di colmare l’enorme vuoto<br />
storico vissuto dall’isola, rimasta estranea agli effetti progressivi della rivoluzione<br />
francese prima e della politica napoleonica poi. La borghesia isolana,<br />
tolte le ambigue e sostanzialmente inefficaci mediazioni inglesi, non è<br />
stata nutrita e irrobustita dagli avvenimenti continentali, ma, attraverso i<br />
suoi uomini di punta, si impegna in un profondo programma di revisione<br />
ideologica e sociale. Questa dinamica inizia con gli anni Trenta e, paradossalmente,<br />
è messa in moto dalla Monarchia Borbonica convinta finalmente<br />
(ma ormai tardivamente) della necessità di abbattere le strutture feudali. In<br />
realtà, il suo sforzo si rivela inadeguato alla realizzazione di un programma<br />
riformistico. Il tentativo, però, favorisce un largo passaggio della proprietà<br />
fondiaria dagli aristocratici alla borghesia che si andava consolidando. Tutto<br />
questo facilita l’irrobustirsi della mentalità antiborbonica e inserisce la<br />
Sicilia, com’è noto, in un ampio orizzonte contestativo ricco di fermenti<br />
culturali inglesi, francesi e, per la prima volta in maniera chiara ed esplicita,<br />
della tradizione filosofica italiana da Vico a Romagnosi, con l’intento di<br />
immettere la Sicilia nel dibattito italiano. Questo è il progetto politico di<br />
fondo del liberalismo isolano, quasi compatto fino al Quarantotto, anno<br />
della rivoluzione e delle disillusioni; anno in cui inizia la revisione dei valori<br />
portanti dei moti per l’affermazione di una nuova linea politica, quella<br />
unitaria, alla quale molti dei liberali del Quarantotto restano estranei evi-
10 Giuseppe Bentivegna<br />
denziando debolezze e contraddizioni. Certo è che nel “decennio di preparazione”<br />
si assiste allo sfaldarsi dell’alleanza tra liberali moderati e democratici<br />
e all’affermazione di un nuovo ceto politico in grado di orientare in<br />
senso unitario le sorti della Sicilia 11 . A questo processo non sono estranee le<br />
realistiche prese di coscienza di alcuni<br />
liberali – cito fra tutti M. Amari –<br />
che con il loro progrediente unitarismo<br />
misero in minoranza gli irriducibili<br />
federalisti come E. Amari. Sono<br />
convinto che le origini della “sconfitta”<br />
dei liberali isolani non si spiegano<br />
solo con gli avvenimenti nazionali<br />
del “decennio di preparazione”, che<br />
evidenziano la fragilità del federalismo<br />
liberal-cattolico, ma anche, nel<br />
caso della Sicilia, con l’incapacità dei<br />
moderati di spingersi al di là di una<br />
prospettiva che, seppur giustificata<br />
con argomenti schiettamente liberali<br />
ma astratti, rimane pur sempre legata<br />
alla vecchia idea di nazione siciliana,<br />
che si era aggiornata nella forma ma<br />
non nella sostanza, come si evince dal<br />
G. Induno, Sentinella.<br />
nascente regionismo degli anni Sessanta<br />
che, al contrario di come ritiene<br />
S. M. Ganci 12 , mi sembra un movimento anacronistico e nostalgico. In<br />
realtà, mi sembra che questo movimento immiserisca, per riprendere i termini<br />
di Romeo, il clima culturale dell’isola e gli dà un tono generale assai<br />
modesto e concettualmente inconsistente 13 , che non ha alcuna continuità<br />
con la vivacità e la profondità di quello del 1848.<br />
11 Cfr. R. Romeo, op. cit., pp. 350-4 e G. Ciampi, I liberali moderati siciliani in esilio nel decennio<br />
di preparazione, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1979.<br />
12 Questo studioso vede in esso l’inizio del movimento autonomistico. Cfr. quanto scrive in<br />
L’Italia antimoderna, cit., ad es., a p. 235 a proposito di F. P. Perez.<br />
13 R. Romeo, op. cit., p. 381.
Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 11<br />
Mi sembra di poter ritenere che, attraverso queste brevi considerazioni<br />
storiche e metodologiche, la storia della cultura filosofica e politica della Sicilia<br />
esca fuori dalla prospettiva “regionista agiografica” e ac<strong>qui</strong>sta una dimensione<br />
concettuale fondamentale per la comprensione dei modi attraverso<br />
cui nella storia del sapere le “mappe particolari” siano elaborate all’interno<br />
dello “sviluppo dell’universale”.<br />
Per quanto attiene alla storia del pensiero filosofico nei primi anni del -<br />
l’Ottocento in Sicilia, i “filosofi di professione”, mentre si dimostrano assolutamente<br />
incapaci di scrollarsi di dosso il ruolo di indagatori della Verità,<br />
assumono la funzione di uno dei canali, e non certo il più importante, per i<br />
quali si cerca di far passare un consenso, quanto più ampio, alla struttura socio-economica<br />
venuta fuori dagli avvenimenti del 1812-1815. La idéologie e<br />
successivamente l’eclettismo sostituiscono le tematiche scolastiche nelle<br />
scuole di filosofia e non costituiscono un salto qualitativo capace di dare alla<br />
filosofia un ruolo più incisivo e meno teorico; ciò non toglie però che l’eclettismo<br />
non sia stato in grado di formare la coscienza politica di intellettuali,<br />
che ebbero un ruolo determinante durante gli anni Quaranta, per la formazione<br />
di quei gruppi che nel 1848-49 si fecero promotori della rivoluzione e<br />
del processo di costituzione dell’unità nazionale. È d’altronde comprensibile<br />
il lento ma costante involversi della ideologia, attraverso la mediazione<br />
dell’eclettismo, nell’ontologismo tradizionale, come quello di Gioberti.<br />
Negli anni Trenta, usando un’espressione di Romeo, si può parlare di<br />
una nuova coscienza storica o meglio di una nuova visione della storia 14 ,<br />
formatasi attraverso la spinta della borghesia intellettuale isolana, alla ricerca<br />
di nuovi modelli teorici di sviluppo storico, che ne legittimassero l’aspirazione<br />
egemonica. Questa visione della storia, che in alcuni intellettuali<br />
ha precisi connotati storicisti, formata da filosofi per lo più laici ma di formazione<br />
cattolica, si sviluppa secondo richiami teorici diversi. Con ciò non<br />
voglio affermare che in Sicilia si sia sviluppato un movimento storicista hegeliano<br />
15 , ma che precisi motivi di ordine economico e politico hanno indotto<br />
alla studio filosofico della storia, fino a teorizzare in E. Amari, una fi-<br />
14 Ivi, p. 257.<br />
15 Faccio riferimento all’hegelismo napoletano che non ha rapporti con gli interpreti della cultura<br />
isolana di questi anni.
12 Giuseppe Bentivegna<br />
losofia della storia progressiva sullo sfondo della Scienza nuova vichiana. Le<br />
riflessioni sulla storia costituiscono delle innovazioni che avvicinano gli intellettuali<br />
isolani alla contemporanea cultura italiana ed europea, non più<br />
ferma allo sterile spiritualismo dei metafisici tradizionali, ma aperta all’incisivo<br />
pensiero della filosofia civile.<br />
La ripresa dei temi vichiani (che andrebbe approfondita all’interno del<br />
vichismo risorgimentale nazionale a partire da V. Cuoco) e l’adesione alla<br />
“civile filosofia” di Romagnosi, presenti, fra gli altri, in B. Castiglia ed E.<br />
Amari, non hanno nulla di materialistico (come sostiene Gentile), tranne<br />
che per materialismo non si intenda qualsiasi impegno teorico-pratico volto<br />
all’ammodernamento della società, che in questo caso addirittura è di<br />
chiara ispirazione cattolico-liberale. Un elemento che in questi due intellettuali<br />
si ritrova immediatamente è l’adesione al cattolicesimo, che però<br />
non li porta ad una chiusura nei confronti di autori di altra ispirazione filosofica<br />
(ad es. Bentham, Romagnosi, ecc.) utilizzati come punto di riferimento<br />
per nuovi modelli di sviluppo. Gli intellettuali di cultura borghese<br />
non potevano rivolgersi al Papato, ancorato ad una visione sociale di tipo<br />
medievale, ma alle forze italiane ed europee che lottavano a fianco della<br />
borghesia più avanzata per la con<strong>qui</strong>sta del potere politico. Bisogna sottolineare<br />
però che il dibattito non vede i cattolici in un unico fronte perché<br />
la questione sociale diventa la linea di demarcazione tra cattolici liberali e<br />
cattolici sociali, riproducendo in Sicilia una questione italiana ed europea.<br />
Castiglia, ad esempio, avverte che la metafisica scolastica rappresenta politicamente<br />
un momento regressivo rispetto alle esigenze di rinnovamento.<br />
In Castiglia l’antisicilianismo è chiaro, deliberato, cosciente del valore di<br />
rottura, poiché il progresso non è possibile con l’isolazionismo e il protezionismo.<br />
Le scienze dell’umanità di cui parla Castiglia, limitando la ricerca<br />
al cerchio delle opere umane, hanno una precisa connotazione politica,<br />
poiché, affermando con Vico che il mondo storico-civile è il frutto dell’operare<br />
umano, escludono ogni intervento divino: l’uomo si riappropria del<br />
suo mondo e ne diviene l’artefice. Il ribaltamento del metodo vichiano, ritenuto<br />
aprioristico, è la prova evidente di questa nuova mentalità positiva,<br />
che vuole trarre dall’osservazione i principi che debbono regolare l’agire<br />
umano, non più determinato e guidato dalle leggi immutabili di Dio, ma<br />
frutto di ben calcolate indagini osservative e storiche. In tal senso Castiglia
Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 13<br />
come ‘scienziato sociale’ si richiama a Romagnosi, che spesso contrappone<br />
a Vico, proprio per la vocazione di filosofo civile e come tale costruisce una<br />
gnoseologia che non è soggettivistica ma positivistico-naturalistica, che ha<br />
evidenti valenze politiche: la metafisica non è adatta agli italiani, che, invece,<br />
hanno bisogno di studi civili e sociali per costruire le basi della loro unificazione<br />
e del loro progresso.<br />
La critica di Castiglia alla metafisica non fu compresa da Gentile, che<br />
la considerò opera di un “bizzarro ingegno” 16 . Dal saggio gentiliano questo<br />
intellettuale esce fuori falsato e sminuito.<br />
Della battaglia contro lo Stato accentrato,<br />
per la sovranità popolare e il suffragio<br />
universale, l’assoluta libertà di stampa,<br />
l’abolizione della pena di morte, la fine<br />
del potere temporale della Chiesa, nulla<br />
è detto.<br />
Nel contesto tracciato da V. Di Giovanni<br />
è assente, fra gli altri, V. D’Ondes<br />
Reggio, mentre la sua azione teorica e<br />
pratica in Sicilia è corrosiva ed agisce in<br />
profondità sia nella critica dell’organizzazione<br />
economico-sociale sia nei confronti<br />
del cattolicesimo arretrato e tradizionalista.<br />
D’Ondes Reggio è assente nella trattazione<br />
gentiliana forse perché assimilato<br />
agli intellettuali che dopo il Quarantotto<br />
vivono e operano nell’Italia settentrionale,<br />
accostandoli alla cultura “nazionale”.<br />
Giuseppe Garibaldi.<br />
In effetti, tutti gli intellettuali che ruotano attorno al Giornale di Statistica,<br />
tranne G. Bruno, emigrano al Nord con il fallimento dei moti del 1848 e<br />
<strong>qui</strong> ricevono nuovi stimoli culturali, ma è innegabile che non dimenticano<br />
l’esperienza maturata durante gli anni siciliani 17 . Tuttavia, per D’Ondes<br />
16 G. Gentile, op. cit., p. 70.<br />
17 Sull’emigrazione politica siciliana oltre al cit. saggio di G. Ciampi, si veda G. B. Furiozzi,<br />
L’emigrazione politica in Piemonte nel decennio preunitario, Firenze, L. Olschki, 1979, pp. 7-181.
14 Giuseppe Bentivegna<br />
Reggio bisogna fare qualche notazione particolare. Egli rappresenta un caso<br />
significativo di trasformazione della cultura cattolico-liberale che, con il<br />
trasferimento dell’autore nel più vasto ambiente nazionale, finisce con l’assumere<br />
un graduale e costante moderatismo e perfino di atteggiamenti<br />
conservatori in nome di quella libertà che dalle pagine del Giornale di Statistica<br />
aveva esaltato il liberoscambismo<br />
e la ribellione al Borbone. Nella<br />
sua parabola culturale ho individuato<br />
due fasi: la prima, quella siciliana; la<br />
seconda, nella Introduzione ai principi<br />
delle umane società e nell’attività parlamentare<br />
del nuovo Regno. Queste due<br />
fasi, per ragioni diverse, non sono considerate<br />
unitariamente né da Romeo<br />
né da Frattini. Il primo si sofferma,<br />
per evidenti ragioni di spazio storico,<br />
all’attività culturale e politica di<br />
D’Ondes Reggio svolta in Sicilia fino<br />
al Quarantotto e, con la solita capacità<br />
critica e sintetica, ne coglie i punti<br />
qualificanti, lo colloca all’interno del<br />
rinnovantesi liberalismo isolano e ne<br />
determina con precisione la funzione<br />
svolta durante gli anni preunitari.<br />
Camillo Benso conte di Cavour.<br />
Frattini, invece, pur con l’intento di<br />
tracciare il pensiero politico di D’On-<br />
des Reggio e di collocarlo all’interno dei diversi orientamenti ideologici del<br />
Risorgimento, ne trascura totalmente la produzione e l’impegno degli anni<br />
Quaranta e si ferma all’analisi della Introduzione ai principi delle umane società<br />
che è del 1857, e all’attività parlamentare. In sostanza, dalla sua monografia<br />
viene fuori un D’Ondes Reggio monco di circa venti anni di impegno<br />
improntato fondamentalmente ai principi del liberalismo economico<br />
e filosofico con forti influenze dell’utilitarismo di Bentham. In Frattini il<br />
rapporto fra cattolicesimo e liberalismo nella svolta postunitaria di D’Ondes<br />
Reggio non è visto come una intransigente difesa del cattolicesimo (an-
Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 15<br />
tiliberale) ma della libertà senza attributi 18 . In realtà l’Introduzione e i Discorsi<br />
sulle presenti rivoluzioni in Europa 19 costituiscono il punto di passaggio<br />
dalle posizioni liberali al cattolicesimo conservatore e intransigente<br />
dell’Opera dei Congressi, poiché, malgrado vi si tenti di armonizzare le<br />
istanze cattoliche con quelle liberali, sono la prova dell’adesione al moderatismo<br />
di destra. Se le due opere rispondono<br />
all’esigenza di formulare un sistema liberale di marca cattolica, che assegna allo<br />
Stato una funzione essenzialmente garantista e una legittimazione fondata sull’utilità<br />
e sul consenso degli associati 20 ,<br />
sul piano politico l’accettazione della formula cavouriana della “libera Chiesa<br />
in libero Stato” nasconde un dissenso che<br />
esplose più tardi nella vigorosa opposizione parlamentare del barone siciliano a<br />
tutte le iniziative di governo che rispondessero a una logica interventista in materia<br />
ecclesiastica, in nome della propria coerente quanto dottrinaria idea di libertà.<br />
Individuando nella realizzazione dello Stato unitario l’applicazione di un<br />
liberalismo, per così dire, antiliberale, una forma moderna di assolutismo, il Reggio<br />
finì per escludere ogni idea di conciliazione tra il cattolicesimo e quel liberalismo,<br />
attestandosi a sua volta su posizioni intransigenti 21 .<br />
In fondo il D’Ondes Reggio di questi anni è molto lontano dall’accettare<br />
le conclusioni etiche e politiche del liberalismo 22 .<br />
Le contraddizioni del barone siciliano non sfuggono a Sindoni, che,<br />
anzi, ne ricostruisce senza “intromissioni ideologiche” la figura attraverso<br />
18 E. Frattini, Il pensiero politico di V. D’Ondes Reggio, Brescia, Morcelliana, 1964, p. 201.<br />
19 Torino, Paravia, 1850.<br />
20 F. Traniello, Cattolicesimo e società moderna, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali,<br />
diretta da L. Firpo, Torino, Utet, 1972, vol. V, p. 577.<br />
21 Ibidem.<br />
22 Come dirà nel 1879 nel V congresso dei cattolici intransigenti (Opera dei Congressi) nel programma<br />
del movimento: «[…] il liberalismo è tirannide; esso è l’incredulità, addimandata Filosofismo<br />
del secolo passato, la quale è l’ultima conseguenza che in sé nascondeva il Giansenismo. Liberalismo,<br />
Filosofismo, Giansenismo, tutte e tre nell’intrinseco sono la stessa cosa, ed hanno però lo<br />
stesso generatore, il Protestantesimo, ondeché non ci può essere cosa più impropria anzi più sconcia<br />
di dire Cattolicesimo liberale, levati i sofismi, gli arzigogoli, le lustre, e le inconseguenze, di cui si fa<br />
sovente uso per manco male, le due parole sono contraddizione in termini, significano verità-errore,<br />
la seconda nega la prima», Atti del <strong>qui</strong>nto Congresso cattolico, Bologna, Tip. Falsinea, 1880, p. 283.
16 Giuseppe Bentivegna<br />
un’esposizione cronologica e non sistematica delle sue opere; da questo<br />
punto di vista la spiegazione che dà della “rabbiosa” avversione per il liberalismo<br />
del D’Ondes appare in parte convincente 23 .<br />
Dentro questo contesto gioca un ruolo di primo piano E. Amari, innestando<br />
la sua opera all’interno dell’emergente cultura liberale e cattolica<br />
isolana degli anni Quaranta. A tal proposito, è di notevole interesse il dibattito<br />
sviluppatosi tra “sicilianisti” e “autonomisti” (federalisti), cercando<br />
di individuare il ruolo giocato da E. Amari. Va inoltre chiarito che l’autonomismo<br />
di Amari, diverso da quello del cognato D’Ondes Reggio, ma<br />
molto affine a quello di G. La Farina e M. Amari, almeno fino agli anni<br />
Cinquanta, nella sua opera più matura trova una compiuta espressione<br />
dottrinale, che, non immune da ambiguità e contraddizioni, ha svolto una<br />
rilevante funzione di guida del ceto moderato. Nelle opere di Amari, tra<br />
l’altro, si tratta di vedere come si sfalda sotto i duri colpi della critica e della<br />
mediazione, l’antica ideologia sicilianista, che ebbe il suo momento più organico<br />
nel moti del 1812. A tal proposito, mi sembra sostanzialmente corretta<br />
l’analisi di G. C. Marino quando scrive che il<br />
lungo travaglio ideo-programmatico dell’opposizione di coscienti avanguardie al<br />
governo borbonico, l’influenza sempre più incisiva sugli ‘innovatori’ del pensiero<br />
del Vico scoperto anche nell’isola, la stessa penetrazione anomala (in commistione<br />
con cospicue valenze sicilianiste) degli ideali giobertiani del Primato, nella faticosa<br />
maturazione di una intellettualità borghese di cui la teodemocrazia di Gioacchino<br />
Ventura e di Vito D’Ondes Reggio e il liberalismo di Francesco Ferrara e il cattolicesimo<br />
liberale di Emerico Amari e il progrediente unitarismo di Michele<br />
Amari sarebbero stati fattori salienti, avrebbero reso indiscutibile per molti il concetto<br />
di una unità culturale italica entro la quale la cultura siciliana con le sue virtuose<br />
esperienze millenarie andava spiegata e inverata 24 .<br />
Dopo il 1848-49 in Sicilia il movimento liberale non ebbe quasi alcun<br />
seguito per l’esiguità delle forze rimaste e perché in realtà non era riuscito<br />
ad incidere profondamente in larghi settori della <strong>vita</strong> civile, che, sostanzial-<br />
23 A. Sindoni, Vito D’Ondes Reggio. Lo Stato liberale, la Chiesa, il Mezzogiorno, Roma, Ed. Studium,<br />
1990, p. 80.<br />
24 G. C. Marino, L’ideologia sicilianista dall’età dei lumi al Risorgimento, Palermo, S. F. Flaccovio,<br />
1971, p. 200.
Filosofia e politica nella Sicilia del Risorgimento 17<br />
mente, erano rimasti estranei ai suoi principi. Il fallimento del liberalismo<br />
di primo Ottocento è per certi versi simile a quello dell’illuminismo di fine<br />
Settecento, con cui stabilisce una linea di continuità; e se si può parlare di<br />
sconfitta dell’illuminismo in Sicilia per il suo carattere essenzialmente intellettuale,<br />
lo stesso si può dire per il liberalismo, in particolare per quello<br />
cattolico. Sconfitta che alcuni seppero assorbire e superare adattando la loro<br />
concezione all’ideale unitario. Tra gli altri, E. Amari si schiera contro<br />
costoro e nella sostanza non muta la sua impostazione politica neanche dopo<br />
il Sessanta, quando fece ritorno in Sicilia e fu tra i fondatori del partito<br />
regionista, destinato ad esaurirsi in pochissimi anni, appunto perché rappresentava<br />
una posizione mediana tra il federalismo (ormai sconfitto) e l’unitarismo<br />
dei democratici, senza concretizzarsi in una reale e praticabile<br />
azione all’interno di un progetto di governo; una mediazione, <strong>qui</strong>ndi, che<br />
si configurava, ancora una volta, come just milieu teorico ed elitario, che<br />
trovò il consenso solo di pochi rappresentanti del ceto dirigente isolano, timoroso<br />
di perdere il controllo dello sviluppo e <strong>qui</strong>ndi di essere escluso dalle<br />
decisioni governative del nuovo Regno.
Stemma dell’Impero Austro-Ungarico.
Maria Vita Romeo<br />
Note etico-politiche<br />
nel Gesuita Moderno di Gioberti<br />
NeL 1929, baLbINo gIULIaNo PoTeVa fINaLMeNTe scrivere che Vincenzo<br />
Gioberti era uscito dall’esilio a cui tutta la tradizione positivistica<br />
lo aveva condannato. Il concetto di positivo, d’altra parte, apparteneva<br />
ancora alla scuola naturalistica e considerava pertanto<br />
tutte le filosofie spiritualistiche come un solo blocco nemico, come forme di<br />
un’unica concezione irrazionale, che in nome di una divinità trascendente opprimeva<br />
la libertà intima del pensiero, e giustificava l’oppressione di tutte le esteriori<br />
libertà sociali e politiche1 .<br />
Ora, è grazie alla filosofia idealistica che ci si comincia ad accostare al<br />
pensiero di Vincenzo Gioberti con occhi diversi. Certo, la rinascita degli<br />
studi giobertiani in Italia non inizia subito; Croce, per es., benché abbia<br />
portato alla luce con il suo idealismo filosofi dimenticati come Vico e Spaventa,<br />
non s’interessò a Gioberti.<br />
Ha persino sorriso di lui – scrive Giuliano – senza nemmeno sospettare quante<br />
luminose intuizioni idealistiche vi fossero nella speculazione filosofica talvolta un<br />
po’ torbida ma sempre appassionata e forte di questo battagliero abate cattolico,<br />
che si impostava come ardente nemico della filosofia moderna2 .<br />
Il giudizio non positivo del Croce su Gioberti è certamente legato alla<br />
diffidenza del filosofo abruzzese per ogni forma di pensiero che si lasci turbare<br />
dal dogma cattolico. Per il filosofo dei distinti 3 appare difficile conci-<br />
1 B. Giuliano, Prefazione a R. Rinaldi, Gioberti ed il problema religioso del Risorgimento, Firenze,<br />
Vallecchi, 1929, p. VI.<br />
2 Ivi, pp. VI-VII.<br />
3 Su ciò cfr. G. Pezzino, L’economico e l’etico-utile nella formazione crociana dei distinti (1893-<br />
1908), Pisa, ETS, 1983; e Idem, La fondazione dell’etica in Benedetto Croce, Catania, c.u.e.c.m., 2008.<br />
19
20 Maria Vita Romeo<br />
liare, come pretendeva Gioberti, il dogma cristiano con il pensiero filosofico.<br />
Per Croce, la filosofia è filosofia e non è religione. Secondo noi, dunque,<br />
se Croce accusa Gioberti di essere un filosofo teologizzante non è,<br />
com’è stato ipotizzato 4 , per attaccare il suo amico-nemico Gentile, promotore<br />
della rinascita degli studi giobertiani, ma<br />
perché la filosofia di Gioberti mal si accorda<br />
con la visione crociana di una filosofia molto<br />
cauta nei confronti e della contaminatio teologica<br />
e della tentazione dogmatica:<br />
Non mi è mai riuscito di gustare il Gioberti filosofo,<br />
perché l’ho sentito sempre scarso di acume critico<br />
e privo di originalità speculativa. È stato detto<br />
che questa mia avversione venisse da diversità di<br />
temperamento; ma, in verità, veniva unicamente<br />
dalla ragione che ho enunciata, e l’insofferenza, a<br />
me attribuita sotto nome di temperamento, ne era<br />
naturale effetto. Una poesia brutta dispiace perché è<br />
brutta, e non perché il lettore abbia diverso temperamento<br />
dall’autore. Le scritture filosofiche del Gioberti<br />
sono tutte piene di miti giudaici, cristiani e<br />
cattolici, accolti dall’autore e da lui dichiarati parte<br />
integrante, e anzi signoreggiante, del suo pensiero 5 .<br />
Occorre subito precisare che, per Gioberti,<br />
la filosofia si distingue dalla religione: se<br />
Vincenzo Gioberti.<br />
infatti la filosofia trae origine dalla religione,<br />
essa tuttavia è autonoma poiché ha in sé la norma della verità, cioè l’evidenza<br />
razionale. Resta comunque indiscussa la dipendenza almeno iniziale<br />
della filosofia dalla religione.<br />
È dunque con Gentile che assistiamo ad una vera rinascita degli studi<br />
giobertiani in Italia. Il filosofo siciliano vede in Gioberti uno dei filosofi antesignani<br />
di un nuovo sapere filosofico, in cui convivevano in una sintesi ar-<br />
4 Cfr. L. Malusa-L. Mauro, Cristianesimo e modernità nel pensiero di Vincenzo Gioberti. Il «Gesuita<br />
Moderno» al vaglio delle Congregazioni romane (1848-1852). Da documenti inediti, Milano, Franco<br />
Angeli, 2005, p. 11.<br />
5 B. Croce, Conversazioni filosofiche, V, Del Gioberti filosofo, in «La Critica», 40, 1942, p. 1.
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 21<br />
monica pensiero e realtà. Sin dalla stesura della sua tesi di laurea, Gentile si<br />
accosta al pensiero giobertiano, cogliendo dapprima un Gioberti quasi incapace<br />
di superare il dualismo scolastico e che <strong>qui</strong>ndi ha una visione antistorica<br />
del neoguelfismo; e, successivamente, un Gioberti che, superando il<br />
limite dualistico mediante il concetto di unità tra Ente ed Esistente, coglie<br />
la realtà storica italiana ed i problemi del Risorgimento con la concretezza<br />
di chi ha visto comporsi i contrasti della realtà storica nell’unità dell’idea 6 .<br />
L’unificazione d’Italia, – scrive Gentile – come ogni altro fatto storico considerato<br />
nella sua dinamicità, non poteva essere, secondo la formola giobertiana, se non<br />
una creazione dello spirito; un ritorno dell’esistente all’Ente. Il punto di partenza,<br />
dunque, non poteva essere altrove che nell’esistente 7 .<br />
Seguendo quel fil rouge che lega idealmente Platone, sant’Agostino e<br />
san Bonaventura, Gioberti ripropone la formula bonaventuriana l’ens primum<br />
cognitum est ens primum: ciò che è nella nostra mente è lo stesso Ente<br />
assoluto dal quale deriva ogni altro ente. Così accanto alla prima formula<br />
giobertiana, «l’Ente crea l’esistente», che esprime il ciclo metafisico della <strong>vita</strong><br />
reale, troviamo la seconda formula, «l’esistente ritorna all’Ente», che<br />
esprime il ciclo storico, ove tutto il divenire, tutta la storia dell’umanità<br />
hanno un valore religioso. Ed è in questo processo che entra in gioco l’uomo,<br />
il quale, intuendo l’attività creativa di Dio, agisce come un «dio incoato»,<br />
autore di un mondo, quello della storia, attraverso la quale l’uomo (l’esistente)<br />
può tendere al suo principio divino (l’Ente) 8 .<br />
È chiaro così che per Gioberti la civiltà è sinonimo di sviluppo del pensiero.<br />
La civiltà come pensiero ha un’origine ed una finalità divina: parte<br />
da Dio e tende a congiungersi con Dio. Inizialmente, infatti, cogliamo l’unità<br />
(Ente) attraverso l’intùito dell’atto creativo, grazie al quale sono comunicati<br />
all’intelletto i princìpi fondamentali ed immutabili sui quali poggia<br />
il sapere umano: il pensiero ha origine nella Rivelazione e l’Idea, cioè Dio,<br />
6 Cfr. B. Giuliano, Prefazione a R. Rinaldi, Gioberti ed il problema religioso del Risorgimento,<br />
cit., pp. V-VIII.<br />
7 G. Gentile, I profeti del Risorgimento italiano, Firenze 1928, p. 121.<br />
8 «Lo spirito umano è l’immagine di Dio, è un dio finito, è il coato del finito verso l’infinito,<br />
dell’esistente verso l’Ente, e <strong>qui</strong>ndi l’apice, il compimento del mondo e il ministro del secondo ciclo<br />
creativo» (Protologia, I, p. 466).
22 Maria Vita Romeo<br />
si svela all’intelletto per mezzo della parola, cioè il Verbo. Successivamente,<br />
il pensiero umano, ormai illuminato, crea a sua volta la scienza e la civiltà,<br />
progredendo sempre più nella perfezione fino a ricongiungersi con Dio.<br />
Ora questo processo di risalita si forma attraverso il pensiero, il quale<br />
non è soltanto uno strumento del progresso civile, ma anche di quello della<br />
Chiesa, poiché la religione costituisce l’esteriorità dell’Idea e la filosofia l’interiorità<br />
9 . Solo grazie all’idea, cioè al pensiero, è possibile conciliare i<br />
princìpi religiosi con il progresso della cultura, la fede con la scienza. Grazie<br />
all’idea, o meglio alla fede nel pensiero, è possibile combattere il pessimismo,<br />
il misticismo, l’egoismo e tutti quei vizi morali che sono delle forze<br />
corrosive per la nazione 10 . Il motto del Gioberti è dunque: aver fiducia nel<br />
pensiero e credere nello spirito.<br />
Da <strong>qui</strong> la necessità di definire la relazione che intercorre tra la sfera filosofica<br />
e la sfera religiosa. Secondo Gioberti, infatti, per rigenerare la filosofia<br />
occorre la religione, la quale può offrire i princìpi ed il metodo per fare<br />
uscire la filosofia dalla trappola mortale a cui l’avevano destinata i due<br />
orribili mostri dell’Ottocento: lo psicologismo e il sensismo, progenitori, a<br />
loro volta, del materialismo, del fatalismo, dell’immoralismo, dell’ateismo,<br />
dell’idealismo, del panteismo, dello scetticismo e di altri «ludibrii» della filosofia<br />
moderna 11 . In altri termini, per Gioberti la filosofia ha la sua base<br />
nella Rivelazione; Dio è il primo filosofo e l’umana filosofia è la continuazione<br />
e la ripetizione della filosofia divina 12 .<br />
Religione, dunque. Ma una religione che sia filosofia: una religione cioè, che non<br />
cominci dal dividere l’uomo in due parti, in una delle quali sia dato filosofare liberamente,<br />
e nell’altra l’anima abbia ad abbandonarsi a una forza superiore, che<br />
la soggioghi con la potenza del mistero. Una filosofia potente e generosa, come<br />
quella che preconizza Demofilo; la quale accostumi «l’intelletto all’indipendenza,<br />
addestrando così gli uomini a cercare di fuori la libertà gustata dentro, la quale<br />
non è perfetta, e non sazia gli spiriti colti se per via di buone istituzioni non si allarga<br />
nel mondo civile». Una filosofia siffatta, non atomistica e meccanicistica,<br />
non sensistica e incapace di sollevare gli uomini al di sopra del senso e della <strong>vita</strong><br />
19 Cfr. A. Anzilotti, Gioberti, Firenze, Vallecchi, 1931, pp. 425-6.<br />
10 Cfr. ivi, pp. 161-2.<br />
11 Cfr. Introduzione alla filosofia, I, 142.<br />
12 Cfr. ivi, II, 171-2.
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 23<br />
dei bruti e delle naturali tendenze, ma razionale come quella di Socrate e di Platone,<br />
come quella di Bruno e di Vico, non può discordare da una religione come<br />
il Cristianesimo, che svestito dalla sua forma mistica e simbolica, è una pura filosofia;<br />
e “nella sua morale è libertà, e non altro che libertà, primieramente dell’animo,<br />
dove la passione è il tiranno, la ragione è la legge che lo vince e doma, poi<br />
nel mondo esteriore e civile, in cui ella si diffonde, come conseguenza e immagine<br />
di quella prima, colle istituzioni e leggi di repubblica ben ordinata” 13 .<br />
Alla luce di tutto ciò, si comprende perché nel 1923, «quando fu posto<br />
il problema della nostra esistenza nazionale e se ne additò la soluzione a<br />
mo’ di profezia», Giovanni Gentile non esitò a definire Gioberti e Mazzini<br />
«i profeti del Risorgimento italiano» riconoscendo in entrambi due «guide<br />
spirituali» 14 della nostra unificazione nazionale. E la profezia, secondo il filosofo<br />
siciliano, non si compì col 20 settembre 1870 o con Vittorio Veneto,<br />
poiché «essa è una fede, un pensiero alla cui <strong>vita</strong> e al cui sviluppo son legati<br />
in perpetuo la <strong>vita</strong> e lo sviluppo della nuova Italia» 15 .<br />
Secondo il filosofo idealista, il torinese Gioberti ed il genovese Mazzini<br />
ebbero il grande merito di avere elevato il problema del Risorgimento dal<br />
piano politico ed economico a quello spirituale. Essi infatti si adoperarono<br />
affinché gli italiani sentissero il bisogno di unirsi, liberandosi dal giogo dello<br />
straniero, come un’esigenza dello spirito e della dignità umana. Tale speranza<br />
era certamente alimentata dalla profonda concezione religiosa che<br />
animava i due «profeti»:<br />
Essi – scrive a tal proposito Solmi – erano convinti che non si può parlare di libertà,<br />
di unità, d’indipendenza, di civiltà e di progresso senza una rigenerazione<br />
religiosa dell’umanità; sentivano che la religione ispira e consacra i pensieri e le<br />
azioni umane; nobilita, consola, fortifica l’individuo e la fratellanza, ogni uomo.<br />
Per essi nella coscienza di ciascuno sta profondo, inseparabile il senso dell’infinito<br />
e dell’imperituro, l’aspirazione all’ignoto e all’invisibile. Non esiste, parlando storicamente,<br />
una sola grande con<strong>qui</strong>sta dello spirito umano, un solo passo importante,<br />
mosso sulla via del perfezionamento della società, che non abbia avuto le<br />
prime mosse da una forte credenza religiosa 16 .<br />
13 G. Gentile, I profeti del Risorgimento, cit., p. 100.<br />
14 G. Gentile, Prefazione (Roma, 12 febbraio 1923) a I profeti del Risorgimento italiano, cit., p. 5.<br />
15 Ivi.<br />
16 E. Solmi, Mazzini e Gioberti, Milano 1913.
24 Maria Vita Romeo<br />
Ed è questo comune sentire religioso che spinge Gioberti a scrivere a<br />
Mazzini, incitandolo ad ingaggiare una battaglia contro quei prìncipi che,<br />
servendosi empiamente della religione, opprimevano i popoli:<br />
Strappate la maschera dell’ipocrisia ai prìncipi, che con bestemmie nefande osano<br />
chiamarsi cristiani, cattolici, padri del popolo, stabiliti da Dio; e oltraggiano la<br />
santità della religione col vituperoso omaggio che le rendono. Penetrate nelle corti<br />
dei re e dipingete al vivo quelle fogne di malvagità e di bruttura; chiedete qual<br />
sorta di cristianesimo sia quello tenuto dai governi assoluti […] ponete mano al<br />
vero e vivo cristianesimo, chiarìtelo, divulgatelo, proclamate le sue dottrine per<br />
impedire che esso si confonda con quella religione di servitù e di barbarie che oggi<br />
regna 17 .<br />
Dal punto di vista giobertiano, la causa della rovina d’Italia era da ricercare<br />
in quella crisi spirituale e morale che aveva investito il popolo italiano<br />
e conseguentemente le sue istituzioni. Da <strong>qui</strong> la necessità di liberare<br />
l’Italia spiritualmente, prima ancora che materialmente. La <strong>vita</strong> e la civiltà<br />
di un popolo dipendono infatti dal vigore del suo spirito ed il vigore spirituale<br />
di un individuo, così come di uno Stato, ha le sue radici nella religione<br />
ed in particolare nella più vera delle religioni: la cattolica; una religione<br />
negata dai filosofi stranieri ed in particole dai francesi 18 .<br />
Gioberti, in effetti, ha il grande merito di aver tentato una sorta di sintesi<br />
tra il pensiero filosofico e il sentimento nazionale, così come mostrano<br />
le sue diverse opere. Dall’Introduzione allo studio della filosofia del 1841 al Primato<br />
morale e civile degli italiani del 1842; dal Gesuita Moderno del 1847 al<br />
Rinnovamento civile dell’Italia del 1851, l’obiettivo di Gioberti è sempre lo<br />
stesso: mettere in rilievo la sostanziale unità di ragione e fede, di civiltà e cattolicesimo.<br />
Contro il proclamato «primato» culturale e politico di Francia e<br />
Germania, dove, secondo Gioberti, il soggettivismo aveva generato mali come<br />
l’immanentismo idealistico, l’immoralismo sensistico, l’ateismo e il relativismo,<br />
bisogna proclamare, da un canto, l’egemonia spirituale della Chiesa<br />
cattolica, detentrice della Rivelazione sovrannaturale, e, dall’altro, l’egemonia<br />
culturale dell’Italia, detentrice della rivelazione naturale sull’Europa.<br />
17 Lettera del Gioberti, fasc. IV, 1834 della Giovine Italia.<br />
18 Cfr. C. Librizzi, Il Risorgimento filosofico in Italia, Padova, CEDAM, 1953, p. 4.
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 25<br />
L’Italia possiede – scrive Gioberti – il principio della civiltà che è il dogma di<br />
creazione incarnato nella parola cattolica. Finché ci fu fedele fu la prima delle nazioni.<br />
Ecco la causa del primato italiano: primato doppio; nell’ordine dei tempi,<br />
poiché noi fummo civili prima degli altri, nell’ordine delle cose perché fummo<br />
più civili degli altri. L’Italia creò i primi germi di tutta la civiltà moderna: commercio,<br />
industrie, lettere, arti, ecc. Questi germi furono spesso svolti e perfezionati<br />
di fuori, ma creati da Dio. L’Italia nell’Europa è la nazione creatrice. E perché?<br />
Perché essa sola possiede … il principio di creazione e la parola che la esprime. Fu<br />
la nazione ideale e sacerdotale. L’Italia è piccola come la Grecia. Ma nelle lettere<br />
e nelle arti italiane splende l’idea cattolica che abbraccia tutto il genere umano 19 .<br />
Certo tutto ciò oggi potrebbe apparire retorico, provinciale e persino<br />
utopico; ma non dobbiamo dimenticare che queste riflessioni giobertiane<br />
s’inseriscono pienamente all’interno di un clima culturale in cui, come sappiamo,<br />
altri paesi europei rivendicavano il primato politico e culturale sugli<br />
altri popoli. Pensiamo alla Francia, ma soprattutto alla Germania di Fichte.<br />
Nei Discorsi alla nazione tedesca, scritti quando ancora i francesi occupavano<br />
la Prussia dopo la vittoria napoleonica di Jena, Fichte presenta un nuovo<br />
modello di educazione volto al rinnovamento spirituale dei tedeschi, l’unico<br />
popolo degno «più di nessun’altra nazione d’Europa di ricevere la nuova<br />
educazione» 20 . Nella visione filosofico-politica di Fichte, infatti, il popolo<br />
tedesco è il solo ad aver conservato intatte le proprie caratteristiche nazionali<br />
originarie e naturali. Basti pensare alla stessa lingua tedesca; l’unica, rispetto<br />
alle altre lingue europee, ad essersi conservata pura nel corso dei secoli:<br />
La prima differenza tra il destino dei Tedeschi e quello degli altri popoli di origine<br />
germanica, è questo: I primi restarono nelle sedi abitate in origine dal popolo<br />
primitivo, i secondi invece emigrarono in cerca di altre sedi; i Tedeschi mantennero<br />
la lingua originale; i secondi presero una lingua straniera e la trasformarono<br />
a poco a poco a modo loro 21 .<br />
Da <strong>qui</strong> l’esaltazione del popolo tedesco, il solo «che ha il diritto di chiamarsi<br />
il popolo». Persino «la parola tedesco nel suo significato letterale de-<br />
19 Del primato morale e civile degli italiani, I, XL.<br />
20 J. G. Fichte, I Discorsi alla Nazione Tedesca, intr. trad. e note di E. Burich, Milano-Palermo-Napoli-Genova-Bologna,<br />
Remo Sandron, p. 65.<br />
21 Ivi, p. 67.
26 Maria Vita Romeo<br />
nota questo» 22 . Se dunque un popolo doveva essere investito di un primato<br />
culturale e politico sugli altri Stati europei, questo non poteva che essere,<br />
per Fichte, il popolo tedesco a cui gli stessi stranieri avrebbero fatto assegnamento,<br />
poiché solo nei tedeschi «è riposto […] fra tutti i nuovi popoli,<br />
il germe dell’umana perfezione» 23 . Ecco perché<br />
– conclude Fichte, rivolgendosi ai suoi compatrioti<br />
– «non c’è […] una via di mezzo: se voi<br />
perite, perisce con voi tutta l’umanità, senza la<br />
speranza di un nuovo risorgimento» 24 . Basterebbe<br />
quest’ultima affermazione a scagionare<br />
Gioberti dall’accusa di provincialismo e a comprendere<br />
storicamente tanto Gioberti quanto<br />
Mazzini, che attribuivano all’Italia una sorta di<br />
funzione messianica e redentrice quale guida<br />
per i futuri Stati Uniti d’Europa.<br />
Secondo Gioberti, la filosofia, aggredita dai<br />
«mostri» del pensiero moderno, poteva in effetti<br />
rinascere solo in Italia. In un’Italia, però,<br />
in cui si fosse ristabilito quel senso dello spirituale,<br />
del religioso, che da secoli la rende nazione.<br />
La vera filosofia, infatti, vive nella vera religione. Indubbiamente<br />
quest’ultima offre solo i princìpi ed il metodo; il resto è opera del pensiero<br />
umano che crea la scienza e la cultura. Ecco perché prendere coscienza di<br />
essere italiano è la migliore condizione per sentirsi cattolico; come quella<br />
di essere cattolico è la migliore condizione per sentirsi pienamente italiano.<br />
L’Italia e la Santa Sede – afferma Gioberti – sono certo due cose distinte ed essenzialmente<br />
diverse, e farebbe opera assurda, anzi empia e sacrilega, chi insieme<br />
le confondesse; tuttavia un connubio di diciotto secoli le ha totalmente congiunte<br />
ed affratellate, che se altri può esser cattolico senza essere Italiano (e sarebbe troppo<br />
ridicolo, anche in grammatica, il metterlo in dubbio), non si può essere perfetto<br />
Italiano da ogni parte, senza essere cattolico, né godere meritamente del primo<br />
titolo, senza partecipare allo splendor del secondo. E se negli ordini perfetta-<br />
22 Ivi, p. 125.<br />
23 Ivi, p. 302.<br />
24 Ivi, p. 303.
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 27<br />
mente religiosi il papa non appartiene più all’Italia, che ad un’altra nazione, ed è<br />
personaggio cosmopolitico; negli ordini civili egli fu il creatore del genio italico,<br />
ed è talmente connaturato con esso, che si può dire con verità l’Italia essere spiritualmente<br />
nel papa, come il papa è materialmente in Italia, allo stesso modo<br />
che, avendo riguardo all’ordine psicologico, il corpo è nello spirito, come riguardo<br />
all’ordine fisiologico lo spirito è nel corpo 25 .<br />
Nel Primato morale e civile degli italiani del 1843, il filosofo torinese ripropone<br />
le sue due formule ontologiche nel contesto storico. Così la formula<br />
«l’Ente crea l’esistente» diventa «l’Italia ha creato l’Europa»; e la formula<br />
«l’esistente torna all’Ente» diventa «l’Europa ritorna all’Italia». Co -<br />
m’egli stesso afferma chiaramente:<br />
Il primato religioso d’Italia è indubitato, e siccome la religione tiene per la sua<br />
natura il primo grado fra le cose umane, ella conferisce agli italiani una maggioranza<br />
morale e sociale. […] Rivolgano dunque i popoli gli occhi verso l’Italia, antica<br />
ed amorosa madre, che chiude i semi della loro redenzione. L’Italia è l’organo<br />
della ragione suprema e della parola regia e ideale, fonte, regola, guardia di ogni<br />
altra ragione e loquela; perché ivi risiede il capo che regge, il braccio che muove<br />
la lingua che ammaestra e il cuore che anima la cristianità universale… L’Italia<br />
ha creato l’Europa cristiana e moderna, l’Europa deve ritornare all’Italia…Veggo<br />
in questa futura Italia risorgente fissi gli occhi d’Europa e del mondo; veggo le altre<br />
nazioni, prima attonite e poi ligie e devote, ricevere da lei per un moto spontaneo<br />
i principi del vero, la forma del bello, l’esempio e la norma del bene operare<br />
e del sentire altamente…Veggo infine la religione posta in cima di ogni cosa<br />
umana; e i principi e i popoli pareggiare fra loro di riverenza e di amore verso il<br />
romano pontefice, riconoscendolo e a dorandolo, non solo come successore di<br />
Pietro, vicario di Cristo e capo della Chiesa universale, ma come doge e gonfaloniere<br />
della confederazione italiana, arbitro paterno e pacificatore di Europa, institutore<br />
e incivilitore del mondo, erede ed amplificatore naturale e pacifico della<br />
grandezza latina. E mi rappresento assembrata ai suoi piedi e benedetta dalla sua<br />
destra moderatrice la dieta d’Italia e del mondo 26 .<br />
Con il Primato, dunque, dopo trentacinque anni, Gioberti fornisce una<br />
risposta tutta italiana ai Discorsi alla Nazione tedesca di Fichte, risvegliando<br />
le coscienze offuscate di tanti italiani da tempo sfiduciati nel sogno risorgi-<br />
25 Del primato morale e civile degli italiani, I, 54.<br />
26 Ivi, II, XI.
28 Maria Vita Romeo<br />
mentale di un’Italia unita e libera. Un sogno che sembra trovare realizzazione<br />
con l’elezione al soglio pontificio di Pio IX il quale, in un primo momento,<br />
sembra mettere in atto il piano neoguelfo di Gioberti: unire l’Italia<br />
liberale sotto il papato. Tale progetto, tuttavia, fu subito dichiarato nullo:<br />
la rivoluzione del 1848, nata sotto il segno del neoguelfismo, distrusse infatti<br />
tutte le aspirazioni di Gioberti e fu sufficiente l’allocuzione del 29<br />
aprile, per annullare e cancellare i propositi dello stesso Pio IX.<br />
Resta comunque indiscusso il successo del Primato e l’entusiasmo che<br />
suscitò in tutte la parti d’Italia, sancendo in tal modo l’affermazione del<br />
cattolicesimo liberale che, nonostante la condanna di papa Gregorio XVI<br />
con l’enciclica Mirari Vos, raggiunse l’apice con il neoguelfismo di Gioberti,<br />
segnale che gli italiani nella lotta per l’indipendenza desideravano effettivamente<br />
legare religione e patria, Stato e Chiesa.<br />
A differenza dei cattolici reazionari, che rivendicano un sistema teocratico,<br />
il movimento dei cattolici liberali (N. Tommaseo, A. Rosmini, A.<br />
Manzoni, R. Lambruschini) propugna una Chiesa veramente compenetrata<br />
dello spirito evangelico, una Chiesa contraria ai sistemi dei privilegi, vicina<br />
alle classi popolari e favorevole all’indipendenza dei popoli. Lo spirito<br />
del cristianesimo, infatti, per i suoi princìpi di fratellanza e di uguaglianza<br />
non può sostenere né le tirannidi né le violenze popolari, ma favorire la nazionalità,<br />
l’uguaglianza e la libertà. Da ciò il progetto cattolico-liberale di<br />
svecchiare la Chiesa cattolica, abbandonando le monarchie assolute e le<br />
vecchie strutture feudali, e facendosi promotrice di riforme politiche e sociali<br />
che favorissero il popolo. Un progetto che Gioberti seppe cogliere, trascinando<br />
dalla sua parte, nella lotta contro l’Austria, la gran parte della borghesia<br />
italiana.<br />
La risposta gesuitica al cattolicesimo liberale arrivò nel 1850 con la fondazione<br />
della rivista «Civiltà Cattolica», con la quale i padri gesuiti si proponevano<br />
di combattere le nuove idee del tempo: la Chiesa, in quanto istituzione<br />
divina, non poteva adattarsi alla civiltà moderna. Un’idea, quest’ultima,<br />
del tutto opposta a quanto affermato sempre da alcuni padri della<br />
Compagnia di Gesù nel lontano XVII secolo, quando, per affrontare il<br />
«problema modernità», scesero a compromessi con le nuove esigenze del<br />
tempo, al fine di non perdere le simpatie dei potenti. Ed è sempre per assicurarsi<br />
le simpatie dei potenti che nel XIX secolo i Gesuiti scelsero la li-
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 29<br />
nea dura nei confronti delle nuove idee del tempo, poiché solo questo atteggiamento<br />
conservatore permetteva loro di restare legati ai prìncipi restauratori.<br />
E come spiegare questa loro capacità di scelta così mutabile, se<br />
non col progetto politico di una Società religiosa che guarda più al terrestre<br />
che al celeste? Nei disegni della Compagnia di Gesù, o almeno di questi<br />
padri gesuiti, non era contemplata politicamente un’Italia unita. Da <strong>qui</strong> le<br />
accuse, o meglio le calunnie, volte a dimostrare la diretta filiazione dell’unità<br />
d’Italia dalle eresie protestanti.<br />
L’opposizione dei Gesuiti all’unità d’Italia spiega in parte l’avversione<br />
nei loro confronti da parte di Gioberti, che nel suo Gesuita Moderno 27 –<br />
opera scritta appunto contro i Gesuiti durante il suo soggiorno a Parigi e<br />
pubblicata nel 1846-7 in Svizzera a Losanna presso Bonamici – definisce il<br />
suo progetto neoguelfo, avvalorando il connubio tra il religioso ed il civile.<br />
I Gesuiti, di contro, negano la possibilità di un tale connubio, e lo negano<br />
in nome di una Chiesa che deve rimanere legata all’ortodossia tradizionale<br />
e lontana dalla politica, poiché il cattolicesimo non può confondersi con il<br />
particolarismo delle nazioni.<br />
A nome dell’Evangelio – scrive il padre Curci – si pretende il Parlamento, a nome<br />
del Papa la confederazione italica, ed a nome della morale cristiana lo scacciamento<br />
del tedesco dal Lombardo-Veneto; insomma si vorrebbero fare per mezzo delle<br />
idee religiose quei cangiamenti e, diciamolo con la sua parola, quelle rivoluzioni,<br />
che in altri tempi si facevano a mano armata dalla plebe ubriaca e infellonita 28 .<br />
Un concetto nobile questo dei Gesuiti, i quali, in quanto cittadini di<br />
una comunità cosmopolita, rifiutano l’idea che la Chiesa possa appoggiare<br />
il progetto d’indipendenza italiana. Purtroppo si era costretti a prendere atto<br />
che questi stessi ideali cosmopolitici non valevano nei confronti dell’Austria,<br />
di cui i Gesuiti rimanevano fedeli alleati! Accusati di mancare di coscienza<br />
patriottica, i Gesuiti si difendevano in nome dello spirito cosmopolitico<br />
che caratterizza non solo la loro Compagnia ma la cristianità in ge-<br />
27 Il Gesuita moderno venne condannato il 6 giugno 1849. Il 12 gennaio 1652 vennero condannate<br />
le altre opere del Gioberti.<br />
28 C. M. Curci, Fatti e argomenti in risposta alle molte parole di V. G. intorno ai Gesuiti nel Prolegomeni<br />
al Primato, Napoli, stamperia del Fibreno, 1845, p. 290 (riportata da M. F. Sciacca, Introduzione<br />
a V. Gioberti, Il gesuita moderno, I, XII).
30 Maria Vita Romeo<br />
nerale. Tuttavia, in più occasioni Gioberti aveva dimostrato che il cosmopolitismo<br />
non nega affatto la patria, che anzi questa completa quello.<br />
Il cosmopolitismo – scrive Gioberti – non che escludere il genio nazionale e l’amore<br />
del paese natio, se ne rifà e lo avvalora, pigliandone le mosse e ricorrendovi,<br />
come il succhio di un albero prosperoso e vegnente, che gira e rigira migliorato<br />
per le vene interne e le cellole, correndo e ricorrendo dal fusto alle ramora e dalla<br />
barbe alla veta. Il falso e cattivo cosmopolitismo all’incontro è quello che si sequestra<br />
dall’idea e dalla carità nazionale 29 .<br />
È noto, scrive a tal proposito Anzilotti,<br />
il disprezzo del Gioberti per questi falsi cosmopoliti, che a parole amano l’umanità,<br />
ma nei fatti poi si rivelano per anglomani e gallomani. […] Ma eguale avversione<br />
egli dimostra anche nel Gesuita moderno come nelle opere precedenti,<br />
per i “patrioti alla moda gentilesca”, che vedono soltanto la nazione ed esagerano<br />
in altro senso, sequestrando l’individuale ed il concreto, cioè la patria, dal generico<br />
e dall’astratto, cioè l’umanità 30 .<br />
Ora, sottolinea Gioberti, la filosofia cristiana esalta l’uomo in quanto<br />
microcosmo che riflette in sé «le idee e le perfezioni divine» 31 , la sua attività<br />
e il conseguente effetto che ne deriva, cioè l’incivilimento. La civiltà è dunque<br />
la virtù evangelica. L’amore di Dio e del prossimo costituiscono i due<br />
pilastri sociali sui quali edificare la Repubblica cristiana; da <strong>qui</strong> la convinzione<br />
giobertiana dell’inscindibilità del nesso tra religione ed incivilimento.<br />
L’idea cristiana rappresenta, infatti, l’esempio perfetto del cosmopolitismo,<br />
poiché è nazionale e mondiale allo stesso tempo.<br />
L’avversione gesuitica all’unità d’Italia si presenta dunque agli occhi del<br />
Gioberti più come un’ostilità politica che come una polemica teologica: i<br />
Gesuiti non vogliono perdere il peso politico che esercitano sulla Santa Sede,<br />
un potere che veniva loro garantito dall’alleanza con i prìncipi restauratori.<br />
Ebbene, contro tale ingerenza politica, che costituisce un pericoloso<br />
ostacolo al Risorgimento italiano, si scaglia Vincenzo Gioberti difendendo<br />
il principio della religione civile e quello della Chiesa come agente ed ani-<br />
29 Il Gesuita Moderno, III, 493.<br />
30 A. Anzilotti, Gioberti, cit., p. 165.<br />
31 Protologia, I, 266.
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 31<br />
ma della politica. L’ostilità del pensatore torinese verso i Gesuiti e la loro<br />
morale risale al 1830, quando egli descrive la Compagnia di Gesù come una<br />
setta potente che, dopo aver corrotto la morale cristiana, vuole contaminare<br />
le cose spirituali con quelle temporali, spegnendo così ogni barlume della<br />
civiltà moderna e ripristinando l’antica barbarie 32 .<br />
Il Gesuita Moderno, scrive il Gioberti, ha per oggetto la critica del Gesuitismo<br />
moderno, che contribuì non poco a introdurre e stabilire in Italia quella forma di<br />
scienza e di letteratura, che oggi tuttavia regna. Esso ci avvezzò ancora prima degli<br />
stranieri a sfiorare gli oggetti anziché approfondirli, a sciogliere sminuzzare le<br />
idee anziché a comporle, a preferire i saporetti ed i dolciumi ai cibi forti e nutritivi,<br />
a riporre il pregio supremo dello scrivere nella brevità, nella superficialità,<br />
nella debolezza, sostituendo alla tempra virile della nostra scienza e letteratura l’abito<br />
contrario. Chi cooperò più efficacemente a introdurre nelle nostre lettere le<br />
turgidezze spagnuole e a partorire il seicento? I Gesuiti. […] Senza i Padri l’Italia<br />
non sarebbe mai riuscita spagnuola o gallica nel pensare e nello scrivere, o almeno<br />
sarebbe stata molto meno. […] Il Gesuitismo avversando in ogni cosa la forza, la<br />
creazione, la <strong>vita</strong>, dee essere nemicissimo del genio italiano, che abbonda mirabilmente<br />
di tutte queste parti. Esso porta un odio speciale alle idee, ai sistemi, alla<br />
scienza e alla poesia vasta, profonda e di lena; perché queste cose uniscono e ingagliardiscono,<br />
dove che la setta vuole dividere e prostrare 33 .<br />
Da questo punto di vista, Michele Federico Sciacca osserva giustamente<br />
che l’opera di Gioberti<br />
segna il culmine della lotta tra la concezione del cattolicesimo contraria ad ogni<br />
rinnovazione e lontana o ostile al movimento nazionale e la concezione del cattolicesimo,<br />
quale elemento essenziale e forza agente del progresso della civiltà e in<br />
particolare del risorgimento civile e politico dell’Italia34 .<br />
La controversia tra Gioberti e i Gesuiti s’inserisce così pienamente nella<br />
storia del Risorgimento italiano. Per il Torinese, due erano le cause che<br />
32 «Setta potente che dopo corrotta la morale, corrotti i dogmi e la disciplina, vuol mescere il<br />
cielo con la terra, la società civile con l’ecclesiastica, il regno spirituale con il temporale, perpetuare<br />
gli abusi presenti, far rivivere quelli della bassa età, e, spenta ogni civiltà moderna, richiamare nella<br />
civiltà e nel mondo l’antica barbarie» (Ricordi, I, 141; riportato da M. F. Sciacca, Introduzione a Il<br />
Gesuita Moderno, I, XIII).<br />
33 V. Gioberti, Il Gesuita Moderno, Discorso preliminare, I, LXIV-LXV.<br />
34 M. F. Sciacca, Introduzione a V. Gioberti, Il Gesuita Moderno, I, XX-XXI.
32 Maria Vita Romeo<br />
ostacolavano la buona riuscita del Risorgimento italiano: i gesuiti 35 , vicini<br />
all’Austria e nemici del «genio italiano» 36 , e «la mania d’imitare gli stranieri»<br />
37 da parte degli italiani. Da <strong>qui</strong> il progetto di ristabilire l’autonomia interna<br />
degli Italiani, nei costumi, nella religione, nelle lettere, negli animi e<br />
negli intelletti.<br />
Noi – scrive infatti Gioberti – non dobbiamo osteggiare la setta, né come i Protestanti<br />
del secolo sedicesimo, né come i Giansenisti del diciassettesimo, né come<br />
i filosofi del seguente. Dobbiamo essere italiani e cattolici in tutto, anche nel battagliare<br />
e fare alle pugna coi reverendi Padri. Dobbiamo essere uomini dell’età<br />
nostra e non delle scadute: non imitare il passato, ma antivenire il futuro, ed essere<br />
modelli ai posteri, non pedisse<strong>qui</strong> degli antenati. Dobbiamo soprattutto<br />
guardarci d’imitare i Gesuiti 38 .<br />
Leggendo il Gesuita Moderno, sembra quasi di avvertire quella stessa vis<br />
polemica che domina le Petites Lettres di Blaise Pascal; si avverte lo stesso<br />
sarcasmo, lo stesso sdegno nei confronti di una morale sleale, falsa e corrotta,<br />
che va contro ogni precetto della legge evangelica.<br />
Io – scrive Gioberti – non sono Gesuita: la morale che professo è quella dell’Evangelio,<br />
non dei casisti che lo corruppero» 39 . Così – continua Gioberti – né Demostene,<br />
né Cicerone medesimi, se tornassero al mondo, potrebbero far credere<br />
che la morale del Gesuitismo sia pura, che il suo procedere sia leale, il suo affetto<br />
alla civiltà sincero, il suo zelo per la religione gratuito e generoso, la sua educazione<br />
forte, l’ingegno grande, l’indole virile, la carità del prossimo schietta ed esemplare;<br />
e via discorrendo 40 .<br />
Come le Lettere Provinciali di Pascal, l’opera di Gioberti non è «un semplice<br />
lavoro di polemica» 41 ; il suo intento è anche quello d’insistere sulla necessità<br />
di una morale cattolica autentica e sincera sul modello del Vangelo:<br />
35 «Sin da quando io non aveva ancor perduta essa patria, mi parve di trovare la cagion precipua<br />
del suo male negl’influssi gesuitici e stranieri» (Il Gesuita Moderno, Discorso preliminare, I, LXI-II).<br />
36 Ivi, I, LXIV.<br />
37 Ivi, LXII.<br />
38 Ivi, LXXVII. Cfr. ivi, LXII-III.<br />
39 Ivi, CVII.<br />
40 Ivi, LXXXIV.<br />
41 Ivi, LXVI.
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 33<br />
Oltre che, – si legge nel Gesuita Moderno – intendendo che l’opera presente non<br />
sia un semplice lavoro di polemica, e desiderando di darle per quanto posso un<br />
certo valor dottrinale, ho dovuto allargarmi assai più che non richieggono i termini<br />
della controversia segnati dagli avversari. A ciò mira una buona parte di essa,<br />
cominciando dal settimo capitolo; nel quale e nei seguenti io mi studio di esprimere<br />
e dichiarare alcune verità, utili in ogni tempo, ma opportune principalmente<br />
al dì d’oggi. Le quali verità mirano sostanzialmente a un solo scopo; cioè a<br />
mettere in luce l’idea sincera del Cristianesimo e del cattolicesimo considerati nelle<br />
loro attinenze terrestri e civili 42 .<br />
Pronta è la reazione dei Gesuiti, i quali, chiamati in causa, reagiscono<br />
accusando Gioberti di falsità 43 . Certo tra i Gesuiti ci sono anche uomini<br />
eccellenti, che non ricorrono alla menzogna o alla calunnia, ma costoro –<br />
precisa Gioberti – sono assai rari:<br />
Né voglio […] asserire che tutti i Gesuiti siano capaci di mentire e diffamare il<br />
prossimo; poiché si trovano fra loro uomini eccellenti, pei quali ho una stima e<br />
una venerazione sincera. Ma questi tali sono assai rari 44 .<br />
Beninteso, la dichiarata simpatia per Pascal non deve farci pensare ad<br />
un Gioberti giansenista, o filogiansenista. Ciò viene dichiarato dallo stesso<br />
autore del Gesuita Moderno che, alla fine di un lungo discorso volto a difendere<br />
ed elogiare Pascal, tiene a precisare la sua indipendenza dai giansenisti:<br />
Non vorrei che dalle cose sinora discorse altri inferisse che io inclini alla scuola<br />
degli etici rigoristi, o che approvi tutte le specialità della moral gianseniana […]<br />
Alieno come sono e per natura e per elezione da tutti i pareri esagerati, io credo<br />
tanto irragionevole la severità soverchia nelle cose pratiche, quanto la ferocia dei<br />
dogmi speculativi; e confesso che i Giansenisti rappresentano in alcune parti della<br />
morale, non meno che nelle credenze, il contrapposto sofistico della vostra setta<br />
[si rivolge al gesuita padre Francesco Pellico] Se non che la via del mezzo essendo<br />
difficilissima a cogliere nella sua perfezione, tengo assai più pericoloso nella teorica<br />
delle azioni l’inclinare alla troppa larghezza che al suo contrario 45 .<br />
42 Ivi, LXVI-II.<br />
43 «Perché i Gesuiti non possono assalire la mia riputazione, che intaccando per diretto la mia<br />
persona, o negando la verità delle cose che dico» (ivi, LXXXIV).<br />
44 Ivi, LXXV.<br />
45 Ivi, III, 132-3.
34 Maria Vita Romeo<br />
Il pensatore neoguelfo, benché attacchi ripetutamente i Gesuiti e le loro<br />
massime, condanna sul piano politico sia il giansenismo (quello s’intende<br />
ortodosso e docile alla voce della Chiesa) sia il gesuitismo, poiché, queste<br />
due «sette», pur differenziandosi in quasi tutto 46 , sono risultate nocive<br />
all’unità nazionale italiana.<br />
Il Giansenismo maritandosi al gallicanesimo […] introdusse in Italia un nemico<br />
intestino di Roma […] e vi accese una guerra civile tra il centro e la circonferenza<br />
dell’area nazionale. Il danno giansenistico fu poi accresciuto dai Gesuiti, i quali<br />
difendendo Roma mercenariamente […] recarono al colmo la scissura morale tra<br />
il capo e le membra italiche già incominciata dagli altri faziosi. Così le due sette<br />
furono ancora in questo concordi, procedendo per vie diverse al medesimo scopo,<br />
cioè alla divisione d’Italia, e all’indebolimento civile e religioso di Roma 47 .<br />
Ma il male fatto all’Italia dai giansenisti e dai gesuiti, pur essendo grande,<br />
è sempre meno grave di quello procurato alla morale cristiana che, resa<br />
eccessivamente rigorosa dai primi e esageratamente accomodante dai secondi,<br />
ha perso quel carattere di universalità che la caratterizzava.<br />
I seguaci di Giansenio – scrive Gioberti – e più ancora i Gesuiti spogliarono l’etica<br />
evangelica di quell’unica e incomparabile eccellenza, che l’argomenta vera e<br />
divina; i primi esagerandone il rigore, i secondi rilassandola, impicciolendola,<br />
troncandone i nervi e rimovendone ogni grandezza; gli uni e gli altri poi sostituendo<br />
in alcune parti alla legge umana e sociale una morale ascetica e foresta.<br />
Che cosa v’ha di più gretto e schifoso che l’etica di molti casisti? Dunque il creatore<br />
vestì le nostre spoglie e pellegrinò fra gli uomini per insegnar loro la morale<br />
dell’Escobar e de’ suoi compagni? Una morale che di bellezza, di purezza, di s<strong>qui</strong>sitezza,<br />
di maestà è di gran lunga inferiore a quella d’Isocrate, di Cicerone, di<br />
Marco Antonino e di altri gentili filosofi, non ostante le loro macchie? Non vedete<br />
che a tale stregua la divinità del Cristianesimo diventa non solo improbabile,<br />
ma ridicola? 48 .<br />
Quando nel Gesuita Moderno affronta il «problema Italia», Gioberti<br />
spiega la necessità per essa di un triplice risorgimento: 1) «il ristauro della<br />
nazione colle riforme civili»; 2) «il ristauro della filosofia e delle scienze in<br />
46 Cfr. ivi, 72.<br />
47 Ivi, 91.<br />
48 Ivi, 95.
universali col proteggere il loro culto, migliorar le scuole, fondare accademie,<br />
[…] agevolare la stampa»; 3) «il ristauro della religione col purgarla<br />
dei trascorsi disciplinari che ne offuscano la bellezza» 49 .<br />
Qui il teorico del neoguelfismo individua le miserie dell’Italia nei due<br />
«estremi sofistici» del mondo sociale: i rivoluzionari da un lato ed i governi<br />
conservatori dall’altro.<br />
L’Italia giacque sinora in quelle miserie che tutti sanno, perché bersagliata e palleggiata<br />
dai due estremi sofistici del mondo sociale, cioè dai governi inclinati ad<br />
urtare anzi che a secondare il secolo, e da fazioni vaghe di oltrepassarlo […] così<br />
gli uni e gli altri si somiglian del pari nel dover ricorrere alla frode e alla forza per<br />
mettere in atto le loro intenzioni; gli uni colle sette ipocrite e cogli eserciti, gli altri<br />
colle congiure e colle rivoluzioni 50 .<br />
Entrambi gli «estremi sofistici» del mondo sociale ricorrono alla frode<br />
ed alla forza per mettere in atto le loro intenzioni anziché «assecondare il<br />
secolo», agire cioè con riforme pacifiche e moderate, così come insegna lo<br />
studio della natura umana.<br />
Gl’inesperti dell’uomo e delle cose umane credevano che per ovviare al rinnovamento<br />
delle calamità succedute, fosse d’uopo tirare i popoli indietro, e fermare i<br />
progressi civili; e i Gesuiti, scaltri usufruttatori dell’imbecillità umana, valsero<br />
non poco a confermare nell’animo di molti questa stolta credenza. Dico stolta,<br />
poiché si fonda in una perfetta ignoranza delle leggi che governano la nostra natura;<br />
lo studio della quale c’insegna che unica via per impedir le rivoluzioni eccessive<br />
e violente si è il dar opera alle rivoluzioni pacifiche e moderate 51 .<br />
Se dunque, con il Primato del 1843, Gioberti si proponeva di smuovere,<br />
provocare ed eccitare l’opinione pubblica italiana, pur restando su una posizione<br />
più moderata e tacendo su almeno tre punti fondamentali del suo<br />
programma con i Prolegomeni del 1844, prima, e col Gesuita Moderno del<br />
1847-8 dopo, egli abbassa ogni barriera e si scaglia con vigore contro chi<br />
ostacola l’unità d’Italia, complice probabilmente il fatto che quest’ultima<br />
opera giungeva in un momento propizio. Nel 1846, infatti, morto Grego-<br />
49 Ivi, IV, 238.<br />
50 Ivi, IV, 156.<br />
51 Ivi, IV, 156-7.<br />
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 35
36 Maria Vita Romeo<br />
rio XVI, viene eletto papa Pio IX che, come abbiamo visto, sembrò accogliere<br />
con simpatia l’idea riformatrice del federalismo giobertiano. L’esule<br />
Gioberti abbandona il suo atteggiamento pacificatore e diventa la guida intellettuale<br />
dei liberali italiani e soprattutto di un popolo che non era nazione,<br />
ma che nazione doveva e voleva diventare.<br />
Il Primato fu subito sottoposto a severe obiezioni da parte di avversari<br />
ed amici, entrambi d’accordo nel giudicare un’utopia il progetto delineato<br />
nell’opera. Infatti, come si poteva realisticamente pensare di affidare la missione<br />
ideale e nazionale alla corona dei prìncipi o alla tiara del papa, ad istituzioni<br />
cioè chiuse nella salvaguardia dei loro interessi, ostili e diffidenti<br />
persino nei confronti delle ferrovie e sorde rispetto alle nuove esigenze storiche<br />
che partono dalla politica e dalla società?<br />
E poi una questione capitale: quale sarebbe il ruolo dell’Austria nel sistema<br />
federalista capeggiato dal papa? In ogni caso, i pericoli per l’unità<br />
italiana erano gravi. Bisogna precisare che le obiezioni avanzate contro il<br />
Primato troveranno energiche risposte nei Documenti e schieramenti, in appendice<br />
al Gesuita Moderno. Dall’accusa di astrattezza e sterilità etico-politica,<br />
quella che lo dipingeva come un pericoloso sognatore ad occhi aperti,<br />
egli si difende mostrando che l’esperienza ed i fatti posteriori al Primato gli<br />
hanno dato ragione. Sicché Anzilotti può giustamente scrivere di Gioberti:<br />
Egli ha divinato Pio IX, presagito Carlo Alberto e previsto la lega italica. Ma soprattutto<br />
è stato il primo a dire che la redenzione dell’Italia non può dipendere<br />
da aiuti e casi esterni, ma da lei sola 52 .<br />
Il 7 novembre 1821, respingendo fermamente l’ipotesi di una «tirannia»<br />
della lingua toscana su un paese frantumato in tutto, Leopardi annota con<br />
amarezza nello Zilbaldone che l’Italia, pur essendo politicamente divisa co-<br />
52 A. Anzilotti, Gioberti, cit., p. 104. Sul fatto d’aver taciuto sull’Austria, egli confessa che nella<br />
prima composizione del Primato non volle approfondire questioni riguardanti l’Austria e i Gesuiti,<br />
al punto tale da eliminare alcune parti per dare al libro un carattere di massima moderazione:<br />
«Quanto agli Austriaci se io mi fossi portato altrimenti, le mie pagine non avrebbero avuto ingresso<br />
in alcuna parte della penisola» (Il gesuita moderno, V, 146). Dunque il Primato tacque su tre punti<br />
fondamentali: 1. le riforme per la secolarizzazione dello stato pontificio; 2. le relazioni dell’Austria<br />
con la confederazione italica; 3. i condizionamenti dei Gesuiti sulla Chiesa (cfr. Anzilotti, Gioberti,<br />
cit., pp. 103-5).
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 37<br />
me la Germania, sta in una condizione ancora peggiore di quella tedesca:<br />
l’Italia non è nemmeno una nazione, né una patria!<br />
Cosa ridicola che in un paese privo affatto di unità, e dove nessuna città, nessuna<br />
provincia sovrasta all’altra, si voglia introdurre questa tirannia nella lingua, la quale<br />
essenzialmente non può sussistere senza una simile uniformità di costumi ec. nella<br />
nazione, e senza la tirannia della società, di cui l’Italia manca affatto. [… ] Certo<br />
se v’è nazione in Europa colla cui costituzione politica e morale e sociale convenga<br />
meno una tal soggezione in fatto di lingua<br />
(e la lingua dipende in tutto dalle condizioni<br />
sociali ec.), ell’è appunto l’Italia, che pur<br />
troppo, a differenza della Germania, non è<br />
neppure una nazione, né una patria 53 .<br />
D’altronde, lo stesso Leopardi acutamente<br />
coglie nella storia italiana una frattura<br />
significativa tra la letteratura e la nazione,<br />
tra la «classe letterata» e le altre<br />
classi. Il tutto aggravato da un contesto in<br />
cui mancano i prere<strong>qui</strong>siti per parlare di<br />
nazione:<br />
In Italia oggidì (che nel trecento era tutto<br />
l’opposto) la lingua scritta degli scrittori,<br />
sebbene differisca dalla parlata molto meno<br />
che fra’ latini, tuttavia differisce, credo, più<br />
Pio IX.<br />
che in qualunque altro paese culto, certamente<br />
Europeo. E questo forse in parte cagiona la nessuna popolarità della nostra<br />
letteratura, e l’essere gli ottimi libri nelle mani di una sola classe, e destinati a lei<br />
sola, ancorché pel soggetto non abbiano a far niente con lei. Il che però deriva<br />
ancora dalla nessuna coltura, e letteratura, e dalla intera noncuranza degli studi<br />
anche piacevoli, che regna nelle altre classi d’Italia; noncuranza che deriva finalmente<br />
dal mancare in Italia ogni <strong>vita</strong>, ogni spirito di nazione, ogni attività, ed anche<br />
dalla nessuna libertà, e <strong>qui</strong>ndi nessuna originalità degli scrittori ec. Queste<br />
cagioni influiscono parimente l’una sull’altra, e nominatamente sulla disparità<br />
della lingua scritta e parlata, e tutte con iscambievoli effetti contribuiscono sì a<br />
tener lontano dall’Italia ogni spirito di patria, ogni <strong>vita</strong>, ogni azione; sì ad impe-<br />
53 G. Leopardi, Zibaldone, 2064-2065.
38 Maria Vita Romeo<br />
dire ogni originalità degli scrittori; sì finalmente a mantenere la intera divisione<br />
che sussiste fra la classe letterata e le altre, fra la letteratura e la nazione italiana 54 .<br />
Per giunta, una volta assodato che non esiste la nazione italiana, bensì<br />
una massa di atomi, l’acume leopardiano si sofferma pure sul carattere degli<br />
italiani, sul loro cinismo, sulla loro incapacità a prendere sul serio qualunque<br />
questione, sulla loro tendenza a sghignazzare su tutto, un carattere<br />
che è al contempo causa ed effetto di una decadenza etico-politica:<br />
Come la disperazione, così né più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della<br />
vanità della <strong>vita</strong>, sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e<br />
della immoralità. Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata<br />
ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’ costumi,<br />
de’ caratteri, e della morale. […] Gl’italiani ridono della <strong>vita</strong>: ne ridono assai più,<br />
e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra<br />
nazione. […] Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari<br />
nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci 55 .<br />
Gli italiani dunque non erano e non potevano essere cittadini, ma solo<br />
individui. Una visione, quest’ultima, che ritroviamo persino nell’Olimpo<br />
dell’hegeliana filosofia della storia, dall’alto del quale il filosofo di Stoccarda<br />
coglie nitidamente l’eterna sostanza individualistica dell’Italia, dove l’atomismo,<br />
l’inganno e l’infamia stanno beatamente a casa propria:<br />
L’Italia, come la Germania, è in sé divisa. Già la sua configurazione geografica non<br />
ha unità, non forma un tutto compiuto. Parimenti il carattere del popolo manifesta<br />
l’individualismo attuale, che non giunge all’universalità. L’assoluto spezzettamento<br />
atomistico è del resto stato sempre il carattere fondamentale degli abitanti<br />
d’Italia, tanto nell’antichità quanto nell’età moderna. Tutto ciò che esula da questa<br />
determinazione del pensiero può, sì, svilupparsi presso gli italiani a splendido<br />
rigoglio; ma d’altra parte anche l’inganno e l’infamia sono <strong>qui</strong> a casa propria 56 .<br />
Ma – si potrebbe timidamente obiettare – la nostra penisola fu anche<br />
la «casa» dell’antica Roma, che seppe soggiogare l’individualità a materia di<br />
54 Ivi, 842.<br />
55 G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, in Poesie e prose, Milano,<br />
Mondadori, 1992, vol. II, pp. 461-2.<br />
56 G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. di G. Calogero e C. Fatta, vol. IV,<br />
Il mondo germanico, Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp. 179.
una forma superiore, di un universale etico-politico che dimorò, per secoli,<br />
nella res publica. E la risposta del grande filosofo tedesco non si fa attendere:<br />
è vero, Roma seppe domare con la forza l’italico individualismo, lo mise<br />
in ginocchio, lo costrinse al silenzio per secoli, tuttavia non riuscì a realizzare<br />
in profondità un’educazione<br />
morale e civile.<br />
Sicché, una volta crollato<br />
l’istituto universale romano,<br />
quella molla dell’eterno<br />
individualismo italico,<br />
per secoli compressa,<br />
scattò ancor più energicamente<br />
e con effetti devastanti<br />
sempre crescenti.<br />
Certo, rimane nel carattere<br />
italiano una traccia della<br />
«salda personalità» degli<br />
antichi romani, ma è<br />
una personalità che spicca<br />
soprattutto nel negativo.<br />
Infatti, nulla è rima-<br />
sto del l’orgoglio e della<br />
gravità del civis romanus:<br />
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 39<br />
F. Fabbi, La morte di Anita Garibaldi.<br />
questi italiani, indegni eredi di Roma, non combattono per la loro libertà,<br />
anzi si offrono spontaneamente al dominio straniero. E per di più sono<br />
tanto cinici da scherzarci sopra.<br />
E anche quando «il loro estremo egoismo, degenerato in ogni sorta di<br />
delitti» trovò una mitigazione nella cultura e nelle grandi opere d’arte, gli<br />
italiani, secondo Hegel, s’innalzarono bensì dalla verde e selvaggia <strong>vita</strong>lità<br />
egoistica alle vette dello Spirito con l’attività estetica, ma giammai realizzarono<br />
l’e<strong>qui</strong>librio e la sintesi del momento razionale dello Spirito. Non meraviglia,<br />
perciò, che nella terra italiana, accanto a grandiose forme di religiosità,<br />
convivano la sensualità più sfrenata, la più grande gioia di vivere e<br />
la genialità artistica più raffinata: tutti ingredienti che non portano affatto<br />
all’eticità dello Stato hegeliano!
40 Maria Vita Romeo<br />
La forma dell’autocoscienza italiana non ha apparentemente alcun nesso con<br />
quella degli antichi Romani: tuttavia, dei Romani, vi traluce la salda personalità.<br />
La rigidezza dell’individualità era stata compressa con la forza sotto il dominio<br />
romano; infranto questo vincolo, il carattere originario si manifestò bruscamente.<br />
Certo, non c’è più nulla presso di loro dell’orgoglio e della gravità, della<br />
dignitas e dell’auctoritas: essi si danno spontaneamente e liberamente, e ci<br />
scherzano sopra. Il più bel rigoglio della religiosità si trova <strong>qui</strong> accanto alla sensualità<br />
più sfrenata. Più tardi, quando il loro estremo egoismo, degenerato in<br />
ogni sorta di delitti, era stato superato, gli Italiani, quasi trovandosi un’unità,<br />
giunsero al godimento delle belle arti: così la cultura. L’attenuazione dell’egoismo,<br />
giunse in essi solo fino alla bellezza, non alla razionalità, all’unità superiore<br />
del pensiero. […] Essi sono nature improvvisatrici, dedite tutte all’arte e alla beata<br />
fruizione. Di fronte a tale indole artistica, lo stato è per forza qualcosa di accidentale<br />
57 .<br />
Dunque, da più parti si credeva che non potesse nascere negli italiani<br />
quella coscienza nazionale, che era invece fortissima nei francesi e negli inglesi.<br />
Sembrava di assistere inermi a un totale disimpegno civile italiano,<br />
ad uno scetticismo etico-politico, che trovava diffusione europea con la<br />
cassa di risonanza di giudizi poco lusinghieri talora espressi da una certa<br />
letteratura straniera, francese ed inglese soprattutto, frutto del tradizionale<br />
«voyage en Italie», quasi obbligatorio nel Settecento e nell’Ottocento, e che<br />
ebbe la sua origine nel Journal de Voyage en Italie di Montaigne. Si pensi,<br />
ad esempio, a Madame de Staël, al VI libro della Corinne ou l’Italie (1807)<br />
intitolato Les moeurs et le caractère des italiennes, dove si legge che gli italiani<br />
amano più la <strong>vita</strong> che gli interessi politici, perché non hanno patria. Più<br />
severo è il giudizio del poeta inglese Shelley che, stando in Italia, così scrive<br />
in una lettera del 1818 a Leig Hunt:<br />
Ci sono due Italie; una costituita dalla terra verde, dal mare trasparente, dalle<br />
possenti rovine dei tempi antichi, dalle montagne aeree e dall’atmosfera calma e<br />
radiosa che è infusa in tutte le cose. L’altra consiste degli italiani di oggi, delle loro<br />
opere e dei loro costumi. L’una è la più sublime leggiadra visione che possa essere<br />
concepita dall’immaginazione umana; l’altra la più degradata, disgustosa e<br />
odiosa 58<br />
57 Ivi, pp. 179-80.<br />
58 P. B. Shelley, Opere, a cura di F. Rognoni, Milano, Mondadori, 1996, p. 1144.
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 41<br />
E ancora Alphonse de Lamartine, in una memoria composta nel 1825<br />
per il ministro degli esteri francese, li<strong>qui</strong>da il problema italiano, riducendo<br />
l’Italia ad «une abstraction» e ponendone in risalto la frantumazione politica<br />
e morale:<br />
Ce nom d’Italie est une abstraction: morcelée en petits états, divisée d’intérêts et<br />
de mœurs, il n’y a plus d’Italie que sur les anciennes cartes 59 .<br />
Ma torniamo al Gesuita Moderno, contro cui si muove Silvio Pellico.<br />
Questi protesta contro l’immagine che l’amico dava della Compagnia di<br />
Gesù; immagine che a suo dire era inconciliabile con gli elogi che lo stesso<br />
Gioberti aveva elargito ai Gesuiti nel suo Primato. Quale poteva essere la<br />
causa, se non l’accecamento dell’ira? si domandava il Pellico. Segue immediata<br />
la risposta di Gioberti che respinge l’accusa di aver agito per ira. Il<br />
suo giudizio, invece, è il frutto di un pensiero maturo ed e<strong>qui</strong>librato, ma<br />
indignato dallo spettacolo indecoroso della corruzione morale di certi padri<br />
gesuiti.<br />
Contro il pensatore neoguelfo si muovono anche i gesuiti padre Francesco<br />
Pellico e padre Carlo Maria Curci, i quali sostengono che i membri<br />
della Societas Jesu, da buoni educatori, non debbono far distinzione di patrie<br />
e di costituzioni, e pertanto non possono abbracciare la causa italiana<br />
né approvare che il papa possa prendere partito per un paese a scapito di<br />
un altro. In verità, si potrebbe obiettare che quest’aurea massima, che impone<br />
alla Chiesa di stare au-dessus de la mêlée, non valeva allora per i rapporti<br />
con una superpotenza come l’Austria. Ma immaginiamo quale sarebbe<br />
stata la risposta dei due illustri Gesuiti: rispetto all’impero asburgico, il<br />
peso di un’Italia serva e frantumata e<strong>qui</strong>vale a zero. E poi sarebbe pericoloso<br />
per i cattolici dimenticare che l’Austria del Settecento fu la patria dell’imperatore<br />
Giuseppe II, il quale attuò puntigliosamente una politica ecclesiastica,<br />
il «Giuseppinismo» appunto, che mise alle strette la Chiesa cattolica,<br />
ridimensionando l’autorità ecclesiastica con forme estreme di giurisdizionalismo<br />
mirante all’estensione e al rafforzamento del controllo dello<br />
Stato sulla <strong>vita</strong> e sulla struttura delle varie comunità religiose.<br />
59 Riportato da G. Cenzatti, Alfonso de Lamartine e l’Italia, Livorno, Raffaello Giusti, 1903,<br />
p. 84.
42 Maria Vita Romeo<br />
E se a tal proposito il padre Curci nega assolutamente l’amicizia dell’Austria<br />
con la Compagnia, trovando ridicolo che l’impero austriaco si valga<br />
di poveri religiosi; il padre Pellico non ha alcuna difficoltà ad ammetterla<br />
e giustificarla, in nome di quel principio d’obbedienza che ogni suddito<br />
cristiano deve al comune pastore 60 .<br />
Alla luce di quanto considerato, ben si comprende come la lotta contro<br />
i Gesuiti sia per Gioberti la condicio sine qua non ai fini della preparazione<br />
al Risorgimento italiano, che necessitava, prima d’ogni altra cosa, di una<br />
riforma cattolica. Solo grazie ad essa, infatti, la Chiesa poteva uscire da<br />
quell’immobilismo al quale l’avevano condannata i Gesuiti. Solo aprendosi<br />
alle istanze politico-culturali del XIX secolo, il cattolicesimo sarebbe divenuto<br />
la forza <strong>vita</strong>le della nuova coscienza italiana. Creare il popolo italiano<br />
significava, infatti, crearlo nell’intimo delle coscienze, educarlo a pensare ed<br />
a ricon<strong>qui</strong>stare quei valori morali e civili sui cui costruire l’intero avvenire:<br />
La nazione italiana non potrà mai ricuperare il suo antico primato morale e civile<br />
sul mondo, finché l’uomo italiano dei nostri tempi non sarà divenuto pari a quello<br />
dell’antica Italia e dell’antica Roma. L’uomo, di cui parlo, essendo morale e civile,<br />
consta d’ingegno e d’animo, cioè di genio, che si esprime con un certo costume;<br />
e la trasformazione non è impossibile, poiché la nostra natura non è immutata.<br />
Che cosa dunque ci manca? Ci manca l’arte, l’educazione. […] Rivolgendomi<br />
adunque all’eletta dei giovani miei compatrioti io direi loro: la sorte della comune<br />
patria è in voi riposta massimamente. […] Dateci […] una generazione che sia<br />
italiana di senno e di cuore, e faccia oggi l’Italia ciò che fu una volta. Per ottener<br />
l’effetto, la prima regola che vi dovete proporre si è di non imitarci. Pigliate a<br />
modello non mica i padri, ma gli avoli e gli arcavoli o dirò meglio gli stipiti della<br />
comune famiglia; non i vecchi, ma gli antichi. […] noi spendiamo il tempo a<br />
chiacchierare e a scrivere; voi dovete proporvi di operare. Ma chi vuole operare<br />
con frutto e far cose utili, grandi, dee apparrecchiarvisi colla disciplina e cogli studi<br />
[…] Non può far cose notabili sopra la terra chi prima non le ha pensate 61 .<br />
Per Gioberti non è possibile procedere all’unificazione del popolo italiano,<br />
se non a patto di guardare ad un sistema federalista che rispecchi il<br />
carattere e i bisogni di una terra ridotta da secoli in un pulviscolo di pro-<br />
60 Cfr. A. Anzilotti, Gioberti, cit., pp. 142-7.<br />
61 Il Gesuita Moderno, IV, 371-2.
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 43<br />
tettorati litigiosi e servili. Non tenere in considerazione questa secolare<br />
frammentazione significherebbe, infatti, chiudere stoltamente gli occhi sulla<br />
storia di un popolo e sulle sue radici, per poi subire meritatamente gli<br />
insuccessi che derivano dalla lezione delle cose.<br />
Il disegno degli unitari rigorosi – scrive Gioberti nel Primato – può essere più bello<br />
in astratto e piacere davvantaggio all’immaginativa; ma esso, come ogni sistema<br />
civile, non ha valore nella pratica, se non in quanto si assesta alle condizioni particolari<br />
del luogo e del tempo, in cui se ne fa l’applicazione. […] Ora il supporre<br />
che l’Italia, divisa com’è da tanti secoli, possa pacificamente ridursi sotto il potere<br />
di uno solo, è demenza 62 .<br />
L’unità, dunque, non può e non dev’essere assoluta, ma federativa. Solo<br />
l’unità federativa rispetterebbe la storia della nostra penisola, che ha connaturato<br />
in sé il sistema federalista. L’indole dialettica del popolo italiano<br />
consiste nel conciliare la varietà con l’unità; e questo può realizzarsi solo<br />
con un sistema federativo che accolga gli italiani sotto il papato ed il Piemonte.<br />
Al primo è affidato il compito morale di «comporre ed unificare gli<br />
italiani», al secondo la tutela della Nazione 63 .<br />
Da <strong>qui</strong> il progetto di Gioberti di un’Italia federata in «quattro monarchie<br />
civili e sorelle»: Piemonte, Toscana, Roma e Napoli, la cui unione<br />
avrebbe permesso, sotto la mano invisibile della Provvidenza, di tagliare «i<br />
sommoli all’a<strong>qui</strong>la bastarda» 64 .<br />
Volete sapere – scrive Gioberti – ciò che giova all’Italia? Cercate quello che nuoce<br />
al barbaro, e lo fa impallidire, fremere, smaniare di spavento e di furore. Chi non<br />
vede infatti che l’unione dei quattro stati principali della penisola sarebbe un intero<br />
risorgimento italico, poiché l’Austria, che è più forte di ciascuno di essi segregato<br />
dagli altri, è più debole di tutti insieme raccolti? Quella confederazione<br />
italiana, di cui tanto si parla e che due anni fa era un sogno, ora si può dire già incominciata;<br />
se il principio delle cose risiede nelle forze e condizioni più importanti<br />
per l’effettuamento di una lega italica, se non l’assenso del Piemonte e di Roma<br />
a quell’idea positiva e nazionale, di cui essa lega sarìa l’effetto e l’estrinsecazione?<br />
Imperocché il Piemonte e Roma sono i due stati più forti d’Italia; l’uno di forza<br />
62 Del Primato morale e civile, I, 55.<br />
63 Cfr. A. Anzilotti, Gioberti, cit., pp. 87-9.<br />
64 Il Gesuita Moderno, IV, 198.
44 Maria Vita Romeo<br />
materiale, come fior di milizia pel suo esercito, l’altro di forza morale come cima<br />
d’autorità e d’imperio pel sommo sacerdozio e per la sede della religione 65 .<br />
Indicati i Gesuiti come nemici della patria, non restava che denunciare<br />
l’altro ostacolo alla nostra unità nazionale: la manìa d’imitare gli stranieri<br />
che, secondo Gioberti, ha invaso anche il mondo della cultura e della filosofia.<br />
Da <strong>qui</strong> la necessità di una riforma filosofica che supporterà anche<br />
quella civile, perché queste due insieme produrranno una riforma religiosa<br />
e nazionale:<br />
giacché il cattolicesimo, che è la religione natìa e patria degli italiani, non è altro<br />
che propriamente parlando, che il compimento dottrinale ed interno, la forma<br />
civile e l’estrinsecazione della sincera filosofia 66 .<br />
Ecco perché bisogna e<strong>vita</strong>re l’errore di considerare la fede come un<br />
danno alla speculazione filosofica e rigettare quella «frivola sapienza» diffusasi<br />
in Francia, ove «il Cristianesimo de’ razionali tedeschi co’ suoi miti,<br />
simboli e dogmi ridotti a poesia è divenuto per opera degli eclettici quasi<br />
moneta corrente» 67 . Gli italiani, afferma Gioberti, devono cominciare a<br />
provare vergogna nel «camminar sempre alla coda» e persuadersi di contro<br />
che «il vero rivelato non è un ritegno, né un inciampo, ma un ac<strong>qui</strong>sto e<br />
un aiuto pel filosofo» 68 . Da ciò ne segue la missione del popolo italiano di<br />
rinnovare e perfezionare la filosofia cristiana, la sola capace di uscire dalla<br />
«region del finito» 69 .<br />
Escano dunque gl’Italiani dalle infelici pastoie, in cui gl’ingegni d’oltremondo<br />
vorrebbero costringerli. E non si spaventino di certi loro compatrioti, che chiamano<br />
per istrazio teologizzanti i filosofi che si occupano anco di religione; come<br />
se la filosofia, scienza universale, dovesse escludere solamente il Cristianesimo o<br />
non le fosse lecito il discorrerne che a proposito». E così «invece di vivere e pensare<br />
da forestieri e da bagorgi, diano opera a una <strong>vita</strong> e ad una scienza nuova, secondo<br />
l’esempio dell’Alighieri e del Vico 70 .<br />
65 Ivi, 458-9.<br />
66 Ivi, 235.<br />
67 Ivi.<br />
68 Ivi.<br />
69 Ivi, 236.<br />
70 Ivi, 237.
Note etico-politiche nel Gesuita Moderno di Gioberti 45<br />
A. Demersay,<br />
Redução de São<br />
Miguel Arcanjo em<br />
1846 (litografia).<br />
Grandioso<br />
esempio delle<br />
Missioni o<br />
Riduzioni fondate<br />
dai Gesuiti nelle<br />
foreste del Sud<br />
America, dove<br />
rimangono tracce<br />
di uno dei più<br />
geniali e<br />
controversi<br />
esperimenti di<br />
natura religiosa,<br />
culturale e politica.<br />
Per concludere, nei giudizi severi di Gioberti sia nei confronti dei Gesuiti<br />
sia confronti dell’Italia e degli uomini del suo tempo si avverte, oltre il dolore<br />
di un cuore amareggiato a causa dell’immaturità civile e morale della sua<br />
patria, la vis di un pensatore, di un religioso e di un politico che lottò senza<br />
arrendersi per il rinnovamento morale e civile dell’Italia. Un rinnovamento<br />
che ai suoi occhi sarebbe stato possibile solo grazie al «ristauro» di quella religione<br />
cristiana che da sempre costituisce l’identità del popolo italiano, e<br />
che è stata messa profondamente in crisi «dagl’influssi gesuitici e stranieri».<br />
Egli è debito dell’uomo onesto l’opporsi, secondo il suo potere, alle torte opinioni<br />
e alle cattive consuetudini del suo tempo; perché pogniamo che non riesca a<br />
correggere e né anco a rallentare il male, non però l’opera sua tornerà vana, come<br />
quella che gioverà almeno a salvare lui stesso da una complicità biasimevole. Egli<br />
è obbligo di chi serba qualche sentimento della dignità umana il rifiutar di piegare<br />
il capo a un servaggio che reputa indegno; e quando l’esempio suo trovasse<br />
qualche imitatore, egli non potria dolersi di essere passato affatto “inutilmente”<br />
sopra la terra. Lo spettacolo della declinazione dell’ingegno italico nelle opere più<br />
nobili della pace, non meno che quello della civile nullità della mia patria, mi<br />
colpì e commosse dolorosamente da gran tempo; e sin da quando io non aveva<br />
ancor perduta essa patria, mi parve di trovare la cagion precipua del suo male negl’influssi<br />
gesuitici e stranieri. Nel che io mi accordavo e mi accordo sostanzialmente<br />
coll’eletta de’ miei compatrioti; se non che essi, sotto nomi di stranieri, intendono<br />
solo l’Austriaco che ci opprime colla forza; dove che io, senza torre al te-
46 Maria Vita Romeo<br />
desco quel privilegio che gli si addice in questa gloria d’infamia, considero la cosa<br />
più uniteversalmente, detesto ogni servitù forestiera, e giudico perniciosissima<br />
eziandio quella che è spontaneamente accettata e si esercita nei costumi, nella religione,<br />
nelle lettere, e in somma negli animi e negli intelletti. Questa io credo<br />
che sia dopo i Gesuiti la prima delle sciagure italiche; perché il Tedesco medesimo<br />
non avrebbe potuto accollarci e mantenere sopra di noi il suo gioco di ferro,<br />
se non avessimo perduto la nostra autonomia interna come Italiani, e smarrita<br />
quasi affatto la facoltà di creare negli ordini del pensiero. Consapevole dell’obbligo<br />
mio […] mi proposi di tentare il ristauro del genio e dell’ingegno italico, che<br />
reputo assopito, ma non ispento. E per andare alla radice del male, ricorsi alla<br />
speculativa che è la scienza propria del pensiero, tentando di gittar le basi di una<br />
filosofia veramente italiana e <strong>qui</strong>ndi universale, che avendo per base il concetto<br />
di creazione, ridestasse la vena creatrice, e travasasse nella pratica quel principio<br />
medesimo, onde procede nella teorica. Ricorsi pure alla religione, che è la sapienza<br />
dell’animo; e <strong>qui</strong> l’opera mia, come cittadino e filosofo, venne a confondersi<br />
con il mio obbligo, come cristiano e cattolico; perché la fede che professo mi porse<br />
colle due grandi idee del cattolicesimo e di Roma il suggello di quella italianità<br />
universale, che andavo cercando, e col dogma di creazione confermò autorevolmente<br />
quell’assioma razionale e supremo, ond’io pigliavo speculando le mosse.<br />
Ma vano sarebbe il voler ravvisare le credenze ortodosse in Italia e il ripigliarvi e<br />
universalizzare l’arduo assunto del Vico di stabilirvi una scienza nuova, se prima<br />
non si stralcia la mania di imitare gli stranieri 71 .<br />
Di <strong>qui</strong> la denuncia e la lotta contro questi nemici del genio italico, per<br />
la sconfitta dei quali Gioberti prepara la sua strategia offensiva che include<br />
il ritorno alle radici cristiane. Ritornare alle radici cristiane non è un ripiego<br />
da passatista, ma una presa di coscienza della nostra identità, della nostra<br />
cultura e dei nostri valori morali e civili, che hanno fatto la nostra storia<br />
la quale «non può non dirsi cristiana». E si sa che per il filosofo torinese<br />
la storia è il frutto dei progressi intellettuali, civili e morali dell’uomo, il<br />
quale agisce in essa come microcosmo che «riflette in sé le idee e le perfezioni<br />
divine». Alla luce di tutto ciò, ben si comprende come per il pensatore<br />
neoguelfo il Risorgimento italiano debba necessariamente scaturire da<br />
quel concetto di nazionalità che è condizione necessaria affinché un popolo<br />
possa elevarsi spiritualmente e, come l’esistente che torna all’Ente, partecipare<br />
all’eterna teogonia.<br />
71 Ivi, Discorso preliminare, I, LXI-LXII.
Alessandro Chiessi<br />
e other Mandeville:<br />
the origins of a scandalous thought.<br />
Mechanism, Materialism and Naturalism<br />
LaWS aND goVerNMeNT are To THe PoLITIcaL boDIeS of Civil Societies,<br />
What the Vital Spirits and Life it self are to the Natural Bodies of Animated<br />
creatures; and as those that study the Anatomy of Dead Carcases may see, that<br />
the chief Organs and nicest Springs more immediately re<strong>qui</strong>red to continue the<br />
Motion of our Machine, are not hard Bones, strong Muscles and Nerves, nor the<br />
smooth white Skin that so beautifully covers them, but small trifling Films and<br />
little Pipes that are either over-look’d, or else seem inconsiderable to Vulgar Eyes;<br />
so they that examine into the Nature of Man, abstract from Art and Education,<br />
may observe, that what renders him a sociable Animal, consists not in his desire<br />
of Company, Good-nature, Pity, Affability, and other Graces of a fair Outside;<br />
but that his vilest and most hateful Qualities are the most necessary Accomplishments<br />
to fit him for the largest, and, according to the World, the happiest and<br />
most flourishing Societies. 1<br />
If we think about Mandeville, we directly think about the famous<br />
aphorism “Private Vices, Publick Benefits.” 2 With these few words Bernard<br />
1 B. Mandeville, e Fable of the Bees, ed. by F.B. Kaye, 2 vols., Oxford, Clarendon Press, 1924,<br />
pp. 3-4. From here on I will use Fable I for the quotations of the first part of e Fable of the Bees<br />
and Fable II for the second part.<br />
For this paper I must thank Prof. Paolo Vincieri (University of Bologna) for his advices on the<br />
relations of nature and human nature, “pride” and “self-denial” and the specifications of metaphysic<br />
and ontology. anks to Prof. Charles T. Wolfe (University of Ghent) for his considerations on<br />
“Mortalism”, the use of the terms ‘soul’ and ‘mind’ in the seventeenth and eighteenth century and<br />
his linguistic revision. anks to Dr. Iulia Mihai (University of Ghent) for her precious suggests<br />
and linguistic observations.<br />
2 Mandeville himself said that the aphorism had simply a provocative function, aiming, therefore,<br />
to ac<strong>qui</strong>re more fame among the readers. (cf. B. Mandeville, A Letter to Dion, ed. by B. Dobrée,<br />
Liverpool, University Press of Liverpool, 1954, p. 38). I do not know if this was true or if this<br />
statement was only a way to mitigate the cruel controversy sprung from e Fable of the Bees’ pub-<br />
47
48 Alessandro Chiessi<br />
Mandeville, a Dutch physician who had moved to London, burst on the<br />
cultural debate of the English early eighteenth century. Despite being criticized—at<br />
best—confuted, or opposed, Mandeville put forth, during his<br />
life, a more and more complete and refined philosophy. 3<br />
He 4 wrote different texts both for analysed arguments and for adopted<br />
stylistic solutions. His writings range over poetical translations of fables,<br />
lication; at the same time the recent and recent past criticism, more often, starts from this aphorism<br />
to explicate numerous unsolved or difficultly understandable philosophical themes.<br />
3 Examining some pamphlets and newspapers published during the twenties and thirties of the<br />
eighteenth century it is possible to see the scandal generated by e Fable of the Bees. One may read:<br />
Robert Burrow’s A Sermon preached before the Lord Major of London on 28 th September, 1723; William<br />
Law’s Remarks upon a Late Book Entituled the Fable of the Bees, published in 1724; John Dennis’<br />
Vice and Luxury Publick Mischiefs: or Remarks on a Book intituled, the Fable of the Bees, published<br />
in 1724; George Bluet’s An En<strong>qui</strong>ry whether a General Practice of Virtue tends to the Wealth or Poverty,<br />
Benefit or Disadvantage of a People published in 1725; Archibald Campbell’s An en<strong>qui</strong>ry into the<br />
original of moral virtue, published in 1728; e Dublin Weekly Journal papers of Francis Hutcheson<br />
published on February 5 th , 12 th and 19 th 1729; and the famous George Berkeley’s Alciphron: or, the<br />
Minute Philosopher, published in 1732. At the same time, the Grand Jury of Middlesex presented e<br />
Fable of the Bees as a public nuisance (cf. footnote 5). Apart from the controversy and legal vicissitudes,<br />
Mandeville’s thought became, over the years, central for those who wanted to think about<br />
human nature and its reflections on society. is is shown by the pamphlets mentioned above, but<br />
even by the implicit references of David Hume and the explicit condemnation done by Adam<br />
Smith in e eory of Moral Sentiments about the Mandeville’s “licentious system”—condemnation<br />
that seems diminished by a lot of hidden references in the Wealth of Nations. e importance of<br />
Bernard Mandeville considerations is demonstrated by the attention that even Karl Marx devoted<br />
to his thinking, indeed he considered Mandeville’s thought “infinitely more audacious and more<br />
honest than the philistine apologists of bourgeois society” (K. Marx, eorien über den Mehrwert, in<br />
Karl Marx und Friedrich Engels Werke, Berlin, Dietz, 1962, vol. 26.1, pp. 363-364). To get an idea of<br />
the Mandeville’s influences on these authors see: D. Hume, Of Refinement in the Arts, in e Philosophical<br />
Works, Edinburgh, Adam Black and William Tait, 1826, vol. III, pp. 302-316 (to remember<br />
how the theme of luxury was considered important but, at the same time, burning: the essay entitled<br />
Of refinement in the Arts in the 1752 edition of Political Discourses was Of Luxury); A. Smith, e<br />
eory of Moral Sentiments, ed. by D.D. Raphael and A.L. Macfie, Indianapolis, Liberty Fund, 1984,<br />
pp. 306-314; Id., An in<strong>qui</strong>ry into the nature and causes of the wealth of nations, ed. by E. Cannan,<br />
New York, e Modern Library, 1937; K. Marx, Das Kapital: Kritik der politischen Okonomie, in<br />
Karl Marx und Friedrich Engels Werke, Berlin, Dietz, 1962, vol. 23, pp. 640-645. To get an outlook<br />
and to see some of the above pamphlet cf. J.M. Stafford, Private vices, public benefit? e contemporary<br />
reception of Bernard Mandeville, Solihull, Ismeron, 1992; For obtaining some hints about Mandeville’s<br />
thought related to Hutcheson, Butler, Berkeley, Hume e Smith, cf. J. Welchman, Who Rebutted<br />
Bernard Mandeville?, «History of Philosophy Quarterly», 24 (2007) 1, pp. 57-74.<br />
4 Scholars really know little about Mandeville’s life: they know he was born in Rotterdam on<br />
November 15 th , 1670, in 1691 he obtained a medical degree at the University of Leiden and shortly
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 49<br />
essays and medical treatises. 5 Spacing into different fields of knowledge and<br />
adopting different expressive skills, Mandeville suggested a lot of reflections<br />
that, for this reason, are not systematic and linear.<br />
after he moved to London. In addition to this, they know he married Ruth Elizabeth Laurence in<br />
1699 and from 1705 he began a serious writing activity in addition to his medical profession. Cf.<br />
F.B. Kaye, Introduction to Fable I, pp. xxvii-xxxii; M.M. Goldsmith Introduction to B. Mandeville,<br />
By a Society of Ladies: Essays in e Female Tatler, Bristol, oemmes Press, 1999, p. 17; to trace an<br />
account of the Dutch youth and of the tumultuous vicissitudes during his academic period in Leiden,<br />
see: R. Dekker, ‘Private vices, public virtues’ revisited: the Dutch background of Bernard Mandeville,<br />
«History of European ideas», 14 (1992) 4, pp. 481-498. In addition, recent discoveries—the<br />
handmade glosses of Bernard’s father, Michael, on the family Bible—have led to reconsider the date<br />
of birth, posing it five days before the date proposed by Kaye and later taken over by Goldsmith<br />
(November 20 th ). Cf. M. Simonazzi, Le favole della filosofia, Milano, Franco Angeli, 2008, pp. 33-<br />
68; A.C. Jansen, Bernard Mandeville: some recent genealogical discoveries, «Notes and Queries», 56<br />
(2009) 2, pp. 231-235, also the website http://www.bernard-mandeville.nl/.<br />
5 During his life, Mandeville wrote numerous texts; in order to get a sense of how many there<br />
are and the differences between them, and, also so as to follow the development of this paper, here<br />
I list his edited books. In 1685, following the customs and practices of the time, he published the<br />
Oratio scolastica. In 1689, during his academic period at the University of Leiden he printed the Disputatio<br />
philosophica de Brutorum Operationibus. In 1690, taking part in the Costerman’s riot, he<br />
wrote, probably with his father, the mockery poem entitled Schijnheyligh Atheist (Sanctimonious<br />
Atheist). In 1691, during the same academic period in Leiden, he published the Disputatio de Chylosi<br />
Vitiata. In 1698, once he moved to London, composed a poem titled In authorem de usu interno<br />
cantharidum scribentem, published at the beginning of a Johannes Groenevelt’s medical treatise. In<br />
1703, Mandeville probably wrote his first work in English, i.e. e Pamphleters: A Satyr. In the same<br />
year he printed some translations in Some fables after the easie and familiar method of Monsieur de la<br />
Fontaine. In 1704, taking up the translations of the former year, adding other ones and writing two<br />
new fables, Mandeville published Aesop Dress’d. In 1704, imitating Scarron’s burlesque method, he<br />
wrote Typhon: or the Wars between the Gods and the Giants. In 1705 began the evolution of e Fable<br />
of the Bees with the publication of e Grumbling Hive. In 1709, Mandeville tested, for the first<br />
time, the dialogue in e Virgin Unmask’d. During 1709-1710 he worked as publicist, writing the<br />
so-called Lucinda and Artesia cycle appeared on Female Tatler. In 1711, another dialogue, focused<br />
on medical topics, came out with this title: A Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Passions.<br />
In 1712 Mandeville printed Wishes to a Godson where he collected poems and other verses for eventually<br />
publishing a second book of Typhon. In 1714, he seemed to devote himself to political issues<br />
in e Mischiefs that Ought Justly to be Apprehended from a Whig-Government. In the same 1714 appeared<br />
for the first time e Fable of the Bees: or Private Vices, Publick Benefits in which he republished<br />
e Grumbling Hive and he added a philosophical essay, titled En<strong>qui</strong>ry into the Origin of<br />
Moral Virtue, and twenty Remarks, to clarify the unclear verses of the fable. In 1715 Mandeville published,<br />
without changes, a second edition of A Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Passions.<br />
In 1720 Mandeville worked on an essay about religion and politics, so he printed the Free oughts<br />
on Religion, the Church, and National Happiness. In 1723 there was a new edition of e Fable of the<br />
Bees: or Private Vices, Publick Benefits in which Mandeville added other Remarks and two essays: An
50 Alessandro Chiessi<br />
is analysis aims to highlight some points within the literary writings<br />
of Mandeville; 6 his books may clarify the role of men as subject of passions,<br />
with desires and needs; men that placed in a community recognize, more<br />
or less consciously, shared models and standards of behaviour. ere are<br />
many hints of research in studying Mandeville’s thought, but here it is my<br />
intention to focus only on some elements to better explain his anthropolo-<br />
Essay on Charity and Charity-School and A Search into the Nature of Society. In that moment the book<br />
created a great uproar; in the same year the Grand Jury of Middlesex presented the book as a public<br />
nuisance and on July 27 th 1723 in the London Journal appeared, as the same Mandeville defined, “An<br />
abusive letter to Lord C.” On August 10 th , he published his defence on the same pages of the London<br />
Journal. ese three writings, titled A Vindication of the Book, from the Aspersions Contain’d in a Presentment<br />
of the Grand Jury of Middlesex and An Abusive letter to Lord C. became a new section of the<br />
Fable published again the following year. In 1724, preserving the same irony and sarcasm of e Fable<br />
of the Bees, but playing also on the paradoxes of the early eighteenth century customs in London,<br />
Mandeville published A Modest Defence of Publick Stews. In 1725, continuing a sort of sociological<br />
research, he printed An En<strong>qui</strong>ry into the Causes of the Frequent Executions at Tyburn. On December<br />
1728 (1729 as written on the title page) appeared e Fable of the Bees. Part II. By the Author of the<br />
First. Here, Mandeville changed his style again adopting the dialogue: Cleomemes and Horace—<br />
the characters—criticise, revise or deepen the themes exposed in the first part of e Fable of the<br />
Bees. In 1730, there appeared a new edition, revised and enlarged, of A Treatise of the Hypochondriack<br />
and Hysterick Diseases, in which the word “Diseases” replaced “Passions” in the title. In 1732<br />
Mandeville published An En<strong>qui</strong>ry into the Origin of the Honour and the Usefulness of Christianity in<br />
War, book in which ideally he continued the issues of e Fable of the Bees with the new Cleomenes<br />
and Horace dialogues. In the same year Mandeville published his last writing: A Letter to Dion,<br />
book in which he answered Berkeley’s critique, exposed in Alciphron, or the Minute Philosopher.<br />
6 About the Mandeville’s writings mentioned in the previous footnote, I must specify some<br />
elements. For the assignment of Schijnheyligh Atheist (Sanctimonious atheist) to Mandeville cf. R.<br />
Dekker, “Private vices, public virtues” revisited, cit., pp. 481-498. For the discovery and the consequent<br />
attribution of In authorem de usu interno cantharidum scribentem, cf. H. Gordon-Ward, An<br />
unnoted poem by Mandeville, «Review of English Studies», 7 (1931) 25, pp. 73-76. For the assignment<br />
of e Pamphleters, cf. M.M. Goldsmith, Private Vices, Public Benefits: Bernard Mandeville’s social<br />
and political thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 28, 78-119 and F.B. Kaye,<br />
Introduction to Fable I, pp. xxx-xxxii (where this writing is considered doubtful). For the attribution<br />
to Mandeville of the so-called Lucinda and Artesia cycle, cf. P.B. Anderson, Splendor Out of Scandal:<br />
e Lucinda-Artesia Papers in e Female Tatler, «Philological Quarterly», 15 (1936), pp. 286-300 and<br />
M.M. Goldsmith, Introduction to B. Mandeville, By a Society of Ladies, cit., p. 44. For the assignment<br />
of e Mischiefs that Ought Justly to be Apprehended from a Whig-Government, cf. H.T. Dickinson,<br />
Introduction to B. Mandeville, e Mischiefs that Ought Justly to be Apprehended from a Whig-<br />
Government, Los Angeles, William Andrews Clark Memorial Library, 1975, pp. i-ix; M.M. Goldsmith,<br />
Private vices, public benefits, cit., pp. 91-92, especially note 38; and F.B. Kaye, Introduction to<br />
Fable I, pp. xxx-xxxii (in which this writing is considered doubtful). Cf. also P. Carrive, La Philosophie<br />
des Passions chez Bernard Mandeville, 2 vols., Paris, Didier, 1983, vol. I, pp. 7-64.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 51<br />
gy. Since e Fable of the Bees’ composition covered a period of almost thirty<br />
years, while he wrote other texts of different genre, style and subject, particular<br />
attention is here devoted to the early works and issues which, rising,<br />
gave the epistemological foundation to his ‘scandalous’, empirical thought.<br />
If so it can be defined. Mentioning the importance of academic training in<br />
medicine and the role of this profession, my purpose is to show the evolution<br />
of an unwieldy Descartes’ mechanism which, shifting to materialism,<br />
is looking for a synthesis inside a central concept for the early modern philosophy,<br />
in general, and for Mandeville, in particular: human nature. 7 So,<br />
starting from the less known texts, I will trace a path which can reveal the<br />
physiological basis—hence natural—of Mandeville’s description of men,<br />
and from there I will demonstrate that even passions, characterizing everybody,<br />
can be categorized in what can be defined physiological naturalism.<br />
e academic training: between medicine and (Descartes’) philosophy<br />
Within the various Mandeville’s writings, although several and diversified,<br />
it is possible to find some lines which help to draw the origins, the<br />
developments and the conclusions of his theory. Moreover, his ideas of<br />
7 Important, in the history of ideas, is the collection of lectures of Arthur Oncken Lovejoy<br />
(Reflection on Human nature, Baltimore, John Hopkins, 1961). In his reflections, Lovejoy relates<br />
“passions” to desires and causes which generate actions. A particular attention is devoted to non-rational<br />
elements with which men seek the approval of others: “appobativeness” as the professor defines<br />
the “love of fame,” the “passion for glory” and the “research of honour.” Cf. A.O. Lovejoy, op.<br />
cit., pp. 129-214. For a further problematization, there is a significant Edgar Morin’s essay (Le paradigme<br />
perdu: la nature humaine, Paris, Seuil, 1973). Devoting particular attention to biological, paleontological,<br />
ethno-anthropological and ethological discoveries, Morin shows how human nature<br />
is an open system concept, which contains all the complexities forming a man, in a dimension of<br />
interrelationship, interaction and interference between biological and cultural elements. Trying to<br />
define what area holds the individual, the society and the species, it is not only difficult but maybe<br />
impossible because everyone is part of one of other. Cf. E. Morin, op. cit., p. 211. Although in the<br />
seventeenth century did not exist a clear disciplinary diversification and a scientific specialization as,<br />
we know, there were the last century, with Bernard Mandeville, scholars are dealing with a conscious<br />
attempt to trace the origin of human actions within a physiological explanation (even if he<br />
couldn’t use the concept of ‘species’ as it is understood now, after Darwin and Darwinism). In addition,<br />
the Dutch physician and philosopher tried to complicate his description considering the social<br />
rules and the cultural impositions as tools for influencing the same human actions.
52 Alessandro Chiessi<br />
men and their being member of a society were intensely criticized in the<br />
eighteenth century England. First of all, it is necessary to explore the less<br />
studied early Mandeville’s writings.<br />
e context, in which Mandeville obtained his education, gave a<br />
strong sign on the origin and the development of the following analysis<br />
and philosophical formulations. e Erasmian School, the University of<br />
Leiden and the historical events, which involved him—including the<br />
movement to London—certainly excited his curiosity on particular knowledge<br />
areas.<br />
From 1685 one can see in Mandeville a speculative interest, which is focused<br />
on both medical and philosophical studies. e Oratio scholastica, 8<br />
although it is a sort of institutional application for the passage from the<br />
Erasmian School of Grammar to University, shows immediately a connection<br />
between medicine and philosophy. Starting from the classical conception<br />
considering human constitution as divided into soul and body, 9 Man-<br />
8 Probably in this writing there were strong influences of Bernard’s father: Michael, also a<br />
physician, but I think one can find here some fils rouges which, intertwining and unravelling, are<br />
able to clarify an anthropological description—subject to changes during the years—and with it an<br />
idea of society. Doing this, I differ from Paulette Carrive’s merciless judgment, who considers the<br />
arguments of the Oratio scholastica trivial (cf. P. Carrive, op. cit., vol. I, p. 9), but, at the same time,<br />
I do not want to exalt or misrepresent what the fifteen-year-old Mandeville was writing. e oration<br />
starts by establishing a close relationship between philosophy and medicine because the first is exerted<br />
on the mind and the latter on the body, arguing that the health of the body is a condicio sine<br />
qua non for the good functions of the mind. Continuing his speech, Mandeville talks about the reasons<br />
that may induce to choose the medicine study, namely its utility, the fame that this discipline<br />
enjoys among men, the satisfaction that someone can get in the exercise of a difficult but not impossible<br />
art and, finally, the happiness that can arise in the physicians. Cf. B. Mandeville, Bernardi<br />
à Mandeville de medicina oratio scholastica, publicè habita, cum è scholâ Erasmianâ ad Academiam<br />
promoveretur, Octob. MDCLXXXV, Rotterodami, Typis Regneri Leers, 1685 (henceforth Oratio<br />
scholastica).<br />
9 It is necessary to recall the importance not only of classical authors—first of all Plato and Aristotle—but<br />
also the role which held Descartes’ thought as both cultural supporter and dividing element<br />
inside the Universities. Paradigmatic was the conflict between Aristotelian and Cartesian professors<br />
in Leiden. To get an overview on the evolution of Cartesianism, with particular attention to<br />
the conception of man, in the dimension of body and soul, see: A. Vartanian, Quelques réflexions<br />
sur le concept d’ame dans la littérature clandestine, in O. Bloch (ed), Le materialisme du XVIII e siecle<br />
et la litterature clandestine, Paris, Vrin, 1982, pp. 149-165. For a discussion about the materialization<br />
of the soul see C.T. Wolfe and M. Van Esveld, e Material Soul: Strategies for Naturalising the Soul<br />
in an Early Modern Epicurean Context, in D. Kambaskovic-Sawers (ed), Conjunctions: Body and
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 53<br />
deville states that the spirit is supervised by philosophy as the body is preserved<br />
by medicine. Since the body finds its order and dignity in the spirit<br />
and in philosophy, the health of the body becomes a necessary prere<strong>qui</strong>site,<br />
without which can be guaranteed the well being of the spirit. 10 e<br />
lapidary sentence, with which the young Mandeville<br />
says that “except the soul and the body there is<br />
nothing that constitutes the nature of man,” 11<br />
shows how deep the cultural influence was. An<br />
influence based on a distinction between two<br />
different substances. Cartesianism certainly<br />
played a leading role in this. is difference,<br />
but at the same time close connection, between<br />
soul and body, and also philosophy<br />
and medicine, becomes fundamental in the<br />
development of his methodology of research,<br />
based on a limited—a posteriori—observation of<br />
nature.<br />
Clearly, it is <strong>qui</strong>te hazardous to trust that<br />
Mandeville at fifteen years of age had a deep<br />
Bernard de Mandeville.<br />
epistemological awareness when he wrote the Oratio scholastica. However<br />
in that speech one can find some elements which become fundamental<br />
parts of the method elaborated and adopted by the adult Mandeville, and<br />
proposed, more explicitly, in the Treatise. Among them I can mention: the<br />
Mind, Sexuality and Spirit from Plato to Descartes, Dordrecht, Springer, Forthcoming 2012/2013.<br />
anks to Charles T. Wolfe for sharing his work with me. Cf. B. Mandeville, A Treatise of the<br />
Hypochondriack and Hysterick Passions, London, Printed and Sold by Dryden Leach, in Elliot’s<br />
Court, in the Little-Old-Baily, and W. Taylor, at the Ship in Pater-Noster-Row. 1711, pp. 114-115<br />
(this edition henceforth will be quoted as Treatise 1711) e Id., A Treatise of the Hypochondriack and<br />
Hysterick Diseases (1730), ed. by S.H. Good, New York, Delmar, 1976, p. 126, (this edition henceforth<br />
will be quoted as Treatise 1730).<br />
10 “Animus, eiusque moderatrix philosophia, <strong>qui</strong>n primas teneat, nemo est <strong>qui</strong> dubitet. Corpus<br />
vero, eiusque conservatrix medicina, ordine ac dignitate secundum ab anima ac philosophia locum<br />
obtinet. Praeter animum & corpus nihil est, quod hominis naturam constituat. Summa itaque opera nobis<br />
danda est, non modo ut animus, sed ut corpus quoque valeat. Nisi enim corpori bene sit, ne animo<br />
<strong>qui</strong>dem bene esse potest: atque ita utrumque per se indigens alterum alterius ausilio veget.” Oratio<br />
scholastica, p. 3.<br />
11 Ibid.
54 Alessandro Chiessi<br />
delimitation of the investigation area of medicine, the instruments that a<br />
physician can and should use, and the limits to which they refer; in addition,<br />
he establishes the need of the direct observation supported by the<br />
study of diseases in medical literature. 12 is is the empirical approach that<br />
can be found later both in medical treatises and in anthropological or social<br />
analysis. Despite that, the Oratio Scholastica exhibits few intentions<br />
that will become guiding principles for studies on the brutes’ actions and<br />
for investigations about the disorders of human digestion; in other words,<br />
in the subsequent years, Mandeville does what he stated in his youth.<br />
e Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus 13 is a text written<br />
at the University of Leiden and, therefore, it reflects the Cartesianism<br />
12 “Physice certe futuro medico necessaria est, ut naturam ac vim corporum naturalium, quorum<br />
usus est in medicina maximus, penitus cognitam perspectamque habeat […]. Quanto igitur <strong>qui</strong>s fuerit<br />
in hac philosophiae parte versatior, quantoque clarius ac distinctius, <strong>qui</strong>c<strong>qui</strong>d est hujus generis perceperit<br />
atque ex<strong>qui</strong>siverit, ut satis ipsi liqueat, prius quam <strong>qui</strong>cquam statuat; tanto ad pernoscendam medicinae<br />
artem, eamque feliciter exercendam, est aptior […]. Huc pertinet, cum assidua lectio auctorum.” Ivi, pp.<br />
6-7; for the limits of medicine: cf. ivi, pp. 12-13.<br />
13 Brutus, a, um is an adjective in Latin meaning “heavy” and “inert” or “stupid” and “irrational,”<br />
its substantivization may be expressed as “brute,” “animal” or “beast;” considering that the<br />
choice of brutum cannot be accidental in spite of animal (probably a too neutral term that, in its semantic<br />
range, may include men, understood as rational being) I opted for translating brutum with<br />
“brute” or “beast.” e Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus aims to show precisely<br />
that the brutes—or beasts—do not possess a soul and so thought. For this purpose, the young<br />
Mandeville refutes both the thesis which, on one hand, would consider brutes with a minimal ability<br />
for reasoning since they are able to do organized things, and on the other hand the thesis which,<br />
discovering a correspondence in some anatomical organs, would see a parallelism between men and<br />
brutes about the capability thought. Additionally the aspirant physician summarizes the thesis of<br />
Plato, Pythagoras, ales, Hobbes and Gassendi. After that, Mandeville compares the views that<br />
were dividing the University of Leiden: the Aristotelian thesis, which sees the origin of life, feeling<br />
and knowledge of brutes in the “Substantial Principle,” and the Cartesian, which considers thinking<br />
one element of the soul. e criticism of the “Substantial Principle,” as well as being a refutation<br />
against the Aristotelians, is also a detachment from the Scholastics, a detachment openly declared<br />
by Descartes in the Discours de la méthode. Mandeville, on this occasion, adopts with some cautions<br />
the Descartes’ positions. Cf. B. Mandeville, Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus.<br />
Quam annuente summo numine, sub presidio Clarissimi, Acutissimique Viri D. Burcheri de Volder,<br />
Medicinae & Philosophiae Doctoris, hujusque, ut & Matheseos in Illustri Accademia Lugd. Batav. Professoris<br />
Ordinarii. Publice defendendam assumit Bernardus de Mandeville, Rotter.-Bat. Ad diem 23<br />
Mart. loco horisque solitis, ante meridiem, Lugduni Batavorum, Abrahamum Elzevirer, 1689 (hereafter<br />
Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus). For the cultural importance of Aristotelians and<br />
Cartesians in the University of Leiden, see Treatise 1711 and Treatise 1730; cf. footnote 9.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 55<br />
of Burcherus de Volder: the mentor of the young Mandeville. 14 Here again<br />
the soul and body ‘dualism’ is the core on which he develops the discussion<br />
about brutes and the causes of their actions. During the seventeenth<br />
and the eighteenth century, early modern science focused on reflections<br />
investigating feelings, perceptions and intellectual<br />
capacities of brutes, 15 trying to define their<br />
correspondence with men. Mandeville, connecting<br />
himself to Descartes’ notions, claims that thought<br />
is possible only if there is an eternal and immutable<br />
soul. From this premise, saying that brutes are provided<br />
with the same soul of men is a contradiction<br />
that conflict with the true idea of God; an idea deduced<br />
and expressed by reason, because only God<br />
is the author of substance and its eternity. Equally,<br />
for Mandeville—and with him the Cartesians—is<br />
a contradiction to assume a mortal and irrational<br />
soul. 16 As well as some actions of brutes can be ex-<br />
plained mechanically, through the concept of automation,<br />
others at the same time still have an un-<br />
Frontespizio del<br />
Discorso sul metodo di Descartes.<br />
14 For a brief history of the University of Leiden and some hints on Burcherus de Volder’s picture<br />
cf. M. Simonazzi, op. cit., pp. 36-43; W. Klever, Burchardus de Volder (1643-1709) A Crypto-<br />
Spinozist on a Leiden Cathedra, «Lias», XV (1988) 2, pp. 191-241, who, finding contacts between de<br />
Volder and Spinoza, shows both the cultural openness of the Leiden professor and the ferment<br />
which the Dutch University was undergoing at the end of seventeenth century and the beginning<br />
of the eighteenth century. Central, among the Italian studies, for a reconstruction of the milieu and<br />
a portrait of de Volder is G.B. Gori, La fondazione dell’esperienza in ‘sGravesande, Firenze, La Nuova<br />
Italia, 1972, pp. 7-42. e source, from which the news about Burcherus de Volder derive, is J. Le<br />
Clerc, Eloge de feu Mr. De Volder professeur en Philosophie & aux Mathematiques, dans l’Acadèmie de<br />
Leide, in Bibliothèque choisie, Amsterdam, Henri Schelte, 1709, vol. XVIII, pp. 347-401. Cf. also<br />
F.B. Kaye, Introduction to Fable I, p. cvi.<br />
15 It is curious to note the interest in early modern science concerning bees and their organizational<br />
skills; in this context the choice of bees as main characters of e Grumbling Hive, poem,<br />
later incorporated in e Fable of the Bees, becomes more meaningful. Cf. Disputatio philosophica de<br />
Brutorum Operationibus, p. A2, § II; see also W.J. Farrell, e Role of Mandeville’s Bee Analogy in<br />
“e Grumbling Hive”, «Studies in English Literature», 25 (1985) 3, pp. 511-529 and P. Costa, Le api<br />
e l’alveare, in AA. VV., Ordo Iuris. Storia e forme dell’esperienza giuridica, Milano, Giuffrè, 2003, pp.<br />
375-409.<br />
16 Cf. Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus, pp. A3-A4, §§ IV-VI.
56 Alessandro Chiessi<br />
known cause. is do not re<strong>qui</strong>re however the postulation of a soul and,<br />
therefore, the intellectual faculties of thought. We can see that the soul and<br />
body ‘dualism’ is in men a sort of relational dualism, in which two different<br />
substances, 17 related to different functions, allow a mutual influence.<br />
Here I think to the explicitly mentioned Descartes’ dualism of “res cogitans”<br />
and “res extensa.” 18 is, beyond all the difficulties, becomes for the<br />
young Mandeville the basis for a qualitative distinction: who possess the<br />
soul and, through this “substance,” is able to think, and who does not possess<br />
it and cannot enjoy the intellectual faculties. e qualitative difference<br />
consists of the following characteristics. Movement—to be considered<br />
mechanic—belongs to the body, while thought and, with it, reason belong<br />
to soul. To establish this unclear but surmountable separation means to<br />
create an implicit hierarchy and therefore a value scale between what concerns<br />
body and its peculiarities and what concerns soul and its activities. 19<br />
17 “Substantiam illud vocamus, quod per se subsistit, cujus conceptus non involvit conceptum alterius:<br />
Sic habeo conceptum cogitationis, nec tamen ille involvit in se conceptum extensionis, & vice versa.<br />
Sed praeter has duas alia substantia non datur; <strong>qui</strong>a nemo sibi aliquem conceptum formare potest, <strong>qui</strong><br />
non involvit conceptum, vel cogitationis, vel extensionis, vel utriumsque, hoc ergo principium substantiale<br />
(corpori enim cogitatio tribui ne<strong>qui</strong>t) est necessario anima, & <strong>qui</strong>dem nihil ab humana differens,<br />
quoniam medium inter animam & corpus nullum datur.” Ibid. (emphasis in the text).<br />
18 “Praeter Cogitationem, & extensionem nulla datur substantia.” Ibid., Corollarium IV. At the<br />
same time cf. R. Descartes, Principia Philosophiae, vol. VIII, p. 8, in Œuvres, publiées par C. Adam<br />
& P. Tannery, 11 vols., Paris, Vrin, 1974. “Per substantiam nihil aliud intelligere possumus, quam rem<br />
quae ita existit, ut nulla alia re indigeat ad exislendum. Et <strong>qui</strong>dem substantia quae nulla plane re indigeat,<br />
unica tantum potest intelligi, nempe Deus. Alias vero omnes, non nisi ope concursus Dei existere<br />
posse percipimus […]. Possunt autem substantia corporea & mens, sive substantia cogitans creata, sub<br />
hoc communi conceptu intelligi, quod sint res, quae solo Dei concursu egent ad existendum. Verumtamen<br />
non potest substantia primum animadverti ex hoc solo, quod sit res existens, <strong>qui</strong>a hoc solum per se nos<br />
non afficit; sed facile ipsam agnoscimus ex quolibet ejus attributo, per communem illam notionem, quod<br />
nihili nulla sint attributa, nullaeve proprietates aut qualitates […]. Et <strong>qui</strong>dem ex quolibet attributo substantia<br />
cognoscitur; sed una tamen est cujusque substantiae praecipua proprietas, quae ipsius naturam essentiamque<br />
constituit, & ad quam aliae omnes referuntur. Nempe extensio in longum, latum & profundum,<br />
substantiae corporeae naturam constituit; & cogitatio constituit naturam substantiae cogitantis.”<br />
Ivi, pp. 24-25 (emphasis in the text). In the fundamental themes, there are many similarities between<br />
what Descartes reported in 1644 and what Mandeville wrote in 1689, although, the aspirant<br />
physician significantly downsized the conception of God, understood as guarantor of substantiality<br />
and, simultaneously, as transcendent principle of truth.<br />
19 Descartes understood the possible difficulty related to a sharp dichotomy between soul and<br />
body, so postulated a place for their mutual action and ‘passion’: the pineal gland. Here, the “ani-
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 57<br />
is means to put reason and intellective faculties over the bodily and<br />
physical needs and, consequently, to put mankind over beasts. Granting to<br />
brutes thought and soul, 20 to explain the origin of their actions, could entail<br />
an equalization of them to men. 21 By doing this, Mandeville would violate<br />
the principle of the “cogito ergo sum” 22 and deeply undermine the<br />
foundation of human identity, stated by the correspondence of thought<br />
and soul, the basis in Descartes’ thought of self-consciousness, intended as<br />
awareness of one’s existence. 23<br />
mal spirits”—imperceptible particles constituting the physiology of the age—transfer both the stimuli<br />
received from the sense organs to soul and the “impressions” created by the soul to body. Cf. R.<br />
Descartes, Le monde ou traité de la lumiere et l’homme, vol. XI, pp. 129-130, 176-181, in Œuvres, cit.<br />
in which Descartes talks about the “H gland” and its interaction with the “animal spirits;” Id., Les<br />
passions de l’âme, vol. XI, pp. 351-355, §§ XXX-XXXIV, in Œuvres, cit. Beyond that, to not devalue<br />
the role of the soul and to maintain its supremacy over the body, Descartes states that “la volonté est<br />
tellement libre de sa nature” so the same will can excite the “petite glande” influencing the movements<br />
of the “animal spirits” and therefore, the actions (cf. Ivi, pp. 359-360, § XLVI). About the connection<br />
of soul and body cf. Id., Principia Philosophiae, cit., p. 41. e problem is also experienced by<br />
Burcherus de Volder, so that in a letter to Leibniz (November 12 th , 1699) he claims that he cannot<br />
understand how soul can be united to body and how, between these two substances, there can be a<br />
mutual influence (“verba haec sunt, nullum meo judicio sensum habentia”). Cf. G.W. Leibniz, Die<br />
philosophischen Schriften, herausgegeben von C.I. Gerhardt, Hildesheim, Olms, 1960, vol. II, p 198;<br />
G.B. Gori, op. cit., p. 33 e M Simonazzi, op. cit., p. 43. is stance can be explained through the<br />
Spinozism that was winding in Holland, in general, and in de Volder, in particular; cf. W. Klever,<br />
Burchardus de Volder, cit., pp. 191-241. Spinoza, indeed, argues a correspondence between order of<br />
ideas and order of things, a correspondence that does not admit the existence of two distinct and,<br />
at the same time, combined substances; cf. B. Spinoza, Ethica, vol. II, pars II, prop. 7, pp. 89-90,<br />
in Opera, 4 vols., Heidelberg, Carl Winters Universitaetsbuchhandlung, 1972.<br />
20 For Descartes thought is the “action” and “passion” of the soul, where its active dimension<br />
is the same of the “will;” cf. R. Descartes, Les passions de l’âme, cit., p. 342, § XVII.<br />
21 Recall that Descartes considers some movements of body completely mechanical—i.e. dependent<br />
by the actions of “animal spirits”—and, for this reason, independent from the influence of<br />
the soul; cf. Ivi, p. 341, § XVI.<br />
22 “Cogito, ergo sum est optimum principium.” Disputatio philosophica de Brutorum Operationibus,<br />
Corollarium II.<br />
23 Here it is important to quote from the Discours de la méthode: “Et enfin, considérant que<br />
toutes les mesmes pensées, que nous auons entant esueillez, nous peuuent aussi venir, quand nous dormons,<br />
sans qu’il y en ait aucune, pour lors, <strong>qui</strong> soit vraye, ie me résolu de feindre que toutes les choses <strong>qui</strong><br />
m’estoient iamais entrées en l’esprit, n’estoient non plus vrayes que les illusions de mes songes. Mais, aussitost<br />
après, ie pris garde que, pendant que ie voulois ainsi penser que tout estoit faux, il falloit nécessairement<br />
que moy, <strong>qui</strong> le pensois, fusse quelque chose. Et remarquant que cete vérité: ie pense, donc ie suis,<br />
estoit si ferme & si assurée, que toutes les plus extrauagantes suppositions des Sceptiques n’estoient pas capables<br />
de l’esbransler, ie iugay que iie pouuois la receuoir, sans scrupule, pour le premier principe de la
58 Alessandro Chiessi<br />
e analysis of brutes—with the related Cartesianism—is troublesome<br />
for the young Mandeville inasmuch as, in the eighth corollary of the<br />
Disputatio de Chylosi Vitiata, 24 he writes that “Bruta non sentiunt.” 25 is<br />
book is specifically a medical treatise about the digestive disorders—it is<br />
precisely the thesis with which the young Mandeville graduates himself at<br />
the University of Leiden 26 —but, on this occasion, he reiterates a previously<br />
discussed concept. Although the issues about the soul and body ‘dualism’<br />
are overshadowed, focusing attention on medicine and physiology in the<br />
analysis of the digestion processes, here I can find those themes, which will<br />
be deepened and analysed in the Treatise. e role of medicine in the treatments<br />
of diseases besides having specific etiological aim, limited to a specific<br />
disease, also assumes a general knowledge purpose, showing the functions<br />
of the internal organs and so of the body. It is significant that the<br />
young Mandeville, in this dissertation, notices hypo chondriacs suffering of<br />
Philosophie, que ie cherchois.” R. Descartes, Discours de la méthode, vol. VI, p. 32, in Œuvres, cit.<br />
(emphasis in the text); and at the same time cf. Id., Principia Philosophiae, cit., p. 8.<br />
24 In his graduation thesis Mandeville, showing some possible signs of indigestion (“crudi -<br />
tas”)—i.e. the slowness or weakness, the failure and the alteration—describes the physiological<br />
process of digestion and, simultaneously, refutes some theories: that of the ancients which considered<br />
the heat as the main cause and that which reckons movement as main principle of digestion.<br />
Descartes, as one can read in his writings, seems to be at half way between these two positions, but<br />
at the end considers the heat as source of the movement. Mandeville, for his part, looks on digestion<br />
as consequence of a “fermentum” or “menstrum” into the stomach, composed by chyle and “animal<br />
spirits.” is ferment, entering in the chewed food, soaks it through the quality of volatile acid.<br />
Subsequently, in the identification of the causes of indigestion, he sees as possible motivations the<br />
problems of stomach, the deterioration of ferments and the defects of food. e final part of the<br />
dissertation, in order to produce a correct diagnosis, shows the possible manifestations of indigestion,<br />
for giving a valid prognosis and effective treatment. e Disputatio, indeed, ends with a series<br />
of medical recipes. It would be convenient to study the role of iatrochemistry and iatromechanics<br />
in Mandeville’s medical thought. Cf. B. Mandeville, Disputatio medica inauguralis de Chylosi Vitiata.<br />
Quam annuente divina gratia Ex auctoritate Magnifici Rectoris, D. Wolferdi Senguerdii, L.A.M.<br />
Phil. & J. U. Doct. illiusque in Illustri Academiâ Lugd. Bat. Profess. ordinarii, celeberrimi, & c. Nec<br />
non Amplissimi Senatûs Academici Consensu & Almae Facultatis Medicae Decreto, pro gradu doctoratus,<br />
Summisque in Medicina Honorabilis ac Privilegiis ritè & legitimè consequendis, Publico examini<br />
subjicit Bernardus de Mandeville, Rott.-Bat. Ad diem 30 Mart. horâ locoque solitis, Lugduni Batavorum,<br />
Abrahamum Elzevirer, 1691 (hereafter quoted as Disputatio de Chylosi Vitiata). For an historical<br />
discussion see: A.G. Debus, Chemistry, Alchemy and the New Philosophy, 1550-1700: studies in the<br />
History of Science and Medicine, London, Variorum reprints, 1987.<br />
25 Cf. Disputatio de Chylosi Vitiata, Corollarium VIII.<br />
26 Cf. Treatise 1711, pp. 120-121; Treatise 1730, pp. 131-132.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 59<br />
indigestion for an alteration of the ferment of stomach. 27 He states a correspondence<br />
between the gastric functions and ‘mental’ diseases; diseases<br />
that today are called ‘psychological.’ e treatment of hypochondria is not<br />
yet an object of study or of a clear therapy; so, in the Treatise, Philopirio<br />
talking with Misomedon about his thesis discussed in Leiden—i.e. the Disputatio<br />
de Chylosi Vitiata—says: “I have often thought it very remarkable,<br />
that I always had a particular Eye upon, and have been led, as it were, by<br />
Instinct to what afterwards to me appear’d to be the Cause of the Hysterick<br />
and Hypochondriack Passions, even at a time, when I had no thought<br />
of singling out these Distempers for my more particular Study, and was<br />
only design’d for general Practice, as other Physicians are.” 28 e en<strong>qui</strong>ry<br />
and the treatment of hypochondria and hysteria, diseases connected to digestion,<br />
are indeed the starting point for a physiological description of human<br />
nature. e fact that Mandeville, in the Disputatio de Chylosi Vitiata,<br />
considers digestion as consequence of a “juice” composed by “chyle” and<br />
“animal spirits” coming from brain, displays both his debt and his distance<br />
from Descartes. 29 On the one hand, he must postulate the existence of the<br />
27 Cf. Disputatio de Chylosi Vitiata, pp. A3-A4, § VI e § XV; and also Cf. Treatise 1711, pp. 73-<br />
78; Treatise 1730, pp. 83-90.<br />
28 Cf. Treatise 1711, p. 121; Treatise 1730, p. 132. Philopirio and Misomedon together with the<br />
wife of the latter, Polytheca, are the characters of the dialogues of the Treatise. e passage just<br />
quoted shows <strong>qui</strong>te clearly that Philopirio is the Mandeville’s spokesman, but in the preface of the<br />
first edition there is: “In these Dialogues, I have done the same as Seneca did in his Octavia, and<br />
brought my self upon the Stage; with this difference, that he kept his own Name, and I changed<br />
mine for that of Philopirio, a Lover of Experience, which I shall always profess to be: Wherefore I<br />
desire my Reader to take whatever is spoke by the Person I named last, as said by my self.” Treatise<br />
1711, p. xi (emphasis in the text). Why this passage disappears in the 1730 edition is still discussed<br />
(cf. F. McKee, Honeyed Words: Bernard Mandeville and Medical Discourse, in R. Porter (ed), Medicine<br />
in the Enlightenment, Amsterdam, Rodopi, 1995, pp. 223-254). Perhaps it was omitted in order<br />
to restore an identity of views with some criticism of Misomedon (probably the controversy with<br />
apothecaries) or for not influencing too much the reader about the author’s point of view. For this<br />
reason, although Philopirio can be considered as the main Mandeville’s spokesman, it is a good<br />
thing to not identify the character with the author, having the possibility that Mandeville, sometimes,<br />
can take Misomedon’s positions. ese expedients, moreover, are ‘croce e delizia’ (‘torture<br />
and delight’) for those who want to interpret the dialogues as philosophical and literary works.<br />
29 See how Descartes describes the digestive process in L’homme and with it the functions of<br />
the blood circulation referring to the theory elaborated by William Harvey in the Exercitatio<br />
anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus (Francofurti, 1628). Cf. R. Descartes, Le monde<br />
ou traité de la lumiere et l’homme, cit., pp. 120-124, where digestion is explained through the concept
60 Alessandro Chiessi<br />
“animal spirits,” to conceive a mechanical interaction between different<br />
parts of the body 30 and thus clarify the related diseases—in this case the<br />
stom-ach and the brain as organs that, in their common interrelation, re -<br />
fer to hypochondria and hysteria. On the other hand, differently from<br />
Descartes, he cannot consider “heat” and the “fire without light” as causes<br />
of digestion, because they would conflict with the experimental evidence. 31<br />
So the “animal spirits,” with their epistemological uncertainty, are the trait<br />
d’union between philosophy and medicine; coherent and, at the same time,<br />
problematic correlation, just because the “animal spirits” are observable<br />
only through the “Eye of reason.” 32<br />
e physiological description of the human body, aiming at the treatment<br />
of mental diseases with the elaboration of an explanatory theory,<br />
deeply changes not only the Mandeville’s approach to medicine, but also<br />
modifies the ontological basis of his philosophy. is radically limits the<br />
metaphysical heritage of Descartes and opens the way to a kind of empiricism<br />
that never completely closes the doors to supersensible. Philosophy<br />
and medicine, soul and body, men and brutes, are argumentative couples<br />
that involve the first en<strong>qui</strong>ries of Mandeville and that will return in the later<br />
writings with more or less predominance. e influence of Descartes, as<br />
I mentioned and as it is possible to see reading e Fable of the Bees, is<br />
of “heat” and the presence of a “fire without light;” for this last notion cf. also Id., Discours de la<br />
méthode, cit., pp. 45-46; for the role of blood, various particles—the “animal spirits”—and of heat<br />
as “corporeal principle of all movements” in digestive process cf. Id., Les passions de l’âme, cit., pp.<br />
331-335, §§ VII-X; Id., Discours de la méthode, cit., pp. 46-55.<br />
30 Remember that, in biology, a complete cell theory was formulated only in a recent past. Although<br />
Robert Hooke in Micrographia (London, 1665) observed for the first time, in pieces of cork,<br />
what he called “cells,” only in the nineteenth century with Matthias Jakob Schleiden and eodor<br />
Schwann, before, and Rudolf Ludwig Karl Virchow, after, we can talk about a cell theory as we understand<br />
it today.<br />
31 Mandeville refers, for example, to fishes’ digestion, which cannot use “heat” for activating<br />
this internal function. Cf. Disputatio de Chylosi Vitiata, p. A3, §§ IV-V.<br />
32 Cf. Treatise 1711, p. 139; Treatise 1730, p. 170. e theme of an unknown part of nature and<br />
the need of its discovery is mentioned in the Oratio scholastica: “Est ita natura comparatum, ut occulta<br />
quadam ac blanda naturae vi atque tacita ingenii inclinatione ad diversa studia, nescio quomodo,<br />
homines abripiantur.” Oratio scholastica, pp. 3-4. To examine this issue cf. M. Simonazzi, La malattia<br />
inglese: la melanconia nella tradizione filosofica e medica dell’Inghilterra moderna, Bologna, il Mulino,<br />
2004, pp. 350-351; Id., Le favole della filosofia, cit., pp. 114-115.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 61<br />
dampened and consequently philosophical argumentations about soul,<br />
thought, reason and feeling are then limited. 33 Henceforth, in the reflections<br />
about the investigative method and the medical deontology, what becomes<br />
preeminent is empiricism, an empiricism that is not dogmatic and<br />
that is—if I can use this expression—in fieri. 34 Properly this change, joined<br />
and perturbed by satirical elements, 35 will have a decisive role in the development<br />
and in the results produced by the en<strong>qui</strong>ry concerning mankind—<br />
the in<strong>qui</strong>ry into human nature—and community—intended as society.<br />
e medical profession: from medicine to (empirical?) philosophy<br />
A Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Passions, which became<br />
A Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Diseases, 36 is one of the most<br />
central writings for interpreting the thought of Mandeville. e importance<br />
of this treatise is also shown by the care with which Mandeville worked on<br />
it during several years. 37 e medical problems he dealt with during his<br />
youth in the Disputatio de Chylosi Vitiata are here deepened and systematically<br />
related to hypochondriac and hysteric diseases. In addition to this<br />
there is a sort of synthesis concerning investigation, analysis and method<br />
of treatment, which relates not only to medicine but also to philosophy.<br />
Mandeville works inside the philosophical and medical couple to delineate<br />
and increase—more or less consciously—his reflections. Although<br />
33 Cf. Fable I, pp. 44, 180-181; Fable II, pp. 139-140, 165-168.<br />
34 After he moved to London, some writings that exerted a strong influence on Mandeville included<br />
Isaac Newton’s Principia, the political and philosophical works of omas Hobbes and John<br />
Locke’s Essay.<br />
35 Here I mention only its importance, however cf. P. Harth, e Satiric Purpose of the “Fable<br />
of the Bees”, «Eighteenth Century Studies», 2 (1969) 4, pp. 321-340.<br />
36 e first title is referred to the 1711 first edition—reprinted without changes in 1715—the<br />
second title, instead, is referred to the 1730 revisited and extended edition. For a chronology of the<br />
Mandeville’s publications with the Treatise, cf. footnote 5; for the bibliographical references cf. footnote<br />
9.<br />
37 Cf. S.H. Good, Introduction to Treatise 1730, pp. vi-vii; D.H. Monro, e ambivalence of<br />
Bernard Mandeville, Oxford, Clarendon press, 1975, p. 48; A. Branchi, Medicina e morale agli inizi<br />
del settecento in Gran Bretagna, in L. Turco (ed), Filosofia, scienza e politica nel Settecento britannico,<br />
Padova, Il poligrafo, 2003, pp. 337-351.
62 Alessandro Chiessi<br />
the title seems to relate the book to a traditional scientific text, as I mentioned,<br />
38 the Treatise adopts a dialogical frame for staging a discussion between<br />
a physician, its patient and the latter’s wife, that are: Philopirio, Misomedon<br />
and Polytheca. 39 e stylistic choice is not accidental. It is part of<br />
a specific program. e game of the different points of view can give an<br />
adequate solution both for the particular questions rising during the discussion—they<br />
can be the explicative theories about hypochondria and hysteria<br />
or the physiological models, in vogue at the time, describing the functions<br />
of the human body—and for the purposes of these dialogues: the patient’s<br />
treatment. Beyond the strict aim, namely the search of an adequate<br />
remedy for Misomedon, Mandeville presents a physiological theory when<br />
he also explains the aetiology of hypochondria and hysteria. is is not a<br />
secondary matter, because physiology of passions can be delineated starting<br />
from the mechanical description of human body, with all its philosophical<br />
implications. e fact that the Treatise was published for the first time in<br />
1711, before e Fable of the Bees and the resulting uproar, and was then<br />
reissued in 1730, expanded with more than a hundred pages—after the<br />
scandal, the Grand Jury vicissitudes and the publication of the second part<br />
of e Fable of the Bees—shows a sort of continuity between Mandeville’s<br />
medicine and philosophy. Beyond the analysis of the textual additions,<br />
such as those concerning the utility of mathematics in medicine, 40 it is im-<br />
38 Cf. footnote 28.<br />
39 Philopirio, as Mandeville wrote (Treatise 1711, p. xi), would mean the “Lover of Experience;”<br />
through the same criteria—to find the hidden sense from the Greek etymology—Misomedon<br />
would mean ‘who hates the treatments’ and Polytheca ‘who use a lot of drugs’. Mandeville,<br />
choosing the characters’ names, standardizes but at the same time stereotypes them, so providing to<br />
the reader a clue from the beginning.<br />
40 In this case the textual addictions are: Treatise 1730, pp. 171-206. After more or less twenty<br />
years from the first publication of the Treatise, Mandeville wanted to express his point of view about<br />
the role of mathematics in medicine, probably stimulated by the echo aroused in science after the<br />
publication of the Isaac Newton’s Philosophiae Naturalis Principia Mathematica (London, 1687); cf.<br />
Treatise 1730, p. 175, where, among other things, are mentioned Newton and the Royal Society.<br />
During the first part of the eighteenth century ‘Newtonianism’ was on the rise and in that period<br />
the separation between ‘natural philosophy’ and ‘science’ began to be established; for an outlook on<br />
the Principia’s reception in England and in the rest of Europe with a particular attention to France,<br />
and for an idea of the different ‘Newtonianisms’ cf. R. Schofield, An Evolutionary Taxonomy of<br />
Eighteenth-Century Newtonianisms, «Studies in Eighteenth-Century Culture», 7 (1978), pp. 175-192.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 63<br />
portant to trace the changes that mark a different feeling or a diverse philosophical<br />
trend into Mandeville’s thought, such as the conception of soul<br />
and its relation to body. Recalling the second argumentative couple—philosophy<br />
and medicine, soul and body, men and brutes—it is observable a<br />
reduction of the early Cartesianism in favour of a materialism close to<br />
Hobbes’ positions. e substantial distinction between soul and body stated<br />
in the first writings, here, is limited and discussed. ere is a sort of<br />
convergence of the immaterial substance on the material one and, with<br />
that, a conjunction of men and brutes, so creating a flattening not only<br />
quantitative—“res cogitans” is brought to “res extensa”—but also qualitative:<br />
men are not (substantially) different from brutes. A textual passage<br />
clearly testifies this transition.<br />
Philopirio—the “Lover of Experience”—is Mandeville’s spokesman<br />
and Misomedon his sceptical interlocutor. 41 Although this distinction can<br />
be useful to identify the points of view, it must not bring to fix the characters’<br />
roles and it must not always lead to consider the result of the Mandeville’s<br />
thinking what Philopirio says. Conversely, this narrative solution<br />
allows Mandeville to write and, in part, to assume some radical positions<br />
that otherwise would have been the subject of a scandal. In other words,<br />
this can allow him to embrace not easy philosophical and ontological positions<br />
without facing of his responsibilities: for example, the devaluation<br />
of the substance of soul. Probably it is not accidental that this theme is discussed<br />
in the Treatise and in the second part of e Fable of the Bees: both<br />
dialogues. Observing two passages of the Treatise, one from the 1711 and<br />
the other from the 1730 edition, I would present the changes that led Mandeville<br />
to discuss his early Cartesianism in favour of a Hobbesian materialism,<br />
which opens the way to physiological naturalism. More exactly, the<br />
mechanism related to the ontological distinction between soul and body is<br />
reduced to the material dimension of the physiological functions. Into<br />
these limits, mechanism is employed to give an internal explanation of the<br />
same physiology—so of human nature and of nature tout court—about the<br />
origins of thought and mind, formerly considered, from a Descartes’ point<br />
of view, characteristics of soul.<br />
41 Cf. footnote 28 and 39.
64 Alessandro Chiessi<br />
e discussion between Philopirio and Misomedon is aimed to the latter’s<br />
treatment. is allows Mandeville, both to investigate generic arguments<br />
about medicine, specifically, physiology, and to apply an unusual<br />
medical treatment: a therapy based on dialogue. 42 Connecting himself to<br />
early works and, in particular, to his degree thesis—the Disputatio de Chylosi<br />
Vitiata—in which gastric diseases were investigated, Mandeville recalls<br />
the effect-cause link that shows how “animal spirits” failure can influence<br />
the digestive process. In the Treatise, however, he goes on and correlates<br />
these gastric variations to hypochondria and hysteria. He tries to develop<br />
a treatment in which, through experience in practical medicine—and so<br />
the knowledge of human nature—and the observation of a particular case<br />
study, he can limit the pharmacology. Not surprisingly, at the end of the<br />
Treatise, the therapy prescribed by Philopirio to Misomedon consists of a<br />
balanced diet and the practice of physical activity. 43 is conclusion shows<br />
the differences between this unusual medical treatise and Mandeville’s degree<br />
thesis, which was closed by a long series of recipes or pharmacological<br />
prescriptions.<br />
e search for an epistemic basis for the existence of “animal spirits”<br />
creates a lot of problems for Mandeville. After a distinction between the<br />
“Art of Medicine” and the “Practice” of it, Philopirio states between them<br />
a mutual relation that is a limitation. e speculation of “Art” must be<br />
guided by the observation of “Practice,” because one can understand both<br />
the particular case study and the human nature only through a posteriori<br />
knowledge. is is Mandeville’s empiricism. e observation, as well as<br />
providing objects of research, bounds reason in the speculative moment;<br />
42 To deepen this admissible interpretation, see what Simonazzi defines “the therapy of word;”<br />
cf. M. Simonazzi, La malattia inglese, cit., pp. 372-385.<br />
43 Here I distance myself from Mauro Simonazzi’s opinion, in which Mandeville is a radical<br />
empiricist, because, analysing a particular case study (Misomedon’s case study), he develops on it a<br />
specific treatment. From my point of view, although, in this writing as in the others, Mandeville—<br />
as every author—wants to create an identification between characters and readers, there is a paradigmatic<br />
value expressed, not only, by the estrangement of a literary fiction—what is written, being<br />
written, even in its singularity, deserves to be denoted from the rest—but also by the fact that the<br />
choice of determinate themes is connected to an hermeneutic-interpretative specific purpose—we<br />
talk about something that, in its specificity, refers to those generic elements, which, with their illustrative<br />
value, can describe a general reality. Cf. Ivi, p. 383.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 65<br />
therefore the en<strong>qui</strong>ry for causation must start from effects and not inversely.<br />
We are dealing with an empirical-inductive method that, moving from<br />
specific objects—for example a particular disease or case study—builds<br />
through reason limited by the same object a causal explanation, which can<br />
be made universal but not absolute. 44 e denial of a priori knowledge—<br />
and with it the necessary adherence to investigated objects—leads implicitly<br />
to the devaluation of right reason. According to Mandeville, in medicine,<br />
it is necessary to measure the observation to objectivity, an objectivity<br />
that has not clear boundaries. From here springs the criticism about reason,<br />
intended as “idol;” 45 this faculty is praised because of physicians’<br />
pride, which is, at last, a common characteristic—or better a passion—of<br />
mankind. is preliminary discussion can clarify why Mandeville considers<br />
medicine an “Art” and not a “Science.” In a case study—as, generically, in<br />
a detailed observation—the object of research is seldom certain; actually,<br />
an observer can come against a lack of the anatomical description and, at<br />
the same time, a linguistic lack in denotation of the elements that constitute<br />
the same object: the human body. 46 So the language is lacking of<br />
words for describing the littlest parts of the anatomical framework 47 or, on<br />
the other side, the object hides itself showing effects that need other, not<br />
observable, physiological factors, which however receive an attribution of<br />
meaning. In this way language exceeds empirical data. is is the case of<br />
“animal spirits” that, not being experimentally observable, can be supposed<br />
through the expedient of the “Eye of reason.” is solution gives, from the<br />
beginning, some problems inasmuch as Mandeville in the 1730 edition<br />
adds almost twenty pages to explain the function and the relation of “ani-<br />
44 For a more extensive discussion about Mandeville’s empirical method, see A. Chiessi, Mandeville<br />
e la necessità dei vizi: ricchezza e corruzione, in P. Vincieri (ed), Corruzione, decadenza, declino,<br />
Bologna, d.u.press, 2011, pp. 167-197, especially pp. 169-182.<br />
45 Cf. Treatise 1711, pp. 53-54; Treatise 1730, p. 62.<br />
46 On these arguments, the paradigmatic discussion is the one showing the differences between<br />
mathematics and medicine; cf. Treatise 1730, p. 183.<br />
47 is lack is also felt in the formulation of the distinction between “Self-love” and “Self-liking,”<br />
where just “Self-liking” is a neologism created for explaining the social relations between individuals.<br />
Cf. Fable II, pp. 129-132, and B. Mandeville, An En<strong>qui</strong>ry into the Origin of the Honour and<br />
the usefulness of Christianity in War, London, printed for John Brotherton, at the Bible in Cornhill,<br />
1732, pp. 3-7 (hereafter quoted as An En<strong>qui</strong>ry into the Origin of the Honour).
66 Alessandro Chiessi<br />
mal spirits” with digestive process and, so, their physiological “necessity.” 48<br />
During the discussion in their dialogues, Misomedon says: “All this I can<br />
easily assent to, nor I will I further dispute with you about the Existence of<br />
the Animal Spirits; it being a long receiv’d Opinion, you shall make the<br />
most of it.” 49 Just the fact that they are considered an “Opinion” not experimentally<br />
verified, in spite of a speculation limited by empirical observation,<br />
would bring today to consider “animal spirits” an aporia into Mandeville’s<br />
physiological description, which would collide against his same<br />
method of research.<br />
Because “animal spirits” are heuristically assumed as anatomical instruments<br />
to connect digestion to mental diseases, now it is important to see<br />
how they are described and what functions they do in human body; in<br />
other words, how they are included in a general physiological theory.<br />
Mandeville considers two kinds of “animal spirits:” those rough and grosser,<br />
which lead mechanical functions of muscular movements and of senses,<br />
and those “subtile,” which guide—also here mechanically—the act of<br />
thinking, bringing back the images produced by senses and stored in<br />
memory. 50 Conceiving this sort of physiology—that is mechanical—it<br />
would not be necessary to postulate an immaterial substance for justifying<br />
the abstract functions of thinking. is claim is not so easy. During the<br />
early eighteenth century, to deny the substance of the soul in abstract functions<br />
of thinking could mean being accused of atheism. ere is an explicit<br />
reference to Descartes, but there is also the Mandeville’s attempt to limit<br />
the ontological distance between soul and body in favour of a physiology—than<br />
a corporeality/materiality—that legitimizes and justifies the act<br />
of thinking in relation to the functions of the body. e two editions of<br />
the Treatise detect this philosophical change, while the second part of e<br />
Fable of the Bees shows the favourable position about the so-called thinking<br />
matter. 51 In the 1711 edition Philopirio says:<br />
48 Cf. Treatise 1730, pp. 132-153. Philopirio adopts exactly the words “Reasonableness” and<br />
“Necessity” to demonstrate the existence of “animal spirits,” cf. Ibid., p. 137.<br />
49 Ibid., p. 153.<br />
50 Cf. Treatise 1711, pp. 128-133; Treatise 1730, pp. 134, 158-164, 206-207.<br />
51 On this theme John W. Yolton’s work is central; see especially inking Matter. Materialism<br />
in Eighteenth-Century Britain, Oxford, Blackwell, 1984, in particular pp. 14-48, 153-189.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 67<br />
e Metaphysical Principle of Monsieur Des Cartes, Cogito ergo sum, is a very<br />
good one, because it is the first truth, of which a Man can well be sure, and we<br />
all agree, some few Atheists excepted, that matter it self can never think, how<br />
elaborately fine soever it may be supposed. From these two Truths it is a very just<br />
inference to say; that we consist of a Body and a Soul. How they reciprocally<br />
work upon and affect one another, ‘tis true, we cannot tell, and whether the Soul<br />
be seated in some particular part of, or is diffus’d through all the Brain, the<br />
Blood or the whole Body, is likewise not easie to be determined: But tho’ these<br />
things are Mysterious to us, yet from the Experience we have of our Composition,<br />
and what every moment we may feel within our selves, we can assert not<br />
only, that there must be an immediate Commerce between the Body and the<br />
Soul; but likewise that the action of thinking in which all, what we know of the<br />
latter, consists, is to our certain knowledge perform’d more in the Head than it<br />
is in the Elbow or the Knee: From this we may further conclude, that as the Soul<br />
acts not immediately upon Bone, Flesh, Blood, &c. nor they upon that, so there<br />
must be some ex<strong>qui</strong>sitely small Particles, that are the Internuncii between them,<br />
by the help of which they manifest themselves to each other. 52<br />
While in the 1730 edition, instead of the above quotation, there is:<br />
But then it is to be consider’d, that human Knowledge can only come a posteriori.<br />
You’ll give me Leave to trace it from the Beginning; and I’ll be content to<br />
start with Monsieur Descartes, and at my first setting out to doubt of every thing.<br />
Now as Doubting must always imply inking, and it is impossible that I should<br />
perceive the first without being confident of the latter, I take this his Metaphysical<br />
Principle, Cogito, ergo sum, to be a very Just one; because it is the first Truth<br />
of which a Man can be well sure: and if from our being conscious that we think,<br />
we may not safely conclude that we exist, then we can be certain of nothing. e<br />
next thing to be en<strong>qui</strong>r’d into is, what it is, which Part of us, that performs this<br />
Operation, this Act of inking. But here, I know very well from what you advanced<br />
Yesterday, concerning our Ignorance, as to all Properties of Matter, I shall<br />
not be able to assert any thing, strictly speaking, without Supposition. 53<br />
ese two passages clearly display that the 1711 distinction between<br />
soul and body, also supported by “animal spirits” conception as intermediaries<br />
between them—i.e. Internuncii—becomes in 1730 more wary and,<br />
52 Treatise 1711, pp. 124-125 (emphasis in the text).<br />
53 Treatise 1730, p. 154 (emphasis in the text).
68 Alessandro Chiessi<br />
probably, sceptical. In the last edition of Treatise, Philopirio must “suppose”<br />
a distinct, or rather, a substantial existence of the soul and, from<br />
that, takes the arguments set out in 1711; he considers the soul to be an architect<br />
guiding its workers, the “animal spirits.” 54 If Mandeville might not<br />
“suppose” this mutual interrelation between soul and body, he would be<br />
again a Cartesian, but it is this “supposition” that opens the way for a deep<br />
doubt 55 about the substance of the soul in relation to the abstract act of<br />
thinking. Besides this scepticism, which does not give an ontological explanation<br />
for the role of the soul in thinking activities, Mandeville explicitly<br />
argues that matter can think—during a previous discussion and, however,<br />
from Misomedon’s point of view. e argument is recalled by<br />
Philopirio himself to underline that the statements he wants to do about<br />
the soul are not strictly demonstrated (“I know very well from what you<br />
advanced Yesterday, concerning our Ignorance, as to all Properties of Matter”).<br />
Misomedon is sure that we can only be certain of body and, with it,<br />
of matter. Nevertheless it is conventional to recognize the presence of soul,<br />
because men usually prefer to say, with a gratuitous assertion—“gratis dictum”—that<br />
matter cannot think. 56 Here Descartes’ doubt is completely<br />
given up. e doubt itself that considers, as only unopposed element,<br />
thought as source of the same dubitative faculty, has not here a epistemological/ontological<br />
value and does not refer to soul and then to God, guar-<br />
54 Cf. Treatise 1711, p. 130; Treatise 1730, p. 160.<br />
55 Is the same one of Descartes? Surely not, because Descartes considers doubt part of the<br />
thinking capability, formalized in doubt itself, and so the last and incontrovertible truth, while for<br />
Mandeville doubt rises from the objective observation of reality, which cannot be excessively subjective<br />
(as, for example, Descartes’ “dream”).<br />
56 Treatise 1730, pp. 50-53. In the 1711 edition Misomedon, in correspondence of this passage,<br />
does not mention at all the possibility that matter can think, but merely criticizes human pride that<br />
through the concept of virtue, devalues body because it dies, and overestimates soul, because it is<br />
seen as immortal. “Yet this is a frailty of Nature. e Bodies contract with the Soul must be supposed<br />
to have been made at least upon an even foot, because the first was the Elder of the two, and<br />
without doubt both equally engag’d on Terms of mutual Affection and Assistance: But would you<br />
see the Depth of Human Pride; look on the uncharitable Haughtiness of Virtue itself, that make<br />
us, who are the Compound of the two, barbarously despise the most endearing half of our selves,<br />
that scorns not to be seen: And why? Because ‘tis meanly born, and will fall to decay; whilst it obliges<br />
us, to be over-fond of that insulting surly part, that is invisible only, because ‘tis thought of great<br />
Extraction, and hop’d to be immortal.” Treatise 1711, pp. 45-46.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 69<br />
antor of truth and of methodological exactness. From Misomedon’s point<br />
of view, body gains objectivity and has also, at the same time, an ontological<br />
value. Indeed body allows the knowledge of itself and legitimates the<br />
cognitive process, just because objectivity can be objectively perceived. e<br />
senses rather than thought now are<br />
guarantors of knowledge. Corporeality,<br />
through the physiological mechanism<br />
of the senses, allows the perception<br />
of matter that can be thus objectified<br />
and known through custom<br />
and practice. Starting from Descartes’<br />
positions, the shift to Hobbes’ conceptions<br />
is significant and it can be<br />
summarized as the passage from the<br />
supremacy of thought to the primacy<br />
of the senses. So there is a movement<br />
from a philosophical model, which<br />
aims at objectivity having subjectivity<br />
as the starting point (Descartes), to<br />
one which aims at objectivity starting<br />
from the materiali ty/objectivity itself<br />
(Hobbes), because the (perceiving)<br />
subjectivity is based and comes from<br />
Frans Hals, René Descartes.<br />
the corporeality, that is materiality and so objectivity. 57 Here again there is<br />
a devaluation of reason, which cannot find in thought a connection to a<br />
specific substance—“res cogitans”—and for this it lacks an ontological legitimation<br />
or uplifting. Reason is clearly related to thought, but thought<br />
is referred to a physiological mechanism and so to corporeality and thus<br />
to materiality. I point to what I said about “animal spirits,” which bring<br />
back from the memory the stored images, previously created by the sens-<br />
57 omas Hobbes wrote in the Leviathan: “ere is no other act of man’s mind, that I can<br />
remember, naturally planted in him, so as to need no other thing, to the exercise of it, but to be<br />
born a man, and live with the use of his five senses. ose other faculties […] are ac<strong>qui</strong>red and increased<br />
by study and industry; and of most men learned by instruction, and discipline.” T. Hobbes,<br />
Leviathan, vol. III, p. 16, in e English Works, 11 vols., ed. by W. Moleswort, Aalen, Scientia, 1966.
70 Alessandro Chiessi<br />
es. 58 is mechanism, however, could lead to determinism. ere is the<br />
possibility that once described the ways of action and the paths of “animal<br />
spirits,” one can foresee the results of the abstract action of thinking. Mandeville<br />
tries to solve the problem saying that we know too little about matter.<br />
Beyond that, he believes that “animal spirits” are “Instruments” of<br />
“Motion” and “Feeling” but, at the same time, he cannot—or wants—establish<br />
the causes of their actions, motions or effects. 59 e impossibility of<br />
totally observing the human body and, in particular, brain and “animal<br />
spirits” does not allow a complete mechanical description of their operations<br />
and, from that, a deterministic explication (although it remains eventually<br />
possible). Corporeity, matter and thus nature exceed human cognitive<br />
capabilities. 60 It is important to stress that, in the flattening of “res cogitans”<br />
onto “res extensa,” mechanism is no longer an ontological characteristic<br />
of the latter, but becomes an interpretative paradigm of a knowable<br />
object, in other words, of matter and, generally, of nature. Misomedon,<br />
talking about the soul-body relation, says: “When we have confess’d what<br />
every body must be conscious of, that we are far from knowing all the<br />
Properties that may belong to Matter, is it, I beg of you, more easy to conceive<br />
that what is incorporeal should act upon the Body, & vice versa, that<br />
it is that Omnipotence should be able in such a manner to modify and dis-<br />
58 Again Hobbes: “By this it appears that reason is not, as sense and memory, born with us;<br />
nor gotten by experience only, as prudence is; but attained by industry; first in apt imposing of<br />
names; and secondly by getting a good and orderly method in proceeding from the elements, which<br />
are names, to assertions made by connexion of one of them to another; and so to syllogisms, which<br />
are the connexions of one assertion to another, till we come to a knowledge of all the consequences<br />
of names appertaining to the subject in hand.” T. Hobbes, Leviathan, p. 35, in op. cit. e sensation,<br />
for Hobbes, involves conceptualization and reason can be developed on that; so: “Originally<br />
all conceptions proceed from the action of the thing itself, whereof it is the conception: now when<br />
the action is present, the conception it produceth is also called sense; and the thing by whose action<br />
the same is produced, is called the object of the sense.” T. Hobbes, Human Nature, vol. IV, p. 3, in<br />
op cit. (emphasis in the text). Mandeville does not (explicitly) talk about a “present” action of the<br />
object that creates the sensation, but about “Images received,” which, however, need it.<br />
59 Cf. Treatise 1730, p. 163.<br />
60 “It is impossible to enter into the Mechanism of them [the animal spirits], at least so far as<br />
to determine their Motions to an Angle of Incidence; more especially, when we know them to be so<br />
minute and volatile, that to some of them our very Bones are pervious.” Treatise 1711, p. 140; Treatise<br />
1730, p. 171 (emphasis in the text).
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 71<br />
pose Matter, that without any other Assistance it should produce ought<br />
and Consciousness?” 61 Here the Locke’s echo is unmistakable. 62 But at the<br />
same time, Mandeville would like to avoid the charge of atheism: always<br />
around the corner.<br />
A position as strong as this is in the second part of e Fable of the<br />
Bees; in this book, Cleomenes—the Mandeville’s spokesman—talking with<br />
Horatio clearly suggests that matter can think because “the Effects of<br />
ought upon the Body are palpable” and “several Motions are produced<br />
by it, by contact, and consequently mechanically.” 63 Once again mechanism<br />
explains corporeity—to be intended as matter—and once again human<br />
cognitive capabilities are not able to find a possible first cause. 64 Nevertheless<br />
“We have some tolerable Ideas of Matter and Motion; or, at least,<br />
of what we mean by them […]. But the Soul is altogether incomprehensible,<br />
and we can determine but little about it, that is not reveal’d to us.” 65<br />
e statement is prudent; although thought takes place without a soul that<br />
legitimizes it—so Mandeville maintains that the soul does not interfere<br />
with the thinking activities as an architect does not work while workers are<br />
building a house 66 —at the same time he does not deny the Revelation and<br />
everything around it. Once again the flattening of soul onto body could<br />
approach mankind and brutes. Indeed the distinction of the Disputatio<br />
philosophica de Brutorum Operationibus is smoothed out in favour of an inclusion<br />
of mankind among brutes. Again, during the discussion about<br />
soul, thought and feelings, Horatio asks Cleomenes if animals can think.<br />
Cleomenes so replies:<br />
61 Treatise 1730, p. 51 (emphasis in the text).<br />
62 Cf. J. Locke, Essay concerning Human Understanding, vol. II, IV, cap. III, § 6, pp. 331-359,<br />
in e Works of John Locke, 10 vols., Aalen, Scientia, 1963. Cf. also J.W. Yolton, op. cit., pp. 14-28.<br />
Mandeville goes on, always from Misomedon’s point of view, saying that the death of the body<br />
does not imply the annihilation of the soul, because, at the end of the times, the Resurrection will<br />
lead to a new birth of both, solving in this way a debated theological problem: “the Question of the<br />
Soul’s intermediate State between Death and the Resurrection” (Treatise 1730, pp. 51-52). Mortalism<br />
had been however an active position since the late seventeenth century; cf. N.T. Burns, Christian<br />
mortalism from Tyndale to Milton, Cambridge (Mass.), Harvard University press, 1972.<br />
63 Fable II, p. 164.<br />
64 Ibid.<br />
65 Ivi, p. 168.<br />
66 Ivi, p. 164.
72 Alessandro Chiessi<br />
Cleo. I believe they do, though in a Degree of Perfection far inferior to us.<br />
Hor. What is it, that superintends ought in them? where must we look for it?<br />
which is the main Spring?<br />
Cleo. I can answer you no otherwise, than Life.<br />
Hor. What is Life?<br />
Cleo. Every body understands the Meaning of the Word, though, perhaps, no<br />
body knows the Principle of Life, that Part which gives Motion to all the rest. 67<br />
Recalling two of the argumentative couples, i.e. the flattening of soul<br />
onto body and the related closeness between mankind and brutes implies<br />
a shift from mechanism to a sort of materialism, which sets life as cause<br />
that “gives Motion to all the rest.” So the mechanistic paradigm explains<br />
descriptively the mechanism of “animal spirits,” but at the same time, finds<br />
in the concept of life an explanation of motion, that is a physiological motion<br />
and so natural. is is why I talk about physiological naturalism in<br />
relation to Mandeville’s thought: with this category, I think, it is possible<br />
to trace but also to summarize empiricism, Hobbes’ materialism and<br />
Descartes’ mechanism. 68 Using a reverse process compared to a posteriori<br />
empirical cognitive method, nature can be considered an ontological principle,<br />
which brings to human nature—metaphysically corrupted. Human<br />
nature, in turn, finds in life the causal principle of the mechanical motion<br />
of these particles— “animal spirits”—which, at the end, allow the movement<br />
of body, feelings and thought. So human (and animal) nature is part<br />
of nature tout court and from it flow a mechanical description of the corporeal/material<br />
and mental movements. Nevertheless, in Mandeville’s<br />
thought, there is yet a problem: the relation between human nature and<br />
nature. If human nature can be viewed metaphysically corrupt, 69 the same<br />
67 Ivi, pp. 166-167.<br />
68 From my point of view here I cannot talk about <strong>vita</strong>lism, because I’m not dealing with a theory<br />
that wants to give priority to the structure in respect to the elements composing it. Mandeville<br />
empirically—as the anatomist of human nature—considers “animal spirits” as instruments that, being<br />
material, mechanically act and find in life their cause. Life itself is part of human nature and the<br />
latter, part of nature tout court. To interpret Mandeville as anatomist of human nature, cf. E. Lecaldano,<br />
Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1991. To deepen the Mandeville’s<br />
concept of corrupted (human) nature and its metaphysical implications, again cf. A. Chiessi,<br />
Mandeville e la necessità de vizi, in P. Vincieri (ed), Corruzione, Decadenza, Declino, cit., pp. 167-197.<br />
69 Fable I, p. 166.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 73<br />
is not for nature tout court: it can be only presumed. If there is a post-<br />
Adamic corruption for human nature, is there for nature tout court? Or,<br />
being subjected to becoming, is nature corrupt? ese are open questions<br />
to which Mandeville does not clearly answer. In addition, one should<br />
analyse the role of “Providence” and<br />
the relation it entertains not only<br />
with nature, but also with mankind,<br />
other living beings and events that,<br />
from our point of view, are calamitous.<br />
70<br />
Why is physiological naturalism<br />
not accepted? Why are the substantiality<br />
of soul and the substantiality<br />
of body equal? How does mankind<br />
distinguish itself from brutes? To<br />
these questions, Misomedon answers<br />
rather caustically.<br />
e Body of Man is thought to be of<br />
mean Descent; the animal Functions<br />
of it have a near Resemblance to the<br />
same Functions in Brutes: It is generated and born like theirs; and the difference<br />
between the Bodies of Men and those of Beasts is still less in their Decay […].<br />
erefore the greatest Philosophers, before Christianity as well as since, have taken<br />
up strong Resolutions to believe the Soul to be immortal; tho’ some of them<br />
have own’d, at the same time, that they had no other Reason for such a Belief,<br />
than what was suggested to them by Self-love […]. Oh, the unfathomable depth<br />
of human Pride! 71<br />
omas Hobbes.<br />
Physiological naturalism puts the soul in a religious perspective; moreover,<br />
it provides a mechanical description for abstractive functions of<br />
thinking and for other physiological activities; it states that life is the cause<br />
of motion and, at the end, it provides an empirical explanation for and into<br />
nature; so, according to Mandeville, physiological naturalism is not ac-<br />
70 Cf. especially Fable II, pp. 243-246.<br />
71 Treatise 1730, pp. 52-53.
74 Alessandro Chiessi<br />
cepted because it conflicts with the representation that mankind wants to<br />
give of itself. To claim that mankind is part of the nature, that it is matter,<br />
that it finds in mechanism a descriptive paradigm, means to put it on the<br />
same level of beasts—of brutes—means to show its vanity, means to unmask<br />
its “pride,” means to hurt its “self-love.” So physiological naturalism<br />
collides against human passions, because “pride” and “self-love,” for Mandeville,<br />
are human passions and as such they are fundamental elements of<br />
human nature.<br />
Since all human activities are related to the mechanical movements of<br />
the “animal spirits,” the same thing can be said about passions. 72 Not only<br />
do thought and rationality come from a corpuscular—and thus material—<br />
mechanism, but also those abstract—not rational—elements that, at last,<br />
become the cause of human actions through their capability in creating<br />
needs and wishes. 73 rough a posteriori analysis again, Mandeville, after<br />
having displayed in the Treatise a physiological and so natural foundation<br />
for passions, in e Fable of the Bees, tries to discover what passions lead<br />
human actions. e object of research now is not the single man, but<br />
72 Talking about “animal spirits” Philopirio states: “You shall call this a Supposition, if you<br />
please; but I have laid no manner of Stress upon, either the Difference of the Elasticity or various<br />
Contexture of their Parts, which yet that there must be will be evident, when we come to consider,<br />
that not only the Difference there is often in Constitutions and bodily Strength; but likewise good<br />
and ill Tempers, Passions of the Mind, Courage and the Want of it, Wit and Foolishness, and many<br />
other things not to be discover’d but from the Effects they have upon the Actions of Men, can be<br />
owing to, and depend upon nothing else, than the Difference in the Texture of Parts, Tone, Elasticity,<br />
or some other Quality of that wonderful Fluid, which we call the animal Spirits.” Treatise 1730,<br />
pp. 207-208. Cf Treatise 1711, pp. 141-142; where, more or less, there is the same passage. I underline<br />
that Philopirio refers to “Passions of Mind” and not to “Passions of Soul,” as Descartes did. Although<br />
in seventeenth and eighteenth century ‘soul’ and ‘mind’ often were synonymously used, from<br />
my point of view, here there is another proof of the distance between Descartes and Mandeville.<br />
73 I conventionally give a priority to needs in respect to wishes. I think that needs are referred<br />
to feelings, for this reason someone feels something: hunger, thirst, sexual instincts, together the<br />
other ‘cultural’ needs, such as clothes of a particular shape, cars, etc. While wishes, from my point<br />
of view, rise from these feelings around one or more needs and become, in their abstract and imaginative<br />
dimensions, the cause of actions (through will? Why not, in particular if we refer to Hobbes’<br />
definition in the Leviathan: “the last appetite in deliberating”). e process, however, can be reversed<br />
and an imagined wish can create a sensible need. In other words I consider needs as part of<br />
the feelings’ area and wishes as part of the abstract thinking area. is appendix, which is a conventional<br />
generalization and therefore limited and partial, is aimed to clarify the role of passions in<br />
senses and mind.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 75<br />
mankind living in early eighteenth century London: a contemporary city<br />
of Mandeville, the city where he lives. Although his analysis is developed<br />
together a moral judgment and definition of passions—seen as vices—here<br />
my aim is to briefly show which of them are considered fundamentals in a<br />
relational context and how, simultaneously,<br />
they can bring to sociability, starting from<br />
their unsocial characteristic. In an heterogeneous<br />
analysis, refined during the years and,<br />
at the end, more clear and complete, Mandeville<br />
reckons “pride”—the same “pride” mentioned<br />
by Misomedon—as the passion characterizing<br />
mankind in a social context. 74<br />
Passions are a sort of ‘zero degree’, common<br />
characteristic of everyone. Everybody has<br />
them and everybody is driven to act under<br />
their influences. e different human behaviours<br />
come from the various intensities or<br />
from the mixture of passions. “Self-denial” itself,<br />
which wants a rational choice to limit the<br />
impulses of passions in the name of virtue,<br />
could be founded on a passion, “pride.” Behind<br />
this rational choice there would be the<br />
Frontespizio della Favola delle api<br />
di Mandeville.<br />
presumption that curbing passions can show a distinction and a moral value<br />
increase in respect to both other men and animals. 75 At the end, this<br />
choice is changed in a concealment of passions, displaying so the trouble<br />
or the impossibility of a “Rational Ambition of being good” and the gap<br />
between the real virtue and the pretended virtue. Once again there is a devaluation<br />
of reason, which, in this conceptual context, is subdued to passions—in<br />
particular to “pride”—performing in that way an instrumental<br />
function. Reason, being part of the mechanical actions of thinking as well<br />
74 Here the reference is to the Remark M, cf. Fable I, pp. 124-134; It is important to mention<br />
that Mandeville in e Grumbling Hive already connects “Pride” to the production activities (cf.<br />
Fable I, p. 25).<br />
75 is is the thesis expounded in An En<strong>qui</strong>ry into the Origin of Moral Virtue; cf. Fable I, pp.<br />
41-57.
76 Alessandro Chiessi<br />
as passions, is qualitatively lower just because it finds its proper cause in<br />
passions. Needs and wishes, given by passions, drive reason. From here it<br />
could be stated that men do not reason for reasoning, as men do not think<br />
for thinking, but men reason and think to pursue aims created by passions;<br />
first of all, virtue intended as a distinctive quality of somebody in respect<br />
to others and of mankind in respect of other living beings. Mandeville<br />
makes a reduction and finds in “pride” the basis of men’s relations and of<br />
society. Actually this passion “is that Natural Faculty by which every Mortal<br />
that has any Understanding over-values, and imagines better ings of<br />
himself than any impartial Judge, thoroughly acquainted with all his Qualities<br />
and Circumstances, could allow him.” 76 He continues claiming that<br />
“no other Quality” is “so beneficial to Society, and so necessary to render<br />
it wealthy and flourishing.” 77 Being this consideration obtained from the<br />
observation of the inter-individual relations of his fellow citizens, Mandeville<br />
feels a possible aporia because the intrinsic conflict of the various selfoverestimations<br />
would collide against the factual sociability of mankind.<br />
He solves this problem continuing to investigate the “Chain of Causes”<br />
and detecting in “pride” two different but complementary elements: “Selflove”<br />
and “Self-liking.” In this way it is possible to see the two sides of the<br />
same coin. “Self-love,” then, is a human passion through which everyone<br />
is able and seeks his self-preservation. Since there is no living being that<br />
can love something it dislike, it is necessary that everyone is pleasing to itself.<br />
Self-preservation leads human beings to instinctively overvalue their<br />
different qualities, creating in them a desire for dominating others. is<br />
“Principle of Selfishness,” 78 as Mandeville defined it, can become “Instinct<br />
of Sovereignty” 79 or remain a simple instinct of self-preservation, aimed to<br />
satisfaction of basic needs: what concerns hungry and what pertains to sexual<br />
desires. “Self-love,” in the in<strong>qui</strong>ry of social relations and the analysis of<br />
human nature, seems to bring in itself a constant doubt, which challenges<br />
the overvaluation of human capabilities and gives a glimpse to mankind of<br />
76 Fable I, p. 124.<br />
77 Ibid.<br />
78 Fable II, pp. 272-273.<br />
79 Ibid.
e other Mandeville: the origins of a scandalous thought. Mechanism, ecc. 77<br />
its real capabilities. is lack of self-confidence leads human beings to seek<br />
others’ approval so that nobody could doubt about its good opinion. is<br />
is “Self-liking” with its related desire of praise<br />
and love of being applauded by others. 80 In<br />
Mandeville’s analysis, “pride” of someone into<br />
a society, according to the different degrees of<br />
manifestation, is characterized by this dualism<br />
which shows, on one hand, the individual<br />
passion of “Self-love” and, on the other, the<br />
social passion of “Self-liking.” is distinction—let<br />
me remind it—has a basis in the<br />
mechanism of “animal spirits,” as indeed, in<br />
all other movements: actions, senses, thoughts<br />
and exactly passions. So, consequently, what<br />
ever is created by mankind in society—from<br />
the symbolic to material products, from fash-<br />
ion to goods—leads to nature as ontological<br />
principle, which is then veiled and hidden by<br />
the artificiality of poietic-creative acts.<br />
Frontespizio del De Homine<br />
di Descartes.<br />
Recalling the parallelism between mankind and brutes, which shows<br />
that there is no substantial difference between soul and body, one can detect<br />
passions as a common characteristic among the different living beings.<br />
But “Self-liking” and reason guided by “Self-liking” are a typical characteristic<br />
of mankind, so typical that through their stimulation and management<br />
it is possible to control the impulses of the other passions for accustoming<br />
human beings to government. 81 So between mankind and brutes,<br />
there is a qualitative difference, but now this is not substantial, founded on<br />
the idea that soul is the peculiar, noble and ontological characteristic of<br />
human beings; now this qualitative difference is based on the various expressions<br />
of passions. Men, through “Self-liking,” are able to flatter each<br />
80 e argument is hinted in the first part of e Fable of the Bees (cf. Fable I, p. 124) but it is<br />
explicitly developed in the second part of e Fable and in An En<strong>qui</strong>ry into the Origin of the Honour<br />
and the usefulness of Christianity in War; cf. Fable II, pp. 129-130, 204-205, 272; En<strong>qui</strong>ry into the Origin<br />
of the Honour, pp. 3-7.<br />
81 Cf. Fable II, pp. 78-79.
78 Alessandro Chiessi<br />
other, and from here, to gain agreements for their interests, which, for the<br />
most part of them, are unconscious and which, for preserving themselves,<br />
should not be disclosed. is is a symbolic póiìsis of passions, which being<br />
based on human nature does not need to be disclosed in order to preserve<br />
and develop itself.<br />
is intertextual path that from medicine passes to philosophy displays<br />
how Mandeville leaves the systematic doubt of Descartes, with its related<br />
necessity of a metaphysical/ontological foundation for objectifying reality<br />
(for distinguishing the waking reality and dreams, for example). At the<br />
same time, this analysis shows how Mandeville recognizes the objectivity<br />
of nature—and of human nature—that brings in itself truth inasmuch as<br />
nature is objective, observable and so represented.<br />
Nature is what it is, nature has an intrinsic objectivity and, through<br />
this objectivity, nature can become an ontological principle and so describe<br />
mankind from a physiological point of view that is, at the same time, substantial<br />
(“res extensa”). “e solid Observation of never-erring Nature” 82<br />
has its advantages but also its inconveniences: showing the finitude of<br />
mankind means to compete against its main passion, “pride;” at the same<br />
time connecting physiology to mechanical movements, and including in<br />
these thought and reason, means to devaluate its presumed excellence and<br />
to show its mediocrity (which, for a man affected by “pride,” seems surely<br />
meanness). So paraphrasing a famous fairy tale, and considering everybody<br />
(with its passions) as sovereign of his kingdom, those are the ‘emperor’s<br />
new clothes’: ‘the king is wearing nothing!’<br />
82 Treatise 1711, pp. iii-iv; Treatise 1730, p. iv.
Giuseppe Pezzino<br />
Platone in Italia<br />
INforMaTo Da PerSoNa MoLTo aDDeNTro alle segrete cose, vado a<br />
trovare Platone che, di ritorno dalla Germania della Reichskanzler Angela<br />
Merkel, è di passaggio in Italia per far vela alla sua Atene devastata dalla<br />
crisi. È stanco il sommo filosofo: stanco del viaggio e soprattutto stufo della<br />
Merkel che, a chi le parla di dramma della Grecia, dà sulla voce perché<br />
non esiste alcuna dracma greca, bensì l’euro. Ma la sua figura bella e nobile<br />
mi dice che nulla, in questo vecchio dalla lunga barba bianca e dagli occhi<br />
vivi e penetranti, è andato perduto dell’antica energia fisica e mentale. Circondato<br />
da un gruppo di discepoli, egli avanza con quel passo maestoso<br />
che proviene bensì da natura e non già da superbia. Infatti, senza perdere<br />
alcunché della sua nobiltà, mi accoglie e mi libera dall’impaccio con segnali<br />
di modestia, di quell’autentica modestia che solo gli autentici grandi possiedono.<br />
Congedati i discepoli, mi in<strong>vita</strong> a passeggiare per i viali di un giardino<br />
di sogno mediterraneo. L’ombroso verde tenta, non sempre vittorioso, di<br />
difenderci dalla rabbia di un sole meridionale che non vuol capacitarsi che,<br />
a fine maggio, non si può pretendere di ruggire come il solleone. Quan -<br />
d’ecco una panca, sotto un vecchio ed ospitale ulivo, convince Platone a<br />
sedersi. Resto in piedi, a fissare per un interminabile attimo ora il vecchio<br />
filosofo ora la mia paura. Poi prendo un granellino di coraggio; ed esordisco<br />
nel peggiore dei modi:<br />
Innanzi tutto Vi ringrazio per avermi ricevuto… ecco, non so come rivolgermi<br />
a Voi; posso darvi del Maestro? Per me sarebbe un grande onore… mi<br />
farebbe sentire, anche se indegno, un vostro lontanissimo allievo.<br />
Maestro è una parola bellissima, segno di un ideale eterno che si cala<br />
nel fiume del divenire, del tempo, del finito e del transeunte, senza perdere<br />
79
80 Giuseppe Pezzino<br />
il suo carattere divino; segno di quella paidèia che è educazione dell’anima,<br />
formazione dell’uomo, scuola in senso alto e nobile. Maestro, dopo quello<br />
di padre, è il mestiere più bello e più difficile. Anzi, come quello di padre,<br />
è un generare figli non nel corpo ma nell’anima; un atto di creazione spirituale<br />
che ci avvicina al dio. Maestro, dunque, è il titolo più bello e più<br />
gradito che voi possiate darmi.<br />
Voi, venerato Maestro della famosissima Accademia, mi fate correre col<br />
pensiero al mondo universitario italiano, coi suoi maestri e le sue scuole, coi<br />
suoi studi sublimi, col suo cammino di una scienza che è anche e soprattutto<br />
scienza dell’uomo.<br />
A me pare, amico mio, che voi rischiate di risultare più platonico di<br />
Platone: insomma, voi vorreste indicarmi la realtà dell’accademia italiana,<br />
e invece avete spiccato il volo verso l’accademia ideale che non sta su questa<br />
terra, ma nell’Iperuranio. Perdonate, avete mai dato un’occhiata attenta alla<br />
vostra università nella sua terrena realtà? E vi pare una bella cosa? Da almeno<br />
mezzo secolo ad oggi è gravemente malata, mentre dal coro muto<br />
dei suoi chiarissimi professori si leva timido qualche singhiozzo, persino<br />
qualche lamento. Ma i gemiti sono subito soffocati in gola dall’albagìa<br />
dell’hidalgo de sangre che è in ciascuno di loro. È la pallida dignità dello<br />
sconfitto che sta ritto e zitto nel mezzo del palcoscenico della storia, con il<br />
fiero sguardo a terra, e il mento in aria, dimenticando che ha quasi completamente<br />
perso non solo la ricchezza, ma anche i privilegi e gli onori<br />
concessi alla nobiltà. Da quasi mezzo secolo la vostra università giace aggredita<br />
da mille morbi, e non ha pace, e si gira e si rigira sul letto di dolore,<br />
in attesa che dalla processione di avventurieri, ciarlatani, stregoni, cerusici<br />
e speziali, che a turno accorrono al suo capezzale, sorga un vero medico<br />
con un vero farmaco. E la povera malata attenderà invano. Invano, perché<br />
sono malati la polis, lo Stato e la società.<br />
Maestro, sommessamente oso far notare che l’università italiana versa in un<br />
ottimo stato convalescenziale. È febbre di crescita! Certamente, lo ammetto, ancora<br />
non riusciamo a laureare tutti gli italiani, ma siamo sulla buona strada.<br />
Appunto! Siete sulla buona strada con un’idea geniale: intensificare la<br />
distribuzione di lauree, ricorrendo all’antico e prestigioso istituto della lau-
Platone in Italia 81<br />
rea honoris causa. Infatti, da parte delle accademie è tutta una gara in Italia<br />
ad accaparrarsi il candidato «giusto» alla laurea ad honorem: niente perdita<br />
di tempo, niente 3+2. Basta una bella e solenne cerimonia per una laurea<br />
chiavi in mano, celeritatis causa. Comunque, sulla convalescenza dell’università,<br />
concordo pienamente: essa si agita, trema, balbetta; oggi s’inventa<br />
mille tipi di lauree, domani li smonta tutti; un giorno esce dal tempio e si<br />
dà alla movida nel territorio, un altro giorno ritorna nel chiuso muffo del<br />
tempio per spezzare il pane della scienza.<br />
In fatto d’ironia, mi accorgo che Voi siete il più degno erede di Socrate.<br />
Ma, seriamente, volete mettere in dubbio l’affiatamento che oggi c’è fra università<br />
e società? Non passa giorno che in una qualunque aula magna d’Italia non<br />
salga in cattedra un protagonista della società, per impartire lezioni e spalancare<br />
le finestre alla <strong>vita</strong> e all’aria fresca.<br />
Verissimo! L’università si spopola di professori e si riempie di una vastissima<br />
e variopinta fauna sociale che, più che all’aria fresca, a volte spalanca<br />
le finestre all’aria fritta. E così a fronte di qualche big, in<strong>vita</strong>to da un<br />
ateneo ricco e prestigioso, si colloca una marea di microrganismi sociali, di<br />
nani e di reietti, che negli atenei di serie B presentano agli studenti le loro<br />
esperienze, i loro stili di <strong>vita</strong>, i loro modelli, il segreto dei loro successi. Ex<br />
in<strong>qui</strong>lini dei bagni penali, guitti, cantanti, ecc., sono solo alcune “categorie<br />
sociali” che hanno riempito le aule universitarie di studenti che disertano<br />
volentieri le barbose lezioni dei professori, per ascoltare parole di verità e<br />
di <strong>vita</strong>.<br />
Certo, con Voi gli artisti cascano sempre male. E se nella vostra «Repubblica»<br />
condannavate persino Omero, non voglio nemmeno pensare a come caccereste<br />
gli artisti dall’università italiana.<br />
Intendiamoci. Premesso che nel libro X della «Repubblica» io esprimo<br />
a chiare lettere il mio affetto e la mia reverenza per Omero, bisogna precisare<br />
che la mia condanna contro la poesia imitativa si fonda su una categoria<br />
etico-politica. E nello stesso libro X mi chiedo perché mai i contemporanei<br />
di Omero o di Esiodo li avrebbero lasciati andare in giro a fare i rapsodi,<br />
invece di tenerseli stretti più dell’oro, se i due poeti fossero stati veramente<br />
capaci di giovare agli uomini indirizzandoli alla virtù. Insomma,
82 Giuseppe Pezzino<br />
secondo me, Omero e i suoi discendenti hanno forti responsabilità nei<br />
confronti non solo della parte razionale, ma anche di quella morale sia nella<br />
<strong>vita</strong> dell’individuo sia in quella della città. E a ciò basti quel che faccio<br />
dire a Socrate all’indirizzo di mio fratello Glaucone: «Ebbene, Glaucone,<br />
quando ti imbatti in qualche ammiratore di Omero, il quale sostiene che<br />
questo poeta ha educato la Grecia e che per il governo e l’educazione dell’umanità<br />
vale la pena di riprenderlo in mano, di studiarlo e di organizzare<br />
tutta la <strong>vita</strong> secondo i suoi precetti, devi salutare e baciare queste persone<br />
come le migliori del mondo e concedere che Omero sia il poeta sommo e<br />
il primo dei poeti tragici, ma d’altro canto devi sapere che in fatto di poesia<br />
bisogna accogliere in città soltanto inni agli dèi ed encomi di uomini virtuosi;<br />
se invece accoglierai la Musa corrotta della poesia lirica o epica, nella<br />
tua città regneranno piacere e dolore invece che la legge e quel principio<br />
che di volta in volta l’opinione comune riconosce come il migliore».<br />
Ma la vostra polis, perdonatemi Maestro, puzza alquanto di caserma. Per<br />
Voi bisogna tener fuori della legge e fuori della città gli artisti, che noi invece<br />
consideriamo uno dei pilastri non solo della cultura ma anche della politica.<br />
Per Zeus!, nella mia bella città, la kallipolis, regna l’ordine della ragione<br />
e della virtù. Cosa che voi stentate a comprendere, dal momento che, più<br />
che capovolgere valori e ruoli, voi li state addirittura mescolando disordinatamente<br />
e pericolosamente, col risultato di ottenere (perdonatemi, se uso<br />
il duro linguaggio dei nostri gloriosi opliti) una sbobba etico-politica immangiabile.<br />
Diciamola tutta con chiarezza: voi state assistendo con gioiosa<br />
incoscienza, da un canto, alle gesta di uomini politici che raggiungono l’eccellenza<br />
come commedianti, saltimbanchi, predicatori quaresimali, e persino<br />
buffoni; e, dall’altro, allo spettacolo di cabarettisti che indicano la via<br />
maestra del riscatto politico, di comici che fondano movimenti o partiti<br />
politici, di cantanti che aprono il dibattito sul senso della <strong>vita</strong> o che dettano<br />
il nuovo decalogo della religione e della politica. Insomma, un caos!,<br />
per dirla sommessamente alla greca e in maniera più decente della vostra<br />
parlata italiana!<br />
Chiedo venia, venerato Maestro, ma debbo proprio dirlo: col vostro progetto<br />
politico, se foste vissuto nel Novecento, avreste ottenuto a furor di popolo il
Platone in Italia 83<br />
Premio Stalin. È lo Stato che stabilisce il comunismo delle donne e dei beni; è<br />
ancora lo Stato che gestisce la politica culturale, cacciando via gli artisti non<br />
allineati; è infine lo Stato che detiene il timone dell’educazione dei giovani. Vivaddio,<br />
se si fosse realizzato il vostro progetto della «bella città», la lugubre<br />
Sparta sarebbe passata alla storia come un centro fiorente di libertà, di tolleranza<br />
e di raffinata cultura.<br />
Amico carissimo, per la seconda volta mi date del «venerato Maestro»,<br />
perciò son costretto a chiedervi di abolire il «venerato», giacché non vorrei<br />
cadere in sospetto di massoneria, con tutto il rispetto per la loggia. Poi, vi<br />
dico subito che forse avrei accettato il Premio Stalin. Almeno sarei stato in<br />
compagnia del vostro Pietro Nenni, quando andava a braccetto con Palmiro<br />
Togliatti. Gente seria, tutto sommato. Immagini, invece, se mi avessero<br />
assegnato il Nobel per la letteratura! Sarebbe stato per lo meno umiliante<br />
ed imbarazzante per me. Con tutto il rispetto per certi illustri Nobel, dovete<br />
ammettere che talora si è verificata una sorta di lottizzazione (per aree<br />
geografiche; per scuderie ideologiche; per opportunità politiche, ecc.) nei<br />
criteri dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze, per cui il premio è andato<br />
nelle mani di illustri personalità, sconosciute prima e dopo l’assegnazione.<br />
Insomma, voi in Italia direste, in maniera efficace e colorita, che certi<br />
premi Nobel per la letteratura o per la pace sono stati assegnati a «cani e<br />
porci».<br />
Con tutto il rispetto, non vi pare di esagerare?<br />
Esagerare? Per Zeus!, non sono mai stato tanto serio e moderato. Pensi<br />
un po’ a me, costretto a stare accanto ad uno che ha meritato il Nobel della<br />
pace non per quello che ha fatto, ma per quello che potrebbe fare in futuro!<br />
Glissons, direbbero i vostri cugini franco-galli.<br />
Forse è meglio tornare alle vostre riflessioni politiche, che sicuramente possono<br />
aiutarci in questi momenti difficili. Non vi nascondo che sono preoccupato<br />
per il futuro della democrazia in Italia e in Grecia. E lo dico a Voi, sebbene<br />
io sappia che non avete un bel concetto della costituzione democratica.<br />
Beninteso, io ho filosoficamente disegnato lo Stato perfetto e felice, la<br />
kallipolis, la cui costituzione è quella aristocratica e comunistica: vale a dire,<br />
una costituzione fondata non sull’aristocrazia del privilegio e dell’ingiusti-
84 Giuseppe Pezzino<br />
zia, ma sull’aristocrazia della virtù, della giustizia e dell’esaltazione delle migliori<br />
capacità individuali indirizzate al bene collettivo e all’interesse generale.<br />
Ripeto, questa aristocrazia è per me la costituzione dello Stato perfetto.<br />
Una volta entrata in crisi la costituzione perfetta, si succedono quattro<br />
costituzioni imperfette, con pregi e difetti, con luci ed ombre, che sono: 1.<br />
la timocrazia o timarchìa; 2. l’oligarchia; 3. la democrazia; 4. la tirannide.<br />
A tal proposito ho parecchi dubbi, e vorrei capire meglio. Queste quattro<br />
costituzioni imperfette calano dall’alto sui cittadini, come la peste piomba improvvisa<br />
sulla popolazione, come un macigno s’abbatte sull’individuo e lo<br />
schiaccia?<br />
Niente affatto così. Anche se qualcuno vuol farmi passare per un astratto<br />
ed inconcludente filosofo che passeggia fra le nuvole dell’Iperuranio, io<br />
ho sempre legato intimamente ed indissolubilmente ogni forma etico-politica<br />
all’individuo nella sua concretezza. Perciò diciamo più chiaramente<br />
che ciascuna delle quattro costituzioni non scende certamente dal cielo né<br />
proviene dal capriccio di un dio, ma si radica piuttosto nel carattere dell’individuo<br />
e nel costume o malcostume dei cittadini. Infatti, nel libro VIII<br />
della «Repubblica», così si esprime Socrate con parole ine<strong>qui</strong>vocabili: «Non<br />
sai dunque che anche gli uomini si dividono necessariamente in tante specie<br />
quante sono le forme di costituzione? O credi forse che le forme di costituzione<br />
nascano da una quercia o da una pietra, anziché dai costumi presenti<br />
nelle città, che trascinano dalla loro parte tutto il resto, come i pesi di<br />
una bilancia?».<br />
In altri termini, la perfetta costituzione aristocratica entra in crisi, tramonta<br />
e muore, solo quando gli uomini timocratici, ambiziosi di affermazione<br />
personale e di onori, prendono il sopravvento sugli uomini buoni e<br />
giusti. E appunto perché predomina l’individuo timocratico, sorge e s’instaura<br />
la forma di governo timocratica, e non viceversa.<br />
Ma come accade che una forma di governo decada e muoia?<br />
Semplice, a causa della stasis, la discordia interna. Partiamo dalla crisi<br />
dell’ottima costituzione aristocratica: una volta che è sorta la discordia, gli<br />
ambiziosi uomini timocratici si volgono agli affari, all’ac<strong>qui</strong>sto di terra, case,<br />
oro e argento. Dopo violenze e contese reciproche raggiungono un
Platone in Italia 85<br />
compromesso sulla distribuzione di terra e case a titolo privato, riducono<br />
in schiavitù gli amici e gli incaricati al nutrimento che prima custodivano<br />
come uomini liberi, tenendoli come perieci e servi, e si occupano personalmente<br />
della guerra e della loro difesa. Evidentemente, questa forma timocratica,<br />
che ha abbattuto il comunismo dei beni ed introdotto la proprietà<br />
privata, è una sorta di via di mezzo tra la passata aristocrazia e la futura oligarchia.<br />
Sicché prevalgono i soggetti irascibili e più rozzi, atti più alla guerra<br />
che alla pace. Uomini simili saranno avidi di ricchezze e, nascosti nell’ombra,<br />
selvaggiamente venerano l’oro e l’argento, poiché avranno ripostigli<br />
e scrigni domestici dove riporre e nascondere i propri averi, e inoltre case<br />
circondate da mura, come nidi privati, nei quali consumare e spendere<br />
forti somme con donne e con chi altri vorranno.<br />
Ma allora la timocrazia, oltre ad essere una costituzione mediana rispetto<br />
all’aristocrazia e all’oligarchia, è anche una sorta di costituzione mista in sé,<br />
perché racchiude del bene e del male.<br />
Proprio così, mio caro. È una costituzione mista. Ma in essa si distingue<br />
e prevale specialmente un solo carattere, dovuto alla supremazia dell’elemento<br />
collerico: e cioè la presenza delle rivalità e dell’ambizione di affermarsi<br />
e di ricevere onori.<br />
Sarei curioso di conoscere il tipo di uomo timocratico, divorato dall’ambizione<br />
e assetato di onori.<br />
Quando ai valori etico-politici della perfetta costituzione aristocratica<br />
(virtù, ragione, giustizia, interesse generale, pace, ecc.) una parte di cittadini<br />
contrappone i valori del thymos, scoppia allora la discordia, e crescono<br />
disprezzo e derisione verso i cittadini onesti e disinteressati che, per usare<br />
il vostro linguaggio, sono considerati dei fessi. Se poi pensiamo alle nuove<br />
generazioni che non sono più educate dalla comunità, ma nel chiuso egoistico<br />
della famiglia, possiamo avere un’idea della crescente espansione timocratica.<br />
Pensiamo, ad esempio, al giovane figlio di un padre onesto.<br />
Quest’ultimo abita in una città mal governata, e<strong>vita</strong> gli onori, le cariche, le<br />
cause giudiziarie e ogni altra briga del genere e si accontenta di una posizione<br />
subordinata per non avere fastidi. A volte il giovane sente che sua<br />
madre si lamenta del marito per una serie di motivi: innanzitutto perché
86 Giuseppe Pezzino<br />
non fa parte dei governanti, il che la pone in una condizione di inferiorità<br />
rispetto alle altre mogli; poi perché vede che costui non si dà troppo pensiero<br />
del denaro, non lotta e si lascia insultare in privato, nei tribunali e<br />
nella <strong>vita</strong> pubblica, anzi sopporta questo genere di comportamenti con indolenza.<br />
Ella si duole di tutto ciò. E dice al figlio che suo padre è vile e<br />
troppo rilassato, e le altre litanie che le donne sono solite ripetere in queste<br />
occasioni.<br />
Uscendo di casa il figlio ascolta e vede altre cose del genere: chi in città<br />
non è ambizioso ha la nomea di «fesso» ed è tenuto in scarsa considerazione.<br />
Chi invece si comporta in modo contrario è un «furbo» (ci sa fare, direste<br />
voi!) e riscuote onore, ammirazione e lode. Allora il giovane, sentendo<br />
e vedendo tutto ciò, e inoltre ascoltando i discorsi del padre e osservando<br />
la sua condotta da vicino, la quale differisce da quella degli altri, subisce<br />
l’attrazione di entrambe le forze: quella del padre, che instilla nell’anima<br />
l’elemento razionale; e quella degli altri che invece esaltano l’elemento concupiscibile<br />
e impulsivo. Insomma, questo giovane non è figlio di un uomo<br />
malvagio, ma ha frequentato cattive compagnie. Trascinato da entrambe<br />
le parti, egli si trova lacerato nel mezzo e finisce con l’affidare il governo di<br />
sé all’elemento battagliero e impulsivo, diventando un uomo superbo, ambizioso,<br />
collerico e vendicativo.<br />
Questo giovane, non so perché, mi ricorda tanto Alcibiade.<br />
Amico mio, lasciate stare! E pensate piuttosto al materiale umano che<br />
circola dalle parti vostre: almeno Alcibiade era bello!<br />
Avete pienamente ragione, amato Maestro. Piuttosto, che fine han fatto<br />
quei «ripostigli e scrigni domestici» dove gli ambiziosi timocratici ripongono e<br />
nascondono i loro averi?<br />
Voi mi costringete a toccare un dolorosissimo nervo scoperto. «Infandum,<br />
regina, iubes renovare dolorem», sospira l’Enea di Virgilio, mentre<br />
dal cielo scende l’umida notte. Ci avviamo, infatti, verso la definitiva disfatta<br />
della kallipolis, della bella città aristocratica. Quei ripostigli, che ciascuno<br />
colma d’oro, portano al tramonto della timocrazia e al sorgere dell’oligarchia.<br />
E, con l’oligarchia, la sete di onori diventa inestinguibile sete<br />
di denaro.
Platone in Italia 87<br />
Una domanda, con tutto il rispetto. Io vivo in un paese dove non sono rari<br />
gli esemplari eternamente avidi di potere, di ricchezza e di denaro. E tuttavia<br />
nessuno di noi si sogna di definire la nostra costituzione politica un’oligarchia.<br />
A tal proposito, vi potrei rispondere con una domanda: che cos’è, se<br />
non una sostanziale oligarchia, quella polis in cui la minoranza che detiene<br />
il potere impone – senza scucire un quattrino e senza smettere di drenare<br />
denaro pubblico – una marea di tasse e sacrifici alla maggioranza dei cittadini?<br />
La verità è che la vostra polis, in fatto d’ingordigia e di disvalori, assomiglia<br />
a quella città che Socrate, nel Gorgia, definì un «caradrio», un uccello<br />
che, perpetuamente, mentre mangia evacua. Ma, ancora una volta,<br />
glissons!<br />
Ottima e saggia proposta. Torniamo allora ai danni provocati dai ripostigli<br />
pieni d’oro? Torniamo alla nascita della costituzione oligarchica?<br />
Volentieri. In primo luogo, io definisco «oligarchia» quella costituzione<br />
basata sul censo, dove solo i ricchi comandano e i poveri non possono partecipare<br />
al governo. Pertanto non si cerca tanto la gloria e gli onori, quanto<br />
piuttosto le ricchezze. Dapprima, infatti, si inventano il modo di fare spese<br />
ingentissime e a tale scopo stravolgono le leggi, alle quali disobbediscono<br />
essi stessi e le loro donne. Poi, famelici, continuano ad arricchirsi e quanto<br />
più apprezzano il denaro, tanto più disprezzano la virtù. Di conseguenza<br />
questi individui, un tempo battaglieri e ambiziosi, alla fine diventano luridi<br />
affaristi e sempre più avari. Perciò lodano e ammirano il ricco e gli conferiscono<br />
il potere, mentre disprezzano il povero e l’onesto. Allora promulgano<br />
una legge con la quale impongono come limite della costituzione oligarchica<br />
una determinata quantità di ricchezze, maggiore dove l’oligarchia<br />
è più forte, minore dov’è più debole, escludendo dalle cariche chi non possiede<br />
un patrimonio che raggiunga il censo prescritto; e realizzano il loro<br />
scopo con le minacce o con le armi.<br />
A quanto vedo, non siete tenero con l’oligarchia. E dire che tanta gente acculturata<br />
ricorda spesso che Voi eravate parente prossimo di Crizia e persino<br />
con qualche simpatia oligarchica! Ma, ditemi Maestro, non vi pare che la costituzione<br />
oligarchica, con la sua esaltazione del denaro e la sua accumulazione<br />
di ricchezze, assolva indirettamente ad una funzione altamente positiva che
88 Giuseppe Pezzino<br />
rafforza lo Stato e spinge l’individuo a dare la scalata ai vertici della società,<br />
dell’economia e della politica?<br />
Per Zeus!, a me pare invece che la costituzione oligarchica rinfocoli le<br />
discordie tra individui, tra gruppi sociali e tra fazioni politiche. A dire<br />
schiettamente il vero, nella polis, che formalmente è una, si vengono sostanzialmente<br />
a creare due città ferocemente contrapposte: la città dei ricchi,<br />
sempre più ricchi; e la città dei poveri, sempre più poveri. Col risultato di<br />
tensioni e lotte intestine, che indeboliscono lo Stato sia all’interno che all’esterno.<br />
Intendiamoci, mio caro amico, la minoranza oligarchica, in<br />
quanto tale, è fatta da pochi uomini e da moltissima pochezza mentale, politica<br />
e morale! Pensate un po’ se si scegliessero i piloti delle navi in base al<br />
censo e non si affidasse questo compito a un povero, anche se fosse più<br />
bravo nel pilotare. Vi sembra una follia? No, per Zeus!, questa è oligarchia.<br />
Pensate, inoltre, che la minoranza oligarchica si riduce magari a non potere<br />
affrontare una guerra, perché costretta a ricorrere al popolo armato e a temerlo<br />
più dei nemici. Oppure costringe il popolo a sostenere il peso della<br />
guerra; e nello stesso tempo non vuole contribuire alle spese per avarizia.<br />
Se ho ben capito, nella città oligarchica non si ha tanto la libera fioritura<br />
dell’iniziativa individuale, quanto piuttosto l’accumulazione crescente di ricchezze<br />
nelle mani di pochi aridi individui, che nulla producono di utile alla<br />
comunità e che invece speculano e prosperano sul fallimento e la miseria degli<br />
altri. Di questi tempi, qualcuno erroneamente li chiamerebbe «banchieri»!<br />
Possiamo intendere meglio questa questione, a condizione di tenere in<br />
stretta relazione la dottrina filosofica della politica e la psicologia o dottrina<br />
filosofica dell’anima. Osserviamo dunque la dinamica psicologica nell’uomo<br />
oligarchico, per comprendere meglio gli sviluppi della politica oligarchica.<br />
Abbiamo visto in precedenza che l’uomo timocratico ha l’anima dominata<br />
non già dalla ragione bensì dal principio collerico del thymos e dalla<br />
sfrenata ambizione per gli onori e per la gloria. Ora, invece, l’uomo oligarchico<br />
insedia sul trono della sua anima il principio appetitivo e avido che<br />
lo spinge incessantemente all’accumulazione di ricchezza.<br />
E il principio razionale? e quello collerico?<br />
Beninteso, questi due princìpi non sono espulsi dall’anima dell’uomo<br />
oligarchico: invero entrambi sono subordinati al principio appetitivo. Sic-
Platone in Italia 89<br />
ché l’individuo oligarchico «userà» il principio razionale solo come freddo<br />
calcolo razionale, per studiare il modo migliore in cui aumentare il proprio<br />
capitale. E «userà» il principio del thymos solo come sfrenata ambizione<br />
di ricchezza. Naturalmente il gioco perverso dell’accumulazione produce<br />
un numero sempre più ridotto di ricchi e una massa sempre più vasta di<br />
poveri.<br />
Se non m’inganno, tra la città dei ricchi e la città dei poveri scorre un fiume<br />
di dannati che sono divorati sia dall’ambizioso miraggio di diventare un<br />
giorno ricchi sia dall’incubo tremendo di precipitare nell’inferno della miseria<br />
più nera. Mi chiedo, amato Maestro, come potrà durare un regime oligarchico<br />
assediato non solo dalla città dei poveri, ma anche da questa fascia mediana di<br />
dannati in preda ora alla paura ora all’ambizione.<br />
Non potrà durare a lungo. Crollerà, quando i poveri prenderanno coscienza<br />
di essere i «padroni» dei ricchi, quando si accorgeranno di averli in<br />
pugno. A tal proposito, non bisogna trascurare che la città dei ricchi produce<br />
dei giovani molli, inadatti alle fatiche fisiche e spirituali e incapaci di<br />
resistere ai piaceri e ai dolori a causa della loro fiacchezza e pigrizia. In queste<br />
condizioni, quando i governanti e i sudditi vengono a contatto tra loro<br />
in viaggio o in qualche altra occasione d’incontro, nelle feste, nelle spedizioni<br />
militari, durante una navigazione o una guerra combattuta assieme,<br />
oppure quando si osservano a vicenda nei momenti stessi di pericolo, i poveri<br />
non sono affatto disprezzati dai ricchi, ma spesso un uomo povero robusto<br />
e abbronzato, schierato in battaglia accanto a un uomo ricco allevato<br />
all’ombra e coperto di molto grasso superfluo, lo vede tutto ansante e in<br />
difficoltà. Allora è facile ipotizzare che i poveri, quando si incontrano in<br />
privato, si dicano l’un l’altro: «Quegli uomini sono in nostra balìa, perché<br />
non valgono nulla».<br />
Diamine! Voi mi fate correre come uno sprovveduto da un capo all’altro<br />
della storia della filosofia occidentale: dall’hegeliana dialettica di servo-padro -<br />
ne alla marxiana coscienza di classe. Chiedo venia, sono soltanto mie immaginazioni<br />
da non addetto ai lavori. Però voglio dirvelo con tutto il cuore: magari<br />
buttiamo all’aria il Premio Stalin, ma una copia omaggio del «Manifesto» di<br />
Marx e di Engels vi spetta di diritto!
90 Giuseppe Pezzino<br />
A parte le vostre generose manifestazioni di stima nei miei confronti,<br />
io vi esorto a considerare come proprio in questo caso si apra una breccia<br />
per l’irruzione della democrazia. Infatti, la democrazia nasce quando i poveri,<br />
riportata la vittoria, uccidono alcuni avversari e ne mandano in esilio<br />
altri, e dividono con i rimanenti a parità di condizioni il governo e le cariche<br />
pubbliche, che per lo più vengono assegnate col sorteggio.<br />
Finalmente la libertà per tutti! Finalmente la libertà di parola e quella di<br />
fare ciò che si vuole! Perdonate, ma questa città democratica a me pare molto<br />
più bella della vostra «bella città» aristocratica. Pensi come sarebbe bello andare<br />
a percepire lo stipendio di deputato a sorteggio. Anch’io avrei qualche speranza!<br />
Può darsi che questa sia la più bella tra le costituzioni. Come un mantello<br />
ricamato d’ogni colore, così anch’essa, screziata di tutti i caratteri, può<br />
apparire bellissima. E bellissima potranno forse giudicarla in molti, come i<br />
fanciulli e le donne che contemplano gli oggetti di vario colore. Insomma,<br />
la democrazia a quanto pare sarà una forma di governo piacevole, anarchica<br />
e varia, che dispensa uguaglianza indifferentemente a ciò che è uguale<br />
come a ciò che non lo è.<br />
Non mi raccapezzo: la democrazia è anarchia? Ma io sapevo che la democrazia<br />
è libertà sotto la legge, laddove l’anarchia è libertà senza legge e senza<br />
confini.<br />
Possiamo essere d’accordo. A patto che voi consideriate il ruolo nefasto<br />
che svolgono i «cattivi coppieri» nel versare il vino forte e schietto della libertà<br />
ad un popolo in preda ad una sete smisurata. In altri termini, il negativo<br />
per la democrazia non sta nella libertà, ma nell’eccesso di libertà, che<br />
è più corretto chiamare licenza, capriccio, lìbito. È appunto l’insaziabilità<br />
di ciò che si ritiene un bene a creare veleni mortali. E se il veleno dell’oligarchia<br />
sta nell’insaziabilità del bene-ricchezza, il veleno della democrazia<br />
non sta nella libertà, bensì nell’insaziabilità del bene-libertà.<br />
Capisco, ma fino a un certo punto. Ancora non riesco a cogliere il nesso fra<br />
democrazia e anarchia.<br />
Purtroppo, la brama insaziabile di libertà e la noncuranza d’ogni altro<br />
valore avvelenano la democrazia e la preparano ad avere bisogno della tirannide.<br />
Ripeto: quando una polis democratica, assetata di libertà, cade
Platone in Italia 91<br />
nelle mani di cattivi coppieri, s’inebria del vino forte e schietto della libertà<br />
oltre il dovuto e perseguita i suoi governanti, a meno che questi ultimi non<br />
siano del tutto remissivi e non concedano qualunque libertà su qualunque<br />
cosa. A quel punto, la città democratica ricopre d’insulti coloro che si mostrano<br />
obbedienti alle autorità e alle leggi, trattandoli come uomini di nessun<br />
valore, contenti di essere schiavi, mentre elogia e onora i governanti<br />
che si fanno simili ai sudditi e i sudditi che si fanno simili ai governanti. In<br />
una tale città è ine<strong>vita</strong>bile che il principio di libertà tocchi il suo culmine e<br />
si allarghi a tutto. E così nasce l’anarchia, che penetra anche nelle case private<br />
e alla fine sorge persino tra gli animali.<br />
Ma, com’è possibile una simile degenerazione?<br />
Nel senso che, ad esempio, un padre si abitua a diventare simile al figlio<br />
e a temere i propri figli. E il figlio diventa simile al padre e, pur di essere<br />
libero, non ha né rispetto né timore dei genitori. Un meteco si pone<br />
al livello di un cittadino e un cittadino al livello di un meteco, e lo stesso<br />
vale per lo straniero.<br />
Perbacco, siamo all’inversione dei ruoli! Anzi alla loro parificazione gioiosa<br />
e confusionaria. Ma queste cose noi le abbiamo predicate e propugnate appassionatamente<br />
su internet, sui giornali, alla televisione, raccogliendo una messe<br />
sempre più abbondante di consensi! A tal punto che un padre è oltremodo orgoglioso<br />
di non essere più «padre», ma «amico» del figlio. Con l’esaltante risultato<br />
di avere ormai ottenuto una massa sterminata di orfani ricchissimi di<br />
amici. Maestro amatissimo, vi sembra una con<strong>qui</strong>sta trascurabile? Dove trova<br />
una simile rivoluzione?<br />
La trovo nelle scuole, ad esempio. Infatti, questa inversione dei ruoli si<br />
accompagna ad una cieca avversione verso ogni tipo di autorità. Sicché il<br />
maestro teme gli allievi e, per paura d’essere accusato di autoritarismo, liscia<br />
loro il pelo per il verso giusto, li lusinga. Gli allievi, dal canto loro, se<br />
ne infischiano sia dei maestri sia dei pedagoghi. Insomma, i giovani si pongono<br />
alla pari dei più anziani e li contestano nei discorsi e nei fatti, mentre<br />
i vecchi accondiscendono ai giovani, indossano la maschera buffonesca del<br />
giovanilismo e si riempiono di facezie e smancerie, scimmiottando i giovani<br />
per non sembrare spiacevoli e autoritari.
92 Giuseppe Pezzino<br />
Forse non avevo tutti i torti a pensare al Premio Stalin! Forse. Però, di una<br />
cosa son sicuro. Son sicuro che Voi, con queste vostre idee, non guadagnereste<br />
mai uno straccio d’invito in un talk show televisivo oppure sareste cacciato via<br />
ed inseguito da una folla inferocita. Con tutto il rispetto, a me pare che Voi<br />
nuotiate da solo e controcorrente. Il che, di questi tempi, fa male alla salute,<br />
come disse il sofista Callicle a Socrate, prima che il poveretto fosse condannato<br />
a morte!<br />
Socrate ci ha insegnato che il vero filosofo deve dare persino la <strong>vita</strong> per<br />
la verità e per il bene. E soprattutto ci ha insegnato che gli sconfitti nella<br />
storia politica sono gli eterni vincitori nella storia etico-politica. Chi si ricorda<br />
più degli accusatori di Socrate, dei suoi giudici e dei governanti della<br />
sua polis? Nessuno. Costoro sono annegati nel fiume dell’oblìo. Sono spariti<br />
nello spazio d’un mattino, come svaniscono le tenebre notturne all’apparire<br />
della dea Aurora. A Socrate sconfitto spetta, invece, la palma della<br />
vittoria eterna. E finché il carro del dio Sole correrà per la volta celeste a<br />
donare <strong>vita</strong> e luce ai mortali, Socrate sarà immortale.<br />
Mi accorgo che ci stiamo un po’ allontanando dai problemi <strong>vita</strong>li dell’anima<br />
e della polis. Perciò vorrei riportare il nostro discorso al cuore della questione,<br />
pregandovi d’illuminarmi su come si formano le giovani generazioni democratiche.<br />
Son d’accordo. Vi dico subito che, mentre nei precedenti tre momenti<br />
della dinamica psicologica, che portava dall’uomo aristocratico a quello<br />
timocratico ed infine a quello oligarchico, si aveva una successione egemonica<br />
di uno dei tre princìpi sull’anima (il razionale, il collerico e l’appetitivo),<br />
ora invece, con la sfrenata licenza democratica, predomina il principio<br />
dell’indistinzione fra i valori e quello della parificazione tra valori e<br />
disvalori.<br />
Temo proprio che lo scenario stia diventando più cupo. Maestro, aiutatemi<br />
a capire.<br />
Proviamo insieme a fare più luce. Quando un giovane di famiglia di tipo<br />
oligarchico, allevato in modo rozzo e gretto, senza cultura e nelle ristrettezze<br />
dell’avarizia, ha occasione di frequentare quei parassiti sociali che io<br />
chiamo «fuchi divoratori del miele dell’alveare», e di conoscere mostri,
Platone in Italia 93<br />
«belve focose e terribili», capaci di escogitare e procurare piaceri d’ogni sorta<br />
e qualità, state sicuro che allora il suo temperamento oligarchico comincia<br />
a mutarsi in democratico.<br />
Ma qual è il principio caratteristico che domina l’anima dell’uomo democratico?<br />
Vi dico subito che il principio che plasma il carattere dell’uomo democratico<br />
è il principio del desiderio, l’epithymetikon, lo stesso che domina l’anima<br />
dell’uomo oligarchico. Però c’è da fare un’importante precisazione:<br />
mentre nel tipo oligarchico l’epithymetikon è esclusivamente limitato al piacere<br />
di accumulare ricchezze; nell’uomo democratico, invece, questo principio<br />
del desiderio s’ingigantisce mostruosamente e va alla folle ricerca di<br />
qualunque piacere, senza misura e senza distinzione.<br />
Perdonate le mie interruzioni, amatissimo Maestro. Ma quando Voi parlate<br />
di «fuchi» famelici, che succhiano il sangue a chi lavora, e di «belve focose<br />
e terribili», che procurano ogni sorta di piacere nell’assoluta e gioiosa dimenticanza<br />
di qualsiasi dovere, a me, lo confesso, vien da pensare alle «sacre sponde<br />
ove il mio corpo fanciulletto giacque». Insomma, fuor di retorica e di poesia, io<br />
<strong>qui</strong> sento l’odore inconfondibile del mio mondo. Perciò vi prego di continuare.<br />
Una volta superata la fase di conflitti interiori, di tentennamenti e di<br />
ripensamenti, il giovane democratico opera le sue scelte definitive. Alla fine,<br />
quelle «belve focose e terribili» con<strong>qui</strong>stano l’acropoli dell’anima sua.<br />
E il giovane tornerà ad abitare apertamente e definitivamente presso quei<br />
«Lotofagi», quei mangiatori di loto, allucinati e alienati, i quali offrono volentieri<br />
a chiunque il loro unico e dolce pasto che magicamente fa viaggiare<br />
nella stupida dimenticanza della realtà.<br />
Perbacco, avevo ragione nel confessare che sentivo uno strano odore di patrie<br />
cucine!<br />
Non divaghiamo! Mi riferisco a quei mangiatori della dolce erba di loto<br />
la quale, secondo la narrazione di Ulisse, spegne ogni ricordo della patria<br />
ed accende unicamente la brama ardente di rimanere nella terra dei Lotofagi:<br />
«Chiunque l’esca dilettosa, e nuova gustato avea, con le novelle indietro<br />
non bramava tornar: colà bramava starsi, e, mangiando del soave loto,
94 Giuseppe Pezzino<br />
la contrada natìa sbandir dal petto». Piuttosto torniamo al giovane democratico,<br />
ormai felicemente schiavo di qualunque piacere e sempre pronto a<br />
succhiare il sangue dei familiari e dei concittadini che lavorano. In questo<br />
modo i nuovi padroni assoluti del giovane – i «fuchi» e le «belve focose e<br />
terribili» – s’insediano nel suo petto, sbarrano le porte dell’anima sua vuota<br />
di vera cultura e stracolma di frasi fatte, la riempiono di discorsi ciarlataneschi<br />
e di false opinioni, ed infine cacciano in disonorevole esilio il pudore,<br />
affibbiandogli il nome di dabbenaggine, cacciano via la temperanza,<br />
chiamandola viltà e coprendola di fango, e persuadono il giovane che la<br />
moderazione e le spese misurate sono indice di rozzezza e meschinità.<br />
Siamo dunque ad un vero e proprio stravolgimento del senso del linguaggio!<br />
Perciò il pudore significa dabbenaggine; la temperanza significa viltà: e la moderazione<br />
passa per meschinità.<br />
Proprio così. Dopo aver svuotato e pulito di queste virtù l’anima del<br />
giovane in loro potere, i «fuchi» e le «belve focose e terribili» lo iniziano ai<br />
mistici riti dei grandi misteri del nulla, del male, della morte. Poi costoro<br />
introducono nell’anima, splendidamente incoronate e accompagnate da un<br />
coro solenne, la tracotanza, l’anarchia, la dissolutezza e l’impudenza. E le<br />
esaltano, celebrandole e ricoprendole di nomi belli e carezzevoli. La tracotanza<br />
la chiamano buona educazione, l’anarchia libertà, la dissolutezza magnificenza,<br />
l’impudenza coraggio. Succede pressappoco così che un giovane<br />
allevato tra i desideri necessari si trasforma fino a liberare e scatenare i piaceri<br />
non necessari e inutili.<br />
Ammetto di sentirmi a casa mia: siamo in pieno edonismo. E a questo<br />
punto ho voglia di esclamare: «Signifer, statue signum; hic manebimus optime»,<br />
come ordinò il centurione romano al signifero della sua centuria. Qui staremo<br />
ottimamente! Mi sento già nel Tempio Capitolino dell’edonismo più alla<br />
moda!<br />
Non avete tutti i torti. In verità, il giovane democratico trascorre i suoi<br />
giorni a compiacere il primo desiderio che gli capita: ora si ubriaca e suona<br />
il flauto, poi beve acqua e segue una cura dimagrante; ora fa ginnastica, talvolta<br />
invece se ne sta in ozio e si disinteressa di tutto. E in certi momenti<br />
vuol dare persino l’impressione di studiare la filosofia!
Platone in Italia 95<br />
Insomma, potremmo definire questo giovinotto un perdigiorno, un inconcludente,<br />
un fannullone arrogante?<br />
Direi proprio di sì. Con l’aggravante che è anche uno svergognato guastamestieri.<br />
Spesso, infatti, egli si dà alla politica e salta su a dire e a fare<br />
qualunque cosa gli passi per la testa. E se per caso pensa di emulare qualche<br />
uomo di guerra, eccolo pronto a darsi arie da condottiero. Se invece<br />
pensa di emulare qualche affarista, eccolo pronto a darsi arie da uomo d’affari.<br />
La sua <strong>vita</strong> non conosce né ordine né necessità. E tuttavia egli la chiama<br />
dolce, libera e beata; e persiste nel praticarla.<br />
Ora tutto mi è più chiaro. Ho un dubbio, però: Voi avete parlato di «fuchi»<br />
nella democrazia; posso chiedervi di scendere più da vicino nella società<br />
democratica?<br />
La vostra richiesta mi sembra assennata. Ebbene, io intendevo parlare<br />
di quella razza di uomini oziosi e spendaccioni, i più coraggiosi in testa a<br />
dirigere e i più codardi al seguito: gli uni io li paragono ai fuchi dotati di<br />
pungiglione, gli altri a quelli che ne sono privi. Questi due gruppi nascono<br />
in ogni regime e vi creano scompiglio, come la flemma e la bile nel corpo;<br />
perciò il buon medico e legislatore della città, non meno di un esperto apicoltore,<br />
deve prendere per tempo le sue precauzioni, innanzitutto per impedire<br />
che nascano, e se nascono perché siano recisi al più presto assieme<br />
ai loro favi. Dividiamo allora una città democratica in tre parti, cosa che<br />
del resto corrisponde alla realtà. La prima è quella classe di cui si è detto,<br />
che nasce <strong>qui</strong> non meno che nella città oligarchica a causa della licenza.<br />
Ma in questo regime è molto più violenta che in quello.<br />
Non vi pare che, con questa vostra teoria dei fuchi parassiti e perniciosi per<br />
la società, Voi stiate scivolando in un cupo pessimismo politico?<br />
E che dovremmo allora dire, in fatto di pessimismo, del vostro Machiavelli,<br />
che raccomanda al legislatore di tener conto della malvagità della natura<br />
umana, o del vostro Leopardi che presenta il mondo come «una lega<br />
di birbanti contro gli uomini da bene»?<br />
Vi prego, Maestro amatissimo, non pronunciate più il nome di Machiavelli<br />
o di Leopardi, può essere pericoloso! Sono autori che non appartengono al no-
96 Giuseppe Pezzino<br />
stro Novecento. E <strong>qui</strong>ndi potremmo avere noie col superiore Ministero dell’Istruzione!<br />
Pensi che non si sa che fine abbiano fatto i ritratti di Ministri dell’Istruzione<br />
come, ad esempio, Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini,<br />
Carlo Matteucci e Michele Amari. Brava gente sì, ma dell’Ottocento!<br />
Come volete. Torniamo allora ai problemi della mia polis.<br />
Saggia decisione! Se ho ben capito, questa prima classe è quella dei fuchi<br />
che succhiano il miele altrui, ossia dei parassiti prepotenti e insaziabili. Ma<br />
in che senso questa prima classe è più violenta nella democrazia che nell’oligarchia?<br />
Nell’oligarchia questa classe rimane inesperta e debole perché non viene<br />
apprezzata, anzi viene tenuta lontano dalle cariche. Nella democrazia,<br />
invece, questa classe dei fuchi parassiti divoratori del miele altrui, salvo pochi<br />
casi, è la classe dirigente e la sua parte più violenta parla e agisce, mentre<br />
gli altri, seduti attorno alle tribune, ronzano e non tollerano chi contraddice.<br />
Così in un simile regime tutto è amministrato da questa classe,<br />
con poche eccezioni.<br />
Santi numi!, mi gira la testa. Nella vostra democrazia, i fuchi parassiti con<br />
pungiglione sono la classe dirigente; e i fuchi codardi senza pungiglione rappresentano<br />
la rumorosa e ondeggiante schiera dei «clientes», dei galoppini, dei portaborse,<br />
dei tagliaborse, dei bravacci e delle guardie del corpo. Tutti parassiti<br />
che, al servizio dei fuchi con pungiglione, non tollerano e zittiscono chi non è<br />
d’accordo. Mah! Niente di nuovo sotto il sole!<br />
Precisamente così. C’è poi una seconda classe che si distingue sempre<br />
dal volgo: la classe dei ricchi, dei possidenti. Costoro son detti «pastura di<br />
fuchi», perché proprio dai possidenti i fuchi parassiti possono cavare comodamente<br />
ricchezza. Infine, la terza classe sarebbe il popolo, composto da<br />
chi lavora in proprio e non partecipa agli affari pubblici, gente che non<br />
possiede un patrimonio cospicuo: ma nella democrazia questa è la classe<br />
più numerosa e più potente, quando si coalizza.<br />
Sommessamente oso notare che Voi, mio amatissimo Maestro, non avete<br />
contemplato una quarta classe molto importante: quella, cioè, dei pensatori che<br />
producono merce intellettuale, che non sono mossi né dal desiderio di gloria né
Platone in Italia 97<br />
da quello di ricchezza, bensì dalla «libido sciendi», dalla «curiositas». In altri<br />
termini, Voi avete dimenticato la classe di quelli che non si ribellano mai, che<br />
mai fanno uno sciopero, mai una sommossa, e che al massimo, in un impeto di<br />
lotta e d’indignazione, si fanno prendere la mano (lo dico in senso letterale!)<br />
dalla «libido calami»: una libido che li spinge a firmare a getto continuo documenti<br />
di solidarietà, manifesti pro o contro, appelli, proteste, e così via firmando.<br />
E come Riccardo III di York urlava sconsolato in battaglia: Un cavallo,<br />
un cavallo, il mio regno per un cavallo! Così, di fronte ad un manifesto che<br />
implora d’essere firmato, il nostro pensatore reclama tutto eccitato: Una penna,<br />
una penna, il mio stipendio per una penna!<br />
È vero, io non contemplo una classe di intellettuali. Ricordatevi che<br />
nella mia kallipolis, a parte i filosofi-re, sono cortesemente accompagnati<br />
all’uscita artisti e sofisti.<br />
E come inizia la trasformazione dalla democrazia alla tirannide?<br />
Ciò che rovina la democrazia è la sua insaziabile sete di libertà, che da<br />
un canto porta ad affievolire il confine tra il lecito e l’illecito, e dall’altro<br />
tende a mortificare il concetto di dovere morale e di obbligo legale. In questa<br />
dolcissima confusione di valori e di ruoli, i fuchi si alleano col popolo<br />
a spese dei possidenti. Sicché un po’ del miele sottratto dai fuchi ai ricchi<br />
va nelle mani del popolo. Inutile dire che con ciò esplodono le discordie e<br />
monta la collera della classe dei possidenti. La paura di un sovvertimento<br />
della democrazia rende il popolo sempre più sospettoso ed in<strong>qui</strong>eto, fino<br />
al punto di affidarsi ad un protettore del popolo e della democrazia.<br />
Quindi, anche allora esisteva la figura di un individuo, più democratico<br />
degli altri e più uguale degli altri, che aveva il compito di difendere la democrazia<br />
e l’uguaglianza a tutti i costi, anche a costo della democrazia e dell’eguaglianza!<br />
Ovviamente il popolo non cade in quest’errore; e vigila affinché<br />
il pastore che deve custodire il gregge non diventi lupo, con tutto quel che ne<br />
consegue!<br />
E invece la democrazia cade in quest’errore. Innanzi tutto, il protettore<br />
tira fuori la famosa richiesta dei tiranni: chiede al popolo delle guardie del<br />
corpo per garantire l’incolumità del loro difensore. Ovviamente la scorta<br />
armata è reclutata tra i fuchi col pungiglione.
98 Giuseppe Pezzino<br />
E siamo ai pretoriani!<br />
Sulle prime, però, costui coltiva il suo rapporto rassicurante e democratico<br />
col popolo. Ebbene, in un primo tempo rivolge sorrisi a tutti e a tutti<br />
quelli che incontra stringe calorosamente la mano. Sfacciatamente nega<br />
d’essere un tiranno; ed è pronto ad ascoltare il popolo, facendo molte promesse<br />
in privato e in pubblico. Generosamente condona i debiti; distribuisce<br />
la terra al popolo, ai suoi pretoriani e ai suoi seguaci. E finge di essere<br />
mite e affabile con tutti. Ben presto, però, egli getta la maschera e rivela la<br />
sua vera natura: confisca i beni, saccheggia, lancia sospetti su tutti, manda<br />
in esilio, scaraventa in prigione, uccide una parte di quei cittadini che<br />
avrebbe dovuto proteggere, fino a ripulire tutta la città.<br />
Siamo già alle purghe!<br />
Astutamente, poi, suscita guerre contro le altre città, per ottenere l’unità<br />
del popolo, per deviare il malumore popolare contro il nemico esterno<br />
e per legittimare la democratica necessità di un capo assoluto. E il popolo,<br />
pur comprendendo fra le lacrime e il terrore quale belva ha generato, carezzato<br />
e cresciuto, il popolo democratico accetterà il tiranno. In tal modo,<br />
per e<strong>vita</strong>re il fumo della schiavitù sotto uomini liberi, la democrazia cadrà<br />
nel fuoco del dispotismo di schiavi. E il popolo smetterà i larghi panni di<br />
tutta quella libertà inopportuna, per indossare la veste più ignominiosa e<br />
più amara: la schiavitù esercitata da schiavi.<br />
Le vostre parole fanno molto pensare e vanno al cuore di tante riflessioni<br />
politiche e di tanti avvenimenti storici. E sicuramente è ormai tardi, per chiedervi<br />
quale può essere la via della risalita dopo aver conosciuto gli inferi della<br />
tirannide.<br />
È veramente tardi, mio caro amico. Il sole che scende lentamente nel -<br />
l’Occaso, le ombre che si allungano, il verso degli uccelli che tornano al nido,<br />
e l’aria fresca che parla severamente alle mie vecchie ossa, tutto mi dice<br />
che la nostra giornata sta per finire. E già col pensiero volo al porto del Pireo,<br />
dove gli ateniesi mi aspettano con ansia.<br />
Nel concludere questo nostra conversazione, lasciatemi esprimere la mia<br />
gratitudine per avere accettato di riservare a me una porzione della vostra pre-
Platone in Italia 99<br />
ziosa giornata. Lasciatemi inoltre esprimere solidarietà e preoccupazione per la<br />
Grecia che si dibatte nella crisi. Anzi, a tal proposito, mi chiedo se non sia meglio,<br />
per la vostra persona e per la filosofia, che voi rimaniate <strong>qui</strong> finché ad<br />
Atene non si spegneranno i fuochi della crisi e i pericoli di disordini. In fondo,<br />
aveva ragione Aristotele che, per sfuggire alla vendetta del partito antimacedone,<br />
abbandonò Atene e si rifugiò in un suo possedimento a Calcide.<br />
Amico mio, io non mi chiamo Aristotele; e non so fare le cose che sapeva<br />
fare Aristotele. Io sento il dovere morale e politico di non abbandonare<br />
la mia città, anche a costo della <strong>vita</strong>. Io mi chiamo Platone.
100<br />
summum crede nefas animam præferre pudori<br />
et propter <strong>vita</strong>m vivendi perdere causas